ASSEMBLEA COSTITUENTE
XCII.
SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 17 APRILE 1947
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TUPINI
INDICE
Interrogazioni (Svolgimento):
Presidente
Di Gloria
Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio
Ravagnan
Badini Confalonieri
Miccolis
Di Fausto
Fogagnolo
Braschi, Sottosegretario di Stato per i danni di guerra
Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):
Rodi
Gallico Spano Nadia
Preti
Giua
Corsanego
Tumminelli
Interrogazione con richiesta d’urgenza:
Presidente
Interrogazioni (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 10.
MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.
(È approvato).
Interrogazioni.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca le interrogazioni degli onorevoli:
Di Vittorio e Lizzadri al Ministro della pubblica istruzione, «sui motivi che hanno ritardato l’accoglimento delle giuste rivendicazioni del personale insegnante delle scuole medie ed elementari e degli educandati nazionali, nonostante formali promesse fatte dal Governo, da lungo tempo».
Di Gloria, Rossi Paolo, Preti, Salerno, Binni, Filippini, Codignola, Lami Starnuti, al Ministro della pubblica istruzione, «per avere tutti i necessari chiarimenti circa il suo atteggiamento relativamente allo sciopero degli insegnanti di scuole medie».
L’onorevole Gonella ha fatto sapere che risponderà a queste interrogazioni nella giornata di domani.
DI GLORIA. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DI GLORIA. Ieri sera, quando fu data lettura della mia interrogazione circa lo sciopero degli insegnanti delle scuole medie, il Ministro Gonella disse che avrebbe risposto stamane.
PRESIDENTE. Effettivamente l’onorevole Gonella disse che avrebbe risposto stamane. Senonché ha poi fatto sapere che risponderà domani e prega gli onorevoli interroganti di avere la cortesia di attendere la risposta fino a domani.
L’onorevole Ravagnan ha rivolto un’interrogazione al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per sapere se non si ritenga necessario dare disposizioni precise perché siano tolti dai fregi e distintivi militari gli emblemi della monarchia e perché dai timbri, sigilli ed intestazioni di uffici ed enti dell’amministrazione dello Stato siano tolte le diciture monarchiche».
L’onorevole Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.
CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Già è stato esaurientemente risposto alla interrogazione sullo stesso argomento presentata alcuni mesi or sono dall’onorevole Carpano Maglioli, con richiesta di risposta scritta.
Come si ebbe allora a rilevare, il Governo, all’atto stesso della proclamazione della Repubblica, si pose il problema del nuovo emblema dello Stato. Per un senso di profondo e doveroso rispetto verso l’Assemblea Costituente, cui doveva evidentemente riservarsi ogni decisione circa il simbolo della Repubblica, il Governo, con il decreto 19 giugno 1946, n. 1, si limitò a prevedere la nomina di una Commissione incaricata di formulare le proposte da sottoporre alla stessa Assemblea. Si provvide, inoltre, ad eliminare il simbolo della monarchia dalla bandiera nazionale ed a sopprimere ogni qualificazione riferentesi alla forma monarchica dello Stato nelle denominazioni di uffici, commissioni, corpi, enti ed istituti pubblici, nonché nella intitolazione degli atti e delle pubblicazioni di carattere ufficiale.
In conseguenza, l’emblema della monarchia venne eliminato in ogni fregio o distintivo militare.
Quanto ai sigilli, apparve indispensabile consentire l’uso di quelli esistenti, fino a quando gli uffici non fossero provvisti dei nuovi recanti l’emblema della Repubblica. Non sarebbe stato infatti opportuno far luogo alla fabbricazione di sigilli provvisori: ciò a prescindere dalla difficoltà di provvedere subito all’approvvigionamento degli uffici. Analoga disposizione venne accolta per le carte e valori, gli stampati ed i moduli già esistenti, dei quali, per evidenti considerazioni di carattere economico, venne ammesso l’uso fino ad esaurimento delle scorte.
Peraltro, non potendosi tollerare che nei suddetti stampati e moduli, come pure sulla carta da lettere, continuasse a figurare lo stemma monarchico, la Presidenza del Consiglio ha dato precise disposizioni a tutte le Amministrazioni affinché lo stemma stesso, al pari di ogni qualificazione monarchica, venga cancellato su ciascun foglio. Si è, inoltre, disposto che, qualora si debba procedere a nuove ordinazioni di stampati, al posto dello stemma si apponga la dicitura: «Repubblica italiana»; e questo è stato fatto.
Inoltre una circolare dello scorso gennaio ha prescritto che lo stemma e la qualificazione «regia» vengano eliminati nei bolli in uso per la corrispondenza ufficiale in franchigia.
Frattanto, la Commissione presieduta dall’onorevole Bonomi ha ultimato i suoi lavori, comunicando al Presidente del Consiglio il simbolo prescelto a seguito dell’apposito concorso.
La proposta della Commissione sarà al più presto sottoposta alle deliberazioni dell’Assemblea Costituente.
PRESIDENTE. L’onorevole Ravagnan ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
RAVAGNAN. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario e prendo atto delle sue dichiarazioni, ed assicurazioni. Il Governo comprende certamente molto bene che questa questione non è soltanto di carattere formale, ma riveste una sostanza molto importante.
Vorrei segnalare che ancora pochi giorni fa ho avuto occasione di far presente al Presidente dell’Assemblea che proprio l’Ufficio postale della Camera invia a noi Deputati la corrispondenza che ci perviene – questo avveniva durante le vacanze – con lo stesso timbro che esisteva prima della Repubblica.
Per questo ho presentato la mia interrogazione e sono lieto di prendere atto che oggi le opportune disposizioni sono state date dal Governo; ma bisogna vigilare perché queste disposizioni siano osservate. Potrebbe darsi, infatti, che da parte di certi pubblici funzionari vi fosse della trascuratezza, il che certo non deporrebbe a favore del rispetto che si deve da tutti alle istituzioni repubblicane.
BADINI CONFALONIERI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
BADINI CONFALONIERI. Avevo presentato un’interrogazione di carattere urgente sui fatti di Torino, e il Governo ne aveva riconosciuto l’urgenza, ma ancora non ha risposto.
PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.
CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Iersera, quando è stato stabilito l’ordine del giorno, si è detto che si sarebbe risposto lunedì.
MICCOLIS. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MICCOLIS. Ho presentato un’interrogazione urgente per i fatti di Gioia del Colle. Desidero sapere quando il Governo risponderà.
PRESIDENTE. Prego l’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio di pronunziarsi in merito.
CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Non so se l’urgenza di questa interrogazione sia stata riconosciuta dal Governo. Osservo genericamente che se le interrogazioni non sono riconosciute urgenti fanno il loro corso normale.
PRESIDENTE. Comunque, anche per questa interrogazione mi sembra di ricordare che l’onorevole Presidente del Consiglio abbia ieri sera assicurato che avrebbe risposto quanto prima.
DI FAUSTO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DI FAUSTO. Ho presentato un’interrogazione urgente riguardante il Cimitero a Monte Mario.
PRESIDENTE. Aspetti di domandare questa sera al Governo che l’urgenza della sua interrogazione sia riconosciuta.
DI GLORIA. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DI GLORIA. Anch’io vorrei domandare al Governo quando risponderà alla mia interrogazione in materia di cooperative.
PRESIDENTE. Onorevole Di Gloria, sarà opportuno che stasera, alla fine della seduta, rinnovi la sua domanda.
FOGAGNOLO. Avevo presentato un’interrogazione urgente il giorno 11 e avevo anche dichiarato che ero d’accordo col Sottosegretario di Stato alle finanze per i danni di guerra, onorevole Bruschi, che mi avrebbe risposto subito. Dal momento che è presente l’onorevole Braschi, lo pregherei di voler fissare la data della risposta alla mia interrogazione.
PRESIDENTE. Prego l’onorevole Braschi di voler dire quando potrà rispondere.
BRASCHI, Sottosegretario di Stato per i danni di guerra. Anche domani.
PRESIDENTE. Allora lo svolgimento dell’interrogazione resta fissato per domani.
Sono così esaurite le interrogazioni inscritte all’ordine del giorno di oggi.
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
È iscritto a parlare l’onorevole Rodi.
Ne ha facoltà.
RODI. Onorevole Presidente e onorevoli colleghi, ritengo che sia stato giusto ed esatto aver dato a questo Titolo 2° la denominazione di «rapporti etico-sociali»; però mi sembra che questa denominazione sia stata in un certo senso cristallizzata nel solo titolo di questa parte e non estesa, com’era giusto, all’intera Costituzione. Nell’articolo 23 vi è una definizione che a me sembra singolare e che comunque è gravemente incompleta: la famiglia è una società naturale. Io non so quale significato particolare i redattori dell’articolo abbiano dato all’aggettivo «naturale», ma se mi pongo dall’angolo visuale del cittadino che esamina la Costituzione debbo a questo aggettivo dare una significazione letteraria e scientifica; e se devo dare questa significazione affermo che la famiglia non è una società naturale, poiché l’evoluzione dei tempi ha condotto la famiglia ad essere una istituzione morale e un organismo sociale. Perché non mi si accusi di estremismo, aggiungerò che la famiglia è certamente un fatto naturale, in quanto ha radice nell’esplicazione di una funzione biologica; ma è anche vero che il fattore biologico in seno alla famiglia è stato superato dall’elemento spirituale, il quale, essendosi sovrapposto attraverso secoli di civiltà, costituisce il nucleo principale e fondamentale della famiglia, che non può essere quindi una società naturale, ma soltanto una istituzione morale.
In questo senso io presenterò un emendamento all’articolo 23, emendamento basato sul criterio che la civiltà stessa non è che una spiritualizzazione delle tendenze istintive. Lasciando quindi l’aggettivo «naturale» in questo articolo, non faremmo che sottolineare quest’istinto che la società ha spiritualizzato.
Lo stato coniugale puro e semplice, per me, non è ancora famiglia; diventa tale solo quando viene introdotto il senso etico e l’abito virtuoso.
Del resto noi abbiamo due fattori eminentemente spirituali nella famiglia: la indissolubilità del matrimonio e la monogamia, che rappresentano due eminenti fattori spirituali; e l’uno e l’altro sono elementi che garantiscono appunto l’unità della famiglia; senza contare che l’indissolubilità del matrimonio, che noi abbiamo sottolineato nel progetto – e non certamente per motivi politici – è, per chi lo intende perfettamente, il mezzo per il perfezionamento morale della famiglia.
E quindi la indissolubilità non è soltanto una questione, direi quasi, unilaterale, ma investe la spiritualità stessa della famiglia.
Ora, se la Costituzione ha sancito la indissolubilità del matrimonio, non trovo logico che la famiglia sia stata definita una società naturale. Da questo punto di vista il matrimonio va al di là del diritto e diventa una coscienza etica e religiosa. La famiglia, come è intesa dalla nostra civiltà, non è soltanto quel nucleo fondamentale sul quale si basa la nostra società, ma è una società in piccolo, è un microcosmo, che già contiene in sé tutti gli elementi della società e quindi essa forma e ripete, nello stesso tempo, il macrocosmo, nel quale la società si sviluppa in grande.
Per questa ragione, dalla famiglia si sviluppano, direttamente, il diritto e l’etica, in quanto la famiglia non è soltanto una unione giuridicamente perfetta, ma è un vincolo di affetto, nell’ambito di un profondo senso religioso.
Io trovo che la famiglia sia stata nel progetto eccessivamente schematizzata e resa, in un certo senso, succube della potenza statale. Tutto ciò non risponde alla nostra esigenza e, soprattutto, all’esigenza della nostra civiltà religiosa; poiché tutti sappiamo che la famiglia esercita in Italia, in pieno, il diritto privato; e poiché è presente questo esercizio, abbiamo nello stesso tempo la prova che la famiglia ha un carattere volitivo ed ha una personalità. È chiaro allora che la nostra famiglia ha un elemento oggettivo ed un elemento soggettivo che è, forse, per me il più importante.
Ebbene, la Costituzione non ha tenuto conto del fattore soggettivo in seno alla famiglia ed ha considerato solo quello oggettivo. Per questa ragione ha definito la famiglia una società naturale posta, per di più, sotto il controllo dello Stato. Il quale Stato o potrà essere indifferente – la nota indifferenza statale – nei confronti della famiglia, oppure sarà obbligato a ingerirsi nei fatti della famiglia fino al punto da turbare il suo equilibrio e da inceppare la libertà dei suoi membri.
MORO. Questo non è detto in nessun articolo della Costituzione.
RODI. Non è detto esplicitamente, onorevole Moro, ma segua il mio discorso ed il mio pensiero le si renderà chiaro.
Lo Stato, infatti, assicura alla famiglia certe particolari condizioni economiche. Qui noi ci troviamo o di fronte ad un’affermazione teorica, la quale, quindi, non avrebbe un valore effettivo agli effetti dell’applicazione della Costituzione, oppure questo fatto implica la promessa di una modificazione profonda nella società italiana, e cioè una riforma sociale la quale tenda ad un’ingerenza talmente profonda dello Stato nella famiglia da poter seguire anche le sue vicende economiche.
Del resto noi non sappiamo con quali mezzi e attraverso quali sistemi lo Stato può sorvegliare la famiglia anche nell’ambiente economico; non sappiamo in che modo lo Stato potrà intervenire nella finanza e nell’economia di una famiglia per sopperire alle eventuali esigenze, e naturalmente noi crediamo, che, tutt’al più, allo Stato sia riservato il diritto di aiutare, di appoggiare tutte quelle organizzazioni sociali nelle quali si concentra la solidarietà umana e nelle quali arriva veramente la vivezza della famiglia, quella vivezza che allo Stato sfugge, perché troppo alto e lontano e non in grado di penetrare l’organismo famigliare fino al punto da sostenerlo in ogni sua vicenda.
L’articolo 24 sancisce l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Anche questa affermazione mi sembra alquanto singolare, soprattutto perché sono stati aggiunti quei due aggettivi specificativi, quasi che l’uguaglianza di per se stessa non servisse a dare un’idea chiara e precisa di ciò che rappresentano due coniugi nel campo sociale. Io credo che si sia fatto anche qui un abuso della parola eguaglianza, poiché è chiaro che noi siamo di fronte ad una legge armonica dell’universo, e questa legge armonica ha sancito, secondo, un criterio naturale, la supremazia del marito rispetto alla moglie; e questa supremazia è stata riconosciuta e affermata giuridicamente e moralmente. Si intende che la mia osservazione non è destinata a dare alla donna un grado di inferiorità, ma invece è destinata a sollevare le sorti della donna nella sua funzione etica e sociale; funzione di tale preminenza e di tale importanza, specialmente spirituale, che addebitarle un’eguaglianza morale e giuridica, in maniera così schematica e fredda, per me vuol dire, in un certo senso, avvilirla.
Si tratta in altri termini di una specie di amorfa eguaglianza che oscura la figura specialmente della donna italiana che è, come sapete, l’angelo e la regina della casa. È questa donna che nella nostra famiglia rappresenta la grazia che si aggiunge alla forza dell’uomo per completare il senso etico della famiglia e non può essere considerata moralmente e giuridicamente eguale all’uomo, la cui funzione nella società è profondamente diversa. Per cui la donna, in un certo senso, è la parte integrante dell’uomo, e dal suo punto di vista, anche superiore all’uomo, data la funzione che la natura e Dio alla donna hanno dato. E ringrazio l’onorevole Maffi, che scimmiotta i miei gesti con aria ironica: evidentemente le mie idee gli sembrano ridicole, ma non può rinnegarle.
Nell’articolo 25 si tratta della questione dei figli illegittimi. Io lascio ai giuristi il giudizio su questo articolo e lo considero soltanto dal punto di vista etico. Per me questo articolo contiene una legge violenta, una legge che pretende di guarire radicalmente e profondamente un male sociale, ma commette l’errore di aggravare un altro male sociale.
Io comprendo esattamente l’esigenza, da parte del legislatore, di tutelare quei figli che nascono fuori del matrimonio. Capisco l’esigenza di non far ricadere sui figli la colpa dei padri, capisco l’esigenza di non tenere questi figli in uno stato di inferiorità rispetto ai figli legittimi, ma non capisco come la violenza di questa legge, che è diretta alla tutela unilaterale di un fatto sociale, dimentichi completamente la questione morale nei confronti dei genitori. Quindi la Costituzione si è trovata di fronte a due problemi: uno che interessa i figli e l’altro che interessa i genitori; ed i relatori della Costituzione si sono riversati interamente sui figli, trascurando completamente la posizione morale dei genitori. È chiaro quindi che questo articolo, almeno dal punto di vista etico, dovrebbe essere modificato nel senso che si dia una garanzia morale anche per quanto riguarda i genitori e comunque una garanzia che serva a scardinare il male della illegittimità un po’ per volta e non con una legge che tolga improvvisamente questo male sociale senza tuttavia guarirlo.
Io sento che in ogni articolo di questa Costituzione vi è un qualche cosa di penoso, un qualche cosa di stentato, di artificiale, e tutto questo senso che non soltanto io ma anche altri hanno notato, va proprio a svantaggio di quel principio etico e sociale del quale ci interessiamo ora.
Il titolo 2° ha per lo meno alterato il principio etico, che io vedo stretto tra un atto di forza che la Costituzione contiene e l’ormai storico compromesso. L’atto di forza di per se stesso implica la necessità di una obbedienza assoluta ed implica una polarizzazione verso un dato ed unico punto; comunque, appunto perché atto di forza non può essere un atto etico e noi dovremo cercare di farlo scomparire dalla nostra Costituzione, sebbene finora sia stato affermato e confermato.
Per quanto riguarda il compromesso cui ho fatto cenno, ho aggiunto l’aggettivo «storico», perché ormai di questo compromesso si è più volte parlato; e il compromesso, noi sappiamo, ha due poli: quello dell’estrema sinistra e quello della Democrazia cristiana. (Interruzione dell’onorevole Tonello).
Onorevole Tonello, conosco la sua specializzazione nell’interrompere l’oratore quando si parla di Democrazia cristiana o di cristianità.
Noto che la Democrazia cristiana, specialmente sulla base etica, è stata molto più arrendevole; e la sua arrendevolezza ha consentito che nella Costituzione circolasse insistentemente lo spirito collettivista. Ebbene, la Democrazia cristiana non ha saputo ottenere nemmeno la esplicita dichiarazione di una religione nazionale. E penso che questa dichiarazione era da tutti i punti di vista estremamente importante, perché la religione cattolica è l’indiscutibile fondamento etico della nazione italiana. E se questo fondamento etico e sociale è stato in un certo senso il primo punto dal quale la civiltà italiana è partita, io non comprendo come in una nuova Costituzione, che deve aprire una nuova era del popolo italiano, si possa in un certo senso trascurare o dimenticare, per ragioni politiche, un fondamento, al quale il popolo italiano non sa, non può e non vuole rinunciare. Naturalmente, la rinuncia a questo fondamento ha lasciato maggior campo libero all’estrema sinistra, la quale ha approfittato dell’arrendevolezza di cui parlavo poc’anzi per invadere un po’ tutti i campi, e in particolar modo quello economico, di cui discuteremo fra non molto.
Ora, io trovo – sempre agli effetti dei nostri rapporti etico-sociali – che questo sistema è per lo meno strano, perché noi sappiamo che la religione cattolica ha liberato gli uomini non soltanto dai «credi» fatalistici, ma anche e soprattutto da quelli materialistici. Ora, per il solo fatto che la Democrazia cristiana ha ceduto al materialismo, ha in un certo senso ceduto alla sua stessa coscienza.
MORO. Dov’è questa cessione al materialismo, onorevole Rodi?
RODI. Può darsi che io sia in errore, ma è chiaro che ciascuno ha visto la Costituzione dal proprio angolo di visuale; è perciò che io penso e affermo che se la Democrazia cristiana ha ceduto in questo campo – l’unico nel quale non avrebbe mai dovuto cedere – si tratta di una cessione al materialismo, cioè a quella forza che la cristianità ha combattuto con tutte le sue armi.
TONELLO. Sono stati i preti i primi a fare le tariffe.
PRESIDENTE. Onorevole Tonello, non interrompa.
RODI. L’onorevole Tonello sa che l’uomo, in un certo senso, è l’animale più feroce, perché fa il male con intelligenza; e naturalmente i democristiani sanno che le forze spirituali dell’uomo possono anche fare un santo; ed è per questa ragione che essi avrebbero dovuto insistere sui loro principî e non consentire ad una, direi, manomissione.
Però, c’è qualche cosa che è ancora più grave: che, se la Democrazia cristiana in alcuni punti si è fatta sopraffare, in altri punti è riuscita ad affermare alcuni dei suoi principî.
Ma sta qui il grave, onorevoli colleghi, perché noi abbiamo ormai una Costituzione con due volti; abbiamo una specie di Giano bifronte, il cui tempio sarà fatalmente aperto fino a quando questa Costituzione non avrà il volto del popolo italiano, fino a quando cioè questa Costituzione non avrà perduto il volto di due partiti politici, fino a quando questa Costituzione avrà il volto del compromesso, avrà il volto di due tendenze diverse e conseguentemente essa non risponderà al carattere ed alla psicologia italiana.
Così come è compilata ora, la Costituzione è destinata quindi a subire una radicale riforma, perché ogni Costituzione, ogni legge, debbono aderire non già ad uno spirito di parte, ma alla psicologia del popolo cui quella legge, cui quella Costituzione è destinata.
Vi è un io dell’individuo; vi è un io della famiglia; vi è un io della società: abbiamo noi, attraverso la Costituzione, attraverso i rapporti etico-sociali, valorizzato l’io dell’individuo, l’io della famiglia, l’io della società? Non abbiamo piuttosto sottoposto l’io dell’individuo, della famiglia, della società, ad un principio politico che risponde soltanto alla contingenza e non alla larghezza che dovrebbe avere una Costituzione?
Ora, a noi incombe l’obbligo di curare che questo io non sia disperso né dalla sovrapposizione dello Stato né che sia alterato dall’estremismo politico, poiché l’estremismo politico genera egoismo e paura. Noi siamo in un regime di estremismo politico e fatalmente la Costituzione doveva risentire di questo estremismo. Esso costituisce infatti l’aspetto più pericoloso della nostra vita nazionale perché, come dicevo poc’anzi, l’estremismo genera paura ed egoismo, genera cioè due fatti per i quali il partito più forte si chiude in se stesso, per attuare un suo potere dittatoriale, e dall’altra parte v’è la paura, che fa arretrare gli uomini di fronte allo strapotere di un partito e li costringe a soggiacere ad un regime dittatoriale.
È necessario dunque che nella nostra Costituzione sia eliminato questo estremismo; è necessario cioè che i rapporti etico-sociali della nostra nazione siano basati su una maggiore lealtà, siano basati su una maggiore comprensione dei nostri bisogni, dei bisogni del nostro popolo: noi abbiamo cioè bisogno che questa Costituzione rifletta l’ansia di civiltà, l’ansia di rinascita che è nel nostro popolo. (Applausi a destra).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l’onorevole Nadia Gallico Spano. Ne ha facoltà.
GALLICO SPANO NADIA. Il progetto di Costituzione si occupa della famiglia in tre articoli e questo è un fatto certamente positivo del progetto di Costituzione stesso. La famiglia avrà così nella Carta costituzionale d’Italia il posto che le spetta per la funzione che deve assolvere nella vita italiana. D’altra parte, questo è anche un fatto positivo per il tenore stesso degli articoli che sono, nel loro complesso, assai buoni.
Naturalmente alcune modifiche occorreranno.
Avere inserito nella nostra Costituzione degli articoli che si occupano della famiglia è certamente un progresso, perché permetterà che la famiglia sia profondamente rinnovata e trasformata nella vita italiana. Ma per poter avviarci a questo progresso della famiglia è bene esaminare brevemente in quale situazione si trova oggi la famiglia italiana, come essa risulta dalle leggi preesistenti, dalla catastrofe che ha colpito il nostro Paese, dal travaglio stesso che l’Italia attraversa per risollevarsi e per risorgere.
Lo Statuto albertino non parlava della famiglia, come del resto non ne parla nessuna delle Costituzioni che sanciscono la inferiorità della donna. D’altronde non parlava neanche della donna. Il vecchio Statuto regolava soltanto i rapporti tra lo Stato e i cittadini, non prevedeva nessun dovere dello Stato verso le famiglie, nessun contributo della famiglia alla salvezza morale della nazione.
Però non possiamo ignorare che l’ordinamento giuridico e politico, rappresentato dallo Statuto albertino, incidette profondamente sulla situazione della famiglia. Esso stabiliva all’interno del Paese dei rapporti economici, che davano una impronta particolare alla famiglia. I rapporti economici all’interno della famiglia, così come risultano in tutto il periodo in cui l’Italia è retta dallo Statuto albertino, sanciscono la inferiorità della donna.
Il fascismo, durante l’ultimo ventennio, ha aggravato ancora questo stato di inferiorità della donna, ha umiliato anche il carattere del vincolo matrimoniale. Alcuni esempi assai noti confermeranno questa affermazione. Durante il periodo fascista non si poteva accedere ad alcuni gradi superiori dell’esercito senza essere ammogliati. Il matrimonio era così ridotto alla stregua di un qualsiasi titolo di studio. Viceversa, per alcune categorie di cittadini esisteva ed esiste tutt’ora il divieto di sposarsi: per esempio i carabinieri che non abbiano raggiunto una certa età ed un certo grado, le donne che lavorano come infermiere in istituti per malattie mentali.
Altri fattori sono intervenuti durante il periodo fascista per togliere al matrimonio il carattere morale che deve avere. La disoccupazione, lo stato di disagio economico esistente allora in Italia, provocavano in primo luogo il licenziamento delle donne dagli uffici, dagli impieghi; esse cercavano allora nel matrimonio, nel costituirsi una famiglia, una sistemazione economica, ed i loro sentimenti, in genere, erano sacrificati a questa necessità. Infine altre disposizioni particolari impedivano talvolta una unione che poteva essere felice perché liberamente consentita; il divieto per esempio di sposare gli stranieri, o le leggi razziali che impedirono di legalizzare alcune unioni fondate sull’affetto reciproco.
L’umiliante campagna demografica, lanciata dal fascismo, ha certamente umiliato nelle donne italiane il sentimento della maternità. Questi pochi esempi illustrano come nel periodo fascista esistessero condizioni per cui il matrimonio veniva considerato troppo spesso dalle donne come una sistemazione economica, dagli uomini come un fattore della loro carriera.
Contemporaneamente si deve collegare a queste condizioni l’aumento, durante tutto il periodo fascista, del numero delle famiglie illegittime e quindi delle nascite illegittime. A questo stato di fatto, derivante dall’ordinamento giuridico allora vigente, si aggiungono le conseguenze della guerra voluta e combattuta dal fascismo. Sarebbe inutile ricordare qui, perché certo questo pensiero è vivo in noi tutti, quante famiglie siano state disperse, distrutte dalla morte fisica dei loro componenti: gli uomini al fronte, le donne sotto le macerie. Ma l’istituto familiare è stato scosso anche per altri motivi: la lontananza dei coniugi per le prigionie, le deportazioni nei campi di concentramento, la guerra combattuta in paesi lontani hanno spesso indebolita la saldezza della famiglia, ed i vincoli familiari si sono allentati. Non solo, ma la morale stessa è stata scossa. Abbiamo dinanzi agli occhi lo spettacolo doloroso dei bambini che vendono ancora le sigarette agli angoli delle strado. Sappiamo che per il grave disagio economico di questo dopoguerra molte madri italiane hanno dovuto mandare i loro bambini a vendere i pacchi di sigarette; la famiglia senza questa fonte di guadagno non avrebbe potuto vivere. Ma dopo aver vinta la prima riluttanza, si sono abituate a vedere svolgere ai loro figliuoli questa attività.
Nel formulare quindi gli articoli della Costituzione noi non possiamo partire da affermazioni astratte, dobbiamo partire dalla realtà quale essa è, della famiglia italiana, come oggi si trova. E questa è la realtà attuale.
Però non si possono ignorare altri fattori che in questi ultimi anni sono intervenuti per moralizzare la vita italiana. Da una parte, dopo la liberazione e la fine della guerra, in mezzo al caos, al travaglio del nostro paese, i singoli hanno cercato e trovato, proprio nella famiglia, la via per uscire da questa situazione; dall’altra parte il movimento progressivo delle masse femminili rende sempre più coscienti le donne italiane le quali chiedono nella famiglia un posto diverso, e vogliono una famiglia rinnovata. Né si può ignorare la volontà precisa del popolo italiano di cominciare la ricostruzione dell’Italia dalla ricostruzione della famiglia.
A questo proposito mi ha stupito il titolo con il quale il Popolo presenta il discorso dell’onorevole Merlin: «Difesa della famiglia». Difesa contro chi? Nessuno minaccia la famiglia, tutti siamo decisi a ricostruirla, decisi a rinsaldarla; però non possiamo, dimenticare che l’istituto familiare è stato distrutto e indebolito da un regime che troppo a lungo ha oppresso l’Italia, dal fascismo. Negli anni passati difendere la famiglia significava lottare effettivamente contro il fascismo. Oggi, rinsaldare, proteggere l’istituto familiare vuol dire lottare per la democrazia; costruire un regime nuovo, democratico, questo noi dobbiamo fare, questo dobbiamo sancire con la Costituzione italiana. Questo attendono da noi le donne italiane, che vogliono basi nuove per la loro famiglia. Ed infatti uno degli elementi che ha certamente spinto le donne a partecipare alla lotta antifascista è stato il rancore, l’odio che esse provavano per il regime che ha indebolito la saldezza della famiglia italiana. Prima, ancora che la guerra voluta dal fascismo distruggesse materialmente le loro famiglie e le loro case, le donne italiane, umiliate per l’indegna campagna demografica, per le limitazioni che il fascismo imponeva all’esplicarsi della loro personalità, della loro missione di educatrici in seno alla famiglia, furono avverse a quel regime di oppressione. Esse lo odiavano per aver tolto l’educazione dei figli alle madri e per averla lasciata a quelle organizzazioni giovanili che inquadravano obbligatoriamente i bambini, i giovani, orientandoli verso la violenza e la guerra. Così come lo odiarono tutti in Italia, uomini e donne, perché per vent’anni nelle famiglie italiane non si è potuto insegnare ai bambini l’amore per la libertà, per la democrazia, perché i genitori hanno dovuto troppo spesso tacere di fronte ai figli, troppo spesso rinunziare ad agire contro il regime fascista, per via delle persecuzioni che i bambini, spie innocenti, potevano attirare su di loro e sulle famiglie stesse.
Nell’articolo 145 del Codice civile, che sancisce l’obbligo dei genitori di mantenere, educare ed istruire la prole, è detto che l’educazione deve essere conforme alla morale e ai sentimenti nazionali fascisti. Come fosse possibile conciliare la morale e i sentimenti nazionali fascisti non è certo evidente, ma comunque resta il fatto che per norma sancita dal Codice i figli dovevano essere educati dai genitori non ai fini della giustizia, della democrazia; ma soltanto per servire lo Stato secondo quei sentimenti nazionali fascisti che hanno portato l’Italia alla catastrofe.
Ecco perché noi dobbiamo dire al popolo che ci guarda e che attende da noi la Costituzione, una parola nuova, democratica.
Attualmente la famiglia non presenta ancora le caratteristiche che debbono corrispondere all’ordinamento democratico che stiamo costruendo: la Costituzione deve precisamente stabilire questo nuovo concetto dell’istituto familiare. Chiediamoci quindi se gli articoli della Costituzione rispondono a questa attesa delle masse, a questo desiderio del popolo italiano. In gran parte sì, ed è certamente utile che noi precisiamo le ragioni del nostro assenso.
Nella Costituzione è detto: la famiglia è una società naturale. Vi è chi pensa che noi accettiamo questa formulazione perché per noi la semplice unione dell’uomo e della donna è condizione sufficiente per la formazione della famiglia. Non è esatto: la famiglia per noi esiste soltanto quando la sua costituzione è regolata dalla legge, quando è fondata sul vincolo matrimoniale. Però questo vincolo crea un organismo, un istituto che ha delle leggi naturali, preesistenti alle leggi dello Stato. Accettiamo inoltre questa formulazione anche perché è la semplice constatazione di un fatto che genera però la ricerca dei rapporti fra questa società naturale costituita dalla famiglia e lo Stato.
Nel progetto questi rapporti sono esplicitamente indicati: da una parte garanzia dello Stato per facilitare la formazione e lo sviluppo della famiglia; senza questa garanzia sarebbe inutile che noi ci affaticassimo a scrivere tre articoli sulla famiglia. Ma questa garanzia deve trovar posto nel progetto di Costituzione sopra tutto in quegli articoli sui rapporti economici, che debbono assicurare le condizioni materiali per la vita e il consolidamento della famiglia.
A questo proposito è opportuno precisare che il contributo che l’istituto familiare può e deve dare al consolidamento della morale della nazione è condizionato dalle basi su cui viene fondata la famiglia. Solo una famiglia nuova, democratica può contribuire al rinnovamento della vita italiana. Ecco perché è importante stabilire quali debbono essere all’interno della famiglia i rapporti dei coniugi fra di loro e dei genitori verso i figli.
Nel primo comma dell’articolo 24 si afferma l’eguaglianza dei coniugi.
Questa affermazione è giusta e indispensabile. Essa conferma, infatti, nell’ambito della famiglia il principio, già espresso nell’articolo 3, secondo il quale tutti i cittadini, di ambo i sessi, sono eguali di fronte allo Stato ed alla legge. D’altra parte essa si ricollega al giusto riconoscimento di un fatto che è stato in questi ultimi anni confermato in numerosissimi casi.
Vi è chi dice che bisogna mantenere nell’interno della famiglia una determinata, gerarchia, che il marito e padre deve essere il capo della famiglia, perché soltanto lui può essere il fulcro della ricostruzione e dell’unità della famiglia.
Non possiamo essere d’accordo con questa affermazione categorica. In primo luogo per una ragione di principio: in generale, è la donna che tiene stretta ed unita la famiglia, e basta riportarsi ad un passato recente per averne conferma.
La guerra ha portato senza dubbio lutti e dissoluzione nel nostro Paese, ma ha messo in evidenza anche il mirabile esempio di donne, che hanno saputo mantenere viva e salda la famiglia nonostante la lontananza del padre.
Noi dobbiamo riconoscere nella Costituzione questo contributo che le donne italiane hanno dato alla saldezza della Nazione e della famiglia, e rendere loro omaggio tutelando in pari tempo i loro diritti. Non sono d’altronde una minoranza trascurabile. Per varie vicende oggi in Italia vi sono due milioni di donne che debbono, da sole, reggere e guidare la loro famiglia.
Affermare l’eguaglianza dei coniugi è anche porre un freno al fatto che la donna sposi per trovare una sistemazione economica.
Il matrimonio non deve essere per nessuno una professione. Ognuno deve avere nella famiglia doveri e diritti uguali, il legame tra i coniugi deve essere stabilito saldamente sull’affetto reciproco. Questa è la sola base perché la famiglia sia veramente salda, stabile.
E lo Stato deve assicurare, di fatto, la libertà della scelta garantendo lavoro a tutti e permettendo ad ognuno di sposarsi soltanto quando incontri la persona con la quale si sente di unirsi per tutta la vita.
Lo Stato deve inoltre garantire una condizione economica dignitosa alla famiglia, perché il disagio economico è spesso una delle cause di disgregazione della famiglia.
Noi così miriamo a dare al vincolo matrimoniale l’alto valore morale, che esso deve avere; valore che invece, il fascismo ha diminuito e umiliato.
Ad altri rapporti interni della famiglia la Costituzione deve dedicare la sua attenzione: quelli dei genitori verso i figli.
Il primo comma afferma i doveri e i diritti dei genitori, e specialmente i doveri che i genitori hanno verso i figli. Lo approviamo senz’altro, quantunque nella seconda parte sia necessario di precisare meglio, per quali motivi e in quali condizioni lo Stato si deve sostituire ai genitori.
Vi è da chiarire la spinosa questione dei figli illegittimi: essa appassiona l’opinione pubblica, ma a me sembra che in questa Assemblea sia stata finora impostata male. È stata impostata infatti da alcuni oratori sulla pietà, sulla compassione; si è detto che i figli illegittimi non hanno nessuna colpa, che sarebbe opportuno potere impedire che la colpa dei genitori ricada sui figli innocenti, ma che praticamente non si può realizzare tale desiderio. Si è citato per sostenere questa tesi il paragone delle tare fisiche. Ma noi vogliamo appunto che anche per le questioni fisiche la colpa dei genitori non ricada sui figli ed in ogni modo non possiamo ammettere, senza tentare di arginarla, che questa piaga dell’eredità si estenda anche sul terreno morale. È la questione nel suo complesso che è impostata male, perché non si tratta né di compassione né di pietà; si tratta di stabilire prima di tutto un diritto di eguaglianza che è già stato sancito dall’articolo 3. Nell’articolo 3 non si è detto che vi era una categoria di cittadini che aveva diritto soltanto alla pietà e non alla eguaglianza di tutti i diritti; si è detto che tutti sono eguali di fronte alla legge. E le affermazioni fatte in quell’articolo debbono essere riconfermate e non si deve cercare su questioni particolari di infirmarne il valore.
L’affermazione di questo principio di eguaglianza a favore dei figli illegittimi è un richiamo al senso di responsabilità dei genitori, perché se vi è colpa vi è responsabilità e questa appartiene solo ai genitori.
È evidente che dobbiamo lasciare al legislatore il modo di risolvere praticamente la questione della parità dei diritti dei figli illegittimi, questione che interessa un gran numero di cittadini.
Ho sentito con stupore l’onorevole Merlin affermare che era una questione di poca importanza, perché interessava un numero infimo di persone. È certo strano questo disprezzo delle minoranze, disprezzo che non è affiorato soltanto in questo caso, ma è già apparso a proposito dell’articolo 14 per le minoranze religiose, ed a proposito dell’articolo 7, quando l’onorevole De Gasperi riteneva che si potevano non considerare le garanzie richieste dalle altre confessioni religiose perché queste hanno un numero esiguo di fedeli.
In realtà, e lo si vedrà in seguito, la soluzione del problema dei diritti dei figli illegittimi interessa un numero di cittadini non così infimo come si vorrebbe far credere.
Ma, prima di ciò, vorrei controbattere alcune affermazioni un po’ stravaganti che sono state fatte qui: la parità di diritti tra i figli nati fuori dal matrimonio e quelli nati nel matrimonio vorrebbe dire il diritto di convivere sotto il medesimo tetto. Non solo, ma siccome il figlio illegittimo ha diritto all’assistenza della propria madre, la moglie illegittima avrebbe anch’essa diritto di convivere sotto lo stesso tetto. Prima ancora che la legge impedisca una simile aberrazione, sono certa che vi si opporrebbe il senso di dignità della donna italiana che non accetterebbe mai una situazione di questo genere; e se non altro questa supposizione mi pare abbastanza ingenua. Ma vi è un’altra interpretazione abbastanza strana: il fatto che i genitori non avessero nessun dovere verso i figli illegittimi e che potessero quindi impunemente abbandonarli, come avviene nella grande maggioranza dei casi, è certamente stato un elemento dell’aumentare spaventoso delle cosiddette «colpe» dei genitori. Ma è stato affermato in sede di Sottocommissione, che il dover riconoscere i figli illegittimi e dover garantire il loro sostentamento avrebbe certamente, provocato un aumento delle nascite illegittime. Questa affermazione è certamente discutibile. Laddove il freno morale non riesce a richiamare i genitori al senso della responsabilità, le conseguenze della loro azione possono costituire una remora che andrà a vantaggio della morale familiare. Non solo, ma uno degli argomenti più ripetuti per negare la parità di diritti ai figli illegittimi è la necessità di proteggere la famiglia legittima. Ora chiediamoci: chi la minaccia? I figli legittimi non sono minacciati da nessuno; essi godono di tutti i diritti. Non si tratta quindi di proteggere dei cittadini che godono già pienamente dei loro diritti, ma di assicurarli a coloro che fino ad oggi ne sono stati privati. In primo luogo il diritto al nome, in modo che si cancelli quell’N.N. infamante che i figli illegittimi debbono sopportare per tutta la vita, che anche nei certificati di nascita scompaia questo marchio che si è sempre imposto a dei cittadini che tutti riconoscono innocenti, ma che oggi sono menomati di fronte all’opinione pubblica. In secondo luogo il diritto ad una educazione sana. Sarebbe inutile portare qui delle statistiche, perché tutti i colleghi sapranno certamente che la grande maggioranza dei delinquenti sono dei figli illegittimi, che sono stati abbandonati a se stessi. In terzo luogo il diritto all’assistenza incondizionata dello Stato. Lo Stato interviene oggi ad assistere i figli illegittimi solo quando essi sono abbandonati da entrambi i genitori, e spinge quindi la madre a non riconoscere il proprio figlio. Sono assistiti nei brefotrofi soltanto coloro che sono veramente senza nessuna assistenza, salvo qualche eccezione. La cifra dei sussidi che percepiscono i figli illegittimi, non supera le 100 lire mensili: vero insulto alla loro miseria e alla loro situazione.
Ma vi è di più: c’è un diritto elementare che viene di fatto molto spesso negato ai figli illegittimi: il diritto alla vita. Il numero delle nascite illegittime non è così piccolo come si vorrebbe far credere. In certe provincie ha raggiunto perfino il 30 per cento delle nascite. Però, la cifra più impressionante è quella delle morti dei figli illegittimi, che, in certi periodi, ha superato, e di molto, il 50 per cento delle nascite. Non solo, ma è costume considerare che uccidere un bambino illegittimo è meno grave o ha certamente maggiori giustificazioni che uccidere un altro bambino. Quante madri infanticide sono state assolte, o per lo meno hanno ottenuto le circostante attenuanti, perché avevano difeso il proprio onore! Ma qual è l’onore per una donna? È quello di uccidere il proprio bambino o è quello di fare tutti gli sforzi, con l’aiuto che lo Stato deve garantire, per non troncare l’esistenza di un essere al quale essa stessa ha dato la vita?
Certamente il numero delle madri infanticide diminuirebbe di molto se lo Stato venisse loro in aiuto mettendole in condizioni di potere educare ed allevare i propri bambini.
D’altra parte affermare questo diritto vuol dire attuare veramente quello che è già sancito nella prima parte del primo comma di questo articolo: il dovere dei genitori verso la prole, verso tutti i figli, verso tutti gli esseri ai quali essi hanno dato la vita. Inoltre noi permettiamo così che il legislatore futuro studi le possibilità di eliminare le cause che producono questa situazione.
L’ultima parte dell’articolo 25 esamina la protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù. Noi accettiamo questa formulazione alla quale porteremo emendamenti di precisazione; ma nell’affermarlo dobbiamo ricordare che noi lottiamo per la democrazia, lottiamo per una vita nuova. I criteri fascisti di protezione della maternità devono quindi sparire; erano criteri di beneficenza o mossi da interessi politici. La protezione della maternità non è solo un diritto per la donna, per la madre, per i bambini; è una necessità per lo Stato italiano che noi vogliamo rinnovare democraticamente. In altre parti del progetto di Costituzione si dovranno esaminare e stabilire le provvidenze da assicurare alle lavoratrici madri. In questo articolo è il diritto della donna in quanto madre e la sua difesa nell’ambito della Costituzione che deve essere affermato. Per questo bisogna assicurare alla famiglia condizioni economiche dignitose. Occorre proteggere le famiglie numerose. Questo non è un richiamo ad una propaganda che noi riteniamo superata; ma esistono in Italia numerosissime famiglie che hanno parecchi bambini e che si dibattono in difficoltà quotidiane. Lo Stato deve assicurare, accordando aiuti particolari alle famiglie numerose, che tutti i bambini italiani possano avere un avvenire sicuro. Occorre unificare l’assistenza, non lasciarla più in balia di iniziative private concorrenti, di tendenze diverse. Lo Stato deve unificare l’assistenza e creare, là dove non esistono, gli organi ad essa preposti: i nidi rionali, gli asili troppo spesso lasciati ad enti privati, sviluppare e favorire gli organi già esistenti, come per esempio l’Opera maternità e infanzia, la quale deve essere democratizzata. Non è possibile, come avviene attualmente, che delle donne che chiedono di poter controllare come vengono distribuiti, come vengono adoperati i mezzi che l’Opera maternità e infanzia ha a sua disposizione per proteggere la maternità, si debbano veder negato questo diritto di controllo democratico e popolare sotto pretesto che esse debbono essere umilmente riconoscenti a chi le aiuta. Bisogna, introdurre nell’interno stesso dell’Opera maternità e infanzia il concetto che la madre ha diritto all’assistenza e non chiede un’elemosina. Bisogna riformare tutti gli istituti dove troppo spesso avviene che i bambini ricoverati muoiono. I brefotrofi di Roma negli ultimi anni hanno registrato il 40 per cento di morti di bambini; negli asili dove sono ricoverati i bambini dei tubercolosi, come nell’istituto Maraini di Roma, i bambini, per mesi e mesi, non crescono di un grammo, non acquistano peso, non riescono a sostenersi sulle loro gambe per mancanza di calcio dovuta alla denutrizione.
Queste questioni vanno denunciate anche qui, alla Costituente, perché questa è la sede dove debbono venire tutte le richieste, le rivendicazioni di tutto il popolo italiano, perché è qui dove si deve proteggere la famiglia, la vita di tutto il popolo italiano. Occorre moltiplicare le colonie estive, e tutti gli organismi per la protezione preventiva della salute. Per questo noi proponiamo che nella formulazione dell’articolo sia esplicito il riconoscimento dell’importanza sociale della maternità.
È evidente che con questo non è esaurita la questione della famiglia. Questa verrà formulata nei suoi particolari dalla futura legislazione, che qui però deve essere giustamente indirizzata. La questione è delicata ed interessa tutti i settori dell’Assemblea. Tutti dobbiamo collaborare a far sì che essa venga formulata nel modo più giusto possibile da questa Costituzione che per la prima volta in Italia sancisce i diritti della famiglia, e nell’ambito della famiglia, di ogni suo componente. Noi dobbiamo ricordarci che questa è la prima Assemblea della Repubblica italiana e che la Repubblica si deve distaccare dal passato anche per le nuove garanzie che darà alla famiglia, base di un orientamento sano verso una vita nuova, verso una vita democratica quale è quella che noi vogliamo costruire. (Applausi a sinistra).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Preti. Ne ha facoltà.
PRETI. Il Titolo II è tra quelle parti della Costituzione in ordine alle quali la sostanza del dibattito, al di là delle questioni su cui tutti possono essere d’accordo, e che non hanno del resto grande importanza, si riduce, necessariamente, ad uno scontro fra il propugnatore della tesi, diciamo così, laica, e il propugnatore della tesi confessionale.
È forse inutile in questa sede auspicare dei compromessi, che non convincerebbero nessuno. È bene che ciascuno dica quello che pensa, ed è bene che ciascuno voti, alla fine, secondo la propria coscienza.
Ben a ragione l’onorevole La Pira, nel suo notevole discorso dell’11 marzo, in sede di discussione generale, aveva affermato che tutte le tesi sostenute dalla Democrazia cristiana in ordine ai vari problemi costituzionali andavano ricondotte ad un unico punto dipartenza, e cioè a quella che egli chiamava «dottrina pluralistica», della quale fece in quella sede una assai ampia illustrazione.
Orbene, noi siamo assai lungi – come talvolta i democristiani sembrano insinuare – dall’accogliere quella dottrina estrema di origine hegeliana, la quale, facendo dello Stato un assoluto, considera i diritti dei cittadini e dei minori organismi sociali come semplici concessioni dello Stato stesso. Sappiamo anche noi che proprio in questa dottrina cercò la sua giustificazione il totalitarismo fascista.
Nessuna difficoltà abbiamo pertanto ad accogliere la dottrina della pluralità degli ordinamenti giuridici, di cui fu fra noi il massimo divulgatore e propugnatore, già trent’anni or sono, Santi Romano, nel senso di ammettere che lo Stato non è la sola fonte del diritto, e di prendere in considerazione, accanto all’ordinamento statale, gli ordinamenti giuridici minori. Del resto, se ciò non fosse, noi non avremmo votato quello che era, se non erro, l’articolo 6 del progetto di Costituzione.
Ci stupisce invece assai che di questa dottrina si siano fatti qui, in sede di Costituente, così zelanti banditori i democratici cristiani, i quali – si noti bene – ispirandosi ad un concetto trascendente di giustizia, non potrebbero logicamente accogliere una dottrina che, sotto un certo aspetto, riconosce un valore giuridico all’ordinamento di ogni associazione umana, su qualunque principio essa sia fondata, anche, nel caso estremo, ad un’associazione di delinquenti (e mi sembra proprio che sia questo uno dei casi fatti da Santi Romano nel suo famoso libro).
Bisogna perciò necessariamente pensare che ci sia qualche cosa sotto la dottrina dell’onorevole La Pira; e la verità è che, puntando su questa dottrina, ci si propone un assai specifico scopo, che non viene mai qui apertamente confessato: si mira in sostanza a contrapporre allo Stato altre formazioni sociali, con i relativi ordinamenti giuridici, per garantire ad esse, di fronte allo Stato stesso, nuovi intangibili e imprescrittibili diritti che esorbitano dalla sfera di quei classici diritti inerenti alla personalità umana, che è vanto di ogni democrazia – e che per ciò è anche vanto nostro – garantire.
Ed è strano assai che di questi diritti, che io vorrei chiamare – pur con un termine assai improprio dal punto di vista giuridico – antistatali, i cattolici non sentano poi più la necessità, quando abbiano saldamente lo Stato nelle loro mani. E non cito esempi; per non dar luogo a polemiche non simpatiche.
La contrapposizione allo Stato di un altro ordinamento si propongono dunque i democratici cristiani quando vogliono premettere al Titolo secondo la dichiarazione che la famiglia è una società naturale. Questa definizione – già di per sé molto sospetta in quanto è l’unica del testo costituzionale, e non ha precedenti del genere in nessun’altra Costituzione – appare anche assolutamente impropria dal punto di vista giuridico, posto che in siffatti termini giusnaturalistici ci si poteva esprimere al massimo fino alla fine del secolo XVIII. Se pertanto, nonostante ciò, si è così insistito su questa formulazione, è chiaro che si intendeva attraverso di essa perseguire un preciso fine.
Si voleva infatti affermare, per ricorrere all’espressione usata dall’onorevole Corsanego in sede di Commissione, e ieri riecheggiata dall’onorevole Merlin, che la famiglia ha dei diritti originari, preesistenti alla costituzione dello Stato; proposizione politicamente molto insidiosa, in quanto, partendo da essa, i suoi sostenitori, che identificano artificiosamente i pretesi diritti naturali della famiglia e le proprie tesi di parte, con l’arrogarsi il monopolio di interpreti dello spirito familiare, tendono a disconoscere allo Stato il diritto di disciplinare normativamente una determinata sfera, onde serbarla ad un altro ordinamento. È per questo che l’onorevole La Pira, che io considero un poco come l’ispiratore, in questa sede, della Democrazia cristiana…
MERLIN UMBERTO. Padre spirituale!
PRETI. …sì, il padre spirituale; l’onorevole La Pira, dico, ha potuto affermare che «dal fatto che la famiglia abbia una sua costituzione e dei diritti ad essa connessi, discende il criterio della indissolubilità del vincolo». Del resto, mi sembra che identico fosse il ragionamento dell’onorevole Merlin.
Con questo, si pretende dunque che lo Stato esplicitamente rinunzi a riservarsi il diritto di regolare diversamente l’istituto matrimoniale, anche per il caso che dovessero, nel corso della storia, rivelarsi quelle esigenze divorzistiche che oggi pochi forse avvertono. Questo significa svalutare la funzione dello Stato, dichiarandone la incompetenza di fronte alla sfera giuridica familiare. Ed è questa una posizione assai più ardita ed assai più pericolosa di quella che si avrebbe, se i cattolici chiedessero modestamente e semplicemente allo Stato di vietare il divorzio, in omaggio alla tradizione religiosa della grande maggioranza degli italiani, riconoscendosi in questo caso esplicitamente il diritto dello Stato a regolare liberamente il diritto familiare nell’orbita delle tradizioni del Paese.
L’onorevole La Pira, elaboratore ufficiale della teoria costituzionale democristiana, è senza dubbio una figura nobilissima; anzi, noi ci auguriamo di vederlo un giorno sugli altari. (Commenti).
Una voce. Un lontanissimo giorno.
PRETI. Sì, in un lontanissimo giorno! Ma è proprio per questa sua santità che è più pericoloso. Ed è l’impostazione da lui data al problema delle relazioni fra Stato e famiglia che deve rafforzare in noi, che pur siamo oggi lontani dal pensare all’introduzione del divorzio, la volontà di opporci intransigentemente al divieto costituzionale del divorzio stesso. E vorrei che certi liberali, come l’onorevole Badini, che non è qui presente, i quali hanno incondizionatamente aderito alla posizione della Democrazia cristiana, ci pensino un po’ su, per vedere se non abbiano compiuto un errore adattandosi implicitamente alla pericolosa teoria dell’onorevole La Pira e dell’onorevole Merlin.
Sempre dalla contrapposizione fra i diritti originari della famiglia e l’ordinamento giuridico statuale, l’onorevole La Pira faceva derivare la naturale, dico naturale, impossibilità di equiparare il figlio illegittimo a quello legittimo, e negava quindi allo Stato, sostanzialmente, la potestà di emanare in questo senso delle norme. Sulla quale giustificazione teorica noi non potremo mai concordare, anche se, sul piano pratico, sarà forse possibile trovare un accordo circa la filiazione naturale.
Ma è nel campo della scuola che la contrapposizione fra famiglia e Stato rivela le sue più pericolose conseguenze. In questa materia la vera posizione cattolica è quella illustrata nel 1946 dall’onorevole Gonella nel programma della Democrazia cristiana.
Ivi si afferma, se non vado errato, che lo Stato svolge, in ordine alla scuola, una funzione ausiliaria rispetto alla famiglia, alla quale compete naturalmente – e sottolineo quel «naturalmente» – la missione educativa. Dietro alla famiglia, come è ovvio, sta la Chiesa, la quale da secoli insegna che «diritto partecipato soprannaturale inalienabile di insegnamento è soltanto nella vera Chiesa di Cristo, la Chiesa cattolica, la quale sola possiede la verità rivelata infallibilmente». È lo stesso Pio XI il quale, nell’Enciclica del 31 dicembre 1929 della cristiana educazione della gioventù, subordina gli interessi dello Stato nel campo educativo a quelli della Chiesa e della famiglia. Prima la Chiesa, poi la famiglia e solamente terzo lo Stato! Così suonano le parole di Pio XI, che del resto i Deputati del settore democristiano conoscono certo a memoria: «Da tale primato della missione educativa della Chiesa e della famiglia, siccome grandissimi vantaggi, come abbiamo veduto, provengono a tutta la società, così nessun danno può venire ai veri e propri diritti dello Stato rispetto all’educazione del cittadino secondo l’ordine da Dio stabilito.
«Questi diritti sono partecipati alla società civile dall’autore stesso della natura, non per il titolo di paternità, come alla Chiesa e alla famiglia, ma bensì per il promovimento del bene, che è fine proprio. Per conseguenza l’educazione non può appartenere alla società civile nello stesso modo che appartiene alla Chiesa e alla famiglia, ma in modo diverso corrispondente al suo fine proprio».
Ma allora siamo sinceri; dite, colleghi della Democrazia cristiana, che volete l’educazione affidata alla Chiesa!
CARISTIA. Forse lo stesso ragionamento lo ha fatto Mussolini!
PRETI. Non so che cosa c’entri Mussolini in questo momento. Ad ogni modo, dopo parlerò anche di Mussolini e ce ne sarà pure per voi.
Per noi l’educazione è uno dei fondamentali compiti dello Stato, il quale ne è il principale responsabile, proprio perché nulla è possibile porre più in alto di quel «promovimento del bene comune» che è il supremo fine dello Stato stesso.
MERLIN UMBERTO. Aveva ragione Mussolini, che insegnava la stessa cosa!
PRETI. Stia tranquillo con Mussolini! Di Mussolini avete approfittato piuttosto voi attraverso la carta della scuola! (Interruzioni al centro – Commenti).
PRESIDENTE. Non interrompano! Onorevole Preti, prosegua.
PRETI. La scuola di Stato è assolutamente necessaria in un paese come l’Italia. Essa non è peraltro una scuola agnostica o scettica, come ebbe a dire l’onorevole Gonella e come altri di parte democristiana hanno ripetuto. Ma è una scuola liberale, aperta palestra di tutte le idee. Nella scuola di Stato possono insegnare i cattolici, i comunisti, gli idealisti, uomini di ogni fede; e la formazione dell’allievo non soggetta a nessuna etichetta di parte, può svolgersi in piena libertà.
La scuola governativa è, possiamo dire, un pubblico servizio, a disposizione di tutti i cittadini. Libero chiunque di ricorrere ad una scuola privata di fiducia, in ossequio all’intangibile principio, che noi vogliamo rispettare, della libertà della persona umana. Ma come colui il quale al medico condotto o al medico della mutua, messi a sua disposizione da pubblici enti, preferisce il suo medico di fiducia, deve sostenerne le spese, così il cittadino deve pagare la scuola privata di sua fiducia, che egli ha scelto. Sarebbe un paradosso che lo Stato, che non ha nemmeno abbastanza denaro per le proprie scuole, dovesse in qualunque maniera finanziare delle scuole che non gli appartengono.
MERLIN UMBERTO. Non abbiamo chiesto un soldo!
PRETI. Vedremo se è vero! Ufficialmente non avete forse chiesto nulla, ma praticamente le cose stanno assai diversamente. Quando risponderete, direte esattamente come la pensate in materia.
Se la scuola privata pretende la parità di trattamento, ad esclusione naturalmente del campo economico, per i suoi alunni, basterà che essa assicuri il medesimo stato giuridico della scuola statale ai propri insegnanti, le medesime condizioni didattiche, insomma tutto ciò che la legge un tempo richiedeva per il pareggiamento.
Per la serietà dell’educazione, che esso solo tutela e può tutelare, lo Stato non può permettere che le scuole, le quali non rispondano a tutti questi requisiti, offrano poi agli alunni parità di trattamento rispetto alle scuole statali. Di qui, per noi, l’impossibilità di accettare che l’equivoco concetto della parificazione – sulla quale voi democristiani avete molto insistito – sia inserito nella Carta costituzionale a sanzionare un deplorevole stato di fatto.
Le parificazioni, negli ultimi anni, sono state la fortuna, da un lato, di privati speculatori, e dall’altro degli istituti ecclesiastici, ma hanno dato un colpo mortale alla serietà degli studi. (Interruzioni). Perché, fino al giorno in cui non è stata istituita la parificazione attraverso la carta della scuola di Bottai, in Italia, nonostante il fascismo e nonostante tutto il resto, l’istruzione scolastica aveva una certa serietà. Da allora in poi siamo andati a rotoli; ed oggi sia la scuola privata che la scuola statale fanno pietà.
E la scuola statale fa pietà appunto perché si è dovuta mettere in concorrenza con la scuola parificata, abituata a promuovere e a licenziare tutti, pur di farsi réclame.
CORSANEGO. Ma c’è l’esame di Stato!
PRETI. L’esame di Stato è oggi una burla, in Italia. L’esame di Stato era una cosa seria, quando c’era una commissione che esaminava tutti gli allievi della scuola statale e privata.
Oggi, tutti sono promossi.
MALAGUGINI. È l’esame contro lo Stato.
Una voce al centro. Si può rimettere la commissione.
PRETI. Se la pensate come noi, siamo d’accordo.
I titoli legali di studio deve poterli rilasciare, attraverso l’esame di Stato, solamente la Repubblica; naturalmente, attraverso quel vero esame di Stato, che intendiamo noi, sul quale s’intratterranno molti colleghi di questa parte, dopo di me.
In questa maniera, la scuola non statale acquisterà prestigio legittimo, in ragione – come è giusto – della preparazione dei suoi allievi. Quando essa possa invece concedere validi titoli, sia pure con l’intervento dei commissari governativi, come accade oggi, il motivo di emulazione fra le scuole private viene dato, per contro, dalle maggiori o minori facilitazioni concesse agli aspiranti ai titoli.
Quanto alle scuole che non chiedono nessun riconoscimento particolare, sembra a noi, che crediamo di avere uno spirito liberale, che debbano avere piena ed assoluta libertà, come sostiene l’onorevole Lucifero, entro i limiti dell’ordinamento giuridico della Repubblica. Questa è la libertà che uno Stato conscio della sua missione può concedere nell’ordine della scuola.
Non si venga dunque a dire che, quando i democristiani chiedono allo Stato di porre la scuola privata, che è scuola di parte, sul piano della scuola pubblica, che è invece scuola di tutti, combattono per la libertà. Essi sanno perfettamente che il giorno in cui lo Stato concedesse alla scuola privata tutti i beneficî della scuola pubblica, le scuole private, se sono confessionali, ne saranno enormemente avvantaggiate, in quanto possono in sovrappiù beneficiare dei lasciti religiosi, dei convitti, delle economie in fatto di retribuzione agli insegnanti, e di tutti i vantaggi che in genere conseguono dalla potenza sia economica che morale di un istituto religioso.
In questo campo è bene essere sinceri e dare alle cose il loro nome. Ed allora finiamola, signori della Democrazia cristiana, con questo insincero slogan della libertà della scuola. Qui si tratta di ben altro. Perché, dunque – io potrei chiedervi – la Chiesa non si batté mai per la libertà della scuola là dove essa ne aveva il monopolio diretto o indiretto?
Forse che la libertà, come voi la concepite, è la libertà di essere cattolici?
Oggi in realtà la bandiera della libertà copre la scuola confessionale, la quale si propone di impedire allo Stato di riconquistare la sua legittima posizione di preminenza nel campo educativo. Dico di riconquistare, perché dal 1859 fino alla carta della scuola di Giuseppe Bottai, questa preminenza lo Stato l’ha sempre serbata, così da poter svolgere la sua missione educatrice. E se, da qualche anno a questa parte, lo Stato ha perso purtroppo questa sua posizione, noi non possiamo qui, in sede di Costituzione, avallare la rinuncia dello Stato ai suoi diritti.
Ed è paradossale che i paladini del confessionalismo asseriscano di difendere la libertà contro di noi affermando che ci proporremmo, attraverso la scuola statale, di garantire le basi a un totalitarismo socialista di domani. Ma non ci credete neanche voi al totalitarismo socialista, non dico a quello di Saragat, ma nemmeno a quello di Nenni! (Commenti – Interruzioni).
Poiché mi avete interrotto, tengo a precisare che potrebbe darsi che voi abbiate realmente paura dei comunisti in ordine ad un loro presunto totalitarismo – perché delle volte li accusate di questo – ma di noi questo non lo potete pensare seriamente. Noi non facciamo in realtà che difendere le posizioni dello Stato liberale; se volete, anche la stessa legge Gentile, che non fu affatto fascista, perché preparata da Benedetto Croce, e dal travaglio degli educatori dell’era liberale. Voi, per contro, difendete, come ho già detto, il principio informatore della carta della scuola di Giuseppe Bottai, e non potrete certo affermare con ciò di combattere per ristabilire la libertà conculcata dal fascismo. Voi combattete per rafforzarvi sulla via dei privilegi che solo uno Stato del tutto indifferente ai valori della cultura ed esclusivamente preoccupato della unanimità formale poteva concedervi, onde gettare nella fornace della guerra i denari sottratti alla scuola.
La famiglia è, a nostro avviso, il cavallo di Troia, attraverso cui la Chiesa dà nuovamente l’assalto allo Stato. Sulla trincea della scuola noi difenderemo la libertà del cittadino e la dignità di questo Stato repubblicano che abbiamo fondato e che vogliamo difendere sul piano di una vera e sincera democrazia. (Applausi a sinistra – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Giua. Ne ha facoltà.
GIUA. Onorevoli colleghi, questo secondo titolo della Carta costituzionale comprende sette articoli, che così si possono dividere: tre riguardano la famiglia, tre riguardano la scuola, ed il settimo riguarda l’igiene. Io, come socialista, mi trovo alquanto perplesso nell’esaminare questo titolo dei rapporti etico-sociali, perché mi trovo, da una parte attratto dalla necessità di esaminare i fenomeni morali in funzione degli articoli dalla Carta costituzionale e, dall’altra, come socialista, attribuisco maggiore importanza al fattore economico nella soluzione del problema sociale.
Tuttavia, il problema che noi vogliamo risolvere è quello non di creare la morale del popolo italiano, ma di stabilire delle norme precise. Su questo problema sono stati proposti degli articoli che riguardano la famiglia, l’organizzazione della scuola, e, in generale, l’insegnamento. Per la famiglia sono state mosse delle obiezioni sullo spirito che ha animato i compilatori dei tre articoli, e molti hanno affermato che dinanzi alla dizione che la famiglia sia «una società naturale», essi si trovano nella condizione di non comprendere veramente quale sia stato il criterio che abbia mosso i compilatori degli articoli.
La famiglia è una società naturale. Il collega Badini ha già mosso l’obiezione che il termine società dà l’idea di contratto, quindi di un fatto di ordine giuridico.
Una questione diversa è quella che ha mosso i democratici cristiani a riprodurre questa dizione dell’articolo.
D’altro canto noi socialisti che ci appelliamo alla tradizione della nostra scuola e che siamo storicisti in base alla nostra concezione materialistica della storia, vediamo che la famiglia è sì un istituto naturale, ma un istituto che è storicamente determinato e quando noi esaminiamo questo articolo e vediamo affermato il concetto come se la famiglia fosse… la derivazione di una morale eteronoma allora noi diciamo no.
Esaminiamo un po’ la storia, vediamo se la storia ci permette di affermare che la famiglia sia veramente da regolare dall’alto o se la famiglia non nasca e si sviluppi da rapporti sociali.
Non entrerò nell’esame storico dell’istituto della famiglia: agamia, poligamia, monogamia, che noi oggi consideriamo come la forma più perfezionata raggiunta dalla famiglia.
Se noi esaminassimo anche l’ultimo stadio della monogamia, noi vedremmo che in essa vi possono essere diverse fasi, che la storia ci dimostra che molti popoli, a seconda della loro condizione sociale, hanno elaborato in modo distinto.
Fasi che non sono in contrasto l’una con l’altra, che sono anche in relazione talvolta col sentimento religioso dei popoli, ma che sono soprattutto in relazione coi fattori produttivi e sociali in generale.
Tanto che non vi sembri esagerata la posizione degli stessi fondatori della nostra dottrina rispetto agli oppositori del socialismo, i quali dicevano che col libero amore si distruggeva completamente la famiglia. I fondatori della nostra dottrina, un secolo fa, quando scrivevano il manifesto del Partito comunista, dicevano che la famiglia non avevano bisogno di distruggerla i socialisti, perché la famiglia era stata sempre distrutta nella storia o per lo meno, essa non aveva trovato concretezza di sviluppo, a causa dei rapporti sociali contrastanti tra le diverse classi.
Instaurata la società borghese, si ebbe il risultato di annullare la famiglia per una gran parte di coloro che avevano pure diritto ad averla, vale a dire per la classe lavoratrice. Quindi, se noi esaminiamo il problema della famiglia nella società attuale, dobbiamo fare per necessità la critica di quelle che sono le condizioni sociali della società stessa, e dire quali sono le cause che impediscono il pieno sviluppo della famiglia.
L’appunto che si fa a noi di essere sostenitori del libero amore e, in base a questo, di giungere alla negazione completa del principio cardinale della famiglia è un’accusa che non regge, perché noi socialisti siamo sostenitori del Libero amore non certamente per condurre l’umanità nella fase della promiscuità. Noi socialisti siamo – e non abbiamo paura di dirlo – per il libero amore se con questa frase intendiamo affermare che la famiglia, in una società socialista, trova la sua pienezza, il suo completo sviluppo, in quanto la famiglia si fonda esclusivamente sull’affinità elettiva tra due esseri che sono portati ad amarsi e in questa specie di contratto mutuo non esistono ragioni di fatto, ragioni economiche, perché in una società socialistica non vi sono contrasti economici, giacché mancando i contrasti di classe, con la socializzazione dei mezzi di produzione, deve sparire completamente qualsiasi causa economica nella formazione della famiglia.
E allora, se ci poniamo da questo punto di vista, noi socialisti affermiamo che nella società attuale qualsiasi riforma si possa introdurre nella famiglia è una riforma che non può toccare la sostanza dell’istituto stesso. Tanto che lo stesso Engels, che collaborò con Marx, ponendosi questo problema della famiglia nella società presente, era giunto a questa conclusione: che la fase monogamica della famiglia è legata intimamente ad un altro fenomeno che voi democratici cristiani non avete accennato quando avete parlato del divorzio, e quando avete voluto affermare la necessità della difesa della famiglia nella sua fase attuale, vale a dire al fenomeno della prostituzione; la quale è direttamente legata allo sviluppo storico nella società borghese della famiglia. Se noi ci troviamo di fronte a questo fenomeno, e se alla fase monogamica della famiglia è legato direttamente questo fenomeno della prostituzione, allora siete voi che dovete rispondere a noi, quando vi diciamo che con le vostre organizzazioni non riuscirete mai ad eliminare tutti gli inconvenienti che sono insiti nell’organizzazione economica della società presente.
Quindi, quando voi esaminate il problema della famiglia, non siete voi che dovete porre domande a noi; siamo noi socialisti che dobbiamo porle a voi… e chiedervi come è, che storicamente, da quando la famiglia nella fase monogamica è stata difesa soprattutto dal cristianesimo non si sia giunti ad impedire la prostituzione.
Se non mi sbaglio, il problema della famiglia indissolubile risale ai sacri testi, ma è stato difeso in modo particolare dal Concilio di Trento nel 1563. Ora, se il Concilio di Trento ha sostenuto la difesa della famiglia indissolubile, ha sostenuto la famiglia quale in quei periodo si presentava: era la famiglia feudale, che non escludeva la prostituzione. Poi vi è anche un altro fenomeno, che noi vediamo anche dalla letteratura, quello dell’adulterio, che è legato inevitabilmente alla forma storica della famiglia nella fase medioevale. Le canzoni di molti poeti di quel periodo cantano l’adulterio; non osannano certamente al matrimonio, all’amore fra i coniugi. Quindi, noi dobbiamo ammettere che a questo istituto sia legato un fenomeno che è quello della violazione del patto, della violazione del giuramento che i due coniugi si fanno all’atto del matrimonio; e se questo fenomeno accompagna la famiglia in tutto il suo sviluppo storico e l’accompagna anche fino ad oggi, vuol dire che a questo istituto è legata appunto qualche cosa che la società finora non ha potuto risolvere. E noi socialisti pensiamo – non offendetevi, colleghi della democrazia cristiana – che sia solamente una società socialistica quella che possa impedire il fenomeno della prostituzione e quello dell’adulterio, perché sarà solamente quando i coniugi si uniranno unicamente per l’affetto, sarà soltanto allora che la famiglia troverà il suo pieno sviluppo. Prima di allora non sarà possibile avere una famiglia che non presenti gli inconvenienti a cui ho accennato.
Detto questo, passo brevemente a determinare gli altri problemi che riguardano questo titolo.
Il primo comma dell’articolo 23, laddove si afferma che «La famiglia è una società naturale: la Repubblica ne riconosce i diritti e ne assume la tutela per l’adempimento della sua missione e per la saldezza morale e la prosperità della nazione», è un comma che io abolirei completamente; lo abolirei sia nel primo periodo che nella seconda parte. La seconda parte ha un riferimento di carattere nazionalistico. È molto recente l’esaltazione che è stata fatta in periodo fascista della famiglia numerosa, perché oggi noi possiamo approvare una tale concezione.
Noi pensiamo che la grandezza del popolo italiano non consista nella prolificità; noi pensiamo che la quantità non risolva il problema della qualità; noi pensiamo che se le leggi intervenissero non per fare propaganda perché le famiglie siano numerose, ma per lasciare invece che il buon costume sorga dalle condizioni reali del popolo, noi pensiamo, dicevo, che una Costituzione e una legge che seguissero questa norma, sarebbero una Costituzione ed una legge più adeguate alle condizioni del popolo italiano.
«La Repubblica assicura alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa e al suo sviluppo, con speciale riguardo alle famiglie numerose». Ecco perché è necessario limitare la formulazione di questo comma, dicendo che «La Repubblica tutela la famiglia» e, se mai, «le condizioni economiche necessarie al suo sviluppo».
L’articolo 24 è, si può dire, quello che mi ha determinato a questo intervento.
Ieri io ho ascoltato con attenzione l’onorevole Merlin quando ha parlato in proposito; e, dico la verità, non ho da muovere delle obiezioni in sede di logica alla tesi che l’onorevole Merlin ha sostenuto. Secondo la sua teoria, egli è stato logico, pienamente logico; e pertanto le nostre obiezioni si devono fare in termini di logica o in termini di sentimento, qualora noi contrapponiamo ad una religione come quella dell’onorevole Merlin, un’altra religione.
Ma, in termini di storia, io ho da fare però qualche obiezione alle considerazioni contro il divorzio dell’onorevole Merlin. E dichiaro senz’altro che la questione del divorzio non è una questione socialista: se io, quindi, come socialista, faccio delle affermazioni favorevoli al divorzio, lo faccio senza fissare principî definitivi.
Molto probabilmente i compagni del mio Gruppo accederanno a questa idea; la questione del divorzio non è una questione socialista: diverrà socialista quando noi avremo in Italia una società socialista. Se noi esaminiamo in Italia lo sviluppo della famiglia, troviamo ch’esso è in relazione con le condizioni sociali del popolo italiano; ma se noi osserviamo la storia dello sviluppo della famiglia presso altri popoli, noi vediamo che il divorzio si è affermato proprio in società, in popoli, in istati che non erano socialisti e che non sono socialisti.
Ed anzi, rispetto alla sacramentalità del matrimonio, noi troviamo che il divorzio è stato introdotto anche presso popoli che sono cattolici. Basti accennare all’impero Austro-Ungarico che era un impero completamente cattolico. Il divorzio è ammesso, quindi, in tutte le legislazioni di tutti gli Stati, tranne che presso tre popoli: l’Italia, la Spagna e il Portogallo.
Se noi, quindi, cerchiamo la ragione di questa diffusione del divorzio, siamo nel nostro pieno diritto, perché vi deve evidentemente essere una ragione; e la ragione, onorevole Merlin, è questa: voi appartenete al popolo italiano e vi riferite alla tradizione del popolo italiano, all’educazione del popolo italiano.
Ma appunto in riferimento alla tradizione cattolica del popolo italiano, voi ponete un problema che muove i vostri avversari a farvi delle domande. Tutte le volte che la Chiesa è passata dal potere spirituale al potere temporale, ha introdotto nella vita sociale, nella vita civile, sì delle verità, ma spesso degli errori.
Guardate, colleghi della Democrazia cristiana, che io non scendo alle obiezioni solite demagogiche, ma vi dico soltanto di prendere in esame la storia della Chiesa, che non sempre dimostra che la Chiesa abbia difeso gli interessi dell’umanità e della civiltà. Io mi pongo semplicemente qualche domanda; nel 1600 la Chiesa aveva affermato non solo la teoria che la terra fosse il centro dell’universo, ma affermato anche determinati principî che erano in contrasto con lo sviluppo della scienza e della meccanica.
PIGNEDOLI. E la relatività?
GIUA. La relatività noi la inseriamo direttamente nella meccanica. Esiste una meccanica classica, fondata da Galileo contro la scienza della Chiesa ed una meccanica quantistica fondata sulla relatività!
PIGNEDOLI. Io parlo della teoria relativistica non della quantistica. Parlo della meccanica, rispetto alla quale non vi sono riferimenti privilegiati e centri assoluti.
GIUA. Ma lei mi insegna che la teoria di Einstein non è una teoria che contrasti con i principî della meccanica classica, ma li integra col calcolo quando i principî non sono sufficienti.
PIGNEDOLI. Non soltanto col calcolo; c’è una interpretazione nuova dello spazio.
GIUA. Ad ogni modo, siccome noi viviamo sullo spazio a tre dimensioni, per quanto si riferisce alla vita nello spazio a tre dimensioni, per noi è sufficiente la meccanica classica. Quindi, anche se non vogliamo giungere ad accettare i principî della meccanica dei quanti di cui alcuni sono discussi… (Interruzioni dell’onorevole Pignedoli).
Io dicevo che la Chiesa si era posta nel 1600 contro determinati principî che erano sorti e si erano sviluppati. E la teoria eliocentrica non è un sogno di Copernico. Questa teoria è la conseguenza diretta di calcoli, di ragionamenti, è fondata sul calcolo matematico e ad essa si opponevano alcuni principî che erano sanciti esplicitamente negli atti della Chiesa. E quando Galileo affermò in Italia il principio di Copernico, quando affermò determinate leggi, la Chiesa si oppose, e se allora avesse prevalso il criterio della Chiesa, io non so come il Vaticano, che possiede un Osservatorio astronomico a Rocca di Papa, avrebbe potuto giustificare la esistenza di questo osservatorio, che è fondato non sui principî della teoria tolemaica, ma sui principî della teoria copernicana.
Quindi, quando noi esaminiamo la storia, vediamo che nel campo pratico, se dessimo a voi il potere di applicare integralmente l’articolo 7 di questa Carta costituzionale, e se per ipotesi in Italia non vi fossero altro che democristiani, noi assisteremmo a questo fenomeno che dall’insegnamento anche universitario sarebbero esclusi la teoria darwiniana e quella della riproduzione della specie. (Commenti).
PIGNEDOLI. È abbastanza superata.
GIUA. Sta bene, ma io le cito un caso molto più recente, e lei non mi può dar torto. Entro nel campo della genetica e mi riferisco ad un campo inerente alla nascita dell’uomo. Cosa vuol dire nascere un uomo? Lei mi può insegnare i principî della nascita dell’uomo ed io in pratica so come nasce l’uomo. Dirò che anche su questo lato l’umanità non ha avuto bisogno degli insegnamenti della Chiesa; perché nella pratica ha saputo apprendere molto facilmente come si può procreare. Ma questo significa che, se noi esaminiamo il fenomeno della nascita dell’uomo e il fenomeno così apparente lo trasportiamo nel laboratorio e analizziamo quali siano i costituenti della cellula maschile e della cellula femminile, – io sono costretto ad usare dei termini parlamentari e non scientifici, perché non vorrei che voi mi opponeste che questi non sono termini parlamentari…
PIGNEDOLI. Parli pure in termini scientifici; tanto, non si preoccupi, la comprendiamo lo stesso.
GIUA. …noi troviamo appunto l’origine di quei caratteri acquisiti che voi avete sempre negato in determinate sostanze chimicamente definite, i cromosomi. Ora potrebbe darsi benissimo che voi, applicando l’articolo 7 e prendendo in esame questo insegnamento, ad un certo momento potreste anche legiferare che tutti i principî della genetica sono contrarî, come sono contrarî i principî darwiniani, ai principî della Chiesa e che, quindi, la genetica non deve essere insegnata, non deve essere neanche sviluppata… sperimentalmente. (Interruzioni – Commenti).
Ma io vorrei fare anche un altro ragionamento a proposito del divorzio. Popoli anche cattolici ammettono il divorzio, ed io credo che questi popoli lo abbiano ammesso appunto per moralizzare il matrimonio e questo è proprio in contrasto con quello che voi affermate. Voi affermate che il divorzio significa la rottura, lo schianto dell’istituto familiare. Noi diciamo invece che il divorzio se non è la saldezza non significa incrinare affatto la saldezza dell’istituto familiare, ma anzi moralizza questo istituto. Se voi affermate che l’unione matrimoniale è fondata sul consenso e sull’affetto dei coniugi, voi non potete imporre ai coniugi che si mantengano ancora uniti in matrimonio quando questo affetto venga a mancare, e se voi imponete a due coniugi che rimangano uniti quando l’affetto viene a mancare, voi imponete a questi coniugi un atto contrario ai principî della morale. Ed è per questo che anche dal punto di vista pratico e soprattutto dal punto di vista morale si può e si deve difendere il divorzio, perché qualora non sia ammesso il divorzio dilaga l’adulterio e aumenta la prostituzione e si diffondono tutti gli altri fenomeni negatici che sono intimamente legati al matrimonio. (Interruzioni).
A proposito dell’articolo 25, secondo periodo, che dice: «Nei casi di provata incapacità morale, ecc.», in sede di Sottocommissione io avevo proposto una formulazione alquanto diversa, cioè: «Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di dare un’educazione civile ai figli, è compito dello Stato di provvedere con istituzioni appropriate. Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà dei cittadini».
E questo io avevo proposto pensando appunto che lo Stato dovrebbe mantenersi agnostico nell’educazione dei cittadini, e che le famiglie che vengano a perdere i genitori, sia dal punto di vista materiale che dal punto di vista morale, debbano essere aiutate dallo Stato secondo i principî della vera laicità, che pongono lo Stato in posizione di agnosticismo.
L’articolo 26 nel secondo comma fa divieto alle pratiche sanitarie lesive della dignità umana. E questo è in relazione con la vostra concezione, ed è in relazione anche con una concezione che ha trovato pieno sviluppo negli Stati autoritari, il fascista in Italia, il nazista in Germania, circa le pratiche abortive.
Io non difendo le pratiche abortive. Però vorrei chiedere ai formulatori di quest’articolo se mi sanno indicare delle pratiche sanitarie che non siano lesive della dignità umana. Vi sono degli interventi del medico, e sopra tutto del chirurgo – e nei procurati aborti si tratta di intervento chirurgico – che sono lesivi della dignità umana.
Ma vi è una ragione di stabilire proprio nella Carta costituzionale una simile norma senza accennare esplicitamente che si vogliono vietare le pratiche abortive? (Interruzioni).
Vi possono essere interventi medici anche non autorizzati dalla legge, ma dalla professione stessa, dalla missione del medico. E non mi si opponga che molte volte i professionisti esagerano, che molte volte non si attengono alla morale. Quando il medico compie con coscienza la sua missione può ritenere necessario l’intervento chirurgico per procurare l’aborto. Ora, se la Carta costituzionale vietando le pratiche lesive della dignità umana rendesse illegale l’intervento del chirurgo nel caso dell’aborto, la missione del medico diventerebbe più difficile, e probabilmente invece di stabilire nella Carta costituzionale un principio a sostegno della salute del popolo, noi stabiliremmo un principio che con la salute del popolo sarebbe in contrasto.
Da un punto di vista razionale – non c’entra il sentimento religioso, non c’entra la chiesa, onorevole Merlin – io trovo ingiustificata l’inserzione nella Carta costituzionale di una norma come quella formulata nel secondo comma dell’articolo 26.
Da notare anche che, se lo sviluppo della genetica ci permetterà, dal punto di vista chimico, di stabilire quali sono le sostanze, che influiscono su determinati caratteri – e questo non è da escludere – non bisogna impedire, per il bene dell’umanità, anche per combattere determinate malattie, questi interventi sanitari.
Invece, in base alla formulazione del progetto, noi vieteremo l’intervento del medico per il miglioramento dell’organismo e della razza.
Qui si tratta di applicazione dei trovati scientifici.
I razzisti usavano della scienza e della tecnica, dopo che esse erano state prostituite.
Si tratta di applicare, per lo sviluppo della civiltà, i principî della scienza e della tecnica, che devono essere applicati, perché progresso significa applicazione e sviluppo di questi principî.
Qualsiasi divieto si faccia per l’applicazione delle scienze è un divieto che si pone al progresso; è un arresto alla civiltà.
CORSANEGO. Siccome facevo parte della Sottocommissione, che ha redatto l’articolo, faccio presente che, quando si è formulata la dizione «sono vietate le pratiche sanitarie lesive della dignità umana» si pensava soprattutto a quelle orrende pratiche di sterilizzazione obbligatoria, che la Germania ha imposto particolarmente agli ebrei e che noi volevamo proibire per sempre nel nostro Paese come una mostruosità.
GIUA. Non vi è bisogno di stabilire nella Costituzione un principio del genere; può provvedere la legge a vietare qualsiasi pratica lesiva della dignità umana.
Per quanto riguarda la scuola, io ho già espresso il mio parere, in sede di discussione delle dichiarazioni del Governo.
Poiché l’onorevole Bernini ha proposto degli emendamenti alle articolazioni sulla scuola, io non entro nel merito.
Dirò senz’altro che nella terza Sottocommissione, quale relatore, avevo dato formulazione alquanto diversa agli articoli 27 e 28; formulazione che, secondo me, introduceva nella vita scolastica italiana un principio nuovo.
Facevo un’affermazione, che può sembrare generica (ed i componenti la Commissione hanno ritenuto che affermazioni generiche nella Costituzione non si debbono fare, mentre abbiamo visto che per la famiglia si è fatta l’affermazione dogmatica «che la famiglia è una società naturale»).
Nella mia formulazione dicevo:
«L’istruzione è un bene sociale.
«Lo Stato organizza l’istruzione di qualsiasi grado, in modo che tutti i capaci possano usufruire di essa.
«L’insegnamento elementare è obbligatorio per tutti.
«La frequenza delle scuole di grado superiore è permessa ai soli capaci».
Ci si riferisce inoltre alla possibilità di frequentare i corsi superiori, alla concessione di borse di studio, ecc.
Ora, il concetto nuovo su cui io ho insistito è questo: che nelle scuole di grado superiore dovessero solamente entrare i veri capaci, mentre nella formulazione della Carta costituzionale noi non troviamo affermato questo principio. Si dice solamente che «i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti dell’istruzione».
Tutti i codici, anche quelli che hanno preceduto questa Carta costituzionale, non hanno mai fatto divieto ai capaci e ai meritevoli di frequentare le scuole superiori.
Sappiamo solamente che le condizioni economiche hanno impedito a molti capaci e a molti meritevoli di frequentare le scuole superiori.
A questo, punto io mi riservo, se non vi ha pensato il collega Bernini, di proporre un emendamento, perché qui si tratta di un argomento fondamentale. E permettetemi, onorevoli colleghi della Democrazia cristiana, che io, nel terminare queste mie brevi considerazioni mi rivolga a voi per dirvi che nello stabilire questa Carta costituzionale, dopo l’articolo 7, nella formulazione di questi articoli voi volete dare al popolo italiano una Carta costituzionale che assicuri il suo avvenire e sollevate un velo nella storia dell’avvenire; però nel sollevare questo velo non fate altro che introdurre dei principî che sono all’occaso della storia. Quando, invece noi socialisti solleviamo questo velo, noi vediamo qual è l’avvenire del popolo italiano; onorevoli colleghi, questo avvenire per noi ha un solo nome: socialismo! (Applausi a sinistra – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Tumminelli. Ne ha facoltà.
TUMMINELLI. Onorevoli colleghi, sulla soglia del Titolo II del progetto di Costituzione, conviene una breve sosta per domandarci dove andiamo, cosa vogliamo, donde veniamo; e se siamo nella verità o nell’errore.
La mia perplessità in proposito si è fatta ansia dopo l’approvazione del comma IV dell’articolo 16 del Titolo I, che toglie ogni vitalità alla libertà di stampa.
Il compromesso appalesatosi evidente negli articoli riguardanti le disposizioni generali e i rapporti civili si fa ancor più vivo, e direi quasi minaccioso nel complesso degli articoli e in ciascun articolo dei rapporti etico-sociali.
Io mi sono domandato, e pongo la domanda all’Assemblea Costituente, se non lavoriamo per l’equivoco, avendo perduto di vista la verità, per miopia o per imperdonabile colpevolezza. La domanda rivolgo in modo particolare ai banchi della Democrazia cristiana su cui grava la maggiore responsabilità storica del nuovo statuto che stiamo elaborando.
L’onorevole La Pira, nel suo esame delle crisi costituzionali, ha avanzato l’ipotesi che se costruiamo una casa sbagliata, domani potrà essere intentata «un’azione di indennizzo contro di noi». Egli concludeva: «…saremo, allora in paradiso, sarà, insomma quello che sarà».
Ebbene, onorevole La Pira, proprio a lei che ha portato all’Assemblea il pensiero e l’approvazione di massima del suo Partito al progetto di Costituzione proposto dai 75, io dico, senza tema di sbagliare, che il processo di indennizzo è già in corso e chi pagherà i danni sarà proprio la Democrazia cristiana che, nel compromesso con le sinistre, non ha saputo o voluto difendere la «terza via» che ella ha indicato quale «nuova, integrale, pluralista».
Il collega democristiano ha posto in accusa i principî del 1789 che ispirarono la prima Costituzione francese, perché contemplarono solo i diritti dell’uomo e ignorarono i diritti sociali; ha posto in accusa i principî hegeliani statalisti, accettati dal fascismo e dal nazismo, ha infine difeso il pluralismo che ispirerebbe «tutte le correnti più vive del pensiero sociale contemporaneo sia cattolico che socialista», e costituirebbe il fondo dottrinario della Costituzione che abbiamo all’esame; soffermandosi soprattutto alla corrente che si ispira al pensiero proudhoniano.
Pensiero cattolico e pensiero socialista camminerebbero dunque nello stesso alveo spirituale e sociale pluralista e si sarebbero accordati sul terreno pluralista, nella ispirazione proudhoniana, evitando così e sanando il pericolo dell’individualismo del Contratto sociale che sarebbe la causa di tutti i mali derivati alla società liberale-borghese, dai principî roussoviani; evitando altresì lo statalismo del diritto tedesco d’ispirazione hegeliana, fatto proprio dal fascismo e dal nazismo e pervenendo, nell’attuale progetto, alla nuzialità tra i diritti dell’uomo della Costituzione francese dalla quale quella Albertina trasse ispirazione e suggerimento, e dei diritti sociali collegati alla persona umana, «non in quanto singolo, ma in quanto membro» delle «collettività crescenti che vanno dalla famiglia allo Stato».
La casa ideale nel pensiero democristiano avrebbe quindi, come base l’uomo e l’umano, l’uomo come valore gerarchico eccelso, in ascesa, per gradi di valore, fino all’unione con Dio.
Le pareti della casa, le articolazioni sociali, il tetto della casa, il corpo giuridico, proporzionato e conforme alla base e ai muri della fabbrica. Una costruzione pluralista bilanciata nelle parti e nel tutto, dalla legge della proporzionalità. Dopo l’affascinante descrizione di quella casa che avremmo dovuto e dovremmo trovare nel progetto sottoposto all’Assemblea dei rappresentanti del popolo italiano, legittimamente dovremmo pensare:
1°) che l’accordo tra programma spirituale, morale e sociale, socialista e democristiano è perfetto;
2°) che non esiste un compromesso deteriore e perciò ha ragione l’onorevole Togliatti di definire il compromesso nella interpretazione etimologica di promettere assieme e costruire assieme; in altri termini di collaborare ad un fine unico;
3°) che la Carta costituzionale elaborata dalla diarchia democristiana-socialcomunista è realmente la risultante dal travaglio storico-sociale del nostro tempo, la «terza via» della nuova società italiana alla quale stiamo preparando le direttive.
Se così fosse, noi dell’opposizione, liberali e qualunquisti, secondo l’indagine dello studioso democristiano, risulteremmo esclusi dalla partecipazione attiva a correnti vive del pensiero sociale che sarebbe privilegio noumenico dei socialisti e dei cattolici; storicamente avremmo il triste destino di rappresentare le forze della reazione, della cecità sociale e spirituale.
Saremmo i sopravvissuti dell’individualismo roussoviano e dello statalismo hegeliano; il passato ingombrante che occorre spazzare per far largo al mondo nuovo dell’attivismo socialista, democristiano, pluralista!
È probabile che essendoci dichiarati cattolici, noi qualunquisti, potremmo salvarci dall’inesorabile giudizio – sorprendente per uno storico di problemi spirituali – anche perché come movimento e come partito la nostra giovinezza dovrebbe porci storicamente all’avanguardia delle correnti vive sociali e non alla retroguardia in fuga nella apocalittica Roncisvalle del capitalismo liberale-borghese, incalzato dalle schiere rosse e crociate dei nuovi evangelisti.
La sola critica che da parte democristiana si ammette al progetto di Costituzione è nella disposizione delle pietre che sono servite alla costruzione dei muri della casa, nella scelta dei mattoni della volta, o nell’avere adoperato marmo di Carrara piuttosto che travertino per la base. Le conclusioni della difesa al progetto confluiscono alla perorazione là dove il compromesso ha lasciato qualche dubbio sul perfetto accordo: l’inserimento dei Patti lateranensi, il riconoscimento degli organi economici come manifestazioni della dinamica pluralista che sarebbe la malta dell’edificio.
Il discorso, nel suo complesso strutturale non fa una grinza; la teoretica trascendentale è perfetta e noi potremmo accettarla facendo eccezione alle cause delle crisi costituzionali, là dove si fanno risalire all’individualismo roussoviano. Rousseau combatté la sua battaglia per la causa dei diritti dell’uomo, perché quella e non altra era l’esigenza della società borghese che fece la rivoluzione. I diritti sociali maturarono in seguito, in seno alla società liberale-borghese e sono pervenuti ad esigenza ed attualità soltanto ora, nella nostra età contemporanea.
Le cause peraltro sono assai più vaste e più profonde. Dove la lezione democristiana cade è quando dalla teoretica passa alla morale pratica. Non già perché noi qualunquisti non riconosciamo la inevitabile lacuna del contratto sociale che ha ispirato la Costituzione espressa dalla rivoluzione francese, e neppure per la condanna allo statalismo hegeliano dei paesi totalitari, che noi siamo qui e ovunque a combattere; e neppure infine, la concezione pluralista di ispirazione proudhoniana.
La lezione e la difesa cadono perché la morale pratica di quella teoretica, è reticente, equivoca e contrastante nettamente alla dottrina; soprattutto, perché la Costituzione che è proposta all’Assemblea, partorita dal compromesso della triarchia, non realizza un edificio pluralista che abbia per base l’uomo, per muri maestri il corpo sociale, per volta il corpo giuridico delle due membra, nell’imperio ortodosso della proporzionalità.
Onorevoli colleghi, l’equivoco risiede in questa sproporzione. Il compromesso è deteriore, perché il pluralismo della lezione democristiana non riesce a nascondere l’insidia. Noi ci troviamo di fronte ad un malizioso e fraudolento Gerione che trascina sul suo dorso pennellato di colori smaglianti il Paese, nelle malebolge di una Costituzione statalista hegeliana. Essa potrebbe essere benissimo la Costituzione della repubblica di Salò e del manifesto di Verona.
Si ha un bel combattere il corporativismo, se nelle intenzioni del filosofo relatore della Democrazia cristiana si meditava di trasferirlo nella seconda Camera in sede di proposte al progetto.
Si respinge il corporativismo perché dà fastidio, e si proponeva puramente e semplicemente che la seconda Camera, il Senato, fosse possedimento della classe lavoratrice, con la giustificazione che, data l’esistenza delle organizzazioni di classe «da cui trae forza tutta la classe lavoratrice», dovrebbe esserci una ripercussione di esse nella composizione della seconda Camera; con la conclusione che «è il mondo operaio, è la classe lavoratrice che accede organicamente al potere».
L’onorevole Togliatti e l’onorevole Di Vittorio hanno trovato in campo democristiano il dottrinario mistico dell’attivismo democratico-socialista per la scalata al potere e la restaurazione dello statalismo, non più fascista, ma democristiano, o social-comunista.
Orbene io penso che tutto ciò non sia vero, che non può essere vero, e che la Democrazia cristiana, principale responsabile della nuova Costituzione e del dramma nazionale, sia fuori del suo vero programma, dell’interesse della civiltà e della verità storica, per le stesse ragioni di equivoco e di debolezza che hanno portato a regime quasi fallimentare il suo governo di compromesso.
Onorevoli colleghi, la verità è che noi prepariamo una strana Costituzione che non risponde alle esigenze della società nuova che, alla confluenza di due età ancora confuse, la vecchia e la nuova, va sempre più prendendo contorni e configurazioni promettenti.
Noi stiamo costruendo una casa, non già poggiata sulla persona umana: ma sull’equivoco delle elezioni del 2 giugno, che espressero una verità esasperata ma contingente, perciò imperfetta, che ora si è chiarita e evoluta.
Noi costruiamo una casa con artefici principali i partiti che non hanno più il consenso maggioritario del popolo italiano.
Noi, liberali progrediti del fronte liberal democratico dell’Uomo Qualunque, crediamo fermamente che il nuovo cammino della civiltà che avanza si fonda sulla libertà dell’uomo; noi pensiamo e vogliamo che gli organismi sociali che debbono costituire i muri maestri della Carta costituzionale, debbano essere coordinati e proporzionati all’uomo e all’umano della base, come articolazioni naturali e logiche che mai possano rendere affannoso il respiro dell’uomo che li crea, come sua civile ed economica esigenza.
Noi pensiamo e crediamo che la persona umana è veramente quod est perfectissimum in tota natura, come afferma l’Aquinate, e non può essere annullata dal corpo sociale e dal corpo giuridico, che da essa discendono e per essa sono stati creati. La definizione del grande Santo e pensatore cristiano è veramente indicativa di una gerarchia di valori secondo la quale la persona umana è costruita. Una gerarchia piramidale con un’asse che, muovendo dalla base vegetativa, va oltre il vertice, fino all’unione con Dio. Nella persona umana è predilezione noumenica e perciò è libero arbitrio e libertà.
Se i muri dell’edificio non tengono conto di questa realtà naturale e di questa verità divina, l’edificio crollerà presto, per dissociazione tra la base e il corpo, i muri e il tetto. Noi vogliamo un solo limite alla libertà dell’uomo, le leggi che garantiscano quella libertà dell’uomo, le leggi che garantiscano quella libertà e quei diritti, compresi quelli sociali, collegati e diramanti dalla persona umana, proprio in quanto e in funzione di membro delle collettività nascenti che vanno dalla famiglia allo Stato; ma senza diminuire, o annullare addirittura, per amore delle creature, la persona umana che quelle collettività vuole e crea per accrescersi e avvalorarsi. Noi pensiamo che la società di tutto il mondo civile – e non soltanto quella italiana circoscritta tra le malvietate Alpi e il mare, dal diktat dell’ingiusta pace – stia attraversando la crisi fatale del secondo millennio di Cristo e stia già superando il processo evolutivo della terza arcata della civiltà rinascimentale che proclamerà il diritto nuovo del lavoro; ma non già nei lineamenti di una Carta statutaria in cui siano curiosamente confuse una filosofia spiritualista e una dottrina materialista, per amore di convenienza, per tattica temporeggiatrice, per libido di potere; non già per perpetuare la classe e il proletariato; ma per cancellare la classe e sproletarizzare il lavoratore, associandolo all’impresa, in una formula che lo elevi al risparmio e lo faccia partecipe del capitale, potenziando, nel fatto associativo e per esso, ad un tempo, l’impresa e la produzione, e pervenendo ad un maggiore pacifico godimento di beni.
Questa è la risultanza diagonale della civiltà che avanza, la terza via, proprio in quella concezione pluralista, inutilmente invocata dalla Democrazia cristiana nel compromesso statutario. Su questa terza via già si incamminano, nella schiarita antelucana della nuova età, gli uomini nuovi, rifuggendo gli inutili, dannosi e innaturali compromessi che mai potranno arrestare il corso fatale della evoluzione che solo si realizza «entro lo stato di natura e non fuori di esso». (Vico). La nostra civiltà fonda ancora sulle libertà rinascimentali che ci hanno donato il Settecento delle ricerche seicentistiche, i diritti dell’uomo del 1789, e la società liberale borghese dell’Ottocento. Ora noi siamo nella fase evolutiva di quel rinascimento e siamo ansiosi ed anelanti di formule nuove e di diritti nuovi. Le grandi guerre hanno affrettato il maturarsi della crisi, logica e naturale. E tutti lavoriamo a risolverla, dalla sinistra, dalla destra, dal centro. Muoviamo da parti opposte per giungere alla verità nuova che nascerà dal contrasto; ma se voi uccidete la libertà nella Carta statutaria che siamo chiamati a compilare, voi vi renderete responsabili, di fronte alla storia, di lesa civiltà, senza tuttavia potere impedire il cammino fatale al progresso, in cui ogni nuova fase di civiltà si realizza.
Noi ci proclamiamo cattolici per eredità di fede e perché non è concepibile una civiltà moderna fuori della fede e fuori dello spirito della verità cristiana. Il vostro cattolicesimo è fideismo che dal cuore sale alla mente, talvolta offuscandola; il nostro dalla mente scende al cuore. Voi vivete di eredità e vi inaridite in un formalismo che mira a secolarizzare ancor più la Chiesa; noi esaltiamo la Chiesa nei suoi valori perenni, quale fonte di civiltà, facendoci libera milizia di essa per creare un suo tempio in ogni cuore di uomo.
La battaglia che il mondo combatte è per lo spirito o contro lo spirito, per Cristo o contro Cristo.
E per questo noi non comprendiamo la vostra tattica e la vostra strategia nella compilazione della Carta costituzionale.
Questo io volevo dire prima di passare all’esame del II titolo che farò del resto rapidamente. Io ho voluto portare all’Assemblea questa preoccupazione e questa perplessità di uomo civile, al di sopra dei partiti e delle vostre e nostre meschine passioni. Io volevo comunicare questo mio pensiero a voi dei banchi di centro e anche a voi dei banchi di sinistra, perché io non credo che in ciascuno di voi manchi il segno elettivo della buona volontà.
Perciò io chiudo questa prima parte del mio discorso invitandovi a meditare, ad ascoltare voi stessi, a tendere l’orecchio alla voce che ci viene dal di dentro, onde trovare la via giusta e non compromettere l’esperienza di tre millenni di civiltà e di due millenni di cristianesimo.
L’umanità è ammalata di disordine mentale che si appalesa in tutti i campi. Una delle cause delle malattie è il dilettantismo delle opinioni, altra la corsa affannosa dietro il successo, comunque venga e si ottenga, dietro la dea-cagna, come dicono gli inglesi. Altre sono la crisi del capitale che ha condotto all’anticapitalismo; l’anticapitalismo che ha condotto al socialismo e al collettivismo. Altra ancora, la crisi della democrazia che ha condotto al totalitarismo. Noi dobbiamo uscire da codesto cerchio mortifero e in questa direzione noi qualunquisti combattiamo. Coerentemente alla lezione e alla difesa del progetto di Costituzione, da parte democristiana, riferendoci al titolo «rapporti etico-sociali», noi ci saremmo aspettati le premesse ad un ordinamento nuovo che non ripetesse la concezione statalista della legge Casati che sta ancora a fondamento della legislazione scolastica italiana.
Allora, mentre l’ispirazione dello Statuto albertino venne dalla Francia, l’ordinamento scolastico derivò dalla Germania che esercitava un reale dominio culturale in quasi tutta l’Europa. La scuola italiana, prima del fascismo, fu statolatra e il contenuto di essa ispirato al risorgimento nazionale.
Quella carta scolastica pose la scuola ben lontana dal liberalismo e dagli ordinamenti scolastici in vigore in Inghilterra, madre dell’idea liberale, nel Belgio e nella vicina Svizzera, che avrebbero dovuto darci i modelli archetipi della nuova scuola della rinascente nazione italiana.
Negli articoli relativi ai rapporti etico-sociali ci saremmo aspettati soprattutto che venisse ripudiato il vincolismo culturale della carta scolastica del fascismo, che rafforzava il principio statalista, nello spirito del sapere e nella scienza, e vincolava la gioventù nei segni del littorio. Nient’affatto!
Il titolo dei rapporti etico-sociali ci porta di peso sul disegno, non più larvato, dell’orientamento vincolistico e statalistico della Carta costituzionale in elaborazione.
«La Repubblica assume la tutela della famiglia per l’adempimento della sua missione e per la saldezza morale e la prosperità della Nazione».
Lo Stato dunque entra nel sacrario della famiglia, dichiarata società naturale e perciò originaria autonoma.
In base a questo articolo il bambino è colto ancora nel grembo materno, poi al primo affacciarsi alla conoscenza del mondo circostante, la famiglia virtualmente l’ha in custodia, nella vigilanza e sotto la tutela dello Stato. La famiglia è una vigilata speciale della Repubblica, nella sua stessa formazione naturale che ha per fine la continuità.
Quando il bambino cresce, la Repubblica provvede a proteggerlo «favorendo e istituendo gli organi necessari a tale scopo», il che vuol dire una nuova G.I.L. con i figli della lupa, gli avanguardisti, ecc.
Gli organismi sono già pronti: il fronte della gioventù da parte rossa, i boy-scouts da parte democristiana. Educazione spartana! Licurgo ed Hegel si danno la mano, per la prosperità della nazione e l’annullamento della persona umana, per il conformismo spirituale e mentale, nelle finalità del nuovo stato etico!
Tutto questo per combattere l’individualismo di Rousseau? Per favorire la libertà della persona umana? Per realizzare la res publica christianorum che fa sì che totus mundus est quasi unica res publica, in omaggio agli articoli terzo e quarto?
«L’arte e la scienza sono libere».
E chi potrebbe opporvisi? Sono le manifestazioni dell’arte e della scienza che debbono essere dichiarate libere e rese libere. L’arte e la scienza sono, in sé prese, astrazioni che si concretizzano nelle manifestazioni e nelle creazioni.
E perché non viene dichiarato libero il pensiero? Al pensiero il bavaglio dell’appuntato di polizia che sta in agguato al 4° comma dell’articolo 16!
«La Repubblica assicura alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa ed al suo sviluppo».
Il bambino, il giovinetto, l’uomo, la famiglia; tutto entra nella tutela della Repubblica che annulla ogni iniziativa e assorbisce la personalità individuale, nei tentacoli mastodontici e macchinosi di uno Stato che penetra ovunque, che provvede a tutto, che detta le norme generale sull’istruzione, che assicura assegni alle famiglie ed altre provvidenze.
Una educazione vincolata, una scuola vincolata, una cultura vincolata, manifestazioni dell’arte e della scienza nei confini dei disegni dello statalismo. Il pensiero e l’uomo sono spiati e vigilati. È questa la casa sociale dell’uomo? Sono questi i muri maestri scavati sulla dura pietra della sacra persona dell’uomo, creatura eccelsa per predilezione di Dio? È questa la volta del corpo giuridico della casa civile dell’uomo? No, onorevoli colleghi, questa non è la casa per fratelli, non è la casa per uomini che cooperano per uno stesso fine che è lo sviluppo della personalità umana, sino ai vertici della sua vita religiosa.
Qui manca l’essenziale: libertà e amore. E Iddio non può benedire questa casa senza amore e contro natura. (Applausi a destra).
PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alle 16.
Interrogazione con richiesta di urgenza.
PRESIDENTE. L’onorevole Tonello ha presentato la seguente interrogazione con richiesta di urgenza: «Al Ministro della pubblica istruzione, per sapere se intenda, per l’onore della scuola italiana, accogliere senza altre dilazioni le giuste rivendicazioni dei professori e dei maestri».
L’interrogazione dell’onorevole Tonello sarà abbinata alle altre sullo stesso argomento alle quali il Ministro risponderà nella seduta di domani mattina.
Interrogazioni.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.
MATTEI TERESA, Segretaria, legge:
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere quale sia stato nell’ultimo decennio il numero delle vedove munite di pensione civile o militare che siano passate a nuove nozze con conseguente perdita della pensione, ed in quale proporzione al totale; se, in relazione allo scarso numero delle vedove rimaritate ed alla sussistenza di un crescente numero di convivenze more uxorio, non si ravvisi la opportunità morale e sociale di abolire la norma relativa alla perdita della pensione in caso di nuove nozze, o quanta meno di conservare l’assegno per almeno la metà, essendo assolutamente inadeguato ed inoperante nel caso delle vedove di guerra la concessione di tre sole annualità.
«Bubbio».
«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri di grazia e giustizia e dell’agricoltura e foreste, per conoscere se non si ravvisi la improrogabile necessità di promuovere un provvedimento di amnistia per i reati annonari relativi alla denuncia ed al conferimento dei cereali all’ammasso, almeno nei casi di quantitativi di lieve entità destinati ai consumi familiari; e ciò in considerazione della opportunità di ridare tranquillità e fiducia ad una estesa categoria di produttori, di incrementare la produzione granaria e di eliminare lo stridente contrasto tra la tolleranza con cui in tante località e nella stessa capitale è di fatto ammessa la vendita di pane bianco e senza tessera in dipendenza di una larga e sistematica evasione di grano dall’ammasso, e la severità con cui sono perseguiti di contro i piccoli produttori per evasioni anche di lieve portata.
«Bubbio, Bellato».
«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro ad interim per l’Africa Italiana, per conoscere le ragioni che impediscono tuttora agli uffici del Ministero di procedere alla liquidazione degli arretrati spettanti ai militari ex prigionieri i quali, rientrati in gran parte malati da molti mesi, hanno assoluto bisogno di tale liquidazione.
«E per sapere, altresì, quali provvedimenti il Ministro intenda adottare per affrettare il disbrigo di dette pratiche. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Camangi».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sulle possibilità di elevare il contributo volontario per i giornalieri di campagna, al fine di metterli in condizioni di avere diritto alla pensione.
«Parecchie sono le pratiche che la previdenza sociale di Pavia respinge per insufficienza di contribuzione, e questi lavoratori hanno la facoltà di chiedere l’autorizzazione ai versamenti volontari, la quale ottenuta possono applicare:
se salariati una marca da lire 13,60 al mese;
se avventizi una marca da lire 3,30 ogni due settimane;
se donne giornaliere una marca da lire 3,30 ogni sei settimane.
«Poiché si tratta di lavoratori che hanno ormai superato il limite di età, e il versamento volontario ammonta spesse volte a qualche centinaio di lire, specialmente per le donne che hanno contribuzioni per monda e trapianto e taglio riso e vengono a raggiungere il diritto solo dopo parecchi anni (per versare lire 33 occorrono 60 settimane) e poiché tutte le marche degli altri settori produttivi sono state maggiorate da parecchio tempo, gli interroganti chiedono se non si ritiene opportuno promuovere sollecitamente un decreto che abbrevi la scadenza e ne elevi il taglio delle marche stesse, in attesa che la legislazione sociale sia riveduta.
«Lombardi Carlo, Farina».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere per quali motivi non è stato ancora provveduto alla nomina del dirigente dell’Istituto nazionale per l’assistenza malattie ai lavoratori, in sostituzione dell’onorevole Achille Grandi, deceduto da oltre cinque mesi.
«La nomina del Commissario per detto Istituto è quanto mai urgente, anche in considerazione che esso è sorto nel 1943 dalla fusione delle varie Mutue malattie dei diversi settori della produzione e che a tutt’oggi non ha ancora un regolamento, che ne disciplini organicamente il funzionamento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Puoti».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere i motivi per i quali ancora non è stata concessa l’approvazione del Ministero relativa alla modifica dello Statuto della Università di Pavia, che introduceva fra i corsi complementari della Facoltà di medicina e chirurgia l’insegnamento di ortopedia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Mastrojanni».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’agricoltura e foreste, dell’interno e delle finanze e tesoro, per sapere quali provvedimenti urgenti intendano adottare per alleviare le conseguenze dei gravissimi danni causati fra domenica 13 e lunedì 14 aprile nella Valle Peligna da una fortissima gelata, che totalmente ha distrutto il raccolto dei vigneti, dei frutteti e i campi di grano. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Castelli Avolio».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se gli consta che l’abitato di Monteodorisio (Chieti) è minacciato da una paurosa frana che, guadagnando terreno ogni giorno, dista soli 50 metri dalle prime case, ha fatto sprofondare in più punti le fondamenta del castello medievale ed ha provocata la distruzione preventiva di tutto il raccolto della zona da essa invasa; in caso affermativo, quali provvedimenti urgenti abbia adottato, o intenda prendere, per salvare il paese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Paolucci».
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno inscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.
La seduta termina alle 13.5.