ASSEMBLEA COSTITUENTE
xcv.
SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 18 APRILE 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Congedi:
Presidente
Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):
Gullo Fausto
Molè
Nobile
Bruni
Ruggiero
Per l’intervento dell’Italia alla Conferenza interparlamentare:
Presidente
Risposta della Camera del Lussemburgo al messaggio della Assemblea Costituente:
Presidente
La seduta comincia alle 16.
AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.
(E approvato).
Congedi.
PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: De Vita, Terranova, Rapelli e Cairo.
(Sono concessi).
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Sulla discussione generale del Titolo II della parte prima è iscritto a parlare l’onorevole Fausto Gullo.
Ne ha facoltà.
GULLO FAUSTO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, io non condivido l’opinione di coloro che hanno rivolto severe critiche, dal punto di vista formale e stilistico, al progetto di Costituzione in discussione; tanto meno condivido il rammarico dell’amico onorevole Calamandrei, che la Costituzione non sia stata scritta da un poeta, fosse pure Ugo Foscolo. Di Costituzioni scritte da poeti ne conosco una sola; e l’esempio non si può dire veramente imitabile.
Trovo invece che il nostro progetto di Costituzione ha quasi sempre uno stile semplice e piano, facilmente intelligibile e scevro di retorica.
È per questo che io non intendo perché l’articolo 23 si inizi con l’affermazione che «la famiglia è una società naturale», della quale, se dovessi proprio dire il mio pensiero, non afferro il significato.
L’onorevole Bosco Lucarelli ha proposto un emendamento; vorrebbe, cioè, che all’aggettivo «naturale» si sostituisse «originaria». La frase acquisterebbe, così, un significato, in quanto si porrebbe la famiglia all’origine, prima, cioè che sorgesse ogni forma, anche primordiale, di Stato.
Ma evidentemente la Costituzione con tal definizione risolverebbe un problema che invece non è stato ancora risolto. È sorta prima la famiglia e dopo lo Stato? O non è vero che originariamente esisteva soltanto ciò che Gian Battista Vico definisce una «infame riunione delle cose e delle donne»? che l’umanità cioè nei suoi primordi non conobbe la famiglia? Con questa definizione la Costituzione prende senz’altro partito, sostiene cioè che la famiglia sia originaria, sia la prima ad essere apparsa nel consorzio umano. Ora a me non pare che nella Costituzione sia opportuno che si dica questo, superando le opinioni che sono molteplici, come tutti sanno, e che vanno da quella del patriarcato o del matriarcato, alla teoria di coloro che, come Meyer, sostengono che lo Stato è anteriore alla famiglia. La teoria che ora incontra i maggiori consensi (e dico questo per limitarmi alla famiglia romana, che è quella che ci interessa di più, perché è la precedente diretta della famiglia nostra) è quella del Bonfante, secondo la quale si sarebbe avuto all’inizio una famiglia che era però un organismo politico, uno Stato embrionale, onde si spiegherebbe, per esempio, quel jus vitae et necis, diritto di vita e di morte, che altrimenti parrebbe ingiustificabile, e che costituirebbe, non un diritto del pater familias, ma una potestà sovrana del capo dello Stato sui componenti di questo Stato embrionale.
Anche ad accettare questa teoria del Bonfante, che ora raccoglie il maggior numero di consensi, si ha una concezione della famiglia che mal si attaglia alla definizione che si introduce nel progetto di Costituzione. A me pare, ripeto, che di questa definizione si possa fare a meno, dato che ciò che si vuol fissare è il principio che lo Stato riconosca i diritti della famiglia così come essa è ora in questa società in cui viviamo ed in cui viene a porsi la Costituzione che stiamo per approvare.
Io quindi sarei senz’altro per la seguente formulazione: «La Repubblica assicura alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa ed al suo sviluppo con speciale riguardo alle famiglie numerose». In tal modo l’articolo 23, privo della inutile definizione, non può non incontrare il plauso di quanti pensano che è necessario rafforzare il nucleo familiare, salvaguardarne i diritti, assumerne la tutela da parte dello Stato, ottenendo così che ogni cittadino possa crearsi una famiglia, e possa nello stesso tempo avere in essa quella sufficienza economica che ora non tutti trovano nel nucleo familiare.
Ma l’articolo che molto ha richiamato l’attenzione degli onorevoli componenti dell’Assemblea, e che ha suscitato qualche reazione nell’opinione pubblica, è l’articolo 24: «Il matrimonio è basato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi».
Diceva l’onorevole Crispo ed è stato ripetuto ieri dall’onorevole Calamandrei, che essi intendono l’uguaglianza morale dei coniugi, ma non intendono l’uguaglianza giuridica di essi. E si riportavano alle norme del Codice civile, il quale dà al marito una posizione preponderante, di supremazia, nella società familiare trovando in ciò un ostacolo insuperabile per l’affermazione della parità giuridica dei coniugi.
Noi approviamo questa affermazione della Costituzione: è necessario che si affermi questa parità morale e giuridica dei coniugi. Non troviamo che questa parità morale e giuridica dei coniugi debba essere compromessa dalle necessità proprie della società coniugale. Parità giuridica non può voler dire medesimezza assoluta di attribuzioni.
Ogni qual volta ci si trova di fronte ad una società, qualunque essa sia, e di fronte, quindi, anche alla società coniugale, è evidente che non si può parlare di medesimezza di compiti. Vi può benissimo essere parità giuridica e insieme diversità di attribuzioni. Il necessario è che venga rafforzata e cementata questa speciale società, che è la società familiare, poggiandola sulla perfetta parità morale e sulla perfetta parità giuridica dei coniugi, pur avendo presenti i compiti diversi che essi assolvono.
L’articolo, affermata tale parità, continua entrando in quello spinoso argomento che è l’indissolubilità del matrimonio.
Non vorrò io riprendere quanto è stato così profondamente e così brillantemente trattato ieri e dall’onorevole Calamandrei e dall’onorevole Cevolotto. Noi facciamo, innanzi tutto, una questione, dirò così, topografica. È stato già detto e ripeto ancora oggi che, per noi, non è affatto necessario che di questo argomento si parli nella Costituzione. Pensiamo, anzi, che di esso non si debba far parola; la questione non è di natura costituzionale. Non c’è alcuna Costituzione che accolga una formulazione simile a quella contenuta nell’articolo 24 del nostro progetto: è materia, questa, esclusivamente di Codice civile.
Noi non intendiamo affrontare la questione spinosa del divorzio. Pensiamo che nel momento che l’Italia attraversa, quando tanti bisogni urgono e tanti problemi aspettano una loro risoluzione, non si debba risollevare la questione del divorzio. Potremmo anche dire un’altra cosa, e cioè che quelle classi che noi soprattutto rappresentiamo non sentono questo problema, e non lo sentono per un duplice ordine di ragioni: prima, perché sono pressate da ben altri problemi che occorre prontamente risolvere e poi perché del problema stesso ad esse sfugge il punto di vista giuridico. Da qui bisogna trarre una considerazione che ha la sua importanza. Ieri, l’onorevole Calamandrei con brillante parola discorreva del divorzio nei rapporti delle classi ricche, e, in definitiva, egli diceva che queste classi in questo momento hanno il divorzio in Italia, mentre la legge fissa l’indissolubilità del matrimonio. Ma è da osservare che il divorzio lo hanno anche le classi umili, con questa differenza: che la classe ricca trova modo di sistemare giuridicamente la situazione, mentre la classe povera non ha la preoccupazione di tale sistemazione giuridica. Il povero fa ben altro: nel momento in cui la famiglia, che egli ha creato, diviene insostenibile, in quanto il legame di amore e di fede diventa legame di odio, ed egli pensa che debba essere spezzato, lo spezza senz’altro. Io stesso so per scienza diretta di matrimoni celebrati con la festa tradizionale, senza che intervenisse né l’ufficiale dello stato civile, né il parroco, dato che uno dei due coniugi era legato giuridicamente con altra persona. Specialmente nel ristretto ambiente di piccoli paesi montani del Mezzogiorno d’Italia, questi matrimoni sono considerati matrimoni perfettamente validi, pur non intervenendo né l’ufficiale dello stato civile, né il sacerdote. (Commenti). È proprio così, ed io ne parlo per scienza diretta. Ed è un fatto che si rinnova con una certa frequenza, specialmente oggi, oggi che tanti giovani, che sono stati assenti per lunghi anni per ragioni di guerra o di prigionia, tornati a casa hanno trovato il loro nido familiare sconvolto, e aumentato il numero dei loro familiari. Qualcuno si è deciso per il colpo di pistola, ed ha risolto la questione in questo modo; ma altri hanno pensato senz’altro di abbandonare la famiglia. Ma non hanno sentito di poter abbandonare anche la speranza, il bisogno intimo e profondo di crearsi un’altra famiglia, di dover considerarsi finiti dopo aver dato alla loro Patria quattro o cinque anni di sofferenze, ed hanno fatto una cosa semplice: hanno fatto un divorzio per conto loro, hanno creato una famiglia che giuridicamente è illegale, ma che così non è appresa dall’ambiente in cui vivono.
E accade in tal modo che, a causa dell’indissolubilità del matrimonio affermata dalla legge, si creino queste unioni illegali, che però non sono giudicate immorali dall’ambiente in cui il fatto avviene.
A proposito di questo problema così pressante ed urgente, io, come Ministro della giustizia, posso per esempio dire agli onorevoli colleghi che sono molteplici e continue le istanze che mi pervengono da ogni parte d’Italia perché si faciliti la procedura di disconoscimento della paternità, e mi si fanno premure perché si approvi un provvedimento, che del resto fu proposto anche nel dopoguerra passato. Intendiamoci: una cosa è la indissolubilità del matrimonio di fronte ad una situazione normale ed ordinaria ed un’altra di fronte ad una situazione eccezionale. Così come si hanno tremila omicidi all’anno in Italia, è naturale che si abbiano, poniamo, centomila adulterî, per essere un po’pessimisti; ma quando avviene una guerra mondiale come quella che è avvenuta, anche l’adulterio non si tiene più nei suoi binari normali, e diventa un fenomeno sociale così straordinario, così eccezionale che non si trova affatto illogico che si vada incontro ad esso con una norma altrettanto straordinaria ed eccezionale.
Nel dopoguerra passato fu proposto un provvedimento di scioglimento di matrimonio, destinato appunto a migliaia di soldati che tornando avevano trovato sconvolto il loro nido familiare, tale cioè da spezzare la possibilità di ogni convivenza. Ed io ricordo la risposta che diede per le stampe un insigne rappresentante del partito popolare, del partito cioè democristiano di allora, che trovò da obiettare una cosa sola. Disse: il caso è veramente eccezionale, veramente straordinario; ma poiché noi siamo sicuri che esso non si ripeterà, perché l’umanità, dopo questo grande bagno di sangue, va sicuramente verso un lunghissimo periodo di pace, a noi non pare che sia il caso di adottare provvedimenti eccezionali.
Purtroppo la realtà lo ha smentito in maniera violenta e terribile. Ma nessun altro argomento quell’uomo, che pur era per l’assoluta indissolubilità del matrimonio, trovò da opporre. Penso che sia da esaminare la possibilità dello scioglimento almeno in questo caso, quando, cioè, per ragioni di guerra, il marito è stato lontano per anni e trova il nucleo familiare sconvolto, ed aumentato il numero dei suoi componenti.
Ma questa è un’osservazione che ho fatto incidentalmente. La nostra posizione, la posizione che noi assumiamo di fronte all’articolo 24, è che non si tratta di materia costituzionale, e quindi che non c’è necessità di alcuna affermazione di indissolubilità. E v’è un argomento, che è bene ripetere. Essendo stato approvato l’articolo 7, con cui sono stati richiamati quei patti concordatari che fissano l’indissolubilità del matrimonio, è perfettamente inutile – anche per coloro che vogliono che nella Costituzione sia fissato e stabilito il principio – che nell’articolo 24 si inserisca l’affermazione che il matrimonio è indissolubile.
Ripeto: proponendo che questa affermazione venga cancellata dalla Costituzione, noi non vogliamo affatto affrontare la questione del divorzio, perché pensiamo che vi siano problemi molto più urgenti: vogliamo che si faccia la riforma agraria; vogliamo che si faccia la riforma industriale. Del divorzio non è necessario parlare ora; risolviamo questi problemi che sono più pressanti nella vita della Nazione.
L’articolo 25, che nella sua prima parte fissa il dovere dei genitori di istruire, di alimentare e di educare la prole, nel suo capoverso afferma che i genitori hanno gli stessi doveri di fronte ai figli nati fuori del matrimonio. La frase o dice tutto o non dice nulla. Che cosa mai vorrà dire: «I genitori hanno verso i figli nati fuori del matrimonio gli stessi doveri che verso quelli nati nel matrimonio»? Quali genitori? Perché ci sia un genitore che abbia questo dovere, è chiaro che bisogna sapere chi è il genitore. Se con questa frase ci si riporta ai casi che ora fissa il Codice civile, perché la ricerca della paternità sia consentita, a me pare che la norma non porti nulla o ben poco di nuovo, perché questi genitori hanno anche ora, nella legislazione civile, fissati dei precisi doveri verso i figli nati fuori del matrimonio. Ma noi sappiamo che sono ben pochi i casi in cui ora è consentita la ricerca della paternità. Ma al di fuori di questi casi, che cosa accadrà dei figli illegittimi?
Non si fa – è stato già detto da altri, ma è bene ripeterlo – una questione di pietà o di compassione; o meglio, si fa anche questa; ma ciò è troppo poco: bisogna fare una questione più alta; bisogna fare una questione di dovere sociale, che è insieme una precisa questione giuridica.
Dall’onorevole Merlin, mio egregio e caro collaboratore, si diceva qualche cosa che io non mi sarei mai aspettato; ossia si cercava di giustificare la mancanza delle garanzie, onde pur debbono essere assistiti i figli nati fuori del matrimonio, con il fatto che essi sono pochi. Diceva: in definitiva non bisogna poi tanto formalizzarsi, dato che si è di fronte ad una percentuale minima di figli illegittimi, ad una percentuale che si aggira tra il 2 e il 3. Ma non è d’accordo con lui la statistica, perché se noi ci rifacciamo all’ultima statistica che si ha su questo argomento, a quella cioè del 1942, noi vediamo, per esempio, che si arriva, per citare il fenomeno là dove esso si presenta più acuto, a Ferrara, ad una percentuale del 12: 12 illegittimi su cento figli; nella provincia di Roma si ha una percentuale dell’8.
È un fenomeno sociale della massima importanza. E allora, quando si dice che i genitori hanno verso questi numerosi figli nati fuori del matrimonio gli stessi doveri che hanno verso quelli nati nel matrimonio, bisogna intendersi sulla parola genitori. Noi evidentemente non possiamo riferirci con questa parola ai soli pochi casi fissati dal Codice civile perché la ricerca della paternità sia consentita: noi dobbiamo andare oltre.
È necessario innanzi tutto risolvere il problema della ricerca della paternità; e lasciate che io manifesti il mio moto di sorpresa di fronte a quella parte dell’Assemblea che trova da ridire su questa ricerca, proprio quella parte che aveva finora il merito di essere all’avanguardia in questo campo.
Ricordo il progetto Meda il quale voleva appunto che questa ricerca della paternità fosse perseguita in ogni caso. Egli così si ricollegava, oltre che al diritto comune, anche a quello canonico, giacché anche quello canonico non pone alcun limite alla ricerca della paternità.
Molti ricorderanno il detto: creditur virgini parturienti; la vergine che partoriva e diceva il nome di colui che era il complice necessario del parto veniva senz’altro creduta, tanto era largo il campo della ricerca della paternità. (Commenti).
Né è da rispondere come il collega Merlin rispondeva, che cioè in questo campo la prova è difficile ed ardua e che bisogna ricorrere alla presunzione. Il dire ciò non significa affatto creare un ostacolo giuridico, si porta anzi un nuovo argomento, perché la paternità è sempre fondata sulla presunzione, anche quella legittima. (Ilarità). Sarebbe strano che, mentre di fronte al figlio legittimo questa presunzione deve avere un valore giuridico così categorico e preciso, lo stesso valore non debba avere di fronte al figlio illegittimo.
MERLIN UMBERTO. Mater certa, pater incertus.
GULLO FAUSTO. Noi uomini ci dobbiamo acconciare a ciò: nel momento in cui siamo padri, siamo sempre presunti. (Ilarità). È strano che questa presunzione diventi un ostacolo allorché si tratta della paternità nel campo dei figli nati fuori il matrimonio. Anche per essi la paternità si presume. Non c’è niente di male. Ma perché la prima parte di questo capoverso dell’articolo 25 abbia un senso, abbia una portata, è mestieri che la ricerca della paternità senz’altro si allarghi, riprendendo la nostra tradizione. A restringerla fu il Codice napoleonico. Ma prima di esso la ricerca della paternità era libera, ogni mezzo di prova era ammesso. Non si vede il motivo perché oggi non si debba tornare a questa generosa tradizione. E soltanto così il capoverso acquisterà un senso ed un significato, perché, dando a ciascun figlio nato fuori del matrimonio la facoltà di ricercare il suo genitore, noi ne avremo reso possibile l’applicazione, che altrimenti resterebbe confinata nello stretto ambito segnato ora dalla nostra legge.
Sono quindi senz’altro perfettamente d’accordo con il collega onorevole Caroleo, che giustamente propone un emendamento in cui è detto che la legge garantisce ai figli nati fuori del matrimonio l’esperimento dei mezzi idonei ad accertare la paternità naturale ed assicura loro le stesse condizioni giuridiche dei figli legittimi.
Prima dunque che la norma dica che sono assicurate ai figli illegittimi le stesse garanzie dei figli legittimi, è necessario che la norma fissi la possibilità per ogni figlio nato fuori del matrimonio di ricercare i genitori.
Si dice anche: ma voi non pensate che bisogna tutelare la famiglia legittima?
Bisogna un po’ fermarsi sulla tutela della famiglia legittima. Anche il fidecommesso era giustificato con la tutela della famiglia legittima; ma penso che nessuno di noi ardirebbe proporre il ritorno al fidecommesso.
Anche il principe manzoniano, nel momento in cui condannava Gertrude alla clausura perpetua, in realtà pensava di tutelare la famiglia. Dovremmo considerarlo altrimenti come un padre snaturato che aveva la voluttà di sacrificare la sua figliuola. Egli mirava a tutelare la famiglia; e poiché ogni figlio che nasceva, dopo il primo, non faceva altro che scuotere la solidità del nucleo familiare, egli, che sentiva di dover salvaguardarla per tramandarla a sua volta ai successori, condannava alla clausura la figliola e ciò faceva nella convinzione assoluta di compiere un dovere.
Ma nessuno di noi riesce a pensare oggi che ad un padre possa esser dato questo diritto.
Ma che cosa è questa tutela della famiglia?
Quando noi pensiamo, trincerandoci dietro di essa, di contestare ai figli nati fuori del matrimonio il conseguimento dei loro diritti, non è male che, invece di volgere il nostro sguardo soltanto ai nati legittimi, volgiamo un po’ la nostra attenzione ai figli illegittimi che muoiono. Noi sappiamo, e mi riferisco sempre alle statistiche del 1942, che su mille nati vivi muoiono nel primo anno di età, nel Piemonte, 84 legittimi mentre ne muoiono 194 illegittimi; a Genova 68 legittimi e 130 illegittimi. Nel Lazio su mille bambini ne muoiono 82 legittimi, ma 207 illegittimi.
Ma che cos’è questa tutela della famiglia legittima che profonda le sue radici in un mucchio di morti?
Se, sul serio, un moto di pietà e di compassione deve suggerirci un atteggiamento diverso, è proprio ora che, esaminando così eloquenti e pietose statistiche, noi fissiamo le norme costituzionali che governeranno la nuova Italia. Sì, è vero, anche se non valessero le norme giuridiche, valgano la pietà e la compassione, perché in noi sia vivo il dovere preciso di tutelare la vita di tutti i nostri figli, tanto se nati sotto il crisma del matrimonio, quanto se nati fuori di esso. (Vivi applausi all’estrema sinistra).
BETTIOL. L’Italia repubblicana non è illegittima!
COSTANTINI. Cosa c’entra questo? I figli sono figli del sangue, e ancora prima sono figli del cuore. (Commenti).
GULLO FAUSTO. Noi vogliamo dunque che a questi figli illegittimi siano riconosciuti gli stessi diritti dei figli legittimi. E badate, noi così tuteleremo meglio la stessa famiglia legittima.
Quando noi avremo suscitato nell’animo di ogni uomo la convinzione precisa che creando un figlio illegittimo egli crea a se stesso gli stessi obblighi, gli stessi doveri, gli stessi carichi che ha di fronte al legittimo, non solo le statistiche presenteranno dei numeri meno spaventosi, ma ognuno procederà con maggiore senso di responsabilità e si avranno così mezzi più acconci e più idonei per tutelare la famiglia legittima.
Proponiamo quindi, in definitiva, che mentre in questo articolo debba esser posta la precisa norma con la quale si consente la ricerca della paternità, in ogni caso e con ogni mezzo di prova, si debba ancora più energicamente affermare che i figli nati fuori del matrimonio hanno gli stessi diritti dei figli nati nel matrimonio.
Perché, ripeto, sotto questo aspetto, va esaminata l’altra norma che: «La legge garantisce ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità civili e sociali».
Mi sapete dire quale è l’inferiorità civile e sociale dei figli illegittimi fissata nella legislazione di oggi? Se si toglie il diritto successorio, non vedo altre inferiorità civili, e tanto meno sociali.
È ben altra la norma che si pretende venga inserita nella Costituzione della nuova Repubblica italiana: ed è che i figli illegittimi devono avere lo stesso diritto dei figli legittimi, non solo di fronte alla società, ma di fronte al genitore.
Coloro i quali pensano di superare una esigenza così giusta con lo specioso argomento che tutti, mogli legittime ed illegittime, figli legittimi ed illegittimi dovrebbero costituire un’unica famiglia, e si è detto, perfino, mangiare allo stesso desco, fanno ipotesi strane e fuori da ogni realtà.
Il necessario è che il figlio illegittimo abbia una sua famiglia, e che il genitore abbia il dovere di provvedervi.
È strano che, mentre egli è obbligato a dare tutto ciò che deve alla figliolanza legittima, consideri l’altra perfettamente estranea alla sfera dei suoi doveri, morali e giuridici.
Il figlio nato fuori del matrimonio deve avere verso il genitore tutti i diritti del figlio legittimo, e deve venire su nella vita, senza essere dannato, fin dalla nascita, a morte prematura.
Si è parlato di innocenza del coniuge legittimo, e pure a volte si è tratti a sollevare dei dubbi su tale innocenza.
Una innocenza, invece, su cui non può sorgere dubbio, è quella dei figli illegittimi; strano che questa innocenza venga trascurata per tutelare una innocenza, che qualche volta non è tale.
Noi vogliamo una norma che sancisca la perfetta parità fra i figli nati nel matrimonio e i figli nati fuori del matrimonio, e che sancisca la possibilità per ognuno dei figli nati fuori del matrimonio, della ricerca della paternità.
Si dice inoltre nel progetto che la Repubblica provvede alla protezione dell’infanzia e della gioventù, e questa è una norma quanto mai opportuna e necessaria. Forse è, se mai, censurabile perché essa non contempla un più largo campo di attività; ma comunque deve rimanere ben scolpito nella Costituzione della Repubblica italiana che la Repubblica provvede a questa protezione della maternità e tutela (questo è il contenuto dell’articolo 26) l’igiene e la salute dell’infanzia e della gioventù. Non è concepibile che vi sia grandezza di Nazione, grandezza di popolo, dove ogni cittadino non abbia la possibilità di crearsi una famiglia e non si senta tutelato nella sua salute, e dove ogni cittadino non abbia la possibilità di sodisfare il suo desiderio di sapere. Io vedo questa parte della Costituzione come quella di più vitale importanza.
Fin qui la Costituzione ha disciplinato le prerogative del cittadino, gli ha riconosciuto il diritto di essere libero, ha tutelato in lui questo grande anelito di libertà che nessuna forza riuscirà mai a distruggere, ed ha fissato lapidariamente tutte le forme, i mezzi e le manifestazioni di questo diritto alla libertà.
Ma che cosa è mai questo diritto alla libertà, che cosa sono questi mezzi e queste forme se noi non facciamo del titolare di questo diritto un cittadino degno di tale nome, un cittadino che senta, che abbia la coscienza dell’importanza del diritto che egli è chiamato ad esercitare? Tutte le altre parti della Costituzione diventano caduche, vane, superflue, se noi non daremo l’esecuzione più precisa a queste norme, che sono le più importanti e che appunto tutelano il cittadino, assicurandogli un nido familiare che sia veramente tale e non un luogo di dolore e di pena, dandogli il modo di conservare la sua sanità fisica, cancellando così la vergogna di statistiche di mortalità che fanno orrore; e assicurandogli infine la possibilità di sodisfare la sua volontà di sapere. Soltanto così noi avremo fatto in maniera che tutte le altre norme abbiano anch’esse la loro effettiva applicazione.
L’onorevole Francesco Nitti, nel suo primo discorso su questo progetto di Costituzione, facendo dolce violenza al suo temperamento così poco incline ad ogni forma di critica anche soltanto corrosiva, diceva che questa Costituzione e la relativa discussione non costituiscono certo materia di storia, e forse nemmeno di cronaca; e per rendere più evidente la sua affermazione, metteva a confronto questo progetto di Costituzione stampato su labile carta con le 12 tavole fuse nel durevole bronzo. Forse, l’onorevole Nitti, affermando ciò, non dava il giusto valore all’alone mitico che circonda tutte le cose passate e che diventa tanto più suggestivo quanto più le cose sono remote nel tempo; forse non considerava un’altra cosa: che, molto probabilmente, quei nostri lontani progenitori non avrebbero fuso le dodici tavole nel bronzo se avessero potuto usare la carta e la stampa. Comunque, vorrei chiedere all’onorevole Nitti: è egli veramente sicuro che quelle 12 tavole, quel coacervo di norme giuridiche confuse e primitive, avessero in se stesse tanta virtù da assicurarsi l’immortalità? Che l’umanità avesse sul serio tanto bisogno di ricordare le 12 tavole, quella umanità che in quel tempo già aveva attinto con Omero le vette più eminenti della poesia e che stava per attingere le vette più eccelse del pensiero con Socrate, Aristotile, Platone?
Ma è un fatto, però, che le 12 tavole sono immortali. Ma vorrei ricordare all’onorevole Nitti che è anche immortale la presa della Bastiglia, che pur fu percepita dai contemporanei come un episodio trascurabile. Tuttavia la presa della Bastiglia ha il valore di un mito; in essa si è fissato l’inizio del mondo moderno. Le 12 tavole segnano un altro inizio. E sono immortali perché ad esse seguì una cosa immensa, seguì il diritto romano; è la luce del diritto romano che si riverberò sulle 12 tavole e le rese luminose per l’eternità. È la rivoluzione francese, creando il nuovo mondo sulle rovine dell’antico, che diede all’episodio della presa della Bastiglia l’immortalità.
Siamo d’accordo: questo progetto può anche soltanto essere materia di cronaca.
Ma se questo progetto di Costituzione della nuova Repubblica italiana diverrà vita del nostro popolo, se sul serio il popolo nostro si orienterà verso la sua nuova vita seguendo i binari segnati da questa Costituzione, allora – me lo lasci dire l’onorevole Nitti – allora anche questo progetto, anche la discussione che noi vi facciamo intorno, saranno forse tratti fuori dall’ambito angusto della cronaca per entrare nel tempio solenne della storia. (Vivi applausi a sinistra – Molte congratulazioni).
Per l’intervento dell’Italia alla Conferenza interparlamentare.
PRESIDENTE. Comunico all’Assemblea che, in seguito alla ricostituzione del Comitato italiano dell’Unione interparlamentare, l’onorevole Persico è stato delegato a rappresentare il Gruppo parlamentare italiano alla XXXVI Conferenza interparlamentare, che si è svolta al Cairo dal 7 al 12 aprile. Assolvendo il suo incarico, ch’era, più che di onore, di lavoro, l’onorevole Persico ha partecipato attivamente a tutti i lavori della Conferenza: ed i suoi numerosi ed applauditi interventi nelle discussioni hanno ridato vigore agli antichi legami che il Parlamento italiano prefascista aveva, attraverso le loro rappresentanze, stretto con i Parlamenti delle altre Nazioni. L’onorevole Persico ha presentato alla Presidenza una succinta relazione informativa sui lavori della Conferenza, relazione che rimane depositata in Segreteria a disposizione degli onorevoli deputati.
Risposta della Camera del Lussemburgo al messaggio della Assemblea Costituente.
PRESIDENTE. Comunico che il Presidente dell’Assemblea parlamentare del Lussemburgo ha risposto al messaggio dell’Assemblea Costituente, relativo alla gravità ingiusta di molte clausole del Trattato di pace, con una lettera ispirata a vivi sentimenti di simpatia per il nostro Paese e contenente auspici per il ricostituirsi di una pacifica collaborazione fra tutte le Nazioni. (Vivi, generali applausi).
Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione del progetto di Costituzione. È iscritto, a parlare l’onorevole Molè. Ne ha facoltà.
MOLÈ. Stia tranquillo il nostro Presidente, che per ammonirci alla brevità e convincerci della necessità di ridurre il dibattito ha portato sul suo banco la clessidra di Cronos per darci l’immagine fisica del tempo che scorre implacabilmente. Dirò poche cose. Riassumerò. Condenserò. Mi soffermerò soltanto su alcuni punti, che a me sembra siano ancora da svolgere o siano degni di maggiore attenzione e di più particolare interesse. E se mi soffermerò sul tema della famiglia legittima e dei figli naturali, mi si conceda di dire che l’indugio è legittimo e che è naturale che ci preoccupiamo, con particolare interesse, di tali argomenti.
Dopo aver inteso i discorsi, alcuni veramente notevoli, pronunciati dai rappresentanti di ogni parte dell’Assemblea, io voglio anzitutto, riesaminando l’articolo 23, affermare definitivamente il concetto che bisogna, da questo articolo, estromettere due enunciazioni inutili, o addirittura dannose: la definizione della famiglia, già pericolosa per se stessa come tutte le definizioni, e tanto più quando la definizione non definisce; e l’impegno solenne che alla Repubblica faremmo assumere di provvedere, con speciale riguardo, alle famiglie numerose: impegno, per i suoi riflessi concreti, anche più pericoloso della definizione della famiglia, perché risuscita ingrate memorie.
Cominciamo dalla definizione. L’onorevole Orlando ha autorevolmente negato che la famiglia sia una società naturale. Già io osservo anzitutto, che sarebbe più esatto parlare di comunione naturale, perché la società è fondata sulla comunione di persone e di cose, ma richiama in più l’esistenza di un vincolo di natura contrattuale.
Ma, sia comunione o sia società, non posso non essere d’accordo con l’onorevole Orlando, nel rilevare che quando voi mi parlate di società naturale a proposito di questo istituto che ha riflessi ed aspetti così vari e così numerosi, voi accennate soltanto all’elemento naturale, all’origine fisica della famiglia, che è il presupposto di ogni comunione sessuale, anche del concubitus vagus: ma trascurate gli altri elementi, che individuano e qualificano il nostro istituto familiare e non sono meno importanti, anzi sono, se non più, ugualmente importanti dal punto di vista etico, giuridico, politico.
Fu risposto all’onorevole Orlando che evidentemente egli non aveva inteso il valore di questa definizione, in quanto società naturale vuol significare società di diritto naturale. Ma, l’obiezione dell’onorevole Orlando fu così sentita e ritenuta valida dagli stessi democratici cristiani, che l’onorevole Bosco Lucarelli ha inteso il bisogno di proporre un emendamento per spiegare che cosa sarebbe questa società naturale. Non mi pare tuttavia che la soluzione sia felice. Non è facile definire, nella sua complessità, questa vivente e vitale realtà familiare, che costituisce l’istituto fondamentale della vita associata.
E la prova è che invano noi cerchiamo una definizione della famiglia nelle Costituzioni, nelle legislazioni o nei Codici.
Il legislatore romano, che pure ha scolpito nel bronzo dei secoli la stupenda definizione del matrimonio, attraverso la formula di Modestino, non parla della famiglia. Non ne parla nemmeno il Codice canonico, pur così diligente in questo campo e così minuzioso. Non ne parlano nemmeno le Costituzioni recenti. Ne parla lo Statuto irlandese, con una formula che è pressoché identica a quella che ci è proposta. E allora mi perdonino, il mio caro amico onorevole Tupini, Presidente della prima Sottocommissione, e i suoi colleghi valorosi, se io dico che hanno – o Dio! – peccato un po’ d’immodestia, e non sono riusciti con la loro formula… irlandese a oscurar la concinnitas concettosa del legislatore romano o la sapienza del legislatore canonico. (Ilarità).
Esaminiamo dunque la formulazione emendatrice e integratrice dell’onorevole Bosco-Lucarelli. Noi ritroviamo, forse, più accentuati i motivi della nostra perplessità e del nostro dissenso. Se io devo stare a quello che ho sentito in quest’Aula, e che ho letto nel resoconto più completo e più autorizzato del suo discorso, pubblicato dal Popolo, per l’onorevole Bosco-Lucarelli e per i suoi amici, società naturale vuol significare società originaria, fondamentale, di diritto naturale che ha preceduto lo Stato e la legge, che ha una sfera di diritti inalienabili, che lo Stato non può intaccare e deve riconoscere.
È un’applicazione del criterio architettonico della Costituzione e della concezione pluralistica del diritto sociale, che ha esposto o in quest’Aula l’onorevole La Pira.
Nella sua concezione (ch’egli dice organica) del corpo sociale, fra l’individuo e Io Stato si frappongono le comunità naturali (comunità familiare, comunità religiosa, comunità di lavoro, comunità locale, comunità nazionale) attraverso le quali la personalità umana si svolge, e che hanno diritti originarî intangibili. Di questi diritti delle comunioni intermedie che costituiscono i varî status (personale, familiare, religioso, professionale, territoriale) lo Stato, organizzazione complessiva, deve, senza interferire, prendere atto. Poiché questi status sono un prius di fronte allo Stato e alla sua legge, una specie di presupposto necessario e intangibile, lo Stato, se vuole attuare i fini, per i quali è costruito, ha appunto il compito (corrispondente ai suoi fini) di garantire i varî status e di tutelare e assicurare con le sue leggi questi diritti originarî. Ammettiamo per un momento questa concezione, nella sua rigidità integrale.
Ma la famiglia è una comunione originaria?
Se questa definizione voi l’applicate alla comunione dei credenti, è chiaro che per i credenti la comunione religiosa è una comunione originaria. Per i credenti la divinità precede tutte le cose create: Dio è sempre stato al di sopra della realtà sensibile e delle vicende umane. Erat in principio. È, e come è oggi sarà sempre. Questa verità senza principio e senza fine rivelata dal messaggio precede anche il messaggio: è articolò di fede. La comunione dei credenti in questa verità è dunque originaria.
Ma, io mi domando, se questa concezione di comunione originaria, precedente allo Stato, che prescinde dallo Stato, che vanta diritti preesistenti suoi propri, inalienabili di fronte allo Stato, che dal processo storico di evoluzione delle consociazioni umane non ha avuto nascita e forse nemmeno contributo, che la legge deve semplicemente riconoscere; io mi domando se questa concezione di comunione originaria, nata come Minerva dal cervello di Giove, adulta, armata, autonoma, completa nei suoi organi, definita nei suoi lineamenti essenziali, e però atta al raggiungimento dei fini del progresso umano e della perfettibilità dell’individuo e della società, si possa adattare alla famiglia.
Quale famiglia?
Dopo le epoche del branco umano e delle unioni fuggevoli vennero il matriarcato, la poliandria, la poligamia. Queste furono le comunioni naturali originarie. Ma io mi rifiuto di confondere la famiglia con queste comunioni originarie naturali.
Io parlo della «nostra» famiglia. Noi dobbiamo definire, nella carta statutaria, la «nostra» famiglia. Questa definizione unilaterale, mutilata, manchevole, mortificante, che confonde la inferiorità morale, anzi l’amoralità delle unioni meramente naturali con la sanità morale della famiglia, ed a noi ripugna, tanto più dovrebbe ripugnare anche alla vostra coscienza, onorevoli colleghi della Democrazia cristiana, poiché voi non potete dimenticare, non dovreste dimenticare, che la famiglia ha origine dal matrimonio e che il matrimonio è per i cattolici un Sacramento. Voi lo dimenticate, proprio nel momento in cui, per questo carattere religioso del matrimonio, ne affermate la indissolubilità.
Voi vi fermate alla coniunctio maris et foeminae e dimenticato nientemeno il consortium omnis vitae e la humani et divini juris communicatio. (Commenti).
Perché, se la nostra famiglia origina pur sempre dalla stessa necessità naturale, che strinse le prime comunioni ferine ed umane, è tuttavia un prodotto storico della civiltà condizionata alle necessità economiche, alle credenze religiose, alla evoluzione delle leggi morali e giuridiche. Natura e storia. Al fondo è sempre la stessa realtà insopprimibile, dovuta a un’imperiosa esigenza che sorge con la vita.
È la vita che non vuole morire. È l’istinto dell’uomo che vuole perpetuarsi. È il genio della specie che deve sopravvivere alla morte dell’individuo. Legge di natura: quanto di più naturale ci sia. Questa esigenza, che è una fatalità organica, può definirsi, sì, originaria e anche innata, se è nata con l’uomo, nel momento stesso in cui l’uomo è nato, perché l’uomo non dovesse tutto morire.
Ma la famiglia non è ancora nata. Nascerà molto più tardi.
Non basta questa esigenza originaria.
Oltre questo elemento di necessità vitale, che spiega del resto anche l’amplesso belluino, ma non determina la formazione parentale agli albori della vita umana, ditemi voi quanti altri elementi occorrano perché sorga finalmente l’organismo familiare, ed evolva, si disciplini, si perfezioni, si elevi grado a grado – di pari passo col processo di faticosa elevazione umana – da unione meramente naturale a entità religiosa, etica, giuridica, fino a raggiungere il vertice dell’eticità nella famiglia con un solo padre e una sola madre, che opera quella unità spirituale che fa di due esseri un essere solo per la creazione e l’educazione di altri esseri, e converte, come disse Emanuele Kant, l’amore fisico nel dovere morale; dovere di coabitazione, di fedeltà, di assistenza fra i coniugi, dovere di protezione e di abnegazione verso i figli.
Le fasi di questo processo formativo dell’organismo familiare (matriarcato, poligamia, monogamia) corrispondono alle varie fasi della civiltà umana: dalla caverna alla capanna, alla casa; dalla tribù errabonda al villaggio, alla città, allo Stato; dalla idolatria al paganesimo, alla umanità del messaggio cristiano; dalla pastorizia all’agricoltura, alla civiltà industriale; dalla schiavitù alla eguaglianza degli esseri umani.
La storia della famiglia è la storia dell’umanità, la storia delle religioni, la storia dei valori etici, la storia dei cicli economici, la storia dei sistemi politici, la storia delle trasformazioni sociali.
Così si spiega la complessità di questo istituto che ha elementi, aspetti, riflessi, così ricchi e così varî, che la vostra definizione trascura: da quello religioso che pose alle origini Fustel de Coulanges, per il quale la famiglia sorse dalla religione degli avi, dei penati, dei lari e che afferma con il matrimonio la chiesa cristiana, a quello morale che nella conversione dell’amore in dovere determinò Emanuele Kant; da quello economico, su cui si indugiarono i materialisti storici, a quello giuridico-politico, che misero in evidenza i maestri del diritto romano, e soprattutto il nostro Bonfante, configurando la famiglia come un piccolo stato.
L’istituto della famiglia fu paragonato a un’erma trifronte: come ente politico in quanto la sua unità impone la soggezione gerarchica a un capo; come comunione etica, per il dovere reciproco di fedeltà, di protezione fra i suoi componenti; come nucleo economico, per il patrimonio familiare necessario ai bisogni della vita associata.
Ma se tutto questo fuoriesce dalla formula che voi proponete, noi respingiamo la vostra angusta definizione che non definisce. E non solo non definisce, ma è pericolosa. Perché la concezione pluralistica, che pone fra l’individuo e lo Stato le comunioni originarie, perché l’affermazione delle comunioni naturali che con i loro diritti originari inalienabili si ergono di fronte allo Stato e di fronte alle leggi dello Stato, vi porta a concepire le comunioni, e quindi la famiglia, come stati nello Stato, che possono svuotare di ogni contenuto lo Stato.
Noi ammettiamo questi cerchi concentrici attraverso cui passa l’individuo. Èdella natura, è della storia, è della necessità umana che l’individuo cerchi di andare verso forme di solidarietà sempre più ampia e più completa. L’uomo solo è meno che nulla: ha bisogno degli altri uomini. Nel suo bisogno di socialità, l’individuo diventa famiglia, si unisce ad altri individui nelle comunioni religiose, professionali, locali. Ma questi cerchi concentrici non sono immobili. Ma fra tutte queste comunioni non ci sono compartimenti stagni.
Si verifica viceversa il fenomeno dei vasi intercomunicanti.
Lo Stato condiziona la famiglia, la famiglia condiziona lo Stato. Esigenze e diritti reciproci devono comporsi fra di loro. Che, se ammettiamo questi sforzi dell’individuo verso forme sempre più ampie di solidarietà umana, attraverso le comunioni intermedie che tutte insieme confluiscono nel corpo sociale, non possiamo concepire uno Stato nello Stato, non possiamo concepire la famiglia contro lo Stato, così come non concepiremmo uno Stato contro la famiglia. Che cosa diciamo noi? Noi diciamo che il diritto individuale, il diritto familiare, il diritto sociale devono armonizzarsi nell’unità dello Stato, che è la suprema organizzazione sociale e politica. E che non ammettiamo una serie di sovranità per sé stanti, che cozzino fra di loro e annullino la sovranità dello Stato. Altrimenti può diventare realtà il pericolo denunciato da questi settori dell’Assemblea. Dalla teoria della famiglia, comunione originaria, con diritti intangibili, si può arrivare alla conclusione (e alcuni oratori di sinistra l’han letto in un programma ufficiale della Democrazia cristiana) che l’istruzione è una funzione e un diritto originario della famiglia, e che però, essendo la famiglia arbitra della scuola, lo Stato non può avere – tutt’al più – che una funzione ausiliaria, ancillare di fronte ad essa.
Ma allora noi vi diciamo che, se non vogliamo lo statalismo, la soffocazione della famiglia e delle comunioni, attraverso il monopolio di tutte le attività e funzioni da parte dello Stato, non vogliamo nemmeno l’annullamento dello Stato, lo svuotamento dello Stato di fronte alla famiglia.
Non intendo con ciò dire che a questo programma miri la teoria pluralistica dell’onorevole La Pira: ma la sua teoria contiene questo pericolo. Io apprezzo, stimo, ho un sentimento particolare di affetto per l’onorevole La Pira, perché nella freschezza del sorriso e nella purezza dell’animo dà la sensazione, la visione dello stato di grazia: egli è un santo. Ricordo però che i santi, quando legiferarono, furono qualche volta dei pericolosi legislatori. (Ilarità).
E allora, o signori, lasciamo stare tutte le definizioni tendenziali e finalistiche, di destra o di sinistra, di natura filosofica o d’ispirazione teologica che, prestandosi ad particolare orientamento di un partito, è naturale non sodisfino gli altri. Noi facciamo una Costituzione. Già si è osservato che nelle Costituzioni le definizioni sono fuori posto. Comunque, noi dobbiamo fare una Costituzione per tutti. E poiché non troviamo una formula che ci unisca tutti e ci sodisfi tutti, quale valore ha una definizione che non definisce e presenta il pericolo di indirizzi equivoci e di interpretazioni tendenziose?
Onorevole Tupini, rinunciamo alla sapienza… irlandese (Si ride) e torniamo al legislatore romano e al Codice canonico, che hanno definito il matrimonio, ma non hanno mai cercato di definire la famiglia.
Nei Codici noi troviamo soltanto l’enumerazione dei parenti, degli ascendenti, discendenti, collaterali, affini: delle stirpi, dei gradi, delle generazioni. Contentiamoci dei Codici. Rinunciamo alla definizione.
La famiglia è quella che è. E non è con un articolo di statuto o di Codice che se ne suggerisce il concetto o se ne ispira il sentimento. Si sente o non si sente. È qualche cosa di augusto, di santo che portiamo prima che nel cervello nell’anima: nessuno va a leggere i testi storici e filosofici, le Costituzioni e i Codici, per sapere che cosa è questa comunione dei vivi e dei morti che va dalle culle alle tombe: il consorzio di tutta la vita, il focolare, la casa; i figli che crescono intorno al padre augusto e alla madre veneranda.
Passo all’altro punto d’insanabile contrasto: l’impegnò degli aiuti speciali di natura economica che lo Stato promette alle famiglie in formazione e alle famiglie numerose.
Che cosa significa? Risorgono dunque, in regime repubblicano, i premi di nuzialità, i premi di natalità del regime fascista? Anche la Repubblica alimenta la prolificazione per ragion di Stato? Il riaccostamento è ingrato come il ricordo è inevitabile. Ma altre cose io ricordo. Ricordo che le leggi della natura e della vita impongono il crescite et multiplicamini, ma le leggi della natura e della vita si affidano agli impulsi spontanei dell’amore, non hanno bisogno degli stimoli esterni della propaganda e degli argomenti persuasivi di natura economica.
Io ricordo che il biblico invito è nella politica di tutti i tiranni, che chi cercava l’inflazione demografica si chiamava Napoleone, erano i dittatori di tutte le epoche, tutti gli sfruttatori, tutti i negrieri, tutti i guerrieri, tutti coloro che avevano bisogno di soldati o di schiavi per dare olocausto di carne umana alle guerre e sfruttamento di lavoro umano alle grandi opere pubbliche, fossero gli acquedotti e i teatri romani o le piramidi egizie o il taglio delle foreste vergini nelle terre inesplorate.
Storie di tutti i tempi! E ancora ricordo un passo del Digesto, illustrato dal nostro grande maestro Vittorio Scialoja. La prolificità delle schiave era il pregio maggiore nelle famiglie servili, ed elevava il prezzo di vendita.
Schiavi, soldati, servi della gleba: è lo stesso
Enfantez, mesdames! incitava l’Imperatore, perché voleva che le notti di Parigi colmassero i vuoti spaventosi dei suoi eserciti.
E nell’ultima recente esperienza che abbiamo purtroppo vissuto, per opera di dittatori, piccole ombre chinesi di questa grande figura storica, uno stesso programma di dominazione mondiale ispirò uno stesso programma di superproduzione demografica e di procreazione irresponsabile.
Ci fu in Italia un uomo che osò dire agl’italiani: «Non pensate, non occupatevi di politica, andate a teatro, andate alle gare di calcio, divertitevi! E soprattutto prolificate, prolificate quanto più potete; fatemi ogni anno un figliolo per il mio sogno imperiale. Niente tasse, ma premi per le famiglie numerose».
Della politica quest’uomo si occupò così bene che il sogno imperiale finì nel baratro della rovina e del disonore.
Ma il popolo italiano abboccò. E la miseria fu spinta a generare miseria. E le famiglie dei poveri, le famiglie dei pezzenti – stimolate da questa sconcia forma di corruzione statale – misero fuori ogni anno, regolarmente, altri pezzenti. E i figli e le madri rimasero a vivere di stenti in Italia e i padri furono mandati a morire lontano, in tutte le terre.
Crescite et multiplicamini? Sì, ma non a prezzo di moneta, non per precetto di Costituzioni e di legge. Questi fatti di natura abbiano il loro corso e si svolgano nell’ombra discreta, ubbidiscano alla sanità dell’amore, nell’intimità della famiglia. Perché noi che reprimiamo come delitto la soppressione dell’infante, e anche l’aborto, e proteggiamo fino la spes hominis, perché in chi non nasce, in ogni vita che poteva schiudersi e non si schiuse, si dilegua la speranza di un’aurora umana, destinata forse ad avere nel mondo una grande luce, riteniamo d’altra parte immorali e antisociali – soprattutto in un periodo come questo di scarse possibilità economiche, in un’Italia povera, in un territorio così sproporzionato alla popolazione – gli stimoli e le propagande irresponsabili di un esasperato accrescimento demografico.
Aiutiamo le famiglie, tutelandole nella salute della madre e dell’infante, assicurando ai genitori umane possibilità e condizioni di lavoro, accrescendo, come possiamo e quanto più possiamo, i mezzi dignitosi di vita.
Ma premi di nuzialità, no. E nemmeno premi di natalità. Non li possiamo, non li dobbiamo promettere. Noi dobbiamo promettere quel che possiamo mantenere.
E passo oltre.
L’articolo 24 dice: «Il matrimonio è basato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi». Che cosa significa? Noi abbiamo sancito la parità morale, sociale, politica dell’uomo e della donna, alla quale abbiamo anche garantito condizioni uguali di lavoro e di guadagno. Ma una perfetta uguaglianza – non morale, che è indiscutibile – ma giuridica possiamo garantirla nella famiglia? Questo è il problema. E io non vorrei, per averlo posto, che le nostre gentili colleghe di deputazione, onorevole Iotti, onorevole Mattei, onorevole Rossi, pensassero – come pare – che sia in me la preoccupazione di svalutare o deprimere la funzione della donna moderna.
Che cosa credono? Che io voglia riportarle alla conocchia e al fuso? Che io sia un nostalgico adoratore della donna di cento o di cinquecento o addirittura di mille anni fa, alla quale si attagliava l’epigrafico elogio latino: Domo mansit, lanam fecit, fìdem servavit? Noi ci contentiamo del fidem servavit! Il resto è finito senza rimpianti. (Si ride).
Perché la donna ha dato tali prove delle sue molteplici capacità in tutti o quasi tutti i campi dell’attività umana che le abbiamo schiuso tutte le porte, anche quelle del Parlamento. È entrata nella vita pubblica senza uscire dalla vita privata. Oggi l’uomo e la donna sono sullo stesso piano. Ma non nell’ambito della famiglia. Ora è questo il problema che ci pone ex novo la formulazione dell’articolo 24.
L’articolo 24 stabilisce un principio di parificazione assoluta, che non era nei Codici. Costituisce dunque una innovazione. Ha dunque uno scopo. Avrà dunque delle conseguenze. Esaminiamo lo scopo e le conseguenze di questa innovazione.
L’onorevole Guardasigilli ha trascurato questo esame, ma questo esame è necessario, per stabilire se il nuovo principio costituzionale, che deve dare l’orientamento alla nuova legislazione, non è in contrasto con le vigenti disposizioni, soprattutto con quelle che attengono alla unità della famiglia. Parità fra i coniugi, siamo d’accordo. La posizione della madre non dev’essere inferiore a quella del padre di fronte ai figli: chi può metterlo in dubbio? Io dirò qualcosa di più. Che la madre, per certi riflessi di natura e dal punto di vista sentimentale, è forse superiore al padre: è la più alta espressione, il cardine, la forza di coesione della famiglia: per i figli è l’immagine stessa della purità, della abnegazione, del sacrificio che riscatta nella maternità la stessa miseria del sesso. Madre, cioè, non più donna, nella religione familiare: madonna.
Ma io vi pongo il problema concreto della direzione interna e della rappresentanza esterna della famiglia.
La famiglia è un organismo complesso: noi ne abbiamo rilevato i suoi molteplici aspetti. Abbiamo detto poco fa che questa comunione è il nucleo essenziale dello Stato; è una specie di piccolo Stato nello Stato. E come in qualunque comunione, l’unità non può e non dev’essere diretta e rappresentata che da uno solo.
Questo piccolo Stato non può non avere chi lo personifichi. Non sarà la monarchia familiare di Giovambattista Vico. Non lo vogliamo. Ma nemmeno l’anarchia familiare. Sarà la Repubblica familiare. Ma con un capo. Ogni organismo collettivo ha un esponente che lo rappresenta e disciplina. L’ha anche questa Assemblea. L’ha finanche il Partito comunista. È inevitabile che l’abbia una comunione complessa e permanente come la famiglia. Credete voi per ragioni di predominio? No. Per l’esigenza insopprimibile di funzionamento organico, che assicuri il raggiungimento dei suoi fini.
Io non vi leggo gli articoli del Codice che presiedono al funzionamento organico e assicurano l’unità della famiglia. Voi li conoscete.
Il Codice dice che la moglie segue la condizione del marito, ne assume il cognome, è obbligata ad accompagnarlo ovunque egli fissi la sua residenza; che il marito deve mantenerla e proteggerla, che ha la patria potestà sui figli, che deve accettare l’eredità, ecc., ecc.
È una serie di attribuzioni in cui la legge determina i poteri di direzione interna e di rappresentanza esterna del marito: cioè la preminenza giuridica del marito.
Ebbene, onorevoli colleghi, io non capisco come l’onorevole Guardasigilli abbia potuto affermare che la norma dell’articolo 24 non ferisce profondamente l’unità della famiglia e la sua costituzione secolare, quale risulta dal Codice.
Se la Costituzione determina e indirizza la norma positiva dei Codici, che non possono essere in contrasto con la Costituzione, poiché l’articolo 24 della Costituzione sancisce la perfetta eguaglianza giuridica, è evidente che gli articoli del Codice vigente, che contrastano con questa eguaglianza, non possono né resistere, né sussistere.
Eguaglianza giuridica fra coniugi significa infatti che non c’è più un pater familias, non c’è più chi la rappresenti, non c’è più chi dà il nome alla moglie e ai figli, non c’è più chi possa e debba fissare il domicilio, non c’è più il marito che possa dire alla moglie: «tu mi devi seguire».
Chi dà il nome? Chi determina la coabitazione? Chi avrà nella nuova famiglia l’attribuzione di questi poteri? Io non mi soffermo – come vedete – sui poteri di rilevanza economica e nemmeno sulla generica dichiarazione che il marito è il capo della famiglia. La famiglia ha una sua intima disciplina, creazione spontanea della quotidiana collaborazione e delle affinità spirituali: la gerarchia non s’impone con la norma del Codice, che interviene solo quando l’unità è già spezzata.
Ma ci sono alcuni poteri del marito, che sono esclusivi suoi proprî, che hanno fondamento in imperiose esigenze di natura, che gli sono attribuiti non nel suo interesse, ma nell’interesse della famiglia. Questi poteri costituiscono le colonne d’Ercole, dinanzi alle quali deve arrestarsi ogni rivendicazione di parità femminile. E sono il diritto del marito a dare il nome, a determinare il domicilio, a imporre la coabitazione della moglie col marito. Ho letto proprio in questi giorni che c’è un grande paese, in cui l’uomo e la donna sono entrambi liberi di assumere l’uno o l’altro dei rispettivi cognomi e di scegliere il loro domicilio o di mantenerlo – ciascuno – per conto suo. Me ne dispiace: ma su questo campo non mi sento di seguire codesti paesi evoluti. Perché la promiscuità dei cognomi o riassunzione del cognome della donna, e l’indipendenza e pluralità dei domicili segnerebbero la disgregazione della famiglia. Sarebbe il commercio girovago dei sessi senza ditta familiare, finirebbe la continuità e la sicurezza delle geniture. Vi pare piccola cosa questa forzata unità del nome, quest’obbligo della convivenza, questo comando della legge: la moglie deve seguire il marito? È su questa piccola formalità che riposa la certezza della paternità per i figli.
Se noi non fissiamo quest’obbligo del nome e della coabitazione, noi togliamo di mezzo la legittima presunzione della paternità. La togliamo di mezzo in questo campo misterioso della natura, l’arcano della procreazione, in cui l’amore è cieco, la determinazione dell’amplesso fecondo è impossibile e il padre è sempre putativo. (Si ride). I padri sono certi legalmente: dal punto di vista della prova non v’è certezza assoluta, non avete che una presunzione di certezza, attraverso il nome e la coabitazione. Mater semper certa, pater incertus. Pater est is quem justae nuptiae demonstrant. Si presume che sia il marito della madre, cioè colui di cui ella porta il nome. Ma il presupposto di questa presunzione è la coabitazione continua della madre col padre.
I vecchi giuristi riconobbero nel matrimonio la pietra angolare della famiglia, proprio per questo: perché il matrimonio è l’istituto fondamentale della ricerca della paternità, in cui la prova è regolata formalmente. Tanto vero che se uno dei coniugi abbandona l’altro, sorge il motivo della separazione coniugale, e ai figli che nascessero dalla moglie lontana dal marito – nel tempo decorso dal 300° al 180° giorno anzi nascita – mancherebbe la presunzione legale della paternità del marito, perché la paternità presunta finirebbe di esistere di fronte alla impossibilità fisica della paternità. L’articolo 235 autorizza il disconoscimento. E l’articolo 244, in base al criterio della ripresa della coabitazione e della fine della lontananza, fissa i termini di decadenza dell’azione.
Ora io vi pongo il problema che è insieme giuridico e pratico. Che avverrebbe di queste norme del Codice, che riassumono la sapienza e la esperienza di secoli nel fissare e perfezionare l’istituto fondamentale della famiglia, se accettassimo in pieno l’assoluta parificazione dei diritti dei coniugi? Evidentemente queste norme verrebbero meno. Crollerebbero i cardini della famiglia.
Nello stesso momento, in cui ci preoccupiamo di dare un padre – e sarà un titolo di onore per questa Costituente – ai figli che non lo hanno, lo toglieremmo a quelli che lo hanno. Colpiremmo i figli legittimi, mentre ci apprestiamo a sollevare la inferiorità dei figli illegittimi.
No. Non è possibile. Possiamo porre sullo stesso piano morale l’uomo e la donna. Ma non possiamo disconoscere la diversità del compito e delle loro funzioni nella famiglia.
C’è un ostacolo di natura.
Quella piccola, piccola differenza che è fra l’uomo e la donna. (Si ride).
Jaurès, che fu un così fervido sostenitore della parità, aggiunse tuttavia che è ridicolo pretendere che la donna diventi uomo e l’uomo diventi donna.
Onorevoli colleghi, voi non potete sovvertire la natura senza sovvertire la morale e il diritto. Dipende dal modo come si nasce. (Ilarità).
La natura dice che i figli li fa la madre; e la madre è sempre certa, il padre incerto. La legge segue la natura. Impone alla moglie il nome del marito e la coabitazione perché questi due elementi danno la certezza del padre e la sicurezza delle geniture. E senza la certezza del padre e la sicurezza della genitura non esiste la famiglia.
Tutela i figli nella famiglia. I figli soprattutto. Noi dobbiamo perciò mantenere i diritti che la legge dà al marito nell’interesse dei figli.
In cima a tutti i pensieri noi dobbiamo porre i figliuoli. E non solo perché sono di noi la parte migliore e continuano la nostra vita e sono la primavera umana da cui dipende l’avvenire, ma perché i figli hanno sui genitori questo maggior diritto alla protezione della legge: che nella loro debolezza, hanno bisogno di maggiore protezione e non chiesero di nascere a coloro che dettero loro la vita e con la vita il retaggio della sofferenza e del dolore.
E nell’interesse dei figli noi voteremo l’articolo 25 che sancisce il diritto dei figli, nati fuori del matrimonio, al nome paterno e a uno stato giuridico che escluda le attuali inferiorità.
Questo doloroso problema umano e sociale siamo lieti di risolverlo. È un dovere della Costituente repubblicana aiutare a sollevarsi dagli ultimi gradi dell’abbiezione verso la normalità della vita civile e della sanità morale i figli di nessuno, i figli d’ignoti, i senza classe, i senza famiglia, i senza nome, cui la malvagità o la sventura sottrassero anche la sola ricchezza del povero: la carezza di una madre e la protezione di un padre. Bastardi. La frase brutale la usò Napoleone, in una seduta del Consiglio di Stato. A chi gli chiedeva perché non volesse concedere la ricerca della paternità l’imperatore rispose: «La Francia non ha nessun interesse che i bastardi abbiano un padre».
Bastardi! L’oltraggio sanguinoso che taglia la faccia come una staffilata, riaffermava contro questi infelici il bando dalla società, e fu pronunciato dal dittatore per allontanare il fantasma minaccioso di una persecuzione giudiziale dai placidi sonni del borghese del primo impero, ben pensante, egoista, libertino e immorale. Ma, come fu già rilevato, la storia ha risposto alla condanna sociale del bastardo con la violenta insurrezione dei bastardi contro la società.
Perché questo è lo spettacolo angoscioso e la sorte disumana dell’infanzia abbandonata al contagio della vita: i suoi poveri piedini nudi muovono verso un destino sempre uguale: la morte fisica o la morte civile. Le statistiche della mortalità e della morbilità contano il numero più elevato fra i figli illegittimi. La tubercolosi li miete. Ma, quando sopravvivono, per qualcuno che si salva, quanti degradano nel delitto e finiscono nella estrema abbiezione umana! Uno ne ricordo, eroico, che arrivò in quest’aula, risalendo la corrente della miseria, dopo una triste giovinezza di studi, di meditazioni, di stenti, e che quando diventò deputato e oratore fascinoso, il padre dimentico chiamò per offrirgli il nome del suo insigne casato: ed egli rifiutando l’offerta: «Io non voglio il tuo nome, rispose, perché non ho padre. Io sono il figlio di me stesso». (Commenti). Ma per uno che si salva e sale eroicamente, quanti non affondano, naufraghi della vita, quanti non si perdono, ribelli della legge, aggressori della società!
Sia dunque benvenuta l’affermazione, non di pietà, onorevole Merlin, ma di giustizia riparatrice, che consacra l’articolo 25! Noi affrontiamo, attraverso la riabilitazione civile dei figli illegittimi, uno degli aspetti più angosciosi del problema sociale che più abbiamo sentito fin dai tempi della giovinezza lontana: da quando sui banchi della scuola, sfuggendo alla sorveglianza del maestro scolopio che ci insegnava il latino, nascondevamo sotto le edizioni teubneriane dei classici e rigavamo di lagrime le storie dei miserabili, dei veri e falsi galeotti, gli splendori e le miserie delle cortigiane, il destino dei piccoli infanti abbandonati che si perdono nel grande deserto popolato di Parigi; e sorse in noi questo anelito di giustizia sociale, questo desiderio di sopprimere le ignominie e i privilegi della società ostile ed iniqua, che perpetua le tenebre dell’ignoranza e gli avvilimenti della miseria e aggrava le debolezze fisiche della donna e del fanciullo, degradando l’uomo in proletario, la donna in prostituta, e i figli in bastardi. Ed ecco che cominciamo l’opera riparatrice concedendo i diritti sul nome e sulle sostanze paterne ai figli illegittimi.
Quali sono gli argomenti che si oppongono a questo progetto? L’allarme, lo scandalo?
S1LES. I diritti della moglie e della famiglia legittima. (Proteste a sinistra – Commenti).
MOLÈ. Risponderò subito al rilievo già anticipato dall’onorevole Merlin. Voi dite: il mio nome appartiene a mia moglie e ai miei figli legittimi. E non sono vostri figli anche quelli nati da un’altra donna? O avete fatto una cessione totale del diritto personalissimo al nome, così che non ne potete disporre più? Avete anche obiettato: per il fallo di un’ora voi non potete condannare il genitore alla infelicità di tutta la vita. Ma al figlio nato dall’errore di un’ora non imponete la infelicità di tutta una vita? Ed egli è incolpevole, mentre voi siete colpevole. O volete punire la vostra colpa nella sua innocenza?
La questione ha riflessi economici e riflessi morali. Per il trattamento economico c’è una graduazione di opinioni. C’è chi pone il programma massimo di un trattamento successorio uguale per tutti i figli; chi afferma il principio di riservare agl’illegittimi una quota minore per mantenere la preferenza alla famiglia legittima ed evitare la concorrenza delle unioni naturali; chi si contenta di ribadire l’obbligazione alimentare. Sono discussioni e decisioni che vanno lasciate alla legge positiva, per coordinarle nel sistema del Codice. Ma il diritto al nome dobbiamo, in ogni caso, riconoscerlo.
Ecco il diritto di natura tipico, originario: il diritto che il figlio conosca suo padre. E i figli, di fronte a chi li generò, sono tutti uguali: illegittimi, legittimi, naturali, artificiali… (Si ride). Anche se figli della colpa, i figli sono sempre innocenti. Rispettate i diritti degli innocenti. Bisogna avere, come me, nella professione di avvocato, assistito ad alcuni episodi terribili, per conoscere questa materia umana dolorosa e sapere di che lagrime grondi e di che sangue. C’è qualche cosa che vi fa tremare quando dovete difendere, nei processi di assise, il figlio abbandonato dal padre e che in un momento di miseria, con i crampi della fame nello stomaco e la follia che urla sotto il cranio, uccide il padre. Ed il giudice dice: io non riconosco in questo delitto il parricidio; questo figlio non è figlio e questo padre non è padre; erano due uomini che la colpa o la sofferenza ha messo l’uno contro l’altro.
Io intendo tuttavia la necessità di non ferire la famiglia legittima con la intrusione dei figli illegittimi nel domicilio coniugale. Il rilievo è necessario, perché qualcuno ha affermato che non vede nulla di strano in questa comunione dei figli di più padri e di più madri. Non scherziamo, in un argomento così delicato. Sarebbe il ritorno al gineceo, una breccia nell’unità familiare a favore della poligamia e, peggio ancora, della poliandria.
No. Noi dobbiamo riaffermare la superiorità della famiglia legittima.
Per elevare i figli naturali non bisogna deprimere la famiglia regolare. Assicuriamone l’autonomia. Non feriamo i cuori innocenti.
La famiglia legittima deve essere tutelata nella sua compagine, che la intrusione sgretolerebbe. Questa comunione non gioverebbe a nessuno, perché non è spontanea. Voi potete imporre il nome, la concessione del nome, ma non l’amore, né la convivenza coatta. Se il genitore naturale dev’essere costretto a dare il nome e la sostanza, non può essere costretto a dare l’amore, sentimento spontaneo che non s’impone con la legge. Se l’amore sopravviene tanto meglio. Ma la legge non può imporre una vita comune, che nel maggior numero dei casi sarebbe un inferno per tutti ed esaspererebbe i contrasti e le avversioni reciproche.
Ma, tutelata l’autonomia della famiglia legittima, superate gli altri ostacoli. L’avversione della moglie legittima, di cui tanto si preoccupa l’onorevole Merlin, non è un ostacolo legittimo, perché ella non ha il diritto di annullare il diritto dei figli nati fuori del matrimonio. La moglie soffrirà, ma se è nobile di animo, nella superiorità del suo animo cristiano, mio caro onorevole Merlin, non vorrà impedire che il marito, che ha un altro figliolo, provveda a lui e gli dia il suo nome, sol perché ai suoi figliuoli nati dal matrimonio invece che la totalità delle sostanze perverrà la maggior parte delle sostanze.
E passiamo all’altra parte dell’articolo 25, la quale garantisce uno stato giuridico a tutti i figli nati fuori del matrimonio. Sono d’accordo con l’amico Gullo, che la dizione è monca, equivoca, e bisogna sia completata. Noi non possiamo garantire lo stato giuridico, ma la ricerca della paternità, presupposto necessario della concessione dello stato giuridico…
PRESIDENTE. Onorevole Molè, tutti seguiamo con estremo interesse quello che dice; ma sono costretto a ricordarle che ha superato già di mezz’ora il tempo fissato per queste discussioni.
MOLÈ. Non me ne ero accorto.
PRESIDENTE. Non ce ne eravamo accorti neppure noi.
MOLÈ. E allora riassumo, condenso, mi affretto alla fine. Bisogna riconoscere e disciplinare la ricerca della paternità. La disciplina della ricerca si farà in sede legislativa. In quella sede si risolveranno i due problemi così annosi quanto appassionanti. Il primo problema: se è opportuno, nell’interesse dei figli, allargare la ricerca della paternità nel caso dei filii nefarii, dei figli incestuosi: se sia loro più conveniente avere un nome infamante o rimanere senza nome, provvedendosi in altro modo al loro stato.
L’altro problema è la disciplina della prova, perché questa prova, che fu detta diabolica, sia ragionevole, sia idonea, e non dia al figlio naturale un padre posticcio ed eviti gl’inconvenienti scandalosi della speculazione, per cui alcuni giustificarono le inumane restrizioni del Codice napoleonico.
È una materia delicata e difficile, in cui il pericolo di errore è evidente, perché giocano molto le prove presuntive. Ma bisogna che le presunzioni siano univoche e dialetticamente rigorose. Il Ministro Guardasigilli, onorevole Gullo, ricordando, in proposito, il precetto famoso «creditur virgini parturienti…» lo interpretava in questo senso: che si dava valore di prova, nel diritto canonico, alla dichiarazione della vergine partoriente che affermava essere Tizio il padre del suo figliolo. Ma uno dei nostri più grandi maestri, Vittorio Scialoja, che fu anch’egli Ministro della giustizia e assertore autorevole e appassionato della ricerca della paternità, spiegò, con un memorabile discorso su questo argomento, che il precetto – che non è di diritto canonico, ma di diritto comune – fu dettato da Antonio Fabro, Presidente del Senato di Savoja, romanista inferiore solo a Cuiacio, e voleva significare soltanto che si doveva credere al giuramento della vergine sedotta, madre per la prima volta, non ai fini dell’affermazione della paternità, ma per riversare l’onere delle spese immediate del giudizio e degli alimenti su colui che avesse denunciato come padre del suo figliuolo.
Sono problemi tecnico-giuridici, come vedete. Ma la disciplina del sistema probatorio nella ricerca della paternità non è di nostra competenza. Riguarda l’Assemblea legislativa, non la Costituente.
Troverà il legislatore gli accorgimenti, la maniera per superare queste difficoltà, ma la Costituente non può intanto rifiutarsi di risolvere questo problema di giustizia sociale, affermando il diritto alla dignità umana e al riconoscimento giuridico dei figli illegittimi: i diseredati, i reietti, che quando sopravvivono alla miseria, si vendicano della società che li ha condannati, diventando i negatori della legge, i gregari del delitto, i ribelli della società.
Riportiamo questi esseri umani alla sanità fisica e alla sanità morale: restituiamo questi cittadini allo Stato. E se Napoleone disse che la Francia non aveva nessun interesse a tutelare i figli bastardi, noi diremo che l’Italia democratica ha interesse che i figli illegittimi conoscano il loro padre e che quest’onta secolare venga cancellata dal nostro costume, dalla nostra legislazione, dalla nostra civiltà. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nobile. Ne ha facoltà.
NOBILE. Onorevoli colleghi, dopo tanta alata oratoria, è certamente difficile per me prendere la parola. Dovete rassegnarvi al mio discorso disadorno che, peraltro, avrà il pregio di essere assai breve.
Su questo Titolo dei rapporti etico-sociali mi riservo di presentare qualche emendamento che, a suo tempo, quando si passerà alla discussione degli articoli, illustrerò concisamente. Qui, in sede di discussione generale, desidero esporre il mio punto di vista sulla questione dell’indissolubilità del matrimonio, né vi meraviglierete, spero, che scelga proprio questo tema così difficile e delicato. Dopo tutto, si tratta di una questione sulla quale chi sia capo di famiglia ed abbia una lunga esperienza di vita è competente a parlare, e la mia esperienza forse si è notevolmente accresciuta con le osservazioni che ho potuto fare durante i molti anni che ho soggiornato negli Stati Uniti d’America e nella Russia sovietica. Alla compilazione della Carta costituzionale ognuno di noi ha il dovere di apportare il proprio contributo, qualunque esso sia, e questo dovere si impone con maggiore forza quando si tratta di dettare le norme per un istituto che, come quello della famiglia, è alla base della società umana, e della cui integrità noi italiani siamo particolarmente gelosi.
L’articolo 24 del progetto che stiamo esaminando stabilisce che la legge regola le condizioni dei coniugi, al fine di garantire la indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia. Con la discussione di questo articolo, inevitabilmente, si è ripresentata, ancora una volta, nei dibattiti della vita pubblica italiana, la questione del divorzio.
Si fa notare che l’Italia è uno dei pochissimi paesi dove la legge non ammette il divorzio. Le dita di una mano sono anche troppo per contarli: la Spagna, l’Irlanda, l’Italia e qualche altro Stato. In Irlanda il divorzio assoluto, cioè l’annullamento, richiede niente di meno che uno speciale atto del Parlamento, ed è perciò costoso e rarissimo. In Italia il Codice civile considera alcuni casi di annullamento, ma altri casi, ben più numerosi e complicati, contempla il diritto canonico. Tuttavia questi annullamenti in Italia sono molto rari, ammontando, nel complesso, a poche diecine: cinquanta o sessanta all’anno. Nel 1940 su 122 istanze si ebbero 65 annullamenti. Nello stesso anno la Sacra Rota annullava, su 80 ricorsi presentati, 15 matrimoni. Ma in altri paesi o quasi completamente cattolici o solo in parte cattolici, quali ad esempio la Francia, l’Austria, la Germania, gli Stati Uniti d’America, la legge civile ammette il divorzio, e bisogna riconoscere che, a lungo andare, anche molti cattolici finiscono col ricorrervi. D’altra parte, per quello che mi consta, negli Stati Uniti la Chiesa cattolica, pur non ammettendo un nuovo matrimonio, non proibisce ai fedeli di ricorrere alla procedura del divorzio quando si tratti di assicurarsi gli alimenti; ma è chiaro che una volta che il cattolico abbia riconquistato la sua libertà col divorziare legalmente, finisce poi assai spesso col disobbedire all’obbligo fattogli dalla Chiesa; sicché, almeno nei casi più gravi, è difficile che la professione di fede cattolica costituisca un ostacolo insormontabile al contrarre nuove nozze. Certa cosa a me pare che la frequenza dei divorzi nei paesi occidentali, più ancora che con la fede religiosa, sia collegata coi costumi e le condizioni sociali, altrimenti non si spiegherebbe il fatto curioso che nella protestante Inghilterra il numero dei divorzi nell’anno, ad esempio, 1927, per considerare un anno normale nel periodo di pace, era di soli 2671, mentre nella cattolica Francia se ne avevano ben 18.487, cioè circa sette volte di più.
Nei Paesi dove il divorzio esiste, il numero di essi è in continuo aumento, non solo in senso assoluto, ma anche in rapporto alla popolazione o al numero dei matrimoni, indice, questo, indubbio di una crescente instabilità dell’istituto familiare. Per 22 Paesi europei la media annuale dei divorzi su ogni cento matrimoni è aumentata da 5,16 nel 1931 a 5,77 nel 1934, considerevole aumento trattandosi di un periodo di soli tre anni. Ma negli Stati Uniti d’America l’aumento è spaventoso: mentre nel 1870 per ogni 10.000 persone coniugate ve ne erano 81 divorziate, il numero di queste nel 1900 era cresciuto a 200 e nel 1928 a 400. Nel settembre dell’anno scorso la Federal Security Agency annunciava che nel 1945 si era avuto niente meno che un divorzio per ogni tre matrimoni, esattamente 502.000 divorzi su un milione e 618.331 matrimoni.
È vero che si deve tener presente che un incremento eccezionale dei divorzi nell’immediato dopo-guerra è un fenomeno costante; ma pur tenendo conto di ciò, non si può negare che la proporzione dei divorzi negli Stati Uniti d’America sia giunta a tal punto da costituire un pericolo serio per la saldezza dell’istituto familiare.
Del resto, a chi ha vissuto a lungo in quel paese sono ben note l’estrema facilità con cui le unioni matrimoniali vi si contraggono e vi si sciolgono, la lassità dei legami familiari che da ciò deriva e la diminuita autorità dei genitori sui figliuoli, la cui indipendenza raggiunge talvolta limiti per noi incredibili. Ricordo il caso, capitato a New York, di una fanciulla di sedici anni, appartenente a famiglia oriunda italiana, la quale citò il proprio genitore davanti al magistrato, accusandolo di averla violentemente redarguita perché abitualmente tornava a casa tardi nella notte, dopo essersi accompagnata coi suoi amici. E il magistrato diede ragione alla fanciulla, trattando il padre da uomo di altri tempi. Del resto si conoscono dati che veramente ci riempiono di stupore sulla corruzione giovanile negli Stati Uniti. Ne citerò uno solo: la massima parte delle fanciulle delle High Schools, che corrispondono press’a poco al nostro ginnasio, giungono all’ultimo anno di corso senza essere più vergini. A proposito di ciò comparve sulla rivista Liberty una serie di articoli impressionanti di una signora che da molti anni era sponsor di un collegio di ragazze.
Le cause del grande, preoccupante accrescersi dei divorzi in America, come, sebbene in minor misura, anche negli altri paesi del mondo, non possono non mettersi in relazione con le trasformazioni sociali che hanno avuto luogo nell’ultimo secolo per effetto dell’industrialismo, trasformazioni che hanno dato come risultato l’emancipazione economica della donna. La parte sempre maggiore che questa prende alla vita economica, distraendola dalle attività familiari e rendendola sempre più economicamente indipendente dal marito, porta inevitabilmente all’indebolimento dei legami familiari.
Le unioni matrimoniali in America dipendono più che da ogni altra cosa dall’attrazione sessuale e dalle esigenze della personalità. Sui legami della famiglia prevalgono gli egoismi individuali. In molti casi il matrimonio è considerato dalla donna americana semplicemente come un mezzo per conquistarsi una posizione sociale. Per migliorare questa, dopo un primo marito essa passa ad un secondo e poi ad un altro ancora, percorrendo per così dire una specie di carriera matrimoniale.
Fino a qual punto l’enorme numero di divorzi che hanno luogo in America sia conseguenza della facilità con cui il divorzio stesso viene concesso dalla legge, talvolta per i motivi più futili e ridicoli, è difficile stabilire. Sono i costumi che fanno le leggi, ma certamente queste a lor volta reagiscono sui costumi. Vi sono Stati dell’unione nord-americana dove si può cambiare moglie o marito con la facilità con cui si cambia una casa d’abitazione. A Reno si concede il divorzio dopo avervi soggiornato solo pochi giorni.
È interessante a questo riguardo citare l’esperienza russa. Nel 1931, quando per la terza volta tornai nell’unione Sovietica, trovai che la famiglia era in piena dissoluzione: l’aborto era ammesso legalmente come diritto che non si potesse negare a nessuna donna, in nessun caso; il divorzio estremamente facile. Bastava la denuncia allo stato civile di una sola delle due parti, perché l’unione precedentemente registrata venisse considerata come sciolta, e si potesse procedere a contrarre nuove nozze, le quali d’altra parte non richiedevano alcuna formalità, bastando la semplice richiesta di registrazione. Anzi si poteva fare a meno anche di questa, perché era riconosciuto il matrimonio di fatto.
Le conseguenze di questo stato di cose furono talmente disastrose che la legge dovette correre ai ripari. L’aborto fu proibito, tranne nei casi in cui la sua necessità fosse riconosciuta dai sanitari per salvare la vita della donna, con leggi che rapidamente divennero sempre più severe. In quanto al divorzio si cominciò con accrescere le tasse richieste per la registrazione. Ma, più tardi, la sola denunzia non bastò più: la legge prescrisse che solo il magistrato aveva facoltà di sancire il divorzio.
Con questi provvedimenti restrittivi, la ricostruzione della famiglia procedette a larghi passi. Oggi la Russia è uno dei paesi dove indubbiamente il divorzio è meno facile, anche perché chi vi ricorre senza ragioni molto serie si espone al pubblico disprezzo.
Come si vede, le due grandi Confederazioni, la nord-americana e la sovietica, hanno proceduto in senso nettamente opposto: negli Stati Uniti si va verso un progressivo indebolimento dell’istituto familiare; in Russia verso un rinsaldamento di esso. Ora, queste due esperienze ammoniscono ad essere molto guardinghi, a resistere alle suggestioni di coloro che patrocinano il divorzio.
Nei Paesi delle grandi democrazie occidentali, la propaganda per il divorzio si basa sull’affermazione che la felicità matrimoniale sia possibile solo quando il legame coniugale armonizza con quello dell’affetto; e, con ciò, si giunge all’estrema conseguenza di ammettere il divorzio per semplice e mutuo consenso, senza alcun riguardo alle conseguenze che ne possono derivare.
Contro questa, che io giudico una aberrazione, il popolo italiano è bene in guardia. Esso, per istinto, nella sua enorme maggioranza, non vuol sentir parlare di divorzio, nemmeno oggi quando, per le condizioni create dalla guerra, tanti matrimoni sono rotti e tante separazioni legali hanno luogo, come ci ha anche ricordato l’onorevole Cevolotto.
Nel divorzio, il popolo italiano istintivamente scorge un pericolo per l’istituto familiare. Certo, non si può negare che vi siano casi in cui il divorzio riuscirebbe a dare pace, tranquillità, felicità forse, a persone che con un matrimonio infelice hanno perduto questi preziosi beni. Ma il legislatore deve porsi il quesito se, per soddisfare alle esigenze sia pure giustificate d’un singolo individuo, non ne venga un danno ad altri cento, ad altri mille. Si potrebbe, ad esempio, ammettere il divorzio nel caso di adulterio, ma, una volta aperta una breccia nell’indissolubilità che oggi protegge la famiglia italiana, sarà poi difficile impedire che la breccia si allarghi.
È certissimo che vi sono matrimoni così mal riusciti che hanno tramutato il focolare domestico in una bolgia infernale. E ben si vorrebbe, concedendo in tal caso il divorzio, dare al coniuge incolpevole la possibilità di rifarsi una famiglia; ma bisogna aver riguardo alle conseguenze che possono derivarne all’intera collettività. Ammesso infatti il divorzio in un caso, sarà difficile al legislatore resistere alle pressioni per estenderlo ad altri casi analoghi.
I fautori del divorzio sostengono che esso condurrebbe alla diminuzione del libertinaggio, del numero dei suicidi, dei nati illegittimi e adulterini, dei reati contro il buon costume e dell’ordine delle famiglie. In quanto a quest’ultimo è difficile sostenere tali asserzioni con argomenti validi.
Il fatto è che l’istituzione del divorzio diventa fatalmente un incitamento al divorzio. Quando si giunge, come ho detto che avviene in America, alla proporzione di un divorzio per ogni tre matrimoni, non si può più parlare di ordine familiare, perché si finisce talvolta coll’arrivare a situazioni così complicate e strane nel campo dei rapporti fra figli e genitori che realmente l’ordine della famiglia è completamente distrutto.
In quanto agli altri argomenti, mi si consenta citare, a conforto del mio assunto, qualche dato statistico.
Il numero dei figli illegittimi in Italia, prima della guerra (1931), fu del 5,1 per cento dei nati vivi. Ma, nello stesso anno – se si fa eccezione dell’Inghilterra, dove la percentuale fu del 4,4 per cento, e degli Stati Uniti, dove, nonostante l’enorme numero di divorzi, si ebbe in quell’anno una percentuale dei 3,5, e dell’Irlanda dove fu del 3,4 per cento – in tutti i paesi, dove esiste il divorzio, la percentuale degli illegittimi sui nati vivi fu ben più alta che non in Italia. Cito la Francia col 7,9 per cento, la Germania con l’11,7 per cento, la Svezia col 16,3 per cento. Ad ogni modo sempre la media italiana resta notevolmente al di sotto della media che si ha in tutti i paesi europei, media che dal 1939 al 1934 si aggirò attorno al 7,5 per cento.
Gravi, fondamentali obiezioni possono farsi contro l’istituzione del divorzio in Italia. Esso, almeno oggi, ripugna alla coscienza del nostro popolo, e soprattutto all’enorme maggioranza delle nostre donne. Si comprende bene, che in un paese dove la donna economicamente è ancora così strettamente dipendente dall’uomo, essa rifugga da un istituto che inevitabilmente minaccerebbe la stabilità del matrimonio.
E tuttavia, onorevoli colleghi, vi sono casi atroci in cui, nel superiore interesse della pubblica moralità, bisognerebbe concedere, non dirò il divorzio, ma lo scioglimento stesso e l’annullamento del matrimonio.
Alludo a taluni casi di grave indegnità morale. Ad uno mi riferisco più particolarmente, al quale hanno accennato anche l’onorevole Cevolotto e l’onorevole Gullo, quello del soldato che tornando dal fronte, o dalla lunga prigionia, trova il focolare domestico irrimediabilmente devastato da una donna indegna che approfittando dell’assenza del marito, esposto ai rischi mortali della guerra, lo ha tradito, nel modo più abbietto, né di ciò s’è mostrata pentita, nemmeno quando l’uomo generosamente era disposto a perdonare. In casi come questi, ed altri consimili, come negare al disgraziato che si trova ad essere legato ad una donna così degradata, come negar gli la possibilità di farsi legalmente un’altra famiglia?
Si obbietta. Ma concedendo la liberazione formale da un vincolo matrimoniale già irreparabilmente infranto, il legislatore verrebbe a premiare il colpevole. Giustissimo; un tal premio non si dovrebbe concedere. Al coniuge che si fosse comportato nel modo indegno che ho accennato dovrebbe essere negata la possibilità legale di nuove nozze.
In conclusione, onorevoli colleghi, sono avverso alla istituzione del divorzio; ma vorrei vedere accresciuto il numero dei casi in cui il matrimonio possa legalmente dichiararsi nullo.
Certamente io ignoro quale sia la formula giusta che bisognerebbe al riguardo inserire nella Costituzione, pur conservando l’articolo 24 tale come è. Ma quello che so è che il problema esiste, e che dovrebbe essere risoluto se non si vuole profondamente turbare l’ordine sociale.
Mi sia permesso fare – col dovuto rispetto – un’osservazione.
Il diritto canonico contempla una quantità di casi di annullamento del vincolo matrimoniale. Uno d’essi mi ha colpito in modo particolare: quello in cui nel contrarre il matrimonio sia stata apposta una condizione contra bonum sacramenti, cioè contro il principio dell’indissolubilità. La Congregazione del Sant’Uffizio il 6 aprile 1843 emanava una istruzione in cui si dichiarava: «certum est matrimonium contractum cum conditione ipsius substantiae et nominationi ipsius indissolubilitati repugnante, nullum esse». Questo caso offre la possibilità almeno teoricamente a cattolici poco scrupolosi di ottenere il divorzio in un paese dove esso non esiste, come è il nostro. Basterebbe, ad esempio, che nel momento di contrarre il matrimonio i futuri coniugi s’impegnino con clausola tenuta segreta a sciogliere il matrimonio, quando si verifichino date circostanze. Se non vado errato, alcuni anni fa si ebbe il caso clamoroso di un’alta personalità che ebbe annullato il matrimonio precedentemente contratto, e dal quale erano già nati dei figli, precisamente per la causa «ob exclusam indissolubilitatem», per avere cioè escluso l’indissolubilità.
A me sembra assurdo che si finisca col concedere quanto precisamente si vorrebbe vietare; ma quello che voglio fare osservare è che, essendovi già tanta varietà di casi in cui si può dichiarare invalido un vincolo matrimoniale, non vedo perché non si possa studiare la possibilità di contemplarne un altro che permetta di annullare il matrimonio, quando uno dei due coniugi si fosse comportato nel modo indegno che ho citato avanti, a proposito dei reduci dalla guerra. Basterebbe, ad esempio, parlare di errore nel consenso.
Sono ignorante di sottigliezze giuridiche, e i competenti potranno a ragione accusarmi di leggerezza parlando come faccio di argomenti così gravi; ma a me pare che una soluzione, nell’interesse della pubblica moralità, bisogna pur trovare al grave problema. È vero che i casi di annullamento sono rari: appena qualche decina all’anno. Tuttavia è diffusa l’opinione che personalità influenti per posizione sociale, politica od economica possano riuscire ad ottenere quello che al comune italiano è negato. (Commenti al centro). Tanto più vero è ciò, in quanto assai frequenti sono i casi di ricchi italiani che ottengono di divorziare in Ungheria, Svizzera o Austria, senza nemmeno perdere definitivamente quella cittadinanza italiana alla quale temporaneamente rinunciano per ottenere il divorzio.
Concludendo, si deve distruggere l’impressione, oggi prevalente nel popolo italiano, che in Italia l’annullamento del matrimonio o il divorzio esistano, ma solo per pochi privilegiati.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bruni. Ne ha facoltà.
BRUNI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, gli articoli 23, 24 e 26, che riconoscono i diritti della famiglia e l’indissolubilità del matrimonio, mi trovano consenziente, quanto alla loro sostanza.
Sull’articolo 26 – che disciplina le nascite illegittime – a suo tempo mi riserverò di accettare un lieve emendamento, che precisa meglio la portata del suo contenuto, proposto da uno dei miei colleghi.
È, invece, sugli articoli 27 e 28, relativi all’ordinamento scolastico, che mi permetterò d’interloquire, nei limiti di tempo permessi dal costume ormai invalso in questo genere d’interventi.
Onorevoli colleghi! Il soffio innovatore di una Costituzione si rivela da molte cose, ma è soprattutto misurabile, anche a mio parere, come testé ha sottolineato l’onorevole Gallo, dal conto ch’essa fa dell’istruzione e dell’educazione.
Il soffio innovatore di una Costituzione può essere soprattutto avvertito e valutato rispetto alla possibilità concreta che è in grado di offrire ad ogni cittadino di elevarsi moralmente ed intellettualmente.
La risoluzione dei problemi sociali, essendo strettamente legata alla coscienza che i cittadini hanno dei loro doveri e dei loro diritti, è evidente il gran conto che la Repubblica è tenuta a fare dell’istruzione e dell’educazione.
Fa bene perciò l’articolo 28 ad estendere a tutti indistintamente i fanciulli l’insegnamento inferiore «obbligatorio e gratuito», come dice il progetto di Costituzione, per la durata di almeno otto anni.
Inoltre il terzo comma dell’articolo giustamente consacra il diritto a «raggiungere i gradi più alti dell’istruzione» anche per coloro che sono privi di mezzi, purché «capaci e meritevoli».
Senonché, quando nel comma seguente si tratta di determinare i mezzi per rendere effettivo l’esercizio di questo sacrosanto diritto, ecco che non si sa indicare altro che «borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze da conferirsi per concorso agli alunni». In tal modo la fruizione di quel diritto viene ad essere limitata arbitrariamente col legarla alla sorte di un esame o di un concorso e non invece al criterio, molto più stabile e per tutti uguale, di una più rigorosa selezione dei più meritevoli e dei più capaci lungo tutto il corso dell’anno scolastico. Come i ricchi, così anche i poveri devono andare avanti col semplice passaggio. Istituire per i poveri delle speciali borse di studio, dei concorsi, significa ribadire l’attuale discriminazione dei poveri di fronte alla scuola; criterio questo che disonora il Paese.
Si dirà che questo metodo è gravoso per l’erario. Ma io ritengo fermamente che sia venuta l’ora di porsi bene in mente che non si possa continuare a spendere quattro miliardi per l’istruzione quando se ne spendano oltre 100 per le forze armate.
Non ricostruiremo niente in Italia se continueremo ad avere milioni di analfabeti, se continueremo a discriminare i poveri dai ricchi: nulla di duraturo otterremo se non eleveremo di almeno venti volte il bilancio del Ministero dell’istruzione, come prima tappa.
Al fine di rendere più severi gli studi ed evitare la disoccupazione intellettuale, attraverso questo piano di socializzazione della scuola, potrà essere consigliabile l’istituzione di speciali concorsi per adire ai corsi universitari. L’ammissione a questi corsi potrà magari essere regolata con l’adozione del criterio del numerus clausus o col rendere veramente severi gli esami di ammissione alle università.
Fedele ai suesposti criteri di eguaglianza, ho proposto la sostituzione dei tre commi dell’articolo 28 col seguente:
«La scuola in ogni ordine e grado è aperta a tutti, indipendentemente dalle possibilità economiche di ciascuno, e la Repubblica assicura ai meno abbienti l’esercizio di questo diritto».
Come secondo comma dell’articolo resterebbe quello ultimo del progetto che ho lasciato invariato. Sicché l’articolo 28 risulterebbe di due commi invece di quattro.
L’attuale panorama scolastico italiano presenta tre categorie di scuole: primo, le scuole statali; secondo, le scuole non statali che ottengono il riconoscimento giuridico, distinte in «pareggiate» e «parificate»; terzo, le scuole non statali che detto riconoscimento non richiedono.
Nella seconda categoria di scuole non statali (quelle che richiedono il riconoscimento giuridico dei loro titoli) l’articolo 27 del progetto non fa menzione delle scuole così dette «pareggiate», e parla soltanto di «parificazione».
È augurabile che tale omissione possa essere interpretata nel senso che, d’ora in poi, debba cadere la distinzione oggi esistente tra queste due categorie di scuole e che ambedue, d’ora in poi, debbano classificarsi, a parità di diritti e di doveri, tra quelle scuole non statali che richiedono il riconoscimento giuridico dei loro titoli.
Ad ogni modo, data la situazione di fatto, non mi pare che la dizione del comma 4° dell’articolo 27 sia, a questo riguardo, sufficientemente chiara e riesca a comunicarci con precisione il pensiero del legislatore sul regolamento delle scuole non statali.
È necessario adottare una dizione inequivocabile che non faccia più uso degli aggettivi «pareggiate» e «parificate», oggi attribuiti alle scuole e ponga in altri termini quello che dovrà essere il nuovo ordinamento delle scuole non statali.
A tale scopo ho proposto di sostituire il quarto comma dell’articolo 27 con il seguente:
«Le scuole che ottengono il riconoscimento giuridico dei loro titoli, acquistano, nella libertà del loro particolare indirizzo educativo, gli stessi diritti, e si sottopongono agli stessi obblighi di quelle statali. La legge determina le condizioni di tale riconoscimento».
Della terza categoria di scuole (di quelle che non chiedono il riconoscimento giuridico dei loro titoli) si dice nel terzo comma dell’articolo 27 che sono soggette «soltanto alle norme del diritto comune e della morale pubblica».
In verità da questo tipo di scuola lo Stato richiede troppo poco. Esso viene meno ai suoi doveri, e dirò in seguito perché.
Come si vede dalla terminologia da me usata nel classificare i diversi tipi di scuole, ho abolito quella corrente di «scuole pubbliche» e «scuole private», essendo una terminologia che tradisce l’esistenza di falsi concetti sulla missione della scuola che non si possono più coltivare, se vogliamo rispondere alle imperiose esigenze di un ordinamento scolastico democratico e nazionale.
Neanche nel progetto di Costituzione viene usata la vecchia terminologia; ma è un fatto che rimane e vi agisce in pieno il vecchio concetto.
Tutte le scuole hanno di fatto un carattere «pubblico».
Tutte le scuole, e cioè ogni tipo di scuola, appartengono alla comunità italiana.
Tra la scuola «statale» e «non statale» non dobbiamo più mantenere quella separazione esistente al giorno d’oggi.
L’attuale ordinamento scolastico è anarcoide, ed il progetto di Costituzione non lo corregge, lo ribadisce.
D’ora in poi bisogna partire dall’idea che l’insegnamento che si impartisce nella scuola non statale, nei suoi vari tipi, è un servizio non meno «pubblico» di quello che s’impartisce nella scuola statale, e che perciò lo Stato, o chi per esso, ha il dovere di sorvegliarle e di far gravare su di esse, nell’ambito della libertà d’insegnamento, tutto il peso della sua autorità, rivolta al bene comune e all’instaurazione della più rigorosa giustizia verso i professori, verso gli alunni, verso le famiglie degli alunni.
Si dice comunemente che lo Stato deve assumere un costante atteggiamento «laico» o di «neutralità» rispetto al problema dell’educazione.
Posso adottare anch’io una tale terminologia. Ma uno solo è il significato, legato a questa terminologia, che stimo accettabile.
C’è, innanzi tutto, da osservare che la così detta «laicità» e «neutralità» dello Stato rispetto all’educazione, non può davvero significare «indifferenza», sic et simpliciter.
Sull’educazione del fanciullo gravitano, per così dire, tre diritti: uno del fanciullo stesso, uno della famiglia, uno della comunità politica.
Nella personalità stessa del fanciullo, che deve svolgersi nella spontaneità e non può essere sottoposta a coercizione, né interiore né esteriore, l’educazione della famiglia e della Repubblica trovano dei limiti naturali ed invalicabili.
La famiglia ha il diritto di presentare al fanciullo, nell’ambiente scolastico, il sistema di verità assolute in cui crede, e nell’esercizio di questo suo diritto non solo non può essere disturbata dai poteri pubblici, ma deve essere da questi aiutata.
La Repubblica, oltre a questa sua funzione di difesa e di garanzia dell’educazione familiare, ha, inoltre, una sua missione educativa, derivatale dal dovere di assicurare una base di vita comune alle famiglie, che sono spiritualmente diverse.
La parte di educazione che spetta in proprio alla famiglia e quella che spetta in proprio alla Repubblica sono di per sé complementari e non si dovrebbero escludere l’una dall’altra, e non entrare in collisione. Esse costituiscono due aspetti dell’educazione dell’uomo, che è necessariamente unitaria.
Fedele alla sua stessa verità e specifica missione, lo Stato ha il dovere di impartire in proprio, o comunque, di esigere sia impartito, in tutte indistintamente le scuole, quel tipo di educazione che è atto a conservare la comunità politica e questa comunità politica, e cioè un’educazione «civica» ed «italiana» allo stesso tempo.
Lo Stato ha «una» sua funzione educativa, diretta a rendere possibile la civica convivenza delle diverse correnti politiche e spirituali, e a salvaguardare le tradizioni e il carattere della civiltà italiana.
C’è una tradizione storica e culturale italiana, per cui conosciamo ed amiamo il nostro Paese, e questa tradizione dev’essere presentata ai giovani di ogni categoria di scuole, sia statali che non statali.
I poteri pubblici non solo devono sorvegliare l’igiene, la morale, la didattica, ecc., delle scuole non statali, ma anche esigere che l’educazione ideologica e confessionale, che ivi s’impartisce, non uccida l’educazione civica.
II tipo di educazione che lo Stato è tenuto ad impartire e che deve rigorosamente esigere sia impartito anche nelle scuole non statali, è quello della tolleranza civica; è il civismo di tipo democratico.
Su ciò la Repubblica non può transigere, senza compiere un gesto suicida.
Ho perciò proposto di aggiungere il seguente comma all’articolo 27: «Le scuole di qualsiasi tipo compiono un servizio pubblico e sono tenute ad impartire un insegnamento ed una educazione civica di ispirazione democratica e nazionale».
Dalla mia esposizione risulta che i poteri politici devono compiere due interventi «positivi» in campo educativo.
Uno con l’impartire, o col pretendere sia impartita, una educazione «civica e nazionale»; l’altro col garantire di fatto alle famiglie l’esercizio del loro diritto che sia presentato dalle scuole ai loro figli il sistema compiuto di verità, filosofiche o religiose, in cui credono.
A che cosa, dunque, si riduce la «laicità» e «neutralità» dei poteri politici in campo educativo?
Non certo ad un atteggiamento di inimicizia verso la libertà dello spirito e la conseguente libertà di insegnamento.
L’autentico spirito laico consiste nel rifiuto a prendere partito per una determinata corrente spirituale, a scapito delle altre; ma non può manifestarsi come disinteresse perché esse si manifestino e possano convivere politicamente.
In una comunità «politica» giudicherei pertanto iniquo ogni monopolio dell’educazione, esercitato da parte di chi si sia.
Tale essendo la posizione autenticamente «laica» (tanto diversa da quella «laicista»), essa non può manifestarsi ostilmente e aggressivamente verso le diverse correnti spirituali.
In un autentico ordinamento scolastico laico, tali correnti devono tutte trovare un ambiente accogliente. Innanzitutto nelle scuole statali stesse. Così la «laicità» delle scuole statali non può certamente spingersi in Italia sino ad allontanare da esse l’insegnamento, per esempio, della storia della Chiesa, del diritto canonico ed ecclesiastico, della storia dell’arte religiosa, né quella del dogma e del catechismo cattolico, sia pure a titolo facoltativo ed informativo.
Se non vogliamo cadere in un bigottismo laico, possiamo ignorare, non dico la «verità» ma la «realtà» religiosa italiana? E si può dire di professare rispetto ed intelligenza verso la cultura italiana stessa, se ignoreremo l’anima e la storia del cattolicesimo?
Mentre dico questo, non posso che confermare le critiche da me rivolte all’articolo 36 del Concordato lateranense, allorché parlai sull’articolo 7 della nostra Carta costituzionale.
L’articolo 36 su citato ha prodotto alcune situazioni preoccupanti.
Così, per esempio, senza pericolo di irreggimentazione, e perciò di falsare il sentimento religioso, non si può continuare a permettere che si esercitino pressioni, dirette o indirette che siano, su professori ed alunni, volte a far compiere collettivamente determinati atti di culto, come accade in alcune scuole statali oggi in Italia.
Ma l’ordinamento «laico» della scuola italiana deve dimostrarsi ben altrimenti accogliente e liberale. Deve preoccuparsi di realizzare, in misura totale, il principio della libertà d’insegnamento. La libertà d’insegnamento è una libertà di diritto naturale. La comunità politica non può non riconoscere l’incoercibile desiderio dei genitori, ad educare ed istruire i loro figliuoli secondo le loro convinzioni, e deve venire incontro a questo desiderio, secondo le circostanze dettano direttamente o indirettamente.
La libertà d’insegnamento fa parte essenziale del gruppo delle libertà democratiche e non può non essere considerata una delle leggi fondamentali della Repubblica italiana.
Il nostro progetto di Costituzione ha fatto bene, perciò, a consacrarla nel secondo comma dell’articolo 27.
Il problema della libertà d’insegnamento investe in pieno la democrazia: esso deriva dalla libertà di pensiero.
Regime di libertà di insegnamento, è regime opposto al totalitarismo.
Diversi sono i modi con i quali lo Stato può esercitare il suo intervento per garantire l’effettiva libertà dell’insegnamento.
La scelta di questi mezzi dipende dalle contingenze sociali in cui essi sono chiamati ad operare.
Tuttavia, in ogni caso, lo Stato ha il dovere di far sì che l’esercizio di questo sacrosanto diritto sia garantito a tutti ugualmente senza distinzione di razza, di nazionalità, di religione, di censo.
Le scuole, sia statali che non statali, dovranno perciò poter accogliere tutti, a seconda delle preferenze di ciascuno. Ciò vuol dire che lo Stato deve sottoporre il suo ordinamento scolastico ad un rigoroso processo di socializzazione.
In Italia, paese povero, non basta limitarsi a riconoscere a privati e ad enti pubblici la facoltà di aprire degli istituti di insegnamento.
Non solo, nelle così dette scuole «private», i metodi didattici e la scelta dei professori generalmente lasciano molto a desiderare, ma le tasse sono così alte che – in via di fatto – sono i figli delle sole famiglie abbienti che finiscono per usufruire di esse.
Il principio della libertà di insegnamento realizzato come lo è oggi in Italia, e come lo ribadisce il progetto di Costituzione, sbocca praticamente in un regime scolastico di privilegio. Come in altri campi, anche in quello della scuola è il principio formale della libertà liberale che agisce; non quello, concretamente liberale, della libertà socialista.
La scuola non statale italiana, cattolica ed acattolica, è, infatti, frequentata dai «figli di papà». Praticamente ne restano lontani i figli delle famiglie diseredate. Lo Stato non può permettere oltre certe vergognose sperequazioni.
I cristiano-sociali non sanno che farsene dell’attuale libertà suicida delle scuole, dove gli istituti privati vivono fuori del beneficio della legge comune; al di fuori di ogni reale controllo statale; con metodi didattici manchevoli; con professori che fanno la fame; con alunni tartassati finanziariamente in ogni modo; scuole che troppo spesso rimangono inaccessibili ai figli del popolo.
I cristiano-sociali guardano ad un ordinamento scolastico non più solo formalisticamente liberale, ma liberale concretamente, con lo sposare – anche su questo terreno – l’esigenza, che è propria del liberalismo, alla esigenza, che è propria del socialismo.
Con ciò non si vuol dire che tutte le attuali scuole private sono scuole per privilegiati. Esistono delle nobilissime eccezioni. Così, scuole veramente popolari sono quelle, per esempio, di alcuni istituti cattolici, quali i Carissimi e i Salesiani.
Purtroppo ora la speculazione, per l’assenza dei poteri pubblici, si estende anche alle scuole serali, che, tra l’altro, non dànno alcun serio affidamento didattico.
Lo Stato ha il dovere di eliminare tali disparità di fatto rampollate da una concezione meramente liberale e formale della libertà di insegnamento.
E lo può fare in due modi: o finanziando le scuole non statali esistenti o provvedendo esso stesso, direttamente, ad aprire scuole del tipo voluto da quelle famiglie (e con le garanzie da esse desiderate) che altrimenti si vedrebbero costrette ad inviare i loro figli a scuole che non rispondono ai loro desideri.
Ad ovviare a tutti questi inconvenienti provvede il comma aggiuntivo da me proposto all’articolo 28, che dice: «La Repubblica prenderà tutte le misure necessarie perché l’eguaglianza dei diritti di fronte all’istruzione e all’educazione sia di fatto rispettata anche nelle scuole non statali, col provvedere ad un congruo finanziamento di esse, o con l’istituire scuole statali, nel quadro della libertà di insegnamento, del tipo richiesto dalle famiglie».
Quando lo Stato s’appiglia a quest’ultimo mezzo, aprendo, per esempio, una scuola israelita o una scuola cattolica, con ciò non intende insegnare la «verità» degli ebrei, o la «verità» dei cattolici come la «propria» verità; intende soltanto assolvere al dovere – che è proprio suo – di rendere effettivo l’esercizio della libertà di insegnamento.
Se lo Stato, invece di abbracciare questa neutralità – come chiamarla? – accogliente ed aperta, si chiudesse in una neutralità astiosa e negativa, quasi di semplice tolleranza e sopportazione per resistenza di altre scuole, interpreterebbe in direzione dogmatica, e perciò stesso non autentica, la sua missione laica.
E verrebbe ugualmente meno alla sua missione, offenderebbe ugualmente la giustizia, e il diritto delle famiglie e degli alunni; e opererebbe a discapito della stessa serietà degli studi nelle scuole non statali se, accanto a tale affermazione del principio pluralista nel campo dell’insegnamento, parimente non riuscisse ad affermare, con la necessaria energia, il principio unitario, in modo che le scuole italiane escano finalmente dal caos in cui ora si trovano.
Gli emendamenti da me proposti mirano ad armonizzare il pluralismo giuridico, in cui si esprime il diritto delle famiglie, e l’unità, in cui si esprime il diritto della comunità politica.
Non si fraintenda il mio pensiero. Anche io con l’onorevole Binni e con altri sono del parere che l’autorità dello Stato si deve fare più attiva di quello che non è attualmente. Infatti i miei emendamenti mirano a consacrare il carattere «pubblico» di ogni tipo di scuola, a non contemplare più quel tipo di scuola che è oggi la parificata, tipo ibrido che dà scarso affidamento di serietà e sulla quale invece particolarmente insiste il progetto di Costituzione; mirano a riconoscere a queste scuole non statali parità di doveri e di diritti nell’ambito, s’intende, della libertà di insegnamento; mirano a rendere obbligatorio, nelle scuole non statali, l’insegnamento e l’educazione di carattere civico e nazionale.
La sovvenzione alle scuole non statali deve portare al loro pareggiamento e alla parità degli obblighi; la creazione, poi, da parte dello Stato, di scuole a tipo confessionale, mira allo stesso scopo pur nella più leale libertà di insegnamento. Tutti i miei emendamenti, che sono quasi tutti interdipendenti l’uno dall’altro, mirano a creare un ordinamento scolastico organico in cui la libertà di insegnamento, resa finalmente effettiva, non possa più rivolgersi contro la comunità nazionale e si svolga nell’ambito dell’unità civica degli italiani.
Mi creda l’amico onorevole Binni, non è questa l’affermazione di una tesi liberale compiuta con spirito antiliberale come egli direbbe, non è questa per i cristiano-sociali una linea tattica di ripiego; è solo l’ossequio che sento di dover fare al principio in se stesso della libertà e della dignità della persona che mi fa abbracciare questa tesi pluralista e unitaria nell’ordinamento scolastico.
Non è per la libertà dei soli cattolici che parlo, ma per la libertà di tutti; è per la libertà dei cattolici come per la libertà degli acattolici, e cioè, parlo per la libertà di ciascuno, nel quadro della libertà di tutti, vale a dire nel quadro dell’unità civica e nazionale degli italiani.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Ruggiero. Ne ha facoltà.
RUGGIERO; Onorevoli colleghi, mi intratterrò su questa parte del progetto riguardante i rapporti etico-sociali sugli articoli 23 e 24, considerando questi articoli brevemente solo dal punto di vista strettamente giuridico.
Vi dirò subito, onorevoli colleghi, che questi due articoli, proposti e imposti dai rappresentanti della Democrazia cristiana in seno alla Sottocommissione…
MORO. Sono stati regolarmente votati.
RUGGIERO. … appaiono come lo sforzo di un partito il quale voglia introdurre nella Carta costituzionale i precetti della morale cattolica. Dirò allora, entrando subito in argomento, che per me, per la mia modestissima opinione, questi due articoli sono assolutamente inaccettabili. Sono inaccettabili per vari motivi: primo motivo, essenzialissimo, forse insuperabile è questo: che, secondo me, esiste una incompatibilità insanabile, irriducibile, inconciliabile tra quella che è la natura della Carta costituzionale e i principî affermati in questi articoli. Noi, vedete, onorevoli colleghi, per fare la Carta costituzionale – io non voglio aver l’aria di dare dei suggerimenti – dovremmo tener presente una regola, veramente imprescindibile, che è questa: nella Carta costituzionale vanno inseriti i principî, i quali, anche se non riescono a conseguire un’adesione unanime, tuttavia sono profondamente e largamente sentiti dalla collettività; vanno inseriti quei principî i quali abbiano avuto una consacrazione, direi, storica ed etica: quei principî che possano esser considerati come il portato della coscienza comune. Questi sono i principî che vanno nella Carta costituzionale.
E allora, se così è – e ritengo che non possa non essere così – gli articoli 23 e 24 non dovrebbero essere inseriti nella Carta costituzionale, perché, secondo me, sono l’espressione concreta di ideologie particolari e di postulati, che si risolvono – permettetemi di dirlo – in termini di morale cattolica. Quindi, incompatibilità tra le norme particolari, affermate da questi principî e la natura essenziale della Carta costituzionale. Badate, noi non vi diciamo che siamo contro il divorzio, perché non entriamo nel merito della questione. Noi vi diciamo: Poiché queste norme, contenute negli articoli 23 e 24, hanno un carattere di innegabile peculiarità, poiché contrastano con la natura essenziale della Carta, non possono entrare nella Carta costituzionale. Questo noi vi diciamo; infatti la Carta costituzionale comporta sempre dei grandi comandamenti, degli imperativi categorici, che impegnano la legislazione di un popolo per generazioni e generazioni. Quindi vanno nella Carta costituzionale solo quei principî che possono conseguire questo elemento, che cioè la collettività si sia messa d’accordo su quel principio, un principio, insomma, che abbia una garanzia di durabilità. Ora, se così è, noi, quando avremo affermato che il matrimonio è indissolubile, che cosa avremo fatto? Avremo escluso per sempre – se la Carta costituzionale deve essere guardata come un fatto che si proietta nel tempo – il principio del divorzio. Ora, noi questo oggi non lo possiamo fare. Perché? Perché noi non possiamo impegnarci per le generazioni venture. In effetti, nel nostro assetto sociale, fino a questo momento, non è mai apparsa questa esigenza forte e urgente del divorzio, tanto è vero che, pur non essendo consacrato il principio dell’indissolubilità del matrimonio nello Statuto albertino, tuttavia da noi non è stato mai fatto nessun tentativo concreto per portare in discussione il problema del divorzio, salvo una piccola discussione, senza conseguenze, che una volta si fece alla Camera in una assai lontana legislatura. Però, noi dobbiamo anche guardare a quelli che vengono dopo di noi.
Una voce al centro. Si modifica la Costituzione!
RUGGIERO. E allora non faremmo un documento che si proietta nel tempo, che dura per un lungo periodo di anni. Se ci impegniamo per quelli che verranno dopo, avremo fatto una Carta costituzionale che naturalmente non risponde ai requisiti che deve avere una Carta costituzionale. In questo modo noi, in maniera molto arbitraria, e tenendo presenti solo gli elementi etici di oggi, escluderemmo per sempre, o per un lungo periodo di anni, quello che è il principio del divorzio.
MORO. Si farà una revisione costituzionale.
RUGGIERO. Non possiamo, se vogliamo rimaner fedeli al principio che deve informare la Carta costituzionale, non possiamo inserire il principio dell’indissolubilità del matrimonio, perché esso non ha in sé quel carattere di immanenza, non ha in sé quella consacrazione etica, non ha quella portata universale che debbono invece avere tutti i principî che vanno consacrati nella Costituzione.
Vogliamo considerare un po’ il divorzio al di fuori di quella che è una valutazione forse troppo settaria, troppo faziosa, troppo personale? Guardiamo il divorzio, per quello che è, nella sua portata etica. Allora noi vedremo che la totalità o, per lo meno, la quasi totalità dei popoli ammette il divorzio. E allora deve nascere in noi questa constatazione: se tutti i popoli ammettono il divorzio, come facciamo noi a considerare il principio dell’indissolubilità del matrimonio come un principio di tale portata da poterlo consacrare nella Carta costituzionale?
Noi non possiamo infatti non tener presente la valutazione che altri popoli fanno di questo istituto, e ciò appunto perché noi vogliamo riguardare questo istituto dal punto di vista della sua eticità.
Io non penso infatti che noi dobbiamo riguardare il popolo italiano come un popolo che abbia diverso substrato etico, e che per esso valgano dei principî diversi da quelli che possono valere per altri popoli civili.
Quindi noi non possiamo ritenere cardinale ed essenziale il principio dell’indissolubilità del matrimonio, per questo motivo di incompatibilità insanabile e irriducibile tra il principio particolare che esprime un postulato ideologico e quello che è il carattere essenziale della Carta costituzionale.
E allora, per rimanere fedeli alla natura della Carta costituzionale, dovremmo arrivare a questa conseguenza logica, che cioè non possiamo consacrare questo principio dell’indissolubilità del matrimonio nella Carta costituzionale. Una questione quindi di incompatibilità, come vedete. Non entro nel merito.
Adesso vi pongo dinanzi ad un’altra valutazione, che è una valutazione, diciamo, di carattere giuridico comparativo. Noi prendiamo tutte le Costituzioni moderne e vediamo se in queste costituzioni si sia fatto cenno del principio dell’indissolubilità del matrimonio. Ebbene, noi vediamo che in nessuna Carta costituzionale si è fatta menzione di questo principio.
E allora vedete che quelle che possono essere le mie opinioni di carattere personale, e quindi di carattere arbitrario, io le riempio di un contenuto di grande valore probatorio, cioè della sostanza politica delle altre Costituzioni.
Non so, quindi, per quale motivo noi dovremmo fare una Costituzione che si discosti da tutte le altre Costituzioni. Allora voi vedete che deve nascere spontaneamente quel senso di diffidenza per cui si dice: qui si vuole includere nella Carta costituzionale qualche cosa che deve rimanere lontano dalla Carta, perché non è compatibile ed è estraneo alla Carta.
È vero che c’è una Costituzione che parla di questo principio, ma non metterebbe conto di richiamarla. C’è una Costituzione che considera il principio della indissolubilità ed è la Carta costituzionale dell’Islanda.
Mi pare che l’Islanda sia una grossa esportatrice di stoccafisso. Non vorrei che diventasse solo per l’Italia anche esportatrice di prodotti costituzionali.
Quindi io mi riferirò alle altre Costituzioni, perché noi, quando facciamo la Costituzione, non possiamo rinunciare alla scienza giuridica di altri popoli, alla esperienza storica degli altri popoli, alla saggezza umana degli altri popoli. Quindi, dobbiamo vedere se esistono per la nostra attività legislativa dei precedenti ai quali possiamo adeguarci. Altrimenti faremo un’opera arbitraria, la quale non trova, e non può trovare, consacrazione nella storia delle Costituzioni degli alti popoli.
Quindi noi fino a questo momento possiamo porre un principio fondamentale, che cioè, senza entrare in merito al contenuto dell’istituto del divorzio o della indissolubilità del matrimonio, noi possiamo affermare che non si può fare l’inserimento di questi articoli nella Carta costituzionale. Perché? Perché l’articolo 23 e l’articolo 24 contengono dei principî e degli interessi particolari, che appunto per essere particolari non sono compatibili con lo spirito della Carta costituzionale.
Ma, Onorevoli colleghi, vi è da parte dei democratici cristiani uno speciale atteggiamento per cui queste buone ragioni molte volte non trovano nessun accoglimento da parte loro.
Badate che io ho questa impressione: che gli onorevoli colleghi della Democrazia cristiana non guardino la Carta costituzionale per quella che è o che dovrebbe essere nei suoi elementi costitutivi, nei suoi attributi essenziali, ma la guardino un poco come una occasione di cui approfittare per inserire nella Carta stessa quelli che sono i postulati della loro ideologia. Colgono un poco la palla al balzo. (Commenti). Perché io non posso comprendere come giuristi di esimio valore, quali quelli democristiani, non si siano fermati a considerare che, ad un certo punto, c’è una specie di limite che non può essere superato nella Carta costituzionale; e quindi non si può inserire in questa qualche cosa che non ha niente a che vedere con la stessa Carta costituzionale. Ed allora il partito della Democrazia cristiana ricorre a quello che è il principio della maggioranza. Da parte dei rappresentanti democristiani si pone un articolo, una enunciazione di legge, una proclamazione di principio e lo si fa passare nella Sottocommissione e noi ci troviamo di fronte al progetto della Costituzione.
E poi ci vien detto: anche se questo principio, se questa enunciazione di diritto sia incompatibile con la Carta costituzionale, noi ci avvaliamo della maggioranza e introduciamo egualmente, il principio o la enunciazione, se ci fa comodo.
È successa la stessa cosa quando si trattava dell’articolo 7. L’articolo 7 che cosa esprime? L’introduzione di un trattato internazionale nella Costituzione. Ma ciò può avvenire? Ricordo quello che con frase felicemente sintetica disse opportunamente l’onorevole Calamandrei: Se noi avessimo fatto un Trattato internazionale con la Francia, lo avremmo inserito della Carta costituzionale? No! Invece quando si è trattato del trattato internazionale che va sotto il nome di Patti lateranensi esso è riuscito a passare nella Carta costituzionale, anche se rappresenta qualcosa che non ha niente a che vedere con essa.
Vedete dunque come funziona questo principio della maggioranza, che i democristiani raccolgono per forza propria ed anche perché riescono ad attirare altre forze intorno al loro Gruppo.
Ma la maggioranza non può essere considerata al disopra di certi principî fondamentali, perché quando, per esempio, la maggioranza pone un articolo e questo articolo, considerato nella sua natura, è compatibile con la Carta costituzionale, non è estraneo alla Carta costituzionale, non è indipendente da essa, allora la maggioranza può riempire questo articolo del contenuto che vuole. Ciò è accaduto per esempio con l’articolo riguardante la stampa. Ad un certo punto questo articolo viene riempito con delle norme volute dalla maggioranza e per le quali gli agenti di pubblica sicurezza possono fare il sequestro. La maggioranza poteva in questo caso far valere la sua forza, perché si trattava di riempire un articolo di un contenuto invece che di un altro.
Ma quando un principio non è compatibile con la Carta costituzionale, ed è un principio estraneo ed indipendente, che non ha nulla a che fare con la Carta costituzionale, allora mi pare che la maggioranza, ove voglia introdurre quel principio e quella proclamazione, faccia qualcosa che si mette al disopra della Carta costituzionale; per cui, se non vado errato, la Carta costituzionale potrebbe essere considerata così profondamente inficiata da doversi definire incostituzionale.
Ora la Carta costituzionale ha una struttura, una natura, una fisionomia che non possono essere mai alterate da quella che è la forza della maggioranza. La Carta costituzionale ha dei lineamenti che non possono essere deformati dalla forza della maggioranza, altrimenti la maggioranza si metterebbe al disopra del diritto astratto, categorico.
Io penso, per questi motivi di incompatibilità, che gli articoli 23 e 24 non dovrebbero trovare inserimento nella Costituzione; a meno che – mi si passi l’espressione e mi si scusi il tono polemico – si faccia una Costituzione, la quale appaia, a chi la guardi spassionatamente, attraverso una interpretazione solamente giuridica, come concepita in sacrestia o generata nell’ultima pretura dell’ultimo villaggio della Repubblica d’Italia.
Noi abbiamo il dovere di guardare la Carta costituzionale, rispettando i divieti ed i limiti che essa pone, attraverso la sua struttura e la sua fisionomia.
Altra osservazione; e chiedo scusa ai democristiani se potrà sembrare irriverente quello che dirò.
Io vorrei domandare ai miei amici democristiani se essi siano sempre convinti di assolvere, quando fanno la Costituzione, il mandato ad essi affidato.
MORO. Non c’è dubbio su questo.
Una voce al centro. Perché lo domanda a noi?
RUGGIERO. Perché si tratta d’una cosa che riguarda voi. (Commenti).
Dunque, quando una parte del popolo italiano ha conferito al partito democristiano il mandato di fare la Costituzione, ha conferito il mandato di contribuire a fare una Costituzione che esprimesse principî generali e non interessi particolari, che ottemperasse alle grandi istanze della coscienza politica e non d’una ideologia particolare. Può avere dato il mandato di fare una Costituzione che rispondesse al comandamento d’una civiltà anche cristiana, ma non cattolica. (Interruzioni).
Se mi si consente di parlare, continuo.
PRESIDENTE. È lei che suscita queste reazioni; ha detto che avrebbe parlato in tono polemico; quindi non si meravigli.
Piuttosto, tratti il tema costituzionale e non faccia l’interpretazione delle elezioni, fatto più che superato.
RUGGIERO. Mi pare di rimanere nel giusto, quando affermo che, siccome siamo qui per obbedire ad un impegno preciso, quello cioè di fare la Costituzione, penso che dobbiamo fare una Costituzione la quale resti nell’ambito, nei lineamenti, nei caratteri e negli attributi della stessa Costituzione.
Non si può con la forza rompere i limiti e i divieti posti dalla Costituzione.
Io devo domandare se assolviamo veramente a questo compito.
E volevo dire: possono avere gli amici democristiani il mandato di fare una Costituzione, che risponda ai comandamenti di una civiltà cristiana, non cattolica? (Interruzioni).
GUERRIERI FILIPPO. Non ci insegni il nostro dovere; sappiamo benissimo quale è.
PRESIDENTE. Onorevole Ruggiero, lei ha accennato ad un concetto interessantissimo, ma la prego di non insistervi oltre.
RUGGIERO. Tanto per cambiare argomento, quando si leggono gli articoli della Costituzione si riporta la stessa impressione che si ha andando in giro per la città di Roma: tutti gli obelischi e i monumenti che erano dedicati ad un Cesare, ad un Dio pagano, ad un trionfo, sono stati contrassegnati da una croce.
Così, signor Presidente, è avvenuto un po’ per gli articoli della Costituzione. Noi stiamo suggellando nella Costituzione il principio cattolico e non mi pare sia proprio questo che abbia voluto il popolo italiano. Ed ho anche l’impressione che i democristiani, i quali avrebbero dovuto fare con noi la Costituzione del popolo italiano, stiano facendo invece il vade mecum dei chierici. (Commenti).
Quindi questo primo motivo va concluso ed esaurito e si risolve in questi termini: non è possibile che si faccia luogo all’inserimento degli articoli 23 e 24 per il motivo che esiste una incompatibilità, una divergenza insanabile tra i concetti espressi da questi articoli e la natura essenziale di quella che deve essere la Costituzione.
Inoltre, questi due articoli, considerati dal punto di vista giuridico, sono così viziati, così deformi e sbagliati, che non possono trovar luogo nella Costituzione, se vogliamo tener presente la nostra dignità di legislatori o di Soloni, come ci chiamano i giornali umoristici.
Cominciamo a considerare la definizione della famiglia come società naturale. Io non rifarò l’esame che hanno fatto gli altri su tale oggetto, ma pongo una questione pregiudiziale: per quale motivo quando si è trattato di configurare l’istituto della famiglia, si è sentita la necessità di dare la definizione della famiglia? Badate, se questo si fosse fatto per altri principî ed altri istituti, io direi: è diventata una prassi nel progetto di Costituzione e quindi è necessario che vi sia una definizione della famiglia.
MORO. Non è una definizione, è una determinazione di limiti.
RUGGIERO. Qui ci troviamo però di fronte ad una definizione. E perché è stata fatta una definizione, quando in nessun caso questa definizione è stata data per altri istituti e per altri principî? Senonché a questo punto non si può non pensare che forse è una definizione che nasconde qualche fine che non appare troppo chiaro. Nella Costituzione nostra non è stata data neppure la definizione del principio della libertà, a differenza di quello che è stato fatto nella Carta costituzionale francese. Forse non abbiamo dato la definizione di libertà; perché la libertà in Italia può essere considerata anche un fatto opinabile.
Ma, comunque, di nessun istituto o principio è stata data la definizione.
Perché è stata data la definizione dell’istituto della famiglia?
La ragione è questa: si vuole stabilire che la famiglia è una società naturale per poter stabilire un concetto di immanenza attraverso il tempo e la storia e, quindi, arrivare alla conseguenza della inscindibilità della famiglia.
C’è, poi, il contrasto, forte, nella stessa definizione. Fino a questo punto, posso dire che c’è prima di tutto una definizione di cui non mi potrei rendere ragione, e poi una definizione, la quale appare contrastante, quando voi considerate l’articolo tutto insieme:
«La famiglia è una società naturale: la Repubblica ne riconosce i diritti, ecc.»
Ora, io mi domando: come non vedete voi il contrasto forte, inconciliabile, irriducibile che nasce fra queste due entità distinte e diverse, cioè tra una entità naturale che sarebbe la famiglia e la famiglia oggetto di diritto?
Io mi domando: come è possibile che si dica che la famiglia è una società naturale e che la Repubblica ne riconosce i diritti, ecc.; come si fa a qualificare la famiglia «naturale» e poi considerarla oggetto di diritto? Proprio nel momento in cui interviene la Repubblica per darle un riconoscimento di carattere giuridico, allora quella entità perde il suo stato di naturalità, se così si può dire. Quindi emerge un contrasto veramente forte che non si può in nessun modo comporre e che comporta necessariamente l’esclusione di questo articolo per questo secondo motivo: perché la norma mi pare giuridicamente deforme.
Ci troviamo di fronte a due concetti: società naturale ed entità di diritto. Ci troviamo di fronte ad una entità primigenia, originaria, elementare, anteriore ad ogni principio statale, anteriore ad ogni ordinamento giuridico e poi, successivamente, ci troviamo di fronte ad una entità di diritto che si inserisce nella vita giuridica intesa nel suo complesso di norme e di umani rapporti.
Insomma, mi pare che qui ci sia un così grosso errore di carattere giuridico; che, quando si deve passare dalla prima alla seconda parte dell’articolo (e badate che si tratta di poche parole) bisogna lanciare come un arco acrobatico nello spazio, arco che tende a collegare le caverne trogloditiche e il palazzo di giustizia, che tende a collegare le adunanze, dove i barbari esprimevano la loro opinione agitando in un modo o nell’altro le loro lance, e questa Assemblea Costituente.
Non riesco ad intendere come si possa, onorevoli colleghi, conciliare questi due elementi opposti, cioè una famiglia considerata come preistorica e storica, remota e presente, antica e moderna, naturale e giuridica: è un contrasto che non può passare nella Carta costituzionale. (Interruzione dell’onorevole Moro). Vedo che l’ottimo amico onorevole Moro avrebbe il desiderio di chiarire: lo farà dopo. Ma io intendo quello che l’amico Moro vuol dire, cioè quello che ha già detto in sede di Sottocommissione. Egli ebbe a dire che si tratta di due concetti diversi, separati e distinti.
Ma domando al mio ottimo amico Moro, di cui conosco le insigni qualità di giurista: come è possibile che in un solo articolo, cioè nel giro di una breve frase, nell’ambito di quattro parole, come è possibile – amico Moro – porre due concetti così distanti, così lontani, tanto che io ho parlato di arco che deve passare attraverso il tempo e lo spazio?
Badate, un articolo non può essere considerato come qualche cosa che sia passibile di frattura, non può essere composto di due elementi antitetici; un articolo è qualcosa di omogeneo, di coerente, che contiene elementi che convergono tutti verso un determinato punto.
Per questi due motivi, secondo me, questi due articoli non possono trovar luogo nella Costituzione: prima, perché c’è una incompatibilità profonda tra le norme contenute negli articoli 23 e 24, e poi perché quegli articoli contengono in sé dei vizi così gravi che inficiano la necessaria omogeneità che una norma della Costituzione deve contenere in sé.
DOMINEDÒ. Si dimentica così il carattere dichiarativo e non costitutivo del riconoscimento.
RUGGIERO. Ma vi è un terzo motivo. Ad un certo punto, noi ci troviamo di fronte quella norma la quale dice: «Il matrimonio è basato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. La legge ne regola la condizione a fine di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia». Come vedete, noi ci troviamo di fronte a due concetti, che la legge deve prendere in considerazione: l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia. Mi pare che ad un certo punto la nostra attenzione sia stata così profondamente presa dalla prima proposizione, cioè dal primo concetto, che la seconda proposizione, cioè il secondo concetto, che riguarda l’unità della famiglia, sia stato un po’ trascurato. Ora, io mi domando: nella Carta costituzionale questa espressione «unità della famiglia» che portata deve avere, che valore deve avere, quale forza, vincolativa e normativa deve avere? Io dicevo a certi cari amici, questa mattina, conversando di questo articolo: badate, che se noi stiamo al dettato della norma, arriviamo a questa considerazione; che cioè non sono più ammesse le separazioni personali tra coniugi. Ma è mostruoso, ma è illogico, è ridicolo, è pazzesco! hanno detto i miei amici. Ed io con loro ho detto che è ridicola e pazzesca una cosa di questo genere. Però bisogna considerare il contenuto letterale della norma. Come vedete, noi ci troviamo di fronte a due quesiti: uno che stabilisce l’indissolubilità del matrimonio ed uno che stabilisce l’unità della famiglia. Ora io mi domando: se tutti siamo d’accordo nel ritenere che si vuole escludere il divorzio quando parliamo del principio della indissolubilità del matrimonio, perché non dovremmo essere tutti d’accordo nel ritenere che qui si vuole escludere l’istituto della separazione personale quando si parla dell’unità del matrimonio? Badate che questa mia preoccupazione, che può sembrare campata in aria a chi non ha avuto il tempo e la possibilità di seguire i lavori della Commissione, era apparsa, e in maniera evidente, nei lavori della Sottocommissione. Tanto è vero che l’onorevole Mastrojanni osservava ad un certo punto: «L’unità della famiglia, d’altra parte, la legge non potrebbe ottenerla se non attraverso una coazione fisica, vale a dire costringendo i coniugi alla convivenza e alla coabitazione anche quando esista una manifesta incompatibilità di carattere». Quindi, come vedete, questa preoccupazione emerse anche durante i lavori della Commissione e non è stata dissipata. L’onorevole Moro rispondeva all’onorevole Mastrojanni che era d’avviso contrario al suo facendogli rilevare che l’ipotesi della separazione dei coniugi, che la legge consente, è un caso limitato che non incide sulla disciplina normale che la legge si deve proporre allo scopo di garantire l’unità della famiglia.
L’onorevole Mastrojanni ebbe a dichiarare che le spiegazioni dell’onorevole Moro non lo avevano persuaso, né avevano distrutto le sue argomentazioni, ribadendo che la legge potrà regolare i rapporti familiari, ma non potrà garantire l’unità della famiglia, se non giungendo all’assurdo di una coercizione sui coniugi che non è ammissibile.
Rispondeva l’onorevole Moro che non credeva che per i casi di separazione, che rappresentano una percentuale all’incirca dell’uno per cento, si debba sottrarre alla legge il potere di regolare la vita familiare allo scopo di garantire l’unità di indirizzo.
Mi pare, onorevole Moro, se io non ho le traveggole e se qui non è scritta cosa diversa da quello che era il suo pensiero, che ci sia fortemente da impensierirsi per questa preoccupazione, cioè che non sia proprio il caso di ritenere che qui si voglia proprio escludere la possibilità di una separazione personale.
Tanto è vero che ad un certo punto, poiché l’onorevole Mastrojanni riproponeva la stessa questione e domandava se il principio dell’indissolubilità del matrimonio comprendeva l’istituto della separazione legale per i casi di incompatibilità e per altre ragioni, l’onorevole Dossetti rispondeva che l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia non vietano che si possa giungere, in determinati casi, alla separazione legale dei coniugi.
A me basterebbe questa dichiarazione: «in determinati casi»; mi pare però che sarebbe stato opportuno, logico ed ovvio che si fosse detto «nei casi previsti dalla legge». Invece questi casi che dovranno essere determinati potranno essere una limitazione rispetto al complesso delle norme vigenti. Comunque, io posso anche rinunciare ad ammettere che si voglia escludere la separazione personale, posso rinunciare a questa mia interpretazione, che forse è troppo recisa e personale, e vi domanderò se voi, nella vostra coscienza di giuristi, non vedete che possa sorgere il dubbio che si voglia escludere l’istituto della separazione personale. Noi nella Carta costituzionale, che impegna tutta la vita futura della nazione, dobbiamo sentire il dovere di essere molto chiari, perché si tratta di formulare dichiarazioni che hanno un valore permanente. Dalla lettura di questo articolo risulta che vi è una deficienza grave, la quale potrebbe incrinare quello che è il principio fondamentale del nostro diritto generale, cioè l’istituto della separazione; e vi esorto perciò a dare alla dizione dell’articolo una chiarezza maggiore di quella che non abbia.
Queste sono le obiezioni che intendevo far presenti e i motivi per cui intendo che questi articoli non possono essere inseriti nella Costituzione: l’incompatibilità è il primo motivo, la difformità giuridica è il secondo motivo e poi – terzo motivo – la proposizione relativa all’unità della famiglia che porterebbe uno sconvolgimento profondo dell’istituto familiare. Proposizione che, se realmente portasse all’esclusione dell’istituto della separazione personale, vedrebbe serrati in uno stesso destino insuperabile e infrangibile e vedrebbe inchiodate ad una stessa croce due persone, cioè i coniugi.
Questo non mi pare possa essere consentito, perché, badate, noi verremmo a distruggere l’ordinamento giuridico italiano che ha già avuto la sua consacrazione attraverso la tradizione e l’esperienza del diritto nostro.
Per questi tre motivi mi auguro che i due articoli di cui ho parlato non trovino accoglimento nella Carta costituzionale.
Io dovrei esortare i partiti a seguirmi su questo terreno. Non lo potrei fare, signor Presidente, perché io sono qui il più modesto, l’ultimo venuto e la mia voce è la più piccola di tutte: non credo quindi di poter avere la facoltà di esortare i partiti. Però, quando si pensa alla inclusione del principio dell’indissolubilità del matrimonio… non posso non pensare ai liberali, perché i liberali non possono permettere in alcun modo che venga recisa per sempre un’ideologia che potrebbe maturare nella coscienza popolare. L’onorevole Corbino, la sera in cui si ebbe a votare l’articolo 7, disse che i liberali erano conservatori. Io non devo fare appunti all’onorevole Corbino, che è uomo di così chiara scienza, ma non posso non pensare che quando un liberale dice che il liberalismo è conservatore, nega l’essenza stessa del liberalismo. Il liberalismo è una specie di coscienza critica della storia, è un principio eternamente rinnovatore, è una specie di impulso che rifà tutto quello che precedentemente esisteva per foggiarlo e riplasmarlo in altra forma; è una specie di demonio distruggitore di se stesso. Se dunque i liberali sono aderenti a questo principio così come lo conosco io, attraverso i miei modesti studi, non dovrebbero mai arrivare a questa soluzione: di impedire che una ideologia non possa in nessun modo maturarsi; il che significherebbe cristallizzare un principio in una posizione di inamovibilità, il che no a può essere consentito a nessuno, e tanto meno ai liberali.
Io penso che noi siamo un po’ preoccupati, quando facciamo questa Carta costituzionale, di non urtare troppo fortemente la coscienza popolare. Ci siamo messi in testa – o forse è una mia idea personale – che il popolo italiano sia qualche cosa che resti alieno da ogni forma di rinnovamento, che sia estraneo ad ogni evoluzione, che sia un popolo inchiodato in una certa posizione di staticità spirituale e di inamovibilità storica; e quindi ci mettiamo a fare una Carta costituzionale che forse non risponde a quelle che sono le vere esigenze del popolo italiano.
Vi dirò una cosa sola: io so quello che voi stessi mi insegnate, che cioè la guerra porta sempre con sé una specie di spirito di rinnovamento intimo nelle coscienze popolari, una specie di ansia, di anelito verso nuovi orizzonti. E di questo noi non teniamo conto. A me sembra che il popolo italiano abbia una grande aspirazione verso una strada nuova. Noi non teniamo conto di questo e facciamo una Costituzione che può essere definita una Costituzione assolutamente conservatrice. Io penso che il popolo italiano – e credo lo pensino tutti – è adesso una specie di forza che dorme; però ho anche la convinzione che esso sta tentando in tutti i modi di esplodere; e non solo, vedete, perché non ha di che vivere, ma perché vuole trovare questa grande strada nuova dove incontrarsi con la sua verità spirituale. Ho l’impressione che noi ci mettiamo a fare una politica, industre, sottile e sagace di arabeschi, di ricamucci e di geroglifici, mentre dovremmo dire al popolo italiano, attraverso la politica, e attraverso la Costituzione, una parola di chiarezza e di verità. Noi stiamo forse ricamando su un vulcano. Il popolo nostro ha bisogno di vedere e di sapere, per esempio, se l’economia che si segue è un’economia conservatrice e ideologica nello stesso tempo, se lo Stato può essere confessionale e laico, se la Repubblica può essere a volte repubblicana ed a volte monarchica.
PRESIDENTE. Onorevole Ruggiero, lei entra in tema di discussione generale del preambolo.
RUGGIERO. Ora, concludendo quanto nasceva spontaneamente sulla mia bocca e chiedendo scusa all’onorevole Presidente se sono andato fuori dei limiti, dirò che io penso che, come costituenti, come cittadini, come uomini, noi abbiamo il dovere di dire al nostro popolo questa parola di chiarezza e di verità. (Applausi).
PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domattina alle 10. Avverto che domani vi sarà seduta anche nel pomeriggio alle 16.
La seduta termina alle 19.50.
Ordine del giorno per le sedute di domani.
Alle ore 10:
- – Interrogazioni.
- – Discussione del disegno di legge:
Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale (12).
- – Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Alle ore 16:
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.