Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 15 APRILE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

xc.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 15 APRILE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

 

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Cappi                                                                                                                 

Corsanego                                                                                                       

Nobili Tito Oro                                                                                                

Dominedò                                                                                                         

Costantini                                                                                                        

Carignani                                                                                                         

Tupini, Presidente della prima Sottocommissione                                                 

Veroni                                                                                                              

Tosato                                                                                                              

Leone Giovanni                                                                                                

Caroleo                                                                                                           

Crispo                                                                                                               

Calosso                                                                                                            

Badini Confalonieri                                                                                        

Merlin Umberto                                                                                              

Interrogazione con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio                               

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli Lucifero e Condorelli.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Pongo in discussione l’articolo 22:

«I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono personalmente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. Lo Stato e gli enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti.

«La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari».

Sono stati presentati a questo articolo parecchi emendamenti. Il primo è quello dell’onorevole Codacci Pisanelli – già svolto nel corso della discussione generale – del seguente tenore:

«Sostituirlo col seguente:

«I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono personalmente responsabili verso i cittadini e verso la pubblica Amministrazione, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti dolosamente o colposamente compiuti in violazione di diritti o interessi giuridicamente protetti. Lo Stato e gli enti pubblici sono solidalmente responsabili con i loro dipendenti per ogni danno dolosamente o colposamente arrecato nell’esercizio delle pubbliche funzioni a questi attribuite e, negli altri casi, sono direttamente responsabili per i danni derivati da atti governativi che ledano o anche legittimamente sacrifichino diritti o interessi giuridicamente protetti. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari».

Gli onorevoli Cappi, Castelli Edgardo, Schiratti, Tosato, Recca, De Palma, Bastianetto, Tozzi Condivi, Bulloni, Lettieri, Chieffi, hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituire l’articolo 22 col seguente:

«Lo Stato e gli Enti pubblici sono responsabili – salvo rivalsa – degli atti illegali compiuti dai loro dipendenti.

«Le vittime di errori giudiziari hanno diritto di essere indennizzate dallo Stato».

L’onorevole Cappi ha facoltà di svolgerlo.

CAPPI. Rinunzio all’emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Corsanego ha presentato i seguenti emendamenti:

«Al primo comma, dopo la parola: atti, aggiungere: o omissioni».

«Fare del secondo comma un articolo a sé».

Ha facoltà di svolgerli.

CORSANEGO. Propongo in primo luogo che alla parola «atti», scritta nel testo preparato dalla Commissione, siano aggiunte le parole «o omissioni»; per due motivi: i giuristi sanno che nella parola «atti» sono comprese anche le omissioni; però, poiché la Costituzione non è scritta soltanto per i giuristi, ma è scritta per il popolo, forse è opportuno aggiungere la parola «omissioni». Il secondo motivo è il seguente: di regola il cittadino si lamenta che i pubblici uffici omettano di compiere qualche cosa che a lui sta a cuore. Si presenta ad un ufficio per chiedere un documento, e questo non gli viene consegnato, o gli viene consegnato con molto ritardo. Quindi la negligenza degli uffici statali nei riguardi del cittadino è di solito una negligenza omissiva. Per questi motivi ho proposto di aggiungere la parola «omissioni».

Contemporaneamente ho proposto che il secondo comma dell’articolo 22 diventasse un articolo a sé; e questo non l’ho suggerito solo per ragioni di euritmia legislativa, ma per un motivo di tecnica giuridica. Se noi leggiamo infatti attentamente il secondo comma, immediatamente dopo aver letto il primo, ci sembra a prima lettura che il comma primo si riferisca agli errori giudiziari nei giudizi sulla responsabilità dei pubblici funzionari, mentre il secondo comma ha una portata molto più ampia, molto più generale.

Per questo motivo propongo che, pur restando immutato il testo del secondo comma, questo faccia parte a sé, come articolo.

PRESIDENTE. L’onorevole Nobili Tito Oro ha presentato il seguente emendamento:

«Al primo comma sopprimere le parole: Lo Stato e gli enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti».

Ha presentato inoltre, unitamente agli onorevoli Tonello, Fogagnolo, Merighi, Faccio, Fornara, Giua, Tega, Barbareschi, Vernocchi e Costantini, il seguente emendamento:

«Subordinatamente all’emendamento soppressivo della fine del primo comma, sostituire alla parola: garantiscono, l’altra: assicurano».

L’onorevole Nobili Tito Oro ha facoltà di svolgerli.

NOBILI TITO ORO. I miei due emendamenti, onorevoli colleghi, prospettano una questione giuridica e ne propongono due soluzioni subordinate. Il primo comma dell’articolo 22 contempla i danni cagionati da dipendenti dello Stato o degli enti pubblici per violazione di diritti; si intende di tutti i diritti, illimitatamente; ne dichiara responsabili, in via penale, civile ed amministrativa, i dipendenti medesimi e dichiara che lo Stato e gli enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni prodotti da costoro: si intende, non v’ha dubbio e tuttavia sarebbe stato necessario dirlo, prodotti dai dipendenti nell’esercizio delle loro attribuzioni.

Si prospetta quindi la questione vessata, la questione storica, direi quasi, dei limiti di responsabilità dello Stato e delle pubbliche amministrazioni, per il fatto dei dipendenti. E pertanto non si può prescindere dal tener conto dello stato della dottrina e della giurisprudenza che si sono affermate in proposito sia nel campo giuspubblicistico sia in quello del diritto privato, in base alla legge positiva.

Ora, io non riesco a comprendere – e la relazione del Presidente della Commissione non ce lo spiega – perché si sia usata nel testo, là ove si parla dell’obbligo dello Stato di risarcire i danni, l’espressione «garantiscono». Giuridicamente non si tratta di una garanzia; si tratta bensì di una responsabilità diretta; e di questa responsabilità si è in passato molto discusso e molto dubitato.

Agli albori del nostro Codice si è addirittura osato negarla in pieno, in base alla teoria che lo Stato, come ente etico destinato ad organizzare il bene e, secondo alcuni filosofi, perfino la felicità dei cittadini, non possa essere chiamato responsabile dell’insuccesso dei suoi sforzi nel campo di questa organizzazione. Si è detto anche che lo Stato non può rispondere della cattiva scelta dei suoi dipendenti in quanto questa scelta sia avvenuta, come per legge, a mezzo di pubblico concorso. Si è fatta altresì distinzione fra atti patrimoniali e atti di imperio, per riconoscere la responsabilità nei primi e negarla per i secondi; in relazione agli atti dell’amministrazione militare, c’è stato un periodo in cui si è totalmente negata, sotto questo riflesso, la responsabilità dello Stato; ma siamo arrivati poi – e ci siamo arrivati da qualche tempo – al riconoscimento completo, sia da parte della dottrina in generale e di quella dello Stato in particolare, sia da parte della giurisprudenza regolatrice, non solo della giuridica sussistenza della responsabilità dello Stato, ma del suo carattere diretto, e cioè per fatto proprio (a rigore dell’art. 1151 del Codice civile abrogato e 2043 del Codice civile vigente) e non di carattere indiretto, e cioè per colpa del commesso, ai sensi degli articoli 1153 e – rispettivamente – 2049.

Beninteso deve farsi distinzione fra il fatto illecito, «colposo o doloso» (art. 2043 del Codice civile vigente), del dipendente e l’atto amministrativo, che è e resta insindacabile nel campo giudiziario e che può essere impugnato per illegittimità soltanto in sede amministrativa, sia in via gerarchica sia in via giurisdizionale. Questa distinzione va tenuta ben presente nella terminologia che dovrà essere usata nel testo definitivo dell’articolo.

Con questa precisazione, che pure era necessaria, insisto nella affermazione, evidentemente non valutata nella formulazione, che ormai da tempo la giurisprudenza della Corte Suprema, anche a Sezioni Unite, ha riconosciuto in pieno che lo Stato deve rispondere del fatto del proprio dipendente; e che ne risponde, come poc’anzi ho accennato, non per colpa indiretta del committente, e cioè per colpa institoria, ma per fatto proprio; in quanto lo Stato, non essendo persona fisica, ma ente morale, non può agire ed essere impegnato se non a mezzo e per fatto dei propri organi, e cioè dei suoi dipendenti. Onde, quando questi mancano e danneggiano i terzi per errore o per dolo, è lo Stato stesso che ha mancato e danneggiato e che deve riparare.

E così stando le cose, mi domando: perché usare il termine «garantire»? Non so se, dato l’uso inesplicabile di questo termine inusitato, vi si annidi qualche riserva mentale di carattere giuridico, o politico, qualche cautela nell’interesse dello Stato per eventuali rivalse, in quanto concretamente possibili, verso i dipendenti personalmente responsabili, ma effettivamente la formula dovrebbe essere la seguente: «Lo Stato risponde in proprio».

Se a una affermazione così rigorosa non si voglia arrivare, e se ne potrebbe fare a meno, perché essa, è conseguenza diretta e automatica della responsabilità del dipendente (primo emendamento), si presenta un’altra soluzione: adoperiamo una formula che non abbia carattere giuridico, come quella usata, che non è assolutamente la più indicata, in quanto si garantisce l’obbligazione altrui, non quella propria; ricorriamo ad altra locuzione, non giuridica, generica e quindi anodina, ma tale da far sicuri ugualmente coloro che possono essere danneggiati del diritto al risarcimento da parte dello Stato. Lasciamo impregiudicata la natura giuridica del diritto a questo risarcimento, ed adoperiamo la formula che: «lo Stato assicura il risarcimento dei danni» (emendamento subordinato). Diciamo quindi che: «lo Stato e gli enti pubblici assicurano il risarcimento dei danni prodotti dai loro dipendenti», e, vorrei aggiungere, «nell’esercizio delle loro funzioni».

PRESIDENTE. Segue l’emendamento, già svolto, dell’onorevole Veroni:

«Al primo comma, sostituire le parole: Lo Stato e gli enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti, con le seguenti: È solidale la responsabilità dello Stato e degli enti pubblici per il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti».

L’onorevole Dominedò ha presentato tre emendamenti:

«Al primo comma, alle parole: garantiscono il risarcimento, sostituire le altre: rispondono direttamente, oppure: sono tenuti al risarcimento».

«Al primo comma, secondo periodo, dopo la parola: dipendenti; aggiungere: nell’esercizio delle loro funzioni».

«Trasferire il secondo comma all’articolo 19, quale terzo comma».

Ha facoltà di svolgerli.

DOMINEDÒ. Ho proposto due emendamenti al secondo periodo del primo comma all’articolo 22.

Il primo, e qui mi avvicino a quanto accennava l’onorevole Nobili Oro, ha lo scopo di sostituire l’espressione «garantiscono il risarcimento», la quale non sembra la più indovinata, se è vero che si garantisce in adempimento in senso positivo, mentre qui sorge il problema di una responsabilità per l’illecito già maturato. Quindi escluderei la terminologia «garantiscono» preferendo quella «rispondono», dato che tecnicamente qui siamo di fronte ad una vera e propria responsabilità per fatto altrui. Una terminologia così lata, offre il vantaggio di lasciare aperta, in sede legislativa, ogni ulteriore specificazione; onde la responsabilità, qui genericamente affermata, potrà essere successivamente definita come sussidiaria o, in determinate ipotesi, eventualmente solidale, sarà obbiettiva o nascente da colpa, a seconda dei casi. Quindi, emendando il mio originario emendamento e togliendo l’avverbio «direttamente», mi limiterei a dire: «Lo Stato e gli enti pubblici rispondono».

Il secondo rilievo è questo: che lo Stato e gli Enti pubblici rispondono dei danni arrecati dai loro dipendenti, ma in quanto rientranti «nell’esercizio delle loro funzioni». Io vorrei aggiungere questa specificazione, che è una delimitazione essenzialmente inerente al concetto della responsabilità per fatto altrui, ed appare qui tanto più necessaria, in quanto serve da temperamento alla lata formula di «dipendenti», adottata dal progetto, in luogo di quella di funzionari o esercenti pubbliche funzioni. Anche la Costituzione spagnola del 1931, la quale, salvo errore, è la sola che tratta di professo questo problema, esprime il concetto della delimitazione della responsabilità nell’ambito delle funzioni spettanti al dipendente. Ed analogamente, in materia civilistica, vige un tale principio per quanto concerne la responsabilità del preponente per il preposto o del committente per il commesso.

V’è infine un terzo emendamento, di mera forma, riguardante il secondo comma dell’articolo, che io propongo di unire all’articolo 19, laddove sono sanzionati i principî generali in tema di esercizio di azioni a tutela dei propri diritti e interessi. Quindi penso che la norma sugli errori giudiziari vada più opportunamente inserita in sede di articolo 19, ovvero, in subordine, mi assocerei alla proposta Corsanego di fare un articolo a sé.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Bellavista, già svolto:

«Sostituire il secondo comma col seguente: «La legge riconosce il diritto di riparazione alle vittime degli errori giudiziari, e ne determina le condizioni ed i modi per l’esercizio».

Gli onorevoli Costantini, Morini, Arata, Binni, Veroni, Badini Confalonieri, Cifaldi, Treves, Bassano, Crispo, hanno proposto di sostituire l’articolo con il seguente:

«I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono responsabili degli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni loro attribuite, in violazione di diritti o di interessi legittimi.

«Le norme relative alla responsabilità civile sono estese allo Stato e agli enti pubblici per fatti dei loro dipendenti.

«La legge determina le condizioni ed i modi per la riparazione degli errori giudiziari».

L’onorevole Costantini ha facoltà di svolgerlo.

COSTANTINI. Ho ritenuto di presentare un emendamento sostitutivo di tutto l’articolo 22, in unione ad altri colleghi, perché mi sembrava che il testo dell’articolo formulato dalla Commissione dei Settantacinque non rispondesse a quella che è la situazione e, sotto determinati aspetti, attribuisse allo Stato responsabilità che vanno molto al di là di quelle che sono, in genere, le responsabilità per fatti altrui, cioè l’onere di risarcire i danni creati dal fatto dei propri dipendenti, secondo quanto è stabilito nella legge civile.

Ed allora, senza ripetere quello che su questa materia ci è stato detto da altri colleghi che mi hanno preceduto mi sembra che l’espressione «i dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici sono personalmente responsabili secondo le leggi penali, civili ed amministrative degli atti compiuti in violazione di diritti», possa essere vantaggiosamente sostituita, fermo il concetto basilare della responsabilità, con quella da me usata: «I dipendenti dello Stato ed Enti pubblici sono responsabili degli atti compiuti, nell’esercizio delle funzioni loro attribuite, in violazione di diritti o di interessi legittimi». Con ciò, sostanzialmente, non si tratta di stabilire una responsabilità diretta dei dipendenti dello Stato, originata da fatti colposi o da violazioni di diritti; responsabilità già affermata dalla legge per tutti i cittadini, ma invece di stabilire, come conseguenza di un illecito o di un atto colposo del dipendente, quello che si afferma col secondo comma, cioè la responsabilità del committente per il fatto del commesso. Ecco perché ritengo che la specificazione di essere il fatto posto in relazione alle funzioni attribuite al dipendente sia indispensabile nella fattispecie, perché altrimenti noi giungeremmo ad affermare una forma di responsabilità diretta dello Stato, anche per quanto un pubblico funzionario od un dipendente dello Stato in genere faccia al di fuori delle funzioni che ad esso sono state delegate od assegnate.

Nel secondo punto, infatti, il testo del progetto dice: «Lo Stato e gli Enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti», e questo senza specificare se si tratti d’una garanzia per violazioni di norme o di interessi; se nell’esercizio delle funzioni attribuite o all’infuori di esse. Ho ritenuto più utile, ripeto, chiarire il concetto, che, in fondo, dovrebbe essere quello determinante la norma, cioè: lo Stato risponde per responsabilità indiretta ai termini delle leggi vigenti.

In ultima analisi, la legislazione italiana, mi riferisco al diritto privato, soprattutto, determina la responsabilità del committente per il fatto del commesso, dell’appaltatore per il fatto del proprio dipendente, ecc., quando il fatto lesivo sia compiuto nell’esecuzione dell’incombenza o in relazione ad essa.

È la forma di responsabilità indiretta, che viene chiaramente richiamata con riferimento alle norme fondamentali vigenti nel nostro diritto privato sulla materia.

Mi è sembrato utile dire che:

«le norme relative alla responsabilità civile sono estese allo Stato ed agli Enti pubblici per i fatti (si intende, quelli di cui al comma precedente) dei loro dipendenti».

La terza parte potrà restar tale quale, in quanto che sostanzialmente si stabilisce una responsabilità che è utile sia determinata, e si rimanda alla legge comune la specificazione delle forme, attraverso cui giungere al risarcimento dei danni recati dagli errori giudiziari.

In sostanza, io ho creduto utile portare la posizione dei dipendenti statali a quella di tutti i dipendenti privati in generale, cioè dei lavoratori per conto e nell’interesse di terzi.

La responsabilità civile per fatto altrui, la quale finora era attribuita esclusivamente ai privati, deve gravare anche sullo Stato e sugli Enti pubblici, per rispetto di un principio di eguaglianza e di giustizia, che è indispensabile stabilire, specialmente dopo le recenti se pur passate aberrazioni della giurisprudenza, che ha per tanto tempo stabilito l’assoluta irresponsabilità dello Stato per il fatto del proprio dipendente.

PRESIDENTE. L’onorevole Carignani, unitamente ad altri, ha proposto i seguenti emendamenti:

Sostituire il primo comma con il seguente:

«I dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici sono responsabili per i loro atti, secondo le leggi penali e amministrative. Lo Stato e gli enti pubblici sono tenuti al risarcimento dei danni derivati ai cittadini a causa dei loro dipendenti».

Ha poi proposto di trasferire il secondo comma all’articolo 19 del progetto.

L’onorevole Carignani ha facoltà di svolgere l’emendamento.

CARIGNANI. Mi valgo dell’esperienza di vita amministrativa.

La mia intenzione veramente era di proporre addirittura la soppressione dell’articolo, perché trovavo superfluo che della legge costituzionale fondamentale facesse parte un provvedimento di carattere, direi, occasionale, e che si riferisce e si deve riferire, evidentemente, al tempo ed ai luoghi, dove le responsabilità devono essere delimitate.

Quindi, l’articolo in sé, secondo il mio modo di vedere, è già in una posizione difficile, quando si trova soltanto al termine del capitolo sui rapporti civili; mentre, allorché si dovrebbe parlare di responsabilità dell’impiegato, dovrebbe essere compreso ed esteso a tutta quella che è l’attività funzionale dello Stato nei suoi vari rami.

Comunque, nell’intendimento di ridurre al minimo e di affermare il concetto della responsabilità, da parte dei funzionari, nell’esercizio delle loro mansioni, io ho pensato che convenisse, soprattutto, variare la prima parte dell’articolo, sopprimendo quella che poteva apparire una cosa troppo pesante per la grande massa dei dipendenti dello Stato, che leggeranno la Carta costituzionale; ed intanto direi di abolire quell’avverbio «personalmente» che mi dà l’impressione di un pugno nel petto per quei disgraziati di impiegati che debbono attendere a questi servizi. E direi: «I dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici sono responsabili (anziché sono personalmente responsabili) dei loro atti secondo la legge penale ed amministrativa».

Qualche collega mi ha fatto osservare che parlare di responsabilità secondo la legge penale è una cosa pleonastica, perché evidentemente qualunque cittadino che compia in qualsiasi grado e stadio della sua vita un atto che offenda la legge penale cade sotto la legge penale stessa, e questo non c’è bisogno di dirlo qui.

Si dice nel testo che, oltre che ai sensi della legge penale, l’impiegato risponde anche civilmente. Anche su questo io richiamo la vostra attenzione; specialmente gli avvocati sanno che cosa vuol dire quell’avverbio «civilmente»: questa responsabilità caricata sulle spalle di un povero burocrate, non è il caso di affermarla qui, anche perché non dobbiamo vedere sempre nei burocrati solo dei nemici degli amministrati, perché ci sono, ci sarà, un’aliquota di persone che dovrebbero andare a fare un altro mestiere, ma nella grande massa i burocrati, da decenni e decenni, danno un esempio di molta serietà ed hanno un senso di responsabilità veramente rispettabile. È una cosa questa che in fondo finisce per creare un’atmosfera di antipatia fra la nuova Repubblica e la massa degli impiegati.

Tornando alla questione della «responsabilità civile», io desidero ricordare che, quando si richiama questo concetto, si dice cosa che supera ogni sanzione inerente ai doveri dell’ufficio e pone l’impiegato alla mercé dello spirito litigioso dei cittadini. E le conseguenze saranno sempre gravi per il povero impiegato, perché – anche se avrà ragione – dovrà pur sempre difendersi. Quindi eviterei di adoperare quel termine «civile» nell’articolo, perché dà la sensazione di essere un qualche cosa di molto pesante sulle spalle degli impiegati, mentre che, per la natura del diritto privatistico, si ha sempre l’affermazione di eventuali responsabilità civili senza bisogno di dirlo. La responsabilità amministrativa, inoltre, è in re ipsa, per il fatto stesso che un impiegato il quale esercita una mansione amministrativa cade sotto la sanzione di quella legge che – per così dire – è lo strumento del suo lavoro.

Per indulgere in qualche maniera al testo della Commissione, io avrei limitato la motivazione soltanto in riferimento alle sanzioni delle leggi penali ed amministrative, omettendo «con intenzione» quelle civili, perché rappresentano evidentemente un pericolo anche più grave per i dipendenti che oltre le responsabilità derivanti dalle norme amministrative – già di per sé onerose – si troverebbero a sopportare il carico di un risarcimento danni che finirebbe per rovinarli del tutto, nel caso deprecato di qualche infortunio professionale. Una considerazione, di ordine generale mi pare che si imponga: se noi tendiamo a stringere questa grande massa impiegatizia nelle morse di gravi responsabilità, bisogna stare attenti, perché potremmo paralizzare la vita del Paese; questo è il più grande pericolo. (Commenti).

Voci. No, no!

CARIGNANI. Può dire di no chi non vive molto in questo ambiente; io ho dovuto viverci, e quando cominciate a pensare che l’impiegato possa domani giustificare se stesso con queste responsabilità che gli derivano dallo Statuto del nostro Paese, evidentemente noi non possiamo neanche fare delle pressioni maggiori, perché quell’impiegato giustifica bene la sua inerzia. E questo rappresenterebbe un grande detrimento per tutta la vita burocratica dello Stato.

Per ciò che riguarda il secondo periodo, le considerazioni sono ovvie ed ognuno le ha fatte prima di me. Anche qui ho cercato di attutire il colpo per ciò che riguarda sempre la funzione dell’impiegato.

Mentre il testo dice: «Lo Stato e gli Enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti», io ridurrei la formula in questi termini: «Lo Stato e gli Enti pubblici sono tenuti al risarcimento dei danni derivati ai cittadini a causa dei loro dipendenti».

La dizione da me proposta tende ad attenuare la sostanza e la forma. Il concetto che lo Stato debba risarcire i danni arrecati dalla cattiva amministrazione è un concetto giuridicamente fondato; ma il dire, come si dice qui, che i danni dovevano essere arrecati dai dipendenti, viene a creare quasi una rivalsa dello Stato verso i dipendenti, per il danno che essi avessero potuto arrecare nei confronti di qualche cittadino in conseguenza della loro attività professionale di impiegati. Ed allora mi è sembrato che fosse più opportuno ridurre al minimo questa espressione, dandosi ad essa il modo per una interpretazione più favorevole verso i dipendenti.

Un’ultima osservazione, che mi pare di ordine logico e credo sia stata già fatta dall’onorevole Dominedò, a proposito del secondo comma dell’articolo 22, il quale dice:

«La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari».

Mi pare che sia ovvio come questo comma non abbia proprio nulla a che fare con l’articolo 22. Cosa c’entrano gli errori giudiziari con l’affermazione di un principio di responsabilità?

Giustamente l’onorevole Dominedò ha già osservato che questo capoverso poteva andare benissimo a fine dell’articolo 19; ed io mi associo volentieri a questo suo modo di vedere, perché la lettura dell’articolo 19 convince facilmente che esso è il punto più adatto in cui si può inserire questo capoverso.

Infatti, dice l’articolo 19:

«Tutti possono adire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi».

E con questo si afferma il diritto attivo del cittadino all’azione, quindi si entra nel cuore dei rapporti giudiziari che consacrano il diritto del cittadino a chieder giustizia allo Stato.

E si aggiunge: «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento». E allora ne può discendere, anzi ne deve discendere, che gli errori giudiziari devono essere riparati in quel determinato modo che fisserà la legge; di modo che mi pare che, per logica conseguenza di un criterio strutturale dell’articolo 19, potrebbe andare in calce questo ultimo capoverso, piuttosto che lasciarlo in fondo all’articolo 22, dove è assolutamente fuor di posto.

PRESIDENTE. L’onorevole Patricolo ha presentato i seguenti emendamenti:

«Raggruppare gli articoli 8, 17, 18, 21, 20, 19, 22 nell’ordine».

«Raggruppare gli articoli 10, 12, 13, 14, 15 nell’ordine».

«Raggruppare gli articoli 16, 9 nell’ordine».

«Porre in ultimo l’articolo 11».

«La disposizione degli articoli sarebbe, pertanto, la seguente: 8 (8), 9 (17), 10 (18), 11 (21), 12 (20), 13 (19), 14 (22), 15 (10), 16 (12), 17 (13), 18 (14), 19 (15), 20 (16), 21 (9), 22 (11)».

«Trasferire l’ultimo comma all’articolo 22, quale ultimo comma».

Non essendo l’onorevole Patricolo presente, gli emendamenti si intendono decaduti.

Chiedo il parere della Commissione sugli emendamenti.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Mi permetto anche io fare una raccomandazione agli onorevoli colleghi: quella di non presentare gli emendamenti all’ultima ora.

CARIGNANI. L’ha già fatta il Presidente.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. A maggior ragione devo farla io, perché sono io che devo rispondere. E non la faccio all’onorevole Carignani, ma a tutti. Noi dobbiamo anche prepararci per rispondere e, quindi, una raccomandazione di questo genere non mi pare che sia superflua, e non ha alcun riferimento personale. La raccomandazione è generale, vale per tutti e, se accolta, avrà una particolare importanza per noi che pur dobbiamo rispondere a tutti. In questa raccomandazione non c’è niente di men che deferente verso i colleghi.

Ma per tornare al merito, prendo senz’altro in esame gli emendamenti presentati all’articolo 22 del progetto.

Questo articolo rappresenta una notevole conquista nel piano costituzionale. Afferma un principio ormai maturo nella coscienza nazionale e un progresso importante nel campo del diritto pubblico. L’articolo consta di due elementi fondamentali: 1°) la responsabilità personale del funzionario; 2°) la garanzia, che vorrei dire sussidiaria, dello Stato, in ordine alle omissioni o agli atti dei funzionari in dispregio delle leggi penali, civili e amministrative.

La prima parte dell’articolo, infatti, stabilisce che «I dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici sono personalmente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti». Esaminerò pertanto gli emendamenti relativi a questo comma a cominciare da quello dell’onorevole Corsanego, il quale propone che alla parola «atti» si aggiungano le altre «o omissioni». Lo stesso onorevole Corsanego ha detto, nell’illustrazione del suo emendamento, che anche l’omissione esaurisce per se stessa la figura di un atto. Tuttavia egli giustifica la proposta con la necessità di rendere più chiaro ed esplicito il concetto relativo, affermando che la Costituzione è fatta per il popolo e non per i giuristi. Osservo subito all’onorevole Corsanego che per sua stessa ammissione la parola «atto» è comprensiva di atto omesso e però il meno che si possa dire è che l’emendamento è pleonastico. In ogni caso se è vero che la Costituzione è fatta per il popolo è altrettanto vero che ad applicarla saranno chiamati i giuristi, i quali non potranno non tener conto dello spirito che ci anima. La Commissione quindi è contraria all’emendamento e prego l’onorevole Corsanego di ritirarlo.

L’onorevole Nobili Tito Oro propone in via principale la soppressione pura e semplice della seconda proposizione del primo comma: Lo Stato e gli Enti pubblici garantiscono, ecc., e in via subordinata la sostituzione del termine garantiscono con quello: «assicurano».

NOBILI TITO ORO. È un altro emendamento.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Comunque, l’emendamento dice: «assicurano il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti». Anche questo emendamento subordinato non può essere accettato dalla Commissione, perché altera il significato di tutto il primo comma in cui – secondo l’illustrazione da me fattane – la responsabilità prevista è graduata, cioè investe prima il funzionario e in via sussidiaria l’Amministrazione dello Stato. Se questo è il nostro pensiero, l’espressione più adeguata è data dalla parola «garantiscono» e non da quella «assicurano» proposta dall’onorevole Nobili Tito Oro; il quale vorrà accogliere la mia preghiera di non insistervi. A mia volta, assicuro lo stesso onorevole Nobili Tito Oro che l’emendamento aggiuntivo da lui proposto con la seguente formula: «nell’esercizio delle loro funzioni» è accettato dalla Commissione, e poiché eguale emendamento è stato proposto dall’onorevole Dominedò, valga per lui la stessa assicurazione.

L’onorevole Dominedò propone anche un altro emendamento, quello, cioè, di sostituire l’avverbio «direttamente» all’altro: «personalmente» usato nella nostra formula.

Accettiamo l’emendamento, perché il termine proposto dall’onorevole Dominedò sottolinea ancora di più la gradualità di responsabilità del funzionario e la garanzia sussidiaria dello Stato, che è nel nostro pensiero.

Però non potremo accedere all’altra proposta di emendamento: «sono tenuti al risarcimento», perché, mentre l’onorevole Dominedò, nel darne ragione e atto, crede che questo sia un termine meno accentuato di quello che non sia l’altro «garantiscono», l’impressione mia e nostra è che dire «sono tenuti al risarcimento lo Stato e gli Enti pubblici» sia ancora più forte che dire «garantiscono», quando a questo termine «garantiscono» si dà quel valore sussidiario, graduale, vorrei dire, subordinato, alla responsabilità diretta del funzionario di cui ho dato ragione nel sostenere il nostro articolo.

Accediamo inoltre alla proposta degli onorevoli Dominedò e Carignani di collocare il secondo comma dell’articolo 22 in fine all’articolo 19.

E ora passiamo agli ultimi due emendamenti, dell’onorevole Costantini l’uno e ancora dell’onorevole Carignani l’altro. All’onorevole Costantini ricordo le ragioni da me addotte a sostegno del primo comma dell’articolo e l’accettazione da noi data agli emendamenti degli onorevoli Dominedò e Nobili Tito Oro, circa la sostituzione della parola «personalmente» con l’altra «direttamente», e l’aggiunta «nell’esercizio delle loro funzioni» al primo comma dell’articolo stesso. Penso che, così modificato, il comma possa anche sodisfare l’esigenza di cui si è reso interprete l’onorevole Costantini, al quale, pertanto, rivolgo l’invito a non insistere nel suo emendamento, e a ritenersi altresì sodisfatto di quanto ho detto a proposito dell’ultima parte dell’articolo e del suo collocamento alla fine dell’articolo 19. L’onorevole Carignani inoltre propone con un suo emendamento di sopprimere dal testo della formula del primo comma «le leggi civili», modificandola così: «I dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici sono responsabili per i loro atti, secondo le leggi penali ed amministrative». Non sono d’accordo con l’onorevole Carignani, circa l’opportunità della soppressione di questo inciso che restringerebbe di troppo la portata di applicazione dell’articolo, sottraendogli un vasto campo di tutela a favore dei cittadini nei riguardi dei funzionari civili, il cui vigile senso di responsabilità non deve venir mai meno.

La seconda, parte dell’emendamento dell’onorevole Carignani, consistente nelle parole «Lo Stato e gli Enti pubblici sono tenuti al risarcimento dei danni derivati ai cittadini a causa dei loro dipendenti», mi pare sia un po’ troppo sfumata e sia molto meno energica e precisa della nostra formula, che raccomando all’approvazione dell’Assemblea.

PRESIDENTE. I presentatori degli emendamenti hanno udito le considerazioni della Commissione.

Onorevole Corsanego, mantiene i due emendamenti?

CORSANEGO. Dopo aver sentito le spiegazioni dell’onorevole Tupini, devo insistere. Io direi: «I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono personalmente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative degli atti compiuti od omessi in violazione di diritti».

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Onorevole Corsanego, le faccio notare che la formula «atti omessi» non è eccessivamente propria.

PRESIDENTE. Onorevole Nobili Tito Oro, insiste nei suoi emendamenti?

NOBILI TITO ORO. Desidero spiegare le ragioni per le quali ritiro uno dei miei due emendamenti. Come avevo previsto, era interessante conoscere le ragioni per le quali, contrariamente alla terminologia giuridica, la Commissione aveva ritenuto di adoperare il termine «garantiscono» (ossia assumono l’obbligazione sussidiaria di garantire di pagare). In effetti è qui l’errore che si annida nella terminologia usata dalla Commissione. L’obbligo dello Stato e degli enti pubblici non è un obbligo sussidiario. Mi rincresce che l’onorevole Tupini non mi abbia ascoltato. La dottrina moderna e anche l’attuale giurisprudenza hanno riconosciuto che lo Stato e gli enti pubblici, non essendo persone fisiche, non possono assumere obbligazioni se non attraverso i propri organi, e i dipendenti sono appunto gli organi dello Stato e degli enti pubblici.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Il concetto della Commissione rimane quello che ho esposto.

NOBILI TITO ORO. Ora, la responsabilità per gli atti di un dipendente è per lo Stato e per gli enti pubblici sempre una responsabilità diretta; quindi per essi non va offerta una garanzia per il fatto altrui, ma va riconosciuta una responsabilità per il fatto proprio. Ecco perché, proponendo la formula «assicurano» invece di quella «garantiscono» rispondevo a una sola preoccupazione: quella di non deformare la natura giuridica dell’obbligo e, insieme, di non pregiudicare la ulteriore elaborazione della dottrina e della giurisprudenza: e a entrambe le necessità risponde a pieno la locuzione proposta «assicurano».

Tale locuzione infatti consente al legislatore di domani di adottare la risoluzione dottrinaria più rispondente alla evoluzione dello Stato e degli enti pubblici, pur senza disubbidire al precetto della Costituzione. Approvando invece il testo del progetto, il legislatore si troverebbe domani nella condizione di dover considerare come forma di garanzia il risarcimento da parte dello Stato delle indennità dovute per lesioni di diritti.

E pertanto, io rinuncio all’emendamento soppressivo e insisto nell’emendamento subordinato che sostituisce la locuzione «assicurano» all’altra «garantiscono».

PRESIDENTE. Onorevole Veroni, insiste nel suo emendamento?

VERONI. Insisto.

PRESIDENTE. Onorevole Dominedò, insiste nei suoi emendamenti?

DOMINEDÒ. Ringrazio la Commissione per avere accettato i miei due emendamenti relativi alla delimitazione all’«esercizio delle funzioni» del dipendente dello Stato, nonché alla collocazione del secondo comma. Quanto all’emendamento relativo al termine «garantiscono», rispondo che dovrei insistere per motivi evidenti di tecnica giuridica. Domanderei comunque alla Commissione se, volendo insistere nel concetto della responsabilità, che a mio avviso resta impregiudicato anche con la formula generica, non pensi di dire: «rispondono in via sussidiaria» anziché «garantiscono».

PRESIDENTE. Onorevole Tupini, vuole rispondere a quest’ultima proposta dell’onorevole Dominedò?

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. L’onorevole Dominedò propone di usare la formulazione «rispondono in via sussidiaria». Mi pare che il termine sia poco costituzionale. Quando ho detto che al termine «garantiscono» deve essere dato un valore di garanzia sussidiaria, mi pare che l’esigenza dell’onorevole Dominedò debba essere soddisfatta. È questo il valore del termine «garantire».

Anche nei confronti dell’onorevole Nobili osservo che, ove noi accettassimo il suo emendamento, consentiremmo alla soppressione automatica della responsabilità personale e diretta del funzionario, la quale è primaria e come tale deve essere perseguita per prima. Lo Stato viene dopo e la sua responsabilità è sussidiaria. Sancirla in via diretta sarebbe troppo grave e noi non vi potremmo consentire.

NOBILI TITO ORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILI TITO ORO. Io attribuisco troppo valore al pensiero giuridico dell’onorevole Tupini per non sentire il dovere di una ulteriore risposta e la risposta conferma quello che dicevo prima; la responsabilità sussidiaria non sorge in colui che ha una responsabilità propria, diretta, iniziale. È lo Stato, sono gli enti pubblici che sono direttamente responsabili; ciò non toglie che verso lo Stato e verso gli enti pubblici possano essere a loro volta responsabili, per il fatto proprio materiale o per la loro omissione, i dipendenti Ma responsabili nei confronti dei terzi saranno lo Stato e gli enti pubblici. E la preoccupazione dell’onorevole Tupini, di fare rispondere in via principale il dipendente e in via sussidiaria lo Stato e gli altri enti, nasconde anche una possibilità di danno per lo Stato: perché il giorno in cui fosse investito di responsabilità il dipendente, il primo interessato a difenderlo sarebbe l’ente. E questo lo dovrebbe difendere per cercare di difendere con lui se stesso nei confronti di chi richiede il risarcimento del danno.

Per conseguenza morale, quando sarà avvenuta la condanna nei confronti del terzo, lo Stato pagherà, ma non potrà ripetere dal dipendente che egli ha difeso e ha dichiarato innocente.

PRESIDENTE. Onorevole Carignani, mantiene il suo emendamento?

CARIGNANI. Devo insistere. Giustamente ha detto l’onorevole Tupini che in fondo il mio emendamento tende a svuotare di contenuto quello che è stato il pensiero della Commissione, ed è proprio quello che mi proponevo di fare. Sono d’accordo, anche con me, molti altri colleghi che hanno ascoltato le mie modeste considerazioni, e mi dolgo soltanto di non averle esposte più ampiamente in fase preliminare allorché si è discusso dei rapporti civili in genere.

Per queste ragioni, serie, obiettive e degne di considerazione, devo insistere nelle formule così come sono state da me dettate, rilevando ancora una volta che anche là dove si parla di leggi penali ed amministrative si tratta semplicemente di una concessione che io ho fatto alla formula della Commissione nell’intendimento di trovare un mezzo termine che potesse consentire un’intesa; ma per la mia coscienza e per le nozioni di diritto che ho, mi sembra che in un atto importante come la Costituzione basterebbe soltanto l’affermazione del principio di responsabilità per dire quello che si è inteso dire con questa formula, riservando alle leggi future di determinare i limiti e i termini della responsabilità dei dipendenti in relazione all’importanza della materia regolata.

PRESIDENTE. Onorevole Costantini, mantiene il suo emendamento?

COSTANTINI. Devo mantenerlo, perché non sono affatto dell’opinione di Nobili che cioè lo Stato risponde di responsabilità diretta per l’azione dei propri dipendenti. Devo mantenere l’emendamento da me proposto in quanto che credo che nella formulazione da me data si rispecchi una maggiore rispondenza al principio stesso. Le norme relative alla responsabilità civile sono estese allo Stato e agli enti pubblici per il fatto dei loro dipendenti: questa formulazione credo che sia la più idonea ed ecco perché mantengo il mio emendamento.

PRESIDENTE. Passiamo ora alla votazione. Per il primo comma occorre votare innanzitutto sull’emendamento sostitutivo della prima parte proposto dall’onorevole Costantini:

«I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono responsabili degli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni loro attribuite in violazione di diritti o d’interessi legittimi».

TOSATO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOSATO. A me sembra che debbano esser messi prima in votazione gli emendamenti proposti dagli onorevoli Nobili Tito Oro e Carignani, perché più si allontanano dal testo della Commissione. Noi dobbiamo pronunciarci per la responsabilità diretta o per la responsabilità indiretta dello Stato. La tesi seguita dalla Commissione è per la responsabilità indiretta dello Stato e per la responsabilità diretta del funzionario; la tesi propugnata sia dall’onorevole Nobili Tito Oro che dall’onorevole Carignani è per la responsabilità diretta dello Stato e soltanto indiretta del funzionario.

PRESIDENTE. L’emendamento dell’onorevole Nobili Tito Oro si riferisce alla seconda parte del primo comma dell’articolo, poiché egli chiede che alla parola «garantiscono» si sostituisca la parola «assicurano».

Il primo comma dell’emendamento dell’onorevole Costantini, si riferisce, invece, alla prima parte.

Pongo dunque in votazione l’emendamento Costantini, non accettato dalla Commissione.

(Dopo prova e controprova, non è approvato).

Pongo ora in votazione l’emendamento dell’onorevole Carignani, inteso a sostituire la prima parte del primo comma dell’articolo:

«I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono responsabili per i loro atti secondo le leggi penali ed amministrative».

(Non è approvato).

Pongo in votazione la prima parte del primo comma del testo della Commissione, con la modificazione accettata che sostituisce alla parola: «personalmente» l’altra: «direttamente»:

«I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti».

(È approvata).

Pongo in votazione la proposta dell’onorevole Corsanego di aggiungere, alla prima parte del primo comma, dopo la parola: «atti» le parole: «o omissioni».

LEONE GIOVANNI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LEONE GIOVANNI. Voterò a favore della proposta Corsanego, perché a me sembra che l’espressione «atti» non abbia accezione concorde; da taluni è interpretata come azione positiva, come qualcosa che si fa.

Ora, la Commissione vuole colpire anche le omissioni.

D’altra parte lo stesso Codice penale parla di omissioni e di atti. Omissione è il mancato adempimento dei doveri.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Questa proposta, se accettata, potrebbe avere gravi conseguenze.

PRESIDENTE. La Commissione non accetta la proposta Corsanego; anzi ne sottolinea la particolare gravità.

La pongo ai voti.

(Non è approvata).

Passiamo alla votazione sulla seconda parte del primo comma. L’onorevole Costantini ha proposto di farne un comma a sé, con questa formulazione: «Le norme relative alla responsabilità civile sono estese allo Stato e agli enti pubblici per i fatti dei loro dipendenti».

VERONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERONI. Mi associo all’emendamento dell’onorevole Costantini e ritiro il mio emendamento.

CAROLEO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAROLEO. Voto a favore dell’emendamento dell’onorevole Costantini, perché è già notevole la responsabilità che si è addossata allo Stato con l’articolo che abbiamo già in parte votato. È vero quanto diceva l’onorevole Nobili Oro, e cioè che dal punto di vista tecnico-giuridico si tratterebbe di una vera e propria responsabilità diretta; ma anche nei rapporti fra privati la responsabilità per colpa grave può essere limitata, e quindi nei rapporti tra enti pubblici e privati può anche essere modificata la forma della responsabilità, per attenuarne le conseguenze. Pertanto io aderisco senz’altro alla formulazione dell’onorevole Costantini.

NOBILI TITO ORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILI TITO ORO. Dato che la formulazione attuale dell’emendamento Costantini è assorbente anche dell’emendamento mio, in quanto le norme della responsabilità civile sono ormai interpretate nel senso da me esposto, dichiaro che accetto tale formulazione, in quanto generica ma più precisa del testo del progetto; voto per essa e ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la formula proposta dall’onorevole Costantini:

«Le norme relative alla responsabilità civile sono estese allo Stato ed agli enti pubblici per i fatti dei loro dipendenti».

(È approvata).

Con l’approvazione di questa formula resta assorbita la seconda parte dell’emendamento Carignani.

Resta anche assorbito l’emendamento dell’onorevole Dominedò, il quale proponeva – e la Commissione aveva accettato – di aggiungere alla fine del primo comma del testo della Commissione le parole: «nell’esercizio delle loro funzioni». Pongo in votazione la proposta degli onorevoli Dominedò e Carignani, accettata dalla Commissione, di trasferire in fine all’articolo 19 l’ultimo comma dell’articolo 22:

«La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari».

(È approvata).

Con l’approvazione di questa proposta l’emendamento dell’onorevole Corsanego, tendente a fare del secondo comma un articolo a sé, rimane assorbito.

Il testo dell’articolo 22 resta pertanto il seguente:

«I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili ed amministrative degli atti compiuti in violazione di diritti.

«Le norme relative alla responsabilità civile sono estese allo Stato ed agli enti pubblici per i fatti dei loro dipendenti».

L’ultimo comma che abbiamo votato: «La legge determina le condizioni, ecc.» sarà trasferito alla fine dell’articolo 19.

Con ciò è conclusa la votazione degli articoli contenuti nel primo titolo del progetto di Costituzione: «Rapporti civili».

Resta adesso da esaminare l’articolo aggiuntivo, proposto dall’onorevole Crispo:

«L’esercizio dei diritti di libertà può essere limitato o sospeso per necessità di difesa, determinate dal tempo o dallo stato di guerra, nonché per motivi di ordine pubblico, durante lo stato di assedio. Nei casi suddetti, le Camere, anche se sciolte, saranno immediatamente convocate per ratificare o respingere la proclamazione dello stato di assedio e i provvedimenti relativi».

L’onorevole Crispo ha già svolto la sua proposta. Chiedo il parere della Commissione.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Domando all’onorevole Crispo se egli consenta, senza pregiudizio del merito del suo emendamento, che se ne discuta nella seconda parte del progetto, quando parleremo del Parlamento e dovremo, quindi, anche stabilire le garanzie da riservare al Parlamento nel caso e durante il periodo di scioglimento delle Camere.

Non entriamo, dunque, nel merito: in quella sede potremo riparlarne e, quanto al collocamento, lo decideremo allora.

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Vorrei fare osservare questo: io mi preoccupo soprattutto delle garanzie che dovrebbero essere stabilite per le libertà e per i diritti dei cittadini nei due casi non contemplati in alcun modo nella Costituzione, quello dello stato di guerra e quello dello stato d’assedio. Quindi, mi pare che l’articolo da me proposto debba trovare la sua sede proprio in questo titolo, perché io mi riferisco esclusivamente ai diritti dei cittadini, i quali non possono essere menomati dal potere esecutivo senza l’intervento del Parlamento.

Comunque, se la Commissione ritiene diversamente, non ho alcuna difficoltà a consentire.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Onorevole Crispo, io le posso dire, anticipando il parere della Commissione, che sull’indole del suo emendamento siamo d’accordo. Poiché qui però si parla di Camere e non sappiamo come saranno costituite, quando parleremo di questo argomento potremo meglio discutere il comma da lei proposto.

CRISPO. Nessuna difficoltà.

PRESIDENTE. Allora, resta inteso che la discussione di questo articolo aggiuntivo proposto dall’onorevole Crispo avverrà quando parleremo dei poteri del Parlamento e, pertanto, possiamo considerare esaurito l’esame del primo titolo della Costituzione.

Prima di passare alla discussione generale sul secondo titolo, desidero rendere edotti i colleghi che vi sono 71 iscritti: il doppio degli iscritti per la discussione generale sul primo titolo.

Vorrei pregare gli onorevoli colleghi di essere presenti alle sedute, perché ritengo necessario, d’ora innanzi, che coloro che non rispondono col loro intervento al momento in cui spetta il loro turno decadano dall’iscrizione. È questa una necessità che forse non corrisponde completamente alle disposizioni del Regolamento, ma che amerei che l’Assemblea riconoscesse, appunto per evitare che queste discussioni ci prendano troppo lungo tempo.

Prego anche i colleghi di autorizzarmi a voler alternare nell’ordine di iscrizione gli oratori dei diversi settori, perché è avvenuto che alcuni gruppi hanno iscritto tutti i loro oratori in successione. Ritengo che sentire cinque o sei iscritti dello stesso gruppo politico, i quali svolgono gli stessi concetti, potrebbe essere anche interessante ma toglierebbe alla discussione quel sapore polemico che è necessario conservare per ravvivare la discussione stessa.

Se non vi sono opposizioni, redigerò un elenco e lo farò conoscere, in maniera che ogni collega possa calcolare, approssimativamente, quando gli spetta il turno della parola.

(Così rimane stabilito).

CALOSSO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CALOSSO. Ho presentato una mozione, relativa alla tecnica della discussione. Credo che sarebbe opportuno radunare tutte queste questioni in giorni speciali, per discuterle effettivamente. Ieri, per esempio, vi fu certamente una discussione confusa. Noi andiamo adagio perché non ci siamo mai fermati un giorno a discutere sulla nostra tecnica. Perciò, se lei, onorevole Presidente, vorrà mettere in discussione, un giorno, questa mia mozione, si potrebbe discutere di tutto questo, anche di quello che lei ha detto.

PRESIDENTE. Darò senza indugio comunicazione all’Assemblea della mozione dell’onorevole Calosso. Tuttavia, ritengo che la proposta Calosso praticamente significhi mettere in discussione e rimaneggiare tutto il Regolamento dell’Assemblea. Basterà accennare – ed è un’antica passione dell’onorevole Calosso – che egli propone, come mezzo di abbreviamento delle discussioni, di riunire l’intera Assemblea in Comitato, affinché, in una forma discorsiva, i colleghi possano reciprocamente farsi presenti le loro opinioni, per comprendere che la proposta non si riduce a offrire un metodo di lavoro capace di produrre un abbreviamento del lavoro, ma è un capovolgimento di quella tecnica nostra che si è elaborata nel corso di molte legislature e che può essere riveduta, ma non proprio in questa occasione.

Comunque, nel momento in cui darò lettura della mozione Calosso, l’Assemblea sarà arbitra di accettarne la discussione ed eventualmente di approvarne tutte le proposte. Ritengo, personalmente, in ogni caso, che non si potrà mai realizzare quella di ridurre quest’aula a misura più piccola.

Ciò premesso, credo che possiamo incominciare la discussione generale sul secondo titolo: «Rapporti etico-sociali», salvo poi ad esprimere il giudizio sulla proposta concreta che l’onorevole Calosso ha presentato.

Nel dare la parola al primo iscritto, onorevole Badini Confalonieri, mi rimetto alla comprensione dei colleghi per l’osservanza di quelle limitazioni di tempo, alle quali parecchie volte si è fatto richiamo nelle sedute precedenti.

BADINI CONFALONIERI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. Io terrò innanzi tutto conto del suo parere autorevole, onorevole Presidente, per tralasciare ogni disquisizione di carattere filosofico e per attenermi al campo strettamente politico, come si conviene fare nella discussione di uno statuto che è atto squisitamente politico. Tralascio altresì ogni orpello di forma, ogni divagazione di natura letteraria, storica o comparativa che sarebbero superflue, e pertanto inutili. Inizio, rileggendo quegli articoli sostitutivi, dal 23 al 25, che io ho proposto al progetto di Costituzione.

Art. 23. – «Lo Stato riconosce la famiglia, costituita dal matrimonio indissolubile, come nucleo naturale, originario e fondamentale della società, e tutela l’adempimento della sua funzione».

Art. 24. – «Il matrimonio è basato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi nei limiti stabiliti dal bene comune della famiglia, dalla mutua assistenza, dagli interessi della prole».

Art. 25. – «L’educazione morale, intellettuale, fisica, sociale della prole è un diritto della famiglia.

«Lo Stato, nel rispetto della libertà del cittadino, sorveglia e, occorrendo, integra l’adempimento di tale compito, con speciale riguardo alle condizioni economiche necessarie alla formazione, difesa e sviluppo della famiglia.

«Provvede, inoltre, alla protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù, favorendo ed istituendo gli organi necessari allo scopo.

«La legge detta le norme per l’efficace protezione dei figli nati fuori del matrimonio e consente l’esperimento dei mezzi di prova idonei ad accertare la discendenza naturale».

Si tratta di un meditato, anche se modesto, rifacimento di tutta la materia relativa all’istituto della famiglia, che si avvale della elaborazione altrui e che vuol essere innovatore soltanto là dove ciò sia strettamente necessario.

L’onorevole Calamandrei nel suo discorso affermò che le disposizioni contenute nel progetto e relative alla famiglia sono dei precetti morali mascherati da norme giuridiche. Ora, con tutta la debita deferenza per chi ci è maestro insigne, penso di poter porre il mio dissenso nella incontrovertibile considerazione dell’importanza che l’istituto della famiglia riveste per la struttura stessa dello Stato, e che ne impone una regolamentazione ad un tempo giuridica e politica. Ne consegue non soltanto la necessità per lo Stato di tener conto di questa entità che si frappone fra esso Stato e l’individuo, ma ancora la necessità che l’opera normativa conseguente sia parte integrante della Costituzione, qualora la famiglia sia – come è – un pilastro fondamentale nella costruzione di quell’edificio statale a cui con la Costituzione noi tendiamo. Altro discorso è – e a questo riguardo l’onorevole Calamandrei aveva ragione – l’osservare che la formulazione degli articoli contenuti nel progetto è giuridicamente imperfetta, che la Repubblica non «assicura» alla famiglia le condizioni economiche necessarie al suo sviluppo, che la Repubblica non «tutela la salute», che non «l’arte e la scienza sono libere», ma, se mai, le manifestazioni dell’arte e della scienza sono libere.

Osservazioni di forma, obietterebbe l’onorevole Tupini.

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. No, non mi attribuisca…

BADINI CONFALONIERI. Me lo consenta, onorevole Tupini, è un’osservazione che molto spesso nei giorni scorsi noi abbiamo sentito muoverci, sia da parte sua, sia da parte dell’onorevole Ruini. Ora, mi permetta con tutta schiettezza e con tutta deferenza che le risponda che io francamente non comprendo quale dispendio maggiore di tempo occorra a votare un articolo in italiano corretto piuttosto che a votare un articolo che contenga espressioni che sono vaghe, incerte ed equivoche. Che anzi, se sempre è difficile distinguere tra forma e sostanza, mai come nella redazione di una Costituzione, per sua essenza concisa e normativa, la forma è sostanza e la sostanza è forma.

Per siffatte necessità di ermeneutica giuridica noi dobbiamo addivenire anche ad una diversa collocazione di questi articoli; e, iniziando il titolo che tratta dei rapporti etico sociali, non la parola «famiglia», ma l’espressione «lo Stato» deve dare l’avvio alle norme. È l’entità Stato che si trova di fronte l’entità famiglia, una entità che è originaria e storicamente e logicamente preesistente, e non può pertanto né creare, né costituire, ma soltanto riconoscere. Per questo l’emendamento che io propongo inizia con l’espressione: «Lo Stato riconosce la famiglia», e la riconosce non già come società, anche con il correttivo di «naturale», ma come nucleo naturale, originario e fondamentale della società. «Società» è un’espressione più limitata che non quella di «associazione». «Società» è un termine che noi assumiamo in prestito dal linguaggio giuridico, e che quindi non ci dà quel senso di sacro, per molti; per gli altri, quanto meno di umanamente altissimo, che è nel concetto della famiglia. Quindi, non una società. «Società», ripeto, è un termine preso a prestito dalla terminologia giuridica soprattutto commerciale, che troppo ci avvicina ad altra espressione giuridica commerciale, quella di contratto. Ma noi non intendiamo la famiglia come un contratto; ond’è che la società è il contratto in base al quale due o più persone si accordano al fine di, ecc. È sufficiente a tale proposito ricordare, se si trattasse di contratto, che come il contratto si costituisce, il contratto si scioglie; oltre che il senso umano, e, mi si consenta, sacro, manca in codesta definizione la possibilità di comprendervi quel carattere di indissolubilità che noi vogliamo affermare e che per me è fondamentale, insisto, consostanziale al matrimonio e che il matrimonio distingue e diversifica da ogni contratto.

Propongo, nella speranza di altra formulazione più felice che da altre parti potrà venire, e che non mi è stato possibile esprimere, di dire «nucleo», rifacendomi ad un termine non assunto a prestito dalla terminologia giuridica, ma da quella delle scienze naturali, così come naturale è la famiglia, un termine che significhi l’originarietà dell’istituto, così come originaria è la famiglia. Un termine – l’espressione «nucleo», come d’altronde l’espressione «cellula» – che dà l’impressione di qualcosa di inscindibile, di una nuova entità costituita dall’armonica fusione delle varie personalità umane che costituiscono appunto la famiglia.

Un nucleo – riprendo un concetto cui avevo fatto cenno all’inizio – che lo Stato trova di fronte a sé, perché così sta scritto nel gran libro della natura, e che pertanto è «nucleo naturale originario e fondamentale della società». Lo Stato lo riconosce e «tutela l’adempimento della sua funzione».

Altri proponeva: «tutela l’adempimento della sua missione». Il concetto è rispettabilissimo ed è da molti condiviso, ma mi pare che il dire «missione» in un articolo della Costituzione è usare un termine che fuoriesce da quella che è la prassi giuridica; più esatto, più opportuno mi pare il termine di «funzione».

Però, dobbiamo ancora dire qualche cosa; rimane da esaminare quale famiglia lo Stato in tale guisa riconosca e tuteli. Evidentemente soltanto la famiglia legittima; cioè quella famiglia che è costituita dal matrimonio; e che è costituita per noi dal matrimonio indissolubile. Perché è a questo punto che noi che intendiamo sostenere l’indissolubilità del vincolo, dobbiamo precisare il nostro concetto, non nell’articolo successivo come è nel progetto, non nell’articolo 24. È un elemento essenziale, costitutivo che caratterizza l’istituto della famiglia. Discuteremo appresso se l’indissolubilità sia principio da affermarsi o meno, se – affermandolo – debbasi o meno includerlo nella Costituzione, ma se così è, non mi sembra possa dar luogo a dubbio che cotesta sia la sua collocazione.

Ed ora poche considerazioni, a favore della indissolubilità del matrimonio. Diceva Benedetto-Croce, in questa stessa Aula e con la consueta arguzia, che egli è contrario al divorzio, perché chi divorzia una prima volta, divorzia una seconda, e deve pertanto trarsi la conseguenza che il rimedio non è efficace.

Ebbene, onorevoli colleghi, se il rimedio non è efficace, è efficientissimo il male che il divorzio produce. La solubilità del vincolo matrimoniale mina l’istituto della famiglia alle sue fondamenta.

Altri, ed io stesso – cattolico credente e professante – potrebbe porre a base di tale sua convinzione considerazioni di natura religiosa, che per essere di coscienza, e quindi individuali e non politiche, non hanno ragionevole motivo di costituire la base e il fondamento di disposizioni statutarie. Non basta dire che la coscienza si ribella, perché, anche se l’istituto del divorzio fosse introdotto nella legislazione italiana, qualunque cittadino che in esso ravvisasse la violazione dei dettami della propria coscienza sarebbe pur sempre libero di non usufruirne. Qui siamo in campo politico; ed è in campo politico, con argomentazioni di ordine politico, e pertanto soprattutto relative al costume e alla mentalità del popolo italiano, che la vexata quaestio si deve risolvere. Per tale motivo, e sotto tale riflesso nettamente liberale, era necessario che una voce liberale si elevasse a precisare che il principio dell’indissolubilità del matrimonio non intacca menomamente i principî di libertà. Libertà non è licenza, libertà non è anarchia, libertà non è assenza di vincoli, libertà è libera scelta, è libera elezione di quella condizione giuridica che ciascuno predilige.

Chi, come noi, concepisce la libertà come soltanto possibile ove essa sia causa ed effetto ad un tempo dell’elevazione spirituale dell’uomo e della società; chi, come noi, intende come uno dei fattori indispensabili di essa elevazione la stabilità della famiglia, e la famiglia segno inequivocabile di civiltà; costui, come noi, non può non convenire, contrariamente ad ogni apparenza, che l’istituto del divorzio non possa, non debba trovar luogo in uno stato liberale italiano.

Non è l’opinione estemporanea, di un isolato: è, al contrario, la tradizione italiana di tutti quei governi liberali che, dal Risorgimento in poi, non hanno mai consentito (Commenti a sinistra), non hanno mai consentito, amico onorevole Grilli, l’immissione del divorzio nella legislazione italiana.

È tutta una tradizione di giuristi che tu come io e come tutti ammiriamo; è tutta una tradizione di giureconsulti insigni, da Bonghi a Gabba, da Salandra a Filomusi Guelfi; è contributo non di cattolici soltanto, ma di uomini di diversi credi religiosi, dal protestante Lord Gladstone all’israelita professor Polacco, i quali evidentemente non sostenevano l’indissolubilità del matrimonio sulla scorta di criteri religiosi, ma tutti riconobbero nell’unità della famiglia il principio etico che si è connaturato, sino a giungere al Simon, il quale ha definito il divorzio come «un matrimonio a prova» ed ha concluso che la semplice «possibilità di una dissoluzione toglie al matrimonio la dignità ed alla famiglia l’unità».

D’altronde è bene dire che non sono consentite le soluzioni intermedie in questo campo; o si è per il matrimonio indissolubile o per il divorzio.

Coloro che aspirano ad una soluzione intermedia, ad un divorzio sì, ma molto limitato, quelli sono nell’utopia; quando si consenta il divorzio, i limiti che vi si pongano sono contingenti, transitori; si manifesta ineluttabilmente la tendenza a modificare la legge in senso più largo, sino a giungere al divorzio per semplice consenso, sino ad ammetterlo per semplice volontà di uno dei coniugi; sino a consentirlo in forme che addirittura contraddicono alla pubblica moralità, secondo il concetto nostro europeo.

Io vi vorrei riportare un annunzio pubblicitario inserito su di un giornale americano, non molto tempo fa, in cui si diceva testualmente: «Divorzio completo, senza pubblicità, in un mese. Tutti i motivi, successo garantito, consultazioni gratuite».

È inutile recriminare di poi: il fatto è la conseguenza delle premesse, e chi non vuole consentire, non deve volere le premesse, perché se quelle premesse sono poste, si addiviene a quelle conseguenze.

Per questa considerazione, posso anche ritenere superfluo di confutare i motivi che i fautori del divorzio pongono a base delle loro argomentazioni, e che si possono così raggruppare: cause legali, quali per esempio la condanna, soprattutto la condanna, all’ergastolo; cause morali, come l’adulterio; cause fisiologiche, come le malattie, soprattutto contagiose ed in specie l’impotentia perpetua.

Ora tutte queste cause, che i fautori del divorzio portano, come elementi a favore della loro tesi, sono viziate da un errore di principio: la valutazione unilaterale che essi danno e in base alla quale si considerano soltanto i diritti del coniuge offeso, e non il rovescio della medaglia: quei doveri che egli ha spontaneamente assunto all’atto del matrimonio e che proprio nel momento nel quale diventerebbero effettiva manifestazione della mutua assistenza imposta ai coniugi, egli potrebbe a tutto agio scuotersi di dosso col divorzio.

Comunque queste cause che i fautori del divorzio portano innanzi sono tutte cause singole mentre la legge, e soprattutto la Costituzione, deve tener conto della generalità dei casi e non dei casi singoli.

MAFFI. C’è il 95 per cento dei casi singoli. È un grossolano errore di ragionamento.

BADINI CONFALONIERI. Il cinque per cento sarebbe l’eccezione alla quale accennavo io, quindi la grossolanità del ragionamento non sarebbe nella mia, ma nella sua osservazione. Io dicevo che è il principio che deve essere affermato, nella Costituzione, mentre i casi singoli, temperabili con l’istituto della separazione personale, potranno eventualmente essere sottoposti a diversa, più ampia regolamentazione dei casi di nullità dei matrimoni, quando possano costituire errore di persona. È la generalità dei casi il principio che nella Costituzione dev’essere affermato; un principio di natura eminentemente costituzionale, se vero è che senza indissolubilità del matrimonio non vi è famiglia, e senza la famiglia manca un pilastro fondamentale alla costruzione dell’edificio statale, cui noi con la Costituzione tendiamo.

Questo è il contenuto dell’articolo 23, un articolo 23 che, per essere il cappello di tutto il titolo secondo dei rapporti etico-sociali, evidentemente non può contenere altre aggiunte di carattere particolare, ma deve rimanere così redatto quale definizione generale e di principio.

L’articolo 23 considera la famiglia; l’articolo 24, secondo il mio emendamento, il matrimonio; l’articolo 25 la prole legittima ed illegittima, e la tutela dello Stato nei confronti della famiglia.

Se la Costituzione si redige per creare un’educazione sociale e politica al popolo, per incrementare un costume, per dare stabilità e forza a quegli istituti che della rinnovata società costituiscono il nerbo, alla affermazione della famiglia costituita dal matrimonio deve seguire l’altra, non meno esplicita, relativa all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Veramente credo che si sia tutti d’accordo a questo riguardo. L’autorizzazione maritale, la tanto deprecata autorizzazione maritale della relazione presentata dall’onorevole Iotti, è istituto che è stato abolito dal Governo liberale del 1919, e che quell’abolizione fosse conforme al nostro costume è dimostrato dal fatto che neppure il fascismo ha osato ripristinarla. La donna ha proseguito nel giusto cammino della sua emancipazione; ed oggi ha piena, assoluta parità di diritti, anche politici, come è affermazione categorica dell’articolo 9 della Costituzione, che più alcuno intende porre in discussione. Ma l’affermazione di principio, come è formulata nel progetto sottoposto al nostro esame, è in una forma che direi eccessivamente drastica, un’affermazione campata in aria, che non risponde a verità storica né a possibilità giuridica.

Qualora sorga dissenso fra i coniugi, per esempio, al riguardo della patria potestà, al riguardo della fissazione del domicilio, al riguardo di tanti altri problemi che nella vita coniugale sono diuturni, non possono coesistere due volontà perfettamente eguali e contrarie: si eliderebbero. Nessuno intende sancire uno stato di inferiorità; ma non ci si può nascondere la necessità, secondo le leggi civili vigenti, di statuire la prevalenza dell’una o dell’altra volontà nell’interesse comune e in quello superiore della famiglia. L’argomento è complesso ed esorbita dai limiti di una Costituzione: ad essa rimane il compito dell’affermazione di principio relativa all’eguaglianza, così come recita l’emendamento proposto «nei limiti stabiliti dal bene comune della famiglia, dalla mutua assistenza, dagli interessi della prole». È formulazione che, con poche modifiche, ho fatta mia, ispirandomi alla recente Costituzione estone.

Rimane l’articolo 25.

Riguardo all’articolo 25 direi che i concetti di tutta la Commissione e penso di tutta l’Assemblea siano concordi nella sostanza, ma si tratta di dare una formulazione che sia esatta anche giuridicamente.

Bisogna innanzi tutto dire che l’educazione della prole è diritto della famiglia e questo concetto deve essere posto in risalto soprattutto nei confronti dello Stato, anche perché la nostra Costituzione viene alla luce dopo il regime fascista, nel quale lo Stato totalitario aveva cercato di invadere – come ogni altro campo – anche quello della famiglia. È d’uopo, quindi, riaffermare i diritti precisi della famiglia nei confronti di ogni altra entità, compresa l’entità statale.

Lo Stato potrà intervenire in determinati casi, con determinate cautele, a scopo integrativo. Questo è esatto. Questo è anche il concetto della Commissione. Ma mi pare – e lo dico schiettamente, se pur con tutta deferenza – che il concetto propugnato dalla Commissione sia nel progetto male espresso. Far riferimento «ai casi di provata incapacità morale o economica» è espressione troppo vaga, se – per deprecata ipotesi – il Governo dovesse cadere in mani di uomini non democratici, i quali nel fare l’accertamento potrebbero stabilire che questi casi, onorevole Maffi, potrebbero passare dal cinque al 95 per cento. Come vede, raccolgo qui una sua osservazione che a questo riguardo mi sembra appropriata. Perché quel «provata» del progetto non dice da chi né come si debba provare.

Con la formulazione sottoposta al vostro esame, onorevoli colleghi, si vogliono meglio porre in luce quei concetti di limitazione, di cautele, di carattere integrativo cui testé facevo riferimento. Il diritto è della famiglia; lo Stato sorveglia; solo occorrendo, integra; ma integra con dei limiti, limiti che sono dati «dall’adempimento di tale compito» e dal «rispetto della libertà del cittadino». Ed è a questo punto, e non nel primo articolo del titolo secondo, che deve essere riservato alla impostazione di principio, la esatta collocazione dell’intervento economico. Perché, naturalmente, l’integrazione, che ha da fare lo Stato, sarà soprattutto sotto l’aspetto economico al fine che ognuno sia posto in grado di formarsi, di difendere e di favorire lo sviluppo della propria famiglia. Ecco perché, seguitando nella mia formulazione, propongo di dire: «con speciale riguardo alle condizioni economiche necessarie alla formazione, difesa e sviluppo della famiglia».

Ho soppresso l’accenno alle famiglie numerose, non già perché io non sia d’accordo – e se c’è qualcuno che dovrebbe essere d’accordo, mi suggerisce l’onorevole Grilli, dovrei essere proprio io – ma perché il concetto della tutela delle famiglie numerose è già assorbito in quello che è statuito nei confronti degli interventi economici. È manifesto, infatti, che la tutela economica dello Stato deve in maggior misura rivolgersi alle famiglie numerose, perché le loro condizioni economiche sono più difficili. E d’altronde il progetto di Costituzione già fa suo siffatto concetto nell’articolo 32; dove recita che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione adeguata alle possibilità di vita per sé e per la famiglia».

L’articolo da me proposto prosegue: «provvede inoltre alla protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù, favorendo ed istituendo gli organi necessari allo scopo».

È un concetto già proposto dalla Commissione ed ogni commento sarebbe superfluo. L’ho riportato in questo comma solo per ragione di più armonica collocazione.

E siamo all’ultimo capoverso che prevede la posizione dei figli nati fuori del matrimonio.

E anche qui si impone una parola chiara, lontana da ogni sentimentalismo, che sarebbe fuor di luogo in un testo giuridico, una parola politicamente serena ed equilibrata.

Il problema dei figli nati fuori del matrimonio è problema complesso che non consente quell’unica drastica soluzione che è proposta nel progetto di Costituzione: figli legittimi, figli naturali, figli prematrimoniali, figli adulterini, figli incestuosi, tutti in un fascio solo, misurati con unico metro, mentre sono in situazioni di fatto, nettamente diverse, che non lo consentono.

L’affermazione di principio ci trova tutti, evidentemente, d’accordo, nel senso che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli innocenti.

Ma qui si tratta di emanare una norma che sia attuabile.

Ora, l’equiparazione dei figli illegittimi ai legittimi in quella maniera crea in seno alla famiglia la stessa discrasia che, per altro verso, vi apporterebbe il divorzio; significa una coabitazione forzosa, che mina l’unità della famiglia; e quella soluzione che vorrebbe essere di giustizia, si manifesterebbe ingiusta nei confronti dei figli legittimi. Basta considerare una conseguenza anche se paradossale: chi ha figli legittimi, ed illegittimi vorrà tenere nella sua casa la moglie legittima e quella illegittima.

Pensate al caos di quella famiglia!

Ritengo che a questo nessuno di noi voglia arrivare.

MAFFI. È una logica speciale.

BADINI CONFALONIERI. Io mi accontento di questa logica.

Dicevo, dunque, che l’argomento è complesso, ed è tema di Codice civile, anche perché non può essere valutato con una norma sola, drastica, assoluta.

Occorre valutare le diverse posizioni, le diverse conseguenze. Fissi però la Costituzione il principio generale, in ottemperanza al quale il Codice dovrà contenere le norme particolari: cioè che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli; che sono vietati i nomi e i dati anagrafici infamanti; che, comunque, l’ignota origine non può costituire marchio infamante per il bimbo innocente; che lo Stato non consente che la vita che gli si apre innanzi sia resa senza sua colpa e per ragion di nascita più dura e più difficile.

Ma tutto questo lo si può comprendere nella formula dell’emendamento che propongo:

«La legge detta le norme per l’efficace protezione dei figli nati fuori del matrimonio».

Si consenta piuttosto, e si consenta esplicitamente – perché il principio è innovatore delle norme vigenti – che ogni figlio possa conoscere il padre suo! (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Crispo. Ne ha facoltà.

CRISPO. Trattando lo stesso tema dell’onorevole Badini, cercherò di evitare inutili ripetizioni, il titolo secondo si inizia con una definizione della famiglia. Si dice che «la famiglia è una società naturale»; evidentemente per affermare che la famiglia preesiste alla legge ed allo Stato, sì che i diritti familiari non sono diritti riflessi, cioè non sono creati, ma riconosciuti dallo Stato. Una siffatta definizione non può e non deve trovar posto in un articolo della Costituzione, perché il concetto che la definizione esprime ha un carattere storico, sociologico, e non un contenuto giuridico; vorrei anzi dire all’onorevole Tupini, se me lo consente, che è giuridicamente controproducente. Perché? Perché lo Stato non si occupa del fatto della convivenza, ma si occupa della famiglia giuridicamente ordinata. Sotto questo aspetto, a mio avviso, non vi possono essere un prius ed un posterius, in quanto i diritti individuali e i diritti familiari sono un tutt’uno con l’ordinamento giuridico, sorgono, cioè, allo stesso punto.

Pertanto, lo Stato non riconosce la famiglia, ma ne riconosce i diritti, per essere la famiglia, per sé, una entità giuridica.

Per concludere, se le definizioni sono sempre da evitare nelle leggi, questa definizione della famiglia, giuridicamente irrilevante, e di equivoco significato, non deve trovar posto nella Costituzione.

Nell’articolo 24 si dice che «il matrimonio è basato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi». Mi permetto di fare qualche riserva su questo concetto, non in quanto io voglio riferirmi ad una eventuale condizione di inferiorità dell’un coniuge rispetto all’altro, ma in quanto intendo riferirmi a quel concetto di ordinamento gerarchico che è insito in ogni organismo, e che, quindi, è proprio della famiglia. Concetto gerarchico di cui nell’articolo non è cenno di sorta, poiché esso si limita ad affermare l’eguaglianza giuridica e morale dei coniugi come base del matrimonio. La mia riserva è, dunque, del tutto giustificata perché, chi bene guardi, il concetto gerarchico è come scolpito, quando si dice che il marito è il capo della famiglia, che la moglie segue la condizione civile di lui, che ne assume il cognome e che è obbligata ad avere la stessa residenza del marito.

Pertanto, se si può affermare l’eguaglianza giuridica in rapporto agli obblighi dell’assistenza, della fedeltà e della coabitazione, che sono innegabilmente obblighi reciproci, non si può, invece, affermarla per tutti gli altri rapporti che derivano dal matrimonio. Eccovi un esempio.

Quando si dice che il marito è il titolare del domicilio, tale titolarità non è meramente nominale, ma ad essa corrisponde, nel caso di violazione del domicilio, un diritto che può essere esercitato dalla moglie solo quando non possa essere esercitato dal titolare.

Del pari, titolare della potestà patria è il padre, e solo in via sussidiaria la madre, onde la rappresentanza legale di figli minori spetta al padre, come gli spetta anche il diritto di querela per i reati commessi in danno dei minori stessi. È evidente, adunque, che nello svolgimento dei rapporti familiari il concetto dell’ordinamento gerarchico della famiglia stabilisce necessariamente una differenza giuridica, se non morale.

Rappresentanza, nel suo molteplice contenuto: in giudizio, nell’accettazione di una eredità, nell’accettazione di una donazione, e simili. Questo diritto è riconosciuto da tutte le leggi al padre.

E mi permetto di ricordarle, onorevole Tupini, che a questi diritti che spettano al padre ope legis, ed a quei diritti che spettano a ciascun coniuge, non è consentito derogare per eventuali convenzioni fra le parti. Il che significa che vi sono dei rapporti che la legge contempla come di diritto pubblico, di interesse pubblico, dando la preminenza al padre in rapporto alla posizione della madre. Tale preminenza può rilevarsi in rapporto al patrimonio familiare, quando esso è costituito, in rapporto al regime della comunione dei beni, in rapporto alla dote, alle azioni e ai diritti relativi alla dote, e specialmente in rapporto al regime coniugale nel caso di separazione personale dei coniugi, perché la colpa dell’uno o dell’altro coniuge, come causa della separazione, determina, per sé, una evidente condizione d’inferiorità, sia nella posizione morale sia in quella giuridica ed economica del coniuge colpevole.

Così, la moglie può perdere gli utili stabiliti nel contratto di matrimonio, l’usufrutto legale sui beni del figlio, e perfino l’uso del cognome del marito, e anche gli alimenti nel caso di abbandono ingiustificato del domicilio coniugale. Occorre, adunque, che la Commissione trovi una formula espressiva del concetto gerarchico da me prospettato.

Quanto alla indissolubilità del matrimonio, io ritengo che il problema non costituisca materia costituzionale. Ma se dovessi esprimere il mio pensiero direi che il problema del divorzio non si può porre, come ha fatto il collega Badini, in termini di libertà, perché in tali termini sarebbe agevole dire che, come non potrebbe essere imposto ad alcuno il vincolo matrimoniale, così non potrebbe imporsi la indissolubilità del vincolo stesso, soprattutto in quei casi nei quali la indissolubilità può divenire peggio che una catena di dolore e d’infamia.

Il problema si pone in termini ben diversi. Quando si dice che il matrimonio non è un contratto, ma è un sacramento, io mi domando che cosa resta del sacramento, che cosa, cioè, resta della grazia intima, propria del sacramento, nei casi in cui il vincolo è già spezzato di fatto o per adulterio, o per condanna grave infamante di uno dei coniugi. Si può anche seguire la dottrina della chiesa, come fa la Democrazia cristiana, ma non si può, nello stesso tempo, non avere nel cuore un senso di orrore per l’indissolubilità del vincolo nei casi da me ricordati. (Commenti Interruzioni al centro).

Comunque, io ripeto che pongo la questione in termini, per così dire, procedurali, per dire che questa non è materia costituzionale, ma materia propria del Codice civile. Non comprendo, peraltro, che cosa significa la disposizione per la quale «la legge regola la condizione dei coniugi al fino di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia».

TUPINI, Presidente della prima Sottocommissione. Corrisponde a quella preoccupazione che giustamente lei ha espresso poc’anzi circa il pericolo che non ci sia almeno un primus inter pares. Ecco a che cosa vuol arrivare.

CRISPO. No, onorevole Tupini: la legge non regola la famiglia allo scopo di garantirne l’indissolubilità, perché l’indissolubilità è nella legge, nel senso, cioè, che il vincolo si risolve solo con la morte. In che modo, adunque, la legge regola la famiglia per garantirne l’indissolubilità? Garantire significa offrire sicurtà che il vincolo non sarà spezzato. La legge, invece, impone l’indissolubilità, ma non può far nulla per garantirla: la tutela soltanto con le norme del Codice penale. Alla stessa guisa colui che assassina è punito, ma questo non significa che la legge garantisce la vita. Per me, adunque, le parole della disposizione sono assolutamente prive di contenuto e, come tali, dovrebbero essere eliminate dal progetto.

Sull’articolo 25 osservo che la seconda parte mi pare contenga in sé già il concetto e il contenuto della prima parte; perché, quando si dice che la legge garantisce ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità civili e sociali, innegabilmente questo stato giuridico, garantito dalla legge, comprende i doveri dei genitori verso i figli nati fuori del matrimonio. Se non è consentita una condizione di inferiorità, come è stabilito nell’articolo 25, tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori del matrimonio, nel senso che deve essere esclusa ogni inferiorità, innegabilmente la eguaglianza giuridica dei figli legittimi e dei figli illegittimi comprende il dovere dei genitori, nel senso che allo stato giuridico dei figli deve corrispondere l’obbligo correlativo dei genitori.

Se non che, non vi siete resi conto che, a mio avviso, il voto generoso col quale si vuole tendere la mano ad innumerevoli creature incolpevoli rimane un voto senza possibilità di realizzazione, perché quando si stabilisce l’obbligo dei genitori, io vi domando: di quali genitori? Di quali genitori, se essi non si conoscono, e se il presupposto dell’obbligo è il riconoscimento dei figli illegittimi, riconoscimento che crea un problema complesso e grave in rapporto ai figli adulterini e, specialmente, in rapporto ai figli incestuosi?

Come potrà, dunque, il legislatore applicare il principio di giustizia sociale affermato nella Costituzione, dell’eguaglianza dei figli legittimi e dei figli illegittimi, come farà questo legislatore, se i genitori non si conoscono, e se non sarà possibile il riconoscimento?

Un’ultima osservazione: si dice nell’articolo 25: «È dovere e diritto dei genitori alimentare, istruire, educare la prole», e si contempla l’ipotesi in cui deve subentrare lo Stato nei casi di provata incapacità o di impossibilità da parte dei genitori a provvedere.

Mi permetto, innanzi tutto, di ricordare che, nel caso suddetto d’incapacità, subentrano negli obblighi dei genitori gli altri ascendenti, sì che dovrebbe tenersi conto di ciò, prima di stabilire l’intervento dello Stato.

L’intervento dello Stato si riferisce agli istituti di assistenza, contemplati già nel Codice civile fascista, Sorge così il problema dello Stato-educatore, dello Stato-scuola, dello Stato-famiglia, il problema per il quale vengono addossati allo Stato compiti che lo Stato non è in grado di adempiere.

Comunque, il principio posto nell’articolo 25 deve essere considerato in rapporto ai genitori più che in rapporto ai figli, perché fino a quando il padre e la madre saranno schiavi del bisogno, della miseria, della fame, non potrà costituirsi un saldo nucleo familiare, tale da concorrere alla saldezza morale dello Stato.

Se volete veramente sollevare alto la famiglia come la cellula fondamentale della Repubblica, cercate di provvedere prima ai genitori e poi ai figli. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Merlin Umberto. Ne ha facoltà.

MERLIN UMBERTO. Confesso che sono stato incerto se intervenire in questa discussione, perché io avevo già avuto occasione di esprimere il mio parere in seno alla Commissione dei 75, della quale faccio parte. Ma poiché è utile che la Democrazia cristiana dica il proprio pensiero anche davanti all’Assemblea ed al Paese in ordine a questo grave problema della famiglia, io prendo la parola ed intervengo nella discussione, semplicemente con questo fine, di segnare un mio aperto consenso ed un mio aperto dissenso, su due punti che reputo importanti; e spero di interpretare il pensiero anche dei miei amici. Tanto più che si è già visto dai due discorsi degli egregi colleghi che mi hanno preceduto che la utilità di una precisazione apparisce evidente, perché i due colleghi, pur tanto autorevoli, non hanno espresso pensieri concordi in ordine ai problemi di cui vi parlerò.

Il mio consenso cade sull’articolo 24; il mio dissenso sull’articolo 25. L’articolo 24 dice così: «II matrimonio è basato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. La legge ne regola la condizione a fine di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia».

Il mio dissenso cade sull’articolo 25, capoverso primo, là dove è detto: «I genitori hanno verso i figli nati fuori del matrimonio gli stessi doveri che verso quelli nati nel matrimonio. La legge garantisce ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità civili e sociali».

Superfluo in realtà è il ricordare a tutti coloro che conoscono il nostro pensiero quale sia il nostro animo, il nostro favore, vorrei dire la nostra adorazione, per l’istituto della famiglia. Superfluo è dire che noi rendiamo plauso sincero alle parole di un grande giurista italiano, il quale recentemente ha detto che lo Stato deve serbare verso questo istituto il favor familiae, perché questo soltanto può essere il principio direttivo della costruzione dello Stato. Nulla infatti si può costruire all’infuori o contro la famiglia, perché essa è stata definita la piccola cellula, e come la cellula è l’elemento fondamentale dell’organismo biologico, altrettanto la famiglia è l’elemento fondamentale dell’organismo sociologico. Ora, se si vuole rafforzare lo Stato, bisogna difendere e rafforzare la famiglia.

E diciamo anche chiaramente questo, che a sostenere queste idee non siamo soli e ciò noi lo constatiamo con soddisfazione, con animo lieto, senza avere nessuna gelosia e nessuna preoccupazione; per cui, quando, per esempio, la onorevole Iotti, per citare la testimonianza di una collega che, appartenendo al partito comunista, può presentare le idee più antitetiche alle nostre, nella sua relazione scrive queste parole: «La famiglia si presenta ora più che mai come il nucleo primordiale su cui i cittadini dello Stato possono e devono poggiare per il rinnovamento materiale e morale della vita italiana ed è di importanza fondamentale la tutela da parte dello Stato dell’istituto familiare», noi non possiamo che prendere atto di queste dichiarazioni con grande soddisfazione e con animo lieto. Ed altrettanto ci hanno soddisfatto e ci soddisfano le parole che ha pronunziato testé un liberale, l’onorevole Badini Confalonieri.

Siamo ben lontani da quei tempi (lo dico purtroppo con amarezza, perché quei tempi coincidevano col periodo della mia giovinezza, che è superata da gran tempo) in cui si diceva che «l’amore deve essere libero», che «l’appagamento dell’istinto sessuale è un affare personale di ciascun individuo», che «deve essere soppresso ogni regime matrimoniale», che «deve essere affermato l’assoluto disinteresse dello Stato nei riguardi delle relazioni intercedenti fra maschio e femmina», che «la famiglia è una istituzione borghese», ecc. Questi evidenti errori non si ripetono più, perché è accaduto nella famiglia quello che accade di tutte le istituzioni che seguono le leggi di natura, che quanto più sono colpite, ferite, combattute, tanto più resistono e dimostrano così la loro forza e la loro vitalità.

Quindi noi di questo prendiamo atto con soddisfazione e diciamo, in risposta a quello che ha detto testé il collega Crispo, che abbiamo voluto nell’articolo 23 proprio affermare con le parole «la famiglia è una società naturale» una definizione esatta della famiglia che non può essere negata da nessuno a qualunque scuola appartenga.

Infatti, a parte lo stabilire quando sia sorto lo Stato e quale Stato, ognuno comprende che la famiglia lo precede.

Lo Stato è l’organizzazione giuridica della società. Ma quale organizzazione giuridica? Non parliamo dello Stato moderno, che è recentissimo; ma anche a risalire nei secoli gli studiosi non scorgono una forma chiara di organizzazione statuale, ma l’unica forma di organizzazione, l’unico centro nel quale si afferma il principio di autorità è veramente la famiglia, nella quale il capo è padre, legislatore e sovrano. Più tardi più famiglie daranno vita alle tribù e queste a forme primordiali dello Stato; ma la famiglia ha preceduto questa organizzazione. Noi diciamo che questo concetto è affermato con le parole «la famiglia è una società naturale», per dimostrare questa semplice verità che la famiglia ha dei diritti primordiali, propri, che lo Stato non deve concedere come una graziosa concessione, ma che deve semplicemente riconoscere perché sono preesistenti alla sua organizzazione.

Ecco perché noi crediamo che l’Assemblea vorrà votare questa formula, la quale, ripeto, può essere accettata da tutti senza offesa al patrimonio di idee che ciascuno conserva.

La famiglia è formata da due elementi, è una unione fisiologica; ma è ovvio – e io dico delle cose elementari e certamente condivise da tutti – che essa è una unità economica, una unità politica e soprattutto, o signori, è una unità morale. Ora è evidente che questa unione non può essere lasciata a se stessa senza che lo Stato intervenga. Lo Stato ha il dovere di intervenire, e presso tutti i popoli e presso le più antiche civiltà la cura maggiore di uno Stato ben ordinato è stata quella di tutelare e difendere la famiglia. Parole vecchie e ripetute di Platone ricordano che «perché una repubblica sia bene ordinata, le principali leggi devono essere quelle che regolano il matrimonio». Se così è, poteva la nostra Carta statutaria tacere di questo istituto?

Vi fu un collega che, parlando nella discussione generale, ha detto che questa non era materia da Carta costituzionale, che nella Carta costituzionale si poteva non parlarne, perché l’argomento rientrava nei rapporti regolati dal Codice civile e dalle leggi ordinarie.

Risponderei a questa obiezione pregiudiziale, se fosse ripetuta, che io non sono certo un costituzionalista e non ho la pretesa di insegnare a nessuno; ma se devo dire, modestamente, la mia opinione, dirò che se la Carta statutaria, per antonomasia e per definizione, deve regolare in sintesi i principali doveri e diritti dei cittadini, non so come si sarebbe potuto tacere della famiglia, che è la fonte dei maggiori doveri non solo dei coniugi fra loro, ma anche verso i figli.

E vi sono già precedenti, non in Islanda, come recentemente si scrisse equivocando la s con la r, ma in Irlanda, la cui Costituzione parla abbondantemente dell’istituto familiare. Si dica egualmente della Costituzione di Weimar e, anche più recentemente, della Costituzione jugoslava.

Perché avremmo dovuto tacerne noi?

Del resto un grande italiano, Giuseppe Mazzini, ha scritto su questo argomento: «La vita associata è come disposta in ordini concentrici, via via più ampi: la città, lo Stato, l’umanità». Ma al centro di tutto l’ordine sociale Giuseppe Mazzini collocava la famiglia e la definiva «la prima società su cui tutte le altre si assidono».

E allora, signori, bisogna parlarne, anche perché noi non siamo soltanto legislatori, ma costituenti; e dobbiamo avere la franchezza di dire il nostro pensiero su questo argomento, per non aver l’aria – scusate quello che dico in questo momento – di voler eludere le più spinose e delicate questioni.

Parliamo dunque del matrimonio e parliamone chiaramente.

Dalla classica definizione di Modestino che è nota a tutti, all’elevazione che Cristo ha fatto del matrimonio a Sacramento, è tutta una serie di giureconsulti, di scrittori, di riformatori, di romanzieri e di poeti, che hanno esaltato la forza e la grandezza di questa divina istituzione.

Ora noi nella Costituzione stiamo per scrivere innanzi tutto che il matrimonio si basa sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi e poi sulla indissolubilità e unità della famiglia.

Era perfettamente superfluo riaffermare nella Carta statutaria il principio monogamico della famiglia, perché sarebbe stata quasi un’offesa alla nostra stessa civiltà, perché è tale un principio questo accettato da tutti che non era il caso di parlarne. La famiglia monogamica rappresenta, nel corso dei secoli, una elevazione ed un perfezionamento per il quale la famiglia, abbandonando forme di poliandria e di poligamia deprecabili, si avvia al suo perfezionamento, l’unione di un uomo con una sola donna ed i figli procreati da loro.

Dunque l’articolo 24 sancisce l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi e l’indissolubilità del matrimonio.

Sul primo punto devo dire chiaramente che noi l’abbiamo votato perché consideriamo la donna pari all’uomo in molti punti e perché questo concetto della elevazione della donna che diventa uguale all’uomo nella collaborazione e nel vantaggio della famiglia è un principio morale e cristiano che noi accettiamo. Ma con ciò non vogliamo negare che l’uomo resti capo della famiglia, come la donna ne è il cuore; l’uomo tiene il primato del governo, come la donna può e deve attribuirsi come suo proprio il primato sull’amore.

Onde bene ha detto l’onorevole Tupini nel discorso, con cui egli ha aperto la discussione generale, che l’uomo resta il primus inter pares, nel senso che noi vogliamo dare alla donna la parità morale e giuridica, conciliando questo principio con l’altro che capo della famiglia è l’uomo.

Se in questo punto – come già altri oratori hanno fatto supporre – fosse necessario chiarire, io domanderei che si chiarisse.

Ma non su questo, ma sul secondo punto si darà forse battaglia: quello cioè della indissolubilità.

Già abbiamo sentito due oratori autorevolissimi, appartenenti tutt’e due al partito liberale, se non erro.

Una voce. Liberali veri.

MERLIN UMBERTO. Liberali veri, ma che non vanno d’accordo. Perché, mentre a quello che ha detto l’onorevole Badini Confalonieri io mi sono associato plaudendo, non altrettanto potrei fare per il collega Crispo, pur così eloquente e profondo giurista, come egli è.

Io ho sentito dall’onorevole Badini Confalonieri esprimere delle idee, che collimano perfettamente col nostro pensiero ed io lo ringrazio di quanto ha detto.

Su questo punto dichiaro: possiamo essere agnostici?

Possiamo fare quello che l’onorevole Grilli proporrebbe: che si levassero quelle parolette della indissolubilità e si lasciasse questa questione indecisa?

Signori, so cosa voi dite su questo punto contro di noi, quando ci si vuole combattere e disprezzarci…

MOLÈ. No, no.

MERLIN UMBERTO. Sta bene, ritiro la parola.

Voi dite dunque che noi lo facciamo per calcolo politico. Non è vero.

Se voi sentiste il nostro animo verso la famiglia, se voi sapeste qual è l’affezione profonda…

Voci. Noi, lo stesso.

MERLIN UMBERTO. Ne prendo atto con piacere.

MANCINI. Non siete dei privilegiati voi.

MERLIN UMBERTO. No, non siamo dei privilegiati, ma uomini che sostengono questi principî per ragioni profondamente superiori e morali, pronti ad accettare la collaborazione di tutti.

Vi parla un uomo libero, il quale ama profondamente la libertà ed ha sempre sentito che impara di più dalle critiche degli avversari che dal plauso degli amici.

Perciò io rispetto anche il punto di vista di quanti non condividono il mio pensiero, pur rimanendo fermo e deciso a sostenere il mio.

Io, ad ogni modo, stasera, anche perché il Presidente non me lo permetterebbe, non farò un discorso contro il divorzio; sia per ragioni di tempo, sia perché – tranne l’accenno dell’onorevole Crispo al solito caso dell’ergastolano che desta pietà nel cuore di tutti – nessun deputato si è fatto iniziatore d’una legge a favore del divorzio. (Interruzioni).

Una voce. Vi fu l’emendamento Comandini e vi fu il progetto Marangoni.

MERLIN UMBERTO. Dopo quel progetto Marangoni, che conosco perché ero deputato con lui, non ho sentito alcuna altra proposta del genere.

Ad ogni modo, se voi volete proporre il progetto siete sempre in tempo; ma proponetelo, non fate come si è fatto nella prima Sottocommissione in cui non c’era uno che si dichiarasse divorzista e tutti continuavano a ripetere che il popolo italiano non vuole il divorzio e che nessuno pensava di proporre una legge simile. Ed allora lasciateci sbarrare la porta, lasciateci venire incontro alla volontà popolare. Ma lasciatemi anche ricordare che il divorzio coincide con i periodi della maggiore decadenza di un popolo (Interruzioni Commenti).

Andate a imparare dove questa grande fortuna esiste, e troverete tutti gli uomini maggiori: i sociologi, i medici, i giuristi, che non fanno che riconoscere tutto il danno e tutto il pregiudizio che deriva alla unità della famiglia da questa legge.

Ma del resto qui noi siamo in Italia e noi possiamo riferirci piuttosto alla nostra Roma ed al suo insegnamento. Roma decadde quando non riconobbe la santità della famiglia…

CALOSSO. Ma lei è contro il cristianesimo.

MERLIN UMBERTO. L’onorevole Calosso è profondo in tutto e quindi anche nella conoscenza del cristianesimo. Creda però, onorevole collega, che noi conosciamo il cristianesimo un po’ più di lei, perché lo pratichiamo. (Applausi al centro).

Le illustri matrone romane – e parlo delle matrone perché questa legge sul divorzio il popolo non la vuole; e se la vogliono, la vogliono certi aristocratici per far diventare legale anche l’adulterio…

CALOSSO. Evviva Roma pagana!

MERLIN UMBERTO. Le illustri matrone romane, diceva Seneca, contavano il numero degli anni non dal numero dei consoli, ma dal numero dei mariti che avevano avuto. Fu il cristianesimo che salvò la famiglia e salvò anche la civiltà. (Interruzione dell’onorevole Minio).

E allora, o signori, dove se ne va la famiglia quando i genitori non si riconoscono più e i figli non riconoscono più i genitori? La famiglia non solo decade, ma aumenta (cosa che sembra strana) il numero dei celibi. Sicuro, pure con la facilità di rompere il matrimonio, in Roma i celibi aumentarono a tal punto da preoccupare l’imperatore, e vennero le leggi di Augusto che condannavano il celibato per salvare Roma, la sua civiltà, e le generazioni future.

CALOSSO. C’è una pagina del Manzoni che è contro quello che dice lei.

Una voce al centro. È divorzista anche Manzoni, adesso?

MERLIN UMBERTO. Ma io vorrei domandare alla lealtà dei miei cortesi contraddittori – che questa sera, si vede, sono in vena di umorismo sé vogliono scherzare su una cosa tanto seria – vorrei domandare: cosa accade nei paesi dove il divorzio è ammesso? Lo ha detto già Badini: si arriva dalla divisione per mutuo consenso ai matrimoni risolti perché la donna non sa cuocere una bistecca o interpretare il pensiero del marito nell’abbigliamento della casa. (Rumori Commenti a sinistra).

Io dico, signori, e concludo su questo punto, che il divorzio sarebbe come un veleno roditore, un veleno che si insinua inavvertitamente fin dal primo giorno, di matrimonio. Badate, voi potete anche essere di parere contrario al mio, ma le donne no, a qualunque partito appartengano; vorrei sentire anche il parere delle donne comuniste, anche delle donne socialiste (Intenzione dell’onorevole Mattei Teresa); esse sono tutte contrarie al divorzio, perché capiscono una cosa: è facile voler bene ad una donna quando le grazie della gioventù la rendono bella e piacente; ma è altrettanto facile ai signori uomini di abbandonarla quando i capelli diventano bianchi o le rughe deturpano il viso. (Interruzioni).

PRESIDENTE. Sono costretto a richiamare con una certa decisione i signori deputati al silenzio. Ci sono ancora tanti altri iscritti a parlare. Prosegua, onorevole Merlin.

MERLIN UMBERTO. Ho letto pochi giorni fa un libro di Chesterton che è intitolato La superstizione del divorzio. Basterebbe leggerlo per convincersi della verità della tesi da me sostenuta. Quel chiaro autore scrive:

«È vero che l’indissolubilità crea talvolta (ce lo ha ricordato l’onorevole Crispo) nelle famiglie dei casi veramente dolorosi; ma la famiglia è basata su concetti di lealtà, di fedeltà e di onore, ed è a questi concetti che bisogna richiamarsi. Questi concetti sono quelli che sono, non si cambiano a piacere, come si cambia a vista lo scenario di un teatro. La fedeltà non è condizionata o temporanea: come il cittadino non diserta la bandiera quando è in pericolo la patria, così la lealtà, l’onore e la fedeltà impongono di non disertare la famiglia».

Ma, anche per poter dimostrare che questa discussione può essere un tantino superflua, io ricordo a coloro che hanno votato l’articolo 7 della nostra Costituzione che essi sarebbero in contrasto con se stessi se non volessero votare l’articolo 24 così come è concepito, perché per l’articolo 7 i rapporti tra la Chiesa e lo Stato sono regolati dai Patti lateranensi. Ora, l’articolo 34 del Concordato dice:

«Lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto della famiglia dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili».

Dunque, la materia è regolata dal diritto canonico e, per questo diritto, il matrimonio è un sacramento. Se è un sacramento, è per sua natura indissolubile.

Ma del resto volete sapere, o signori, dopo il Concordato quanti matrimoni si sono celebrati in Italia col rito civile? Io ho le statistiche. Dal 1930 al 1942 in Italia, ogni anno, fino al 1942 – l’anno forse della maggiore depressione per cause abbastanza chiare, e cioè la guerra – il numero dei matrimoni è stato di 300 mila all’anno. Volete sapere quanti matrimoni si sono celebrati col solo rito civile? Da 9448 nel 1930 si discende a 2339 nel 1942, neanche l’uno per cento. (Commenti Interruzioni a sinistra). E badate, o signori, che il Concordato non impone in Italia, un matrimonio confessionale, come sarebbe in Austria o in Ispagna; esso non impone cioè ai cattolici di celebrare il matrimonio soltanto col rito della loro fede. No, il matrimonio civile è libero anche per i cattolici, e chiunque voglia andare a celebrarlo davanti al sindaco con la fascia tricolore è perfettamente libero. La verità è che queste statistiche dimostrano, nel modo più eloquente, che in Italia la gran massa dei cittadini vuole il matrimonio cattolico, saldo e indissolubile, a garanzia della sanità e dell’unità della famiglia.

Ma la famiglia si difende anche con altri mezzi…

CALOSSO. Con l’adulterio!

MERLIN UMBERTO. Questa è una volgarità. La famiglia, dicevo, si difende anche con tutte le provvidenze economiche e sociali che nell’articolo 23 sono sancite, col riconoscimento dei suoi diritti, con la tutela nell’adempimento delle sue mansioni. (Commenti Interruzioni a sinistra). Di più, assicurando alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa, al suo sviluppo, con una protezione particolare per le famiglie numerose. Inoltre, nello Statuto è detto che la Repubblica provvede alla protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù e promuove l’igiene di tutti i cittadini.

A coloro che dicono che noi con queste, norme abbiamo firmato delle cambiali in bianco, che non saremo in condizione di pagare, noi rispondiamo che la Carta statutaria non è fatta solo per cristallizzare una determinata situazione, ma anche per fissare delle direttive al legislatore di domani. Ora, è sperabile che il domani sia migliore dell’oggi e che la nostra Italia, con il lavoro, l’onestà e la probità della sua gente, possa darci condizioni economiche che permettano di attuare ampiamente queste provvidenze che lo Statuto approva.

Ma ho detto che noi non potevamo approvare l’articolo 25, capoverso 1°: «I genitori hanno verso i figli nati fuori del matrimonio gli stessi doveri che verso quelli nati nel matrimonio». Queste parole non le approviamo, quantunque ne sarà difficile poi la concreta applicazione da parte del legislatore, in quanto voi comprendete benissimo che se per ipotesi – che spero i colleghi vogliano escludere – io avessi un figlio illegittimo (Ilarità), io non potrei mai dare a quel figlio tutto ciò che do ai figli legittimi, neanche se gli dessi tutto il mio patrimonio. (Commenti).

Una voce. Molto male!

MERLIN UMBERTO. Molto male, ma è una impossibilità assoluta, caro collega, perché il mio cognome appartiene anche a mia moglie e ai miei figli ed io da solo non posso disporne. (Commenti Interruzioni). Assisterlo, sì, economicamente, ma non dargli il mio cognome. Questo dimostra che la formula non potrà ottenere dal legislatore quell’applicazione piena e completa che le parole di essa direbbero. Ma dove soprattutto non possiamo accettare l’articolo è nella parte successiva in cui si dice che la legge garantisce ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità civili e sociali.

La formula è dell’onorevole Togliatti. La onorevole Iotti aveva proposto una formula un po’ diversa, là dove essa aveva chiesto la parità assoluta, cioè le stesse condizioni giuridiche tra figli legittimi e figli illegittimi; ma non credo alla diversità delle due formule e non lo credo sia per l’identità di pensiero politico che vi è tra i due proponenti, sia perché la formula negativa dell’«escludere inferiorità» equivale alla formula positiva di «assicurare la parità». Ora noi abbiamo ripetutamente detto, e il Presidente della nostra Commissione con noi durante le discussioni, che i democratici cristiani trattano questo argomento con animo di profonda pietà; i figli illegittimi sono degni della maggiore considerazione e della maggiore pietà. (Commenti).

Una voce. Figli di Dio, in sostanza.

MERLIN UMBERTO. Ripeto la parola pietà perché non ne trovo altra adatta. Concorrere ad elevare la loro sorte è un dovere, a patto però di non offendere i terzi innocenti. I figli illegittimi, chiamati volgarmente frutto della colpa, sono innocenti, ma sono altrettanto innocenti i figli legittimi e il coniuge. (Commenti).

Noi non ci possiamo perciò lasciar trasportare in questo campo soltanto dal cuore, ma dobbiamo lasciarci trasportare dal cuore e dalla ragione. La famiglia legittima ha i suoi diritti, che noi dobbiamo gelosamente custodire, e per custodirli bisogna che siano consacrati nello Statuto. La famiglia legittima è soltanto quella costituita dal padre, dalla madre e dai figli che sono nati da loro. Se elevassimo i figli illegittimi alla parità, noi abbasseremmo i legittimi, e questo non si può fare se non a patto di danneggiare la difesa della famiglia legittima, l’unica che deve essere riconosciuta.

Adottare la formula come è proposta dal progetto sarebbe dunque un errore, vorrebbe dire aprire nella famiglia una breccia che la coscienza sana e morale dei più non accetterebbe. Ora, o signori, bisogna parlarci chiaro: anche qui vi possono essere dei sacrificati; ma fra il bene pubblico e quello privato, fra il bene collettivo e sociale e quello dell’individuo, noi legislatori costituenti dobbiamo scegliere il primo e abbandonare il secondo, se occorre. (Commenti a sinistra). Ho già parlato del cognome, e dell’impossibilità assoluta di darlo agli illegittimi. Quindi, quando si dice la parità o la non inferiorità, voi domandate una cosa impossibile. Ma a parte questo, che cosa volete dire con questa «non inferiorità» o con questa «parità»? Volete forse ammettere il figlio illegittimo alla stessa mensa, nella stessa casa della famiglia legittima, e magari con la madre diversa o il padre diverso?

CALOSSO. Tendenzialmente, sì.

MERLIN UMBERTO. Lascio a voi di esprimere queste parole, ma di vedere poi quali conseguenze dolorose ne deriverebbero, quali lotte cruente, quali tremendi dissidi nell’ambito stesso della famiglia.

Perciò noi non possiamo accettare questa formula, e non la possiamo accettare anche per un’altra ragione, perché per potervi dare piena applicazione bisognerebbe anche affrontare il tema gravissimo della ricerca della paternità. Che vale scrivere nel Codice che i figli illegittimi sono pari ai legittimi, quando voi non deste ai figli illegittimi la piena completa ricerca della paternità?

Una voce a sinistra. La daremo!

MERLIN UMBERTO. Ora, signori, badate che di legislatori ce ne sono stati tanti, e gli scandali che si sono verificati nei periodi in cui per breve ora il legislatore ha ammesso la più ampia ricerca della paternità magari affidata alle prove testimoniali – sono state tali che nessun legislatore successivo si è sentito di ripetere quello sproposito e quell’errore. (Interruzioni a sinistra Commenti).

Ora, io credo che nessun legislatore si sentirebbe il coraggio di ampliare quei casi di ricerca della paternità che sono stati per esempio segnati dall’articolo 269 del Codice civile; la materia è delle più ampie e più delicate. Anche su questo punto io voglio concludere, a tranquillità magari anche di tutti quelli che, non avendo famiglia, sostengono un’opinione contraria alla mia, che le cifre nel loro linguaggio eloquente dimostrano quale è, per fortuna nostra, l’importanza del fenomeno nel nostro Paese. Perché il legislatore deve, sì, preoccuparsi di tutto e di tutti, ma deve anche guardare se il fenomeno abbia assunto un’importanza sociale considerevole.

Una voce a sinistra. Purtroppo, sì!

MERLIN UMBERTO. Ora, per fortuna nostra, signori, le statistiche dimostrano che in Italia nascono un milione di creature all’anno; di questo milione di creature, il 97 per cento è di figli legittimi, il 3 per cento di figli illegittimi. (Interruzioni Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Per favore, non interrompano! Onorevole Merlin, la prego di tener presente che lei sta parlando da cinquanta minuti. Veda di concludere.

MERLIN UMBERTO. Non è colpa mia: è colpa dei colleghi i quali non fanno che interrompere. Ad ogni modo, onorevole Presidente, vedrà che l’accontento subito.

Dicevo che, di questo 3 per cento, il 2 e mezzo per cento viene più tardi riconosciuto; per cui, fra figli legittimi e illegittimi riconosciuti, si arriva al 99 e mezzo per cento. La povera prole che rimane nella categoria non riconosciuta o di filiazione ignota rappresenta il mezzo per cento.

Povere creature anche queste, verso le quali va la nostra profonda pietà, ma non al punto da ferire la dignità e l’unità della famiglia legittima, non al punto di immettere in essa dei figli nati fuori del matrimonio.

Con questo assenso e con questo dissenso, io ho voluto, onorevoli colleghi, portare il mio contributo a questa discussione e, se possibile, dimostrare un sentimento che non è mio soltanto, ma è di tutta l’Assemblea, e cioè l’amore geloso, la cura affettuosa, l’adesione viva che ci legano all’istituto familiare, così profondamente custodito dalla, sanità morale di tutto il popolo italiano. (Vivi applausi al centro Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a giovedì mattina 17, dovendosi nella seduta di domani alle 15 discutere la relazione della Commissione degli Undici, che sarà fatta dall’onorevole Rubilli.

L’ordine degli oratori giovedì mattina sarà il seguente: Rodi, Rossi Maria Maddalena, Molè, Tumminelli, Gullo, Calamandrei, Bosco Lucarelli, Cevolotto, Giua, Della Seta, Avanzini, Nitti, Gallico Spano Nadia, Fusco, Grilli, Colonnetti, Bianchi Bianca, Nobile, Einaudi, Grilli.

Prego gli oratori di non chiedere spostamenti del loro turno perché altrimenti, senza stabilità di elenco, non riusciremo mai a organizzare gli interventi oratori.

Interrogazione con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Musolino e Silipo hanno presentato la seguente interrogazione, con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica), per sapere quali provvedimenti intende adottare a carico dell’Impresa del Sanatorio antitubercolare di Chiaravalle in provincia di Catanzaro, dove i ricoverati ricevono un trattamento non rispondente alle minime esigenze di cura, di igiene e di profilassi».

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri: Il Governo si riserva di precisare la data in cui risponderà a questa interrogazione dopo che sarà stata esaurita la discussione sulla Relazione della Commissione degli Undici.

La seduta termina alle 19.30.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

Discussione della relazione della Commissione degli Undici sulle accuse mosse dal deputato Finocchiaro Aprile ai deputati Campilli e Vanoni.