Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 17 APRILE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

xciii.

SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 17 APRILE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Calamandrei                                                                                                   

Binni                                                                                                                 

Bosco Lucarelli                                                                                              

Cevolotto                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Sulla discussione generale del Titolo II della parte 1ᵃ è iscritto a parlare l’onorevole Calamandrei.

Ne ha facoltà.

CALAMANDREI. Onorevole signor Presidente, onorevoli colleghi, parlo sull’articolo 24, quello – per intenderci – della indissolubilità del matrimonio.

Questo articolo è – secondo me – uno degli esempi più tipici di quelle disposizioni, delle quali ho avuto occasione di parlare in sede di discussione generale, che sono o inutili o illusorie o anche contrarie alla verità. Per questo, coi colleghi del partito d’azione, abbiamo proposto per esso un emendamento radicale, consistente nella sua totale soppressione.

È un articolo che nasconde un nocciolo di ipocrisia.

Già anche nella prima parte, quello che dice non corrisponde a verità:

«Il matrimonio è basato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi».

«Morale» certamente; ma non è con una norma giuridica che questa uguaglianza morale può essere assicurata.

Ma, sotto l’aspetto giuridico, il nostro diritto vigente – che nessuno, per ora, che io sappia, vuole cambiare – non è basato sull’uguaglianza giuridica dei coniugi: perché il capo della famiglia è il marito, è lui che dà il cognome alla moglie ed ai figli, è lui che stabilisce il domicilio della famiglia, e la moglie è obbligata a seguire il marito, e non viceversa.

E questa disuguaglianza giuridica dei coniugi nella famiglia è una esigenza di quella unità della famiglia, di questa società, che, per poter vivere, ha bisogno di essere rappresentata e diretta da una sola persona.

Si potrebbe cambiare questo sistema: e stabilire che capo della famiglia sia la moglie, che essa dia il cognome ai figli e stabilisca il domicilio, e che il marito sia obbligato a seguire la moglie; e che ad essa spetti la patria potestà sui figli. Sarebbe un altro sistema.

Ma tra questi due sistemi bisogna scegliere: uno intermedio, che dia a tutt’e due i coniugi la assoluta parità giuridica, non esiste.

E per ora non mi pare che la scelta tradizionale, che è stata fatta nel nostro diritto, si abbia intenzione di cambiarla.

Quindi, l’articolo, in questa parte, non risponde a verità.

Senonché, in questo articolo, quello che conta non è questa prima proposizione; essa ha un carattere introduttivo, preparatorio.

Tutto l’articolo è stato fatto per poter ad un certo punto introdurvi dolcemente la indissolubilità del matrimonio. Non si poteva fare una disposizione secca, semplice, categorica, che dicesse soltanto: «il matrimonio è indissolubile»: sarebbe stata incauta ed irritante. È allora si è cercato di preparare il terreno, una specie di nido, direi, nel quale poi deporre questo piccolo uovo prezioso che è la indissolubilità del matrimonio. Questa è infatti l’anima o il nocciolo dell’articolo che qui occorre discutere.

Io non vi farò qui una discussione sul divorzio, a favore o contro. In un bel discorso, ieri, l’illustre collega Merlin diceva che discutere sul divorzio è, oggi, combattere contro i molini a vento. In realtà chi in questo lungo cammino delle discussioni sulla Costituzione – che è ancora così lontano dalla sua mèta – ci ha costretti ogni tanto, non voglio dire a perdere tempo, ma ad impiegare il nostro tempo nel combattere contro i mulini a vento, sono stati proprio gli amici democristiani, i quali si sono compiaciuti di introdurre nella prima parte della Costituzione una quantità di affermazioni di principio di carattere più o meno apertamente confessionale, sulle quali bisogna soffermarsi per giorni e settimane, prima di affrontare finalmente la parte pratica della Costituzione, quella che veramente conta, quella della costruzione dei meccanismi costituzionali, alla quale costruzione, ancora oggi, dopo dieci mesi di lavoro, non abbiamo neanche dato inizio.

Ma tuttavia, se pure si tratta di una battaglia contro i mulini a vento, l’invito a prenderci parte viene dai democristiani, e bisogna fare anche noi qualche sforzo, per non venir meno all’invito se non altro per una ragione di buona creanza.

Ma, vi ripeto, io non parlerò del divorzio.

Perché? Perché sul divorzio, pro o contro, è stato già detto tutto in ogni senso. Ricordo che quando ero studente a Pisa, ed è una cosa che risale a qualche semestre fa, un mio professore illustre, che era Carlo Francesco Gabba, aveva proibito a noi studenti di fare la tesi di laurea sul divorzio, perché diceva: questa è una materia su cui non c’è più alcun argomento da aggiungere, né a favore né contro.

La ragione profonda di questa affermazione è che la questione del divorzio non è una questione sulla quale gli antagonisti possano ragionare con argomenti di pura logica, che tendano a convincersi reciprocamente; il divorzio è una questione di religione, è una questione di fede, e mettersi a discutere intorno al divorzio qui sarebbe come se ci si dovesse mettere a discutere sulla esistenza di Dio o sulla immortalità dell’anima.

C’è un libro fondamentale in materia matrimoniale, che anche i miei colleghi democristiani certamente apprezzano: Il matrimonio nel diritto canonico di un professore dell’Università di Roma, che è il più eminente ecclesiasticista d’Italia, e che è un cattolico praticante, Arturo Carlo Jemolo; il quale ha una pagina in cui parla del divorzio, che meriterebbe di essere letta per intero, e di cui io vi leggerò soltanto alcune proposizioni nelle quali si mette in evidenza che l’indissolubilità del matrimonio dipende essenzialmente da una concezione sacramentale, la quale, quantunque non esplicitamente accolta, continua ad esercitare tutta la sua efficacia in seno alle legislazioni civili.

«Se ben badiamo al principio della indissolubilità, là dove le legislazioni civili la tengono ferma, gli argomenti, che si possono addurre sopra un terreno laicista, di interesse pubblico e di interesse della prole, porterebbero sicuramente a non consentire ai coniugi di disfare il vincolo di loro autorità, a rendere necessario da prima una regolamentazione rigorosa da parte del legislatore e, poi, un esame ancor più rigoroso da parte di appositi organi statali, per giudicare se lo scioglimento non contrasti con l’interesse pubblico e con quello della prole, ove questa esista; ma non porterebbe mai (ricordatevi che è un cattolico che parla) ad una esclusione assoluta dello scioglimento.

«Non si può in buona fede sostenere che, su un terreno puramente umano e se si astrae da argomenti che superino la ragione e attingano al dominio dell’ultraterreno, non si diano casi in cui e l’interesse pubblico e quello della prole sarebbero meglio salvaguardati dallo scioglimento che non dal mantenimento del vincolo». E continua Jemolo, fino a concludere così: «Nella reiezione del divorzio l’idea del valore arcano del matrimonio esercita ancora, se pur questo non sia chiaro al giurista laico, tutta la sua influenza».

Dunque, questione di religione, sulla quale io non voglio entrare. Ma io parlo dei fini terreni dell’articolo 24: perché i proponenti di questo articolo lo hanno redatto? Quale è lo scopo a cui essi mirano con questo articolo, se questo articolo verrà approvato? Ho sentito dire da qualcheduno dei colleghi e amici fautori di questo articolo che, in sostanza, questo è uno di quegli articoli della nostra Costituzione che si possono chiamare descrittivi. È un articolo il quale non fa altro che consacrare in una formula uno stato di fatto e una situazione storica che esiste già.

Essi dicono: «In Italia il matrimonio è indissolubile; è indissolubile il matrimonio che si celebra secondo il rito cattolico in base agli Accordi lateranensi e in base al diritto canonico; è indissolubile il matrimonio puramente civile, secondo il diritto civile. Quindi, se questo è, perché vi opponete a che questa realtà storica sia consacrata in un articolo in cui non si modifica la realtà, ma la si conferma e la si consacra?»

Allora, se questo è lo scopo per cui l’articolo 24 è inserito nella nostra Costituzione, io mi domando se è proprio vero che il matrimonio, quale è praticato in Italia, sia indissolubile; se questa affermazione che il matrimonio è indissolubile corrisponda alla realtà per tutti, in ogni caso; se questa indissolubilità vi sia per tutti, o soltanto per alcuni; c’è in certi casi sì, e in altri casi no. Questa è la breve indagine sulla quale vorrei intrattenere gli onorevoli colleghi di questa Assemblea.

Voi sapete che nel diritto matrimoniale attuale in Italia si hanno tre tipi di matrimonio: il matrimonio puramente civile, quello che si celebra dinanzi al sindaco, dinanzi all’ufficiale dello stato civile, e che è regolato dal Codice civile; il matrimonio cattolico concordatario, che è regolato dall’articolo 34 del Concordato e dalla legge matrimoniale 27 maggio 1929; il matrimonio dinanzi ai ministri dei culti ammessi, che è regolato dalla legge del 24 giugno 1929.

Questi tre tipi di matrimonio sono egualmente indissolubili. Il principio della indissolubilità, essenzialmente derivante da quella idea sacramentale che è propria del matrimonio cattolico, si è esteso anche agli altri due tipi di matrimonio: quello puramente civile e quello acattolico, ed è quindi comune, oggi, a tutte le forme di matrimonio vigenti in Italia. Peraltro, in tutti e tre questi tipi, il matrimonio, pur essendo indissolubile, è tuttavia annullabile. Che differenza c’è tra dissolubilità e annullabilità? Questa differenza, come sapete, è una differenza assai chiara, per ragioni istituzionali, ai giuristi, i quali hanno i loro schemi, le loro figure mentali, e vedono bene questa figura del matrimonio nullo o annullabile, diversa dallo schema del matrimonio valido ma risolvibile. In sostanza, la differenza fondamentale fra questi due concetti, detta così, in parole semplici e approssimative, è questa: che il matrimonio nullo o annullabile è un matrimonio, o qualcosa che di fuori appare un matrimonio, al quale nel momento in cui è stato celebrato, per un verso o per un altro, è venuto a mancare qualcuno di quegli elementi, di quei requisiti, di quelle condizioni che il diritto ritiene indispensabili perché possa sorgere un matrimonio valido. È un matrimonio che, anche se di fuori si presenta come regolare, in realtà è un organismo giuridico malato e, per questa malattia, condannato a morire, anche se per un certo periodo, che può durare anche qualche anno, questo matrimonio apparentemente vivrà come un matrimonio sano e valido, e che soltanto dopo qualche anno, quando si riveleranno quei vizi che il matrimonio portava con sé fin dal principio, ci si accorgerà che era soltanto una apparenza, un matrimonio putativo. I giuristi distinguono una quantità di gradazioni di questi vizi: parlano di vizi di inesistenza, di vizi che danno luogo a nullità, di quelli che dànno luogo ad annullabilità, ma, in ogni caso, matrimonio nullo o annullabile significa sempre quel matrimonio a cui manca qualcosa fin dal principio, fin dal momento della celebrazione, e nel quale se poi si arriverà a far dichiarare questa nullità iniziale, si vedrà che il motivo per cui il matrimonio viene a cadere risale al momento della celebrazione.

Quando invece si tratta di matrimonio risolubile, di scioglimento, di divorzio insomma, il concetto sotto l’aspetto giuridico è profondamente diverso. Qui il matrimonio nasce vivo, vitale, sano, robusto e va avanti per un periodo più o meno lungo; poi, ad un certo momento, interviene qualcosa per cui questo organismo giuridico, che era vivo e vitale, muore di morte violenta. Può accadere in certi diritti, che ammettono il divorzio, che il matrimonio sia basato soltanto sul consenso dei coniugi, perfettamente valido, è che poi, dopo un certo periodo, i coniugi si pentano di aver dato questo consenso, ritirino il consenso, ed il venir meno del consenso, come se si trattasse di un qualsiasi contratto, faccia sì che il rapporto matrimoniale finisca. Ma nel periodo in cui il contratto è stato vivo, questo contratto è stato perfettamente valido, ha avuto un periodo di vita perfettamente normale e fisiologico.

Senonché, illustri colleghi, questa distinzione che è assai facile e assai semplice nel campo del diritto e intorno alla quale, se io avessi voluto ragionare più esattamente con termini giuridici, che certamente vi avrebbero tediato, si potrebbero fare delle variazioni e precisazioni che potrebbero durare a lungo, questa distinzione, ripeto, se è facile a farsi nel campo giuridico, è difficile a farsi nel campo psicologico e sociologico; quando due coniugi, dopo un certo numero di anni di vita coniugale, arrivano a desiderare di liberarsi da questo vincolo, per una ragione o per un’altra, è per loro perfettamente indifferente che si dica che il matrimonio è dissolubile o annullabile, che il modo per liberarsene sia il divorzio o l’annullamento. Quello che conta per loro è che si trovi il modo giuridico per levar di mezzo questo vincolo, il modo giuridico per poter passare ad altre nozze attraverso la riconquistata libertà.

Ora, illustri colleghi, nonostante che in Italia si dica – e l’articolo 24 solennemente affermi – che il matrimonio è indissolubile, noi assistiamo in Italia a un fenomeno che dimostra il contrario. Qui chi vi parla non è un teorico del diritto, ma un pratico, un avvocato, il quale, pur non praticando questo genere di affari di cui ora vi parlerò, ha però esperienza del modo con cui questi affari si trattano. Questo avvocato vi dice che in Italia l’annullamento del matrimonio, il quale è ammesso e regolato tanto dal diritto civile, quanto dal diritto canonico, in realtà, nella pratica, assume una funzione vicaria di divorzio, di scioglimento matrimoniale. Nella pratica questo annullamento si è andato pian piano foggiando e adattando in modo di raggiungere occultamente e subdolamente quegli stessi fini che, se ci fosse il divorzio, verrebbero raggiunti chiaramente e legittimamente.

Quali sono i modi con cui l’annullamento – questo annullamento ammesso dal nostro diritto – in realtà in Italia funziona come divorzio, in modo che se si facesse una statistica dei casi, in cui in Italia si riesce ad ottenere l’annullamento del matrimonio, si vedrebbe che all’incirca questa statistica corrisponde a quei casi di scioglimento che si avrebbero se ci fosse apertamente il divorzio? (Commenti).

Quali sono questi sistemi nei quali si manifesta questa funzione vicaria dell’annullamento?

Cominciamo dal matrimonio puramente civile. Il matrimonio puramente civile, onorevoli colleghi, è annullabile per vari difetti, per varie mancanze, ma difficilmente si riesce ad annullarlo per vizio del consenso, perché nel matrimonio civile, quello celebrato davanti al sindaco, non c’è soltanto il consenso degli sposi, ma c’è l’intervento dell’organo pubblico, dell’ufficiale di stato civile, che col suo intervento dà al matrimonio un carattere di negozio complesso di diritto pubblico, per cui i motivi o le riserve o la simulazione che possano avere inquinato il consenso degli sposi, rimangono sanati da questa presenza dell’ufficiale di stato civile. Quindi la pratica non ha lavorato nel senso di cercare di allargare i casi di annullamento del matrimonio civile per difetto di consenso; il terreno su cui invece ha operato la pratica è stato quello dell’annullamento per impotentia coeundi. Se voi andate a vedere i repertori di giurisprudenza, e specialmente di quelle riviste di giurisprudenza che sono dedicate al diritto matrimoniale, vedrete che da venti o da venticinque anni si è introdotto nella giurisprudenza italiana un andazzo, da principio timido, di qualche sentenza sporadica, poi pian piano sempre più diffuso nei vari tribunali e Corti, che ha introdotto, su principî fondamentalmente esatti, ma con una diffusione patologica che va assai al di là dei principî, il concetto che quella impotentia coeundi che può portare all’annullamento del matrimonio, non è soltanto la impotenza assoluta, l’impotenza del coniuge che sarebbe impotente qualunque fosse la persona dell’altro sesso con cui tentasse di avere dei rapporti sessuali, ma può essere l’impotenza anche relativa, cioè un’impotenza che si verifica soltanto nei confronti di quella determinata persona, in modo che solo questa coppia si trova di fronte agli inconvenienti di questa impotenza che è una specie di incompatibilità sessuale reciproca. Se questa coppia si scinde, e ciascuno dei coniugi va per conto suo, dell’impotenza relativa non c’è più traccia, e ciascuno recupera la pienezza delle proprie facoltà per un altro connubio.

Questa impotenza relativa, che voi trovate consacrata nella giurisprudenza, si è andata sempre più raffinando e sempre più diffondendo nella pratica, soprattutto quando si è ammesso che si debba considerare come impotenza relativa anche il fatto della moglie che nel compimento di certe funzioni prova un disgusto, un dolore, un sacrificio tale che… povera signora, è meglio annullare il matrimonio. E questo può avvenire anche quando ci siano figli. La giurisprudenza è costante. Due o tre figli: due o tre sacrifici, due o tre crisi di dolore che hanno dato luogo a queste nascite. Ma insomma, dicono i giudici, il matrimonio non è concepibile con questi dolori: e quando esso porta con sé questi dolori, è meglio annullarlo.

Ora, voi capite, onorevoli colleghi, che cosa significhi questa giurisprudenza; si tratta di indagare elementi che possono essere ricostruiti soltanto attraverso le dichiarazioni dei soggetti di questo rapporto. E così questo annullamento, che teoricamente dovrebbe risalire ad una condizione che c’era già in potenza al momento del matrimonio, diventa in realtà un vero e proprio pentimento reciproco, in cui i coniugi, dopo dieci, quindici, venti anni, quando non si piacciono più, quando non si desiderano più, si accorgono di questa reciproca incompatibilità fisica e, attraverso l’annullamento, cercano di farsi un’altra famiglia.

È uno dei sistemi, è uno dei surrogati, attraverso i quali l’annullamento serve in realtà da divorzio; ma di questi surrogati, nella pratica, ve ne sono una quantità: tutti lo sanno. Ieri, un valoroso collega diceva che in America, mi pare, si legge sui giornali che esistono agenzie di divorzio. In Italia, questo non si legge sui giornali; ma in realtà queste agenzie ci sono, con la sola differenza che il divorzio si chiama annullamento. In America i coniugi diranno: «Noi vogliamo divorziare; abbiamo trovato un avvocato che ci farà divorziare». In Italia invece i coniugi di certe classi sociali dicono: «Abbiamo deciso di fare annullare il nostro matrimonio». Le parole cambiano; ma il fenomeno è il medesimo.

Un’altra forma di surrogato, qualche anno fa, era quella dei divorzi in Ungheria. In Ungheria d’era il divorzio ed era possibile ottenere con una certa facilità, da parte di uno dei coniugi italiani, la cittadinanza ungherese che si conseguiva con l’adozione. Ogni tanto infatti venivano in Italia certi avvocati ungheresi, preannunciandosi con circolari, con le quali avvertivano che il giorno tale sarebbero venuti in quella tale città, con il sistema che usano i rappresentanti di certe case commerciali, che vanno in giro in provincia ad applicare ai pazienti certi apparecchi ortopedici. Raccoglievano le domande dei coniugi sofferenti, trovavano in Ungheria il padre adottivo per uno dei due coniugi, facendo ottenere così la cittadinanza ungherese all’adottato; dopo di che era pronunciato il divorzio e quindi la delibazione in Italia.

Ricordo una volta di avere assistito – sono cose che possono far ridere, ma che in realtà fanno anche grande melanconia – ricordo una volta di avere assistito al fatto di due coniugi – il marito aveva settantadue anni e la moglie poco più di venti – che volevano fare divorzio. Arrivato un avvocato dall’Ungheria, si rivolsero a lui e l’avvocato disse: «In questo caso è assai difficile trovare un padre adottivo che abbia, come vuol la legge, venti anni più del figlio adottato, che ne ha settantadue. (Si ride). Tornerò in Ungheria e vedrò se mi sarà possibile riuscire a trovarlo…» Dopo qualche giorno infatti, mandò dall’Ungheria un telegramma così concepito: «Trovato padre». (Si ride). Ma nel frattempo i coniugi si erano pentiti e non volevano più divorziare; allora questo povero avvocato mandava ogni tanto telegrammi pressanti che dicevano: «Affrettatevi. Non garantisco vita padre». (Si ride).

Ma vi sono poi anche altri sistemi; c’è il sistema degli annullamenti in Isvizzera; c’è il sistema degli annullamenti a San Marino, che ora è di moda. E a San Marino, onorevoli colleghi democristiani, è in vigore il diritto canonico.

E parliamo ora dei surrogati del divorzio che esistono nel matrimonio fra cattolici. Qui il terreno su cui opera questa funzione vicaria dell’annullamento che serve da divorzio è il terreno del vizio di consenso; perché, nel matrimonio cattolico, il consenso è tutto; il sacerdote celebrante (non vorrei che l’amico Dossetti, che vedo prendere appunti, mi cogliesse in fallo: mi pare di dire cose esatte; ad ogni modo faccio fino da ora ammenda degli errori che potessi dire, perché Dossetti ne sa in materia tanto più di me e tanto mi può insegnare!), ma insomma mi pare di ricordare che, nel matrimonio cattolico, il sacerdote celebrante è semplicemente un testimonio che raccoglie la volontà degli sposi ed il matrimonio è semplicemente un contratto, ed allora, essendo un contratto, il quale non viene ricoperto e suggellato, come nel diritto civile, dall’intervento dell’ufficiale di stato civile, che dà a questo negozio il carattere di un negozio di diritto pubblico, qualunque vizio, qualunque riserva che vi sia nella volontà degli sposi, se questa volontà non è diretta al matrimonio, con tutti i requisiti essenziali, che il matrimonio deve avere per essere valido, porta all’annullamento del vincolo.

C’è un canone nel Codice di diritto canonico che dice che se le parti, al momento in cui si celebra il matrimonio, escludono positivo voluntatis actu, con un atto positivo di volontà, che però può anche non essere espresso, talune delle proprietà essenziali del matrimonio, il vincolo non sussiste e può essere dichiarato nullo.

Quando io vi dirò che le proprietà essenziali che il matrimonio deve avere per essere valido nel diritto canonico e che devono essere volute al momento della cerebrazione, attengono ad coniugalem actum, cioè alla intenzione reciproca di prestarsi ai rapporti sessuali, al bonum prolis cioè all’intenzione reciproca che il matrimonio sia prolifico, al bonum sacramenti, cioè all’intenzione che il matrimonio sia indissolubile, al bonum fidei, cioè all’intenzione di serbarsi reciprocamente la fedeltà coniugale; voi comprendete con quale facilità il matrimonio può essere annullato per il semplice fatto che uno degli sposi escluda anche tacitamente una di queste qualità. E quindi voi capite come il matrimonio cattolico si presti, o attraverso l’esclusione di aliquam qualitatem o attraverso una condizione de futuro contra matrimonii substantiam, si presti, quando gli sposi vogliono, ad essere annullato. Agli sposi è data la possibilità, se vogliono, di celebrare un matrimonio, il quale ha in sé la chiave, il mezzo per essere annullato il giorno in cui gli sposi si pentono di essersi sposati e decidono di fare risultare questa nullità, questa specie di nullità a scoppio ritardato, ché essi al momento del matrimonio hanno nascosto nel vincolo da essi contratto.

Così, può accadere purtroppo che in questo commercio di annullamento che si fa in certe zone, che non vorrei neanche chiamare professionali, può accadere che vi siano uffici di consulenza preventiva che insegnano agli sposi come si fa a contrarre un matrimonio che dia la certezza, quando si vorrà, di poter essere annullato, magari, addirittura, che insegnano agli sposi di consacrare in iscritto, davanti al notaio, con un atto che si mette in una cassaforte, il modo con cui poi, quando gli sposi non si vorranno più bene, si arriverà ad ottenere l’annullamento. (Commenti).

Io ho qui nel libro di Jemolo, in cui tutte queste cose sono esposte in forma serena da uno scienziato cattolico, verso il quale credo che anche voi abbiate quell’ossequio che merita, una quantità di esempi. Ma uno solo ne leggerò, scritto in nota 1 a pagina 215, che dice così:

«In una causa molto nota per la celebrità di una parte ed in cui fu ritenuta la nullità per condizione apposta di divorziare se l’esito delle nozze non fosse felice, depose la sposa così: «Non abbiamo celebrato il matrimonio con la volontà già decisa di farlo e poi divorziare, ché questo sarebbe stato ridicolo, ma con la riserva o l’intesa di ricorrere lealmente al divorzio se fosse stato necessario».

Questo risultò e questo portò in quel caso all’annullamento; a consimili annullamenti si arriva se risulta, per esempio, che gli sposi al momento del matrimonio si sono messi d’accordo per non avere figli o si sono messi d’accordo nel dire: ci saremo fedeli, finché ci vorremo bene; ma quando non ci vorremo bene più, ciascuno farà il suo comodo. Questo è un accordo che fa mancare il consenso vero che occorre per fare il matrimonio valido, e che dà la possibilità di annullare il matrimonio ed anche di preordinare l’annullamento; ma allora questo annullamento preordinato in realtà è un divorzio, perché non dipende da un elemento obiettivo, da una mancanza obiettiva che vi sia nel matrimonio al momento in cui sorge, ma dipende dal perdurare più o meno della volontà degli sposi, che dopo un certo numero di anni, quando questa volontà non c’è più, sono padroni di ottenere quello scioglimento che anche se si chiama annullamento, è in realtà un divorzio, quel divorzio che si dice non esistere nel diritto canonico.

Ma c’è di più nel diritto canonico, c’è il vero divorzio, cioè ci sono dei casi in cui un matrimonio perfettamente valido, che possiede tutti gli elementi del sacramento ed il vincolo è assoluto, senza vizi, successivamente può essere sciolto: è la dispensa, che è un fenomeno diverso dall’annullamento. Il Pontefice ha questo supremo potere di sciogliere in certi casi un matrimonio valido. È il caso della dispensa del matrimonio rato e non consumato.

MERLIN UMBERTO. E allora che matrimonio è?

CALAMANDREI. La consumazione nel diritto civile non è un elemento indispensabile per la celebrazione del matrimonio valido. Ma la differenza tra matrimonio civile e matrimonio religioso è questa: se due sposi vanno davanti al sindaco e dicono il fatale «sì» e si firma l’atto di matrimonio, poi escono dal municipio e uno degli sposi si pente di quel che ha detto un istante prima, non c’è più modo, una volta redatto l’atto di matrimonio, di tornare indietro; mentre se è stato celebrato il matrimonio col rito cattolico, lo sposo che si pente, purché si penta in tempo, purché si penta… entro la giornata, potrà dire: «Rato è, ma non l’ho consumato!» e potrà ottener la dispensa dal Pontefice. Si deve concludere dunque che il matrimonio civile è molto più resistente, molto meno annullabile, molto meno dissolubile del matrimonio canonico; anche perché c’è un’altra forma di dispensa… (Commenti Si ride).

Io non capisco perché ve la prendete, quando ricordo semplicemente nozioni elementari di diritto canonico, che tutti conoscono. Mi pare strano che ricordare queste nozioni istituzionali, vi faccia perdere la calma o vi faccia ridere.

MERLIN UMBERTO. Non fa neanche ridere. Ma sono eccezioni rarissime, quindi lei non può descriverle all’Assemblea come regola. (Commenti).

CALAMANDREI. Dicevo che vi è un altro caso di dispensa dal matrimonio rato e non consumato: il caso in cui uno degli sposi, prima della consumazione, e dopo che il matrimonio è stato celebrato, entri in un ordine religioso e faccia professione solenne, ovvero pronunzi i voti nella Compagnia di Gesù. Questo basta a far sì che il matrimonio rato, sebbene sia nato perfettamente valido e vitale, sia senz’altro sciolto.

MERLIN UMBERTO. Ci vuole il consenso di tutti e due i coniugi.

CALAMANDREI. Non è esatto. La dispensa si dà anche a richiesta di uno degli sposi, Onorevole Merlin, è inutile che noi intratteniamo l’Assemblea su questi particolari: ne riparleremo, se crede, fuori di quest’aula, e le farò leggere i testi canonici che dimostrano il suo errore.

Vi è poi il caso cosiddetto «dell’apostolo» ossia il privilegio Paolino. Qui non si ha il fenomeno patologico di un annullamento che serve in realtà al pentimento degli sposi, e quindi, in realtà, in funzione di divorzio; ma il caso di un matrimonio valido, nato vivo e vitale, che ad un certo momento, sia pure dopo ventiquattr’ore soltanto, ma spesso anche dopo molti anni, è condannato a morte da un atto di scioglimento che è un vero e proprio divorzio.

E allora, colleghi, se questo è vero, e credo che sia vero perché sono tutte cose che ho letto su libri scritti da professori di diritto canonico, noi torniamo a questo punto essenziale: è proprio vero che in Italia il matrimonio è indissolubile? quello che è scritto nell’articolo 24 è verità o è bugia?

Non è verità. È vero al contrario questo: che per tutti i tipi di matrimonio, sia quello puramente civile, sia quello canonico l’annullamento fa molte volte le veci del divorzio. I medici dicono che nell’organismo umano quando si toglie un organo la funzione di quell’organo può essere assunta in forma vicariante da un altro organo che assume una funzione necessaria perché l’organismo viva. Qualcosa di simile succede nella pratica matrimoniale. Il divorzio non c’è, ma si è trovato il modo di far servire l’annullamento allo scopo del divorzio.

Allora si potrebbe dire: se tu sei fautore del divorzio, di che ti lamenti? Approviamo l’articolo 24 che dice che il matrimonio è indissolubile, mentre in realtà non lo è. Si seguiterà allora con l’annullamento in funzione del divorzio, e saranno tutti contenti, quelli che vogliono il divorzio e quelli che non lo vogliono: i primi perché troveranno il modo di ottenerlo in pratica, i secondi perché saranno contenti di leggere la formula dell’indissolubilità nella Carta costituzionale.

Ma questo non è un ragionamento da farsi davanti ad un articolo di Costituzione.

Perché – io ritorno a quella mia aspirazione, un po’ ingenua, nella quale continuo a credere – noi vogliamo la lealtà, la chiarezza, la sincerità negli articoli della nostra Costituzione.

Ora, questa indissolubilità del matrimonio, quale è consacrata nell’articolo 24, se deve rispondere a come questa indissolubilità funziona nella realtà, in realtà porta a questa conseguenza: che l’annullamento del matrimonio funziona come divorzio per certe classi sociali; che, in realtà, il divorzio c’è in Italia per i ricchi e non per i poveri. (Approvazioni a sinistra).

Perché, onorevoli colleghi, per riuscire ad ottenere che, attraverso l’annullamento con queste sottigliezze, si arrivi allo scopo del divorzio, occorre una procedura lunga, costosa; occorre l’assistenza di avvocati specialisti, i quali hanno tariffe assai alte.

Quando gli sposi siano in condizioni finanziarie da poter dare a questi avvocati quanto occorre per montare la manovra procedurale che fa apparire esistente il motivo di nullità, anche quando non c’è, all’annullamento quasi sempre si arriva. I poveri questo non possono farlo. (Interruzioni al centro).

DOSSETTI. La statistica dimostra che la maggior parte di queste cause sono fatte col gratuito patrocinio.

CALAMANDREI. Soprattutto vorrei che mi intendessero gli amici comunisti.

Allora, può accadere quello che oggi accade in tutte le parti d’Italia.

Torna il prigioniero, dopo cinque o sei anni di assenza; trova la famiglia cresciuta, magari con figli di diverso colore. Niente da fare per lui. Per lui c’è soltanto la possibilità della separazione coniugale, ma il vincolo matrimoniale resta. La possibilità di rifarsi una famiglia, di avere una compagna fedele, di ricostruirsi la vita per lui non c’è; perché è povero, perché non gli viene neanche in mente di potersi rivolgere a quel meccanismo così complicato, a queste idee di impotenza relativa o di riserve mentali che possono esser proprie solo di persone raffinate. Per lui il divorzio non c’è: questo divorzio, in realtà, c’è solo per i ricchi.

Senonché – signor Presidente mi avvio alla fine – qualcuno potrebbe dire: l’intento dell’articolo 24 non è un intento descrittivo, no. Le cose non vanno bene; credo che anche voi colleghi democristiani lo riconosciate; almeno nell’andazzo dei divorzi ungheresi o negli annullamenti sanmarinesi c’è qualcosa che non va. Almeno su questo punto spero che anche lei, onorevole Merlin, consentirà.

MERLIN UMBERTO. Io nego la delibazione e l’approvazione in Italia a quei divorzi.

CALAMANDREI. Lei la nega, ma le Corti d’appello la concedono, e la devono concedere perché c’è un trattato. Ma il vero scopo dell’articolo 24 è uno scopo assicurativo. L’articolo 24 – ce ne sono diversi in questa Costituzione di articoli di questa natura – è una specie di polizza di assicurazione; c’è l’impegno che lo Stato mai introdurrà il divorzio nell’avvenire.

Ora, io francamente ho l’impressione, e lo dico con tutta modestia, che gli amici democristiani con il proporre questo articolo 24, abbiano un pochino, come dire, esagerato. Esagerato perché, io capisco che questo articolo potesse essere proposto prima dell’approvazione dell’articolo 7; ma ora che l’articolo 7 è stato felicemente approvato mi pare che questo articolo 24 sia un fuori d’opera.

L’onorevole Merlin, nel discorso che fece ieri l’altro, se ho letto esattamente, disse in sostanza: bisogna approvare l’articolo 24 per coerenza, perché chi ha approvato l’articolo 7 deve per coerenza approvare l’articolo 24. Coloro che hanno già votato l’articolo 7 non darebbero quindi prova di coerenza se votassero a favore del divorzio, ossia se non votassero l’articolo 24.

Ora, la coerenza ciascuno se la regola per conto suo; ma, io dico: gli amici democristiani hanno avuto la gioia di vedere approvato trionfalmente l’articolo 7, hanno avuto anche la gioia di vedere al momento della votazione una conversione in massa di tutto un settore, ed io penso che per i credenti l’assistere alle conversioni debba essere una grande gioia (Si ride); quindi, che cosa vogliono di più?

Una voce a destra. Che si converta anche lei.

CALAMANDREI. Ed allora cerchiamo di renderci conto di quello che è il vero scopo di questo articolo 24: questo articolo 24 riguarda il matrimonio puramente civile; perché la indissolubilità del matrimonio voi l’avete già garantita con l’approvazione dell’articolo 7, articolo 7 che ha inserito nella Costituzione i Patti lateranensi, in cui c’è l’articolo 34 del Concordato che dà al matrimonio il regime del diritto canonico, in cui c’è anche la indissolubilità della grandissima maggioranza – il 99 per cento forse – dei matrimoni che sono quelli celebrati in Italia con il rito cattolico; assicura l’indissolubilità e non ci sarebbe bisogno di quest’altra forma di assicurazione che voi volete con l’articolo 24. Con l’articolo 24 voi cercate la sicurezza che lo Stato s’impegni in avvenire a non introdurre il divorzio neanche in quella piccolissima percentuale di matrimoni civili (forse l’uno per cento) che resta fuori del diritto matrimoniale consacrato dagli Accordi lateranensi.

Qui ci sarebbe intanto da fare questa domanda: questo matrimonio puramente civile, del quale l’articolo 24 vuole assicurare la indissolubilità, quale valore ha di fronte alla Chiesa? Evidentemente voi, con questo articolo 24, volete introdurre una disposizione che vada sempre più incontro ai desideri della Chiesa in materia matrimoniale; ma la Chiesa il matrimonio puramente civile come lo tratta? Questo matrimonio puramente civile che ci si vorrebbe imporre anche per l’avvenire di rendere indissolubile, la Chiesa, anche quando si sarà dichiarato indissolubile, lo considera forse tale? Nossignori. La Chiesa non solo lo considera in certi casi dissolubile, ma, a suo arbitrio, inesistente, insignificante. Perché? Perché, dopo il Concordato, furono emanate dalla Sacra Congregazione della disciplina dei Sacramenti, in data 1° luglio 1929, le «Istruzioni agli Ordinari d’Italia circa l’esecuzione dell’articolo 34 del Concordato», l’articolo 18 delle quali fa questa ipotesi: che, al momento di celebrare un matrimonio cattolico, sia fatta opposizione perché gli sposi sono già coniugati da matrimonio civile, nel qual caso non c’è bisogno di una ulteriore trascrizione che dia effetti civili al matrimonio religioso, perché gli effetti civili ci sono già prima; ma lo stesso articolo, nel capoverso, fa, poi, una altra ipotesi:

«Qualora, – leggo testualmente – l’opposizione sia fatta a causa di un precedente matrimonio civile contratto da uno degli sposi con altra persona, il parroco deferirà il caso all’Ordinario. Se questi crederà di permettere il matrimonio religioso, detto matrimonio non si potrà trascrivere agli effetti civili e diventa perciò inutile ogni denuncia».

Il che significa che la Chiesa, non solo in certi casi considera il matrimonio puramente civile dissolubile, ma lo considera inesistente, tanto da poter permettere, anche se c’è già un matrimonio civile, che uno degli sposi già coniugato civilmente sposi religiosamente un’altra persona.

E allora, se questo è il trattamento che la Chiesa fa al matrimonio puramente civile, voi, per reciprocità alla Chiesa, vi volete impegnare, di fronte a questo matrimonio – che la Chiesa considera inesistente – a renderlo, per fare omaggio alla Chiesa, indissolubile? (Commenti al centro).

Egregi colleghi – e con questo io finisco – voglio, non dico rivelarvi, ma ricordarvi un fatto che forse non tutti ricordate.

Questo articolo 24, che rinasce così in questa forma, in realtà, è un’appendice del Concordato, è una postilla del Concordato, perché nel 1929 – durante le trattative che precedettero i Patti lateranensi – in un primo progetto di Concordato, quello che fu poi l’articolo 34 aveva una formulazione diversa, molto più ampia: era l’articolo 44 e si trova riportato per intero nella sua formulazione originaria in un altro libro dello stesso Jemolo sul matrimonio nella legislazione civile, pagine 196 e 197. L’articolo 44, allora, aveva un ultimo comma, che rappresentava una proposta e una richiesta della Santa Sede, in questi termini:

«In qualsiasi disposizione concernente il matrimonio, lo Stato si impegna a mantenere illeso il principio dell’indissolubilità».

Orbene, il Governo che allora reggeva l’Italia, e che per la stessa struttura dello Stato autoritario non dava importanza alla difesa della libertà di coscienza, questo Governo che fu così ben disposto, nel Trattato e nel Concordato, a cedere di fronte alle richieste più spinte della Chiesa, anche su punti che uno Stato democratico avrebbe difesi, di fronte a questa richiesta dell’ultimo comma dell’articolo 44, il Governo di allora disse: «Questo impegno (che dovrebbe riguardare soltanto la legislazione civile, non il matrimonio cattolico, ma il matrimonio puramente civile, che rappresenterà, sì e no, l’uno per cento) questo impegno io non intendo assumerlo, perché sarebbe una menomazione troppo grave, troppo penetrante, troppo profonda, della sovranità dello Stato italiano».

Ora, onorevoli colleghi, io mi domando se questa menomazione di sovranità, che il Governo fascista non consentì, possa essere proprio la Repubblica democratica italiana a consentirla.

Amici democratici cristiani, io credo di no, e ritengo che questa volta crederanno di no anche i comunisti. (Vivi applausi a sinistra Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Binni. Ne ha facoltà.

BINNI. Onorevoli colleghi, il mio intervento, fatto evidentemente non come giurista, quale io non sono, ma dal punto di vista di un uomo di cultura, si limita solamente a discutere rapidamente il problema trattato negli articoli 27 e 28, cioè il problema della scuola, problema di tanta serietà e di tanta importanza che, giustamente, in un recente suo articolo, Guido De Ruggiero poteva scrivere che gli italiani non potranno dire di aver iniziato la loro ricostruzione nazionale se non avranno posto questo problema in primo piano, se non tenteranno di risolverlo coerentemente.

Due grandi principî vengono affermati nei due articoli 27 e 28; e se anche la loro formulazione può essere in qualche modo emendata o trovata forse generica e un po’ retorica, questi due grandi principî, cioè la libertà d’insegnamento e la possibilità per tutti di entrare in qualsiasi grado della scuola, evidentemente corrispondono al punto storico della nostra società, corrispondono alle esigenze interne del mondo moderno, corrispondono alle esigenze cioè di portare il maggior numero di persone al possesso dell’istruzione, della tecnica ed alla consapevolezza conseguente di questo possesso; fare cioè quello sforzo di profondità e di vastità che, secondo uno scrittore francese, il socialista Malraux, è appunto il dramma e l’esigenza del mondo moderno; dare al numero maggiore possibile di persone il possesso di cognizioni, ma insieme dare ad esse la possibilità e la consapevolezza della loro destinazione umana.

Evidentemente, sul principio dell’afflusso di forze nuove, di forze fresche, di forze popolari nella scuola credo che il consenso sarà facilmente ottenuto da parte di tutti, anche perché si potrebbe dire con qualche malignità che forse, anche quelli i quali non ammettono questo ingresso delle masse, delle moltitudini sul terreno della cultura e della scuola, non avrebbero certamente il coraggio di esprimersi diversamente. Su questo principio sarebbe facile evidentemente per un socialista fare della demagogia, fare della retorica; ma in questo caso ogni demagogia, ogni retorica è annullata dalla realtà stessa dei fatti, dalla necessità che il nostro Paese ha in questo momento di rinsanguare in ogni modo la sua stanca classe dirigente. Credo perciò che su questo punto non occorra spendere parole eccessive. Tutti sentiamo egualmente questo problema che non è soltanto un problema di giustizia sociale, ma, come già un oratore precedente, mi pare l’onorevole Giua, ha detto è un problema di utilità nazionale, è un bene di tutti quanti.

Molto più delicato invece è il principio che afferma la libertà d’insegnamento; molto delicato, anche, perché questo afflusso che noi desideriamo e vogliamo di forze fresche, questo criterio unico del merito che noi vorremmo garantito nella Costituzione con la più energica sottolineatura (e perciò nell’emendamento all’articolo 28 sosterremo che si debba dire «solo i capaci, i meritevoli anche se sprovvisti di mezzi, ecc.»), porta con sé una particolare delicatezza nel creare le condizioni adatte nella scuola per raccogliere queste nuove forze che vi entrano. Questo punto della libertà d’insegnamento è uno di quei punti e di quei principî in cui la grande parola «libertà» è suscettibile di troppe diverse determinazioni. Può essere qualche volta perfino, come si dice in certi stili, nisi mendacium, non altro che menzogna, può essere un tranello, può essere pericoloso tranello. Evidentemente proprio su questo punto si può spiegare il contrasto e vorremmo dire che non ci si dolga se, in casi di tanta importanza, si verrà a svolgere un contrasto nei suoi veri termini, specialmente di fronte ad una società come quella italiana, in cui troppo spesso l’uso tendenzioso e antitetico delle stesse parole ha generato una strana confusione.

Molti equivoci, sono sorti intorno a questa parola e particolarmente intorno a questo principio della libertà d’insegnamento. Il mio intervento vorrebbe avere l’effetto di sgomberare possibili equivoci da parte nostra. E, poiché io credo di parlare non solo per me e per il Gruppo che rappresento, ma Anche per le sinistre in genere, e per tutte quelle forze democratiche di origine schiettamente e profondamente liberale che si trovano in questa Assemblea, penso che in questo caso noi tutti almeno, vogliamo sgomberare da possibili equivoci questo principio: e con ciò renderemo più facile anche il combattimento, anche la battaglia che certamente avverrà su questo punto. Infatti, quando si parla di libertà di insegnamento, da parte di alcuni si vuole arrivare a conseguenze che noi non possiamo accettare e che sono in contrasto con lo stesso principio. Voglio chiarire che si comincia a dire da parte di alcuni che se c’è una scuola libera, che se c’è libertà della scuola, su questa strada si incontra come ostacolo la scuola di Stato, la scuola che alcuni dicono monopolistica, secondo alcuni perfino si arriverebbe ad una equazione del tutto inaccettabile fra scuola libera e scuola privata. E questo io trovo proprio in una pubblicazione recente di un cattolico, Dante Fossati, che dice: «Non parliamo più di scuola pubblica e scuola privata; parliamo di scuola di Stato e scuola libera».

Vedete dunque, onorevoli colleghi, a quale punto di contradizione si può arrivare: a negare il carattere di scuola libera proprio a quella scuola che, secondo me e secondo molti altri e, perfino, secondo alcuni colleghi democristiani, è invece la scuola veramente e, in senso superiore, unicamente libera. La scuola in cui tutti quanti senza tessera e senza certificato di fede possono entrare; la scuola in cui il merito dei discenti e dei docenti è misurato soltanto dalla loro buona fede e dalle loro capacità; la scuola per cui già un grande socialista, della cui democrazia nessuno dubita, cioè Turati, diceva che in senso più stretto di libertà della scuola, di scuola libera si può parlare solo nella scuola di Stato, «campo aperto a tutte le concezioni della vita, onde il dovere assoluto del rispetto incondizionato della libertà di coscienza». E un altro scrittore socialista, Rodolfo Mondolfo, rivolgeva un invito che noi qui vorremmo ripetere e rivolgere a tutti i colleghi di qualsiasi partito e di qualsiasi fede; egli rivolgeva l’invito di non considerare mai le giovani coscienze, quasi come – diceva lui con una frase un po’ forte – colonie di sfruttamento; di rispettare profondamente in loro la possibilità appunto di questa libera formazione che si può trovare solo nella scuola di Stato.

Né occorre fare lunghe disquisizioni su questo; è la nostra esperienza che parla a favore della scuola di Stato; è il fatto che tutti, io credo, o quasi tutti noi siamo insieme cresciuti in questa scuola di Stato, eppure siamo diventati in casi diversi, cattolici, e buoni cattolici; socialisti, e buoni socialisti; comunisti, e buoni comunisti.

Ma che cosa abbiamo trovato in quella scuola – anche se molti di noi l’hanno frequentata nel suo periodo più triste – che cosa abbiamo trovato che ce la fa sentire così cara e così unicamente libera? Abbiamo trovato lì dei professori che potevano portare voci diverse, e gli scolari venivano educati secondo i meriti, la capacità, la buona fede. Si può dire che una simile garanzia di libertà, di libera formazione, venga data dalla scuola privata? Io non credo. Tutti sappiamo bene che ci sono scuole private e scuole private. Ci sono scuole private di origine commerciale, di origine di guadagno, scuole private in cui il limite più evidente, più serio, più immediato è appunto questo: che non è tanto uno scopo educativo che esse si propongono, quanto piuttosto uno scopo di guadagno, uno scopo di iniziativa industriale. E in verità per queste scuole, se noi ammettiamo che ci siano a volte delle persone che le creano con uno scopo più alto, dobbiamo dire che lì non si tratterà tanto di una preoccupazione educativa, di libera formazione, quanto piuttosto di una preparazione utilitaristica, di una preparazione in vista di esami, di una preparazione per rendere più facile il conseguimento di certi diplomi e, diciamolo pure, per istruire gli scolari nelle gherminelle più astute per poter poi frodare gli esaminatori, per conseguire un diploma.

Non è per questa scuola certamente che noi possiamo scaldarci, non è per questa scuola di iniziativa privata, che gli zelatori della libertà della scuola nella sua forma più ampia possono sentir battere il loro cuore.

Ma c’è un altro tipo di scuola privata, che è la scuola di parte o la scuola confessionale. E questi due termini, io li uso in questo momento senza particolari riferimenti, perché evidentemente è di parte anche una scuola che dipenda da autorità religiose, come è confessionale anche una scuola che dipendesse da un partito: sono, direi così, confessionali o di parte nel senso più vasto della parola, in quanto esse non mirano a formare una persona completamente libera e cosciente della dignità di tutte le varie verità, ma mirano piuttosto a formarla secondo un modello prefissato, secondo un figurino; e noi uomini moderni soprattutto lottiamo proprio contro i modelli, proprio contro i figurini; lottiamo per uomini che siano coscienze aperte ed animi liberi, credendo fermamente che sarà un miglior cattolico, o un miglior socialista, o un miglior comunista colui che, nella sua infanzia e nella sua gioventù, avrà avuto questa educazione più larga che non piuttosto colui che sarà stato nella sua infanzia e nella sua gioventù come una monade chiusa ed ostile.

Noi, in omaggio ad un principio più vasto e formale, possiamo ammettere ed ammettiamo che alcuni individui desiderino una formazione chiusa (noi la qualifichiamo così). Possiamo ammettere un’aspirazione, cioè che è per noi sostanzialmente illiberale, ma non possiamo ammettere che la forza di queste scuole di parte possa ad un certo punto diminuire l’efficienza o addirittura far decadere completamente la scuola di Stato, la scuola libera e capace di realizzare una libera formazione.

È su questo punto che, senza equivoci e con lealtà, e rendendo omaggio ai nostri avversari proprio in quanto consideriamo che essi sanno quello che vogliono, come noi sappiamo quello che vogliamo, è su questo punto che noi sosterremo la nostra battaglia, perché sull’equivoco della libertà dell’insegnamento non si venga a negare la vera libertà della scuola e la vera libera formazione delle coscienze.

È su questo punto che io vorrei dire – e lo dico specialmente rispetto ai democristiani, per quanto possa dispiacermi che sempre dalla sinistra ci si debba rivolgere proprio ai democristiani – che in sostanza questa scuola di parte viene ad insidiare, viene a limitare la scuola pubblica; che questa scuola di parte sta dando in questo momento un assalto sfrenato alla scuola dello Stato.

Essa è soprattutto, infatti, la scuola di una parte, la scuola di una confessione. Non ci si venga a dire che noi, dicendo ciò, mostriamo di essere degli adoratori dello Stato, che in noi c’è una sfrenata statolatria; non ci si venga a dire che noi ci contrapponiamo alla tesi liberale, mettendo in contrasto il principio liberale con il nostro pensiero, perché, secondo noi, invece la tesi liberale più genuina è proprio per la scuola di Stato.

E qui ci conforta non solo l’esperienza nostra storica, non solo l’esperienza della scuola italiana, ma ci confortano altresì le dichiarazioni che abbiamo fatto sopra. Non si tratta di un’esigenza liberale contro gli adoratori dello Stato, ma, se mai, si tratta di utilizzazione della tesi liberale che viene fatta, per uno scopo che è tutt’altro che liberale, da parte di una confessione che per lo meno trae le sue origini da dottrine che non hanno alcuna comunanza con la dottrina liberale, dottrina squisitamente e profondamente nata dal pensiero moderno.

Possiamo dire a questo proposito, quando si fa questa contrapposizione, che si dovrebbe piuttosto pensare non ad un contrasto fra coloro che adorano lo Stato – che saremmo noi della sinistra – e coloro che adorano la libertà: ma dovremmo piuttosto riferirci all’immagine di coloro che adorano il monopolio e lo cercano per la strada della libera concorrenza.

Questo criterio è un criterio assai utile per distinguere quelli che sono profondamente liberali e democratici da coloro che liberali e democratici non sono.

Quando un partito, quando una confessione, ha dimostrato in altri tempi e condizioni – e lo può dimostrare tuttora – di essere pronto ad esercitare un monopolio o viceversa ricorre alla libera concorrenza quando non può esercitare questo monopolio, è evidente che la seconda linea, quella della libera concorrenza è puramente sussidiaria, è una linea di ripiego tattico.

Quando noi pensiamo a questa tesi della libertà di insegnamento nel suo equivoco di libertà per la scuola di parte, vediamo che questa è una tesi che è nata con l’utilizzazione di idee liberali da parte della tesi cattolica. Non farò una lunga dimostrazione storica. So già che altri colleghi sono pronti per questo. So, ad esempio, che il collega Bernini, che ha dato prova di una particolare competenza in un suo recente libro sull’argomento, parlerà su questo tema. Ma basterà ricordare che la Chiesa cattolica, dopo avere largamente usufruito dei regimi assoluti in Francia, dopo l’avvento di Luigi Filippo, nel 1831, non potendo più sfruttare le posizioni di privilegio nel campo scolastico, ripiegò su questa nuova linea con tale discordanza, che in quel periodo molti cattolici francesi rimasero sbandati e stupiti, tanto più che in quello stesso periodo una enciclica di Gregorio XVI ribadiva la scomunica, la condanna di ogni tesi liberale. E questa tesi di origine liberale, ma sfruttata con scopi non liberali, coesisteva con le tesi di carattere assoluto in quegli Stati assoluti, come i principati italiani, in cui la Chiesa nello stesso periodo si guardò bene dal fare campagne per la libertà della scuola e dell’insegnamento. E senza spingerci troppo in questo esame di carattere storico, vogliamo anche dire che quando da parte di polemisti cattolici si dice che quella è la vera tesi della libertà, che li c’è la vera libertà d’insegnamento, noi vogliamo ricordare loro che questa libertà dell’insegnamento trova subito in campo cattolico un grosso e naturale limite che nasce dalla dottrina cattolica. Quando noi pensiamo ad alcuni testi autorizzati, a testi che abbiamo studiato in questi tempi o magari alle pubblicazioni della Civiltà Cattolica o di Vita e Pensiero o di Etudes, quando noi leggiamo testi ufficiali come alcune encicliche papali, vediamo che da parte cattolica, mentre si proclama la libertà d’insegnamento, nello stesso tempo si porta una distinzione che viene a minare quella stessa libertà tanto conclamata.

Si fa distinzione infatti fra verità ed errore. Il padre gesuita Barbera, in una sua notevole pubblicazione sulla Civiltà Cattolica, nel 1919, disse: «Libertà per tutti naturalmente, però non possiamo ammettere, per esempio, una scuola anarchica». E poi disse ancora: «Perché tutto ciò? Perché la verità assoluta è una sola, e solo ad essa in linea assoluta spetta di comparire nell’insegnamento».

E nell’enciclica di Pio XI, già citata questa mattina dal collega Preti, a proposito dell’educazione cristiana della gioventù (che fu emanata dal Papa quasi a commento del Concordato), si viene a dire che dal momento in cui Dio si è rivelato nella religione cristiana, non vi può essere nessuna perfetta educazione se non quella cattolica; e poi si precisa – usufruendo di due pericolosissime parole inserite nel Concordato, e che mediante l’articolo 7 ci ritroveremo di nuovo davanti: «fondamento e coronamento della educazione è l’insegnamento della dottrina cattolica» – che questo coronamento e fondamento si possono intendere sul serio solo se tutta l’educazione viene saturata da principî cattolici.

Non vi è dunque possibilità di equivoci su questo punto; quando si fa distinzione fra verità ed errore, e per errore s’intende inevitabilmente tutto ciò che si scosta dalla precisa linea cattolica, evidentemente è ben difficile proclamare poi la libertà piena d’insegnamento per tutti.

Sono dunque i colleghi democristiani che in qualche modo, e non so esattamente in quale forma, porteranno la loro discussione su questo punto, cercheranno di far prevalere la tesi della scuola libera nel senso della libertà della scuola di parte. Se la libertà della scuola di parte potesse avere il suo pieno sviluppo, porterebbe inevitabilmente alla distruzione della scuola libera, porterebbe all’urto delle diverse concezioni, porterebbe, secondo noi, alla fine di ogni formazione veramente libera e veramente democratica. È per questo che noi crediamo che la scuola di Stato vada difesa e che chi difende la scuola di Stato non fa opera di parte, ma fa gli interessi del Paese e gli interessi della democrazia.

Ed è per questo anche che ci si preoccupa quando vediamo che da alcuni parti si chiede la parità tra scuola privata e scuola di Stato. Bisogna intenderci bene chiaramente su questa parità. Noi abbiamo detto – e lo dimostreremo anche in sede di emendamento – che non neghiamo il principio della libertà di insegnamento, non neghiamo affatto che, se alcuni cittadini lo desiderano, si facciano da loro una scuola di un certo tipo, una scuola di forma chiusa, ma noi non vogliamo che alla scuola di Stato vengano strappate concessioni che la metterebbero in condizioni di assoluta inferiorità.

Quali sono i punti sui quali noi non possiamo cedere, i punti su cui noi siamo disposti a dare battaglia? Sono tre punti che sono stati portati questa mattina in discussione da altri colleghi.

Anzitutto lo Stato solo ha diritto di concedere diplomi, allo Stato compete il diritto degli esami. E su questo punto vorrei illuminare i colleghi, perché bisogna guardare che cosa si intende per esame di Stato, dato che questa precisa formula «esami di Stato» comparve in quella carta della scuola, in quella carta Bottai che ha poi rovinato la scuola italiana, perché ha ridotto gli esami di Stato ad una triste burla, in quanto non è più una commissione governativa che esamina, non è più presso la scuola di Stato che si fanno gli esami, ma tutto si è ridotto all’invio nelle varie scuole di commissari che purtroppo, il più delle volte, vengono anche facilmente influenzati dall’ambiente in cui improvvisamente ed isolatamente vengono a trovarsi. Così ogni dignità, ogni controllo è tolto alla scuola italiana. Noi intendiamo invece gli esami di Stato nella loro forma originaria o in una forma che si possa studiare, ma che garantisca la dignità della scuola.

Ma, oltre agli esami, c’è un altro punto importante a cui noi teniamo. Compare – e non so come mai ci sia entrata – compare nel progetto della Costituzione, ad un certo punto, la parola estremamente equivoca di «parificazione». I colleghi sapranno che in Italia attualmente, oltre alle scuole governative, oltre alle scuole che non chiedono che una generica autorizzazione, ci sono le scuole pareggiate e quelle parificate. E vorrei far notare la grande differenza che c’è tra queste due forme: la forma più seria, più antica, la forma del pareggiamento, la forma che garantisce la dignità della scuola in quanto i suoi insegnanti provengono da concorsi, e la parificazione che è un po’ come un’etichetta che viene posta su una bottiglia, convalidandone il contenuto senza conoscere di che contenuto si tratti. Ed è di questo ultimo istituto che le scuole private si sono avvantaggiate dopo la carta Bottai, anche se il decreto di istituzione della parificazione risale al 1925. Ebbene, io vorrei far osservare che anche in questo caso chi ha approfittato, chi ha utilizzato soprattutto la parificazione sono state le scuole di parte, quelle uniche scuole di parte che possono esistere in Italia. Perché anche su questo punto bisogna ben chiarirci. Non ci si venga a dire che questa parità della scuola di parte può interessare i comunisti, i socialisti o i repubblicani, perché noi sappiamo, e lo dicono i fatti, che in Italia, nelle nostre condizioni storiche, non c’è possibilità se non da parte cattolica di avere delle scuole confessionali.

Orbene le scuole confessionali sono quelle che più hanno cercato di ottenere la parificazione. Le statistiche parlano. Mentre fra le scuole pareggiate quelle che dipendono da autorità religiose sono soltanto 12, e quelle dipendenti da enti morali sono 300, quando si passa al capitolo scuole parificate, in cui si contano 400 o 450 scuole dipendenti da enti morali, le parificate dipendenti da enti religiosi salgono a 1160. Il che permette di pensare che ci sia comunque una strana preferenza dell’autorità religiosa per questa forma! Quando verremo alla proposta degli emendamenti, noi proporremo dunque che questa formula equivoca della parificazione sia esclusa, e che si adotti la formula più seria del pareggiamento.

Un ultimo punto su cui non potremo non scontrarci con i rappresentanti della Democrazia cristiana è la questione della concessione di sovvenzioni. Stamane ho sentito qualcuno di parte democristiana osservare: ma nessuno le chiede! Io sarei lietissimo che nessuno le chiedesse, ma temo che questa mia speranza non si realizzerà (Interruzioni).

MORO. Non le abbiamo chieste e non le chiediamo!

BINNI. Naturalmente siamo abbastanza ben preparati per saper distinguere la forma più rozza della domanda di queste sovvenzioni, la forma cioè diretta della sovvenzione alla scuola, dalla forma più elegante, per cui la sovvenzione è data alle famiglie, agli scolari, o mediante la cosiddetta «ripartizione scolastica». Ma noi terremo fermo che sovvenzioni a scuole private non si devono dare.

Noi non accetteremo, e credo di interpretare il pensiero di molti, non accetteremo la richiesta di alcuna sovvenzione a scuole private, perché queste sovvenzioni hanno l’unico risultato di dare maggiore forza alle scuole private diminuendo l’efficienza delle scuole di Stato.

Basta pensare, per ricordare l’argomento più umile, che molto spesso i fautori della scuola privata vengono a mettere in dubbio la forza della scuola pubblica, dicendo che la scuola pubblica gode di un piccolo bilancio, e che, quindi, è molto bene, nell’interesse nazionale, che la scuola privata possa integrarla nelle sue deficienze. Ma se la scuola di Stato, che ha già tante difficoltà e ha un così magro bilancio, dovesse spartire questo magro bilancio con le scuole private, decadrebbe anche dalla situazione in cui attualmente si trova a causa di tutte le concessioni che lo Stato delittuosamente ha fatto al momento della guerra e della carta Bottai.

Non possiamo ammettere questa ripartizione scolastica, perché nella situazione attuale – ed è inutile riferirsi a condizioni di là da venire – noi sappiamo che di scuole confessionali non ci sono altro che le cattoliche, sicché la scuola statale se dovesse dividere il suo bilancio con esse finirebbe per essere liquidata del tutto a loro unico favore e non a favore della «libertà».

È perciò che io credo nella possibilità di un contrasto e termino il mio intervento senza far troppi di quegli inviti, che abbondano in questa Assemblea, senza quegli allettamenti che secondo me qualche volta diminuiscono il rispetto dei nostri avversari.

Io, però, devo dire due cose ancora ai colleghi democristiani.

Da una parte, che, in verità, quando sento come ho sentito stamani nel corridoio l’onorevole Colonnetti dire che anch’egli ha voluto che i suoi figli andassero nella scuola pubblica e che per lui la maggior libertà è nella scuola pubblica, provo veramente enorme simpatia e gioia; sento che in questo caso potrei dirvi: colleghi democristiani, non rifiutate questo terreno comune, così importante per la democrazia italiana.

Vorrei dirvi che la scuola pubblica ci unisce e la scuola di parte ci divide.

Se penso ai miei figli ed ai figli di alcuni miei amici democristiani, non vorrei che essi fossero separati e desidererei che, come noi siamo stati educati insieme, così anche essi lo fossero.

Vorrei che non fosse rotta quella solidarietà, quell’unità, formatasi anche nell’esperienza dura della lotta contro il tedesco oppressore, vorrei che non si venisse ad infrangere, perché c’è bisogno assoluto di questa comprensione democratica; la quale non si può avere, se formiamo gli individui secondo un modello, secondo una linea, secondo un criterio inevitabile di parte.

Questo è l’unico invito, che facciamo non solo come uomini di scuola, ma come uomini di cultura, che tengono molto sinceramente alla democrazia.

D’altra parte, voglio dire che, se la battaglia che potrebbe nascere nella Costituente dovesse andare fuori della Costituente e dovesse diffondersi nel Paese – come mi pare che si accenni, attraverso certi appelli, che pervengono anche a noi, attraverso certe pubblicazioni d’un Fronte della famiglia, con tante firme, con milioni di firme (e direi, fra parentesi, che non mi pare di buon gusto portare qui dentro il peso di firme, che saranno certamente sincere, ma qualche volta sono del tutto ignare) – se questa battaglia dovesse uscire dalla Costituente, allora la combatteremmo, con la certezza di non essere stati noi a scatenarla.

Noi non portiamo un attacco, ma una difesa; non andiamo all’assalto dell’altrui posizione, ma vogliamo, difendere la posizione della libera formazione.

Su questo punto saremo irremovibili, e lo dico senza nessuna retorica ed astio, ma con la coscienza di non difendere una parte, bensì l’unica possibilità di una formazione di persone aperte, capaci di una lotta democratica.

Senza questo, la nostra Nazione non può risorgere e non potrà gettare le premesse d’una società degna di questo nome, e resterà invece, in quel ruvido mondo di rapporti ostili, e diffidenti, da cui dobbiamo al più presto liberarci. (Applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bosco Lucarelli. Ne ha facoltà.

BOSCO LUCARELLI. Onorevole signor Presidente, onorevoli colleghi, penso che nel progetto di Costituzione, dopo avere affermato i diritti della personalità umana, bene sia stato affermare i diritti fondamentali della famiglia.

Come da questa e da altra parte della Assemblea si è ricordato, la famiglia è una società originaria fondamentale che ha preceduto lo Stato, ed ha una sfera di diritti propri inalienabili, che lo Stato non crea, ma che deve riconoscere e garantire.

Come una legge regge il mondo fisico, così una legge eterna, scritta nel cuore di tutti gli uomini, governa il mondo morale, e da questa legge l’individuo e la famiglia traggono il fondamento dei loro diritti.

Si sono sollevati dall’onorevole Orlando e da altri dei dubbi circa l’interpretazione della parola «naturale» nell’articolo 23: evidentemente essa vuol significare «di diritto naturale», e potrebbe essere sostituita dalla parola «originaria» per maggior chiarezza.

Tra i diritti fondamentali della famiglia vi sono quelli della propria unità ed integrità; della indissolubilità del vincolo matrimoniale; del potere acquistare attraverso il lavoro ed il risparmio un patrimonio proprio; della educazione della prole.

L’unità della famiglia si manifesta attraverso la mutua assistenza e la integrazione delle varie specifiche funzioni ed attività dei suoi componenti.

La prima parte dell’articolo 24, che sancisce l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, anche a noi sembra poco esatta. Le osservazioni degli onorevoli Crispo e Calamandrei ci sembrano giuste. La famiglia è un organismo che richiede una gerarchia. Il che nulla toglie alla posizione della donna nella famiglia, che non può essere d’inferiorità, essendo essa la sposa e la madre.

Certamente, come ha osservato la collega Spano, fondamento del matrimonio è l’amore e non deve essere l’idea di una sistemazione materiale ed economica, che deve spingere la donna al matrimonio. Ma non comprendiamo come si mostri contraria al salario familiare, perché contradirrebbe all’uguaglianza dei diritti dei coniugi. Certamente fra i coniugi vi è una diversità di funzioni: la donna deve nella casa attendere ai doveri della maternità, ed il marito deve poter guadagnare quanto basta all’intera famiglia.

La famiglia ha poi il diritto alla indissolubilità del vincolo matrimoniale.

Per i cattolici, che sono la maggioranza del popolo italiano, il quale quasi totalitariamente celebra il matrimonio col rito religioso, il vincolo matrimoniale lega i coniugi per tutta la vita, ed è un sacramento.

Ma anche a prescindere dal fattore religioso e volendosi mettere sul terreno di moralità puramente naturale, che obbliga tutti, per le ragioni esposte dall’onorevole Badini Confalonieri, noi dobbiamo ugualmente affermare l’indissolubilità del matrimonio.

Se il matrimonio non è un contratto, ma un vincolo di comunione di vita, se il suo scopo non è lo sfogo di una passione, se non è il fatto materiale di una unione passeggera ai fini della procreazione, ma è l’unione intima di due cuori e di due anime, che legano insieme le loro vite, sì da formare un’anima sola ed un cuore solo, se scopo precipuo del matrimonio è la prole, alla cui formazione ed educazione i genitori debbono dedicarsi, se i genitori si perpetuano attraverso i figli, non vi è chi non vegga che la stabilità è e deve essere il fondamento della famiglia.

I popoli che hanno voluto infrangere l’indissolubilità del vincolo matrimoniale veggono vuote le culle ed arrestate le nascite, e chiedono ad altri popoli le braccia lavoratrici necessarie alla rinascita ed alla ricostruzione del paese.

E quando la famiglia si spezzasse col divorzio in due o più tronconi, che ne sarebbe dei figli?

La casistica dei casi di nullità e di annullabilità del matrimonio e di eventuali errori od abusi prospettati dall’onorevole Calamandrei nulla prova.

Né casi pietosi, molti o pochi che siano, di matrimoni infelici possono indurre a rendere possibile la distruzione di un vincolo, che è la base necessaria di una ordinata vita civile e sociale.

Necessario corollario della unità e della integrità della famiglia è che ai nati fuori della famiglia non possa concedersi parità di diritti con la prole legittima.

Pur tuttavia un adeguato stato giuridico bisogna pure ad essi dare, ma non di parità con i figli legittimi, e bisognerà che lo determini la legge.

La legislazione sugli esposti e sugli illegittimi va rivista.

Sono favorevole alla ricerca della paternità secondo il progetto Meda, con tutti i necessari accorgimenti e le precauzioni che la delicata materia richiede.

Ritengo che vada riesaminata la facoltà di non dichiarare allo stato civile il nome della madre dei nati illegittimi.

Se bisogna evitare gli arresti della maternità (e noi condanniamo anche l’aborto legale), gli infanticidi, l’abbandono di neonati, bisogna pur evitare che tanti bimbi ignorino il nome sacro di «mamma».

Abbiamo ricordato che la prole è il fine precipuo del matrimonio, ed i genitori debbono provvedere non solo al sostentamento materiale, ma anche ai bisogni morali e culturali di essa.

Onde bene afferma l’articolo 25 che diritto e dovere dei genitori è non solo quello di alimentare la prole, ma anche, ed io direi soprattutto, di istruirla ed educarla.

L’educazione della prole è per noi funzione essenzialmente familiare.

Essa si inizia su le braccia materne; e quante volte adulti abbiamo deposte sul seno materno le nostre lagrime, chiedendo guida c conforto!

La madre è una luce, che non si spegne, ed anche quando l’abbiamo perduta, il ricordo di lei seguita ancora ad ammaestrarci.

E se i genitori hanno il diritto ed il dovere di educare la prole, debbono essere liberi di scegliere la scuola ove mandare i loro figli.

Per cui noi affermiamo come un diritto familiare «la libertà di insegnamento».

Del resto si insegna col libro, col giornale, con la conferenza, col teatro, con la radio.

Il fascismo aveva sottratto i figliuoli alla famiglia, aveva dato loro un moschetto e li aveva mandati ad educarsi nelle caserme della G.I.L., facendo dell’esercizio fisico la base della educazione, spesso spronando i figli ad essere i delatori dei loro genitori ed i controllori dell’opera loro. Bottai poi consegnò loro un libretto come agli antichi vigilati della pubblica sicurezza.

Ci uniamo quindi alle parole di riprovazione pronunziate dalla onorevole Spano contro la G.I.L. e l’opera del fascismo.

Noi affermiamo che i figli appartengono innanzi tutto alla famiglia e chiediamo che, a fianco alla scuola di Stato, prosperi con pari diritti la scuola privata.

Quindi la libertà d’insegnamento ha per noi un significato molto diverso da quello che le dà l’onorevole Binni e noi lo dichiariamo con la maggiore lealtà.

L’istruzione non può essere che un mezzo, il fine è l’educazione, ed educare significa dare ai giovani una norma di vita. E quando questa norma deve darsi non si può prescindere dai supremi principî.

Per cui la scuola neutra non esiste e non può esistere: quando deve illustrarsi ai giovani il pensiero umano, attraverso le opere degli scrittori, ed indicarsi il cammino del genere umano attraverso i fatti della storia, non è possibile non esprimere un avviso, non ricavarne un ammaestramento, non dare un precetto.

E se la scuola dovesse mantenersi in vaghe concezioni di una vaga morale senza un fondamento di fede, essa per ciò stesso mancherebbe al suo scopo educativo, perché mancherebbe del fondamento della legge e della morale; Dio. (Applausi al centro).

Onde noi, senza volere imporre niente a nessuno, chiediamo la libertà di istituire le nostre scuole ove volontariamente possono mandare i figli quei genitori che ritengono che la religione sia il fondamento della vita. (Applausi al centro).

Padronissimi gli altri di avere sentimenti diversi, ma nessuno può contestare a cittadini cattolici di avere le loro scuole e chiederne la parificazione a quelle governative, sotto il vaglio comune dell’esame di Stato, fatto con ogni garanzia di serietà.

Questa non è opera di parte, ma affermazione di libertà.

Circa la scuola governativa, si prospetta la questione se debba essere gratuita.

Penso che la scuola primaria e quella del lavoro debbano essere gratuite.

Non veggo la ragione per cui dovrebbero essere gratuite anche le scuole medie e le superiori, che sono frequentate dagli abbienti.

Ai capaci delle classi lavoratrici lo Stato può legittimamente aprire le vie dell’insegnamento medio e superiore attraverso la concessione di borse di studio e delle altre provvidenze previste dall’articolo 28.

Bisogna aiutare i capaci, essendo un errore mandare avanti i mediocri.

Ritengo che nella dizione dell’articolo 28 bisogna conservare o la parola «capaci» o quella «meritevoli», altrimenti potrebbe sembrare che oltre alla capacità vi possano essere altre considerazioni le quali potrebbero prestarsi al favore.

Ritengo che nella Costituzione bisogna includere un accenno alla necessità di sviluppare l’insegnamento professionale dei lavoratori. All’articolo 41 vi è un accenno all’elevazione professionale dei lavoratori della terra. Ma occorrerebbe in questo titolo porre un accenno più generale e completo per la scuola professionale del lavoro.

Bisogna migliorare l’ordinamento delle nostre scuole industriali, e fare che esse aderiscano alle condizioni, alle necessità ed ai bisogni delle industrie.

Nei pochi mesi nei quali mi sono occupato, come Sottosegretario all’industria e commercio, delle scuole industriali, ho presieduto la Commissione per la riforma dell’insegnamento industriale, Commissione alla quale parteciparono i rappresentanti delle organizzazioni operaie, delle organizzazioni degli insegnanti e degli industriali.

A conclusione fu presentato alla Camera dei Deputati il giorno 11 luglio 1922 analogo disegno di legge.

In esso per la prima volta veniva contemplato quel tipo di scuola, che è poi divenuta la scuola di avviamento al lavoro.

Questa scuola per l’apprendistato era una necessità per le leggi internazionali del lavoro, che avevano elevato a 14 anni l’età minima per essere ammessi al lavoro, e per essere già in funzione nel Trentino, che allora si univa alla patria italiana.

Col detto disegno di legge veniva abbandonato ogni criterio di classifica tra le scuole che non venivano più divise in gradi, e la scuola per operai specializzati veniva lasciata libera di organizzarsi secondo le varie esigenze delle industrie, senza programmi unici e senza neppure un determinato numero fisso di anni di corso.

Venne poi il fascismo e la scuola avulsa dai Ministeri tecnici andò a burocratizzarsi al Ministero della educazione nazionale, divenendo scuola tecnica industriale.

Nel detto disegno di legge erano anche previsti corsi di perfezionamento, ad orari ridotti e per alcuni giorni, ove potessero andare a perfezionarsi gli operai già addetti all’industria, e gli industriali avevano l’obbligo di mandarvi gli operai, conservando loro la paga.

Pensiamo che parte notevole della potenza industriale della Germania era dovuta all’avere a suo tempo riformate le sue scuole industriali.

Una repubblica che dichiara suo fondamento il lavoro, non può non affermare nella sua Carta costituzionale il proposito di voler dare alla scuola del lavoro il suo massimo impulso.

Alla classe lavoratrice, che chiede di partecipare più intensamente alla vita del Paese dobbiamo guardare con fiducia e dobbiamo preparare nella scuola i mezzi per la sua ascesa. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cevolotto. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Onorevoli colleghi. Io ho la fortuna – e sarà una fortuna anche per voi – di poter parlare molto brevemente, perché molte delle cose che avrei voluto dire le ha già dette l’amico onorevole Calamandrei.

Esaminerò, quindi, molto sommariamente gli articoli del progetto di Costituzione relativi alla famiglia.

Articoli che, a dire la verità, non mi sembra possano andare esenti da molte critiche e da molte perplessità da parte nostra. Per esempio, l’articolo 23 dice: «La famiglia è una società naturale». Lasciamo da parte se la famiglia sia in origine una società naturale o non piuttosto una società religiosa, lasciamo da parte tutte le questioni di carattere sociologico; ma che ragione c’è di mettere nella Costituzione una definizione della famiglia? Perché vogliamo inserirla? Altre definizioni ne abbiamo forse date? Parliamo del Comune, ma non diamo la definizione del Comune, parliamo della Regione, ma non diamo la definizione della Regione. E allora, perché questa tale definizione? Non è una superfluità? Non è una qualche cosa che stona con l’armonia anche estetica nel testo della Costituzione? Non è meglio tralasciare un’affermazione di carattere storico e sociologico, che non ha niente a che fare con la Costituzione, e limitarsi a dire che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia e la tutela nell’adempimento della sua missione? Si toglie qualche parola, e in questa Costituzione ho l’impressione che sarebbe sempre opportuno di togliere delle parole, perché ce ne sono troppe.

Ma quello che veramente mi preoccupa, o deve preoccupare tutti, è il capoverso dell’articolo 23, in relazione specialmente con l’articolo 25.

Il capoverso dice: «La Repubblica assicura alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa ed al suo sviluppo, con speciale riguardo alle famiglie numerose».

L’articolo 25 aggiunge: «È dovere e diritto dei genitori alimentare, istruire, educare la prole. Nei casi di provata incapacità morale o economica la Repubblica cura che siano adempiuti tali compiti».

Cura che siano adempiuti tali compiti? Come cura? Se i genitori non possono adempierli evidentemente li dovrà adempiere la Repubblica. E allora, anche a prescindere dalla lettera e dal tono del testo, il primo capoverso dell’articolo 23 richiama involontariamente quella che fu la politica demografica del fascismo, che fu del regime uno dei più grossi errori, di cui portiamo anche adesso le conseguenze. Perché non è affatto vero che «il numero è potenza», e se fossimo un po’ meno in questa povera Italia a disputarci il pane che non c’è, senza dubbio staremmo tutti meglio e avremmo avuto o potremmo ricostituire un’organizzazione più salda, più efficace e più potente.

Ma l’intenzione di chi ha redatto gli articoli non è stata probabilmente quella di tornare alla politica demografica, a quell’obbligo di fare figlioli per costringere al quale il fascismo avrebbe voluto collocare i carabinieri ai lati del talamo… per impedire le reticenze. L’intenzione non è stata questa: è stata un’altra, quella del remedium concupiscentiae, per cui è bene che i giovani appena possono si sposino, perché la natura esige certi sfoghi che la morale vuole siano legittimi.

Ma in questo modo si va incontro ad un pericolo. E il pericolo è questo, che quando un giovanotto non ha proprio voglia di lavorare, non ha voglia di far niente – e una volta lo si destinava in tal caso alla carriera militare – venga la voglia di consigliarlo di prendere moglie e metter su famiglia: la Repubblica penserà poi a mantenere i figlioli, e ci potrà scappare anche il modo di vivere e di sistemarsi per lui.

L’intenzione non sarà stata neanche questa in chi da redatto gli articoli. Ma, badate bene, voi finite per dire ai giovani: sposatevi, mettete al mondo figlioli, e poi ci penseremo noi. È un po’ troppo, perché, fra l’altro, siamo noi in grado di provvedere, o facciamo delle promesse a vuoto?

Ecco la mia perplessità. Pur riconoscendo che vi è nella formulazione proposta un contenuto morale di cui non si può non tener conto, mi domando se da un lato i principî che si affermano siano opportuni e utili, e se dall’altro non si mettano a carico di questa povera Repubblica impegni superiori a quelli che potrà mantenere.

Ma il punctum pruriens di questi articoli sulla famiglia è un altro, quello di cui ha parlato a lungo l’onorevole Calamandrei, motivo per cui potrò parlarne brevemente io: l’affermazione che la legge regola le condizioni del matrimonio al fine di garantirne la indissolubilità.

Devo però parlarne, perché in seno alla prima Sottocommissione siamo rimasti in due soli a combattere contro questo esplicito e definitivo divieto: l’amico onorevole Basso ed io. E non capisco come ci siamo trovati così in pochi. Perché se proprio vi è un articolo che deve essere tolto dalla Costituzione, è questo, e prima di tutto per una ragione formale, cioè perché questa non è materia di Costituzione.

Il Codice civile potrà stabilire o non stabilire l’indissolubilità del matrimonio. Ma non c’è motivo che nella Costituzione si affermi questo principio, che, fra le altre cose, è principio tanto poco pacifico che, per esempio, nel momento attuale, che io mi sappia, non vi sono che tre nazioni civili che non ammettono il divorzio: la Spagna, cioè la Spagna di Franco, perché la Repubblica spagnola lo aveva stabilito, la Repubblica di Andorra e la Repubblica di San Marino.

NENNI. Anche il Portogallo!

CEVOLOTTO. No, il Portogallo no. In Portogallo vige l’istituto del divorzio con alcune limitazioni, specialmente di tempo.

Nella marcia verso il divorzio si può rilevare, che man mano che le nazioni si evolvono verso la democrazia, adottano il divorzio: la Spagna quando è diventata democratica, con la Repubblica, ha ammesso il divorzio, che poi fu tolto dallo Stato dittatoriale.

L’onorevole Calamandrei ha fatto un’osservazione, che mi pare decisiva.

Ha detto: «Imperante – bene o male – l’articolo 7, che logica c’è, anche per voi, cattolici, di pretendere che il divieto assoluto del divorzio resti nella Costituzione?».

Perché – con l’articolo 7 – il Concordato è richiamato e cristallizzato nella Costituzione.

E nel Concordato è detto che lo Stato, volendo dare al matrimonio cattolico tutta la sua importanza morale, ne fa il matrimonio civile.

Allora, voi avete i canoni che vi assistono.

Il canone 1016:

«Baptizatorum matrimonium regitur iure non solum divino, sed etiam canonico, salva competentia civilis potestatis circa mere civiles eiusdem matrimonii effectus».

E c’è il canone 1038:

«Supremae tantum auctoritatis ecclesiasticae est authentice declorare quandonam ius divinum matrimonium impediat vel dirimat».

Ed ancora il canone 1960, che completa decisamente la materia, dicendo:

«Causae matrimoniales inter baptizatos iure proprio et exclusivo ad iudicem ecclesiasticum spectant».

Difatti, nel Concordato si stabilisce che le cause matrimoniali sono di spettanza esclusiva dell’autorità ecclesiastica.

Allora, il matrimonio cattolico è fuori di discussione: in base alla Carta costituzionale la indissolubilità è consacrata, è decisa, è sicura.

L’onorevole Calamandrei ha citato una serie di esempî, per i quali questa indissolubilità non è assoluta, neanche nel diritto canonico; e ha perfettamente ragione, specialmente per quel che riguarda la dispensa del matrimonio rato e non consumato.

L’onorevole Bosco Lucarelli diceva: altra cosa è la nullità, altra cosa è il divorzio. La nullità non ha niente a che fare col divorzio.

Il divorzio è scioglimento del matrimonio; ma la dispensa del matrimonio rato e non consumato è proprio una forma di scioglimento del matrimonio valido, ed è, quindi, una forma di divorzio, che può essere concessa agli sposi cattolici, quando siano riconosciute le giuste cause, perché, anche nel caso di matrimonio rato e non consumato, a che venga data la dispensa devono concorrere delle giuste cause.

Fra queste giuste cause vi è quella del periculum incontinentiae, quella del coniuge che non sa adattarsi alla non consumazione del matrimonio. Una giusta causa di questa natura è molto facile che ci sia; oserei dire che ci sarà sempre, perché è difficile che i due coniugi siano proprio d’accordo nel non consumare il matrimonio.

D’altra parte, se fossero d’accordo, non domanderebbero la dispensa del matrimonio rato e non consumato.

Ma questa è materia propria del diritto canonico, sul quale forse noi non abbiamo neanche il diritto di entrare a fondo.

Matrimonio rato e non consumato. Ci sono tanti casi curiosi. Per esempio, una volta la dimostrazione che il matrimonio era rato, ma non consumato, fu data dalla moglie con la testimonianza del suo amante, il quale dichiarava e giurava che l’aveva trovata vergine.

D’altra parte neanche la verginità è assolutamente necessaria, come prova, perché la «copula fornicatoria» – come dicono i canonisti – anteriore al matrimonio non c’entra. Anzi io ho un esempio di due coniugi che si erano sposati solo col rito civile ed avevano avuto un figlio; poi si sono sposati anche in Chiesa, poi si sono pentiti. Hanno dimostrato che il secondo matrimonio, quello in Chiesa, non l’avevano mai consumato ed ebbero la dispensa. Queste sono le conseguenze strane che si avverano in questo campo, anche in base alla più legittima dottrina canonica. Ma il fatto che vi siano delle possibilità di dispensa del matrimonio rato e non consumato, può rappresentare (dato che il matrimonio è ormai per la enorme maggioranza dei cittadini quello regolato dal diritto canonico) un allargamento delle maglie della catena matrimoniale rispetto al Codice civile, di cui beneficieranno coloro che si sposano secondo il rito cattolico. E non saremo noi a lamentarci, se i tribunali ecclesiastici talvolta non si mostreranno molto severi nel prevenire i possibili inganni. La Chiesa avverte che le conseguenze delle menzogne degli interessati sono a loro carico, perché in caso di inganno, il sacramento resta, con tutte le conseguenze di una dichiarazione apparente, che non toglie che i fraudolenti restino in stato di peccato mortale.

Ma, diceva giustamente l’onorevole Calamandrei, che cosa c’entra tutto questo con quei pochissimi matrimoni che si celebrano soltanto col rito civile? E qui io vorrei riferirmi, non soltanto ai matrimoni civili, ma anche ai matrimoni che si celebrano col rito delle altre religioni, i matrimoni che si celebrano coi riti della Chiesa ebraica, valdese, protestante. Perché, la situazione è questa: la regola ebraica ammette il «ripudio», che è una forma di divorzio. Non si vede perché noi diamo al matrimonio cattolico il valore del rito civile, del matrimonio civile, e non diamo lo stesso valore al matrimonio ebraico, ma pretendiamo che i matrimoni di coloro che sposano col rito ebraico siano regolati soltanto dalla legge civile. Perché dobbiamo impedire agli sposi ebrei di poter eventualmente divorziare secondo le forme della loro religione? E perché dobbiamo fissare una regola nella Costituzione che ci proibirà di concedere a questi il divorzio anche in avvenire, in altra occasione, in altri tempi, quando si potrà trattare tranquillamente di questi argomenti che non appaiono forse ora i più urgenti e i più impellenti?

Anche qui – e vorrei quasi quasi insegnare un pochino agli sposi non cattolici come possono fare, tanto più che questo potrebbe portare qualche conversione alla fede cattolica – se due coniugi non di religione cattolica, quindi degli infedeli, si sono sposati, per esempio, col rito ebraico ed uno di essi si battezza, allora c’è il privilegio Paolino, e dopo alcune interrogazioni alle quali è facile rispondere, possono essere dispensati dal matrimonio, cioè dal vincolo. A questo riguardo c’è il canone 1120, che dice: Legitimum inter non baptizatos matrimonium, licet consummatum, solvitur in favorem fidei ex privilegio Paulino. Potreste così acquisire delle conversioni da parte di qualche coniuge (ebreo o protestante) che non sia contento del suo matrimonio e che si faccia cattolico per riacquistare la libertà.

Io mi domando se le avversioni che ci sono per il divorzio, in certi casi – come appunto nei casi dei non cattolici, nei casi dei non credenti che si sono sposati soltanto col rito civile, o con le forme di altre religioni – hanno un qualche fondamento di legittimità. Non l’hanno nel campo giuridico, perché non è controverso che il matrimonio è anche un contratto: del resto, la forma contrattuale al matrimonio l’ha data proprio il diritto canonico. Sta bene che nel diritto canonico il contratto si identifica e coincide col sacramento, e quindi si forma il vincolo in quanto contemporaneamente al contratto sorge anche il sacramento; sta bene questo, ma, per il Codice civile, il matrimonio è anche un contratto dal punto di vista giuridico. Non vedo la ragione – data la natura di un tal contratto – per cui non possa sciogliersi.

Dal punto di vista sociale, il diritto canonico sostiene l’indissolubilità del matrimonio anche per i matrimoni legittimi non cattolici. Il Gasparri, per esempio, afferma l’indissolubilità del matrimonio essere, in qualche modo, di diritto naturale e non potere essere sancito il divorzio dal potere civile, neanche nel caso di infedeltà. Argomenta della indissolubilità del vincolo dai fini del matrimonio, dal fine primario di avere una prole, dal fine di educare la prole, ma specialmente dai precetti primari della legge naturale. Però vi è una obiezione vecchia, che può sembrare anche banale, ma del tutto banale non è: la separazione coniugale non produce forse gli stessi effetti, non – naturalmente – sul vincolo, che rimane, ma gli stessi effetti pratici del divorzio, rispetto alla prole e rispetto alla disunione della famiglia?

Infatti, nel diritto canonico esiste bensì la separazione coniugale, ma i canonisti la chiamano divortium limitatum: limitato, sia pure, perché il vincolo resta, ma divorzio, e gli effetti rispetto alla prole sono gli stessi. Forse non è un male, perché io mi domando, per quanto grave e dolorosa possa essere la situazione dei figli quando una famiglia si è divisa, quando la moglie ed il marito vivono separatamente, se questo male non sia ancora preferibile al fatto che i figli assistano ai litigi, ai dissidi, alla disunione intima della famiglia e ne traggano delle impressioni che non si cancellano. E quanto meglio sarebbe se alla separazione seguisse non – come ora – l’adulterio e la costituzione di nuove famiglie illegittime, ma la forma lecita e legale dello scioglimento del matrimonio e della regolarizzazione delle posizioni irregolari!

Qui è opportuno ricorrere anche alla statistica: in questi tempi le separazioni coniugali legali vanno aumentando in modo impressionante e vi sono molte separazioni che non sono legali. Negli anni del dopoguerra, secondo le statistiche che ho cercato di compulsare, ci sono stati in media 30 mila casi di separazione legale all’anno e almeno altrettante devono essere le separazioni di fatto. Sono cifre che impressionano. Dimostrano che il problema, se non è, come si dice, sentito dalla grande massa (e questo aspetto politico va tenuto in conto), è però urgente per una notevole quantità di cittadini.

Non che io voglia dare un peso assoluto alle statistiche: le statistiche dicono quello che si vuol far dire loro. Leggevo proprio ora un esempio in un libro che tratta del divorzio: racconta di una certa statistica, che era stata fatta dagli inglesi in India, in un reggimento indiano, dalla quale risultava il dato stupefacente che la mortalità degli astemi era del cinquanta per cento e si trattava di giovani soldati. Ma in quel reggimento gli astemi erano soltanto due, e uno se l’era mangiato una tigre nella giungla!

Ora, molte volte, le statistiche si prestano a trarne conseguenze che non sono affatto esatte. Però, l’evidenza della verità che le separazioni, legali e non legali, vanno aumentando nel dopoguerra, è di dominio pubblico, anche perché è una conseguenza inevitabile di ciò che è successo durante la guerra, è una conseguenza della disunione che ha portato con la lontananza dei mariti la libertà sessuale delle mogli, è una conseguenza della disfatta, dell’invasione, della miseria e di tutte le altre disgrazie che ci sono capitate. Io mi domando: perché mettere un divieto assoluto al divorzio, perché mettere questa ipoteca sull’avvenire? Volete convincervi che in un periodo di così evidente immoralità, il divorzio gioverebbe a moralizzare la famiglia, non ad abbassarla?

Non insisto su questo tema perché non voglio uscire dal limite di tempo stabilito, anzi vorrei restare al di qua dei trenta minuti. E poi non desidero ripetere male quello che l’onorevole Calamandrei ha detto benissimo. Ma insisto nel dire che la questione del divorzio prima o poi sorgerà e dovrà essere risolta anche in Italia, sia pure con soluzioni prudenti e limitate. Non è successo niente di catastrofico nelle nazioni che da tanto tempo hanno il divorzio. I famosi «pericoli sociali» si sono dimostrati inesistenti in pratica, poi che da molti anni in tutte le nazioni civili vi è il divorzio. Per i casi più evidenti e dolorosi, con cautela, anche in Italia, prima o poi, ci si dovrà avviare per questa strada. Non mettiamo un punto fermo che non ha ragione di essere né dal lato formale, né dal lato sostanziale. La questione politica del momento nel quale si dovrà innovare al nostro diritto civile in argomento, non è forse – lo riconosco – attuale.

E passo a dire soltanto due parole su ciò che riguarda la condizione dei figli illegittimi. Secondo me, molti colleghi sono stati dominati da una impressione, che hanno ricevuto da una prima lettura dell’articolo del progetto che probabilmente non è esatta. All’articolo 25, che esprime un concetto sul quale senza dubbio saremo tutti d’accordo, si è attribuito un significato e si è data una portata che vanno al di là del principio. Io avrei preferito la formula, magari forse un po’ retorica, che era stata proposta nella prima Sottocommissione e cioè che la legge provvederà perché non possano ricadere sui figli illegittimi le conseguenze di uno stato coniugale non conforme al diritto.

Il testo del progetto di Costituzione dice invece: «I genitori hanno verso i figli nati fuori del matrimonio gli stessi doveri che verso quelli nati nel matrimonio». Il principio è sacrosanto. Si può ammettere che un genitore abbia dei doveri diversi verso il figlio che ha generato fuori del matrimonio, e che non ne ha colpa, e verso il figlio che ha generato nel matrimonio? Anzi, sotto un certo aspetto, i doveri sono più forti verso il figlio incolpevole che è nato da una colpa, e che perciò è in una posizione di inferiorità. Ma non si dice che la parificazione deve essere completa nel senso di introdurre il figlio illegittimo nella famiglia, di farlo sedere allo stesso desco, di considerarlo come membro che ha diritto di abitare nella stessa casa? Questo non è nel progetto? Se sorgesse un dubbio di interpretazione, converrebbe chiarire la portata del testo.

Nessuno può imporre alla moglie legittima, ai figli legittimi una vicinanza, una comunanza di vita che sarebbero fonti di discordie, di avversioni, di lotte, di cattiverie, di disgregazione, di male per tutti.

I doveri dei genitori verso tutti i figli sono gli stessi; cioè tutti i figli devono esser messi nello stato di parità giuridica, non che in fatto devano occupare lo stesso posto.

L’articolo prosegue dicendo che la legge garantisce ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità civili e sociali. E anche questo è giusto e sacrosanto. Non vi è nessuna tutela della famiglia che possa prescindere dai doveri dei genitori, verso ciò che essi hanno creato. Se degli individui poco scrupolosi vanno a seminare fuori della casa, ebbene, devono portare le conseguenze di quanto hanno fatto. Non vi è nessuna ragione per cui i figli nati fuori del matrimonio non abbiano garanzia assoluta di una tutela che sia efficace. La formula non dice ciò che molti hanno supposto, ma è una formula che, con un senso di umana giustizia, dovrebbe essere da tutti accettata.

Non aggiungo altro perché il tempo stringe e non vorrei sentirmi richiamare dal Presidente, il quale è molto paziente, ma non intendo abusare della sua pazienza.

Dico soltanto che questi articoli sulla famiglia, che sono evidentemente inspirati ad alte idee etiche e sociali, vanno migliorati nella forma; vanno tolte ad essi quelle disarmonie, quelle difficoltà, di cui ho fatto cenno. Certamente noi vogliamo una salda tutela della famiglia, certamente ci auguriamo che dalla Carta costituzionale questa tutela riesca efficace, certamente noi desideriamo che la nuova famiglia italiana sia una famiglia sana, che dia una base concreta morale ed efficace al risorgimento della nostra Nazione. (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 11. Domani vi sarà seduta anche alle 16.

Avverto che fra dieci minuti l’Assemblea tornerà a riunirsi in Comitato segreto.

La seduta termina alle 19.5.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.