Come nasce la Costituzione

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SABATO 22 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XLIV.

SEDUTA DI SABATO 22 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Interrogazione (Svolgimento):

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro                                                     

Rescigno                                                                                                           

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Martino Enrico                                                                                               

Corbino                                                                                                            

Mancini                                                                                                            

Perassi                                                                                                              

Scoca                                                                                                                

De Mercurio                                                                                                    

Interpellanza con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste                                                     

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli D’Amico, Diego e Sardiello.

(Sono concessi).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Persico, Caporali e Piemonte hanno comunicato di essersi iscritti al gruppo parlamentare del Partito socialista lavoratori italiani.

A far parte della Commissione per la Costituzione, in sostituzione degli onorevoli Merlin Umberto e Togni, nominati Sottosegretari di Stato, sono stati chiamati rispettivamente gli onorevoli Micheli e Caronia.

Svolgimento di una interrogazione.

PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato per il Tesoro ha dichiarato di essere pronto a rispondere alla seguente interrogazione presentata ieri con carattere d’urgenza dall’onorevole Rescigno, ai Ministri dell’istruzione pubblica e delle finanze e tesoro, «per sapere quale provvedimento intendano subito adottare di fronte alle giuste richieste dei professori secondari, accompagnate dall’annuncio di sciopero per lunedì prossimo, come da pubblicazione di qualche giornale odierno». L’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro ha facoltà di rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Il Ministro delle finanze e tesoro assicura l’onorevole interrogante che, d’accordo con i rappresentanti sindacali della categoria interessata, è stato già predisposto il pagamento di acconti dell’indennità di presenza, in attesa della definizione di alcuni particolari aspetti della questione di merito sui quali continuano, in piena normalità, i rapporti fra il Ministero e le rappresentanze suddette.

PRESIDENTE. L’onorevole Rescigno ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

RESCIGNO. Io non posso dichiararmi pienamente sodisfatto. Si tratta di una soddisfazione subordinata ad una condizione direi sospensiva, perché le richieste giustissime della categoria dei professori secondari si riferiscono a due loro esigenze: innanzi tutto il sollecito bando ed espletamento dei concorsi e, poi, la indennità di presenza.

Si è in quest’aula parlato da vari oratori del problema scolastico. Il Ministro ha, in una conferenza stampa di ieri, parlato di franamento della Scuola media. Ebbene, bisogna convincersi che il problema non consiste tanto nel ristabilire la dignità e la serietà della scuola e degli istituti, attraverso un maggiore o minore rigore della disciplina o degli esami, ma consiste soprattutto in una maggiore dignità da dare alla classe degli insegnanti, e questa maggiore dignità si dà con una maggiore elevazione morale ed economica dei medesimi.

Vi sono migliaia di cattedre vacanti, vi sono decine di migliaia di professori che attendono di entrare in ruolo. Tutte le amministrazioni dello Stato, dopo la liberazione, hanno rinsanguato i loro quadri; solo per la scuola non si è ancora sentita questa necessità.

Il Ministro ha detto nella conferenza stampa: «Fra non molto».

Questa è una espressione che si sta adoperando da vari mesi, e, intanto, il bando dei concorsi non viene mai. Tutti i dipendenti dello Stato stanno percependo dal giugno 1946 la indennità di presenza; solamente per i professori si sta ancora studiando se le vacanze siano o non siano vacanze.

Questa è la questione grandissima, ponderosa, che sta allo studio dei Ministri e dei Sottosegretari: stabilire se ai poveri professori questa indennità debba spettare per il periodo delle vacanze, come se delle vacanze fossero essi responsabili e come se nelle vacanze non avessero bisogno di mangiare. Qui è questione di consapevolezza della funzione educatrice, della funzione scolastica dello Stato. Fino a che parleremo di missione nobilissima degli insegnanti per sola retorica, non si farà mai nulla; bisogna convincersi che al pari della difesa nazionale, al pari della giustizia, la funzione scolastica è funzione essenziale e vitale dello Stato.

Si parla in ogni momento di ricostruzione: la ricostruzione comincia dagli spiriti e dalle coscienze, e la ricostruzione degli spiriti e delle coscienze la fa la scuola. (Applausi al centro).

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Debbo osservare all’onorevole interrogante che, per la forma generica con cui era stata rivolta la interrogazione, non era possibile individuare con precisione il contenuto della medesima, perché si domandava se i Ministri della pubblica istruzione e delle finanze e tesoro non intendessero di adottare subito provvedimenti in relazione alle giuste richieste dei professori secondari.

Data la espressione generica, che non individuava questa o quella richiesta e non essendo facile – direi – «dare fondo a tutto l’universo» per quanto riguarda il problema dell’istruzione secondaria e del personale che ad essa è addetto, il Ministro del tesoro non ha potuto individuare, fra i vari problemi e le varie questioni che possono interessare il personale delle scuole secondarie, se non quello di maggiore attualità e per la risoluzione del quale erano avvenuti anche di recente scambi di idee tra me, in rappresentanza del Ministero delle finanze e tesoro, e la rappresentanza della categoria sindacale.

Ora, questi scambi di vedute avevano assunto un carattere di urgenza precisamente in ordine all’indennità di presenza, non alla questione dei concorsi. Quindi, se vi fosse stata una specificazione adeguata nelle interrogazioni, io avrei potuto dare anche su questo punto la risposta all’onorevole interrogante, salvo a lui di ritenerla più o meno sodisfacente.

Non è da escludersi che egli possa, con una ulteriore interrogazione, chiedere chiarimenti in ordine alla questione dei concorsi, e anche su questo gli sarò preciso.

Per quanto riguarda l’indennità di presenza bisogna tenere in particolare considerazione il fatto che la rappresentanza sindacale della categoria interessata era pienamente d’accordo col Ministero perché per ora si dessero degli acconti, e noi questi acconti abbiamo già disposti.

Nel merito devo dire che se vi è stato un indugio a risolvere la questione, non è dipeso dal Ministero del tesoro, ma dal testo della disposizione legislativa e dall’opportunità sentita dalla stessa categoria sindacale di avere numerosi e successivi scambi di idee con l’inoltro frequente di varie proposte, per poter far sì che fosse emanato il provvedimento particolare che doveva disciplinare la corresponsione della indennità di presenza alle categorie degli insegnanti di ogni ordine e grado, tranne quella degli insegnanti elementari, per i quali provvedeva direttamente il decreto legislativo presidenziale n. 19.

Bisogna al riguardo ricordare che questo stesso decreto, all’articolo 8, dichiarava che con separato provvedimento sarebbe stata regolata la corresponsione della indennità a tre categorie di personale, cioè ai magistrati, agli insegnanti di qualunque ordine e grado, tranne quelli elementari per cui provvede direttamente lo stesso articolo 8, e al personale assistente delle carceri e dei riformatori.

Recentemente un decreto legislativo ha regolato la corresponsione delle indennità di presenza ai magistrati.

Più difficile era la situazione degli insegnanti, perché l’Assemblea ricorderà certamente il contenuto, lo spirito informatore, e le espressioni di questo decreto legislativo, il quale ha mutuato dal rapporto d’impiego privato, e direi più precisamente salariale, un istituto che è stato introdotto nella disciplina dei rapporti d’impiego pubblico, l’indennità di presenza, così come l’istituto dell’indennità per lavoro straordinario.

Erano due indennità che nel rapporto d’impiego pubblico non avevano avuto cittadinanza fino al giugno dello scorso anno; erano indennità, invece, ben note agli impiegati e salariati dell’impiego privato.

Ora, lo scorso anno per la prima volta furono introdotte nella legislazione positiva italiana queste due indennità, di presenza e per lavoro straordinario.

L’indennità di presenza però fu atteggiata con questa configurazione e poggiata su questo espresso principio, che fosse cioè un compenso particolare da attribuire a quei dipendenti i quali, attraverso un maggiore zelo e un maggiore rendimento, avessero dato prova colla loro presenza in servizio di interessarsi effettivamente delle esigenze dello Stato e del loro impiego.

Fissato questo principio informatore e basilare del decreto legislativo, si disse che l’indennità di presenza andava corrisposta sempre e soltanto in relazione ai giorni di effettiva prestazione di servizio (prego fare attenzione su questa particolare espressione, che è testuale, della legge: «in relazione alla effettiva prestazione di servizio»).

E l’articolo 8 soggiunge: con esclusione di quelle giornate, in cui, per qualsiasi motivo, anche giustificato – richiamo anche qui l’attenzione dell’Assemblea – «non vi sia la prestazione di servizio».

In altri termini, il legislatore ha voluto che questa indennità non fosse una integrazione dello stipendio, ma, invece, un compenso, un premio – è chiamato anche premio di presenza – per coloro che, nei giorni in cui prestano effettivo servizio, dimostrino col loro zelo e col loro rendimento di preoccuparsi effettivamente delle esigenze della pubblica Amministrazione.

Dato questo principio legislativamente sancito ed assolutamente inequivoco, ci si è trovati di fronte a qualche difficoltà, per la particolare situazione della carriera dei maestri; i quali, a differenza degli altri dipendenti statali, non prestano servizio tutti i giorni dell’anno (sia pure esclusi i giorni di vacanza domenicali e gli altri giorni riconosciuti dallo Stato); ma non lo prestano neppure nelle vacanze cosiddette pasquali e natalizie, durante i quali periodi le scuole sono chiuse; non prestano servizio durante il periodo estivo che va dalla chiusura della sessione di esami all’inizio del periodo autunnale.

Ora, in relazione al principio basilare della legge, all’espressione letterale, che era in piena corrispondenza con questo principio informatore, ci siamo trovati di fronte a questa difficoltà, che non era superabile se non con un nuovo provvedimento legislativo, il quale avrebbe dovuto necessariamente infirmare il principio informatore del precedente decreto legislativo; cioè dare questa indennità di presenza, anche quando non si presta servizio, anche quando non si può dimostrare quello zelo, sovrattutto quel rendimento, che si può dimostrare soltanto attraverso l’effettiva prestazione.

Bisognava allora immettere nella nostra legislazione quest’altro principio legislativo, in pieno contrasto col precedente: che l’indennità di presenza non è indennità di zelo e di rendimento, ma una forma integrativa dello stipendio.

Ora l’Assemblea legislativa può anche disporre questo; il legislatore può anche modificare la legislazione attuale; ma non si può dire certamente che il Ministero del tesoro, (il quale è chiamato ad applicare, non a violare la legge, tenendo presente naturalmente anche la situazione del bilancio e tutelandola in corrispondenza all’adempimento ed alla applicazione delle norme di legge) abbia dimostrato una ingiustificata contrarietà alle aspirazioni della categoria magistrale.

Peraltro, premesso tutto ciò a chiarimento della situazione e per rispondere alle recriminazioni ed alle censure, un po’ generiche, ma calorosamente espresse dal collega e amico Rescigno, devo soggiungere che il Ministero del tesoro, appunto per venire incontro alle particolari esigenze della categoria magistrale, sta studiando con piena cordialità di rapporti – ed i rapporti vanno tra me personalmente ed il rappresentante della categoria sindacale, professore D’Abbiero – la possibilità di contenere nell’osservanza dello spirito della legge quelle riforme e quegli adattamenti che sono di gradimento della categoria magistrale.

Con ciò credo di avere, questa volta almeno, sodisfatto le apprensioni e le preoccupazioni del collega e amico Rescigno.

RESCIGNO. Ringrazio.

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

È iscritto a parlare l’onorevole Martino Enrico. Ne ha facoltà.

MARTINO ENRICO. Onorevoli colleghi, cercherò di attenermi strettamente a quelle che sono state le comunicazioni del Capo del Governo, facendo qualche piccola incursione su affermazioni fatte in questa Camera da altri colleghi di vari settori.

Il Presidente del Consiglio ha dichiarato di aver provocato l’improvvisa crisi per cercare il massimo di collaboratori e di consensi e per aumentare la efficienza del Governo, vincolando i Ministri ad una maggiore solidarietà, ad una solidarietà più evidente. Al primo compito ha manifestamente fallito. Due partiti, il repubblicano e quello socialista dei lavoratori italiani, non fanno più parte del Governo. Ha raggiunto il secondo scopo, che era il più profondo e il più desiderato da tutti?

È appunto per la mancata efficienza governativa e per la mancata collaborazione fra i partiti al Governo che il Partito repubblicano, fin dal tempo della piccola, chiamiamola così, «crisi Corbino», aveva compilato la lettera consegnata dal Segretario del partito al Presidente del Consiglio; poiché nulla si era innovato nello spirito della compagine governativa, successivamente, nel dicembre scorso, è stato indirizzato ai Ministri un documento redatto dal Comitato centrale del partito. È la mancanza di questa concordia e di questa solidarietà dei partiti che ha messo in disagio profondamente il nostro partito, ma, prima ancora del nostro partito, il Paese. Perché il Paese non si sa render conto come mai partiti che sono nello stesso Governo, che formano una coalizione nel Governo, lottino poi tra di loro al di fuori del Governo e, qualche volta, contro il Governo. Per cui noi abbiamo sentito in quest’aula l’onorevole Giannini confessare forse l’unica verità del suo partito, cioè che la fortuna del partito dell’Uomo Qualunque è la mancanza di concordia dei partiti al Governo. Si è ora raggiunta questa concordia? Abbiamo qualche dubbio in proposito, e per le dichiarazioni del Presidente del Consiglio e, soprattutto, per i discorsi dell’onorevole Togliatti e dell’onorevole Nenni. Si ha l’impressione che il programma – e questo non è una sola impressione – sia stato redatto quando il Governo era stato già formato, e si ha anche l’impressione che il programma sia stato compilato dal Presidente del Consiglio, non sorto da una reale concordia dei tre partiti.

L’onorevole Togliatti e l’onorevole Nenni dicono: «Se il Presidente del Consiglio farà questo, se il Presidente del Consiglio farà quest’altro, noi daremo tutto il nostro appoggio»; lasciando intendere chiaramente che se non sarà fatto si tornerà al sistema precedente della lotta contro il Governo. Questo metodo non possiamo accettarlo, perché riteniamo che non sia metodo democratico.

Dobbiamo insegnare al Paese che cosa vuol dire democrazia, dobbiamo sapere quali sono i banchi, quali i luoghi dove si deve fare l’opposizione al Governo e chi può e deve fare questa opposizione. È per questo che noi abbiamo preso posizione al di fuori del Governo. Non possiamo ammettere che i partiti che sono al Governo rivolgano la loro azione contro l’autorità e il prestigio del Governo, e mi duole dovermi rivolgere a qualche partito di sinistra il quale, non dico che provochi, ma tollera o meglio non stigmatizza certi atti che sono contro il prestigio e l’autorità del Governo.

Accenno fra l’altro alla occupazione delle terre. Siamo favorevolissimi a dare terre ai contadini, ma quando c’è una legge e vi sono delle Commissioni che consentono questa immissione dei contadini nelle terre, non vediamo perché si debba sollecitare un movimento quando i partiti di sinistra, che sono al Governo, hanno tutto il diritto di esigere che queste terre siano date legalmente ai contadini.

Mi sono trovato personalmente, ad esempio, in una situazione di disagio quando al Ministero della guerra stavamo assegnando terreni demaniali a cooperative di contadini e accadde che, quando si erano già preparate le ripartizioni, parte della tenuta di Monte Maggiore venne occupata.

Appartenendo allora al Governo, ed avendo tutto il desiderio di accontentare questa gente, trovandoci anche in procinto di accontentarla, voi capite quale prestigio ne hanno tratto, non dico le nostre persone o il Ministero della guerra, ma lo stesso Governo, tanto più se si pensa che non erano terre di privati, ma demaniali. Queste terre potevano essere assegnate dal Ministero della guerra che aveva allora un Ministro repubblicano e dal Ministero delle finanze dove c’era un Ministro comunista. Non esagero questo fatto, non esagero nessuno di questi fatti, ma desidero invitare soltanto ad un maggior rigore in queste procedure, proprio per dar forza e autorità al Governo ed alle leggi.

D’altra parte non possiamo e non potevamo accettare la lotta tra i partiti che sono al Governo. A questo riguardo non voglio indagare se la responsabilità è di un partito o di un altro partito. È indubbio che la Democrazia cristiana dimostra talvolta una mentalità decisamente e pregiudizialmente anticomunista e da altre parti si dimostra talvolta di avere una mentalità forse elettoralistica. Comunque, non è uno spettacolo degno per la democrazia. Crediamo che il difetto vero di tutto questo – mi pare che sia stato già accennato del resto a questo argomento anche dagli onorevoli Scoccimarro e Togliatti – è che tutto si fa nel Governo, che tutto si fa nel Paese, ma non si fa viceversa in questa Assemblea.

Se voi tutti aveste accettato, come noi avevamo proposto, che l’Assemblea Costituente fosse veramente l’Assemblea sovrana, tale che avesse il diritto di legiferare completamente, allora queste leggi, che l’onorevole Togliatti lamenta che non sono fatte o applicate, attribuendone magari la colpa alla Democrazia cristiana, queste leggi sarebbero state discusse qui dentro, ogni partito si sarebbe assunto la propria responsabilità e non assisteremmo allo spettacolo di vedere un Ministro che accusa un altro Ministro, perché una determinata legge non è stata fatta, o perché una determinata legge non si applica. Qui, in questa aula, dove si deve avere il diritto e il dovere di discutere, si vedrebbe chi veramente è contrario o non è contrario ad una determinata legge.

E proseguo, venendo specificamente al programma esposto dell’onorevole De Gasperi, programma piuttosto generico.

Due punti soltanto sono stati accolti fra quelli che erano contenuti nel nostro documento del dicembre scorso: unificazione dei Ministeri militari, unificazione del Ministero del tesoro con quello delle finanze. Dico subito che noi siamo stati sempre favorevoli all’unificazione dei Ministeri militari e mi meraviglia come siano state fatte delle riserve a questo proposito. È evidente che, quando le forze militari siano ridotte, come sono ridotte, sia pure, purtroppo, per l’ingiusto Trattato, sarebbe assurdo mantenere una così vasta amministrazione rappresentata da tre Dicasteri.

Ma vi sono ragioni di condotta militare, di condotta bellica; ormai, nella guerra moderna – e ne abbiamo avuto dimostrazione in quest’ultima guerra – un’arma non agisce più indipendentemente dall’altra; ci vuole armonia, unità. Lo abbiamo visto specialmente nella ritirata di Dunkerque, lo abbiamo visto negli sbarchi in Francia e in tutte le battaglie combattute in terreno francese prima e in terreno tedesco dopo, tanto che tutte le nazioni, le grandi nazioni – che, nonostante tutto, manterranno grossi eserciti – vanno ormai avviandosi ad un unico Ministero della difesa.

Ma, poi, vi sono ragioni di organizzazione, di unificazione di servizi che si devono realizzare quando si è in pace, quando non c’è neppure il pericolo della guerra. Non deve più avvenire quello che è avvenuto nell’aprile del 1942 in Tripolitania, dove c’era una quantità enorme di coperte che andavano all’aeronautica mentre mancava anche il minimo di coperte per i nostri fanti. Non deve più avvenire quello che è avvenuto nel 1941 nell’isola di Creta, in cui, sulla stessa costa, c’erano due militari a fare la vigilanza e questi erano trattati diversamente, economicamente e moralmente, soltanto perché uno dipendeva dall’Amministrazione dell’esercito e l’altro dall’Amministrazione della marina. Senza dirvi quelle che sono state le sperequazioni e lo sperpero anche di carburanti, di automezzi; reparti che ne avevano di più, altri di meno, unicamente e sempre perché dipendevano da Amministrazioni diverse.

Poi, ci sono ragioni di economia. È evidente che potrà avvenire gradualmente una contrazione di tanti servizi ed uffici, e quindi graduale eliminazione di personale e di spese. Mi pare che sia indubbio che dobbiamo fare di tutto per economizzare sulle spese militari che, in questo momento, sono ancora enormi.

E infine ci sono ragioni politiche, di patriottismo. Tutte le nostre forze armate devono avere un’unica anima e che avessero anime diverse prima voi lo capite benissimo dal come si sono diversamente comportate in momenti gravi per il nostro Paese. Quindi, ci vuole una unica anima e, soprattutto, che sia l’anima nuova, l’anima democratica, l’anima repubblicana. Non è un mistero per nessuno che oggi alla Marina si ragiona unicamente in funzione monarchica e, quello che è peggio, all’Aeronautica si ragiona ancora in funzione fascista.

Plaudiamo quindi a questa unificazione che non è prematura, perché siamo in fase di ricostituzione delle Forze armate e quindi è proprio questo il momento in cui bisogna studiare i problemi in modo unitario. E non è prematura perché, se non si fosse cominciato col nominare un unico Ministro della difesa che si proponesse questi compiti, state pur tranquilli che all’unificazione non si sarebbe mai più arrivati, perché specialmente la Marina e l’Aeronautica – non è un mistero per nessuno – non ne vogliono sapere.

Il nuovo Ministro della difesa ha quindi un compito difficile che deve però condurre assolutamente a fondo. Il suo compito, specialmente per quanto riguarda l’esercito, è duplice: selezionare i quadri ed inserire le forze partigiane nell’esercito.

Mi dispiace di non vedere l’onorevole Condorelli, il quale ieri sera ha detto una serie di inesattezze; ha parlato di epurazione, di discriminazione, di sfollamento di quadri come se fossero affidati a delle commissioni, di politici che vi porterebbero uno spirito di parte e fazioso. Evidentemente l’onorevole Condorelli non è informato. Dico subito che l’epurazione, la discriminazione e lo sfollamento non sono stati voluti dai politici e dai civili, ma soprattutto ed anzitutto da quegli ufficiali che si sono ben comportati in questo ultimo triste passato.

BENEDETTINI. Non è vero!

MARTINO ENRICO. Questi ufficiali non vogliono aver niente a che vedere con quelli che si sono compromessi con la repubblica di Salò e con quelli che hanno perduto la dignità e l’onore e tentavano di farli perdere anche all’esercito. (Applausi a sinistra).

Diceva l’onorevole Condorelli, con voce pietosa, che i nostri reduci che tornano dalla Germania, dopo aver tanto patito, sono sottoposti a queste commissioni che farebbero strazio del loro onore. Dico innanzi tutto che per quel che riguarda la truppa non è stato mai fatto nulla; gli ufficiali invece sono stati tutti esaminati da generali e colonnelli dell’esercito, ma da nessun politico. Anche fra gli ufficiali che sono stati in Germania bisogna fare una distinzione; vi sono quelli che si sono comportati dignitosamente, fieramente e, per non aver voluto aderire né al fascismo né al nazismo, hanno sopportato una vita impossibile; mentre altri, purtroppo, per tornare alle loro case, hanno aderito alla repubblica sociale ed al nazismo e quando sono tornati non hanno ripreso le armi, ma si sono rifugiati nelle loro abitazioni o nei nascondigli. Questi ultimi non potevamo vederli nell’esercito, soprattutto per rispetto di coloro che si sono comportati bene; è giusto fare una differenza fra chi ha avuto dignità e onore e chi questa dignità e questo onore ha dimenticato, anche se in un momento triste.

Per quel che riguarda l’epurazione e la discriminazione, dico che viene fatta da commissioni di generali che rispondono ai nomi di Ago, Amantea, valorosissimi nell’altra guerra e che hanno un grande senso di dignità e di onore.

BENEDETTINI. Prendiamo atto.

MARTINO ENRICO. Poi è venuta la legge sullo sfollamento che risale al maggio del 1946.

Questa legge non è stata fatta da noi repubblicani, ma è stata fatta da un Governo in cui c’erano Ministri liberali, dello stesso partito, quindi, dell’onorevole Condorelli. Che cosa dice questa legge? Dice che è necessario operare uno sfollamento e ne dà facoltà al Ministro o al Consiglio dei Ministri, a seconda dei casi, disponendo che vengano allontanati dall’esercito, prima di tutto, quelli che si sono compromessi dopo l’8 settembre, poi coloro che hanno dimostrato di essere meno idonei, dato che tutti siamo oggi d’accordo nel ritenere che dobbiamo ridurre l’esercito e che non possiamo tenere alla testa di esso troppi generali, quando le truppe sono poche. Questa legge prevedeva quella tale commissione che dà tanto fastidio all’onorevole Condorelli; e la prevedeva soltanto per i generali d’armata e di Corpo d’armata. Ma questa Commissione è stata nominata per rendere severo lo sfollamento per favorire i generali? La legge ha voluto dare una garanzia a tutti i generali, così a quelli che resteranno, come a quelli che andranno via; ha voluto assicurarli che nessuno avrebbe potuto agire faziosamente. Per i generali di divisione, di brigata e per i colonnelli, la legge non prevedeva che i loro casi venissero deferiti a quella Commissione e lasciava al Ministro la facoltà dello sfollamento. Ma il Ministro Facchinetti, con quel senso di equilibrio che lo distingue, ha desiderato che questa Commissione prendesse in esame anche le situazioni dei generali di divisione, di brigata e dei colonnelli; proprio per dare a tutti la tranquillità che il lavoro sarebbe stato svolto con onestà e con serietà.

L’onorevole Condorelli afferma che questa Commissione è fuori posto; qui, signori miei, siamo in fase di autodepressione: autodepressione della Costituente e ora anche dei Ministri e dei Sottosegretari. Questa Commissione è costituita da tre generali e da tutti gli ex Ministri e gli ex Sottosegretari della guerra. Di questi Ministri, due li ha dati il Partito liberale; uno, l’ex Ministro Casati, non ha accettato; l’altro è l’ex Ministro Brosio, un altro è l’ex Ministro Jacini. Ora, questi uomini che sono stati alla testa del Ministero e che, quindi, hanno avuto ben altre responsabilità e facoltà, è mai possibile che non possano dare affidamento per esaminare, insieme con altre persone, i casi dei generali? E stia tranquillo l’onorevole Benedettini che nessun generale è stato mandato via sol perché monarchico. Capo di Stato Maggiore è stato nominato il generale Marras, perché ritenuto leale verso la Repubblica, pur essendo stato monarchico e per molti anni addetto a Berlino. E veniamo al problema dei partigiani. L’onorevole Togliatti si è doluto che non siano stati inseriti nell’esercito i capi partigiani. Desidero fare una dichiarazione preliminare; quando a capo del Dicastero c’era un mutilato invalido di guerra, come il Ministro Facchinetti, e quando il Sottosegretario era, modestissimamente, un uomo della resistenza, sia l’esercito che i partigiani potevano stare tranquilli che, nei limiti del possibile, sarebbe stato fatto tutto quanto era nelle loro facoltà.

L’onorevole Togliatti lamenta che non sono stati inseriti nell’esercito i partigiani. Mi permetto ricordare che quando siamo andati al Dicastero della guerra le leggi per i partigiani giacevano ancora sotto la polvere. Queste leggi, che risalivano, salvo errore, nei loro progetti, al tempo della presidenza Parri, erano state dimenticate, e fui io a meravigliarmi che i partiti di sinistra, che erano al Governo fin da allora, non avessero sollecitato la loro emanazione. Ancor prima dei movimenti di Asti io avevo fatto tutto il possibile, d’accordo col Ministro, per mandare avanti queste leggi, le quali sono state finalmente approvate; e se ancora non si sono inseriti i partigiani nell’esercito, è sol perché la Commissione centrale presso la Presidenza del Consiglio, presieduta dall’onorevole Longo, non ha mandato proposte. Solo da un mese e mezzo sono venute le prime tre o quattro proposte. Ora vi è una lista un poco più lunga, e mi risulta che il Ministro Gasparotto ha già firmato alcune promozioni. Questo per quel che riguarda gli ufficiali che sono stati partigiani. A quanto mi risulta a tutt’oggi da parte dei partigiani che non sono stati ufficiali e che pure hanno la possibilità di entrare nell’esercito, con i debiti esami, non è ancora pervenuta al Ministero una sola domanda. Ad ogni modo stia tranquillo l’onorevole Togliatti che per quanto è stato nel Ministro Facchinetti e in me abbiamo fatto tutto il possibile perché i partigiani venissero immessi nell’esercito.

TOGLIATTI. Onorevole Martino, la questione è che persino gli ufficiali monarchici, che furono partigiani, sono allontanati e considerati con diffidenza. Questa è la realtà.

RUSSO PEREZ. È il solito doppio giuoco.

MARTINO ENRICO. In un’intervista che concessi dopo che l’onorevole Togliatti ebbe pronunziato il suo discorso di Firenze, chiesi che mi si facessero dei casi specifici. Non me ne sono stati segnalati. Potrò tuttavia dire a lei in confidenza quando e dove abbiamo usato ufficiali partigiani, e in incarichi anche delicati. Ad ogni modo quello che tengo a dichiarare, specialmente dopo tante cose che sono state dette in quest’aula, è che noi non possiamo ammettere da nessuna parte, soprattutto dalla destra, che si ponga in dubbio quello che è il nostro spirito, lo spirito del nostro Partito, per quel che riguarda l’esercito. Il nostro Partito ha una troppo lunga tradizione di patriottismo e di interventismo nelle guerre di liberazione, perché si possa mettere in dubbio che uno solo del nostro Partito non riconosca quelle che sono state le glorie dell’esercito. E noi dobbiamo però riconoscere e dobbiamo in questo momento soprattutto esaltare quello che è stato il nuovo esercito. Qui vi è stata l’impressione che da una parte si tenda a deprimere l’esercito e dall’altra i partigiani. Ebbene, questo è un errore, perché tali forze sono le sole che ci consentono di rialzare il capo. Ricordiamo che noi possiamo fare questo discorso agli alleati: questa guerra per la libertà e per la democrazia dell’Europa contro la tirannide voi l’avete incominciata nel 1939, ma noi, con la resistenza, l’abbiamo incominciata il 28 ottobre 1922.

Dobbiamo ricordare che quando i nostri uomini antifascisti all’interno e all’estero dicevano agli altri: «Guardate, che nel Paese noi abbiamo un dittatore, che ci ha portati alla tirannide e ci porterà alla guerra», ci rispondevano che avevamo il Governo che ci meritavamo. Dobbiamo ricordare agli alleati che quando sono sbarcati in Sicilia noi potevamo stare anche fermi, inermi, perché ci avrebbero liberato lo stesso, ma che sono stati i nostri giovani, i nostri lavoratori, i nostri operai i quali, rinnovando a mille e mille le gesta garibaldine, si sono organizzati sui nostri monti per riscattare col loro sacrificio quella che era stata la vergogna di un passato che l’Italia non poteva tollerare. Ed è per i 55.000 morti, feriti e dispersi dell’esercito di liberazione, ed è per i 65.000 del corpo volontario della libertà, morti e feriti, che noi possiamo rialzare la fronte e pretendere che gli altri ci guardino in faccia con tutta la serietà e l’onore che ci si deve. (Applausi a sinistra).

E passiamo all’unificazione del Ministero delle finanze con quello del tesoro. Questo, tecnicamente, non credo che possa dare luogo a grandi difficoltà, perché, salvo errori, nel passato, formavano un Ministero solo. Mi sono meravigliato delle riserve che a questo proposito hanno fatto gli onorevoli Corbino e Scoccimarro, perché l’onorevole Corbino nel suo discorso del 20 settembre aveva dichiarato che era sorto un contrasto fra lui ed il Ministro Scoccimarro, per l’imposta straordinaria sul patrimonio. Aveva detto che egli voleva fare un’imposta che colpisse subito i grossi patrimoni, e rimandare a più tardi quella che colpisse i patrimoni inferiori. A questo pare non abbia aderito l’onorevole Scoccimarro e non se ne è fatto niente. Viceversa, l’onorevole Scoccimarro ha detto che lui avrebbe fatto il cambio della moneta, ma che l’onorevole Corbino non l’aveva voluto fare. Ora, io faccio il ragionamento dell’uomo della strada, che, cioè, se vi fosse stato un Ministro unico, il Ministro Corbino, per lo meno avremmo avuto l’imposta straordinaria sui grossi patrimoni, e che se fosse stato Ministro solo l’onorevole Scoccimarro, per lo meno avremmo avuto il cambio della moneta. Quindi, mi pare che sotto questo aspetto un qualche beneficio si sarebbe avuto. L’onorevole Scoccimarro oggi fa delle riserve dicendo che l’imposta sul patrimonio non si poteva fare, e che forse è meglio non averla fatta, perché altrimenti ne avrebbero beneficiato i possessori di forti capitali.

Non sono tecnico e non entro in questo argomento; però mi meraviglio che dopo due anni dalla liberazione non si sia fatto ancora niente, mentre dobbiamo ricordare che nel 1921, a neppure due anni dalla fine della guerra, attraverso tutti i provvedimenti presi, l’allora Presidente Giolitti poteva dichiarare di aver raggiunto il pareggio. Spero che il nuovo Ministero del tesoro e delle finanze decida questa questione. Non sappiamo come la risolverà perché il Presidente del Consiglio si è limitato a dire che la questione sarà decisa. Non sappiamo il valore di queste decisioni, perché in ogni Ministero, pur restando presso a poco gli stessi partiti e spesso gli stessi uomini al Governo, le decisioni sono sempre cambiate.

Mi auguro tuttavia che, per quello che riguarda il cambio della moneta, la decisione sia positiva. Non è più oramai una questione di politica economica, ma è una questione di serietà politica.

Ricordo che, in un commovente discorso a Genova, l’onorevole Corbino aveva dichiarato che il cambio della moneta era pericoloso, fra l’altro, perché lo si sarebbe venuto a sapere almeno 70 giorni prima del cambio e in quei 70 giorni sarebbe avvenuta la rivoluzione economica, perché tutti avrebbero acquistato merci, e sarebbe stato un disastro. Ma noi sotto questo incubo abbiamo tenuto tutti i capitali per più di due anni e tutti hanno lavorato, tutti hanno commerciato, hanno accaparrato sempre con questo incubo del cambio della moneta. Quindi, mi auguro che si decida di farlo, anche perché, se non lo si facesse, è probabile che la questione risorgerebbe nel prossimo Governo, mentre bisognerebbe non parlarne più perché è in giuoco la serietà del Governo. Quando si è lanciato il prestito avete fatto dire in tutte le città d’Italia che esso era legato al cambio della moneta; e da molti si è sottoscritto perché il cambio della moneta era un solenne impegno contenuto anche in quel programma che fu lanciato dal Comitato in cui erano i più illustri uomini politici di tutti i partiti.

E non credo che a questo riguardo serviranno le escogitazioni che l’onorevole Scoccimarro vuole sussurrare nelle orecchie del Ministro Campilli. Ormai non si può più dire: non facciamo il cambio, vi diamo qualche altro vantaggio.

Signori, è in giuoco non più il vostro prestigio, ma il credito dello Stato!

Soltanto quando avrete risolto questi due problemi si potrà cominciare veramente a pensare all’iniziativa privata. Il Presidente del Consiglio ha detto che la vuole favorire, ma non ha detto come.

Credo che bisogna cominciare a sgomberare il terreno finanziario ed economico da questi due grossi problemi. Togliete poi tutte la bardature e i vincoli, e poi mettetevi d’accordo sui complessi monopolistici da nazionalizzare o da sottoporre al controllo dello Stato, in modo che almeno gli altri settori possano essere tranquilli e possano lavorare.

Ora, per esempio, stiamo mettendo la cappa di piombo sull’industria elettrica e chissà per quanto durerà questa questione; mentre non abbiamo energia elettrica e mentre occorre assolutamente costruire e riparare gli impianti. Anche su questo mettetevi d’accordo e decidete; decidete, perché altrimenti il lavoro non andrà avanti. Ritengo che l’industria elettrica sia proprio una di quelle che possono essere nazionalizzate, ma anche qui vedete se non possa convenire di sottoporla per ora ad un controllo. Non siamo, per dottrina, favorevoli alla nazionalizzazione, perché non siamo marxisti. Riteniamo, tuttavia, che si possa e che si debba giungere anche alla nazionalizzazione, quando di fronte alle enormi industrie monopolistiche non vi possa essere altra soluzione. Ma ad ogni modo occorre decidere questa questione, tenendo conto, se sono esatti i calcoli fatti, che per fare tutti i necessari grandi lavori pare che occorrano 500 miliardi. Non so se in questo momento noi li possiamo spendere. Ma, se anche li avessimo, credete proprio che sia opportuno spenderli tutti nell’industria elettrica, quando abbiamo ancora migliaia di case a terra e milioni di gente che non lavora?

Questo è un problema grosso. Proponete una soluzione, perché anche qui altrimenti andiamo a mettere delle palle al piede che sono pericolose per la ricostruzione del Paese.

Passo ora alla legge in difesa e per il consolidamento della Repubblica.

L’onorevole Nenni ha detto che, se il Presidente del Consiglio farà questa legge, plaudirà al Governo. Ora questa legge non la farà, lo ha già dichiarato. Avete sentito la sua comunicazione? Ha detto che non c’è bisogno di nessuna legge eccezionale, che basta ritoccare, aggiornare alcuni articoli del Codice penale, sul quale ha sorriso persino l’onorevole Russo Perez. Non aspettatevi niente a questo proposito. E ha pure detto che i monarchici devono giurare; se non giurano, se ne andranno, e se giurano e verranno meno al giuramento, vi saranno provvedimenti disciplinari. Temo che possano essere tardivi. Meglio prevenire che reprimere.

Vogliamo chiarire il nostro pensiero. Non vogliamo nessuna epurazione, non fosse altro perché con l’epurazione siamo stati beffati una volta, e credo che sia stato il più grosso errore dell’antifascismo. Noi diciamo ai monarchici: se ci fosse la monarchia, una leva di comando la dareste in mano a noi? Evidentemente no. (Commenti).

Quindi epurazione nessuna, ma vi sono delle leve di comando che è indispensabile siano in mano ai repubblicani. Potete immaginare un ambasciatore monarchico all’estero?

Evidentemente farebbe una politica in funzione monarchica, e sarebbe assurdo che fosse un rappresentante della Repubblica italiana.

BENEDETTINI. Non è esatto.

MARTINO ENRICO. Dobbiamo spostare qualche persona, senza mandarla via, ma dobbiamo raccomandare all’onorevole De Gasperi, e soprattutto al Ministro degli interni, di provvedervi almeno ed intanto con le leggi normali.

C’è infatti una legge, che mi pare risalga al 1895, che consente di poter mettere a riposo prefetti e ambasciatori, riconoscendo loro un certo numero di anni agli effetti della pensione.

Abbiamo ancora dei funzionari che hanno già raggiunto il limite d’età. Ne abbiamo al Ministero della marina mercantile, alla ragioneria dello Stato e altrove. Allontaniamoli. Non so se sono monarchici o repubblicani, ma dobbiamo rinnovare l’ambiente, dobbiamo far venire avanti i giovani, dobbiamo creare veramente un nuovo clima democratico.

Avevamo chiesto che fossero scelti alcuni prefetti, e ciò la legge lo consente, fra persone non di carriera. C’è una legge che dice che il 25 per cento dei prefetti può essere scelto fra persone non di carriera. Abbiamo detto questo, perché abbiamo un poco di esperienza in materia. Sappiamo che quando era prefetto di Milano l’onorevole Lombardi, prefetto di Novara l’onorevole Fornara, e prefetto di Parma l’attuale Ministro Ferrari, certe persone, certi residui, certi rottami del passato non salivano neppure le scale delle prefetture. Oggi invece vi circolano, e con profitto.

Abbiamo chiesto prefetti non di carriera, perché essi non hanno la preoccupazione della carriera. Sappiamo che, mai come in questo momento, un prefetto è preoccupato di ogni minimo atto ai fini della sua carriera, e spesso avviene, il che è umano e naturale, che questi prefetti nelle varie Provincie si appoggino sulle correnti che sono più forti e, quindi, potete immaginare su quali forze essi riposino in alcune Provincie. Scegliete, quindi, almeno per un determinato periodo di tempo delle persone dal di fuori, che possano infondere un nuovo spirito. Non so se il Ministro dell’interno ha quest’animo, tanto più, se è vero quanto mi si dice, che un funzionario capace, di sentimenti repubblicani, che era al Gabinetto, prima nel Ministro Romita e poi con l’onorevole De Gasperi, uno dei pochi repubblicani del Gabinetto, è stato subito allontanato dal nuovo Ministro.

BENEDETTINI. Perché fra i pochi repubblicani? Sono tutti monarchici allora? E il referendum allora? (Commenti).

MARTINO ENRICO. È detto in quel nostro documento che la Repubblica si difende anche in altro modo, garantendo la sicurezza dei cittadini. Non è il caso di esagerare quando si parla di ordine pubblico; perché se si va a guardare quel che succede negli altri Paesi, ci si accorge che è molto peggio. Però i fatti ci sono, e di quel che il Capo del Governo intende fare per dare la sicurezza a tutti i cittadini non abbiano sentito da lui parola.

Non una parola abbiamo sentito sui fatti più gravi che hanno perturbato l’opinione pubblica, come i fatti del Viminale e dell’Emilia. Dica qualcosa il Governo, dica qualcosa il Ministro dell’interno. È possibile che dobbiamo rimanere all’oscuro mentre il Partito comunista fa una sua inchiesta? La faccia pure, fa bene a farla. Ma se il Partito comunista arrivasse a delle conclusioni più concrete e più precise delle vostre, che figura ci fareste voi?

Non una parola è stata detta sui gravi fatti in Sicilia. Eppure si tratta di sette lavoratori che sono stati assassinati a catena. E questo offende tutto il popolo italiano, non soltanto il Partito comunista. I comunisti fanno bene a fare la loro inchiesta, ma è necessaria un’inchiesta ufficiale, perché questi assassini tendono a sopprimere la nuova vita democratica del Paese. E, quindi, chiediamo al Governo che parli, che ci dica qualche cosa, che ci dia delle assicurazioni.

Passo ad altro argomento: la disoccupazione. Mi dispiace che non ci sia il Ministro Romita. La disoccupazione è forte, ma, come ha detto il Ministro Romita l’altro giorno, il dramma più grave è la mancanza di qualificazione degli operai. Ci sono delle industrie edili del nord che non assumono lavori perché non hanno muratori. Il Ministero della guerra deve licenziare 20.000 persone e dovrà poi riassumerne 9.000, perché le 20.000 non sono qualificate.

Quindi occorre provvedere, sia per l’interno, sia per le necessità e le esigenze della emigrazione.

So che il Ministro D’Aragona aveva preparato già un progetto per l’istituzione delle scuole. Ma in questo campo vorrei raccomandare di procedere un po’ più semplicemente nelle varie Provincie. Occorre, cioè mettersi d’accordo coi sindaci, coi prefetti, con le Camere del lavoro, affidando loro di costituire queste scuole e di costituirle rapidamente.

Già ho detto al Ministro Romita che dopo la liberazione a Genova abbiamo già fatto tre scuole, che vanno bene, ma che hanno avuto un solo difetto – ed è per questo che bisogna che intervenga lo Stato – cioè il difetto di non essere frequentate; i frequentatori sono pochi. Io mi ero rivolto a tutte le associazioni di reduci e alla Camera del lavoro. Da tutti ho avuto delle belle promesse. Gli alunni venivano pochi giorni, prendevano i pasti gratuiti, prendevano l’indennità, e poi non si vedevano più.

Che cosa è necessario? È necessario obbligarli a frequentare le scuole, subordinando il sussidio di disoccupazione alla frequenza.

Una parola sull’alimentazione, rapidamente.

Anche questo è contenuto nel nostro documento. Bisogna controllare le fonti della produzione, il controllo non bisogna farlo soltanto agli agricoltori, ma anche agli industriali; bisogna controllare le fatture, le quali sono quelle che permettono tutte le evasioni possibili. Così si potrà arrivare a qualche risultato.

Vorrei proprio consigliarvi, anche per una modesta esperienza, e consigliare i rappresentanti della Camera del lavoro: è inutile andare a dire che bisogna perseguire la borsa nera spicciola; questo non risolve niente; se non aumentate i conferimenti agli ammassi, non potete aumentare le razioni; ed una volta che la farina fuorvia dall’origine non andrà più in Piazza Vittorio, ma nelle case private direttamente; non si faranno le paste, ma le tagliatelle e le torte in casa, quella farina non la recupererete più. Veniamo alla realtà. Si potrà sopprimere la borsa nera, anche spicciola, soltanto distribuendo una sufficiente razione.

Neppure il fascismo e neppure la dittatura nazista hanno potuto impedire la borsa nera.

Diciamo francamente che lo facciamo per una ragione morale, per una ragione sociale; perché non è attraverso la persecuzione della piccola borsa nera che potete aumentare d’un grammo la razione.

Siamo oramai arrivati a questo: quando si calcolano i salari, si computa anche quello che il lavoratore deve comprare alla borsa nera.

Vi sono state le agitazioni a Milano e si sono messi i calmieri perché era aumentato il burro da 700 a 900 lire; e s’è tenuta una riunione ufficiale per poi stabilire che il burro in calmiere doveva essere a 700 lire.

Quando fate questo, come potete poi impedire che si venda il burro a Piazza Vittorio?

Torniamo alla realtà.

A Genova, queste questioni le lasciavo decidere alle Commissioni degli operai, che venivano da me, e siccome gli operai avevano razioni insufficienti, quando dicevo loro che intendevo vietare il pane bianco, essi rispondevano che lasciassi almeno la focaccia, per la colazione del mattino. Questa è la realtà. Ed allora facciamo una politica decisa, la sola possibile, andando alle origini, per aumentare le razioni; altrimenti, sarà ancora una volta un fallimento.

Una parola sulla marina mercantile.

Avevamo chiesto che fosse potenziato il Ministero della marina mercantile, che ad esso fossero trasferiti, oltre ai normali servizi di istituto, anche particolari servizi: pesca, istruzione nautica, navigazione interna. Abbiamo detto che bisogna riordinare le capitanerie di porto; bisogna che i funzionari facciano quello che devono fare, come dipendenti del Ministero della marina mercantile, e non la leva o il reclutamento, compito che costituisce una distrazione e che non rientra nelle competenze del Ministero.

Quando dicevamo di potenziare il Ministero della marina mercantile non credevamo però che il Ministro interpretasse la cosa nel senso di creare improvvisamente tre direzioni generali in luogo d’una, come era sempre stata, anche quando avevamo un tonnellaggio rispettabile.

Sul problema marittimo, l’onorevole Presidente del Consiglio ha dichiarato di voler aiutare i privati a costruire navi in Italia, per potere arricchire la nostra flotta.

Nobile intento! Qui abbiamo le due solite tesi: quella dei costruttori, da una parte, e quella degli armatori, dall’altra.

I costruttori, naturalmente, vogliono costruire, gli armatori vogliono comprare all’estero, perché comprano a miglior prezzo, in quanto possono acquistare navi usate; e siccome ci sono degli interessi da tutte e due le parti, è bene che il Governo faccia una politica nel vero interesse del Paese. Tenga però conto che costruire oggi in Italia non risolve il problema, perché, impostando una nave oggi, noi l’avremo fra un anno, un anno e mezzo o due anni; tenga conto che i cantieri stanno già lavorando per l’estero; che se noi abbiamo le navi subito, possiamo imbarcare molti disoccupati e possiamo realizzare, per esempio, noli, che in questo momento sono alti e preziosi, e che fra un anno non sapremo come saranno. Quindi, costruiamo pure per l’estero, anche con non grossi guadagni, ma cerchiamo, se è possibile, di comprare dall’estero navi usate – e ce ne sono molte e buone – che possono darci il duplice vantaggio di alleviare la disoccupazione e di incassare noli in valuta.

E ancora una parola su quello che per me è il problema più importante dalla liberazione in poi: accenno al problema dei «consigli di gestione»; consigli di gestione – ha detto l’onorevole De Gasperi – che servono per creare lo spirito di intraprendenza e un clima di interessamento e di cooperazione operaia. Sono sodisfatto di questa definizione. Quello che io desidero chiedere all’onorevole De Gasperi è che convinca di questa sua definizione anche gli industriali che, credo siano di un’altra opinione.

Perché i consigli di gestione sono malvisti? Perché sono soprattutto sostenuti dai comunisti. Diciamolo chiaro. Noi abbiamo rischiato di perdere la Repubblica col pericolo rosso; abbiamo rischiato di mettere in sospetto e in dubbio tutto il movimento partigiano, perché i comunisti vi hanno dato un larghissimo contributo. Oggi noi vediamo mettere in pericolo la realizzazione di una forma democratica come sono i consigli di gestione, sempre perché sono sostenuti dai comunisti. Ma è ora di finirla di vedere rosso in questa maniera! Ma se facciamo della politica, facciamola realisticamente, e vediamo se un determinato istituto politico, costituzionale, sociale, economico, corrisponde alle esigenze democratiche, oppure se, viceversa, è soltanto un mezzo per realizzare la politica di un partito.

Io sostengo i consigli di gestione, perché veramente così potremo realizzare una democrazia economica; ed è poi un dovere che noi abbiamo verso la classe lavoratrice. Perché se Giolitti, per corrispettivo di una guerra, aveva dato il suffragio universale, cioè la democrazia politica, noi abbiamo il dovere di dare ai nostri lavoratori che, per la prima volta nella storia, volontariamente sono andati sulle montagne a combattere per conquistarsi non solo l’indipendenza del Paese – diciamolo pure – ma anche il loro diritto alla vita avvenire, questa sodisfazione, che è nell’interesse del Paese, se non vogliamo veramente mantenere questa frattura impossibile tra capitalismo da una parte e lavoratori dall’altra.

Sosteniamo il consiglio di gestione, che per noi non è solo un istituto giuridico, ma anche un’istituzione che s’inserisce nella nostra rivoluzione, nella rivoluzione che noi abbiamo fatta; e l’abbiamo fatta per dare democrazia al popolo. In questo si sono impegnati tutti i principali partiti; si è impegnata la democrazia cristiana, che nei Comitati di liberazione nel nord ha presentato progetti talvolta anche più avanzati di quelli dei comunisti; si sono impegnati anche, in una certa forma, i liberali.

Si parla di Governo di amministrazione; deve essere un Governo di amministrazione, ma deve essere – e doveva essere già prima di ora – un Governo che sa interpretare le esigenze politiche e sociali che sono sgorgate da questa nostra rivoluzione, ed il primo modo di interpretazione era di attuare questi consigli di gestione, che in molte industrie funzionano già e che vanno benissimo.

Chi ha fatto il Prefetto vi potrà dire quale è la passione di questi operai quando vengono a chiedere qualche cosa, non per sé, ma nell’interesse della produzione e della collettività. Io e l’amico Faralli, pochi giorni fa, abbiamo avuto occasione di ricevere una Commissione da Cornigliano Ligure che chiedeva l’apertura di uno stabilimento, e bisogna vedere con quale entusiasmo, con quale interesse si chiedeva la realizzazione di questa giusta organizzazione! Questo deve fare il Governo: interpretare veramente quella che è una rivoluzione democratica avvenuta pacificamente, e non fateci rammaricare che sia avvenuta troppo pacificamente, ma il Governo deve saper realizzare questo, perché i lavoratori se lo sono conquistato. E quando noi chiediamo questo (non si spaventino le destre) non lo chiediamo pensando a Carlo Marx, ma pensando invece ad un grandissimo italiano, il primo che ha sentito veramente l’emancipazione sociale: Giuseppe Mazzini (Vivi applausi a sinistra e al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per fatto personale l’onorevole Corbino. Ne ha facoltà.

CORBINO. Onorevoli colleghi, mi dovrete scusare se abuso per dieci minuti della vostra pazienza, non per un fatto personale con l’amico Martino, ma per rispondere un po’ a tutti i fatti personali che avrei potuto invocare nel corso di questa discussione.

Quando nel luglio scorso si presentò il Ministero De Gasperi dal quale io dovetti poi allontanarmi, il Presidente del Consiglio ebbe per me una frase molto lusinghiera, di cui io soltanto adesso capisco il significato. Egli disse: «Se Corbino non ci fosse, bisognerebbe inventarlo». In effetti io sono diventato una specie di diversivo, in confronto del bersaglio principale che talvolta è rappresentato dal Primo Ministro, tanto che mi domando se in qualche prossima crisi io non mi debba mettere in una specie di rapporto a percentuale col futuro Presidente del Consiglio per attirare su di me gli strali di coloro che vorrebbero colpirlo direttamente.

Ci sono alcuni punti sui quali desidero dare dei chiarimenti e desidero cogliere questa occasione per ringraziare il collega Scoccimarro delle parole gentili che ha avuto per me in maniera indiretta quando, me assente, egli ha pronunciato il discorso a cui in questo momento si è riferito l’onorevole Martino.

Per quanto riguarda la fusione dei due Ministeri, io dissi in settembre, e l’ho ripetuto in altre occasioni, che facevo qualche riserva sulla opportunità di questa fusione, perché da un punto di vista immediato la fusione non era, come non è, a mio giudizio, tecnicamente necessaria.

Il Ministero del tesoro oggi è strettamente collegato con tutti gli altri Ministeri e, può sembrare assurdo quello che vi dico, ma è così: se c’è un Ministero col quale si dovrebbe fondere è il Ministero dell’interno, perché è in funzione della politica interna del Governo che il Ministro del tesoro può fare una politica di Tesoro.

Ciò non vieta che per ragioni, credo, di carattere parlamentare, in questo momento si sia creduto opportuno di procedere alla rifusione dei Ministeri che erano stati distaccati da Bonomi.

Bisognava piuttosto porre a capo dei due Ministeri due uomini che la pensassero nello stesso modo. Questa era la necessità veramente tecnica che si sarebbe riflessa su quello che – come l’onorevole Martino ha rilevato – è il problema finanziario più scottante di questo momento, il problema cioè dell’imposta sul patrimonio.

Rispetto a questo problema io mi sono già espresso altre volte. In sede di formazione del Ministero De Gasperi del luglio, io proposi al Presidente del Consiglio e ai colleghi che con me esaminavano il programma economico e finanziario del Governo un’imposta sul patrimonio limitata, per il momento, ai grossi patrimoni.

Per me, l’imposta sul patrimonio – dal punto di vista tecnico – è un’imposta che non ha senso, perché le imposte sul patrimonio non si possono pagare che col reddito, e quindi le imposte sul patrimonio, in sostanza, non sono che delle imposte sul reddito ragguagliate al patrimonio di un certo istante. Però, ci può essere una ragione politica che giustifichi un’imposta sul patrimonio e, a mio giudizio, la ragione politica principale che la potrebbe giustificare è quella di portare ad una più equa distribuzione della ricchezza tagliando le cime più alte. Ecco perché io, che sono teoricamente contrario all’imposta sul patrimonio, divento politicamente favorevole all’imposta medesima, quando la si voglia considerare come uno strumento per eliminare coloro che hanno una ricchezza molto al di sopra della media delle ricchezze individuali italiane.

C’era anche una ragione di ordine finanziario che mi induceva a questo: ed è che un’imposta sul patrimonio a base larghissima sarebbe un’imposta che coinvolgerebbe, al minimo, tre milioni di contribuenti; e la nostra Amministrazione finanziaria non è in questo momento attrezzata per far dare ad un’imposta che procurerà tre milioni di denunce un gettito immediato ed uno svolgimento improntato a giustizia tributaria.

Collegato col problema dell’imposta è, strettamente, il problema, non del cambio della moneta, ma della imposizione dei valori mobiliari, di cui il cambio della moneta non è che lo strumento tecnico pregiudiziale.

Nelle discussioni, ormai, il cambio della moneta è diventato come una specie di pedana su cui io e Scoccimarro ci saremmo, ad un certo momento, battuti a pugni: io ho messo knock-out lui e il cambio non s’è fatto. Ma le cose non sono andate per nulla in questo modo.

La differenza tra me e gli altri, in materia di cambio della moneta, è questa: che io sono nettamente contrario al cambio e quindi, anche se le condizioni tecniche per farlo ci fossero state, io non lo avrei fatto. Gli altri, invece, sono favorevoli al cambio, e si ostinano a dichiarare che le condizioni ci sono state. Io mi domando: e perché non lo avete fatto?

Una voce a sinistra. Perché c’era lei!

CORBINO. Una volta che le condizioni tecniche ci sono state, perché non lo avete fatto? Perché non avete posto il problema come lo posi io?

Io dissi: o si fa e me ne vado; o non si fa ed io resto.

Gli altri potevano dire: o si fa e restiamo, o non si fa e ce ne andiamo. Mi pare che la situazione era molto semplice. Né si può dire che si mandasse a monte l’esarchia perché, in sostanza, è dubbio che i miei colleghi del Gabinetto, messi di fronte alle gravissime conseguenze politiche della rottura dell’esarchia, si sarebbero dimostrati talmente solidali, non con me, ma col rifiuto al cambio, da persistere nel non volere entrare in un’altra combinazione. Probabilmente, sarei stato sostituito con un altro liberale, e si sarebbe deciso di fare il cambio; ma non si sarebbe potuto fare. Questo è il problema fondamentale. Perché per fare il cambio non ci sono che due modi: o cambiare i biglietti o stampigliarli. Ora desidero su questo punto dare qualche notizia di fatti finora sconosciuti a chi non si è trovato, come mi sono trovato io, quando facevo parte del Governo Badoglio a Salerno. Una sera eravamo in queste condizioni: nelle casse del Ministero c’erano due milioni e non avevamo nessuna possibilità di aumentarli perché non avevamo le macchine per la stampa dei biglietti; i biglietti di cui potevamo disporre ce li dovevano dare gli alleati, ma un piroscafo con un carico di Am-lire era stato affondato nel Mediterraneo. Avevamo esaurito tutte le riserve di assegni bancari e di qualsiasi altro mezzo di pagamento. Vi dico questo per darvi una prova che già dal marzo 1944 noi avevamo delle difficoltà gravissime per sostituire i biglietti in circolazione o aumentarli.

Poi è venuta la liberazione di Roma, poi ancora la liberazione del resto della Penisola. Non avevamo carta; i clichés non si sapeva dove fossero andati a finire. Il cliché del biglietto da mille lire nuovo tipo della Banca d’Italia era stato distrutto dai tedeschi in maniera che non si potesse ricostruire, e non lo abbiamo potuto più ricostruire. Vi erano soltanto pronti i clichés dei biglietti da cinquemila e diecimila lire ed il vecchio cliché del biglietto da mille lire che veniva chiamato «carta da parato». Questa era la nostra disponibilità in macchine; in quanto a carta speciale per biglietti (perché capirete che i biglietti non si possono stampare su carta da giornale) non avevamo scorta maggiore di quella che occorresse per stampare cinque miliardi al mese. Questa la situazione nella quale si è trovato il Ministro Soleri, il quale, preoccupandosi della necessità di fare il cambio subito, aveva anche pensato di mandare a stampare questi biglietti in America; ed i clichés dei nostri biglietti furono spediti negli Stati Uniti (il paese che aveva la sola attrezzatura capace per la stampa) che ci fecero sapere che la fornitura della massa dei biglietti occorrenti per effettuare l’operazione del cambio non sarebbe stata completata prima del maggio 1946. Questo avveniva nel 1945. Ed allora il Soleri rinunciò ad effettuare subito il cambio con biglietti e pose allo studio una operazione di cambio mediante stampigliatura. Ma tutti gli esperimenti fatti dimostrarono che il sistema del cambio con la stampigliatura avrebbe dato luogo ad inconvenienti grandissimi ed avrebbe consentito a quei ladri che per caso fossero riusciti ad impadronirsi dei timbri per la stampigliatura di lucrare tutto o quasi tutto il vantaggio che avrebbe invece dovuto lucrare il tesoro. Aggiungete poi che, storicamente, di cambi di moneta importanti fatti con la stampigliatura non c’è stato che quello della Cecoslovacchia nel 1919, quando, per fronteggiare la inflazione austriaca delle corone, il Governo cecoslovacco, allora sorto, provvide a stampigliare nel giro di pochi giorni tutte le corone esistenti dentro il territorio ceco. Nelle regioni della Dalmazia e della Venezia Giulia la stampigliatura dei biglietti noi non la facemmo, perché non eravamo attrezzati.

In queste condizioni il cambio non era questione di volere o non volere; si trattava di non poterlo fare. Vi era poi un’altra difficoltà di ordine pratico, ed era questa: per fare il cambio bisognava distribuire i biglietti. Era stato previsto un piano per otto mila sportelli; bisognava far muovere qualche cosa come 20.000 impiegati bancari; bisognava organizzare le scorte dei biglietti e la loro custodia nelle casseforti delle banche locali. Il preventivo di forza pubblica necessario per tutte queste operazioni era stato calcolato in 110.000 uomini, ridotti poi, attraverso le nostre pressioni, ad un minimo di 70.000 uomini. Ora, domando a voi che siete vissuti in Italia l’anno scorso, se, a vostro giudizio, la nostra Direzione generale della pubblica sicurezza e il Ministero dell’interno sarebbero stati in condizioni di distrarre 70 mila uomini dalle loro disponibilità per mobilitarli, per 15 o 20 giorni, a custodire i biglietti di banca.

FARALLI. Vi avrebbero pensato direttamente i grandi comuni: nella riunione dei sindaci fu precisato questo.

CORBINO. Comunque, il Ministro dell’interno ha sorveglianza diretta ed egli avrebbe potuto dirmi: voi, signor Ministro del tesoro, di questo problema non vi occupate, perché la responsabilità l’assumo io. Ed io, se egli mi avesse parlato in tali termini, gli avrei risposto: assumila e poi vedremo quello che succederà. Ma il Ministro degli interni respinse una simile responsabilità.

TOGLIATTI. Non è esatto: egli fece semplicemente presenti degli inconvenienti, ma non respinse la responsabilità.

CORBINÒ. No, la respinse, perché c’erano le elezioni. Io, d’altra parte, ignoravo, in quell’epoca, questo fatto: che cioè, fino da tre mesi prima che io andassi al Tesoro, i clichés dei biglietti da 500 e da 1000 lire erano stati rubati. Questo è già un fatto che è venuto a notizia dell’Assemblea, e ciò per un puro caso: per un arresto dovuto ad altre ragioni effettuato nel mese di giugno 1946. Io ho assunto storicamente un’altra volta, e assumo oggi politicamente, tutta la responsabilità di non aver voluto il cambio. Se è una colpa, questa colpa me la assumo per intero; se è un merito, lo voglio dividere con tutti i colleghi del Gabinetto.

Una voce a sinistra. È una colpa.

CORBINO. Benissimo, allora me la assumo per intero e vado più in là: se avessi dieci occasioni di tornare al Governo, rifiuterei il cambio della moneta fino all’undecima volta.

Una voce a sinistra. Non ci tornerà.

CORBINO. Mi pare, del resto, di aver dato prova di non nutrire alcun attaccamento per quel posto, specie poi quando, ad un determinato momento, mi toccò veder profilarsi delle incompatibilità politiche che furono spinte sino alla minaccia di mandarmi sulla forca. (Si ride). Dopo ciò, francamente, non avevo più ragione di restarci. Ma anche senza arrivare a questo, sarebbe bastato un dissenso con i miei colleghi di Gabinetto appartenenti ad altri partiti politici, per farmi dire: me ne vado: il che io ho fatto il 2 settembre, e rispetto a quell’avvenimento mi sono già giustificato all’Assemblea nel mio discorso del 20 settembre.

Lascio a voi di considerare in quale situazione ci saremmo trovati oggi se, per caso, nel febbraio o nel marzo del 1946, fossero stati emessi biglietti da 500 e da 1000 lire di cui i clichés erano stati portati via. È una situazione che io non ho l’obbligo di considerare, perché, a torto o a ragione, per colpa o per merito, nel giugno 1946 i nuovi biglietti da 500 e da 1000 lire erano ancora dentro le cassette di sicurezza della Banca d’Italia; e credo che ci siano ancora.

In quanto all’avvenire, il Governo assumerà le sue responsabilità su tante cose, e le potrà assumere anche su questa.

Mio caro Martino, puoi essere sicuro di un fatto: che il giorno in cui il Governo si deciderà per il cambio della moneta, siccome in un paese come l’Italia non si può tenere un segreto di questo genere, che comporta la segretezza assoluta di più di 40 mila persone, puoi essere sicuro che da quel giorno la lira correrà pericoli così gravi rispetto ai quali quelli che corre oggi sono cosa veramente trascurabile. Oggi ancora, con una politica un po’ accorta, la lira si può salvare. Gli elementi tecnici per salvarla ci sono. Il guaio è che questi elementi tecnici purtroppo li indichiamo noi dell’opposizione, e potrà darsi che per la ragione di non fare quello che dice l’opposizione il Governo, scegliendo diametralmente l’opposto, seguirà una politica finanziaria di cui porterà veramente la responsabilità di fronte alle nostre generazioni future. Che se poi il Governo si attrezzerà in modo tale che questo benedetto cambio si possa fare una volta per sempre senza quel terremoto del quale Corbino dovrebbe essere una specie di sismografo ammonitore, vuol dire che fra tanta gente che si sbaglia nel mondo mi sarò sbagliato anche io. Vuol dire che il Governo farà il cambio della moneta e gli elettori dell’Italia faranno il cambio di un deputato, con che non si perderà proprio niente. (Applausi a destra – Commenti).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mancini. Ne ha facoltà.

MANCINI. Onorevoli colleghi, il mio compito è assai limitato, perché dirò poche ma sentite parole su alcuni gravi ed urgenti problemi, che interessano il Mezzogiorno d’Italia, al quale il Presidente del Consiglio, nel suo discorso programmatico, ha dedicato brevi e fugaci parole.

Dichiaro francamente, pur con un senso profondo di amarezza, che preferisco questo silenzio alle promesse vistose, che rappresentano i motivi politici ornamentali di questi discorsi presidenziali, che oggi, come ieri, nell’epoca prefascista, hanno soltanto un merito: quello di aprire le cateratte dell’oratoria dell’Assemblea e quello di obliare ciò che si promette. Difatti, se qualcuno ha vaghezza o curiosità di ricordare o di rileggere ciò che il Presidente del Consiglio, onorevole De Gasperi, disse nel discorso di luglio, a proposito del Mezzogiorno d’Italia, confrontandolo con il nullismo, che ne fu il seguito, avrà la prova documentale della verità di quanto ho affermato.

Nessuno mi farà il torto di sospettare o di pensare che io voglia oggi affliggere l’Assemblea con una dissertazione sul Mezzogiorno. Anche se osassi, per un momento, sfidare la pazienza di chi mi onora di ascoltare, non lo farei per un doppio ordine di ragioni. In primo luogo perché bisogna finirla una buona volta con tutta la letteratura, gli studi, i convegni, le chiacchiere su questo trascurato Mezzogiorno. La polemica intorno ad esso per me si è chiusa con lo studio luminoso di Antonio Gramsci. Riaprirla significa rimasticare, o mal dire, ciò che fu ben detto. Bisogna finirla con il frastuono della letteratura, della sociologia, della filosofia, che si abbatte sulle nostre contrade. Alla gara delle parole deve succedere, una buona volta, la gara dei fatti. E, purtroppo, i fatti ancora non vengono.

La seconda ragione è la seguente: io non credo ad una questione meridionale; credo soltanto ad un problema nazionale, il quale presenta un doppio aspetto. Un aspetto generale, unitario, integrale, che ha per base e per fondamento tre elementi: la riforma giuridica del diritto di proprietà, la riforma tecnica del processo di produzione e la rivendica di tutti quei beni rustici, usi civici, monti frumentari, che rappresentarono la preziosa proprietà collettiva dei nostri Comuni e che al popolo furono usurpati dalla influenza tortuosa delle famiglie più doviziose del luogo.

E vi sono altri problemi, urgenti, indifferibili, i quali avrebbero dovuto suggerire al Governo un programma di emergenza assoluta. Onde è che nell’ultimo congresso del Partito Socialista Italiano, nell’Aula Magna dell’Università di Roma, fu presentato e approvato all’unanimità un ordine del giorno che invitava il Governo nazionale a istituire un Ministero del Mezzogiorno, alla stessa guisa di quello delle terre liberate, perché soltanto questo Ministero avrebbe potuto coordinare i diversi problemi regionali, organizzandoli in una linea unitaria nel quadro e nell’interesse della vita economica e morale della nazione.

Intanto il primo problema che denuncio all’Assemblea e sul quale richiamo l’attenzione del Governo, è quello della sanità fisica del lavoro. Il lavoratore meridionale, in qualsiasi latitudine, ha raggiunto il primato della parsimonia, dell’intelligenza, della forza di resistenza. Ora, queste invidiabili virtù stanno per essere compromesse dalla situazione alimentare, che angaria le classi lavoratrici del Mezzogiorno d’Italia. Infatti il tenore di vita giorno per giorno diviene più scarso. I beni meno infimi dell’esistenza sfuggono alla presa della classe lavoratrice. E non solo di essa; ma di altre categorie di cittadini come ceti professionisti e piccoli ceti borghesi, i quali sono sulla via della proletarizzazione; perché scendono inesorabilmente giorno per giorno la scala sociale fino a diventare miserabili; mentre la povertà, sovente occultata, comprime con l’indifferenza crudele dei prezzi elevati e del mercato nero la loro esterna dignità di cittadini e la loro intima dignità di uomini. Frotte di fanciulli, sottratti alle famiglie e alla scuola, sono immesse dolorosamente e necessariamente nelle criminose vie del piccolo commercio nero, esposte agli agguati, alle insidie, alla corruzione della strada. Donne avvizzite, non dagli anni ma dai disagi quotidiani, vanno alla ricerca di un tozzo di pane. Cameroni antigienici, caserme male attrezzate contro il freddo e la pioggia agglomerano, in una promiscuità pericolosa, un numero non indifferente di famiglie e di sinistrati senza desco e senza indumenti. La disoccupazione, nelle forme più assillanti, bussa al tugurio dell’operaio come alla porta dell’insegnante elementare, del diplomato, del ragioniere, del geometra, che salgono e scendono le scale altrui pitoccando un posto, accettando sovente umili occupazioni per guadagnare un onesto pane per sé e per la famiglia dolente.

Su tale quadro desolato si distende sinistra l’ombra insidiosa della tubercolosi e della malaria.

Il dramma sociale della guerra ha sviluppato queste malattie sociali. La lotta contro la tubercolosi rappresenta il problema più grave della sanità pubblica in quest’ora tormentosa della nostra ricostruzione.

La tubercolosi, come è noto, è una malattia a carattere sociale per la sua frequenza, per la sua diffusione, per la sua durata, per la gravità delle sue forme ed in specie per il pericolo che presenta la pubblica profilassi, in quanto non solo fa risentire dannosamente i suoi effetti sugli organismi giovani, che si trovano, quindi, nella fase della vita produttiva ed utile per la società; ma inficia anche l’integrità degli organismi allo sbocciar della vita stessa. Infatti ne risultano particolarmente colpiti i bambini, gli adolescenti, le giovani madri.

I servizi di lotta antitubercolare hanno risentito gravemente degli eventi della guerra, che ne hanno compromesso il funzionamento e la efficienza.

I consorzi provinciali antitubercolari e i relativi dispensari funzionano poco o non funzionano affatto, e non per colpa dei dirigenti, i quali centuplicano la loro operosità, ma soltanto per la mancanza di mezzi, per la scarsezza di arredamento igienico, per l’insufficienza dei nuovi locali sostituiti ai vecchi danneggiati o distrutti dai bombardamenti.

Io non voglio consentirmi la invida licenza di un raffronto, perché per me non esiste né il nord, né il sud; ma esiste soltanto l’Italia.

Ma quando io penso che ad Arco, in provincia di Trento, esistono 15 sanatori, mentre da Napoli, a Palermo ve ne sono appena 5 o 6 male attrezzati; che nella città di Cosenza fu costruito un preventorio, che fu adibito prima a caserma, poi ad ospedale della Croce di Malta, mentre oggi è chiuso ermeticamente, ho il diritto di denunciare all’Assemblea la ingrata parzialità regionale anche in fatto di tutela igienica.

Dichiaro subito che mi mancherebbe la possibilità di siffatti odiosi confronti; poiché i nostri naturali sanatori e preventori sarebbero le nostre ridenti spiagge ioniche e tirrene e le nostre ossigenate montagne, se il Governo si fosse ricordato di favorire e sviluppare le colonie marine e montane, che potrebbero sottrarre all’insidia del male falangi di fanciulli e di giovinetti indifesi.

Ora, quando il Presidente del Consiglio, con accorate parole a proposito della firma di questa pace ingiusta, elevava un inno al lavoro italiano e all’avvenire del nostro Paese, egli dimenticava che il lavoro ha per base e per fondamento la salute, e che l’avvenire del Paese è riposto nelle mani di questo garrulo esercito di fanciulli, che saranno domani il presidio e la forza della Patria.

Ma all’endemia tubercolare si aggiunge l’endemia malarica. L’endemia malarica, che fin dal 1941 aveva manifestato una netta e continua tendenza a sempre più circoscriversi ed attenuarsi, sì da giustificare le migliori speranze per il futuro, ha accusato ora paurose recrudescenze, che nel biennio ora trascorso hanno segnato delle punte mai raggiunte.

Parecchi sono i fattori che hanno determinato queste recrudescenze, per cui intere città, specialmente della Campania, della Calabria, delle Puglie e della Sicilia, sono colpite dal morbo, diventato endemico. Il quale sceglie le sue vittime dovunque: nella casa del ricco e nella stanza spoliata del povero.

Ebbene, io spero che quest’anno non si segua l’esempio dell’anno scorso, quando nessuna difesa igienica e profilattica si è adottata per il Mezzogiorno.

Il D.D.T., che tanti benefici effetti ha ottenuto altrove, e che oggi si presenta come l’unico mezzo per distruggere l’anofelismo diffuso ed imperante, è stato trascurato nelle nostre contrade. Il dottor Nicola Perrotti, meridionale, saprà certamente riguadagnarci il tempo perduto. Comunque, io vorrei invocare una parola rassicuratrice da parte del Presidente del Consiglio, tanto più che la sua vibrata e commossa apostrofe nei destini del Paese supera ogni ombra di retorica per piegarsi su questo esercito di sofferenti, che sarà domani l’esercito delle pacifiche fortune di Italia. (Applausi).

Un altro problema di straordinaria importanza, un problema che rappresenta una vergogna e un’onta per l’Italia tutta, è quello dell’analfabetismo.

Si è parlato della scuola dell’avvenire, e, nella interrogazione svolta or ora, dei legittimi diritti dei nostri insegnanti, ma si è dimenticato che nel Mezzogiorno dilaga l’analfabetismo, mentre esiste un numero non indifferente di insegnanti disoccupati. Contro un’aliquota del 2 per cento in Piemonte, del 4 per cento in Lombardia, si ha un’aliquota che arriva al 35 per cento nella Campania, al 40 per cento nelle Puglie, ed al 48 per cento nella Calabria, nella Sicilia, e nella Sardegna. E non ci sono soltanto gli analfabeti. C’è anche la categoria degli analfabelizzati, cioè quei fanciulli che compaiono per la prima volta nella prima classe elementare e scompaiono subito nella seconda e nella terza, e quindi, abbandonati a se stessi, si analfabetizzano.

Ebbene, io so, e ne fo personale attestazione, che il Ministro della pubblica istruzione aveva chiesto al tesoro i fondi per l’istituzione di 3000 scuole. Il Ministro del tesoro non rispose. La richiesta fu, quindi, ridotta a 2000 e alla fine furono concessi i fondi per 600 scuole.

Non commento.

Presidenza del Vicepresidente CONTI

Come si combatte l’analfabetismo? Come si inizia questa lotta implacabile, a cui dovrebbero partecipare tutti gli italiani con fervido cuore e con lena inesausta?

Il Ministro della pubblica istruzione avrebbe potuto in parte supplire alle deficienze del tesoro. Avrebbe dovuto cercare di incrementare le scuole serali, le scuole festive; avrebbe dovuto sviluppare, proteggere, controllare quelle piccole scuole sussidiarie, dove l’abnegazione dell’insegnante, il quale si sperde in una plaga o in una forra di monti chiamando a raccolta 10-15 fanciulli per aprire loro la mente alla luce dell’alfabeto, diventa eroismo civile e morale altamente apprezzabile. Connesso a questo problema vi è l’altro dell’edilizia scolastica. Non temo smentita, affermando dinanzi alla sovranità di questa Assemblea che non c’è città, o villaggio del nostro Mezzogiorno che possieda un edificio scolastico moderno, dal punto di vista igienico e pedagogico.

La vecchia legge dei tempi prefascisti non ha risposto al suo scopo, perché i Comuni si trovarono tutti nella impossibilità di contribuire per metà alle spese di costruzione e nella difficoltà di risolvere quello intrigo procedurale per ottenere finalmente la concessione del prestito. Cosa si è fatto? Cosa si farà intanto?

Il Ministro della pubblica istruzione avrà letto certamente le relazioni degli ispettori scolastici. Basta leggerne qualcuna: grondano lacrime. Se queste lacrime avrà raccolto, nel suo cuore cristiano, non potrà che ratificare e confermare le mie censure e la mia protesta. Occorre sollecitare l’edilizia scolastica, perché, cari amici di questa parte dell’Assemblea, non si scaccia dal solco la miseria, se non si scacciano dall’animo il pregiudizio e l’ignoranza.

Un secolo e mezzo fa il Belgio celebrava, con una festa nazionale, la fine dell’analfabetismo.

Il primo alto del Governo rivoluzionario russo fu quello di iscrivere all’ordine del giorno la lotta contro l’analfabetismo; e questa lotta vittoriosa spiega, in parte, l’eroismo in pace e in guerra di quel popolo; spiega le sue manifestazioni di responsabilità civica, la sua disciplina morale, i prodotti intellettivi e scientifici, che in ogni branca dello scibile umano, fin nell’arte della guerra, hanno sbalordito il mondo.

È una lotta fiduciosa che l’Italia dovrà ingaggiare, perché ha tutte le possibilità di poterla vincere; perché possiede un esercito di insegnanti valorosi, pronto a combattere, in nome dell’alfabeto, la malerba del pregiudizio, pronto a squarciare la tenebria dell’intelletto.

Ma vi è ancora un terzo problema, di una complessità eccezionale: il problema che riguarda le strade, le ferrovie, gli approdi, gli acquedotti, le fognature, la luce.

Beffa degli uomini e delle cose!

A due chilometri e mezzo passa l’elettrodotto, ad alto potenziale, che porta l’energia elettrica dalla Sila, oltre regione, e vi sono tre paeselli, Panettieri, Garlopoli, e una frazione di Serrastretta, che invano richiedono un filo di luce per poter vincere le lunghe notti invernali.

Le strade. Il marchese Tanucci, Ministro toscano del Borbone, promise che non ci sarebbe stato nessun paese del Regno delle Due Sicilie privo di strada rotabile. Sono passati centocinquant’anni e più da quel giorno, e abbiamo cinquecento fra paesi e frazioni, da Napoli a Palermo, che ancora sono privi di una modesta rotabile.

Io vorrei pregare chi mi onora di ascoltare, di rivolgere per un momento lo sguardo ad una carta geografica ferroviaria, dove è segnato con linee nere e con linee rosse il tracciato delle nostre strade ferrate. Volga lo sguardo prima in alto e poi in basso, prima al nord e poi al sud: da Napoli in giù vi sono due linee nere, che discendono per il Tirreno ed il Jonio verso Reggio Calabria.

A metà della litoranea tirrena si nota una piccola ferrovia, un breve tronco, a cui è attaccata la città di Cosenza, come ad un pendolo; e che viene chiamato la «ferrovia della morte», perché innumeri furono i disastri per le ascese e le discese ripidissime. Indi si intravvede una ferrovietta a scartamento ridotto, che si inerpica su per il massiccio silano e si arresta stancamente a Camigliatello. Questa ferrovia fu progettata trent’anni fa allo scopo di congiungere il porto di Crotone – che è destinato ad un grande avvenire, se lo Stato si deciderà di attrezzarlo, convenientemente – al porto di Paola, che ha inghiottito miliardi senza che nemmeno un sol metro di diga sia affiorato dalle acque tranquille. Oggi quelle popolazioni silane invocano la continuazione di questo misero tronco ferroviario Mi si dice che fra breve ne andrà in appalto la costruzione, che poi si arresterà a San Giovanni in Fiore.

Dovranno, perciò, trascorrere altri sei lustri, perché la costruzione ripigli il cammino verso Crotone. È la sorte beffarda di questa nostra terra! Ma vi è di più. Vi sono paesi senz’acqua e senza fognature, mentre l’acqua più limpida e più fresca ci scorre sotto il naso. C’è il massiccio Silano, che possiede una ricchezza idrica inestimabile. Il Presidente Nitti, in un suo libro, parlando del massiccio silano, lo definì un «Niagara». Ebbene, vi sono colà tredici fiumi, che scorrono placidamente e stanno in ozio come gran signori. Un giorno, per una calamità – perché le calamità scoprono il Mezzogiorno d’Italia – scese verso giù, verso la Calabria, nella Sila, un grande ingegnere italiano, Angelo Omodeo. Egli vide questi corsi d’acqua tranquilli, ed oziosi; osservò, col suo occhio linceo, che il sottosuolo silano era impermeabile ed ideò i due laghi silani, che danno oggi una massa di energia elettrica imponente.

Io, quando ressi per alcuni mesi il Dicastero dei lavori pubblici, avevo demandato ad un mio compaesano, professore d’idraulica all’Università di Roma, lo studio dello sfruttamento integrale delle acque della Sila. Approvvigionamento di acqua potabile per comuni e per zone rurali; irrigazione di zone agricole; produzione di forza motrice.

Basterebbe la costruzione di altre due centrali e quella del terzo lago, perché l’Italia riscattasse dall’estero, una buona volta, la sua servitù carbonifera. È una miniera inesauribile di carbone bianco, che si offre al Paese, è una immensa risorsa industriale che oltre a dare nuovi impulsi alle officine del nord, faciliterebbe il processo di industrializzazione del sud. Programma massimo, mi si dirà. Ebbene, limitiamoci al minimo.

Onorevoli colleghi, il programma minimo è il seguente: le acque reflue della centrale silana formano un ricco fiume. Queste acque si perdono nell’Ionio. Una ricchezza inghiottita dal mare. Se queste acque fossero raccolte in due serbatoi e venissero incanalate verso il cosidetto Marchesato di Crotone, muterebbero quella plaga feconda e sitibonda in uno dei verzieri più belli d’Italia. È necessario che il Governo rivolga lo sguardo verso le nostre sponde solatie, perché vi troverà risorse economiche di incalcolabile valore.

E troverà ancora risorse ed energie morali. Non abbiamo, laggiù, i comignoli che fumano, né le industrie che arricchiscono. Non abbiamo gli agi e gli splendori di una civiltà opulenta; la nostra vita è chiusa in un pugno: casa e lavoro, due concetti religiosi. Ma il lavoro non è mortificato da deficienze morali e la casa è il focolare inviolabile di severe norme morali. Le quali, tradotte in esperienza di vita, daranno nuove illuminazioni alla nostra terra e nuova forza economica e morale al Paese.

Onorevoli colleghi, vogliate indulgere alla mia passionalità e alle mie accese parole. Io non vi ho formulato oggi una protesta, né ho portato a voi il consueto grido di dolore. Io sento l’orgoglio della terra natia e sento che non debbo scoprire le sue piaghe per stimolare a pietà coloro che hanno il dovere di intervenire. Le mie parole sono soltanto un avvertimento. Ogni tanto si è colpiti da esplosioni di violenza, in Sicilia, Puglie, Calabria. Non addebitatele a nessun partito, perché vi sbagliereste di grosso. Esse rappresentano lo scoppio di una esasperazione incontenibile ed hanno una voce ed un significato: la protesta del Mezzogiorno contro la iniqua ingiustizia storica, che subisce dal giorno dell’unità italica. Questa esasperazione una volta era rappresentata dalle forti correnti emigratorie. Ora tali correnti sono interrotte, ed i nostri lavoratori restano dove nacquero; ma restando dove nacquero formano un esercito, che vorrebbe mettersi in marcia a fianco dei compagni del nord per concorrere, con virile animo, alla ricostruzione della Patria immortale.

Non lasciate a questo esercito segnare il passo. Non lasciate queste braccia inerti. L’inerzia, e l’abbandono sono due terribili consiglieri.

Il nostro Mezzogiorno ha pagato sempre lo scotto delle diverse situazioni politiche italiane. Ha pagato lo scotto in ricchezza ed in sangue.

Si pagava una volta l’aliquota di lire 3,70 per abitante per il debito pubblico e in un momento, quando fu dato un regno al sopraggiunto re, l’aliquota da 3,70 salì a 100 lire per abitante. Oggi raggiunge una cifra astronomica.

Avevamo una ricchezza immensa di spezzati di oro e d’argento: i segni monetari cartacei ci erano ignoti. Ad un certo punto la vendita dei beni dell’asse ecclesiastico rastrellò, in quei tempi, 775 milioni in oro e in argento, e concorse alla formazione di quel latifondo, che è stato ed è la rovina del Mezzogiorno d’Italia.

Avevamo ed abbiamo una situazione fiscale assai strana ed esosa. Non lo dico io, lo dice Maffeo Pantaleoni, il quale non pub essere sospettato di simpatia per i partiti marxisti.

Paghiamo il doppio di ricchezza mobile; pur non avendo redditi industriali. Abbiamo un’imposta fondiaria a carattere fisso, mentre il reddito è a carattere mobile. L’imposta fondiaria rappresenta una sperequazione, come tutte le altre imposte, che incidono sulla terra, dalla quale dovremo ripetere il nostro riscatto.

Avevamo, onorevole Nitti, quei tali rivoli d’oro, di cui nella sua inchiesta sui contadini del Mezzogiorno, e quei rivoli d’oro confluirono ad arricchire il tesoro dello Stato, che il fascismo ha disperso.

Avevamo nelle casse della Banca Italiana di Sconto, di infausta memoria, milioni e milioni di risparmio e la Banca truffatrice li ha polverizzati con la sua bancarotta.

Venne il fascismo, prodotto del nord, rubò a tutti la libertà, ci impose la tirannia. Il discorso di Pesaro, deflazionistico, ha portato danno esclusivamente al Mezzogiorno di Italia, provocando il fallimento di tutti i piccoli Istituti di credito e delle Casse rurali che costituivano una provvida rete economica nelle mani dei contadini.

Indi fu proclamata l’autarchia e le rimesse dei contadini dalle Americhe fronteggiarono i cambi. Oggi la nuova situazione politica, che costituì la nostra cocente speranza per venti anni, ha creato nuovi sacrifizi.

Io vorrei dire al Presidente del Consigliò: tu hai portato la lieta impressione che alla borsa politica di Washington i valori politici internazionali del nostro Paese comincino a quotarsi, ed hai portato con te cinquanta milioni di dollari che, a copertura di una parte delle am-lire, ti ha consegnato il Ministro del tesoro americano.

Ebbene io voglio dirti che su questi milioni di dollari il Mezzogiorno vanta un diritto di prelazione: perché si tratta di una parziale contropartita di beni concreti, che i soldati americani, spendendo am-lire, hanno prelevati dalle risorse economiche del Mezzogiorno.

Dalla Sila hanno asportato migliaia e migliaia di tonnellate di legname: oro zecchino in cambio di carta straccia.

Infine questa situazione ha portato sacrifici di sangue, perché nelle cinque guerre, che hanno insanguinato l’Italia nel trentennio, il contadino del Mezzogiorno non si è mai imboscato. Ha pagato silenziosamente di persona.

Vittorio Emanuele Orlando promise la terra ai contadini; e pur oggi, come ieri, abbiamo assistito al contrasto di un illustre professore, il quale ha posto la sua sapienza e la sua eloquenza in movimento per contrastare quel lodo del Presidente del Consiglio che ancora non si è trasformato in legge.

CONDORELLI. Non ne ho neanche parlato! (Commenti).

MANCINI. E c’è stato, qualche minuto fa, un repubblicano storico, nostro carissimo amico, il quale ha spuntato, pur lui, una lancia contro l’occupazione di qualche iugero di terreno da parte di questi nostri pazienti zappatori, che non hanno mai presentato alla Patria il conto del loro avere, mentre davano generosamente sangue, ricchezza o risparmi.

Arrivati a questo punto, voi potreste dirmi: D’accordo: avete scoperto un mondo, che si ignorava… ma come possiamo venire in aiuto, se la situazione del bilancio è quella che è? Centoventisei miliardi di denaro liquido, ha fruttato il prestito nazionale.

L’onorevole Corbino, or ora, ci ha fatto tremar le vene e i polsi con il suo fatto personale… (veramente il fatto personale era mio che ho per sua colpa aspettato quasi un’ora prima di iniziare il mio discorso) (Si ride). Ma io affermo – a dispetto di Corbino – che è facile risolvere anche il problema finanziario con un poco di buona volontà. Bisogna creare nel Mezzogiorno un ente finanziario, cercare di consorziare il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Cassa di Risparmio di Calabria ed altri istituti, perché il risparmio del Mezzogiorno deve servire a riscattare il Mezzogiorno.

Io comprendo, ma non discrimino, l’atteggiamento della monarchia, la quale aveva interesse che il Mezzogiorno d’Italia rimanesse in uno stato di inferiorità, perché rappresentava una miniera inesauribile di maggioranze governative – gli ascari, come si chiamavano allora – ma oggi no: l’Italia democratica e repubblicana ha un impegno d’onore verso il Mezzogiorno, perché il Mezzogiorno è l’Italia e l’Italia è nel Mezzogiorno; perché democrazia significa abolizione di ogni privilegio individuale di classe o di Regione e Repubblica significa eguaglianza di diritti, liberazione dal bisogno, rispetto alla parola data. (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Perassi ha presentato un ordine del giorno. Se ne dia lettura.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«L’Assemblea Costituente, preso atto delle comunicazioni del Governo sulle condizioni nelle quali è stato firmato il Trattato di pace, afferma che il deposito della ratifica italiana, per la quale è costituzionalmente richiesta l’autorizzazione dell’Assemblea Costituente, costituisce – in conformità con le regole del diritto internazionale – un requisito essenziale per la perfezione e l’entrata in vigore del Trattato».

Perassi, Facchinetti, Conti, Parri, Pacciardi, Bellusci, Martino Enrico, Azzi, La Malfa, Natoli, Della Seta, Sardiello, Camangi, De Mercurio, Santi, Mazzei, De Vita, Bernabei, Dominedò.

PRESIDENTE. L’onorevole Perassi ha facoltà di svolgere questo ordine del giorno.

PERASSI. Il mio intervento in quest’ampia discussione avrebbe avuto esclusivamente il compito di svolgere, in maniera brevissima, l’ordine del giorno di cui è stata data lettura. È un ordine del giorno che, nella nostra ferma intenzione, non è destinato a quella che è la sorte di molti ordini del giorno che si presentano in queste occasioni, quella cioè di essere convertiti, all’ultima ora, in raccomandazione, su desiderio o su invito del Governo. Il nostro ordine del giorno, nella nostra intenzione, dovrà essere sottoposto al voto dell’Assemblea e noi ci auguriamo che l’Assemblea sarà unanime nel fare l’affermazione che in esso è formulata. Ciò premesso, in considerazione del fatto che per ragioni d’ufficio è assente il Ministro degli esteri, e poiché si tratta di una questione particolarmente delicata, che si ricollega ad alcune dichiarazioni fatte dal Presidente del Consiglio e dal Ministro degli esteri, ritengo opportuno di rinunziare, in questo momento, allo svolgimento dell’ordine del giorno, riservandomi di fare una breve dichiarazione quando insisteremo perché esso sia sottoposto al voto dell’Assemblea.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Scoca. Ne ha facoltà.

SCOCA. Onorevoli colleghi; mi occuperò, il più brevemente che mi sarà possibile, della politica finanziaria del Governo.

E stata notata da parecchi oratori la brevità delle dichiarazioni del Presidente del Consiglio su questo tema: ed effettivamente esse sono state sobrie e concise.

Ma in un tema così importante, non è la lunghezza delle dichiarazioni che possa contare, ma piuttosto il loro contenuto. Ora, le linee direttive generali della politica del Governo sono state accennate e l’entrare in maggiori particolari non sarebbe stato forse opportuno, dato il mutamento che si è avuto nella direzione dei due Dicasteri finanziari.

L’unificazione di questi è stato uno degli aspetti esteriori più importanti della recente crisi. Era necessario o non era necessario, era opportuno o non era opportuno, unificare i due Ministeri? È la domanda che alcuni si son fatta ed alla quale hanno risposto con molta perplessità. Indubbiamente necessaria era la unità di indirizzo della politica finanziaria, non essendo concepibile come si possa seguire una direttiva stando al Ministero delle finanze e seguire una strada divergente, o non assolutamente convergente, stando al Ministero del tesoro.

È vero che abbiamo sentito dichiarare dall’onorevole Scoccimarro che mai alcuna divergenza vi era stata fra lui e l’onorevole Corbino; ma dalla narrazione delle vicende del non eseguito cambio della moneta fatta da entrambi è risultato che almeno a questo proposito, che è di fondamentale importanza, in quanto si collega con l’imposta sul patrimonio e con tutta la direttiva della finanza straordinaria, un insanabile contrasto, più o meno apparente, c’è stato.

Era necessaria l’unità di indirizzo. Il problema si poteva risolvere, in astratto, anche senza ricorrere alla unificazione dei Ministeri: o, accogliendo la tesi che mi pare sia stata espressa altra volta dall’onorevole Nitti, considerando cioè il Ministro delle finanze quasi un subordinato di quello del tesoro, oppure mettendo alla direzione dei due Dicasteri due persone che la pensassero allo stesso modo. Ma era difficile trovare un Ministro delle finanze disposto a rimanere in posizione subordinata al Ministro del tesoro; ed era anche difficile, data la composizione tripartitica del Governo e le difficoltà di distribuzione dei portafogli, trovare due uomini di diverso partito aventi le stesse idee e disposti a seguire un’unica direttiva.

Per raggiungere l’unità di indirizzo non vi era dunque altra via che quella di affidare i due Ministeri ad una medesima persona.

Considerando il momento eccezionale della nostra vita pubblica attuale e la gravosità dei problemi da risolvere, non ci si può dissimulare l’onerosità del compito di colui che è diventato titolare dei due Ministeri unificati, e coloro che hanno senso di responsabilità debbono essere al suo fianco per sorreggerlo ed impedire che degli irresponsabili ne minino l’azione.

Mi sembra che per il momento l’unificazione debba considerarsi come una specie di unione personale e che si debba mantenere immutata la struttura amministrativa dei due Ministeri, rimandando a miglior tempo la soluzione definitiva del problema della loro fusione o della loro esistenza autonoma. La separazione, avvenuta appena qualche anno fa, dei servizi e dei ruoli del personale, richiese un notevole lavoro ed il superamento di molte difficoltà; oggi si incontrerebbero difficoltà ben maggiori se si volesse procedere alla rifusione.

Qual è, onorevoli colleghi, la nostra effettiva situazione finanziaria, quali le nostre prospettive e le nostre speranze?

Abbiamo qui sentito due voci autorevolissime, ma discordanti. L’onorevole Corbino, di cui si diceva che fosse molto ottimista quando era al Governo, ha parlato in tono pessimistico. Sostanzialmente egli ha detto, nel suo discorso di qualche giorno fa, che scarse sono le possibilità di aumentare le entrate, che non si può avere nessuna speranza di diminuzione delle spese, e che la situazione di tesoreria è assai grave perché occorrerebbero da 35 a 40 miliardi al mese in più di quelli riscossi mensilmente e in tutto 500 miliardi fino al dicembre 1947.

Egli si è domandato donde tanti miliardi potranno essere ricavati, senza dare una risposta a questo interrogativo.

Abbiamo poi sentito l’onorevole Scoccimarro, il quale in un accurato ed abile di scorso ha detto che il 1947 sarà l’anno del risanamento finanziario. Il quadro che egli ci ha fatto può essere riassunto in questi termini: nel prossimo esercizio avremo 400 miliardi di entrate ordinarie; un centinaio di miliardi ricavabili dall’imposta straordinaria sul patrimonio, sul totale di 400 miliardi di resa prevista per la stessa; un altro centinaio dal primo gettito del divisato riscatto dell’imposta ordinaria sul patrimonio e dai profitti di guerra, di regime e di speculazione. Il resto si dovrebbe procurare con provvedimenti di tesoreria vari, quali obbligazioni speciali per determinati settori, e buoni di imposta collegati con l’imposizione sulla rivalutazione degli impianti industriali.

Il quadro da lui fatto è sembrato di colorazione ottimistica.

Ma, al di fuori, onorevoli colleghi, di ogni pessimismo e di ogni ottimismo, bisogna riconoscere che la situazione, valutata nei suoi termini effettivi, non è una situazione allegra.

L’esercizio 1945-46 recò un disavanzo di 350 miliardi; l’esercizio 1946-47 avrà forse un disavanzo, secondo le previsioni più attendibili, di 500 miliardi. Sono, in complesso, 850 miliardi di deficit in due soli esercizi.

Non è la cifra delle spese che a me pare eccessiva. Nel 1938-39, che possiamo considerare l’ultimo esercizio normale prima della guerra, avemmo circa 40 miliardi di spese. Tenendo conto di un indice di aumento dei prezzi di 25 volte, quella somma corrisponde oggi a mille miliardi. E quello di venticinque è un indice prudenziale, perché l’Istituto Centrale di Statistica lo calcola in una misura maggiore. Quindi, lo Stato oggi spende molto meno di quanto spendeva prima della guerra. I 750-800 miliardi di oggi sono, tenuto conto della svalutazione monetaria, una somma di gran lunga inferiore ai 40 miliardi di allora.

Più eloquente diventa il raffronto fra le spese normali di oggi e quelle dell’anteguerra, perché oggi è rovesciato il rapporto fra spese normali e spese eccezionali. Ragguagliandole al potere di acquisto della lira nel 1938-39, le spese normali previste per l’esercizio 1947-48 equivalgono, secondo i calcoli della Ragioneria Generale dello Stato, ad appena 13 miliardi, contro i 33 del 1938-39.

Che cosa indica il divario? Indica, da una parte la minorazione effettiva di molti servizi pubblici; dall’altra il sacrificio di talune classi viventi di assegni fissi a carico dello Stato, ed in primo luogo dei pensionati, ai quali ebbe già ad accennare l’onorevole Scoccimarro.

Sono perfettamente d’accordo con lui che urge rivedere la loro posizione. Vorrei aggiungere di più. Vorrei dire che quello della revisione della posizione dei pensionati non è soltanto un problema contingente, perché non si tratta soltanto di aumentare l’ammontare della loro pensione con un provvedimento isolato e limitato, ma si tratta di rivedere organicamente tutta la legislazione che li riguarda.

Il trattamento di quiescenza degli impiegati pubblici rimonta ad una legge antica, ad una legge anteriore alla fine del secolo scorso, quando in materia di previdenza si era fatto ben poco cammino. Mentre per altre categorie, che allora non avevano nessuna previdenza, si è fatta parecchia strada, per la categoria dei pubblici impiegati le cose sono rimaste allo stesso punto in cui si trovavano nel 1895.

Abbiamo per esempio lo sconcio – non posso qualificarlo diversamente – che, quando un impiegato dello Stato ha la disgrazia di morire prima che abbia compiuto il ventesimo anno di servizio, lascia la famiglia senza la corresponsione di un minimo di pensione.

Ma questa è soltanto una breve escursione in un campo che non ha una stretta attinenza col tema che mi sono oggi proposto e che richiederebbe un apposito e lungo discorso. Ritorno all’argomento.

Dicevo che le spese ordinarie assommano in realtà a cifra assai minore di quella che si aveva nell’anteguerra e non hanno possibilità di contrazione.

Ciò che mi sembra del tutto inadeguato è la resa delle entrate ordinarie. Insisto sulle entrate ordinarie, perché l’ossatura solida del bilancio dello Stato non può essere costituita che dalle entrate di questa specie: sono esse che assicurano la perenne e sana vitalità della finanza pubblica, e non già le entrate straordinarie, che apportano un sollievo passeggero e possono rassomigliarsi alla cura ricostituente che fa l’ammalato in periodi critici, non al cibo di cui deve sempre nutrirsi l’organismo per vivere.

Le entrate effettive del 1945-46 furono di 133 miliardi. Quelle dell’esercizio in corso, con un andamento crescente che è andato dai 16 miliardi nel mese di luglio ai 24 miliardi e mezzo nel mese di dicembre, ammontavano in totale, alla fine di questo mese, a 125 miliardi. Si può calcolare sul rendimento, nell’intero esercizio, di 280-300 miliardi, sempre che il ritmo continui ad essere crescente. Ma quand’anche ricavassimo 300 miliardi nell’esercizio in corso, si tratterebbe sempre di una cifra esigua, pur tenendo conto della diminuzione attuale del reddito nazionale rispetto al periodo prebellico. Questo significa che la macchina tributaria non funziona a pieno rendimento.

Anche il gettito dell’esercizio prossimo che, per quanto ci ha rivelato l’onorevole Scoccimarro, è previsto in 400 miliardi, è sostanzialmente inferiore al gettito prebellico; ed indica che la pressione tributaria è minore di quella che vi era allora. I circa 30 miliardi dell’anteguerra equivarrebbero oggi a 800-850 miliardi. Poiché si calcola che il reddito nazionale sia diminuito, grosso modo, del 25-30 per cento, una identica pressione tributaria dovrebbe dare un gettito aggirantesi intorno ai 600 miliardi. Io penso che almeno a tale cifra bisogna tendere nei prossimi anni, perché a cifra non inferiore si assesterà il bilancio passivo ordinario. Né è un sogno sperarlo; ma è necessario per il raggiungimento dello scopo che si verifichino certe condizioni.

Anzitutto, occorre, a mio avviso, che si tolgano gradualmente le bardature di guerra e si mobiliti così nuova materia imponibile.

Vi sono molti settori che si potrebbero indicare, ma basta accennare soltanto a quello edilizio. Evidentemente, fino a quando si manterrà il regime vincolistico attuale, non vi è possibilità che aumentino i redditi delle case, e quindi la possibilità, a prescindere da altre considerazioni di carattere economico, che lo Stato possa fare affidamento su questo cespite.

Occorre che si incoraggi, o almeno che non si scoraggi, l’iniziativa privata, indispensabile per la ripresa produttiva, che equivale ad accrescimento degli affari e accrescimento del reddito.

Occorre che sì pongano in efficienza gli uffici e gli ingranaggi degli accertamenti e dei controlli. L’onorevole Scoccimarro ci ha detto come molto abbia fatto in questo campo; ma io penso che ancora molto resti da fare e si debba fare con rapidità. Bisogna mettere in sesto la macchina finanziaria; bisogna mettere in sesto gli strumenti fiscali, perché effettivamente possano dare il rendimento di cui sono capaci.

Occorre infine che si snellisca, per quanto è possibile, prima di affrontare organicamente la riforma, il sistema tributario, liberandolo da congegni che rendono troppo poco, per concentrare l’azione degli uffici sui congegni veramente redditizi. Abbiamo troppe imposte in ordine alle quali, se si fa un calcolo approfondito, deve concludersi che assorbono, per la loro amministrazione, troppa parte del loro rendimento. Senza dire dell’inutile fastidio che recano al contribuente.

Nell’esaminare i cespiti del gettito, si fa una constatazione assai poco confortante. Nella struttura legale del sistema tributario vi è stato qualche miglioramento, come il passaggio di categoria di piccoli agricoltori, commercianti e artigiani. Ma la struttura sostanziale, qual è rivelata dalle cifre, porta a questa non lieta constatazione, che oggi abbiamo una situazione finanziaria più antidemocratica di quella che si aveva prima della guerra.

E ne do la prova. Prima della guerra vi era una certa equivalenza dei tre grandi gruppi di tributi – imposte dirette, imposte sui trasferimenti e tasse sugli affari, ed imposte indirette sui consumi – e vi era anzi una qualche prevalenza del primo gruppo, ossia delle imposte dirette, almeno in confronto del secondo; mentre le cifre rivelateci dall’onorevole Scoccimarro sulle previsioni dell’esercizio 1947-48 alterano questa posizione a tutto svantaggio delle imposte dirette, poiché queste renderanno prevedibilmente solo 93 miliardi, mentre le tasse sullo scambio sono previste in 159 miliardi e le imposte di consumo, compresi i monopoli, in 130 miliardi. Le imposte dirette, quindi, renderanno non molto più della metà del gettito di ciascuno degli altri due gruppi di tributi.

Ciò indica che vi è una resistenza obbiettiva, derivante dalla realtà delle cose, la quale è superiore agli intendimenti ed ostacola anche l’azione di un Ministro, come l’onorevole Scoccimarro, che pur ha teso i suoi sforzi verso una struttura più democratica del sistema.

Vi sono cause transeunti di questo fatto e cause permanenti.

Una causa transeunte è costituita dalla struttura delle imposte dirette, le quali a causa dell’ingranaggio dell’accertamento, protraggono nel tempo il risultato della revisione degli imponibili.

Ma vi è anche un’altra causa più sostanziale, cioè la sparizione o diminuzione di taluni redditi, per effetto della guerra e del conseguente regime vincolistico.

A queste cause transeunti se ne aggiunge una di carattere ineliminabile, la bassezza dei redditi nel Paese a motivo della sua povertà e della costituzione della sua economia, per cui non si può sperare di alimentare seriamente il bilancio senza fare affidamento sulle imposte indirette. Qualunque cosa faremo, le imposte indirette saranno sempre la base del nostro sistema tributario.

Altra causa è l’eccessiva altezza delle aliquote, che irrigidisce lo strumento fiscale e lo rende inoperante. Il successivo elevarsi delle aliquote è un fenomeno che si verifica sempre durante le guerre: quando non è possibile rivedere gli accertamenti e si vuole un incremento delle entrate, si alzano le aliquote. Ma questo sistema, alla lunga, riesce inefficace e dannoso, perché porta alla conseguenza che i redditi non vengono accertati nella loro effettiva consistenza. Gli agenti del fisco ne sono ben consci e confessano che non accertano il reddito vero, ma soltanto un reddito che, compatibilmente con l’altezza delle aliquote, sia, a loro avviso, sopportabile.

Grave inconveniente, questo, che bisogna eliminare, perché oltre a tutto crea disparità di trattamento da caso a caso.

Occorre ridurre, e ridurre drasticamente, le aliquote delle imposte dirette, ed elevare gli imponibili, affinché gli accertamenti si avvicinino alla realtà. Oserei dire che questo rovesciamento dei fattori occorre farlo istantaneamente. Si potrebbe, ad esempio, con un provvedimento legislativo, ridurre le aliquote della categoria B e C1 dell’imposta di ricchezza mobile alla metà, e nello stesso tempo raddoppiare gli imponibili, con la sicurezza che nessuno sarà accertato, neppure con tale raddoppiamento, nella misura effettiva del suo reddito: senza spostare il gettito in atto appresteremmo un mezzo perché gli accertamenti e le revisioni successivi possano essere più aderenti alla realtà.

Occorre poi, a tempo opportuno, capovolgere l’attuale struttura del sistema. Se è vero che, data la povertà del Paese e la bassezza dei redditi, non è possibile non fare affidamento prevalente sulle imposte indirette, bisogna che le imposte dirette reali, che costituiscono la base e dànno la fisionomia del nostro sistema tributario, siano trasformate nel senso che ad esse si sostituisca, in tutto o prevalentemente, un’imposta personale sul reddito globale. La quale imposta personale non dovrebbe avere lo scopo di fornire un impossibile maggior gettito, ma di controbilanciare ed eliminare le ineguaglianze, le iniquità e le ingiustizie che crea l’imposizione indiretta sui consumi.

La sostituzione del criterio della personalità e della progressività applicato al reddito complessivo è necessaria anche per un’altra ragione. Molte volte le imposte dirette reali su singoli cespiti costituiscono solo apparentemente l’applicazione di un principio di giustizia tributaria, perché tali imposte non difficilmente si trasferiscono sul consumatore, e, quando ciò avviene, esse diventano in realtà imposte sul consumo come tutte le altre. E siccome fino a questo momento la scienza non ha saputo trovare un’imposta che si trasferisca di meno della imposta generale e personale sul reddito, è evidente la opportunità della sostituzione di essa alla varietà delle imposte dirette reali.

A questo punto mi domando: vi sono mezzi con i quali si può sperare di aumentare il gettito dei tributi? Si può fare qualche cosa a tale scopo?

Io ritengo che si può anzitutto operare utilmente nel campo legislativo.

Come ho detto che è necessario e urgente ridurre le aliquote delle imposte dirette, aumentando contemporaneamente gli imponibili, così dico che si debbono aumentare le imposte stabilite in somma fissa, le quali non si sono certamente adeguate allo svilio della moneta.

Durante l’anno scorso è stata fatta qualche cosa: per esempio è stata rivista la tariffa delle tasse sulle concessioni governative. Ma quella riforma fu preparata da funzionari, i quali hanno visto aumentare i loro stipendi in misura esigua e non hanno ancora la sensazione esatta di quella che è stata la svalutazione della lira; e forse perciò hanno aumentato la misura della tariffa appena di quattro volte in media, mentre la svalutazione è di gran lunga maggiore.

È necessario soprattutto agire nel campo amministrativo, rendendo efficaci i controlli. Mi riferisco in particolare all’imposta sull’entrata, che nel 1940-41, primo anno della sua applicazione in tutto l’esercizio, rese circa 5 miliardi: se oggi quell’imposta si pagasse effettivamente su tutto quanto è dovuta e nella misura dovuta, dovrebbe rendere parecchio più di cento miliardi, nonostante la riduzione degli affari, perché essa segue immediatamente l’aumento dei prezzi.

Un altro campo nel quale si può agire fruttuosamente è quello in cui lo Stato ha la veste di produttore di merci: bisogna intensificare e migliorare la produzione, fino a sodisfare la domanda. Ripeterei cose abusate, che tanti altri hanno ripetuto, se dicessi che non è certamente confortante il vedere che in qualche luogo si vende forse più tabacco fuori che dentro le rivendite. Occorre che l’amministrazione dei Monopoli si metta in condizione di produrre tutto il tabacco richiesto dai consumatori italiani e migliori la qualità.

Una parola sulla finanza straordinaria.

Tutti siamo d’accordo che si debba istituire e presto l’imposta straordinaria sul patrimonio. Meglio sarebbe stato istituirla subito dopo la liberazione del territorio nazionale, collegandola al cambio della moneta, come voleva Soleri. Non starò a confutare quello che è stato detto contro questa proposizione, perché mi sembra di chiara evidenza che quello fosse il momento più conveniente, anche sotto l’aspetto psicologico. Allora tutti attendevano questo tributo, mentre oggi la posizione morale e materiale è alquanto mutata. Ed il dato psicologico, per non parlare delle mutate condizioni economiche, è un dato della massima importanza per la buona riuscita di un tributo.

Vi sono due tipi di imposta, disse l’onorevole Scoccimarro a proposito dell’imposta straordinaria, ma non disse – o almeno io non l’intesi – quale fosse a suo giudizio il tipo preferibile.

Vi è un’imposta che si riscuote in un breve periodo di tempo, e vi è un’imposta che si riscuote in un lungo periodo di tempo. Del primo tipo fu l’imposta straordinaria istituita nell’altro dopoguerra, la quale si riscosse in un periodo di dieci o di venti anni, a seconda della prevalente composizione mobiliare od immobiliare del patrimonio del contribuente.

Penso che bisogna senz’altro preferire il secondo tipo. Naturalmente, io non accedo all’idea dell’onorevole Corbino, il quale diceva poco prima che l’imposta straordinaria è pur essa una imposta sul reddito, perché non può pagarsi che col reddito. Se arrivassimo a questa conclusione, se considerassimo l’imposta straordinaria sul patrimonio come un’imposta sul reddito, sarebbe meglio rinunziare ad istituirla e risparmiare l’immane lavoro degli accertamenti, potendosi agire o sull’imposta ordinaria sul patrimonio o aumentare in qualche maniera le vigenti imposte sui redditi.

Se l’imposta straordinaria sul patrimonio deve essere qualche cosa di veramente serio, deve essere una leva sul capitale, una imposta che non solo si commisura al patrimonio, ma si paga con la cessione allo Stato di parte di esso. Senza dire che un’imposta straordinaria sul patrimonio, concepita come un’imposta sul reddito, è un’imposta la quale mentre non apporta un apprezzabile sollievo immediato alle necessità urgenti del bilancio, risulta iniqua e ingiusta verso i contribuenti, come risultò iniqua e ingiusta l’imposta straordinaria dell’altro dopoguerra. E questo perché, in un lungo periodo di tempo, il valore della moneta cambia. Può cambiare in meglio; ma più spesso cambia in peggio. Comunque è evidente che chi paga l’imposta quando la moneta ha un certo valore, paga una quantità superiore in confronto di colui che la paga quando la moneta ha un valore minore.

Ammetto che la leva sul capitale, cioè quella imposta straordinaria di un certo rilievo che si riscuote in un breve periodo di tempo, arreca qualche inconveniente, quale il perturbamento del mercato dei valori immobiliari, per il fatto che molti sono costretti a vendere una parte del loro patrimonio per poterla pagare; ma in momenti eccezionali, come quelli che attraversiamo, non mi pare che la considerazione di questi inconvenienti – ai quali si può porre riparo con la ricerca di espedienti adeguati – debba avere tanto peso da farci deflettere da quella che ritengo la giusta linea di condotta.

Collegato col problema dell’imposta straordinaria è quello del cambio della moneta; cambio della moneta che oramai è diventato il tema di tante discussioni più o meno serene, più o meno approfondite, lo spauracchio o la speranza di molti. Sino a questo momento, non sappiamo se esso ci sarà o non ci sarà, perché il Presidente del Consiglio ha detto nelle sue recenti dichiarazioni che sarà deciso definitivamente in proposito in occasione dell’imposta straordinaria sul patrimonio.

Come per detta imposta, anche per il cambio della moneta, in quanto in essa inquadrato, dico che si sarebbe dovuto fare subito dopo la liberazione del territorio nazionale.

Abbiamo sentito accennare, dico meglio, abbiamo sentito discorsi piuttosto lunghi sulle difficoltà che presentava e presenta il cambio. Difficoltà indubbiamente ve ne erano e ve ne sono, né io voglio sottovalutarle. Ma faccio una sola domanda: «Se altri paesi, molti altri paesi, hanno fatto il cambio della moneta, è forse l’Italia in condizioni tanto inferiori ad essi che non possa fare la stessa cosa?».

L’onorevole Corbino poco prima ha detto che egli è decisamente contrario al cambio della moneta e si sarebbe dimesso da Ministro del tesoro se si fosse voluto fare; ma che, indipendentemente da ciò, vi furono delle difficoltà obbiettive che lo resero impossibile.

A me sembra evidente che chi si pone o si trova in questa posizione psicologica, in questo stato d’animo, in questa convinzione, chi ritiene che il cambio della moneta non si debba fare è portato necessariamente a sopravalutare le difficoltà che si frappongono all’operazione.

Quando si dice cambio della moneta si usa forse in una espressione impropria: si fissa l’attenzione sul mezzo e non sul fine. In fondo le difficoltà, se ci sono state e se ci sono, sono difficoltà per il cambio materiale di biglietti contro biglietti. Ma vi è un altro metodo, vi è la stampigliatura. Anche di essa si dice che presenta tanti inconvenienti. In realtà la stampigliatura presenta un solo inconveniente, la possibilità di falsificazioni. Ma che cosa importa questa possibilità di falsificazioni? Nient’altro che la possibilità di una evasione fiscale: evasione fiscale, peraltro, che sarebbe certamente inferiore alle evasioni fiscali che si verificano nelle altre imposte.

Se il cambio della moneta fosse stato fatto dopo la liberazione del territorio nazionale, avremmo avuto due enormi vantaggi: quello di acquisire alla imposizione i biglietti tenuti in deposito dagli arricchiti di guerra, da coloro che hanno fatto il mercato nero, o più o meno nero; e quello di impedire il rientro dei biglietti asportati indebitamente all’estero. Oggi il vantaggio che il cambio della moneta apporterebbe sarebbe di gran lunga inferiore; ma ciononostante (e qui esprimo una mia personalissima opinione) ritengo che esso dovrebbe farsi, sempre nell’ambito dell’imposta straordinaria sul patrimonio.

M’inducono in questo convincimento due ragioni. Vi è in primo luogo una ragione di ordine morale, l’impegno, almeno implicito, preso dal Governo. Non si può dimenticare che l’ordinamento tecnico dell’ultimo prestito, quale che sia il giudizio che se ne voglia dare, fu impostato sul presupposto che il cambio della moneta sarebbe stato fatto, o, per essere più esatti, che tutti i valori mobiliari sarebbero stati assoggettati all’imposta straordinaria sul patrimonio, come risulta dal fatto che ne furono esclusi specificamente e soltanto i titoli di esso prestito. Ciò implicava la necessaria conseguenza che i titoli degli altri prestiti, nonché gli altri valori, sarebbero caduti sotto l’imposta.

Ma soprattutto c’è un’esigenza di giustizia sociale. Se vogliamo che l’imposta straordinaria sia una cosa seria ed equa, essa deve colpire tutte le forme di ricchezze, siano mobiliari o siano immobiliari, e quindi anche la moneta in quanto essa denuncia una capacità contributiva, i depositi, ed i titoli dei prestiti pubblici. In caso diverso essa risulterebbe iniqua, perché si limiterebbe a colpire soltanto i beni immobili, con ingiustificato favore per talune classi di privilegiati.

Ci sono delle difficoltà a dare la più larga base all’imposta, ma non sono da ritenersi insuperabili.

Si potrebbe applicare in un primo tempo un taglio uniforme sia sulla moneta e sia sugli altri valori, salvo a rimborsare a coloro i quali non risulteranno soggetti alla imposta quanto hanno anticipato. La restituzione agli aventi diritto potrebbe avvenire o in un titolo di prestiti già emessi o in un titolo nuovo, oppure in buoni d’imposta liberamente commerciabili.

L’onorevole Scoccimarro ha proposto, come un mezzo, per quanto di scarsa entità, per venire incontro alle necessità urgenti del nostro bilancio, il riscatto dell’imposta ordinaria sul patrimonio.

Mi dispiace che egli non sia presente, perché devo dichiarare – e mi incoraggia ad una franca affermazione del mio pensiero la cordialità dei rapporti intercorsi fra noi durante il tempo in cui fui suo collaboratore al Ministero delle finanze – che sono nettamente contrario a questa operazione. L’imposta ordinaria sul patrimonio non è un’imposta transeunte, non è un’imposta creata in vista della guerra e per la durata della guerra; è un’imposta permanente, un’imposta che deve avere un posto duraturo nel nostro sistema tributario. Ed è un’imposta che ha carattere democratico, in quanto colpisce solo i beni fondati, con esclusione dei beni infondati, e la ricchezza improduttiva; e integra l’imposta complementare sul reddito con uno strumento che assicura un gettito più sicuro e continuo.

Penso, anzi, che l’imposta ordinaria sul patrimonio, adeguatamente riveduta e perfezionata, debba rimanere anche per un’altra ragione: perché sia possibile introdurre nel sistema tributario, in luogo di tante altre imposte inutili e vessatorie destinate a sparire, l’imposta sugli incrementi patrimoniali, non concepita – come certuni vanno dicendo e scrivendo – come uno strumento per scoraggiare il risparmio, ma esclusivamente come un mezzo per colpire gli arricchimenti rapidi ed ingiustificati e, più che tutto, per combattere l’evasione, la vera grande piaga della finanza italiana.

L’imposta sugli incrementi patrimoniali, anche se la denominazione è inesatta, è da me intesa come uno sbarramento scaglionato nel tempo, per costituire una misura controperante alle evasioni, nel senso che non vi andrà soggetto il cittadino il quale, pur avendo incrementato il suo patrimonio, dimostri di aver pagato annualmente sulla ricchezza via via accumulata le imposte normali dovute; mentre, viceversa, vi sarà soggetto il cittadino il quale si trovi dopo un certo periodo di tempo in possesso di una ricchezza maggiore di quella che aveva nel primo momento e non possa dimostrare di aver pagato le imposte dovute annualmente.

Bilancio passivo. È diffusa l’opinione che non sia possibile una contrazione delle spese. Io ho già detto – né rinnego quello che ho detto – che effettivamente lo Stato oggi spende molto di meno dell’anteguerra e che vi sono dei settori in cui è necessario ed urgente che si aumentino gli stanziamenti.

Peraltro ritengo che il bilancio passivo possa e debba essere alleggerito di alcuni carichi straordinari. Ne accenno qualcuno. Vi è il prezzo politico del pane che costa da 80 a 90 miliardi l’anno. Fu abolito dal compianto Soleri, ma, poi, le necessità furono tali che lo si dovette ripristinare. Si tratta di un regalo fatto alle classi abbienti, perché si fa pagar loro un prezzo inferiore a quello economico. Il problema dell’abolizione è certamente difficile; ma, come la maggior parte dei problemi, non è insolubile e bisogna affrontarlo con la volontà di risolverlo.

FACCIO. Bisogna ridurre il prezzo del grano.

SCOCA. Non è questo il problema, siamo in un campo diverso.

Il prezzo politico del pane occorre abolirlo. Bisogna naturalmente dare alle classi meno abbienti la possibilità di aumentare il loro potere di acquisto. Sono allo studio – se sono bene informato – la elevazione dei minimi imponibili per i redditi di lavoro e l’aumento dei sussidi di disoccupazione: è in relazione ed in contrapposizione a questi benefici, che si potrà studiare il problema. Comunque sarà sempre meglio corrispondere una indennità caro-pane alle categorie veramente bisognose, anziché mantenere in piedi il prezzo politico.

Altro settore che va considerato è quello delle aziende industriali dello Stato, quali le poste e le ferrovie. Esse intanto sono aziende autonome, intanto hanno una autonomia nell’ambito dell’amministrazione dello Stato, in quanto sono concepite come aziende industriali, in quanto cioè debbono essere rette con gli stessi criteri con cui un industriale regge la propria azienda. Ora non si concepisce che, a distanza di qualche anno dalla fine della guerra, esse abbiano un bilancio di esercizio in passivo di molti miliardi. Bisogna che si mettano in condizioni da fare sparire il passivo. Non c’entra qui il problema delle ricostruzioni e delle riparazioni; io parlo del bilancio di esercizio e non concepisco come queste aziende, essendo industriali, non si mettano alla pari con le altre di carattere privato, e non riescano ancora a pareggiare le entrate con le spese ordinarie, venendo così a gravare fortemente sui contribuenti. Perché, in sostanza, di questo si tratta. Quando si fa economizzare qualcosa sul prezzo economico a coloro che spediscono lettere o merci, provocando un deficit nel bilancio delle poste o delle ferrovie, la differenza, grava sui contribuenti. Al che si potrebbe aggiungere che, siccome la struttura attuale del nostro sistema tributario è antidemocratica, come ho dimostrato, e cioè le imposte pesano di più sulle classi povere per l’eccessivo peso comparativo delle imposte sui consumi, questa differenza di prezzo viene a gravare sulle classi meno abbienti.

Altro problema grave è quello dell’integrazione dei bilanci degli enti locali da parte dello Stato. Bisogna che si prendano provvedimenti idonei a mettere in condizione tali enti di vivere con i loro mezzi.

Questa è una esigenza finanziaria, in quanto bisogna liberare il bilancio dello Stato da oneri estranei. È una necessità amministrativa, in quanto l’abolizione delle integrazioni costringerebbe gli amministratori ad una maggiore parsimonia: se sanno che non possono ricorrere all’aiuto dello Stato, penseranno bene, prima di affrontare una spesa non coperta da entrata corrispondente. È una esigenza politica, per dare contenuto e sostanza alle autonomie, perché la prima autonomia è quella finanziaria e senza di essa non ci possono essere nemmeno le altre.

Una voce al centro. I Comuni debbono imporre i tributi.

SCOCA. Bisogna apprestare gli strumenti perché i Comuni e le Provincie possano vivere autonomamente. Il problema è allo studio da molti mesi, e si era predisposta una legge che non so perché tarda tanto a venire.

A proposito di sana amministrazione, accennerò ancora – ed ho quasi finito – alla azienda dei monopoli. Per molto tempo prima della guerra la quota industriale fu del venti per cento ed essa non solo bastava a coprire tutte le spese di produzione e di amministrazione, ma c’era di solito anche un supero che veniva versato al Tesoro. Tale quota è stata portata, qualche mese fa, al 35 per cento. Non mi sembra che si possa lodare il provvedimento, perché esso porta su un piano durevole delle difficoltà che bisogna augurarsi siano contingenti e destinate a cessare. Se prima della guerra le spese di produzione erano contenute nella misura del 20 per cento, bisogna fare in modo che si possa tornare a tale misura anche per l’avvenire.

Dopo questa disamina, arida come la materia importa, m’avvio alla conclusione. In principio ho notato come vi siano due correnti di opinioni contrastanti: l’una di ottimismo, l’altra di pessimismo. Io, per temperamento, inclino all’ottimismo e ritengo che le condizioni, quali risultano dalla mia esposizione, sono indubbiamente gravi, ma superabili. Le difficoltà veramente preoccupanti sono quelle del momento attuale e dell’immediato futuro, perché mentre occorre qualche anno per l’adeguamento delle entrate, le spese frattanto non possono essere contratte, o non possono esserlo che in misura scarsa. In questo periodo di congiuntura e di congiunzione bisogna fare ricorso al credito e ve ne è la possibilità, a patto che mettiamo la casa in ordine.

Sempre che diamo la convinzione di avviarci sulla via del risanamento finanziario, il che vuol dire anche risanamento monetario, possiamo fare affidamento sul credito interno ed anche estero. Si tratta di alimentare la fiducia, e ciò si può fare soltanto con una politica seria, chiaroveggente, decisa, unilineare.

Fra i tanti mali che la svalutazione ha portato a tante classi di cittadini vi è per lo meno un beneficio per il bilancio dello Stato. La svalutazione ha ridotto dell’80 per cento il peso degli interessi del debito pubblico, benché durante la guerra lo Stato si sia indebitato in misura molto notevole. Contro quasi sette miliardi dell’anteguerra, abbiamo oggi una spesa di circa 40 miliardi svalutati, che equivalgono ad un miliardo e un quarto di allora. Tali interessi assorbivano alla vigilia della guerra un quinto della spesa totale; oggi ne assorbono appena un ventesimo.

Altro fattore di risanamento è la riduzione graduale delle spese militari. Già nel bilancio 1947-48 queste spese, stanziate in 123 miliardi, rappresentano meno del 20 per cento della spesa totale, mentre rappresentavano il 25 per cento nell’esercizio 1938-39. Ma poiché le fisime imperialistiche di conquista, di espansione e di dominio sono tramontate, e tramontate per sempre, questo capitolo passivo del bilancio si andrà sempre più assottigliando.

Si può quindi avere la certezza che tra qualche anno il nostro bilancio si assesterà, col vantaggio che i due cespiti passivi delle spese militari e degli interessi del debito pubblico non avranno il peso comparativo del passato, anche se ci indebiteremo ancora, come dovremo sicuramente fare. E siccome le entrate indubbiamente raggiungeranno il livello di prima della guerra, quando il nostro reddito nazionale avrà raggiunto il livello di allora, dobbiamo ritenere che la riduzione di quelle spese improduttive o dannose darà luogo ad una rimanenza di entrate, la quale potrà essere impiegata per scopi di benessere, di civiltà e di progresso sociale. Questi devono essere gli obiettivi della nuova Italia rinata nel sistema democratico. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole De Mercurio. Ne ha facoltà.

DE MERCURIO. Onorevoli colleghi, farò brevi rilievi e brevissime considerazioni sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio. L’ora tarda e la stanchezza evidente della Assemblea mi faranno essere molto conciso.

Intendo parlare su di un argomento che non è stato trattato da nessuno dei colleghi che mi hanno preceduto: il risarcimento dei danni di guerra. È un problema di carattere nazionale al quale sono interessati centinaia di migliaia di cittadini.

Io ricordo la dichiarazione resa dall’onorevole De Gasperi allorquando venne composto il primo Gabinetto, il 15 luglio 1946. Egli si espresse testualmente in questi termini: «Il risarcimento dei danni di guerra sarà affrontato con particolare riguardo alle categorie più sprovviste di mezzi ed alle esigenze della produzione industriale, estendendolo anche ai danni della rappresaglia».

Ho dovuto però rilevare, con sommo rincrescimento ed anche con meraviglia, che nelle dichiarazioni successive, rese allorquando vi fu la «piccola crisi» Corbino e in quelle ultime dell’8 corrente, l’onorevole De Gasperi non ha neppure richiamato le dichiarazioni allora fatte. Ora, il problema è così importante nell’interesse nazionale che merita se non profondissimo esame non indicato per il motivo dianzi enunciato, per lo meno un accurato esame.

Noi tutti sappiamo che, allorquando si parla di danni di guerra, bisogna distinguere danni di guerra cagionati alle persone per decesso o mutilazione, danni di guerra agli immobili, danni di guerra alle cose mobili.

La materia è regolata ancora dalla legge del 26 ottobre 1940, una legge ormai superata; superata perché essa era fondata su due presupposti che sono venuti meno: il presupposto che i danni fossero in misura limitata ed il presupposto che questi danni dovessero essere pagati dagli anglo-americani. Ciò non è avvenuto, ed allora bisogna guardare realisticamente la situazione quale essa si presenta.

Debbo rilevare che per quanto riguarda i danni cagionati alle persone, si è trovato il mezzo di venire incontro a questi disgraziati portando nella scia delle pensioni la soluzione del problema.

Per inciso ripeto quanto ieri mi riferiva un collega e cioè che solamente nel distretto del comune di Velletri vi sono ancora 3 mila domande che attendono di essere istruite. Mi dicono alla mia destra che questa è una questione di rallentamento burocratico; ma io intendo fare un esame analitico su tutto quanto possa riguardare la materia.

Dicevo dunque che nel settore immobiliare si è fatto poco, nel settore mobiliare non si è fatto nulla, ma quello che è più grave è che vi è una sperequazione nel trattamento usato in quel settore col trattamento fatto nell’altro settore. Alla legge da me citata del 1940 se ne è aggiunta un’altra, quella del 9 giugno 1945, che riguarda unicamente la materia immobiliare. Attraverso questa legge, fatta evidentemente per facilitare la ricostruzione in favore dei danneggiati, si è data a questa categoria una specie di opzione in questo senso: o il danneggiato di guerra intende usufruire puramente e semplicemente del contributo dello Stato, e allora questo contributo va dal 50 per cento al 75 per cento: rimanendo da stabilire in qual modo il danneggiato possa sopperire all’altro 25-50 per cento per ricostruire la propria abitazione. E allora si è pensato di far ricorso a una vecchia legge, se non sbaglio quella dell’agosto del 1930, che fu messa in essere in occasione del terremoto del Vulture, per cui agli istituti esercenti il credito fondiario venne data la possibilità di concedere mutui fondiari con una ipoteca sui generis, privilegiata, da valere, come diciamo con termine legale, erga omnes.

Ottima idea; però il legislatore ha peccato, e ha peccato duramente nei confronti dei danneggiati, perché nel mentre chi vuole avvalersi del contributo statale del 50 o del 75 per cento può conseguirlo in quella misura, allorquando invece intende ricorrere all’altra forma che lo Stato gli offre, nella forma cioè del mutuo fondiario, quella percentuale gli viene ridotta solamente al 33 per cento e quindi l’ipoteca che deve essere accesa sulla sua proprietà va elevata al 66 o 67 per cento delle spese occorrenti per la ricostruzione e se a tanto si aggiunge che il danneggiato deve pagare gli interessi in ragione del 4 o 5 per cento, a cui va aggiunto ancora il 0.70 per cento per diritto di commissione in favore dell’istituto mutuante, lascio a voi immaginare, onorevoli colleghi, a prezzo di quali oneri impossibili questo disgraziato potrà ricostruire la sua casa. È importante rilevare quindi il trattamento di sperequazione che viene fatto all’una e all’altra categoria, sperequazione che si accentua maggiormente allorquando andiamo nel settore mobiliare.

Qui, come dicevo, non si è fatto nulla, o presso a poco nulla, perché, a prescindere dal rallentamento che si è usato nelle istruttorie delle pratiche (io ricordo che tre anni or sono ho dovuto sostenere una lotta con un intendente di finanza il quale si era fissato in mente che i danni di guerra non dovessero essere pagati e aveva fatto una legislazione per conto proprio), in effetti queste pratiche hanno subito un eccessivo ritardo, fino a quando non si è creduto accedere, sia pure in parte, alle giustissime richieste di queste centinaia di migliaia di cittadini italiani, concedendo loro un acconto su quello che è stato dichiarato alla data dell’evento bellico che ha causato il danno. Ma in quale misura è stato dato questo acconto? È stato dato in base alla liquidazione parziale di quanto venne dichiarato al momento dell’evento bellico. Quindi, con tutte le disposizioni successivamente venute, attraverso le circolari del Ministero del tesoro alle Intendenze di finanza, attraverso tutte le raffinate torture, che sono state inflitte a questi disgraziati, si è arrivati a questa conclusione, che a chi ha dichiarato 800-900 mila lire o un milione di danni alla data del dicembre 1943, sono state corrisposte, nella migliore della ipotesi, 60-70 mila lire della moneta attuale: un acconto che ha tutto il sapore dell’elemosina.

Ora è evidente, onorevoli colleghi, che non vi è nessun raffronto fra il trattamento che ancora oggi viene eseguito nei confronti di chi ha avuto un danno in sede mobiliare rispetto a chi lo ha avuto in sede immobiliare. E mentre lo Stato ricostruisce oggi l’abitazione, al valore attuale, con i prezzi odierni e quindi dà quasi un riconoscimento di quella che è oggi la svalutazione della moneta, ciò non avviene in sede mobiliare. Questo trattamento sperequativo è così evidente che il Ministro del tesoro e delle finanze non può non prendere in seria considerazione quanto io dico in questo momento.

Mi si può rispondere: in qual modo lo Stato potrà far fronte a questi suoi impegni? È giusto; io ricordo però che ieri un autorevole oratore della Democrazia cristiana, l’onorevole Cappi, ha detto una cosa che mi ha fatto molto piacere. «Le conseguenze della guerra devono pagarle i ricchi».

Possiamo fare benissimo nostra la dichiarazione. Ma in qual modo? Io, pensavo in un primo tempo – la mia era non una illusione, ma un’idea profondamente maturata – di fare appello ad un gesto di umana solidarietà, di applicare una imposta specifica nei confronti di tutti i cittadini, in relazione appunto ai danni di guerra, tenendo presente la loro entità.

Non sappiamo quanto è stato distrutto in sede immobiliare; si parla di un milione e 672.000 vani, completamente distrutti, e di 4 milioni 165.000 vani danneggiati. Mancano dati precisi per quanto riguarda i danni in sede mobiliare; però, complessivamente essi possono ascendere a circa il 15,18 per cento del patrimonio mobiliare nazionale.

Presidenza del Presidente TERRACINI

Io penso che tutti debbano concorrere ad un atto di solidarietà umana nel campo nazionale.

Vi sono città, larghe zone che sono uscite indenni dal cataclisma che si è abbattuto sul Paese: sarebbe illogico, antisociale che queste zone-oasi non dovessero dare un maggior concorso alla ricostruzione del Paese. Tenendo per base il criterio di giustizia distributiva al quale ho fatto cenno dianzi, dicevo che avrei voluto chiedere che il Governo applicasse un’imposta specifica avente per causale l’oggetto dei danni di guerra, da imporsi a tutti i cittadini in ragione del maggiore o minor onere sopportato nell’evento bellico.

Ma se tale suggerimento poteva sodisfare il senso morale e imporsi all’attenzione del Ministero competente, certamente avrebbe trovato non lievi difficoltà per la sua pratica attuazione, per cui ritengo necessario rivolgere in subordinata una raccomandazione calda, che non dev’essere presa come una raccomandazione a sfondo etico, ma formale, perché il Governo dichiari esplicitamente in qual modo intenda far fronte ai suoi impegni verso i danneggiati della guerra. Raccomandando ancora che la istituenda imposta progressiva sul patrimonio tenga in doveroso conto in senso attivo e passivo di quei contribuenti che alla guerra hanno pagato un minor contributo, ai fini della capacità tassabile.

Sarà opportuno che frattanto, in attesa della liquidazione finale, venga corrisposto ai danneggiati di guerra nelle cose mobili un anticipo non inferiore almeno al 70 per cento dei danni accertati e che comunque la liquidazione finale, data la svalutazione della moneta, venga effettuata non in base alla denuncia, ma sul valore determinato all’atto della liquidazione stessa e, per quanto riguarda la ricostruzione degli immobili, siano estesi a coloro che intendono giovarsi dell’operazione creditizia gli stessi vantaggi che hanno quelli i quali intendono giovarsi del solo contributo da parte dello Stato, con un concorso sul pagamento degli interessi.

Attendo che il Governo dia precise assicurazioni in merito, e quando faccio questa richiesta, la richiesta cioè di una formale legislazione che sia più aderente alle effettive necessità e alla risoluzione integrale del grave improrogabile problema, io lo faccio soprattutto a nome delle popolazioni meridionali e di quelle della Sicilia che hanno sopportato i maggiori oneri della guerra, e del cui desiderio unanime io mi rendo interprete.

Farò altre due considerazioni, sempre nel campo economico, ed è perciò che continuo a rivolgermi al Ministro del tesoro e delle finanze.

Vi è un problema importante per il Mezzogiorno, un problema specifico per cui a suo tempo io ho fatto anche un’interpellanza con richiesta di risposta scritta: è il problema dell’amministrazione del Banco di Napoli. Il Banco di Napoli, come tutti sanno, oggi ha un’importanza che non è solamente meridionale; ma per la sua vasta rete di filiali in Italia e di corrispondenti all’estero assolve anche ad una funzione veramente rilevante non solamente nel campo meridionale ma in quello nazionale.

Il Banco di Napoli in questo momento non ha un’amministrazione efficiente.

L’attuale commissario straordinario del Banco fu nominato dal Duca di Addis Abeba nel 1943, ed è ancora in queste condizioni di precarietà.

Io chiedo al Governo ed al Ministro delle finanze e del tesoro che si venga subito incontro a questo bisogno ormai indifferibile del Banco di Napoli, che gli venga data un’amministrazione efficiente, la quale possa riportare il Banco, questo glorioso istituto, a quei fastigi, ai quali lo aveva portato un grande meridionale, Nicola Miraglia.

Un altro breve rilievo, anzi una segnalazione al Governo.

Mi è stato riferito – e lo cito, direi quasi, per dovere di coscienza – che l’A.R.A.R., questa azienda che noi meridionali definiamo un «carrozzone», in questo momento ha in giacenza nei suoi depositi, a Roma ed a Napoli, diecine di quintali, se non forse tonnellate, di medicinali e di materiali fotografici e radiofotografici. Se si pensa che oggi un tubetto di aspirina si paga 150 lire, mentre una pastiglia acquistata in quella sede verrebbe a costare pochi centesimi, è chiaro ed evidente il motivo per cui questa merce resta lì a deperire e non viene immessa al pubblico consumo.

Noi sappiamo altresì che gli ospedali non hanno materiale radiofotografico, il quale viene acquistato a prezzo di ultra-affezione, mentre vi sono forse tonnellate di questo materiale che si perdono.

Ed allora si vuol far perdere, penso, artatamente questo materiale, perché un bel giorno noi sapremo, leggeremo, sussurreremo, mormoreremo qui e fuori di qui, che è stato portato un campione di questa merce deteriorata e che quindi tutta la partita è stata venduta per licitazione privata ad un basso prezzo a Caio, Tizio o Sempronio.

Richiamo l’attenzione (l’A.R.A.R. è sottoposta a controllo governativo) perché si facciano questi accertamenti e ci si dica quale esito abbiano dato.

Avrei quasi finito, se non dovessi fare due brevi accenni: in materia di lavori pubblici ed in materia di leggi per il consolidamento della Repubblica.

Lavori pubblici. Prestando fede alle fantomatiche erogazioni di fondi fatte con tanta buona volontà dal Ministro del tempo, onorevole Romita, noi staremmo benissimo in tutte le provincie.

Dolorosamente i fatti non hanno seguito le parole.

Vi cito un caso che riguarda specificamente la mia provincia.

Per i lavori a sollievo della disoccupazione, sulla carta venivano dati un miliardo e 550 milioni.

Allorquando andammo alla riunione, perché invitati dal prefetto di Avellino – l’amico Scoca è buon testimone – apprendemmo che il miliardo e 550 milioni si era ridotto a 500 milioni; facemmo un po’ il viso amaro; in ogni modo era sempre qualche cosa!

Ma nemmeno i cinquecento milioni vennero dati: in una prima erogazione ne vennero dati solamente ottanta, elevati successivamente a poco più di 180-190. Ora, se lo Stato è in condizione di poter far fronte a questo impegno, allora va bene; ma illudere con promesse che poi non possono essere mantenute, non mi sembra serio. Quando si promette o si promettono dei lavori o qualsiasi altra cosa che viene da parte del Governo, deve essere, per serietà, mantenuta. Quando non si è in grado di adempiere ai propri impegni, non si governa!

Un breve rilievo per quanto riguarda le leggi di consolidamento della Repubblica. Se ne è già ampiamente dissertato e discettato, e quindi non avrei bisogno di aggiungere altre parole. Ma devo citare anch’io l’argomento perché sono un meridionale ed ho il dovere, appartenendo al gruppo del partito repubblicano, di far presenti anomalie che tuttora si verificano nel Mezzogiorno, e non solo nel Mezzogiorno. Devo anche citare, prendendo lo spunto da quanto diceva l’amico Pacciardi giorni or sono per quanto si riferiva all’allora Ministro della guerra Facchinetti, che la Repubblica cioè cominciava e finiva nel suo Gabinetto, devo dire all’Assemblea che sino a quattro mesi or sono in alcuni Ministeri vi era ancora il ritratto di Umberto II appeso alle pareti. E l’onorevole Cingolani, che è qui presente, sa che un giorno al suo Ministero dovetti insorgere, e a momenti mi colluttavo con un maggiore addetto all’Ufficio ispezioni – se non sbaglio – o all’Ufficio disciplina, perché non solo si ostinava nel voler mantenere il quadro al suo posto, ma addirittura insorgeva contro di me perché chiedevo che fosse tolto. Dovetti ricorrere all’amico Cingolani perché quello sconcio venisse eliminato.

E che cosa dire di quello che avviene da Napoli in giù? Io non sono per le leggi di eccezione, ma ogni Stato ha il diritto e il dovere di difendersi e lo Stato repubblicano si deve difendere, anzi si deve consolidare. Motivo per cui è assurdo pensare che tuttora a Napoli siano esposti dei fogliacci, sui quali si cerca di avvelenare artificiosamente la pubblica opinione con ricordi nostalgici e col ritorno di un re che non ritornerà mai più.

BENEDETTINI. Durante la monarchia, si lasciava esporre il ritratto di Mazzini.

DE MERCURIO. Non è la stessa cosa. Non vi vietiamo di essere monarchici, ma vi vietiamo di dire menzogne. Voi non potete scrivere che la monarchia un giorno ritornerà: è una vostra speranza, non una certezza.

BENEDETTINI. Ma ne avete scritte tante voi altri prima del 2 giugno!

DE MERCURIO. Allora vi era la tregua istituzionale, ma oggi lo Stato è repubblicano.

BENEDETTINI. Ma allora c’erano anche delle leggi, che non erano rispettate.

DE MERCURIO. Seguite ora le leggi e rispettatele. Oggi la Repubblica è una libera affermazione dei cittadini.

Vediamo esposte queste fotografie, le quali sono in antitesi con quello che è il sentimento invalso oggi nell’opinione pubblica.

BENEDETTINI. Esagerato!

DE MERCURIO. Esagero per lei, non esagero per me!

Ed ho finito, onorevoli colleghi, però debbo richiamare l’attenzione del Governo ancora su un altro dato di fatto. Nell’Italia meridionale ancora non mi risulta che sia stata fatta una circolare ai prefetti della Repubblica, perché siano rimosse le scritte monarchiche e le fotografie degli ex reali nei comuni. Noi ancora, passando per le strade, vediamo delle scritte che offendono il sentimento della maggioranza degli italiani.

BENEDETTINI. Ma non offendono! È quello lo spirito. Dovete persuadervene.

Una voce a destra. Il popolo meridionale è in prevalenza monarchico.

DE MERCURIO. Io chiedo che il Governo, il quale ha dato assicurazione di voler fare sul serio le leggi per il consolidamento della Repubblica, cominci almeno da un minimo: faccia una circolare ai Prefetti. (Applausi a sinistra – Commenti).

 

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a lunedì.

Desidero avvertire gli onorevoli colleghi che lunedì darò la parola secondo l’ordine di iscrizione e che gli assenti decadranno senz’altro dal diritto di parlare.

Interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. È stata presentata, con richiesta di risposta urgente, la seguente interpellanza dagli onorevoli Mastino Pietro, Lussu, Mastino Gesumino, Chieffi:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dei lavori pubblici, per sapere se intendano, e quando, mantenere le promesse tante volte fatte alla Sardegna di provvedere all’esecuzione dei lavori pubblici, assolutamente necessari per le sue elementari esigenze e per lo sviluppo delle sue ricchezze naturali (strade, acquedotti, ecc.) ed in modo speciale la messa in efficienza dell’Ente Flumendosa».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Chiedo che sia discussa insieme con analoga interpellanza già presentata dallo onorevole Mannironi e da altri.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge.

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere – in relazione al punto terzo della risposta scritta 177-4.4.2-LD, del 15 gennaio 1947, a una precedente interrogazione, che si trascrive:

«In considerazione delle disposizioni di cui sopra, non è stato chiamato alle armi alcun cittadino od unico sostegno di famiglia, tranne che l’interessato abbia omesso di fare presente o di documentare tempestivamente la propria situazione» e «constatato che un numero non trascurabile di cittadini residenti sia in montagna che in campagna o in piccoli paesi ove la negligenza di qualche segretario comunale non ha portato a conoscenza del pubblico la disposizione contenuta nel punto secondo di detta risposta, si è presentato alle armi ed è tutt’ora alle armi – se non sia logico e, più che logico, umano, prendere in considerazione le eventuali domande di esonero che verranno presentate dagli interessati, in considerazione che i suddetti hanno già pagato la negligenza degli altri o la loro ignoranza della legge con più di sei mesi di servizio militare.

«L’interrogante sarebbe sorpreso di qualsiasi considerazione che si opponesse a tale invio in congedo. Mantenere ancora alle armi coloro che di dovere e di diritto dovrebbero rimanere a sostegno della loro famiglia, sarebbe un atto di ingiustizia e di parzialità. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Vischioni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non ritenga giusto riportare a 70 anni il limite di età per il collocamento a riposo dei professori medi assunti prima del 1935, per i quali la legge 24 aprile 1935, n. 585, abbassando per tutti i professori medi il detto limite di età da 70 a 65 anni, veniva a modificare a loro danno il contratto d’impiego vigente all’atto della loro entrata in servizio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bertini»

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non intenda dare disposizioni e promuovere le misure necessarie, affinché:

1°) le provvidenze, di cui al decreto-legge 19 ottobre 1944, n. 301, a favore dei dipendenti statali non di ruolo che non ottennero la sistemazione in ruolo, perché non iscritti al partito fascista, siano analogamente estese a tutti coloro che, pur essendo nel ruolo degli insegnanti elementari, non furono ammessi per motivi politici ai concorsi per direttore didattico espletati nel passato, sfociando in tale grado la carriera dell’insegnante elementare;

2°) sia sollecitato (nel caso non fosse possibile ottenere quanto sopra) il concorso speciale per titoli riservato a coloro che per motivi politici e razziali furono esclusi dai concorsi espletati nel passato, come un provvedimento legislativo, già in corso di approvazione sin dal novembre 1945, autorizzava a fare il Ministero della pubblica istruzione, affinché possa finalmente avere inizio, anche nel campo direttivo, quella opera di ricostruzione, che il bene della scuola e la giustizia reclamano da troppo tempo;

3°) sia data la precedenza assoluta ai concorsi per titoli per la sistemazione nel ruolo direttivo ai perseguitati politici in possesso dei requisiti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pera».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere i motivi per i quali:

  1. a) non si è ancora provveduto ad adeguare al costo della vita le pensioni di fame che vengono attualmente corrisposte agli invalidi ed ai pensionati della Previdenza sociale, in una misura che varia da un minimo di lire 560 ad un massimo di lire 1200 al mese;
  2. b) non è stato concesso alla stessa categoria il premio della Repubblica. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro delle finanze e tesoro, per sapere se e quando avranno cura di disporre che sia ripristinato, con opportuni aumenti proporzionati al costo della vita, il sussidio ai sinistrati della provincia di Chieti (che conta 44 comuni distrutti o semidistrutti dalla guerra), inspiegabilmente soppresso dall’aprile 1946. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della difesa e delle finanze e tesoro, per sapere se e quando si decideranno ad apportare congrui, ragionevoli aumenti, adeguati al costo della vita, ai sussidi per i congiunti dei militari, stabiliti, attualmente nella misura, addirittura risibile oltreché inumana, di lire 13,60 alla moglie, di lire 3,40 ad uno dei genitori, di lire 5,10 per ogni figlio, più una indennità «caropane» di lire 95 al mese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e tesoro, per sapere se i danneggiati di guerra debbano ormai rassegnarsi – di fronte all’assoluta inerzia del Governo – a deporre ogni speranza di conseguire l’indennizzo cui hanno diritto. Si rifletta che alla istruttoria delle 140.000 domande di risarcimento per la sola perdita di mobili e beni domestici in genere, presentate alla Intendenza di finanza di Chieti, attendono soltanto 20 impiegati e che finora sono stati versati esigui acconti ad appena 12.000 richiedenti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per chiedere che intervenga con estrema e sollecita energia presso la prefettura di Udine al fine di ottenere che sia dato immediato corso alla decisione di provvedere alla ricostruzione della carriera del segretario del comune di Sedegliano, Ettore Fortunati; e di impedire in via assoluta che la decisa riassunzione in servizio nello stesso comune dello stesso segretario sia frustrata, prima della ricostruzione della carriera, da trasferimenti prefettizi, per presunti motivi di ordine pubblico, a un comune di grado VII.

«Gli interroganti protestano energicamente contro simili tentativi compiuti in dispregio di ogni senso di giustizia, che rivelano spirito di bassa faziosità nei confronti di un funzionario sol perché si tratta di persona che ha partecipato alla lotta antifascista e al movimento di resistenza; dichiarano che non intendono accettare eventuali «fatti compiuti» e che, se il Ministro dell’interno non provvederà come deve provvedere, porteranno il dibattito all’Assemblea Costituente. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Dozza, Grazia».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere la sorte di un centinaio di ufficiali italiani tenuti prigionieri in Jugoslavia e fin dai primi di gennaio 1947 riuniti nel campo di Versac e indi smistati, parte al campo di Ulsac, nei pressi di Belgrado, e parte al campo di Firoli (Spalato); questi ultimi dal 4 gennaio sono a Spalato in attesa d’imbarco.

«Ciò per rispondere alle famiglie dei prigionieri, che hanno fatto pervenire al Governo e ad alcuni deputati, numerose lettere, pregando di interessarsi della sorte dei loro congiunti e di provvedere al loro sollecito rimpatrio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteo Matteotti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per sapere se, nell’attuale tregua dei salari e dei prezzi, l’improvviso decreto che, pur essendo giustificato per le fabbricazioni posteriori, applica immediatamente l’aumento indiscriminato del 65 per cento sui prezzi, già decuplicati nel 1946, di tutti i medicinali esistenti, coi relativi margini di guadagno, nei magazzini e nelle farmacie d’Italia, non si risolva in un sopraprofitto netto del 50 per cento (detratte le spese di trasporto e di recipienti, accollate finora ai consumatori) e se il medesimo debba essere incamerato dai proprietari come plusvalore o sopra guadagno, oppure avocato – previ rigorosi accertamenti – allo Stato (analogamente ai sopraprofitti di guerra e di regime), o ai comuni, a sollievo delle enormi spese sostenute per pagare i medicinali e le cure mediche ai numerosi iscritti nell’elenco dei poveri. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteo Matteotti».

 

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere le ragioni per le quali non si sia ancora provveduto alla ricostruzione del ponte sul Carapelle, distrutto durante la guerra, la cui interruzione allunga e rende difficile il traffico tra il nord e le provincie meridionali. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Grassi, Vallone».

 

«Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro della difesa, per sapere se – tenendo conto del contributo che gli ufficiali di complemento hanno dato nella lotta di liberazione, dopo aver assolto al loro duro dovere in guerra – intenda dare adeguato riconoscimento agli ufficiali di complemento dei quattro gruppi di combattimento italiani che, dopo lo scioglimento del C.I.L., entrarono in azione sul fronte, che si era arrestato alla linea gotica, concedendo:

1°) la qualifica di volontari della guerra di liberazione, con anzianità relativa al giorno in cui ciascuno si trovò a combattere contro i tedeschi;

2°) il rimborso delle somme corrisposte alle famiglie dalla pseudo repubblica di Salò e successivamente trattenute a fine guerra;

3°) un premio di smobilitazione, in relazione al numero di anni di servizio prestati;

4°) possibilità concrete di sistemazione nella vita civile o nei Corpi armati dello Stato (in quest’ultimo caso, riconoscendo lo stesso grado con cui gli ufficiali vennero congedati).

«Giacchèro».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta nell’ordine del giorno, qualora il Ministro interessato non vi si opponga nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 19.15.

Ordine del giorno per la seduta di lunedì 24.

Alle ore 15:

  1. – Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
  2. – Esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

VENERDÌ 21 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XLIII.

SEDUTA DI VENERDÌ 21 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE PECORARI

INDICE

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Costituzione di una Commissione:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Cappi                                                                                                                 

Giua                                                                                                                  

Targetti                                                                                                           

Condorelli                                                                                                      

Presentazione di un disegno di legge:

Gullo, Ministro di grazia e giustizia                                                                   

Presidente                                                                                                        

Interpellanza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste                                                    

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste                                                    

Interrogazioni e interpellanze (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Martino Gaetano.

(È concesso).

Costituzione di una Commissione.

PRESIDENTE. Comunico che la Commissione speciale, da me nominata per mandato dell’Assemblea, in seguito alle proposte dell’onorevole Natoli, ha proceduto stamane alla sua costituzione, nominando Presidente l’onorevole Rubilli, Vicepresidente l’onorevole Natoli, Segretario l’onorevole Bozzi.

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

È iscritto a parlare l’onorevole Cappi. Ne ha facoltà.

CAPPI. Parlo a nome del Gruppo della Democrazia cristiana, il quale – credo che la notizia non recherà molto stupore – approva le dichiarazioni del Governo e voterà la fiducia. È anche però notorio, e fu ricordato in quest’Aula, che il Gruppo seguì con vivaci discussioni lo svolgersi e il risolversi della crisi e non sempre i pareri furono concordi: segno evidente di vitalità e di democrazia. Anche di queste discussioni dirò con molta schiettezza, senza le ambagi e le cautele che sono tante volte proprie dello stile parlamentare; e ciò perché io sono nuovo in questa Aula e guardo – né credo che sia male – più al Paese che alla Camera. Del resto, è una condizione nella quale ci troviamo molti di noi, che o la giovinezza o la virilità abbiamo forzatamente vissuto lontano dalla vita pubblica, esuli oltre i confini o esuli in patria; e di questo non ci doliamo, perché ciò accadde per non aver piegato. Siamo fieri, come è fiero il soldato degli anni che ha speso combattendo una giusta guerra. Però, prima di parlare della crisi e di altre cose, debbo spendere una parola per ciò che riguarda il Trattato di pace. Non l’avrei spesa se, uno o due giorni fa, un nostro collega non avesse con molto impeto criticato l’atteggiamento del Governo su questo punto. Anche su questo punto, il Gruppo della Democrazia cristiana ha discusso, e non è un mistero che vi furono anche autorevoli dissensi. Ma io credo che la critica sia dipesa da un’errata visione del problema. Siamo stati tutti vittime di una concezione che dirò privatistica del diritto, secondo la quale la firma è l’atto conclusivo, impegnativo, di un rapporto giuridico.

Questo non è nel diritto internazionale: nel diritto internazionale – e sono concordi gli autori nostri e, ciò che più importa, gli autori recentissimi di Francia, d’Inghilterra e d’America – le parti non sono impegnate dalla firma. La firma fa ancora parte delle fasi formative e preliminari del Trattato, il quale diventa impegnativo per lo Stato solo quando intervenga l’approvazione o la ratifica. Né l’obiezione dell’onorevole Bordon può valere. Si dice che con la ratifica dei quattro Grandi (io li chiamerei «potenti», che non è la stessa cosa) il Trattato diventa esecutivo. È vero. Ma vi è questa differenza abbastanza sostanziale: finché esso non è approvato nelle forme costituzionali dall’altro Stato, rimane un atto unilaterale; lo si esegue come si esegue un atto di forza. Dal che discende una conseguenza giuridica chiara ed importante: se lo Stato che non lo ha approvato resistesse al Trattato, non potrebbe essere accusato di violare un contratto.

RUSSO PEREZ. Senza firmarlo, il Trattato sarebbe stato anche più unilaterale.

Una voce dal centro. Questa è una frase che non significa niente.

RUSSO PEREZ. Per me significa molto.

CAPPI. Non so concepir gradi nell’unilateralità. Se il collega vuole, porterò i testi in lingua francese e in lingua inglese. Ad ogni modo, la critica mossa al Governo di avere defraudato l’Assemblea dei suoi diritti per non avere portato innanzi ad essa la questione della firma non mi pare fondata. Vi è ancora tra gli italiani l’abitudine alle parole grosse. Proprio dalla destra si è parlato, spero per celia, di colpo di Stato quando il nostro Vicepresidente, onorevole Conti, tolse la seduta. Riserviamo queste parole grosse a fatti più importanti. Per esempio, a quanto accadde in quest’Aula il 3 gennaio 1925.

Ora pare a me che il Governo sia da approvare per la linea di condotta seguita in merito al problema della firma. Dall’atteggiamento dei vari partiti – è inutile nasconderlo – già si sapeva che la maggioranza dell’Assemblea avrebbe approvato l’apposizione della firma; e se così fosse avvenuto, non dico che l’Assemblea sarebbe stata, giuridicamente, non più libera di negare l’approvazione, ma è evidente che un certo vincolo, un tal quale inceppo a questa libertà vi sarebbe stato, se la firma fosse stata apposta non soltanto sotto la sola responsabilità del Governo, ma in seguito alla approvazione, dopo apposita discussione, da parte dell’Assemblea.

E veniamo alla crisi. Fu necessaria, fu utile? Segnò una vittoria dell’onorevole De Gasperi, e quindi del partito che egli impersona, o fu uno scacco cocente?

Le opinioni sono diverse. Degli avversari, chi ha parlato di vittoria strepitosa, chi di scacco.

Le cose, secondo me, stanno così. Che la crisi fosse necessaria, o per lo meno opportuna, mi sembra evidente, perché la situazione politica italiana era cambiata dopo il ritorno dell’onorevole De Gasperi dall’America. Erano intervenuti fatti nuovi, dei quali non si può negare l’importanza. Cerano state le dimissioni dell’onorevole Nenni. Un nuovo partito, e notevole, era sorto. Vi era stato un atteggiamento preciso dei repubblicani. E vi era in tutto il Paese un desiderio di chiarificazione, vi era quel desiderio di cose nuove, rerum novarum cupido, che è caratteristico dei momenti di disagio e che il poeta ricordava parlando dell’ammalato il quale «…con dar volta, suo dolore scherma».

Era un dato psicologico che ha la sua importanza. Quindi, la crisi, a mio avviso, fu opportuna. Quali risultati ebbe? Risultati tecnici, indubbiamente; questi furono riconosciuti da quasi tutte le parti dell’Assemblea: unificazione dei Ministeri militari, delle finanze e del tesoro. Il risultato forse più notevole, sebbene meno appariscente, fu quello di aver sollevato il Presidente del Consiglio dal Dicastero dell’interno ed aver limitato la sua attività alla Presidenza, rendendo così possibile una più energica azione direttiva e coordinatrice dell’opera del Ministero. I risultati politici furono inferiori a quelli che ci eravamo proposti. È bene dirlo schiettamente; ma furono inferiori perché? Perché, per loro particolari ragioni, specialmente due partiti ritennero di non far parte della compagine governativa. E che l’intervento di questi due partiti potesse essere utile, lo ha riconosciuto l’onorevole Togliatti, quando ha detto che sarebbe stata desiderabile una concentrazione di tutte le forze democratiche.

Ho accennato al Partito repubblicano, al Partito socialista dei lavoratori italiani; l’onorevole Togliatti accennò ad un altro partito, accennò all’onorevole Molè. Ora, l’onorevole Molè, se non sbaglio, fu invitato a salire a bordo, ma non volle, o il suo partito non volle. E perché noi volevamo quello che si è chiamato allargamento della compagine ministeriale? Lo volevamo appunto per rispondere a quella esigenza che fu tante volte ripetuta e che è una esigenza giusta, profondamente sentita nel Paese, che cioè il Governo sia più omogeneo ed abbia un’efficienza di azione maggiore. Quando questi altri partiti si rifiutarono di entrare nel Governo, il nostro Gruppo si propose le varie alternative, le varie soluzioni. Fare un Ministero con le destre, con tutte le destre? (perché altrimenti non avremmo avuto neanche quella esigua maggioranza che avrebbe potuto consentire la vita, anche di un giorno, del Ministero). Questo non sarebbe stato opportuno perché, per quanto dal 2 giugno in poi siano avvenuti cambiamenti nell’opinione pubblica e nel rapporto di forze fra i vari partiti, non è possibile affermare che sia avvenuto tale rovesciamento di posizioni da giustificare un diverso schieramento dei partiti al Governo. Fare un Governo da soli? Questo ce lo siamo proposto, ma anche questo Governo, per vivere stentatamente, avrebbe dovuto appoggiarsi sui voti di alcuni, anzi di tutti i settori della destra. Ciò non avrebbe risposto alla situazione politica del Paese ed avrebbe – non ce lo siamo nascosto – potuto gettare dei semi di discordia, avrebbe potuto costituire un pericolo per l’ordine pubblico. Si è detto giustamente da quella parte (destra) che codesto minacciare e paventare disordini non è democratico; ma la politica deve guardare la realtà quale è, non quale dovrebbe essere; e la realtà effettiva è che a sei mesi di distanza dal 2 giugno – quando ci troviamo ancora in un clima un po’ arroventato – un Ministero formato solo dalla Democrazia cristiana, con l’appoggio esclusivo della destra, compresa anche la parte monarchica, avrebbe indubbiamente scatenato nel Paese gravi agitazioni. Ed allora vi fu fra di noi chi pensò che fosse opportuno per il nostro Partito rinunciare al mandato e lasciar libera via ad un Ministero tutto di sinistra. Anche qui però vi erano, secondo noi, gli stessi pericoli. Un Ministero esclusivamente di sinistra non avrebbe corrisposto alla situazione politica del Paese e avrebbe potuto provocare quei disordini ai quali ho accennato poc’anzi.

Vi era, ripeto, qualcuno di noi che lo desiderava, e lo desiderava, lo dico schiettamente, nell’interesse del Partito, perché alcuni osservavano, ed in linea di fatto non avevano torto, che, insomma, questo nostro Partito, stando al Governo, si logora.

Da una parte, tutti i provvedimenti impopolari che era costretto a prendere erano addebitati ad esso, erano addebitati al suo capo contro il quale non si risparmiavano sanguinose accuse. Dall’altro canto, vi era una certa parte, non lo nascondiamo, del corpo elettorale del 2 giugno, il quale aveva dato il voto a noi perché allora altre bandiere non si erano levate nel Paese. Certa parte del nostro corpo elettorale, la quale aveva ritenuto ritrovare in noi solo un argine di conservazione, cominciava a dar segni di inquietudine. Perché è vero che noi, nella propaganda elettorale, avevamo parlato di giustizia sociale e d’altre cose del genere, e l’onorevole De Gasperi, mi pare a Civitavecchia, disse una frase che era grave o poteva essere grave per le conseguenze, quando parlò di «redistribuzione del possesso agrario». Ma gli elettori sono smaliziati. Credevano alcuni di essi che si trattasse di frasi elettorali. Quando poi videro quelle diavolerie del lodo De Gasperi e dei decreti Segni, allora cominciarono ad allarmarsi ed a staccarsi da noi. Gli amici che fra noi vedevano questa realtà, questo sfaldarsi delle due ali della nostra compagine, credevano che fosse utile per noi abbandonare il Governo. Allora intervenne l’onorevole De Gasperi, il quale, democraticamente, era sempre intervenuto alle sedute del Gruppo. Io vorrei che quelle sedute del Gruppo nelle quali egli parlò, invece di essere state limitate a noi, fossero state estese a tutti i membri di questa Assemblea; perché l’onorevole De Gasperi (il quale fu accusato di giolittismo e di freddezza ed invece gli arde nel cuore una fiamma ardente di passione e di sentimento) seppe portare di un balzo più in alto il tono della discussione. Ci disse che noi dovevamo non badare esclusivamente alle fortune del nostro partito; che vi era l’Italia, la quale attraversava un momento pericoloso e, fragile ancora com’era, non aveva bisogno di altre agitazioni e discordie. Che se noi – egli disse – raggiungeremo questo bene comune, questa pace sociale, anche a detrimento delle nostre fortune elettorali, noi avremo conquistato la più bella e la più degna delle nostre vittorie. Ed il Partito, consentitemi che ne sia fiero, aderì unanimamente a questo pensiero e a questo sentimento dell’onorevole De Gasperi. (Applausi).

Noi che cosa volevamo? L’ho già detto: un Governo più omogeneo, un Governo in cui le convergenze superassero le divergenze. In parole piane, noi volevamo un Governo che nella persona del suo Capo e nel suo programma fosse un Governo di centro.

E veniamo al famigerato «centrismo», oggetto sino a ieri, e forse fino ad oggi, di aspre critiche. Forse oggi una critica spero mancherà da quei banchi, perché è sorto un nuovo partito il quale, con una ambizione che è degna di un partito nuovo, manifesta il proposito di diventare esso il partito di centro della nuova Italia.

Poiché io ritengo necessaria questa funzione centrista, auguro all’onorevole Saragat che, qualora la Democrazia cristiana fallisse in questa sua funzione – il che, bene inteso, non mi auguro – egli trovi nel suo cammino meno spine e meno amarezze di quelle trovate da noi.

Ma forse ha già cominciato a sentire anche lui qualche spina…

Centrismo: io credo che anche qui i nostri avversari siano vittime di un errore di prospettiva. Centrismo, secondo loro, vuol dire equilibrio, vuol dire opportunismo, quando non venga dipinto con aggettivi più pittoreschi. Orbene, tutto questo nasce da un errore.

Si crede che la Democrazia cristiana sia sorta dopo gli altri partiti e si sia inserita fra di essi, prendendo un po’ da destra e un po’ da sinistra, pasticciando così un programma suo intermedio, allo scopo di raccogliere voti da tutte le parti.

Non è così. Se il Partito democratico cristiano, come formazione politica specifica, è recente, la dottrina democratica cristiana, sociale cristiana, ha preceduto di gran tempo gli altri partiti, affonda le sue radici nel Vangelo e nei Padri, ed è una dottrina la cui sostanza viva è quella che si può ben chiamare centrismo.

Non mi voglio dilungare, ma qualora si pensi al programma nostro in materia di rapporti fra Stato e individuo, fra proprietà e funzione sociale della proprietà, fra liberismo e statalismo, e, se vogliamo salire nel campo filosofico, fra idealismo e materialismo, coloro che hanno lume di ragione e conoscenza di dottrine capiscono come il programma nostro non sia un programma raffazzonato col raccattare pezzi di altri programmi, bensì un programma nostro originale. E noi crediamo che questo programma sia e rappresenti una funzione vitalissima di salvezza sociale, specialmente in questo momento del nostro Paese.

Un’altra accusa che si muove, e questa si può dire universalmente, salvo l’onorevole Togliatti, alla soluzione della crisi, è che essa ha portato ancora ad un Governo tripartito, ad un Governo di coalizione.

Non è per amore avvocatesco di affrontare le cause difficili che io mi sentirei di fare una lunga arringa in difesa del tripartitismo e dei Governi di coalizione in genere. Io credo che questo «slogan» di accusa al Governo di coalizione sia un segno di pigrizia mentale.

È nel carattere della nostra intelligenza italiana e latina di voler trovare la spiegazione logica pronta di un fatto, il nesso chiarissimo di causa ad effetto.

I francesi esprimono questa loro forma mentis in un detto che io ricordo dai tempi della scuola: «Si je tombe par terre, c’est la faute à Voltaire. Si je tombe dans le ruisseau, c’est la faute à Rousseau». E già Leonardo ammoniva che la realtà è ben più complessa e diceva che «in natura sono molte più cose che non siano in dottrina e in esperienza».

Fosse vero che tutte le cause del travaglio che attraversiamo fossero dovute al tripartitismo! È una illusione. Se la nave rulla e beccheggia, non è perché a bordo vi siano due o tre piloti, ma perché il mare è grosso.

E poiché qui si sono portate delle immagini, come quella dei cavalli che vanno uno da una parte e uno dall’altra, come quella dell’asino di Buridano che muore di fame non sapendo scegliere «tra duo cibi distanti e moventi d’un modo», anche un’altra immagine si potrebbe portare tratta dalla fisica: quella che dalle forze componenti nasce la risultante, lungo la quale si sviluppa il moto.

Ma sono tutte immagini: il fatto è che oggi la realtà sociale, economica, politica è difficilissima, tanto che se anche vi fosse al Governo un solo partito, un solo uomo, pensate forse che avremmo una politica univoca e rettilinea? Non credo. L’onorevole Tremelloni ha ammonito che bisogna scegliere una via e una volta scelta seguirla decisamente. Ma la difficoltà sta nella scelta! E noi vediamo uomini di Governo di tutti i partiti che su certi problemi oggi sono di un parere e domani di un altro. Non possono fare altrimenti, perché bisogna adeguare l’azione del Governo alla mutevole realtà. Il «tirare diritto» può, in certi casi, essere pericolosa ostinatezza e superbia.

Quindi ripeto che le coalizioni non sono soltanto una necessità aritmetica, ma una conseguenza della situazione sociale e politica del nostro Paese.

Ed hanno anche un vantaggio, al quale accennava indirettamente l’onorevole Saragat quando giustamente diceva che oggi tutti i partiti sono esclusivisti, sono intransigenti, sono settari; vogliono, in ciò che credono l’interesse del Paese, applicare integralmente il proprio programma. E lo farebbero, se fossero soli al Governo. Con la conseguenza di reazioni violente degli altri, di urto delle passioni e degli interessi; e quindi pericoli per questo nostro Paese, la cui vita è ancora in un periodo di tanto fragile consistenza.

Le accuse contro il tripartitismo non sono dunque giuste.

Molti colleghi hanno individuato il difetto maggiore del tripartitismo nella inefficienza dell’azione di Governo; e l’onorevole Togliatti, con una critica forse più cortese ma più penetrante, disse addirittura che la Democrazia cristiana e il suo Capo non hanno una direttiva di Governo.

Rimprovero grave. Ma non credo che sia confortato dai fatti. Se volessi fare una battuta polemica potrei dire: se questo Governo mancava di direttiva, di bussola, se non sapeva dove arrivare, come poterono onestamente gli uomini di sinistra continuare a restarvi?

Ma, ripeto, questa è una battuta polemica. La realtà è che anche qui si esagera e si dicono parole troppo grosse quando si parla di paralisi del Governo.

Il Governo qualche cosa ha ben fatto! Non starò a leggere l’elenco dei disegni di legge approvati: ve ne furono parecchi. Vi furono i decreti in materia di alimentazione, in materia di affitti, in materia agraria; saranno stati più o meno approvabili, ma un’azione vi fu ed ebbe notevole valore politico.

Vi fu il decreto di amnistia. Dite niente? Poteva il Governo, senza una direttiva politica, emanare quel decreto? (Interruzioni – Commenti).

Io non entrerò nel merito; ma potete criticare (anch’io ero contrario a tanto smisurata amnistia), non dire che il Governo non aveva una direttiva politica? (Interruzioni).

Ad ogni modo, vi potrei ricordare altre cose. Non si può dire che il Governo abbia mancato di direttiva politica, quando seppe, senza neppur l’ombra di quella guerra civile che scoppiò in altri Paesi, portare il nostro Paese alle elezioni della Costituente ed alla risoluzione del gravissimo problema istituzionale. Prima del 2 giugno e dopo, il Governo e l’onorevole De Gasperi personalmente non si può dire che non abbiano avuto una precisa direttiva politica, specialmente quando, dopo il 2 giugno, l’onorevole De Gasperi, con una dirittura e con una forza di decisione ben ferme, seppe opporsi alle tergiversazioni del mal consigliato re.

Per finire questa difesa del Governo di coalizione, mi permetto di osservare che una direttiva politica può consistere anche in atti di omissione, nel non fare. Non so se sia presente nell’Aula l’onorevole Einaudi. Ricordo che egli, con quella sua arguzia inimitabile, disse che l’opera più utile del Governo è quella di non fare leggi. Talché, quando si stava discutendo d’un certo congegno della nuova Costituzione, avendo alcuni detto che quel congegno rendeva più difficile l’emanazione di leggi, l’onorevole Einaudi col suo candore esclamò: «Appunto per questo, io lo approvo».

A parte questo, è certo che anche l’omettere di fare qualche cosa, anche il resistere a pressioni, che possono venire da una parte o dall’altra, per certi provvedimenti, il resistere – come diceva l’onorevole Tremelloni – alla prodigalità d’ogni colore, e via discorrendo, anche questo non fare può essere una non meno utile direttiva politica.

Perciò, ripeto, è per lo meno assai eccessiva l’accusa di deficienza mossa al Governo di coalizione.

Mi affretto, perché vi è sopra quei banchi (Accenna a sinistra) persona cui devo risposta.

Una parola sul programma sociale del Governo. Non entrerò nei particolari; ma credo che l’atto forse più coraggioso e più onesto del nuovo programma governativo è il rinvio al nuovo Parlamento delle profonde riforme di struttura nel campo agricolo, industriale, bancario.

Su questo punto, non per artificio polemico (non vorrei cioè prendere le armi dall’arsenale avversario), io vorrei ricordare ciò che ha detto l’onorevole Tremelloni, in contrasto – è una verità evidente, non è malizia ricordarlo – in netto contrasto con ciò che disse il suo compagno di partito e capo, onorevole Saragat. L’onorevole Tremelloni espose un programma economico che – io credo – il Partito della Democrazia cristiana potrebbe sottoscrivere. Io non ve lo sto a ripetere. Ma egli parlò di posizioni di centro, di compromesso fra liberismo e statalismo; disse che ci si deve proporre una disciplina concreta, onde creare un clima produttivistico; che occorrono modeste soluzioni dei problemi quotidiani; che non si tratta di trovare degli «slogan», delle formule miracolistiche, ecc.

Ora, credete voi sul serio, onorevoli colleghi che avete criticato il Governo perché non ha proceduto a queste grandi riforme strutturali, credete sul serio che sarebbe stato bene fare queste riforme oggi? Ma come si possono costruire istituti nuovi sulle sabbie mobili di un’economia, che con efficace neologismo l’onorevole Tremelloni chiamò «economia disastrata», sulle sabbie mobili di una situazione sociale ed economica che è tutta instabilità ed incertezza? Sarebbe stato improvvido, vorrei quasi dire disonesto, da parte del Governo, procedere a queste riforme in queste condizioni; perché – badate – una riforma improvvisata, intempestiva, non solo nuoce all’interesse generale, ma nuoce, quando fallisce, a quelle stesse classi alle quali vorrebbe giovare.

Però, detto questo, noi protestiamo contro l’accusa che, almeno da parte della Democrazia Cristiana, il rinvio significhi un proposito ritardatore od elusore delle riforme e, in genere, di quel rinnovamento economico-sociale che anche noi abbiamo promesso ai nostri elettori e che continuiamo a ritenere utile per il nostro Paese. (Commenti a sinistra).

Noi approviamo l’ardita politica assistenziale e sociale del Governo, e i miei colleghi socialisti e comunisti della circoscrizione di Cremona sanno che queste cose io non le dico qui per opportunismo o per un certo centrismo; le ho dette durante la lotta elettorale e le ho dette a scapito di quella che poteva essere la mia piccola fortuna elettorale. Ho detto che le conseguenze della guerra le devono pagare i ricchi; e le devono pagare non – forse in questo ci differenziamo da alcuni altri colleghi – per una sanzione punitiva, ma per necessità, per giustizia sociale. Dopo le guerre del Risorgimento, le spese le pagò esclusivamente o quasi esclusivamente la povera gente. Chi vi parla visse – figlio di un povero medico condotto – nelle campagne lombarde fra il 1890 e il 1900 e ricorda la miseria disumana, le condizioni nefande in cui vivevano i contadini di quelle terre; la miseria che fece strage con la pellagra e con altre malattie, e spinse questa gente ad emigrare, a morire di febbre gialla nelle «fazendas» del Sud-America. Questa, signori, non è demagogia, è la realtà. Oggi ciò non è più possibile, non sarebbe più possibile, non solo per la grande forza che oggi hanno le classi lavoratrici, le quali non permetterebbero simile sperequazione, ma non è possibile per un senso di giustizia sociale. E non è possibile nello stesso interesse delle classi abbienti, perché fu in quella miseria che allignarono i germi di quell’odio, di quell’aspra lotta sociale che tanti lutti arrecò al nostro Paese e che ancora oggi non è spenta.

Perciò noi diciamo al Governo che da gran tempo si doveva istituire l’imposta straordinaria sul patrimonio. Le giustificazioni che al riguardo furono date, personalmente non mi sodisfano, perché sono giustificazioni di carattere tecnico.

Ora, io vorrei dire all’onorevole De Gasperi che egli in questo dà prova di soverchia probità. Egli, ritenendo di non avere una specifica competenza in materia, si affida ai tecnici. I tecnici (escludendo pure ogni proposito di ostruzionismo) spesso non vanno d’accordo fra loro, vogliono la perfezione, vogliono congegnare un’imposta senza un neo, alla quale nessun cespite sfugga. In questi momenti però non conviene affidarsi troppo ai tecnici; è meglio un provvedimento imperfetto, ma tempestivo, che non un provvedimento perfetto ma che viene quando il momento favorevole è passato. (Applausi).

SCOCCIMARRO. Sarebbe stato molto comodo per le classi ricche questo sistema.

CAPPI. Onorevole Scoccimarro, lei mi invita a sconfinare da quello che voleva essere il campo della mia discussione; ma, benché non abbia grande competenza in materia, permetta le dica che la giustificazione da lei data circa il ritardo dell’istituzione dell’imposta patrimoniale non mi ha convinto. Lei ha detto con molta chiarezza che l’imposta sul patrimonio avrebbe dato uno scarsissimo frutto al Tesoro dello Stato, se non fosse stata accompagnata dal cambio della moneta, cambio che lei voleva e che l’onorevole Corbino non voleva.

CORBINO. Non l’hanno fatto, nemmeno quando me ne sono andato io; eppure il Ministro del tesoro voleva il cambio della moneta!

CAPPI. Per applicare l’imposta patrimoniale – l’onorevole Scoccimarro ha detto – è necessaria la stabilità monetaria e per raggiungere questa stabilità occorre il cambio della moneta. Questa è stata la vostra giustificazione. Mi riesce arduo pensare che lei veramente ritenga che a dare la stabilità monetaria in un Paese basti il cambio della moneta.

SCOCCIMARRO. Era soltanto un mezzo, l’anno scorso.

CAPPI. Secondo lei era il mezzo principale. Ora, contra factum non valet argumentum: è un brutto latino, ma una grande verità. In tanti paesi fu fatto il cambio della moneta, ma la stabilità monetaria non fu affatto raggiunta. Non solo, ma nell’altro dopoguerra noi abbiamo istituito l’imposta sul patrimonio undici mesi soltanto dopo la cessazione delle ostilità, quando ben lontana era la stabilità della moneta.

SCOCCIMARRO. Infatti, non ha reso nulla, è stato un mezzo fallimento; e voi volevate ripetere il fallimento anche in questo dopoguerra.

CORBINO. Ha reso 20 miliardi nel 1919, il che significa oltre 400 miliardi di oggi.

CAPPI. Onorevole Scoccimarro, io non ho i dati statistici a sua disposizione; però, anche nella mia modesta esperienza, io ritengo che qualche cosa abbia reso, a giudicare dalle molte cartelle esattoriali che ho visto, anche personalmente, ritirare e pagare.

Ad ogni modo, io concludo su questo punto dicendo che nel campo della politica sociale la Democrazia cristiana darà la propria approvazione a tutti quei provvedimenti, anche i più arditi, i quali valgano a dare allo Stato i mezzi per una politica previdenziale e provvidenziale, che possa elevare la situazione economica delle classi lavoratrici.

Non parlo a voi, rappresentanti della destra, ma ad una certa vostra base elettorale.

Tutti noi, partiti, abbiamo, disgraziatamente, una base elettorale che, alle volte, non è all’altezza di noi rappresentanti.

Una voce. Viceversa!

CAPPI. Ora, ripeto, badate: voi parlate dei valori dello spirito, e voi potete immaginare con quanta soddisfazione da questa parte si sono sentiti elogiare ed auspicare questi valori. Ma sappiate che quando la miseria è estrema anche le forze ed i valori dello spirito si affievoliscono e si spengono. (Applausi al centro).

Ed ora io devo una risposta all’onorevole Togliatti. «Et honor et onus», perché è tutt’altro che facile polemizzare con l’onorevole Togliatti e, in genere, con lo stile comunista.

Permettano questi nostri colleghi di dir loro che, per quanto essi siano gli uomini dell’oggi, anzi, forse del domani, si direbbe che abbiano studiato la più sottile precettistica oratoria ellenica e romana.

Anzitutto, la dulcedo loquendi; alla quale sarebbe però bene seguisse anche la dulcedo agendi. Un famoso precetto dell’arte poetica di Orazio: «Si vis me fiere, dolendum est primum ipsi libi» lo hanno tradotto così: «Se vuoi convincere, mostrati convinto». E difatti, essi, nei loro discorsi, anche parlando dei problemi più ardui, più problematici e più dubbiosi, usano tale accento di candida convinzione che sembrerebbe alle volte cima di scortesia sollevare dubbi sulla esattezza di quello che affermano. (Approvazioni al centro).

L’onorevole Togliatti, dunque, ha preso a partito – scusate il gallicismo – la Democrazia cristiana. Verrò al nocciolo della questione, là dove egli – e io gli sono grato, tutta l’Assemblea deve essergli grata – ha portato la disputa in un terreno molto elevato, al disopra della politica contingente parlamentare, toccando i problemi della politica generale, sfiorando anche gli acrocori della filosofia.

Però, mi consenta prima qualche rilievo particolare; e, prima ancora, lasci che io esprima l’effetto che a me, e credo a molti, dentro e fuori di qui, ha provocato questo suo discorso, come tanti altri che ella ha fatto, come quello – dinanzi ad una folla veramente oceanica – che ho ascoltato durante la battaglia elettorale nella mia Cremona. Il senso che ha lasciato è questo: perplessità. È dunque questo il comunismo? Questo il comunismo quale apprendemmo dai testi? Quale vediamo realizzato in vane Nazioni e nei più piccoli nostri paesi? E se non è questo, qual è?

Ma torniamo ai rilievi particolari. L’onorevole Togliatti ha detto che il Partito comunista non ha fatto e non fa il doppio giuoco; ha chiesto soltanto e chiede che il programma in base al quale ha collaborato al Governo sia realizzato, rendendo effettiva ed utile la collaborazione. Questo sarebbe un suo diritto; un’utile funzione stimolatrice. Ma, davvero, si è limitato a questo, nelle parole e nei fatti, il Partito comunista? Certi discorsi e certi articoli, certi manifesti e certe manifestazioni, hanno di molto sorpassato il limite tollerabile. Anche qui, restiamo perplessi.

TOGLIATTI. In questo campo siete dentro le mura e fuori le mura.

CAPPI. Già: «Intra iliacos muros peccatur et extra». (Si ride).

Lei, onorevole Togliatti, ha cercato quale sia stata la chiave della crisi. Ha onestamente escluso che vi fosse nell’onorevole De Gasperi il proposito di eliminare dal Governo i comunisti. Gliene diamo atto. Però, quella favoletta della volpe e dell’uva… (Questi ricordi classici alle volte giuocano scherzi poco simpatici)… Perché quella favoletta? Non è un po’ un dire e disdire, non vi è quella ambiguità, che voi rimproverate a noi e noi troviamo che non è rara in voi? Restiamo perplessi. Comunque, veniamo al nodo.

Voi avete parlato della crisi ed avete detto che non è crisi di Governo, non è crisi del Paese, ma è crisi della Democrazia cristiana. Io ho qui il testo delle vostre parole; per brevità non lo leggo, ma il succo lo riporto fedelmente. Incertezza, ambiguità, incapacità di afferrare i temi del problema politico italiano; di tutto questo dà prova la Democrazia cristiana. È una squalifica politica in regola. E la censura poi si aggrava, diventa una accusa di inganno e quasi di tradimento. Voi asserite – ed è vero – che noi abbiamo detto che il vecchio capitalismo è morto; ci vuole un nuovo ordinamento sociale, bisogna spezzare i residui feudali, bisogna spezzare la dittatura della ricchezza ed altre cose di questo genere. Ma voi poi dite: Lo avete fatto? Lo farete?

Quanto al «farete», noi non tolleriamo, per la dignità del partito, dubbi sulle nostre intenzioni; e quanto poi al passato ci sembra di aver fatto, con leggi e proposte, quanto s’è potuto fare nel campo economico e sociale. Se di più non abbiamo fatto, ciò lo si deve alle ragioni alle quali ho accennato pochi minuti fa. Di una cosa può esserci testimonio lo stesso onorevole Togliatti. Nella formazione della nuova Costituzione, per ciò che riguarda la parte sociale, forse che i democratici cristiani si sono mostrati pavidi, forse che, molte e molte volte, non abbiamo anzi solidarizzato con voi? Ma, onorevole Togliatti, la di lei prodigiosa e giovanile memoria è qui venuta meno. Noi, nel programma elettorale, abbiamo detto le cose ricordate da lei; ma ne abbiamo dette anche delle altre, che non s’accordano con voi. Abbiamo detto che, dando loro una funzione sociale, crediamo ancora utili la proprietà e l’iniziativa privata. Abbiamo detto di non volere la lotta di classe; abbiamo invece parlato di solidarismo. L’onorevole De Gasperi, al Congresso del nostro partito, ha usato proprio questa espressione, che è stata ripetuta l’altro giorno dall’onorevole Tremelloni. Noi abbiamo parlato anche, riecheggiando l’intervista del 1924 di Turati, sulla quale mi spiace che si stia facendo la congiura del silenzio, di libertà di insegnamento; soprattutto, abbiamo parlato di libertà di credenza e di attività religiosa; di opposizione ad ogni totalitarismo, perché vogliamo lo Stato a servizio dell’uomo, non il rovescio. Anche a questo programma abbiamo tenuto fede. Ed ora consentite un’altra battuta polemica; noi questo programma politico lo abbiamo esposto; siete voi sicuri di avere rivelato con altrettanta sincerità e compiutezza il vostro programma? Ma, in sostanza, voi ci tendete la mano; voi fate un nuovo appello alla concordia, all’unità, perché, secondo voi, nulla o quasi nulla ci dividerebbe. Non è esatto. Eppure badi, onorevole Togliatti, noi desideriamo porre l’accento sui motivi di convergenza anziché su quelli di divergenza; noi desideriamo la collaborazione, che in questo particolare momento riteniamo utile. Nessun dubbio su ciò. Se mi è lecito un ricordo personale, chi vi parla compilò a Cremona, nel 1921, di fronte alla minaccia fascista, che là aveva nome Farinacci, un patto di intesa con i socialisti, cui prese anche parte un deputato socialista che siede tuttora su questi banchi. Io cercai poi di estendere sul terreno nazionale quel patto, ma da alcuni dei vostri, a Roma, mi fu risposto che era contro natura. Va bene; il fatto «secondo natura» venne poi e si chiamò fascismo! Collaborazione, sì, dunque; ma collaborazione non significa confusione; la collaborazione deve essere chiara e leale, altrimenti vi è l’equivoco che, anche in politica, è infecondo e diseducatore. Voi avete detto che fra voi e noi non vi sono quasi differenze ideologiche, filosofiche o religiose. (Commenti a sinistra).

DI VITTORIO. No, questo sarebbe un po’ troppo.

TOGLIATTI. Sarebbe esagerato.

CAPPI. Almeno, credete che non siano essenziali e ritenete di averle superate col vostro concetto di libertà e di pace religiosa: questo, sì, lo avete detto. Ora, nelle Commissioni per la Costituzione io vi do atto che, in notevole misura, voi avete seguito questo proposito di pace religiosa. Altrettanto tenace però fu l’atteggiamento contrario di tutti gli altri partiti di sinistra. Quanto ciò è triste ed angusto!

Ora voi affermate che non avete detto che non vi sia, tra noi e voi, una differenza ideologica profonda. Sta bene. Ma ad evitare confusioni non sarà male che brevissimamente io dica come la nostra collaborazione deve avere dei limiti. Vi era già un contrasto per quanto riguardava il materialismo storico; più grave oggi è il contrasto con il vostro materialismo dialettico, il quale, sotto l’apparente innocuità di questo aggettivò, cela il più pieno ed assoluto materialismo.

SCOCCIMARRO. Lei è in arretrato di molto!

CAPPI. Non credo. E poiché voi vi siete compiaciuti di indugiarvi sulla natura del vostro anticlericalismo, io non scenderò agli episodi, ma dirò che la vostra concezione in materia ci lascia perplessi, assai più che perplessi, perché il vostro non è tanto l’anticlericalismo calunnioso, pornografico, quale appare su certi fogli e titilla i bassi istinti di certi strati deteriori del popolo, quanto una terribilmente logica conseguenza della vostra dottrina. Voi ritenete che l’uomo non sarà veramente libero e non potrà raggiungere la pienezza del suo sviluppo, dirò spirituale, se non sarà liberato da ciò che voi chiamate o ritenete superstizione religiosa. Noi invece crediamo che quella che voi chiamate superstizione è la forza che fa veramente libero l’uomo, lo fa da effimero eterno, può far fiammeggiare fino ad altezze sublimi la divina scintilla che è in lui. (Applausi al centro).

Ma scendiamo dalla stratosfera filosofica e veniamo sul terreno politico. Vi è la concezione stessa di democrazia che ci distingue. Era un processo logico fatale il differenziarsi di quel concetto. Per venti anni la democrazia si chiamò e fu antifascismo. Vi era allora un elemento negativo unificatore. Abbattuto il fascismo, sono sorti i vali aggettivi: democrazia liberale, cristiana, progressiva, del lavoro. Questi aggettivi non sono etichette messe a scopo reclamistico; rispondono a differenze di sostanza. La vostra democrazia è progressiva, ed anche qui l’aggettivo pare innocuo, ma è un po’ ambiguo; ci lascia perplessi. Vorremmo sapere: progressiva verso dove e fin dove? Non forse fin verso il regime sovietico?

Tuttavia vi è anche una certa convergenza con noi, perché la democrazia cristiana, oltre che per un suo particolare fondamento etico, si differenzia notevolmente da quella liberale, che è meramente politica. Noi, già lo dissi, vogliamo dare alla democrazia un contenuto sociale. Le libertà civili e politiche, secondo noi, sono illusorie se non sono accompagnate da una certa indipendenza economica, in mancanza della quale il povero sarà tratto a cedere e a barattare le sue libertà. Dove è la nera miseria, ivi il mercenario è pronto a seguire ogni bandiera.

In questo abbiamo un notevole punto di contatto con voi, ma ci sono dei limiti che noi non vogliamo superare.

L’onorevole Nenni forse è stato più impulsivo, più, diciamo così, romagnolo. (Ilarità). Si è qualche volta scoperto di più. Chi si scoprì ancor di più fu l’onorevole Basso, a Bologna, quando, di recente, parlò di necessità della violenza, di legalità, direi, dell’illegalità. Queste frasi mi ricordano altre frasi sentite. Mi ricordano una frase sentita dall’ex duce nel contradittorio che ebbi con lui nella campagna elettorale di Pescarolo, del 1914. Egli disse allora che la violenza era la levatrice della storia. (Si ride).

Una voce a sinistra. Ma questo è Carlo Marx!

Una voce a destra. Ne prendiamo atto.

CAPPI. E ricordo un’altra frase più truculenta, come era nel suo stile. Disse che bisognava immergere – disse proprio così e credo che fosse presente anche l’onorevole Caporali – l’ultima spada nel ventre dell’ultimo borghese e poi trasformare le spade in zappe, in pacifici strumenti di lavoro. (Ilarità – Commenti).

Un anno dopo, non le spade si trasformarono in zappe, ma le zappe, e perfino le pie campane, si trasformarono in spade. (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

E vengo ad alcune frasi dell’onorevole Togliatti. Voi avete esposto una concezione del diritto delle maggioranze che non può essere da noi condivisa. Avete detto al Governo: «Osate; giacché avete dietro di voi 18 milioni di elettori, avete la maggioranza». Noi crediamo che vi siano dei diritti e dei principî di giustizia che nessuna maggioranza, neppure la totalità meno uno, può violare. (Applausi al centro).

Per noi la democrazia significa libertà indivisibile. Voi avete detto: non libertà per i nemici della libertà. Prima di voi, onorevole Togliatti, lo disse, un secolo fa, un legittimista francese: «Noi domandiamo a voi – e parlava ai liberali di allora – la libertà, perché questa è la vostra dottrina. Quando saremo al potere ve la negheremo, perché questa è la nostra dottrina». Queste proposizioni ci lasciano perplessi. Anzi, le respingiamo.

Una voce a sinistra. Per questo ci preoccupa l’onorevole Gonella.

CAPPI. Voi – forse perché il concetto vi sembrava di non facile accoglimento – avete citato in appoggio il signor Martin, americano, eletto testé presidente della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti; ma la citazione mi pare non giovi. A parte che l’onorevole Calamandrei vi direbbe che è incivile scegliere da un testo una aliqua particula, l’andare cioè pinzettando delle frasi, quella da voi citata dice: «La libertà di parola, di riunione e quella di stampa non devono consentire ai nemici di questo Paese, del nostro popolo, di cospirare sotto la protezione della Costituzione».

Ora, a me pare evidente che qui si faccia riferimento ai nemici stranieri o a quelli che sono al servizio dello straniero, non ai cittadini che professano – senza cospirare – determinate opinioni, fossero pure monarchiche o assolutiste. Io ho esposto in breve il mio pensiero, che credo condiviso dal mio Gruppo.

Eppure, nonostante questo, ripeto: vi è qualche elemento unificatore che può consentire e rendere utile la collaborazione fra noi e voi, su certi punti concreti. Dopo il 2 giugno il regime repubblicano ha il diritto di essere difeso e consolidato. In questo noi saremo al vostro fianco, anche se riteniamo che la democrazia e la Repubblica, assai meglio che con le leggi di eccezione e con le forze di polizia, si difendono e si consolidano bene operando. Vorrei avere ben più alta autorità di quella che ho, per ammonire che se noi trasformeremo la competizione politica in una indecorosa rissa, allora quella fiamma di democrazia e di libertà, cui non valse a spegnere la reazione fascista, non valse a estinguere la ferocia tedesca, quella soffocheremo noi con la nostra angustia mentale, con la nostra miseria morale (Applausi).

Al vostro fianco ci avrete ancora nella lotta per elevare materialmente, intellettualmente e spiritualmente, le più umili classi. E a proposito di queste più umili classi, di questo povero popolo, vi è un più alto motivo di convergenza, di tregua. Perdonate se l’immagine forse è barocca; ma si è parlato tanto, a proposito della crisi, di matrimoni di convenienza. Ebbene, lasciate, ripeto, che ricorra ad un’immagine forse barocca. Tante volte non avviene che coniugi lontani, separati, discordi si ritrovino al capezzale di una persona cara, malata o ferita? Oggi la persona cara a tutti, malata e ferita, vi è, ed è – senza sua colpa – il popolo italiano, che è anche un grande fanciullo. Al suo capezzale possiamo tutti fare una certa tregua e trovarci uniti. Dopo, riprenderanno quei contrasti di pensiero che sono tormenti e gloria dello spirito umano, il segno della sua libertà e della sua dignità. Tutti hanno qui manifestata la loro fede nella rinascita del popolo italiano. È giusto. Risorgimento è parola e realtà italiana. Bisogna che abbiamo questa fede. Rievoco il poeta di nostra gente: «Ogni viltà convien che qui sia morta».

Bisogna scrollarci di dosso la viltà; avere coraggio anche verso di noi, anche contro ciascuno di noi, contro certi nostri elettori. Ripetere al popolo le alte parole: «Leva su, vinci l’ambascia, con l’animo che vince ogni battaglia».

Permettetemi; siamo molti qui dentro non più giovani. Permettete che la mestizia del tramonto si colori di una luce di aurora, di speranza per l’avvenire della nostra Patria. Questa Italia, questa millenaria viandante della storia, tante volte precipitata nell’ombra della valle, e tante risalita nella luce delle vette, possa, nell’operosa concordia dei suoi figli, riprendere infaticata il suo cammino verso le mete, che la storia, il destino, le condizioni geofisiche ed economiche le hanno assegnato; e permettete che io dica, con l’avita nostra Fede, verso le mete che Dio le ha segnate (Vivissimi applausi al centro – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Giua. Ne ha facoltà.

GIUA. Onorevoli colleghi, il gruppo del Partito socialista italiano mi ha affidato il compito di fare alcune osservazioni sul programma scolastico dell’attuale Ministero, ma nell’accettare questo incarico, mi sono trovato perplesso per le argomentazioni che sono state fatte e per l’impostazione di determinati problemi, che mi sembrano anche in contrasto con le affermazioni dell’onorevole De Gasperi.

Nel suo discorso l’onorevole De Gasperi ha accennato al problema scolastico, dalle scuole universitarie a quelle elementari. Nello stesso tempo, nel prendere in esame i problemi della difesa, ha accentuato determinate posizioni che riteneva dovessero essere sorpassate dopo la sconfitta e il disastro nazionale.

E anche dai banchi della destra, quando l’onorevole Bencivenga ha ripreso questo argomento della difesa nazionale, egli si è riportato ad accenti che potevano trovare eco nella politica di Boulanger. Ma un altro rappresentante dello stesso partito, l’onorevole Tumminelli, quando ha preso in esame il programma del Governo ha accentuato invece il problema della scuola e si è riferito, nel fare un confronto, a quella che era stata la grandezza del popolo italiano nel periodo della rinascita, periodo in cui l’Italia fu veramente grande.

E questo Confronto è stato affermato anche da un uomo di destra francese, François Mauriac, in un articolo recente, in cui la grandezza del popolo italiano dopo la sconfitta viene riportata a quella del Rinascimento italiano.

Quando affrontiamo il problema della rinascita in questo momento, ed impostiamo l’argomento della scuola, dobbiamo prendere in esame i metodi che il popolo italiano deve seguire per creare una scuola veramente efficiente, e allora dobbiamo fare un confronto con quei mezzi che devono venire da altre parti che non siano le entrate ordinarie del bilancio, ma che necessariamente derivano dallo spostamento delle spese di altri Ministeri. E appunto a questo riguardo avrei desiderato che, a proposito del bilancio della guerra, l’onorevole De Gasperi fosse stato più preciso.

Perché il problema della guerra non interessa soltanto il Ministro della difesa, ma tutto il popolo italiano. È un problema che dobbiamo prendere in esame.

Un popolo come il nostro, che sta per risorgere, si trova nell’impossibilità di fare la guerra. E guardate che quando giungo a questa conclusione non mi pongo dal punto di vista socialista: farei delle affermazioni inutili per voi. Mi pongo dal punto di vista degli italiani e, permettete anche, del tecnico che ha studiato alcuni anni sulla guerra, ed allora dico che per il popolo italiano, esaminando lo sviluppo moderno e le condizioni di una nazione in guerra, il tempo della guerra è passato, sì che la rinascita italiana si può trovare soltanto difendendo la grandezza del pensiero: è questo il vero riferimento che potrà permettere la vera rinascita.

Onorevoli colleghi, è molto semplice oggi fare un confronto tra le possibilità di fare una guerra moderna e la possibilità di avere un esercito adeguato.

Anche per i non competenti è facile la conclusione che quelle nazioni che non posseggono disponibilità di materie prime, come carbone e petrolio, non si trovano più nelle condizioni di poter fare la guerra.

Ed è su questo punto che il Ministero attuale ed anche i precedenti avrebbero dovuto impostare il problema della difesa nazionale, perché su questo punto la storia potrà permettere al popolo italiano di risollevarsi per altra via che non sia quella della rivincita.

Io non entro nei particolari, perché un esame delle forze che hanno vinto il fascismo, che hanno battuto prima l’Italia, poi la Germania ed infine il Giappone, ci porta alla constatazione che non sono le forze di molti eserciti, numerosi, ma sono anche le forze della materia bruta, trasformata in mezzi bellici: sono le materie prime in abbondanza, che hanno permesso all’Inghilterra, agli Stati Uniti d’America, di potere opporre una forza maggiore a quella organizzata dalla Germania.

Anche se noi prendiamo in esame la resistenza dell’unica nazione socialista esistente al mondo, la Russia, a parte la considerazione che si possa fare dal punto di vista etico sul combattente socialista, dobbiamo giungere a questa conclusione: che se la Russia ha potuto resistere in un primo tempo all’assalto della Germania ed in un secondo tempo ha potuto stroncare la Germania, questo è avvenuto anche e sovrattutto per la grande disponibilità di materie prime. L’U.R.S.S. è una Nazione che possiede dovizie di carbone, che possiede anche in notevoli quantità giacimenti petroliferi; l’U.R.S.S., con la sua organizzazione industriale, non l’organizzazione del supercapitalismo di Stato, ma con le sue organizzazioni industriali moderne, è stata posta nelle condizioni di potere abbattere la Germania proprio sul piano della tecnica.

Quindi, noi italiani dobbiamo volgerci ad altre considerazioni, quando pensiamo alla nostra ricostruzione.

Ed io vorrei che il Ministero della difesa, invece di pensare alla riorganizzazione di quell’esercito di transizione, che ci viene lasciato dal Trattato di pace, pensasse invece alla smobilitazione, alla riduzione, vale a dire, ad un piccolo gruppo di forze, che permetta la difesa, ma che sia lontano dall’organizzazione classica dell’esercito di conquista; e nello stesso tempo, le economie che si possono fare, riorganizzando la difesa, devono andare appunto alla ricostruzione.

La critica che possiamo fare oggi alla politica scolastica del Ministero De Gasperi è la critica che facciamo a una valle di lacrime, di cui la mentalità del Ministro della pubblica istruzione, onorevole Gonella, è un riflesso sacro.

Permettete che io, come profano, prenda in esame la politica del Ministro Gonella. Si esagera quando si dice che il Ministro Gonella non ha fatto una politica scolastica. E si esagera, perché il Ministro Gonella ha fatto una politica scolastica, che è in relazione col suo partito, direi, colla politica anche del Vaticano. Se noi prendiamo in esame quella che è stata la più grande delle riforme fasciste, quelle della scuola, la riforma Gentile, certo non so se al partito democristiano convenga sostenerne i principî su cui si basa tale riforma; non so se il trascendentalismo della filosofia di Gentile, corrisponda al trascendentalismo della Chiesa e dello stesso Partito democristiano.

Credo che vi sia una notevole differenza. Tuttavia, con la riforma Gentile e colle modificazioni fatte dei Ministri succeduti a Gentile alla pubblica istruzione, è avvenuto l’inserimento della politica del fascismo nella politica del Vaticano… soprattutto per quello che riguarda l’insegnamento. Ed ecco perché, se il Ministro Gonella si trova oggi nella posizione di considerare la riforma Gentile come un totem, si trova, vale a dire, in una posizione totematica, gli è perché questa riforma Gentile salva dalla responsabilità di una riforma democratica della scuola, e permette al Ministro della Democrazia cristiana di fare una politica che sia in coerenza coi principî del suo Partito.

Certo, un Ministro democratico avrebbe potuto pensare ad una riforma sostanziale della scuola, avrebbe potuto prendere in esame i problemi della scuola elementare, quelli che sono i problemi della scuola secondaria, e, soprattutto, quelli che sono i problemi della cultura superiore. Questo avrebbe richiesto molto tempo; avrebbe richiesto mezzi; e noi oggi ci troveremmo dinanzi ad una posizione critica rispetto al Ministro Gonella, se egli avesse cercato di fare quello che poteva fare coi mezzi che aveva a disposizione. La politica invece del Ministro Gonella è stata una politica volta alla difesa della scuola libera; la quale scuola libera si era accentuata proprio in funzione della riforma Gentile, della riforma fascista, la quale era stata attuata per affermare il potere dello Stato e per accentrare nello Stato tutti i poteri, aveva dovuto accordare alla politica del Vaticano molto… e in quello che aveva accordato vi era anche la scuola libera.

Ora, se i colleghi della Democrazia cristiana si ponessero, o ci ponessero – noi della sinistra – dinanzi al problema della libertà della scuola, noi ci troveremmo imbarazzati, ci troveremmo nell’impossibilità di negare, dal punto di vista teorico, quello che si chiama il problema della libertà della scuola, perché noi socialisti siamo per la libertà, e, quindi, non possiamo negare la libertà della scuola. Ma il problema non è un problema teorico, direi, non è un problema filosofico: è un problema concreto, è un problema della storia del popolo italiano; è un problema che noi possiamo risolvere solamente se prendiamo in esame che cosa significa oggi in Italia una scuola libera.

Questa scuola libera significa scuola confessionale; significa la scuola degli ordini religiosi; quindi, la difesa della scuola libera significa la difesa della scuola confessionale.

È evidente che, impostato il problema da questo punto di vista, noi socialisti non possiamo essere per la libertà della scuola; e non possiamo esserlo, perché non possiamo essere per una scuola confessionale. E poiché il nostro Stato è uno Stato democratico, noi riconosciamo a questo Stato democratico il diritto di organizzare la scuola di Stato.

Quando noi socialisti esaminiamo il problema della scuola in questo determinato momento storico, vediamo che possiamo risolvere questo problema anche dal punto di vista della libertà. Ma, ponendolo da questo punto di vista, bisognerebbe che tutte le classi si trovassero nelle stesse condizioni di partenza. Ora, queste condizioni non esistono per altri gruppi che possono organizzare scuole private. Quindi, noi siamo per la scuola di Stato in questo momento, perché riconosciamo che allo Stato compete il compito di organizzare l’unica scuola che sia adatta per il popolo italiano. Non vi è altra soluzione.

Ora, quando noi leggiamo una specie di memoriale presentato al Governo, consistente in una serie di dichiarazioni fatte da cittadini, genitori ed insegnanti aderenti all’Associazione Nazionale per la Scuola Italiana, che dicono dipendere direttamente dal partito democristiano, vediamo affermarsi questi due punti: la scuola in Italia ha bisogno di una opportuna autonomia per essere veramente viva ed operante; si richiede quindi che siano emanate soltanto le norme riguardanti le condizioni per il funzionamento delle scuole, le direttive di ordine generale necessarie per una conveniente uniformità, sia per quanto riguarda l’ordinamento degli studi, sia per quanto riguarda i programmi di esami ecc., nonché per favorire e garantire l’iniziativa privata degli enti morali, riconoscendo alle scuole medie una parità legale, economica, didattica e pedagogica con le scuole governative.

Onorevoli colleghi, questi problemi noi li credevamo sorpassati ormai dal punto di vista culturale ed anche politico.

L’oratore precedente della Democrazia cristiana ha accennato a noi socialisti (egli si riferiva ai comunisti, ma credo che si sia rivolto anche a noi) riferendosi al fatto che il nostro materialismo nega i valori morali e, quindi, anche i valori religiosi.

Io non risponderò con le solite affermazioni che noi socialisti siamo religiosi; risponderò invece dicendo che noi, socialisti, dal punto di vista della religione, ci poniamo su un piano perfettamente neutro e pensiamo che possiamo, come socialisti, anche essere non religiosi; ma questo non significa che dal punto di vista pedagogico e politico dobbiamo fare la politica della Democrazia cristiana. Per noi la religione è una questione privata; ma noi siamo giunti a questa conclusione partendo anche da alcune affermazioni materialistiche.

Certo, l’onorevole Cappi era in arretrato quando accennava al materialismo storico e alla religione. Il problema è stato impostato dal Marx nel 1844, allorché ha detto che la religione era l’oppio dell’umanità. È una frase che noi socialisti non accettiamo più, e non l’accettiamo, perché lo studio ulteriore del fenomeno religioso ci ha condotti a porre questo fenomeno all’infuori del piano scientifico e filosofico. Noi riconosciamo alla religione e alla fede il campo che le compete, ed è sul piano dell’irrazionale che noi pensiamo che ogni uomo può credere o non credere. Ma da questo argomento, che dirò di importanza puramente teorica, all’accusa che ci vien fatta di essere antireligiosi, ci corre molto.

Noi socialisti ci siamo trovati, in passato, implicati nella propaganda anticlericale. Uno dei maggiori esponenti di questa lotta anticlericale è stato un iscritto al partito socialista. Ma questo non era un problema socialista: era un problema di politica contingente del popolo italiano. Quella politica anticlericale era sorta in Italia non come una derivazione filosofica, come una derivazione teorica della lotta politica, ma per le contingenze della politica italiana, per gli errori che la politica del Vaticano aveva commessi in Italia e, soprattutto, era in relazione con la politica del clero: l’anticlericalismo è sempre in relazione con gli errori che il clero fa.

Ecco perché noi socialisti siamo al di fuori della lotta anticlericale; siamo, momentaneamente, al di fuori di questa lotta.

Evidentemente, le masse potranno rispondere ed impostare nuovamente questo problema, se il clero farà in Italia una politica che richiamerà i principî della storia della Chiesa, quei principî che sono in contrasto con lo sviluppo democratico del popolo.

Quindi, onorevoli colleghi, non è da questo lato che noi siamo sensibili; siamo sensibili, invece, al problema dello sviluppo della democrazia, ed è per difendere i principî della democrazia che noi oggi combattiamo la politica scolastica dell’onorevole Gonella.

E potremmo fare anche delle obiezioni, andare al contingente della politica dell’onorevole Gonella.

Non mi soffermo su quello che il Ministro non ha fatto per la difesa della scuola elementare, per dare il combustibile necessario per il riscaldamento delle scuole durante l’inverno: sono problemi così particolari che non incidono sulla politica del Governo. Molte di queste responsabilità, più che al Ministero della pubblica istruzione, vanno attribuite agli stessi Comuni o agli Enti che hanno l’incarico di provvedere al riscaldamento delle scuole.

Non è su questo piano che moviamo delle critiche alla politica dell’onorevole Gonella; mentre da un punto di vista, anche particolare, noi possiamo farne sul funzionamento delle scuole elementari oggi, per il fatto che il Ministero non si è più occupato di aumentare le scuole elementari, applicando la legge, cioè rendendo obbligatorio il sorgere di scuole elementari in tutti i Comuni di Italia per combattere l’analfabetismo.

E la frase del Ministro De Gasperi secondo cui durante la guerra l’analfabetismo è aumentato, è una frase che non scusa la politica scolastica dell’onorevole Gonella. Vi è una grande massa di insegnanti elementari che aspettano il posto, appunto per dedicare all’insegnamento quella che è la loro attività abituale; ma mancano i fondi. Si dice: vi sono le scuole private. Queste scuole non sono in tutti i centri e richiedono, talvolta, agli insegnanti l’accettazione di principî che contrastano col loro pensiero e con la loro mentalità. Questi insegnanti chiedono, quindi, allo Stato che provveda, creando le scuole che deve creare, applicando la stessa legge.

Per le scuole secondarie abbiamo da lamentare diversi altri fatti. Prima di tutto, però, devo rendere omaggio al Ministro Gonella per aver conservato in molti Comuni – mi riferisco ai Comuni dell’Alta Italia – molte scuole che erano state spostate da varî centri, a causa della guerra, e che erano state mandate in piccoli centri. Questi piccoli centri hanno veduto la necessità, l’opportunità di mantenere queste scuole staccate e ne hanno fatta domanda al Ministero.

Almeno per alcune scuole, che riguardano la provincia di Torino, posso ringraziare il Ministro Gonella per avere assecondato per quest’anno scolastico il mantenimento di queste scuole staccate.

Ma, quando passiamo dal mantenimento di queste scuole al pareggiamento di molte scuole private, allora non possiamo non fare delle critiche al Ministro Gonella. Queste scuole che vengono oggi pareggiate sono, per la massima parte, a carattere confessionale; gli insegnanti di queste scuole sono generalmente dei religiosi, ed allora noi ci troviamo al punto di partenza, vale a dire a difendere la scuola di Stato, perché così facendo permetteremo al popolo italiano di avere una scuola che sia in relazione con lo sviluppo della democrazia e con lo sviluppo stesso della civiltà.

La scuola universitaria richiederebbe una trattazione particolare. Si potrebbe muovere la solita obiezione al Ministero della pubblica istruzione che in Italia ci sono molte università; io credo che questa accusa sia priva di fondamento. Anche le piccole università possono essere difese; anche le piccole università hanno avuto in Italia, hanno, ed avranno in avvenire, una funzione importante. Ma quello che non ha fatto il Ministro Gonella è di aiutare le università italiane le quali hanno sofferto, ancora di più della scuola media ed elementare, della politica del fascismo. Le università hanno sofferto dal punto di vista del reclutamento degli insegnanti ed hanno anche conseguito quella elefantiasi per la immissione di una grande massa di studenti che non possono essere convenientemente educati. Il problema degli insegnanti è in relazione con l’epurazione: l’epurazione non è stata fatta e gli insegnanti sono ancora nelle università e continueranno a fare gli insegnanti. Ma di questo non ha colpa il Ministro Gonella, il quale non ha neanche colpa se le università italiane non hanno ancora ottenuto i mezzi sufficienti per potersi sviluppare.

Presidenza del Vicepresidente PECORARI

Ho assistito l’altro giorno all’interpellanza dell’onorevole Colonnetti sulla ricerca scientifica ed ho trovata inadeguata la risposta del Ministro. Ma l’onorevole Colonnetti non ha impostato il problema come doveva essere impostato. Egli doveva vedere se le università italiane siano oggi in condizioni di potersi sviluppare dal punto di vista della cultura moderna, ed abbiano alla loro direzione uomini all’altezza del compito. Dal punto di vista del materiale sono d’accordo con l’onorevole Colonnetti, sulla necessità di aiutare la ricerca scientifica, in quanto questa non serve solamente da un punto di vista educativo, ma è la base anche dello sviluppo industriale della nazione. L’Italia non potrà rinascere, se l’istruzione superiore e la ricerca scientifica non saranno sviluppate in modo adeguato. Ma per far questo è necessario che i nostri laboratori abbiano i mezzi sufficienti per far progredire la ricerca scientifica, e questi mezzi devono esser tolti anche da altri Ministeri e soprattutto da quello della guerra. I1 problema impostato dall’onorevole Colonnetti riguarda il Consiglio nazionale delle ricerche, che avrebbe oggi in Italia il compito di farsi dispensiere degli aiuti alla ricerca scientifica. Ma io ritengo che questo non sia un compito adatto per il Consiglio nazionale delle ricerche. La ricerca scientifica in Italia, per svilupparsi, ha bisogno che a capo del Ministero della pubblica istruzione vi sia un competente, che comprenda quale è la vera funzione della ricerca. Il Consiglio nazionale delle ricerche può assumere invece una funzione di consulenza verso molti dicasteri che ne hanno bisogno. Esso può inoltre svilupparsi ulteriormente, specializzandosi in un determinato campo della ricerca scientifica. È inutile che io vi accenni come in Italia, proprio a causa della politica del fascismo, sia venuta a crollare una delle scuole più importanti, quella della ricerca atomica…

DUGONI. Non si può organizzare, da noi.

GIUA. Ciò si deve al fatto che moltissimi scienziati, specie per la campagna razziale, dovettero abbandonare l’Italia. È per questo che un uomo competente è necessario; quest’uomo, che può essere il professor Colonnetti, potrebbe organizzare un laboratorio di ricerche che può essere un centro di studi. Noi, ha detto or ora l’onorevole Dugoni, non possiamo organizzare un centro di studi sulla bomba atomica: rispondo che non potremo creare le bombe, ma possiamo pur sempre intraprendere ricerche sulla fisica atomica per le applicazioni tecniche. Ecco quindi che, anche per questo lato, il Consiglio nazionale delle ricerche può essere utile. Esso non può essere confrontato, per la sua funzione, col Collège de France, né con i grandi istituti inglesi e americani che affiancano la tecnica nella ricerca: può tuttavia creare un centro di specializzazione scientifica, incrementando molto tale specializzazione.

Questa, onorevoli colleghi, è una parte della critica che noi moviamo alla politica scolastica del Ministero De Gasperi. Ma noi socialisti vediamo questo problema dell’educazione anche da un nostro punto di vista, che è la negazione delle condizioni che permettano uno sviluppo relativo della ricerca scientifica e dell’istruzione della società presente, limitatamente alla società borghese. Noi poniamo a fondamento di questo problema, un altro problema: quello economico, senza la cui soluzione, per noi socialisti, non si può risolvere quello scolastico. Dobbiamo permettere a tutti i migliori di poter frequentare la scuola, cosicché essi diano al Paese quel contributo di intelligenza che è nelle loro possibilità, perché lo sviluppo dell’intelligenza non è un privilegio, ma è un dovere. Noi potremo avere, attraverso gli aiuti dello Stato, la spinta verso la ricerca, ma non possiamo porre il problema della scuola sulla vera base che è quella di aprire le scuole di qualsiasi grado a tutti i capaci. Questa è la base della nostra riforma scolastica; questa è la base che noi poniamo, anche dal lato del contributo che può portare alla creazione di quella grande umanità in cui il libero sviluppo del singolo sia condizione dello sviluppo di tutta l’umanità. Questo è il programma nostro, programma al quale noi tendiamo e al quale vogliamo dare il massimo sviluppo.

Devo rispondere all’onorevole Cappi anche a proposito del problema, che egli ha impostato, della violenza. L’onorevole Cappi evidentemente è in arretrato sugli studi dello sviluppo della storia del socialismo. Quando egli si è riferito a certe frasi dette da un socialista nel 1914, ignorava certamente che quel socialista si faceva eco non della teoria socialista vera, ma di una parte della dottrina del marxismo che era ormai degenerata, vale a dire del sorellismo. Quando Marx si fece promotore della teoria della violenza, previde una notevole distinzione tra forza e violenza. Lo stesso Sorel ha scritto un volume per rilevare tale differenza. L’onorevole Cappi si tranquillizzi in merito alla posizione di noi socialisti rispetto a questo problema. Marx aveva detto che la violenza è la levatrice della storia, e non intendeva riferirsi soltanto alla storia del passato, ma anche e soprattutto a quella dell’avvenire. Noi socialisti siamo per la democrazia, lavoriamo per la democrazia, cerchiamo di immettere nella nostra società borghese i sistemi di lotta democratici, che non dovrebbero essere quelli della violenza. Se poi, per determinate contingenze, questo sistema ordinario, normale, può trasformarsi in sistema di forza, ciò non è colpa dei socialisti e nemmeno delle classi lavoratrici organizzate. Soltanto la storia può dare una giustificazione dei problemi che in un determinato periodo di tempo spingono le classi lavoratrici a ricorrere alla forza. Noi non possiamo fare altro che prospettare il problema. Noi socialisti non possiamo far altro che dire che siamo per la democrazia, quando essa è possibile; sentiamola vitalità del nostro ideale, che è un ideale di emancipazione delle classi lavoratrici, le quali trovano nelle loro organizzazioni le ragioni sufficienti per dimostrare se, nella storia, è la legalità che deve sempre trionfare o se qualche volta è la forza che si deve imporre. (Applausi a sinistra).

Nell’avviarmi alla conclusione, vorrei pregare il Ministro Gonella di aprire scuole per coloro che attendono da tempo il ritorno alla scuola stessa; di indire concorsi, in modo che alla scuola possano ritornare non solo gli alunni ma anche gli insegnanti, che ben numerosi attendono i concorsi per potersi dedicare ad una vita professionale.

Alcuni amici medici mi hanno fatto osservare che un problema importante e attuale è quello della destinazione dei materiali della ex G.I.L. Questo materiale è non di rado conteso da tre Ministeri: quello della pubblica istruzione, quello dell’interno e quello del tesoro. Intanto questo materiale deperisce, ed è, quindi, necessario che il Ministro della pubblica istruzione, che è il più interessato, intervenga e metta da parte qualche volta anche i diritti degli altri due Ministeri e soprattutto di quello del tesoro.

Ebbene, onorevoli colleghi, se noi da questa impostazione del programma volgiamo lo sguardo su quello che dovrebbe essere il risanamento morale e materiale dell’Italia, certo pensiamo che in questo regime democratico lo sviluppo della democrazia deve servire appunto per risollevare il popolo italiano alla condizione di popolo non solo libero, ma anche di popolo che ha il diritto di avere il suo posto nel mondo, con il lavoro, con il pensiero, con l’arte e con la scienza.

E se ci poniamo da questo punto di vista ed interroghiamo il passato, noi possiamo vedere anche i grandi italiani che hanno dato al popolo italiano una eredità: nell’arte, nella scienza e nel pensiero; se interroghiamo il passato vediamo molte tombe scoprirsi e molti uomini levarsi, e sopra tutti vediamo «colui che aprì per primo le vie del firmamento». E poi vediamo i Malpighi, i Volta, i Galvani, gli Avogadro e tutti quei grandi che arricchirono l’Italia nel pensiero e nella scienza e che dettero un nome al popolo italiano, una posizione preminente nello sviluppo della cultura e del pensiero.

Ma se indaghiamo ulteriormente, sentiamo che questi grandi pongono al popolo italiano un interrogativo, chiedono al popolo italiano perché esso, tralasciando le vie del passato che sono state le vie del disinganno e del disastro, non si porti una buona volta sulla via maestra del pensiero, dell’arte e della scienza.

Onorevoli colleghi, a questo interrogativo noi socialisti abbiamo risposto da tempo. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Targetti. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Onorevoli colleghi, si è sempre detto che i cattivi esempi sono contagiosi. Ma, in compenso, è benefica la forza di persuasione di un buon esempio, qual è quello che ora mi ha dato il caro collega onorevole Giua, che mi spinge ad imitarne la concisione. Parlerò, quindi, il più brevemente possibile di un punto solo delle dichiarazioni del Presidente del Consiglio. Mi sembra sia stato il buon amico onorevole Saragat che, nell’indicare le motivazioni dell’atteggiamento del suo nuovo gruppo, ebbe a dire, fra l’altro, che questo Ministero si è formato prima della formazione del suo programma. La formazione del Ministero avrebbe preceduto, invece che seguire, l’accordo su un programma. Non è esatto, anzi, vorrei dire che è proprio vero l’opposto. Il nostro gruppo, prima di qualsiasi accenno alla eventuale distribuzione, come suol dirsi, di portafogli, avanzò delle richieste, alcune delle quali si chiamarono, durante le trattative per la risoluzione della crisi, improrogabili e inderogabili, nel senso che dovevano essere accettate e senz’altro soddisfatte. Rappresentarono delle condizioni per la partecipazione del Partito socialista anche a questo terzo Ministero della Repubblica. Si dirà che tre Ministeri in pochi mesi sono troppi, ma, onorevoli colleghi, si dovrebbe da tutti obiettivamente riconoscere che anche maggiori e ben gravi sono le difficoltà che inevitabilmente si incontrano quando si vuol dar vita ad un Ministero che corrisponda alla configurazione politica di quest’Assemblea Costituente, quale risultò dalla consultazione elettorale del 2 giugno dell’anno scorso. In quel giorno la volontà popolare non si espresse in modo da indicare quale partito dovesse da solo governare l’Italia, ma indicò soltanto l’orientamento che avrebbe dovuto avere la nuova Repubblica. E a voi, egregi colleghi della Democrazia cristiana, è avvenuto su per giù quello che accadde a noi socialisti, se pure in altro clima storico, nel 1919, cioè siete venuti in troppi – e non vi è sapore di scortese rammarico in questo mio rilievo – perché si possa governare senza di voi e non siete venuti abbastanza numerosi e, di questo, non possiamo esser noi a dolerci, perché voi possiate governare da soli, né tanto meno senza di noi. Dicevo, quindi, che fra questi punti programmatici, fra le altre condizioni per la nostra partecipazione anche a questo terzo Ministero della Repubblica italiana, vi fu quello che, con espressione un po’ forte, si è chiamata difesa della Repubblica, e che il Presidente del Consiglio chiama consolidamento della Repubblica. In realtà che cosa noi abbiamo chiesto? Abbiamo chiesto anzitutto di aggiornare la legislazione penale. Su questo credo si debba essere tutti d’accordo. Mi sembra che perfino quella parte dell’Assemblea più facile al disaccordo che all’accordo debba convenire che leggendo certe disposizioni del nostro Codice penale senza sapere a quale nazione appartenga, nessuno potrebbe mai immaginare che si tratti di una Repubblica! Non c’è dubbio che bisogna aggiornare senza indugio il Codice in questa parte, prima ancora che si provveda alla riforma del Codice stesso, abolendo tutte le disposizioni che contiene a difesa e sostegno dell’istituzione monarchica. Lasciamo pure che alcuni egregi colleghi di quella parte dell’Assemblea (Accenna all’estrema destra) sognino ancora la resurrezione della monarchia. Io non voglio amareggiarli dimostrando loro come e perché io… ci creda poco! Ma è certo che a molte disposizioni del Codice penale è venuto a mancare, come si dice in termine giuridico, il soggetto passivo del reato; la monarchia, il re, le istituzioni fasciste.

Abbiamo, anche chiesto che si completasse la legge già approvata dal nostro parlamento, relativa al giuramento, legge che stabilisce obblighi senza sanzioni. Si deve ancora discutere la questione del giuramento? Io comprendo l’onorevole Bencivenga che si è dichiarato contrario a questi provvedimenti, perché ciò è in perfetta coerenza con l’atteggiamento che egli ha tenuto quando si è discusso del giuramento. Ma quando c’è una legge approvata a grande maggioranza da questa Assemblea Costituente che stabilisce l’obbligo del giuramento, è logico e necessario che vi siano delle disposizioni relative al mancato giuramento ed altre relative alla mancata fede al giuramento prestato.

Siamo tutti d’accordo, egregi colleghi, che non è attraverso un giuramento che si possano modificare le nostre convinzioni, ma è attraverso un giuramento che si può vincolare le nostra azione. Il funzionario, il dipendente dallo Stato, e tanto più l’ufficiale dell’esercito, che ha giurato, ha fatto sue quelle che sono state le dichiarazioni che risuonarono unanimi in questa Assemblea Costituente, fin dalle sue prime sedute e che partirono anche da monarchici di fede convinta, affermazioni, cioè, di lealismo, di riconoscimento, che oggi con la Repubblica si identifica la Patria, e la Patria si identifica con la Repubblica. Chi presta questo giuramento, se è un uomo d’onore, al giuramento deve rimaner fedele. Questo ha diritto di presumere, di esigere lo Stato, la collettività. (Approvazioni).

Abbiamo chiesto – e questa è la parte nella quale il disaccordo fra noi ed altri settori dell’Assemblea ha una ragione d’essere – che si restituisse vigore (forse perché questo vigore hanno perduto o perché non lo hanno mai avuto?) a talune disposizioni intese ad impedire la ricostituzione del fascismo e ad altre che prevedono sanzioni contro i fascisti politicamente pericolosi all’esercizio delle libertà democratiche. A questo proposito si è protestato dai banchi della destra, e nella protesta si è messo tanto ardore da arrivare all’audacia di dire: badate, con queste sanzioni contro i fascisti pericolosi all’ordine repubblicano, al nuovo ordine, voi violate il principio della non retroattività della legge penale, mentre il fascismo vi aveva dato l’esempio di come questo principio va sempre rispettato!

Quando la passione di parte tocca certi limiti, accieca e fa negare la realtà.

Come dimenticare che una delle più tristi caratteristiche del regime fascista è stata quella di violare tutti i principî fondamentali di qualsiasi legislazione di un Paese civile?

Per esempio, il confino fu minacciato ed applicato a cittadini, a fior di galantuomini, colpevoli soltanto di essere stati socialisti, comunisti, liberali, antifascisti, di non aver voluto associarsi, aderire, non ad un determinato partito politico, ma a quella specie di criminalità associata che fu l’attività fascista in Italia.

E di questo io credo che qui tutti si debba convenire, perché non ho sentito in quest’aula una sola parola in difesa di tanta vergogna. Ma si è imprudentemente voluto dire che il fascismo non ha mai violato il principio della non retroattività della norma penale.

Ma ditemi, onorevoli colleghi, e le inique condanne pronunziate dal Tribunale speciale, non appena instituito, che fecero tante vittime, tutte quelle condanne non colpirono forse fatti avvenuti prima che fossero stati dichiarati reati?

Io mi sorprendo che questo sia stato dimenticato da qualche collega che ha partecipato a questa discussione e di cui non faccio il nome, perché non lo vedo presente. Ancora; come dimenticare che nel regime fascista vi fu un giorno che con una pura e semplice mozione parlamentare si dichiarò la decadenza di 126 Deputati, che, per la maggior parte, nella notte susseguente, furono arrestati e poi deportati al confino? (Applausi a sinistra).

Neppure la solennità di una legge avrebbe potuto cancellare il fondamentale diritto dell’immunità parlamentare. Questa impudente violazione, onorevoli colleghi, è uno di quei tristissimi ricordi che è bene talvolta rievocare. Non devono gli accusati diventare accusatori e gli accusatori accusati. Questa vergogna avvenne qui, in quest’aula, su proposta di Augusto Turati, di Farinacci, di Starace, di Ricci Renato e di altri compari. Così in un attimo fu tolta l’immunità parlamentare a 126 galantuomini, per esporli, indifesi, alle persecuzioni poliziesche.

PRIOLO. La sera stessa furono arrestati.

TARGETTI. Forse qualcuno di voi, egregi colleghi, che ha nell’animo una grande fede religiosa, può anche pensare ad un decreto divino. Noi pensiamo ad una nemesi storica. Alcuni dei più grandi colpevoli non sono più: hanno già espiato. Molti dei perseguitati li ha riportati o mandati qui per la prima volta la volontà popolare, non appena ha potuto liberamente manifestarsi. Anche i caduti sono con noi, vivi nel nostro perenne ricordo e nel nostro rimpianto. (Applausi).

Onorevoli colleghi, che cosa noi abbiamo chiesto? E che cosa, in parte, ci ha promesso il Presidente del Consiglio?

Che la Repubblica faccia quello che hanno fatto tutti i regimi. Non credo che nella storia si sia mai instaurato un regime attraverso difficoltà, attraverso sacrifici, attraverso tanti morti, perché, all’indomani della sua vittoria dovesse offrire il suo corpo indifeso a tutti gli strali del vinto.

Questo si chiama essere animati da propositi di persecuzione?

Eppure si reagisce contro norme che si vogliono stabilire in difesa della Repubblica. Io non penso, e credo di interpretare anche in questo il pensiero del mio gruppo, io non penso ad una persecuzione dell’idea monarchica, come tale. L’onorevole Benedettini, appena sente la parola monarchico, sorride come potrebbe sorridere ad un sogno d’amore. Io invidio questa freschezza di sentimento, di entusiasmo, anche se non riesco a rendermene ragione. Sono passati troppi secoli da quando i cavalieri morivano per il re come per la donna del loro cuore. Ma un entusiasmo che noi non comprendiamo, dobbiamo sforzarci di rispettarlo il più possibile per evitare di non rispettarlo abbastanza.

Non penso che la Repubblica debba vietare, perseguire l’idea monarchica. Anzitutto perché non c’è nessuna idea, che abbia ceduto dinanzi ad una persecuzione. Ma ci sarà lecito cercare di impedire una propaganda intesa alla restaurazione del regime monarchico-fascista.

BENEDETTINI. Non confondiamo.

TARGETTI. Veda, onorevole Benedettini, se confondiamo, se la rifaccia con casa Savoia, che ha confuso la monarchia col fascismo. (Applausi).

BENEDETTINI. È inesatto.

TARGETTI. Onorevole collega, lei si assume la grande responsabilità di fronte all’Assemblea di fare prolungare il mio discorso. Non mi stuzzichi su questo punto, perché sono tanti gli argomenti che si possono portare a dimostrazione di quanto ho detto. Incominciando dalla marcia su Roma…

Egregio collega, lei crede proprio che quelli eroici marciatori su Roma, che si erano prudentemente fermati a varie diecine di chilometri dalla città eterna, ci sarebbero mai entrati, se Vittorio Emanuele non ne avesse loro spalancate le porte? Lei sarebbe poco al corrente della nostra storia recentissima, se non sapesse che senza la complicità della monarchia il fascismo non sarebbe nato, non si sarebbe affermato e, quello che è ancora più grave, senza questa correità, non sarebbe rimasto al potere anche quando si era macchiato del sangue dei nostri martiri! (Applausi).

BENEDETTINI. È stato sempre per evitare spargimento di sangue. (Commenti – Interruzioni a sinistra).

SGOCCIMARRO. C’è un limite anche nell’ingenuità.

TARGETTI. Per questa stessa ragione, non ci si attribuisca il pensiero di volere limitare la libertà di stampa. Specialmente noi socialisti della vecchia guardia abbiamo sempre lottato per la libertà di stampa; abbiamo subito le conseguenze della mancata libertà di stampa. Con quale coerenza potremmo dire: ora che siamo al potere, non diamo quella libertà che ci fu negata e per la quale ci siamo sempre battuti?

Si tratta di altro: noi abbiamo chiesto che, in attesa dell’approvazione d’una legge sulla stampa… Non ricordo chi di voi; mi sembra l’onorevole Russo Perez, che pure è un valoroso penalista, si è scandalizzato della richiesta di una legge speciale per la stampa, come si trattasse di una legge eccezionale.

BENEDETTINI. Io.

TARGETTI. Lei è più scusabile, perché non è avvocato.

Ma la stampa è stata sempre regolata non dal Codice penale, ma da leggi particolari. L’editto Albertino, che si chiamava l’editto sulla stampa, non regolava altro che l’esercizio della stampa.

Non abbiamo mai chiesto leggi eccezionali, ma una legge sulla stampa e d’urgenza, sì.

In modo particolare insistiamo su la riforma delle norme procedurali, per la persecuzione dei delitti di diffamazione. Perseguitare prontamente il delitto di diffamazione, quando si è riconosciuta al querelato la facoltà di provare i fatti addebitati, accelerare la procedura, è nell’interesse dell’ingiustamente colpito, è nell’interesse della stampa onesta, ed è al tempo stesso contro quelli che si meritano censura e appunti. Perché tutti sanno che chi si azzardi a dare una querela con facoltà di prova, se non ha come suol dirsi, le carte in regola – e alle volte non basta neppure avere le carte in regola – si presta al giuoco del suo accusatore.

Noi non chiediamo nessuna restrizione della libertà di censura; chiediamo soltanto che i delitti che si commettono per mezzo della stampa e che poi, in fondo in fondo, quando non sono delitti di pensiero, sono delitti comuni aggravati, vengano prontamente repressi. E questa necessità, onorevoli colleghi, la devono sentire tutti gli onesti, in quest’ora. Lo scandalismo è cosa del tutto diversa dalla censura. Lo scandalismo è contro la libertà e contro la democrazia. È disfattismo. La libera censura è a favore della libertà e della democrazia. Se noi rendiamo più pronta, più agile l’azione punitiva del diffamatore, colpiremo come si merita lo scandalista, non colpiremo in nessun modo il censore, che agisce in piena buona fede, che persegue un nobile fine.

E a noi sembra che chiedendo questo non si chieda niente di più di quello che è strettamente necessario a qualsiasi regime di libertà: alcune disposizioni nuove; l’applicazione, l’aggiornamento di disposizioni esistenti che, pur essendo recenti, sembrano già vecchie, perché hanno già perso di valore, di vitalità.

Chiediamo anche al Governo – l’assenza dell’onorevole De Gasperi che rincresce a tutti, perché dovuta a ragioni di salute, è ben compensata, anche per la natura dell’argomento, dalla presenza del Ministro di grazia e giustizia, l’onorevole Gullo – anzi richiamiamo il Governo ad una sua antica promessa: emettere leggi e provvedimenti che portino alla restituzione del maltolto a tutte le associazioni operaie, alle cooperative, alle società di mutuo soccorso, alle leghe, alle Case del Popolo.

Anche voi, colleghi della Democrazia cristiana, avete fatto la dolorosa esperienza dei metodi fascisti. Anche voi sapete che in questo nostro disgraziatissimo Paese ci fu un periodo in cui i fascisti, le camicie nere, santificavano la festa a modo loro, la sconsacravano, anzi, dedicando i pomeriggi festivi alle devastazioni di tutte le istituzioni che la fede del popolo, seguendo varie ideologie, aveva costruito. Bisogna riparare, colleghi del Governo, quanto più è possibile ed il più presto possibile, queste ingiustizie, questi danni. (Applausi).

Ed ora, onorevoli colleghi, io non vi nascondo un certo imbarazzo nel dover toccare un tasto che io per il primo so e sento quanto sia delicato.

Facciamo conto che questa legislazione protettrice della Repubblica sia emanata, e che provvedimenti di polizia, anche questi, siano emanati. A questo proposito vi confesso che sarà forse una debolezza sentimentale, non approvabile in un uomo di parte, ma io non riesco a vincere una certa repulsione per l’applicazione del confino, forse perché questo provvedimento di polizia ridesta in noi il ricordo di troppe sofferenze. Ma, d’altra parte, a quanti di voi, onorevoli colleghi, dite «il confine, no», io osservo: pensate però alle conseguenze prodotte dall’applicazione dell’amnistia. L’onorevole Togliatti, che ha sentito tante critiche astiose a questo proposito, lasci che io, con obiettività, gli dica che quel decreto non fu certo un modello di tecnica legislativa. Quel decreto tecnicamente imperfetto ebbe però una interpretazione arbitraria, faziosa, reazionaria, che ne falsò lo spirito, concedendo delle impunità vietate, che non solo hanno offeso il sentimento pubblico, ma che, rimettendo in circolazione elementi pericolosi, hanno turbato e potranno turbare ancora la tranquillità pubblica.

Onorevoli colleghi, si è applicata l’amnistia ai più perfezionati e celebri lestofanti del regime passato, a veri criminali, che non meritavano indulgenza e tanto meno perdono.

Quando l’onorevole Pertini parlò, con quella fiamma di fede che mai l’abbandona, di questo argomento, fu il primo a riconoscere che questo non era nello spirito animatore del decreto di amnistia. L’onorevole Togliatti nella sua relazione aveva detto: non abbiamo voluto accedere alla richiesta di concedere il beneficio dell’amnistia a chi abbia commesso delitti la cui traccia è lungi dall’essere cancellata, giacché altrimenti si andrebbe incontro certamente a conseguenze per tutti incresciose. Ma gran parte della Magistratura ha creduto, ciononostante, di poter mettere in libertà spie, delatori, rastrellatori, ed uomini a cui risalivano le più gravi responsabilità.

Una voce a sinistra. Anche seviziatori ed assassini!

TARGETTI. Con quali risultati onorevoli colleghi? Di aprire ancora delle piaghe che forse il tempo stava per rimarginare.

Io vi citerò, fra i tanti, se me lo permettete, un episodio solo che è a mia conoscenza. In una tristissima notte del marzo del 1944, in un piccolo paese della Toscana, furono rastrellati 11 individui: giovani, vecchi, colpevoli soltanto di non essere fascisti. Non avevano fatto neppure manifestazioni contrarie, si erano soltanto rifiutati di dichiararsi a favore della occupazione nazifascista e furono rastrellati. Alle famiglie che imploravano notizie sopra il destino che a questi sciagurati stava per esser riservato fu risposto: «Partiranno domani; che v’importa di saper dove andranno? Non torneranno più». E nessuno tornò.

Fra gli altri, nei campi della morte in Germania rimase il figlio del più mite degli uomini, un medico condotto. Quest’uomo nella sua sciagura era stato assistito dalla speranza che, un giorno, gli assassini del suo figliuolo avrebbero espiato il loro grande delitto. Fu facile scoprirli; furono arrestati, furono rinviati a giudizio, stavano per essere giudicati. Ma furono amnistiati ed immediatamente scarcerati. Pare che la Magistratura non abbia avuto incertezze in proposito! Eppure era purtroppo evidente che quei disgraziati erano stati rastrellati e deportati con la previsione e la volontà del loro destino.

Allora quel padre non ebbe più pace, non fu più lui. Ha battuto a mille porte, si è raccomandato a tutti per avere giustizia. Quando ha perso ogni speranza di ottenerla, si è armato di un potente budello di bue che non l’abbandona mai. Va in giro per le vie del suo paese, deciso a farsi giustizia da sé, se un giorno incontrerà qualcuno degli assassini del suo povero figliuolo. Gli sembrerebbe di offenderne la memoria lasciando che i suoi carnefici tornassero a passeggiare, come si diceva volessero fare, per le vie del paese, dove il suo figliuolo non tornerà più. Così si arriva non alla pacificazione, ma all’inasprimento degli animi.

Questi stati d’animo non si curano con qualche provvedimento di polizia. Ma è necessario tenerne conto e fare in modo di non provocarli. È necessario anche preoccuparsi dal pericolo sociale che presenta la liberazione di tanti delinquenti.

Noi, galantuomini, che non avevamo fatto male a nessuno, non ci si era approfittati di nulla, non si era commessa alcuna violenza, si dovette a suo tempo sottostare all’obbligo delle impronte digitali. Siamo stati diffidati, pedinati, sorvegliati, limitati nella nostra libertà per tutto il periodo fascista. Persino uomini come il mio grande amico, l’onorevole Filippo Meda, fino all’ultimo giorno della sua vita, fu sorvegliato nei suoi movimenti, perché il regime voleva sapere in qualsiasi ora di qualsiasi giorno dove si trovasse, che cosa facesse.

E noi, noi non si deve avere neppure la curiosità di sapere dove sono questi barattieri, questi rastrellatori, questi omicidi, nella volontà se non nell’azione diretta, questi elementi pericolosi? Hanno essi forse il diritto di essere trattati come dei galantuomini, di agire ed agitarsi, di riunirsi, complottare dove e come meglio credono?

Questo chiediamo al Governo, non come persecuzione, ma come opera di giustizia, di difesa. (Approvazioni).

Un’ultima cosa devo dirvi, onorevoli colleghi. Ci si chiama «onorevoli colleghi» per tradizione, ma siamo qui tutti in confidenza, tanto che ci diamo tutti del tu. Vi chiedo, quindi, confidenzialmente di farmi comprendere con qualche segno quando la vostra sopportazione sta per raggiungere il suo massimo limite, ed io cercherò senz’altro di concludere.

Però vorrei richiamare la vostra attenzione su un argomento che è strettamente collegato con questo di cui ho avuto l’onore di occuparmi.

Provvedimenti di polizia. Mi dicono che l’onorevole Scelba non abbia bisogno di incitamenti per essere deciso e severo nel farli applicare.

Applicazione di vecchie e nuove norme di legge. Io ho un grande rispetto per la Magistratura; ho vissuto la parte più bella della mia vita in continuo contatto con essa; ho stretto delle amicizie che mi sono care e tali sempre rimarranno; ho avuto dalla Magistratura, amichevole, fraterna accoglienza anche quando dimostrarmi stima e simpatia non era, per un magistrato, un titolo che potesse facilitare la sua carriera: ho vissuto da vicino la vita della Magistratura, una vita, onorevoli colleghi, in gran parte di eroi: eroi del bisogno, eroi della povertà. Questi uomini, che sono arbitri delle nostre fortune, e, quello che importa tanto di più, della nostra libertà, del nostro onore, questi uomini voi li vedete costretti, persino nell’apparenza, ad un tenore di vita che mortifica noi più che loro. Questo bisogna riconoscere ed a questo bisogno decidersi a riparare una buona volta!

Questo grande rispetto rimane in me superstite ad ogni critica che alcuni magistrati possono meritare. Ma è certo che, per vari sintomi, una fiducia illimitata (uso un eufemismo) nell’opera della Magistratura non riusciamo in questo momento ad averla. Mi pare di avere esordito accennando ai cattivi ed ai buoni esempi. Buono per me l’esempio della brevità del collega Giua, molto cattivo l’esempio del Procuratore generale (del re, egli vorrebbe poter dire, e non della Repubblica). Se n’è parlato già altre volte; non farò anch’io la voce grossa per quest’episodio, ma chiedo a voi, onorevoli colleghi, se non siete tutti persuasi, lo chiedo al Governo e per esso all’onorevole Gullo che ben lo rappresenta, che non si può restare ancora in questa situazione.

Quel procuratore generale bisogna che si persuada, anche contro la sua volontà, che per rimanere al suo posto bisogna sentirsi procuratori della Repubblica. È la Repubblica che gli dà decoro, onori, che gli dà anche emolumenti. Non per rimpiccolire la questione, ma non si può essere procuratori generali di una Repubblica, stare a capo della Magistratura, non dico avendo conservato in un cantuccio molto nascosto del proprio pensiero simpatia per l’ideologia monarchica, ma se non si riconosce il nuovo regime che si ha l’obbligo di servire. Vorrei, colleghi dell’estrema destra, che anche voi riconosceste che faccio di tutto per essere sereno ed obiettivo. Io rinunzio persino a discutere il suo atteggiamento nella questione del referendum. Per lui scheda nulla e scheda bianca significano espressione di volontà. Per lui hanno votato validamente anche quelli che non hanno detto nulla. Rimanga con questa sua persuasione. Può esserci indifferente. Tanto più che tutti sanno come, anche tenendo conto delle schede nulle e bianche per determinare la maggioranza, la Repubblica l’avrebbe anche in questo caso ottenuta e superata, per somma disgrazia del suo procuratore generale. Si può, quindi, anche non dare gran peso a questo suo atteggiamento, se lo si considera in se stesso, come la manifestazione di un convincimento giuridico. Il diritto si presta anche, certe volte, ad interpretare le cose come ci piace di più. Ma v’è l’episodio della inaugurazione dell’anno giuridico che è persino penoso rievocare. Quella fu proprio una ostentazione di disconoscimento della forma del nuovo Governo. Cerco di prescindere dalla persona, tanto cara a tutti noi, di Enrico De Nicola. Dico solo che mi fa quasi pietà questo magistrato italiano, che crede di essere veramente degno di tale nome, mentre verso Enrico De Nicola, una delle più belle e nobili figure del Foro italiano, tiene quello atteggiamento irrispettoso (Vivissimi prolungati applausi). Non mi occupo di questo, ma quel Procuratore generale, all’inaugurazione dell’anno giuridico, mi dicono che si intrattenne lungamente a proposito dell’attività dalla Corte suprema svolta nella risoluzione di alcune questioni inerenti alla successione nel diritto di esercitare una farmacia. Ora, con tutto il rispetto per i farmacisti – non so se qualcuno ve ne sia qua dentro – l’argomento sarà molto importante, ma il Procuratore generale dimenticò di dire che, durante quel periodo di tempo, oltre alla questione delle farmacie, c’era stato il referendum, istituzionale, c’era stato l’intervento della Cassazione nel proclamare l’avvenimento storico della modificazione della forma dello Stato, nella proclamazione della Repubblica italiana. Che cos’è ciò, se non una manifestazione di volontà contraria alla Repubblica? Se non un disconoscimento della Repubblica? Che cos’è questa, se non una offesa, indiretta, ma chiara, del prestigio e del decoro del nuovo regime? Che cosa dovete fare, signori del Governo? Non dovete aver bisogno che ve lo suggerisca io. Penso che ci sia in voi qualche preoccupazione di non voler fare delle vittime. Ma alla peggio, che cosa accadrà? Accadrà che quel magistrato, che forse altrimenti non sarebbe mai venuto a sedere in questi banchi, troverà il modo di venirci, come una presunta vittima del regime repubblicano, ed andrà a prender posto accanto all’onorevole Venditti. Poco male. Ma la questione è che non si deve dare alla Magistratura questo pessimo esempio di insubordinazione, d’incomprensione dei più elementari doveri del proprio ufficio. Che cosa si potrà rimproverare all’uditore giudiziario, al pretore, ad un sostituto procuratore della Repubblica se, con poco buon gusto, dimostrerà qualche nostalgia monarchica, quando il suo supremo capo gerarchico si è dichiarato antirepubblicano nell’esercizio delle sue funzioni? Non credo di aver la competenza di poter indicare che cosa altro si possa fare per ottenere da parte della Magistratura una corretta, imparziale applicazione della legge.

Noi dobbiamo essere tutti gelosi dell’indipendenza della Magistratura, non tanto nell’interesse del magistrato, quanto in quello di tutta la collettività, nell’interesse del Paese. Bisogna evitare qualsiasi atto che, neppure per la sua apparenza, possa essere interpretato come un’ingerenza governativa nell’opera dell’amministrazione della giustizia. Forse non si può fare altro che indagare, rendersi conto della realtà. Mi dicono, per esempio, molti colleghi del Mezzogiorno che colà si dà questa particolare situazione. A causa delle devastazioni, delle distruzioni di abitazioni nelle loro sedi dell’Italia settentrionale e centrale, molti magistrati nati in Sicilia, in Calabria, in altre parti del Mezzogiorno d’Italia, hanno cercato e ottenuto di ritornare nei loro paesi d’origine. Si è venuta così a costituire una Magistratura regionale, che forse al carissimo amico onorevole Lussu può anche andar bene, ma che non può piacere a chi non è federalista. Bisogna a questo proposito tener anche presente che, se qualche volta accade di incontrare un medico, un sacerdote, un ufficiale, un avvocato, che sono figli di operai o di contadini, non so perché, (sarebbe una indagine troppo complessa ricercarne la ragione) voi non troverete un magistrato che provenga da queste umili categorie di lavoratori. Almeno io non ricordo di averne incontrati. I magistrati appartengono di regola alla media borghesia. Non dico che, per questo, abbiano un sentimento antiproletario, antioperaio, ma risentono spesso l’influenza di una tradizionale incomprensione, quando non è avversione, verso le idee più ardite di rinnovamento sociale. Si sentono conservatori, sebbene il passato non abbia avuto per loro che il disconoscimento della loro opera, mortificazioni, dolori. Vanno questi magistrati in residenze, dove hanno i propri parenti, gli affini, gli amici, che non sono certo operai, né contadini, ma piccoli o medi possidenti, legati tutti per abitudini di vita alla borghesia locale. Forse è difficile resistere all’influenza, anche inavvertita dell’ambiente. Ed ecco perché si dice che nel Mezzogiorno vi è una giustizia di classe. Spesso si finisce col favorire il ricco ed essere severi con il povero. Nei reati per violazione delle norme sugli ammassi si lasciano spesso impunite le più gravi violazioni, mentre si fa la faccia truce verso la piccola infrazione di un povero contadino. (Proteste –Commenti).

Una voce a destra. Si dice, ma non è vero.

TARGETTI. Si dice da più parti, con molta insistenza. Bisognerebbe, quindi, indagare. È nello stesso interesse della Magistratura. La Magistratura italiana rivendica un assoluto autogoverno. La quistione sarà discussa, discutendosi la Costituzione. Intanto, senza nessun provvedimento che possa offenderne con ragione la suscettibilità bisognerebbe riuscire a persuadere la Magistratura stessa della necessità di autodisciplinarsi, di migliorarsi. Questa la via maestra per incamminarsi verso le maggiori rivendicazioni di autonomia, mentre starà a noi assicurarle, senza altri indugi, degne condizioni di vita.

Domando scusa agli onorevoli colleghi di essermi trattenuto troppo su questo argomento, che non entrava neppure tra i temi delle dichiarazioni del Presidente del Consiglio; ma forse è stato proprio per questo che ho sentito la necessità di insistervi per richiamare su di esso tutta l’attenzione del Governo e dell’Assemblea. Al di sopra della diversità dei principî che non può che dividerci, dovremmo tutti sentire l’interesse generale, collettivo, umano, di restituire al popolo la fede nella giustizia. Grande è la difficoltà, la fatica, che il popolo italiano deve superare e compiere per la sua resurrezione. Se sarà assistito dalla fiducia nell’opera della giustizia, questa fatica sarà più lieve e più sollecito il raggiungimento della mèta. (Applausi – Congratulazioni).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Condorelli. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Onorevoli colleghi, sebbene la discussione sulle dichiarazioni del Governo vada per le lunghe e rischi di distrarre ancora per lungo tempo i governanti dalle gravi questioni che in questo momento incombono sul Paese, pur tuttavia sento che non è possibile sottrarsi a questo dovere di democrazia di dire schiettamente il proprio pensiero circa i vari problemi che le dichiarazioni del Governo hanno posto.

Noi desidereremmo che, data la gravità dei compiti di politica estera e di politica interna che attendono il Governo, questi fosse confortato dalla fiducia unanime del Parlamento. Ma, purtroppo, pur sentendo viva questa esigenza, non possiamo non negargli il nostro voto.

Il nostro dissenso è totale. È totale sul modo con cui è stata composta la crisi, è totale sul programma, è totale anche per quello che il programma non dice.

Secondo noi questa crisi doveva risolversi con la formazione di un Governo omogeneo, un Governo omogeneo che obbedisse a questa esigenza: di eliminare i rapporti di tensione che esistono fra uomini dei diversi partiti che formano lo stesso Governo, tensione che necessariamente si deve determinare e che non può non infiacchire l’azione del Governo.

Questo non significava affatto che il Governo non dovesse tener conto delle esigenze dei partiti che sarebbero venuti a formare la maggioranza parlamentare, perché è bene intendersi sul concetto della formula di Governo. Si è trovata ora questa espressione per ammantare di un tono scientifico quelle che poi non sono altro che pratiche empiriche e manipolazioni parlamentari. Ma una formula di governo non può e non deve essere, seriamente, che composizione di idee, composizione di programmi, formula che non presuppone necessariamente una combinazione, anche eterogenea, di uomini e soprattutto una combinazione di uomini che sono nell’incapacità di attuare un programma.

I partiti concorrano alla formazione di un Governo che deve attuare il programma, che questi partiti insieme hanno concordato; vi concorrano con uomini del Parlamento, se li hanno; o cercandoli nelle loro file, al di fuori del Parlamento, nel Paese; cercandoli fra indipendenti, che si obblighino a seguire quel programma di governo, che del resto va eseguito sotto la sorveglianza del Parlamento. Ma non è mica detto che per attuare la formula i Governi si debbano costituire insufficienti ed incapaci tecnicamente, ed anche per la eterogenea combinazione degli uomini.

Io penso che se in questo momento nel Parlamento italiano ci fosse un Cavour, probabilmente egli non potrebbe essere membro del Governo se il suo partito non facesse parte della combinazione.

Questo è un momento nel quale bisogna pensare a cose molto più serie di questi dosaggi di uomini e di partiti. Questi sono momenti in cui ci troviamo di fronte a problemi formidabili della nostra politica estera e della nostra politica interna, e la necessità dei tecnici è inderogabile.

È per questo che noi siamo contrari a questo Governo, come saremo inflessibilmente contrari a tutti i Governi che nell’avvenire si potessero formare, quod Deus avertat, con questi stessi sistemi.

Ma la nostra opposizione riflette anche il programma.

E non vi meravigli, anzi non se ne meraviglierà nessuno, che io cominci proprio dal Ministero della difesa.

Malgrado la nostra situazione di nazione sconfitta, anzi proprio per questa situazione di nazione sconfitta, il problema della ricostituzione delle Forze armate è per noi dominante. In teoria ne convengono tutti, perché questo secolo ferrigno ha dato purtroppo la più clamorosa delle smentite alle ideologie pacifiste che determinarono gli antimilitarismi dei primi lustri del 900. E proprio in Italia si è avuta una dura lezione che insegnerà per sempre ed a tutti a non manomettere questo patrimonio più geloso e più alto del sentimento nazionale. È quello che avvenne nel 1920-21: la reazione dell’intera nazione. Gli attacchi, che andavano dall’oltraggio all’uccisione dei nostri soldati, furono repressi soprattutto dall’insorgenza unanime del sentimento nazionale. Anche per questo oggi quelle forme di attacco alle nostre Forze armate non si presentano più. Però questo spirito irriducibilmente antimilitarista, ma che poi è in sostanza antinazionale, si presenta sotto diversi aspetti: prima di tutto con la sistematica denigrazione delle nostre Forze armate, della quale abbiamo sentito l’eco anche in quest’aula.

PAGCIARDI. Io ho accusato i responsabili, non le Forze armate. Ho tre medaglie al valore (Interruzioni – Commenti).

CONDORELLI. Si parla dei generali considerandoli responsabili della sconfitta, e non si pensa che così ci ricolleghiamo al costume cartaginese di crocifiggere comunque i generali sconfitti.

Una voce a sinistra. E facevano bene!

CONDORELLI. Non si pensa che questi nostri generali, dei quali si parla con tanta facilità, contro i quali si legifera con tanta leggerezza, hanno avuto 56 morti sul campo di battaglia su 550 generali impiegati in formazioni mobilitate, il che importa una mortalità di oltre il 10 per cento, infinitamente superiore a quella delle truppe stesse, infinitamente superiore a quella che può essere stata la mortalità bellica di tutti i tempi moderni. Questo mostra che i generali d’Italia, anche questa volta, hanno fatto eroicamente il loro dovere ed aspettano il riconoscimento dell’opinione pubblica italiana perché dall’opinione pubblica mondiale l’hanno già ricevuto (Approvazioni a destra).

E poi si è passato a vagliare l’esercito con i processi di epurazione. Già questi si sono avventati contro tutte le amministrazioni, ma proprio in questo settore bisognava essere più cauti.

Li pensate voi, questi giudici borghesi, che dovevano domandar conto delle loro azioni ai soldati che tornavano dopo quattro, cinque, sei anni di prigionia, con le carni lacerate?

Accanto al giudizio militare, che è inevitabile per accertare la condotta dei militari in guerra, il giudizio politico nel quale si doveva chieder conto a questi giovani che avevano dato il loro sangue, la loro giovinezza per la Patria o, se volete, anche per il loro ideale, se nei guf o nei littoriali avessero fatto i fascisti! Irrisione!

E poi la lunga serie dei giudizi, dei ricorsi al Consiglio di Stato e in caso che il Consiglio di Stato rispondesse negativamente, la possibilità di ricorrere al Ministro per aver tolta la punizione, insomma la creazione di uno stato di tensione continuo fra questi nostri ufficiali e le loro gerarchie.

Che cosa si poteva fare di più per dissolvere l’esercito? Ma sarebbe stato meglio, di fronte alle benemerenze che questi fedeli soldati avevano acquisito servendo la Patria, non indagare su questo passato, compensando opportunamente i meriti che ogni combattente ha con i possibili eventuali molto discutibili demeriti politici.

Ma non ci si è fermati qui: vi è stata la legge per lo sfollamento!

Prima di tutto si è pensato alle leggi per lo sfollamento degli alti gradi e si è costituita la Commissione mista per giudicare i generali d’Armata e di Corpo d’Armata, Commissione in cui tre ufficiali generali dell’esercito sono stemperati in un numero doppio di civili: tutta la serie non sempre illustre di Ministri e di Sottosegretari alla guerra che devono giudicare della condotta di questi generali, sovvertendo tutte le regole della disciplina, che è poi la base dell’esercito. Abbiamo visto i nostri generali alla mercè di uomini politici, che tante volte appartengono a degli schieramenti costituzionalmente antimilitaristi, che sono pieni di querele e di querimonie contro questi generali.

Si poteva infliggere una umiliazione più grave?

Si disse che non c’era altro mezzo, perché non si poteva trovare un numero sufficiente di ufficiali di pari grado o di grado più elevato che potessero assolvere questa funzione. Ma gli ufficiali giudicabili di grado così alto non sono molti. Bastava fare la commissione di cinque membri, di tre generali con il Ministro della Guerra ed il Sottosegretario in carica. Sarebbero bastati questi, ma viceversa si vollero raggiungere palesemente altre finalità.

E poi non è bastato: questa legge, senza ragioni di sorta, si è voluta estendere anche ai generali di Divisione, di Brigata ed ai colonnelli.

Si è fatto perché si è voluto fare. Si è fatto a fini evidentemente oppressori.

Badate, non voglio dire che queste finalità fossero operanti nella coscienza di colui che fece questa seconda legge, persona della quale io riconosco l’alto patriottismo. Ma è il marasma diffuso che ci raggiunge anche a nostra insaputa, agendo sul nostro subcosciente e che non ci fa comprendere, tante volte, l’inammissibilità di ciò che si compie, anche nella più limpida convinzione di non far niente di male.

Se di questo doloroso fenomeno volete un esempio evidente, basta che consideriate una legge in sostanza insignificante ma che non può non avere una triste significazione morale: l’abolizione del grado di Maresciallo d’Italia. Questa legge dice che coloro che sono insigniti di questo grado lo conservano, che conservano anche gli emolumenti, ma che sono collocati a riposo ed il grado è soppresso per l’avvenire.

Ci si domanda: quali sono le ragioni di questa legge? C’è, per caso, una ragione economica? Evidentemente no, perché economicamente nulla si sposta. È per impedire che nuovi Marescialli si nominino aggravando la finanza dello Stato? Evidentemente no, perché i marescialli si nominano per fatti di guerra e non è possibile pensare ad una tale eventualità dopo una guerra finita come la nostra.

E allora qual è la ragione? Può essere soltanto una ragione sanzionatoria nei riguardi dell’Esercito italiano, che viene privato della più alta dignità, che pure esiste in tutti gli eserciti grandi e piccoli, monarchici o repubblicani, tanto negli eserciti di Sua Maestà Britannica, quanto in quelli di Stalin e di Tito. Oppure la ragione è quella di prestare anticipata e – perciò – maggiormente deplorevole acquiescenza a questo inqualificabile trattato che vuol ridurre l’esercito italiano ad un esercito da guardia, e anche meno?

Perché, in fondo, questa sola giustificazione si può presentare: l’esercito italiano diventa così minuscolo che il grado di maresciallo non avrebbe ragione di essere. Non si è pensato che fare un decreto come questo prima di esservi costretti dalle disposizioni del trattato era un’anticipata acquiescenza al principio informatore di questo trattato che, disarmando l’Italia e rendendola facile preda di qualsiasi cupidigia, crea una causa di nuove guerre.

Comunque, perché dovevamo aderire, senza prima esservi costretti, con quest’atto di acquiescenza anticipata, al trattato che demilitarizzava l’Italia?

Con la costituzione poi dell’unico Ministero della difesa si continua esattamente in questa stessa linea. In questa decisione, di creare il Ministero della difesa unificando in esso tutti i Ministeri militari, c’è un solo elemento positivo: il patriottismo indiscutibile di colui che è stato preposto a questo Dicastero. Patriottismo certo, come è certo il patriottismo di chi ne ha fatto suprema testimonianza, combattendo per la Patria ed educando i figli nella religione che fiammeggiò nel martirio del figliuolo del nostro Ministro.

Ma, tolto questo lato, tutto è negativo. Tutto è negativo, dalla scelta, dal punto di vista tecnico, del Ministro, al quale non si fa certo torto dicendo che egli, avvocato, non ha la competenza tecnica occorrente per restaurare le sorti delle Forze armate italiane, alla stessa idea della fusione di questi Ministeri. Perché è evidente che l’azione di questo Ministero unificato non potrà rafforzare la ormai sminuita forza. Sarebbe stato meglio che ognuna delle tre Forze armate fosse rimasta col suo competente Ministro. La fusione dei tre Ministeri porterà necessariamente alla minimizzazione delle due branche delle Forze armate meno cospicue: quelle che faranno le spese saranno la marina e l’aeronautica. Prevarrà certamente l’esercito. Eppure per noi quelle altre due branche hanno importanza straordinaria.

Guardate anche la composizione di questo Ministero.

Giacché si era messo un politico a capo del Ministero della difesa, era molto meglio mettere dei tecnici come Sottosegretari. Anche questa volta la scelta è avvenuta con criteri diametralmente opposti a quello delle competenze.

Si sono scelti due avvocati ancora ed un pubblicista. C’è un generale. Questi è il Sottosegretario della difesa, quello che dovrebbe essere il vero e proprio Ministro.

Ma, con tutto il rispetto dovuto al nostro collega, va notato che egli è soltanto generale di divisione. Né io so che sia un generale che abbia particolarmente illustrato la storia militare d’Italia. Io non so comprendere sotto quale aspetto egli fosse proprio l’uomo del caso. Non si poteva trovare un generale del suo stesso valore, ma che avesse un maggiore prestigio sulle Forze armate d’Italia?

E poi da questa situazione nasce un’infinità di problemi, uno più grave dell’altro.

Sappiamo tutti che c’è uno Stato maggiore generale alle dipendenze del Presidente del Consiglio. Poi ci sono i tre Stati maggiori delle tre Forze armate, che stanno accanto al rispettivo Ministro.

Ora, quali saranno in questa nuova situazione i rapporti fra questi quattro Stati maggiori fra di loro e rispettivamente di ciascuno di essi col Presidente del Consiglio, col Ministro della difesa e coi Sottosegretari?

È una quantità di problemi di organizzazione, che sorgeranno, e che era necessario risolvere prima della fusione, perché, studiando questi problemi ad unificazione avvenuta, ne conseguirà un disorientamento, che potrà durare mesi e mesi, forse sino a quando, di seguito ad un’altra crisi, si ricomporranno i vari Ministeri.

Io scommetterei che il Presidente del Consiglio non ha neanche chiesto su questo punto il parere del Capo di stato maggiore generale. Questi avrebbe certamente sconsigliato la fusione o comunque avrebbe detto che prima bisognava fare la riforma e poi la fusione.

Viceversa, come al solito, probabilmente per risolvere una situazione parlamentare, una questione di formula, secondo il gergo in voga, si è pensato di attuare la fusione. Non ci può essere stato nessun altro motivo.

Ed il disorientamento determinato nelle Forze armate si constata anche in tutte le altre branche dell’attività dello Stato, in tutte le branche dell’attività della Nazione.

Noi abbiamo qui sentito il discorso euforico dell’onorevole Scoccimarro; discorso euforico e anche molto abile, perché, se mette in evidenza la grande fattività di questo Ministro, mette anche – o vorrebbe mettere – in evidenza questo: che di problemi non se ne è risoluto veramente nessuno, ma che l’uscente lascia il Ministero nel momento in cui sono creati i presupposti per risolverli tutti. Di modo che, se non si risolveranno, la colpa non sarà sua, ma sarà del suo successore.

Ora, noi non condividiamo questa sua euforia e questo suo giudizio. Indubbiamente noi non siamo pessimisti; noi pensiamo che tutti i problemi, e particolarmente quelli dell’economia e della finanza, in Italia si possono risolvere di fronte alla magnifica prova di potenza di recupero che ha dato il popolo italiano.

Ma il popolo italiano ha bisogno di essere governato.

Vedete: in sostanza si è riusciti ad aumentare le entrate – e di questo noi possiamo senz’altro dar lode al Ministro delle finanze – probabilmente si è predisposto quello che è necessario per aumentarle ancora di più. Però, l’aumento delle entrate è veramente irrisorio di fronte all’aumento delle spese. Era lì che bisognava agire anche, e con molta energia. Viceversa le spese aumentano vertiginosamente; e non soltanto perché, data la direttiva di continuo ampliamento degli interventi dello Stato nei fatti dell’economia, le spese irrefrenabilmente devono aumentare, ma anche per la svalutazione della moneta, alla quale nulla si è saputo contrapporre.

Anzi, vorrei dire, che si è fatto di tutto perché il processo continuasse inesorabile. Basterebbe pensare a tutto quello che si è fatto in rapporto al cambio della moneta, cioè a tutto quello che si è detto, perché di fare non si è fatto niente.

Tutto quello che si è detto! Ma è la prova della maggiore disorganizzazione, della più chiara, completa mancanza di una linea di condotta.

Da questi banchi era venuta l’esortazione perché di questo cambio di moneta non si parlasse, perché il cambio di moneta è sopra tutto antidemocratico, in quanto colpisce allo stesso modo, nella stessa proporzione, il detentore della mercede di una settimana, o di quanto gli può bastare per vivere quindici giorni o un mese, e il detentore di milioni. E poi colpisce essenzialmente i piccoli, quelli che conservano il denaro sotto la piastrella del pavimento, nel bottiglione; non colpisce i grossi capitalisti, i quali non tengono mai il denaro in mano, neanche un’ora; lo investono, ne fanno depositi bancari, acquistano preziosi, hanno comunque grossi volumi di crediti commerciali. Imposta palesemente ingiusta!…

Ma comunque, quale che fosse il giudizio finale circa l’opportunità di fare questo cambio, era troppo chiaro che era necessario non parlarne, se lo si voleva fare. Ancora da questi banchi, da una voce autorevole che lungamente ha illuminato il Governo, venne l’avvertimento: «Non fate questo cambio, e soprattutto non lo annunciate». Perché? Perché se la moneta sarà cambiata, prima che facciamo il cambio, la gente la cambierà in merci. Ed è proprio quello che è avvenuto: dalla piccola massaia, che è corsa a fare tanti acquisti quanti più ne ha potuti fare per il timore che il suo denaro venisse falcidiato dal cambio della moneta, dai commercianti che preferiscono conservare anziché vendere, ai grossi industriali che preferiscono tener valuta estera anziché valuta italiana, tutti quanti hanno cercato di disfarsi di questa nostra minacciata moneta e di comperare più che hanno potuto. Magari non sarà stata questa la causa unica dell’aumento dei prezzi, ma certamente deve essere stata una causa largamente concomitante. Su questo punto bisognerebbe che il Governo avesse una direttiva: o non parlarne più del cambio o farlo immediatamente, e se immediatamente non si può fare, nell’interesse del popolo italiano bisogna rassicurare i cittadini, la collettività, rassicurare che il denaro non sarà cambiato e facilitare il riacquisto della fiducia nella moneta. Perché, altrimenti, col permanere di questa minaccia, si creerà certamente un maggiore disagio.

Eppoi: si è riconosciuto ormai da tutti che la nostra vita nazionale, la nostra economia, non si possono ricostruire che sulla base della iniziativa privata e che la produzione, data la nostra situazione, non può prescindere dal binomio capitale-lavoro. Ma allora, se è così, bisognava non inceppare e non spaventare l’iniziativa privata, e bisognava non deprimere e non perseguitare il capitale.

Ora, io non dico che sia stato veramente perseguitato il capitale, ma si è sempre minacciata una politica così drastica, soprattutto si è data una qualificazione così sfavorevole ai detentori di capitale, che si è determinato il criterio di non mostrare il capitale, di non investirlo, perché, si diceva e si dice: non si sa quello che può avvenire, non si sa come reagisce l’opinione pubblica contro chi ha del denaro e lo spende, lo utilizza, lo mette in circolazione suscitando delle attività. Si pensava e si pensa che ciò facendo si guadagni subito la qualifica di elemento antisociale, di sfruttatore.

Voi convenite che questa atmosfera non è la più invogliante perché questo capitale e questa iniziativa privata collaborino alla rinascita del Paese. Tutte questo bisognerebbe vederlo e noi vi parliamo in vista di questa situazione.

Noi evidentemente non siamo contro la pressione fiscale: la pressione fiscale deve essere quella che deve essere per restaurare le finanze dello Stato.

Naturalmente il denaro necessario non potete chiederlo se non a chi lo ha, chi lo ha deve pagare.

Non siamo nemmeno contrari ad una politica che faciliti le conquiste del lavoro. Se voi, amici della sinistra, siete fautori di queste conquiste, per convinzione filosofica, scientifica, economica, noi lo siamo non soltanto per questo, ma soprattutto perché è un dettame della nostra coscienza religiosa e morale e perciò lo siamo indubbiamente più di voi, più perfettamente di voi, perché ciò non è per noi, come per voi marxisti, il risultato necessario di un determinismo economico, ma un comandamento di Dio.

Ma noi vi diciamo soltanto questo: non continuate nell’errore di bipolarizzare la società in lavoratori e in capitalisti, come se ci fosse in questo mondo qualcuno che non lavora. Anche i capitalisti lavorano e lavora anche chi non è né capitalista né lavoratore nel senso vostro. Lavora per il fatto che è vivo, mangia e pensa.

La bipolarizzazione va fatta tra detentori dei mezzi di produzione e coloro che prestano il lavoro ai detentori di questi mezzi di produzione, partecipando così al processo produttivo. Ma fra queste due categorie – che poi non sono la maggioranza, anzi in Italia sono una minoranza – esistono i cosiddetti ceti medi, composti di produttori autonomi nell’ordine dello spirito o della materia, quei tali ceti che si chiamano medi, non perché stiano nel mezzo come una categoria economica più avvantaggiata della inferiore e meno prospera della superiore, chè, sotto questo aspetto, sono assai spesso gli ultimi: stanno nel mezzo un pochetto come sta una materia in un torchio, compressa da tutte e due le facce. Così, noi dei ceti medi stiamo nel mezzo. E vi stiamo anche in questo senso: perché in noi confluiscono le esigenze della intera collettività che noi riusciamo ad esprimere, poiché siamo forse più capaci di sentimenti metaegoistici.

Noi diciamo: è necessario che questo conflitto si componga scegliendo la forma economicamente più utile di produzione, perché di questo conflitto siamo noi che essenzialmente paghiamo le spese. E vi diciamo: basta con questa lotta, pensate che avete il dovere di produrre. Si trovi la formula più economica, la quale è naturalmente quella che maggiormente facilita la produzione nell’interesse collettivo, sempre sotto la legge della giustizia.

Così, per noi, va impostato il problema e, credetelo, così solo si risolve.

Ma ormai la formula vostra non è che la lotta di classe. Ora, la lotta di classe è una verità di fatto, che si constata come si può constatare un’altra più generale verità che drasticamente si esprime col famoso homo homini lupus. In verità, c’è un rapporto di tensione costante non soltanto fra gli uomini conclusi in formazioni collettive, ma anche fra gli individui; non soltanto reciprocamente fra le classi sociali e fra le Nazioni, ma anche fra gli uomini singoli, financo fra gli appartenenti alla stessa famiglia. Ma la collettività consiste proprio in questo: nella conciliazione di questo stato di tensione, che è necessario fra gli uomini ma non deve divenire regola di condotta. (Approvazioni).

La lotta di classe è una constatazione che si fa; ma non può assurgere a precetto di vita sociale.

Giustizia, giustizia! Giustizia che noi invochiamo molto spesso anche contro di noi.

Ma guardate, per esempio, la giustizia che si determina oggi nelle città e nei campi, con questi blocchi mal congegnati di alcuni fitti urbani e di alcuni prodotti agricoli.

Tutti questi blocchi dei prezzi erano concepibili quando c’era un totale blocco dei prezzi per le merci ed i servizi.

Quando cominciò questa avventura di guerra, fu congegnato il provvedimento del blocco totale dei prezzi. Era un provvedimento assurdo, assurdo come l’articolo 131 della nuova Costituzione che vuole consacrare per tutti i tempi la repubblica.

Così era assurdo il provvedimento che voleva pietrificare la situazione economica che è fluida per sua natura. Era assurdo, comunque poteva essere giusto; ma quando questo blocco è caduto quasi ovunque, non è assurdo mantenerlo così rigidamente solo per alcuni generi? Non vedete che ci sono alcune categorie di persone che si costringono a pagare per tutti, creando una situazione di ingiustizia veramente insopportabile? Ora, la maggior parte di noi siamo inquilini, ma non possiamo non prospettarci la situazione dei disgraziati proprietari di immobili. È notorio che anche gli stipendi della classe più infelice, quella di noi impiegati dello Stato, sono aumentati di 10 volte, i salari sono aumentati di trenta volte, il costo della vita sarà aumentato di una cinquantina di volte, mentre per i fitti si parla di aumenti del 20, 30 o al massimo del 70 per cento. Poi l’ingiustizia appare ancor più clamorosa quando si pensi che questi blocchi riguardano persino gli immobili destinati al commercio. Si può quindi dare e si dà frequentemente in fatto questa assurda situazione, che è contraria ad ogni ragione economica, sociale e morale, che il proprietario muoia di fame mentre il suo inquilino, conduttore di una bottega con affitto bloccato, guadagna milioni o centinaia di milioni. Qual è l’esigenza sociale che richiede che si perpetui una situazione simile? Io non riesco a individuarla.

Ma perché non si affronta la situazione? Davvero si paventa l’aumento di prezzi? Ma, mio Dio, tanta ingenuità economica oggi, in pieno 1947, non può esistere. Noi sappiamo che i prezzi in tempi di rarità di merci non sono commisurati al costo di produzione, bensì appunto a questa rarità. Le merci raggiungono i prezzi che possono raggiungere senza nessuna relazione con quel che le merci o i servizi costano. E voi pensate che potrebbe influire sui prezzi il fatto che un esercente paghi qualche migliaio di lire di più al mese per l’affitto della bottega?

Se siamo tutti convinti di no, perché non si rimedia a questa grave ingiustizia che è ingiustizia contro una classe ormai veramente espropriata almeno di un buon terzo del suo capitale, dato che, praticamente, non percepisce da sette anni alcuna rendita?

Un altro aspetto di questa vostra politica economica, che dovrebbe essere di giustizia e di pacificazione sociale, e che invece finisce con l’aizzare la lotta fra le classi sociali nelle campagne.

Guardate la legge Gullo del 19 ottobre 1944. Non pensi il Ministro che io muova un attacco a fondo contro la sua legislazione agraria. Ne sono invece un fautore, ma solo desidero dei perfezionamenti. Ma la legge Gullo, a cui ho accennato, accusa, secondo me, un errore di impostazione, un pochetto di demagogia della quale non faccio colpa al temperatissimo Ministro dal quale prende nome, ma ne faccio colpa all’ambiente ed al tempo in cui viviamo. In fondo siete venuti in soccorso di una classe che non ne ha bisogno perché tutti sanno che i mezzadri, i compartecipanti, i coloni sono spesso arcimilionari o per lo meno hanno costituito una piccola borghesia che vive nell’abbondanza. Che bisogno c’era di fare una legge simile? Io veramente non sono riuscito a capirlo, ma il guaio si è che avete scatenato una vera guerra. Si fosse almeno trattato di una legge perentoria: i proprietari non prendono più niente, oppure prendono l’uno per cento o il trenta per cento.

No!

Con quella legge, avete avuto l’abilità di far diventare campo di battaglia ogni podere. Nasce infatti in primo luogo la questione: ti tocca il 20 o il 40 per cento? Così infatti è congegnata la legge: noi tutti ben la conosciamo. Ciò è stato essenzialmente causa del gonfiamento delle Commissioni che voi avete istituito, le quali hanno prolificato e sono diventate ora un’infinità. I contadini e i proprietari, invece di lavorare, pensano ad azzuffarsi e, in fondo, finiscono tutti col guadagnar poco o nulla, perché una parte dei loro guadagni se li prendono gli avvocati.

Questo forse è il solo lato favorevole della legge: è una classe molto infelice quella degli avvocati! Ma non v’è certamente altro lato favorevole oltre questo. Alcune volte per poche lire, si fa una questione dinanzi ad una Commissione e poi la soluzione è inevitabilmente che l’una e l’altra parte dovranno pagare alcune migliaia di lire a quel povero professionista che li avrà difesi. Ma le leggi, onorevoli colleghi, debbono essere fatte in modo da non creare inconvenienti più gravi di quelli contro cui si intende provvedere. Così anche fra inquilini e proprietari di case, dato che per le pigioni non si sono sempre stabiliti degli aumenti fissi.

SEGNI Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Lei esagera: ha un’opinione troppo filosofica.

CONDORELLI. No, mi occupo anche di cause civili e le so dire che realmente si fanno di queste barbine cause. Si è creata una tensione tale tra padrone di casa ed inquilino che non sembra vero ad entrambi di avere un argomento per accapigliarsi. Ma, per tornare al campo dell’agricoltura, ricorderò che c’è quel famoso articolo 3 della legge Gullo, che si riferisce ai terreni migliorati, relativamente ai quali è possibile la riduzione della quota del concedente, nel caso in cui la Commissione accerti la rottura dell’equilibrio economico. In genere, quasi tutti i concessionari o coloni considerano rotto l’equilibrio economico e vanno a promuovere la causa. Avete reso un bel servizio all’agricoltura! In complesso, io credo che il Ministro Segni sarà concorde con me nel ritenere che la colonna fondamentale, centrale della economia agraria italiana sia la mezzadria, alla quale, con questa legge, è stato inferto un colpo gravissimo.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Ma questo decreto non riguarda la mezzadria.

FABBRI. Riguarda il lodo De Gasperi.

CONDORELLI. La mezzadria classica esiste in poche regioni d’Italia; altrove esistono invece le cosiddette mezzadrie improprie ed altre forme di compartecipazione. L’onorevole Aldisio mi darà atto che la mezzadria propria in Sicilia non esiste. Ora, queste altre mezzadrie sono diventate tutte quante dei campi di battaglia, delle ragioni di lotta. Voi non dovevate toccarlo questo campo. E penso che non vi era nessun bisogno di toccarlo.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Secondo lei, i contratti di mezzadria impropria nel Mezzogiorno d’Italia sono intangibili?

CONDORELLI. Io mi riferisco alla coscienza pubblica.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. La coscienza pubblica dei proprietari?

CONDORELLI. No: è stato detto proprio dai banchi dell’estrema sinistra che si è formata una piccola borghesia agraria di fittavoli e di mezzadri.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Vi sono contratti vergognosi!

CONDORELLI. Si dice da tutti che si sta formando una nuova borghesia. È un ceto medio che si è costituito.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Ma lei è del Mezzogiorno d’Italia, oppure no?

CONDORELLI. Io sono siciliano. Favorisca l’onorevole Ministro a Catania, a Paternò, e vedrà che razza di mezzadri vi troverà. Questa dunque è una legge fatta a favore di ceti medi, non per i lavoratori nel senso classico della parola. Questo per lo meno per il novanta per cento.

Una voce a sinistra. Vi sono quelli che lavorano anche se ricchi!

CONDORELLI. Ma allora passiamo ad un altro argomento. Qui si tratta di fare un calcolo di giustizia. Si è detto che anche quando viene pattuita la divisione degli utili in ragione del cinquanta per cento questa proporzione non c’è mai per il proprietario, perché la quota del compartecipante è in ogni caso non inferiore al 67 per cento: per tutti i vantaggi che si hanno vivendo in campagna, tenendo animali da corte, utilizzando i sottoprodotti. (Commenti).

Sentite, non fermiamoci su questo punto. Siamo tutti gente che, più o meno, queste cose le conosce. Per ragioni elettorali dite pure tutto quello che volete, ma tra di noi giuochiamo a carte scoperte.

Vi parla una persona che non ha interesse di difendere una parte o l’altra, ma ha solo l’interesse di difendere la pace sociale.

Ora voi avete cercato di raggiungere questa pace sociale con la concessione delle terre. Riguardo a quest’altro ordine di provvedimenti, sono perfettamente d’accordo. Tali provvedimenti sono quanto mai opportuni, perché vengono incontro ad una sentita esigenza del contadino, il quale aspira al possesso della terra che lavora. Dunque ben vengano provvedimenti legislativi in questo senso.

E, poi, c’è un’altra finalità non meno importante: quella di far produrre di più le terre e di incrementare la produzione, perché queste concessioni riguarderebbero i terreni incolti o male coltivati.

Ma anche questa materia – mi scusi il legislatore – deve essere organizzata meglio. Prima di tutto, se veramente si fosse voluto raggiungere un fine di pacificazione, si sarebbe dovuta aggiungere una disposizione par rendere incapaci o indegni di queste concessioni gli enti o i singoli che avessero ricorso ad occupazioni violente. Questo nella prima legge non l’avete messo; lo potreste aggiungere perché così non si verificherebbero più questi casi violenti.

E noi, in Sicilia, di queste cose abbiamo una certa esperienza. Io, con enorme stranimento, mi son sentito dire da un prefetto che questi democratici cristiani sono veramente dei gonzi, perché lasciano passare avanti gli altri. Poi ad un certo punto i buoni parroci sono costretti a raccogliere le vesti ed a correre anche loro. E lo fanno riluttanti. Non lo vorrebbero fare, ma oltre tutto il farlo diventa una necessità. Ora, vi pare necessario stabilire questo palio a chi la fa più grossa?

Una voce a sinistra. Più grossa la fanno le Commissioni.

CONDORELLI. Lasciamo stare questo argomento che si riconnette all’opinione che il collega poco fa mostrava di avere dei magistrati. (Si ride).

Piuttosto, guardiamo le cose realisticamente. Differenze sostanziali fra di noi ce ne sono poche. Quando ci parliamo a quattro occhi ci intendiamo. I guai sono i comizi elettorali, perché in Italia non c’è nessuno che non intenda certe esigenze.

Ora, se si volevano veramente raggiungere fini di pacificazione, sapendo che questi sono fatti collettivi che conducono necessariamente a delle agitazioni, la prima norma del decreto doveva stabilire la incapacità ad avere concessioni di terreni per gli enti ed i singoli che ricorressero ad occupazioni violente. Questo non è stato fatto.

Poi, era necessario creare una possibilità di adesione dei proprietari, perché quando questi disgraziati devono avere un’indennità del venti per cento del prodotto medio del precedente quinquennio, evidentemente si sentono espropriati. Con tutto quello che promettete, e l’imposta sul patrimonio e gli altri cataclismi, evidentemente il proprietario deve considerare questa concessione ai contadini come una rovina sua e della sua famiglia, e reagirà come potrà. Fate leggi umane, se volete che siano rispettate, ed eseguite. Penso che se aveste fatto una cosa economicamente possibile, probabilmente vi sarebbero stati molti proprietari che avrebbero preferito delle cooperative di contadini ai loro affittuari.

Circa il criterio dell’assegnazione delle terre, il mettere sullo stesso piano le terre incolte e quelle insufficientemente coltivate, è un errore. Si ha infatti l’effetto della corsa alle terre che si dicono insufficientemente coltivate e la mancata richiesta delle terre veramente incoltivate. Almeno, in Sicilia, questo è avvenuto, signor Ministro. Si è verificato che le terre incolte rimangono lì, mentre sono richiestissime quelle cosiddette insufficientemente coltivate. Ora, se si voleva raggiungere la finalità di incrementare la produzione bisognava incominciare dalle terre incolte, per poi passare a quelle insufficientemente coltivate. Perché, vedete, di due agricoltori, tutti e due capaci di coltivare insufficientemente le terre, uno, quello a cui la terra è stata tolta, resta con le mani in mano e l’altro lavora, e i terreni incolti rimangono non coltivati.

Una voce all’estrema sinistra. Dicono le Commissioni che non ce ne sono più di terre incolte!

CONDORELLI. Bisogna informarsi meglio; comunque questo dato di fatto non elimina l’inconveniente della legge. Quanto io ho rilevato la legge non lo ha previsto, ed è un errore che deve essere riparato. Ed anche su questo concetto di terre insufficientemente coltivate avete avuto un criterio per il quale ogni terra può dirsi insufficientemente coltivata. Anzi vi dico: tutto il territorio nazionale è insufficientemente coltivato. Usciamo da una guerra di cinque anni durante la quale non si sono avute macchine, non si sono avuti concimi, sono mancati gli uomini.

Io, che, vi ripeto, faccio l’avvocato, nelle cause per risoluzione di contratti agrari, ho spesso sentito dire ai periti, ai consulenti tecnici che non si poteva parlare di inadempienza neanche se la terra fosse stata malissimo coltivata, perché si era coltivata come si era potuta coltivare. Questo è stato detto per i vigneti della mia Sicilia, per gli agrumeti della mia Sicilia, che in genere sono coltivati come dei vasi da fiori. Ma i consulenti molto opportunamente hanno detto: in questi tempi di guerra le terre non si possono coltivare meglio di così. Se in una vigna invece di fare quattro zappature se ne fa una sola, il concedente non se la può prendere con il mezzadro perché oggi non si può fare meglio.

Una voce all’estrema sinistra. Oggi, con l’abbondanza di mano d’opera che c’è, non si può far meglio?

CONDORELLI. Nel 1945-46, quando si andavano ad applicare queste leggi, si scontavano ancora le conseguenze della guerra.

Si dice: ancora non si sono totalmente scontate?

Ancora oggi mancano le macchine agricole e spesso difettano i concimi. Comunque tutte le terre in Italia sono state insufficientemente coltivate sino a pochi mesi addietro.

Ancora io vi chiedo: avete fatto parecchie leggi per le proroghe dei fitti ai coltivatori diretti, dicendo, fra l’altro, che queste proroghe si devono concedere salvo mancato pagamento del fitto o inadempienze gravi. Però un’inadempienza non grave, lieve, media, se non toglie il diritto alla proroga del contratto, mette il fondo in condizioni tali da presentarsi come insufficientemente coltivato. E allora, questo povero proprietario che ha avuto le mani legate, che non è responsabile in nessun modo dello stato in cui si trova il suo fondo, viene fatalmente ad essere privato del possesso della sua terra. E la giustizia, cui è particolarmente sensibile l’animo cristiano dell’insigne giureconsulto che in questo momento regge le sorti dell’agricoltura italiana, dovrebbe portare necessariamente ad una revisione di queste leggi.

Il Ministro sorride, perché comprende forse di trovarsi dinanzi ad una impossibilità politica…

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Sorrido per i complimenti che mi ha fatto.

CONDORELLI. Gliene hanno fatto sempre.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Ora che sono Ministro non me ne hanno fatti più.

CONDORELLI. Consentitemi un’altra osservazione sulla quale, scusatemi, non posso fare a meno di intrattenermi. Un altro punto specifico delle dichiarazioni del Governo: consolidamento della Repubblica e difesa della Repubblica.

Io, veramente, penso che questo problema del consolidamento della Repubblica non vi sia più. Ormai, lo hanno risoluto i 75 con l’articolo 131 della Costituzione.

La Repubblica è definitiva, non è possibile la revisione della legge costituzionale su questo punto. Dunque l’avete consolidata per l’eternità con una legge! Perché ancora vi preoccupate del consolidamento della Repubblica?

Io mi rammarico di una sola cosa: che non abbiate pensato ad impedire i terremoti nella mia Sicilia, o magari ad assicurare una vita, se non immortale, più lunga, a noi deputati e alle nostre famiglie.

Non mi pare che dopo questa legge vi dovrebbe più essere questo problema del consolidamento della Repubblica. Siete andati anche oltre quelli che comunemente si ritengono i confini della potestà legislativa.

Mi ricordo di quei tale caporale austriaco, il quale a chi gli aveva rapportato che un giorno, dopo un acquazzone, era apparso in cielo il tricolore italiano, rispose:

Prafe soldate, patria serfìr con zelo, ma sin ora Radescki tanto pone nicht proipire tricolore in celo.

Voi avete proibito che questa birichina sovversiva della Storia faccia uno scherzo alla vostra Repubblica, e siete convinti di avere servita sufficientemente la Repubblica con questa sapientissima legge, tanto che ho avuto la consolazione di sentire, e dal Presidente del Consiglio e dall’onorevole Togliatti e dall’onorevole Nenni, che non occorrono più leggi per la difesa della Repubblica. In generale sono tutti contrari a tali leggi e di questo va data lode sinceramente.

L’onorevole Nenni chiedeva una cosa sulla quale il suo bollente animo romagnolo non è disposto a transigere: mai, però, l’apologia dei Savoia!

Questa, credo che egli la voglia vietare.

La facciano pure questa legge!

Ma qui, io, malgrado le insolenze che ha rivolto ieri o l’altro ieri alla mia Sicilia – ha usato espressioni veramente poco gentili – vorrei pregarlo di avere la longanimità, che ebbe Radetzski, di non impedire il tricolore in cielo.

Vorrà lui cancellare la storia di un millennio dell’Europa e dell’Italia? Ma l’apologia dei Savoia è fatta da un millennio di storia! Dopo che avrete fatta questa legge, l’apologia dei Savoia si eleverà da ogni zolla della Patria da loro unificata. Questa apologia salirà da ogni cuore autenticamente italiano (Rumori all’estrema sinistra), da ogni uomo civile e sensato, salirà soprattutto dal cuore dei soldati d’Italia, vivi o morti, che da mille anni combattono (Interruzioni), sempre sulle vie del destino della Nazione, guardando a quella croce bianca dei Savoia.

Fate pure queste leggi, anzi vi dico che, come monarchico, le desidero (Interruzioni). Come italiano non posso desiderarle, perché farebbero poco onore alla sapienza giuridica e politica del nostro Paese.

Ed ora consentitemi di dire qualche cosa in rapporto ad un problema che non ha trovato una parola nelle dichiarazioni del Governo.

Finora me la son presa col Governo per quello che ha detto, ora me la prendo per quello che non ha detto.

Non si è parlato del Mezzogiorno. Forse non se ne è parlato perché si è fatto sufficientemente. Io non me ne sono accorto.

Ce ne hanno parlato invece gli onorevoli Nenni e Saragat, che, forse per ragioni di concorrenza fra loro, si volgono ambedue con molto zelo alla questione del Mezzogiorno. Siccome ne ha trattato il Partito socialista numero due, era naturale che ne volesse trattare anche il Partito numero uno per non rimanere indietro.

Sebbene come meridionale io sia lieto che questi partiti pongano la questione all’ordine del giorno, non posso però esser grato all’onorevole Nenni della particolare menzione fatta della mia Sicilia.

Probabilmente fu determinata, come sempre avviene, dalle cose dette da un siciliano: l’onorevole Li Causi. Perché, in realtà, quelli che determinano questi stati d’animo nei confronti della Sicilia, siamo tante volte noi siciliani stessi, che ne diciamo male forse per il desiderio di meglio.

L’onorevole Li Causi ha fatto una descrizione tenebrosa di un’alleanza che unisce mafia e baroni per conculcare gli interessi dei poveri contadini.

Di fronte a questa descrizione di sapore medioevale poteva essere giustificato il giudizio dell’onorevole Nenni. Ma anche questo non è dovuto al bollente spirito siciliano dell’onorevole Li Causi?

Quanto ai baroni come classe sociale, posso assicurarvi che in Sicilia questa classe sociale esiste molto meno che altrove. Coloro che non sono stati mai in Sicilia hanno modo di vedere i baroni siciliani negli uffici delle ipoteche, negli uffici del registro, nelle cancellerie, perché in Sicilia ne sono rimasti ben pochi, e quelli che sono rimasti sono stati assimilati dalle altre classi sociali.

I baroni detentori dei latifondi si contano ormai sulla punta delle dita. Vi prego di aggiornarvi anche su questo.

Una voce a sinistra. Ci parli degli assassinî!

CONDORELLI. Grazie, signore. Così arriviamo lontano nelle nostre conversazioni! Con questa reciproca comprensione!

Se esistono baroni in Sicilia, forse sono baroni tutti i siciliani, compreso l’onorevole Li Causi, il quale probabilmente lo è più degli altri, perché in lui spiccano quella spavalderia un po’ guascona, quel senso di rispetto di sé e degli altri, che si estrinseca in un contegnoso riguardo delle forme che dà a molti siciliani, anche ai popolani, l’aria di hidalgos. Ma l’idea di questi baroni contrapposti come classe sociale alla classe dei contadini è un’idea anacronistica, di almeno 100 anni, perché è noto che lo scioglimento dei fidecommessi fece quasi scomparire questa classe nel giro di pochissimi lustri.

Esiste però la mafia.

Quanto alla mafia, vi dichiaro che non mi sento di controbattere l’onorevole Li Causi, perché io vivo nella Sicilia orientale.

È una terra prodigiosa, non soltanto per la bellezza naturale, ma perché la nobiltà degli uomini supera questo stesso immenso prodigio.

La stessa impressione l’ho anche avuta andando nella Sicilia occidentale.

D’altro canto, non sono sufficientemente vecchio per ricordarmi della mafia, prima che fosse stroncata dal prefetto Mori. Non vi saprei, difatti, dire dei tempi di prima.

La mafia dalle parti nostre non è riapparsa; forse è riapparsa in quel di Palermo.

Sono convinto che si tratta di un fenomeno locale.

Non confondiamo, nessuno di voi confonderà, la mafia col banditismo: sono cose totalmente diverse.

La mafia è un’associazione di persone che si difendono reciprocamente, che formano una specie di Stato dentro lo Stato, che si proteggono a vicenda e che in generale non ricorrono alla violenza fisica, ma solo alla intimidazione, al più alla minaccia. Si presentano con parole contegnose, com’è stile dei siciliani, raccomandando che una persona non si disturbi, che un’altra si faciliti, che un’altra si licenzi o si assuma; non ricorrono quasi mai ad atti di violenza, perché generalmente sono ascoltate.

Invece, il banditismo è altra forma.

La mafia è veramente alleata dei ceti agrari?

lo veramente spererei di no, perché, siciliano e aclassista come sono, amo tutta la Sicilia, senza distinzione di classi, perciò non so infierire contro alcuno. Mi auguro, dunque, di no.

Se esiste questo legame, la colpa non è tanto dei siciliani, quanto di alcune leggi o del modo in cui quelle leggi sono state applicate.

Perché, quando si verificano casi come quelli che ha qui dipinti l’onorevole Bellavista, che, del resto, sono noti a tutti, di occupazione a mano armata… pensate che proprio in Sicilia sia nato il detto Vim vi repellere licet?

In fondo, se dovessi proprio scegliere nella tranquillità della mia coscienza, io preferirei, come insegnò Socrate, subire la violenza, anziché farla. A sangue caldo, non so. Ma, teoricamente, potrei preferire di subire un male fisico, anziché fare un male morale. Ma, comunque, umanamente, mi spiego come siciliani, non protetti dallo Stato nei loro diritti, si siano potuti rivolgere anche a delle associazioni illecite. Certo che atti di violenza sono venuti a conoscenza anche del signor Ministro. Ed allora, se non c’è la difesa dello Stato, si ricorre alla difesa privata.

Una voce a sinistra. C’era anche prima: non invertiamo le cose; era già prima al servizio degli agrari, prima che i contadini domandassero la terra.

CONDORELLI. Esisteva, poi fu estirpata. Ho detto che la mafia è uno Stato dentro lo Stato. Quando c’è uno Stato forte, la mafia può essere anche estirpata come fu estirpata. Quando l’autorità dello Stato è in crisi, rinasce la mafia in Sicilia. Altrove nascerà con altri nomi, che io non posso identificare, perché non ho avuto il piacere…

BOSI. In altri posti si chiamano squadristi!

CONDORELLI. O se no l’opposto, che è circa la stessa cosa!

Questa è la verità. Quando c’è la crisi dello Stato, la crisi della legalità, si verificano questi fenomeni. Ma non facciamo un quadro particolarmente tenebroso della Sicilia; non ripaghiamo questo nobile paese della dimenticanza, dell’oblio in cui è stato lasciato da tutta l’Italia col dileggio e parlando di una scarsa civiltà di questo Paese, che ha civiltà da trasferire. Io non so se il collega che mi sorride, mi sorrida per ironia…

BOSI. No, no! Sono persuaso; ed è un peccato che i grandi proprietari siciliani abbiano soffocato lo sviluppo di questa civiltà. Questa è la situazione!

PRESIDENTE. Onorevole Bosi; non interrompa!

CONDORELLI. I grandi proprietari siciliani? Ho fatto già la distinzione. La ricchezza ha già circolato; non vi sono più i baroni. D’altro canto anche fra questi baroni – se l’onorevole si aggiornasse sui casi della Sicilia, lo apprenderebbe – vi sono veramente dei grandi bonificatori. È gente che non si è fermata a bonificare la sola Sicilia, ma è passata dall’altro lato ed ha bonificato Tripoli, Bengasi, Derna. C’era tutto il popolo siciliano, rappresentato da tutte le classi, e anche da quei baroni che hanno saputo trovare i residui delle virtù della loro vecchia razza. (Applausi a destra).

BOSI. Adesso lasciamo stare il passato! (Commenti – Interruzioni – Rumori).

CONDORELLI. Sono apparsi di questi baroni sull’orizzonte della vita nazionale. Oh, io non vi vado a ricordare le glorie di Archimede o di Epicarmo; io vi parlo delle glorie di oggi…

BOSI. Allora ci sono i baroni. (Rumori).

CONDORELLI. È apparso un Verga, che se non era proprio un barone, era un aristocratico; ed era un aristocratico nella persona e nello spirito. Credo di non far ingiuria a nessuno, affermando che è il nome più illustre delle lettere che abbia avuto la Terza Italia!

È emerso nella vita nazionale un altro siciliano, che si chiamava Antonino di San Giuliano. Questi non era barone, ma era marchese. E questi fu un inarrivabile, un veramente nobile servitore dello Stato. E io vorrei che fosse sempre innanzi agli occhi di tutti noi quest’uomo che, quando gli fu comunicata la morte del suo unico figlio, non lasciò la Consulta, perché si era nel periodo della nostra neutralità, preparatrice dell’intervento. Non lasciò la Consulta neanche per un minuto, e tre mesi dopo seppe morire nella Consulta stessa, senza allontanarsi dai telefoni che lo mettevano in contatto con le capitali del mondo. E l’indomani della sua morte, della morte di questo barone, la sua famiglia dovette vendere il palazzo magnatizio per pagare i debiti che si erano accumulati, mentre Antonino di San Giuliano adempiva al suo dovere di Ministro d’Italia. (Applausi a destra).

E non voglio parlare di vivi che sono in quest’aula, e che tutti quanti conosciamo come maestri di scienza, di vita, di virtù e di patriottismo. (Approvazioni a destra).

Questa, o signori, è la vera Sicilia, nel quadro che vi devo fare, correggendo quello fantasioso dell’amico Li Causi.

Amici, credo di avervi parlato a lungo e ve ne chiedo venia; però ho ancora poche cose da dire, che, credo, meritino la vostra attenzione, per cui ve la chiedo per altri cinque minuti.

In questi giorni si è verificato un evento di eccezionale importanza nella storia del nostro Paese, evento veramente storico, la firma del Trattato di pace.

Noi, che siamo stati testimoni oculari delle vicende che hanno preceduto e succeduto questo atto, sappiamo che questo atto è stato compiuto mentre la Costituente era adunata, senza che si consultasse la Costituente stessa.

Io sono lungi dal dubitare del senso di patriottismo e della cura gelosa dell’interesse dello Stato che hanno determinato la condotta dei nostri attuali governanti. Io, sebbene sia di parere contrario – e questo parere, non essendomi stata concessa la parola, lo gridai abusivamente da questo banco – non dubito della rettitudine delle vostre intenzioni, e sarei pronto magari ad esaminare le vostre ragioni, che peraltro conosco. Io personalmente rimango sempre di quella opinione.

Io ho un vanto: che gli studi di storia e di sociologia, di cui in qualche modo sono nutrito, mi hanno messo al coperto da una illusione che si determinò in molti italiani: che questa guerra e questa pace potessero essere diverse dalle guerre e dalle paci che si sono avute dacché l’umanità vive questa sua tremenda tragedia. Non mi sono mai creato illusioni sulla sorte di vinti che ci era riservata. Io so che ancora, chissà per quanto tempo, la legge internazionale sarà la legge della jungla. Però io dico che a tutto si può giungere, tranne che al sacrificio dell’onore. Alla luce del XX secolo non è ammissibile che degli esseri umani, che dei cittadini, vengano barattati come bruti di armento.

Ho parlato della mia Sicilia. Consentite che vi dica ancora una parola per narrarvi un episodio che, secondo me, scolpisce quell’anima siciliana che ho tentato di illustrarvi. Due anni addietro, in un casolare di campagna vivevano alcuni contadini, il padre settantacinquenne e tre suoi figliuoli, di cui uno scemo. Una notte quella casa, come tante altre case della Sicilia, fu visitata dai briganti ed il vecchio, prudente, inibì ai figliuoli di resistere, ed assistette impassibile, nella sua grande, nobile anima, alla messa a soqquadro ed al saccheggio della propria casa.

Furono asportati denari, prodotti agricoli, le povere masserizie, e il buon vecchio rimase tranquillo. Ma bastò che uno di quei masnadieri, in un momento di stizza, desse uno schiaffo al figliuolo scemo, perché il vecchio desse di piglio ad una scure e li uccidesse tutti e tre.

Noi non avevamo una scure da impugnare, ma non dovevamo renderci corresponsabili e complici, sia pure con una firma necessitata, di quello scempio, di quell’obbrobrio con cui degli italiani sono ceduti allo straniero violando il diritto sacro non degli italiani, ma di tutti gli uomini, consacrato dalla coscienza civile del secolo nostro: l’autodecisione dei popoli.

Ad ogni modo, non è di questo che volevo parlarvi.

Sta di fatto che un Governo che si dice democratico ha compiuto un atto di una importanza irraggiungibile per la vita nazionale, senza consultare l’Assemblea, che era riunita.

Non perché non valga aver riservato il diritto dell’Assemblea a ratificare questo trattato, non perché non valga, amico Segni: so che giuridicamente questo ha la sua importanza e spero che ne abbia molta e che l’abbia decisiva…

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. La ratifica è tutto.

CONDORELLI. Sissignori; però l’atto della firma è sempre un atto di una irraggiungibile importanza ed era necessario, secondo i dettami universalmente riconosciuti della democrazia, che l’Assemblea legislativa, depositaria della volontà popolare, che ha appunto la funzione di dirigere il Governo, venisse consultata…

MASTINO GESUMINO. …e si compromettesse anticipando il giudizio. Dovreste comprendere almeno questo!

CONDORELLI. Chi dice questo non ha fiducia nella democrazia!

MASTINO GESUMINO. Noi abbiamo fiducia piena, tanto che riserviamo all’Assemblea il suo giudizio.

CONDORELLI. Consentitemi; si vede che pensavate che questa Assemblea non fosse sufficientemente matura per assumere il contegno che doveva assumere. Evidentemente, c’è del paternalismo nei confronti di questa Assemblea e questo paternalismo è il motivo comune degli antidemocratici.

MASTINO GESUMINO. Questo è spostare l’argomento, non è rispondere! Si chiamerebbe una petizione di principio…

CONDORELLI. Badate, che il fatto è di una portata immensa.

Coloro che si occupano di studi sanno che il diritto costituzionale di un Paese non è scritto tutto nelle costituzioni; non è contenuto tutto nelle consuetudini, ma vi è una norma basilare che è stata chiamata dalla nostra scienza il «diritto tacito fondamentale» che nasce dall’atteggiamento reciproco che assumono i poteri costituzionali dello Stato.

Per esempio, tutti sappiamo che lo Statuto Albertino predisponeva un Governo rappresentativo. Questo Governo rappresentativo diventò un Governo parlamentare. Perché? Per il diverso atteggiamento che presero i poteri nelle varie crisi governative a cominciare dal 1849.

Questi fatti hanno un potere di conformazione sulla struttura costituzionale del Paese.

Bene, io vi dico che il giorno 10 febbraio, allorquando si compì un atto così importante, senza avere inteso l’Assemblea Costituente – cioè un’Assemblea particolarmente qualificata, che forse mai più si presenterà nella storia d’Italia – si è inferto un colpo irreparabile alla democrazia. (Commenti.).

MASTINO GESUMINO. Questa è retorica.

CONDORELLI. Vi prego di riflettere. Quanto è avvenuto potrà servire come precedente ad una infinità di casi, perché è difficile che si presenti un fatto altrettanto importante in avvenire. E se è stato lecito non sentire la volontà dell’Assemblea Costituente d’Italia in tale circostanza, sarà sempre lecito trascurare il Parlamento in avvenire. Se volete difendere la democrazia, non lasciate passare questo incidente altrimenti vi rendete complici di una usurpazione di poteri.

Badate, io voglio ancora una volta riconoscere la buona fede e l’alto patriottismo di coloro che così si sono comportati. Ma quando si ha la disavventura di trovarsi in una situazione simile, si compie tutto il proprio dovere andando incontro a tutte le conseguenze e poi ci si dimette, perché bisogna che rimanga fermo nella storia parlamentare che questo fatto politico, contrario alle leggi fondamentali della democrazia, per quanto compiuto col migliore dei sentimenti, ha trovato la sua sanzione.

E vi è un altro aspetto del problema nei riflessi di carattere internazionale. Che cosa varrebbe la protesta che ha fatto la nazione sospendendo il lavoro per 10 minuti; che cosa varrebbe la sospensione per mezz’ora della nostra seduta se, a distanza di 15 giorni, noi dessimo il voto di fiducia al Governo che ha firmato quella pace?

UBERTI. È questo ciò che le preme!

CONDORELLI. A questo punto io voglio fare appello principalmente a voi, onorevoli colleghi dello schieramento governativo; a voi comunisti, a voi socialisti, a voi democristiani, perché sono convinto di non rivolgermi invano quando mi appello alla vostra coscienza democratica e nazionale. In questo momento non vi chiedo né consensi né dissensi; io vi chiedo di riflettere, nell’intimità della vostra coscienza, sui problemi che vi ho posto. Riflettete pensando che le soluzioni possono essere decisive per la nostra vita nazionale.

Questi problemi sono: è necessario, per la conservazione della democrazia, che un voto dell’Assemblea sottosegni la sanzione di questa invasione dei suoi poteri, pur deferendo totalmente alle finalità che hanno mosso chi ha commesso questo atto di usurpazione? È necessario, perché la nostra protesta abbia un maggior significato all’estero, che si sappia che il Governo che, pur con tutte le riserve, ha messo quella firma, non aveva allora, e non ebbe neanche dopo, la fiducia dell’Assemblea Costituente?

A voi la risposta; nell’intimità della vostra coscienza assumete la vostra responsabilità. Io l’ho assunta col dire no a questo Governo. (Applausi a destra – Commenti).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani.

Presentazione di un disegno di legge.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di presentare un disegno di legge.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Per incarico del Presidente del Consiglio, mi onoro di presentare all’Assemblea Costituente il seguente disegno di legge: «Partecipazione dell’Italia agli accordi internazionali di Bretton Woods».

PRESIDENTE. Do atto all’onorevole Ministro di grazia e giustizia della presentazione di questo disegno di legge che sarà inviato alla Commissione competente.

Interpellanza.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Grilli ha presentato la seguente interpellanza con richiesta che lo svolgimento ne sia fissato lunedì 24 corrente:

«Interpello il Presidente del Consiglio sui risultati della inchiesta già promessa in risposta alla interrogazione urgente svolta nella seduta del 10 corrente, a proposito dell’accusa di corruzione ad un Ministro contenuta nel settimanale L’Europeo del 9 corrente, tanto più che un altro giornale si è permesso di precisare l’accusa suddetta gettando discredito sopra un membro del Governo».

Chiedo al Governo di voler dichiarare se accetta che lo svolgimento avvenga lunedì.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Chiedo che l’interpellanza sia svolta dopo la chiusura della discussione in corso.

PRESIDENTE. Rimane allora inteso che questa interpellanza sarà svolta nella seduta destinata appunto alle interpellanze ed interrogazioni urgenti, che sarà tenuta subito dopo la chiusura della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. È stata presentata dall’onorevole Rescigno, con richiesta d’urgenza, la seguente interrogazione:

«Ai Ministri della pubblica istruzione e del tesoro, per sapere quali provvedimenti intendano subito adottare di fronte alle giuste richieste dei professori secondari, accompagnate dall’annunzio di sciopero per lunedì prossimo, come da pubblicazione di qualche giornale odierno».

È stata pure presentata con richiesta d’urgenza dagli onorevoli Canepa, Rossi Paolo, Pera, Caronia, Viale, Giua, la seguente interrogazione:

«Al Ministro dei lavori pubblici, per sapere se intende provvedere all’assegnazione dei fondi necessari per la costruzione dell’acquedotto e della fognatura di Diano Marina, lavori urgenti da compiersi prima dell’inizio della stagione estiva per scongiurare il ripetersi della epidemia di tifo che nell’estate scorsa cagionò a quella cittadina tante sventure e tanti lutti.

«I progetti tecnici per detti lavori sono pronti; il Provveditore delle opere pubbliche per la Liguria li ha approvati e trasmessi al Ministero.

«Non si aspetta che l’assegnazione dei fondi per metter mano ai lavori, necessari per la sanità della Riviera ligure e urgentissimi».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Interesserò i Ministri competenti, affinché dichiarino quando potranno rispondere.

Interrogazioni e interpellanze.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle altre interrogazioni e delle interpellanze pervenute alla Presidenza.

CGHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere quali provvedimenti abbia preso nei confronti dei responsabili della evasione dalle carceri di Mantova dell’ex brigante nero Marcello Vaickievich, seviziatore e assassino di patrioti, condannato a trent’anni di reclusione; fuga avvenuta il 18 febbraio in circostanze sbalorditive; per chiedere se il Ministro non creda opportuno emanare disposizioni tendenti ad evitare il ripetersi di troppo frequenti evasioni consimili che ridicolizzano l’Amministrazione della giustizia, e che in definitiva costituiscono un imprevisto ampliamento della già tanto deprecata amnistia.

«Dugoni».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per chiedere se sia a conoscenza che la Missione italiana per la restituzione dei materiali artistici e scientifici asportati dai tedeschi ha sospeso da tre mesi la propria attività, che si avviava a soddisfacente conclusione, per l’interferenza d’interessi estranei all’Amministrazione dello Stato; se gli risulti che, di conseguenza, siano state abbandonate indagini già in corso per il recupero di alcuni celebri pezzi artistici, ed altro prezioso materiale recuperato, ed insufficientemente custodito, rischi di essere asportato; quali provvedimenti, infine, intenda immediatamente adottare, per tutelare gli interessi del nostro patrimonio artistico ed il nostro prestigio presso le Autorità di occupazione in Germania.

«Codignola, Binni, Longhena, Bianchi Bianca, Treves».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere:

1°) se corrisponde ad esattezza che l’attuale trattamento economico del presidente, del cancelliere capo e dell’usciere di un tribunale della Repubblica sia quello rivelato dalle cifre sottoindicate.

«Il presidente (grado V), con moglie ed un figlio a carico, percepisce complessivamente nette lire 25.108, e cioè: per stipendio, lire 16.014; per caroviveri, lire 5675 e per indennità di carica, lire 3419.

«Il cancelliere capo (grado VII), con pari carico di famiglia, percepisce nette lire 18.150 e cioè: per stipendio, lire 12.515; per caroviveri, lire 5675; oltre le quote dei proventi che in media possono calcolarsi intorno alle lire 4000 mensili.

«L’usciere, sempre con lo stesso carico di famiglia, percepisce lire 12.115 e cioè: per stipendio, lire 6440; per caroviveri, lire 5675; oltre i proventi incerti e taluno col godimento gratuito dell’alloggio;

2°) se non ritenga assolutamente indispensabile ed urgente, in attesa della soluzione definitiva in sede di Costituzione, porre riparo a questa critica insostenibile ed indecorosa situazione economica, in cui sono venuti a trovarsi i magistrati dell’Ordine giudiziario, situazione denunciata anche dalla stampa;

3°) se non creda opportuno all’uopo proporre l’adeguamento dell’indennità di carica che al tempo della concessione (decreto legislativo luogotenenziale 8 febbraio 1946, n. 65) rappresentava un notevole aiuto mentre, in relazione all’attuale costo della vita, è diventato, nell’originario e mantenuto ammontare, assolutamente irrisorio.

«Macrelli».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere perché le indennità dovute ad enti, istituti e privati in dipendenza della avvenuta requisizione di beni mobili ed immobili, da parte delle forze armate germaniche occupanti, non vengano considerate alla stessa stregua delle analoghe indennità per requisizioni, da parte delle Forze Armate Alleate, e se non si intenda emanare opportune disposizioni in modo da evitare tale ingiustificata diversità di trattamento.

«Pat».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se ritenga opportuno anticipare, nei confronti dello scorso anno, la decisione sul mantenimento o meno delle scuole governative staccate, di qualsiasi ordine e grado, al fine di evitare l’inconveniente, verificatosi in passato, che una troppo tardiva decisione ponga gli interessati nella situazione di non poter predisporre in tempo la loro iscrizione alle scuole staccate e li costringa a ricorrere alle centrali, con evidente maggior dispendio.

«Pat».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere le ragioni per le quali il Comando della Legione dei carabinieri di Bari non corrisponde ai sottufficiali e militari di truppa l’indennità di missione dovuta a tutti i dipendenti statali, come disposto dalla circolare a stampa del Ministero del tesoro, Ragioneria generale dello Stato, Ispettorato generale per gli ordinamenti del personale, in data 26 giugno 1946, avente per oggetto: «Missioni e trasferimenti dei dipendenti statali», n. 139009; indennità, invece, che è stata corrisposta solamente agli ufficiali e marescialli maggiori comandanti di sezione e che, a causa di questo trattamento di sperequazione, ha dato origine a un vivo malcontento fra i militari della categoria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Motolese».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere quali provvedimenti intenda adottare per una più celere comunicazione ferroviaria fra Torino-Genova-Roma. Risulta, per vero, che mentre altri centri sono collegati con Roma da mezzi rapidi, la linea Torino-Roma presenta notevoli disservizi con un impiego di tempo eccessivo ed ingiustificato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Bovetti, Scotti Alessandro, Bellato, Bertola, Quarello».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non intenda promuovere, di concerto con gli altri Ministri interessati, la rinascita dell’istituzione «Garaventa», benemerita e cara ai genovesi, la quale, prima che la nave «Redenzione» andasse distrutta per bombardamento, raccolse, istruì, inviò al lavoro del mare migliaia e migliaia di fanciulli abbandonati o traviati. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Rossi Paolo, Canepa, Pera».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri del lavoro e previdenza sociale e delle finanze e tesoro, per sapere se intendano provvedere alla tristissima situazione in cui si trovano cittadini italiani infortunati sul lavoro durante la loro residenza in Germania e beneficiari di pensioni di Società assicurative, che non vennero più corrisposte dopo l’8 settembre 1943. Finita la guerra i pagamenti di dette rendite sono stati ripresi dagli Stati con i quali l’Italia ha riallacciato i rapporti diplomatici, mentre rimangono tuttora sospesi da parte della Germania per la mancanza di detti rapporti. Si chiede se non sia possibile che il Governo italiano conceda direttamente le pensioni potendo poi operarne rivalsa all’atto della ripresa dei pagamenti da parte delle Assicurazioni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Binni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere – in relazione alla risposta scritta data all’interrogante in data 19 febbraio, secondo la quale il Ministero dell’agricoltura e delle foreste avrebbe richiesto uno stanziamento di circa 120 milioni, per miglioramenti nelle sistemazioni delle valli da pesca della provincia di Venezia – quale parte di questi fondi sarebbe devoluta ad opere di sistemazione idraulico-lagunare attinenti a interessi pubblici della navigazione, e quale parte alla produzione ittica delle valli chiuse di proprietà privata. E per conoscere, altresì, se gli organi competenti, negli stanziamenti in favore delle valli chiuse, hanno fatto il calcolo di quali vantaggi potranno portare alla produzione ittica i relativi lavori, e quali sono le cifre esatte di questo calcolo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Carlo».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Ministro di grazia e giustizia, perché siano posti allo studio ed attuati i provvedimenti e le riforme, più volte invocati e diretti a procurare alla Magistratura italiana quelle garanzie giuridico-morali e quella situazione economica indispensabili per il prestigio ed il decoro di quanti debbono essere gli interpreti e gli esecutori delle leggi dello Stato democratico.

«Perché sia garantito un più organico ed equo funzionamento dell’amministrazione del Fondo per il culto, evitando i ritardi e le inframmettenze che intralciano il regolare svolgersi delle pratiche, provvedendosi ancora ad assicurare e urgentemente un più equo trattamento economico al clero italiano.

«Perché si provveda senza ulteriori indugi, ed in attesa di una definitiva riforma, a ripristinare quegli organismi giudiziari soppressi o modificati dal defunto regime e in primo luogo le Corti di cassazione regionali, che vantano una così insigne tradizione nella storia giuridica italiana.

«Perché siano senza indugi abolite tutte quelle giurisdizioni speciali, attraverso le quali si polverizza l’unità giurisdizionale dello Stato.

«Bovetti».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Ministro dei lavori pubblici, sulla opportunità di includere fra i lavori urgenti di pubblica utilità:

  1. a) la costruzione di una camionale che da Novara, seguendo il tracciato delle attuali strade provinciali asfaltate, attraversi il Po con ponte stabile a Pieve del Cairo, e giunga a Tortona;
  2. b) la costruzione di una camionale, con ponte stabile sul Ticino e Bereguardo, la quale, staccandosi da Binasco e seguendo il tracciato delle attuali strade provinciali, per Garlasco, Sannazzaro de’ Burgondi e Castelnuovo Scrivia, giunga a Tortona.

«Canevari».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Ministro dell’interno, per sapere che cosa aspetti per trasferire il Prefetto di Mantova, il quale:

per quanto non riesca a dirigere né gli uffici da lui dipendenti, né quelli sottoposti alla sua tutela ed alla sua vigilanza, come dimostrano gli scandali a ripetizione della Sepral, della Questura, dell’Ufficio autotrasporti, e l’assoluta carenza di considerazioni in cui egli è caduto presso i suoi stessi funzionari di Prefettura;

per quanto, portato dai suoi errori ad essere in rapporti insostenibili con i tre partiti di massa e con la Camera del lavoro;

per quanto abbia lasciato svuotare gli ammassi granari, sino a ridurre le scorte a meno di 1000 quintali di grano, suscitando una gravissima inquietudine tra la popolazione della provincia;

per quanto sommerso nel ridicolo da una sbalorditiva evasione dalle locali carceri di un fascista condannato per omicidi multipli ed efferate sevizie a trent’anni di reclusione; continua ad essere protetto e tenuto nella più alta considerazione dai burocrati che al Viminale detengono più che mai saldamente il potere.

«Dugoni».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure le interpellanze saranno iscritte all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 19.45.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

  1. – Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
  2. – Esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

GIOVEDÌ 20 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XLII.

SEDUTA DI GIOVEDÌ 20 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE PECORARI

INDICE

Sul processo verbale:

Sereni, Ministro dei lavori pubblici                                                                     

Patrissi                                                                                                             

Amendola                                                                                                        

Rossi Paolo                                                                                                      

Interrogazioni (Svolgimento):

Gasparotto, Ministro della difesa                                                                     

Nobile                                                                                                               

Cingolani                                                                                                         

Carpano Maglioli, Sottosegretario di Stato per l’interno                                   

Gallo                                                                                                               

Discussione del disegno di legge costituzionale d’iniziativa della Presidenza: Proroga del termine di otto mesi previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, per la durata dell’Assemblea Costituente:

Presidente                                                                                                        

Grassi, Relatore                                                                                                

Colitto                                                                                                             

Ambrosini                                                                                                         

Votazione segreta:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Selvaggi                                                                                                           

Bosi                                                                                                                   

Chiusura della votazione segreta:

Presidente                                                                                                        

Interpellanze con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Scelba, Ministro dell’interno                                                                             

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste                                                    

Risultato della votazione segreta:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

SCHIRATTI. Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.

SERENI. Ministro dei lavori pubblici. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha la facoltà.

SERENI, Ministro dei lavori pubblici. Sono lieto che una interruzione del signor Patrissi nel corso della seduta di ieri mi dia l’occasione di inchiodare alla gogna, nella sede appropriata, quanti credessero di poter portare in quest’aula le spazzature dei fogli fascisti che tornano a pullulare nel nostro Paese.

Farei offesa alla dignità di questa Assemblea, se considerassi come un fatto personale l’insulto che il signor Patrissi ha rivolto non a me, ma a tutti gli eroici combattenti e caduti della lotta antifascista e della lotta contro il tedesco. A quell’insulto ho già risposto ieri con l’apostrofe appropriata; ma se dovessi interpretare, come un fatto personale, l’insulto del signor Patrissi, dovrei aggiungere all’apostrofe di ieri un’altra qualifica, che si riferirebbe non più alle sue qualità morali, ma a quelle intellettuali. Se il signor Patrissi infatti avesse scelto, per completare la sua qualifica politica, il suo suicidio politico, proprio gli attacchi contro la mia modesta persona, avrebbe scelto male – diciamo così – l’albero a cui impiccarsi.

Noi militanti antifascisti non abbiamo l’abitudine di gloriarci dei nostri meriti e dei nostri sacrifizi, e sono dolente di dovere, in questa occasione, parlare brevemente della mia attività antifascista. Ma se il signor Patrissi avesse voluto, con una certa intelligenza, attaccare gli antifascisti e i combattenti della lotta di liberazione, avrebbe potuto forse attaccarsi a qualche pecora rognosa, che può esistere in ogni aggruppamento di uomini.

Per un eccessivo riconoscimento, certo, che il fascismo ha voluto dare alla mia attività antifascista, io credo di essere in quest’aula il combattente che ha subito la più grave condanna complessiva: quindici anni in una prima condanna, e ventotto in una seconda (e non solo quattordici, come pensa il signor Patrissi e come ha scritto la stampa fascista a lui così cara). Sono rimasto inoltre rinchiuso, senza processo, perché i tedeschi non avevano questa buona abitudine, per sette mesi nel braccio della morte delle S.S. e sono stato messo sette volte al muro, riuscendo a non essere fucilato solo per l’intervento provvidenziale del mio partito. Vi sono in quest’aula degli uomini che sono stati testimoni e compartecipi di queste vicende.

Vi è, certo, il nostro Presidente Terracini, vi è il compagno collega Scoccimarro, che hanno scontato una pena maggiore della mia in numero di anni di galera; ma non è colpa mia se la mia giovane età (39 anni di età e 43 anni di condanna) e la caduta del fascismo mi hanno impedito di passare troppi anni in galera. Non è colpa, comunque, neanche del signor Patrissi, se non ho scontato tutta la mia condanna.

Non parlo della condanna del Tribunale speciale nel 1930. Fino al 1930, e prima ancora di essere in rapporti con il Centro del Partito Comunista, organizzai, clandestinamente, gli operai di Napoli, nelle grandi officine di Napoli, per la difesa dei loro interessi quotidiani. In conseguenza di questa mia attività fui condannato nel 1930 a 15 anni dal Tribunale speciale insieme ad altri lavoratori napoletani. Abbandonati allora la mia professione, la mia carriera scientifica, forzatamente. Lasciai le mie condizioni di famiglia, che erano agiate, per andare in galera. Non so dove era l’onorevole Patrissi in quel momento. Dopo di allora, scontai parecchi anni in carcere; dopo, conseguenza di amnistie, uscii dal carcere.

Io parlerò, senza far cenno della mia attività intermedia, soltanto della seconda condanna che ho subita ed alla quale, forse, ha voluto fare allusione il signor Patrissi, alla quale hanno fatto allusione la stampa fascista e la stampa così detta indipendente, che con tanta compiacenza accoglie le immondizie della stampa fascista.

Ho sempre rifiutato di rispondere a queste sozze calunnie. Sarebbe grave per la democrazia italiana, se un deputato dovesse essere alla mercé di un qualsiasi calunniatore. Nella nostra posizione di deputati, e tanto più di Ministri, vi è sempre una possibilità di sospetto nel ricorso alla Magistratura, si può sempre pensare ad una interferenza politica, quando si dà querela per diffamazione. Per questo motivo non ho dato querela per diffamazione e sono lieto che l’onorevole Patrissi abbia portato in quest’Aula la questione.

Nel 1936, chiamato dalla direzione del Partito comunista, a far parte del Comitato centrale del Partito, finita di scontare la condanna del Tribunale speciale, fui sottoposto ad una sorveglianza speciale che mi impediva ogni attività. Allora, espatriai in Francia. In Francia (non parlo di tanti altri antifascisti che ho conosciuti in povertà onorata e in condizione di bisogno) noi comunisti, di sicuro, non siamo stati nell’ozio e nella ricchezza come gli emigrati francesi al tempo della rivoluzione.

Noi abbiamo lavorato. Io personalmente, in Francia, oltre a fare il redattore di un giornale antifascista, ho fatto lo zappaterra, e me ne vanto, ho fatto il tornitore, e me ne vanto. C’è qui, al banco del Governo, l’onorevole Reale che si ricorda, forse, di aver ricevuto, al campo di concentramento ove si trovava, delle patate e delle carote che io, l’onorevole Scotti e l’onorevole Dozza avevamo coltivate nel nostro «Colcos» con le nostre mani.

Non siamo stati pagati da nessuno, signor Patrissi. Noi abbiamo vissuto del nostro lavoro. (Applausi a sinistra).

Anche la onorevole Teresa Noce è stata al tornio accanto a me. Mi sono occupato di studi scientifici, ma non ho avuto nessuna vergogna di vivere del mio lavoro manuale per continuare la mia lotta antifascista. E la lotta antifascista non l’abbiamo condotta in Francia, perché tutti i comunisti che stavano in Francia nel partito italiano, si recavano in Italia clandestinamente. Vi è qui l’onorevole Amendola, ve ne sono decine di questi uomini nei nostri banchi, che per anni e anni hanno fatto su e giù per mantenere viva la fiaccola della lotta antifascista nel nostro Paese.

E non c’è stato giorno, nei venti anni del fascismo, in cui un comunista non abbia combattuto fra le masse lavoratrici, per l’interesse delle masse lavoratrici; e anche nei sindacati fascisti, alla testa dei lavoratori che erano nei sindacati fascisti, per la difesa degli interessi dei lavoratori e per gli interessi della libertà del nostro popolo.

Al momento dell’occupazione tedesca io mi ero recato apposta in una zona di fitta popolazione italiana – vi era con me l’onorevole Giacometti – dove abbiamo continuato, sotto l’occupazione tedesca, sempre con questa ansia di restare a contatto con le masse lavoratrici italiane, il nostro lavoro di organizzazione. E nel momento in cui c’è stata l’occupazione italiana nelle Alpi Marittime, la Direzione del mio partito ha scelto me per andare a questo posto particolarmente rischioso ed io ho accolto con gioia questo invito, perché mi portava vicino all’Italia, vicino alla possibilità di rientrarvi, per continuare in Italia la lotta antifascista.

Io vivevo clandestinamente, signor Patrissi e non ho mai avuto la cittadinanza francese. Noi comunisti, quegli emigrati politici che, come il famigerato Tasca, hanno preso la cittadinanza francese, li abbiamo insultati come traditori della Patria. Noi consideriamo il caso del lavoratore, emigrato per ragioni economiche, che è costretto a prendere la cittadinanza del Paese in cui abita e lavora. Ma l’uomo politico, che dalla lotta antifascista era costretto ad andare all’estero, non doveva prendere la cittadinanza francese. Alle mie bambine – e ve n’è una presente nelle tribune – in casa si proibiva perfino di parlare in francese; e la vada a sentire, signor Patrissi, se parla italiano o francese. (Applausi).

Nel momento dell’occupazione italiana, io ho preso questo lavoro: oltre a collaborare alla nostra rivista clandestina «Le lettere di Spartaco», di cui tengo la collezione a disposizione della Presidenza dell’Assemblea, ho pubblicato il giornale «La parola del soldato» – di cui molto spesso tutte le radio alleate hanno fatto menzione – diffuso a diecine e centinaia di migliaia di copie fra le truppe italiane nelle Alpi Marittime e in Savoia.

Cosa si diceva in quel giornale? Lei, signor Patrissi, non lo leggeva allora, perché i fogli antifascisti bruciavano nelle mani a certa gente, in quel tempo.

Cosa dicevo in quel foglio?

Ci sono qui gli onorevoli Nenni, Saragat, Amendola, Novella e Dozza – non so se questi sia presente nell’Aula – con cui, nel 1941, subito dopo l’occupazione tedesca, avemmo dei contatti clandestini. Non è in quest’Aula il povero professor Trentin, capo del movimento «Giustizia e Libertà», che partecipò ai nostri contatti e che è morto in conseguenza della deportazione.

Noi gettammo le prime basi di quello che fu poi il Comitato di liberazione, un accordo di tutti gli italiani, che volevano lottare contro il tedesco e contro il fascismo, su basi comuni. E l’onorevole Nenni può testimoniare che fummo noi comunisti, ed io personalmente, a batterci perché da quell’aggruppamento politico non ci fosse nessuna esclusione, neppure degli ufficiali monarchici, antitedeschi e antifascisti; restammo uniti e mantenemmo i contatti.

Io sfido chiunque a trovare in questa collezione di giornali – al mio processo fu sequestrato il manoscritto di un mio libro successivamente pubblicato dalla Casa editrice Einaudi – una parola di odio o di divisione degli italiani.

Potrà leggerlo, signor Patrissi, imparerà qualche cosa; apprenderà come noi vedevamo giusto nella situazione italiana molto prima della caduta del fascismo, vedrà propugnata la politica dell’unione di tutti gli italiani contro il fascismo e contro i tedeschi: questo leggerà nelle «Lettere di Spartaco» e nel giornale «Parola del Soldato».

Non troverà una parola di disfattismo. Il signor Patrissi e quelli che hanno scritto queste cose hanno la disgrazia che questi archivi non sono andati distrutti.

C’è una sentenza del tribunale ed un rapporto della polizia fascista e poi della polizia badogliana.

In questo rapporto, signor Patrissi e signori dell’Assemblea, è stato detto qual è il programma dell’aggruppamento del quale ero a capo e che non era un aggruppamento soltanto comunista, ma di uomini di tutti i partiti antifascisti.

L’attuale loro programma, adeguandosi alle contingenze in cui è venuta a trovarsi l’Italia, in seguito alla guerra, e la Francia, in seguito all’occupazione da parte delle truppe dell’Asse, così può essere riassunto: ricerca di nuovi aderenti al loro movimento anche tra le truppe di occupazione; propaganda contro la guerra, contro il fascismo e contro il Governo; propaganda in seno alle Forze armate italiane di occupazione per incitare i soldati alla disobbedienza, alla rivolta e all’odio contro i tedeschi; costituzione di comitati comunisti fra i soldati, ecc.

.

Leggo le parole riportate nella sentenza, – cito testualmente: – «Mettiamo le nostre mani a disposizione del popolo per la lotta armata che caccerà i tedeschi e imporrà la pace separata che salverà l’Italia dall’estrema rovina. Alle armi amiche delle nazioni unite, del popolo francese, che come noi lotta per la sua liberazione, è compito di ogni soldato, di ogni patriota italiano di dare ogni aiuto per cacciare via i tedeschi dall’Italia e dalla Francia, per cacciare via il traditore Mussolini e salvare l’Italia nostra».

Questo noi scrivevamo; e io sfido chiunque a trovare una parola d’odio fra gli italiani in quello che noi abbiamo scritto, o una manifestazione d’odio fra gli italiani in quello che noi abbiamo fatto.

Noi fummo arrestati un mese prima della caduta del fascismo; eravamo 34 e c’erano un caporale maggiore e quattro soldati nel nostro processo. Sono strani questi soldati che si organizzavano per auto-assassinarsi; è una manifestazione veramente patologica questa; va bene che si trattava di soldati comunisti, ma è strano che si organizzassero con noi per ammazzarsi vicendevolmente. Avevamo questi soldati nel nostro processo, e due uomini che oggi non possono recare la loro testimonianza, essendo morti sotto le torture dei reali carabinieri – di certi reali carabinieri – perché la grande maggioranza dei carabinieri si comportò da buoni italiani, ché come noi odiavano i tedeschi.

Che cosa c’è, signor Patrissi, nella condanna? Per che cosa sono stato condannato? Badate bene, fui condannato non sotto il regime fascista, perché nel frattempo – anche qui una disgrazia è capitata all’onorevole Patrissi – il regime fascista cadde; e allora non potei più essere condannato dai tribunali di Mussolini; ma (lo debbo dire, per tranquillizzare l’onorevole Patrissi) fui condannato da un tribunale in tutto e per tutto come quello fascista e che agì secondo la procedura e le leggi fasciste che si osservavano nella zona di occupazione. Mi fu contestato perfino il fatto di essere ebreo, perché sotto Badoglio si considerava che le leggi razziste fossero in vigore.

Il processo ebbe luogo il 23 agosto, pochi giorni prima dell’armistizio; io rinunciai alla difesa e feci un discorso. I giudici mi condannarono, ma il pubblico, gli ufficiali e i soldati che erano presenti al processo, mi applaudirono. Era venuta una protesta generale; il fatto sollevò allora un certo scandalo. Forse il signor Patrissi allora non era ancora così spiccatamente antifascista da occuparsi di queste cose. Sapete da chi era firmata questa protesta che fece scandalo allora? Non voglio leggervi tutti i nomi, perché sarebbe un elenco troppo lungo. Ve ne leggerò alcuni; badate che non si tratta di comunisti, ma dell’onorevole Bonomi, dell’onorevole Casati, dell’onorevole Ruini, di Bruno Buozzi, dell’onorevole Mazzolani, dell’onorevole De Gasperi, del conte Zanotti Bianco, di monsignor Nobel, della dottoressa Maria Scelba, del professore Edoardo Volterra, di Carlo Antoni, dell’onorevole Mario Cevolotto, di Eugenio Colorni e molti altri di cui non leggo i nomi; uomini di tutti i partiti che protestavano contro questo sconcio di un processo per antifascismo che si faceva dopo la caduta del fascismo.

Per che cosa fui condannato, signor Patrissi? Io fui condannato – voglio leggere i dati esatti – «per associazione sovversiva; istigazione di militari; uso di falsi documenti e procacciamento di notizie militari». È veramente grazioso leggere la motivazione di questa sentenza; è veramente una cosa interessante come giudizio storico sul regime badogliano. In questa sentenza si diceva testualmente: «Le attuali istituzioni sociali italiane sono indubbiamente diverse dal comunismo e dalle sue direttive e perciò essere comunista significa essere appartenente ad un’associazione sovversiva».

È un concetto strano della democrazia, ma è quello che si aveva sotto il regime Badoglio. Così si intendeva allora. Per quanto riguarda i falsi documenti, è evidente che mi erano indispensabili per la mia attività clandestina; quanto alla istigazione di militari vi ho detto già di quali discorsi ed articoli si trattava; quanto alle notizie militari è evidente che per organizzare i soldati nella lotta antifascista ed antinazista era necessario sapere dove erano i comandi, i reggimenti, ecc.

Ho terminato. Voglio aggiungere soltanto questo: certi giornali e forse anche l’onorevole Patrissi, che non è estraneo alle menzogne diffuse da questi giornali, hanno scritto che io ero stato condannato per assassinio e per rapina. Il signor Patrissi, che dovrebbe essere un onorevole, prima di farsi eco di queste menzogne, avrebbe avuto un mezzo estremamente semplice, avrebbe dovuto fare una interrogazione; anzi, lo accuserò come cattivo cittadino, sì, perché se io so che c’è un Ministro che è un delinquente, io debbo denunciare questo Ministro alle Autorità competenti, o devo fare una interrogazione alla Camera per chiarire questo punto.

Ma il signor Patrissi e questi giornali, che pure hanno dei deputati in quest’Aula, non si sono mai curati di far questo.

Io mi son rifiutato sempre, beninteso, di rispondere alle menzogne di certa stampa. Per un eletto dal popolo, quest’Aula è la sede competente per le domande da porre e le risposte da dare. E col mio silenzio mi proponevo anche di attrarre il signor Patrissi nel tranello in cui scioccamente è caduto. «Sereni non risponde», si pensava in quel settore, «forse allora ha veramente qualche cosa da nascondere».

Così il signor Patrissi si è lasciato andare alle sue invettive calunniose, ed io ho avuto una buona occasione per inchiodarlo alla gogna.

Non ho proprio nulla da nascondere, signor Patrissi, e di essere un galeotto me ne vanto, perché son stato galeotto per aver combattuto a favore dei lavoratori, per la libertà e per l’indipendenza d’Italia. (Vivi applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Patrissi. Ne ha facoltà.

PATRISSI. Il Ministro Sereni ha indubbiamente fatto una esauriente, per quanto rapida, rassegna di tutta la sua vita passata.

In realtà io non posso…

Una voce all’estrema sinistra. Lei è un fascista!

PATRISSI. …dirò semplicemente questo: che il 10 giugno 1940 restituii la tessera del partito fascista ed andai volontario in guerra.

SPANO. Vuol dire che fino a quel momento era fascista!

PATRISSI. Come me centinaia di migliaia di italiani hanno servito la Patria in silenzio, facendo sacrificio della loro vita. (Interruzioni all’estrema sinistra). Moltissimi non credevano alla vittoria ed hanno affrontato il loro dovere verso la Patria, cioè verso tutti gli italiani, in umiltà di spirito, in silenzio, con dedizione assoluta.

Una voce a sinistra. Dedizione al fascismo, a Mussolini!

PATRISSI. Per voi la Patria è un’espressione vuota e priva di senso. (Rumori a sinistra – Interruzioni – Apostrofi dell’onorevole Pajetta Gian Carlo – Richiami del Presidente).

Un deputato eletto dal popolo a rappresentarlo in questa Assemblea ha il dovere di esprimere i sentimenti di questo popolo. Indubbiamente il punto di vista del Ministro Sereni è un punto di vista, ma è comunque diverso da quello della maggioranza. (Interruzioni – Rumori).

Una voce a sinistra. Lei è un calunniatore!

PATRISSI. Per questa ragione io devo sottolineare che esiste un abisso fra la morale dei veri combattenti e la morale del Ministro Sereni. (Rumori a sinistra – Apostrofi degli onorevoli Amendola e Spano).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, se vogliono rispondere, chiedano la parola, ma prego di non interrompere.

PATRISSI. Né basta, per rivoluzionare i canoni della morale, che il dettato di pace, con l’articolo 16, che è suprema ingiuria inflitta ad un popolo di valorosi, ci imponga di rispettare chi ha collaborato col nemico. (Rumori – Interruzioni).

Una voce a sinistra. Bisogna ringraziare voi!

PATRISSI. Per questa ragione concludo che il Ministro Sereni, che ha giustamente il diritto di difendere la sua dignità che presume offesa, può rimuovere le differenze di posizioni che ci dividono e dimettendosi da Ministro sporgere querela al magistrato, con ampia facoltà di prova nei miei confronti. Per quanto mi riguarda io non ritratto nulla e confermo tutto. (Rumori – Vive interruzioni all’estrema sinistra – Scambio di apostrofi fra l’estrema sinistra e l’onorevole Patrissi – Richiami del Presidente).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Amendola. Ne ha facoltà.

AMENDOLA. Ho chiesto di parlare per fatto personale. In realtà la frase ingiuriosa pronunciata ieri dal deputato Patrissi, e oggi confermata, dimostra, se c’era bisogno di dimostrarlo, che un abisso in realtà esiste fra la morale nostra di combattenti antifascisti e di veri italiani e la mentalità di coloro che, fascisti, portarono l’Italia alla rovina e che oggi vorrebbero nuovamente portarla sotto la tirannide da cui si è liberata per virtù di popolo.

PATRISSI. Questo è un processo alle intenzioni!

AMENDOLA. Non possiamo permettere che in questa Assemblea, chiamata dalla volontà del popolo italiano a operare un rinnovamento repubblicano e democratico dei nostri istituti, abbia un’eco la gazzarra vergognosa e ignobile di certa stampa gialla, la quale trova qui, nelle parole del Patrissi, il suo portavoce.

PATRISSI. È lo sdegno dei veri combattenti!

AMENDOLA. Questa indegna gazzarra non offende soltanto la nostra morale personale di combattenti antifascisti, che si gloriano di aver dato tutta la loro esistenza alla causa della libertà del popolo italiano, che si gloriano di aver sempre pagato di persona in ogni occasione per difendere la libertà…

PATRISSI. Anche noi!

AMENDOLA. …del popolo italiano; questa vergognosa gazzarra è un’offesa, e non possiamo permetterla, per i nostri morti, per coloro che hanno dato la vita alla causa della libertà del popolo italiano (Interruzione dell’onorevole Patrissi), per coloro che sono caduti per combattere la barbarie e la cui memoria è sempre presente con noi, con coloro che sono morti in Ispagna (non è vero, Giua?), con coloro che sono morti nella guerra partigiana, con i nostri amici e fratelli (non è vero Vigorelli? Non è vero, Gasparotto? Non è vero, Pajetta?).

Noi ci sentiamo di fronte a questi caduti, i quali sono vivi qui con noi, responsabili della loro memoria, e non possiamo permettere che voi li offendiate con frasi losche e infamanti. Già una volta siamo stati costretti a cacciarvi in gola le vostre ingiurie. Ci troviamo di fronte ad un caso di recidiva scandolosa. Già una volta siamo stati costretti ad allontanarvi dalla Consulta, deputato Patrissi (Rumori), e non vi abbiamo più permesso di mettervi piede. (Applausi a sinistra – Interruzione dell’onorevole Patrissi).

Oggi sulla scia dello sconcio movimento fascista e neo-fascista, che cerca di cambiare le carte in tavola, per preparare le vie di una rivincita che non avrà luogo, perché il popolo italiano ha già una esperienza troppo chiara, voi cercate nuovamente di gettare nel fango quello che è il patrimonio migliore del popolo italiano, voi cercate di aprire il processo all’antifascismo e ai partigiani. Ed io capisco perché voi cercate di fare questo, perché attraverso il processo all’antifascismo e alla guerra partigiana, voi cercate non solo di offendere coloro che hanno combattuto contro di voi, non solo di minare le basi del nuovo ordinamento repubblicano democratico, che trova nella lotta antifascista i suoi presupposti, ma di aprire nuovamente la strada alla dittatura fascista, ad un nuovo regime di oppressione.

Una voce a destra. Non è così.

AMENDOLA. Noi, questo processo all’antifascismo e alla guerra partigiana non vi permetteremo di aprirlo (Applausi a sinistra), perché il popolo italiano è con noi, perché in questa Italia devastata, rovinata, calpestata per colpa vostra…

Una voce a destra. La colpa è vostra!

AMENDOLA …in questa Italia che il fascismo ha portato alla rovina, c’è un solo imputato, ed è il fascismo con i suoi complici. (Applausi a sinistra). Fra questi complici ci siete voi, e noi vi condanniamo in nome del popolo italiano, che a noi ha dato la maggioranza dei suoi suffragi. (Applausi all’estrema sinistra).

Fra voi e noi vi è certamente un abisso: i vostri giudizi non sono i nostri e i nostri non sono i vostri. Già, quando c’era il fascismo noi eravamo chiamati traditori, antinazionali, nemici della patria. Io sono stato allevato in una famiglia contro la quale queste ingiurie sono state lanciate fin da quando avevo dieci anni: le ricordo quando ero bambino e non mi possono fare impressione oggi che queste ingiurie vengono lanciate da voi.

È evidente che i nostri giudizi debbano per forza essere differenti: ci sono tra noi e voi due concezioni completamente opposte. Una concezione che si basa sul rispetto delle libertà democratiche, ed una concezione che le libertà democratiche e i diritti del popolo vuol negare…

PATRISSI. È una illazione arbitraria! (Commenti).

AMENDOLA. No! È confermata giorno per giorno dallo sviluppo della lotta politica. È evidente che noi, nella nostra alta ed umana comprensione di uomini che si sentono italiani e che sentono tutti i motivi della tragedia italiana, nutriamo rispetto per quei combattenti che hanno dovuto combattere, con animo puro, nelle guerre che il fascismo ha volute.

Ma la nostra sincera considerazione per gli onesti combattenti – prime vittime del fascismo – non ci può impedire di affermare che queste guerre sono state ingiuste e antinazionali. Noi ci gloriamo di esserci opposti ad esse, perché vi vedevamo la via per la quale l’Italia sarebbe giunta nella situazione dove oggi si trova.

Perciò, fieri del nostro passato antifascista, fieri di aver fatto sempre tutto quello che potevamo, in ogni momento, per cercare di impedire al fascismo di portare l’Italia alla rovina, noi oggi guardiamo a questo passato con legittimo orgoglio, e non possiamo permettere che da parte fascista si torni nuovamente ad insultarlo e a calpestarlo.

Compagno Sereni, io ricordo l’ultima volta che ci vedemmo a Nizza: ci era aperta una possibilità per tornare in Italia, una possibilità che da mesi e da anni cercavamo con ansia. E Saragat e Lussu possono dire quale fosse il nostro dramma durante l’occupazione tedesca in Francia, quando cercavamo la via per ritornare in Italia. Si era aperto uno spiraglio e ci fu tra noi, come sempre, una gara a chi poteva utilizzare questa possibilità per tornare in Italia. Era il marzo 1943, molto prima che gli eserciti alleati prendessero piede nella penisola.

Io ebbi la fortuna di passare per primo e di utilizzare quel valico per tornare in Italia a fare, come tanti altri, il mio dovere.

L’amico Sereni rimase a Nizza per pochi giorni ancora; e purtroppo gli furono fatali, perché gli costarono l’arresto, la condanna e poi il passaggio nelle carceri tedesche, dove noi lo liberammo, con molta difficoltà, nel giugno del 1944.

Noi ricordiamo questi episodi della nostra lotta, che sono episodi di tutti i combattenti antifascisti, e domandiamo al Presidente dell’Assemblea di fare in modo che questo patrimonio antifascista, che è la base della rinascita italiana (perché è su questa base che l’Italia può riprendere fiducia in sé stessa e marciare avanti nella sua rinascita), questo patrimonio che è la parte migliore del popolo italiano, sia rispettato da questa Assemblea! (Vivi applausi a sinistra).

ROSSI PAOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ROSSI PAOLO. Ci sono dei momenti in cui compete all’ultimo e al più modesto rappresentante di un partito di esprimere un’opinione. È per questo che prendo la parola. Non ho avuto l’onore di appartenere all’emigrazione e me ne duole; ma il Partito di Bruno Buozzi non può non esprimere il suo punto di vista.

Ci furono anni in cui tutte le forze della tradizione italiana, in cui tutto lo spirito che ha creato la nostra indipendenza ci ponevano in lotta contro il fascismo, per la difesa dei valori umani e dei valori morali che sono italiani, ma che sono anche di tutto il mondo. Gli uomini che hanno partecipato a questa battaglia, anche se lottavano apparentemente contro il Paese, contro il Governo legale del Paese, hanno ben meritato dall’Italia, hanno ben meritato dalla civiltà, testimoniando la continuità dei supremi valori morali.

Io credo che tutta l’Assemblea, gli uomini dei diversi partiti che vi siedono, debbano guardare ai militi della lotta antifascista, agli uomini condannati in Italia e fuori dai tribunali speciali, agli uomini della guerra di Spagna, del maquis in Francia, con lo stesso sentimento con cui gli uomini della prima Assemblea nazionale italiana guardavano a coloro che uscivano dalle galere borboniche.

Per conto nostro, noi guardiamo, appunto, ai condannati di quella battaglia, agli uomini come il nostro Presidente, come il Ministro Sereni (da cui ci possono anche separare, eventualmente, differenze ideologiche) con lo stesso rispetto con cui gli uomini del primo Risorgimento, seduti ai medesimi banchi, guardavano a Silvio Spaventa e a Francesco Crispi, condannati quando a morte, quando all’ergastolo, dalle forze nemiche della civiltà e della Patria italiana (Applausi).

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca lo svolgimento di due interrogazioni. La prima è quella dell’onorevole Nobile, al Ministro della difesa, «per sapere se non creda necessario comunicare all’Assemblea: 1°) i particolari sulle circostanze e le cause del grave disastro aviatorio che ebbe luogo il 15 febbraio al largo di Terracina; 2°) i motivi per cui per effettuare un trasporto privato era stato concesso un apparecchio militare».

Ha facoltà di rispondere il Ministro della difesa.

GASPAROTTO, Ministro della difesa. La importanza dell’argomento e la sua delicatezza non mi consentono di rispondere che parzialmente all’interrogazione dell’onorevole Nobile, in quanto che la Commissione di inchiesta ha bensì incominciato, ma non ha finito il suo lavoro.

Una compagnia teatrale italiana, che agiva in Egitto e della quale fanno parte i più bei nomi della nostra arte lirica, aveva chiesto in data 22 gennaio al servizio corrieri aerei militari di provvedere per il viaggio di ritorno in Italia dei 72 artisti che si erano recati al Cairo per recite teatrali. L’ufficio dispose senza altro perché la missione venisse effettuata mediante 4 apparecchi, uno dei quali, successivamente, fu sostituito con un S-95 a disposizione, allora, del Ministro dell’aeronautica, dato che su di esso avrebbero preso posto anche alcune personalità egiziane. Pertanto, il viaggio si sarebbe potuto utilizzare anche a scopo propagandistico per l’industria aeronautica italiana.

L’apparecchio S-95 decollò a Guidonia, con sei persone di equipaggio e con undici passeggeri, alle ore 8 del giorno 12 e, dopo dieci minuti di volo, si metteva in collegamento radio con terra. Il messaggio era il seguente: «Siamo a 1.500 metri di altezza fra due strati di nubi: tentiamo di passar sopra». Alle ore 8,40, l’apparecchio fu visto precipitare. Tutti i passeggeri e l’intero equipaggio erano deceduti. L’incidente, il primo, dopo quasi due anni di funzionamento dei corrieri aerei militari italiani, si presume, dalle prime indagini, dovuto a formazioni di ghiaccio. Ma è una semplice ipotesi.

Essendo l’inchiesta appena iniziata, sarebbe imprudente avventurare qualsiasi precisazione. Il Ministero dell’aeronautica, non appena informato dell’accaduto, verso le ore 13,30, provvide ad inviare sul luogo un idrosoccorso, al fine di recare aiuto. Si recarono altresì sul posto del disastro il Comandante del raggruppamento trasporti e vari tecnici del Ministero per indagare intorno agli elementi atti a stabilire le cause dell’incidente. Le informazioni raccolte fino dalla prima ora sul posto sono le seguenti: a Terracina pioveva; le nubi erano bassissime; il monte Circeo era invisibile; due pescatori si trovavano in due differenti motobarche, l’uno a circa un chilometro, l’altro a sei chilometri di distanza, da dove l’aereo si era infilato nel mare. Quelli della barca più lontana hanno concordemente dichiarato di avere, in un primo momento, udito un rumore regolare di motore di aereo a loro invisibile, causa le nubi basse e, poco dopo, di aver notato un’enorme colonna d’acqua. Subito dopo percepirono un rumore di motore sempre crescente, sino a divenire lacerante. I pescatori della motobarca più vicina hanno invece dichiarato di aver visto soltanto una colonna d’acqua, senza avere udito il forte rumore fatto, dovuto certamente al motore della imbarcazione che era in funzione. Tutti concordano di non aver intravisto il velivolo. Entrambe le imbarcazioni sono corse immediatamente sul posto, ma non hanno trovato che qualche rottame dell’aereo. Sparsi sul mare erano invece molti indumenti e carte che si ritiene fossero il contenuto delle valigie dei passeggeri. A terra invece nessuno si è accorto dell’incidente,

L’onorevole Nobile tenga dunque a mente questi precisi risultati: ore 8-12, partenza – decollaggio dell’aereo, previa dichiarazione dell’ufficio metereologico che la rotta era favorevole. Ore 8,25, primo messaggio aereo: «Siamo a 1.500 metri, fra due strati di nubi; tentiamo di passar sopra». Ore 8,30, caduta in mare. Quindi una zona di silenzio; e successivamente la catastrofe.

L’apparecchio era da 42 posti oltre l’equipaggio, ed era occupato soltanto da undici passeggeri. Il capo pilota, tenente Villani, era uno dei nostri migliori: già istruttore di volo strumentale, particolarmente attrezzato in questo genere di navigazione.

Già molte volte egli aveva fatto traversate in mare e le aveva sempre condotte a termine brillantemente. L’apparecchio era in perfette condizioni, secondo i normali accertamenti. La marina, interessata, è intervenuta immediatamente per il ricupero dei rottami. Sono state date pure immediate disposizioni per l’intervento dei palombari.

Il Ministero dell’aeronautica ha nominato una Commissione d’inchiesta composta dei seguenti tecnici: generale Pezza, presidente, primatista mondiale di altezza, colonnello Antoniazzi, esperto in costruzioni aeree, colonnello Columba, esperto in motori, colonnello Santangelo, esperto di navigazione aerea, ingegner Giuseppe Simone, Commissario del Registro aeronautico italiano, dottor Guido Colonna, del Ministero degli esteri, maggiore Domenico Montanari, esperto in metereologia, capitano Lizzari, pilota di quadrimotore, capitano Traversa, medico.

La seconda parte della interrogazione del generale Nobile domanda come mai un apparecchio militare sia stato messo a disposizione di un trasporto privato. Ora non voglio ricordare al generale Nobile che tutti gli apparecchi attualmente sono militari, anche se attrezzati per i servizi civili. Non vi è nessuna eccezione al riguardo. I servizi civili sono tutti disimpegnati da apparecchi militari.

L’aeronautica italiana soffre così il suo primo doloroso e grave infortunio. Ma io ho già ricordato l’altro giorno che in 586 giornate di volo, con un percorso di due milioni e 642 chilometri di volo aereo, nemmeno un incidente di volo è intervenuto fino a quello di cui si parla. Noi non possiamo, quindi, che accogliere con ammirazione quanto ci insegna questa fredda, ma eloquente statistica. Prego il generale Nobile e l’Assemblea di attendere i risultati della Commissione d’inchiesta, che mi affretterò a presentare non appena la Commissione stessa avrà esaurito i suoi lavori.

PRESIDENTE. L’onorevole Nobile ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

NOBILE. Ringrazio il Ministro per la risposta data. Prendo atto della nomina della Commissione d’inchiesta, la quale dovrà procedere agli ulteriori accertamenti in via tecnica, benché io ritenga che in un caso come questo sia ben difficile, per non dire impossibile, giungere ad una conclusione positiva. In questa disgrazia aviatoria, vi sono elementi i quali non sono puramente tecnici. Ed allora, prendendo occasione dalla risposta che il Ministro ha dato alla seconda parte della mia interrogazione, vorrei permettermi di fare in proposito qualche osservazione.

Il Ministro ha detto che oggi non esistono se non apparecchi militari. Lo so. Esistono i Corrieri militari. Ma questi fanno servizio regolare su linee regolari. Qui non siamo in presenza di una linea regolare Roma-Cairo, che non esiste, e non è mai esistita, dall’armistizio in poi. Si tratta invece di un servizio eccezionale, direi, il quale, stando alle dichiarazioni fatte dallo stesso Ministro, ha puramente un carattere di trasporto privato, non di servizio di Stato. Se di questo si fosse trattato, non vi sarebbe stato nulla da obiettare. Ma questo non è il caso, almeno per quanto si desume dalle dichiarazioni stesse del Ministro.

Ha detto il Ministro che ben quattro apparecchi erano stati richiesti al servizio Corrieri militari per andare a riprendere al Cairo una compagnia lirica che qualche tempo prima vi era stata trasportata da altri apparecchi; da due esattamente. Ed è già degna di nota la circostanza che per riprendere lo stesso numero di persone che erano state già accompagnate, occorresse un numero doppio di apparecchi.

Occorre chiarire anche un altro punto: perché e come sia stato concesso, per il trasporto da effettuare, un apparecchio che era a disposizione personale del Ministro, con un equipaggio che era l’equipaggio usuale che il Ministro adoperava per i suoi voli di servizio.

Ma altri punti ancora devo mettere in rilievo. Sul percorso Roma-Cairo sono stati effettuati parecchi voli, come parecchi ne sono stati fatti sulla linea Roma-Lisbona, sempre per trasporti privati. Sulla frequenza di questi voli per il Cairo e Lisbona e sui motivi che li determinano, richiamò per il primo l’attenzione il giornale Avanti! di Roma, con un corsivo che comparve in prima pagina il giorno precedente alla catastrofe. Il giornale domandava: «Si può sapere perché sia in partenza un G-12 con destinazione Cairo? Perché siano in partenza per il Cairo anche un S-95 e tre G-12, dei quali ultimi uno proseguirebbe poi per Lisbona? Non pare al Ministro della difesa nazionale che si voli troppo da e per Lisbona?». Questo, ripeto, veniva pubblicato precisamente il giorno che precedeva la catastrofe.

Ora, sull’apparecchio che portò al Cairo la compagnia lirica aveva viaggiato anche un ufficiale dell’Aeronautica, quello stesso distintissimo e valoroso ufficiale, il quale poi ha trovato la, morte nell’accidente: il tenente colonnello Dentice d’Accadia. Desidero chiedere al Ministro di precisare i motivi per cui quest’ufficiale prendeva parte al volo.

All’indomani della catastrofe furono date varie versioni. Un giornale riferì che il colonnello Dentice d’Accadia disimpegnava a bordo le funzioni di navigatore. Ma, tale notizia non è stata confermata ufficialmente, e d’altra parte non si è mai usato sui nostri aeroplani di avere un ufficiale che disimpegnasse esclusivamente le funzioni di navigatore. Inoltre lo stesso onorevole Ministro ci ha dichiarato che il tenente Villani era espertissimo pilota, ed in effetti si poteva considerare come un ottimo navigatore. Aveva fatto molte volte da solo voli importanti.

Un altro giornale diede un’altra versione: il colonnello Dentice d’Accadia sarebbe stato incaricato di recarsi al Cairo a firmare una convenzione fra l’Italia e l’Egitto, per l’istituzione di un servizio aereo fra i due Paesi, Se così fosse ce ne compiaceremmo, ma desidereremmo che il Ministro ce lo confermasse.

PRESIDENTE. Onorevole Nobile, vorrei ricordarle che ella ha diritto di parlare solo cinque minuti.

NOBILE. Ho qualche cosa ancora da dire che ha il suo interesse e che è bene il Ministro sappia.

PRESIDENTE. Ritengo opportuno che l’Assemblea si renda conto che se il regolamento fissa cinque minuti, ciò è appunto per l’economia necessaria del tempo. Colgo l’occasione per rammentare in generale ai colleghi che credo sarebbe una cosa opportuna se progressivamente ci avviassimo a riprendere questa procedura.

NOBILE. Un altro giornale ha detto che il colonnello Dentice si recasse al Cairo per vendere degli apparecchi per conto dell’aeronautica italiana. Se questo fosse, vorremmo saperlo. Ma allora verrebbe spontanea un’altra domanda: perché mai questi incarichi sarebbero stati dati, anziché ad un ufficiale superiore del Ministero, ad un ufficiale che comanda invece un distaccamento regionale? Devo tributare il più alto omaggio alla memoria del colonnello Dentice, che ho avuto il piacere di conoscere e che era veramente un distinto ufficiale, ma non significa affatto diminuire la figura di questo valoroso se rammenterò al Ministro che egli era uno dei più attivi esponenti dell’organizzazione monarchica napoletana. Penso che una fede, sinceramente professata sia degna sempre del massimo rispetto, qualunque essa sia; voglio però mettere in evidenza la responsabilità che risulterebbe per il Ministero, se avesse affidato un incarico del genere di quelli indicati ad un ufficiale notoriamente monarchico: cosa non opportuna trattandosi di trattative da condurre al Cairo, dove risiede l’ex re d’Italia.

Vi sarebbe altro ancora da dire in proposito, ma me ne astengo. Se un’inchiesta si farà sulle circostanze da me denunciate, le riferirò alla Commissione. Ma è evidente che l’onorevole Ministro farà bene ad occuparsi personalmente di questi viaggi, che avvengono con tanta frequenza, fra Roma e Lisbona, tra Roma e il Cairo. Molte voci circolano in proposito. Per fermarle sarebbe opportuno indagare sulla loro consistenza.

Da Milano, da un ufficiale superiore, ho ricevuto una lettera, di cui mi permetto leggere un brano. Egli dice: «Vi sono notizie e impressioni raccolte negli ambienti di Milano, da alcuni dei passeggeri che da qui si erano allontanati il giorno 14. A quanto pare, l’aereo veniva inviato in Egitto esclusivamente per rendere un servizio gradito all’ex re d’Italia. Infatti alcune delle persone imbarcate sull’aereo erano in stretto contatto con gli ambienti di casa Savoia. Una delle signore decedute ospitava nella sua villa in Egitto la famiglia reale italiana. Si afferma che sull’aereo fossero imbarcate merci pregiate, che dovevano essere recapitate a persone che fanno parte degli ambienti dell’ex casa regnante italiana».

E vi è di più. A bordo dell’apparecchio, il quale ha condotto per la prima volta al Cairo questa compagnia lirica, vi era anche il Capo del servizio informazioni dell’aeronautica. Risulterebbe che questo stesso ufficiale abbia prenotato un posto su uno degli apparecchi che prossimamente si recheranno a Lisbona. È lecito domandare come mai, a guerra terminata, il S.I.A. abbia tanto da fare da richiedere che il Capo del servizio si rechi ripetutamente in missione a Lisbona e al Cairo.

Vorrei concludere dicendo che questa dolorosa disgrazia conferma in qualche modo quanto ebbi l’onore di dire in questa stessa Aula qualche giorno fa; cioè, che le cose dell’Aeronautica non vanno bene, soprattutto in alto. Molto deve essere rinnovato in Aeronautica; e l’onorevole Ministro, che conosce così bene questo ramo delle Forze armate, per averlo degnamente diretto nel passato, potrà ben fare qualche cosa per rinnovare e risanare un ambiente che va rinnovato e risanato. Non ho altro da aggiungere. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto la parola per fatto personale l’onorevole Cingolani. Ne ha facoltà.

CINGOLANI. Io sono proprio quel Ministro che ha organizzato il primo viaggio al Cairo per i motivi che adesso chiarirò. Come certo saprà l’onorevole generale Nobile, noi non facciamo parte ancora della P.I.C.A.O., che è la grande organizzazione internazionale per l’aviazione civile, succeduta alla precedente organizzazione internazionale che si chiamava C.I.N.A. Però siamo stati sempre ammessi come osservatori, anzi dirò che siamo stati insistentemente richiesti di mandare nostri osservatori. Al Cairo ha avuto luogo una sessione di questa P.I.C.A.O. Mandai allora una prima Delegazione capitanata da un competente in materia aeronautica e in diritto, il professore Ambrosini, docente di diritto internazionale areonautico. La missione nostra si è fatta doppiamente onore, sia per aver dato un apporto concreto e veramente notevole ai lavori della sessione del Cairo della P.I.C.A.O., sia per la bellezza dei nostri apparecchi, e per la capacità dei nostri delegati che attirarono sull’Italia l’attenzione del Governo e degli ambienti viatori egiziani. In seguito, dopo il ritorno di questa missione, io fui sollecitato personalmente da elementi autorevoli ed autorizzati dal Cairo a non lasciar cadere questa veramente magnifica occasione per intessere rapporti di carattere aeronautico e industriale con l’Egitto. E allora, prendendo occasione dalla richiesta dell’invio di una compagnia lirica, mi regolai come in altre occasioni.

Tutte le volte che ho avuto modo di evadere dalle strettoie dell’armistizio che impediva all’Italia di compiere viaggi oltre i confini, queste. occasioni le ho afferrate a volo. Cito un trasporto a Lisbona di una compagnia lirica, un trasporto di una compagnia lirica a Madrid, un trasporto a Parigi dei rappresentanti italiani, eludendo l’offerta degli alleati di valerci dei loro apparecchi.

A Oslo abbiamo mandato gli atleti italiani, che se non hanno raccolto gli allori che forse avrebbero meritato, si deve a qualche deficienza di forma degli atleti. Ad Atene sono stati mandati nostri aerei, per rilevare gli italiani espulsi, al posto di apparecchi alleati anch’essi gentilmente offertici, ma da noi rifiutati, ed infine al Cairo, per il viaggio di andata e ritorno di una compagnia lirica. Tutti questi passeggeri hanno usufruito non di apparecchi militari, ma di apparecchi attrezzati per servizio civile: perché non dimentichiamo che il servizio dei Corrieri aeronautici militari è stato concesso dagli alleati dietro nostra insistenza, con personale militare e apparecchi per trasporto passeggeri. I Ministri precedenti alla mia assunzione, gli onorevoli Gasparotto e Cevolotto, hanno visto l’inizio di questo sicuro e produttivo servizio, secondo le cifre già lette dal Ministro della difesa in questa Assemblea.

Aggiungo che coloro che hanno usufruito di questo servizio civile hanno costantemente pagato il biglietto.

Si è fatta eccezione per il Congresso nazionale della stampa a Palermo: sono stato lieto di avere offerto sei dei nostri migliori apparecchi ai rappresentanti della stampa italiana, perché con minor disagio potessero partecipare a quel primo congresso nazionale della nostra stampa.

Posso precisare, per quanto riguarda gli ultimi viaggi (le tariffe dei viaggi precedenti possono essere messe – e prego l’onorevole Gasparotto di farlo – a disposizione dell’onorevole Nobile) che il biglietto è stato pagato al costo di lire egiziane 25, pari, al cambio ufficiale, a 23.450 lire italiane a biglietto; è stata pagata inoltre l’assicurazione di 950 lire a persona per un capitale assicurativo di lire 400 mila.

Naturalmente, io sarei stato uno sciocco, se non avessi approfittato di questi viaggi per intessere delle relazioni, che fossero utili al mio Paese ed in particolar modo all’industria aeronautica.

Posso dire ed accenno appena (l’onorevole Nobile, che è generale e, quindi, un patriota, deve darmi atto della mia voluta reticenza): che lo sviluppo delle nostre relazioni coll’Oriente mediterraneo poteva essere legato a questa nostra dimostrazione di efficienza di materiale e di personale in Egitto.

Al Cairo si sta formando un Centro aeronautico internazionale di enorme importanza per tutta l’Asia Minore e per tutto il Mediterraneo orientale.

I nostri apparecchi, se sono in ritardo come novità di costruzione di fronte agli apparecchi modernissimi di altre Nazioni, sono stati sempre ammirati per la semplicità di costruzione, per la solidità, per la sicurezza di volo.

Questo disgraziato incidente va deplorato, anche perché serve a rallentare la formazione di quella coscienza aviatoria, che mi auguro diventi una seconda coscienza del popolo italiano; ma fino ad oggi sono apprezzatissimi apparecchi e piloti, e lo saranno ancora domani.

Ma perché la mia attenzione si era fermata sul Cairo e su l’Egitto?

Perché ci sono possibilità di volo, di servizio di cabotaggio, di aereo-taxi, per cui le organizzazioni sono attrezzatissimi, e la nostra industria e i nostri tecnici.

Noi abbiamo mandato un apparecchio, così han detto i giornali, che era a disposizione del Ministro.

Questi adopera sempre un S-79 a 6 posti; l’S-95 è un apparecchio preparato per viaggi ufficiali di Ministri o, comunque, di alte cariche dello Stato: questo apparecchio ha 18 posti; è una seconda edizione di quello a 41 posti. Mi permetto non di correggere l’onorevole Gasparotto, ma di precisare.

La prima volta fu mandato l’apparecchio nella versione a 41 posti; questa volta si voleva presentare la versione a 18 posti; e ciò per evidenti ragioni!

Io «ho fatto l’articolo» – per parlare in linguaggio commerciale – e credo di aver fatto bene, come ho fatto bene a utilizzare la simpatia dei conoscitori, dovunque sono riuscito a far apprezzare questo apparecchio. Una missione straniera, venuta in Italia per constatare lo stato della nostra industria aeronautica, è rimasta ammirata dei nostri tipi. Malgrado la restrizione dell’armistizio, malgrado che i permessi per la ripresa costruttiva venissero dati goccia a goccia, i nostri industriali hanno superato mirabilmente la prova.

NOBILE. Ma se è così, ed è così, dato che in fatto di costruzioni aeronautiche non siamo secondi a nessuno, perché allora avete stipulato dei contratti con l’America e con l’Inghilterra?

CINGOLANI. L’ho detto altre volte; non torniamo su ciò che è stato discusso e approvato dalla opinione italiana in questa materia.

Ben venga il capitale straniero, quando serva a valorizzare l’industria italiana, piloti italiani e le maestranze italiane.

Devo ricordare al generale Nobile che quando, finita la guerra, sono state concesse delle squadriglie ai nostri valorosissimi piloti e cacciatori, che hanno fatto la guerra di liberazione, sono stati montati apparecchi da caccia di difficile condotta. Sono stati montati senza l’aiuto straniero, da montatori italiani, e i nostri piloti li hanno guidati mirabilmente, fra l’ammirazione dei tecnici americani e inglesi. Abbiamo fatto benissimo…

NOBILE. E la Russia?

CINGOLANI. Se la Russia ci avesse dato apparecchi, li avremmo presi anche dalla Russia. Sappia l’onorevole Nobile che io ho tenuto testa…

PRESIDENTE. Onorevole Cingolani, la prego di concludere.

CINGOLANI. Ha ragione, Presidente; è la passione per l’areonautica che mi trasporta; finisco subito. Mi avete capito del resto, perché la passione mia è la passione di tutti.

Per quanto riguarda il secondo pilota, questo c’era sempre, onorevole Nobile; non so che cosa accadeva ai suoi tempi; ma lei non sarà stato solo a guidare il suo dirigibile: avrà avuto dei compagni, dei collaboratori. E così anche quando vola l’apparecchio del Ministro, i due piloti sono il maggiore Tait e il maggiore Bergagli. Non si lascia mai un pilota solo in periodi di navigazione difficile, come in inverno. E appunto il tenente colonnello Dentice d’Accadia era il pilota che poteva aiutare. Riguardo al tenente colonnello Santini, non per la sua posizione di capo dell’ufficio informazioni, ma per le sue specifiche capacità personali, fu mandato al Cairo nel primo viaggio, e mi servì ad intessere quei rapporti, che auguro al Ministro Gasparotto di concludere, perché ogni passo fuori casa è benedetto, perché dovunque ci vedono, ci ammirano e ci aiutano, e possiamo far sì che si spalanchino porte nuove, perché l’Italia possa battere strade nuove per conquistare successi anche in questo campo.

Tutti sanno che io non sono monarchico; del mio repubblicanesimo fa fede tutta la mia vita; e non mi si può dire davvero di essere stato complice di supposte o sospettate mene monarchiche a Lisbona o a Cairo.

Chiunque si sarà trovato nel difficile posto di Ministro, sarà bersaglio di attacchi. Mi ricordo che il generale Nobile, quando la prima volta io sedevo al banco ministeriale, si rivolse contro l’onorevole Cevolotto, Ministro uscente: oggi contro di me; e domani sarà il turno dell’onorevole Gasparotto. Attento, onorevole Nobile, che qualcuno potrebbe accusarlo di necrofilia! (Si ride).

NOBILE. Non vi è nulla di personale nella mia azione! Se i sistemi non cambiano, si ha il dovere di persistere nella critica. (Approvazioni a sinistra).

CINGOLANI. Lo dicevo scherzando. Ma siamo sereni, e pensiamo soprattutto all’interesse dell’Italia e al futuro dell’aviazione italiana. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro della difesa. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Non posso che confermare le dichiarazioni dell’ex Ministro Cingolani, che corrispondono appieno alla documentazione che è in mie mani; e prego il glorioso navigatore, generale Nobile, di riconoscere l’importanza della nostra presenza al Cairo, che dispone di uno dei più imponenti campi dell’aviazione mondiale; lo avrà visto certamente, come l’ho visto anch’io.

Circa la notizia pubblicata da un giornale, posso dare una franca e precisa risposta. Il giorno stesso in cui io lessi quella notizia, prima che apprendessi la sciagura, diedi ordine al mio ufficio che la nota dei passeggeri d’oltremare fosse comunicata preventivamente e approvata personalmente dal Ministro; perché se il Ministro assume al riguardo delle responsabilità, è bene che le assuma dietro conoscenza dei fatti e delle persone.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Gallo, Finocchiaro Aprile, Castrogiovanni, al Ministro dell’interno, «per sapere quali provvedimenti intenda prendere contro l’autorità di pubblica sicurezza, per avere eseguita una perquisizione nei locali della Sezione del M.I.S. di Caltagirone, rifiutando di esibire la relativa autorizzazione del magistrato e procedendo altresì al fermo del custode; e ciò ad evidente scopo di intimidazione».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il fatto cui si riferiscono gli onorevoli interroganti rimonta al 30 gennaio ultimo scorso, cioè in data anteriore alla formazione dell’attuale Governo. Secondo informazioni fornite, la perquisizione alla sede del Movimento per l’indipendenza della Sicilia fu operata dietro mandato del Procuratore della Repubblica e sul sospetto che presso la sede suddetta si conservassero armi proibite.

La perquisizione aveva però esito negativo. Ignoransi se all’atto della perquisizione sia stato o meno esibito l’ordine dell’autorità giudiziaria e la causa del fermo del custode. Notizie in proposito sono state chieste e ci si riserva di comunicarle agli interroganti appena saranno pervenute al Ministero.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

GALLO. Non posso dichiararmi sodisfatto. Anzitutto che il fatto sia avvenuto prima della composizione del Governo attuale non ha nessuna importanza né rapporto con la essenza della mia interrogazione.

Io ho chiesto al Ministro dell’interno quali provvedimenti intenda prendere per questi fatti che avvengono in Sicilia, perché la perquisizione alla sezione del Movimento per l’indipendenza della Sicilia di Caltagirone non è il primo fatto, né sarà l’ultimo, se provvedimenti concreti non si prenderanno al riguardo.

Il rapporto dettagliato che io ho ricevuto a Catania ebbe conferma piena dalle stesse dichiarazioni fatte a me personalmente dal commissario Alongi che operò la cosiddetta legale perquisizione.

Il locale della sezione del Movimento per l’indipendenza della Sicilia a Caltagirone si trova nella principale piazza del paese, e sono lieto che il Ministro dell’interno sia nativo proprio di Caltagirone, in quanto così egli, con quella serenità che certo ha, potrà giudicare. Questa sede, dunque, è posta nella principale piazza del paese. Si tratta di una stanzetta che contiene appena un tavolinetto più o meno sgangherato ed un armadio. Il commissario Alongi ha riferito a me personalmente che egli chiese al procuratore della Repubblica il mandato di perquisizione, perché, per una segnalazione ricevuta da un ragazzo del luogo, aveva appreso, niente di meno, onorevoli colleghi, che mitragliatrici e fucili si nascondevano nella sede del Movimento per l’indipendenza.

In quella sede, posta nella principale piazza del Paese, si sarebbero nascoste tali armi; e per constatare tutto, il commissario Alongi e i suoi seguaci scassinarono i cassetti del tavolinetto e fracassarono due sedie, allo scopo di vedere se sotto quelle sedie si nascondessero le mitragliatrici o i fucili.

Consentitemi, onorevoli colleghi, che, con una serenità, forse da voi non attesa, io esponga qualche cosa che sta molto a cuore ai siciliani, che non sono né selvaggi né contro gli italiani, ai siciliani che chiedono, come in ogni tempo chiesero, solo comprensione, solo riconoscimento di quelli che sono i diritti di libertà di ogni popolo.

Quando il commissario Alongi, si presentò, seguito da circa trenta agenti armati di mitra e di fucili, il custode chiese se avesse un mandato da esibire; il commissario rispose che non era tenuto ad esibire alcun mandato, perché la legge non gli dava obbligo di esibirlo. Rispose esattamente: «Va a rivolgerti al procuratore della Repubblica».

Io chiedo al Ministro dell’interno, se la legge consenta ad un commissario di non esibire un mandato di perquisizione e chiedo ancora se non ci sia stata troppa leggerezza nel Procuratore della Repubblica nell’emettere un mandato di perquisizione, solo perché un qualsiasi commissario, più o meno analfabeta, era andato a chiedere, per una segnalazione ricevuta da un ragazzo, di emettere un mandato di perquisizione nella fantastica supposizione che mitragliatrici e fucili si nascondessero in un piccolo locale sito in una pubblica piazza.

Ciò, è evidente, fu fatto a mero scopo intimidatorio.

L’onorevole Pertini, al quale desidero rendere omaggio per il senso di umanità che lo ha spinto a presentare l’interrogazione, e a svolgerla l’altro giorno, a proposito dei mezzi e sistemi inumani usati dalla polizia (lo prego di ascoltarmi con attenzione per i fatti che io esporrò qui e anche chiedo agli onorevoli colleghi e ai signori del Governo di ascoltarmi con molta obiettività), l’onorevole Pertini ha detto di avere un’esperienza personale in proposito. Anche io posso aggiungere di avere una mia esperienza personale recente, come voi tutti sapete.

L’onorevole Pertini riferiva il caso Fort; ma io desidero segnalare che più di quello che si è fatto per il caso Fort si fa dalla polizia in Sicilia e non solamente oggi, ma da gran tempo.

Non so, se voi, onorevoli colleghi, ricordate quello che fu scritto su un giornale che si pubblica a Roma, «Il Vento del Sud». Di ciò non si è più parlato. Ebbene, avete voi mai pensato alle sofferenze patite dal dottor La Manna, dal Signor Franzoni e da altri?

PRESIDENTE. Onorevole Gallo, la sua interrogazione ha un tema preciso; le sarò grato se vorrà attenervisi.

GALLO. Se mi consente, vorrei dirle che ritengo di essere nel tema.

PRESIDENTE. È il regolamento che non lo consente, né a me né a lei.

GALLO. Io parlo di sistemi di polizia.

PRESIDENTE. Il tema, invece, è un episodio determinato.

GALLO. Per quello che devo dire, prego il Presidente di consentirmi di continuare, perché si tratta di materia di importanza veramente capitale. (Commenti).

PRESIDENTE. Il Regolamento le offre il mezzo per deferire all’Assemblea questa importante materia.

GALLO. Mi riferisco ad un fatto che è avvenuto di recente, ma devo parlare di altri fatti che ne costituiscono gli antecedenti. In Sicilia non possiamo più continuare in questo modo. È qualcosa di orrendo quello che avviene.

PRESIDENTE. Onorevole Gallo, il Regolamento le consente di sottoporre questi argomenti all’Assemblea e sarà ascoltato con grande interesse. In sede di interrogazione, le sarei grato che si attenesse alla materia specifica. Le ricordo, poi, che i cinque minuti concessi dal Regolamento sono già trascorsi.

GALLO. Mi scusi, onorevole Presidente, ma è strano che, mentre parlo di sistemi di pubblica sicurezza che si riferiscono all’interrogazione o che comunque vi sono collegati, non mi si voglia far parlare, quando qui si parla e si va fuori tema e si fanno storie ed elogi e si parla di cose di cui oggi non sarebbe necessario parlare, mentre invece è necessario parlare di cose che interessano veramente la vita umana, che interessano la libertà dei miei concittadini. Io non penso che ciò sia opportuno, onorevole Presidente; io parlo a nome del popolo siciliano, che non può continuare… (Interruzioni – Rumori – Commenti).

Trasformerò la mia interrogazione in interpellanza.

PRESIDENTE. La rediga e la faccia pervenire alla Presidenza.

GALLO. Va bene, ma la materia è la stessa.

PRESIDENTE. Se lei vuol trattare la materia cui ha accennato, non è sufficiente la trasformazione dell’interrogazione in interpellanza. Ella ha sotto gli occhi il testo dell’interrogazione: è specifica e si riferisce ad un episodio delimitato e ben preciso. Se lei vuol trattare, come ne ha il diritto, la materia in generale, occorre che modifichi anche la forma della sua interrogazione.

GALLO. Presenterò una interpellanza per potere rinnovare le mie più vibrate proteste.

Per concludere, sulla interrogazione, desidero conoscere quali provvedimenti saranno adottati contro il commissario Alongi; perché non è esatto che il custode non sia stato fermato. Ripeto, le mie parole esprimono quanto ebbe a dirmi lo stesso commissario Alongi.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Io non ho detto questo.

PRESIDENTE. Sono così esaurite le interrogazioni inscritte all’ordine del giorno di oggi.

Discussione del disegno di legge costituzionale d’iniziativa della Presidenza: Proroga del termine di otto mesi previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, per la durata dell’Assemblea Costituente.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca l’esame del disegno di legge costituzionale di iniziativa della Presidenza: Proroga del termine di otto mesi previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1946, 98, per la durata dell’Assemblea Costituente.

La Commissione da me nominata per l’esame di questo disegno di legge, composta dell’onorevole Bergamini, presidente, dell’onorevole Laconi, segretario, dell’onorevole Grassi, relatore, si è riunita stamane e, data l’urgenza, ha incaricato l’onorevole Grassi di riferire su di esso oralmente all’Assemblea.

L’onorevole Grassi ha facoltà di parlare.

GRASSI, Relatore. Onorevoli colleghi, la Commissione, nominata ieri sera dal nostro Presidente, ha preso questa mattina in esame il disegno di legge costituzionale di iniziativa della Presidenza per la proroga del termine previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, relativo alla durata dei lavori dell’Assemblea Costituente. È a voi noto che, in base alle disposizioni dell’ordinamento giuridico preesistente, l’Assemblea Costituente aveva queste possibilità di durata: una durata sino al termine dei suoi lavori, ossia sino all’entrata in vigore della nuova Costituzione, il che avrebbe potuto verificarsi prima degli 8 mesi dal giorno della sua prima seduta; oppure nel termine massimo di otto mesi. Se l’Assemblea non avesse esaurito il suo lavoro nei termini previsti, l’articolo 4 disponeva che potesse prorogarsi per altri quattro mesi. Stabilito come punto di fatto che l’inizio dei lavori dell’Assemblea avvenne con la prima seduta del 24 giugno 1946, il termine fissato da quelle disposizioni verrebbe a scadere il 24 febbraio del 1947, ossia lunedì prossimo. In base alle predette disposizioni, l’attuale Assemblea Costituente sarebbe sciolta di diritto il 24 febbraio.

Di fronte però a questa situazione di fatto, mentre viene ora soltanto distribuito, da parte del presidente della Commissione dei 75, il progetto di legge sulla Costituzione futura del nostro Stato, si presenta la necessità, ed anche l’urgenza, di prorogare il termine, in modo che l’Assemblea abbia il tempo di discutere e di elaborare la nuova Costituzione. Nessun dubbio, quindi, sull’esigenza e sull’urgenza del provvedimento presentato dalla nostra Presidenza. Sono stato incaricato di riferire oralmente, data l’urgenza, alcune considerazioni per le quali la Commissione, nella sua quasi totalità – ad eccezione di un solo membro – ha apportato al progetto alcuni emendamenti che sono stati stampati e distribuiti all’Assemblea.

È affiorata durante la discussione quella questione che già altre volte sorse, senza che mai fosse definita e che io neppure penso si possa risolvere in questa occasione: intendo parlare della questione relativa al fondamento ed ai limiti dell’Assemblea Costituente. La maggioranza della Commissione ha ritenuto che i poteri dell’Assemblea Costituente sono sovrani, sono poteri che non possono derivare se non dall’autorità da cui essa proviene, ossia dalla sovranità popolare, e che, come organo del potere costituente, non possa trovare altro limite all’infuori delle sue autodecisioni e dell’ordinamento giuridico preesistente, in quanto essa stessa lo fa suo, attuando quella che, dal punto di vista della dottrina, viene definita la successione del diritto. Il passaggio da un ordinamento giuridico preesistente ad un nuovo ordinamento in formazione, nei momenti di frattura che avvengono nella vita dei popoli per cambiamento di regime, avviene automaticamente in quanto l’ordinamento nuovo riconosce come proprie quelle parti dell’ordinamento giuridico preesistente che non sono state dichiarate nulle od appositamente modificate.

Noi ci troviamo oggi, di fronte alla necessità prevista dall’ordinamento precedente, di proroga dell’Assemblea; abbiamo ritenuto opportuno, superando la questione di principio, togliere dall’articolo 1 la precisa disposizione del decreto luogotenenziale precedente facendone nostro il contenuto, e stabilendo senz’altro che la proroga di quattro mesi viene data dalla Assemblea a se stessa in base ai suoi poteri di autodecisione e di autolimitazione.

Una seconda modificazione abbiamo apportata circa quella parte del disegno di legge nella quale è detto che la proroga è concessa sino al giorno della entrata in vigore della nuova Costituzione, e comunque non mai oltre il 24 giugno 1947.

La Commissione ha preferito dire senz’altro che il termine finale della proroga scade il 24 giugno 1947.

La doppia forma di proroga prevista nel disegno di legge – una proroga limitata al raggiungimento dello scopo per cui l’Assemblea Costituente è stata eletta, ossia l’approvazione della nuova Costituzione, e l’altra proroga, quella a scadenza fissa – non ha più ragione di essere, in quanto è poco prevedibile che l’Assemblea Costituente possa esaurire il suo compito prima del 24 giugno 1947. Essa deve esaminare ed elaborare definitivamente il testo, predisposto dalla Commissione dei 75, ma si trova anche nella necessità, che non si può oggi non tenere presente, di dover approvare tre leggi elettorali: una per la Camera dei Deputati, una per la Camera dei Senatori ed un’altra per i Consigli regionali. Queste tre leggi elettorali occuperanno, per la loro importanza, non brevi discussioni da parte dell’Assemblea.

Oltre a queste leggi, che direi quasi connesse alla struttura costituzionale dello Stato, l’Assemblea Costituente dovrà discutere la ratifica del Trattato di pace. Ed ancora dovrà coordinare, per un’altra disposizione legislativa, lo Statuto della Regione siciliana, dopo che avrà approvato la nostra Costituzione.

Vedete quindi quale mole di lavoro ci attende. Ed appunto perché il coordinamento dello Statuto della Regione siciliana alla nuova Costituzione dovrà farsi dopo l’approvazione della Costituzione, la durata dei lavori della nostra Assemblea non può, e proprio in forza di un argomento giuridico, limitarsi alla entrata in vigore della Costituzione stessa.

La Commissione ha dunque preferito fissare un termine certo, preciso: quello del 24 giugno, in modo che tale termine sia come un cancello al di là del quale l’Assemblea sappia che non può andare, ed entro il quale deve assolvere al suo compito.

Nel tempo stesso la Commissione mi ha incaricato di esporre questo suo proposito: che, nell’ipotesi in cui l’Assemblea – e questo ce lo auguriamo tutti – riesca ad approvare il testo della nuova Costituzione in un termine anteriore al 24 giugno, la stessa Costituzione possa, con disposizione transitoria, stabilire oltre il termine per la promulgazione e pubblicazione, anche quello per lo scioglimento anticipato dell’Assemblea. In questa maniera l’ipotesi di un eventuale esaurimento del lavoro anteriore al 24 giugno 1947 è compresa.

Queste proposte di modifica, da me presentate al Presidente Terracini, sono state accettate dalla Presidenza nella forma e nello spirito che le ha animate. Questo per quanto riguarda l’articolo 1.

Per quanto si riferisce all’articolo 2, la Commissione non può che approvare pienamente la proposta della Presidenza. Si tratta di introdurre il principio, già approvato dalla Commissione dei 75, sulla posizione del Capo dello Stato futuro, e quindi del Capo provvisorio di oggi, rispetto alla formazione delle leggi in regime repubblicano. Il compito del Capo dello Stato è quello di promulgare la legge approvata oggi dall’Assemblea Costituente come quelle che saranno approvate domani dalle Camere ordinarie. Quindi, la disposizione dell’articolo 2 è da approvarsi. Abbiamo anche approvato che la promulgazione avvenga entro il termine di due giorni; il che non può sembrare mancanza di riverenza verso il Capo dello Stato, data l’urgenza e la necessità. Questa legge, che noi dobbiamo questa sera approvare, deve essere promulgata al più presto possibile, perché possa essere pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ed entrare in vigore prima del 24 febbraio, ossia prima di lunedì prossimo.

Queste sono le ragioni delle modificazioni che abbiamo cercato di apportare al disegno di legge della Presidenza, che merita la vostra approvazione. Siamo sicuri che nel termine prorogato e possibilmente anche in un termine più breve, l’Assemblea possa assolvere il suo grande e nobile compito di approvare, sulla base del testo preparato dalla Commissione dei 75, la nuova Carta costituzionale, che dovrà essere la base fondamentale del nuovo ordinamento giuridico, politico e sociale del nostro Paese. (Applausi).

PRESIDENTE. Prendo atto delle dichiarazioni fatte dall’onorevole Grassi, quale relatore della Commissione. Risulta da queste sue dichiarazioni che le modificazioni che sono state apportate al testo del progetto mirano essenzialmente a porre in rilievo la sovranità dell’Assemblea. Osservo che questa sovranità è già specificatamente affermata dal modo stesso con cui il progetto è stato presentato. Esso è infatti un progetto di iniziativa dell’Assemblea, e, più precisamente, la sua iniziativa è stata assunta dalla Presidenza dell’Assemblea. L’Assemblea agisce quindi in base ai propri poteri sovrani. Ma, poiché nella nuova formulazione questo elemento acquista un maggior rilievo, esso non può che venire incontro ai desideri della Presidenza, che fa tutt’uno con l’Assemblea nel suo complesso.

In quanto alla limitazione dei termini, mi pare di comprendere che, con la nuova formulazione, la Commissione miri allo scopo di far ben presente a tutti i membri di questa Assemblea che esiste un termine, al di là del quale non si può assolutamente spingersi, direi un termine ultimo. Fissando gli occhi a questo termine, l’Assemblea avrà così uno stimolo, un impulso ad usufruire proficuamente ed intensamente del tempo ancora offerto ai suoi lavori, quello che per l’appunto ci viene concesso dalla proroga che il progetto di legge indica e delimita. Ma tutto ciò non incide né modifica la sostanza del progetto così come venne presentato dalla Presidenza. E perciò questa accoglie le modificazioni di forma proposte dalla Commissione. In questo senso io ho desiderato esprimermi, prima di aprire la discussione sopra il progetto e sulla relazione dell’onorevole Grassi, affinché l’Assemblea sia in possesso di ogni elemento della questione. Coloro che chiedono la parola sono pregati di iscriversi.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Colitto. Ne ha facoltà.

COLITTO. A me pare che la dizione usata nel disegno di legge proposto dalla Presidenza sia la più giuridicamente esatta, perché più aderente alla parola e allo spirito del decreto 16 marzo 1946, n. 98. L’articolo 4 di questo decreto determina con precisione il giorno nel quale la nostra Assemblea cessa di aver vita. Qual è questo giorno? È il giorno nel quale – stabilisce l’articolo 4 – comincerà ad aver vita la Costituzione. Il primo capoverso di detto articolo 4 dice, in sostanza, che l’Assemblea cessa di aver vita il giorno in cui comincia ad aver vita la Carta costituzionale.

Ed allora noi possiamo prorogare la nostra vita fino al giorno in cui potrà aver vita la Carta costituzionale. Non possiamo dire: proroghiamo la nostra vita fino al 24 giugno, perché, in ipotesi, la Carta costituzionale potrà cominciare ad aver vita il 20 giugno, e in quel giorno, così come dispone l’articolo 4 citato, noi cesseremo di essere Assemblea Costituente. Perciò, quando la Presidenza ha formulato l’articolo 1 affermando che il termine di otto mesi è prorogato fino al giorno dell’entrata in vigore della nuova Costituzione, ha formulato, secondo me, l’articolo in maniera precisa, in maniera giuridicamente aderente a quello che è disposto dall’articolo 4. Mi pare, quindi, che si debba mantenere ferma la formulazione, così come è stata proposta dall’ufficio di Presidenza.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ambrosini. Ne ha facoltà.

AMBROSINI. La questione che solleva l’onorevole Colitto porterebbe l’Assemblea a discutere nuovamente una delle questioni che affrontò nel settembre scorso, in seguito ai rilievi fatti dall’onorevole Calamandrei, circa i poteri dell’Assemblea.

Ora, come l’Assemblea decise allora di affermare la sua sovranità, senza disconoscere il contenuto del decreto legislativo del 16 marzo 1946, così la nostra Commissione nella sua maggioranza ha ritenuto, attenendosi allo stesso criterio, di limitarsi a determinare il limite massimo di durata dell’Assemblea. Per altro, è evidente che lo stabilire il termine del 24 giugno 1947 non significa che, ove l’Assemblea, dando prova del suo patriottismo nell’accelerare i lavori per la discussione e l’approvazione della Costituzione e delle leggi elettorali, assolva questo suo compito prima del termine stabilito, essa potrà cessare la sua vita prima ancora del 24 giugno. Il sistema proposto dalla Commissione è preferibile a quello originariamente proposto, perché evita qualsiasi incertezza, pur andando incontro alle varie esigenze.

Indubbiamente, non vi è in questa Assemblea un Deputato che desideri che il nostro ufficio continui un giorno più di quello strettamente necessario. D’altra parte, è evidente che nessuno può sottrarsi all’obbligo di contribuire alla discussione della Carta costituzionale con tutta la riflessione che la gravità del compito richiede.

Credo, quindi, che possiamo, con piena coscienza approvare la proposta della Commissione, perché ove, ripeto, prima della data del 24 giugno l’Assemblea abbia approvato la Costituzione, essa si affretterà certamente, valutando tutti gli elementi che l’opportunità consiglia, a deporre al popolo italiano il suo mandato ed a chiedergli che la situazione politica venga chiarita e risolta col pronunciamento degli elettori. (Applausi).

PRESIDENTE. Onorevole Colitto, lei presenta formalmente la proposta di restare al testo originario della legge?

COLITTO. Senz’altro.

PRESIDENTE. Allora la sua proposta si deve considerare come un emendamento all’articolo sostitutivo proposto dalla Commissione ed accettato dalla Presidenza della Assemblea; e, come tale, dovrà avere la precedenza nella votazione.

Ha chiesto di parlare il relatore, onorevole Grassi, ne ha facoltà.

GRASSI, Relatore. L’emendamento che oggi propone l’onorevole Colitto è il ritorno alla formula presentata dinanzi alla Commissione e che la Commissione all’unanimità, meno l’onorevole Colitto, non ha accettato, proponendo l’articolo sostitutivo accettato dalla Presidenza.

PRESIDENTE. Metto ai voti il testo dell’articolo 1, secondo la proposta dell’onorevole Colitto:

«Il termine di otto mesi, previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, per la durata dell’Assemblea Costituente, ed iniziatosi il 25 giugno 1946, è prorogato fino al giorno dell’entrata in vigore della nuova Costituzione e, comunque, non oltre il 24 giugno 1947».

(Dopo prova e controprova, non è approvato).

Metto in votazione il testo dell’articolo proposto dalla Commissione e fatto proprio dalla Presidenza dell’Assemblea.

«La durata dell’Assemblea Costituente, iniziatasi il 25 giugno 1946, è prorogata al 24 giugno 1947».

(È approvato).

Metto ai voti l’articolo 2:

«La presente legge costituzionale sarà promulgata dal Capo dello Stato entro due giorni dalla sua approvazione ed entrerà in vigore il giorno stesso della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica».

(È approvato).

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Procederemo ora alla votazione segreta del disegno di legge testé approvato.

Si faccia la chiama.

SCHIRATTI, Segretario, fa la chiama.

(Segue la votazione).

PRESIDENTE. Lasceremo le urne aperte, e procederemo nello svolgimento dell’ordine del giorno.

Presidenza del Vicepresidente PECORARI

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: «Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri». È iscritto a parlare l’onorevole Selvaggi. Ne ha facoltà.

SELVAGGI. Non vi meravigli se comincio col parlare della questione del giorno, non tanto e non solo in questa Assemblea, quanto, soprattutto oggi, nel Paese: la questione morale.

La prima volta che si riunì quest’Assemblea, ne parlò l’onorevole Nitti; se ben ricordo, ne parlò anche l’onorevole Lombardi, poi l’onorevole Conti e infine l’onorevole Finocchiaro Aprile, in una forma, diremo, piuttosto veemente.

È un problema che oggi è nell’opinione pubblica. È stata costituita dall’Assemblea una Commissione, che si limita però al solo problema di conoscere quali siano le cariche compatibili o incompatibili con quella di deputato o di membro del Governo. È troppo poco. Vi sono molti fatti che corrono sulla bocca di tutti in Italia e che hanno bisogno di essere chiariti: ci sono ancora i fatti del Viminale; ci sono gli episodi dell’Emilia; c’è il problema così detto dell’«oro di Dongo»; ci sono le accuse fatte e formulate in questa Assemblea. Ed è nell’interesse di tutti, è nell’interesse della dignità dell’Assemblea stessa e della nascente democrazia italiana, che questi problemi siano chiari all’opinione pubblica e che non si dia luogo a che qualcuno possa con ciò menomare quella che deve essere la dignità della democrazia italiana.

Connesso a questo c’è un altro problema: ed è il problema della fiducia. Se noi creiamo nel popolo italiano la sfiducia verso il sistema democratico, non so a quali conseguenze potremo arrivare.

L’onorevole Gronchi disse che anche in altri settori potevano essere formulate le accuse che da parte dell’onorevole Finocchiaro Aprile erano state formulate riguardo a membri della democrazia cristiana. Io credo che nessuno avrà difficoltà a che siano chiarite le posizioni in tutti i settori e per ogni singolo individuo. È, credo, un dovere al quale noi dobbiamo sottoporci di fronte al Paese, nell’interesse della nascente democrazia.

Le cause di queste accuse devono cercarsi nella forma, diciamo un po’ caotica, nella quale l’Italia si trovò subito dopo la liberazione, quando i Comitati di liberazione nazionale assegnavano, a volte affrettatamente, Tizio, Caio e Sempronio a una cooperativa o ad un commissariato, ecc. Occorre ora al più presto rientrare nella piena e completa normalità.

A questo proposito è interessante quanto lo stesso onorevole Sforza, membro del Governo, parlando ad Ancona nel dicembre scorso, ebbe a dire: «Diciamo la verità: gli italiani amano bensì la libertà, ma tengono per lo meno altrettanto alla giustizia. Nel fascismo gli italiani abominarono soprattutto l’ingiustizia, il favoritismo, la corruzione. Guardiamo la verità in faccia e confessiamoci che tutto ciò non scomparve in un periodo post-fascista, in cui i partiti, tutti i partiti cercavano di assicurarsi adepti e distribuirsi prebende e posti dello Stato, senza cercare se fossero o meno competenti».

Ritengo, come ho detto, che bisogna rientrare nella normalità, anche perché nella opinione pubblica, quando certe cose vengono messe a tacere senza dare dei chiarimenti, è logico che si pensi che si è arrivati a forme di compromesso per coprirle. Tutto ciò viene a danneggiare anche la compagine stessa e l’autorità del Governo, mentre si aggrava anche la mancanza di quella omogeneità, che ieri l’onorevole Togliatti chiamava affinità, tra i partiti. Appunto per questa mancanza di omogeneità si sono create le crisi dei vari Governi che si sono succeduti.

Varie ipotesi sono state formulate sulle cause dell’ultima crisi. L’onorevole Nenni l’ha addirittura definita un fatto storico di enorme importanza, cioè il tentativo di estromettere dal Governo le forze che rappresentano le classi lavoratrici, ossia i socialcomunisti. L’onorevole Togliatti mi pare che abbia smentito questa interpretazione dell’onorevole Nenni e ha detto che la crisi è un atto – io direi piuttosto un fatto – politico che non è dovuto a ragioni tecniche, né all’idea di estromettere le forze del lavoro dal Governo, in quanto lo stesso onorevole De Gasperi gli aveva lealmente dichiarato che ciò non era nelle sue intenzioni. L’onorevole De Gasperi stesso non ci ha dato spiegazioni precise al riguardo, cioè sulle cause della crisi che egli ha voluta. L’onorevole Togliatti dice che oggi bisogna dare una direttiva politica che corrisponda alla situazione che si è venuta a creare nel Paese.

In effetti, la situazione attuale del Paese non è quella del 2 giugno. L’onorevole Togliatti giustamente si è compiaciuto delle vittorie del partito comunista nelle elezioni amministrative del 10 novembre scorso. Ritengo che anche da parte nostra possiamo altrettanto compiacerci, perché nell’Italia meridionale, da Roma in giù, i principali centri hanno delle amministrazioni qualunquiste, ed anche queste sono sorte nella legalità. Questa realtà avrebbe eventualmente giustificato un’altra formazione di Governo; ma l’onorevole De Gasperi si è attenuto alla realtà parlamentare, cioè ha tenuto conto non della maggioranza numerica, sommando gli individui che potevano pensarla in uno stesso modo, ma dei gruppi.

Nulla da obiettare; però si sono avute interpretazioni varie sul modo e sulla repentinità con cui si è arrivati alla crisi, molto affrettata senza dubbio; crisi che nella soluzione ha portato ad un risultato analogo a quella precedente. I rappresentanti dei lavoratori sono al Governo. Questa dizione di lavoratori è molto spesso usata, ed è un po’ curiosa: io parlerei non di lavoratori al Governo quanto di rappresentanti delle classi lavoratrici. Non so infatti quale differenza ci possa essere tra l’onorevole Nenni ed il sottoscritto e l’onorevole Giordani; prendiamo parte tutti e tre alla redazione di un giornale e alla vita di questa Assemblea; e così fra l’onorevole Togliatti e il sottoscritto: l’onorevole Togliatti viene qui molto simpaticamente vestito in bleu, io vengo in grigio; l’onorevole Molè e l’onorevole Nenni stanno, come dire, bene in salute; qualcuno di noi è più magro; ma calli alle mani non ne abbiamo nessuno. Siamo un po’ tutti lavoratori: si può essere lavoratori del braccio e lavoratori della mente e mi sembra che anche voi, in definitiva, siate lavoratori della mente.

Ma l’onorevole Nenni ha parlato di una classe dirigente superata, cioè la borghesia.

Egli ha parlato di una classe che nel 1940 parlava il tedesco, nel 1943 ha cominciato a parlare l’inglese ed oggi parla l’americano di Wall Street.

Credo che ci sia qui una confusione. Questa classe, se mai, o elementi di questa classe li potremo trovare in via Veneto, in una gelateria come quella qui vicina, da Giolitti, dove, del resto, molti di noi vanno a rinfrescare l’arsura che le concioni naturalmente provocano qui dentro.

Ma la borghesia non è quella. Se la borghesia è quella che ha compiuto il suo ciclo portando il fascismo al potere, c’è da domandare a tutti chi può effettivamente scagliare la prima pietra, perché non si sbaglia soltanto facendo, ma si sbaglia e si erra anche non facendo: e io credo che molto pochi sono quelli che veramente possano vantarsi di aver mantenuto sempre una perfetta linearità di condotta. E il fatto di essere così pochi, in una massa di popolazione come tutto il popolo italiano, dovrebbe ispirare loro un tale senso di magnanimità da non consentire di atteggiarsi a giudici della stragrande maggioranza del popolo italiano.

E se la borghesia ha fallito con l’avvento del fascismo, credo che ci siano episodi storici ben precisi che ci dicono che anche il socialismo ha fallito.

La realtà è che borghesia e proletariato sono due cose insopprimibili, sono gli anelli di una stessa catena. Se si sopprime la borghesia, prima o poi, si è portati a ricostituirne un’altra. Non si chiamerà borghesia, si chiamerà in un altro modo: è un’altra classe che può rappresentare le masse, ma non è la massa.

Ora, se ognuno avesse il coraggio di essere quello che è e se i borghesi – è questa l’accusa che noi per primi facciamo alla borghesia e ai borghesi – avessero il coraggio di essere tali e non di fare i falsi riformisti, le cose andrebbero molto, ma molto meglio.

Questo, forse, è il frutto di una situazione internazionale, e quindi nazionale, confusa. Ma il malcostume sta proprio in questo: che nessuno ha il coraggio di mostrarsi con i suoi inconfondibili connotati politici.

Il Governo è dunque identico al precedente. L’onorevole De Gasperi ha detto: «Il programma è identico a quello del Governo precedente».

Ora, se il programma è lo stesso, vuol dire che precedentemente nulla è stato fatto. Noi avevamo votato contro quel Governo e il suo programma; evidentemente ed a maggior ragione voteremo contro anche adesso, per il semplice motivo che quel programma non è stato realizzato. Il che, da un punto di vista di gruppo, ci fa molto comodo. Atterrisce però, dal punto di vista dell’interesse generale del Paese, il dubbio che questo programma o qualunque altro programma non possa essere realizzato. Si dirà: il Governo non riesce, i partiti non riescono, e si verrà a noi. Del resto noi siamo sorti proprio per gli errori che altri hanno commessi. Siamo sorti perché l’opinione pubblica, o una parte di essa, non ha trovato sodisfazione nell’attività dei partiti che erano al Governo; ha cercato un altro orientamento, e si è orientata verso di noi.

Ma noi siamo preoccupati dell’interesse generale del Paese, che è superiore a voi, a noi, a tutti quanti.

È questo il fatto (e per colpa dei partiti che si sono succeduti al Governo) per cui noi ci andiamo ingrandendo, per cui si determinano quelle crisi di crescenza della quale la stampa in questi giorni ci accusa. Siamo pochi qui ma, ricordiamocelo, le elezioni amministrative ci hanno dimostrato che noi abbiamo un notevole seguito nell’opinione pubblica. Ed ecco perché ritengo che ci dobbiamo preoccupare di quello che possa essere il programma del Governo e della sua eventuale mancata attuazione, soprattutto per quanto concerne la situazione economico-finanziaria.

L’onorevole Corbino disse qui che la politica delle sinistre è una politica di maggiori spese, e l’onorevole Nenni lo ha confermato: è una politica di maggiori spese, di spese pubbliche, per andare incontro alle masse. Ora, quando le casse sono vuote, come lo sono ora, non si può largheggiare se non facendo funzionare la rotativa dei biglietti, aumentando cioè la circolazione e quindi la miseria. Ma, se non erro, fu proprio uno dei vostri maggiori uomini a dire che non si socializza la miseria.

Il problema per noi è che sia rispettata la minoranza. L’onorevole Nenni ha modificato un poco, forse, il suo atteggiamento – se ho bene interpretato – dal suo famoso discorso della Spezia, che tante preoccupazioni suscitò, quando egli, parlando sul tema: «Dal Governo al potere», disse: «Si persuada il Paese, si persuadano soprattutto i ceti medi che, per evitare i rischi della guerra civile e la ricaduta nel totalitarismo, la sola garanzia è un forte partito socialista affiancato al partito comunista e alla testa dei blocchi del popolo». L’interpretazione che fu data allora fu quella di una minaccia, quella che fu chiamato un ricatto.

NENNI. Interpretate sempre male.

SELVAGGI. Può essere, onorevole Nenni; se lei chiarisce, interpreteremo meglio. L’interpretazione, comunque, che demmo fu questa: o così o la guerra civile. Del resto lei da molto tempo è conosciuto per gli «o, o»; quindi era giustificata la nostra interpretazione.

Ora, l’altro ieri l’onorevole Nenni è stato molto esplicito ed ha detto che si deve arrivar presto alle elezioni politiche, perché questa situazione un po’ equivoca, per cui è impossibile formare una vera maggioranza, deve essere risolta dal Paese ed anche perché dal 2 giugno la situazione generale del Paese è cambiata. Perfettamente d’accordo. Egli aggiunse: noi contiamo di riuscire, di vincere; se non riusciremo, ci prepareremo per le prossime elezioni. Noi prendiamo atto con grande piacere di questa precisa dichiarazione di democraticità! però l’onorevole Nenni, nel definire la democrazia, ha detto: la democrazia per noi è l’occasione, la possibilità di realizzare la libertà della lotta di classe. Una specie di quinta libertà dopo le quattro rooseveltiane. La lotta ha un significato: è un urto, è un cozzo; non si sa come si comincia, ma tanto meno si sa come si finisce. E ammettendo che questo metodo, dal piano interno, venga portato sul piano internazionale, a che cosa arriviamo? Ricordiamo il «proletari di tutto il mondo, unitevi!»; ed allora, l’ideologia di una terza guerra mondiale (ed io mi auguro che non sia questa l’interpretazione) non è della borghesia.

Ora, indubbiamente, l’evolversi della situazione generale del Paese richiede che al più presto possibile si arrivi alle elezioni e che questa situazione di difficili maggioranze – per lo meno difficili per il modo in cui devono essere formate – venga risolta ricorrendo alla sovranità del popolo. Al quale proposito vorrei dire una cosa: in materia di elezioni il Governo ha un impegno per quanto riguarda le elezioni in Sicilia; è un impegno da lunga data e forse, se mantenuto, potrà significare porre la prima pietra per la soluzione della questione meridionale che io vorrei definire la questione degli impegni non mantenuti.

Programma del Governo. La prima volta, l’onorevole De Gasperi ci disse che il suo è un programma di lunga portata e annunciò molte cose che erano in contrasto con la situazione in cui il Paese e l’Assemblea Costituente si trovavano, in quanto c’era un progetto di Costituzione, progetto oggi completato e che dovrà comunque esser discusso. Disse pertanto l’onorevole De Gasperi che vi erano argomenti i quali avrebbero potuto trovarsi in contrasto con i principî che sarebbero stati posti nella Costituzione. Così si parla qui di leggi eccezionali. Ma l’onorevole De Gasperi ha assicurato che, per nessuna ragione, sotto alcun pretesto, saranno emanate nuove leggi eccezionali. Io non credo che la Repubblica sia minacciata e la prova di disciplina offerta da tutto il popolo italiano, in un campo e nell’altro, dal 2 giugno in poi, ne è la dimostrazione più chiara. Direi piuttosto che è lo Stato che minaccia di essere in pericolo, quando, anziché rivendicare duramente, altamente, la propria autorità, la mendica, da una parte o dall’altra, con delle formule di compromesso. Noi non ci dimentichiamo delle buone intenzioni dell’onorevole De Gasperi, ma un generale scadimento del senso della legge si è determinato ed è giunto al punto che gli stessi tutori della legge osano attentare, con ogni espediente, alla pace e alla libertà dei cittadini.

Io credo che il momento sia giunto per attuare coraggiosamente il trapasso dall’illegalismo alla legalità, in maniera che la nuova Costituzione possa sorgere, non come l’habeas corpus di alcuni italiani, ma come l’habeas corpus di tutti gli italiani, come statuto di libertà di tutti i cittadini, e non come statuto di privilegio. Occorre, cioè, smantellare l’impalcatura delle leggi eccezionali e ridare a tutti gli italiani l’unica legge che valga per tutti, in uno Stato democratico consapevole della sua funzione e sicuro del suo avvenire. Debbono, di fronte a qualunque pericolo, bastare le leggi comuni, applicate da una Magistratura retta e indipendente. Ciò è nell’interesse del Paese; è nell’interesse di tutti che si rientri nella legalità. Debbo ricordare, a tal riguardo, le parole pronunciate dall’onorevole Sforza – egli che è stato, credo, il primo capo dell’epurazione in Italia – nel suo interessantissimo discorso. Egli disse: «Si capì presto che in Italia era poco meno che vano combattere il fascismo con la violenza e con le leggi di eccezione e che non si poteva vincerne i germi se non con un costume democratico moralmente rigoroso e politicamente efficiente. È un problema quindi soprattutto di democrazia, democrazia che noi dobbiamo attuare contro ogni idea di totalitarismo».

Un punto particolarmente delicato del programma dell’onorevole De Gasperi riguarda i consigli di gestione. Io non conosco il progetto del Ministro Morandi, ma ho l’impressione che esso prepari la socializzazione e non accantoni l’iniziativa privata. Ora, io penso che non possano queste due cose coesistere.

Una voce a sinistra. Perché?

SELVAGGI. Perché il consiglio di gestione, come voi lo intendete, è uno strumento politico e non tecnico, e quindi tale da rendere la produzione più onerosa. All’estero – e se non sbaglio nel Belgio – si stanno esperimentando i consigli di gestione, ma dal punto di vista economico. Se non erro, invece, in Russia l’esperimento non è andato bene, ed i Consigli di gestione sono stati da tempo aboliti.

DOMINEDÒ Sì, dal 1934.

DI VITTORIO. Perché non ce n’è bisogno! Mancano i capitalisti in Russia.

SELVAGGI. L’economia italiana è troppo malata per poter essere sottoposta ad esperimenti che non ritengo corrispondenti, in questo momento, alle sue necessità. Pensate solo che l’economia italiana deve oggi sopportare il peso delle riparazioni e del deficit del bilancio statale. Ora, in un momento come questo lo Stato non dovrebbe cercare di aumentare sempre più il numero delle sue attribuzioni economiche.

Indubbiamente, dopo cataclismi come l’ultimo, il mondo va a sinistra. E allora della democrazia si danno le più disparate e diverse definizioni. Una specie di Babilonia! La democrazia viene confusa con ogni cosa. Ieri l’onorevole Togliatti – mi dispiace che l’onorevole Giannini sia indisposto – trovò modo di dare una definizione della nostra democrazia quale essa è nei vari gruppi qui dentro. Per noi egli ha detto: la demagogia non sempre conseguente del Commediografo. Se non erro, c’è stato un articolo «Togliatti locutus est», al quale l’onorevole Togliatti non ha dato risposta con argomenti concreti.

Gli sconvolgimenti cui accennavo sono maggiori nei paesi che hanno subìto la sconfitta. Ma ad un certo momento il pendolo cambia direzione. Oggi non è in ballo la storia degli ultimi due o tre anni, ma la storia di quarant’anni. E non è stato in questi anni dimostrato che il secolo della democrazia debba preparare l’avvento del secolo del socialismo.

Ritengo che si debba ripudiare ogni forma di faciloneria, di improvvisazione, di mancanza di senso di responsabilità, di esaltazione del numero; e che si debba tornare all’individuo, il quale deve essere libero di esplicare la sua personalità, che è il più grande dono che Dio abbia dato all’uomo.

L’individuo deve essere libero: libero di poter emigrare dove ritiene meglio; e lo Stato ha il dovere di assecondarlo attraverso i mezzi internazionali conosciuti, non di cercare di guidarlo in una direzione piuttosto che in un’altra per ragioni di carattere politico.

Ed è questo che noi vogliamo: uno Stato tale per cui l’individuo possa veramente dirsi libero di esplicare la propria personalità. Perciò non abbiamo pregiudiziali, tranne che una: l’antiestremismo, qualunque sia la tinta dell’estremismo. Ecco perché siamo anticomunisti, non come formula centrale del programma, ma perché ci opponiamo a quanto di totalitario ci sia nel programma comunista.

Ricorro ancora all’onorevole Sforza. Egli dice: «Il comunismo non lo si combatte partendo da situazioni ciecamente e istericamente difensive; lo si neutralizza in ciò che ha di totalitariamente miope, affermando e persuadendo che noi possediamo un messaggio umano più alto del suo, perché il nostro messaggio allea ad una lotta per una sempre maggiore giustizia sociale la cura più gelosa per quella libera difesa dell’individualismo umano, senza cui la vita non vale la pena di essere vissuta».

Ora, giorni orsono, l’onorevole Scoccimarro disse che fra la democrazia cristiana ed il comunismo vi era minore distanza ideologica di quanta non ce ne fosse fra la democrazia cristiana ed i liberali. Lo stesso onorevole Togliatti ieri ha dimostrato – è il suo punto di vista – che non vi sono differenze ideologiche, dal punto di vista religioso, nella lotta contro i ceti capitalistici, nei principî di nazionalizzazione o di socializzazione. Io non so cosa si appresterà a rispondere la democrazia cristiana. Io dico, per quanto ci riguarda, che vi sono delle differenze nel metodo e nel fine che si vuol raggiungere. Il metodo, per noi, è l’esplicazione della personalità, il fine la libertà dell’individuo; per voi, la lotta di classe e la dittatura del proletariato.

DI VITTORIO. Per intanto è la dittatura del capitalismo.

RUSSO PEREZ. E noi siamo contrari a questo.

Una voce a sinistra. Siate coerenti!

RUSSO PEREZ. Siamo sempre coerenti.

Una voce a sinistra. Però, la dittatura fascista l’avete fatta voi.

RUSSO PEREZ. Siete fascisti voi! Non è il colore della camicia che cambia la sostanza delle cose.

SELVAGGI. L’onorevole Togliatti disse ieri che i nostri predecessori in questi banchi avevano per metodo la lotta e per fine la dittatura. Ora, e voi non lo avete mai smentito, il metodo della lotta e la dittatura come fine, lo avete voi. E allora i predecessori vostri erano i fascisti (Interruzioni a sinistra). Noi invece, che non siamo una chiesa, ma un movimento di uomini liberi, ci riconosciamo dall’amore che sentiamo per l’Italia e chiediamo soltanto che il Paese possa essere saggiamente amministrato, perché non credo che in questo momento ci possiamo permettere il lusso di disquisizioni dottrinarie, né lussi dialettici, che non sarebbero al loro posto. Lo Stato dia una polizia che salvaguardi i galantuomini, una giustizia organizzata, un esercito decoroso, una politica estera intonata alle necessità nazionali. Credo che in questo modo si sarà posta o si potrà porre la prima pietra di quella famosa questione sociale che tutti sentono in Italia e che si basa soprattutto sull’ordine interno. Si cessi, cioè, una buona volta dalle minacce, da quella specie di cappa che grava sull’individuo, come per esempio l’imposta sul patrimonio. Se la si deve mettere, la si metta, ma non si tenga in sospeso con l’alternativa «si metterà o non si metterà», perché chiunque ha qualche cosa da fare, con questi dubbi, non si muove, e tutta l’economia resta ferma. Se si deve fare il cambio della moneta lo si faccia; se non si deve fare, non lo si faccia; ma lo si dica.

A proposito dell’esercito dirò due parole. L’onorevole Lombardi ha parlato nobilmente di quello che dovrebbe essere un nuovo esercito, un esercito decoroso, in maniera che non si ripetano gli episodi delle pianure sarmatiche o di El Alamein. Devo dire che quando gli italiani hanno risposto all’appello della Patria e sono andati a combattere, non hanno discusso; come nessuno discuterebbe oggi anche se – estrema ipotesi – vi fossero i comunisti al potere e dicessero che l’Italia è in pericolo e che bisogna combattere. Tutti, credo, si metterebbero in marcia e andrebbero a combattere. Ma quello che noi non possiamo perdonare, anche a persone illustri, quali l’onorevole senatore Croce e altri, è di essersi auspicata la sconfitta della patria per faziosità politiche. (Approvazioni).

Il nostro esercito deve essere costituito, a mio parere, da coloro che sanno il significato morale della Patria e che hanno combattuto per un’idea. E mi pare che tanti fra i volontari del Corpo italiano di liberazione che hanno scritto pagine meravigliose a Montelungo e per la liberazione di Bologna, possano benissimo affiancarsi ai partigiani che, oltre che per gli ideali di libertà, hanno combattuto per la Patria.

MOSCATELLI, Sottosegretario di Stato per l’assistenza ai reduci e ai partigiani. E allora perché li chiamate ladri?

RUSSO PEREZ. Ladri i ladri, eroi gli eroi!

MOSCATELLI, Sottosegretario di Stato per l’assistenza ai reduci e ai partigiani. Io sono partigiano e ieri voi l’avete detto. Ho le orecchie buone.

BENEDETTINI. Ce ne sono di quelli che hanno fatto onore all’Italia.

SELVAGGI. Onorevole Moscatelli, io ho avuto l’onore di essere partigiano e di essere decorato di medaglia d’argento, e coloro che me l’hanno assegnata non erano nemmeno delle mie idee politiche. Rispetto ed onoro i partigiani, ma anche voi, più volte, avete detto che fra i partigiani si sono infiltrati dei ladri e dei delinquenti.

MOSCATELLI, Sottosegretario di Stato per l’assistenza ai reduci e partigiani. Anche dall’altra parte si sono infiltrati.

SELVAGGI. Sul sangue dei morti credo che nessuno possa avere il diritto di fare della demagogia.

E vengo al problema di politica estera.

Credo che la politica estera odierna si possa definire la politica del Trattato di pace. Si è discusso della firma o non firma, della ratifica o della non ratifica. Il Governo ha preso la decisione che ha ritenuto di prendere con la sua piena e completa responsabilità. Sta a lui fare in modo che la ratifica diventi veramente l’atto decisivo del Trattato di pace, cioè sta al Governo fare in modo, coi mezzi che crederà più opportuni, che da parte delle altre nazioni, degli altri Stati, si riconosca questo diritto sovrano dell’Assemblea Costituente italiana in nome del popolo italiano. È questo già, a mio parere, un primo atto di politica revisionistica.

Ma su questa politica revisionistica è bene essere d’accordo, perché se all’interno noi potremo dividerci, potremo combatterci, all’esterno dovremo presentarci come un blocco solo, di tutti gli italiani.

Revisione di che? Revisione territoriale? Revisione delle clausole economiche? Revisione della clausole militari? Dovremo metterci d’accordo e questo è il punto fondamentale al quale dovrà partecipare la politica estera italiana.

Però bisogna anche mettersi d’accordo su un altro punto. Sui precedenti della politica estera italiana in questi ultimi anni. Io ritengo che noi abbiamo avuto paura. Si è avuta paura delle parole. Si è avuta paura della famosa parola «nazionalismo» (Rumori all’estrema sinistra). Parliamoci chiaro. Che cosa è il nazionalismo oggi? In Italia non è altro che patriottismo, cioè dignità di un Paese povero. (Rumori e commenti all’estrema sinistra).

Il nazionalismo espansionista lo possono fare soltanto dei Paesi che sono saturi, e quindi ricchi.

Una voce all’estrema sinistra. L’avete fatto voi per vent’anni.

SELVAGGI. Lo stesso onorevole Nenni, nel suo discorso di Canzo, ha toccato questo punto che io ricordo molto bene. Il problema era questo, dell’impostazione della nostra posizione nel piano internazionale.

Ritengo che c’erano due piani: uno che chiamerei ideologico moralistico ed un altro realistico empiristico. In un primo tempo volevano dire la stessa cosa. La propaganda attraverso la radio, che abbiamo sentita, faceva coincidere questi due piani, ma a poco a poco, i due piani sono andati spostandosi; il primo è stato definitivamente, completamente abbandonato per la tradizione della politica di potenza, perché credo che pochi popoli possano esprimere degli individui capaci di morire e di combattere soltanto per una idea, in modo particolare, per l’idea della libertà.

I Governi sono entrati ed entrano in guerra per vincere la guerra, per conquistare qualche cosa. Ora, io ritengo che noi abbiamo commesso l’errore di non accorgerci del graduale distacco di questi due piani, e soprattutto del conseguente cinismo col quale, da parte alleata, è stato considerato il nostro contributo alla guerra di liberazione, cioè la nostra cobelligeranza.

Noi siamo rimasti fermi al piano ideologico. Abbiamo sperato nella solidarietà antifascista, che avrebbe distinto fra l’Italia e il fascismo, nella solidarietà democratica verso questo Paese, che si avviava alla democrazia. Ci siamo cosparsi il capo di cenere. Abbiamo espiato; ma questo piano era sterile.

Partendo dalla colpevolezza dell’Italia, l’unica conseguenza era la pace punitiva o, al massimo, la pietà dei vincitori. Forse sul piano realistico era possibile almeno tentare di trattare.

L’onorevole De Gasperi disse un giorno qui: non abbiamo carte.

L’onorevole Nenni, nel suo discorso di Canzo, che ho richiamato, a proposito delle colonie disse: la Gran Bretagna non ha niente da guadagnare dalla nostra espulsione da quella che fu, retoricamente, chiamata la quarta sponda; non ha niente da guadagnarci la Francia. Non ha da guadagnare la civiltà. Soprattutto, non hanno niente da guadagnarci gli altri che conoscono i due volti dell’Italia, quello di Graziani e quello dei nostri lavoratori, superiori a tutti gli altri per ingegno, iniziativa, coraggio e operosità.

E disse anche: la vita non può essere una successione senza fine di provocazioni e di ripicchi.

Era qui una carta da negoziare. Se gli altri avevano interesse, anche noi potevamo averne uno, potevamo negoziare su questo.

Ma, soprattutto, c’era la posizione geografica dell’Italia e c’era il rapporto d’equilibrio fra le grandi potenze; rapporto e politica di equilibrio che erano ormai apparsi chiari, prima nel convegno di Mosca, poi di Yalta, poi di Potsdam.

Ecco la ragione per la quale noi, o per lo meno il nostro settore di destra non è antirusso, mentre all’interno, è anticomunista.

Ma, all’interno bisogna essere rettilinei, lineari; in politica estera si ha il dovere di essere spregiudicati nell’interesse del Paese.

L’Italia è fra due mondi: è all’incontro di questi due mondi.

Dice l’onorevole Nenni: l’Italia dovrebbe fare da bilancia fra questi due mondi. Indubbiamente, però, per fare da ponte o da bilancia, bisogna avere anche la possibilità, la forza di farlo. Intanto c’è una realtà ed è che quando il Paese ha fame, esso si rivolge verso chi gli manda effettivamente roba da mangiare.

Ora, l’Italia deve dimostrare che essa ama la pace perché ha bisogno della pace. E credo che la nostra migliore ambasceria di pace in tutto il mondo sia rappresentata dal Vaticano che, per il suo principio universale di pace, non può essere contro nessuno ma può essere con tutti a favore di tutti.

Io credo che sul piano tradizionale della democrazia, lasciando da parte la posizione ideologica, ma soltanto come italiani, noi potremo andare al di là del Trattato, e difendere questa piccola e povera Italia per noi e per il mondo come riserva morale e civile.

Ora, in questa fase di politica estera, in questa non sufficiente difesa delle possibilità politiche dell’Italia, nell’equilibrio fra le grandi potenze, il Governo dell’onorevole De Gasperi ha errato ed è caduto; e le forze che noi rappresentiamo, queste forze dell’uomo della strada, che da quarant’anni a questa parte è stato portato attraverso traversie di ogni genere – dalla triplice al patto di Londra, dal patto di Londra al fascismo e ad un’altra guerra, ecc. – hanno almeno il diritto di dire: siamo stati sconfitti, abbiamo perduto, paghiamo, ma paghiamo con un certo senso estetico della tradizione, quello della nostra grandissima, della nostra immensa civiltà.

Ci rendiamo conto delle difficoltà enormi che deve affrontare l’onorevole De Gasperi: queste difficoltà interne, queste affinità delle quali l’onorevole Togliatti molto abilmente ha parlato ieri, queste difficoltà esterne, difficoltà nel piano internazionale. E siccome per noi al disopra di tutto c’è il Paese, c’è l’Italia al disopra degli interessi del nostro partito, noi auguriamo all’onorevole De Gasperi di riuscire nel suo compito, nell’interesse del Paese.

Ma soprattutto noi formuliamo la speranza che gli italiani del ventesimo secolo, che hanno visto il compimento prima e la tragedia poi dell’unità nazionale e che portano nell’animo il ricordo di tutte le nostre glorie, formulino una preghiera, direi un giuramento, quello di essere gli artefici modesti, ma tenaci, delle fortune presenti e soprattutto future della nostra Patria. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bosi. Ne ha facoltà.

BOSI. Onorevoli colleghi, nell’esposizione del programma del Governo alcune questioni non sono state, secondo me, poste con sufficiente rilievo da parte degli intervenuti, forse perché si è adottato il sistema di affrontare tutte quante le dichiarazioni del Governo in una volta, senza approfondire i singoli problemi che sono stati posti.

Nella esposizione che riguarda la situazione economica del Paese, il problema della nostra agricoltura è stato toccato da alcuni interventi, ma non nella sua interezza e, a mio parere, nelle stesse dichiarazioni del Governo, pur essendoci alcuni punti di precisazione sull’azione che il Governo intende condurre in confronto di alcuni problemi che si trascinano ormai da anni, manca però qualcosa che, mi pare, avrebbe dovuto essere rilevato dell’Assemblea; e precisamente quale sia la politica, che il Governo intende condurre nei confronti dell’agricoltura, che è certamente, se non la metà, qualcosa che si avvicina alla metà della ricchezza del nostro Paese, ed i cui problemi costituiscono i problemi fondamentali della rinascita del Paese stesso.

L’industria ha avuto una trattazione abbastanza larga; si è parlato spesso di quello che è necessario fare nel campo industriale. Ma, nel campo dell’agricoltura si è parlato molto poco di questo. Eppure l’agricoltura italiana ha sofferto quanto l’industria dalla guerra ed ha delle ferite vive che bisogna riparare, ha delle necessità, alle quali il Governo, sia pure un Governo quasi provvisorio come l’attuale, deve pensare e sulle quali deve dire cosa intende fare.

Le ferite che occorre riparare sono: la ricostruzione del patrimonio distrutto dalla guerra nel campo dell’agricoltura: patrimonio zootecnico, patrimonio tecnico, danni apportati alla stessa terra, ferita, dove è stata luogo di battaglia; ci sono i problemi che riguardano le forze vive dell’agricoltura: cioè, tutti coloro che svolgono il loro lavoro, la loro attività, la loro intelligenza nel campo agricolo.

Una cifra sola, che viene ripetuta molto spesso, dice quali sono i danni che la nostra agricoltura ha sofferto: si produce in Italia in media il 30 per cento di meno di quello che si è prodotto nel 1938-39.

Questo perché manca il bestiame, mancano le macchine, mancano i concimi, mancano molte cose; ed anche per altra ragione: l’attività agricola non è spesso stimolata, ma intralciata da misure che la opprimono, e che sono qualche volta la eredità del passato, e da una mancanza di decisione nella politica stessa dell’agricoltura.

Noi abbiamo una sola ricchezza nell’agricoltura, e mi pare che sia la più trascurata: quella dei lavoratori. Se c’è un campo dove abbondano i lavoratori, dove la disoccupazione non viene calcolata nelle statistiche, ma è un fatto reale che investe non soltanto i braccianti, ma tutte le altre categorie di produttori, è proprio l’agricoltura.

C’è una cattiva utilizzazione di tutta la mano d’opera, di tutte le nostre piccole famiglie di conduttori diretti, di piccoli proprietari, i quali vivono in una terra troppo stretta, oppure mal coltivata, per una serie di ragioni che cercherò di esporre.

C’è una necessità di ripresa della nostra agricoltura, anche perché – e credo che siano tutti d’accordo – uno dei cardini della ripresa anche nel campo industriale è proprio la ripresa dell’agricoltura.

Si è fatto in passato, in quest’Aula, una critica alla nostra attrezzatura industriale; si è parlato di nuovi indirizzi della nostra industria e si è detto sovrattutto che occorre maggior legame fra l’agricoltura e l’industria. Bisogna che la nostra agricoltura fornisca le materie prime a quella che dovrà essere un’industria italiana, sana e capace di vivere trovando il suo mercato all’interno ed anche all’estero; in maniera che siano finite le sovrastrutture di industrie parassitarie, le quali gravano sul popolo italiano e su tutta l’economia, impedendole il libero sviluppo.

È evidente che non si può chiedere al Governo attuale di fare una politica, quale potrebbe adottare soltanto un Governo, che avesse dinanzi a sé prospettive d’una lunga durata, un Governo che si reggesse su un’Assemblea che avesse durata e fosse capace, perciò, di offrire delle basi solide al Governo stesso.

Però penso che oggi in Italia non si possa, qualunque politica si faccia, non tener conto che bisogna non soltanto fare qualche cosa per l’immediato bisogno di oggi, ma dare già un indirizzo per quello che occorra far domani. Bisogna, quindi, risollevare e utilizzare le forze che ci sono nell’agricoltura italiana, per vedere di risolvere i problemi dell’oggi, che sono soprattutto i problemi dell’alimentazione, del rifornimento, per quanto è possibile, di alcuni rami della nostra industria. Ma bisogna pensare già fin d’ora ai problemi del domani, che vogliono dire utilizzazione delle nostre possibilità nel campo dell’agricoltura, che vogliono dire in sostanza come utilizzare nel modo migliore quella terra che è la nostra terra, come potremo sviluppare la nostra agricoltura, la quale si trova, anche nelle regioni più sviluppate d’Italia, di fronte al problema del domani, quando – e credo che su questo tutti ci siamo pronunciati d’accordo – bisognerà affrontare i mercati esteri; bisognerà affrontare quella che è la politica commerciale e industriale senza bardature autarchiche e senza protezionismi. Bisogna fin d’ora pensare a questo: che cosa faremo rendere alla nostra terra? E io penso che il Governo dovrebbe già iniziare qualche cosa in questo senso.

L’onorevole Segni, che da diverso tempo regge il Ministero dell’agricoltura, qualche cosa ha fatto in questo senso; ha fatto se non altro, come esposizione di idee e di buone intenzioni. Io non credo che l’onorevole Segni voglia lastricare l’inferno con le sue buone intenzioni; qualche cosa di più concreto bisogna fare. Ho visto – e credo che gli onorevoli colleghi lo abbiano visto tutti quanti – il bilancio del Ministero dell’agricoltura. Ma essi avranno notato forse, come ho notato io, quanto in questa direzione, che è la direzione dell’avvenire, poco ci sia anche di intenzioni.

Presidenza del Presidente TERRACINI

Noi dobbiamo, credo, modificare profondamente tutta la nostra agricoltura in vaste regioni italiane – in modo particolare nell’Italia centro-meridionale, dove la nostra agricoltura è più povera – dobbiamo sforzarci di affrontare questo problema: che cosa faremo rendere alle nostre terre argillose dell’Italia centrale e della Sicilia? Che cosa faremo degli altri terreni che abbiamo a disposizione e che, con le attuali conoscenze della tecnica agricola, non sappiamo in molti casi come rendere adatti a mantenere quella popolazione in un modo civile, umano.

Ebbene, nel bilancio del Ministero dell’agricoltura non ho visto che ci sia quell’impulso necessario alla preparazione di nuovi elementi della produzione, allo sviluppo e al buon appoggio dei tecnici che noi abbiamo in Italia – ce ne sono anche di fama internazionale – che ci dia modo di dire ai nostri agricoltori: «Questa è la via che dovete seguire, se volete che le vostre terre possano rendere». Non vedo questo, e non vedo, salvo qualche eccezione, neanche un accenno di indirizzo generale a quelli che sono i problemi che si ripetono sempre, che sono secolari, del rinnovamento della politica agricola, del miglioramento dei terreni, delle bonifiche, nonché del miglioramento delle condizioni dell’agricoltura nell’Italia meridionale. Ma anche qualche cosa in questo senso penso sarebbe necessario e utile fare. Perché, se non si affronta fin da oggi il problema dell’avvenire della nostra agricoltura, noi ci troveremo di fronte ad una tale situazione, nella quale non sarà più soltanto questione, specialmente per i lavoratori, di vivere male, ma sarà questione di dire: «In qual modo moriremo: di fame o impiccandoci?».

Infatti se dovessimo, nell’Italia di oggi, con la densità di popolazione che si è verificata specialmente mezzogiorno da quarant’anni a questa parte, trovarci nelle condizioni in cui ci trovammo durante la lotta doganale con la Francia, quando si è trattato di porre il dazio sul grano, dinanzi alla miseria, in larghissimi strati della popolazione lavoratrice dell’Italia meridionale; non avremmo ora i margini per poter dire a costoro: voi potrete vivere, male, ma vivere. Allora abbiamo mandato milioni di italiani a popolare l’Argentina od altre terre di altri Paesi; ma ora non avremmo più nemmeno questo scopo, perché è inutile farsi illusioni: a proposito di immigrazione, molti Paesi non si apriranno tanto facilmente e forse molti altri non si apriranno mai più. È in Italia che debbono trovare da vivere i nostri agricoltori. Perciò questo problema bisogna affrontarlo; il Governo qualche cosa dovrebbe dire al riguardo e così pure l’Assemblea dovrebbe pronunciarsi su quello che è necessario di fare.

Si è tuttavia cominciato a ricercare quali sono le deficienze della nostra agricoltura: recentemente sono stati tenuti dei convegni a Napoli, nei quali si è posto il problema della bonifica agraria meridionale. Il Ministero dell’agricoltura ha convocato delle riunioni per vedere quali sono le deficienze tecniche della nostra agricoltura e quali provvedimenti occorrano. Qualche cosa si è visto dunque in questo campo, e mi pare che l’indirizzo del Ministro Segni sia giusto, sia pure con qualche manchevolezza.

La questione della bonifica e del miglioramento fondiario dell’Italia meridionale è stata finalmente posta in rilievo come un fattore essenziale sul quale bisogna contare. Si è detto che la bonifica agraria non è soltanto un fatto tecnico, né soltanto il risultato di una erogazione di miliardi che dovrebbe fare lo Stato, ma deve essere soprattutto frutto del concorso paziente dei lavoratori.

Per molte zone dell’Italia meridionale la bonifica si è fatta, perché l’hanno fatta i piccoli contadini, su poca terra, riuscendo a comperare con il danaro guadagnato all’estero, come emigrati e con gravi sacrifici. Quei giardini, di cui siamo tutti orgogliosi, che si vedono nelle varie zone costiere anche in Sicilia, sono soprattutto frutto del lavoro e del sacrificio di questi contadini.

Ebbene, si è riconosciuto finalmente che questa forza deve essere utilizzata, e speriamo che lo sarà realmente. Oggi si vede che mancano ancora numerosi mezzi alla nostra agricoltura: così noi non possiamo risolvere il problema della meccanizzazione generale dell’agricoltura, e dobbiamo perciò chiedere i maggiori mezzi possibili. In Italia manchiamo di trattori: ci sono terre le quali potrebbero, per il solo fatto dell’aratura meccanica più profonda, essere molto redditizie; abbiamo la possibilità di sviluppare determinate lavorazioni soltanto se ci saranno le macchine necessarie a disposizione. Ma in Italia di trattori se ne fabbricano pochissimi; qualche azienda industriale potrebbe fabbricarne, per i nostri contadini, che devono dare pane al popolo italiano; ma forse le nostre industrie meccaniche preferiscono ancora fare automobili di lusso. Non lo so, ma perché non c’è ancora la possibilità di costruire questi trattori? E un problema che va risolto, perché l’Italia ha bisogno di macchine agricole per trovare un mercato all’interno e per attrezzarsi domani, anche per poter affrontare i mercati esteri. Mi pare che questa questione sia fondamentale e che non si possa lasciare in questo campo all’iniziativa privata dei proprietari delle grandi industrie meccaniche, i quali, potrà darsi benissimo che abbiano interesse a fabbricare automobili di lusso per i ceti privilegiati italiani e qualche migliaio di macchine per l’esportazione; ma il popolo italiano ha il sogno di trattori per poter sviluppare la propria agricoltura.

È uno di quei casi nei quali noi abbiamo chiesto e richiediamo l’intervento del Governo; e crediamo che sia uno dei casi di regolamentazione, che non vogliono dire socializzazione o nazionalizzazione, ma indirizzo da darsi alla nostra industria, perché serva al Paese.

Ci sono delle situazioni che vanno superate. Ad una riunione presso il Ministero dell’agricoltura, quando si è trattato di discutere il problema dell’estensione della coltivazione della bietola da zucchero, si è osservato che ci sarebbe stata, forse, convenienza e possibilità, di coltivare in Italia la bietola necessaria per produrre tre e mezzo o quattro milioni di quintali di zucchero e si è scoperto che, almeno fino alla data di un mese e mezzo fa, noi avevamo esattamente la metà del seme occorrente per questa coltivazione.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Non si è scoperto nulla; non siamo riusciti ad averlo dall’estero.

BOSI. Ma questo che cosa significa? Significa che occorre una maggiore cura e una maggiore sorveglianza sulle questioni che riguardano il rifornimento per la nostra agricoltura e i mezzi necessari per poter produrre.

Ma ora, mi domando un’altra cosa: tutta questa situazione, che ha anche molti altri aspetti, da che cosa deriva? C’è un eccessivo controllo da una parte e mancanza di controllo dall’altra. Ciò significa semplicemente questo, per me: che Nel-l’agricoltura, come purtroppo anche in altri rami della nostra economia, la bardatura fascista continua a pesare e continua a pesare, perché chi ha dominato e domina ancora nell’economia italiana sono quelli che dominavano prima. Noi dobbiamo togliere la bardatura fascista, se vogliamo riprendere effettivamente la nostra capacità economica; perché, onorevoli colleghi, si parla spesso di vincolismo e di non vincolismo; ma, di fatto, in che regime viviamo noi oggi? Noi viviamo in pieno regime vincolista e qualunque sforzo abbiamo fatto nel campo dell’industria, nel campo agricolo, per scuotere determinate bardature, non siamo riusciti a scuoterle definitivamente.

Il liberismo dove si è rifugiato? Nel campo e negli interessi di coloro che hanno le leve economiche nelle mani, che domandano libertà. Però, nell’agricoltura gli agricoltori non hanno la libertà di disporre dei loro prodotti, perché non c’è ancora un solo organismo nei vari rami della nostra agricoltura che sia diretto dagli agricoltori stessi. Noi continuiamo a conservare consorzi, organizzazioni, che invece di avere dei presidenti nominati dal Governo fascista hanno un Commissario nominato dal Governo democratico; però la sostanza è questa: che i direttamente interessati non possono metterci il naso.

E allora, cosa avviene? Che le stesse soprastrutture economico-corporative permangono, per cui in questi consorzi chi domina non è neanche il Governo, non è neanche il Commissario; sono quelli che hanno sempre dominato, gli industriali. I quali, quando si tratta di dar vita ad uno statuto democratico per il Consorzio canapa, per esempio, trovano modo di porre al Ministero dell’agricoltura e foreste infiniti ostacoli, perché siano finalmente soltanto agli agricoltori ad amministrare i loro consorzi. Non ci si deve cacciar dentro anche l’industriale, il quale, quando si tratta di fissare il prezzo della canapa, per esempio, vuole intervenire, ma quando si tratta di fissare i prezzi dei manufatti di canapa allora non vuole nessun controllo. Si hanno, quindi, risultati di questo genere che, con la canapa che costa cento lire il chilo, si produce lo spago che viene venduto a ottocento lire il chilo; e quando andate a comprare le tovaglie e i tovaglioli di canapa che pesano circa 100-150 grammi ciascuno li pagate duemila lire, mentre la materia prima costa appena 150. Ora non c’è una spesa tale di lavorazione da giustificare questi prezzi. Questo è un esempio concreto di ciò che vuol dire l’intervento degli industriali in determinati organismi. Bisogna smobilitare; bisogna che gli interessati abbiano la possibilità, di organizzarsi autonomamente, in modo da difendere e tutelare i loro interessi, e che non ci sia intervento di gente che a sua volta non è controllata.

E vi voglio parlare di quello che avviene nel consorzio bieticultori, dove c’è un Commissario che è una degnissima persona onesta, ma che non capisce niente di problemi della produzione e di quello che accade in questo campo. Infatti si verifica che viene fissato il prezzo delle bietole, ma quello dello zucchero non è legato a questo prezzo e l’anno scorso, secondo i calcoli finora fatti, gli zuccherieri hanno guadagnato 11 lire il chilo, regalate così, e poi altre cinque che sono state pure regalate, maggiorazioni che sono andate a scapito degli agricoltori e dei consumatori italiani.

Bisogna decidersi a smobilitare tutte le attrezzature fasciste e dire finalmente che i consorzi agrari ed i consorzi dei diversi generi di produzione debbono esser dati in mano a coloro che sono i più direttamente interessati. La politica attuale non è una politica che tende veramente a democratizzare la vita italiana, a stimolare i produttori, e non è neanche la politica, che noi abbiamo indicato, dei necessari interventi del Governo per regolare l’economia nell’interesse del Paese; si continua invece a fare semplicemente il giuoco e gli interessi dei gruppi capitalistici, di quei gruppi di grossi industriali, che sono bene uniti fra di loro, e fanno la loro politica libera senza nessun impaccio, gravando su tutto il popolo italiano.

C’è oggi una politica che è imposta da una, necessità, in Italia: la necessità di far fronte all’isolamento del nostro Paese nei confronti dei mercati esteri. Questa è la politica degli ammassi. Noi abbiamo bisogno di poter fornire alla popolazione lavoratrice, specialmente delle città, dei prodotti che non siano a prezzi proibitivi. La politica degli ammassi è necessaria; noi non siamo contro questa politica; non lo sono nemmeno i contadini; ma essi fanno il ragionamento che faceva poco tempo fa qui l’onorevole Paolo Bonomi: perché l’ammasso deve esserci solo per noi e non anche per gli industriali? E perché l’ammasso non è fatto particolarmente per i prodotti industriali di largo consumo, specie quando si tratta di prodotti utili all’agricoltura? Si assiste invece ad un curioso fenomeno: in Italia si producono concimi, vi sono determinate assegnazioni di cui godono però soltanto pochi coltivatori, mentre gli altri devono ricorrere alla borsa nera pagando un prezzo maggiore che spesso è sei volte quello ufficiale. Perché i vestiti, le macchine non devono essere controllati? Noi domandiamo che i produttori di questi generi ci dicano quali sono i loro prezzi economici e che li rispettino una volta che siano stati fissati, e non diano quei prodotti al commerciante, il cui mestiere è di vivere sul trapasso delle merci, e viverci lautamente; ma, diano ai produttori stessi dell’agricoltura la possibilità di avvalersi, offrendo alla popolazione italiana una parte dei loro prodotti vincolati nel prezzo, dei sacrifici che essi fanno.

Io penso che in questo campo non si è fatta mai una politica troppo chiara; si è oscillato fra l’enunciazione dell’ammasso totale e la larghezza con cui si sono lasciate correre le evasioni, per cui l’ammasso totale non c’è stato. È avvenuto così che gli agricoltori in buona fede hanno consegnato agli ammassi, mentre sono stati poi, molte volte, non solo defraudati della loro spettanza, ma anche beffeggiati dai più disonesti, che non sono mai stati colpiti. È stata fatta una politica simile tutte le volte che si è trattato di reperire i grassi, i cereali, ecc., in cui si è colpito sempre i piccoli, mentre i grossi sono sempre sfuggiti Anche l’ammasso dell’olio – esempio patente – è stato parziale; eppure bisogna assicurare i prodotti essenziali alla popolazione. Che cosa è avvenuto invece in molte regioni? Questo: che i piccoli hanno fatto il loro dovere e i grossi non hanno effettuato le consegne; adesso accade così che, per consegnare gli ammassi, si fanno pressioni sui piccoli, obbligandoli, o moralmente o in altro modo, a dare la parte da loro trattenuta per uso familiare.

C’è l’esempio dei grassi: voi ricorderete tutti, onorevoli colleghi, l’incidente occorso l’anno passato tra il Presidente del Consiglio e le Camere del lavoro emiliane. Esse inviarono un telegramma al Presidente del Consiglio, per sollecitare provvedimenti a proposito appunto degli ammassi. Esse chiedevano appunto la rapidità, perché altrimenti alcuni prodotti sarebbero sfuggiti: quelli di carattere industriale. Ora avviene che i piccoli produttori, per esempio, dei suini, consegnino tutti i loro pochi chili, mentre i grandi industriali non consegnano niente.

Questo è il risultato di una politica che dirò incerta; bisogna invece, in questo campo, provvedere fin da oggi alle necessità dell’anno prossimo, anzi di quest’anno stesso. Non si deve arrivare al momento del raccolto, senza aver già previsto le necessità del Paese e senza aver trovato il modo di far sì che tutti obbediscano alla legge. Non deve avvenire che una regione consegni tutto e le altre no. Una politica in questo campo deve essere energica e, soprattutto, chiara, senza che si differiscano le decisioni che si debbono prendere.

Ma tutto questo, onorevoli colleghi, è nel campo, direi, tecnico. Ed io credo che siamo tutti d’accordo nel ritenere che, nell’economia politica, tutta quanta l’attività sia un’attività di uomini; e, quando noi parliamo della nostra agricoltura, dobbiamo pensare a quello che sono le forze attive: senza l’incoraggiamento alle quali, tutti i provvedimenti tecnici non servirebbero a nulla. C’è una politica, in questo campo, chiara.

Il Presidente del Consiglio ci ha detto di alcuni provvedimenti che intende adottare per questioni che si dibattono da tempo nella nostra agricoltura. Ci auguriamo che tali provvedimenti vengano attuati. Ma era proprio necessario, ci domandiamo, che si fosse formata nelle nostre campagne la situazione che esiste oggi, che è di estrema tensione, per arrivare ad applicare quei provvedimenti di cui si è parlato molte volte, che sono stati promessi e che non sono stati mai realizzati? Io credo che questo sia un errore, soprattutto nel senso che lo sforzo delle classi lavoratrici nelle campagne non doveva essere misconosciuto. Questo sforzo era soprattutto diretto a salvaguardare gli interessi della produzione. Voi dovete ricordare che nelle campagne italiane, da due anni a questa parte, gli scioperi si contano sulla punta delle dita, non hanno mai coinvolto il raccolto o qualsiasi attrezzatura, non sono mai andati al di là di una sola Provincia. Eppure si tratta di milioni di lavoratori i quali – come è stato riconosciuto anche dall’altra parte dell’Assemblea – si trovano in condizioni miserabili. Si tratta di una classe intera di lavoratori, la quale ha dato alte prove di coscienza civile e patriottica, per cui avrebbe dovuto essere sostenuta di più nel suo sforzo di migliorare se stessa e contemporaneamente anche la produzione agricola. È stato fatto questo? No, perché oggi siamo in una situazione di estrema tensione nelle nostre campagne.

Si è parlato di una proroga, nel tempo, dei contratti di affitto, della quale si parla proprio nel momento in cui sta per succedere la tragedia. Non bisogna aspettare neppure un giorno, perché tra qualche giorno dovrebbe esservi l’immissione dei nuovi coloni nelle colonie e nei terreni dai quali sono stati sfrattati: e ciò può portare a conflitti. Si potrebbe dire che la situazione attuale ha le sue giustificazioni, che vi sono ragioni per cambiare i coloni, che queste ragioni possono essere tecniche: ad esempio, quella che è necessario adattare i poderi alle forze della famiglia colonica. Ma non credo che l’Assemblea penserà che i mezzadri ed i fittavoli siano così stupidi da voler restare su un podere quando non riescono a coltivarlo. E d’altra parte, se queste ed altre simili sono le ragioni delle controversie, era facilissimo istituire commissioni paritetiche per la soluzione delle controversie stesse, e per la circolazione dei coloni e degli affittuari. Ma in verità la ragione delle numerosissime disdette è un’altra, e va ricercata nello spirito di rappresaglia per le lotte sindacali; inoltre, le disdette sono un’arma che si tenta di usare, specialmente contro i fittavoli, per aumentare gli affitti: «o tu mi paghi di più per l’affitto, o ti caccio via». E siccome nelle nostre campagne l’esuberanza della mano d’opera è tale per cui vi è sempre il disgraziato che ha fame e che è disposto ad accettare condizioni capestro pur di avere la possibilità di vivere ed a fare anche la forca al compagno, all’amico, qualche volta al familiare, per sostituirlo nel terreno dal quale è stato sfrattato, il giuoco è facile.

Ma c’è di più. Io domando: ci si rende conto di una questione di molta importanza, cioè che in Italia oggi si sta rovinando, nell’agricoltura, quella che è la classe che ha maggiori meriti; la classe dei fittavoli, dei lavoratori, che sono, se vogliamo, gli industriali, gli artigiani dell’agricoltura?

Sento spesso parlare della necessità di aiutare i ceti medi, perché sono la forza del Paese. Ebbene, non ci si accorge che oggi nelle campagne italiane sta avvenendo il fenomeno che dal più grosso fittavolo industriale, il vero e proprio capitalista, l’imprenditore – una classe che in Italia ha dei meriti, perché nella Lombardia e nella Emilia ha dimostrato di avere la capacità di sapere impiegare i capitali in favore della terra – fino al più piccolo fittavolo di tutta l’Italia, vi è la minaccia della rovina? E ve lo dimostro. C’è in Italia un fenomeno a cui è necessario porre attenzione, ed è questo: se voi fate un confronto con le condizioni che vi erano in Italia dopo l’altra guerra e vedete la spinta che vi era da parte di questi fittavoli ad acquistare la terra e gli acquisti che sono stati fatti, e la situazione attuale nella quale non si compra la terra se non da parte degli speculatori e dei «borsaneristi», trovate la dimostrazione chiara e concreta che oggi chi possiede denaro per comperare la terra non sono i lavoratori della terra. Questa è una realtà che dovrebbe dirci qual cosa. Ed il fatto che piccoli e grossi fittavoli sono oggi uniti in Italia in una unica rivendicazione, quella di volere una diminuzione degli affitti, dimostra che questa categoria, che dovrebbe essere una categoria benemerita della nostra agricoltura, è in condizioni che se non si risolve il problema degli affitti, deve capitolare. Molti hanno già capitolato. Vi sono imprenditori che hanno già venduto le loro macchine ed il loro bestiame, e sono andati a fare qual cosa altro, forse anche gli speculatori.

Oggi si sta verificando che coloro che affittano le terre e che posseggono terreni non conoscono niente di agricoltura. Noi avremo in Italia un fenomeno che si sta già notando in molte zone, con l’acquisto dei terreni da parte degli incompetenti, il fenomeno della pecora che mangia l’uomo, perché è evidente che quando un proprietario fondiario arriva a fare per un ettaro di terreno a pascolo 40.000 lire di affitto, non ha nessuno interesse ad impiegare il capitale, né a tenere il fittavolo, ed occuparsi di agricoltura. La rendita è tale per cui può vivere comodamente.

Ora, gli affitti in Italia sono arrivati a cifre pazzesche, cifre che non sono soltanto in relazione alla svalutazione della moneta. Onorevoli colleghi, qui la questione è un’altra. Nella Lombardia, per esempio, dove si pagano gli affitti in natura, non si paga più 60-70 chilogrammi di grano per pertica milanese, ma se ne pagano 80-100 o 120, cioè quasi quasi l’affitto in natura è raddoppiato. E che cosa resta al fittavolo? Non altro, se non moneta svalutata.

Questa è una situazione molto grave, e quando io sento dire dal Ministro dell’agricoltura: «facciamo le condizioni per l’equo affitto», io dico che non basta, perché è come se voi faceste un tribunale senza leggi da applicare. Gli affitti non devono superare un determinato limite, perché i fittavoli possano vivere e lavorare (mentre oggi non riescono neanche a mantenere le scorte), e possano anche impiegare capitali e dare sviluppo all’agricoltura. Questo è necessario fare, altrimenti sono i soliti pannicelli caldi che non servono a niente.

Una delle forze dell’agricoltura sono i ceti medi della campagna, di cui tutti parlano, ma quando si tratta di difenderli effettivamente tutti esitano. Perché? Nei confronti di chi? Perché c’è il sacro diritto di proprietà che bisogna difendere. Ma, colleghi, si parla anche che bisogna aiutare la piccola proprietà a formarsi. Ma forse noi riusciamo a difendere la piccola proprietà e a formarla coi miliardi che il Ministro dell’agricoltura vuole mettere a disposizione per comperare la terra? Ma è una legge economica molto semplice questa: tanti miliardi e tanto aumento del prezzo della terra. Il proprietario che vuole vendere vorrà guadagnare lui questi miliardi. Che cosa sarebbe il risultato di tutto questo? Il contadino dovrebbe esattamente sborsare quello che sborserebbe se non ci fossero questi miliardi. Perché bisogna mettere la questione in questi termini: oggi sono pochi i proprietari che vogliono vendere; si lamentano che stanno male, si lamentano che sono rovinati, ma nessuno oggi vende la terra in Italia; e mi pare che questo sia sufficiente indicazione di quella che è la situazione nel campo della proprietà.

Del resto, basta pensare a quali sono i risultati dell’indagine fatta dal Catasto in questo campo, per vedere la ragione per cui non si vende la terra. È molto semplice! C’è in corso un’indagine da parte del Ministero delle finanze, dell’Ufficio del catasto, per vedere come applicare l’aumento dell’imposta fondiaria. Le rilevazioni fino ad oggi sono queste: il reddito fondiario è aumentato da un minimo di 24 volte a un massimo di 80. Un minimo di 24 volte nei terreni più poveri, dove c’è minor capacità e minor possibilità di produzione. Questo aumento viene conseguito malgrado che alcuni prodotti siano a prezzo vincolato e proprio in quei posti dove il reddito è arrivato solo al 24 per cento, ma dove non ci sono i prezzi vincolati, è arrivato all’80 per cento. Ebbene, questo 80 per cento sulle spalle di chi va? Lo si guadagna sulle spalle del coltivatore e del consumatore. Questa è la realtà! Per questo motivo non si vende. Perciò sono inutili i miliardi che il Ministero dell’agricoltura vorrebbe dare per formare la piccola proprietà.

C’è un solo mezzo per formare una piccola proprietà, ed è questo: diminuite gli affitti e diminuirà il costo della terra ed allora i nostri contadini potranno comprare la terra. Questo è il mezzo che bisogna adoperare, ed avremo un duplice risultato: di permettere la formazione della piccola proprietà, e di limitare il numero di coloro che hanno bisogno di vendere alla borsa nera anche per vivere. Perché quando tenete alto l’affitto, non c’è niente da fare: il contadino, se vuole vivere, deve portare almeno una parte dei prodotti alla borsa nera.

Ma c’è qualche cosa di peggio: quella piccola quantità di prodotto che porta alla borsa nera lo fa complice necessario di quei quintali, di quelle quantità molto più grosse che i grossi proprietari portano anche essi alla borsa nera. C’è tutta una complicità fra piccoli e grossi in questo campo, dovuta al fatto che i piccoli non possono fare a meno di portare alla borsa nera, se vogliono vivere, una parte del loro prodotto.

Questo è il sistema che dobbiamo adottare se si vuole effettivamente fare una politica che poi è una politica di facilitazioni per le nostre campagne: una politica, se volete, di sistemazione sociale, una politica di rafforzamento della democrazia, perché tutti quanti siete d’accordo che il contadino tranquillo, pacifico nel suo possesso, è un elemento formidabile di difesa della democrazia. Se volete che ci sia questo, pacificate le campagne, intervenite contro coloro che vi portano il turbamento con ondate di carte bollate e di persecuzioni che si stanno facendo.

Si parla spesso di leggi che non vengono osservate, di ordine pubblico turbato, di incidenti che accadono. Bisogna parlare anche di questo, perché mi pare che vi sia un equivoco alla base. Se non lo chiariamo, l’ordine delle campagne non potrà essere ristabilito. Si sente spesso, da una parte e dall’altra, accusare, per esempio, la Magistratura di non essere imparziale. Che cosa significa questo? Una cosa molto semplice. In Italia noi non abbiamo ancora una stabilità nel campo delle leggi. Se si vuole applicare le leggi, vediamo che la maggior parte di esse sono quelle lasciate dal fascismo. Di leggi nuove della democrazia ce n’è solamente qualcuna – parlo nel campo dell’agricoltura – ma questa qualcuna così povera, perché mentre quelle altre autorizzano i carabinieri a farle osservare, per fare eseguire le leggi emanate dal Governo repubblicano e democratico non ci va mai nessuno. Devono gli stessi contadini cercare di farle applicare. Ed ecco il decreto Gullo e la legge Segni. Sono i contadini che devono far applicare le leggi, inquantoché i proprietari vi si rifiutano. Ed allora che cosa si produce? Una carenza nella fiducia della autorità dello Stato, perché se noi andiamo ad osservare tutti i conflitti verificatisi negli ultimi tempi nelle campagne, ci accorgiamo che essi partono sempre da questo presupposto, che i contadini domandano che siano applicate le leggi fatte dal Governo repubblicano, e non trovano nessuno ad applicarle, mentre i proprietari vi si rifiutano, e troppo spesso la forza pubblica interviene per dire che non si devono applicare e che non sono delle leggi. Allora i contadini si agitano, fanno delle dimostrazioni; ma la forza pubblica interviene, mentre interviene la legge contro i contadini che vogliono l’applicazione delle leggi repubblicane e democratiche. È questa la causa di tutti i principali conflitti avvenuti nelle nostre campagne.

Occorre che questa situazione si risolva.

La democrazia in Italia è in fasce, se volete, non ha ancora cominciato, dalla Carta costituzionale a procedere per fare qualche cosa in questo campo.

Io domando: dobbiamo andare avanti ad applicare le leggi fasciste, le quali hanno un loro spirito e non soltanto la lettera? E lo spirito della legge fascista è anti-democratico ed è soprattutto lo spirito contro il lavoratore.

Quando si viene a parlare di applicazione delle leggi, dico: andiamo piano, perché se dobbiamo continuare ancora ad applicare le leggi fasciste, voi non manterrete l’ordine pubblico, ucciderete la democrazia e la Repubblica, perché quelle leggi sono state fatte contro la democrazia e la Repubblica.

Occorre allora che il Governo sappia intendere questa realtà e non parli formalmente di ordine pubblico, così come potevano parlarne coloro che ci hanno preceduti qua dentro.

Un’altra cosa ancora: io non sono favorevole ad eccessive leggi che vietino la libertà di parola, di stampa e di associazione a quelli che sono sospetti o sono relitti del passato regime.

La Repubblica non si difende in questo modo, si difende creando la democrazia, dando sviluppo alle forze che hanno voluto la Repubblica e contribuiscono al suo consolidamento, e fra queste forze ci sono innanzi tutto quelle dei lavoratori della terra.

Nelle zone in cui la maggioranza dei voti sono stati dati alla Monarchia, i voti per la Repubblica sono stati dati dai contadini, e a questi contadini oggi si vuol perfino vietare l’uso delle leggi fatte a loro favore. In riunioni avvenute in Sicilia fu detto che bisognava sospendere l’assegnazione delle terre ai contadini, perché, si disse, si trattava di disposizione di legge che non poteva riguardare la Sicilia. Si arriva a questo punto che l’applicazione delle leggi dello Stato è considerata da taluni un atto di demagogia, di cui un partito si può servire a danno degli altri, perché in Sicilia ci saranno le elezioni.

Ma l’applicazione delle leggi deve essere vanto di tutti i partiti, non di un solo partito, e se non vogliamo che l’ordine pubblico sia turbato, bisogna che le leggi siano applicate. I contadini domandano terra, la terra non è stata loro assegnata. C’è una questione che in Italia si trascina da parecchio tempo: la questione del lodo De Gasperi e della mezzadria, che non è di oggi. L’istituto della mezzadria si è cominciato a modificare già nel 1943, in periodo fascista. È un problema vecchio che risorge dopo il fascismo e che il fascismo aveva strozzato con la sua dittatura. È un moto di redenzione che mira ad ottenere l’effettiva eguaglianza della ripartizione.

Si parla spesso del contratto di mezzadria, in occasione del lodo De Gasperi, come di un problema il quale non deve essere neppure toccato, perché la divisione del 50 per conto dà alle parti quello che egualmente spetta loro. E non si vuole applicare nessun altro principio. Su questo terreno, anzi direi di più, sul terreno della semplice applicazione del lodo De Gasperi noi abbiamo sentito che gli agrari minacciano di accogliere col fucile coloro che andranno per applicare la legge.

Io credo che questo problema sia dovuto al fatto che è stato male impostato. Si vuol continuare con un criterio superato della nostra civiltà capitalistica.

In sostanza, che cosa si domanda da parte dei mezzadri? Che quella loro forma di conduzione sia equiparata ad una società. Ma io domando: che forma mai di società è quella che stabilisce a priori la divisione, che non tiene conto dell’apporto delle parti, che può essere rescissa solo da una parte in danno dell’altra? Una società di questo genere non sarebbe mai fatta da un industriale o da un commerciante: questa è una società fasulla, ed è una società che non fa mai i conti.

Siete di parere, onorevoli colleghi della Assemblea Costituente, che in Italia tutti i cittadini, quando si dispone delle loro fatiche e dei loro averi, abbiano il diritto ad un giusto compenso, ad un reddito di quella che è la loro fatica e l’impiego dei loro capitali? Ebbene, i mezzadri non domandano nulla di diverso. Domandano che il contratto di mezzadria sia stabilito sulla base del preciso apporto di ciascuna delle parti. Questo è quello che chiedono, e non chiedono niente di più.

Voi dite ancora e si dice spesso: «Vogliamo difendere i ceti medi».

Ebbene, i mezzadri sono anch’essi fra i ceti medi della campagna. Aiutiamoli, perché sono le forze della nostra agricoltura; ed avremo il risultato di permettere alle forze attive dell’agricoltura di sviluppare l’agricoltura stessa; la quale ha bisogno di lavoro e di passione e anche di capitali; che, purtroppo, i proprietari fondiari raramente mettono a disposizione della terra, salvo le dovute eccezioni.

Bisogna decidere su questo terreno. Ed allora l’applicazione del lodo De Gasperi, che è necessaria ed urgente, deve essere intesa in questo senso; inizio d’una trasformazione dei rapporti esistenti attualmente nelle nostre campagne, in modo che i ricordi del passato – che hanno avuto delle benemerenze indubitabili, come certi contratti agricoli – non abbiamo più nella nostra vita economica, politica e sociale una influenza ritardatrice e soffocatrice dello sviluppo delle nostre ricchezze nazionali.

Questo è il problema che va posto e noi lo poniamo in questo senso.

Il lodo De Gasperi deve essere applicato dappertutto. Questo è il principio dal quale si deve muovere; non dire da una parte sì, dall’altra no; perché potrebbe avvenire quello che accadde a me di sentire da un organizzatore della corrente democristiana:

«Insomma, cosa fa De Gasperi?

«Fa il lodo. E gli agrari ci guardano col muso storto; adesso non lo vogliono applicare; ed allora i mezzadri vanno dall’altra parte».

Io non faccio questo; e non ho intenzione di dire che ciò abbia importanza politica.

Per me la questione è un’altra. È che i mezzadri hanno una rivendicazione chiara e la chiedono al Governo ed all’Assemblea Costituente: è questa applicazione che ha importanza fondamentale per la nostra agricoltura.

Vi sono altre questioni, che riguardano molte regioni d’Italia, in modo particolare l’Italia meridionale. Si tratta di contratti che converrà modificare, specialmente quelli cosiddetti della mezzadria impropria.

C’è un problema che voglio porre all’Assemblea: abbiamo in Italia milioni di disoccupati nel campo dell’agricoltura, i braccianti che domandano lavoro e non riescono a trovarlo; ed allora sorgono conflitti e cresce la miseria e la disorganizzazione sociale.

C’è un principio adottato dal Ministero dell’agricoltura per due regioni, le Puglie e la Lucania, a proposito del progetto di irrigazione; c’è un principio nuovo, che deve essere applicato in tutta Italia, se vogliamo veramente risolvere i problemi della nostra agricoltura e della produzione nazionale. Il principio dice che le migliorie fondiarie della bonifica devono essere obbligatorie per il proprietario. Se questi non adempie ai piani di miglioramento, lo faccia lo Stato e si rivalga sul proprietario inadempiente.

Se c’è un imponibile di mano d’opera che va a turbare la pace di determinate aziende, non siamo noi a dire che questo non è vero. È vero. Ma come mangiano i braccianti?

Questo è un altro problema che bisogna risolvere. Ebbene, noi diciamo: non spendete a vanvera i milioni; obbligate a fare le trasformazioni fondiarie; assorbirete la mano d’opera in modo utile per tutta l’economia italiana.

Bisogna che questo sia realizzato, che non sia lasciato all’iniziativa delle organizzazioni dei lavoratori.

Bisogna che lo Stato intervenga a riconoscere giusto questo principio e lo faccia applicare; e vedrete che nelle nostre campagne ci sarà veramente la pace e la collaborazione. E noi non siamo contrari che vi sia, perché, guardate, che la collaborazione è andata molto avanti in questo campo, e i grandi fittavoli del Piemonte e della Lombardia oggi in qualche caso domandano la tessera della Federterra. E non è un caso, perché la collaborazione, in vista della produzione, è un obiettivo fondamentale di tutte le categorie dei lavoratori della terra.

Noi vogliamo ricostruire il nostro Paese; vogliamo dar sviluppo alla nostra agricoltura; vogliamo che le nostre campagne producano per il popolo; vogliamo che ci siano le materie prime per le nostre industrie, che potranno assorbire così nuove forze lavoratrici; che sorgano nuove industrie di trasformazione dei prodotti agricoli nell’Italia meridionale e settentrionale, che assorbano mano d’opera. Così noi avremo risolto uno dei problemi fondamentali della nostra economia e della nostra vita politica, perché il giorno in cui nell’Italia centrale e meridionale, e anche in quella del nord, i problemi saranno stati risolti con questo spirito di giustizia per i lavoratori, e di utile aiuto alle forze che daranno ricchezza al nostro Paese, ci sarà la pace sociale, ci sarà la pace politica, ci sarà lo sviluppo che noi vogliamo per il nostro Paese. E allora potremo anche vedere che quella aspirazione che è nell’animo dei lavoratori di migliorare se stessi dal punto di vista economico, è l’aspirazione fondamentale a migliorarsi anche da un punto di vista umano: essi vogliono essere degli uomini capaci di essere utili a se stessi ed alla nostra società italiana.

Aiutate questa aspirazione dei contadini, che è così chiaramente espressa nell’interesse di tutto il Paese e avrete fatto opera di rafforzamento della democrazia e della Repubblica. (Applausi a sinistra).

Chiusura della votazione segreta.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione segreta e invito gli onorevoli Segretari a procedere al computo dei voti.

(Gli onorevoli Segretari procedono al computo dei voti).

Interpellanze con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che gli onorevoli Gallo, Finocchiaro Aprile e Castrogiovanni hanno presentato, chiedendone lo svolgimento d’urgenza, la seguente interpellanza:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti intenda prendere per impedire che si continui dagli organi di polizia ad usare in Sicilia, come si è fatto anche con i giovani indipendentisti, mezzi di tortura condannati dalla legge e dalla civiltà».

Chiedo all’onorevole Ministro dell’interno quando intende rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo il rinvio della discussione dell’interpellanza a dopo il voto di fiducia sulle dichiarazioni del Governo, perché l’interpellanza non ha carattere d’urgenza essendosi i fatti cui essa si riferisce verificati non in questo periodo, ma in periodi molto lontani.

PRESIDENTE. Comunico che gli onorevoli Mannironi, Mastino Gesumino, Murgia, Chieffi e Falchi hanno presentato la seguente interpellanza, chiedendone la discussione d’urgenza:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’agricoltura e foreste, per sapere i motivi per i quali non sia stato ancora emanato il provvedimento legislativo già da tempo preannunciato, contenente provvedimenti destinati ad attuare in Sardegna un organico piano di bonifica, irrigazione e trasformazione fondiaria che risolva nel suo complesso il secolare problema sardo».

PRESIDENTE. Chiedo al Governo se accetta l’urgenza.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Risponderò nella prima seduta in cui si discuteranno le interpellanze.

Risultato della votazione segreta sul disegno di legge costituzionale d’iniziativa della Presidenza: Proroga del termine di otto mesi previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, per la durata dell’Assemblea Costituente.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione segreta sul disegno di legge: Proroga del termine di otto mesi previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, per la durata dell’Assemblea Costituente:

Presenti e votanti  353

Maggioranza        177

Voti favorevoli     333

Voti contrari           20

(L’Assemblea approva).

Hanno preso parte alla votazione:

Abozzi – Alberti – Aldisio – Allegato – Ambrosini – Amendola – Andreotti – Angelucci – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Avanzini – Azzi.

Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Basile – Bassano – Basso – Bazoli – Bei Adele – Bellato – Belotti – Bencivenga – Benedettini – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bertola – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bianca – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Binni – Bitossi – Bocconi – Boldrini – Bonino – Bonomelli – Bonomi Ivanoe – Bosi – Bozzi – Brusasca – Bubbio – Bucci – Bulloni Pietro – Burato.

Caccuri – Caiati – Cairo – Calamandrei – Camangi – Camposarcuno – Canepa – Canevari – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Caprani – Capua – Carbonari – Carboni – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Caronia – Carpano Maglioli – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Castiglia – Cavallari – Cavallotti – Cevolotto – Chatrian – Chieffi – Cianca – Ciccoluno – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codignola – Colitto – Colombi Arturo – Colonnetti – Conci Elisabetta – Conti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbino – Corsanego – Corsi – Covelli – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo.

D’Amico Diego – D’Amico Michele – D’Aragona – De Caro Gerardo – De Falco – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Vittorio – Dugoni.

Ermini.

Fabbri – Facchinetti – Falchi – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Faralli – Farini Carlo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrario Celestino – Ferreri – Finocchiaro Aprile – Fiorentino – Fioritto – Flecchia – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschini – Fresa – Froggio – Fusco.

Gabrieli – Garlato – Gasparotto – Gavina – Germano – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghislandi – Giacchero – Giacometti – Giolitti – Giordani – Giua – Gorreri – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grieco – Grilli – Gronchi – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Guidi Cingolani Angela.

Iotti Leonilde.

Jacini – Jacometti – Jervolino.

Laconi – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Rocca – Leone Francesco – Lettieri – Li Causi – Lizier – Lombardi Carlo – Lombardo Ivan Matteo – Longhena – Lozza – Lucifero – Lupis – Lussu.

Macrelli – Maffioli – Magnani – Malagugini – Mancini – Mannironi – Manzini – Marazza – Marinaro – Martinelli – Martino Enrico – Martino Gaetano – Marzarotto – Massini – Mastino Gesumino – Mastino Pietro – Mattei Teresa – Matteotti Carlo – Matteotti Matteo – Mazza – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merighi – Merlin Angelina – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angiola – Minio – Modigliani – Molè – Molinelli – Momigliano – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Morandi – Morelli Renato – Morini – Moro – Mortati – Moscatelli – Mùrdaca – Murgia – Musolino – Musotto.

Natoli Lamantea – Negro – Nenni – Nitti – Nobile Umberto – Nobili Oro – Novella – Numeroso.

Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.

Pacciardi – Pajetta Gian Carlo – Pajetta Giuliano – Pallastrelli – Parri – Pastore Raffaele – Pat – Patricolo – Pecorari – Pera – Persico – Pertini Sandro – Perugi – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pieri Gino – Pignedoli – Pistoia – Platone – Proia – Pucci – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Raimondi – Rapelli – Ravagnan – Reale Eugenio – Reale Vito – Recca – Rescigno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rognoni – Romita – Roselli – Rossi Giuseppe – Rossi Paolo – Rubilli – Ruggeri Luigi – Ruggiero Carlo – Ruini – Rumor – Russo Perez.

Saccenti – Saggin – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sansone – Scalfaro – Scarpa – Scelba – Schiavetti – Schiratti – Scoca – Secchia – Segni – Selvaggi – Sicignano – Silipo – Simonini – Spallicci – Spano – Stampacchia – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Targetti – Tega – Tessitori – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tomba – Tonello – Tonetti – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Tremelloni – Treves – Trimarchi – Tripepi – Trulli – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valmarana – Vanoni – Veroni – Vicentini – Vigo – Vigorelli – Villani – Vischioni – Volpe.

Zaccagnini – Zanardi – Zotta – Zuccarini.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, dà lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se ritiene giusto che gli incarichi di insegnamento di materie giuridiche nelle scuole secondarie di Catania, siano assegnati a due non combattenti, senza tener conto dell’applicazione della legge che assegna il 50 per cento dei posti disponibili ai combattenti, e se crede opportuno di suggerire al Provveditore di Catania di assegnare metà delle ore d’insegnamento a chi dei combattenti ne ha fatto richiesta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«D’Agata».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’interno e delle finanze e tesoro, per sapere se non ritengano opportuno di sospendere l’applicazione del decreto legislativo 31 ottobre 1946 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 10 dicembre 1946), in base al quale venne disposto che, ai fini dell’imposta ordinaria sul patrimonio, il valore imponibile degli stabili venga automaticamente quintuplicato dal 1° gennaio 1947, o, in caso di reclamo, che la rettifica debba farsi sulla base del valore venale esistente alla data del 1° gennaio 1946, tale criterio essendo del tutto contrario al principio fin qui applicato, secondo il quale l’imponibile, per ogni triennio, doveva fissarsi (come è risaputo) sulla media del valore venale raggiunto nel triennio precedente.

«Tale criterio è tanto più ingiusto ove si consideri che, mentre, da un lato, la valutazione degli stabili si farebbe tenendo conto di un valore assolutamente precario e fittizio, dovuto all’inflazione, dall’altro esso esporrebbe i proprietari ad un tributo di gran lunga sproporzionato al reddito degli stabili stessi, aggravando, in tal modo, ulteriormente le condizioni già così precarie e difficili di quei piccoli proprietari che traggono i loro mezzi di sussistenza unicamente da tale reddito. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bordon».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro degli affari esteri, per sapere se non ritenga equo ed opportuno proporre un disegno di legge che, integrando le norme degli articoli 74 e 79 del Trattato di pace, relative al risarcimento per i beni privati italiani, stabilisca l’obbligo statuale del risarcimento anche per quei beni esistenti nei territori ceduti di proprietà di cittadini italiani, che ai sensi del comma 9 dell’alligato XIV rimarrebbero di loro esclusiva proprietà, soggetti soltanto alle misure che nello Stato cessionario saranno adottate nei riguardi di beni stranieri di qualsiasi nazionalità.

«In realtà, è estremamente improbabile che i cittadini italiani residenti in Italia riescano ad ottenere la disponibilità dei loro beni situati nei territori ceduti alla Jugoslavia. L’Alligato XIV fa prevedere la espropriazione di detti beni, poiché non è possibile ritenere che lo Stato jugoslavo, totalitario e marxista, possa consentire nel suo territorio, specie a stranieri, il libero esercizio dei diritti di proprietà, specialmente quando abbiano per oggetto una impresa industriale. Non esiste, per altro, alcuna garanzia di sicurezza personale per i cittadini italiani che riescano ad ottenere il permesso di risiedere nei territori ceduti per curare i loro interessi. Ciò posto, se il Governo italiano, accertato quale trattamento è previsto dalle leggi jugoslave per la proprietà di imprese industriali straniere, non ottenga riposanti garanzie per la libertà e la sicurezza personale dei cittadini italiani, che avranno necessità di trasferirsi temporaneamente nei territori ceduti, appare equo ed opportuno che vengano indennizzati i cittadini italiani praticamente privati dei beni situati nei territori predetti, e nella stessa misura prevista per gli altri cittadini i cui beni siano soggetti a confisca ovvero ad espropriazione a norma degli articoli 74 e 79 del Trattato di pace. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bellavista».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze e tesoro e della difesa, per conoscere quali provvedimenti intendano adottare perché le innumerevoli domande di pensione di guerra, diretta e indiretta, abbiano ad avere sollecita decisione, risultando giacenti e inevase centinaia di migliaia di pratiche che attendono da anni una definizione. Trattasi di vedove, di orfani, di genitori, che reclamano e giustamente dallo Stato la liquidazione di quanto loro dovuto e più volte invano reclamato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ferrarese».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere – premesso che i terreni dei comuni di Poggiomarino, Terzigno e Striano e di alcune zone dei Comuni limitrofi, furono nel 1943 invasi dai tedeschi, che ne distrussero buona parte dei prodotti, e nel 1944 coperti dal lapillo eruttato dal Vesuvio, che tutto coprì, onde fu financo data la esenzione fondiaria e furono disposte altre provvidenze governative – se il Governo intenda dare immediatamente disposizioni di sospensione di accertamento e di pagamento dei sopraprofitti di guerra. E ciò ad eliminare un aggravio ingiusto e la contraddizione evidente, in cui cadrebbe il Governo, che da una parte dispose l’esenzione dalla fondiaria, ed ora riscuoterebbe sopraprofitti per quella terra che fu incolta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Riccio».

«I sottoscritti chiedono d’interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri dell’agricoltura e foreste e delle finanze e tesoro, intorno alla convenienza economica, politica e sociale di utilizzare nel modo più profittevole le somme che vengono e verranno destinate ad opere pubbliche per alleviare la disoccupazione; e alla conseguente necessità di non assegnare tali somme in misura preminente o esclusiva al Ministero dei lavori pubblici, ma bensì di ripartirle così da favorire non meno le opere dipendenti dal Ministero dell’agricoltura e delle foreste, con particolare riguardo:

  1. a) al ripristino dei fabbricati rurali e degli impianti rovinati dalla guerra;
  2. b) alle bonifiche e irrigazioni, e in genere alle opere di miglioramento fondiario, con le necessarie elevazioni dei contributi statali massime nelle zone di montagna;
  3. c) alla sistemazione di bacini montani, che la legge assegna allo Stato come opere d’importanza nazionale.

«Gortani, Ferrarese, Pat, Quintieri Adolfo, Cingolani, Fantoni, Moro, Burato, Rescigno, Uberti, Del Curto, Sullo, Guerrieri, Roselli, Tessitori, Carbonari, Balduzzi, Ferrario, Avanzini, Arcaini, Raimondi, Vicentini, Marazza, Sampietro, Valmarana, Fanfani, Cremaschi Carlo, Trimarchi, Bianchini Laura, Bertola, Guidi Angela, Bellato, Bettiol, Mannironi, Rivera, Conci Elisabetta, Pallastrelli, Colonnetti, Rumor, Rapelli, Alberti, Cimenti, Schiratti, Lizier, Micheli, Marzarotto».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno, qualora il Ministro competente non vi si opponga nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 19.30.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

  1. – Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
  2. – Esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

MERCOLEDÌ 19 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XLI.

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 19 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Finocchiaro Aprile                                                                                         

Presidente                                                                                                        

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Annuncio di un disegno di legge costituzionale:

Presidente                                                                                                        

De Vita                                                                                                             

Interrogazione (Svolgimento):

Aldisio, Ministro della marina mercantile                                                           

Mazza                                                                                                               

Nomina di una Commissione:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Bulloni                                                                                                            

Pacciardi                                                                                                         

Colitto                                                                                                             

Togliatti                                                                                                          

Bordon                                                                                                             

Nomina di una Commissione speciale:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.

FINOCCHIARO APRILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FINOCCHIARO APRILE. Ho bisogno di chiedere un chiarimento al Presidente dell’Assemblea Costituente. Ieri noi abbiamo deliberato la nomina di una Commissione di inchiesta sui fatti da me denunciati nei giorni scorsi, deferendo all’onorevole Presidente la nomina della Commissione. Però, circa le attribuzioni di questa Commissione, non ho ben capito se esse siano soltanto quelle di verificare le cariche e gli uffici che hanno gli onorevoli deputati in istituti di carattere statale o parastatale o se non anche la Commissione debba soffermarsi sui fatti denunziati, riguardanti il Ministro Campilli. Ciò dico, perché mi pare, onorevoli colleghi, che il chiarimento offerto dal Ministro Campilli non sia punto sufficiente, in quanto che egli, per scagionarsi dei gravi addebiti, ha fatto circolare una lettera del Direttore generale del Tesoro, Ventura, il quale dichiara di essere stato lui ad inviare i due incriminati telegrammi.

L’inverosimiglianza della cosa è evidente ed io ho la precisa sensazione, e questa stessa sensazione hanno tutti al Ministero del tesoro ed ha il paese, che questa lettera sia compiacente ed insincera. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, nella seduta di ieri, e ne fa testo il verbale, non si è pronunciata parola sopra i problemi riguardanti l’onorevole Ministro Campilli. La prego attenersi al processo verbale della seduta di ieri.

FINOCCHIARO APRILE. Ma io pensavo e penso che su questo grave argomento sia necessario soffermarci e che la Commissione non possa non occuparsene.

PRESIDENTE. Lei ponga il quesito, ed io le darò risposta.

FINOCCHIARO APRILE. Concludo rapidamente. Perché questa lettera…

PRESIDENTE. La prego di concludere. Si attenga al verbale della seduta di ieri.

FINOCCHIARO APRILE. Allora chiedo che la Commissione sia chiamata altresì a indagare sui fatti da me denunziati, riguardanti il Ministro Campilli. Ora, poiché è stata diffusa una lettera del Direttore generale del Tesoro, il quale dichiara di essere autore dei provvedimenti deplorati, io dichiaro che questa lettera non risponde a verità per le seguenti ragioni. Io dissi che il Ministro del tesoro Bertone…

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, resti nel tema. Se lei ha qualche cosa da specificare a questo proposito, chiederà di essere sentito dalla Commissione, la quale, d’altra parte, la inviterà a fornire gli elementi a sua conoscenza. In questo momento non è più in discussione il problema della Commissione. D’altra parte, poiché pare che ella non fosse presente ieri, quando si è votata la risoluzione, gliene do lettura, in modo che lei abbia conoscenza precisa del mandato che è stato affidato alla Commissione:

«La Commissione riferirà altresì alla Presidenza le proposte circa eventuali casi di incompatibilità morale e politica e circa l’opportunità di stabilire nel regolamento della futura Camera, o nella legge elettorale, norme riguardanti il problema generale delle incompatibilità».

Questo è il mandato che la Camera, all’unanimità, ha dato alla Commissione. Se ella ritiene di dover aggiungere nuovi compiti, la prego di farne argomento di una proposta formale.

FINOCCHIARO APRILE. Sta bene. Voglio semplicemente concludere: la giustificazione dell’onorevole Campilli, non giustifica nulla. Egli è pienamente responsabile. (Commenti).

PRESIDENTE. Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che, in seguito alla nomina di alcuni onorevoli colleghi a cariche di Governo, si sono determinati vari mutamenti della composizione delle Commissioni dell’Assemblea.

Ho, infatti, chiamato a far parte della Giunta del Regolamento, l’onorevole Cingolani, in sostituzione dell’onorevole Merlin Umberto; della Giunta delle elezioni, l’onorevole Caldera, in sostituzione dell’onorevole Carpano Maglioli; della prima Commissione permanente per l’esame dei disegni di legge, gli onorevoli Scoccimarro e Sullo, in sostituzione degli onorevoli Moscatelli e Galati; della seconda Commissione permanente, l’onorevole Scoca in sostituzione dell’onorevole Vanoni; della terza Commissione permanente, gli onorevoli Bovetti e Storchi, in sostituzione degli onorevoli Braschi e Cavalli.

Ho, poi, chiamato a far parte della Commissione per i Trattati internazionali, l’onorevole Saragat, in sostituzione dell’onorevole Silone dimissionario.

Annuncio di un disegno di legge costituzionale.

PRESIDENTE. Comunico che l’Ufficio di Presidenza dell’Assemblea ha preso l’iniziativa di un disegno di legge costituzionale per la proroga del termine di otto mesi previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, per la durata dell’Assemblea Costituente. II relativo stampato è in distribuzione da oggi.

È urgente che l’Assemblea lo esamini.

Invito pertanto l’Assemblea a procedere alla nomina di una Commissione speciale, che dovrebbe riferire oralmente nella seduta di domani.

Ha chiesto di parlare l’onorevole De Vita. Ne ha facoltà.

DE VITA. Propongo che la nomina della Commissione sia demandata all’onorevole Presidente dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni in contrario, resta così stabilito.

(Così resta stabilito).

Mi riservo di comunicare alla fine della seduta l’elenco dei componenti di questa Commissione.

Svolgimento di una interrogazione.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: svolgimento dell’interrogazione dell’onorevole Mazza, al Ministro della marina mercantile, «per conoscere l’esattezza della notizia pubblicata dai giornali dell’assegnazione di 46 navi Liberty all’armamento genovese contro 4 assegnate all’Italia meridionale».

L’onorevole Ministro della marina mercantile ha facoltà di rispondere.

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. La notizia apparsa su qualche giornale circa l’assegnazione di 46 Liberty all’armamento genovese contro 4 assegnate all’Italia meridionale non è esatta, poiché, per il secondo lotto di navi Liberty che devono essere ancora cedute dagli Stati Uniti all’Italia, nessun piano di riparto è stato ancora approvato dal Ministero della marina mercantile. Detto piano, in base agli accordi con il Ministero del tesoro e con la Confederazione italiana degli armatori, deve essere predisposto da quest’ultima e poi approvato dal Ministero della marina mercantile.

Il Ministero, fino a questo momento, ha solo comunicato alla Confederazione italiana degli armatori i criteri di massima che devono essere seguiti nella predisposizione del piano predetto. E questi criteri sono:

1°) perdite subite a causa della guerra;

2°) tempo delle perdite stesse, così che coloro che hanno subìto delle perdite in data più remota, abbiano la precedenza su quelli che hanno perduto le loro navi in epoca più recente;

3°) precedente assegnazione di Liberty del 1° lotto;

4°) criterio regionale con speciale riferimento a raggruppamenti di piccoli armatori.

Il piano concreto di ripartizione sarà quello che risulterà dall’applicazione di questi criteri assolutamente obiettivi e eguali per tutti gli armatori delle varie Regioni d’Italia. Il criterio è stato adottato per assicurare che in ogni caso un’aliquota di navi, sia pure modesta, vada agli armatori minori, con equa ripartizione fra le varie Regioni.

PRESIDENTE. L’onorevole Mazza ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MAZZA. Ringrazio l’onorevole Ministro della marina mercantile per le assicurazioni che mi ha dato. Ne sono lieto. Sono però lieto della notizia inesatta pubblicata dai giornali, e precisamente da tutti i giornali di Napoli, da quelli democratici-cristiani a quello comunista La Voce; sono lieto di questa inesattezza, perché ho così l’occasione, dopo aver rinnovato all’onorevole Ministro della marina mercantile infiniti ringraziamenti per le notizie fornite, e che mi lasciano assai sperare per l’avvenire, di far notare qualcosa in omaggio appunto al problema dell’Italia meridionale, che spessissimo in quest’Aula viene posto e che ieri l’onorevole Nenni ancora una volta denunciava come il più grosso scandalo italiano. Quindi, io mi permetto di pregare l’onorevole Ministro della marina mercantile di tener conto anche del problema politico nell’assegnazione di queste navi Liberty, e poi, a parte il problema politico, io prego di ricordare un’altra cosa, cioè, che queste navi sono state acquistate in America con dollari ricevuti in cambio, per lo meno il 25 per cento, di am-lire emesse dagli Alleati in Italia meridionale, am-lire che hanno contribuito a depauperare l’economia di questa Regione.

E poi mi permetto fare notare un’altra cosa. Il Ministro sa molto bene che il numero di disoccupati fra i lavoratori del mare nell’Italia meridionale è molto maggiore di quello dell’Italia settentrionale.

E c’è ancona da tenere in certo conto il fatto che, mentre gli armatori dell’Italia meridionale, con la rapida occupazione da parte degli Alleati, si sono trovati nell’impossibilità di continuare la navigazione, di continuare a tesaurizzare dei capitali, quelli dell’Italia settentrionale hanno potuto continuare a far navigare i loro mezzi ed hanno potuto continuare ad incassare dallo Stato italiano, in quell’epoca, le indennità per il naviglio perduto.

Tutto questo ha messo gli armatori della Italia settentrionale in una situazione di privilegio.

Termino ricordando la mia preghiera iniziale, relativa al problema politico dell’Italia meridionale.

Se vogliamo risolvere questo problema, una volta tanto, dobbiamo andare al di là del computo aritmetico delle percentuali e fare qualche cosa per l’Italia meridionale; altrimenti, non sarà mai risolto questo problema (che in quest’Aula ieri è stato definito uno scandalo), malgrado tutta la oratoria, che su di esso in quest’Aula inutilmente sarà sempre versata.

PRESIDENTE. Ha chiesto di replicare l’onorevole Ministro della marina mercantile. Ne ha facoltà.

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Devo dichiarare all’onorevole Mazza che il criterio di distribuzione regionale per una parte di ciascun lotto di Liberty è stato introdotto da me personalmente; altrimenti, qualche nave, che è arrivata col primo lotto, ai piccoli armatori non sarebbe stata assegnata; per il secondo lotto insisto su questo criterio, che spero possa appagare le attese e le aspirazioni dei piccoli armatori meridionali.

Insisterò, perché questo criterio sia rigorosamente osservato.

Per quanto riguarda la disoccupazione, effettivamente la situazione dei marittimi è dolorosa. C’è una disciplina rigorosissima: il turno di imbarco, eguale per tutto il Paese.

Il Ministero sta preparando un provvedimento per rendere sempre più equo e sicuro il turno di imbarco; e spero di potere annunziare presto le nuove disposizioni, adottate d’accordo coi rappresentanti dei lavoratori.

FINOCCHIARO APRILE. Finora non avete assegnato alla Sicilia nemmeno una Liberty. Le avete assegnate a Genova.

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Lei, al solito, dice delle cose non esatte.

GALLO. Le cose esatte le ha sempre dette lei!

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Devo dichiarare, a questo proposito che, per l’assegnazione del primo lotto di 50 Liberty, sono stati invitati tutti gli armatori italiani a chiedere Liberty. Disgraziatamente e dolorosamente, malgrado le mie sollecitazioni fatte agli armatori di Sicilia, non si è avuta che qualche domanda. Vi è stata una richiesta da parte di un aggruppamento di piccoli armatori di Messina e ad esso sono state assegnate due Liberty. (Approvazioni al centro – Commenti).

Nomina di una Commissione.

PRESIDENTE. Comunico all’Assemblea che, in relazione al mandato affidatomi, ho chiamato a far parte della Commissione di cui alle proposte dell’onorevole Natoli, approvate nella seduta di ieri, i seguenti Deputati: Bencivenga, Bertini, Bozzi, Calamandrei, D’Aragona, Fabbri, Grieco, Natoli, Pertini, Rubilli, Scotti Alessandro.

Invito gli onorevoli colleghi chiamati a far parte della Commissione, a riunirsi venerdì mattina alle ore 9.30 per costituire l’Ufficio di presidenza della Commissione stessa.

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio. È iscritto a parlare l’onorevole Bulloni. Ne ha facoltà.

BULLONI. Onorevoli colleghi, sulle dichiarazioni del Governo mi limiterò a brevi rilievi circa la politica interna.

L’onorevole Presidente del Consiglio ha dichiarato che nel settore economico è indispensabile un aumento della produzione, che deve avvenire in clima di efficienza tecnica e di perequazione sociale.

Voci autorevoli si sono levate in questa Assemblea per indicare, dal punto di vista prettamente tecnico e scientifico, le vie e i criteri per attuare lo scopo propostosi dal Governo di assicurare la stabilità economica.

A me, più modesto, si lasci affermare che vi è una inderogabile esigenza che condiziona tutta l’attività della Nazione, anche nel campo economico e della produzione, la cui sodisfazione crea l’ambiente favorevole al conseguimento dell’utile risultato.

Questa esigenza è costituita dalla stabilità morale e interna della Nazione, al consolidamento della quale il Governo deve dedicare le sue energiche cure, se si vuol essere proprio certi di interpretare fedelmente i bisogni e le aspirazioni del Paese in questo difficile momento della sua vita.

Stabilità morale, stabilità politica, innanzi tutto, sotto la guida di leggi sincere, chiare, strettamente necessarie e tali da intralciare il meno possibile l’iniziativa privata che il Governo si è proposto di sostenere ed incoraggiare.

Il Governo ha, dunque, elaborato un piano di emergenza, cui i Ministri sono vincolati a più evidente solidarietà. Devo però rilevare, che in detto programma non ho riscontrato traccia alcuna della indilazionabile necessità, che il Paese profondamente sente ed avverte, di perfezionare gli organi e gli istituti investiti del compito di assicurare il rispetto delle leggi e di garantire l’ordine. Né ho rilevato accenno alcuno in merito all’indirizzo che il Governo intende perseguire nel campo della politica strettamente interna.

Non voglio con questo fare irriverenza, né al Presidente del Consiglio, né ai signori Ministri, nel pensare e nel dire che tale necessità non sia presente ai loro propositi, tanto più che questi sono già stati energicamente affermati in altre occasioni, e in funzione dei quali è lecito ritenere che al nostro Paese siano derivate stima e considerazione, come può essere stato dimostrato dal viaggio del Presidente del Consiglio negli Stati Uniti. Sembra, però, che anche in questa occasione non doveva mancare la parola che rincuora e tranquillizza. Difatti, quale più emergente necessità di quella di liberare le strade e le case, gli uffici e i magazzini e, soprattutto, le persone dall’incubo della paura, dello scoramento, dell’incertezza? Quale più emergente necessità di quella di snidare implacabilmente i centri della corruzione e del vizio che propagano la contaminazione e macchiano il nostro buon nome? Quale più emergente necessità di quella di individuare e di reprimere anche i centri di corruzione politica, le manifestazioni e i propositi di aggressione ai nostri ordinamenti? Quale più emergente necessità di assicurare che tutti indistintamente gli italiani si chinino riverenti di fronte all’imperio della legge? Poiché, colleghi, non ci si nasconda una dolorosa realtà: nel Paese c’è chi si organizza e c’è chi si arma, fuori della legge e, quindi, contro la legge, per la lotta politica, che precipiterebbe nuovamente il Paese nell’abisso, dal quale faticosamente stiamo risalendo. E, quel che più preoccupa me, modesto, è il dover constatare che taluno si organizza e si arma, pretendendo di difendere e di assicurare il cosiddetto ordine sociale e politico. È dovere del Governo di rimuovere la fiducia nei pubblici poteri, anche se pretestuosamente lamentata, sapendo imporre in ogni istante il rispetto e il dominio dell’autorità e della legalità. Al quale fine, dovranno essere perfezionati e potenziati spiritualmente gli organi della polizia, per via di sicura selezione, innanzi tutto, dei quadri dirigenti, e di seria ed adeguata istruzione professionale, attraverso il completamento dell’equipaggiamento, dell’armamento e dell’accasermamento, che ne accrescono il decoro e ne assicurano il rendimento. A questo settore debbono essere rivolte le attenzioni del Governo, in vista della ricostruzione, come utile impiego per la ricostruzione, se esso vuole realmente far corrispondere le parole ai fatti; poiché programmi, iniziative, piani, attività, rimarranno senza risultato, o quanto meno saranno mortificati nei loro effetti, se prima non si creano le fondamenta morali, sulle quali costruire il nuovo edificio.

Né alcuno avrà a temere dall’efficiente organizzazione delle forze di polizia e dallo stretto coordinamento delle medesime, poiché queste dovranno rimanere ad esclusiva difesa e presidio della legge della repubblica, che vuole e deve essere la legge di tutti gli italiani che si stringono in mutuo patto di lavoro e di concordia per la resurrezione della Patria, sotto l’impulso della perequazione sociale, sotto l’impulso della giustizia sociale, la quale assicuri al lavoro, alla fatica e alla sofferenza, il prevalente riconoscimento nella ripartizione del reddito nazionale.

Onorevoli colleghi, il Paese – che presunzione farsi interprete del Paese! – reclama l’ossequio più scrupoloso del principio di legalità, quale elemento di moralizzazione del nostro costume, già tanto nobilmente invocata da precedenti oratori.

A questo punto, è mestieri che io accenni ad una dolorosa, ad una dannosa situazione, che non può più oltre durare, e in relazione alla quale il Governo, senza indugio, deve prendere netta e precisa posizione, particolarmente perché si verte in materia strettamente connessa con l’ordinamento pubblico. Accenno al giuoco d’azzardo, che va assumendo proporzioni ed aspetti preoccupanti quale facile veicolo di corruzione, di delinquenza, di obnubilamento delle coscienze, di perturbamento dei caratteri, specie tra la gioventù.

Il Governo deve conoscere che oggi in Italia si giuoca d’azzardo a San Remo, a Campione, a Venezia, in manifesta violazione delle norme contenute negli articoli 718 e seguenti del Codice penale, 92, 108 e 110 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, 209 e 210 del relativo regolamento.

Lo spreto della legge è causa di gravissimi mali, poiché «poter mal fare è al male fare invito».

L’unanime adesione dell’Assemblea all’intervento di ieri l’altro dell’onorevole Cevolotto e le assicurazioni del Ministro e i parziali adempimenti di dette assicurazioni, se mi liberano dalla necessità di indugiarmi in argomento da un punto di vista strettamente morale, non mi esimono dall’obbligo di dare ragione dell’affermata illegalità del giuoco d’azzardo, anche laddove si pretende sia regolato, anche laddove si pretende vi sia una adeguata autorizzazione.

La legge vieta, nelle norme penali ricordate, il giuoco d’azzardo ed aggrava le pene a carico dei promotori, dei tenutari del giuoco stesso. Ebbene, nessun’altra disposizione di legge giuridicamente valida stabilisce deroghe a dette norme, e quindi, se vogliamo rispettare il principio della legalità, deve trovare imperio assoluto il divieto stabilito nella norma penale.

Ricordo – brevissima parentesi – che il decreto 27 aprile 1924, n. 636, che consentiva, in deroga espressa agli articoli 484 e 485 del codice Zanardelli, la concessione dell’apertura di case da giuoco mediante decreto del Ministro dell’interno, non fu convertito in legge nei termini legali – biennio dal 1° febbraio 1926 – e, quindi, caducato a termini dell’ultimo comma dell’articolo 3 della legge 21 gennaio 1926, n. 100.

Senonché – e qui proprio mi permetto di richiamare l’attenzione del Governo – il legislatore fascista aveva trovato la maniera di eludere sfacciatamente l’ordinamento giuridico, con sistemi oggi universalmente condannati, di consentire l’apertura di locali a San Remo, a Campione e a Venezia, con provvedimenti intesi ad ottenere, col sotterfugio, quello che non aveva potuto ottenere per legge e coprenti il permesso di fondare case da giuoco.

Mi riferisco al decreto 22 dicembre 1927, n. 2448, convertito in legge il 27 dicembre 1928, n. 3125, in tema di provvedimenti a favore del comune di San Remo, successivamente estesi ai comuni di Campione e di Venezia.

Detto decreto, recita l’articolo 1°, dà facoltà al Ministro dell’interno di autorizzare, anche in deroga alle leggi vigenti, purché senza aggravio per il bilancio dello Stato, il Comune di San Remo ad adottare tutti i provvedimenti necessari per poter addivenire all’assestamento del proprio bilancio, ed alla esecuzione delle opere pubbliche indifferibili. L’autorizzazione del Ministro dell’interno, si dice ancora, ha efficacia giuridica anche in confronto ai terzi.

Non vi si legge, però, la deroga alla legge penale. Si accenna solo a provvedimenti di carattere amministrativo.

Io domando se a questo sistema giuridico possa dare adesione il Governo della Repubblica italiana. È evidente che il Governo di Mussolini ha messo il Parlamento di fronte al fatto compiuto, a cui non ha potuto ribellarsi nemmeno il Senato, dal quale erano partite nobili e vibrate proteste.

Ciò penso sia sfuggito ai Governi, che si sono succeduti nel nostro Paese dalla liberazione in poi, cosicché si giuoca d’azzardo in flagrante illegalità, con tolleranza all’imbroglio che, purtroppo, dà motivo alle voci ed alle sfavorevoli interpretazioni di cui si è fatto eco l’altro ieri anche l’onorevole Cevolotto.

In questa situazione, mi si consenta di dire, con la risolutezza che deriva dalla tranquillità di un sicuro convincimento giuridico, che il Governo deve prendere subito netta e precisa posizione colla urgenza imposta dalla materia.

Riterrà il Governo, in linea di fatto, di fronte all’incoercibile e dilagante vizio del giuoco e a seri motivi di carattere economico, che il giuoco stesso attinga in contingenti opportunità, se non una legittimazione di principio morale, una giustificazione pratica? Dovrà allora provvedere colla legge, sottoponendola all’Assemblea, senza, però, mettere questa davanti a fatti compiuti, o al mantenimento di situazioni illegali e di deplorevole privilegio.

La presenza del Ministro della giustizia mi suggerisce, a questo proposito, l’opportunità di raccomandargli vivamente di voler disporre una vigile inchiesta sulle cause che hanno travolto tanti giovani nella delinquenza di questi ultimi tempi, al fine di assicurare alla società il recupero dei molti, capaci di emenda e di riabilitazione. Il loro recupero è necessario. All’uopo, dovranno, poi, essere aiutate e favorite anche tutte le iniziative locali, come quella sorta nella mia città e di cui l’onorevole Ministro deve essere a contezza, per la intelligenza e lo zelo caritativo di quel cappellano delle carceri, circa l’istituzione di centri di rieducazione di giovani traviati e caduti, secondo gli insegnamenti scientifici più accreditati.

L’inchiesta deve essere vigile e paterna, né dovrà pretermettere che tra questi giovani caduti ve ne sono molti meritevoli di stima e di considerazione per il loro passato, perché a loro si stenda una mano generosa e soccorrevole.

Onorevoli colleghi, credo di non poter dare migliore conclusione alle mie parole, se non esprimendo l’augurio della educazione e della formazione della nostra gioventù, che è l’avvenire stesso della democrazia e della Patria. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pacciardi. Ne ha facoltà.

PACCIARDI. Onorevoli colleghi, vi assicuro che avrei volentieri rinunciato alla parola in questa Assemblea, che deve essere ormai satura di discorsi, se non avessi pensato che incombe su di me il dovere di precisare la posizione del Partito repubblicano italiano, e quindi del suo gruppo, alla Costituente dinanzi al Governo.

Poiché avevamo due rappresentanti nel Governo e li abbiamo ritirati, le mie dichiarazioni avranno forzatamente una intonazione critica e di opposizione. Ma io spero di poter dimostrare – e almeno in questo campo non sarà colpa mia se non riuscirò a dimostrarlo – che si può essere critici e anche oppositori del Governo, senza trasformare quest’aula in una taverna per il sollazzo, molto spesso osceno, di tutti coloro che hanno interesse a demolire le istituzioni democratiche e rappresentative. (Applausi).

L’esperienza che noi abbiamo fatto al Governo con l’onorevole De Gasperi e con i suoi collaboratori, ai quali vanno, s’intende, i nostri sentimenti di deferenza, perché sono certamente devoti all’interesse pubblico, l’esperienza che abbiamo fatta ci ha convinti che non siamo d’accordo sul carattere, sulla natura, sulla funzione di un Governo eccezionale come questo, cui la storia – è proprio questa volta il caso di dirlo, malgrado l’abuso retorico che si fa di questa espressione – ha commesso l’incarico di dirigere il Paese in uno dei suoi momenti più infelici; in un periodo sovra ogni altro delicatissimo e pieno di responsabilità, un periodo di vacanza della legalità costituzionale, un periodo di passaggio fra un regime morto e un regime che sta per nascere.

Io non so fino a qual punto il Governo abbia sempre la coscienza che rappresenta un popolo che ha rovesciato una monarchia millenaria. E torna ad onore del popolo, se l’ha rovesciata, obbedendo alle circostanze, sotto l’imperio dell’armistizio, in periodo di occupazione alleata, per maturità politica, per senso civico, con l’atto civile della scheda, malgrado che al vertice dello Stato morituro fosse ancora il re, malgrado che, specialmente nelle ultime settimane, si fosse scatenata una campagna, in cui hanno concorso tutte le forze del cielo e della terra. Questo non diminuisce nulla, anzi aumenta in consapevolezza la sostanza dell’atto rivoluzionario che ha compiuto. In altri termini, il Governo è di fronte ad una situazione rivoluzionaria oggettiva, ed ha le funzioni di una specie di «Governo provvisorio», che in queste congiunture opera normalmente il passaggio fra un regime morto e un regime che sta per nascere.

È forse un peccato che l’onorevole Presidente del Consiglio, con le sue dimostratissime qualità di statista, non le abbia potute dimostrare in periodo più tranquillo, in periodo normale.

C’è chi lo ha paragonato a Giolitti; per noi repubblicani non è un complimento, ma credo che per la maggioranza dei rappresentanti di questa Camera sia un complimento, e certamente l’onorevole De Gasperi lo avrà accettato come tale. (Si ride). Ma il Presidente del Consiglio si sente l’animo, la forza, la stoffa di affrontare questa situazione oggettivamente rivoluzionaria? Secondo me il problema della difficoltà dei rapporti tra i partiti sta nel fatto che non si sono potute risolvere, e nemmeno affrontare, alcune questioni fondamentali, come quella dell’indiscutibile disagio del Paese, perché il Governo ha avuto questa straordinaria abilità di scontentare un poco tutti i ceti e tutte le classi. Noi, fra le altre bigotterie, abbiamo avuto la bigotteria della continuità giuridica. È un paradosso, è un assurdo, che anche oggi i poteri di questa Assemblea, i poteri del Governo, i rapporti fra il Governo e l’Assemblea, le stesse prerogative del Capo Provvisorio della Repubblica, siano regolati da un decreto della monarchia! Quando noi eravamo intransigenti avversari della monarchia, qualcuno ci diceva, volendo insultarci, che aspettavamo la repubblica per decreto reale. Quasi, quasi ci siamo!

È evidente che il compito essenziale di questa Assemblea è quello di preparare la Costituzione; ma il giorno in cui, con un atto di sovranità popolare, che è la sola fonte legittima dell’autorità, questa Assemblea è nata nella vacanza della legalità costituzionale, ad essa dovevano andare fatalmente tutti i poteri. E siccome «ce que va sans dire c’est mieux de le dire», come diceva la buona anima di Talleyrand, così il nostro gruppo ha presentato nelle prime sedute dell’Assemblea Costituente una mozione per rivendicare una cosa che ci sembrava ovvia, per rivendicare la sovranità dell’Assemblea; ma questa mozione, come tante altre cose, dorme i sonni del giusto. Anziché spianare la via alla retta applicazione della Costituzione, come era il compito di questo Governo e di tutti i Governi che nascono in queste circostanze, noi abbiamo innestato una specie di regime provvisorio su una sopravvivente legalità monarchica, e secondo me, da questo pasticcio, non può nascere niente di bene per il buon andamento dell’Amministrazione del Paese.

Non so se molti Deputati sanno, per esempio, che il Senato regio, in Repubblica, vive ancora.

Il nostro Ministro del tesoro passa ancora l’indennità ai Senatori. Vi sembra cosa da niente? Ma Dio non lo voglia, se la nostra nascente Repubblica si trovasse in serie difficoltà, voi vedreste che razza di spaventose conseguenze potrebbe avere questo fatto.

Gli atti normali del nostro Governo repubblicano sono ancora controllati dagli organi amministrativi della monarchia, con le stesse persone della monarchia e del fascismo, come la Corte dei conti e il Consiglio di Stato. E, se non è stato cambiato nelle ultime settimane, il Presidente della IV Sezione del Consiglio di Stato è nientemeno che il signor Rocco, fratello del Ministro fascistissimo Rocco, autore dei Codici fascisti e delle leggi eccezionali e creatore del Tribunale speciale.

Per inveterata abitudine storica, noi teniamo gli occhi fissi al Quirinale, anche oggi che il suo inquilino normale è assente. Ebbene, parecchi mesi dopo l’avvento della Repubblica, al Quirinale c’erano ancora i corazzieri che montavano la guardia negli scaloni del palazzo. C’era perfino il servizio di polizia, con il Commissariato addetto alla persona del re. Oggi le cose sono leggermente cambiate. Ma l’onorevole De Gasperi, dovendo scegliere un commissario per amministrare i beni della corona, ha scelto naturalmente un ex podestà di Napoli, che dicono sia un brav’uomo e un galantuomo, ma è un monarchico…

BENEDETTINI. Ma se tutta l’Italia è ancora monarchica! (Rumori).

PACCIARDI. Questo giovane onorevole che grida sempre «viva il re» dall’altra parte dell’Assemblea, e che sembra il fidanzato deluso del re (Si ride), deve sapere invece che tutta l’Italia in questo momento è repubblicana…

BENEDETTINI. Ufficialmente.

PACCIARDI. …e comunque bisognerebbe che non vi illudeste troppo, perché se avvengono queste storture, ed in realtà sono storture, siamo in molti disposti ad impedire che continuino.

BENEDETTINI. Minacce?

TRULLI. Altrettanto da questa parte. Dodici milioni di italiani sono monarchici!

PACCIARDI. Adesso le cose al Quirinale sono cambiate; però avvengono fatti strani anche oggi. C’era una specie di segretario della regina madre, il commendatore Scalici, che era sotto mandato di cattura per alcune coserelle che aveva fatto durante il periodo repubblichino. Appena ha potuto liberarsi dal mandato di cattura, ha ricevuto dal Governo repubblicano un passaporto per andare e venire dall’Egitto a conferire con il re.

La prima persona che ho trovato a Rio de Janeiro, quando ero di passaggio per andare in missione al Cile, è stata l’aiutante di campo del re, il generale Infante, che ha avuto dal Ministero degli esteri repubblicano la possibilità di andare e venire dall’Italia.

Quando fummo costretti noi a varcare le frontiere, per sottrarci alle condanne fasciste, abbiamo almeno sfidato le pallottole della polizia confinaria che aveva l’ordine di sparare senza preavviso.

A Buenos Aires i vecchi amici antifascisti mi hanno detto che là da pochi giorni era arrivato l’ex capo dei fasci all’estero Pietro Parini, con relativo passaporto, rilasciato dal Ministero degli esteri, quando titolare del Ministero degli esteri era l’onorevole De Gasperi.

Una voce a destra. Ha fatto bene.

PACCIARDI. La Commissione dei 75 ha previsto la confisca dei beni della corona: è un provvedimento quasi di prammatica che le repubbliche prendono per i re decaduti. Ma che cosa confischeremo? Stanno vendendo tutto a villa Savoia e nessuno ha pensato al sequestro conservativo. Ma volete una idea, che è quasi esilarante, di questa Repubblica, come dire, buontempona? Oggi a palazzo reale il commissario posto dal Governo per l’amministrazione o per la liquidazione dei beni della corona, sta distribuendo i certificati di cavaliere e di commendatore che il re partendo non è riuscito a smaltire. Come si sa, li distribuiva a staia durante il periodo delle elezioni. (Si ride). Voi ridete, ho riso anche io; ma quando penso che siamo arrivati alla Repubblica attraverso una catastrofe, passando su migliaia di morti, il riso mi muore nella gola. (Applausi).

Se volgete lo sguardo un po’ intorno, troverete dovunque lo stesso andazzo. Al Ministero dell’interno, alla Direzione generale di pubblica sicurezza, nelle Prefetture, nelle Questure, trovate le stesse persone e i vecchi personaggi del regime che riemergono (e questo perfino nel Gabinetto del Presidente del Consiglio) e scalzano i rari antifascisti che in un periodo eccezionale erano riusciti ad arrampicarsi a qualche posto. Non parliamo del Ministero della guerra. Il Ministro Facchinetti, quando assunse il Ministero della guerra, mi diceva, scherzando, che la Repubblica incominciava nel suo ufficiò e finiva nel suo ufficio.

BENEDETTINI. L’unico repubblicano che vi era!

Una voce a sinistra. E quando ne è uscito?

PACCIARDI. Quando ne è uscito, la Repubblica per lo meno era avanzata nell’ufficio del capo di gabinetto del Ministro della guerra, che è oggi il generale Supino, un uomo che riscuote la generale approvazione. È stato anche cambiato il capo di Stato Maggiore dell’esercito che ora è il generale Marras; un ex monarchico, naturalmente: non ce ne sono molti di repubblicani fra i generali dell’esercito, ma è un soldato che si è portato molto bene a Berlino e che dà garanzia di fedeltà alla Repubblica. Però, in realtà, bisogna vedere le cose come sono.

Non c’è settore, si può dire, dell’Amministrazione italiana, che sia stato particolarmente curato dalla dinastia come l’esercito; non soltanto era monarchico, ma dinastico e piemontese.

C’è una casta monarchica e piemontese che domina anche oggi nell’esercito. E tutti lo sanno.

Io avevo un lungo elenco di ufficiali generali piemontesi della vecchia casta dinastica, che sono ancora ai posti di comando nell’esercito. Non lo trovo in questo momento, ma ricordo qualche nome a memoria.

Il Capo di Stato Maggiore Generale dell’esercito, il generale Trezzani, naturalmente monarchico e piemontese della vecchia casta, era un professore di tattica e il comandante effettivo delle Forze armate in Etiopia, sotto il vicerè: il Duca d’Aosta. Mi pare che i suoi insegnamenti di tattica li abbia applicali molto male, perché bastarono 30 mila inglesi per sconfiggerlo, malgrado avesse a disposizione forze armate più potenti, a difesa dell’Etiopia. (Rumori – Commenti).

Una voce a destra. È un eroe il Duca di Aosta; rispettate la memoria degli eroi.

PACCIARDI. L’Italia sarà in pace e spero perpetuamente; ma, se dovesse andare in guerra, non mi sentirei tranquillo con questi professori di tattica a capo dello Stato Maggiore. L’esercito è fuori causa. Qui si parla del generale Trezzani.

Il generale Chatrian, che è l’inamovibile Sottosegretario di Stato al Ministero della guerra, era monarchico e piemontese. Ora spero che sia lealmente repubblicano; non conosco i suoi meriti di guerra; è democristiano. Oggi è il Sottosegretario, vale a dire il ministro effettivo del Ministero delle Forze armate.

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Non è esatto; è semplicemente Sottosegretario addetto al coordinamento dei vari servizi.

PACCIARDI. C’è il generale Amé, ex capo del S.I.M., anch’egli piemontese dinastico. Quando si è dovuto scegliere un generale come capo della Casa militare del Presidente della Repubblica… (Interruzioni) …si è scelto un altro generale dinastico piemontese. Persino un giornale monarchico ha protestato per la sopravvivenza di questa casta…

Una voce. Quale giornale?

PACCIARDI. Italia Nuova; citerò le sue parole.

Si doveva nominare un generale come capo delle guardie di finanza; è stato nominato il generale Oxilia; il generale Oxilia, che ha avuto meriti partigiani ed ha riscattato un passato meno commendevole, era il consigliere militare privato del più grande brigante della storia moderna, dopo Mussolini, che è Ante Pavelic. Anch’egli monarchico e piemontese.

Il giornale monarchico Italia Nuova, sotto la firma di Sertorius – credo, dalla competenza, che sotto questa firma si nasconda un generale dell’esercito – ha protestato contro questa casta provinciale che continua nel nuovo esercito nazionale italiano; ha protestato per questa catena – la chiama proprio così – che bisogna rompere.

Il comandante dei carabinieri è sempre lo stesso: cioè un monarchico. Non si vede proprio il passaggio dalla monarchia alla repubblica. In tutti i posti-chiave, dovunque ci si volga, si trovano generali e ufficiali monarchici.

Il Presidente del Consiglio sa che fin dalle prime trattative per la composizione dell’altro Ministero, io fui favorevole all’unificazione delle forze armate. Ma se l’unificazione si facesse con questo spirito, non servirebbe a niente: forse servirebbe ad aumentare la burocrazia militare, anziché a diminuirla.

Questa «catena» l’abbiamo vista nei suoi anelli svolgersi, praticamente quasi, quando tutti i generali dell’esercito sono andati a portare la loro testimonianza, che era solidarietà, al generale Baistrocchi, al Tribunale straordinario di guerra; ed era una catena abbastanza indecorosa, come è stata indecorosa l’assoluzione trionfale del Baistrocchi.

BENGIVENGA. Cerano i magistrati!

PACCIARDI. Già, c’erano i magistrati. Ma io vorrei che ci fosse un Ministro della guerra repubblicano che rivedesse un po’ anche i quadri di questi magistrati del Tribunale Supremo.

BENCIVENGA. Ahi, ahi! Non si toccano i magistrati!

PACCIARDI. Vorrei invece che il Ministro li cambiasse dopo aver constatato, come può constatare, con quale spirito emettono le loro sentenze. Per esempio, sono stato informato che tra i pochi, i pochissimi generali che hanno rifiutato di prestare giuramento ci sono alcuni generali del Tribunale Supremo. Può darsi che questo rifiuto faccia molto onore alla lealtà personale di questi generali, ma non dà proprio un senso di sicurezza alle istituzioni repubblicane.

Signori, volete un altro episodio per dimostrare lo spirito con cui si amministrano queste cose?

C’è stata una inchiesta per la cosiddetta mancata difesa di Roma. Da principio doveva essere un’inchiesta fatta da una commissione nominata dal Governo dell’esarchia, e se ne erano pubblicati anche i nomi. Poi è stata una inchiesta ristretta nell’ambito puramente militare, probabilmente per suggestione degli alleati.

Ma che cosa ne è derivato? Che per la mancata difesa di Roma non risponde il Capo supremo delle Forze armate di terra, di cielo, di mare e di sotto mare che era il re e che partì (non voglio dire fuggì, se no mi urlano da quella parte) (Commenti) per Pescara; non è responsabile della mancata difesa di Roma il Principe Umberto, che era generale in servizio in quei tempi; non lo è il generale Ambrosio, che era comandante supremo delle Forze armate; non il maresciallo Badoglio, che era generale lui stesso e Capo del Governo e Capo effettivo delle forze militari; non il generale Calvi di Bergolo, che si è sempre rifiutato, come comandante di un reparto di camicie nere di combattere contro i fascisti, e che ha firmato l’armistizio con i tedeschi; non il generale Sorice allora Ministro della guerra. No, signori; questi sono tutti lavati dalla commissione d’inchiesta militare. Il solo generale che deve rispondere della mancata difesa di Roma è il generale comandante del corpo motocorazzato di Roma, il generale Carboni, il solo generale che rimase nei guai a Roma. Si vestì in borghese per andare a Tivoli, mise il comando in una casa privata, ma insomma rimase a combattere mentre gli altri fuggivano. Non mi interessa specialmente il generale Carboni. Può darsi che anch’egli abbia appartenuto alla cricca monarchica come gli altri; ma mi interessa invece il caso di ingiustizia clamorosa che si compie ai suoi danni. O tutti, o nessuno, in galera per la mancata difesa di Roma che, del resto, non fu poi del tutto mancata, se ci furono più di mille morti e se alcune delle divisioni tedesche restarono inchiodate qualche giorno a Roma per l’azione dei nostri combattenti, la quale servì ad impedire che l’esercito tedesco, a Salerno, fosse rinforzato e rigettasse in mare gli anglo-americani ivi sbarcaci. Se vogliamo distendere il velo dell’oblio su questi fatti, distendiamolo pure, ma non facciamo pagare gli errori della difesa di Roma al solo generale che fece in Roma il suo dovere.

Però, parlando del Ministero della guerra, non era essenzialmente di questo, onorevole Presidente del Consiglio, che vi volevo intrattenere. Volevo soltanto rilevare la deficienza di uno spirito non dico rivoluzionario, ma per lo meno innovatore nell’Amministrazione delle Forze armate, come in tutte le Amministrazioni in questo momento eccezionale.

Badate che io considero, nel momento attuale, il Ministero della guerra non come voi probabilmente lo considerate, il paravento degli Stati Maggiori, ma come il Ministero più importante del vostro Gabinetto. L’Italia è disarmata; non si può considerare armato un paese al quale si sono lasciati 185.000 uomini, che sono anche troppi per un esercito permanente, ma sono nulla se sprovvisti, come sono, di armamento moderno. Non si può considerare armato un paese che ha 200 tanks e 200 aeroplani e praticamente non ha difese per le sue coste; che deve smantellare tutte le sue fortificazioni alle frontiere impegnandosi di tenere una fascia di 20 chilometri totalmente disarmata. Fra le dure clausole del trattato di pace queste sono forse le più dure. D’altra parte, la posizione dataci da Dio è estremamente infelice: noi siamo alla confluenza degli urti delle razze e degli imperialismi e pare che i quattro Grandi si siano messi d’accordo per lasciare una specie di terra senza padrone, no men’s land; ma noi non intendiamo la nostra neutralità e la nostra indipendenza in questo modo. Ci fu nell’antichità la terra di Tebe, la Beozia, che considerò la neutralità in questo modo; ma il salace spirito dell’Attica ha considerato i beoti poco meno che idioti. Noi non possiamo accettare la neutralità in questo modo. Lo sforzo dell’intelligenza e della genialità di un Ministro della guerra – che non deve essere preso con il criterio di servire da paravento alla cricca dinastica – deve esser teso verso altri scopi. Non so, vorrei farmi capire senza dire. Abbiamo 185.000 uomini nell’esercito: ripeto che sono anche troppi e che non servono a niente per la difesa delle frontiere. L’esercito della Repubblica d’altra parte non deve essere adibito che alla difesa degli interessi nazionali; non deve essere impiegato, come qualche volta la monarchia l’ha impiegato, a guadagnare allori sul sangue degli italiani. Questi 185.000 uomini sono anche troppi; ma gli alleati ci lasciano qualche aeroplano, ci lasciano qualche tanks. Si tratta di trasformare il nostro concetto della difesa nazionale, approfittando di queste circostanze; occorre un Ministro della guerra che sappia il fatto suo.

BENGIVENGA. Questi sono compiti degli Stati Maggiori.

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Questo è un concetto rispettabilissimo, che ho adottato nel 1921, quando ero Ministro della guerra, andando contro l’elemento tradizionale.

PACCIARDI. Bravo! E più ci andrà contro, seguendo questi criteri innovatori, oggi che le circostanze ce lo impongono…

GASPAROTTO, Ministro per la difesa. Ed auspicando che l’esercito non sia mai al servizio della pubblica sicurezza, ma serva soltanto per dare la sicurezza allo Stato, per le sue frontiere; e in questo era d’accordo allora anche l’onorevole Bencivenga che diceva: un piccolo esercito, ma bene addestrato.

PACCIARDI. Sarà d’accordo anche ora, spero. Ad ogni modo, onorevole Presidente del Consiglio, mi scusi se mi rivolgo prevalentemente a lei: ma lo faccio perché, in certo senso, ella dà un tono e uno stile al suo Governo; io voglio arrivare sempre alla stessa dimostrazione. Mi potrei, non dico divertire, perché non è un divertimento, ma potrei, per la rigorosità della mia dimostrazione, passare in rivista tutti i Ministri che hanno l’onore di sedere accanto a lei e riscontrare lo stesso andazzo, le stesse deficienze, lo stesso metodo. Prenda, per esempio, le finanze: noi abbiamo ascoltato tutti con estremo interesse il discorso dell’onorevole Scoccimarro; indubbiamente, chi volesse negare che l’onorevole Scoccimarro si è trovato dinanzi a difficoltà estreme, in un Paese distrutto, in un Paese in cui tutti o quasi i documenti erano scomparsi, gli alloggi dispersi od occupati, chi volesse negare, dicevo, queste difficoltà, giudicherebbe con superficialità e con parzialità la sua opera. Però anche il Belgio si è trovato in questa situazione, anche la Francia, anche l’Inghilterra, si sono trovate nelle stesse condizioni; e in questi Paesi, tranne l’inglese, occupati e devastati, si è potuto effettuare, senza dirlo, il cambio della moneta; mentre da noi non si è potuto.

In quei Paesi, compreso l’inglese, si è potuto imporre un severo razionamento dei generi alimentari e da noi non si è potuto. Poi io ammetto che ci sia questa difficoltà di accertamenti per le imposte ordinarie nei riguardi della generalità dei cittadini; ma per i sopraprofitti di regime, che in fondo riguardavano alcune decine di persone, forse qualche centinaio, queste difficoltà obbiettivamente non potevano esistere: com’è allora che non si è incassato niente o ben poco per profitti di regime? E questo dico non perché tale incasso avrebbe rinsanguato molto le finanze dello Stato, ma perché avrebbe avuto una grande importanza psicologica.

C’è essenzialmente un fatto, signori miei, di cui dobbiamo essere tutti convinti: abbiamo perduto una guerra; siamo in condizioni tragiche; bisogna pagare tutti; bisogna cingerci tutti di questo cilicio. Però voi non potrete convincere gli operai, gli impiegati e i pensionati miserabili, questi in specie, che, non avendo possibilità di attacco e di resistenza contro lo Stato, che cede ormai soltanto alle categorie che possono attaccarlo, muoiono di fame, della necessità che ha lo Stato di lesinare il piccolo aumento di stipendio o di pensione, fino a quando essi vedranno la sfacciata abbondanza, fino a che constateranno che vi sono dei setaioli e dei cotonieri del Nord che guadagnano ancor oggi quattro o cinque milioni al giorno.

SCOCCIMARRO. Lei conosce, onorevole Pacciardi, i motivi del ritardo degli accertamenti dei profitti di regime?

PACCIARDI. Non li conosco.

SCOCCIMARRO. Se non li conosce, glieli farò conoscere, ed anche al popolo italiano. L’ultimo episodio è di un mese fa.

PACCIARDI. Ho molto piacere che lei li faccia conoscere, al pari dei motivi per cui non si è fatto il cambio della moneta. Ma tutto questo non cambia di un ette la mia dimostrazione che il Governo attuale sarà eccellente per tempi normali, ma non vale per tempi eccezionali come questi.

E vengo alla scuola. Mi dispiace che non sia presente il mio amico onorevole Gonella. Gli avrei fatto una dichiarazione affettuosa: è un uomo dei più intelligenti che io conosca. Ma avrei preferito che fosse un cretino. Egli, come clericale, sa troppo il fatto suo. La sua politica scolastica favorisce la scuola privata. Il fascismo si era presentato alla Chiesa con il manganello in una mano e nell’altra il catechismo. Nessun criterio innovatore – tolto il manganello – è stato portato nella scuola. Noi crediamo alla Repubblica e ci preoccupiamo della educazione delle nuove generazioni repubblicane. Credo che con il metodo dell’attuale Ministro della pubblica istruzione creeremo dei buoni chierichetti, ma non creeremo dei buoni repubblicani. (Proteste al centro – Applausi a sinistra).

Quanto ai lavori pubblici, chi può negare le sublimi virtù dell’amico Romita? Qualche volta egli ci sbalordisce. È capace di fare tutto. Lo avevano messo ad amministrare la luce elettrica, e forse la luce andava meglio allora, a malgrado che vi fosse la siccità e che gli impianti fossero completamente rovinati: meglio di ora che vi è abbondanza di pioggia e gli impianti si vanno ricostruendo. Lo hanno messo al Ministero dell’interno, e veramente l’ho ammirato. (Commenti a destra).

L’onorevole Romita mi ricordava che a un grande pittore del suo tempo – David – Napoleone comandò: dipingimi calmo sopra un cavallo infuriato. Ebbene, l’onorevole Romita come Ministro dell’interno, era perfettamente calmo fra le tempeste. E sono doti eccellenti.

BENEDETTINI. Gliene sia grato: ha fatto il referendum repubblicano! (Commenti).

PACCIARDI. È un uomo che se gli telefoni la mattina alle 8 è al suo posto, se gli telefoni alle 9 di sera è ancora al suo posto: è indubbiamente un infaticabile lavoratore; però che razza di burocrazia c’è al Ministero dei lavori pubblici! Capisco che occorre un piano nazionale. Noi stessi lo abbiamo richiesto. Ma nei limiti della loro competenza i Comuni, da soli, farebbero meglio. Oggi, i Comuni fanno un progetto, poi va alla Prefettura, poi al Provveditorato regionale, poi deve essere approvato a Roma, e quando il sindaco viene a Roma trova il più bel sorriso d’Italia che è quello dell’onorevole Romita, nonché molti milioni sulla carta, ma sono milioni che anch’essi ridono di lui perché il Ministero del tesoro non li dà mai!

L’Amministrazione dello Stato (ho letto) costa 190 miliardi all’anno, il che è qualche cosa di più della metà del gettito delle entrate ordinarie. Ora, questo è enorme. Bisogna pure un giorno falcidiare con l’accetta in questa mastodontica Amministrazione statale.

Ma torniamo allo stile del Governo. La sua debolezza, la sua condiscendenza, ha almeno servito a qualche cosa? Ha servito ad una maggiore pacificazione degli animi, ad una maggiore distensione, ad una maggiore unità nazionale? No, come sempre avviene in questi casi; la debolezza del Governo ha incoraggiato la iattanza delle forze monarchiche e fasciste. Guardate la stampa, specialmente quella di informazioni: è tornata in mano esattamente agli stessi gruppi finanziari che già una volta strozzarono le libertà democratiche in Italia e che tentano di fare altrettanto oggi nella Repubblica. Fascisti e neo-fascisti sono tanto più audaci quanto meno il Governo repubblicano è all’altezza dei suoi compiti.

Si era detto che la Repubblica sarebbe stata un salto nel buio, sarebbe stata un finimondo: forse i monarchici si aspettavano davvero che tutti gli scavezzacolli, in Repubblica, approfittassero della situazione, chissà per quali orgie. Ebbene, niente: non precipizio, non finimondo; anzi, è proprio da questa parte che sono venuti i tentativi di pacificazione, e reiterati. Sapete tutti che la epurazione è stata una farsa e, come se ciò non bastasse, abbiamo regalato l’amnistia. E badate che questo tentativo bisognava farlo, bisognava tentare di uscire da questa morsa delle fazioni – i guelfi e i ghibellini, i bianchi e i neri, i rossi e i turchini – che hanno sempre tormentato la vita italiana.

Ma l’amnistia è stata un errore – come dire? – tecnico. Credo che l’onorevole Togliatti lo riconoscerà, tanto più che non sarà suo, ma dei suoi funzionari. Ed è stata soprattutto un errore in questo: che ha fatto fiducia – immeritata – ai magistrati dell’antico regime.

Si sono aggiunti in questi giorni tentativi di fraternità, si può dire, sul campo, fra i partigiani e gli antichi militi delle brigate nere: e noi avremmo approvato, se si fosse trattato soltanto dei giovani; ma si sono mescolati subito a questi tentativi di pacificazione i gerarchi responsabili e profittatori.

Ebbene, bisogna riconoscere che la vostra politica, la nostra politica, in quanto noi ne abbiamo per un certo tempo condivise le responsabilità, non ha avuto l’effetto sperato e bisogna allora agire in conseguenza, ma agire subito.

Perché subito? Perché, il giorno in cui si applicherà la Costituzione repubblicana non sarete più in tempo.

Questa è la funzione dei Governi provvisori.

La Costituzione repubblicana garantisce certi diritti, certe prerogative inalienabili del cittadino; garantisce certe guarentigie dei funzionari e dei loro rapporti con lo Stato. La Costituzione, per esempio, dirà – e noi applaudiremo, noi vogliamo che lo dica – che la Magistratura è sacra, inviolabile, inamovibile, e guai a chi la tocca; nell’ambito del suo potere è sovrana.

Però che cosa avrete? Avrete la Magistratura del signor Pilotti. Quando lo cacciate via questo signor Pilotti, onorevole De Gasperi? (Applausi a sinistra).

Avrete la Magistratura dello stesso Presidente della Corte di Cassazione, che ha mancato al suo dovere, se non altro, di ospitalità e di educazione verso il Presidente della Repubblica. Quando andava Mussolini al Palazzo di giustizia lo spettacolo era diverso (Applausi a sinistra) e quando il re andò a Palazzo di giustizia, ed era Presidente della Corte di cassazione il padre di questo signor Pagano, potete leggere in tutti gli annali giudiziari il discorso ampolloso di saluto che questo Presidente gli diresse.

Va il Presidente della Repubblica, il Capo provvisorio dello Stato, e questi signori neanche se ne accorgono!

Avrete la Magistratura che ha applicato l’amnistia al boia Cristini, che ha applicato la stessa amnistia, forzando il senso e lo spirito della legge di Togliatti, a Vito Mussolini, a Caradonna e a tanti altri. (Interruzioni). Ebbene, bisognerà agire ora, agire subito.

Signori, se ho potuto parlarvi a nome del mio gruppo così liberamente, è perché noi non abbiamo più i rappresentanti al Governo. Noi non siamo adusati al mestiere del doppio giuoco; possiamo oggi dare al Governo quello che un partito di minoranza può dare: un contributo critico alla sua azione.

E, soprattutto, vogliamo tentare una chiarificazione politica nel Paese.

Secondo me, una delle profonde cause di debolezza di questa Repubblica democratica è nel fatto che le manca un grande partito, o un grande movimento repubblicano democratico. (Interruzioni a destra). Ma qualche cosa di nuovo c’è o mi pare di scorgere che ci sia nel nostro Paese: il Partito d’azione, che è stato un partito eroico – bisogna riconoscerlo – nel periodo clandestino e che ha esercitato una grande funzione, è in procinto di prendere delle risoluzioni coraggiose. E io so quanto siano coraggiose, perché so come ci si affeziona alla bandiera, al simbolo, alla etichetta, all’ente-partito. Ma tutto quello che serve all’unione delle forze repubblicane, quello che serve ad evitare questo frazionamento delle forze repubblicane, è da incoraggiare e da salutare come un beneficio per il nostro Paese.

Gli uomini del Partito d’azione che sono venuti, o che sono ritornati, nella nostra vecchia famiglia, non hanno rinnegato niente del loro passato, dei loro simboli, del loro modo di pensare, della loro fede. Un altro atto coraggioso, benché doloroso – lo riconosco – nelle attuali circostanze, lo hanno compiuto i colleghi che si sono aggruppati intorno al Partito socialista dei lavoratori italiani. Che cosa vogliono, se ho ben capito, in fondo? Vogliono che le riforme sociali indispensabili nel nostro Paese, si compiano nell’ordine repubblicano, nella democrazia e nella libertà. Ebbene, noi non pensiamo niente di diverso. Lo so che ci chiamano «storici»; e ci chiamano «storici» perché vorrebbero metterci nel museo delle glorie patrie. Ebbene, abbiamo già dato molte delusioni ai nostri colleghi monarchici. Una volta si diceva che eravamo i più onesti d’Italia, dei galantuomini: adesso siamo diventati dei malfattori anche noi. E ci saranno altre delusioni; quando si affronteranno i problemi sociali nel nostro paese, quando si affronteranno i problemi delle riforme agrarie, quando si affronteranno i problemi delle riforme industriali, voi vedrete sorgere da questi banchi uomini moderni, non uomini «storici».

LI CAUSI. Noi ne siamo convinti; occorre rivolgersi alla destra.

Una voce a destra. E noi in quel giorno usciremo dalle tombe!

PACCIARDI. Mi volgo a voi (verso l’estrema sinistra) non con spirito polemico. (Interruzioni).

Siamo un partito che potrà avere le sue idee particolari su questi problemi; ma vengano pure una Commissione, dieci Commissioni, mille Commissioni d’inchiesta: non troverete nessuno in questo gruppo legato a interessi particolari, ma tutti devoti agli interessi della Nazione. (Interruzioni a destra).

Dicevo, dunque, qualche cosa di nuovo si sta verificando nel nostro Paese; io credo che, se non in questa, nelle Camere successive, voi dovrete forzatamente fare i conti con un grande movimento repubblicano democratico laico e sociale che già si sta delineando nel nostro Paese. È già significativo che dinanzi alla crisi, dinanzi al problema del Governo, abbiamo preso tutti – e separatamente – lo stesso atteggiamento.

L’onorevole Sforza partecipa al Governo; vi partecipa come indipendente, come persona; ma i suoi addentellati, direi i suoi legami spirituali, col partito repubblicano sono più forti dei legami normali della tessera. Per cui mi pare doveroso dichiarare che in mente nostra la sua presenza ai banchi del Governo significa soltanto questo: che i problemi della politica estera della Nazione devono essere sottratti al giuoco, all’urto, al contrasto delle parti. Noi abbiamo dato questo esempio anche in monarchia. Molte volte abbiamo sacrificato gli interessi momentanei del nostro partito per ubbidire ad un dovere nazionale più alto.

E io spero che questo esempio faccia scuola per i superstiti monarchici del nostro Paese. È per questo che, alla Commissione dei Trattati internazionali, io fui uno dei primi ad esprimere la solidarietà, a nome del mio gruppo, col Governo che si assumeva il tragico, ineluttabile compito di firmare il Trattato di pace. Se c’è qualcuno in questa Assemblea che avrebbe potuto esimersi dall’assumere questa posizione, con una apparenza di legittimità, saremmo stati noi, perché noi fummo sempre avversari della monarchia. Noi ne denunciammo sempre la intima natura reazionaria, perché combattemmo sempre la sua involuzione fascista, perché mettemmo il cadavere di Oberdan fra l’Italia della Triplice alleanza e l’Austria, perché non partecipammo ai Governi di liberazione, e quindi non fummo nella dolorosa necessità di controfirmare l’armistizio, che avevano firmato il re e Badoglio in fuga. Avremmo potuto esimerci dal prendere questa posizione; ma a noi ripugnerebbe di fare questi miserabili giuochi di furberia sul cadavere disfatto della Nazione. La Nazione continua e abbiamo il dovere di sopportare la nostra parte di sacrifizî, abbiamo il dovere di percorrere il nostro tratto nel duro calvario.

Io proporrò – noi, del gruppo repubblicano proporremo: lo abbiamo detto al nostro Congresso e siamo stati lieti che l’amico Nenni si sia associato – di fare l’ultimo disperato tentativo di appello ai Parlamenti liberi delle Nazioni vincitrici.

Ma abbiamo fede. Il colpo più duro e più immediato che bisogna parare è il colpo ingiusto, iniquo, immeritato alla nostra flotta; perché sé sarà spartita, nessuno ce la renderà più. Ed è questa una delle clausole più orribili del nostro trattato. La nostra flotta non era preda di guerra; volontariamente, con la sua bandiera, aveva combattuto per la causa comune.

Si può essere, non dico tranquilli, ma fiduciosi anche per i problemi che più ci interessano, i problemi delle nostre frontiere. Non ci stancheremo mai di dire alla Francia che questa niaiserie, che questa sciocchezza, come Blum l’ha chiamata, rischia di compromettere la fratellanza latina che noi non da ora vogliamo. Non ci stancheremo mai di dire alla Francia che è scritto, come lo ha detto l’onorevole Presidente del Consiglio, nella sua Costituzione di oggi, che non può accettare ingrandimenti territoriali senza il consenso delle popolazioni.

A Tito, che è di una scuola assai positivista ed assai pratica, io terrei un linguaggio assai positivo ed assai pratico, un linguaggio che mi pare abbia cominciato ad intendere (e forse l’onorevole Togliatti stesso glielo ha tenuto quando è andato a Belgrado).

Questo territorio di Trieste è uno Stato che non può vivere.

Se le mie informazioni sono esatte, la Commissione economica internazionale ha intanto stabilito che avrà 10 miliardi di deficit nel bilancio normale dello Stato ed altri 8 o 10 miliardi di deficit nella bilancia dei pagamenti.

Vorremmo dire a Tito: non era forse meglio riconoscere all’Italia, non soltanto Trieste, che è indiscutibilmente italiana, e lo sa, ma anche Pola e l’Istria occidentale, che sono indiscutibilmente italiane, e lo sa; non valeva meglio di riconoscere questi territori all’Italia repubblicana, all’Italia democratica, all’Italia pacifista, all’Italia, comunque, disarmata? Piuttosto che immettere tra noi questo staterello, questo cuneo armato di interessi che sono estranei alle nostre contese? Io credo che un giorno i nostri amici slavi capiranno questo linguaggio. Ma, onorevoli signori, per affrontare questi problemi tremendi, interni e internazionali, occorre che l’Italia nel suo Governo, nei suoi rappresentanti, nei suoi funzionari, nei suoi magistrati, nel suo popolo, esca da questo carnevale, e si può anche dire da questo baccanale in cui impazziamo, e si dia un volto austero di dignità e di moralità. (Applausi).

Nomina di una Commissione speciale.

PRESIDENTE. In relazione al mandato che mi è stato conferito, chiamo a far parte della Commissione speciale per l’esame del disegno di legge costituzionale: «Proroga del termine di otto mesi previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, per la durata dell’Assemblea Costituente», gli onorevoli colleghi: Ambrosini, Bergamini, Cianca, Colitto, Corbino, Bordon, De Michelis, Grassi, Laconi, Lami Starnuti, Molè, Perassi.

Prego gli onorevoli membri della Commissione di volersi riunire domani, alle ore 9,30, per poter riferire oralmente nel pomeriggio stesso, dato che la discussione del disegno di legge sarà posta all’ordine del giorno della seduta di domani.

Si riprende la discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

È iscritto a parlare l’onorevole Colitto. Ne ha facoltà.

COLITTO. Su due punti soltanto del discorso dell’onorevole De Gasperi – che è stato insieme relazione di attività svolta ed esposizione di programma da svolgere – desidero richiamare, con la massima brevità, la benevola vostra attenzione.

Ne sento il dovere, specie dopo quanto è stato detto ieri da altri settori della Camera, in incidentale risposta a quanto già ebbe a rilevare nei giorni scorsi il collega onorevole Russo Perez.

Il primo punto del discorso è quello, in cui il Presidente del Consiglio, esponendo il programma del nuovo Governo, si è occupato del consolidamento e della difesa della Repubblica, ed il secondo quello, in cui, riferendo l’attività da lui svolta, si è, con accenti spesso commossi, occupato del Trattato di pace.

Primo punto. Dopo avere rilevato essere suo dovere fare opera di consolidamento ed, ove occorra, di difesa del regime repubblicano, l’onorevole De Gasperi ha voluto indicare la via, che il Governo si appresta a battere per raggiungere il fine propostosi. Il Governo intende per ora prendere, per ripetere le parole dell’onorevole Nenni, «poche misure», le seguenti, salvo che non si creda poi di seguire i drastici consigli dati ieri dall’onorevole Lussu e quelli dati oggi, perché si realizzi «lo spirito rinnovatore», dall’onorevole Pacciardi, che non ha saputo indicarci una sola persona, della quale egli sia contento:

1°) aggiornare e riformare alcuni articoli del Codice penale;

2°) richiamare in vigore, entro certi limiti ed opportunamente aggiornati, il decreto legislativo luogotenenziale n. 145 del 1945, che, come è noto, cessò di aver vigore il 15 maggio 1946, e continuare ad applicare il decreto 149 pure del 1945;

3°) regolare con una legge speciale la stampa.

Ora, io plaudo con la più schietta sincerità all’intendimento di aggiornare e congruamente riformare i pochi articoli del Codice penale indicati dal Capo del Governo: l’articolo 270, che si occupa delle associazioni sovversive, aventi aspirazioni dittatoriali e totalitarie, quelle associazioni che, come si esprime l’articolo 17 del Trattato di pace, hanno lo «scopo di privare il popolo dei suoi diritti democratici», l’articolo 274, che disciplina la partecipazione del cittadino, nel territorio dello Stato, ad associazioni, enti o istituti o sezioni di essi, di carattere internazionale, e gli articoli 276, 279 e 290, che prevedono rispettivamente gli attentati ai membri della casa già regnante, la lesa prerogativa della insindacabilità del Capo dello Stato ed il vilipendio delle istituzioni costituzionali.

Oso anzi – dato che ogni tanto si sente parlare purtroppo di democrazia progressiva, ma che «per progredire» dovrebbe «volgere le spalle alla legalità» – pregare il Governo di voler estendere l’aggiornamento e la riforma ad altri articoli: per esempio, all’articolo 289, che prevede gli attentati contro la libertà funzionale degli organi costituzionali dello Stato, anche in precedenza essendosi, del resto, rilevata l’erroneità della formula «esercizio della sovranità», dallo stesso usata, ed all’articolo 294, che prevede gli attentati contro i diritti politici del cittadino, attentati che non possono più evidentemente essere considerati delitti contro la personalità dello Stato, ma debbono essere di nuovo considerati, come li considerava il Codice del 1889, delitti contro la libertà.

Non sento, invece, in modo assoluto, di poter approvare il proposito di continuare ad applicare o, peggio, di richiamare in vigore i decreti luogotenenziali di sopra indicati, perché mi sembra evidente che, così operandosi, si persisterebbe – violandosi il sentimento di giustizia e pur anche il buon costume politico – nel grave errore di tenere ancora distinti non i galantuomini dai disonesti, ma dagli altri italiani milioni di italiani onestissimi, forze vive, attive, capaci, dalle quali il Paese – checché ne pensi l’onorevole Pacciardi – assolutamente non può prescindere; si riaprirebbero le troppe e troppo paurose crepe, che per tanto tempo hanno martoriato la compagine nazionale, mentre una pacificazione piena, sincera, leale per tutti gli italiani di buona volontà è più che mai necessaria; si darebbe, continuandosi – pieni di rancori cronici – ad adottare sistemi, che non manca chi qualifica liberticidi, tanto e da tante parte deprecati, la impressione che la democrazia è in Italia una aspirazione ancora da realizzare.

La Costituente si appresta a discutere il progetto della Costituzione, filtrato attraverso lo studio di una Commissione di 75 membri, di tre sottocommissioni e di comitati coordinatori. Ora, secondo il progetto, la nuova Italia democratica non dovrà avere più leggi retroattive (art. 20), non giudici speciali (art. 95), non confino politico (art. 8) (non si difende la Repubblica, ha detto ieri opportunamente l’onorevole Nenni, con leggi eccezionali e con persecuzioni di polizia) e la Magistratura dovrà essere indipendente dal potere esecutivo (art. 94). Bisognerebbe allora subito abrogare, non mantenere in vigore, le leggi retroattive, che in vigore ancora sono, e naturalmente guardarsi molto bene dal richiamare in vita quelle abrogate. Diversamente agendo, si opererebbero in anticipo gravissime lesioni costituzionali, si diventerebbe sabotatori della Costituzione prima addirittura della sua entrata in vigore, per cui – veramente sbalordito – ho sentito ieri l’altro dalla squisita delicatezza di una collega pregare il Governo di premere su di un procuratore della repubblica, perché revochi dei mandati di cattura spiccati contro individui, rei di delitti di competenza della Corte di assise. Or, se questo è, come si può pensare a continuare ad applicare o addirittura a richiamare in vigore i decreti luogotenenziali, indicati nel discorso del Capo del Governo?

E neppure sembrami che sia commendevole il proposito di disciplinare con legge speciale la stampa. Sì, la legge sarebbe redatta – ha detto l’onorevole De Gasperi – in armonia con i principî che l’Assemblea stessa vorrà, in materia di stampa, fissare nella Costituzione, fonte di ogni altra legge. Ma della Costituzione non vi è che uno schema, nel quale (art. 16) si afferma solennemente che «la stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni e censure», sì che non si comprende come sia possibile emanare una legge, che sia «speciale» (il significato dell’aggettivo è noto) e sia insieme in armonia con quello che nel progetto di Costituzione, in materia di stampa, si afferma e che certamente nella Costituzione si riaffermerà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non legge eccezionale, ma speciale.

COLITTO. No. Per la stampa una legge speciale non occorre. La libertà di stampa, che è la madre di tutte le libertà, sacra in regime democratico, deve trovare i suoi limiti soltanto nella legge, che della libertà stabilisce i confini, cioè a dire nel Codice penale. Si vuole o non si vuole che la stampa sia libera? Si vuole o non si vuole che possa il cittadino manifestare la propria opinione, criticare il Governo, polemizzare con i partiti ed i loro rappresentanti, gridare che il tale Ministro è un disonesto e che il tale altro è un traditore – il che non è né rissa, né cannibalismo, come a qualcuno è piaciuto di scrivere, né un’insidia alla Repubblica? Se lo si vuole, non occorre davvero per la stampa alcuna legge speciale.

Non poniamo freni alla libertà di stampa. Sono assolutamente convinto che attraverso essa – oltre che attraverso questi nostri dibattiti, per i quali, anche quando «scendala eveniunt» – non si svilisce, ma si esalta la funzione del Parlamento, che non si trasforma affatto in una «taverna», come è piaciuto poco fa all’onorevole Pacciardi di dire – le epidermidi diventeranno via via meno dure e meno insensibili, a poco a poco rifiorirà la ipersensibilità degli uomini politici e la vita pubblica potrà moralizzarsi, ed una vita pubblica, diventata specchio terso di moralità, costituirà davvero un enorme passo fatto innanzi sulla via della ricostruzione, se, quando di ricostruzione si parla, ci riferiamo, e non possiamo non riferirci, anche, e soprattutto, a quella morale.

Secondo punto. Noto è il procedimento, maggiormente in uso nella pratica internazionale, perché si consegua l’accordo di volontà necessario per dar vita ad un trattato. Ciascuno degli Stati, che al trattato intenda partecipare, nomina suoi plenipotenziari, i quali, riunitisi, cercano di redigere un progetto, tale che possa incontrare l’approvazione dei rispettivi Stati. Se i plenipotenziari riescono in questo loro compito sottoscrivono, per accertarne il contenuto, il testo da essi redatto, e lo trasmettono agli organi competenti dei rispettivi Stati, ai quali spetta di ratificare o no l’operato dei plenipotenziari. Gli atti di ratifica vengono poi comunicati da ciascuno Stato agli altri contraenti (scambio delle ratifiche) oppure depositati presso lo Stato incaricato di raccoglierli e di ratificarli (deposito delle ratifiche). Con lo scambio o con il deposito delle ratifiche, nel modo e nel numero previsti dalla convenzione medesima, il trattato diventa impegnativo, secondo il diritto internazionale, per i soggetti fra i quali è intervenuto.

Chi legge ora l’articolo 90 del Trattato di pace con l’Italia riporta l’impressione che tali norme siano state obliate e che i suoi redattori abbiano voluto alla ratifica da parte dell’Italia assegnare un’importanza del tutto secondaria ed accessoria. Il Trattato deve essere, sì, ratificato, oltre che dalle potenze alleate ed associate, anche dall’Italia. Ma, giusta la dizione del detto articolo, «esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte degli Stati Uniti d’America, della Francia, del Regno Unito di Gran Bretagna e d’Irlanda del Nord, e dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche Socialiste».

Di deposito della ratifica da parte dell’Italia non parlandosi, sembra che tale ratifica non occorra perché il Trattato entri in vigore.

Io ho l’impressione, anzi, che il Trattato si stia già eseguendo, prima addirittura che abbia luogo il deposito delle ratifiche da parte delle potenze alleate ed associate. Le belle corazzate «Vittorio Veneto» ed « Italia », uscite dal canale di Suez, sono rientrate, agli ordini del comando alleato, in Patria per consegnarsi (vedi articolo 56 e allegato XII-A del Trattato) a chi le deve avere; la popolazione di Pola, di questa città, al cui altare accendiamo una lampada votiva che non si spegnerà, in questa città, che ci sta ora insegnando, bagliore di fiamma che si riverbera su tutta la Penisola, come si debba amare l’Italia – lascia (vedi articolo 19 e seguenti del Trattato) l’accogliente intimità della casa, i giardini ed il Foro, il Castello e lo Zaro, luoghi cari ed insostituibili, gli Sloveni della valle isontina, poiché la frontiera italiana verrà tracciata (vedi articolo 13 ed allegato V) entro lo stesso abitato di Gorizia, cercano rifugio in Italia, e si è già recata a Roma (vedi allegato X) la Commissione di studio inviata a Trieste dalle quattro grandi Potenze per esaminare i problemi economici del futuro «territorio libero» e per fare, poi, al Consiglio dei quattro Ministri degli esteri raccomandazioni circa il futuro regime monetario, finanziario, commerciale ed industriale, a quel «territorio» più adatto.

Non poteva ciò non essere tenuto presente dal Presidente del Consiglio, il quale avrebbe dovuto sempre pensare essere per lo meno possibile – data la dizione dell’articolo 90 del trattato – che per l’entrata in vigore dello stesso la firma, malgrado ogni riserva diplomatica, fosse «tutto» e la ratifica, anche se ampia ed esauriente, «nulla».

E di fronte a tale possibilità avrebbe dovuto ascoltare la parola dell’Assemblea. Avrebbe forse, col senso di equilibrio, che è nota caratteristica del suo temperamento, sottolineando e valorizzando motivi di prudenza e di preoccupazione (mero carattere formale della firma, possibilità di un peggioramento delle condizioni di pace, preclusione dell’Italia dai rapporti internazionali, rifiuto di crediti e di rifornimenti da parte degli alleati, prolungamento della occupazione militare alleata, ecc.), finito col convincerla della necessità o della opportunità della firma; ma avrebbe dovuto ascoltarla.

L’Assemblea è stata eletta anche per dire, in un’ora veramente drammatica della storia del Paese, la sua parola – alta, solenne, ammonitrice – proprio in merito al Trattato di pace senza pace; a questo complesso di clausole non proposte, ma imposte incondizionatamente, tutte unilateralmente decise e tutte inspirate dal desiderio di umiliarci.

Ma il Presidente del Consiglio non le ha purtroppo permesso di dirla.

Sono anche io profondamente convinto che l’onorevole De Gasperi, vivamente sollecito delle sorti del Paese, si fa sempre guidare, durante la sua via, da un immenso amor di Patria. Ma che per ciò? In regime di democrazia è il popolo, non il Capo del Governo, che deve pronunciarsi, a meno che non abbia egli ritenuto esatto, portandolo alle ultime conseguenze, quanto, a proposito dei rappresentanti del popolo, diceva Rousseau: «Un popolo, che ha dei rappresentanti, cessa di essere rappresentato».

È pure vero che l’articolo 3 del decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98, demanda alla Costituente la formazione delle leggi di «approvazione» dei Trattati, il che potrebbe far pensare che la Costituente debba solo «ratificare» i trattati. Senonché, se anche questo fosse esatto, ove si fosse tenuta presente la ricordata disposizione dell’articolo 90 del Trattato, l’Assemblea avrebbe dovuto sempre essere ascoltata, non potendosi porre in dubbio che il legislatore volle all’Assemblea dare, in materia, un compito sostanziale e non puramente formale.

Desidero, infine, ricordare che, quando il 15 luglio 1946 ebbe ad esporre altro programma di Governo, l’onorevole De Gasperi, trattando della politica estera, disse giustamente dover essere di chiara e ferma difesa del diritto dell’Italia ad una pace giusta ed onesta e testualmente aggiunse: «Il Governo dichiara che non impegnerà la sua parola prima di aver consultato la Costituente». Ma le parole le porta via il vento, come gli stornelli, anche se sono quelle di un Capo di Governo: il Governo si è assunta la responsabilità di quello che è stato fatto, senza avere consultato la Costituente.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma è stato detto: subordinatamente alla ratifica della Costituente.

COLITTO. Ciò vale quanto una riserva mentale.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. No, non mentale; ma scritta ed accettata dagli Alleati.

COLITTO. Ma ora la cosa è fatta. Le recriminazioni forse non giovano. Levata con dignitosa fermezza la protesta, non possiamo non unirci all’onorevole De Gasperi nell’augurarci che le grandi potenze, con la ratifica o senza la ratifica, non dimenticando l’insopprimibile primato dello spirito italiano ed imitando quel nobile Paese che è la Repubblica Argentina, sempre in prima linea al nostro fianco in questo angoscioso periodo, per cui sento di inviare ad Esso il mio modesto, ma vivissimo ringraziamento, si convincano della necessità di rivedere quello che è stato fatto, modificando le clausole, che offendono non solo la dignità della nostra Italia – di questa terra di santi e di condottieri, di artisti e di scienziati, che ha illuminato il mondo per secoli e secoli – ma la coscienza morale e giuridica dei popoli tutti. Io sono convinto, senza peraltro abbandonarmi ad un ottimismo, che sarebbe imprudente, che ciò si verificherà, tanto più se sapremo comportarci in guisa che il mondo veramente democratico veda in noi un popolo, che, non abbattuto, ma tonificato dalla sciagura, si è posto a lavorare per ricostruire e può, quindi, continuare ad essere elemento di armonia non trascurabile nel quadro delle potenze, in questo mondo, pervaso, come è stato giustamente scritto, da una inquietudine tormentosa ed affannosa, un popolo, che sa conciliare il rispetto sommo dell’individuo, considerato inviolabile nella sua eterna finalità, con il senso della socialità umana, un popolo, che abbia come suoi ideali etico-politici la libertà, che trova il suo equilibrio nella giustizia, e la giustizia, che non può essere piena, se dalla libertà non scaturisce. Ciò si verificherà: riconquisterà l’Italia, reinserendosi nel circolo economico mondiale, la sua unità nazionale, territoriale e spirituale, e, soprattutto, il suo prestigio. I nostri cuori sono profondamente fiduciosi.

Nell’attraversare la linea che il passato divide dal futuro, bisogna riconoscere che l’attivo supera il passivo. Imperversa, sì, un sorridente doppio giuoco – ricordate i «sì» ed i «no» di ieri dell’onorevole Nenni – nel tentativo di minare alle basi lo sforzo di rinascita. Certe tregue, in mancanza di una sincera volontà di collaborazione tra i partiti, restano pie intenzioni, che minacciano di lastricare l’inferno della ripresa politica; si pronunziano paroline, più o meno vermiglie, contro altissimi magistrati, contro l’esercito, contro tutta l’Amministrazione dello Stato; ma, malgrado le calamità enormi della politica, solo per merito dell’iniziativa privata (parlando della quale, penso agli agricoltori, ai ceti medi, alla borghesia, ai lavoratori in genere, a quanti con la vanga, fra le macchine e nelle libere professioni servono la Patria), siamo oggi, in fatto di produzione e di ricostruzione, al primo posto in Europa.

Per la resurrezione – verso la quale, con la nostra capacità produttiva rimasta intatta, virilmente e consapevolmente ci siamo avviati – le grandi potenze – ne è segno manifesto il recente viaggio in America dell’onorevole De Gasperi – sicuramente ci aiuteranno; ma tutto rinascerà e tutto rifiorirà anche per virtù innata di nostra gente, anche per la energia spirituale della nostra civiltà, anche per uno di quei non infrequenti miracoli di amore, che, nella terra cantata da Dante e benedetta da San Francesco, sono sorgenti di vita, lievito di ascesa, ala magnifica di inarrestabile volo. (Applausi a destra).

(La seduta, sospesa alle 17.35, è ripresa alle 17.55).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Togliatti. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Signor Presidente, signore, onorevoli colleghi, mi hanno detto, e i vecchi conoscitori dei costumi di queste assemblee perdonino a me, tra gli ultimi venuti e certamente, quindi, ancora inesperto navigatore di questo mare, perdonino se la cosa non è esatta, mi hanno detto, ripeto, che sarebbe buona consuetudine parlamentare, quando ha luogo una crisi di governo e il nuovo governo si presenta all’Assemblea ed espone il proprio programma, che sarebbe buona consuetudine parlamentare occuparsi, non, come sembra che qualcuno dei nostri colleghi alle volte sia tentato di fare, di tutto un po’ e di qualsiasi cosa, non di tutte le cose possibili, insomma, ma soltanto ed essenzialmente di due cose: del modo come il governo è stato fatto, cioè del modo come la crisi governativa è sorta, è stata impostata, condotta, risolta, e del programma governativo.

Cercherò di occuparmi esclusivamente di queste cose, e cercherò di farlo il più brevemente che mi sarà possibile, anche perché mi pare che la discussione ormai sia giunta o stia giungendo al suo termine.

Una crisi di governo è sempre una cosa importante nella vita di un Paese, e specialmente di un Paese che vuole essere democratico. Non è un atto di ordinaria amministrazione, è un atto politico importante, il quale si deve giustificare, se non storicamente, per lo meno politicamente. E in sostanza è questa giustificazione che la nostra Assemblea, nel corso di questa discussione, sta cercando, e la sta cercando non soltanto per sé, ma per il Paese; perché il Paese stesso deve conoscere, perché una crisi c’è stata, perché un nuovo governo è stato formato, deve sapere, cioè, come si sviluppa la vita politica alla sommità delle istituzioni democratiche.

Comincerò, dunque, con il programma, che dovrebbe essere la cosa più importante, la pietra di paragone di questa nostra discussione, il punto di orientamento di tutto il nostro dibattito. Ora, ho confrontato il programma di questo governo col programma presentato dal governo precedente, anzi, dai due precedenti governi presieduti dall’onorevole De Gasperi, dopo la istaurazione del regime repubblicano, e ho trovato che differenze sostanziali non ce ne sono. Vi sono delle messe a punto, utili, apprezzabili; vi è qualche problema nuovo, concreto, che affiora ed è bene che vi sia; vi è una maggiore concretezza di formulazione, di esigenze, di rivendicazioni. Tutto questo è bene; le cose essenziali però, nella sostanza, si ripetono.

Si parlava, allora, di consigli di gestione, della necessità di avere una legge, la quale regoli questo importantissimo nuovo campo di attività delle masse lavoratrici e delle loro organizzazioni per il controllo della produzione; si parla dei consigli di gestione oggi.

Credo si parlasse già allora del lodo sulla mezzadria e della necessità che s’imponeva, per dare pace alle nostre campagne, di trasformare questo lodo in una legge. Adesso, la stessa cosa viene ripetuta.

Si parlava di introdurre nella direzione della vita economica del nostro Paese elementi di un piano direttore: lo si ripete adesso.

E non voglio continuare, perché è chiaro che, se queste e altre cose si ripetono, è perché non sono state fatte; e se non sono state fatte, onorevoli colleghi, forse, l’esposizione dei motivi per cui ciò è avvenuto potete trovarla in modo abbastanza chiaro nel discorso che io feci qui nel mese di luglio, quando il primo governo repubblicano dell’onorevole De Gasperi si presentò a noi e io gli dissi:

«Applicate il vostro programma»; ma, espressi il dubbio che, nella applicazione, sarebbero sorti seri ostacoli, che era necessario avere dell’energia per superare.

Ad ogni modo, è certo che se tutte queste cose si ripetono, vuol dire che non sono state fatte, e in questo si trova, senza dubbio, la migliore, anzi l’unica giustificazione della posizione che il nostro Partito ha avuto nei confronti del governo, all’interno e fuori di esso, nel corso degli ultimi mesi, posizione che ha voluto essere qualificata come doppio giuoco; ma doppio giuoco non era, in quanto era sempre ed esclusivamente un richiamo al programma governativo, alla necessità di applicarlo, cioè alla necessità che il governo desse prova di quella energia che è necessario che un governo abbia, quando ha davanti a sé un programma di quell’ampiezza, per la realizzazione del quale si è impegnato.

Non nego che nell’attuale programma governativo vi siano cose nuove, e l’ho già detto. Ve ne sono nel campo agrario, ve ne sono in vari altri campi di attività governativa. Cose nuove, proposte nuove che corrispondono senza dubbio a problemi nuovi, maturati dallo sviluppo stesso delle cose. Ripeto che è bene che queste cose nuove ci siano nel programma di questo governo e noi salutiamo il fatto che ci siano: esse dovevano esserci.

Mi sembra però, – o almeno rimane in me il dubbio – che queste cose nuove sono tutte tali che potevano essere inserite in un piano di lavoro governativo, senza che per fare ciò fosse necessaria una crisi di governo. Mi sembra, cioè, che l’onorevole Presidente del Consiglio non avrebbe trovato nella composizione precedente del suo governo un ostacolo a realizzare quelle cose nuove che egli ha inserito nel programma attuale.

L’esame del programma, quindi, non ci dà la chiave di cui abbiamo bisogno e che andiamo cercando; non ci dà la spiegazione della crisi: quindi, non ci dà quella giustificazione che dobbiamo dare a noi stessi, e al Paese.

Cerchiamo altrove. Forse la chiave è da cercare nella struttura del governo. Il numero dei posti ministeriali è stato ridotto. Debbo dire che in linea di principio noi comunisti non siamo favorevoli in questo momento della vita nazionale, – e anche in generale non siamo favorevoli – alla riduzione dei posti governativi. Un governo democratico il quale voglia avvicinarsi e si avvicini a quello che deve essere, cioè un serio e competente governo delle cose, un governo di buoni amministratori, i quali abbiano realmente nelle loro mani tutte le leve di comando della pubblica amministrazione e le manovrino a seconda della volontà popolare, un governo simile non può essere un governo di pochi ministri. Deve necessariamente essere un governo di molti Ministri, appunto perché è necessario che abbia nel suo seno molte competenze, molte persone capaci non soltanto di fare della politica in generale, ma di scendere ai dettagli, di controllare tutte le ruote della pubblica amministrazione, la quale oggi ha bisogno di essere diretta in questo modo. Per questo noi – ripeto – in linea di principio non siamo favorevoli alla riduzione dei posti ministeriali. Però non è questa oggi una questione tale, per la quale si possa, non dico aprire, ma nemmeno prolungare una crisi di governo. Quando avremo noi la responsabilità di organizzare un governo democratico – ed io mi auguro che questo istante venga più presto di quanto non credano molti di voi – ebbene, dimostreremo di saper fare meglio, di saper creare un governo più efficiente, più capace di prendere nelle mani e di dirigere effettivamente tutta l’amministrazione dello Stato. Ma oggi sarebbe stato assurdo che su una questione simile noi chiedessimo di aprire una crisi di governo, o ci rifiutassimo di chiudere il più rapidamente possibile una crisi non aperta da noi.

Per il resto non vedo differenze sostanziali. Che un comunista fosse prima Ministro delle finanze e un comunista sia oggi Ministro dei lavori pubblici, non è questione di sostanza. Vorrei, anzi, dire che tra la funzione di spremere il denaro ai contribuenti e quella di elargire il denaro per uso pubblico alle pubbliche amministrazioni, preferisco la seconda funzione; mi sembra sia meno antipatica. Ad ogni modo, neanche questo è un problema sostanziale. Così come per l’assistenza, una volta stabilito che i servizi assistenziali non devono essere ridotti – e su questo punto vi è una formale assicurazione del Presidente del Consiglio – stabilito questo, che esista una amministrazione centralizzata nelle mani di un Ministro o che esistano un contributo di diverse parti dell’amministrazione dello Stato e un controllo centralizzato che è in mano ad un Sottosegretario, per l’occasione comunista, diretto dal Presidente del Consiglio, è questa pure questione sulla quale si possono avere opinioni diverse, ma sulla quale nessun uomo ragionevole vorrà aprire o rifiutarsi di chiudere una crisi di governo, soprattutto, poi, quando, se si guarda agli uomini, e al peso relativo delle differenti correnti politiche nella precedente formazione governativa e in quella attuale, si trova che una differenza quasi non esiste. Anche qui, dunque, non riesco a trovare la spiegazione della crisi, né il motivo che la giustifichi.

E necessario che saliamo, o se volete, che scendiamo all’ambito della pura politica, ma anche qui non sarà facile muoversi, perché in realtà questa crisi non l’ha aperta questa Assemblea. Questa Assemblea non ha mai espresso un voto di sfiducia al precedente Governo presieduto dall’onorevole De Gasperi. La crisi è sorta al di fuori di noi. È, quindi, difficile per noi andare individuando fra le diverse interpretazioni che affiorano nei diversi organi dell’opinione pubblica, organizzata o non organizzata in partiti politici, quali sono le interpretazioni accettabili e quelle non degne di essere accettate.

Si è detto: la crisi sarebbe stata fatta, – e qui questa opinione è stata ripetuta – per tentar di escludere dalla direzione politica del Paese gli uomini del Partito comunista. In realtà, questa rivendicazione fu in modo chiaro, preciso, netto, ultimativo vorrei dire, quantunque il termine mi pare non si adatti a questo caso, presentata solo dai liberali, in qualche risoluzione o articolo dei loro giornali. Ed effettivamente esagererei se dicessi che quelle manifestazioni letterarie, chiamiamole così, del Partito liberale avessero preoccupato il nostro partito. E questo per due motivi. Il primo è che esse avevano luogo in un momento in cui per cento e più ragioni avevamo diritto di credere che l’opinione del Paese democraticamente espressa non si orientava contro di noi, ma a nostro favore. Cento e più ragioni, ho detto, e ve ne citerò una sola: il risultato delle elezioni del 10 novembre, le quali dettero smaglianti vittorie al nostro partito in tutti i grandi centri capoluoghi di Regione e di Provincia, che misero alla testa delle amministrazioni comunali delle più importanti città d’Italia maggioranze di comunisti alleati con i socialisti e sindaci comunisti, e li misero alla testa di queste amministrazioni in modo perfettamente legale e democratico.

Non abbiamo conquistato nessun Comune, signori della destra, come fecero i vostri predecessori, cacciandone le amministrazioni socialiste e comuniste nel periodo dal 1920 al 1923, con latte di benzina e dando l’assalto ai palazzi comunali. (Applausi a sinistra – Rumori a destra).

PATRICOLO. Quelli erano i vostri predecessori!

(Rumori a sinistra – Interruzioni).

BENEDETTINI. Misurate le parole. Le provocazioni non vengono da questo settore.

TOGLIATTI. Questo era il primo motivo pel quale non avevamo ragione per esageratamente preoccuparci delle manifestazioni del Partito liberale. Il secondo motivo era anche quello – e sia detto senza mancare di rispetto a questo partito – che esso sta diventando qualche cosa, che ha più del folcloristico che non della forza effettiva, reale.

Soltanto da questa parte venne la rivendicazione aperta ed esplicita di escludere noi dalla direzione politica del Paese. Non venne dall’onorevole De Gasperi. Devo dire che nel primo colloquio che, incaricato dal mio partito, io ebbi con l’onorevole De Gasperi chiamato dal Capo del Governo a preparare la costituzione del nuovo governo, l’onorevole De Gasperi, apertamente, sinceramente mi disse che non era in lui nessuna di queste intenzioni. Comprenderete che sarebbe stato non soltanto scortese, ma anche poco politico da parte mia non prestargli fede, e voglio aggiungere che ho già dato tanti di quei dispiaceri all’onorevole De Gasperi…

Una voce. Grattacapi!…

TOGLIATTI. …grattacapi, se volete, che in quel momento ritenni sarebbe stato anche inopportuno ricordargli, e ricordargli proprio in quel momento, la favola, che voi tutti conoscete, della volpe e dell’uva. Forse, se volete, possiamo ricordargliela qui ora, e non a scopo di scherzo, intendiamoci, ma per indicare che qualche cosa effettivamente di serio è avvenuto nella vita politica italiana nel corso degli ultimi mesi: un movimento, o un tentativo di movimento, il quale non è riuscito ad arrivare a una conclusione. Infatti, in un momento determinato abbiamo visto il partito della Democrazia Cristiana, col quale noi collaboravamo nel Governo, mettersi alla testa, oppure aderire alla cosiddetta campagna anticomunista, e sviluppare questa campagna, come essa può essere sviluppata, direi quasi senza misurare i colpi. Dopo che, a partire dal discorso nella Basilica di Massenzio fino al mese di gennaio, questa campagna si era così ampiamente sviluppata, era logico che l’opinione pubblica si attendesse che una conclusione politica venisse ricavata da tutto ciò che era stato detto e stampato. Questa conclusione politica invece non è stata ricavata; forse non ha potuto essere ricavata; forse non può essere ricavata. Nel momento cioè in cui l’azione avrebbe dovuto concludersi, il movimento si è arrestato, la velleità non ha potuto diventare volontà, il proposito non ha potuto tradursi in fatto politico.

E qui siamo arrivati veramente al nocciolo della questione; siamo arrivati a definire questa crisi, non come una crisi di questa Assemblea, forse nemmeno come una crisi di quella formazione governativa che prima esisteva e oggi si riproduce su quei banchi, ma una crisi vera e propria soltanto del partito della Democrazia cristiana, crisi delle sue contradizioni, dei suoi dubbi, delle sue incertezze, dei suoi casi di coscienza, e se permettete, anche dell’incapacità di questo partito di afferrare quali sono i termini veri del problema politico italiano di oggi, di afferarli con spirito di realtà e condurre una azione conseguente con le necessità della situazione, dando una soluzione giusta, democratica, repubblicana, coerente con se stessa, al problema che sta davanti a voi, davanti a noi, davanti all’Assemblea e davanti a tutto il Paese, che è quello di dare al Paese una direzione la quale corrisponda alla volontà della maggioranza.

E qui sono arrivato non soltanto al nocciolo della crisi, ma al nocciolo di tutta la situazione italiana, delle sue incertezze, della sua instabilità e anche dei suoi pericoli.

Che cosa è, parlamentarmente, una crisi di governo? Mi pare che essa non sia altro che la ricerca di una maggioranza. Ora, in un’Assemblea come questa, dove siedono 557 deputati divisi in un numero considerevole di partiti, è evidente che le maggioranze possono essere molte: vi può essere una maggioranza di sinistra e del centro, del centro e della destra, ed anche altre ipotesi possono essere fatte, anche altre combinazioni sono possibili. Badate, però, se in astratto tutte le maggioranze sono possibili in un’Assemblea come questa, in realtà esiste una sola maggioranza, la quale sia una maggioranza democratica. È democratica soltanto quella maggioranza che corrisponde alla maggioranza che esiste nel Paese, a quel blocco di forze, unite intorno a comuni aspirazioni e rivendicazioni, a comune necessità politiche ed economiche, che esiste nella realtà della nostra vita nazionale di oggi. Soltanto la maggioranza che corrisponde a questo blocco è una maggioranza democratica, una maggioranza legittima e, oltre che possibile, vitale e direi necessaria.

L’amico onorevole Molè parlava della unione degli affini. Questa è l’unione degli affini, quella che io chiamo la maggioranza democratica. Ma chi sono gli affini? Questo è il problema. Il problema è di scoprire chi sono gli affini. Ma, a questo scopo credo sia necessario e sufficiente guardare come si sono schierate le masse elettorali quando esse si sono pronunciate, cioè come si è espressa liberamente la volontà popolare. Ebbene, voi, colleghi del partito della Democrazia cristiana, avete fatto la campagna elettorale, sì, combattendo contro di noi, però, in pari tempo, avete fatto la campagna elettorale con alcune parole d’ordine che io ricordo molto bene e che ricordiamo tutti noi. Voi avete detto, approssimativamente: «Il vecchio ordinamento sociale capitalista è morto»; avete detto: «Bisogna creare un ordinamento sociale nuovo, un ordinamento politico ed economico, il quale tenga conto essenzialmente e in prima linea degli interessi del lavoro e delle masse lavoratrici»; avete detto: «Bisogna svecchiare l’Italia, bisogna distruggere i residui feudali, i residui di vecchi regimi, i residui fascisti»; avete detto: «Bisogna distruggere le possibilità di una rinascita del fascismo e per questo occorre organizzare in modo nuovo tutta la vita nazionale». Avete parlato, come noi, di nazionalizzazione; avete parlato, come noi, di riforma agraria; avete parlato, come noi, di leggi contro la speculazione e degli interessi delle masse consumatrici; avete detto, come noi, che bisogna spezzare la dittatura della ricchezza; avete parlato come noi, di libertà, di pace, di giustizia sociale.

Una voce al centro. Siete voi che avete parlato come noi!

TOGLIATTI. Questo avete detto voi, questo abbiamo detto noi, questo hanno detto i nostri compagni socialisti, del partito che ci è alleato e della nuova tendenza attualmente delineatasi e distaccatasi. Ecco, quindi, l’affinità, ecco gli affini ed ecco la maggioranza che si è determinata prima che in questa Assemblea, negli schieramenti del Paese; la maggioranza, che ha dato, credo, più di 15-16 o 17 milioni di voti a tre grandi partiti, i quali, quando hanno affrontato, non la polemica reciproca (la quale è sempre elemento necessario della lotta elettorale), ma i problemi di fondo, hanno sentito che di fronte alle masse, parlavano un linguaggio non sostanzialmente diverso.

E allora queste cose, che noi abbiamo dette, che i socialisti hanno dette e che voi, democristiani, avete dette, si tratta di realizzarle. Lo faremo? Lo farete? Daremo, ciascuno di noi, nell’ambito e nella misura delle nostre forze, il contributo che dobbiamo dare, voi, come partito oggi più numeroso e, quindi, legittimamente dirigente, noi, con l’apporto delle forze nostre ed i socialisti con l’apporto delle loro, daremo il contributo che è necessario, affinché un programma concreto rispondente a quelle affermazioni generali sia realizzato, daremo tutti questo contributo, lavoreremo alla realizzazione di questo programma? Allora non vi sarà crisi né in questa Assemblea, né nel Governo, né nel Paese.

Ma se non lo faremo, e se, particolarmente, voi verrete meno al compito che vi spetta, come il partito più numeroso e più forte, di dirigere l’azione di governo necessaria per la realizzazione di questo programma, allora sarete in permanente crisi voi, sarà in permanente crisi questa Assemblea, sarà in permanente crisi il Governo, sarà in permanente crisi il nostro Paese, e sarà inutile gridare che tutto questo sia conseguenza di un nostro preteso doppio giuoco, perché sarà invece unicamente la conseguenza del fatto che sarà stato reso impossibile a quella maggioranza, che nel Paese esiste, di governare o di vedere governato il Paese, a seconda della propria volontà e delle proprie aspirazioni democraticamente espresse.

Se poi cercherete di escludere noi dalla direzione politica del Paese – a parte che io credo che non ci riuscirete – farete opera antidemocratica, perché contribuirete a spezzare quella maggioranza democratica, la quale è la sola maggioranza legittima, che esista nel Paese, e possa esistere nell’Assemblea che lo rappresenta.

Onorevoli colleghi, questo, e solo questo intendevamo dire noi, quando abbiamo dichiarato nel corso della crisi che vedevamo con ostilità la formazione d’un governo, non solo, che escludesse noi e fosse costituito d’un blocco del partito democratico cristiano con altri partiti; ma anche d’un governo costituito esclusivamente dal partito democratico cristiano; perché giudicavamo e giudichiamo che la costituzione di un simile governo sarebbe stata antidemocratica, avrebbe recato danno alla democrazia, sarebbe stato un tentativo di spezzare quel processo di organizzazione della democrazia italiana, che, invece, è in corso e che deve essere in tutti i modi facilitato sopra una base unitaria.

Questo, e solo questo vogliamo dire, quando conduciamo la nostra lotta contro il cosiddetto «anticomunismo», il quale tende precisamente a escludere da questa maggioranza, che è la sola legittima, quell’ala, che è la più energica, la più consapevole, la più democratica, l’ala di coloro che rappresentano in modo preminente la classe operaia e le classi lavoratrici ad essa più vicine.

Questo, e solo questo noi vogliamo dire quando affermiamo e ripetiamo che un governo il quale voglia essere solido non può essere altro che un governo fondato su quell’asse fondamentale del «tripartito», che noi consideriamo non come una formula aritmetica o puramente parlamentare, ma come una formula politica derivante da una situazione reale, risultante dal confluire inevitabile di forze che tendono ad obiettivi analoghi o comuni.

Per questo la situazione che sta davanti a noi è diversa sostanzialmente da quella situazione a cui si riferiva il collega Pietro Nenni ieri, alla situazione dei primi decenni di sviluppo del socialismo, quando i nostri predecessori socialisti, trovandosi a scegliere fra Giolitti e Sonnino, giustamente, si può dire, preferivano Giolitti. La differenza fra quella situazione e quella di oggi, sta nel fatto che, se è verissimo che la maggioranza giolittiana di allora era, e il partito democristiano di oggi è, un blocco di forze eterogenee; se è verissimo che una parte delle forze di destra del blocco giolittiano di allora, corrisponde alle forze di destra del blocco attuale democristiano, è vero d’altra parte che nel partito democristiano vi sono forze le quali rappresentano masse lavoratrici sostanzialmente non differenti da quelle che seguono noi e il partito socialista, e unite alle masse nostre se non da una identità completa, per lo meno da una profonda comunità di rivendicazioni, di aspirazioni, e vorrei dire anche di ideali.

Questo è il risultato, del resto, di un lungo processo storico che oggi giunge alla sua conclusione. Da una parte sono arrivati ad essere grandi partiti che si affermano come partiti dirigenti nazionali, come partiti di Governo, le forze del socialismo, noi, il Partito socialista, il nuovo Partito socialista; e dall’altra parte è arrivato a maturazione il movimento sociale cattolico, il quale esso pure ebbe nei suoi primi momenti carattere democratico e sociale – la sua denominazione stessa lo dice – anche se in determinati periodi del suo sviluppo non riuscì ad adempiere una effettiva funzione progressiva e democratica nella vita nazionale.

Le convergenze tra queste due correnti furono nel passato molteplici. Tanto il movimento sociale cristiano quanto il movimento operaio socialista rappresentarono la stessa ribellione di masse lavoratrici contro il vecchio ordinamento che potremmo chiamare, tanto per intenderci, liberale; la stessa convergenza si notò nel giudizio della guerra del 1915-1918. E vi è una inevitabile convergenza oggi. Oggi, che quel vecchio ordinamento politico è crollato sotto il peso fatale degli errori delle vecchie classi dirigenti capitalistiche, liberali, conservatrici, reazionarie, errori diventati nello sviluppo storico, i delitti del regime fascista e della monarchia che ci hanno portato alla rovina, oggi spetta alle due grandi correnti di cui parlo ricostruire, anzi creare un’Italia nuova.

Per assolvere a questo compito è indispensabile che i Partiti, i quali sono filiazione diretta di queste correnti, si uniscano e collaborino stabilmente. Ed è per questo che il tripartito non è soltanto una formula matrimoniale o parlamentare, non è una tendenza occasionale, non è, né una coabitazione forzata, né un matrimonio di convenienza: ma è un blocco di forze storicamente e politicamente determinato, di forze le quali sanno, o per lo meno devono acquistare la consapevolezza che nella situazione concreta odierna di questo Paese, e nelle circostanze che attraversiamo e che abbracciano un periodo di tempo abbastanza lungo, esse hanno un lungo tratto di strada da percorrere in comune, un compito comune non contingente, né occasionale, ma un compito storico che debbono assolvere insieme, se vogliono tener fede alla loro ispirazione originaria, allo stato d’animo, agli ideali delle masse che li seguono, se vogliono tener fede, insomma, alle loro parole e ai loro programmi.

Ed ecco, onorevoli colleghi, il tema vero di questa crisi, il tema vero delle polemiche che l’hanno preceduta, il tema vero della precedente crisi che portò alla eliminazione dal Governo del Ministro liberale Corbino. Ecco il tema vero della politica italiana. Fino a che questa esigenza di collaborazione e unità tra le forze sociali e politiche che ho indicato non verrà sodisfatta, fino a che questa convergenza ideale e politica non diventerà una realtà nell’azione di Governo, una realtà nella direzione della vita politica ed economica del Paese, fino ad allora crisi come queste potremo sempre averne.

Ma se conveniamo, e credo non si possa non convenire, sulla necessità storica e politica di questa convergenza e collaborazione, siamo ora tratti a domandarci, colleghi della Democrazia cristiana e degli altri settori, che cosa può fare ostacolo ad esse, ostacolo alla creazione di una solida unità fra partiti che hanno programmi analoghi di rinnovamento economico, politico e sociale? Forse possono fare ostacolo le divergenze ideologiche? Non credo. Se guardo intorno a me in questa Assemblea vedo tante posizioni ideologiche diverse che ne rimango sbalordito. Dall’idealismo assoluto dell’onorevole Senatore Benedetto Croce, scusate, dell’avvocato Leone, Cattani che lo ha sostituito…

Una voce. Non ancora.

TOGLIATTI …no? Me ne compiaccio; avremmo perduto troppo nel cambio (Si ride); dall’idealismo, dunque, del Senatore Croce fino al razionalismo religioso dell’onorevole Gonella; dal liberalismo puro del professore onorevole Einaudi, all’eclettismo non sempre puro del collega Meuccio Ruini (Si ride); dal repubblicanesimo conservatore dell’onorevole Conti, al mazzinianesimo progressivo dell’onorevole Pacciardi; dalla democrazia conseguente di Emilio Lussu alla nuova demagogia, non sempre conseguente, del commediografo Giannini (Si ride), le posizioni ideologiche diverse sono così numerose che, se mi pongo dal punto di vista della ideologia, vedo una quantità di fossati dividere questa Assemblea. Vogliamo noi che ognuno di questi fossati diventi una trincea dietro la quale ci dovremmo combattere? Se volessimo fare così, è certo che non riusciremmo mai a dare un contributo effettivo alla creazione di una vera, solida, seria, direzione politica, democratica e repubblicana, nel nostro Paese.

Che cosa può impedire allora la creazione di questa unità, di cui io rivendico la necessità? Motivi forse di indole religiosa? Non credo nemmeno a questo.

L’onorevole De Gasperi, durante il suo viaggio negli Stati Uniti, parlò del nostro partito come di un partito il quale rivendicherebbe la libertà di lottare contro il cristianesimo. Comprendo il lapsus (e glielo perdono, perché immagino quanto egli sia stato assediato laggiù dai giornalisti); vorrei, anzi, aggiungere che quasi me ne compiaccio, se esso significa che l’onorevole De Gasperi ha voluto rendere una piccola bugia agli americani che ce ne mandano tante attraverso le loro agenzie di stampa e i loro giornali (Si ride). Però è bene ricordare che la bugia non è democratica ed è meglio dire le cose come stanno: che noi, cioè, non rivendichiamo affatto la libertà di lottare contro il cristianesimo: noi desideriamo la pace religiosa del nostro Paese e abbiamo già dimostrato di saper dare tutti i contributi che sono necessarî, perché questa pace religiosa non venga turbata. (Commenti al centro). Qualora da tutte le parti fossero stati dati gli stessi contributi, questi problemi non ci preoccuperebbero molto.

Riconosco però che le questioni di indole religiosa possono, sì, presentare qualche difficoltà per la soluzione del problema politico generale da me posto in precedenza; possono rendere difficile la realizzazione di quell’unità che ci è necessaria.

Io ho in proposito un’esperienza: l’esperienza del lavoro della Commissione e delle Sottocommissioni per la Costituzione, dove effettivamente, quando ci mettemmo a lavorare con alcuni colleghi della Democrazia cristiana per trovare insieme formule costituzionali che esprimessero, da un lato, l’esigenza comune a noi e ai democratici cristiani di rivendicare i diritti della persona umana, e, dall’altro, l’esigenza che sentivamo altrettanto comune dell’affermazione dei nuovi diritti sociali dell’uomo e del cittadino, trovammo l’accordo senza eccessiva difficoltà. Ci accorgemmo però, ad un certo punto, che il risultato raggiunto stava per perdersi e, in gran parte, infatti, fu perduto e ciò avvenne quando urtammo contro un grave problema: quello dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, quando cioè venimmo a discutere della questione dei Patti del Laterano e del Concordato, cioè degli strumenti con i quali lo Stato italiano e la Chiesa cattolica hanno regolato i loro rapporti.

Ma è veramente insuperabile la difficoltà che esiste in questo campo? Io non lo credo. Ne discuteremo quando verremo a quei capitoli della nuova Costituzione italiana. Mi permettano però gli onorevoli colleghi di fare una osservazione preliminare puramente politica. Esiste per noi una difficoltà consistente nel fatto che alcune clausole del Concordato urtano contro determinate esigenze della nostra coscienza civile. Abbiamo però sentito dire che non esistono neanche in questo campo difficoltà insuperabili. Non è d’altra parte in noi nessun desiderio di distruggere i risultati, che consideriamo definitivi, dell’opera di pacificazione religiosa, la quale ha, senza dubbio, fatto grandi passi in avanti con i Patti Lateranensi. Però io vorrei dire che forse questo problema sarebbe stato già risolto, anzi eliminato, non costituirebbe cioè più un ostacolo per nessuno, se negli anni dopo la liberazione non ci fosse stato alla testa del Governo il Capo della Democrazia cristiana, ma ci fosse stato un uomo democratico senza altri aggettivi, il quale avrebbe probabilmente compreso che la democrazia italiana non ha alcun interesse a riaprire problemi che già sono stati chiusi, ed ha anzi interesse a dimostrare, direi solennemente, che essa vuole che questi problemi rimangano per sempre chiusi, affinché la pace religiosa in Italia non sia turbata. Un uomo politico che fosse stato democratico senza altri aggettivi, avrebbe forse trovato la strada per fare quello che è necessario fare e che un giorno dovremo fare. Non parlo adesso dei ritocchi che possono essere discussi, trattati, accettati o no, ma essenzialmente di cambiare la firma che è sotto quei Patti, in modo che al posto di quello che per noi italiani è qualche cosa di infamante, la firma del fascismo, ci sia invece la firma della Repubblica Italiana, della nuova democrazia italiana, la quale è capace di assumersi molto più seriamente del fascismo l’impegno di realizzare stabilmente e di difendere la pace religiosa in Italia. (Applausi a sinistra).

Ci si trova cioè davanti a una difficoltà superabile e che se avessimo avuto una diversa iniziativa politica alla testa del Governo, sarebbe forse già stata superata.

Ad ogni modo nemmeno qui, nemmeno nelle questioni di indole religiosa, trovo qualche cosa che possa fare ostacolo al raggiungimento di quella unità che noi auspichiamo come base solida, incrollabile, di un Governo democratico rinnovatore.

Vediamo. Forse possono fare ostacolo le nostre concezioni generali e in particolare la concezione che noi abbiamo o avremmo della democrazia?

Desidero discutere, pacatamente, anche di questo problema, e non in tono esclusivamente polemico, perché questo lo abbiamo già fatto cento volte, e tutto il popolo è già illuminato a questo proposito. Noi siamo fra i partiti di questa Assemblea forse il solo partito che non può rimproverarsi nessun compromesso, nessuna fornicazione di nessun genere con le correnti antidemocratiche e tiranniche che portarono il nostro Paese alla rovina. (Commenti). Parlerò però, questa volta, in senso positivo e costruttivo. A coloro che ci chiedono che cosa intendiamo per democrazia siamo disposti a dirlo sempre, affinché scompaia quell’equivoco che può rimanere quando un termine viene adoperato da due parti opposte con concezioni e significati differenti. Quando, per esempio, l’onorevole Corbino ci esalta determinati regimi che ci presenta come modelli; ebbene noi diciamo che qui vi è effettivamente un equivoco. Noi non intendiamo la democrazia come la intende l’onorevole Corbino. Per noi un regime politico e sociale in cui i mezzi di produzione e la vita economica sono soggetti alla dittatura dei grandi gruppi capitalistici, al loro potere e al loro strapotere, un regime simile non è una democrazia (Applausi a sinistra) e non lo vogliamo. Noi lottiamo e sviluppiamo tutta la nostra azione affinché la democrazia in Italia diventi qualche cosa di diverso da un regime nel quale la ricchezza, i mezzi di produzione, la vita economica, siano soggetti alla dittatura dei gruppi monopolistici del capitalismo. Ma non vi è, in questo, una differenza tra noi e voi, amici della Democrazia cristiana, se ho bene inteso il succo delle vostre dottrine.

Democrazia è un regime in cui tutte le istituzioni politiche e sociali devono avere per scopo il miglioramento sociale, morale, intellettuale e fisico della classe più numerosa e più povera della Nazione, dei lavoratori. Questo è per noi democrazia. Ma questo, se non erro, dite di volerlo anche voi.

La realtà è che noi non abbiamo ancora un regime di questo genere. Non possiamo ancora dire di avere nel nostro Paese spezzato la dittatura dei gruppi dirigenti capitalistici sopra le forze della produzione e sopra la vita economica del nostro Stato, e combattiamo perché questo avvenga, e desideriamo che le grandi masse lavoratrici si uniscano e appoggino un Governo il quale conduca una energica azione diretta a creare questo regime veramente democratico.

Ma desidero dire qualche cosa di più: anche nel campo politico c’è una differenza. Per noi non è democrazia un regime che dà la libertà ai nemici della democrazia; democrazia è un regime nel quale ai nemici della democrazia si sbarra la strada.

Una voce a destra. O con noi o contro di noi! Ma questo è totalitarismo!

TOGLIATTI. E vorrei riferirmi qui alle espressioni di un autorevole uomo politico, – naturalmente non comunista – del signor Joseph Martin, repubblicano, eletto presidente alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, il quale, nel prendere possesso della propria carica, alcune settimane or sono, pronunciava un discorso in cui è detto esattamente così: «La libertà di parola, di riunione, o quella della stampa, non devono consentire ai nemici di questo Paese, del nostro popolo, di cospirare sotto la protezione della Costituzione». Questo l’ha detto il Presidente della Camera dei rappresentanti americano.

Orbene, il nostro popolo e il nostro Paese hanno pure dei nemici e questi sono coloro che ci hanno portato alla rovina, sono il fascismo, sono la monarchia e tutti coloro i quali cercano, attraverso la loro attività aperta o clandestina…

BENEDETTINI. Questo è fascismo!

TOGLIATTI. …di riportarci per quella identica strada alle stesse conseguenze. È per questo che abbiamo appreso con animo lieto che il Governo ha messo nel suo programma una legge, non di difesa, perché la Repubblica è salda nel cuore degli italiani, ma di consolidamento del regime repubblicano. Desideriamo che sollecitamente questa promessa del Governo sia realizzata.

Quali sono dunque i motivi che potrebbero fare ostacolo alla realizzazione dell’unità di cui parlo? Forse determinate impazienze o eccessi rivoluzionari, oppure, supponiamo, esagerate esigenze provenienti da parte nostra? Bisognerà esaminare anche questo argomento, perché campagne insistenti di calunnie, di provocazioni, di diffamazione vengono condotte, su tutta la stampa cosiddetta indipendente, per suscitare la impressione che il nostro Paese sia in preda al disordine, al caos. Si parla di ondate di scioperi, e di scioperi politici che avrebbero scosso e scuoterebbero la compagine nazionale.

Ho fatto in proposito una ricerca: noi siamo il paese dove hanno luogo meno scioperi. (Commenti). Non ha avuto luogo negli ultimi anni in Italia nessuno sciopero politico.

Una voce a destra. Che cosa vuol dire?

TOGLIATTI. Vuol dire che voi mentite. Ecco tutto. Questa è la realtà. Anzi, io desidero andare più in là: siamo un Paese nel quale le organizzazioni operaie hanno firmato una tregua salariale, cioè un patto che è unico nella storia del movimento sindacale, perché è un patto nel quale non si fissa un minimo, ma un massimo di salario, cosa questa che non era mai avvenuta, perché la classe operaia ha sempre lottato per dei minimi e non ha mai accettato dei massimi.

Orbene, questo patto l’hanno accettato i nostri operai, l’hanno firmato i nostri sindacati, e l’hanno firmato senza che dall’altra parte venisse preso un impegno di osservare un massimo di prezzi.

Questo è l’assurdo della situazione economica nella quale noi viviamo: da parte delle classi lavoratrici e dei sindacati operai si danno tutti gli esempi e si compiono tutti gli atti necessari per mantenere la disciplina della produzione, l’ordine e la pace sociale, per consentire la ricostruzione, mentre dall’altra parte un pugno di speculatori economici e politici approfittano di questa situazione per cercare di scardinare le basi del regime democratico e repubblicano.

Quanto alle proposte che noi avanziamo, signori, devo ancora sentire una critica concreta a ciò che noi proponiamo da mesi e che tende a dare un primo impulso alla riorganizzazione della vita economica su basi nuove, nell’interesse prima di tutto delle masse lavoratrici più bisognose.

Non è vero che noi richiediamo nazionalizzazioni a tutto spiano: chiediamo che venga nazionalizzato, per cominciare, quello che è indispensabile nazionalizzare per risolvere problemi urgenti, inderogabili, della nostra vita economica.

Non chiediamo pianificazioni totali di tipo socialista: chiediamo soltanto che il Governo introduca elementi di pianificazione nella nostra economia necessari, se non vogliamo essere preda, tutti, dei più infami e loschi speculatori.

Guardate attorno a voi, colleghi: quasi non vi è più paese dell’Europa che oggi non lavori sulla base di piani direttivi dell’economia.

Voi che esaltate tanto l’Argentina, ebbene, anche dall’Argentina ci viene notizia che hanno impostato un piano economico per il quale si prevede la durata di tre anni.

Da noi queste cose non vengono ancora fatte; queste cose vengono dette, scritte nei programmi ministeriali; ma poi, quando si passa alla realizzazione, c’è qualcuno che ferma il braccio di chi dovrebbe realizzare questa nuova politica economica, e rimaniamo ancora nel caos, rimaniamo abbandonati agli speculatori…

Una voce a destra. Al Governo ci siete voi!

TOGLIATTI. Rimaniamo in una situazione in cui i contrasti sociali si accentuano sempre di più, i poveri diventano sempre più poveri e piccoli gruppi di ricchi diventano sempre più ricchi, e maturano pericoli per tutta la nostra compagine politica, economica, sociale.

BENEDETTI. Perché non attuate, invece di enunciare soltanto? (Interruzioni).

TOGLIATTI. Lei ha capito qualche cosa di quello che ho detto finora? Allora stia attento!

E del resto che le proposte nostre, o almeno quel nucleo di proposte nella direzione del quale noi ci muoviamo e che riassumiamo parlando della necessità di un nuovo corso di politica economica, siano la sola cosa vitale nuova che in questo campo si è affacciata in questo albore di nuova democrazia italiana, è riconosciuto anche da autorevoli fonti straniere.

Ho in mano la rivista inglese «The Economist», la quale, dopo un esame della confusione in cui vive oggi il popolo italiano, conclude:

«I dirigenti comunisti – e qui si fa il mio nome – parlano della necessità di una nuova politica economica sufficientemente moderna e tecnicamente competente, per poter tener testa a problemi quali la produttività, la politica dei prezzi e dei costi, i vantaggi e gli svantaggi competitivi dell’industria italiana con l’industria straniera. Alcuni degli uomini più giovani fra i socialisti e i comunisti accettano la necessità di un tale modo di affrontare il problema e cercano di stabilire contatti con una più ampia cerchia di uomini di buona volontà e tecnici competenti. Il loro scopo è di elaborare… un programma pratico di sviluppo economico abbastanza ampio da creare una potente coalizione di centro-sinistra, abbastanza competente per governare bene… In questo sforzo essi sperano di assicurarsi l’appoggio dell’ala sinistra della Democrazia cristiana e del piccolo, ma efficiente gruppo di uomini precedentemente uniti nel Partito d’azione. Questi inizi non sono molto più grandi del palmo di una mano, ma sono nella giusta direzione e offrono l’unica maniera democratica di avanzare verso un Governo saldo e coerente».

Naturalmente vi è qualcosa di tendenzioso in questo giudizio: non credo vi sia soltanto il palmo di una mano in una coalizione, la quale potrebbe comprendere, e senza dubbio comprenderà, tre grandi partiti, come quelli che formano la maggioranza di questa Assemblea, e sarebbe appoggiata da una forza come sono i Sindacati italiani, forza nuova, in sviluppo, piena di slancio, piena di entusiasmo, di capacità di autodisciplina e di capacità costruttive. Questo è molto più del palmo di una mano: questa è la maggioranza del popolo italiano. Ma occorre che questa maggioranza si senta rappresentata al Governo, e abbia un Governo il quale effettivamente la diriga secondo la sua volontà.

Ma forse gli ostacoli, o i dubbi, o gli inconvenienti alla realizzazione della politica che noi ci auguriamo verrebbero dal fatto che una formazione di tre partiti, come si usa dire, significherebbe dispregio per quelle formazioni democratiche intermedie che seggono sui banchi del centro sinistro? Nemmeno questo io credo. Anzi, ritengo che l’unità che noi auspichiamo è la premessa necessaria, indispensabile, per una collaborazione con questi gruppi; e che la collaborazione di questi gruppi è indispensabile per lo sviluppo stesso di questa unità.

Onorevole Molè, interrompendola ieri io le ho detto: «Ma voi siete soli dieci; i democratici cristiani sono duecento». Non vi era nessuna tinta di dispregio in questa mia osservazione, ma una constatazione di fatto; constatazione che era accompagnata in me, direi, da un certo senso di amarezza. Abbiamo effettivamente visto con amarezza sbriciolarsi alcune di quelle formazioni democratiche di sinistra, dal cui sviluppo aspettavamo qualche cosa, e lo aspettiamo ancora. Ma per questo dovete unirvi; dovete essere uniti; non dovete essere tanti gruppi quanti sono tra di voi – e sono molti – gli uomini che hanno capacità direttive; né dovete credere che serva in questo momento il giuoco dell’opposizione, la critica unicamente distruttiva, onorevole Pacciardi. No! Le vostre masse, le masse repubblicane, che sono anche per la maggioranza masse di lavoratori, come sono le nostre, come sono quelle democratiche cristiane in gran parte, come sono quelle socialiste, chiedono un’attività costruttiva. La vostra critica è bene risuoni qui; ma molto meglio sarebbe se voi foste con noi ai seggi governativi, alla testa dell’amministrazione dello Stato, per dare il vostro contributo al rinnovamento, alla ricostruzione del Paese. Lo so benissimo, alle volte anche noi abbiamo sentito il disagio di sedere al Governo – perdoni, onorevole De Gasperi! – insieme al partito democratico cristiano, per l’eccessiva presunzione delle sue forze che ha questo partito, la quale molte volte lo porta a prendere atteggiamenti non desiderabili dai propri alleati e collaboratori. Però, questo è uno di quei mali necessari, è un inconveniente, e citare un inconveniente non è ribattere un argomento. Occorre collaborare; occorre unire le forze vostre alle nostre, a quelle socialiste, alle forze progressive della Democrazia cristiana, per creare una grande unità di forze democratiche progressive repubblicane, la quale abbia la capacità di saldamente reggere le sorti del Paese e guidarlo nella sua rinascita.

BENEDETTINI. Il popolo è stufo del Comunismo! (Interruzioni – Rumori a sinistra).

TOGLIATTI. Il popolo è così stufo del Comunismo, che ha nominato sindaco di Torino un qualunquista, di Milano un liberale, di Genova un altro qualunquista, come di Bologna, di Firenze, di Livorno, di Pisa e potrei continuare per un quarto d’ora. (Applausi a sinistra).

PATRICOLO. Ci rivedremo alle prossime elezioni!

PATRISSI. Le elezioni le avete fatte col Governo nelle vostre mani.

TOGLIATTI. Onorevoli colleghi, non desidero tediarvi più a lungo. Desidero concludere. E la mia conclusione è questa: se questa necessità di unità e di rinnovamento è nelle cose ed è nell’orientamento della maggioranza del popolo, se non riusciamo a trovare argomenti che ne infirmino la necessità o mettono in dubbio la possibilità della sua realizzazione, perché non riusciamo a lavorare su questa base?

Per due motivi: da un lato vi è una resistenza crescente delle vecchie classi dirigenti, responsabili del crollo e del fallimento del Paese, una resistenza di interessi egoistici, saldamente costituiti e solidamente difesi; dall’altro lato, mi pare sia mancata alla testa della direzione politica del Paese quell’energia che deve esserci in un Governo democratico e repubblicano. Da questo derivano le cose che non vanno, e che sono molte; da questo deriva il fatto che noi segniamo il passo in molti campi, e della politica e della economia; da questo deriva il malcontento di vasti strati delle classi lavoratrici e del popolo in generale.

Un Governo democratico e repubblicano, il quale ha in questa Assemblea e sa di avere nel Paese una base così solida e sicura, deve agire con energia, deve sentire che sedere oggi al Governo vuol dire sedere ad un posto di combattimento per dirigere la grande battaglia di tutto il popolo per la risoluzione dei problemi che stanno davanti ad esso, per un rinnovamento profondo della nostra vita nazionale.

Ecco ciò che è mancato alla direzione del Governo: quella attività, quella energia, quello spirito di iniziativa, che partendo dalla sommità dovrebbero diffondersi in tutte le nostre amministrazioni, mobilitando gli incerti, rianimando gli sbandati, coloro che non hanno fede, dando fede a coloro che stanno perdendola, facendo vedere che le difficoltà sono molte, ma che siamo in grado di superarle.

E la nostra democrazia allora si svilupperebbe, gli elementi infidi verrebbero isolati, eliminati, senza che ciò significhi aprire persecuzioni che noi non desideriamo.

Il nostro esercito dovrebbe rinnovarsi. Mi permetta però, onorevole Gasparotto, una osservazione, e me la permetta l’onorevole Pacciardi, il quale ha parlato delle difficoltà di rendere repubblicani gli uffici adiacenti a quello del Ministro della guerra repubblicano e ci ha detto che tutti i generali sono monarchici.

Ebbene, io rispetto i generali monarchici che giurano fede alla Repubblica, sperando che d’ora in poi saranno repubblicani. Ma io desidero ricordare una cosa: e i nostri partigiani? Non hanno essi esperienza? Non sono essi capaci di coprire posti di responsabilità nell’organizzazione del nostro esercito? (Rumori). Questi uomini sono i soli che hanno vinto battaglie per l’Italia! Gli altri le hanno perdute! (Applausi a sinistra – Rumori a destra – Commenti).

Oggi si tratta di riorganizzare l’esercito, di rianimare i quadri e le masse di uomini che affluiscono alle nostre caserme, che cercano l’istruzione militare e anche l’istruzione politica e civile che l’esercito può e deve dare. Ebbene, i capi partigiani sono qualificati per questo compito, sono anzi i più qualificati in Italia per portare uno spirito nuovo nel nostro esercito. Perché non si aprono loro le porte dei gradi anche superiori delle gerarchie militari? Fino a che non lo faremo, vuol dire che una volontà decisa di rinnovare l’esercito non l’abbiamo. (Applausi a sinistra – Proteste, commenti a destra).

BENEDETTINI. Altro che milizia fascista! Vi farebbe comodo mettere al posto di ufficiali gente che non ha nessuna preparazione.

PRESIDENTE. La prego di non interrompere.

PATRISSI. Le interruzioni vengono anche dall’altra parte.

RODI. Onorevole Togliatti, permette una parola? Nella mia qualità di invalido di guerra esigo che si dia atto che abbiamo vinto le battaglie anche nelle formazioni regolari dell’esercito italiano.

PRESIDENTE. Onorevole Rodi, le ricordo che per chiedere la parola deve rivolgersi al Presidente dell’Assemblea e non a colui che sta svolgendo il proprio discorso.

RODI. Io ho parlato da invalido di guerra che ha combattuto nelle formazioni regolari.

TOGLIATTI. Io rendo omaggio a tutti coloro che hanno combattuto, ma qui si parla di riorganizzazione e rinnovamento dei quadri, ed allora io dico: largo anche a coloro che hanno dimostrato nei combattimenti di saper tener fede sempre alla causa della patria, alla causa della libertà e della democrazia.

RODI. Ci voleva però quell’«anche».

Una voce a sinistra. Ma dove eravate voi?

RODI. Noi non siamo andati all’estero.

SERENI, Ministro dei lavori pubblici. Noi eravamo in galera!

PATRISSI. Taccia lei, che era in galera come assassino di soldati italiani!

SERENI, Ministro dei lavori pubblici. Lei è un mentitore! (Scambio di invettive fra l’onorevole Sereni e l’onorevole Patrissi – Rumori – Vivaci proteste – Agitazione).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non mi spiego questa improvvisa eccitazione. Gli iscritti a parlare potranno esprimere le loro opinioni anche su questo problema. Non è con queste interruzioni che essi possono difendere la loro causa. Onorevole Togliatti, continui pure.

TOGLIATTI. Onorevoli colleghi, io non desidero addentrarmi più oltre in questioni particolari, anche perché mi accorgo che se lo facessi forse ripeterei cose già dette, e ben dette, da altri colleghi, forse ripeterei cose già dette da me stesso in altra occasione. Ma è quest’ultima considerazione che mi richiama ad un ultimo avvertimento. I problemi che devono essere risolti, che il Governo a grandi linee ha individuato nel suo programma che noi lo stiamo aiutando a rendere anche più concreto e preciso, non possono nella loro soluzione essere ancora rinviati. Non possiamo troppo a lungo segnare il passo. Non possiamo, noi che per un anno e mezzo siamo stati paralizzati dalla situazione interna ed internazionale creatasi per l’Italia e non abbiamo quindi potuto compiere una rapida azione rinnovatrice, come sarebbe stato necessario, subito dopo la liberazione; noi che abbiamo atteso la Costituente e promessa la Costituente al popolo per iniziare quest’opera di rinnovamento, non possiamo adesso rinviare oltre e dire: «Va bene, incominceremo dopo le elezioni», e dopo verranno altre elezioni e altre ancora. Quando si inizierà dunque quell’opera rinnovatrice che il popolo, la grande massa lavoratrice attende e reclama con tanta insistenza? Non si può rinviare tutto in eterno. E non si può rinviare prima di tutto per motivi politici, perché, badate, di ogni nostra esitazione, di ogni nostra tendenza a segnare il passo quando invece bisognerebbe marciare spediti in avanti, vi è chi approfitta: sono forze che si organizzano apertamente o non apertamente, gruppi clandestini celati dietro i loro paraventi legali, giornali che pullulano e nei quali vediamo sfacciatamente fare l’apologia del fascismo, causa della rovina del nostro Paese.

È necessario agire in questa direzione e non divergere l’attenzione pubblica o creare diversivi evocando i fantasmi del banditismo rosso dell’Emilia, che non esiste (Interruzioni – Commenti), non stimolare le tendenze di gruppi reazionari della magistratura o di altre parti dell’Amministrazione dello Stato a fare il processo a quelli che hanno liberato l’Italia, ai nostri partigiani, mentre non si è fatto ancora il processo a Graziani, traditore e criminale di guerra numero uno. Occorre, insomma, nel campo politico una energia in chi dirige il Governo, e occorre anche nel campo economico perché anche qui noi sentiamo che i vecchi gruppi capitalistici reazionari, i quali una volta già hanno dato l’Italia in preda al fascismo, perché il fascismo soddisfaceva tutti i loro interessi e difendeva tutti i loro privilegi, si preparano a dare un’altra battaglia di quel genere.

Non dobbiamo perdere tempo, ed è compito del Governo, affinché non si perda tempo, organizzare, dirigere, trascinare dietro a sé tutte quelle forze, e sono la grande maggioranza del popolo italiano, le quali vogliono e chiedono che un’azione democratica, repubblicana, rinnovatrice finalmente venga impostata, sviluppata, condotta con decisione, fino a ottenere dei risultati, e sono disposte ad appoggiare quest’azione a fondo, a fare tutto il possibile affinché abbia successo.

E ho terminato. Non ho detto nessuna parola sui problemi della politica estera e in particolare sull’avvenuta firma, da parte di un nostro plenipotenziario, del Trattato di pace. L’ho fatto perché ritengo che questo non è il momento per una discussione di politica estera.

Nel corso delle trattative per la formazione del Governo l’onorevole De Gasperi francamente ci disse: «Ritengo sia giunto il momento di assumersi questa responsabilità. Entrate voi nel Governo che si assume questa responsabilità?» Abbiamo risposto: «Sì». Condividiamo, quindi, questa responsabilità. Comprendiamo la firma, – come ha detto l’onorevole De Gasperi – come un atto di politica estera, di cui possono valutare il peso, il valore, le conseguenze, forse meglio di noi, coloro i quali conoscono tutti i particolari dell’azione diplomatica che si sta svolgendo.

La discussione generale sulla politica estera del nostro Paese e quindi anche sul Trattato la faremo a suo tempo. Riserviamo per quel momento di esporre le nostre opinioni sul Trattato.

Il Trattato è quello che è. Voi già conoscete, però, la nostra convinzione, che avrebbe potuto essere migliore, se fossimo riusciti, durante gli ultimi due anni (dal marzo 1944, cioè da quando esiste un Governo italiano di tipo democratico) a condurre una politica estera più chiaroveggente, più aderente alle necessità nazionali e alla realtà della situazione nazionale e internazionale.

Questa è la nostra posizione, della cui giustezza abbiamo cercato di dare la prova concreta e riteniamo che la prova che abbiamo dato sia riuscita convincente per una grande parte del popolo.

Ad ogni modo, noi ci sentiamo amareggiati per il contenuto del Trattato, non demoralizzati.

Non condividiamo, d’altra parte, quel genere di sentimenti, che alle volte sentiamo esprimere, se non in questa Assemblea, in una parte della stampa, e in cui affiorano le nostalgie d’un passato, che, invece, vogliamo sia sepolto per sempre.

Non ci sentiamo demoralizzati, perché sappiamo cosa è stato quel passato e come esso non poteva non pesare sulle sorti del nostro disgraziato Paese.

E non ci sentiamo demoralizzati anche per altro motivo; perché, quando ci ricordiamo degli ultimi due, tre anni della nostra vita, della nostra storia, non troviamo motivo di demoralizzazione in quanto notiamo, pure tra le difficoltà, una marcia ascendente.

Ricordiamo l’agosto 1943, quando fu lanciata la parola d’ordine «la guerra continua» noi tremammo per il nostro Paese, perché sentimmo che quella parola d’ordine significava per l’Italia il pericolo di essere fatta a pezzi per tutto un periodo della sua storia. Ricordiamo l’ottobre del 1943 e l’ansia con cui attendemmo allora la prima decisione delle grandi potenze circa l’Italia, e la gioia profonda, con la quale salutammo quella decisione, perché vedemmo in essa almeno un primo inizio di garanzia che il nostro Paese non sarebbe stato fatto a pezzi, che la possibilità di difendere la sua unità e la sua indipendenza esisteva. E allora dicemmo – e in questo fu tutta la nostra politica dal 1944 in poi – uniamoci, uniamoci per sfruttare a fondo questa possibilità, creiamo un Governo democratico che ci consenta, unendoci nella guerra alle altre forze democratiche d’Europa e del mondo, di migliorare al massimo le sorti della nostra Patria.

È stato utilizzato il contributo che il popolo italiano ha dato alla guerra per la sua liberazione e contro il fascismo? È stato valorizzato come doveva? Lo sforzo del popolo italiano si è tradotto in una politica abbastanza intelligente e capace di correggere nella maggior misura possibile le conseguenze dei delitti del passato regime?

È il tema che affronteremo quando discuteremo a fondo della nostra politica estera.

Non siamo demoralizzati, perché abbiamo fiducia nella forza del nostro grande partito. Credo che fra tutti i partiti di questa Assemblea il nostro sia quello che ha meno fretta. Non abbiamo fretta, perché siamo sicuri della nostra vittoria e ne siamo sicuri tanto più perché il nostro partito è quello che si è cercato in tutti i modi di sopprimere, e che è sorto invece dalle persecuzioni e dall’oppressione col massimo delle proprie forze, col massimo delle proprie energie.

Non siamo demoralizzati, però, soprattutto perché abbiamo fiducia nel popolo italiano, nella sua energia, nella sua capacità di risollevarsi, di lavorare, di ricostruire, rinnovandolo, il proprio Paese.

Ma se non abbiamo fretta per noi, abbiamo fretta per il popolo italiano, perché vogliamo che le indicibili sofferenze di tanta parte della popolazione italiana possano terminare al più presto, che l’Italia il più presto possibile possa uscire dall’abisso in cui si trova, abisso di dolore, di umiliazione, di miseria, di ineguaglianza sociale e di oppressione.

Ma perché questo avvenga – e qui ritorno al tema del mio intervento – è necessario che la direzione politica del Paese sia quella direzione unita, energica, capace, combattiva, che corrisponda alla volontà della maggioranza del popolo; è necessario che una unità di forze democratiche repubblicane e di masse lavoratrici si realizzi, diventi il cardine, il canovaccio su cui sia tessuta tutta la nuova vita dell’Italia democratica e repubblicana.

Onorevole De Gasperi, se il suo Governo lavorerà per raggiungere questi obiettivi, avrà sempre in noi, nel nostro partito e nelle masse che lo seguono dei sinceri sostenitori e difensori. (Vivissimi applausi a sinistra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bordon. Ne ha facoltà.

BORDON. Onorevoli colleghi, prima di dire il mio pensiero sulle comunicazioni del Governo, desidero rilevare alcune censure che sono state rivolte alla Costituente, censure che ritengo ingiuste e infondate. Si è detto che la Costituente è apatica, remissiva, che non reagisce (qualche volta, invece, reagisce anche troppo), ma s’è dimenticato da costoro che la Costituente deriva da una legge che ha un peccato veniale. Abbiamo parlato per molte sedute di quel famoso decreto del marzo 1946, che legava le mani alla Costituente, ma si è avuto anche una altra circostanza – che non va dimenticata – cioè il risultato del 2 giugno. Ora, di fronte a questi due fatti io mi domando se la Costituente poteva fare diversamente di quanto ha fatto e se siano giuste le critiche mosse all’Assemblea. Molto più obiettivo e sereno è invece rilevare come la Costituente abbia atteso infaticabilmente al suo lavoro, ed un testo è stato presentato a voi; un testo che è un documento di nobiltà, di serenità e di saggezza.

Sulle comunicazioni del Governo avrei voluto soffermarmi a lungo, se l’ora non fosse tarda, ma sono facilitato nel mio compito dalle critiche fatte qui dall’onorevole Togliatti, critiche che non coincidono in tutto con quelle di altri onorevoli colleghi, fra cui quella nobilissima dell’onorevole Lussu.

Dice l’onorevole Togliatti, dopo aver cercato e frugato a destra e a sinistra per conoscere le cause di questa crisi, che la crisi stessa non può esser dovuta che alla necessità di una maggiore unione per realizzare il programma di tutte le forze democratiche. Dice invece, esattamente a mio avviso, l’onorevole Lussu che la crisi è stata un successo personale dell’onorevole De Gasperi, il quale della crisi si è servito per giovare al suo Partito. Se così non fosse, noi dovremmo avere un programma di Governo il quale dovrebbe rispondere agli obiettivi indicati dall’onorevole Togliatti. Ora questo programma non c’è. Basta leggere le dichiarazioni dell’onorevole De Gasperi per vedere come questo programma abbia un contenuto assolutamente generico. Da esso infatti appare come una quantità di bei problemi siano portati sul tavolo: la necessità di una maggior produzione, il sostegno all’iniziativa privata, l’elaborazione di un piano per la ricostruzione, lo sviluppo dell’economia, la collaborazione fra il capitale e il lavoro, i Consigli di gestione, il controllo del corso dei prezzi, i mezzi per contenerli o reprimerli, la composizione delle vertenze mezzadrili, la scuola, l’Università, ecc. È evidente che, se noi avessimo effettivamente un Governo che avesse allargato le sue basi per la realizzazione di un programma comune, noi avremmo dovuto avere un programma preciso, in cui venissero affrontati i problemi che non possono più essere rimandati. Il Paese ve li addita questi problemi principali e ve li addita la realtà: sono l’alimentazione, i provvedimenti finanziari, la disoccupazione. Questi tre problemi che dovrebbero essere la ragione del programma di emergenza, non sono neppure elencati. Ciò significa che sotto la crisi c’è evidentemente solo una ragione politica, che noi non possiamo approvare, e che è fonte di grande inquietudine.

Se una crisi è stata provocata senza che neppure l’Assemblea sia stata consultata, senza neppure che sia stato emesso un voto, se una crisi è avvenuta ad Assemblea chiusa e si è trascinata per ben tre settimane, in quanto è stata laboriosa, e se c’è ancora carenza di un programma, concreto, tutto ciò non può lasciar dubbi al riguardo. Ben dice l’onorevole Lussu: De Gasperi si dimostrò certamente abile, ma questo non significa che il Presidente del Consiglio si sia reso conto che il Paese in questo momento non desidera della politica, ma essenzialmente un programma in azione. Egli ha fatto della politica, e della politica a vantaggio del suo Partito, poiché si può dire tutto quel che si vuole, ma i dicasteri chiave sono nelle mani della Democrazia cristiana. E diciamo di più: abbiamo anche l’impressione che la Democrazia cristiana si sia rafforzata, approfittando della scissione del Partito socialista. La scissione incomincerebbe dunque a raccogliere questo primo frutto: un indebolimento della democrazia attraverso questa crisi.

Noi siamo preoccupati di constatare la carenza del Governo nei problemi che sono impellenti e che non si possono rimandare, primo fra tutti quello dell’alimentazione.

Manca il pane e viceversa la farina per fare i dolci c’è, e c’è anche quella per quel pane che va sulle mense dei ricchi. Lo zucchero c’è, ma alla borsa nera ed è tolto alle nostre famiglie. Si potrebbe continuare, per dimostrare che non vi è una vigilanza accurata da parte degli organi del Governo.

Circa la disoccupazione, noi siamo a queste cifre iperboliche: avremo presto dai due ai tre milioni di uomini che incroceranno le braccia e per di più di disoccupati sprovvisti di qualificazione di mestiere. Come si provvederà a risolvere questo angoscioso problema?

Ancora. Abbiamo sempre atteso i provvedimenti finanziari più volte annunziati. Sono passati ormai mesi ed anni dalla liberazione. All’onorevole Scoccimarro rendiamo omaggio per quanto ha fatto, ma certo è che questi provvedimenti finanziari non sono venuti alla luce, benché ripetutamente invocati dal Paese. Il provvedimento di cui si sentiva maggiormente il bisogno è quello che riguarda i profitti di guerra di regime. Anziché cercare di procurare allo Stato i mezzi finanziari con la avocazione di tali profitti, questi mezzi sono stati ricercati solo attraverso due prestiti, cosicché questi due prestiti sono i soli provvedimenti finanziari che abbiamo avuto in due anni, fiancheggiati contemporaneamente da uno stillicidio di imposte, specie di consumo, che hanno avuto il risultato di aumentare il costo della vita.

Onorevoli colleghi, se questo è, non possiamo dichiararci sodisfatti di un Governo il quale non soltanto espone programmi generici considerandoli quasi alla stregua di formalità parlamentari, ma che neppure è in grado di attuare.

Vi è un’altra fonte di inquietudine. L’articolo 3 del decreto 16 marzo 1946 dice testualmente nel suo primo comma: «Durante il periodo della Costituente e sino alla convocazione del Parlamento a norma della nuova Costituzione, il potere esecutivo resta delegato, salva la materia costituzionale, al Governo, ad eccezione delle leggi elettorali e delle leggi di approvazione dei trattati internazionali, le quali saranno deliberate dalla Assemblea».

Dunque, in base a questo articolo che cosa avrebbe dovuto fare l’Assemblea? Essa avrebbe due obiettivi soltanto: approvazione dei trattati internazionali e legge elettorale. Niente altro (tanto che si dovette provvedere a riparare, come ognuno ricorda, a tale lacuna).

Di fronte a questi due obiettivi noi diciamo: signori del Governo, non è giusto che voi defraudiate l’Assemblea del diritto che le compete per l’approvazione del Trattato. Io non intendo anticipare un giudizio di merito su di esso, ma dico che non è giusto che, avendo voi l’obbligo di portare questo Trattato all’Assemblea, possiate colla procedura adottata sottrarci questo diritto. Non è giusto neppure che voi diciate che nulla è pregiudicato da tale procedura, perché la vostra tesi non regge in base alle vostre stesse parole. Voi avete detto: il Ministero ha fatto un’inchiesta: è risultato che due almeno dei quattro Grandi sono per la ratifica. E se di questo avviso non fossero gli altri due? Evidentemente la ratifica da parte nostra non sarebbe necessaria e non avrebbe nessun effetto.

Non solo, ma l’articolo 90 del Trattato recita: «Il presente Trattato dovrà essere ratificato dalle Potenze alleate associate. Esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte di tutte le Nazioni alleate».

Dunque, in base a questo articolo che cosa abbiamo? Che il Trattato può essere ratificato dall’Italia, ma indipendentemente da essa il Trattato entrerà in vigore il giorno in cui esso sarà stato ratificato dalle Potenze alleate.

In quale situazione ci troviamo noi? Se l’Italia, per ipotesi, non ratificasse in base all’articolo 90, il Trattato entrerà in vigore ugualmente.

Allora io domando all’onorevole De Gasperi: a che cosa serve questa ratifica? L’onorevole De Gasperi dice: «Essa varrà in Italia per l’Italia».

Ma evidentemente non è questo che ci interessa; non basta che la ratifica abbia solo valore per l’interno.

Si dice ancora: «Noi abbiamo firmato, ma voi dovete ratificare; voi sarete sempre padroni». Ma, stando così le cose, dato che la nostra ratifica ai sensi dell’articolo 90 non è ritenuta necessaria per l’esecuzione del Trattato, in quale situazione ci troviamo?

Ecco perché diciamo che questa non è soltanto questione di forma; ci battiamo contro una procedura illegale ingiusta che menoma la sovranità dell’Assemblea Costituente e i diritti ad essa spettanti in base all’articolo 3 del citato decreto. Per l’importanza della cosa, il Trattato doveva essere portato alla Costituente e non doveva il Governo mettere la Costituente di fronte a un fatto compiuto. Contro questa procedura noi insorgiamo e vi diciamo: «Voi dovevate passare alla Costituente questo Trattato, perché doveva avere l’approvazione dell’Assemblea e perché soltanto ad essa spettava tale diritto. Il nostro ambasciatore doveva andare a Parigi, con la delega dell’Assemblea e non prescindendo da essa».

Non possiamo non rilevare tutto il torto che si è fatto all’Assemblea da parte del Governo.

Sono dell’avviso che si debba avere della democrazia un altro concetto. Solo all’Assemblea Costituente spettava il diritto di decidere se questo Trattato doveva essere firmato o meno.

Viceversa, avendo voi già firmato, la ratifica diventerà una questione puramente accademica, poiché ci si dirà: «Va bene, voi non lo ratificate, ma noi l’abbiamo firmato».

Onorevoli signori, data l’ora tarda, non voglio indugiarmi oltre. Noi dobbiamo con amarezza chiederci quale è il nostro compito in questa Assemblea: non possiamo venire qui e prendere per buono tutto quello che ci è servito dal Governo, senza poter dire la nostra parola.

Questa non è democrazia.

Mi dispiace di usare questa parola aspra contro il Governo; ma intendiamo protestare contro questi sistemi.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Le parole non sono aspre; ma il pensiero non è esatto. Lei lo presume, ma non è.

BORDON. È esattissimo. Voi dovete dirmi che quello che pensate in materia di ratifica non risponde al vero; allora avreste ragione; ma siccome voi stessi avete fatto delle riserve sulla nostra ratifica, e noi non sappiamo quale sarà il pensiero dei quattro e perché in base all’articolo 90 il Trattato entrerà in vigore anche senza la nostra ratifica, voi avete messo l’Assemblea nella condizione di non poter esprimere neppure il proprio pensiero.

RUSSO PEREZ. È superata questa questione.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non è esatto.

BORDON. Quando discuteremo, onorevole De Gasperi, il merito di questo Trattato, diremo qualche cosa di più. Noi sappiamo che il Trattato è quello che è; disgraziatamente è un trattato durissimo, un trattato che ci è stato imposto dai nostri vincitori; ma sul quale abbiamo qualche cosa da dire. È un trattato che è stato ottenuto, si dice, senza negoziazione da parte nostra: ma se è vero che non vi fu nessuna negoziazione e che esso ci venne imposto, voi foste però – se non erro – ammessi ad esprimere il vostro pensiero. Noi avremmo voluto che già fin da allora e prima di allora si fosse fatto qualche cosa; cioè che non si fosse trascurato di giuocare l’unica carta che avevamo in mano, cioè quella della guerra di liberazione.

Disgraziatamente il diritto di cobelligerante non è stato difeso adeguatamente. Voi avevate il dovere di far sentire che cosa fu per noi questa guerra di liberazione.

Non solo, ma poiché il nostro ambasciatore sarebbe andato a Parigi con un incarico di fare delle riserve, ha egli dichiarato, come avrebbe dovuto fare: «Firmo questo Trattato soltanto in quanto sia riveduto»? Evidentemente no.

RUSSO PEREZ. Proprio così.

BORDON. E allora si fanno delle riserve puramente platoniche e insufficienti anziché far valere il nostro sacrificio. Su questo bisognava puntare, questo doveva essere il nostro supremo sforzo.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Se lo avessi scoperto prima, avrei mandato lei.

BORDON. Per questo diciamo fin da questo momento che la firma apposta dal vostro ambasciatore è nulla, perché voi non eravate autorizzato a farlo, tale diritto spettando solo a questa Assemblea.

Si dice che questo Governo ha anche il consenso e l’appoggio di questa parte; ma ciò perché essa non è seconda a nessuno nei suoi doveri verso il Paese. Il Paese è qualcosa di più e di diverso del Governo e questa è la ragione per cui, mettendo il loro interesse al disopra d’ogni cosa, ad essa tutti i partiti si fanno un dovere d’inspirare la loro opera pel bene supremo del Paese. (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Comunico che gli onorevoli Gallo, Finocchiaro Aprile e Castrogiovanni hanno presentato la seguente interrogazione, chiedendo la risposta d’urgenza:

«Al Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti intenda prendere contro l’Autorità di pubblica sicurezza, per avere eseguita una perquisizione nei locali della Sezione del M.I.S. di Caltagirone rifiutando di esibire la relativa autorizzazione del Magistrato e procedendo altresì al fermo del custode; e ciò ad evidente scopo di intimidazione».

L’onorevole Ministro dell’interno ha dichiarato che risponderà domani a questa interrogazione.

Si dia lettura delle altre interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere il provvedimento che intende prendere per le caserme di Diano Marina. Costruite nel 1939, occupate dalla truppa durante il periodo della guerra, dette caserme vennero poi abbandonate e si vanno gravemente deteriorando.

«La provincia di Imperia ha domandato il possesso di tali edifici per adibirli ad Ospedale psichiatrico, di cui è priva, ma non ebbe risposta.

«Ora o il Ministero della difesa intende conservare detti edifici per uso militare, e in tal caso provveda di urgenza a ripararli e rimetterli in assetto, o (com’è probabile) non debbono più servire ad uso militare, e, in questa ipotesi, voglia, per tramite della competente Amministrazione erariale, farne consegna alla Provincia di Imperia.

«Se non si adotta, senza ulteriori indugi, l’uno o l’altro di questi provvedimenti, quegli edifici, la cui costruzione costò ottanta milioni, saranno in breve ridotti a mucchi di macerie. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Canepa».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare i Ministri dei lavori pubblici e delle finanze e tesoro, per conoscere se e quali provvedimenti intendano adottare, perché alla martoriata città di Treviso siano dati alloggi per i senza tetto, tenendo presente che su 4600 fabbricati esistenti nell’anteguerra, solo 817 rimasero illesi, mentre la popolazione è salita da 55.000 a 62.000 unità; per conoscere, inoltre, se e quali somme intendano mettere a disposizione del Provveditorato alle opere pubbliche di Venezia, che quotidianamente ai molti postulanti deve ripetere che non ha fondi a disposizione, perché quasi tutto esaurito, rendendosi così preoccupante e criticissima la situazione dei 37.000 disoccupati della provincia di Treviso. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Ferrarese, Franceschini».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

  1. – Svolgimento delle seguenti interrogazioni:

Nobile. – Al Ministro della difesa. – Per sapere se non creda necessario comunicare all’Assemblea:

1°) i particolari sulle circostanze e le cause del grave disastro aviatorio che ebbe luogo il 15 febbraio al largo di Terracina;

2°) i motivi per cui per effettuare un trasporto privato era stato concesso un apparecchio militare.

Gallo (Finocchiaro Aprile, Castrogiovanni). – Al Ministro dell’interno. – Per sapere quali provvedimenti intenda prendere contro l’Autorità di pubblica sicurezza, per avere eseguita una perquisizione nei locali della Sezione del M.I.S. di Caltagirone, rifiutando di esibire la relativa autorizzazione del magistrato e procedendo altresì al fermo del custode; e ciò ad evidente scopo di intimidazione.

  1. – Esame del disegno di legge costituzionale d’iniziativa della Presidenza:

Proroga del termine di otto mesi previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98, per la durata dell’Assemblea Costituente.

  1. – Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
  2. – Esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

MARTEDÌ 18 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XL.

SEDUTA DI MARTEDÌ 18 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Interrogazione (Svolgimento):

Presidente                                                                                                        

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Natoli                                                                                                              

Carboni                                                                                                            

Commemorazione:

Mannironi                                                                                                        

Mastino Pietro                                                                                                

Presidente                                                                                                        

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Molè                                                                                                                 

Bei Adele                                                                                                         

Nenni                                                                                                                

Lussu                                                                                                                

Sull’interrogazione del deputato Natoli:

Presidente                                                                                                        

Natoli                                                                                                              

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Reale Vito                                                                                                       

Pertini                                                                                                              

Finocchiaro Aprile                                                                                         

Lucifero                                                                                                           

Giua                                                                                                                  

Piccioni                                                                                                             

Patrissi                                                                                                             

Russo Perez                                                                                                     

Corsi                                                                                                                 

Condorelli                                                                                                      

Mozione (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

La Malfa                                                                                                          

Russo Perez                                                                                                      

Nasi                                                                                                                   

Finocchiaro Aprile                                                                                         

D’aragona                                                                                                       

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Aldisio, Ministro della marina mercantile                                                           

Gasparotto, Ministro della difesa                                                                     

La seduta comincia alle 15.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Svolgimento di un’interrogazione.

PRESIDENTE. L’onorevole Presidente del Consiglio ha chiesto di rispondere alla seguente interrogazione presentata dall’onorevole Natoli nella seduta di ieri:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se, al fine di arrestare la campagna di insinuazioni diretta a svalutare l’Assemblea Costituente e di difendere il decoro di questa, non creda opportuno di pubblicare l’elenco dei Deputati i quali coprono una carica retribuita e affidata dal Governo, presso enti parastatali, economici, finanziari o in altri organismi che abbiano relazione con lo Stato, indicando anche l’ammontare della retribuzione o dell’indennità; se non creda possibile di invitare la Presidenza dell’Assemblea a richiedere ad ogni Deputato se fa parte, e in quale qualità, di istituti finanziari, economici o imprese private».

L’onorevole Presidente del Consiglio ha facoltà di parlare.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo si dichiara pronto a mettere a disposizione della Presidenza dell’Assemblea Costituente, ad ogni sua richiesta, l’elenco indicato dall’onorevole interrogante, e tutti gli altri elementi che, comunque, possano essere ritenuti utili ai fini cui l’interrogazione è rivolta, rimettendosi, per quanto riguarda la pubblicazione dell’elenco e qualsiasi altro uso che si intenda farne, alla Presidenza stessa, alla quale spetta di tutelare il decoro e il prestigio dell’Assemblea e dei suoi componenti.

Per questo stesso doveroso rispetto verso le prerogative dell’Assemblea, il Governo ritiene che la seconda richiesta dell’onorevole interrogante, diretta a sollecitare l’accertamento degli incarichi ricoperti da Deputati in enti privati, debba essere rivolta alla Presidenza dell’Assemblea stessa, a disposizione della quale il Governo metterà qualunque dato che possa essere ritenuto utile.

Il Governo si attende però che frattanto la Camera non cooperi, nemmeno passivamente, ad una campagna che, al di là delle persone e dell’attuale Governo, ha l’effetto di screditare l’Assemblea e la Repubblica d’Italia. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Poiché l’onorevole Presidente del Consiglio si è rimesso all’Assemblea per quanto riguarda l’eventuale invito all’Ufficio di Presidenza di richiedere a ciascun Deputato le notizie di cui si tratta, e si è dichiarato pronto a depositare alla Presidenza l’elenco dei Deputati richiesto dall’onorevole Natoli, avverto che è ora l’Assemblea arbitra di decidere sui due argomenti. Sarà, poi, cura dell’Ufficio di Presidenza di comunicare all’Assemblea stessa la relativa documentazione.

L’onorevole Natoli ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

NATOLI. Ringrazio l’onorevole Presidente del Consiglio per la sua risposta. Il fine della mia interrogazione era precisamente quello accennato dall’onorevole De Gasperi. Noi viviamo in un’atmosfera quasi irrespirabile; c’è molta gente, responsabile di crimini e di colpe passate, che oggi tenta di scaricarle, con una campagna di diffamazione, sulla Repubblica nascente e sulla Costituente. La Costituente ha un volto doloroso, perché erede di un fallimento; ma questo volto deve essere pulito, deve essere netto; e noi stessi dobbiamo, qui, difendere la nostra dignità di italiani e di Deputati, incaricati di dare uno stato civile a questa Repubblica che si è assunto il compito di liquidare un fallimento. Non possiamo più vivere sotto queste insinuazioni; ad ogni cantone, dal barbiere o nei salotti, c’è l’insinuazione contro il Ministro che si approfitta del bene pubblico, c’è un’insinuazione contro il Deputato le cui tasche rigurgiterebbero di biglietti da mille.

Questa campagna deve cessare. Stabilisca l’Assemblea le incompatibilità che ci sono fra Deputato e Ministro e impiegato o proprietario o membro di un Consiglio di Amministrazione. Ma queste incompatibilità siano ben delimitate e ben stabilite. D’altra parte io credo – e non lo metto assolutamente in dubbio – che il Governo farà quanto è in suo potere per illuminare l’opinione pubblica sulla vera situazione, dicendo la verità; e credo, d’altra parte, che l’Assemblea possa anche domandare una Commissione di inchiesta, la quale dica al Paese la verità, anche se ve ne fosse qualcuna di dolorosa, ma che poi possa mostrare il volto della Costituente, onesto, perché lo vedo onesto. Noi dobbiamo uscire da questa situazione piena di agguati e di insidie. Noi vediamo calare oggi gli stessi avvoltoi di ieri; non possiamo essere disposti a preparare piattaforme elettorali a chi vuol prepararsele (Applausi); non siamo disposti né alla omertà, né alla falsa pietà. Se vi è qualche colpevole – ed in un complesso di cento, duecento, cinquecento uomini ci può essere anche – che questo colpevole sia indicato serenamente. La Costituente della Repubblica continui intanto il suo lavoro con tranquillità. (Applausi).

Accolgo l’indicazione del Presidente e formulo una proposta concreta: di invitare l’Assemblea a nominare una Commissione che esamini il problema e presenti le relative proposte.

CARBONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CARBONI. Nella seduta in cui furono lanciate dall’onorevole Finocchiaro Aprile le note accuse, alcuni colleghi del gruppo parlamentare socialista dei lavoratori d’Italia avevano preparato una mozione per chiedere la nomina di una Commissione di inchiesta. Eravamo oggi sul punto di presentare questa mozione. Di fronte alla proposta fatta dall’onorevole Natoli, il gruppo dichiara di associarvisi.

PRESIDENTE. In ordine alla proposta presentata dall’onorevole Natoli, ed alla quale si è associato l’onorevole Carboni, rilevo che essa si discosta alquanto dalle due richieste specifiche che erano contenute nella interrogazione presentata ieri sera, ed alla quale l’onorevole Presidente del Consiglio ha risposto, dando appunto a queste due richieste la propria adesione.

Non so se la nuova formulazione enunciata dall’onorevole Natoli implichi l’abbandono delle due proposte specifiche che egli aveva presentato nella sua interrogazione. Se ciò non fosse, pregherei l’onorevole Natoli di dare forma concreta a quelle due proposte, in maniera che l’Assemblea possa prendere, nei loro confronti, posizione.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Natoli. Ne ha facoltà.

NATOLI. Per la prima proposta, accetto la spiegazione dell’onorevole Presidente del Consiglio. Resta il secondo punto, cioè che il Presidente dell’Assemblea può prendere l’iniziativa. Domando formalmente al Presidente dell’Assemblea di prendere tale iniziativa e mi riservo di presentare, in serata, una proposta scritta.

PRESIDENTE. Se ho ben capito, l’onorevole Natoli formula concretamente la proposta che la Presidenza dell’Assemblea richieda ad ogni Deputato se fa parte, ed in quale veste, di istituti finanziari, economici o imprese private. La proposta dell’onorevole Natoli, a questo proposito, deve essere sottoposta all’Assemblea, la quale deve dare sopra di essa il suo voto, e soltanto quando l’Assemblea abbia fatto propria la proposta dell’onorevole Natoli, la Presidenza dell’Assemblea si sentirà investita dell’autorità per darle corso.

L’altra proposta dell’onorevole Natoli, a tenore della quale si richiedeva al Presidente del Consiglio se non ritenga opportuno pubblicare l’elenco dei Deputati i quali coprano una carica retribuita presso enti parastatali, economici o finanziari o presso altri organismi, indicando anche l’ammontare della retribuzione, sarebbe dall’onorevole Natoli lasciata cadere.

NATOLI. La ritengo assorbita dall’altra.

PRESIDENTE. L’onorevole Natoli parte quindi dal presupposto che ogni membro di questa Assemblea, invitato in seguito ad una votazione idonea dell’Assemblea stessa, a rendere nota la propria posizione in istituti finanziari, economici o imprese private, implicitamente renderebbe note anche le notizie che con la prima parte delle sue proposte egli richiedeva alla Presidenza del Consiglio.

Vi è poi la seconda proposta dall’onorevole Natoli, formulata quest’oggi, a tenore della quale si invita l’Assemblea a nominare una Commissione che esamini in concreto il problema e presenti le relative proposte. L’onorevole Carboni ha dichiarato di aderire a questa proposta. Io la porrò eventualmente in votazione, dopo che l’Assemblea si sarà pronunciata sopra la prima.

Pongo, pertanto, ai voti la proposta del l’onorevole Natoli, così formulata:

«L’Assemblea Costituente invita l’Ufficio di Presidenza a richiedere a ogni Deputato se fa parte di istituti finanziari, economici o imprese private».

(È approvata all’unanimità).

Desidero ora prospettare all’onorevole Natoli e all’Assemblea nel suo complesso questo quesito. La Commissione che, a tenore della proposta dell’onorevole Natoli, dovrebbe essere nominata, dovrebbe cominciare a svolgere il suo lavoro sulla base della documentazione raccolta dalla Presidenza in conseguenza della votazione ora avvenuta. Chiedo all’onorevole Natoli se non ritenga opportuno di soprassedere alla votazione di questa seconda proposta fino al momento nel quale la Presidenza sia in condizioni di poter offrire la documentazione suddetta.

NATOLI. Signor Presidente, vorrei chiedere un breve termine sino alla fine della seduta per poter presentare una proposta concreta.

PRESIDENTE. Ritengo sia opportuno accogliere la richiesta dell’onorevole Natoli. S’intende che sottoporrò la proposta che egli formulerà all’approvazione dell’Assemblea.

(Così rimane stabilito).

Commemorazione.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Mannironi. Ne ha facoltà.

MANNIRONI. Onorevoli colleghi, vogliate consentirmi di sacrificare pochi minuti del tempo dedicato alle discussioni di questa Assemblea, all’adempimento di un dovere mesto e pietoso.

Qualche giorno fa è deceduto a Bosa in Sardegna, sua patria, l’onorevole Palmerio Delitala.

Egli era stato eletto deputato del Partito popolare italiano nella 27a legislatura ma da tale carica, fu nel 1926 dichiarato decaduto, perché non volle cedere né agli allettamenti, né alle minacce del fascismo.

Anche nella sua vita politica, come in quella di molti di voi, vi fu una ventennale parentesi di silenzio.

Tornò alla vita politica soltanto nel 1944 e per le sue qualità di ex deputato fu nominato membro della Consulta Nazionale.

Nella vita civile esercitò la professione di avvocato, con quella onestà di intenti e di costumi che è la caratteristica migliore della nostra classe forense.

Nella vita politica, pur non dimenticando che apparteneva ad un partito nazionale e che, quindi, non doveva trascurare né ignorare i problemi di politica generale, si curò e si preoccupò soprattutto degli interessi della sua terra; interessi e diritti che volle sempre difendere in quella forma silenziosa, ma tenace, che è la caratteristica di molti isolani, e che è forse la forma più adatta e più meritoria.

La Sardegna, perciò, perde in lui uno dei figli più affezionati e devoti.

Il Partito della democrazia, al quale apparteneva, perde uno dei collaboratori più fedeli.

Il fascismo lo isolò e lo disprezzò. Perciò, noi oggi, in questa Assemblea, lo vogliamo ricordare.

Nel mandare, a nome mio e della deputazione sarda e dell’intero gruppo della democrazia, un mesto saluto alla sua memoria, propongo che la Presidenza dell’Assemblea, voglia inviare le condoglianze alla famiglia. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Mastino Pietro. Ne ha facoltà.

MASTINO PIETRO. Intendo associarmi alle parole di cordoglio pronunciate dal collega onorevole Mannironi per la dolorosa scomparsa dell’onorevole Palmerio Delitala.

Mi associo alla proposta di inviare le condoglianze alla famiglia a nome del gruppo autonomista.

PRESIDENTE. Interpretando il pensiero espresso dagli onorevoli colleghi, la Presidenza dell’Assemblea già nella giornata di ieri ha comunicato alla famiglia dell’onorevole Delitala le sue condoglianze.

Posso assicurare che le parole oggi formulate di viva partecipazione al lutto della famiglia fanno, quindi, parte del comune sentimento dell’Assemblea e della Presidenza stessa.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Mi associo cordialmente a nome del Governo.

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

È iscritto a parlare l’onorevole Molè. Ne ha facoltà.

MOLÈ. Onorevoli colleghi, accingendomi a parlare per chiarire l’atteggiamento ed esprimere il pensiero degli amici del gruppo demolaburista, sento innanzi tutto una imperiosa esigenza. Mentre una campagna di discredito si scatena da tutte le parti e con tutti i mezzi per tentare di deprimere e di diminuire l’istituto parlamentare, io devo reagire contro una mentalità diffusa e pericolosa, tanto più pericolosa quanto più diffusa in un paese che non ha, o ha perduto per desuetudine, il costume democratico.

Non si cerca soltanto di coinvolgere nella ondata scandalistica tutto l’istituto parlamentare, si cerca anche di dimostrare la inutilità della sua funzione. E qui, e fuori di qui, nei discorsi che abbiamo sentito e nelle ripercussioni di stampa, si è lamentato il numero eccessivo degli oratori iscritti a parlare sulle comunicazioni del Governo.

Ora posso anche ammettere che il numero fosse eccessivo e che bene abbia fatto la Presidenza a ridurlo, d’accordo con i partiti. Ma non esageriamo nelle limitazioni, fino a cadere nella contradizione in termini. E se, come voi dite, la elaborazione dei programmi non deve essere monopolio delle direzioni dei partiti, con quanta coerenza potete respingere l’apporto dell’Assemblea? E se avete deplorato che il Governo abbia sottratto alla Costituente il potere legislativo, con quanta dirittura logica volete impedire che, almeno in sede di discussione delle comunicazioni del Governo, si profilino le direttive generali da dare all’opera del legislatore?

Signori, l’Assemblea Costituente deve dire la sua parola liberamente, senza limitazioni, sul programma del Governo, che fornisce l’indirizzo in tutti i settori dell’amministrazione e in tutte le attività della vita associata.

E non importa che qualche volta i discorsi non siano intonati alla concretezza che impone l’ora presente. La libertà di parola deve trovare il suo autolimite nel senso di responsabilità di chi parla e dell’Assemblea che ascolta. Noi preferiamo alla tribuna che tace la tribuna che parla al Paese.

E io ricordo che una frase, testualmente identica a quella che sento oggi, mentre con la firma del Trattato di pace si conclude il tragico epilogo della venticinquennale dominazione fascista, fu pronunciata, come prologo della tirannide, dal dittatore in questa stessa aula, ch’egli qualificò «sorda e grigia»: «Signori, bando alle chiacchiere! Quaranta oratori sulle comunicazioni del Governo son troppi!».

Ma in quelle ch’egli definiva chiacchiere, si sostanziava il diritto di opinione e di critica e la frase programmatica ebbe poi la attuazione nella soppressione più radicale e più completa del Parlamento. La tribuna tacque. E quando la tribuna tacque e il Parlamento diventò organo di formale registrazione degli atti insindacabili del potere esecutivo, la libertà fu strangolata e agonizzò la democrazia.

Non svalutiamo, dunque, troppo leggermente, la dignità e la funzione del Parlamento. Non foss’altro, per questo motivo concreto: la formazione della nuova classe dirigente. L’Assemblea deve rivelare gli uomini e deve dare risonanza al loro nome nel Paese. Il Paese li esprime, i partiti li designano, ma è l’Assemblea che deve dare agli uomini dei partiti il crisma dell’uomo di Governo. E i giovani, i nuovi rappresentanti, devono uscire dall’ombra, in questo vivaio di coloro che saranno domani i dirigenti responsabili.

Altrimenti i nuovi governanti saranno sempre i vecchi governanti, o, se nuovi, saranno i rappresentanti dei partiti, il che è giusto – ma non anche quelli che l’Assemblea consacra rappresentanti del Paese.

Lasciamo dunque che per quest’aula passino – senza difficoltà e senza limitazioni – come da un grande megafono, le voci del Paese.

È preferibile la passione, anche sconvolta, all’assenteismo mortificante, al silenzio pavido e compiacente.

Certo non è senza amarezza che abbiamo assistito in questi giorni, dopo il discorso dell’onorevole Finocchiaro Aprile, al tentativo di travolgere nella bufera di fango tutta la classe politica, facendo così senza discriminazione, bersaglio di colpi aberranti, anche gli uomini che hanno dato passione, sacrificio, lustro alla patria.

Questa, del resto, è la grandezza e la umiltà dell’uomo politico in regime di democrazia: non c’è autorità, prestigio e potenza umana che non siano sottoposti al sindacato della tribuna. Ma anche di fronte agli eccessi deplorevoli e alle fallaci o irresponsabili accuse, si manifesta la superiorità dell’istituto parlamentare. Sono questi episodi che forniscono la sua prova di resistenza, di vitalità, di equilibrio.

Con tutti i difetti del sistema parlamentare, ove la parola usata senza discrezione e cautela può essere un’arme pericolosa che spesso ferisce chi non dovrebbe, la Camera è sempre migliore dell’anticamera. Perché le anticamere e i corridoi fermentano e diffondono i «si dice», le vociferazioni maligne, il bisbiglio ipocrita e vile, la calunnia anonima e irraggiungibile contro la quale non è riparo o difesa, mentre l’Assemblea, ove si parla e opina liberamente, può fare giustizia; e attraverso il pubblico contradittorio, accogliere le accuse fondate, respingere quelle infondate, deplorare le calunnie infami, dando il marchio del calunniatore a chi le ha pronunciato.

E perciò sono lieto che, aderendo alla proposta dell’onorevole Natoli che sodisfa una richiesta della pubblica coscienza, l’onorevole De Gasperi abbia messo a disposizione dell’Assemblea gli elementi che sono in suo possesso, per individuare l’entità e la natura degl’incarichi redditizi conferiti dal Governo a uomini politici.

Così solo l’Assemblea e gli uomini maggiori e migliori del Governo potranno reagire a questa ondata scandalistica che mira a deprimere le istituzioni repubblicane, per opera di gazzettieri nostalgici del passato, che osano parlare di complicità silenziosa ed hanno dimenticato che, fino a qualche anno fa, il censore della stampa regolava la materia dei giornali dettando ai giornali, tutti fatti su ordine e su misura, i titoli stessi degli articoli, e il terrore suggellava le labbra con la minaccia o la realtà del confino a chi si permetteva di parlare della cameriera, del segretario dell’amante del dittatore e dei suoi scherani.

Detto questo, passo immediatamente al tema del discorso.

Premetto, come l’onorevole Conti, come l’onorevole Lombardi, come l’onorevole Saragat, come tutti quelli che hanno parlato nobilmente in nome dei partiti di sinistra che non partecipano al Governo, che noi non intendiamo di fare una critica negativa, malevola, demolitrice, preconcetta; ma dare opera di collaborazione costruttiva, dicendo la nostra opinione su ogni problema con suggerimenti concreti. Noi non vogliamo rendere più gravoso e difficile il già difficile compito dell’onorevole De Gasperi. Noi abbiamo col suo Governo un comune supremo interesse: il consolidamento della Repubblica!

Altri miri a scalzare l’istituto nascente, svalutandolo nei suoi uomini maggiori e addossando loro le imperfezioni ineluttabili dell’opera iniziata sotto il suo segno. Ma noi non potremmo essere gli avversari sistematici e malevoli di coloro con i quali in ore particolarmente delicate della vita italiana abbiano diviso il pane salato della responsabilità del Governo. Noi vogliamo viceversa, come tutti i partiti di sinistra che non partecipano al Governo, dare opera di opposizione collaborante e costruttiva, la sola opposizione utile ed essere gli incitatori, gli allenatori, coloro che suggeriscono, che richiamano, che stimolano l’opera del Governo per renderla più aderente alle necessità del Paese, coloro che si preoccupano di ricollegare il Governo al Paese, se il Governo corre pericolo, di allontanarsi dal Paese. Che cosa pensiamo della terza incarnazione De Gasperi?

I Governi si giudicano dagli uomini che li formano e dalle idee che li informano. Due temi, dunque: composizione del Governo, programma del Governo.

Sulla composizione del Governo tutto il bene e tutto il male si è detto. Si è detto che i tre partiti si sono impadroniti del potere per autoinvestitura ed hanno creato una specie di Comitato di salute pubblica, cui non pare viceversa che corrisponda la funzione giacobina, se nello stesso momento in cui si afferma, se ne deplora la debolezza. Ed ho sentito dire qualcosa di più, quando qualche oratore, ironizzando sulla capacità di adattamento dell’onorevole De Gasperi, il quale si sarebbe acconciato a passare da una formula di Governo più larga nelle basi ad una più ristretta, faceva balenare il pericolo che, intorno al viso dantescamente macro, perfettamente raso, volitivamente acuto dell’onorevole De Gasperi (Si ride), spuntasse la barba fluente e candida dell’onorevole De Pretis, il pontefice del trasformismo. (Si ride).

Ma il trasformismo non esiste se la formula riproduce quella dei Governi precedenti; e l’accusa che l’onorevole De Gasperi si sia impadronito con gli altri due partiti del potere per auto-investitura, non ha ragione di esistere, ove non si dimentichi la piccola circostanza che questi partiti hanno avuto il maggiore suffragio del corpo elettorale. Siamo giusti e manteniamo le regole del buon giuoco parlamentare. Parliamo di efficienza, di omogeneità – e sta bene; ma non c’è nulla da eccepire alla correttezza democratica della formazione governativa.

Se sono stati quelli che sono stati i risultati delle elezioni, finché la situazione non muti, c’è poco da scegliere. Si tratta di dosare gli ingredienti, diluendo qualche po’ le tinte con l’aqua fontis degli indipendenti (Si ride) ma la composizione, grosso modo, non può essere che questa.

Ricordo la frase brutalmente ironica, ma aderente alla realtà che pronunciò Filippo Turati, giudicando una situazione simile a questa: «Per fare un pasticcio di lepre c’è bisogno almeno di un gatto». Per fare un Governo occorre una maggioranza. Quando un solo partito, sia pure il più numeroso, non ha la maggioranza, occorre formare una maggioranza composita.

E dopo il rifiuto dei repubblicani, dopo il rifiuto del partito socialista dei lavoratori italiani, e di correnti similari, che hanno sentito la necessità di trasferire la loro azione dal Governo al Paese, per raccogliere le forze democratiche sconvolte da una crisi di disorientamento, la sola maggioranza possibile, nel campo delle forze apertamente repubblicane, è questa e non altra che questa.

Soluzione di necessità, ma soluzione democratica. La questione che viceversa può legittimamente farsi è un’altra. Questa soluzione risolve? Questa formula di eccezione è efficiente? Un Governo così formato può essere veramente un Governo che governi, un comitato esecutivo che possa imprimere un indirizzo fecondo di energia unitaria e di omogeneità collegiale all’azione governativa e alla soluzione dei problemi paurosi che sono sul tappeto?

Tutti i Governi compositi legittimano questo dubbio e presentano questo pericolo. È una fatalità organica inevitabile, vorrei dire, fisica. Ogni volta che mettete insieme delle forze centrifughe, è naturale che cerchino di allontanarsi.

Quando al Governo non è un partito o non sono partiti affini, ma concorrono partiti avversi nelle finalità e nelle ideologie, queste forze centrifughe operano in sensi e direzioni opposte. C’è il partito che va a destra, il partito che va a sinistra, un altro che va più verso destra che verso sinistra. E allora avviene quello che avveniva nel supplizio di Massenzio, quando il condannato si legava per ogni arto a quattro focosi cavalli, sospinti a frustate in direzioni contrarie. L’uomo vivo era fatto a brani, finiva dilacerato, squartato.

A somiglianza dell’uomo squartato del supplizio di Massenzio avviene della vivente unità dell’azione statale. Il Governo, organo collegiale, perde l’efficacia della sua collegialità subiettiva, che si risolve in una disorganicità obiettiva, la quale per il suo effetto tumultuario, disgregante, confusionario, deprimente, produce nei governati la sfiducia nei governanti e mina alle basi l’autorità dello Stato.

Perché ogni problema della vita associata ha soluzioni diverse a seconda del punto di vista politico dal quale si esamina e in funzione delle tendenze finalistiche che ha ogni partito, in quanto rappresenta interessi di gruppi, di ceti, di classi, di forze economiche e sociali organizzate.

Ogni partito ha una sua politica interna, una sua politica estera, una sua politica scolastica, una sua politica finanziaria, una sua politica sociale, una sua politica militare. Come potete sperare o pretendere che uomini, che propugnano soluzioni diverse, trovino una soluzione comune? I casi sono due: o, vivendo alla giornata, non adottano nessuna soluzione, o arrivano alla transazione, al compromesso, alla soluzione che non risolve, perché non deve pregiudicare le diverse finalità di partito. O peggio ancora, eludendo la esigenza dell’organicità, ogni Ministro, nel settore della sua amministrazione, fa per conto suo una politica in contrasto con quella degli altri. Così che ne risulta la confusione delle lingue e la incoerenza delle azioni in una specie di torre babelica.

Questa è la fatalità organica dei Governi compositi, formazioni illogiche che sovvertono quella che Giovanni Bovio definì la dottrina dei Governi democratici: una maggioranza al Governo, un’opposizione nell’aula.

Qui l’opposizione opera dal di dentro anziché dal di fuori, in sede di Governo anziché in sede di assemblea. È coperta anziché palese. Si svolge nel chiuso dei partiti, anziché nella pubblicità aperta del dibattito collettivo. E svuota insieme di contenuto e valore tutt’e due gli organi: Governo e Assemblea. Il Governo non governa, per le opposizioni reciproche che si fanno, volta a volta, i Ministri, rappresentanti di partiti avversi. E la stessa Assemblea, ove dovrebbe operare l’opposizione estrinseca, perde la funzione sua propria ch’è quella di rivelare nel pubblico contradittorio le diverse concezioni della vita e della storia, di mettere di fronte i diversi indirizzi e le diverse soluzioni, di cui dovrebbe essere arbitra e giudice, rispecchiando le correnti politiche del Paese, e avvicendandole al governo del Paese. Qui l’avvicendamento non opera. E quando l’avvicendamento, che logora uno per volta i partiti e i loro uomini, non si verifica, si bruciano in una volta sola gli uomini migliori di tutti i partiti, che assumono insieme – anche se non lo vogliano – le responsabilità dell’insuccesso.

Ecco dunque, riassunti rapidamente, i pericoli e gl’inconvenienti dei Governi compositi.

Si poteva fare oggi diversamente? Lo abbiamo detto. Codesta soluzione difettosa era necessaria. E necessità non conosce legge. Ma si può tuttavia rendere efficiente questo Governo? C’è mezzo e modo di superare gl’inconvenienti dei Governi compositi? Ci sono eccezioni alla regola? L’onorevole Scoccimarro ha affermato che anche questi Governi, in alcune condizioni, possono agire potentemente e dare unità di indirizzo fecondo alla vita del Paese. E le condizioni sono queste: la formazione di un programma preciso di emergenza, la ferrea disciplina dei partiti che lo compongono, la ferrea direzione del Governo.

È il caso dell’esarchia.

E parliamone pure, dell’esarchia, perché ogni tanto spunta fuori questo argomento ed è bene affrontarlo decisamente, rivendicandone la funzione insostituibile, in quest’aula, in cui tutto si discute, e di tutto si deve rendere ragione.

L’esarchia fu una formula di coalizione insieme utile e necessaria.

Non potendosi raccogliere la maggioranza del corpo elettorale per la impossibilità assoluta della consultazione popolare, non c’era altro modo d’imprimere un carattere di legittimità presunta al Governo, se non raccogliendo in esso tutte le forze antifasciste del Paese.

L’esarchia fu un Governo composito, ma un Governo che governava. Per quale ragione? Perché, in quelle ore veramente tragiche della nostra storia, si trattava di guidare soprattutto l’amministrazione dello Stato. Era il comitato esecutivo di una specie di Stato amministrativo, come piace dire a un partito dell’aula. Ma con un termine segnato: la data del referendum, e con due esigenze politiche comuni a tutti, esigenze di guerra: liberazione del Paese, lotta contro il nazifascismo. E allora? Allora, eravamo un po’ come i combattenti di fronte alla necessità di tener testa al nemico. Potevamo essere in disaccordo su molte cose; ma la inderogabilità di queste supreme esigenze rendeva il Governo efficiente, mantenendo la disciplina fra i partiti conviventi. E, checché se ne dica, la disciplina fu mantenuta sia pure faticosamente, perché si evitò la guerra civile.

Ma ora – in una situazione tanto diversa – esiste questo programma comune, questa unità d’azione, questa sicura disciplina?

Io dico la verità: ho assistito alla discussione, e non soltanto alla discussione, ma alle altre vicende ed agli episodi di questo inizio di vita ministeriale, e il dialogo sempre vivace, ma non sempre cordiale, che somiglia spesso ad un litigio più che a un contradittorio, fra democristiani e socialcomunisti, non è tale da conciliare la fede, che può esser cieca di fronte al divino, ma non dinanzi ai fatti umani.

Prendete uno degli esponenti più misurati e rappresentativi delle due parti.

Di chi parlavamo? Dell’onorevole Scoccimarro? L’onorevole Scoccimarro ha pronunciato un notevole discorso. Egli ha questa felicità di parlatore: che quando parla è una tale convinzione in quello che dice, che si apprende alla simpatia umana di chi ascolta. Ma, sentendo l’onorevole Scoccimarro, mi sono posto una domanda che ora pongo a voi, onorevoli colleghi: mi sapete dire sicuramente, senza perplessità, se egli ha pronunciato un discorso di maggioranza o di opposizione? Io credo che abbia pronunciato l’uno e l’altro. Ha cominciato come avvocato di difesa e ha concluso come avvocato di parte civile. E, ascoltando questo discorso, che era un po’ come il tempio di Giano bifronte, e ascoltandolo con grande interesse, mi sorgeva dinanzi alla mente quel personaggio pirandelliano dalla doppia personalità: numero uno e numero due (Si ride).

Scoccimarro numero uno affermava in maniera precisa la necessità di questa formula del tripartito e la possibilità di efficienza del Governo. Anzi, diceva: sarà efficiente, perché ubbidisce ai tre comandamenti: c’è un programma comune, vi è una ferrea disciplina, esiste l’unità di azione.

Ma dopo cinque minuti Scoccimarro numero due ha negato tutto: ha negato il programma, dichiarandolo inesistente; ha negato il valore della riforma strutturale dei Dicasteri – (unificazione del tesoro e delle finanze) – definendola dannosa anziché utile: ha negato l’esistenza della disciplina, denunciando il doppio giuoco dei partiti nel Paese; ha negato l’unità di azione, deplorando la mancanza di direzione governativa.

E allora, scusate, se noi che viviamo qui ed abbiamo una certa dimestichezza con i ludi parlamentari, rimaniamo disorientati e perplessi, che cosa deve dire il Paese, l’uomo della strada, l’uomo qualunque – non quello dell’omonimo partito – ma quello che rappresenta la grande moltitudine di coloro che lavorano e soffrono? (Interruzioni – Commenti).

Una voce a destra. Allora siamo noi! (Commenti).

MOLÈ. Voi non siete il Paese. (Applausi a sinistra). Che cosa volete che pensi il Paese? Ma questo cos’è? È un pactum foederis o un casus belli? È corresponsabilità o processo di responsabilità? Omogeneità o incompatibilità? E che razza di solidarietà e unità è codesta, che rinnega la responsabilità non solo dell’opera compiuta, ma di quella che ancora deve compiersi? In cui l’opposizione si annida non solo per il passato, ma anche per l’avvenire, nel seno stesso della maggioranza?

Amici miei, ho pensato, ascoltando il dibattito delle due parti in questa Assemblea alla formula dei rapporti famosi di Catullo e Lesbia. Odi et amo… Nec tecum vivere possum nec sine te. Ma questa non è la formula di un matrimonio, o se è la formula di un matrimonio, è un matrimonio destinato alla separazione e all’adulterio. (Ilarità – Commenti).

SCOCCIMARRO. Chi sarà il colpevole?

MOLÈ. Ve lo dico: la formula. Nessuno è colpevole. Alla mia onestà ripugna dover dire una parola che suoni responsabilità per gli uomini. Essa è nelle situazioni, nelle cose: in questa anormalità di rapporti equivoci, in questa unione delle forze centrifughe, in questo voler tenere insieme gruppi che si respingono, in questa disciplina senza convinzioni, in questa convivenza senza stima; è nella formula composita, signori.

Codesti rapporti sono equivoci. E l’equivoco non può durare a lungo.

Auguro agli amici del Governo che possano veramente, nel programma di emergenza che li unisce, superare tutto ciò che li divide, associandomi alla fiducia dell’onorevole Scoccimarro numero uno contro le critiche dell’onorevole Scoccimarro numero due.

Ciò è necessario per il bene del Paese che attraversa la sua più tragica ora. Ma denuncio il pericolo per l’avvenire perché l’equivoco non si perpetui, perché l’espediente transitorio non diventi il paradigma di una vita governativa stentata e grama, perché i partiti meditino fin da ora le cause del fenomeno, per cercare di rimuoverle, se è possibile.

Le cause di questo fenomeno sono veramente insuperabili? Questo mosaico di partiti al Governo è inevitabile? C’è chi dice di sì. E afferma che questi governi siano una conseguenza ineluttabile della «partitocrazia» che sostituisce la «democrazia», dopo la costituzione dei moderni partiti di massa che si suddividono le forze ed i cui capi vengono a patti fra di loro per tenere perpetuamente il Governo a mezzadria. Ma io osservo che dove non vige il sistema della proporzionale non si verifica né l’onnipotenza dei capipartito, né la necessità nei Governi compositi – o per lo meno non è fatale che si verifichi – e sempre viceversa questi due inconvenienti si verificano dove vige il sistema della proporzionale. E allora è facile fare i consequenziari e, usando il metodo delle variazioni concomitanti, concludere che la causa prima dei Governi compositi è la proporzionale che impedisce il sorgere di una maggioranza e determina dispersioni di forze e situazioni di concorrenza fra partiti di forze impari.

Ora è chiaro che quando non si vogliono le conseguenze, non bisogna volere le cause.

Bisogna riesaminare il meccanismo elettorale.

Pongo il problema alla Costituente, che deve risolverlo.

Non voglio dispiacere al mio amico Lussu così vivacemente avverso al collegio uninominale, che viceversa ho vanamente sostenuto in Consiglio dei Ministri nel primo Gabinetto De Gasperi, affermando la superiorità di questo sistema. Io dico che se non si vuole assolutamente il collegio uninominale, si può scegliere un altro sistema; per esempio, uno scrutinio di lista maggioritario, con la rappresentanza proporzionale delle minoranze.

UBERTI. La legge di Mussolini del 1923.

MOLÈ. Mussolini parlava e, malgrado questo, anche lei parla. Se lei non dovesse parlare, perché Mussolini ha parlato, non so se farebbe una cosa saggia, ma certo mi farebbe una piccola cortesia. Intanto le ricordo che le elezioni di Mussolini furono fatte con la daga del birro e con la violenza delle squadre, ma non fu interrogato il Paese.

Cerchiamo dunque una soluzione, e sia pure una soluzione intermedia che dia al Governo la possibilità di una maggioranza e dia alle minoranze la possibilità di essere rappresentate, ma modifichiamo il sistema attuale.

La lotta politica è qualche cosa che si evolve come tutte le cose vive al contatto della realtà. Cambiano le esigenze e cambiano le formule che se hanno sodisfatto vecchie esigenze, non corrispondono più alle nuove.

La mancanza di una maggioranza omogenea dipende dal fatto che troppi partiti sono in Italia nel campo della democrazia.

Bisogna concentrare, raccogliere, coordinare, fondere i piccoli nuclei per creare le forze efficienti. E i blocchi possono essere uno strumento efficace di tale esigenza. Il realismo politico c’induce a sostenerli e propugnarli. Perché bisogna impedire, con la debolezza dei Governi senza maggioranza unitaria, la frantumazione del potere statale, che conduce all’impotenza, alle trasmodanze dei ceti, alla crisi di autorità. La crisi di autorità sbocca nell’anarchia. L’anarchia è l’anticamera della dittatura. E noi non vogliamo, dopo averne fatto la tragica prova, il risorgere della dittatura.

Siamo contro la proporzionale che in un Paese come il nostro indisciplinato, scarsamente politico, individualista fino al parossismo, porta al Parlamento dodici gruppi o tredici partiti, facilitando, anche alle forze più esigue del Paese, la possibilità del successo. E propugniamo e sosteniamo la politica dei blocchi elettorali – beninteso fra gli affini – che corrisponda alla realtà del problema democratico, perché facilita e determina la polarizzazione di una maggioranza dell’Assemblea, che dia vita a Governi che governano.

I blocchi repugnano, forse per il carattere particolare di alcuni aggruppamenti sorti per ragioni contingenti nel passato. Ma i Governi compositi fra i gruppi parlamentari meno affini e più contrastanti fra loro, non costituiscono forse dei blocchi?

Blocchi anch’essi. Blocchi di secondo grado. Ma peggiori dei blocchi di primo grado che si possono almeno sottomettere al corpo elettorale. Perché questa è la differenza. I blocchi elettorali non possono formarsi che fra partiti affini in base a un programma «preventivo», sulla linea delle ideologie più vicine, e devono presentarsi agli elettori. Gli elettori devono giudicare: approvare e respingere blocchi e programmi e in base ad essi scegliere gli eletti. Gli eletti, a loro volta, s’impegnano e devono mantenere, se eletti, gli impegni verso gli elettori. Mentre i blocchi che si formano nell’Assemblea, per comporre un Governo, non si formano per convergenze ideologiche, ma meccanicamente, irrazionalmente, in base alle forze numeriche dei partiti nonché affini, spesso repugnanti e ostili fra loro. Non blocchi degli affini, ma blocchi dei contrari. Cioè blocchi coatti, imprevisti, imprevedibili, che sorgono non dalle designazioni elettorali, ma contro le designazioni elettorali, cui è forza solo il numero e ragione il solo scopo di esercitare il potere, e devono improvvisare programmi di fortuna in base a transazioni politiche, mescolanze, contro natura, contaminazioni ideologiche al di fuori della logica e dell’etica politica. Gli elettori non hanno approvato e non approvano queste alleanze contro natura che aggravano, non placano i dissidi e spiegano le baruffe nel Governo e nel Paese fra democristiani e socialcomunisti, questi associati senza socialità di vincolo e senza vincolo di solidarietà.

Noi auspichiamo viceversa i blocchi delle forze politiche, sulla linea delle parentele ideologiche. Questi blocchi non turbano la dialettica dei partiti e incontrano soltanto l’ostilità di quelli che amano chiudersi nel loro orgoglioso isolamento (quia nominor leo). E auspichiamo tali blocchi anche come mezzo graduale di assorbimento dei partiti minori, che non rispondono a un’esigenza assoluta, originale, autonoma, insopprimibile della vita associata, da parte dei partiti maggiori affini, con la fiducia che le grandi formazioni riescano finalmente a smuovere con la suggestione della forza l’assenteismo dei ceti medi dubbiosi come l’asino di Buridano, fra le troppe correnti di opinioni.

TOGLIATTI. La questione è che voi siete pochi.

MOLÈ. Pochi ma buoni, così buoni che spesso voi riconoscete la nostra bontà e vi servite delle nostre umili forze al servizio del Paese. (Approvazioni).

Credo di avere, del resto, chiarito abbastanza il mio pensiero. Se ci sono delle piccole forze, che non abbiano avuto fortuna perché la loro formula, che è affine o quasi identica a quella delle forze maggiori, non ha trovato seguito come queste altre, è necessario, per l’onestà e la sincerità delle correnti politiche del Paese, che le piccole forze si fondano con le forze maggiori, e formino le grandi concentrazioni politiche che possano aspirare al potere senza bisogno di patteggiamenti.

E, per quanto ci riguarda, noi ci auguriamo che dall’adesione e dalla collaborazione dei gruppi democratici di sinistra, che esprimono le forze del lavoro, di tutto il lavoro umano, e pongono come suprema esigenza l’anelito ormai insopprimibile della giustizia sociale, sorga intorno al vecchio tronco della democrazia socialista, maturo per attuare, senza violenze, la doppia istanza della trasformazione del regime capitalistico e del rispetto della libertà umana, e si affermi nel Paese la grande forza politica che, sola o insieme ai partiti più prossimi, possa assumere la responsabilità del Governo. Perché queste due esigenze: libertà umana e giustizia sociale costituiscono la meta, cui anelano i popoli. E verso questa meta ineluttabile procede sicuramente la storia. (Applausi a sinistra).

Passando ora da questa anticipazione avveniristica all’esame del programma, rileviamo che il programma riflette l’incertezza e l’equivoco della formazione governativa.

Non entrando di proposito nell’argomento ormai arato da tanti oratori di sinistra, ci limitiamo a richiedere una qualche parola di preciso orientamento circa il problema finanziario e monetario, che per la sua vastità paurosa è al centro delle preoccupazioni del Paese. Discorsi tecnici e proposte di soluzione ne abbiamo ascoltato ed alcuni ammirato. Ma il Paese, che li ha ascoltato come noi, è passato dal vertice della speranza al fondo della sconsolazione, come attraverso gli sbalzi di una montagna russa. Fra Lombardi e Tremelloni che vedono bigio, ma sperano, Corbino, che vede tutto nero e ammonisce ai pericoli del ciclone monetario del dollaro e della sterlina, e Scoccimarro che vede troppo roseo…

Voci. Rosso, rosso!…

MOLÈ. …è rosso ma vede roseo, – prevedendo la possibilità di una bonifica a breve scadenza, è chiaro che vorremmo che Scoccimarro avesse ragione, per quanto egli manovri su cifre immobili in una situazione particolarmente fluida. E siamo sicuri che l’onorevole Corbino sarebbe lieto di essere smentito dalla realtà, perché non gli facciamo il torto di paragonarlo a quel medico di Anatole France, che avendo fatto una prognosi infausta, aveva un fatto personale con l’ammalato che, essendo guarito, non gli aveva usato la cortesia di andare al creatore, per confermare la sua diagnosi.

Ma io vi parlo come l’uomo della strada che, fra queste anticipazioni di uomini fuori del Governo e di ex ministri polemizzanti sull’azione governativa, attende da Campilli – il Ministro responsabile che deve non polemizzare ma agire – non che gli faccia veder rosso, grigio o nero nell’avvenire, che riposa sulle ginocchia di Giove, ma che gli faccia veder chiaro nei suoi propositi. Il Paese vuol capire. Il Paese versa in una crisi d’incertezza, che produce reazioni diverse nei vari ceti: imboscamento del capitale dei profittatori, inerzia negli uomini d’iniziativa, paralisi in alcune industrie, ansia angosciosa e disoccupazione nei lavoratori, incitamento al carpe diem (chi vuol esser lieto sia – del diman non v’è certezza) in larghi strati della popolazione. È la corsa sfrenata ai godimenti materiali, la maschera paradossale della umanità sconvolta nei periodi oscuri della storia, in cui di fronte all’uomo che muore di fame si scatena in altri ceti una specie di euforia irresponsabile, quella che leggemmo nelle descrizioni delle crisi economiche e morali che si verificano nelle ore drammatiche della vita dei popoli.

E l’incertezza viene acuita dalle discussioni polemiche su ciò che, secondo alcuni, non si è fatto e non si poteva fare, di fronte ad un mercato tumultuoso e ad una lira malata.

Occorre orientare il contribuente, l’industriale, il lavoratore, la massa della popolazione, che vuole sapere, sia pure approssimativamente, il suo destino. I problemi ristagnano da oltre un anno, nella incapacità di decisione dei Governi compositi.

Cambio della moneta? Imposta straordinaria? Economia, di spese? Energica politica fiscale? Il tema dei salari e dei prezzi, è il tema che interessa più da presso le classi disagiate, operai, impiegati, piccoli borghesi a stipendio fisso, che sono la grande maggioranza del Paese, una sola famiglia unificata dalla privazione sotto il titolo della fame. Léon Blum ragiona froebelianamente così. Noi ci aggiriamo in un circolo vizioso che bisogna spezzare. L’aumento dei salari fa aumentare il costo delle merci. L’aumento del prezzo delle merci fa abbassare il valore della lira per diminuita fiducia e diminuita potenza d’acquisto. L’abbassamento del valore della lira produce un altro aumento dei prezzi delle merci. Due aumenti di prezzo per ogni aumento di salario. E poiché l’aumento del prezzo delle merci è maggiore dell’aumento dei salari, avviene che con il salario aumentato l’operaio compra una minore quantità di merce di quanta non ne comprava col salario non aumentato: ha cioè minore disponibilità di generi. Svantaggio dunque evidente di una situazione veramente paradossale per la quale crescendo i salari, diminuisce lo standard di vita del lavoratore. Ma poiché la fame esiste, come venire in aiuto del proletario affamato? Volete, potete tout court bloccare i salari ed i prezzi, senza ancorare la lira? Quel che intanto è necessario è una energica politica di approvvigionamenti, che permetta di deprimere i prezzi con la più larga disponibilità di merci e di derrate sul mercato e di disporre assegnazioni sufficienti a prezzi di costo lievemente maggiorati di generi alimentari, tessuti, scarpe, vestiti, alle classi disagiate.

L’operaio, l’impiegato, le classi disagiate hanno bisogno di cose a buon prezzo, non di danaro. I biglietti da mille sono chiffons de papier, carta straccia, inadeguata e insufficiente a comprare le cose ad alto prezzo. Al qual proposito mi sia lecito ricordare che, quando ero Ministro dell’alimentazione, d’accordo col Presidente Parri, emanammo un decreto-legge che stanziava tre miliardi per la creazione e il primo finanziamento di cooperative impiegatizie e di enti per consumi di masse, e garantiva il 60 per cento fino alla concorrenza di sei miliardi, sul credito che le banche erano autorizzate a concedere a tali enti per acquisto di merci o derrate. È utile resuscitare, aggiornare quel vecchio provvedimento che non ebbe esecuzione e fu abbandonato? Non so. Mi contento di porre il quesito all’onorevole De Gasperi. Mi limito a esprimere l’incitamento che sorge dal Paese. Scegliete una via e date la sensazione che questa via si segua. L’esigenza tecnico-economico-finanziaria diventa oramai una esigenza politica, perché il Paese possa lavorare con una relativa fiducia.

Passando dalla politica finanziaria alla politica scolastica, sono lieto che il Ministro della pubblica istruzione abbia condotto in porto il provvedimento del ruolo aperto per i maestri elementari, che io avevo preparato con fervido amore insieme con l’altro progetto per l’inquadramento dei direttori didattici e degl’ispettori scolastici.

Ringrazio il Ministro di aver riconosciuto la improrogabile necessità del primo, e spero che vorrà dare il suo nome anche al secondo, tanto più che costa pochi milioni. Sarebbe ingiusta la sperequazione. Il direttore, l’ispettore rimangono al disotto dei maestri anziani. Non si può elevare la condizione dei maestri e diminuire quella del personale dirigente. Sono due provvedimenti di giustizia che vanno collegati.

Altri spero che seguiranno: quello per l’istruzione tecnico-professionale, orientato con criteri realistici verso una sana collaborazione fra lo Stato e gli enti locali, che devono suggerire quale tipo di scuola tecnica corrisponda al fabbisogno delle maestranze, dei capotecnici, dei navigatori e agricoltori, degli operai specializzati, non in base a criteri capricciosi, ma in armonia con le esigenze regionali. E attendo la soluzione dell’altro problema: quello della ex G.I.L. con le sue palestre, le sue dotazioni, i suoi edifici, tutto un patrimonio disperso che deve ritornare alla scuola di Stato. Bisogna aiutare le scuole private, ma in cima ai pensieri del Governo deve essere la sua scuola, la scuola di Stato. E insieme con questi problemi, occorre affrontare quello dell’integrazione dei bilanci universitari – e gli altri numerosi di tutti gli ordini e gradi dell’istruzione, che discuteremo in sede opportuna, come meritano la loro importanza ed ampiezza.

La Costituente deve porre il problema della scuola, di tutta la scuola, all’ordine del giorno dello Stato repubblicano.

Questo è il settore più delicato. Il problema della scuola è il problema della giovinezza: il più ansioso e angoscioso, perché attraverso la scuola dobbiamo disintossicare gli spiriti delle giovani generazioni, conquistarle alla nuova Italia, ancorarle verso gli ideali di libertà, di giustizia, di progresso pacifico, di solidarietà umana e internazionale.

I      problemi economici sono i più urgenti, perché assicurano la vita e il pane al popolo. Ma non di solo pane vivono gli nomini. Vicino al problema della rinascita economica, bisogna porre il problema della scuola. E la scuola non si ricostruisce senza adeguati mezzi. Bisogna rivedere e distribuire più equamente fra i vari dicasteri, gli stanziamenti di fondi. Quelli della pubblica istruzione sono assolutamente sproporzionati di fronte all’immane compito. È necessario provvedervi. Guai a noi se non preparassimo con la ricostruzione delle cose la ricostruzione degli spiriti. Il problema della Repubblica è il problema della giovinezza.

Il fascismo è durato venti anni, perché per venti anni ha impresso l’artiglio nella scuola, ipotecando il futuro e legando le giovani generazioni alle vecchie.

È passato come il turbine devastatore su tutti gli ideali civili e i valori morali. E ha operato soprattutto come corruttore di spiriti attraverso la scuola e il dopo scuola sul più prezioso materiale umano.

La scuola fascista s’impadronì del bambino e lo seguì passo passo fanciullo, adolescente, giovine, dai primi rudimenti dell’istruzione alla completezza della cultura superiore, imbottendogli il cranio e non abbandonando mai la preda per stamparle fino alle midolla il segno del suo dominio.

Fu un monopolio integrale, il possesso totale della giovinezza. La caserma completò l’opera, associando il libro al moschetto, la menzogna che fuorvia alla violenza che la impone e sostiene. E il giornale, il teatro, la radio, completarono l’opera del libro, moltiplicando fino allo spasimo la predicazione dei falsi vangeli, l’amplificazione dei falsi eroi delle posticce grandezze, la glorificazione della infallibilità del pastore e della fedeltà del gregge.

L’efficacia negativa di quella saturazione morbosa, di quell’avvelenamento spirituale, unito alla delusione della pace iniqua, spiega purtroppo il disorientamento che ancora perdura fra molti giovani o non più giovani, i quali camminano ancora con la testa rivolta, come i dannati danteschi, verso un nostalgico passato di cui non misurano il fallimento pauroso.

Provvediamo subito, in tempo, beneficiando della esperienza passata. I nostri figlioli saranno migliori di noi, se dopo la guerra che Croce chiamò «di religione», li aiuteremo a superare questa crisi degli ideali.

E bisogna mobilitare la scuola come protagonista in questa lotta. Tutta la scuola. Non ci avvenga, come soleva avvenire agli uomini di alta cultura provenienti dalla cattedra che si occupavano di un solo insegnamento: per esempio, dell’insegnamento superiore e poco della scuola elementare e di quella tecnico-professionale.

Sarebbe un errore gravissimo. La scuola è unica e non ci sono compartimenti stagno. C’è un’unità inscindibile nel processo formativo delle coscienze. In alto, aristocrazia del pensiero e dell’arte, la istruzione superiore universitaria, con la ricerca scientifica, la speculazione filosofica, la elaborazione giuridica, che deve incrementare così le nostre possibilità di progressi tecnici come il nostro patrimonio ideale.

Nel mezzo la scuola, la scuola media e professionale che è chiamata a dare il grosso delle classi impiegatizie, gli artefici, artigiani, capitecnici, operai qualificati che se (purtroppo) dovranno emigrare pel mondo, non porteranno più la sola forza dei muscoli, ma la luce dell’intelligenza.

Alla base la scuola elementare, che dal punto di vista politico ha la funzione più vitale per l’avvenire della nostra democrazia repubblicana, perché è soprattutto chiamata a formare la coscienza civile e morale del popolo.

Mentre la cultura superiore è, almeno per ora, riservata ai privilegiati; mentre gli altri ordini dell’insegnamento sono chiamati a preparare le classi dirigenti, dalla scuola elementare escono le immense riserve umane che danno ai campi, alle officine, alle forze produttive della ricchezza e della prosperità del Paese lo smisurato esercizio del proletariato lavoratore.

Dai banchi della scuola elementare esce l’uomo del popolo per affrontare la lotta per la vita. Ed è dal grado di civiltà e consapevolezza del popolo che dipendono i destini della patria e la difesa della civiltà.

Agli educatori e docenti di ogni ordine e grado, ma soprattutto a quelli più umili, è riservata la grande missione di orientare l’anima collettiva verso la religione degli ideali, in modo che il numero diventi coscienza.

Ma perché questi duecentomila soldati del dovere e del sapere, che si raccolgono ogni giorno, in ogni angolo della patria, con cinque milioni di scolari per operare in profondità sul più prezioso materiale umano, siano capaci di esercitare questa missione, di educare e istruire i nostri figli, bisogna che siano sicuri della sorte dei loro.

Tutto il magistero educativo è nel maestro. Al centro del problema della scuola è sempre il problema umano. Comunione spirituale fra maestro e discepolo.

Guai se questa funzione delicata e difficile fatta di pazienza, di dedizione, di amore viene isterilita dalla preoccupazione del pane quotidiano, dall’assillo della miseria, dallo spettro della fame! Se non si ama la scuola non si può fare la scuola. E non si ama la scuola, avendo dinanzi agli occhi lo spettacolo dei figli denutriti e delle mogli anemiche!

Ora è questo lo stato d’animo di questi proletari, incerti dell’avvenire, inaspriti dal bisogno. Occorre pacificarli, perché non diventino l’esercito dei malcontenti e avvelenino alle fonti la primavera umana della patria e preparino una generazione di scettici e di ribelli.

Onorevoli colleghi, volgo alla fine, rinunciando a dire molte cose che potrebbero ancora costituire argomento di discussione.

Avremmo voluto che il Governo, nelle sue comunicazioni, non avesse taciuto della questione meridionale, per quanto intendiamo la difficoltà d’inserirla in un programma d’emergenza.

Siamo in compenso lieti della notizia relativa ai rinnovati organi di natura così squisitamente politica e sociale: il Commissariato e il Consiglio dell’emigrazione, che ebbero una funzione e un rilievo di primaria importanza, quando se ne occuparono uomini di dottrina e di fede, fra i quali ricordo una grande anima di siciliano che morì dimenticato, trascurato e povero dopo una vita luminosa di lavoro e di sacrificio dedicata al servizio del Paese: Vincenzo Giuffrida. (Approvazioni).

A noi che, come italiani e come meridionali, conosciamo di quante lacrime grondi e di quanto sangue la nostra emigrazione, e quanto sia stata eroica questa odissea di umili soldati del lavoro e della miseria, che dovettero abbandonare la patria per vivere, e quando essa chiamò vi tornarono per morire, è argomento di soddisfazione l’affermazione del dovere che ha il nostro Paese di tutelare i necessari esuli di questo popolo povero, di 45 milioni di uomini costretti ancora ad esportare lavoro di braccia umane che diventeranno la vertebra delle altrui ricchezza.

Questo flusso di uomini, che è un vero salasso, è utile o dannoso? Bisogna aiutarlo o comprimerlo? Io ricordo la vecchia appassionata polemica fra Claudio Treves e Luigi Luzzatti, circa i vantaggi e gli svantaggi dell’emigrazione.

Luzzatti che teneva l’occhio alle rimesse degli emigranti ai fini del pareggio, del bilancio e alla supervalutazione della lira, diceva: «Partite e arricchitevi», che voleva dire: arricchiteci e arricchite la patria lontana.

Treves invece diceva: «Restate e levatevi. Ottenete migliori condizioni di vita e siate la vertebra umana della nostra ricchezza, non dell’altrui».

Ma la polemica si riproduce in un ben diverso panorama storico, in una Italia povera e senza risorse, ove è troppo pericoloso risuscitare fantasmi di prosperità impossibile e di autarchie fatali.

I tempi sono mutati. Nel suolo della patria, non ingrata ma povera e sempre più insufficiente ai suoi figli, non c’è lavoro bastevole. Il dilemma è ora ben altro. È quello dell’eroe shakespeariano: partire e vivere o restare e morire. Vivere di lavoro in terre altrui o – in terra propria – morire di fame.

Ma tanto più bisogna aprire, allargare, garantire mercé accordi sicuri con altri popoli gli sbocchi a questo fiotto umano, trovare mercati redditizi, e prosperi, perché gli operai non soggiacciano al doppio pericolo della xenofobia e della miseria, in paesi lontani e nemici, in cui anche la espressione del pensiero nella lingua ignota è incerto o è impossibile; disciplinare le correnti migratorie, seguirle indirizzarle, proteggerle; e nei luoghi del lavoro e del sacrificio mantenere presente la immagine della patria nel cuore dei figli lontani.

Ho finito, onorevoli colleghi. Non parlerò della firma del Trattato di pace. L’argomento, espresso o sottinteso, nei discorsi pubblici e in quelli privati, incide nel nostro cuore, come una ferita che sanguina.

Ma, poiché in tema di politica estera hanno espresso un pensiero comune gli amici di questi settori, insistere mi pare vano.

Tornare sulla quistione della firma, della ratifica, della competenza, della procedura, non penso che sia opportuno, per motivi esterni ed anche per motivi interni, poiché abbiamo anche troppo compreso che attraverso questo problema della procedura si tenta di ingarbugliare e deludere il problema ben più grave della responsabilità.

Ora, sia detto e ripetuto ben chiaro, agl’immemori o a coloro che fingono di dimenticare. I Governi che si son succeduti dopo la caduta del regime fascista sono stati i liquidatori coraggiosi e coatti di una bancarotta paurosa. Ma due sono i responsabili di questa bancarotta paurosa che seguì a un grande delitto: il fascismo e la monarchia.

Detto questo, non occorre ripetere che con la firma o senza la firma, il consenso mostruoso della vittima al suo sacrificio, che viene estorto col coltello alla gola all’Italia mutilata e dissanguata, perché non solo accetti ma cooperi al suo dissanguamento e alla sua mutilazione scellerata, non è un consenso. L’Assemblea giudicherà se ratificare protestando o protestare non ratificando l’iniquo trattato.

Noi non possiamo riconoscerlo.

È giunto il momento di ricorrere a quella che Giuseppe Mazzini, non più finalmente esule nella patria repubblicana, definì la diplomazia diretta dei popoli.

Bisogna portare il contradittorio dal chiuso ambiente delle Cancellerie dinanzi alla coscienza dell’universo.

Bisogna appellarsi alle Assemblee elettive delle grandi democrazie contro l’iniquità dei governanti.

Bisogna dir loro che essi continuano nel gioco sinistro delle influenze la lotta egemonica dei grandi rapaci. E contro i trattati di pace che costruiscono e organizzano macchine infernali di guerra, bisogna invocare la solidarietà delle moltitudini di tutti i Paesi: chiedere a tutti i lavoratori del mondo che si uniscano per attuare la giustizia fra le classi e la giustizia fra le nazioni.

Funzionerà questa internazionale del lavoro, della fraternità fra gli uomini oscuri, di tutti i linguaggi, di tutte le terre, che non detengono le ricchezze, ma producono le ricchezze, che non dispongono del potere, ma sono la potenza insopprimibile del numero e del sacrificio, che non vogliono la guerra, ma danno a tutte le guerre il loro olocausto umano? Noi lo speriamo.

Più volte nel corso dei secoli l’Italia ha conosciuto l’avversità dei destini, l’ostilità delle cose, la ferocia degli uomini.

Nessun Paese del mondo ha subito e superato come il nostro, legato alla sua fatalità geografica, tanti cataclismi della natura e tanti rovesci della storia. Noi siamo i figli della terra che conosce i terremoti eversori delle case e le incursioni dei barbari, distruttori della civiltà. E più volte nel corso della nostra vita secolare, ci siamo levati contusi e sanguinanti dalle macerie, abbiamo asciugato le nostre lacrime, abbiamo seppellito i nostri morti, abbiamo ricostruito sulle rovine, abbiamo conteso alla sterilità la terra bruciata, abbiamo lasciato indietro il passato che non torna, abbiamo ripreso il cammino verso l’avvenire sotto questo cielo implacabilmente luminoso e sereno sovra tutte le sciagure umane.

Avverrà anche questa volta.

Mutilata, contusa, sanguinante, l’Italia riprenderà il suo cammino, ripetendo il grido della vita che non vuole morire.

Perché le sopraffazioni di vincitori sono di natura effimera. E i popoli vinti – tanto più quanto non sono vinti, ma ingannati e traditi – non muoiono per l’iniquità di un trattato.

Muoiono quando non hanno più ragione di vivere o missione da compiere.

Muoiono per la condanna della storia.

Ebbene, signori, ripetiamo senza odi, senza minacce e senza iattanza, la parola della fede nell’ora più mortificante del nostro destino.

L’Italia, con i suoi quaranta milioni di uomini onesti, civili, pacifici, pel suo passato è per il suo avvenire, ha ancora qualche missione da compiere, ha ancora qualche parola eterna da dare al patrimonio ideale del mondo. (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la onorevole Bei Adele. Ne ha facoltà.

BEI ADELE. Numerose, lettere, che mi sono pervenute da molte parti d’Italia mi hanno indotto a prendere la parola in questa Assemblea. Sono lettere di vedove, di reduci, di partigiani, di mamme che sono state colpite dai disagi e dalle distruzioni di questa guerra. In talune di queste lettere mi si chiedono spiegazioni circa la soppressione del Ministero dell’assistenza post-bellica per la cui opera vi sono state tante manifestazioni di fede, manifestazioni provenienti da diverse parti d’Italia per protestare appunto contro la soppressione di questo Ministero, che è stato così prezioso ed utile per l’assistenza prestata a milioni di cittadini italiani.

Infatti io stessa, che lavorai durante la scorsa estate per organizzare le colonie estive, quando lessi il comunicato della soppressione di questo Ministero, mi domandai in quale forma il Governo avrebbe potuto continuare quest’opera svolta dalla post-bellica.

Se noi esaminiamo la situazione attuale vediamo che i disagi della guerra si scorgono ancora ovunque; vediamo ancora migliaia e migliaia di disoccupati, reduci e partigiani, vediamo ancora per le vie d’Italia tanta miseria ed ovunque migliaia di bambini, intere famiglie colpite tanto duramente dalla guerra, che chiedono assistenza, che chiedono del pane, che chiedono aiuto.

Tutto ciò ci porta a considerare l’importanza di questo Ministero, e la necessità della continuazione dell’opera da esso intrapresa. Oggi in Italia nessuno ignora che questa attività è stata veramente utile, nessuno può ignorare la grande opera svolta in ogni parte d’Italia dall’organizzazione proveniente dal Ministero stesso. A questo riguardo conviene esaminare l’assistenza all’infanzia italiana che è stata di grande utilità per le famiglie e particolarmente per coloro che sono stati più duramente colpiti dalla guerra. Naturalmente, è accaduto che taluni giornali reazionari hanno attaccato l’opera di questo Ministero. Vi sono anche degli uomini politici e delle donne che hanno cercato di fare insinuazioni sulla sua opera, ma io credo che questi uomini e queste donne non vi abbiano mai preso parte attiva. Specialmente preziosa è stata durante l’estate scorsa la grande opera di assistenza svolta in favore dell’infanzia abbandonata. Così dicasi per le colonie estive, ed in questo settore abbiamo visto migliaia e migliaia di bambini che hanno potuto usufruire dell’assistenza economico-sanitaria e che solo per suo merito moltissimi hanno potuto risanarsi.

Circa mezzo milione di bimbi in Italia sono stati assistiti nelle colonie estive. Vorrei citare la sola opera intrapresa nella mia provincia di Pesaro. Solo in questa provincia vi sono state 28 colonie estive organizzate e finanziate dall’assistenza post-bellica, con l’aiuto di altre organizzazioni di massa. In queste 28 colonie estive sono stati assistiti più di 4000 bambini che, nel periodo di un mese, hanno potuto aumentare il peso da uno a tre chili. Io stessa ho potuto assistere a queste colonie; io stessa mi sono felicitata con gli organizzatori, vedendo questi bimbi così bene assistiti, che, durante tutta la giornata, potevano stare al mare, mangiare bene, risanarsi.

E non è solo questo che l’assistenza postbellica ha fatto. Altre iniziative così utili e così necessarie sono da continuare: centinaia e centinaia di asili per bambini, collegi, refezioni scolastiche. Cito sempre ad esempio la provincia di Pesaro: vi sono refezioni scolastiche estese a tutti i bambini del popolo al disotto dei dieci anni, anche a coloro che non frequentano più le scuole. È evidente, d’altra parte, la grande differenza che vi è fra i bambini assistiti e quelli che non possono essere ancora assistiti; fra i primi si vedono dei bambini più gioiosi, più sani. Perciò è necessario continuare questa assistenza e io penso che è necessario continuarla sotto i vari aspetti intrapresi dal Ministero per l’assistenza post-bellica.

Cito ad esempio le numerose cooperative che sono sorte: a me risulta che vi sono 80 cooperative costituite che danno lavoro a 100.000 reduci e partigiani. Senza queste cooperative, essi avrebbero vagabondato per le vie d’Italia a mendicare un pezzo di pane e, il più delle volte, a fare mestieri che essi stessi non vorrebbero fare.

Queste cooperative hanno avuto ed hanno tuttora varie iniziative a beneficio della ricostruzione italiana.

Ancora di più ha fatto il Ministero della assistenza post-bellica per le scuole professionali: 20.000 giovani frequentano queste scuole. Vi sono dodici convitti-scuola con 12.000 allievi; sono state elargite 10.000 borse di studio, che sono veramente una risorsa per le famiglie dei lavoratori e dei poveri. Per la prima volta, si può dire, in Italia, si è data questa grande facilitazione a coloro che hanno bisogno. Ebbene, è necessario continuare su questa via.

Voglio parlare anche delle mense popolari e di quello che si è fatto per organizzarle. Non so se tutti noi valutiamo l’importanza di queste mense. Cito ad esempio ancora la mia provincia, che frequento molto. Vi è a Pesaro una grande mensa popolare organizzata dal, Ministero dell’assistenza post-bellica in un locale che nel passato serviva come ritrovo per la borghesia pesarese. Questo locale, vicino al mare, era stato distrutto dalla guerra ed è stato ricostruito dalla post-bellica ed ora tutti i giorni circa 4000 lavoratori di tutti i ceti sociali frequentano questa mensa e mangiano a sazietà con 50 lire per ogni pasto. Molte famiglie di Pesaro, famiglie povere, possono andare a ritirare i pasti a buon mercato. Io penso che le mense popolari siano una grande risorsa per i paesi poveri; penso che l’assistenza post-bellica, in quelle città dove si sono potute organizzare mense popolari, ha evitato che migliaia di persone soffrano la fame, che migliaia di persone siano costrette a fare una vita di privazioni e stenti. È necessario perciò, io penso, continuare l’assistenza, continuare questa grande opera intrapresa dal Ministero, che sorse appunto dopo i disagi dell’ultima dura guerra.

Noi non abbiamo fatto una resistenza alla soppressione del Ministero dell’assistenza post-bellica, e sono d’accordo con il mio partito che non ha fatto una protesta energica contro la sua soppressione; noi pensiamo però che l’opera intrapresa dal Ministero soppresso debba essere continuata, sia pure alle dipendenze di un Ministero dei vari Sottosegretariati. La forma, infatti, per noi non conta: quello che conta è la sostanza; quello che conta è la necessità di continuare sotto varie forme l’assistenza al popolo italiano, che oggi più che mai ne ha bisogno, perché oggi più che mai i disagi della guerra si sentono ancora in ogni parte d’Italia. Noi abbiamo visto che sono stati costituiti quattro Sottosegretariati che dovrebbero svolgere le varie forme di organizzazione assistenziale in favore del popolo. Ebbene, noi pensiamo e abbiamo fiducia che questi Sottosegretariati continuino il lavoro intrapreso dal Ministero dell’assistenza post-bellica. Noi ci facciamo interpreti del pensiero dei milioni di reduci e partigiani che, ancora senza lavoro, attendono l’assistenza, attendono la protezione. Soprattutto ci facciamo interpreti del pensiero delle migliaia e migliaia di donne che sono rimaste vedove per la perdita dei loro mariti, che per la perdita dei loro figli sono rimaste sole. Chiediamo a nome di questi colpiti che il Governo continui l’assistenza, che il Governo continui a curare quelle istituzioni che furono create per iniziativa del Ministero soppresso, che il Governo continui a crearne anche delle nuove.

Bisogna non sopprimere quelle istituzioni che sono così utili alla ricostruzione morale e materiale dell’Italia; ad esempio, io so che ad Urbino, per iniziativa del Ministero dell’assistenza post-bellica, fu fondato il collegio per i bimbi dei fucilati della regione. Questi bambini sono numerosi, perché la regione delle Marche è una più colpite dalla guerra partigiana: sono figli dei nostri eroi, di quegli uomini che al nostro fianco durante la guerra di liberazione lavorarono e lottarono per liberare l’Italia. Questi piccini non devono essere preda delle mene reazionarie, di quei reazionari che continuano a dire che i loro genitori sono morti per una causa ingiusta. Questi bimbi devono sentirsi assistiti, perché questa è l’eredità che ci hanno lasciato coloro che sono caduti combattendo. Quindi l’iniziativa della post-bellica, per il collegio di Urbino, deve essere portata a termine; e questi bimbi devono da noi essere assistiti, devono essere curati, devono poter domani essere degni dei loro genitori che sono caduti per la libertà d’Italia.

Una iniziativa simile è sorta nella Calabria, a Gioia Tauro; anche lì dobbiamo continuare; anche lì dobbiamo rafforzare; anche questo collegio deve accogliere centinaia di bimbi dei nostri fucilati. In conclusione, io vorrei dire che non dobbiamo sopprimere ma prepararci a nuove iniziative; la situazione reale italiana ci dice che vi sono ancora nel nostro Paese milioni di persone che devono essere assistite, vi sono ancora a Napoli e a Roma centinaia e centinaia di bimbi che vagabondano nelle vie. Questi sciuscià devono essere accolti da noi se non vogliamo domani creare dei sanatori, al posto delle officine, se non vogliamo vedere domani questi bimbi d’Italia, che dovrebbero essere la gioia della famiglia, diventare dei delinquenti. Bisogna per tempo curare questi bimbi. Perciò, noi chiediamo al Governo, fin da ora, d’iniziare l’opera per le colonie estive. Non mezzo milione di bimbi dovranno essere assistiti nelle colonie, ma dei milioni. Noi dobbiamo risanare l’infanzia italiana per fare di questi bimbi un esercito di lavoratori del braccio e del pensiero e non farne, come nel passato, un esercito di giovani condannati a morire nelle guerre.

Vorrei dire poche parole sull’opera del Governo che, mediante i Sottosegretariati, deve procurare lavoro ai disoccupati. Devono essere fondate cooperative sotto varie forme, continuando cioè l’opera del Ministero dell’assistenza post-bellica.

Vogliamo assistere il popolo, perché vogliamo riportare la serenità nella famiglia, e la serenità non si porta solo a parole, ma si porta a fatti, si porta con l’assistenza fattiva, con la rieducazione dell’infanzia abbandonata, col lavoro e con rassicurare un minimo di esistenza a questa famiglia italiana.

Noi vogliamo, con la nostra opera, far ritornare la pace nella famiglia, far ritornare il sorriso sulle labbra dei milioni di bimbi d’Italia colpiti dalla guerra. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nenni. Ne ha facoltà.

NENNI. Per mandato del gruppo parlamentare del Partito socialista italiano dirò, il più rapidamente possibile, le ragioni per le quali, alla fine di questa discussione, noi voteremo per il Governo, al quale abbiamo l’onore di partecipare. Vorrei, nel medesimo tempo, anche dire le ragioni per le quali questo «sì» che noi diamo al Governo va di pari passo con un «no» nei confronti della società italiana, quale è ancora oggi.

L’Assemblea troverà probabilmente logico che prima di parlare della crisi, dei problemi che essa ha posti, di quelli che ha risolto o tentato di risolvere, mi soffermi un momento sulla situazione che è stata creata nel nostro Paese dalla firma del Trattato. Sono tanto più giustificato a farlo, visto che debbo soltanto alla malaugurata scissione che si è prodotta nel mio partito se col suo concorso – qualcuno dirà col suo soccorso – ho potuto esimermi dal prendere davanti all’Assemblea una responsabilità diretta, insieme al Presidente del Consiglio, nella questione della firma del Trattato.

Per me, signori, il problema di fronte al quale si è trovata l’Italia non è stato mai quello della firma o della non firma, ma quello della esecuzione o della non esecuzione del Trattato.

Ho detto alla Commissione dei trattati, e voglio ripetere qui, che debbo fare una riserva sulla procedura seguita dall’onorevole De Gasperi di fronte al problema della firma. Nel precedente Governo non fu mai considerata la possibilità che si potesse arrivare alla firma senza aver consultato, in modo diretto o indiretto, l’Assemblea. Né noi ci soffermammo mai, fino agli ultimi giorni, sulla distinzione (forse giuridicamente fondata, per quanto politicamente senza valore) tra firma e ratifica.

Comunque, signori, sono queste delle pure questioni di forma. Noi mancheremmo al nostro dovere verso il Paese se lasciassimo credere che l’atteggiamento del Governo e del Paese poteva essere diverso da quello che è stato, e noi commetteremmo una grave colpa non solo nei confronti della generazione attuale, ma delle generazioni future, se lasciassimo sussistere il dubbio che potevamo sottrarci all’obbligo della esecuzione.

La verità, signori, è che la situazione creata dalla disfatta è tale che se anche le condizioni del Trattato fossero state per evenienza peggiori di quelle che sono, noi non avremmo potuto che eseguirle. Forse c’era un mezzo per sottrarsi a questa fatalità: fare una sortita di altro genere di quella alla quale ha accennato nel suo discorso il Presidente del Consiglio; ma non v’è certamente nessuno in questa Assemblea (e penso non vi sia nessuno nel Paese) il quale possa sostenere che avremmo servito il Paese se avessimo tentato la sortita alla quale alludo. Noi ci siamo trovati e ci troviamo esattamente nella situazione nella quale si trovarono l’Assemblea di Bordeaux nel’1871, il primo governo sovietico al momento della pace di Brest Litowskj, l’Assemblea di Weimar nel 1919: paghiamo per errori che non abbiamo commessi e per Governi e regimi contro i quali ci siamo sempre battuti. (Applausi).

RUSSO PEREZ. Nessuna di quelle Nazioni era stata cobelligerante.

NENNI. Ci fu nel 1871, da parte della Comune, un tentativo di sottrarsi a questa fatalità, tentativo generoso ed eroico, ma che fu schiacciato. I bolscevichi si trovarono alle prese con un identico problema, quando dovettero firmare la pace di Brest Litowskj, ma ognuno sa come, nelle appassionate polemiche fra il realismo di Lenin ed il romanticismo di Trotzky. Il realismo di Lenin ebbe ragione nell’immediato e nello sviluppo storico, poiché dal punto in cui l’Unione Sovietica era caduta con la pace di Brest Litowskj, essa si è poi risollevata fino alla gloria di Stalingrado ed alla vittoria. (Applausi a sinistra).

Diceva allora Lenin che una delle ragioni, per le quali l’Unione Sovietica doveva firmare, era che i bolscevichi avevano promesso ai lavoratori ed ai contadini della Russia la pace.

Anche noi, signori, anche la Repubblica italiana ha promesso ai lavoratori, ha promesso ai contadini, ha promesso a tutto il popolo la pace. Vuol dire forse che per precostituirci questo diritto alla pace, noi dobbiamo fingere di non vedere ciò che c’è d’ingiusto e di odioso nel Trattato di pace? No, signori.

Il Trattato ha creato situazioni che nei prossimi anni dovranno essere corrette. Il Trattato ha creato una situazione difficile fra noi e la Francia, a causa della frontiera occidentale e fra noi e la Jugoslavia, a causa della frontiera orientale. Il Trattato ha alterato gravemente i nostri rapporti coi Quattro, per aver strappato alla madre patria Trieste e il territorio che costituirà lo Stato libero di Trieste e ha turbato i nostri rapporti col Regno Unito, per il mancato statuto destinato a regolare la situazione degli italiani nell’Africa.

Noi non sottacciamo codeste difficoltà, noi non veliamo la nostra protesta, né rinunciamo e rinunceremo all’appello al diritto. Èperciò, signori, che il 20 dicembre scorso, mentre durava la crisi, inviai ai rappresentanti delle quattro Potenze la nota con la quale il Governo domandava che il diritto di revisione fosse iscritto nel Trattato.

Penso, del resto, che alla fine della discussione sulle comunicazioni del Governo l’Assemblea Costituente interpreterà il sentimento e l’interesse del Paese, se farà pervenire alla Camera dei Comuni, al Parlamento francese, al Senato americano, al Consiglio Supremo dei Sovieti la espressione della nostra volontà di ricercare con la procedura della revisione una distensione nei rapporti fra i popoli, e un mezzo per risolvere pacificamente le difficoltà presenti.

Sapevo che l’accoglienza immediata alla proposta non sarebbe stata favorevole; sapevo e sappiamo tutti che l’arma della revisione può essere usata a fini diversi. Quando Hitler parlava della revisione, preparava psicologicamente uno stato di guerra. Quando noi parliamo della revisione, è per rendere impossibile la guerra, è per aprire ai popoli una procedura di pace.

Non posso quindi che congratularmi con l’onorevole Sforza per avere egli ripreso con tanto vigore nella sua nota di protesta il principio della revisione e non posso che riaffermare la nostra fiducia nella possibilità di risolvere con negoziati bilaterali coi Paesi interessati e nell’ambito dell’O.N.U. i problemi che il Trattato di pace non ha risolto, perché non è il risultato d’una libera discussione, ma traduce, in termini sovente di ingiustizia, la volontà dei vincitori nei confronti dei vinti.

E neanche dobbiamo rinunziare, onorevoli colleghi, a porre davanti all’opinione pubblica mondiale i problemi della nostra pace. Quello che ci è sembrato curioso e in una certa misura tenebroso, nelle polemiche dei giorni scorsi (che si riprodurranno, certamente, quando verrà il problema della ratifica), è che proprio coloro i quali hanno messo il paese nella situazione attuale si erigono a giudici ed a critici della democrazia italiana. (Applausi a sinistra).

La verità è che per fare una discussione critica del Trattato avremmo bisogno di avere al banco del Governo non gli uomini che per 20 anni si sono battuti contro il fascismo, ma coloro i quali il 10 giugno del 1940 ingannarono il popolo con la promessa della guerra facile e breve. (Applausi a sinistra e al centro).

Noi sappiamo, signori, che le proteste, le rivendicazioni, le note diplomatiche del Ministro degli esteri, non muteranno la situazione. Sarà questa l’opera del Paese man mano che esso si risolleverà dallo stato attuale. Saremo noi, con la nostra politica interna e con la politica sociale che faremo nei prossimi mesi e nei prossimi anni, a risolvere anche il problema della reinserzione dell’Italia fra le Nazioni libere e democratiche.

Ora, a questo proposito ci sono due motivi di inquietudine.

Il primo lo vorrei formulare così: tutto il nostro popolo, tutto il Paese, ha veramente compreso cosa è successo in Italia nel 1943?

La seconda inquietudine la potrei formulare nel modo seguente: tutte le classi, tutti i partiti, tutte le forze che concorrono alla vita nazionale in Italia sono esse disposte a fare i sacrifici necessari perché la Nazione risorga e risorgendo all’interno ritrovi anche all’estero il prestigio che ha perduto?  

A queste due domande oggi non è possibile dare una risposta definitiva. Però, onorevoli colleghi, ci sono molte ragioni di credere che c’è una parte del Paese che non ha capito quello che è successo nell’estate del 1943. Noi leggiamo ancora troppi articoli, troppi libri, noi ascoltiamo troppi discorsi, dove il dramma italiano è presentato sotto questo aspetto: se la sera della rotta di Dunkerque, Hitler avesse traversato la Manica e avesse assalito l’Inghilterra; se ad E1 Alamein tale generale avesse fatto la tale manovra invece della tale altra; se tale invenzione fosse arrivata un po’ più tardi o un po’ prima, oggi non subiremmo la pace, ma detteremmo la pace agli altri Paesi.

Compiango gli italiani che compiono questo errore di cecità. Compiango gli italiani che non hanno compreso che la disfatta del 1943 non è dovuta a questo o a quell’episodio, non è il risultato di questo o di quell’errore tattico o strategico, ma è la condanna di tutta la politica estera della borghesia italiana, dalla Triplice alleanza fino all’Asse. È la punizione caduta sul Paese che era uscito dalle vie del suo destino, che sono le vie non della guerra, ma del lavoro e della pace.

Signori, se noi fossimo d’accordo su questo…

RUSSO PEREZ. Non sono d’accordo neanche loro!

NENNI. …allora le prospettive della nostra politica all’estero diventerebbero chiare.

Invece noi siamo profondamente inquieti sull’avvenire della nostra politica estera.

Inquieti rispetto a determinate classi, a determinati partiti, non certo rispetto all’uomo eminente che oggi dirige la politica estera del nostro Paese, e che sa quanto sia falsa la politica che consiste nel puntare sull’Occidente contro l’Oriente, ignorando che in questa politica l’Italia sarebbe la prima e la più sciagurata delle vittime.

Qual è la nostra inquietudine, signori?

Per quel che riguarda la destra, la nostra inquietudine deriva dal fatto che constatiamo ogni giorno la sua incapacità a fare una distinzione fra la sua lotta interna contro i comunisti e contro noi, nella quale essa ha la giustificazione degli interessi sociali che difende, e la politica estera nei confronti dell’oriente e dell’Unione Sovietica.

La destra oggi è più incapace di quanto non lo siano stati gli stessi fascisti di distinguere fra il cosiddetto pericolo comunista all’interno (Commenti a destra) e quello che rappresentano in Europa e nel mondo di oggi l’Unione Sovietica e il mondo orientale. La destra ha, coscientemente o incoscientemente, per meditato calcolo politico e per faziosità, sposato l’ideologia della terza guerra, che trasformerebbe l’Italia in un deposito e in un bersaglio di bombe atomiche.

BENEDETTINI. Ma chi l’ha detto?

NENNI. Tutta la vostra stampa, signori, da mesi e mesi, dimostra una totale incapacità a valutare i problemi della politica estera italiana.

BENEDETTINI. Meno della vostra. Al solito: capaci sono solo i sinistri!

NENNI. Vorrei dire ai colleghi della Democrazia cristiana che anche la loro posizione in queste questioni ci è causa di profonda inquietudine. (Commenti al centro).

RODI. Siamo alle solite: soltanto la sinistra ha il cervello.

NENNI. Oggi c’è una tendenza a confondere le ragioni di carattere religioso che oppongono il Vaticano all’Unione Sovietica, con la politica estera del Paese. (Commenti al centro).

Una voce al centro. La confusione è tutta sua.

NENNI. Su questo punto noi siamo e saremo assolutamente intransigenti. (Rumori al centro). Una politica estera del nostro Paese, che sbandasse decisamente verso l’Occidente, noi la considereremmo una sciagura dal punto di vista politico e dal punto di vista economico, dal punto di vista della pace e dal punto di vista dell’avvenire economico del nostro Paese. (Rumori al centro e a destra).

Voci al centro. Anche noi.

NENNI. Felice, onorevoli colleghi, di trovarvi concordi, benché molte manifestazioni ci hanno fatto credere il contrario. Né vorrei, onorevoli colleghi, che nel nostro atteggiamento si intravedesse o una mancanza di riconoscenza verso l’Occidente, o una pura preoccupazione di carattere ideologico. Noi siamo stati in questi anni, siamo in questo momento, saremo nei prossimi mesi e nei prossimi anni, tributari economicamente dell’Occidente e dobbiamo molta gratitudine agli Stati Uniti per quello che hanno fatto e fanno per venire in aiuto al nostro Paese. Ma, responsabili davanti alle generazioni future, noi considereremmo errata una politica estera la quale non tenesse la bilancia uguale tra Occidente ed Oriente e non si sovvenisse che abbiamo avuto in Oriente una posizione economica di privilegio che dobbiamo sforzarci di riconquistare. Signori, saremo indipendenti, politicamente e nazionalmente, se saremo indipendenti economicamente e se il nostro pane, il nostro carbone, la vita delle nostre industrie non dipenderanno da un solo complesso mondiale.

RUSSO PEREZ. Autarchia! (Interruzioni a sinistra – Commenti).

NENNI. L’altra inquietudine, della quale mi sono fatto interprete, si riferisce alla capacità del Paese di risorgere dalla situazione attuale. Noi sappiamo che il nostro Paese, per ritrovare la situazione di un tempo, dovrà sopportare molti sacrifici. Ma non abbiamo constatato da parte della classe abbiente la volontà e la capacità di sacrificare, sull’altare degli interessi della Nazione, gli interessi particolari di determinati gruppi agrari o industriali. (Approvazioni a sinistra). Noi abbiamo visto la vecchia classe dirigente italiana, di cui Labriola diceva giorni fa che non è reazionaria ma moderata, mettersi a parlare tedesco nel 1940, parlare inglese non appena, due divisioni anglo-americane sbarcarono in Sicilia; la vediamo oggi sforzarsi di parlare l’americano di Wall Street. L’italiano non lo sa più parlare ed è incapace di sollevarsi al di sopra dei propri interessi per prendere in considerazione gli interessi collettivi del paese. (Applausi a sinistra).

Ora, signori, una classe dirigente non può mantenersi al suo rango, se non è capace di interpretare gli interessi collettivi di un paese. Io non nego che la borghesia abbia avuto queste virtù e queste qualità.

MICCOLIS. Le ha ancora. (Commenti a sinistra).

Una voce a sinistra. Le ha dimostrate col fascismo!

NENNI. Le classi, onorevoli colleghi, passano attraverso tre età, tre fasi. La fase eroica, la quale fu per la borghesia contrassegnata dalla rivoluzione industriale inglese, dalla rivoluzione politica francese, e da noi dal Risorgimento; la fase della conservazione, caratterizzata da una oscillazione perpetua fra libertà formale e reazione sostanziale, e fu tutta la storia della borghesia europea del XIX secolo; la fase dalla decadenza è incominciata dopo la guerra del 1914-1918, ed è stata contrassegnata dal tradimento borghese della libertà e della democrazia. (Commenti a destra).

CAPUA. Hanno cominciato i socialisti nel 1919.

MICCOLIS. Mussolini era socialista.

NENNI. L’avvenire del nostro Paese è affidato al coraggio, alla volontà, alla tenacia della classe lavoratrice. Ed ecco, signori, che arrivo, per un imprevisto cammino, alla crisi ministeriale.

Che cosa è stata, signori, questa crisi? Tutti l’hanno minimizzata in quest’Aula. Chi leggesse i discorsi che sono stati pronunciati qui e volesse rendersi conto di ciò che è successo alcune settimane or sono nel Paese, sarebbe nella assoluta impossibilità di farlo. Finirebbe per credere che l’onorevole De Gasperi, stanco di avere a che fare con un Ministero dell’assistenza post-bellica, desideroso di unificare i Dicasteri del tesoro e delle finanze, ha approfittato della prima occasione che gli è stata offerta per dimettersi e fare un Ministero a somiglianza del precedente.

La crisi ultima è stata invece la più importante e la più politica di quante crisi si sono determinate nel nostro Paese dal 1943 fino ad oggi, e ciò che l’ha caratterizzata è stato il tentativo di escludere l’estrema sinistra, di escludere le classi lavoratrici dalla diretta partecipazione al Governo…

MICCOLIS. Siamo tutti lavoratori!

NENNI. L’onorevole De Gasperi ha detto di non avere avuto mai in animo l’esclusione dal Governo dell’estrema sinistra socialista e comunista, ed io gli do atto delle sue parole.

Sono stato il primo Ministro del precedente Gabinetto al quale egli ha parlato della crisi e mi ha detto allora le stesse cose dette qui.

Senonché, signori, la crisi non l’ha fatta soltanto l’onorevole De Gasperi. Egli ha trovato, tornando dall’America, una campagna in pieno sviluppo.

Si era determinata una rottura nel Partito socialista; si interpretava questa rottura come un indebolimento del fronte democratico e si voleva approfittarne per mettere fuori dal Governo i rappresentanti della classe lavoratrice. Tutta l’impostazione polemica della crisi si può riassumere nel rammarico che ha lasciato: che Saragat non abbia voluto o potuto, che Facchinetti non abbia osato, che il Governo di centro non si sia potuto fare per la mancanza di logica o di coraggio dei nostri secessionisti e dei repubblicani.

In ciò, signori, sta la gravità della crisi. Fortunatamente il Governo di centro non s’è fatto, né si può fare, come non si può fare il Governo omogeneo democristiano. Ma, se si fosse fatto, la situazione del Paese sarebbe molto più grave dal punto di vista politico e sociale. (Interruzioni – Commenti a destra).

Una voce a destra. Minaccia!

PERTINI. Quale minaccia? Se sta facendo delle considerazioni!…

NENNI. Il Governo di centro, signori, ha una sua storia: una volta, una volta sola, si è chiamato Kerenskj; molte altre volte si è chiamato Facta, Brüùning, Dollfuss. Il Governo di centro è una maschera gettata sulla politica della destra, o è un inconscio passo verso la guerra civile. Non profferisco minacce, onorevoli colleghi, perché la guerra civile non la vogliamo! (Commenti a destra).

BENEDETTINI. Neanche noi! Non ci capite, onorevole Nenni.

NENNI. Perché, se la estrema sinistra fosse stata desiderosa di avventure del genere, nell’aprile del 1945 essa ha avuto una occasione che taluni rimpiangono di aver lasciato passare senza approfittarne. (Commenti).

Io no, convinto come sono che mentre la classe lavoratrice sta per diventare classe dirigente del Paese, essa ha il dovere di dominare i suoi istinti, la sua collera, le sue proteste e di porre l’interesse della Nazione al di sopra dei suoi propri interessi.

Ebbene, signori, nessuno può annullare oggi il ricordo di ciò che si è cercato di fare; nessuno può farci dimenticare che ad appena due anni dalla liberazione si è tentato di escludere dal Governo e di ricacciare all’opposizione le masse che hanno espresso dal proprio seno durante i venticinque anni della dominazione fascista la parte migliore del popolo italiano; le masse che nei quarantacinque giorni dell’epoca badogliana ebbero la forza e la capacità di smascherare l’ipocrisia che si celava dietro il tentativo di continuare il fascismo senza Mussolini; le masse che dal1’8 settembre 1943 all’aprile del 1945 hanno versato sangue su tutte le montagne d’Italia per affermare la rinascita del loro Paese. (Applausi a sinistra).

Signori, ciò è grave, è qualche cosa che ci induce a ricercare se le ragioni della nostra collaborazione con la Democrazia cristiana non stiano per venir meno. Signori, quali sono state le ragioni di questa collaborazione?

Prima del 25 luglio, scopo della nostra collaborazione fu la resistenza al fascismo e alla guerra fascista. Dopo il 25 luglio ci sforzammo di rendere impossibile l’attuazione del programma di Vittorio Emanuele III che diceva: «Niente recriminazioni», e del programma di Badoglio che diceva: «La guerra continua». Dopo l’8 settembre ci unì la fiducia che serbammo nella possibilità per il nostro Paese di ritrovare la sua libertà all’interno e il suo posto nel mondo. Dall’aprile del 1945 al 2 giugno del 1946 collaborammo per sodisfare l’impegno che avevamo preso nei confronti del Paese di affidare ad una libera Costituente la soluzione della questione istituzionale. Se voi scorrete il libro nel quale l’amico onorevole Bonomi ha raccolto le pagine del suo diario dal giugno 1943 al giugno 1944, e constatate che il nostro accordo fu anche allora quanto mai discorde, che ognuna delle nostre decisioni fu il risultato di una polemica pressoché permanente. La descrizione delle riunioni del Comitato di liberazione nazionale, in cui una diecina di persone rischiavano di farsi fucilare per discutere una parola di un ordine del giorno, l’articolo di un futuro decreto, e imbrigliare in un testo la vita che scorreva rapida e tumultuosa, muove oggi al sorriso.

Eppure è da quelle discussioni, dal tormento di quei lontani giorni, che sono venute fuori le soluzioni sulla base di un compromesso fra noi che volevamo forse correre un po’ troppo e l’ala moderata antifascista che andava a rilento. In fondo ciò conferma che in politica bisogna puntare cento per avere dieci.

In verità, quando prendiamo in considerazione il lavoro svolto, non abbiamo da arrossirne, né da pentircene, giacché, pur fra molti errori di dettaglio, abbiamo fatto gli interessi del Paese e della democrazia.

Senonché, che cosa è successo? È successo, signori, che via via che la natura dei problemi andava mutandosi, anche le possibilità dell’accordo si attenuavano. Finché ci siamo trovati di fronte al problema della lotta contro i tedeschi o a quello della lotta contro la sedicente repubblica di Salò, tutto è stato relativamente facile. Le difficoltà sono aumentate quando ci siamo trovati davanti al problema della creazione della repubblica; allora sono nati i primi gravi dissensi fra noi. Dopo il 2 giugno i problemi puramente politici hanno, signori, ceduto il passo ai problemi sociali. Ecco perché ci sentite ora parlare molto più di prima di lotta di classe, ecco perché io non direi più «politique d’abord», ecco perché per continuare a collaborare in avvenire, abbiamo bisogno di determinare chiaramente il nostro programma sociale.

Signori, che cosa è la repubblica democratica? Non è l’età dell’oro. Per noi la repubblica democratica è la forma borghese di organizzazione statale nei cui limiti la lotta di classe si combatte con maggior chiarezza. Perciò la libertà che rivendichiamo non è soltanto la libertà del pensiero, della coscienza, la libertà politica, ma è la libertà della lotta di classe. Ho l’aria di dire delle cose che a taluni possono sembrare o eretiche o nuove, e non faccio che ripetere cose che da questi banchi, per 50 anni, i nostri maestri e predecessori in fatto di socialismo, hanno detto cento, mille volte.

C’è stata, per esempio, poco meno di mezzo secolo fa una seduta memorabile. Al banco del Governo c’era, invece di De Gasperi, l’onorevole Giolitti; al posto dell’onorevole Corbino c’era l’onorevole Sonnino, e da questi banchi si alzava Camillo Prampolini e cominciava il suo discorso con queste parole: «Noi voteremo contro Sonnino, voteremo cioè contro l’opposizione di destra», e quindi per il Governo che aveva nel suo programma la libertà di sciopero.

È un po’ il nostro destino. Anche noi oggi, quando partecipiamo al Governo, quando votiamo per il Governo, votiamo contro qualche cosa, votiamo contro il Governo della destra, nel quale vedremmo la rinascita della reazione e del totalitarismo, e votiamo anche contro il Governo di centro che reputiamo incapace di dirigere la nazione e di portare i suoi problemi a soluzione. (Commenti).

Ma, signori, se non rifiutiamo il compromesso, però rifiutiamo il connubio, rifiutiamo il trasformismo. Direi che ciò che distingue la maggioranza di oggi da quella di trentacinque e quarant’anni fa è una superiore coscienza politica ed una superiore coscienza sociale. Io ho sentito qualche volta nelle parole dell’onorevole De Gasperi una certa nostalgia delle maggioranze giolittiane che erano così comode. Erano comode, ma servivano meno delle maggioranze di oggi. Noi siamo d’accordo sui punti nei quali siamo d’accordo, siamo in disaccordo su molti altri problemi, e lo diciamo alfine di non installarci nel compromesso.

Il mio amico, o nemico (non so, decideranno gli eventi), Saragat, ha detto che egli non vuole installarsi nel compromesso. Noi non ci siamo mai installati nel compromesso, del che è prova il fatto che appena raggiunta una mèta, già ne ponevamo un’altra.

Dopo la Repubblica qual è la nuova mèta? Con la Repubblica abbiamo risolto un problema storico. Alla Repubblica bisogna affrettarsi a dare un profondo contenuto sociale, attuando le riforme di struttura delle quali abbiamo parlato un po’ tutti nelle elezioni del 2 giugno. La difesa della Repubblica e il consolidamento della Repubblica (dirò poi una parola in rapporto al programma di De Gasperi) non possono essere affidati che a uno sforzo quotidiano per legare le masse del popolo italiano alle nuove istituzioni politiche e far loro constatare che la Repubblica è al servizio della Nazione ed ha il compito fondamentale di difendere gli interessi dei lavoratori e di preparare nella legalità l’avvento dei lavoratori alla funzione di nuova classe dirigente.

Ora io ho la convinzione che, in verità, raccordo fra noi manca proprio su questi problemi, che stanno per diventare i problemi fondamentali del Paese. Ed allora che fare? Due cose, io credo, onorevole De Gasperi: sollecitare le elezioni, andare davanti al Paese, fare arbitro il Paese delle direttive dei differenti partiti.

BENEDETTINI. E rifare il referendum!. (Commenti – Interruzioni a sinistra).

Una voce a sinistra. Certe cose si fanno una volta sola! (Commenti).

NENNI. Onorevoli colleghi, si è parlato delle elezioni a giugno; io avevo incominciato a parlarne nel mese di novembre. L’onorevole De Gasperi allora non era del mio avviso e solo adesso parla di affrettare le elezioni. Molti altri ne parlano forse perché sanno che le elezioni a giugno non sono più possibili. Lo stato dei lavori dell’Assemblea, le leggi fondamentali che dobbiamo ancora votare, rendono molto aleatoria la possibilità che le elezioni si facciano a giugno e per parte mia, lo deploro, convinto come sono che un appello al Paese avrebbe provocato la chiarificazione che si è inutilmente cercata con la crisi ministeriale. (Approvazioni).

È solo dal Paese che devono venirci le direttive per l’avvenire. Io ho la convinzione che il Paese darà la maggioranza alla sinistra e permetterà alla sinistra di governare.

BENEDETTINI. È quel che vedremo!

NENNI. Se fosse diversamente, ci inchineremmo di fronte alla volontà del popolo e continueremmo a lavorare, perché ci dia ragione in un’altra occasione.

BENEDETTINI. Siamo d’accordo.

RUSSO PEREZ. Anche noi.

NENNI. In attesa delle elezioni, pure abbandonando, come ha fatto l’onorevole De Gasperi nel suo programma, tutto ciò che di avveniristico era nelle precedenti dichiarazioni ministeriali, dobbiamo sforzarci di risolvere i problemi di emergenza che stanno di fronte a noi. Il Governo ha parlato di difesa della Repubblica e di consolidamento. Io vorrei approfittare di questa occasione per dissipare uno dei tanti malintesi che corrono per le gazzette del nostro Paese. Ci si dipinge da qualche tempo come sitibondi di leggi eccezionali, di assassinî della libertà, della libertà di stampa, della libertà di parola.

Signori, se vi è qualcuno in quest’aula che sa la vanità dei mezzi di polizia applicati alla politica, questo qualcuno siede non a destra, ma all’estrema sinistra. Se fossero bastate le misure di polizia per arrestare il cammino del socialismo, da Crispi in poi il socialismo non avrebbe fatto un passo innanzi, ed invece ha fatto molti passi avanti.

Se bastasse organizzare una polizia, addestrarla selvaggiamente alla repressione della libertà di opinione e di stampa, per durare politicamente eterni, Mussolini e, soprattutto, Hitler, sarebbero durati eterni, ed invece sono caduti. (Approvazioni).

In un libro che pubblicai nel 1931 e che ebbe qualche successo all’estero, io dicevo parole, che mi piace ripetere qui: «Crederò – dicevo – alla vittoria di Mussolini, alla forza di Mussolini ed alla durata del fascismo, il giorno in cui Mussolini si alzerà e terrà questo discorso: apro le carceri, abolisco il confino; ridò la libertà di stampa e di propaganda, lascio organizzare liberi sindacati e dò appuntamento ai miei avversari in Parlamento».

Se avesse potuto fare questo discorso, egli avrebbe vinto la sua battaglia politica. E l’ha perduta, perché questo discorso non l’ha potuto fare mai.

Orbene, signori, di questo discorso noi desideriamo ardentemente di poter fare il nostro programma. Vuol forse dire che per questo dobbiamo chiudere gli occhi di fronte alla necessità di alcune misure di salute pubblica che l’Assemblea dovrà adottare, una legge di difesa della Repubblica non potendo essere l’opera del Governo, ma della Costituente?

Dobbiamo fingere di non vedere che ci sono delle cose che non sono tollerabili?

Signori, io sono stato repubblicano per tutta la mia vita in regime di monarchia ed esagererei se dicessi che la monarchia mi ha reso la vita talmente difficile!

Per questa ragione non mi dà fastidio che ci siano dei monarchici, ma ciò che urta il sentimento di giustizia del popolo italiano e della parte del popolo che ha di più sofferto nel corso degli ultimi 20 anni, è che già si possa fare nella stampa l’apologia del fascismo o dei Savoia, mentre noi stiamo pagando a prezzo di sofferenze e di sangue i delitti del fascismo e dei Savoia. (Applausi a sinistra).

BENEDETTINI. I Savoia hanno fatto l’unità d’Italia; ricordatelo! (Interruzioni a sinistra – Rumori).

NENNI. Se, per amore di contrasto, mi piacesse dirmi monarchico, sarebbe forse in difesa d’un sistema di governo, non già in difesa d’una dinastia che ha lasciato l’Italia a Pescara nelle condizioni che tutti conoscete. (Applausi a sinistra).

La sola cosa che noi domandiamo in questa materia è che l’Assemblea dia al Paese una legge di difesa della Repubblica, e che il Governo consolidi la Repubblica andando incontro alle necessità del popolo.

Gi preoccupa poco, onorevole De Gasperi, che lei denunci al Procuratore della Repubblica i fogliucoli neo-fascisti che pullulano, purché ella denunzi al Paese il tentativo di approfittare delle difficoltà della Nazione per risuscitare le immagini della tirannia e dell’oppressione.

È, direi, più una questione di costume che di legge.

Nelle prossime settimane tre ordini di problemi dovremo affrontare, dei quali hanno parlato o parleranno oratori che sono in grado di valutarne ogni aspetto tecnico: tre gruppi di problemi che non possono attendere.

Appartengono al primo gruppo i problemi attinenti al costo della vita e ai salari, alla disoccupazione e alla alimentazione. Nessuno ha mai chiesto al Governo precedente, e nessuno chiede al Governo attuale, di fare quello che non può fare, di far sì che regni l’abbondanza in un Paese uscito distrutto dalla guerra.

Ma tutti ci hanno chiesto e continuano a chiederci di fare in modo che i sacrifici siano equamente ripartiti fra tutti. Il problema della disoccupazione sta diventando assolutamente angoscioso, una maniera di non vivere.

Noi abbiamo chiesto al precedente Governo, e chiediamo al Governo attuale, che per lo meno il sussidio di disoccupazione sia portato a 200 lire. Abbiamo inoltre domandato che si creino delle scuole di rieducazione al lavoro. Questo è il problema più urgente nel campo del lavoro, giacché ci dibattiamo nella situazione assurda di avere due milioni di disoccupati registrati e forse tre milioni o tre milioni e mezzo di disoccupati effettivi, e in questa massa gli operai specializzati sono un’esigua minoranza. Non abbiamo muratori, non abbiamo minatori – e ciò si spiega – non abbiamo metallurgici, e ci troviamo alle volte a dover rifiutare le richieste di mano d’opera dall’estero, perché manca la mano d’opera qualificata. Questo è il dramma della gioventù che il fascismo ha strappato per 10 anni alle famiglie, restituendola dopo la disfatta, senza arte e senza parte.

Ci sono poi delle così stridenti contradizioni sociali nel nostro Paese che se il Governo non si propone di realizzare una maggiore eguaglianza sociale, allora gli sforzi che faremo per creare uno spirito democratico nel Paese si infrangeranno di fronte alla vecchia fatalità di vedere alternarsi periodi di rivolta disordinata a periodi di supina acquiescenza.

Non dirò niente dei problemi finanziarî dei quali si è già parlato; vorrei solo rispondere all’onorevole Corbino. Egli ha detto che un Governo di sinistra è un Governo che costa, che un Governo di sinistra è un Governo di sempre maggiori spese pubbliche. Sì, onorevole Corbino; un Governo di sinistra è un Governo di sempre maggiori spese pubbliche perché è un Governo che si sforza di andare incontro alle esigenze del popolo. E appunto perché un Governo di sinistra è un Governo di sempre maggiori spese, bisogna che esso attui quella finanza democratica di cui ha parlato qui l’amico e collega onorevole Scoccimarro, bisogna che renda possibile la contemporaneità delle due seguenti operazioni: larghi gettiti al tesoro, larghe spese per andare incontro alla miseria che è la piaga più atroce del Paese.

Infine, signori, ci sono i problemi della pianificazione industriale, alla quale teniamo per ragione ideologiche, ma anche, e soprattutto, perché siamo persuasi che, senza un piano, vedremmo ricrearsi in Italia le storture sociali ed economiche esistite per 50 anni in conseguenza del fatto che le industrie sono sorte e si sono sviluppate senza tenere in considerazione gli interessi generali del Paese, ma soltanto quelli di determinati gruppi di speculatori. Ciò è avvenuto soprattutto nel Mezzogiorno.

Signori, si è parlato di scandali in questa Assemblea. Non nego che esistano problemi di incompatibilità che l’Assemblea dovrà risolvere. Tuttavia non conosco scandalo più grande di quello che si ha sotto gli occhi quando si percorre l’Italia meridionale o la Sicilia e ci si imbatte in paesi che sono ancora ad un livello di vita indegno di un Paese moderno.

CAROLEO. Questo è vero.

CONDORELLI. È carenza di mezzi, non di civiltà.

NENNI. Ieri, al Consiglio dei Ministri, onorevole interruttore, l’Alto Commissario della Sicilia ha riferito sulle condizioni di vita e di lavoro nelle miniere di zolfo dell’Isola ed ha richiamato l’attenzione del Governo e, al di sopra del Governo, della Nazione, sulla sorte di bambini da 12 a 15 anni che vivono ancora a 700 metri sotto il livello del suolo, che a mezzogiorno mangiano un pezzo di pane, che hanno l’ernia bilaterale e la spina dorsale deformata. Signori, sessant’anni fa s’è fatta sui carusi siciliani una discussione nel Parlamento che commosse tutta la Nazione. (Vivi, generali applausi). Con uno slancio unanime, dall’estrema sinistra all’estrema destra, tutti i deputati balzarono in piedi a promettere giustizia alla Sicilia e alla Sardegna! Sono passati sessanta anni, e la giustizia attende ancora. In compenso ci sono state le guerre coloniali che volevano fare l’impero sulla miseria del popolo. (Applausi al centro e a sinistra).

Onorevole De Gasperi, nella misura in cui ella si sforzerà di risolvere questi problemi può contare sul nostro appoggio, sulla nostra solidarietà, sulla nostra collaborazione. Nessuno ha diritto di chiederci di rinunziare alle finalità proprie della nostra classe e del nostro partito: questo non lo potremmo fare, questo non lo faremo mai. Tutti hanno il diritto di chiederci di essere solleciti di fronte alla miseria del Paese. Metta in discussione, onorevole De Gasperi, la legge che istituisce i consigli di gestione e che segna una tappa dell’ascensione del mondo del lavoro verso il diritto di intervento e di controllo nel processo della produzione a cui il mondo del lavoro dà il più essenziale dei contributi.

Porti all’Assemblea il progetto che dà valore di legge al suo lodo sulla mezzadria e, nel medesimo tempo, onorevole Gullo, promuova l’amnistia per le migliaia di contadini che, per aver lottato per la modifica del patto mezzadrile, sono o in carcere o sotto processo. Elabori il Governo un piano, animato dallo spirito del nuovo Commissario dell’alimentazione, perché la distribuzione ed il reperimento dei generi di consumo popolare si facciano con maggior senso di giustizia, e noi lo appoggeremo e andremo attraverso il Paese a illustrare la sollecitudine del Governo.

È perché crediamo che quest’opera concreta la si può ancora compiere con la nostra collaborazione, è perché siamo convinti che, almeno fino alle prossime elezioni, dobbiamo cercare di accordarci su un programma di positive realizzazioni, che voteremo «sì», voteremo cioè la fiducia al Governo al quale partecipano alcuni dei nostri migliori rappresentanti.

Però questo «sì» si accompagna ad un «no» e fra sì e no non c’è nessuna contradizione, non c’è nessun doppio giuoco. Il «sì», che si riferisce alle cose positive che si possono comporre in questo momento; il «no» va al sistema sociale che sopravvive alla caduta del fascismo e della monarchia.

Onorevoli colleghi, tutti i nostri pensieri, tutti i nostri atti, tutti i nostri voti hanno un obiettivo: colpire e distruggere l’iniquità capitalistica che noi consideriamo fonte delle sciagure del nostro Paese. (Vivissimi applausi – Congratulazioni).

(La seduta, sospesa alle 18.15, è ripresa alle 18.45).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Lussu. Ne ha facoltà.

LUSSU. Onorevoli colleghi, dopo la discussione così come si è svolta, desidero limitare questo mio intervento a soli tre punti: la crisi, la risoluzione della crisi e la natura di questo Governo; poi, la soppressione del Ministero per l’assistenza post-bellica e, infine, la nuova organizzazione delle forze armate sotto il Ministero unico della difesa. Ma questi tre punti costituiscono un solo problema: il processo di democratizzazione nella Società e nello Stato.

Sulla crisi, dirò subito che non condivido la opinione espressa da alcuni – e, fra i più autorevoli, uno dei massimi rappresentanti del Partito repubblicano, l’onorevole Conti – i quali dicono che è perfettamente inutile discutere sul modo con cui questa crisi si è iniziata e risolta perché, in conclusione, il Governo esiste, il Governo c’è e cosa fatta capo ha.

Io penso tutto il contrario. Credo che ogni crisi, compresa questa, tocchi tutta l’essenza della democrazia e, quindi, della Repubblica, alla quale l’onorevole Conti – meno di qualsiasi altro – può rimanere indifferente.

E non condivido neppure l’ottimismo espresso da parecchi nel giudizio che questo Governo rappresenti un Governo imposto, quasi, dalla situazione delle sinistre, così come nel suo brillante intervento ha sostenuto il collega onorevole Nenni.

Io sono piuttosto portato a condividere le apprensioni qui espresse dall’onorevole Scoccimarro nella prima parte del suo discorso. Mi duole che il collega Nenni non sia presente; ma bisogna che ci convinciamo che questa crisi e la soluzione di questa crisi rappresentano il capolavoro di abilità politica manovriera dell’onorevole De Gasperi. Egli, infatti, dopo l’insuccesso delle elezioni amministrative del novembre scorso, in cui il suo partito ha perduto oltre il 50 per cento dei suffragi avuti il 2 giugno; dopo il prestigio perduto come Capo del Governo, con Corbino, senza Corbino, è riuscito a capovolgere tutta una situazione e a crearne una nuova, nella quale egli è veramente il padrone del vapore e del timone. (Commenti).

Se gli onorevoli colleghi avranno la bontà di sentire lo sviluppo logico di questa mia premessa, credo che nella grande maggioranza, almeno in questa parte, concorderanno con me.

Aggiungo di più: che a me pare che di tutta la carriera politica dell’onorevole De Gasperi, presente, passata e futura…

UBERTI. Il futuro non si sa!

Una voce dal centro. Non prenda ipoteche!

LUSSU …questo debba rimanere il suo più grande successo politico. E in questa crisi, come in tutte le precedenti, abbiamo assistito al mirabile giuoco costituzionale interno della democrazia cristiana, in cui l’una parte e l’altra, la sinistra e la destra, contrastandosi, finiscono poi entrambe col trovarsi insieme unite ai danni dell’avversario. E bene ha detto l’onorevole Saragat quando, interrompendo l’onorevole Presidente del Consiglio, ha risposto: «L’onorevole De Gasperi e l’onorevole Gronchi sono la stessa cosa».

Come democratico e come repubblicano che fa parte militante della sinistra repubblicana, io debbo dissentire totalmente dal giudizio dato dal collega Nenni, il quale sostiene che è stato un successo la formazione di questo Governo, in quanto che le sinistre non si sono lasciate escludere; e dissento anche dai colleghi del partito comunista (Commenti), i quali hanno dichiarato ufficialmente che il partito comunista avrebbe avuto un innegabile successo, poiché sarebbe riuscito a far fallire i tentativi dell’onorevole De Gasperi di estromettere dal Governo e di isolare il partito comunista. Il partito comunista è un ottimo combattente; sa incassare, incassa e fa buon viso a cattivo gioco. La realtà è che il successo dell’onorevole De Gasperi non può esser messo in discussione o in dubbio. Chi ha vinto e stravinto in questa crisi, e nella sua soluzione, è l’onorevole De Gasperi, e solo l’onorevole De Gasperi. E io credo che offenderò poca gente, e tanto meno l’onorevole De Gasperi in persona, se mi permetterò di definirlo il «Giolitti terziario della Repubblica Italiana». (Commenti – Si ride).

De Gasperi non ha mai creduto all’utilità, e tanto meno alla possibilità, di estromettere dal Governo il partito comunista; ma lo ha fatto credere, e ha dato ad intendere di crederci. Si possono rimproverare parecchie deficienze all’onorevole De Gasperi, ed io sono fra quei suoi amici e ammiratori che glie ne rimproverano più di una, ma nessuno potrà affermare che l’onorevole De Gasperi non conosca la situazione italiana.

Egli sa perfettamente che nella situazione presente governare senza i comunisti significa governare contro i comunisti. Per fare questo l’onorevole De Gasperi, che è un repubblicano, sia pure dell’ultima ora – ma l’ultima ora vale la prima ora e sono la stessa cosa, ed in questo l’apologo dei vignaioli del Vangelo depone interamente a suo favore – l’onorevole De Gasperi, che è un repubblicano, sa che avrebbe dovuto poggiare non già sul partito socialista dei lavoratori italiani o sul partito repubblicano che sono forze incrollabili della compatta sinistra repubblicana, che hanno dato la repubblica e la difendono, ma su forze antidemocratiche ed antirepubblicane. Non è l’onorevole Saragat con la sua decisa posizione – e chi lo conosce anche minimamente non poteva dubitarne, perché la sua coerenza intellettuale e dirittura morale sono tali che nessuno può superarle – non è la linea di resistenza o di atteggiamento negativo dell’onorevole Saragat che ha convinto l’onorevole De Gasperi a desistere da questo suo presunto proposito, ma è l’onorevole De Gasperi stesso, ed il merito è tutto suo. L’onorevole De Gasperi tiene non solo a salvarsi l’anima ma anche – il che non è meno meritorio – a che gli altri credano che se la sia salvata.

Poggiarsi su forze antidemocratiche e antirepubblicane oggi sarebbe stata una avventura folle e l’onorevole De Gasperi non ama le avventure né folli, né tenui. L’onorevole De Gasperi non è per le avventure. L’onorevole De Gasperi sa, e lo sa io credo anche il Capo dello Stato, che, nonostante parecchie pecche e disappunti, fino a nuove prove contrarie, che ci auguriamo tutti nell’interesse generale, prossime e ripetute, la Repubblica ha le sue radici, la sua base e la sua difesa nella sinistra repubblicana, così come si è manifestata nel Paese attraverso i suoi partiti politici e come è rappresentata in questa Assemblea. Basta ricordare il modo con cui è stato accolto il Presidente della Repubblica (che con timido eufemismo continuiamo a chiamare il Capo Provvisorio dello Stato) nelle varie regioni d’Italia per capire che qui è la Repubblica.

Qui naturalmente siamo alla solita domanda: quale repubblica? La repubblica democratica, così come la stiamo costruendo, così come i Governi che si sono avuti, ed anche questo, tentano e si sforzano di costruire: la repubblica democratica, come si sta costruendo nella costituzione repubblicana (e discuteremo ciò in comune fra poco con i rappresentanti di tutte le forze politiche di questa Assemblea), la repubblica che avrà la sua sanzione scritta nella Carta costituzionale dello Stato, e che consente nei limiti delle leggi fissate nella Carta il più ampio sviluppo politico e sociale; la repubblica in cui, rispettando la Costituzione, la maggioranza ha diritto a governare e la minoranza non ha il diritto di opporsi fuori leggi: questa è la Repubblica democratica nella quale è consentito anche un processo democratico di realizzazioni socialiste. Anche per il socialismo la Repubblica democratica è la premessa, è la base del suo divenire.

Abbiamo assistito tutti al discorso del collega Nenni. Egli ha fatto, io credo, uno sforzo di precisazione e lo avrebbe fatto maggiore se, rendendosi interprete dei giudizi e delle preoccupazioni di molti rappresentanti di questa Assemblea, avesse chiarito quello che un giornale di informazioni ieri dava come il discorso politico di uno dei più autorevoli rappresentanti di questa Assemblea, il collega Basso, e come oggi stesso è riprodotto nell’Avanti!. Realizzazione socialista significa azione politica in seno alla democrazia repubblicana (chiamiamola pure borghese) anche attraverso la lotta di classe. Certamente il partito laburista inglese, malgrado l’opinione di parecchi che ignorano la situazione in Inghilterra, è un partito classista e combatte con il metodo della lotta di classe ed inquadra oltre il 90 per cento dei suoi iscritti, ma rispetta la legalità e non dimentica mai quelli che sono gli interessi generali della società nazionale.

Il collega Nenni ha ricordato, dichiarandosi perfettamente d’accordo con il collega Saragat, che non ci deve essere, non c’è un compromesso alcuno fra socialismo e questa democrazia.

Io mi permetto, con l’autorità molto minore dell’uno e dell’altro dei colleghi che hanno prima di me parlato, dichiarare che la democrazia repubblicana, chiamiamola pure borghese, è per sua natura e definizione un compromesso, è sempre un compromesso tra le classi, anche quando si sviluppi libera la lotta di classe.

È un regime di compromesso che si differenzia totalmente da quei processi politici rivoluzionari, che si sono verificati nelle grandi ore storiche dei grandi Paesi, e uno fra questi la grande Repubblica sovietica, dove non c’è stato alcun compromesso, dove la democrazia non è stato un compromesso, dove il proletariato ha attaccato dal difuori lo Stato e lo ha fatto a pezzi. Il socialismo qui in Italia, nella situazione presente nazionale ed internazionale, agisce permanentemente all’interno e sul terreno del compromesso, cioè il socialismo non si realizza fuori dello Stato e contro lo Stato, ma nello Stato e dentro lo Stato.

Io chiedo scusa di aver dovuto precisare questi punti che sono fondamentali per la vita democratica del nostro Paese e fondamentali per ogni movimento socialista.

L’onorevole De Gasperi, dunque, non ha mai sognato estromissioni del partito comunista; è che, in seguito alla scissione avvenuta in seno al partito socialista, il partito comunista si è trovato isolato. L’onorevole De Gasperi ne ha approfittato, ha approfittato di questa debolezza che si manifestava nel fronte della sinistra, e, con abile manovra, lo ha aggirato.

Egli ha applicato mirabilmente – direbbe l’onorevole Bencivenga se sedesse in questi banchi – i principî dell’arte della guerra, per cui un condottiero, quando vede improvvisamente prodursi una falla nel campo avversario, sferra la sua manovra, e vince. L’onorevole De Gasperi ha manovrato e vinto. In questa vittoria dell’onorevole De Gasperi dobbiamo peraltro rilevare che la democrazia ha retroceduto.

Il     collega Saragat ci ha detto che questo Governo è leggermente modificato da quello che era il precedente Governo. L’onorevole collega Nenni, sia pure con quel giuoco del sì e dal no, lo ha difeso e quasi esaltato.

La verità è che questo Governo, rispetto al precedente, è peggiorato, grandemente peggiorato. Basta tener presente il discorso con cui l’onorevole Corbino – leader parlamentare del partito liberale, del partito di estrema destra, che non a caso siede all’estrema destra – ha parlato di questo Governo, quasi fosse il suo Governo. Questo Governo è infinitamente peggiorato rispetto al primo, e se si continuasse di questo passo – auguriamoci che questo la democrazia italiana non possa consentirlo – si andrebbe sempre più di male in peggio.

E noi oggi potremmo ripetere il noto aforisma dell’antifascismo durante il periodo della dominazione mussoliniana: «oggi peggio di ieri, ma meglio di domani».

Questo Governo segna uno spostamento a destra della democrazia. Le sinistre sono state battute. L’onorevole Nenni si illude, indubbiamente. Le sinistre sono state battute ed anche egli – gli è venuto un conforto dalla attenzione e dai notevoli consensi di questa Assemblea – egli stesso è stato duramente battuto.

Ogni democratico consapevole, socialista o non socialista, oggi si accorge cosa significa nel Paese un grande partito socialista. La democrazia è stata battuta, perché dalla scena delle sinistre è mancata questa compattezza unitaria del partito socialista.

Come si correggerà questa deficienza, questa lacuna? Si correggerà, non immediatamente oggi, ma nel tempo, nella misura in cui i partiti socialisti e le correnti socialiste saranno capaci di chiarire se stessi, di costituire un fronte socialista, di unità di azione socialiste, infine una nuova unità politica.

Se questo non avvenisse, e se le forze socialiste fossero sparpagliate e divise, difficile è dire come si potrebbe costruire una democrazia repubblicana salda nel nostro Paese. Si finirebbe coll’avere, per quanto potrebbe sembrare un paradosso, un solo grande partito di democrazia repubblicana, il partito comunista, oppure un Governo permanentemente a mezzadria fra democristiani e comunisti – che io mi permetto (e chiedo scusa) definire la democrazia del mercato nero. (Commenti).

La somma dei poteri e del potere, che è nelle mani della Democrazia cristiana, preoccupa tutti; essa, dopo tutto, non è in rapporto con le forze reali che ha questo partito nel Paese. (Commenti).

Chi può essere indifferente al fatto che è con questa somma di poteri e di potere in mano della Democrazia cristiana che si faranno le prossime elezioni al Parlamento nazionale, quando non è ancora svanito il ricordo delle elezioni del 2 giugno, in cui, malgrado che Ministro dell’interno fosse un socialista, la Democrazia cristiana ha molto audacemente agito e manovrato?

Una voce al centro. Colpa di chi? Di Romita.

ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Ne ho tante colpe! (Si ride).

LUSSU. Si dice che ogni crisi fa sempre del danno; ma io credo che sarebbe un danno maggiore se questo Governo, così com’è, arrivasse senza crisi alle future elezioni. (Commenti).

Tutta l’essenza del potere è nelle mani della Democrazia cristiana. In seno al Consiglio dei Ministri le rappresentanze di partito si equivalgono, se il Conte Sforza avrà sufficiente saggezza da mantenere il suo posto autonomo e prenderà posizione solo per la politica estera: tutti sappiamo d’altronde che nei Governi di coalizione non si vota mai o quasi mai e che prevale sempre o quasi sempre il pensiero del Presidente del Consiglio. È nei Governi di maggioranza che si vota sempre: in quelli di coalizione – e me ne appello ai colleghi che siedono al Governo – avviene solo eccezionalmente.

Questo in seno al Consiglio dei Ministri, ma nei Dicasteri è ben peggio. Tutta l’azione economica e finanziaria interna e internazionale, tutta la politica interna e del Ministero dell’agricoltura, che per il Mezzogiorno e le Isole è una specie di secondo Ministero deh l’interno – e la pubblica istruzione e inoltre l’assistenza post-bellica, di cui parlerò fra poco, e la difesa nazionale sono nelle mani della democrazia cristiana.

Non v’è ombra di dubbio che tutti questi posti di comando saranno tenuti, come sempre li ha tenuti, dalla Democrazia cristiana: tutti i Ministri, nessuno escluso, esercitano il comando con quel sistema che nei secoli scorsi ha preso in Italia il nome di nepotismo e che oggi ricorda molto da vicino lo spoil System introdotto in America nel secolo scorso dal Presidente Jackson.

Tutti i Ministri, dico, non escluso l’onorevole Segni, che appare l’uomo di più mite temperamento, e lo è certamente, a meno che nell’apparenza della sua mitezza d’animo egli sia un falso magro come il leader del suo partito. (Si ride).

Io rifuggo, d’accordo con molti dei colleghi, in questa Assemblea, dalla letteratura gialla, sia scritta che parlata: mi guarderò bene in questa discussione, che è di ordine generale, di citare dei fatti specifici, dopo gli interventi di questi giorni che hanno avuto in qualche seduta accenti e forme pirandelliane. Si tratta di questioni che interessano la democrazia e i diritti di controllo parlamentare, e ne farò oggetto di interpellanze e di interrogazioni. Oggi non ne parlo.

Non vi può essere nessun partito in questa Assemblea, neppure il Partito comunista, che è molto coraggioso, che si possa fregar le mani vedendo al Ministero dell’interno l’onorevole Scelba. In poco tempo da un Ministro dell’interno socialista si è passati al Ministro dell’interno Presidente del Consiglio, il quale però da mille altre faccende affaccendato, doveva obbligatoriamente, anche se non volontariamente, cedere il posto ad un Sottosegretario socialista, e si è poi passati ad un Ministro dell’interno che è della Democrazia cristiana; il titolare ne è un uomo che tutti conosciamo e apprezziamo per le sue qualità morali e per l’intelligenza, il quale non perderà certamente tempo in ricevimenti mondani, ma sarà capace di stare giorno e notte armato come un guerriero al Viminale, e lascerà poche cose alle occupazioni e alle competenze del Sottosegretario socialista. A questo proposito, credo che parecchi settori di questa Assemblea sarebbero grati al Presidente del Consiglio, se egli, nel discorso di risposta, ci dicesse quali mansioni siano state attribuite al Sottosegretario socialista.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Ministro è responsabile di fronte alla Camera.

LUSSU. Benissimo, ma io credo che non sarò il solo ad esprimere il desiderio che il Sottosegretario all’interno abbia qualche funzione particolare. L’onorevole Scelba, dunque, è un uomo che tutti rispettiamo; è uno dei massimi esponenti della Democrazia cristiana; sa certamente – poiché non è un uomo rappresentativo o di paglia – ciò che egli vuole.

Ma anche noi sappiamo ciò che egli vuole, e perciò siamo preoccupati. L’onorevole Scelba potrà amministrare miliardi di fondi segreti, restando, come è stato per il passato, un uomo incorruttibile; ma ha il difetto di credere che solo la Democrazia cristiana può salvare l’Italia, mentre non tutti i colleghi in questa Aula sono dello stesso parere, ma parecchi, molti forse, sono del parere contrario e vi sono anche alcuni i quali, vedendo come è sorta la Democrazia cristiana con questa sua forma confessionale…

UBERTI. Non confessionale.

LUSSU. …e a base essenzialmente clericale, sono parecchi in questa aula e nel Paese i quali, con leopardiano pessimismo, pensano che sarebbe stato meglio, nell’interesse della democrazia, che non fosse mai nata.

Tutti i fondamentali – non dico rami – ma alberi dell’Amministrazione dello Stato non sono coltivati autonomamente, disordinatamente, ma razionalmente, coordinatamente, sotto la guida e la direzione e la volontà del Presidente del Consiglio, leader della Democrazia cristiana, il quale, per avere avuto l’accortezza di essere solo il Presidente del Consiglio, per non avere cioè accettato alcun portafoglio, ha tutta la possibilità di vedere l’insieme e di coordinare l’azione dei vari Dicasteri. È forse il solo punto questo in cui sento il bisogno, anche a nome di altri colleghi, di lodare questa sua iniziativa che mi auguro possa essere continuata dai suoi successori e che in fondo, se fosse rispettata e continuata, potrebbe portare alla istituzione del Governo presidenziale che noi (quelli che non crediamo alla possibilità della Repubblica presidenziale) riteniamo indispensabile al buon andamento di ogni Governo democratico ed all’Amministrazione generale dello Stato. Un Governo, in cui il Presidente veda tutto e non abbia che la sopra intendenza, come il comandante supremo che non ha nessun comando di reparti combattenti, io lo lodo. E sono contento. E la mia letizia sarebbe doppia se vedessi la direzione del Governo in altre mani. (Si ride).

Se questa è la natura di questo Governo, quali le realizzazioni immediate e prossime nel campo economico, finanziario e sociale? E quali le realizzazioni nel campo politico? Su chi graverà il peso della rivalutazione della lira? Su chi il peso della ricostruzione del Paese? Attendiamo, senza nessuna forma di diffidenza preconcetta, che il nuovo Ministro delle finanze e tesoro, onorevole Campilli, svolga la sua opera.

E nel campo politico? Abbiamo già ascoltato qui una voce autorevole parlare dello scandalo di un alto magistrato che ha offeso la dignità dello Stato e la coscienza nazionale, o almeno quella della grande maggioranza della Nazione. Quali provvedimenti sono stati presi contro di lui? S’era detto che il Governo attendeva il ritorno dall’America dell’onorevole De Gasperi; l’onorevole De Gasperi è ritornato e, in tutti i nostri ambienti, ove si pensava alla necessità di una interpellanza a carattere di urgenza, si è detto: attendiamo la fine della crisi. Ed ora? È stato fatto nulla? Che cosa ci ha annunziato il Presidente del Consiglio? Eppure è una questione che interessa profondamente la coscienza politica del Paese. Io mi auguro che l’onorevole Presidente del Consiglio, nel suo discorso di risposta a questa Assemblea, ci parli di quell’alto magistrato, in modo che l’Assemblea abbia la possibilità di tranquillizzarsi.

Per i fatti avvenuti in questi ultimi giorni, culminati nell’invasione del palazzo che ospita la rappresentanza diplomatica jugoslava, che cosa si è fatto? Si vocifera dappertutto, e non certo senza fondamento, che ispiratori di quell’azione, che è stata certamente premeditata, sono alti gerarchi fascisti che girano ancora, liberi e trionfanti, per le vie di Roma. E quali provvedimenti sono stati presi, oltre a quelle applicazioni di articoli annunziate e sulle quali si è esercitata la cultura giudiziaria dell’onorevole Russo Perez? Si è parlato di scandalo per una pretesa retroattività della legge penale. Quale retroattività? La sanzione penale verso questi alti gerarchi del fascismo che girano, che diffamano, che complottano, che sognano un fascismo numero due ed un Mussolini numero due, è legale; colpendo costoro si colpisce non tanto la loro attività passata, che pure è stata pericolosa, quanto la loro attività presente.

La democrazia repubblicana ed il mondo tutto dei partigiani, come di tutti coloro che hanno direttamente o indirettamente combattuto per la libertà del nostro Paese, reclamano sanzioni severe, altrimenti la democrazia si scredita. Io mi auguro che anche su questo problema l’onorevole De Gasperi debba dirci qualche parola. Se si continuasse a fare come si è fatto finora, si verrebbe a determinare una corruzione politica, proprio alla base, che porterebbe, non già alla creazione di un secondo fascismo, stile vecchio fascismo, ché questo è impossibile, perché la situazione interna non lo permette, perché la situazione internazionale non lo consente, e perché, dopo tutto, il vecchio fascismo, oltre ad essere un regime di folli irresponsabili, era anche una cosa abietta, ma alla creazione di movimenti più o meno affini, ché la vita politica italiana è ricca di analogia così come nella nostra letteratura abbiamo un vocabolario ricco di sinonimi.

Onorevole De Gasperi, mi duole di non poter parlare a voi con l’autorità di un grande partito, ma io vi ricordo che voi siete il capo di un grande partito, e per lunghi anni avete combattuto contro il fascismo per la democrazia e avete il dovere di rispondere all’appello che è rivolto alla vostra coscienza democratica dai vostri stessi compagni di lotta. Sono gli stessi vostri compagni che vi chiamano in causa, onorevole Presidente del Consiglio.

A questo strapotere della Democrazia cristiana occorre porre dei limiti. Non basta la presenza dei socialisti e dei comunisti al Governo: occorre che costantemente possa essere esercitato, sulla vostra azione di Governo, il controllo parlamentare. Io mi auguro che un giorno per settimana, anche quando si riunisce la Costituente per discutere sulla Costituzione, i Deputati abbiano la possibilità di presentare interrogazioni ed interpellanze alle quali il Governo sia impegnato a rispondere; e che presenzino a quelle riunioni di carattere parlamentare sempre l’onorevole Presidente del Consiglio e tutti i Ministri, poiché l’azione di Governo è univoca ed a nessuno dei Ministri deve sfuggire quanto accade nei settori vicini o lontani dell’Amministrazione dello Stato.

Non vedo altro rimedio all’infuori di questa costante azione di controllo parlamentare. Un Governo democratico deve essere lieto di potere aderire a queste esigenze di vita democratica.

Toccherò ora brevissimamente due altri argomenti: quello riguardante il Ministero dell’assistenza post-bellica e quello del Ministero della difesa.

Il Ministero dell’assistenza post-bellica è apparso a qualcuno un Ministero superfluo; non certamente a coloro che hanno vissuto da vicino le vicende della miseria italiana creata dalla guerra fascista. In realtà questo Ministero fu costituito per rispondere alle esigenze di assistenza immediata di milioni di nostri concittadini, affamati, senza casa; di circa un milione di prigionieri che dovevano rientrare; di centinaia di migliaia di famiglie disperse. La parte della popolazione italiana per cui il Ministero dell’assistenza post-bellica fu costituito rappresentava un settimo circa della popolazione di tutta la Nazione.

Anche le statistiche di oggi – c’è un miglioramento da un anno in qua – danno una cifra di oltre 6 milioni di uomini, donne e bambini, che costituiscono le categorie assistite.

Quali sono, dunque, le ragioni che hanno determinato il Presidente del Consiglio a distruggere questo Ministero dell’assistenza della miseria nazionale del dopo guerra?

Ha detto il Presidente del Consiglio: «Una misura rivolta a farci entrare nella normalità amministrativa, ma che non diminuisce il dovere, l’impegno di garantire quelle continue cure alle categorie finora affidate a detto Ministero». Quando fu costituito questo Ministero, si trattò di assistere questo gruppo globale di bisognosi, in cui le interferenze tra una categoria e l’altra erano frequenti; non si potevano quindi lasciare dispersi in differenti Ministeri; c’era bisogno di un Ministero unico il quale creasse un’opera di assistenza coordinata.

Ancora oggi il complesso delle persone assistite raggiunge la cifra di 6 milioni di unità e di questi 6 milioni bisogna tener presente la parte che riguarda i disoccupati.

Secondo le statistiche del Ministero del lavoro – e l’onorevole Di Vittorio qui ce le ha riconfermate – i disoccupati in Italia sono circa 2 milioni e centomila. Ma questa cifra è insufficiente a darci il numero esatto della disoccupazione reale, perché non vi sono compresi tutti quelli che non risultano iscritti presso gli uffici di collocamento; quindi, la cifra è molto al di sotto della reale.

Ebbene, di questi 2 milioni centomila disoccupati, il 40 per cento, cioè ottocentomila, sono delle categorie assistite dal Ministero dell’assistenza post-bellica.

Come si spiega questa soppressione improvvisa del Ministero?

I campi profughi sono ottantanove e gli assistiti rifugiati nei campi oltre 50 mila: vanno aumentando tutti i giorni.

E questa è la normalità amministrativa? Questo è lo stato di cose che ha consigliato di far rientrare nella normalità amministrativa?

Io chiedo scusa di dover insistere su questo problema, ma è fondamentale il bisogno dei nostri connazionali, che hanno il sovrano diritto all’assistenza, perché c’è troppa povertà e, se lo Stato non interviene, non c’è nessuno che intervenga, specialmente nelle Regioni dove le iniziative assistenziali sono totalmente mancanti o assolutamente insufficienti.

Io tocco appena, ma mi permetto di citare l’esempio della Francia: un Paese che non è stato distrutto come il nostro – è perfettamente inutile soffermarmi – un Paese molto più ricco dell’Italia e in cui non c’è disoccupazione. Ebbene, in Francia, onorevoli colleghi democristiani – e credo che ciò interessi non solo voi, ma tutti quanti siamo qui, e in sommo grado – si sono costituiti e conservati due grandi Ministeri dell’assistenza: il Ministero dei reduci e delle vittime della guerra, (Ministère des anciens combattants et victimes de la guerre) e l’altro Ministero della popolazione (Ministère de la population). Ebbene, in Francia si sono conservati questi. Ministeri, malgrado che esista un Ministero dell’igiene e sanità (Ministère de la santé publique) e, oltre il Ministero dei lavori pubblici, che è rimasto in vita e organizzato, così come è rimasto in Italia, si è costituito ex novo il Ministero della ricostruzione, che pensa esclusivamente a ricostruire quanto la guerra ha distrutto. In Francia, dunque, paese più ricco, senza disoccupazione, e senza le distruzioni dell’Italia, si sono conservati questi due Ministeri d’assistenza, e in Italia si è distrutto il solo che esisteva. Che cosa avverrà di questa massa di milioni la cui assistenza sarà dispersa nei vari Ministeri? Che cosa avverrà?

Noi abbiamo ascoltato tutti con estremo interesse il discorso di fisiologia politica che ci ha fatto il rettore dell’università di Messina, l’onorevole Martino Gaetano. Egli ci ha detto a che cosa porta la insufficiente alimentazione: porta alla indifferenza, alla irritazione, ad aberrazioni psicologiche, che possono facilmente diventare aberrazioni politiche. E l’onorevole Presidente del Consiglio pensa veramente di permettere che queste immense masse possano arrivare, per mancanza di assistenza alla quale ha uno diritto, a forme di aberrazione psicologico-politica? Mentre si attendeva che, individuate le deficienze e corrette le debolezze, il Ministero dell’assistenza post-bellica si irrobustisse, secondo la concezione del suo primo Ministro che lo organizzò, allo scopo di creare un grande Ministero dell’assistenza generale, improvvisamente che cosa è avvenuto? Sciolto questo Ministero, alla Presidenza del Consiglio passano i combattenti, i reduci, ecc.; all’agricoltura, l’Opera nazionale combattenti, le concessioni di terreni, ecc.; all’interno gli sfollati, i sinistrati, ecc.; al lavoro, il collocamento, l’avviamento al lavoro, l’istruzione professionale; all’istruzione pubblica, l’assistenza scolastica, ecc.; alla difesa, i prigionieri. Questo Ministero, che doveva restare unito, si è improvvisamente sfasciato, diviso e spartito in sette Ministeri differenti. Et diviserunt vestimenta mea…

Si è parlato di normalità amministrativa. Si buttano così milioni di nostri concittadini nel maggiore scompiglio e nel maggiore bisogno. Non è la ragione amministrativa che ha indotto a questo provvedimento; è che la Democrazia cristiana – lo sappiamo tutti – vedeva con diffidenza che questo Ministero fosse in mano delle sinistre.

Il Presidente del Consiglio ha risolto la questione sfasciandolo. Ragioni di regolarità amministrativa? Qui non si amministra meglio niente di niente, ma si peggiora l’amministrazione e si peggiora tutto. E si crea un’altra irregolarità che è amministrativa e politica: un Sottosegretario uscente rimane presente e dispone come se fosse il titolare, ed il Sottosegretario nominato, che è il titolare, è obbligato a rimanere assente. E tutto questo avviene mentre in riunioni particolari di Gabinetti elementi tecnici e politici vanno preparando lo scompiglio per l’avvenire, e da 25 giorni questo Ministero, da cui dipende la vita di milioni di concittadini, è totalmente inerte. Questa è una situazione che non può durare, è una situazione alla quale questa Assemblea non può dichiararsi insensibile e indifferente. Parlando così, io credo di parlare anche a nome di molti colleghi. Io ho il privilegio di conoscere molto a fondo queste cose e non ne parlo a cuor leggero. È grave che un Governo democratico prenda un provvedimento e poi lo cambi, ma è più grave se, avendo riconosciuto l’errore, lo mantenga.

Onorevole Presidente del Consiglio, chiedo alla vostra sensibilità morale e politica di riesaminare il provvedimento preso. Riorganizzate il Ministero, e mettetevi a capo non un democratico cristiano, poiché non vi si chiederà mai questo, né un comunista, ché voi non lo consentireste: scegliete a titolo individuale o un socialista o un repubblicano o un demolaburista, ma salvate la tutela di questa immensa massa di miseria.

Adesso si parla anche della prossima istituzione di un Alto Commissariato per i profughi della Venezia Giulia. Onorevole De Gasperi, onorevoli colleghi del Governo, non commettete questo errore, perché si creerebbe un centro localizzato di nazionalismo con possibili e facili deviazioni politiche. Non fate un Ministero solo per i profughi giuliani. Assisteteli meglio, spendete semmai miliardi di più, ma impedite che sorga un focolaio di nazionalismo esasperato che intralcerebbe anche la vostra opera di Governo.

Difesa nazionale. La difesa nazionale è un problema che interessa troppo e mi pare che non sia stato trattato ancora da nessuno. Sulla riorganizzazione delle Forze armate unite nel Ministero della difesa, il Presidente del Consiglio non ci ha detto nulla, tranne che questo Ministero ha preso il nome uliveo di Difesa, che non deve più ricordare la guerra. Questa è l’unica cosa che abbiamo saputo. Ma che cosa avverrà delle Forze armate? Che cosa avverrà in questo nuovo Ministero della difesa? Non sappiamo nulla dell’avvenire e in verità non sappiamo nulla neppure del presente. Questa messa in vacanza dell’Assemblea nazionale, come Parlamento, ha fatto sì che nessuno ci abbia informati di quello che avviene all’aviazione, di quello che avviene alla marina. L’onorevole Cingolani aveva pur esso da dirci qualche cosa, ma ci ha detto poco.

CINGOLANI. Ho detto anche troppo.

LUSSU. Sì, sulle compagnie commerciali. Ma è ben altro quello che ci interessa. Sono le Forze armate. Per il Ministero della marina ci siamo affidati nelle mani, o meglio sulla prua dell’onorevole Micheli, che è stato un pacifico grande ammiraglio di acqua dolce.

Poi vi è il Ministero della guerra. Che cosa sappiamo del Ministero della guerra? Sappiamo che l’onorevole Facchinetti stava orientandosi per prendere delle decisioni, e quando era quasi pronto per decidere, è andato via. Io credo che l’onorevole Facchinetti avrebbe parecchie cose da dirci e molti di noi avremmo gradito che egli avesse approfittato di questa discussione per prendere la parola. L’onorevole Scoccimarro, come ex Ministro delle finanze, ha dato un ottimo esempio di deferenza verso questa sovrana Assemblea, e ci ha chiarito lo stato delle finanze e la sua azione di Governo. Noi possiamo concordare o no, ma credo che siamo stati tutti unanimi in tutti i settori di questa Assemblea ad essergli grati della esposizione fatta. Avremmo desiderato una cosa simile dal collega e amico onorevole Facchinetti. Io mi auguro che egli prenda la parola (non credo che farà a tempo in questa discussione perché non mi pare che sia iscritto a parlare) prossimamente, in quest’aula o anche fuori, anche in una riunione del suo partito, per chiarire la situazione attuale dell’esercito, perché noi non ne sappiamo nulla. Sappiamo solo che è andato via l’onorevole Facchinetti ed è subentrato l’onorevole Gasparotto. L’onorevole Facchinetti aveva dietro di sé il controllo, lo stimolo, la coscienza repubblicana del suo partito, e se anche egli non avesse voluto (cosa inconcepibile ed assurda), avrebbe dovuto agire per un’organizzazione repubblicana e democratica dell’Esercito.

Arriva invece l’onorevole Gasparotto chiamato dalla fiducia personale del Presidente del Consiglio, leader della Democrazia cristiana.

Io sono fra i colleghi qua dentro che attestano la loro stima, la loro fiducia, la loro amicizia ad un uomo così insigne nella vita politica italiana. Ma io devo naturalmente preoccuparmi, perché so che quando il Presidente del Consiglio, leader della Democrazia Cristiana, lo ha chiamato, non ha interpellato il gruppo della Democrazia del lavoro di cui fa parte l’onorevole Gasparotto e quel gruppo non ha dato il consenso…

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Ho interpellato il segretario del mio Partito due volte e questi per iscritto mi ha autorizzato, come persona, ad entrare nel Governo.

LUSSU. Devo prendere atto di questa dichiarazione; ma come uomo politico, devo supporre razionalmente che quel consenso rassomigli molto al consenso che dei buoni genitori, onesti e responsabili, danno per il matrimonio della figliola, che è scappata di casa col fidanzato. (Si ride).

L’onorevole Gasparotto è al disopra di ogni critica. E l’onorevole Finocchiaro Aprile potrebbe con la sua perforatrice scandalistica lavorare dei secoli e non troverebbe nulla contro di lui. Ma c’è dell’altro. L’onorevole Gasparotto è una grande anima. Mi permetterei di definirlo, se non fosse quasi una insolenza penetrare nella vita interiore altrui, un temperamento a natura romantica. È un buon carattere.

GASPAROTTO, Ministro della difesa. È esatto.

LUSSU. È un buon carattere, mentre a quel posto occorre un cattivo carattere.

L’onorevole Gasparotto è rimasto molto sorpreso, giustamente sorpreso, quando uno degli oratori di questa Assemblea ha detto che per stare bene a quel posto bisogna essere disposti anche a stroncare la propria carriera politica. Egli rimarrebbe ben più sorpreso se io gli dicessi quanto mi è stato riferito da parecchi colleghi competenti in quel settore, che per stare bene a quel posto, onorevole Gasparotto, bisogna essere disposti a stroncare non solo la carriera politica, ma anche la carriera della vita fisica. (Commenti).

Ma egli non corre quel rischio. (Si ride).

D’altronde l’onorevole Presidente del Consiglio, al quale nessuno nega il suo spirito evangelico, non ha chiamato a quel posto l’onorevole Gasparotto per fargli correre quel rischio! (Si ride).

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Per farvi piacere, correremo quel rischio.

LUSSU. Vi sono difficoltà enormi, onorevoli colleghi, in quel settore. Bisogna moralizzare l’esercito. Non è un mistero per nessuno che l’esercito durante il fascismo e durante la guerra era pieno zeppo di ladri, in basso e in alto, di ladri, autentici ladri. Io mi auguro, onorevole Gasparotto, che ha contrazione moralizzatrice nell’esercito sia tale da farlo ritornare a quello che era nell’altro dopo guerra quando ne foste per la prima volta Ministro. Bisogna che gli ufficiali ritornino a quel periodo in cui ognuno aveva un attaccamento geloso all’onore militare e alla propria decorosa povertà.

GASPAROTTO, Ministro della difesa. L’esercito è ancora sano, l’avverto. (Approvazioni).

LUSSU. Ma la società italiana è ammalata, e l’esercito ne fa parte.

Non offendo l’esercito, lo innalzo. Onorevole Gasparotto, nessuno in quest’aula, meno di tutti io, che ho vissuto tanti anni a contatto dell’esercito, vuole menomare l’esercito.

L’esercito è cosa nostra. L’esercito tocca tutti e interessa tutti: il nostro onore è nell’onore dell’esercito, l’onore della Nazione è nell’onore dell’esercito. (Approvazioni).

Esso è il rappresentante armato della Nazione, e noi non adoperiamo le armi, in quanto le abbiamo consegnate ad esso in nostra rappresentanza.

L’esercito, che costituisce ancora un’organizzazione rilevante, più delle altre Forze armate, che sono irrilevanti, dovrebbe arrivare a quel punto di alta moralità, che fu una grande distinzione dell’esercito italiano monarchico prima del fascismo.

L’esercito deve essere rieducato. In regime monarchico era monarchico, ed era giusto che così fosse. Allora, non v’era un solo ufficiale repubblicano, neppure l’onorevole Bencivenga, che apparteneva alla sinistra democratica, più decisamente antifascista.

Ma ora l’esercito deve essere repubblicano, e non in modo puramente formale. Esso deve sentire la Repubblica come la sente la Nazione. Ogni ufficiale deve rappresentare la Repubblica e trasfondere la coscienza repubblicana nei suoi dipendenti. Chi non sente questo dovere, che deve essere portato fino alla necessità del sacrificio estremo della vita per la difesa della Repubblica, deve andarsene (del resto la carriera di ufficiale, in servizio permanente effettivo, non è obbligatoria, ma volontaria) e cedere il posto a chi sente il dovere repubblicano. La legalità oggi è repubblicana.

Sono d’accordo con l’onorevole Bencivenga che in questo ci sia giustizia e legalità. Precisamente, anch’io invoco la legalità e la giustizia.

Anzi, chiedo qualcosa di più dell’onorevole Bencivenga. Una delle cose che sorprende noi italiani visitando l’Inghilterra è che nell’Abbazia di Westminster trovano posto non solo i grandi uomini di Stato che hanno servito quel grande Paese proficuamente, ma anche coloro che lo hanno servito sbagliando. E vi è pure la tomba di Chamberlain, il Primo Ministro inglese che, per cieco spirito reazionario, ha portato il suo Paese inerme alla guerra. Anche egli è onorato nel suo Paese.

Ebbene, io chiedo che questo Governo – e ritengo che tutti sentano il problema allo stesso mio modo – non dimentichi quelli che hanno servito degnamente la Nazione nei momenti più difficili dell’estremo bisogno, durante l’armistizio e dopo, nella guerra di liberazione.

I capi militari, anche se monarchici, che hanno aiutato la Nazione a liberarsi e risorgere, se devono essere dimessi perché monarchici o per raggiunti limiti di età, abbiano un’indennità statale vitalizia, degna dei loro meriti. (Approvazioni).

Non è ammissibile che un ammiraglio come De Courten, che è monarchico, debba andare affannosamente alla ricerca d’una occupazione per il sostentamento e l’educazione dei suoi figli.

Non faccio altri nomi; e ne potrei citare a diecine e, fra i primi, quel generale che ha seduto in quest’Aula, prima della Costituente.

Non è ammissibile che gli ex capi dell’esercito, dell’aviazione e della marina, che hanno aiutato a salvare la Nazione, vivano stentatamente in miseria. Non è ammissibile che la Nazione li dimentichi, onorevole De Gasperi e onorevole Gasparotto. Io ho fatto una critica, ma giusta, repubblicana, perché il diritto oggi è repubblicano. Ma vi è anche l’umanità e la riconoscenza.

Onorevole Gasparotto, spendete anche dei miliardi, ma fate sì che i grandi comandanti e quei gregari che hanno messo la loro vita al servizio della Nazione in pericolo possano condurre una vita degna. È per questo senso che io mi sento il diritto di chiedere la democratizzazione dell’esercito.

Del tecnicismo non parlo neppure. Finisco e chiedo scusa di essermi anche troppo intrattenuto: il problema è enorme. L’esercito è nostro, l’esercito siamo noi, non è una casta dinastica, l’esercito, è tutta la nazione. Ebbene il vostro, onorevole Gasparotto, è un posto di grande responsabilità. Io ho stima e affetto per voi, onorevole Gasparotto, come tutti; e credo che vi onoro doppiamente se vi faccio l’augurio che voi possiate stare a quel Dicastero con lo stesso spirito e con quella stessa ferrea volontà con cui Poldo Gasparotto, il vostro figliuolo, il grande partigiano, seppe combattere e morire per la Patria. (Vivissimi generali applausi).

Avremo bisogno di avere notizie precise anche su quelle riforme che pare si vogliano fare. C’è il Ministro e sta bene, e poi il Sottosegretario alla difesa, e il capo di gabinetto del Ministro. E poi due Sottosegretari, uno per la marina e uno per l’aeronautica. Ogni Sottosegretario avrebbe una segreteria generale che sarebbe una specie di direzione generale. Io chiedo che il Presidente del Consiglio ci faccia sapere quali sono i poteri del Ministro, del capo di gabinetto, del Sottosegretario alla difesa e dei due altri Sottosegretari, delle direzioni generali o segreterie. È una questione importante di competenza e di rapporti: la stessa che nel Governo francese si discute da 15 giorni. Voi sapete che cosa voglio dire. Finisco con questo.

Ho il dovere di fare un accenno al Trattato perché l’intervento del collega Nenni mi obbliga a farlo a nome del mio gruppo.

L’onorevole Nenni ha citato la pace di Bordeaux dopo il crollo dell’Impero di Napoleone III, quella della Germania di Weimar dopo la caduta di Guglielmo II, del Trattato di Brest-Litowskj dopo la disfatta dell’impero zarista. Noi tutti siamo sensibili all’alta autorità del collega. Ma né la Francia, né la Germania, né la Russia ebbero con gli eserciti degli Stati che loro dettarono la pace, i rapporti che noi abbiamo avuto con gli eserciti delle grandi potenze, la cui volontà siamo oggi obbligati a subire.

L’Italia, attraverso il suo movimento partigiano nella lotta per la liberazione, costituisce uno dei fatti più grandiosi della liberazione europea. È in nome di questo movimento partigiano che alcuni di noi non potranno approvare la firma del Trattato. Ma sia ben lungi da noi l’oltraggio di trattare questo Governo come nemico della Nazione perché è stato obbligato a firmare. Saremmo dei fascisti; nessuno in questo Governo porta responsabilità tali da meritare il supplizio di questo Trattato; e credo nessuno, in alcun settore di questa Assemblea. Nessuno, e tanto meno l’onorevole Sforza che, dopo venti anni di esilio, vissuti in grande dignità, è costretto oggi, a capo chino, a prendere per suoi i delitti di coloro che ha denunziato alla democrazia del mondo. Nessuno dei nostri interventi offenderà dunque la dignità del Governo; ma, a nome del gruppo che rappresento, dico all’onorevole De Gasperi, all’onorevole Sforza e al Governo tutto: vi sono due forme di dignità: era egualmente degno firmare o rifiutarsi; bisogna però scegliere o l’una o l’altra forma. Non si possono scegliere l’una e l’altra assieme. Il Governo scelga la sua via con dignità. Il Governo, che rappresenta la nuova democrazia italiana, deve dimostrarsi all’altezza del suo compito e rappresentare la grandezza del sacrificio che il nostro Paese compie per la sua rinascita. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani.

Sull’interrogazione del Deputato Natoli.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Natoli se può sciogliere la riserva formulata in principio di seduta.

NATOLI. Ho presentato alla Presidenza una proposta concreta, ma vorrei prima pregare il Presidente di mettere in votazione, se lo crede, la proposta contenuta nella prima parte dell’interrogazione rivolta al Presidente del Consiglio, per chiarire meglio il mio pensiero.

PRESIDENTE. Ricordo che l’Assemblea ha già approvato all’unanimità la proposta contenuta nella seconda parte dell’interrogazione dell’onorevole Natoli, e precisamente quella con cui è stato invitato l’Ufficio di Presidenza dell’Assemblea a richiedere ad ogni Deputato se fa parte di istituti finanziari, economici o imprese private.

Ora l’onorevole Natoli chiede che sia posta in votazione una proposta riferibile alla prima parte dell’interrogazione. Tale proposta è del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente invita l’Ufficio di Presidenza a richiedere al Presidente del Consiglio l’elenco dei Deputati i quali coprono una carica retribuita e affidata dal Governo presso enti parastatali, economici, finanziari, o in altri organismi che abbiano relazione con lo Stato, indicando anche l’ammontare della retribuzione o dell’indennità».

 

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non ho nessuna difficoltà ad accettare la proposta nel suo spirito, cioè che io, come Presidente del Consiglio, mi impegno, dinanzi all’Assemblea, di mettere a disposizione della Presidenza tutti i documenti di cui verrò in possesso; ma il Governo non può assumere l’incarico di farne la pubblicazione, in quanto dovrà essere la Presidenza dell’Assemblea a decidere sul da farsi.

REALE VITO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

REALE VITO. Propongo che, data l’ora avanzata e considerata la delicatezza della materia, ogni decisione in proposito sia rinviata per lo meno a domani. (Commenti). Bisogna armonizzare e chiarire bene ciò che l’Assemblea deve decidere in una materia così delicata, in cui si potrebbe arrivare alla estrema conseguenza che tutta l’Assemblea sia sottoposta ad inchiesta. E ciò non è ammissibile.

Una voce. E perché?

REALE VITO. Perché l’Assemblea non può giudicare se stessa. Ad ogni modo 24 ore di tempo per meditare ritengo che non siano una richiesta eccessiva.

PERTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERTINI. Osservo che una interrogazione non si può mettere ai voti; bisogna che il collega Natoli la trasformi in mozione o in ordine del giorno. Osservo ancora che non spetta al Governo di pubblicare un elenco di Deputati, perché ciò significherebbe menomare la sovranità dell’Assemblea, la quale è sovrana; se mai potrà la Presidenza pubblicare questo elenco e trarne le conseguenze.

PRESIDENTE. Desidero far presente all’onorevole Pertini che non si tratta di mettere in votazione una interrogazione. All’inizio della seduta l’onorevole Natoli ha trasformato in proposta concreta alcune parti della sua interrogazione, ed una di tali proposte è stata già posta in votazione ed approvata dall’Assemblea.

Si tratta ora di approvare un’altra proposta derivante dall’interrogazione presentata ieri sera dall’onorevole Natoli.

In quanto alla seconda osservazione fatta dall’onorevole Pertini, rilevo che lo stesso onorevole Presidente del Consiglio ha fatto presente non solo l’opportunità, ma la necessità che il Governo non faccia esso stesso la pubblicazione, mettendo invece a disposizione dell’Assemblea le notizie richieste.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Finocchiaro Aprile. Ne ha facoltà.

FINOCCHIARO APRILE. Sono dolente di non essere stato presente alla prima parte della seduta e di non avere ascoltato la formulazione precisa dell’ordine del giorno dell’onorevole Natoli.

Se non erro, l’onorevole Natoli ha proposto una inchiesta di tipo speciale, non una vera e propria inchiesta parlamentare, cioè, non un’inchiesta di quelle contemplate nel regolamento della Camera.

Credo che sia stata fatta una richiesta al Presidente del Consiglio di presentare all’Assemblea Costituente l’elenco degli onorevoli deputati che ricoprono cariche in enti statali o parastatali, di carattere soprattutto finanziario, per intendersi. Parmi che ciò sia assolutamente necessario, soprattutto perché il Paese è in attesa ed ha il diritto di sapere tutto.

A me non sembra che si debba dare alla proposta dell’onorevole Natoli un significato il quale tocchi la dignità e il prestigio dell’Assemblea, che sono fuori discussione. L’Assemblea Costituente è genuina rappresentante del popolo italiano e, in essa, vi sono in grandissima maggioranza uomini che onorano il Paese.

Una voce al centro. Tutti!

FINOCCHIARO APRILE. Non tutti!

Una voce al centro. Meno lei!

FINOCCHIARO APRILE. Il suo giudizio mi onora. Orbene, che si sappia quali siano i Deputati che rivestono cariche come quelle cui ho accennato, è giusto ed è necessario.

Il Capo del Governo, da quanto ho capito, ha dichiarato di non poter presentare l’elenco domandatogli. Forse non è nemmeno opportuno che lo presenti. (Commenti).

Il Capo del Governo è, infatti, un uomo di parte e non darebbe, a questo riguardo, assoluta garanzia a tutte le parti, a tutti i settori della Camera (Vive proteste al centro – Commenti) e, quindi, l’Assemblea non avrebbe la certezza di avere dinanzi un elenco completo.

Io stesso dichiarai che avrei presentato un elenco, ma è ovvio che questo non potrebbe mai essere completo. Aderisco, quindi, alla proposta dell’onorevole Natoli che, cioè, sia l’Assemblea Costituente – come ha detto giustamente l’onorevole Pertini – a fare le indagini che occorrono. L’Assemblea ha, infatti, possibilità e mezzi di accertamento che non hanno i singoli Deputati.

Ma l’Assemblea Costituente, oltre a queste indagini, assolutamente necessarie per il suo stesso decoro, deve pensare ad una decisione di ordine generale circa le incompatibilità. Dobbiamo noi, quindi, e nel più breve tempo possibile, decidere quali siano gli uffici del genere di quelli di cui si è parlato in questi giorni, compatibili o meno con l’esercizio del mandato parlamentare.

Ciò premesso, mi associo anche alla proposta, credo dello stesso onorevole Natoli, che sia il Presidente della Camera a nominare la Commissione che faccia questi accertamenti e faccia le proposte relative alla incompatibilità.

PRESIDENTE. È stata presentata dall’onorevole Vito Reale una proposta di sospensiva in ordine alla proposta fatta dall’onorevole Natoli. A norma del Regolamento, possono parlare due oratori a favore e due contro.

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Mi dichiaro favorevole alla sospensiva e dirò brevemente i motivi per cui consiglio l’Assemblea a votarla.

Non entro nel merito, ma mi riservo di parlare sul merito, se si discuterà la questione stasera.

Mi pare che la questione sia impostata male e forse si darà tempo all’onorevole Natoli, in collaborazione anche con altri, di correggere questa impostazione sbagliata.

Mi pare che stiamo versando un bicchiere d’acqua nel mare: nessuno mai, neanche l’onorevole Finocchiaro Aprile – e lo ha confermato adesso – ha messo in discussione l’Assemblea Costituente nel suo complesso. D’altra parte, credo di interpretare il pensiero dell’Assemblea, dichiarando che l’Assemblea Costituente non accetta di essere messa in discussione da chicchessia. (Approvazioni).

È stata messa in discussione, non so con quale fondamento, né sono tenuto a saperlo, la posizione di qualche membro dell’Assemblea Costituente. Non capisco perché si debba diluire questa giustificata o ingiustificata accusa su tutta l’Assemblea.

Se inchiesta ci deve essere, se l’Assemblea vuole che inchiesta ci sia, la faccia nei confronti delle persone per le quali si è detto qualche cosa. Gli altri, sul conto dei quali non si è detto niente, siano lasciati in pace, perché hanno diritto a questo (Commenti). Se credete di allargare e di dover dire qualche cosa su altri, ditelo anche su altri; ma una specie di imputazione generica e di indagine generica su tutti i membri eletti dal popolo al massimo organo rappresentativo della Nazione rappresenterebbe – e questo credo sia interpretare anche la volontà dei nostri elettori – diluire nel mare un bicchiere d’acqua, di cui credo e spero che nemmeno una goccia sia inquinata.

Credo che sia opportuno pensare bene ai termini della discussione, perché l’elenco che è stato chiesto alla Presidenza di compilare, lo troviamo già sulla Gazzetta Ufficiale, in quanto i Deputati che sono incaricati di funzioni di questo genere lo sono stati con regolare decreto. Non abbiamo bisogno di fare indagini particolari: basta prendere due impiegati, far loro sfogliare la Gazzetta Ufficiale ed abbiamo l’elenco fatto.

Cerchiamo di essere semplici. Se c’è qualche cosa di specifico, assumiamoci la responsabilità di indagare ed andiamo in fondo; ma mantenerci sul generico per dire al Paese preoccupato che abbiamo preso un provvedimento su tutti – che, in fondo, è un provvedimento su nessuno – mi pare che non corrisponda né alla nostra dignità, né alla nostra serietà.

Per questo sono favorevole alla sospensiva.

GIUA. Chiedo di parlare contro la sospensiva.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIUA. Io sono contrario alla proposta di sospensiva. Ho assistito quasi inerte nei giorni in cui si è prospettato questo sospetto su alcuni componenti della Costituente; ma ho assistito anche ad un gesto, che mi è dispiaciuto, dell’onorevole Gronchi. Quando l’onorevole Finocchiaro Aprile ha lanciato un’accusa su alcuni componenti del gruppo dei democratici cristiani, l’onorevole Gronchi, rivolgendosi a questi banchi, ai banchi dell’estrema sinistra, ha detto che anche componenti dell’estrema sinistra si trovavano nella stessa condizione.

Tuttavia, io non voglio insistere ulteriormente su questo fatto.

Se il problema, come è stato impostato dal collega Lucifero, fosse limitato all’interno dalla Costituente, tutti noi potremmo risolvere facilmente la questione, ma il problema quale è stato prospettato dall’onorevole Finocchiaro Aprile è ormai uscito da quest’Aula ed ha invaso il Paese. È noi conosciamo anche la psicologia del popolo italiano, psicologia che è in relazione alla sua immaturità politica. È, quindi, necessario che ognuno di noi, dinanzi all’eventualità di una inchiesta, alla possibilità di far prospettare a tutto il popolo italiano il carattere morale dei componenti di questa Costituente, risponda prontamente alla domanda d’inchiesta.

Quindi, io sono contrario alla proposta di sospensiva, facendo voti che la presidenza della Costituente mandi rapidamente un questionario a tutti i componenti di quest’Assemblea, i quali risponderanno quali sono gli incarichi che hanno avuto dal Governo, quali sono le cariche che ricoprono e quali sono anche le indennità che hanno percepito negli anni trascorsi e continuano a percepire in questi mesi.

È un dovere per tutti, che abbiamo verso il Paese, perché un velo è stato sollevato sui componenti della Costituente. Noi abbiamo il dovere di dire al popolo italiano che, se siamo stati antifascisti, lo siamo stati non soltanto perché il partito fascista ha ucciso la libertà, ma anche perché il partito fascista ha corrotto la moralità del popolo italiano; e se noi ci siamo opposti al fascismo, lo abbiamo fatto perché ci siamo opposti alla corruzione del popolo italiano. Noi dobbiamo dimostrare che quanti sono entrati in quest’Aula sono puri, e non da oggi solamente, e che lo saranno anche in avvenire.

PICCIONI. Chiedo di parlare contro la sospensiva.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PICCIONI. A me pare che al punto al quale questa incresciosa discussione è arrivata, non si possa se non concluderla, e rapidamente, con un voto chiaro e preciso, che esprima la volontà dell’Assemblea di veder chiaro in quelle che sono state le insinuazioni affacciate contro l’uno o contro l’altro dei suoi membri.

Noto, d’altra parte, che nella prima fase di questa seduta si è già verificato un voto unanime dell’Assemblea che accettava senz’altro il contenuto della seconda parte della interrogazione Natoli, vale a dire la proposizione da parte della Presidenza dell’Assemblea a ciascun Deputato di un questionario attraverso il quale ciascun Deputato chiarisse la propria posizione nei confronti di incarichi ricoperti presso enti privati, finanziari o economici. Sarebbe, a mio avviso, leggermente ridicolo – me lo consenta l’Assemblea – se avendo unanimemente deliberato su questo punto, si volesse rinviare o sofisticare sulla prima parte che evidentemente è più grave, in quanto riguarda la posizione dei singoli Deputati in rapporto ad enti economici o finanziari di natura statale o parastatale.

Ritengo quindi che, in considerazione di tali elementi di fatto, l’Assemblea non possa se non votare sulla proposta Natoli.

E poiché ho la parola – il Presidente me lo consentirà – ritengo che la formulazione della proposta definitiva presentata dall’onorevole Natoli risponde esattamente a quelle che sono state le dichiarazioni del Governo, nella prima fase di questa seduta, ed anche alle dichiarazioni fatte poco fa dall’onorevole Finocchiaro Aprile, in quanto si propone la nomina d’una Commissione che prenda in esame gli elementi forniti alla Presidenza dell’Assemblea da parte del Governo, al fine di stabilire se in tali elementi si riscontri qualcosa che ponga in essere una qualsiasi incompatibilità morale o politica di ciascun membro dell’Assemblea, di fronte all’Assemblea stessa. Ciò salvaguarda pienamente la sovranità giustamente rivendicata dall’onorevole Pertini dell’Assemblea medesima di fronte ai poteri del Governo; perché qui si tratta effettivamente di valutare la posizione di ciascun Deputato nell’ambito dell’Assemblea stessa, al di fuori ed al di sopra di qualsiasi incidenza dell’attività del Governo con la funzionalità dell’Assemblea.

Per queste considerazioni sono contro la proposta di sospensiva; ritengo che la discussione sia già così matura e conclusiva da consentire di arrivare al voto di quella formulazione che mi pare esprima esattamente il concorde pensiero sia del Governo, sia dell’onorevole Finocchiaro Aprile, e di tutta l’Assemblea, per la salvaguardia del proprio decoro e del proprio prestigio.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta di sospensiva formulata dall’onorevole Reale Vito.

(Dopo prova e controprova, non è approvata).

PATRISSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PATRISSI. A me pare che non abbia valore pratico la proposta dell’onorevole Natoli. L’onorevole Finocchiaro Aprile, sostanzialmente, denunciando all’Assemblea il fatto che determinati colleghi ricoprono determinate cariche in enti statali o parastatali, non ha scoperto nulla, perché l’attribuzione degli incarichi non è avvenuta clandestinamente. Ora la pregiudiziale da risolvere è questa: si può perpetuare questo mal costume per cui il cittadino investito di mandato parlamentare debba sfruttare tale mandato elemosinando cariche soltanto se ben retribuite? Se decidiamo di ritornare alle vecchie tradizioni parlamentari, che erano onore e vanto della vita politica italiana, mi pare che la situazione si risolva da sé. Coloro che hanno delle cariche, magari avendole accettate in buona fede, si dimettano e la situazione va a posto.

Quanto poi alla parte delle dichiarazioni dell’onorevole Finocchiaro Aprile, che possano comunque riguardare la scarsa delicatezza o la scarsa scrupolosità di qualche membro di questa Assemblea, o del Governo, l’onorevole Finocchiaro Aprile si assuma tutta la responsabilità delle sue insinuazioni. E penso che se insinuazioni sono, debbano costituire oggetto d’esame da parte di una specifica Commissione parlamentare d’inchiesta. Questo per me è pregiudiziale.

PRESIDENTE Desidero far presente che la questione di merito è duplice. La proposta contenuta nella seconda parte dell’interrogazione dell’onorevole Natoli è stata già approvata all’unanimità.

L’altra proposta non può essere esaminata in modo diverso; cioè altrimenti che con una votazione simile a quella fatta all’inizio di seduta. Resta poi da risolvere, secondo la risoluzione ultima dell’onorevole Natoli, la questione relativa al modo in cui dovranno essere utilizzate le indicazioni fornite alla Presidenza.

Credo pertanto che si possa mettere ai voti la prima proposta dell’onorevole Natoli:

«L’Assemblea Costituente invita l’Ufficio di Presidenza a richiedere al Presidente del Consiglio l’elenco dei Deputati i quali coprono una carica retribuita e affidata dal Governo, presso enti parastatali, economici, finanziari, o in altri organismi che abbiano relazione con lo Stato, indicando anche l’ammontare della retribuzione o dell’indennità».

Ha chiesto di parlare l’onorevole Lucifero. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Vorrei sapere a che cosa tende questa proposta, perché se è a fini statistici, sarà indubbiamente molto interessante, ma non si vede a quale conclusione porti.

PRESIDENTE. Onorevole Lucifero, la risposta al suo interrogativo la può dare quest’altra proposta presentata dall’onorevole Natoli, così formulata:

«L’Assemblea Costituente, udite le dichiarazioni del Presidente del Consiglio in risposta all’interrogazione Natoli, delibera di deferire al suo Presidente la nomina di una Commissione incaricata di esaminare gli elementi che saranno comunicati dal Governo e le dichiarazioni che i Deputati faranno alla Presidenza dell’Assemblea.

«La Commissione riferirà altresì alla Presidenza le proposte circa eventuali casi di incompatibilità morale e politica e circa l’opportunità di stabilire nel regolamento della futura Camera, o nella legge elettorale, norme riguardanti il problema generale delle incompatibilità».

Si tratta, in sostanza, di raccogliere gli elementi che possano dare alla Commissione la possibilità di giungere a certe conclusioni.

PATRISSI. Io credo che sia buona norma di correttezza valutare a priori i criteri in base ai quali si utilizzerà il materiale statistico raccolto. (Commenti).

PRESIDENTE. Sono stupito che queste obiezioni non siano state sollevate in principio di seduta, quando all’unanimità è stata votata la seconda proposta dell’onorevole Natoli.

PATRISSI. Io non c’ero.

PRESIDENTE. Ognuno assume una parte di responsabilità delle decisioni dell’Assemblea.

Procediamo alla votazione della proposta concreta dell’onorevole Natoli relativa alla prima parte della sua interrogazione.

(È approvata all’unanimità).

Pongo in votazione l’altra proposta, testé letta, dell’onorevole Natoli.

LUCIFERO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Dichiaro di votare contro, perché ritengo che questa proposta non risolva nessuno dei problemi e anche perché non so come si possano introdurre nel regolamento della Camera delle statuizioni di incompatibilità morale e politica, che, caso mai, potranno essere introdotte soltanto nella nuova legge elettorale. (Commenti).

PATRISSI. Noi siamo disposti ad approvare, ma vorremmo trovare una soluzione concludente.

PRESIDENTE. È in sua facoltà presentare all’Assemblea qualunque proposta.

PATRISSI. Mi riservo di presentare una proposta.

RUSSO PEREZ. Ognuno approva per non essere creduto contrario a che la luce sia fatta!

(La proposta Natoli è approvata).

CORSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORSI. La formula ora approvata stabilisce nella sua prima parte la costituzione di una Commissione che ha, manifestamente, poteri inquirenti su fatti denunciati o affermati dall’onorevole Finocchiaro Aprile e su altri. Nella seconda parte attribuisce alla Commissione il compito di dichiarare quali sono i casi di incompatibilità che riguardano membri dell’Assemblea Costituente. Ora, io ho voluto formulare in termini specifici i quesiti che la Commissione dovrebbe risolvere in materia di incompatibilità. La Commissione esamini e proponga all’Assemblea Costituente:

1°) se i membri dell’Assemblea non possano partecipare all’amministrazione di enti di carattere finanziario, economico, assicurativo, di assistenza o qualunque altro, che abbiano natura statale o parastatale;

2°) se si ritenga incompatibile la partecipazione dei membri dell’Assemblea Costituente ad enti e società di natura privata;

3°) se si ritenga incompatibile la stessa partecipazione soltanto quando tali enti e società abbiano interessi contrastanti con quelli della pubblica amministrazione.

Mi pare che in questo modo la Commissione risolverà il quesito posto dal collega onorevole Patrissi. Cioè: voi non potete dichiarare a priori la indegnità o il mal costume d’un membro dell’Assemblea Costituente, se non avete preventivamente stabilito queste determinate incompatibilità.

Sarei grato, pertanto, all’onorevole Presidente dell’Assemblea se volesse sottoporre all’Assemblea la mia proposta.

PRESIDENTE. Onorevole Corsi, la sua proposta può essere considerata come una raccomandazione alla Commissione. L’Assemblea ha già deliberato.

Io penso che non sia opportuno vincolare fin da questo momento la Commissione, che verrà nominata, con delle norme che possono forse presentarsi troppo limitatrici.

In ogni modo, onorevole Corsi, il suo documento, come espressione d’un modo particolare di considerare il problema, sarà comunicato alla Commissione, la quale se ne varrà nello svolgimento dei propri lavori.

CONDORELLI. La Commissione come sarà composta?

PRESIDENTE: Onorevole Condorelli, mi permetto farle presente che, a tenore della deliberazione presa, l’Assemblea ha deferito al Presidente la nomina della Commissione. È la formula normalmente adoperata, con la quale si affida al buon senso ed alle consuetudini dell’Assemblea rappresentativa questioni di questo genere. Domani farò conoscere all’Assemblea la composizione della Commissione.

PATRISSI. In quanto tempo deve espletare i suoi lavori?

PRESIDENTE. Osservo che la questione avrebbe dovuto porsi prima della votazione.

Annunzio di una mozione.

PRESIDENTE. Comunico che è stata presentata la seguente mozione:

«L’Assemblea, ritenuto che per la realizzazione organica dello Statuto siciliano, ad evitare eventuali conflitti di carattere costituzionale dopo la sua applicazione, occorre che lo Statuto sia coordinato con la Costituzione della Repubblica, come del resto è previsto dallo Statuto stesso;

ritenuto, altresì, che i lavori della Commissione paritetica per lo Statuto siciliano non sono ancora conclusi, ciò che pregiudica la migliore realizzazione dell’autonomia;

considerato che le elezioni per l’Assemblea siciliana, indette per il 20 aprile, non sono conciliabili con le premesse esigenze;

invita il Governo a disporre le elezioni in Sicilia alla data più vicina possibile, dopo l’avvenuto coordinamento costituzionale in sede di Assemblea».

Nasi, La Malfa, Di Giovanni, Lombardi Riccardo, Canevari, Veroni, Cevolotto, Silone, Rossi Paolo, Preziosi, Corsi, Bocconi, Costantini, Lombardo Ivan Matteo.

Prego l’onorevole Presidente del Consiglio di esprimere l’avviso del Governo su questa mozione.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Propongo che la mozione sia svolta dopo la chiusura della discussione sulle dichiarazioni del Governo.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole La Malfa. Ne ha facoltà.

LA MALFA. Sono dolente di non essere d’accordo con l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri per il rinvio alla fine della discussione sulle dichiarazioni del Governo.

Pregherei il Presidente del Consiglio di aderire alla discussione entro domani, perché il rinvio a dopo esaurita la discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio pregiudicherebbe il problema delle elezioni.

Io ritengo che su questo problema sia necessaria una discussione in seno all’Assemblea. Si tratta non di un piccolo, ma di un grande fatto della vita politica nazionale, ed è bene che questa Assemblea assuma le sue responsabilità.

Io devo dire che questo, a mio giudizio, rappresenta non solo una garanzia per quel che riguarda l’Assemblea Costituente nei rapporti con la Sicilia, ma rappresenta anche una garanzia per i siciliani. L’autonomia è un fatto che determina rapporti politici tra la Sicilia e il resto d’Italia: il significato e il valore di questi rapporti devono essere chiariti in via preliminare.

Sul fatto dell’autonomia si sono create in Sicilia correnti di opinione che, a mio giudizio, non sono nel vero. È bene che il popolo siciliano su questo problema sia consapevole prima di decidere in tema di elezioni.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevoli colleghi, il collega La Malfa, che fa parte del gruppo siciliano perché è nato in Sicilia, ma non vive in Sicilia, si meraviglia che il Presidente del Consiglio voglia ritardare la discussione sulla proposta del rinvio delle elezioni regionali a dopo che sarà esaurita la discussione sulle comunicazioni del Governo.

Io, come siciliano, mi meraviglio che si proponga di ritardare di un sol giorno le elezioni siciliane. Vi è una legge dello Stato che ha concesso l’autonomia alla nostra isola. Mi permetto di ricordare agli onorevoli colleghi che sei o sette mesi fa, nel mese di luglio, ebbi a parlare del problema siciliano e dissi che, per quanto noi siciliani siamo scontenti del trattamento che ci hanno fatto i vari Governi che si sono succeduti in Italia dal 1860 ad oggi, nella grande maggioranza dei siciliani è ancora vivo il sentimento unitario, perché noi ci sentiamo ancora e sempre legati alla madre patria, specialmente in questo momento in cui lembi preziosi del nostro territorio ci sono tolti dallo straniero; ad un patto, che il Governo non dia esca ad un rinverdire di un forte movimento separatista siciliano. E come siciliano nato in Sicilia e vissuto sempre in Sicilia, ritengo che questo tentativo di differimento delle elezioni siciliane avrebbe gravi ripercussioni in Sicilia, giacché sarebbe interpretato come un tentativo di sabotaggio della già concessa autonomia e potrebbe, quindi, guadagnare al separatismo anche dei ferventi unitari.

Giudichi il Governo se ciò convenga al Paese.

NASI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NASI. Non avrei chiesto la parola se l’onorevole Russo Perez non avesse qualificato quella dell’amico La Malfa come la parola di un siciliano che vive fuori della Sicilia; e allora rispondo io che sono un siciliano in quotidiani rapporti coi miei conterranei, che vive la vita della nostra isola, autonomista di antichissima data, e al quale il nostro popolo darà credito, perché a lui ho detto sempre la verità. (Interruzione dell’onorevole Russo Perez).

La questione, onorevole Presidente del Consiglio, non è una questione di date; lei sa che le elezioni in Sicilia avranno una ripercussione di interessi gravissimi e avranno anche una ripercussione nei rapporti tra l’Italia e la Sicilia. Soprattutto in un momento come questo, in cui lo Statuto siciliano, promulgato con decreto-legge del Governo, deve essere sottoposto all’approvazione dell’Assemblea… (Rumori).

Una voce al centro. È inesatto..

NASI. …dico meglio, deve essere coordinato con la Costituzione dello Stato. Bisognerà, quindi, esaminare quali parti siano conformi alle istituzioni dello Stato; trattandosi di un organismo politico, eminentemente politico, e non già di un organismo amministrativo. Il Governo creò una Commissione paritetica – la quale venne scherzosamente chiamata peripatetica, perché la sua azione si svolge tra Roma e Palermo – e che dovrebbe dettare norme in proposito; ma questa Commissione non ha concluso i suoi lavori e, per dichiarazione di essa stessa, non li concluderà se non alla fine di maggio.

PRESIDENTE. Onorevole Nasi, non entri nel merito dell’argomento.

NASI. In un’Assemblea la quale ha pronunciato anche parole inutili e dannose per il Paese, è necessario che si discuta una questione, che i siciliani considerano con grandissima attenzione in questo momento. Sento perciò il dovere di proporre questo rinvio e sono sicuro che i siciliani daranno ancora una volta prova di un alto senso di equanimità; e non penseranno, per questa rude proposta ad un tradimento. Noi dobbiamo discutere con severità questa questione e potremo farlo domani. D’altra parte, voi sapete che il rinvio più lungo proposto dal Presidente del Consiglio alla fine della discussione in corso, rappresenterebbe per noi l’impossibilità di parteciparvi. Infatti noi Deputati siciliani non saremmo qui, perché dobbiamo recarci nell’isola a preparare le liste e a prendere gli accordi per la data delle elezioni già fissate pel 20 aprile. Saremmo, quindi, privati della possibilità di discutere lo Statuto siciliano.

Ho prospettato il quadro della situazione, quadro che suggerisce il rinvio a domani. Ed io mi auguro che ciò avvenga nell’interesse della Sicilia e dell’Italia.

LA MALFA. Domando la parola.

PRESIDENTE. A che scopo?

LA MALFA. Per rispondere all’onorevole Nasi.

PRESIDENTE. Non glie la posso concedere perché, a norma del Regolamento, non si può prendere la parola più di una volta sullo stesso argomento.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Debbo osservare che il Governo nulla obietta circa la discussione in merito dell’argomento. Mi pare però che se io vi dico: «finite prima la discussione generale sui problemi, come il Trattato di Pace, che si sono agitati nei vari discorsi» non presento un’esigenza straordinaria, in quanto, se il Governo sarà posto in minoranza, esso ne trarrà le conseguenze. Ma non si può inserire questa questione che, per quanto importante, non è così importante come la politica generale del Governo ed il Trattato di pace, nella discussione attuale in modo da spezzarla.

Osservo, poi, che con la mia proposta si rimanda la possibilità di accogliere la proposta del rinvio delle elezioni; la presentazione delle liste dovrà essere ultimata, se non erro, entro il 5 marzo. Comunque, se la Camera ad un certo momento dirà al Governo – ed il Governo si sottometterà a questa decisione – di rinviare le elezioni, il rinvio sarà possibile, in quanto le elezioni stesse sono fissate per il 20 aprile.

Dico subito, senza entrare nel merito, che i precedenti che hanno condotto alla risoluzione del Governo sono perfettamente parlamentari e democratici: sono stati sentiti, a mezzo dell’Alto Commissario, a suo tempo tutti i rappresentanti dei partiti e dei gruppi siciliani e, quindi, dopo ampia discussione, in presenza dell’Alto Commissario, il Governo ha adottato le sue decisioni. Non nego che su un argomento molto serio come questo si possa essere di diverso parere; tutto sta a pesarne le conseguenze in senso negativo o positivo. Il Governo voi capite subito per quale soluzione inclina; comunque vi prega soltanto di rinviare questa discussione alla fine della discussione sulle dichiarazioni del Governo.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Nasi se insiste nella sua richiesta che la discussione sia fissata per domani.

NASI. Insisto. Il rinvio significherebbe seppellire la questione, perché in quell’epoca – ripeto – saremo ingranati nella macchina elettorale. (Commenti).

FINOCCHIARO APRILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FINOCCHIARO APRILE. Prego l’Assemblea di non inorridire se dichiaro di essere d’accordo con il Presidente del Consiglio (Si ride). La richiesta dell’onorevole De Gasperi è perfettamente legittima. L’argomento dell’autonomia siciliana è gravissimo. Io ne ho parlato parecchie volte nell’Assemblea, ho presentato anche un’interrogazione, ma non ho avuto mai il piacere di una risposta da parte del Governo. Non importa. Ma quando il Presidente del Consiglio vi invita a lasciar finire la discussione sulla politica generale per poi fare immediatamente una discussione larga, ampia sulla necessità del rinvio o meno delle elezioni, mi pare che questa sia una richiesta che non possa essere contrastata. Credo che l’onorevole De Gasperi debba essere sodisfatto di questa mia dichiarazione. (Si ride).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Continui così! (Si ride).

FINOCCHIARO APRILE. Io non entro naturalmente nel merito.

MUSOTTO. Fra quindici giorni scade il termine!… (Commenti).

FINOCCHIARO APRILE. Io non sono né favorevole, né contrario al rinvio; per me la cosa è perfettamente indifferente. Io sono – non crediate che sia una vanteria – molto tranquillo per quanto riguarda il movimento indipendentista e le sue prossime fortune elettorali (Commenti) e sono grato all’onorevole Russo Perez che ha dichiarato all’Assemblea che trattasi di un movimento che rappresenta una cosa molto seria…

RUSSO PEREZ. Indiscutibilmente.

FINOCCHIARO APRILE …e forse questa è la preoccupazione fondamentale che muove alcuni cari amici presenti a domandare il rinvio delle elezioni.

Io, però, vi dico, pur essendo perfettamente indifferente alle deliberazioni che saranno prese dall’Assemblea, che la legge sull’autonomia siciliana, emanata il 15 maggio 1946, non è stata ancora attuata e ciò è stato causa di malumori e di disapprovazioni.

PRESIDENTE. La prego di non entrare nel merito.

FINOCCHIARO APRILE. Il rinvio potrebbe procurare delle perturbazioni in Sicilia. Credo che bisogna guardare attentamente a questa eventualità, perché il popolo siciliano considererebbe questa come un’altra delle tante delusioni che ha dovuto subire. Del resto fate come credete.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole d’Aragona. Ne ha facoltà.

D’ARAGONA. Vorrei fare una proposta conciliativa: mi pare che si potrebbe uscire da questa situazione seguendo una via intermedia. Evidentemente il Presidente del Consiglio ha ragione quando dice che non possiamo interrompere la discussione in corso per intercalarne una nuova.

In questo caso potremmo ritornare a quanto si faceva una volta: quando c’erano diversi argomenti in discussione si convocava la Camera anche in sedute mattutine, e potremmo stabilire di discutere il problema siciliano appunto in una seduta mattutina, in modo da non interrompere le discussioni in corso. Inoltre richiamo l’attenzione dell’Assemblea sul fatto che si è parlato molte volte dell’autorità dell’Assemblea Costituente. Mi pare che quando si tratta di uno Statuto che riguarda una parte dell’Italia, l’Assemblea Costituente nella sua sovranità ha il diritto di dire la propria parola.

PRESIDENTE. Desidero conoscere l’opinione del Governo sulla proposta dell’onorevole D’Aragona.

DE GASPERI. Presidente del Consiglio dei Ministri. Mi pare che ci sono dei limiti anche nell’attività umana. Io debbo occuparmi indubbiamente anche di questa questione, ma debbo al riguardo anche poter raccogliere tutti gli elementi necessari ed a questo scopo debbo disporre del tempo occorrente. Sarebbe esagerato pretendere una decisione affrettata.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta dell’onorevole Nasi di discutere la mozione nella seduta pomeridiana di domani.

(Dopo prova e controprova la proposta non è approvata).

Resta allora inteso che la discussione della mozione avverrà dopo la fine della discussione sopra le dichiarazioni del Governo.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Mazza ha presentato, con richiesta di risposta urgente, la seguente interrogazione:

«Al Sottosegretario di Stato per la marina mercantile, per conoscere l’esattezza della notizia pubblicata dai giornali dell’assegnazione di 46 navi Liberty all’armamento genovese contro 4 assegnate all’Italia meridionale».

Chiedo al Ministro della marina mercantile quando intende rispondere.

ALDISIO. Ministro della marina mercantile. Data l’ora tarda, risponderò domani.

PRESIDENTE, Comunico che l’onorevole Nobile ha presentato, con richiesta di risposta urgente, la seguente interrogazione.

«Interrogo il Ministro della difesa per sapere se non creda necessario comunicare all’Assemblea:

1°) particolari sulle circostanze e le cause del grave disastro aviatorio che ebbe luogo il 15 febbraio al largo di Terracina;

2°) i motivi per cui per effettuare un trasporto privato era stato concesso un apparecchio militare».

Chiedo al Ministro della difesa quando intende rispondere.

GASPAROTTO, Ministro della difesa, Prego di rinviare lo svolgimento di questa interrogazione a dopodomani, perché domani si riunirà la Commissione d’inchiesta.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle altre interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri di grazia e giustizia e degli affari esteri, per conoscere, se siano stati fatti dei passi presso le Autorità alleate allo scopo di estendere il beneficio dell’amnistia e del condono, largito coi decreti 5 aprile 1944, n. 96, 5 ottobre 1944, n. 263, 29 maggio 1946, n. 172, 22 giugno 1946, n. 4, ai responsabili di reati commessi in danno delle Forze alleate e degli appartenenti a dette forze, nonché ai reati commessi durante il periodo dell’Amministrazione militare alleata nei territori alla stessa già sottoposti.

«Ciò all’evidente scopo di eliminare una grave sperequazione fra le diverse categorie di colpevoli che si risolve in una vera e propria ingiustizia.

«Il provvedimento si ravvisa della massima urgenza anche perché tante volte è stato annunziato.

«Castiglia».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei lavori pubblici e delle finanze e tesoro, per sapere se non ritengano urgente emanare la nuova legge pei senza tetto e stabilire la misura del contributo dello Stato per la ricostruzione edilizia, avendo particolare riguardo ai paesi danneggiati dalla guerra e già danneggiati dal terremoto, dove è obbligatoria l’osservanza delle norme antisismiche e deve tenersi perciò conto del relativo aumento di spesa, che se non fosse sostenuto dallo Stato, renderebbe impossibile la ricostruzione delle case nelle sventurate zone sismiche, cui indubbiamente non può mancare la solidarietà della Nazione.

«Basile».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se risulta che, il giorno 3 febbraio 1947, alcuni rappresentanti del Consorzio mugnai, raggiunto col Prefetto di Foggia e categorie di lavoratori interessati un pieno accordo per assorbimento di mano d’opera disoccupata, vennero proditoriamente aggrediti e malmenati, all’uscita in istrada e sotto gli occhi degli agenti di servizio.

«S’è vero che da Roma, da parte di uomini politici ed esponenti di Governo (democrazia cristiana) sono state esercitate interferenze e notevoli pressioni su quel Prefetto per ottenere, a vantaggio di un industriale, De Biase, ed in deroga a vigenti divieti, il permesso d’impianto e funzionamento di uno stabilimento in aggiunta a quelli esistenti nella zona, già in eccesso ed in parte inattivi.

«Se in quella inscenatura di piazza, verificatasi il giorno 3 a danno di pacifici cittadini, sia da ravvisare l’ultima scena di un preordinato piano per eludere la legge e costringere il Prefetto, con mezzi leciti od illeciti, ad emettere un provvedimento di favore sotto una veste di artefatta contingenza e destinato a creare, poi, il fatto compiuto.

«Se sono state accertate le responsabilità palesi e nascoste delle perpetrate aggressioni e sono stati adottati i provvedimenti, che il caso richiede, a tutela dell’ordine, della correttezza e della legalità. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«MICCOLIS».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, sui motivi per i quali tutti i componenti dell’Arma dei carabinieri, istituzionalmente destinata a compiti di polizia e come tale soggetta ai principî di diritto internazionale della Convenzione dell’Aja (1908), siano stati sottoposti a procedimento di epurazione, nonché a punizioni disciplinari (compresi coloro che furono arrestati e deportati ad opera dei nazifascisti nell’agosto 1944) per il solo fatto di avere, dopo 1’8 settembre 1943, prestato servizio nell’Arma stessa a difesa degli interessi delle popolazioni civili, mentre che a parità di servizio prestato in analoghe condizioni e per identici fini la stessa misura non è stata adottata per le altre forze di polizia e per le Guardie di finanza.

«E con specifico riferimento alla Legione di Torino chiede di conoscere i motivi, per i quali ufficiali, sottufficiali e truppa, dipendenti dalla Legione stessa, siano stati sottoposti a procedura di epurazione, senza che si sia tenuto conto che i predetti prestarono servizio dopo l’8 settembre 1943, non soltanto in base a precisi accordi consacrati in apposito piano operativo, ma in forza di tassativo ordine impartito dal Comitato di liberazione nazionale del Piemonte, sia per la difesa della vita civile che per il mantenimento dell’ordine pubblico e per il passaggio, all’atto della liberazione, dei poteri di governo alla Giunta esecutiva. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Villabruna».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se – data la grave situazione morale ed economica in cui si trovano i profughi italiani, provenienti dalle Colonie e dall’estero, situazione che non può trovare rimedio nelle elargizioni inadeguate e spesso tardive, che hanno, per giunta, la forma dell’elemosina per gente che, in parte, occupava nel recente passato buone situazioni sociali – il Governo non creda di sostituire all’attuale metodo assistenziale la liquidazione in misura adeguata e, per quanto possibile, sollecita dei danni da ciascuno dei profughi subiti, dando così ad essi il mezzo di rifare la propria vita; o comunque quale sia il piano organico del Governo per togliere tanti italiani benemeriti e vittime della guerra dalla infelice situazione in cui si trovano. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Nasi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti abbia preso a proposito di una scandalosa alienazione di un fondo di proprietà dell’Ospedale Vittorio Emanuele di Catania, avvenuta negli ultimi anni del fascismo e dall’interrogante denunziata nell’agosto 1946 al Ministero dell’interno.

«Interroga pure sulla sparizione d’un rapporto sullo stesso argomento fatto dal Commissario prefettizio dell’ospedale in data 16 gennaio 1943, al Prefetto di Catania. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«D’Agata».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della pubblica istruzione e dell’industria e commercio, sul dovere, da parte dello Stato, di sistemare decorosamente la preziosa Collezione Loria, che si trova incassata da vent’anni, e che potrebbe costituire, con i suoi 40 mila pezzi, il Museo nazionale italiano di arte popolare; e ciò non soltanto per dare alle nostre attrattive turistiche una interessante nota, che finora manca, e per dare argomento ad importanti studi e raffronti, ma anche e soprattutto per offrire al risorgente artigianato italiano un largo campo di osservazione e di ispirazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Gortani».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’industria e commercio e delle finanze e tesoro, per sapere se non convengano nel ritenere che l’artigianato italiano possa avere una parte importante nella ripresa economica nazionale, contribuendo anche all’aumento delle esportazioni; e se non credano, per conseguenza, necessario ed urgente di risolvere finalmente, secondo le esigenze più volte fatte presenti al Governo, i problemi relativi al credito artigiano e al ripristino delle aziende artigiane distrutte o danneggiate dalla guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Gortani».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta:

La seduta termina alle 21.10.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

  1. – Svolgimento della seguente interrogazione:

Mazza. – Al Ministro della marina mercantile. – Per conoscere l’esattezza della notizia pubblicata dai giornali dell’assegnazione di 46 navi Liberty all’armamento genovese contro 4 assegnate all’Italia meridionale.

  1. – Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
  2. – Esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

LUNEDÌ 17 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XXXIX.

SEDUTA DI LUNEDÌ 17 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Vanoni, Ministro del commercio estero                                                               

Scoca                                                                                                                

Arcaini                                                                                                             

Finocchiaro Aprile                                                                                         

Campilli, Ministro delle finanze e del tesoro                                                         

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Ringraziamento della famiglia dell’ex deputato Cappellotto:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Svolgimento):

Scelba, Ministro dell’interno                                                                             

Merlin Umberto, Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia                     

Pertini                                                                                                              

Perrone Capano                                                                                                

Carpano Maglioli, Sottosegretario di Stato per l’interno                                   

Gallico Spano Nadia                                                                                      

Cevolotto                                                                                                        

Togni, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale                      

Benedettini                                                                                                      

Sullo                                                                                                                

Romita, Ministro del lavoro e della previdenza sociale                                        

Brusasca, Sottosegretario di Stato per l’aeronautica                                          

Mastino Pietro                                                                                                

Chieffi                                                                                                              

Cingolani                                                                                                         

Cevolotto                                                                                                        

Gasparotto, Ministro della, difesa                                                                    

Interpellanze (Svolgimento):

Canevari                                                                                                            

Romita, Ministro del lavoro e della previdenza sociale                                        

Colonnetti                                                                                               Medi        

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro                                                     

Gonella, Ministro della pubblica istruzione                                                       

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Gonella, Ministro della pubblica istruzione                                                       

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.

PRESIDENTE. Sul processo verbale ha chiesto di parlare l’onorevole Vanoni, Ministro del commercio con l’estero. Ne ha facoltà.

VANONI. Ministro del commercio con l’estero. Mi corre l’obbligo di fare alcune precisazioni sulle dichiarazioni dell’onorevole Finocchiaro Aprile. È esatto che dal Ministro del tesoro Soleri fui nominato commissario della Banca Nazionale dell’agricoltura il 16 agosto 1944, quando non ricoprivo nessuna carica politica. Rimasi in carica fino al 28 novembre 1945, quando per mia iniziativa fu ristabilita l’amministrazione ordinaria della Banca. L’Assemblea, riunita in quell’occasione, e il Consiglio, per delega dell’Assemblea stessa, provvidero a liquidare le mie competenze nella misura fissata dallo statuto per l’amministratore delegato…

FINOCCHIARO APRILE. E cioè?…

VANONI, Ministro del commercio con l’estero. …in una somma notevolmente inferiore a quella indicata dall’onorevole Finocchiaro Aprile.

FINOCCHIARO APRILE. Due milioni e ottocentomila lire.

VANONI, Ministro del commercio con l’estero. Di questa somma venne a mio profitto soltanto la limitata parte corrispondente alle spese di sussistenza sopportate da me durante il periodo dell’incarico. Il residuo fu messo a disposizione del fondo per la stampa della Democrazia cristiana.

È esatto che sono stato Presidente della Società anonima Ferrobeton, nominato a questa carica nell’interesse di azionisti italiani, miei clienti, fino al giorno in cui, avendo assunto questa posizione nel Ministero, ho dato le dimissioni dalla carica stessa, come da tutte le altre che ricoprivo in società private, e che l’onorevole Finocchiaro Aprile ha avuto la bontà di non ricordare. La Società provvederà a dichiarare, come meglio crede, la propria posizione di fronte alle affermazioni dell’onorevole Finocchiaro Aprile.

Per quanto mi riguarda, affermo che le mie funzioni nella Società sono sempre state di consulente interno e di controllo nell’interesse dei miei clienti. Nego di essere mai intervenuto nei rapporti esterni, né con privati, né con pubbliche amministrazioni, tanto meno sostenendo rivendicazioni nei confronti dello Stato, o compiendo alcuno degli atti indicati dall’onorevole Finocchiaro Aprile.

PRESIDENTE. Sul processo verbale ha chiesto anche di parlare l’onorevole Scoca. Ne ha facoltà.

SCOCA. Non essendo stato presente all’inizio della seduta precedente, debbo un chiarimento all’onorevole Finocchiaro Aprile, che mi ha fatto carico di aver conseguito la nomina ad avvocato generale dello Stato scavalcando 41colleghi più meritevoli.

Spero che egli sia d’accordo con me nel riconoscere che non spettava né a me né a lui giudicare chi, fra i sostituti avvocati generali dello Stato, miei pari grado – i quali assommano a cifra molto più esigua di quella da lui indicata – fosse il più meritevole della promozione al grado più elevato.

Quanto a me, sono lieto che mi si offra l’occasione di esprimere in questa Assemblea l’alta considerazione nella quale tengo molti miei colleghi, che sono onore e vanto dell’Istituto e del Foro.

Il giudizio per la designazione alla scelta non poteva essere dato che da coloro i quali si sono succeduti nella direzione dell’Avvocatura negli ultimi anni, conformemente a quanto era stato praticato in occasione di precedenti nomine alla stessa carica, e per l’ovvia considerazione che essi soltanto avevano tutti gli elementi di giudizio per pronunciarsi con cognizione di causa.

Ora, per ristabilire la obiettiva verità dei fatti, debbo vincere il naturale senso di riluttanza nel parlare di me stesso e dire che, secondo gli atti esistenti in ufficio, furono le eminenti personalità che mi hanno preceduto nella direzione dell’istituto a fare la designazione nei miei confronti al signor Presidente del Consiglio, e ciò nel febbraio 1946, quando io           non rivestivo nessuna carica nel Governo, né ero Deputato alla Costituente.

È bene precisare che essi appartengono a partito diverso dal mio, e non può quindi pensarsi che il loro senso di obiettività fosse offuscato da interessi di parte. Scriveva al Presidente l’avvocato generale uscente che la designazione del sostituto avvocato generale dello Stato professore Salvatore Scoca ad avvocato generale dello Stato rispondeva pienamente alle esigenze attuali dell’Avvocatura. Ed aggiungeva: «Durante i sette anni nei quali ho tenuta la carica di avvocato generale dello Stato, avendo lo Scoca mio collaboratore, ho avuto, infatti, modo di apprezzare pienamente le sue preclare qualità e la sua completa preparazione professionale, che sono sicura garanzia che egli adempirebbe al suo ufficio con la dignità ed il prestigio necessari, rispondendo alla generale aspettativa degli avvocati dello Stato, dei quali gode la massima stima e simpatia. Devo poi aggiungere che lo Scoca possiede in modo preminente quelle qualità di carattere – energia, spirito di iniziativa, equilibrio, indipendenza di giudizio – che sono indispensabili in chi sia preposto alla direzione dell’istituto al quale è affidato il delicatissimo compito della difesa degli interessi dello Stato».

A nomina avvenuta, mi scrisse: «Mi rallegro vivamente della scelta che risponde ad una mia originaria e rinnovata designazione, motivata da ragioni obiettive e non da tendenze sentimentali».

Abuserei della pazienza dei colleghi, se leggessi la lunga e dettagliata lettera, con la quale reiterava la designazione il vice avvocato generale dello Stato, che assunse la reggenza dell’istituto dopo la volontaria rinunzia alla carica del mio predecessore. Ne leggo un brano conclusivo: «La necessità di una conoscenza approfondita delle esigenze e del funzionamento dell’istituto rende auspicabile che il nuovo avvocato generale venga tratto dal seno della stessa Avvocatura, accogliendosi, così, un voto unanime degli avvocati dello Stato, i quali si augurano che venga prescelto, nell’interesse del servizio, quello tra loro che abbia le migliori qualità per ricoprire l’importantissima carica.

«Al riguardo reputo mio dovere riferire che fra i sostituti avvocati generali si distingue in modo preminente per capacità tecnica, dottrina ed elevatissime qualità personali il professore Salvatore Scoca». (Interruzione dell’onorevole Finocchiaro Aprile).

Non continuo per modestia la lettura (Commenti). Sono atti ufficiali ed avevo il dovere di portare a conoscenza dell’Assemblea questi documenti, perché si tratta di un’alta carica dello Stato che non deve essere insidiata con diffamazioni. (Approvazioni).

Quanto ho documentato, dimostra con ogni evidenza che la mia nomina ad avvocato generale dello Stato avvenne nel modo più normale pensabile. Essa fu determinata dalla concorde valutazione degli organi gerarchicamente preordinati a farla sul piano tecnico professionale e non già ad interferenze politiche, delle quali sarebbe stato lecito sospettare, proprio se la scelta fosse caduta su altri, in difformità della formale designazione dei superiori gerarchici. Il che non è mai avvenuto.

L’onorevole Finocchiaro ha ricordato fuori proposito la tradizione in base alla quale sarebbe incompatibile l’esercizio del mandato parlamentare con «uffici ed incarichi largamente remunerativi». Ora, a parte il fatto che l’ufficio di avvocato generale non è certo largamente remunerativo, è proprio la più antica ed intemerata tradizione parlamentare che intendo nel mio caso richiamare, ricordando che nel 1876 Giuseppe Mantellini era Deputato al Parlamento quando fu chiamato alla carica, allora istituita per la prima volta, di avvocato generale dello Stato.

Lo stesso Mantellini ebbe poi a scrivere che considerava la posizione parlamentare garanzia di quella autorità e indipendenza che egli riteneva necessaria per chiunque avesse tenuto l’ufficio di avvocato generale. Ricordo ancora che Giacomo Costa, nominato nel 1896 Ministro della giustizia, conservò l’ufficio di avvocato generale dello Stato, che teneva al momento della sua nomina, e che lo stesso fece l’avvocato generale Giovanni Villa, quando, durante la prima guerra mondiale, fu nominato Ministro dei trasporti e Vicepresidente del Consiglio.

Mi dispenso da ogni commento.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare sul processo verbale l’onorevole Arcaini. Ne ha facoltà.

ARCAINI. Senza acredine per l’onorevole Finocchiaro Aprile, che sabato mi ha incluso in un elenco di profittatori del mandato parlamentare e di accaparratori di posti lucrosi, accusandomi di essere nientemeno che direttore di banca, cioè reo di tenere un impiego, dichiaro:

1°) che quel posto me lo sono guadagnato ben prima che a molti di noi fosse possibile prevedere l’ingresso in questa Assemblea e dopo molti anni di lavoro, in un ambiente politico che per tre volte mi ha imposto di ricominciare daccapo e per vie nuove;

2°) che io non ho aspirazione a fare il politicante agitatore di professione e che qui intendo assolvere il mandato dei miei elettori senza mancare al mio dovere di lavoratore; c’è chi ha scelto la professione di deputato separatista dalla Madre Patria e chi ha scelto quella di deputato-lavoratore; io preferisco questa;

3°) ci sono qui dei colleghi, che tengono con onore alti posti di responsabilità nel campo economico, finanziario della Nazione e nessuno si è sognato, e spero sognerà, di muover loro, per ciò stesso, rimproveri; tanto meno, credo, lo si possa fare per me, impiegato d’una banca privata. Comunque, onorevole Finocchiaro, quando esisterà una legge la quale stabilisca che per essere deputato occorra essere disoccupato, io deciderò sul da farsi. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare sul processo verbale l’onorevole Finocchiaro Aprile. Ne ha facoltà.

FINOCCHIARO APRILE. Ho sentito che i Deputati, dei quali ho denunziato le cariche più o meno lucrose ed i vantaggi procuratisi nell’esercizio del mandato politico, hanno offerto all’Assemblea Costituente le loro giustificazioni. Alcune di queste giustificazioni sono fondate ed io lo riconosco pienamente. Ma la maggior parte di esse non ha fatto che confermare quello che io ho detto all’Assemblea.

L’onorevole Vanoni è precisamente fra questi. Era meglio ch’egli non parlasse, perché ha peggiorato la sua situazione. All’onorevole Vanoni vorrei rivolgere un invito, un amichevole invito: lei non può rimanere al banco del Governo; lei deve dimettersi, perché è incompatibile, specificatamente incompatibile. (Commenti).

Quando presenterò l’elenco, da me promesso nella giornata di sabato, specificherò con maggiore esattezza ed ampiezza gli uffici tenuti dai deputati democratici cristiani in organismi statali o parastatali, specialmente a carattere finanziario. Ma io debbo lealmente dichiarare, come ho fatto notare alla stampa questa mattina, che per me non è questione di deputati democratici cristiani o di altra parte dell’Assemblea: non è nemmeno questione di uomini, che debbono interessare molto modestamente in questa faccenda. Quella che interessa è un’altra questione: una questione di dignità e di moralità pubblica e politica. All’Assemblea Costituente si deve venire per servire con abnegazione e con sacrificio il Paese; non ci si deve avvalere del mandato parlamentare – gelosissimo – per andare all’arrembaggio di cariche largamente remunerative o per ottenere eccezionali vantaggi. I Deputati funzionari dello Stato, come avveniva in passato, non debbono potere avere altre promozioni che non siano di stretta anzianità.

Quello che ha detto l’onorevole Scoca non ha alcun valore; la sua promozione ad avvocato generale dello Stato non è una promozione regolare: egli è stato promosso come democratico cristiano e come Deputato; nessun altro Governo lo avrebbe promosso avvocato generale dello Stato, perché egli non ha nessuna particolare attitudine e nessun merito speciale. (Commenti).

SGOGA. Io ho documentato: lei afferma cose non vere.

FINOCCHIARO APRILE. Non ho detto che la pura verità. Lei ha scavalcato quarantuno avvocati dello Stato più degni di lei.

SGOCA. Ogni volta che c’è una promozione si passa sempre davanti a qualcuno.

FINOCCHIARO APRILE. Lei si dovrebbe dimettere.

SCOCA. Lei non ha dignità personale; lei dopo i miei chiarimenti, avrebbe dovuto tacere.

FINOCCHIARO APRILE. Stia tranquillo che io so quel che dico. Ora io desidero di rivolgere una preghiera particolare all’onorevole Presidente del Consiglio. Questa mia preghiera si riferisce all’attività dell’onorevole Campilli, Ministro delle finanze e del tesoro. Io non credo di rivelare cose molto nuove, perché vi sono state agenzie giornalistiche e quotidiani, che hanno riferito cose sulle quali desidero chiedere informazioni all’onorevole Presidente del Consiglio.

Si è verificato questo: all’onorevole Bertone, che mi piace di citare a titolo di onore, furono fatte sollecitazioni perché si adottassero provvedimenti diretti a diminuire l’alto prezzo dei titoli in borsa. L’onorevole Bertone, un galantuomo, ripeto, non volle ascoltare queste sollecitazioni. Egli chiese al Direttore generale della Banca d’Italia, Menichella, il suo pensiero, e Menichella rispose, consigliando al Ministro di non prendere nessun provvedimento, in quanto ne sarebbe derivato un grave perturbamento del mercato finanziario. L’onorevole Bertone, che è un galantuomo, non adottò nessun provvedimento.

All’onorevole Bertone succedette l’onorevole Campilli. Le stesse suggestioni furono esercitate sull’onorevole Campilli. E l’onorevole Campilli decise di emettere due provvedimenti: il primo, quello di ripristinare il deposito del 25 per cento sugli acquisti di titoli azionari; il secondo, quello di obbligare le banche e gli agenti di cambio a denunciare periodicamente i riporti a fine mese. Tali provvedimenti hanno sempre lo scopo di fare abbassare il troppo alto prezzo dei titoli.

Se le cose si fossero limitate a ciò, non ci sarebbe stato nulla da obiettare. Però avvenne, mi dicono, qualche cosa di profondamente anormale, e io chiedo precisamente all’onorevole De Gasperi informazioni precise in proposito, perché sono sicuro che l’onorevole De Gasperi è certamente al corrente di tutto.

Io ricordo che nel 1919 il Capo del Governo, onorevole Nitti, seguiva quotidianamente e minuziosamente tutto l’andamento del Ministero del tesoro. Quando arrivavo al Ministero, la prima telefonata era quella dell’onorevole Nitti, che voleva sapere quali erano i cambi, quale la situazione del giorno del Tesoro, quale la situazione di cassa, e via dicendo. Sono sicuro che l’onorevole De Gasperi avrà seguito lo stesso sistema.

Ora la domanda che io faccio all’onorevole De Gasperi è questa: quando l’onorevole Campilli decise questi due provvedimenti, l’onorevole De Gasperi ne fu informato? E il Ministro Campilli non informò per caso qualche commissionario di borsa amico dell’onorevole Presidente del Consiglio e dello stesso Ministro del tesoro? (Segni di diniego dell’onorevole De Gasperi – Interruzione dell’onorevole Campilli).

Lei non ne sa niente, onorevole De Gasperi? Eppure, veda, si dice questo da tutti: è strano che lei non lo sappia, onorevole Presidente del Consiglio; non sappia, cioè, che vi furono dei commissionari di borsa, per giunta democristiani, i quali si misero a speculare largamente al ribasso, venerdì, vendendo masse di titoli a Roma, comprati a Milano. In due giorni le operazioni furono di molti e molti milioni di lire. I titoli precipitarono e gli speculatori al ribasso realizzarono ingenti guadagni.

Onorevole Presidente del Consiglio, mi sa dire quando furono pubblicati i due provvedimenti di cui le ho parlato? No? Allora glielo dico io; furono pubblicati dopo che le larghissime operazioni erano state compiute. Ed allora si verificò questo: quando, due giorni dopo, gli operatori di Milano si accorsero di essere stati oggetto di un indegno aggiotaggio, protestarono con estrema energia. Mi dicono che siano venuti a Roma e che abbiano ottenuto la revoca dei provvedimenti dall’onorevole Campilli, sia quello del deposito del 25 per cento, sia quello dell’obbligo della denuncia dei riporti.

È informato di tutto questo l’onorevole De Gasperi? L’onorevole De Gasperi comprende che ciò involge la piena responsabilità personale e politica del Ministro delle finanze e del tesoro? Io chiedo qualche informazione all’onorevole De Gasperi.

CAMPILLI, Ministro delle finanze e del tesoro. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAMPILLI, Ministro delle finanze e del tesoro. Ringrazio l’onorevole Finocchiaro Aprile di avermi dato l’occasione di smentire e chiarire una delle voci più indegne e più calunniose che sono corse in questi giorni.

Avverto che ciò di cui ha parlato l’onorevole Finocchiaro Aprile non è un provvedimento, ma una semplice istruzione della Direzione del Tesoro. Io ne fui informato venerdì, alle ore 12, a Palazzo Chigi, dal collega Ministro Morandi, il quale mi chiese se avessi dato disposizioni perché tornasse in applicazione un provvedimento, già in vigore, circa la denuncia dei riporti a fine mese. Risposi che non ne sapevo nulla; telefonai al Ministero del tesoro ed ebbi, da parte della Direzione, il testo del telegramma inviato. Nel pomeriggio, alla Direzione del Tesoro, convocai il direttore e mentre ero con lui a lamentare la decisione presa senza che io ne fossi stato prima informato, dovetti interrompere il colloquio per venire alla Camera e rispondere alle accuse rivoltemi dall’onorevole Finocchiaro Aprile.

Affermo, e non temo smentita, che il provvedimento, anzi, l’ordine, io non l’ho richiesto, né deciso. È stato semplicemente un richiamo fatto in maniera autonoma dalla Direzione generale del Tesoro per applicare disposizioni vigenti.

Escludo in maniera ancora più decisa di avere chiunque informato della cosa. Del resto, onorevole Finocchiaro Aprile, che il provvedimento non fosse un provvedimento del genere che lei dice, è attestato dal fatto che, pur essendo rimasto quello che era, perché nessuna disposizione in contrario è stata mandata, le borse sono tornate di nuovo a prezzi molto più alti di quelli che non avessero prima. Questo tengo a dichiararlo in maniera assoluta e decisa, perché non temo smentita. Il provvedimento, ripeto, non mi riguarda, per quanto non sia altro che un provvedimento che non ha nessun valore effettivo, poiché oggi le borse sono rimaste alle stesse condizioni, pur avendo applicato una disposizione che prima vigeva.

Occorre in questa materia essere veramente sereni, e non seguire quelle che possono essere delle mosse fatte anche da altre correnti di speculazione. Intorno alla Borsa molta gente oggi vive, prospera e specula. Quindi a volte le voci sono voci interessate ed io credo e chiedo alla onestà dell’onorevole Finocchiaro Aprile di darmi atto di quello che affermo, cioè che il provvedimento che egli mi ha attribuito io non l’ho sollecitato; non solo, ma non l’ho nemmeno conosciuto. L’ho conosciuto soltanto il giorno dopo.

FINOCCHIARO APRILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, la vorrei pregare, se ha da impostare, come mi pare, una questione di tanta ampiezza, di seguire la procedura normale. Inoltri pertanto al Presidente del Consiglio una interrogazione o una interpellanza. Non possiamo dedicare una intera seduta all’approvazione del processo verbale.

FINOCCHIARO APRILE. Confermo tutto quello che ho detto precedentemente. Il Ministro del tesoro, nel rispondermi, non si accorge di una cosa: egli, e glielo dico molto lealmente, si è pentito del provvedimento che ha preso, e tenta di riversarne la responsabilità sopra un onest’uomo, qual è il direttore generale del Tesoro, Ventura. (Commenti).

D’altra parte, onorevole Ministro del tesoro, è mai possibile che in un Ministero ci sia un direttore generale o un capo divisione che possa emettere un provvedimento di così grave natura, senza che il Ministro ne sappia niente? (Commenti).

CAMPILLI, Ministro delle finanze e tesoro. Basta interrogare il direttore generale del Tesoro. Le ripeto in maniera assoluta che il provvedimento io l’ho conosciuto il giorno dopo. È così.

PRESIDENTE. Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli Ghidini e Fuschini.

(Sono concessi).

Ringraziamento della famiglia dell’ex deputato Cappellotto.

PRESIDENTE. Comunico che la famiglia dell’ex deputato Cappellotto ha inviato vivi ringraziamenti per la manifestazione di cordoglio dell’Assemblea in memoria del suo congiunto.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca le interrogazioni. Poiché le prime due, cioè quella dell’onorevole Pertini e quella dell’onorevole Perrone Capano si riferiscono allo stesso argomento, saranno svolte insieme:

Pertini, ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, «per sapere: a) se a loro consti che organi della polizia, nel sottoporre ad interrogatorio indiziati di reati, usano metodi illeciti, disumani ed anche sevizie, le quali – come di recente qui in Roma – sono, talvolta, persino causa di morte dell’inquisito; b) quali provvedimenti intendano prendere per impedire nel modo più drastico che abbiano a ripetersi questi veri abusi d’ufficio, i quali, oltre a costituire una palese violazione della legge, offendono quel concetto della dignità umana, che deve stare a fondamento d’ogni vera democrazia.

Perrone Capano, al Ministro dell’interno, «perché, in relazione al recente episodio del detenuto Caroselli, che, fermato mentre era in ottime condizioni di salute, è deceduto appena tradotto a Regina Coeli, precisi se e come è stata eseguita in merito un’inchiesta, quali esatti risultati essa ha dati e perché faccia conoscere se, di fronte all’eventuale profilarsi di responsabilità di funzionari o di agenti, non abbia creduto o non creda di dare corso agli opportuni provvedimenti di natura disciplinare e penale, affinché sia dissipato anche il dubbio che i sistemi di investigazione poliziesca non sempre si adeguino al dovere del rispetto della integrità fisica degli inquisiti e siano, nonostante ciò, tollerati».

Il Ministro dell’interno ha facoltà di rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Desidero rispondere personalmente alle interrogazioni presentate dagli onorevoli Pertini e Perrone Capano, perché la materia è di una importanza vitale, in quanto tocca la libertà e la dignità del cittadino.

Mi si consenta di fare qualche dichiarazione di carattere generale.

Alla domanda: «Se è vero che la polizia italiana usi metodi e sistemi che dovrebbero qualificarsi inumani ed incivili», io rispondo che sono state fatte tre denunzie al Ministro dell’interno, in tempi abbastanza recenti.

La prima, riguarda pretese violenze usate contro arrestati in Sicilia. Un’inchiesta eseguita in proposito ha nettamente smentito l’esistenza di qualsiasi procedimento illegale od arbitrario contro arrestati.

Una seconda denunzia riguarda il caso Fort di Milano, che ha richiamato l’attenzione della stampa ed ha interessato il grosso pubblico. È risultato provato che un funzionario di polizia è ricorso ad esperimenti ipnotici e ad altri procedimenti meno gravi, ma ugualmente irregolari. Il funzionario che è ricorso a questo esperimento è stato rimosso dal suo posto ed è stato deferito al Consiglio di disciplina, per i provvedimenti del caso, ed altri provvedimenti adeguati sono stati presi a carico dei funzionari che avevano concorso con questo ufficiale di polizia nell’impiego di mezzi non previsti dalla legge.

Per quanto riguarda il caso Caroselli, i fatti si sono svolti in questi termini. Il Caroselli era un noto pregiudicato che è stato arrestato in flagrante, mentre tentava di spacciare monete false. Mancava la ragione obiettiva per ricorrere a qualsiasi violenza nei confronti di questo arrestato per ottenere da lui una qualsiasi confessione circa i fatti che venivano a lui imputati.

Si trattava di un elemento piuttosto violento, il quale, al momento dell’arresto, ha cercato di fuggire e di difendersi ed ha riportato – secondo le indagini che sono state fatte – delle escoriazioni leggiere al viso e delle echimosi, mentre un agente di polizia ha riportato, durante la colluttazione, ferite che sono state dichiarate guaribili in otto giorni.

Questo è risultato dalle indagini esperite fino al momento in cui il Caroselli è stato consegnato alle carceri giudiziarie.

L’autorità giudiziaria ha disposto un’autopsia sul cadavere, per accertare le cause che hanno determinato la morte del Caroselli. Secondo le notizie pervenute sino ad oggi, sarebbe da escludere una causa diversa da quella indicata dai medici, cioè a dire una crisi cardiaca. Comunque, noi attendiamo l’esito dell’azione dell’autorità giudiziaria; e se responsabilità emergeranno, saranno duramente colpite da parte del Ministero dell’interno.

Questi sono i fatti denunciati. Risulta quindi che non esiste nella polizia italiana un sistema, una norma di carattere generale o applicazioni su larga scala di mezzi inumani o incivili per ottenere la confessione dell’imputato.

Comunque, dichiaro nettamente davanti all’Assemblea – e intendo assicurare il Paese in questo campo – che disposizioni sono state date perché la confessione degli imputati non sia ottenuta con mezzi che ledano la libertà morale dell’imputato. Considero assolutamente barbarico il sistema o la concezione secondo cui, perché il reo non si salvi, periscano il giusto e l’innocente. Preferisco che si salvi il reo, per modo che un innocente non possa subire mai azioni considerate illegali o illegittime e antidemocratiche.

Intendo dare questa assicurazione perentoria: che il rispetto della personalità umana e della libertà sarà una concezione fondamentale dell’azione della polizia. Vi è molto da fare in questo settore per migliorare la condotta della polizia. Disposizioni perentorie in materia sono state date; è necessario però creare intorno alla polizia un’atmosfera di fiducia. Sarò pertanto lieto di tutte le denunce che potranno venire o dall’Assemblea, o da altre parti del Paese intorno a fatti concreti; ma vorrei pregare che si evitassero accuse generiche che possono compromettere il prestigio della polizia. Nella polizia i cittadini devono vedere il presidio e il baluardo della loro libertà; e la polizia dovrà attenersi per prima all’osservanza della legge. Ma dobbiamo creare anche intorno ad essa un’atmosfera di fiducia e di tranquillità, perché possa assolvere i gravi compiti che le spettano. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di rispondere l’onorevole Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia.

MERLIN UMBERTO, Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia. Per quanto riguarda i fatti, il mio Ministero non ha che da confermare quanto ha dichiarato il Ministro degli interni. Il Ministero di giustizia tiene però a dichiarare che quando si è avuto notizia o denuncia o sospetti di qualche caso del genere, non si è mancato di richiedere subito alle Procure generali competenti particolareggiati rapporti in merito e informazioni relative ai provvedimenti di carattere penale adottati nei confronti dei responsabili. Si è anche curato di invitare i procuratori generali ad avvalersi dei poteri loro conferiti dall’articolo 83 dell’ordinamento giudiziario, per richiamare i funzionari di polizia alla stretta osservanza del principio, cui le nostre leggi procedurali si ispirano, per cui gli imputati debbono essere interrogati in istato di piena libertà psichica, senza coazione o influenze di sorta. È stata anche a suo tempo richiamata l’attenzione della Direzione generale di pubblica sicurezza sulla inammissibilità di certi sistemi: interrogatori estenuanti, luci accecanti, esperimenti ipnotici, che, secondo notizie di stampa, sarebbero stati adoperati dagli organi di polizia nel corso di un interrogatorio.

Fu risposto assicurando che erano state già impartite istruzioni, affinché gli ufficiali di polizia giudiziaria non adoperino mezzi di accertamento e di suggestione contrari alla legge ed al rispetto della personalità umana.

E fu comunicato anche che era stato punito il funzionario maggiormente responsabile e richiamati severamente gli altri, per aver consentito o tollerato un esperimento ipnotico, e indebite e intempestive invadenze di cronisti alla ricerca di primizie e novità impressionanti.

Non risulta, e si deve escludere, che negli stabilimenti di prevenzione e di pena i detenuti imputati e condannati siano sottoposti a misure coercitive, violatrici delle norme regolamentari, da parte del personale addetto alla loro sorveglianza, né le norme del regolamento carcerario permetterebbero metodi inumani. Se ciò, per illecita condotta di qualche elemento, dovesse verificarsi, non si mancherebbe di agire secondo giustizia contro l’eventuale colpevole.

Per quanto riguarda il caso Caroselli ha già risposto il Ministro dell’interno.

Amo ricordare all’Assemblea ed al Paese che la Commissione dei 75, redigendo la nuova Costituzione, ha approvato all’unanimità il seguente articolo 8, capoverso 3: «È punita ogni violenza fisica o morale a danno delle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà». Il mio Ministero si è già ispirato alla lettera ed allo spirito di questa disposizione.

PRESIDENTE. L’onorevole Pertini ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

PERTINI. Per fortuna non si tratta di denunce che riguardino la Costituente, ma solo un settore delicato dell’Amministrazione dello Stato.

Prendo atto dei propositi manifestati dal Ministro dell’interno. So che egli ha molto a cuore la giustizia ed ha un senso di giustizia molto sviluppato, tanto è vero che ne ha dato prova quando è stato a capo del Dicastero delle poste e telegrafi. Ma non sono sodisfatto della sua risposta.

Come sono andati i fatti da me denunciati nell’interrogazione?

Vediamo subito il primo caso, quello del Caroselli. Costui è stato arrestato il 27, mi pare dal Commissariato di Primavalle. Da questo Commissariato viene portato al Commissariato Trionfale; poi tradotto alle carceri di Regina Coeli.

Onorevole Ministro dell’interno, lei forse non si è informato come mi sono informato io. Appena arrivato al carcere di Regina Coeli, il Caroselli era ridotto in tale stato che il direttore non voleva ricoverarlo ed ha richiesto una dichiarazione precisa dagli agenti che lo accompagnavano. Ma l’errore commesso dal direttore delle carceri è stato che, nonostante il Caroselli presentasse – il medico poi lo visitò ed io ho visto ed interrogato il medico – echimosi, in tutte le parti del corpo, fu legato al letto di forza. I colleghi che sono qui presenti e che seppure non hanno un’esperienza parlamentare, hanno un’esperienza carceraria, sanno che cosa significhi – come lo so io – il letto di forza.

Il giorno 30 il direttore chiama di urgenza la Bianca Caroselli, moglie di Domenico Caroselli, perché venga a visitare il marito, che ormai è agonizzante. Il 31 il Caroselli muore e a chi va a trovarlo dice: «Mi hanno ammazzato di botte». Il nipote, che era stato arrestato col Caroselli, al Commissariato Primavalle sentiva lo zio gridare dalla cella – perché gridava – ed ha visto il mattino dopo lo scopino che puliva il pavimento sporco di sangue. Naturalmente poi si è fatta la perizia medica ed anche se lei non l’avesse detto, avrei scommesso che la perizia medica avrebbe concluso con la morte «per crisi cardiaca».

Le dico questo, onorevole Ministro, per avvertirla onde ella possa veramente mettere in atto i suoi fermi propositi nei quali fermamente crede. Badi che vi è un’omertà nel carcere che va dal direttore al medico. Accade questo: nel carcere il detenuto riceve il cosiddetto Sant’Antonio. Voi che sedete a questi banchi non sapete che cosa significhi il Sant’Antonio; ma lei, onorevole Presidente dell’Assemblea Costituente, lo sa. Un gruppo di carcerieri improvvisamente getta una coperta sul detenuto onde questi non possa riconoscere nessuno. Successivamente il detenuto muore. L’indomani mattina lo fanno trovare appeso cadavere all’inferriata della cella. Poi chiamano il medico e questi naturalmente si limita a fare il referto di suicidio. Questa è la forma di suicidio che si applica nelle carceri italiane. Vi sono degli esempi. I miei compagni si ricorderanno come all’ergastolo di Santo Stefano venivano picchiati dalle guardie, e legati al letto di forza. Al mattino un detenuto veniva trovato morto. Si chiamava il medico del carcere e questi diceva: sincope cardiaca. Tutti però sapevano che era morto perché massacrato di botte al carcere di Santo Stefano.

Così per Gaetano Bresci, nel carcere furono interrogate tutte le guardie. Non è vero che si sia suicidato: prima l’hanno ammazzato di botte e poi hanno attaccato il cadavere all’inferriata ed hanno diffuso in tutt’Italia la notizia di questo suicidio.

Ricordate il fatto di quella prostituta che, arrestata in Milano, fu massacrata di botte e uccisa in una camera di sicurezza della questura?

Vi è poi il caso della Fort, la quale ha commesso un delitto orribile. A noi però non interessa il fatto, ma la vita umana di questa detenuta. Poteva aver commesso anche qualche cosa di più orribile, a noi in questo momento ciò non interessa. L’onorevole Ministro ha detto, quasi per discriminare coloro che avevano agito contro il Caroselli, che era un pregiudicato. Non mi interessa. Se pure sapessi che il Caroselli avesse spacciato danaro falso anche a me, avrei ugualmente difeso la sua vita. (Applausi).

Quanto alla Fort, non è vero che si siano usati soltanto mezzi ipnotici per farla parlare. La Fort è stata sottoposta ad interrogatori (e questo non è stato smentito) durati cento ore consecutive.

Ora, anche noi siamo stati sottoposti a molti interrogatori. Io sono stato sottoposto ad un interrogatorio, qui a Regina Coeli, che è durato dodici ore e vi posso assicurare che alla nona ora mi trovavo in uno stato tale di esaurimento nervoso che soltanto la mia fede politica, soltanto il controllo morale che può avere un uomo come noi, poteva vincere. Ma immaginate una povera donna in quali condizioni viene a trovarsi, dopo cento ore consecutive di interrogatorio. Queste sono vere e proprie torture. Siamo in materia di torture ed io vi invito a ricordare quanto ebbe a scrivere in proposito Cesare Beccaria. La tortura è controproducente anche per appurare la verità, perché il colpevole robusto ha la possibilità di resistere ad un dolore momentaneo, pensando, a questo modo, di allontanare da sé la pena maggiore. Il debole innocente non può resistere al dolore momentaneo e fa una confessione qualsiasi, pur di potersi liberare da quella tortura. È il caso, successo in Francia, di quell’algerino accusato di avere ucciso un tale, messo poi in un baule. Questo è il sistema di tutte le polizie del mondo. La polizia diceva: badate che se voi non confessate, vi ammazzano. Quel disgraziato ha finito per confessare e dopo dieci anni dalla sua condanna è venuto fuori il vero colpevole. Allora gli è stato chiesto: «Perché avete confessato?». Ed egli ha risposto: «Se non avessi confessato, mi avrebbero ucciso e quindi sono stato costretto a confessare».

Non volevo accennare a quanto è avvenuto in Sicilia. Voi avete detto che avete fatto delle indagini. Ora, badate che un questore non denunzierà mai quello che fanno i suoi agenti. Tutti si coprono dietro l’omertà. Sono venuti degli ispettori di pubblica sicurezza ad effettuare ispezioni nelle carceri di Ventotene e Ponza, ed hanno sempre coperto le malefatte dei direttori delle carceri e della polizia.

A Pianosa io sono sceso in difesa di un detenuto comune che era stato massacrato di botte da parte di 12 guardie carcerarie. Le conseguenze sono state queste: il detenuto comune, guarito dalle botte ricevute, è stato messo sotto processo; ma anch’io sono stato messo sotto processo ed ho preso otto mesi di reclusione per averlo difeso. L’ispettore mandato dal Ministero dell’interno ha coperto questo crimine commesso dalle guardie carcerarie.

Un collega mi ha informato che in Sicilia pare che la polizia abbia letto molto attentamente il «Giardino dei supplizi» di Mirbeau. Per far parlare gli arrestati si poggia un bicchiere rovesciato sul ventre nudo dei disgraziati sottoposti ad interrogatorio. Dentro il bicchiere vi è uno scorpione, che viene lasciato lì a rosicchiare il ventre dell’indiziato, finché questi, non potendo più sopportare il dolore, si accusa di un delitto che non ha commesso.

Ora, il punto di vista giuridico – e ce lo ha insegnato Cesare Beccaria per primo – non può essere mai dimenticato nell’applicare la legge. L’accusato, qualsiasi colpa abbia commessa, è sacro. Egli deve essere posto in grado di potersi difendere e di essere nel pieno possesso delle sue facoltà mentali ed assumere la responsabilità di quello che dice. Ma vi è di più. Badate, che questo è un sistema, non solo della polizia italiana, ma della polizia di tutto il mondo, e chi è stato in Francia come noi, sa che i poliziotti còrsi sono specializzati per picchiare. In Italia abbiamo conosciuto questo sistema sotto il fascismo. Quanti nostri compagni sono stati percossi a sangue dagli agenti di pubblica sicurezza quando venivano arrestati!

Onorevole Sottosegretario alla giustizia, questo, è un sistema che perdura anche oggi nelle nostre carceri. Mi auguro che sia ripristinata la consuetudine per cui il Deputato una volta poteva entrare in carcere a fare un’ispezione. Se questa consuetudine sarà ripristinata, mi propongo di fare un giro per tutte le carceri dove sono stato, per vedere quello che succede. (Vivi applausi).

In regime fascista questi sistemi, diventati ormai palesi, venivano coperti anche dalle autorità politiche dalle quali partiva anzi l’incitamento.

Il fascismo aveva sostituito ai principî di giustizia e di umanità quelli dell’arbitrio e della violenza. Noi, se vogliamo dar vita ad una società libera, democratica, dobbiamo far in modo che a fondamento di essa stiano i principî di umanità.

La Repubblica, onorevole Ministro dell’interno, non deve sostanziarsi soltanto di libertà e di giustizia, ma anche, e sovrattutto, di onestà e di umanità. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Perrone Capano ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

PERRONE CAPANO. Devo dichiarare anch’io di non potermi considerare sodisfatto delle dichiarazioni dell’onorevole Ministro dell’interno e dell’onorevole Sottosegretario per la giustizia, in merito al contenuto dell’interrogazione da me presentata.

I fatti sono molto gravi e richiedono accertamenti precisi; che devono essere compiuti nel quadro delle osservazioni fatte dall’onorevole Pertini, nel quadro, cioè, della considerazione che in questa materia vige esattamente una grande omertà e, quindi, c’è il pericolo che le indagini e gli accertamenti, se non eseguiti con molta attenzione dagli organi competenti, portino a coprire piuttosto che a chiarire.

Per quanto riguarda i propositi manifestati dal Governo, devo dichiarare che ne prendo atto con piena soddisfazione; ma chiedo che siano tradotti in concreto con la massima scrupolosità ed energia, appunto in omaggio a quel prestigio degli organi di polizia, che deve essere e sarà indubbiamente nel comune intendimento di tutti noi.

La polizia italiana, alla quale incombono compiti sempre più delicati, deve essere circondata, come ben ha detto l’onorevole Ministro, della massima considerazione e del massimo prestigio, ma, appunto perché questa considerazione e questo prestigio si affermino, occorre che fatti come quelli, dei quali ci siamo occupati quest’oggi, non lascino alcun dubbio, ma siano precisati in tutta la loro esattezza. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Gallico Spano Nadia, firmata anche dagli onorevoli Matteotti Cario, D’Onofrio, Sansone, Minio, Massini, Vernocchi, Nobili, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, «per sapere: 1°) per quali motivi in alcuni paesi della provincia di Roma, e precisamente a Nemi, Albano, Lanuvio e Monteporzio, si sia proceduto in questi ultimi tempi a perquisizioni nelle case di elementi notoriamente democratici, con uno spiegamento di forze, che richiama il periodo dell’occupazione nazista (blocco delle strade, delle case con mitragliatrici in assetto di guerra, ecc.). Mentre in questi stessi paesi, elementi neo-fascisti possono impunemente inneggiare al passato regime e permangono indisturbati, anche quando sono trovati in possesso di armi e di esplosivi, i lavoratori iscritti ai partiti di sinistra vengono continuamente sottoposti ad angherie e in un regime di terrore; 2°) quali provvedimenti si intenda prendere contro quei funzionari di polizia, i quali nell’esercizio delle loro funzioni: a) adoperano metodi brutali anche contro bambini; b) si permettono di pronunciare frasi tendenti a ledere il prestigio delle istituzioni repubblicane e dei Ministri in carica».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. È noto che sin dal momento della liberazione le autorità militari alleate avevano emanato tassative norme per la consegna delle armi, comunque illegittimamente detenute dalle popolazioni civili. Tali disposizioni sono state confermate con ordinanze prefettizie dopo la restituzione del territorio all’Amministrazione italiana, e, successivamente, ribadite con disposizioni di carattere permanente degli organi di polizia.

Per quanto riguarda in modo particolare i comuni di Nemi, Albano, Monteporzio Catone, Frascati, Grottaferrata, Castel Gandolfo, Montecompatri e Zagarolo, l’arma dei carabinieri è stata indotta ad intervenire in ispecial modo in seguito a notizie circa illecite detenzioni di armi, che risultavano altresì per servire alla consumazione di reati contro persone e cose, e anche per frequenti manomissioni d’impianti e di installazioni.

Altre manifestazioni che resero necessario l’intervento dell’arma furono un accertato episodio di uso di armi nel Comune di Montecompatri, a scopo di esercitazione non autorizzata e minaccia di usare gli esplosivi contro la Caserma di Nemi.

Infatti, operazioni di polizia condotte per il rastrellamento delle armi nelle zone anzidette hanno dato concreti risultati col reperimento di notevoli quantitativi di armi varie, di munizioni e di esplosivi (quintali di dinamite e di gelatina esplosiva).

In conseguenza si è proceduto, a norma di legge, all’arresto di 39 persone, mentre altre 48 sono state denunziate, essendosi rese irreperibili. È stato anche accertato che alcuni arrestati detenevano notevoli quantitativi di generi razionati destinati alla borsa nera.

Le recenti perquisizioni e gli arresti operati a Nemi il 13 corrente sono dovuti alla necessità di eseguire nove mandati di cattura emessi dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Velletri a carico di persone che, in occasione del fermo di due giovani operato nello scorso gennaio, un comunista e un qualunquista, i quali per ragioni politiche erano passati a vie di fatto, risultavano aver incitato la folla ad assalire la caserma dei carabinieri e a farla saltare in aria, nonché al completamento di operazioni di rastrellamento di armi.

Le operazioni furono contemporaneamente eseguite da 4 squadre di carabinieri, complessivamente composte di 40 unità. Nessuna mitragliatrice fu piazzata, nessuna strada bloccata.

Non risulta che siano stati adoperati metodi o mezzi brutali nel corso delle operazioni, anzi i militari aderirono anche a che i congiunti degli arrestati consegnassero loro indumenti e cibarie prima della traduzione a Roma.

Fu arrestata una sola donna, perché colpita da mandato di cattura emesso dall’Autorità giudiziaria competente.

Del pari non risulta che gli stessi organi di polizia abbiano, comunque, col loro comportamento agito contro il prestigio delle istituzioni repubblicane.

Circa l’atteggiamento degli organi di polizia di fronte ai neo-fascisti, quando se ne è verificata l’occasione, come nello scorso anno, l’arma dei carabinieri non ha mancato di intervenire immediatamente assicurando alla giustizia i responsabili di atti contro la legge.

PRESIDENTE. La onorevole Gallico Spano Nadia ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatta.

GALLICO SPANO NADIA. Non mi posso dichiarare sodisfatta della risposta dell’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno. È chiaro, e siamo tutti d’accordo, che si proceda al rinvenimento delle armi; però, nei fatti per i quali ho chiesto una risposta al Ministro dell’interno bisogna distinguere due elementi.

Il primo è questo: vi sono stati nove mandati di cattura emessi contro gli abitanti di Nemi per una sommossa. Ora, la sommossa non c’è stata ed infatti, nel mese di gennaio, v’è stata una lite fra due giovani, l’uno di sedici anni, comunista, e l’altro di diciannove, qualunquista. Il brigadiere dei carabinieri, già precedentemente, aveva dato molte volte prova di parteggiare apertamente e di non saper nascondere le sue simpatie politiche, tanto è vero che, molto spesso, richiesto di intervenire per impedire che nel paese di Nemi si cantasse «giovinezza», per ricercare gli autori delle provocazioni contro il regime repubblicano, non è mai voluto intervenire. Egli, quindi, ha rilasciato dopo mezz’ora il giovane qualunquista, sotto il pretesto che doveva farsi medicare. Il giovane che nella lite era rimasto più percosso era naturalmente quello di sedici anni: ma non è stato rilasciato. D’altra parte, se quel giovane di diciannove anni aveva effettivamente bisogno di essere curato, lo si poteva fare accompagnare da un carabiniere, come si usa, e non lasciarlo andar via solo, provocando il giusto risentimento dei parenti e degli amici dell’altro giovane trattenuto in arresto.

La folla non si è presentata dinanzi alla stazione dei carabinieri; vi si è raccolto solo un piccolo gruppetto di persone, le quali richiedevano che, se era stato rilasciato un giovane, si fosse rilasciato anche l’altro. E il brigadiere dei carabinieri, se fosse stato una persona di buon senso, avrebbe dovuto cercare di minimizzare il fatto e di calmare gli animi. La folla non era poi così eccitata, se è bastato l’intervento di uno solo dei nostri compagni, per allontanarla su invito del brigadiere del carabinieri; e non vi è stata neanche intimidazione per la liberazione del giovane, perché egli è stato liberato quando già la gente si era allontanata. Non vi sono stati insulti né altro da parte della folla, ma vi è stata una provocazione da parte del brigadiere, il quale aveva minacciato alla gente di stritolarla, se non se ne fosse andata via; e si vede che la folla non era poi troppo agitata, se non se ne è andata dopo queste parole.

Fra i fermati, vi era una giovane di diciannove anni che avrebbe dovuto essere una incitatrice della sommossa. La verità è che il brigadiere dei carabinieri cerca ogni pretesto per parteggiare verso gli elementi che godono delle maggiori sue simpatie. D’altra parte, questi nove fermati di Nemi, sono deferiti alla Corte d’assise; si tratta, quindi, di una cosa seria e vorremmo che il Governo intervenisse rapidamente per impedire che la piccola manifestazione provochi un arbitrio.

E adesso un’altra questione su cui desidero richiamare l’attenzione del Ministro dell’interno. Si è parlato di tritolo e di esplosivo. Ma una dichiarazione precisa del Sindaco di Nemi, democristiano, afferma che il tritolo serve ai contadini per il lavoro dei campi e che, se essi si fossero presentati al Comune, avrebbe senz’altro concesso il permesso per il tritolo. Non solo, ma il brigadiere dei carabinieri sa che il tritolo si trova in tutte le case dei contadini. Questo zelo improvviso del brigadiere dei carabinieri, che si è svegliato soltanto dopo una piccola manifestazione e che rifiuta di perquisire altre case indiziate, case però che non appartengono ad elementi democratici, dimostra che le perquisizioni erano fatte con evidente scopo politico. (Interruzione dell’onorevole Benedettini).

Anche a Monteporzio si è trovato, in casa degli elementi reazionari locali, come ex fascisti ed ex squadristi, una mitragliatrice smontata ed una ingente quantità di tritolo; però, mentre questi ultimi venivano rilasciati dopo mezz’ora, gli elementi democratici sono stati trattenuti sono ancora in carcere.

Cosa dimostra tutto ciò? Dimostra (e verrò anche agli insulti contro la Repubblica) che da parte della tenenza dei carabinieri di Velletri vi è una tendenza troppo spinta ad operare soltanto verso elementi democratici. Così due lavoratori di Velletri sono stati picchiati per essersi rifiutati di gridare «Viva il re» e sono stati arrestati.

BENEDETTINI. Non diciamo assurdità! (Interruzioni a sinistra).

GALLICO SPANO NADIA. E se si vogliono dei chiarimenti, si chiedano pure ad un avvocato di Velletri, il quale ha dovuto adoperarsi per farli scarcerare.

Si cerca, anche, di compromettere la Repubblica. Ed infatti i carabinieri che hanno proceduto a Nemi hanno adoperato dei mezzi brutali; ed è inutile – come diceva giustamente l’onorevole Pertini un momento fa – che ci si rivolga per una inchiesta agli organi superiori, in quanto questi copriranno i loro agenti. Il fatto è che io mi sono recata a Nemi il pomeriggio stesso degli arresti e ho trovato ancora un bambino di 15 anni che aveva una guancia gonfia per gli schiaffi ricevuti ed una ragazza che era stata percossa. Ma il Tenente dei carabinieri, al quale mi sono rivolta a Velletri, mi ha risposto che se questa mia affermazione fosse stata vera, il bambino e la ragazza si sarebbero immediatamente rivolti a lui, nel corso delle operazioni, per farsi proteggere.

Per chi sa come si sono svolte queste operazioni di polizia – alle quattro e mezzo del mattino, con le mitragliatrici ed i mitra puntati contro le case, ed è questa la testimonianza unanime di tutta la popolazione di Nemi – per chi sa l’atmosfera di terrore che si diffonde in questi casi, si rende perfettamente conto come un ragazzo di 15 anni ed una giovane di 16 non hanno il coraggio di presentarsi al comandante per fare una denuncia contro un carabiniere e pensano ingenuamente: «questa volta m’è andata bene, cerchiamo di non prendere il resto». Non solo, ma i carabinieri hanno detto agli arrestati, nel corso delle perquisizioni: «Ecco quello che vi regala la Repubblica; noi agiamo per ordine di Gullo». Ora, appunto perché noi vogliamo che ci sia nel paese un’atmosfera di pacificazione e di tranquillità, perché i lavoratori possano lavorare in pace; appunto perché noi non vogliamo che ci sia più nel nostro paese un regime poliziesco che incuta terrore e che discrediti la Repubblica (tanto è vero che i lavoratori di Nemi dicevano: «noi non abbiamo visto questo neanche sotto i tedeschi»), chiediamo al Governo che intervenga rapidamente, affinché siano rilasciati i nove sotto mandato di cattura, in quanto sommossa non c’è stata, e perché, d’altra parte, faccia comprendere ai carabinieri troppo zelanti che, se essi non si sentono di rispettare e difendere la Repubblica, non sono costretti a farlo, e cambino mestiere; e che essi non sono i padroni dei paesi, non hanno il diritto di spadroneggiare e di incutere terrore e di parteggiare per i loro amici, ma sono, come gli altri cittadini, al servizio del popolo e della Repubblica, che il popolo liberamente si è data. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Cevolotto, al Ministro dell’interno, «per sapere se risponde a verità quanto è affermato in un comunicato della «Direzione del Giardino Albergo di Russia», apparso sui giornali di Roma (Il Tempo, giovedì 6 febbraio 1947), cioè che il giuoco nel salone dell’Albergo di Russia è gestito dalla Associazione nazionale reduci in seguito a regolare licenza delle Autorità di polizia. L’interrogante chiede, inoltre, se altre simili licenze sono state rilasciate alla stessa Associazione ad altri, in quali luoghi e in base a quali criteri di concessione e di distribuzione».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Fin dai primi mesi dello scorso anno pervennero al Ministero dell’interno domande da parte di numerose associazioni di combattenti, partigiani, reduci, famiglie di trucidati dai nazifascisti, ecc., per essere autorizzate a gestire i giuochi denominati «Lancio 900» e «Tiro 900», con i proventi dei quali avrebbero dovuto provvedere all’assistenza dei propri associati.

Prima di adottare determinazioni, si ritenne necessario di sentire il parere del Ministro delle finanze, il quale espresse l’avviso che tali giuochi non potevano sostanzialmente giudicarsi d’azzardo, poiché la vincita dipendeva dall’abilità del giuocatore.

Si venne perciò alla determinazione di consentire l’esercizio dei giuochi medesimi, tenendo anche conto dei fini assistenziali e di beneficenza perseguiti dagli enti che ne avevano fatta richiesta. Per eliminare però eventuali abusi si prescrissero precise norme istruttorie per il rilascio di ogni singola licenza.

In base alla procedura prevista, il Ministero ha espresso di volta in volta il proprio parere all’autorità locale, la quale, vagliate le condizioni del posto, provvede, se del caso, al rilascio dell’autorizzazione.

Le autorità di pubblica sicurezza hanno l’obbligo di vigilare sull’andamento del giuoco per assicurare in modo particolare che i proventi raggiungano le finalità proposte e che le puntate non superino la misura massima di lire 25, stabilita dal Ministero delle finanze.

Sono state rilasciate autorizzazioni per detti giuochi soltanto ad Associazioni giuridicamente riconosciute ed aventi fini assistenziali, e non ai privati per scopi speculativi. Peraltro, sebbene fossero state adottate tutte le cautele necessarie, l’esercizio dei giuochi ha dato adito a rilievi in alcune provincie e da parte dei Prefetti è stato provveduto al ritiro delle licenze nei casi in cui furono riscontrate irregolarità, sia nella gestione, che nelle modalità del giuoco, specie per le puntate effettuate in misura superiore a quella stabilita.

Il Questore di Roma ha recentemente ritirato la licenza già concessa all’Associazione reduci per la gestione del «Lancio 900», a causa di abusi del genere.

Tale giuoco, non avendo l’Associazione locali disponibili per tale scopo, veniva effettuato presso l’Albergo di Russia. Il Ministero, tenuto conto degli inconvenienti verificatisi, ha allo studio opportune misure per impedire che i giuochi si trasformino in veri e propri giuochi d’azzardo. Ad ogni modo, fin dall’8 corrente è stata disposta la sospensione della concessione di nuove licenze da parte dei prefetti.

Voci. Vietateli, vietateli! Sono giuochi di basso impero!

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro dell’interno ha chiesto di parlare. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Desidero aggiungere alla risposta data dal Sottosegretario di Stato che io ho trovato questo problema del giuoco «900», appena sono stato nominato Ministro dell’interno.

Il primo provvedimento che ho preso, in base alle informazioni e sollecitazioni che mi venivano da tutta Italia – secondo cui tutto il Paese sta per diventare un giuoco d’azzardo – fu la sospensione immediata di altre licenze in questa materia. Da tutte le parti sono pervenute proteste.

In realtà, questo giuoco è diventato un vero e proprio giuoco d’azzardo e intorno a queste licenze c’è una speculazione di tenutari di casa da giuoco veramente indegna.

Assicuro l’Assemblea che fra qualche giorno sarà predisposto un provvedimento drastico al riguardo, e spero di essere confortato dal consenso dell’Assemblea stessa, affinché abbia a cessare questa ignominia del nostro Paese, perché non c’è piccola città d’Italia in cui oggi non si giuochi, e dove, quindi, non vi sia decadimento della moralità pubblica, soprattutto da parte dei giovani.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CEVOLOTTO. Sono lieto delle dichiarazioni del Ministro Scelba che non potevano essere diverse, perché io ricordo che quando ci trovammo insieme nel primo Ministero De Gasperi la questione del giuoco venne affrontata; ed allora il Governo, unanime, decise che le licenze che erano state accordate in tutta Italia – nella sola provincia di Como vi erano sette case da giuoco – dovessero essere immediatamente tolte. Anzi, siccome il Ministro Romita, secondo me a ragione, provvedeva con una certa gradualità per non ledere interessi di Comuni che avevano basato su questi proventi le loro opere di ricostruzione, venne la preghiera da parte del Consiglio dei Ministri che si sollecitasse la procedura e che le case da giuoco fossero chiuse in ventiquattro ore. E in ventiquattro ore il Ministro Romita le chiuse tutte.

Che, dopo di questo, compaia sui giornali la notizia che è stata concessa dalle autorità di polizia una licenza all’Associazione dei reduci per un giuoco all’Albergo di Russia in Roma – giuoco non innocente, perché un giornalista che è penetrato nella bisca ed ha potuto fotografare il tavolo da giuoco, ha detto che si trattava di un giuoco di cavallini, nel quale le probabilità di vincita per il banco erano molto maggiori del solito, e quindi era un giuoco d’azzardo a tutto vantaggio del tenutario del banco – è veramente strano. Anche in altri luoghi si sono date delle licenze: a Pessano, alle porte dì Milano, a Menaggio, a Brunate, ecc., ove il giuoco è tornato a rifiorire con regolari licenze della pubblica sicurezza. È stata data l’autorizzazione ad Associazioni di reduci, combattenti e partigiani; me ne dispiace molto, perché i partigiani e i reduci hanno il diritto di essere assistiti dal Governo, e di essere aiutati in tutti i modi, ma non li si aiuta moralmente elevandoli al nobile rango dei biscazzieri (Approvazioni), che speculano e guadagnano senza rischio, senza fatica, senza lavoro, sulla passione e sul vizio!

E poi, per un’altra ragione bisogna che ciò che ha detto il Ministro Scelba sia fatto – ed egli lo farà – perché voci poco belle circolano intorno a queste concessioni: voci che partono dai vecchi e nuovi fascisti, i quali mettono in giro la chiacchiera che le concessioni vengono date, perché in corrispettivo si versano milioni ai vari partiti della democrazia.

Ora, questi sospetti bisogna che siano dileguati. Purtroppo, i fascisti vanno dicendo che la moralità della nuova democrazia non è differente dalla moralità del fascismo; e occorre che anche le apparenze, che anche i sospetti in questo campo siano subito dileguati.

Bisogna che l’abito morale della nuova democrazia sia chiaro in tutti i punti; bisogna che si distingua nettamente dalla immoralità fascista. La nuova democrazia deve essere sana e onesta in tutto, anche nelle apparenze. Il giuoco non ha niente a che fare con la democrazia. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Benedettini, al Ministro dell’interno, «per conoscere se è vera la notizia apparsa sulla stampa che, dalla sera del 14 febbraio, sono state sospese le comunicazioni telegrafiche e telefoniche con la Sicilia, e, nel caso affermativo, il motivo di tale provvedimento».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Nessun provvedimento è stato mai preso per impedire le comunicazioni telefoniche con la Sicilia. L’interruzione si è verificata il 14 corrente ed è dipesa dal taglio del cavo telefonico avvenuto a scopo di furto nei pressi di Napoli.

L’Ansa il 15 corrente dava a tutti i giornali questa notizia: «Ieri sera, alle ore 20,40, ignoti hanno tagliato a colpi di scure, a scopo di furto, il cavo nazionale sull’autostrada a circa 23 chilometri da Napoli, interrompendo così tutte le comunicazioni con l’Italia meridionale. Alle 7,15 di stamane i servizi erano completamente ristabiliti».

PRESIDENTE. L’onorevole Benedettini ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

BENEDETTINI. Per quanto mi riguarda, posso ringraziare e dichiararmi sodisfatto, malgrado che la coincidenza sia da tenere in particolare rilievo, poiché la sospensione delle comunicazioni è avvenuta precisamente dopo la prima seduta dell’Assemblea Costituente, un po’movimentata per varie ragioni: al principio con le mie discussioni e alla fine col discordo dell’onorevole Finocchiaro Aprile. (Commenti).

Comunque, il Ministro dell’interno ha fatto una dichiarazione che non ho ragione di metterle in dubbio. Dichiaro quindi di essere sodisfatto per quanto mi riguarda.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Sullo, firmata anche dagli onorevoli Froggio, De Martino Carmine, Carratelli, Perlingieri, Trimarchi, Lettieri, De Maria, Caso, Codacci Pisanelli, Colombo, Gabrieli, Riccio Stefano, Vinciguerra, Priolo, ai Ministri del lavoro e previdenza sociale e degli affari esteri, «per conoscere se risponda a verità la notizia, diffusa da alcuni giornali, che nel reclutamento dei lavoratori italiani, che prossimamente si recheranno a lavorare in Francia, sarà data la precedenza ai lavoratori centro-settentrionali, con esclusione, almeno per un primo momento, dei meridionali, adducendosene a motivo la difficoltà climatica di ambientamento in regioni fredde; specioso motivo, perché larghe zone montane dell’Italia meridionale hanno abitatori temprati al freddo più di quelli di talune zone litoranee del nord d’Italia. Poiché i lavoratori che dovrebbero emigrare sono richiesti anche per l’edilizia, cioè per un settore in cui abbondata mano d’opera disoccupata (qualificata e non) nell’Italia meridionale, si chiede ai Ministri interpellati se non intendano estendere la possibilità di emigrare sin dal primo tempo ai lavoratori dell’Italia meridionale».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale ha facoltà di rispondere.

TOGNI, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale. Posso assicurare gli onorevoli interroganti che l’accordo recentemente stipulato per l’avviamento al lavoro in Francia di 200 mila emigranti italiani non prevede alcuna clausola limitativa o restrittiva nel senso lamentato dagli onorevoli interroganti. Vero è che nel primo avviamento, o meglio, nella prima quota assegnata in via provvisoria dalla Commissione mista, la quota stessa, in relazione ad esigenze affacciate dai francesi, è stata assegnata alle regioni centro-settentrionali; quota limitata di operai i quali dovranno recarsi al lavoro nel nord della Francia, quindi in regioni particolarmente fredde e umide. Il 20 prossimo venturo però avremo la seconda riunione di questa Commissione, e posso assicurare che è ferma intenzione nostra di chiedere, per questo secondo contingente, l’avviamento di operai del Meridione d’Italia, anche perché questi sono destinati al Meridione della Francia, e quindi in zone particolarmente per essi indicate.

L’avviamento degli emigranti viene fatto e verrà fatto solamente in relazione alle esigenze ed alle possibilità delle singole regioni. Posso dare formale assicurazione che mai potrà essere, dal nostro Ministero e dal Governo, consentito di accettare una clausola la quale, stabilendo una discriminante fra regione e regione d’Italia, non potrebbe che risultare, oltre che assolutamente ingiustificata, offensiva per le popolazioni colpite.

PRESIDENTE. L’onorevole Sullo ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

SULLO. Il modo come l’onorevole Sottosegretario ha risposto alla interrogazione dimostra che i timori che erano affacciati in una forma molto attenuata nella interrogazione medesimo avevano un qualche fondamento, perché l’onorevole Sottosegretario ha ammesso la possibilità che nelle trattative che si sono svolte con la Francia – ed io aggiungo nelle trattative che si svolgono con altri Paesi – si affacciano, qualche volta, delle possibilità di esclusione di talune regioni o di lavoratori di talune regioni nella emigrazione all’estero.

Ora è necessario che su di ciò le assicurazioni dell’onorevole Sottosegretario siano accolte da me e vengano mantenute dal Governo, perché non è possibile che da parte di qualsiasi Governo democratico si accetti, in una forma anche attenuata, che si possa discutere in questo senso. Se regionalismo ci dovrà essere nel futuro, dovrà essere unicamente per approfondire la emulazione, ma non per porre dinanzi all’estero le regioni d’Italia su un piano diverso. Se però l’onorevole Sottosegretario ha detto – ed io sono confortato di questa assicurazione – che non vi è nulla di impegnativo nei riguardi dell’estero e specialmente della Francia, io non posso essere sodisfatto della sua risposta, perché allora bisognava che si sentisse una maggiore sensibilità nei riguardi delle popolazioni dell’Italia meridionale, le quali hanno sentito nelle dichiarazioni dei Governi (dei due Governi che si sono succeduti) sempre degli accenni alla loro famosa questione meridionale, ma in pratica, quando devono veder raggiunto qualche scopo, sia pure limitato, si vedono dimenticate.

Bisogna comprendere che ormai noi vogliamo che la questione meridionale non si risolva come una questione da congresso, ma che nelle singole determinazioni concrete, nelle singole piccole misure, si raggiunga qualche effetto utile per il Mezzogiorno d’Italia, perché soltanto così la famosa questione meridionale, che da tanto tempo viene dibattuta, potrà essere in parte risolta.

Non posso accettare la giustificazione data dal Ministro del lavoro, che il freddo abbia impedito di comprendere, in questo primo momento, anche un’aliquota di lavoratori meridionali per l’emigrazione in Francia. Non si può ammettere, infatti, che abitanti delle montagne dell’Appennino meridionale non siano in grado di acclimatarsi, con la buona volontà, ma anche col fisico che hanno, in regioni francesi. Non era opportuno che si accettasse questa forma di invito francese alla esclusione, sia pure presentato in maniera diversa da quella iniziale. E, pur dichiarandomi insodisfatto dell’atteggiamento fin qui assunto dal Ministero del lavoro, sono sicuro che l’onorevole Sottosegretario manterrà fede, insieme al suo Ministro, agli impegni assunti in questa Assemblea e terrà presente che i lavori pubblici nell’Italia meridionale sono, da molto tempo, in istato molto arretrato (come l’onorevole Romita sa), per cui si potrà consentire, per lo meno ai lavoratori dell’edilizia, che sono in istato di quasi disoccupazione, di andare in altre regioni e di portare il loro contributo alla ricostruzione del Paese, nonché alla ricostruzione delle loro famiglie.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Ne ha facoltà.

ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Desidero fare una semplice dichiarazione per tranquillizzare l’onorevole interrogante. Egli ha perfettamente ragione ed io la penso come lui, ed uno dei primi atti del mio Ministero è stato proprio quello di disciplinare l’emigrazione, favorendo le regioni meridionali; ma siccome, purtroppo, l’onorevole interrogante sa che gli operai del meridione molte volte non sono degnamente equipaggiati, sto provvedendo anche a equipaggiarli in modo che possano andare all’estero e fare onore al nome italiano. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Mastino Pietro, firmata anche dagli onorevoli Lussu, Mastino Gesumino, Bozzi, Laconi, Mannironi, Murgia, Falchi, al Ministro dell’aeronautica, «per sapere se sia vero che la società italo-americana di trasporti aerei (L.A.I.) abbia ottenuto, in regime di monopolio, l’esercizio della linea, Cagliari-Roma, con esclusione di un’altra società, sorta per sviluppare e sostenere, principalmente, gli interessi isolani con capitali sardi, che già dal 1944 aveva avanzato richiesta di concessione della suddetta linea ed alla quale la possibilità di tale esercizio era stata riconosciuta. Ciò costituirebbe non solo disconoscimento di un giusto diritto di precedenza ed un danno sicuro per la società, che vi ha già impegnato ingenti capitali, ma annullerebbe anche le iniziative e danneggerebbe gli interessi dell’Isola».

Sullo stesso argomento gli onorevoli Chieffì e Murgia hanno presentato la seguente interrogazione:

«Al Ministro della difesa, per conoscere i criteri che hanno presieduto nella concessione delle linee aeree civili».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’aeronautica ha facoltà di rispondere.

BRUSASCA, Sottosegretario di Stato per l’aeronautica. Risponde a verità il fatto che nel difficile compito di ripartire i servizi aerei fra le numerose Compagnie aspiranti, assicurando i servizi stessi, il potenziamento e il funzionamento necessario non per le singole linee ma per tutta la rete, il Ministero dell’aeronautica non ha potuto concedere alla Società sarda «L’Airone» l’esercizio della linea diretta Cagliari-Roma, concedendo peraltro l’esercizio di una linea Cagliari-Alghero-Roma, la quale, sotto il profilo degli interessi sardi sodisfa anche alla necessità di collegamento della parte settentrionale dell’isola con la capitale. Alla società medesima, poi, è stata riconosciuta la possibilità di effettuare il collegamento diretto con gli altri principali centri economici nazionali, attraverso le linee Cagliari-Milano, Cagliari-Torino, Cagliari-Napoli e Cagliari-Palermo.

PRESIDENTE. L’onorevole Mastino Pietro ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MASTINO PIETRO. Relativamente a questa interrogazione si verificò un fatto che devo attribuire, ritengo, ad equivoco. Io presentai, con carattere di urgenza, una interrogazione con il proposito di discuterla pubblicamente in quest’aula, e mi fu data, invece, risposta scritta. Ho insistito, rilevando il carattere della mia interrogazione. Oggi dal Sottosegretario di Stato mi son sentita rileggere quella risposta scritta che in precedenza mi era stata comunicata, mentre la mia insistenza avrebbe dovuto chiarire come quella risposta non poteva essere ritenuta sodisfacente, perché sfugge, fra l’altro, alla prima e alla più essenziale domanda che, con l’interrogazione, io formulavo, cioè questa: è un fatto vero che l’esercizio della linea Elmas-Cagliari-Roma fu dato in esclusivo monopolio alla Società L.A.I.?

A questa domanda, che costituì il presupposto di tutta l’interrogazione, non mi fu data risposta scritta e non mi è stata data adesso risposta orale. Fu scritto ed è stato oggi detto come nel difficile compito della ripartizione e della distribuzione dell’esercizio delle linee aeree non sia stato possibile attribuire l’esercizio della linea Elmas-Roma alla società «L’Airone», ma non è stato ancora detto perché fu data in monopolio alla società L.A.I., mentre è proprio contro la concessione di esercizio in monopolio che noi intendiamo protestare. Uso il «noi» non per un plurale majestatis, ma in quanto la interrogazione da me presentata fu sottoscritta da tutta la Deputazione sarda, e uso il «noi» anche perché dalla questione relativa alla concessione in monopolio dell’esercizio della linea Cagliari-Roma si deve arrivare ad un esame e ad una valutazione dei metodi che dovrebbero essere seguiti nella concessione di esercizio di linee aeree, sia per l’importanza di un tale servizio, sia perché in esso, in certo senso, interferiscono interessi di vastissima portata.

La società «L’Airone», costituita in Sardegna, con capitale sardo, fin dall’ottobre 1944, che riferì sempre al Governo i suoi programmi e propositi, anche per eventuali collegamenti con altre linee e dal Governo ebbe sempre incoraggiamenti, si è vista ora anteporre la L.A.I. Nel 1946, era allora quasi factotum nel Ministero dell’aviazione il colonnello Gallo, fu dato il monopolio dell’esercizio di tutte le linee aeree italiane ad una società americana; di fronte alle giuste proteste delle società italiane intervenne lo stesso Governo d’America e si arrivò alla conclusione che nessuna linea doveva essere data in esercizio monopolistico, ma tutte le linee dovevano essere esercitate in regime di libera concorrenza. Difatti in seguito, precisamente nello scorso dicembre, il Ministero dell’aeronautica chiamò qua in Roma i rappresentanti delle varie società aeree e fu stabilita una specie di preventivo di ripartizione delle linee, sempre però con la concorrenza fra società e società.

Con lettera trasmessa, dopo tale riunione, alla società «L’Airone», il Ministro Cingolani le assegnava, in concorrenza con le altre compagnie anche le linee Elmas-Roma e Cagliari-Palermo. Senonché, poco dopo, precisamente con altra lettera del 24 gennaio, veniva scritto che «a parziale modificazione delle comunicazioni contenute nella nostra precedente, questo Ministero, sottoposto il programma di detta società allo stato di esame, in relazione a sopraggiunti elementi di giudizio, non ravvisa la possibilità di affidare a codesta società la gestione dei collegamenti diretti fra Cagliari e Roma».

Non protesto, poiché questo non mi riguarda assolutamente, per il fatto che la società «L’Airone», in vista dell’assicurazione avuta, abbia proceduto all’acquisto di tre aerei e all’investimento dei necessari capitali, ma protesto però che nella stessa lettera del 24 gennaio si dice che, sottoposto a nuovo esame l’insieme della questione, non si ravvisa la possibilità di affidare alla Società «L’Airone» l’esercizio della Cagliari-Roma, senza indicarne neanche il motivo.

D’improvviso, senza una ragione che giustifichi, l’esercizio della linea è stato dato in esclusivo monopolio ad una società non italiana. La mia protesta si collega a quelle già trasmesse dai sardi all’Alto Commissario per la Sardegna ed al Ministero della aeronautica.

Ad ogni modo, io avrei desiderato conoscere le ragioni superiori che hanno consigliato questa concessione e quali diritti di preferenza e di precedenza possa vantare la società L.A.I.; cioè, per quali ragioni essa debba tenere l’esclusivo monopolio non solo della linea Cagliari-Elmas, ma anche delle principali linee aeree italiane.

E attendo che mi si dica se le larghe facilitazioni concesse alla L.A.I. (esenzione dalle tasse doganali sui carburanti e lubrificanti; dall’imposta generale sulle entrate, dalle tasse di atterraggio e di sosta sui campi di aviazione italiani, uso gratuito di tutti i campi) saranno ugualmente concesse anche ad altre compagnie.

Io attendo – e solo in tal caso mi dichiarerò sodisfatto – che provvedimenti vengano presi, coi quali all’esercizio monopolistico di queste linee si sostituisca la libera concorrenza, la quale soltanto può garantire un migliore servizio ed allontanare il sospetto che ragioni non del tutto approvabili influiscano sulla concessione in esercizio monopolistico delle linee.

PRESIDENTE. Il secondo interrogante onorevole Chieffi ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CHIEFFI. L’onorevole Sottosegretario per l’aeronautica non ha dato risposta sodisfacente e sufficiente allo spirito della mia interrogazione.

Io volevo chiedere quali erano stati i criteri seguiti dal Ministero dell’aeronautica nella concessione delle linee aeree riguardanti la Sardegna.

Per quello che ha riferimento all’ingiustizia fatta alla Società Sarda «L’Airone», condivido pienamente quanto ha detto l’onorevole Mastino.

D’altra parte, la valorizzazione della Società «L’Airone», per noi sardi, è di fondamentale importanza. La Sardegna ha necessità di collegamenti rapidi e la duplicazione delle linee aeree, anche attraverso l’esercizio di due Società concorrenti, risponde ad un’esigenza dell’Isola. Questo è stato il voto formulato alla Consulta regionale, tendente, cioè, ad evitare il costituirsi di monopoli e di esclusività pericolose.

Se vi erano ragioni superiori e che a noi sfuggono per dare la linea Cagliari-Roma in concessione alla L.A.I, non si comprende perché anche a «L’Airone», società formata di capitali sardo, non sia stata dato uguale diritto.

La linea Cagliari-Alghero-Roma, riconosciuta a «L’Airone», non viene a sodisfare adeguatamente le esigenze formulate dalla Società sarda e non corrisponde d’altra parte alla necessità dei viaggiatori della Sardegna: il tratto Cagliari-Alghero sarà passivo per la Società anche per l’interesse limitato che avranno i sardi di trasferirsi in aereo da un estremo all’altro della Sardegna. La verità è che la linea economicamente attiva è la Cagliari-Roma, concessa alla Società italoamericana L.A.I., e che a «L’Airone» è stato concesso il servizio di una linea, in sostituzione, che molto facilmente darà risultati di gestione passivi.

PRESIDENTE. Ha chiesto la parola per fatto personale l’onorevole Cingolani. Ne ha facoltà.

CINGOLANI. Mi dispiace che non sia presente il mio predecessore, onorevole Cevolotto; vuol dire che domani certamente, in sede di processo verbale, egli troverà il modo di potere chiarire la situazione che io ho trovata nella seconda metà del luglio 1946.

Io rispondo alle osservazioni degli onorevoli Mastino e Chieffi per quanto può riguardare la mia amministrazione.

Io ho trovato la seguente situazione: nel febbraio, anzi precisamente l’11 febbraio 1946, era stata stipulata una convenzione fra una società americana di aviazione per il trasporto di persone e cose e il Governo italiano, convenzione perfezionata con l’approvazione dei Ministri competenti dell’aeronautica, del tesoro e delle finanze e con la conoscenza, naturalmente, del Consiglio dei Ministri.

In questa convenzione dell’11 febbraio 1946, stipulata con grande entusiasmo, perché ci si preoccupava delle sorti dell’aviazione italiana, veniva assicurato l’apporto del capitale straniero per contribuire a far risorgere l’aviazione italiana, e anche un apporto robusto di tecnici della nostra aviazione.

Secondo me, un difetto ha avuto quella convenzione: di essere stata tenuta segreta. Se n’è parlato allora sottovoce: credo che quasi nessuno di quanti si occupavano dell’aviazione ne fosse al corrente. Se io fossi stato il Ministro Cevolotto, avrei messo un palco a piazza Colonna e con l’alto parlante avrei annunciato al Paese che veniva capitale americano per aiutare l’aviazione italiana, con pieno rispetto degli interessi italiani.

Perché non bisogna dimenticare che la Società L.A.I. non è una società italo-americana, ma una società italiana, con l’apporto del 60 per cento del capitale dato dallo Stato – perché il capitale è dell’Istituto di ricostruzione industriale – e del 40 per cento di capitale americano; e che, con qualche ritocco che mi sono permesso di fare alla convenzione del febbraio, abbiamo eliminato anche i nei che la convenzione aveva, cioè la facilità di rescissione da parte americana e l’obbligo dei due terzi di voti favorevoli nelle deliberazioni del Consiglio di amministrazione che annullava la maggioranza del capitale italiano: tutte cose che gli americani prima e gli inglesi poi, nel giugno, hanno accettato.

Sicché ci siamo trovati di fronte a due società che sono società italiane, con maggioranza di capitale dato dallo Stato italiano: società italiane per il capitale sottoscritto e da sottoscrivere, per la potenza dei mezzi e per la grande tradizione dell’aviazione italiana. Perché non dimentichiamo che le tre società di aviazione civile precedenti gli ultimi disastri della guerra: l’Ala Italiana, già Ala Littoria, la L.A.T.I., e le Aviolinee erano società magnifiche che avevano in esercizio 72 linee, trasportavano 150 mila passeggeri per tutto il mondo e facevano veramente onore all’ala italiana.

Le due società di cui parliamo riprendevano dunque le antiche tradizioni. Le nuove sorsero intorno. Perché sorsero? Questo accade sempre in tutti i periodi di ripresa economica. Forse non sapevano – e ne faccio un cortese, cortesissimo rimarco al collega Cevolotto – che nella convenzione erano state prestabilite 14 linee da concedere alla L.A.I. Ed il monopolio fu tolto, non per intervento generoso del governo americano, ma in applicazione dei deliberati del Congresso di Chicago, che aboliva i monopoli, che consacrava la reciprocità per tutto il mondo. Ecco perché venne la comunicazione attraverso l’ambasciata d’America: essendo noi presenti al Congresso di Chicago come semplici osservatori, non potevamo che prendere atto delle sue deliberazioni. C’era dunque il concetto di reciprocità che sostituiva il monopolio. Rimaneva però di fatto un impegno di priorità per la L.A.I. Onorevoli Mastino e Chieffi, «L’Airone», saggiamente amministrata, acutamente diretta, si è innestata alla A.L.I.I., società italo-inglese analoga alla L.A.I. Ma «L’Airone» perché ha perduto la Roma-Cagliari? Fra le 14 linee, per le quali era riconosciuta una priorità a favore della società italo-americana, ce ne erano tre, per le quali il Consiglio di amministrazione della L.A.I. insisteva perché non venissero toccate. Io, con grande fatica, sono riuscito a ridurre le 14 linee concesse ad otto soltanto, e ho dato le sei che ho strappato alla L.A.I. alle società minori: ma per le insistenze della L.A.I., per poter avere, non l’esclusiva per sé, ma la priorità per la Roma-Palermo, per la Roma-Cagliari, per la Roma-Milano, si è dovuto infine cedere, nell’interesse stesso del Paese. La L.A.I. faceva un conto di carattere industriale e commerciale. Una società così potente, con tanti mezzi per vivere, ha bisogno di volare almeno per due milioni di chilometri. Ora, queste tre linee sono le più redditizie, con un bilancio attivo, come possiamo desumerlo dai risultati economici del servizio dei «Corrieri militari aerei».

L’onorevole Mastino ha fatto cenno ad una adunanza dei rappresentanti le società di aviazione civile. Che cosa ho cercato io di fare in quella adunanza? Di trovare un accordo! Non mi sono mica divertito, egregi colleghi, in quella adunanza. Qualcuno di voi ha forse letto, nel libro di Merezkowśkij su «Giuliano l’Apostata», la scena della Assemblea di tutti i rappresentanti delle Sette ereticali dell’Oriente che, al cospetto di Giuliano, vestito della candida toga di filosofo, impassibile, si accapigliano fra loro. Così io ho dovuto assistere a vivaci discussioni e competizioni. Avevo creduto ingenuamente di mettere le società a contatto, per trovare una linea di intesa, e qualcosa si è fatto. Qualche punto di frizione è rimasto ancora, ma spero che l’esercizio delle linee ridurrà tutti ad una fredda comprensione della situazione. Abbiamo l’esempio del Portogallo, dove, dopo la guerra mondiale, erano sorte 35 linee, di cui una trentina sono andate all’aria. L’aviazione civile è una cosa seria che costa milioni; lo Stato va incontro a tutte le società private, non soltanto alla L.A.I., mettendo a disposizione i propri campi di aviazione. Vede, onorevole Mastino, io ho qui il prospetto dei campi messi a disposizione de «L’Airone»: Cagliari (Elmas), Palermo (Bocca di Falco), Milano (Linate), Napoli (Capodichino), Torino (Mirafiori), Roma e Alghero. Le linee concesse, in confronto anche a quelle di altre società, saranno certo redditizie. Possiamo essere d’accordo nel riconoscere le ragioni della amarezza vostra di sardi. Sta di fatto però che le linee concesse sono tutte di grande sviluppo e possono avere anche un grande risultato economico, se bene amministrate: la Cagliari-Palermo, la Cagliari-Milano, la Cagliari-Napoli, la Cagliari-Torino e la Roma-Cagliari-Alghero. La Cagliari-Roma, anche se in mano alla L.A.I., risponde per i viaggi diretti agli interessi dei viaggiatori sardi.

Se ci fosse soltanto la Roma-Cagliari, certamente il nord dell’isola non sarebbe servito; e ricordo che la Roma-Alghero-Cagliari era stata richiesta dalla L.A.I.; io invece glie l’ho tolta per darla a «l’Airone»; ho servito così la provincia di Sassari e quella di Nuoro. E la società «L’Airone», costituita con molte piccole quote, cosa ammirevole che sottolinea veramente il civismo, l’amore per la loro terra, di tutti i cittadini della Sardegna, darà prova, su tutte le altre linee a lei concesse, di servire ugualmente bene gli interessi dell’Isola. Non mi è stato possibile fare di più; non potevo dimenticare gli interessi dello Staio che dovevo difendere. (Interruzione dell’onorevole Chieffi). La situazione finanziaria è questa: la società «L’Airone» ha per ora sottoscritto un milione di capitale; saprà anche trovare gli altri milioni, ma per ora è poco, di fronte ai 900 milioni di capitale di Stato impiegati nelle altre due società. Queste sono cifre aggiornate al 4 febbraio. D’altra parte anche tutti i servizi a terra e di telecomunicazioni sono a disposizione di tutte le linee, in questo primo periodo; dopo pagherete sui guadagni e pagherete tutti. Naturalmente, ripeto per ora, quello che c’è, è a disposizione di tutti. Io qui ho il piano generale delle linee concesse. Per ogni concessione alle varie società vi è stata una battaglia su di un piano realistico, condotta però con pieno disinteresse da parte di tutti, anche da parte dei concorrenti tra di loro, che hanno dimostrato una passione aviatoria veramente ammirevole. Le Teseo, l’Airone, la L.A.I. le Aviolinee Italiane, che riprendono gloriosamente l’antico cammino, la società Aviom, il gruppo siculo che è ancora in trattative con la Presidenza del Consiglio per tentare di ottenere una linea Roma-Palermo, oltre la linea Roma-Napoli-Palermo in concorrenza con la L.A.I., la Transadriatica, ecc., sono tutte bene attrezzate, e pronte per apprestamento di apparecchi e valentia di personale, a solcare i cieli italiani. Posso fare una constatazione consolante che le società, fortunatamente, dalle 37 iniziali sono ridotte a 10, il che ci fa sperare che il cammino dell’aviazione civile sia in Italia felice e che non sia seminato di insuccessi economici.

Debbo dire un’altra cosa all’onorevole Mastino: è stata veramente dal Ministero scritta una lettera in cui si dava un «affidamento» a «L’Airone». La prassi è questa, me ne appello ai passati e al presente Ministro dell’aeronautica. Dopo un primo esame si dà un «affidamento» e «L’Airone» ha avuto questo affidamento con lettera che certamente l’onorevole Mastino ha sotto gli occhi. Aggiungo che, mentre si dava affidamento, io facevo voti che, per le linee che si pensava di affidare alla società «L’Airone» e che invece la società italo-inglese avrebbe voluto assorbire con trattative dirette con «L’Airone» medesima, non sarebbe stato il caso, a mio avviso, di spingere «L’Airone» alle trattative, in quanto ritenevo e ritengo che gli isolani abbiano buone forze per vivere da sé.

Questa è la situazione; nessun preconcetto, nessuna manovra segreta. C’è stata forse qualche fretta nella costituzione delle due società. Non dimentichi però l’onorevole Mastino che queste società (che sono chiamate straniere, ma sono italiane) devono assumere il 100 per cento di maestranze italiane e precisamente 1’85 per cento proveniente dalle antiche linee civili italiane ed il 15 per cento fra quei piloti e tecnici che risulteranno liberi dallo sfollamento dell’Aeronautica militare. Capitale italiano, dunque, in maggioranza, gente italiana, dirigenti italiani, campi e mezzi italiani. Credete pure, sarebbe bene non drammatizzare eccessivamente! Siatene certi, strada facendo molte cose si aggiusteranno, e l’aviazione italiana certamente sarà degna della fiducia del mondo intero.

BENEDETTINI. E la L.A.I.?

CINGOLANI. Non credevo che l’onorevole Benedettini volesse dimostrarsi per la seconda volta in questa seduta così cavallerescamente unito con l’onorevole Finocchiaro Aprile. C’è una lunga interpellanza dell’onorevole Finocchiaro Aprile in proposito. Non abbia fretta. Ne presenti una anche lei, così anche lei potrà parlare con conoscenza di causa.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Cevolotto. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Io non ho da aggiungere che poche parole a quanto ha detto l’onorevole Cingolani, per spiegare all’Assemblea, brevissimamente, come sono sorte queste società che si chiamano straniere, ma che sono invece italiane: sono sorte (è per questo che non ne abbiamo potuto parlare allora) in un periodo in cui, per le condizioni di armistizio, noi non potevamo ufficialmente occuparci di aviazione civile.

Purtuttavia, ho creduto mio dovere, come Ministro, di occuparmene lo stesso, malgrado le condizioni di armistizio. Per ciò ho dovuto trattare in una forma non pubblica, e preparare segretamente gli accordi, perché ero e sono convinto che soltanto mediante accordi con gli americani e gli inglesi noi potevamo dar vita a società per l’esercizio dell’aviazione civile, che fossero veramente potenti e vitali.

In questa materia, e specialmente per quello che si riferisce, ad esempio, agli apparecchi necessari per l’attrezzatura dei nostri campi e degli aerei, senza l’aiuto straniero noi non potremmo fare niente, perché questi apparecchi non si producono in Italia. Io ho ottenuto la prima manifestazione di fiducia all’Italia, cioè il concorso effettivo del capitale straniero a nostre società.

La Commissione di studio di questi problemi, che era presieduta dall’onorevole Pesenti, espresse il suo parere tecnico in una relazione dello stesso onorevole Pesenti, che appunto diceva: non si può attrezzare la navigazione aerea civile in Italia se non col concorso del capitale straniero, e specialmente americano. Io ho seguito l’indicazione che veniva da quella Commissione di studio.

Quando ho ottenuto questo concorso, l’ho ottenuto a condizioni che potevano, sì, in qualche punto essere migliorate, e quando ho fatto la consegna all’onorevole Cingolani gli ho detto che vi erano specialmente due punti in cui queste convenzioni dovevano essere migliorate; e gli ho espresso la speranza che egli riuscisse a migliorarle, come effettivamente gli è riuscito di fare.

Prima non si poteva ottenere di più. Però quello che si è ottenuto è questo: concorso del capitale straniero per il 40 per cento, personale e dirigenza esclusivamente italiani, presidenza italiana, consigliere delegato italiano, direttori italiani scelti dal Consiglio d’amministrazione in prevalenza italiano. Soltanto per il direttore tecnico e per il direttore amministrativo, entrambi italiani, vi è la clausola del gradimento della minoranza. E si dice per questo che noi abbiamo venduto l’aviazione civile italiana agli stranieri!

Io domando se un’accusa di questo genere possa essere lecita da parte di chi conosca realmente i fatti. Perché si è dovuto dare inizialmente a queste società una prevalenza nella distribuzione delle linee? Perché vi sono state molte illusioni, da parte soprattutto di privati, sulle possibilità di esercizio della navigazione aerea civile in Italia. Si sono presentate a chiedere concessioni società le quali non avevano che qualche decina di milioni di capitale.

CINGOLANI. Una società si è presentata con sole 10.000 lire di capitale!

CEVOLOTTO. Basta pensare che la Società Italo-americana ha un miliardo di capitale, che è necessario e forse non basterà. Quando si presenta una Società con 1 milione o due di capitale, essa probabilmente ignora che oggi un aeroplano da trasporto per passeggeri costa 30 milioni, ed anche più. Naturalmente l’esercizio è costoso in proporzione.

Ora, si dovevano distribuire le linee in modo da dare la possibilità alle società esercenti di ottenere un reddito, perché noi proprio questo non volevamo: dare sussidi governativi; non volevamo, cioè, che si presentassero delle società che, dopo avere inizialmente accettato determinate condizioni di esercizio, di tariffe, di traffico, dopo pochi mesi di servizio si trovassero in condizioni di dover dire: «O sospendiamo il traffico o ci date i sussidi».

Naturalmente, si sono dovute concedere alla Società italo-americana determinate linee redditizie, perché la L.A.I. si assumeva anche le linee che sono sicuramente passive fin dal primo momento: e non si può pretendere che una Società assuma soltanto le linee passive.

D’altra parte, mi domando: perché tanto clamore, se il Ministero dell’aviazione concede le linee ad una società piuttosto che ad un’altra, e non si fa lo stesso rilievo al Ministero dei trasporti quando concede una linea di autopullman ad una società piuttosto che ad un’altra? Questa scelta viene fatta in base a criteri, studiati, in base alla potenzialità, alla possibilità di traffico, ecc. Il Ministero valuta la possibilità di concedere la linea ad una o a due società, e, se determina di concederla ad una soltanto, la sceglie secondo il criterio della società più forte, di quella che garantisce il miglior servizio ai passeggeri, ecc. Naturalmente la Società il cui capitale è in prevalenza nazionale sarà preferita.

Mi auguro che la Società «L’Airone», come la Teseo e la Transadriatica, possa entrale nel quadro generale dei trasporti aerei italiani, pur con limitate attribuzioni. La Transadriatica aveva all’inizio chiesto le linee Venezia-Ancona Pescara-Roma, come la Teseo aveva chiesto la Firenze-Roma e la Firenze-Bologna-Milano, cioè linee di raccordo più adatte a Società con potenzialità minore, linee con un minore sviluppo che possono essere gestite da Società piccole, le quali possono ottenere risultati ottimi completando il servizio delle grandi linee ed entrando così nel ciclo di questa navigazione aerea-civile che non è così facile e così rosea come molti credono e che non darà probabilmente, subito, i frutti che alcuni credono, se non sarà sorretta ed aiutata da tutte le buone volontà. Occorre ispirarsi a criteri modesti, ma realistici, tenendo conto che quello che si è fatto dal Governo lo si è fatto nell’interesse generale. Nessuno ha mai pensato di vendere allo straniero la navigazione aerea civile italiana, ma di potenziarla, perché siamo certi che essa rappresenta i trasporti del domani e che è necessaria per i nostri traffici; ma che, se non la fondiamo bene, potrebbe anche essere travolta dalla sfiducia del pubblico.

PRESIDENTE. L’onorevole Mastino Pietro ha chiesto di parlare. Ne ha facoltà.

MASTINO PIETRO. Io non ho detto e non ho neanche pensato che si sia voluta porre la nostra aviazione in mano straniera. Con questo, rispondo all’accenno conclusivo e, direi, di maggior rilievo, fatto dall’onorevole Cevolotto.

All’onorevole Cingolani dirò questo: egli ci ha parlato di una riunione tenuta a Roma al Ministero dell’aviazione; quella in cui egli, se male non ho capito, avrebbe fatto la parte di Giuliano l’apostata, e in cui si arrivò ad un accordo; quell’accordo, onorevoli colleghi, che è consacrato precisamente nella lettera a firma Cingolani, di cui l’egregio collega si è ricordato per caso, solo in ultimo.

In questa lettera io leggo:

«Con riferimento all’accordo per le rotte inter-italiane concluse in data 29 novembre fra codesta società (si parla della Società Airone) e altre imprese, si comunica che questo Ministero (quello retto dall’onorevole Cingolani), esaminato il programma di cotesta Società in correlazione con quello di altre imprese aspiranti alla concessione dell’esercizio (cioè la Società americana o italiana L.A.I.), riconosce la possibilità di affidare alla Società Airone la concessione delle seguenti linee: Cagliari-Palermo, Cagliari-Roma».

Oggi ho saputo – l’onorevole Cingolani lo sapeva da prima; certamente lo sapeva prima di quella riunione e prima che scrivesse questa lettera – che la Società «L’Airone» non avrebbe capitali sufficienti (ed in materia l’onorevole Cingolani non è aggiornato); oggi ho saputo che non si è ritenuto possibile che la stessa Società potesse reggere allo sforzo necessario per bene esercitare la linea aerea Cagliari-Elmas. L’onorevole Cingolani invece lo sapeva fin d’allora, ma, se lo sapeva fin da quel momento, perché scrivere la lettera? Ecco che non è, quindi, opportuna la frase pronunciata dal chiamato in causa onorevole Cevolotto, il quale ha detto: «Perché tanto clamore?». Il tanto clamore è in rapporto a due motivi ed anzitutto con la vostra presa di posizione, consacrata nella ripetuta lettera. Io dovevo e devo credere che abbiate dato gli affidamenti contenuti nella lettera, dopo avere con serietà esaminato la possibilità d’esercizio da parte della Società «L’Airone». Il tanto clamore è in rapporto con un altro motivo, al quale ha accennato l’onorevole Cingolani quando, bontà sua, ha riconosciuto a noi il diritto di aspirare a che capitali sardi esercitino le linee sarde.

Questo è uno dei motivi che ci fa insorgere, non per far clamore, ma per protestare contro un diritto che ci è stato negato.

CINGOLANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Onorevole Cingolani, devo avvertirla che è già superato il tempo destinato alle interrogazioni.

CINGOLANI. Vorrei dire poche parole. (Interruzione dei deputato Patrissi).

PRESIDENTE. Comunque ha facoltà di parlare in ordine alle questioni poste dall’onorevole Mastino.

CINGOLANI. Mi richiamo appunto alla frase della lettera incriminata: «riconosce la possibilità di concedere». Non faccio l’avvocato, né voglio spaccare un capello in quattro; ma la consuetudine da me trovata al Ministero è quella di star bene attenti nelle frasi scritte. Non dice la lettera citata dell’onorevole Mastino che a «L’Airone» è concessa, ecc.; ma che si «riconosce la possibilità di concedere». Questa possibilità non c’è stata più dal momento che la L.A.I. ha dichiarato che o le si dava la Roma-Cagliari, come la Roma-Milano e la Roma-Palermo, o altrimenti si ritirava dalla società il capitale americano.

È bene esser chiari: questo è stata la vera ragione per cui non si è potuto mantenere il programma di concessioni alle società minori.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro della difesa.

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Non credo di dovere aggiungere alcunché alle dichiarazioni fatte dai miei predecessori. Per dovere di lealtà, debbo informare l’onorevole Mastino e gli altri interroganti che, sulla ripartizione delle linee aeree in esercizio alle varie società fu data già comunicazione ufficiale alle società stesse; per modo che, qualunque possa essere l’ulteriore deliberazione di questo Governo, non sarà facile, per il decoro che dobbiamo all’autorità del Governo stesso nella sua continuità, revocare deliberazioni già prese e comunicate alle parti interessate.

Comunque, onorevole Mastino, l’aviazione civile in Italia ha un’enorme importanza, perché questo nostro Paese – ponte fra l’oriente e l’occidente – è destinato ad essere percorso da tutte le grandi linee intercontinentali; ed è naturale conseguenza che, mentre le grandi linee devono essere affidate alle grandi imprese, con intervento di capitale misto, alle società nazionali siano date invece le linee minori, le linee interne, nelle quali siamo a buon punto di trasformazione. Occorre però che queste attrezzature siano possenti per dare al pubblico la maggiore tranquillità.

A tale proposito non posso non ricordare la recente sciagura che ha colpito l’ala italiana. Nella giornata di sabato hanno perduto la vita quattro dei nostri migliori piloti dell’arma navigante. Rendo omaggio alla memoria (L’Assemblea sorge in piedi) del tenente pilota Mario Villani, capo equipaggio; del maresciallo pilota Pressenda Renato, secondo pilota; del sergente motorista Aricò Michele, motorista di bordo; del sergente R.T. Cesca Giovanni, marconista di bordo; del sergente montatore Giacomelli Antonio, montatore di bordo; del tenente colonnello pilota Dentice d’Accadia Luigi, navigatore, una delle più belle figure dell’ala italiana.

Rendo omaggio ai passeggeri italiani e stranieri. Mi inchino alla memoria di S.A.R. Amina Anem Barontz, che già soggiornò in Italia e ritornava al suo Paese, al Cairo. Rendo omaggio a tutti i suoi compagni: alla signora Gian Caron dama di compagnia della principessa; al signor Sahab Almas Bey; alla signora Martinelli Yvette, cittadina francese; al signor Menelao Alfredo; all’ingegner Almagià Roberto, alla signora Ambron Almagià Gilda; alla signora Albina Hecox; al signor Saint-Bancat Alberto, giornalista francese; al signor Philip Prescor Marion, commerciante americano; al capitano Garfagnini Edoardo del servizio corrieri aerei militari.

Rendendo omaggio alla loro memoria, non posso non ricordare che l’ala italiana registra, soltanto oggi, a partire dal 1945, il suo primo infortunio, in quanto che il riepilogo dell’attività del servizio corrieri aerei militari, dal 1° agosto 1945 al 4 febbraio 1947, dà queste risultanze: passeggeri trasportati 62.259; posta e materiale trasportato 7.673; velivoli impiegati 5.136; ore di volo compiute 9.953; chilometri percorsi 2.642.427; incidenti: nemmeno uno.

L’ala italiana esce onorata da questa prova. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. È così trascorso il tempo assegnato alle interrogazioni.

Svolgimento di interpellanze.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Svolgimento di interpellanze.

La prima è quella dell’onorevole Canevari ai Ministri dei lavori pubblici, e del lavoro e previdenza sociale, «per sapere: 1°) come sia stato possibile che una società, con denominazione di «Consorzio Ricostruente» e mascherata come consorzio di cooperative di lavori, con sede in Roma, presieduta da un impresario e con la partecipazione di funzionari dell’Ufficio provinciale del lavoro, abbia potuto ottenere dallo Stato, mediante cottimi fiduciari, per lire 99.735.500 di lavori, e abbia pure ottenuto per circa lire 300 milioni di lavori a regìa; 2°) quali provvedimenti si intendono adottare con la maggiore urgenza perché siano colpiti con la giusta severità i colpevoli di simile truffa, e siano riparati i danni in tal modo causati allo Stato».

L’onorevole Canevari ha facoltà di svolgerla.

CANEVARI. Sarò brevissimo nello svolgimento di questa interpellanza, perché non intendo trarne argomenti per fare critiche inutili.

Ho ritenuto doveroso insistere perché l’interpellanza fosse inscritta all’ordine del giorno di oggi, trattandosi di un argomento che merita la vostra attenzione e quella del Governo.

Con rogito notaio Parone, in data 20 settembre 1945, si è costituita, con sede in Roma, per iniziativa dell’ufficio provinciale del lavoro di Roma, una società cooperativa a responsabilità limitata sotto il nome di «Consorzio Ricostruente», con il capitale sottoscritto di lire 30.000, versato 7.000; sottoscritte, ma pare non versate, 6.000 come tassa di ammissione. Soci di questo cosiddetto Consorzio erano sei cooperative, e per dimostrarvi l’importanza delle stesse vi cito i dati desunti non soltanto dai rispettivi atti di costituzione, ma accertati sul registro prefettizio: Mastri battitori, manuali e selciatori, costituitasi nel luglio 1944 con 7 soci e capitale sottoscritto di lire 4.000; Società Aquila, costituitasi il 15 dicembre 1944, con 7 soci e con un capitale sottoscritto di lire 12.000; Esponente, costituitasi il 31 gennaio 1945 con 14 soci e capitale sottoscritto 241.000; Voluntas, costituitasi nell’ottobre del 1944 con 12 soci e capitale sottoscritto lire 1500; Casa Fiorita, costituitasi il 1° luglio 1943 con 7 soci e con capitale sottoscritto di lire 7.000; Italia risorgente, costituitasi il 27 agosto 1944 con 10 soci e capitale sottoscritto di lire 3.000.

È da tener presente come nessuna di queste società aderenti al presunto consorzio, tranne la prima, abbia mai ottenuto il riconoscimento e la relativa iscrizione sul registro prefettizio, cose ritenute dalla legge indispensabili perché le cooperative di produzione e lavoro possano essere ammesse ai pubblici appalti e all’esecuzione di opere pubbliche.

Il Consorzio Ricostruente era rappresentato dal Presidente, ingegnere Agostino Recchi, imprenditore, ed amministrato da 4 ingegneri, da un architetto, da nessun operaio. Anche questo Consorzio era nella condizione di non poter essere ammesso ad assumere pubblici appalti di esecuzione di opere pubbliche. Infatti, non era una cooperativa, e non era costituito esclusivamente da operai, ma da società cooperative, le quali, a loro volta, non avevano il diritto di essere ammesse ai pubblici appalti, né la possibilità di essere invitate ad assumere pubblici appalti in opere pubbliche. Non era un consorzio legalmente costituito, in quanto è noto a tutti voi, egregi colleghi, che tale materia è regolata dalla legge 25 giugno 1909, n. 422, e dal regolamento 12 febbraio 1911, n. 278, secondo i quali, i consorzi di cooperative di produzione e di lavoro, per essere considerati tali dalla legge, devono essere eretti in ente morale con un decreto presidenziale emesso su proposta del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, previo concerto con i Ministeri interessati.

La procedura per ottenere il decreto presidenziale è abbastanza laboriosa e le indagini che la Direzione generale della cooperazione, funzionante presso il Ministero del lavoro è chiamata a fare, si presume (e da noi cooperatori è desiderato) che siano sempre rigorose. Prima di emettere il decreto, il Ministero del lavoro deve accertare che le cooperative aderenti siano legalmente costituite a norma della relativa legge, che siano iscritte sul relativo registro prefettizio, che abbiano eseguito lavori e ne abbiano dato prova, che i lavori indicati nella pratica relativa siano stati regolarmente collaudati; onde si presume che nella richiesta che queste cooperative fanno per costituirsi in consorzio, sia intesa la possibilità che esse possano mettere insieme e riunire le loro forze, le loro possibilità, i loro mezzi, la loro esperienza, per affrontare la soluzione di lavori di maggiore mole.

Non era questo il caso del Consorzio Ricostruente, il quale non aveva a suo lato nessuna cooperativa che fosse in questa posizione. Il Consorzio, che era una semplice società costituitasi presso il notaio, non aveva ottenuto il riconoscimento di legge, non era stato eretto in ente morale, non aveva nessuna delle qualità per potere aspirare a conseguire, da parte dello Stato e degli Enti pubblici, il riconoscimento, e non era quindi nella condizione di dar prova della sua serietà e delle sue possibilità.

Ebbene, il Consorzio Ricostruente, che non avrebbe potuto avere né richiedere l’appalto di un soldo di lavori, neppure come cooperativa – incredibile, ma vero – ha potuto avere a trattativa privata, una serie di lavori, iniziati il 15 dicembre 1945, con contratti a cottimo fiduciario per lire 5,200.000, usando delle disposizioni di legge che consentono allo Stato e agli enti pubblici di affidare, con cottimi fiduciari, a trattative o licitazione privata, lavori alle cooperative fino all’importo di 5 milioni o ai relativi consorzi fino all’importo di 20 milioni.

Questo pseudo consorzio, presieduto da un imprenditore il quale, fra l’altro, non era neppure socio di cooperative, ha potuto ottenere, sempre a trattativa privata, contratti per i seguenti importi: 5 milioni e 200 mila, 4 milioni e 685 mila (4 marzo 1946); 5 milioni e 636 mila (aprile 1946), 3 milioni e 246 mila; e successivamente – dal 3 maggio al 30 settembre 1946 – 9 milioni e 985 mila, 9 milioni e 749 mila, 9 milioni e 796 mila, 9 milioni e 740 mila, 9 milioni e 730 mila, 9 milioni e 726 mila, 9 milioni e 733 mila; per un importo totale di 87.735.500 lire. E tutto questo per la esecuzione di lavori di scavo di terreni, di riempimento di buche, al Viale Marco Paolo, ricostruzioni nelle adiacenze del cavalcavia ed al piazzale della ferrovia ostiense.

Aggiungendo a questa somma 12 milioni circa di lavori eseguiti alle Sette Chiese, si arriva ad un importo di 99.735.500 lire.

Ma non basta; perché sembra che lo pseudo Consorzio fosse in procinto di ottenere anche altri lavori a regìa per un importo di circa 300 milioni. Ma la cuccagna l’ha fatta finire l’onorevole D’Aragona, Ministro del lavoro.

Il Ministero del lavoro si è trovato nella necessità di svolgere indagini sul funzionamento dell’Ufficio provinciale del lavoro in Roma; il che ha portato ad estenderle pure al funzionamento dello pseudo Consorzio.

Sono risultati accertati, prima di tutto, i fatti da me denunziati: cioè la illegalità del Consorzio e la illegalità ed illiceità dei contratti assunti a tutto danno dello Stato; senza dire del danno morale, superiore a quello economico, arrecato alla cooperazione sana.

Tale Consorzio non aveva, inoltre, i libri in regola né la minima parvenza di contabilità. Il presidente, come ho detto, non era neppure socio d’una delle cooperative aderenti. Nei lavori erano stati occupati in media circa 800 operai (per 9 mesi circa) di cui appena una diecina apparteneva alle cooperative aderenti.

Ed il presidente non si è vergognato di dichiarare quanto sopra, a giustificazione – secondo lui – del ricorso fatto contro il provvedimento adottato dal Ministero del lavoro.

È risultato che il collegio sindacale non aveva mai funzionato; e di fronte a tale gravissima circostanza, il Ministro del lavoro nominò commissario il commendatore Paquale Gargiulo.

Senonché, onorevoli colleghi, questo commissario non ha potuto ancora aver nulla in consegna dal Consorzio; e quindi non ha potuto esplicare il suo mandato. Perché, vedete un po’, il presidente impresario ingegnere Recchi, mentre si svolgeva l’inchiesta da parte del Ministero del lavoro, ha creduto di fare il furbo. Segretamente, convocando i rappresentanti di queste cooperative, portandoli davanti al notaio, e servendosi delle deliberazioni dei rispettivi consigli di amministrazione (deliberazioni già usate un anno prima per la costituzione del primo atto di quella società che doveva figurate come un consorzio legalmente costituito), ha fatto dichiarare che un anno prima si erano sbagliati a costituire quella prima società: avevano sbagliato a chiamarla «Consorzio Ricostruente, Società cooperativa», mentre doveva essere e intendevano di costituire una semplice società a capitale e responsabilità limitata.

Onorevoli colleghi, altri dati interessanti mi risultano da quel verbale; non mi risultano dalla inchiesta fatta dal Ministro del lavoro, perché nessuna inchiesta esso ha potuto fare sulla situazione finanziaria, in quanto i libri non erano in regola, e non fu possibile accertare alcuna attendibilità di amministrazione.

Il presidente impresario Recchi ha fatto questa esposizione:

Situazione patrimoniale dell’Ente: Attivo, cassa 1.900.000; debitori per crediti verso lo Stato 13.586.000; impianti 1.000; attività 15.487.649. Passivo, capitale sociale 35.000.000; creditori 8.077.000. Quindi, saldo attivo (badate, dichiarato dal presidente, e credo che se lo ha denunziato il presidente, le attività non potranno essere minori, ma, se mai, maggiori) 7.375.182.

Voi dovete tener presente che le cooperative, quando si sciolgono, non possono trasformarsi in altro modo che non rientri nel campo della cooperazione, non possono modificare la loro fisionomia e le loro finalità. Quando si sciolgono (e qui sarebbe il caso del Consorzio Ricostruente, il quale dovrebbe essere ritenuto sciolto come cooperativa e non ricostituito sotto altra forma) il patrimonio netto deve essere devoluto al fisco, il quale deve destinare il patrimonio stesso a scopi mutualistici o di pubblica utilità. Con questa trasformazione, noi vediamo il tentativo di sottrarre alla pubblica utilità l’utile netto di oltre 7 milioni che in nove mesi si sono illecitamente costituiti, con lavori illecitamente ottenuti dallo Stato.

Onorevoli colleghi, tali sono i fatti e tale è la situazione che si è creata in seguito all’intervento del Ministero del lavoro; dal che risulta certo:

Primo, che l’Ufficio provinciale del lavoro di Roma ha favorito l’istituzione di un finto consorzio di cooperative di lavoro il quale, con 7.000 lire di capitale versato, non amministrato da alcun operaio, presieduto invece da un imprenditore, ha potuto ottenere per circa 100 milioni di lavoro a trattativa privata dallo Stato, impiegando in media costantemente 800 operai, di cui in media soltanto 10 (come risulta da affermazione fatta dallo stesso presidente) appartenenti alle cosiddette cooperative di lavoro aderenti.

Secondo, che sui medesimi lavori si sono ricavati diversi milioni di lire di utile netto.

Terzo, che, per intervento del Ministero del lavoro ed in seguito ad una inchiesta fatta sull’Ufficio provinciale del lavoro di Roma, si è potuti giungere in tempo per impedire che allo stesso Consorzio fossero affidati altri lavori a regìa per un importo ingentissimo.

Quarto, che i responsabili di ciò hanno cercato – e finora sono riusciti – ad impedire che sul patrimonio netto mettesse le mani lo Stato, perché fosse devoluto a scopi mutualistici o di pubblica utilità. Anzi, vi dirò in proposito che, in occasione di questa trasformazione, il presidente ha potuto ottenere l’autorizzazione a prelevare per suo compenso personale la somma di lire centomila al mese e i due direttori la somma di lire sessanta mila al mese per ciascuno, a far tempo dal novembre 1945.

Quinto, che si tenta in tal modo di sottrarre il fondo di oltre settanta milioni netti, agli scopi di beneficenza e di pubblica utilità, cui sarebbe destinato l’attivo netto, secondo la legge e secondo lo statuto sociale.

Ed ora ci sembra che sia lecito di sentire dal Ministro del lavoro, più che dal Ministro dei lavori pubblici, che cosa intenda di fare: primo, contro le persone e contro i funzionari responsabili di quanto io ho qui denunziato; secondo, quali provvedimenti si intendono adottare perché il commissario nominato dal Ministro del lavoro sia nella possibilità di trovare una difesa nei confronti dei rappresentanti di questo pseudo Consorzio che hanno fatto opposizione contro la sua nomina e contro l’azione ch’egli dovrebbe svolgere nell’interesse dello Stato; e quali provvedimenti si intendono adottare perché lo Stato sia presente nella liquidazione di questa dolorosa ed antipatica faccenda, nell’interesse del fisco e, particolarmente, nella difesa della sana cooperazione.

Onorevoli colleghi, la cooperazione è da noi considerata come una cosa molto seria. La vostra Commissione plenaria ha proposto, nella Carta costituzionale, un articolo nel quale è detto che: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione, ne favorisce l’incremento e la sottopone a vigilanza, stabilita per legge, per assicurarne i caratteri e le finalità». Noi cooperatori desideriamo non soltanto che la cooperazione ottenga dallo Stato la possibilità di svolgere in pieno la sua azione sociale; ma desideriamo e reclamiamo che la cooperazione sia vigilata, appunto in relazione a questa sua funzione sociale. (Interruzione alla estrema sinistra). Non approverete questa proposta? Avrete torto, perché l’unico modo di difendere la cooperazione sana è quello di sottoporre tutta la cooperazione al controllo dello Stato. Noi vogliamo la vigilanza.

L’altro giorno ho sentito con molto piacere da quei banchi esprimere una lode per il Ministro onorevole Romita, perché non si è accontentato, come Ministro dei lavori pubblici, del funzionamento delle commissioni stabilite dalla legge sulla cooperazione, quelle provinciali cosiddette di vigilanza che esistono presso tutte le prefetture, ma ha creato delle commissioni che funzionano presso i rispettivi uffici del Genio civile; le quali sono chiamate a vigilare sul funzionamento delle cooperative di lavoro ed a dare il loro parere all’ingegnere capo del Genio civile in occasione di trattative o di licitazioni private per affidare a cooperative, regolarmente iscritte, l’esecuzione di opere pubbliche.

L’onorevole Romita mi darà atto che questo provvedimento gli è stato richiesto da noi cooperatori; noi abbiamo richiesto che, non essendo sufficiente il funzionamento delle commissioni di vigilanza provinciale, così come sono state stabilite, ed essendo in facoltà e sotto la responsabilità dei rispettivi funzionari del Genio civile di dare o non dare lavori alle cooperative, in relazione a quello che è consentito dalla legge, fosse esercitata una più severa vigilanza sulle cooperative di lavoro prima che ad esse venissero affidati lavori.

Noi desideriamo la vigilanza sulle cooperative, perché la cooperazione, nella quale crediamo fermamente e alla quale dedichiamo, anche in questi giorni, la migliore e più fervorosa parte delle nostre attività quotidiane, sia mantenuta al di sopra di tutti i sospetti e possa svolgere, nella piena fiducia del pubblico, la sua nobile funzione nell’interesse della generalità e per la elevazione delle classi lavoratrici. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Ne ha facoltà.

ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. L’interpellanza dell’onorevole Canevari consta sostanzialmente di tre punti fondamentali: uno relativo alla esposizione dei fatti, uno riguardante i danni causati allo Stato ed uno infine che investe una questione morale. Risponderò brevemente a questi punti, riservandomi di tracciare più a fondo l’altro problema fondamentale dei lavori, se la Camera me lo consente.

I fatti esposti dall’onorevole Canevari sono esatti nella forma, e nella sostanza; non sono esatte tuttavia le conseguenze che ne vengono tratte.

Come avvenne il fatto? Anzitutto esso è avvenuto in un periodo in cui io non ero né al Ministero del lavoro né a quello dei lavori pubblici, o meglio ero al principio od alla fine di queste gestioni.

Il Provveditorato alle opere pubbliche di Roma, per far fronte alla situazione, alle assillanti richieste della Camera del lavoro, dell’Ufficio di collocamento, si trovò costretto a far eseguire i lavori a regìa, come dirò fra poco. Si è presentato un Consorzio che appariva legalmente costituito, sostenuto e appoggiato da funzionari dell’Ufficio provinciale del lavoro di Roma, funzionari che, per la posizione che rivestivano in quel settore, godevano la considerazione di molti; un Consorzio che – dicevano – aveva lo scopo di dare lavoro ai disoccupati, di creare delle vere cooperative, di creare delle scuole-cantiere; e il Genio civile, che doveva far fronte ai lavori per la disoccupazione, ha creduto pertanto opportuno di affidare a questo Consorzio un primo lotto di lavori a trattativa privata, come era suo diritto ed anche suo dovere. I funzionari dell’Ufficio provinciale del lavoro costituivano una garanzia per il Genio civile. Si è continuato così, di lavoro in lavoro, impiegando 800 operai.

Il Ministero del lavoro, nel corso di una ispezione compiuta presso l’Ufficio provinciale del lavoro di Roma, accertò resistenza di tale Consorzio, che, non avendo adempiuto alle formalità per una sua regolare costituzione, non aveva avuto alcun rapporto col predetto Ministero. Questo dispose allora una ispezione anche presso il Consorzio, ispezione che venne eseguita nell’ottobre scorso anno e che accertò varie e gravi irregolarità e condusse alla nomina di un commissario. Questi il 22 novembre venne al Ministero dei lavori pubblici – dove allora io ero – e comunicò i fatti.

Immediatamente ho disposto che quel Consorzio, quelle cooperative, non solo, ma anche i dirigenti del consorzio, fossero esclusi e cancellati dall’albo. Quindi il Ministero del lavoro, e per esso l’amico D’Aragona, ha compiuto il suo dovere, come pure il mio Ministero ha compiuto il proprio, perché il giorno stesso in cui ho avuto notizia dei fatti, ho escluso da ogni lavoro enti e persone che godevano di larga fama in Roma.

Non è vero, onorevole Canevari, ed è strano che lei vi insista, che si siano dati 300 milioni di lavori a regìa. Lei che mi è maestro, e non lo dico per fare un complimento, perché abbiamo lavorato insieme, sa che non si assegnano 300 milioni di lavori; è inconcepibile. Se le irregolarità non fossero state scoperte, il Consorzio avrebbe potuto ottenere altri lotti di lavori di 5, 6, al massimo 9 milioni di lavori ciascuno, come aveva avuto prima; l’affare di 300 milioni, per quante indagini si siano fatte, non risulta assolutamente.

Comunque, il Ministero dei lavori pubblici e quello del lavoro, insieme, immediatamente hanno stroncato ogni attività di quei signori.

Danno per lo Stato: danno morale molto, e ne parlerò dopo; materiale, poco, perché il Consorzio non si è avvalso dei privilegi fiscali che la legge concede alle cooperative; per due contratti di importo inferiore ai 5 milioni, per i quali il Consorzio ha ottenuto, senza averne titolo, la registrazione a tassa fissa, il danno che ha ricevuto l’Erario si può valutare – come risulta da una relazione del Ministero dei lavori pubblici – sulle 200 mila lire; mentre i fondi attualmente bloccati al Consorzio ascendono a circa 4.800.000 lire.

Ad ogni modo, come si sia determinata e verificata tale situazione, si potrà accertare con precisione solo dopo che il commissario governativo, già nominato, sarà stato immesso nelle sue funzioni.

Persone: ci sono tre persone autorevoli dell’Ufficio del lavoro. Non mi interessano gli impresari: questi sono cenci che volano. Quello che mi interessa sono i funzionari dell’Ufficio provinciale del lavoro che furono immediatamente messi a disposizione. Non si possono ancora prendere provvedimenti contro di loro per la stessa ragione che ha detto l’onorevole Canevari. Cosa è successo? Non possiamo commentare.

Può pensarci l’amico Gullo, se crede; quei signori hanno creduto di potere, ed hanno potuto effettivamente, trasformare il Consorzio in una società qualsiasi: hanno trovato un giudice di tribunale che ha omologato nel giro di 48 ore la trasformazione; al commissario non è rimasta che una cosa sola: appellarsi contro la decisione, onde poter essere immesso nelle proprie funzioni e indagare e vedere quali sono stati gli utili, devolverli a chi di dovere, e vedere quali altre eventuali responsabilità ci possono essere. Aspettiamo questa sentenza; quando verrà, se sarà favorevole – come oso sperare – il commissario entrerà in funzione, farà le sue indagini, determinerà le responsabilità e il Ministero prenderà i dovuti provvedimenti.

Quindi, da parte del Ministero dei lavori pubblici: esclusione di quelle persone, di quelle imprese, da ogni lavoro presente e forse anche futuro; da parte del Ministero del lavoro: allontanamento dei funzionari, che pure hanno rivendicato la loro posizione, sostenendo di aver agito in buona fede, in attesa dei provvedimenti che potranno essere definitivamente adottati dopo l’esito delle indagini del commissario.

Ma se non è vero dei 300 milioni, se non sono esatti i dati dei danni, il danno morale – ha ragione l’onorevole Canevari – è grave.

La legge sulla cooperazione, che spero di portare presto alla Costituente, dovrà impedire questi fatti, perché altrimenti avverrà sempre che quando una cooperativa o un consorzio di cooperative si trovano in cattive condizioni, si trasformano in società che la legge e il Ministero del lavoro non possono controllare. L’onorevole Canevari non può fare il torto al Ministero dei lavori pubblici, da me diretto allora e dopo, di sentire poco questo problema. L’onorevole Canevari sa che abbiamo lavorato tanti anni insieme nella cooperazione, e senza prendere stipendi, ventisette anni fa, perché credevamo e crediamo che la cooperazione sia un elemento fondamentale, per ragioni morali e materiali, della classe operaia, e un elemento utile allo Stato.

Questi concetti, onorevole Canevari, mi hanno ispirato nella mia politica dei lavori pubblici, e mi ispirano nella mia politica attuale del lavoro. Infatti, fin dal settembre 1945, al mio primo Ministero dei lavori pubblici, ho preso posizione a favore delle cooperative. Non dimentichiamo, però, onorevole Canevari, che noi veniamo dopo 25 anni di regime totalitario, quando non c’è nulla di attrezzato: le cooperative si improvvisano, i consorzi si improvvisano; e il Genio civile facilitava queste cooperative improvvisate.

Io speravo che l’onorevole Canevari dicesse ciò; ma siccome egli non l’ha detto, lo dico io: che, se a Roma si è verificato questo increscioso episodio, tuttavia in quasi tutte le parti d’Italia i migliori lavori e le migliori condizioni sono state fatte dalle cooperative di lavoro.

Qual era la base su cui, nel settembre del 1945, io invitavo il Genio civile a favorire le cooperative? Eccola: «Procedere all’appalto alle cooperative col metodo delle trattative private – escludevo quindi le imprese – o delle licitazioni private nell’ambito provinciale o comunale, sempreché si tratti di autentiche cooperative, che non servano a mascheramenti di privati speculatori; ogni possibile aiuto deve essere dato ad esse affinché possano affermarsi in questo periodo di ripresa o di inizio di cooperativismo».

Quindi, fin da allora si trattava di decidere se queste cooperative erano autentiche cooperative.

Ritornato un anno dopo ai lavori pubblici, il 19 ottobre – e questo l’onorevole Canevari lo ha detto – egli deve darmi atto che avevo già intuito il fatto. L’onorevole Canevari venne da me il 21 novembre; e io, quando mi venne a chiedere il controllo, gli feci vedere la mia circolare – che ho perfezionata in base ai suoi consigli – con la quale chiedevo il controllo, oltreché provinciale delle Camere del lavoro, della lega delle cooperative. Scrivevo infatti il 19 ottobre: «Le cooperative, i consorzi, ecc., che si presumono fittizi – e quindi prima che arrivasse la denuncia del lavoro – in quanto mascherino interessi privati di speculatori che vogliono assicurarsi i vantaggi accordati alle cooperative dalle leggi vigenti devono essere escluse assolutamente dalle trattative private; e ciò in attesa che una legge, attualmente in corso, detti norme più compiute e armoniche per determinare la moralità delle cooperative stesse. E poiché le cooperative, i consorzi, ecc. assumono trattative private… ecc. richiamo la rigida applicazione ecc… confermo, ecc.», e continuavo, sempre su questo tono, che dovevano essere aiutate le cooperative.

E il 19 novembre, ossia due giorni prima del nostro incontro, avevo appunto preparato una circolare, in cui dicevo: «Siccome mi risulta che in alcune provincie ci sono cooperative fittizie che mascherano privati interessi, ecc., dispongo che le Commissioni provinciali costituite in base alla legge del 1911 ecc. ecc.». Esaminavo la posizione delle singole cooperative e procedevo in conseguenza ecc. ecc. E continuavo che per agevolare il compito delle commissioni occorrevano due esperti: un rappresentante della Camera del lavoro ed un rappresentante dell’Associazione delle cooperative. Una circolare ancora più forte la feci il 30 novembre, in cui intimavo assolutamente il controllo di queste cooperative.

Come vede l’Assemblea è doloroso l’episodio dal lato morale, ma non ha conseguenze – almeno a quanto risulta attualmente – come dice l’onorevole Canevari, dal lato finanziario, perché, caso mai, il debito delle 200 mila lire, che queste cooperative hanno verso lo Stato, è garantito dallo sbloccamento dei 4.800.000 mila lire. Per avere ragione bisogna arrivare fino in fondo e scoprire ulteriori responsabilità.

L’Assemblea può essere dunque tranquilla, perché gli Uffici del lavoro ed il Ministero dei lavori pubblici sono concordi nel favorire le cooperative, ma concordi nel senso che esse siano formate da autentici lavoratori e siano fatte nell’interesse dello Stato e della classe operaia. La nuova legge avrà il merito di assicurare queste condizioni.

Siccome si parla di lavori a regìa, sarebbe opportuno che i due fenomeni fossero collegati.

Mi permetta il Presidente dell’Assemblea di divagare un momento per dire brevemente (in risposta anche all’onorevole Sullo, che l’altro giorno si è lamentato perché non gli ho risposto) di questo scandalo dei 300 milioni, di questo fenomeno dei lavori a regìa della città di Roma, e di chiarire le eventuali responsabilità.

Il lavoro a regìa non è un lavoro bandito, escluso dalle attività dello Stato. Molti enti pubblici lo usano, ed efficacemente: ad esempio, il Ministero delle ferrovie. Il lavoro a regìa permette di poter eseguire i lavori nelle migliori condizioni, quando la maestranza è veramente qualificata e quando le imprese esercitano lodevolmente la loro attività.

Che cosa si è verificato a Roma? Si è verificato che nel mese di maggio – ancora prima del mio primo Ministero – sono arrivati dei reduci, dei prigionieri, dei combattenti che avevano immediato bisogno di lavoro. Allora, il Genio civile ha incominciato i primi lavori a regìa. Io non riferirò sul risultato dell’inchiesta, perché devo discutere col Governo di questi dati; per quello che riguarda l’Assemblea, io fin d’allora, siccome mi ero persuaso che ci fossero 1600-1700 operai che lavoravano a regìa ed il cui andamento non poteva dare notevole risultato, cercai, appena si manifestò questo movimento, di stroncarlo. I rapporti dicono che il Genio civile non poteva ancora, o sosteneva che non poteva ancora, stroncare questo lavoro.

L’inconveniente grande è avvenuto quando incominciarono ad arrivare a Roma tutti i giorni migliaia di reduci, di soldati, di combattenti che per otto, nove anni non avevano mai lavorato e che adesso volevano vivere. Tutti i giorni il Genio civile dava lavoro a questi disgraziati, a questa gente che non voleva nemmeno il sussidio, per evitare disordini ed anche per evitare reati comuni. E la Camera del lavoro e l’Ufficio del lavoro tornavano sempre giustamente in materia. Io ero allora Ministro degli interni, finché il 17 luglio 1946 riassunsi il Ministero dei lavori pubblici. Avevamo allora 45-46 mila operai, parte a misura e parte a regìa. Con la regìa voi tutti sapete che si lavorava poco o niente. Questi operai a regìa venivano quindi ad inquinare anche i lavori a misura, perché era logico che gli operai a misura, vedendo i loro compagni a regìa che lavoravano poco, erano indotti a non lavorare.

Il 25 luglio, cioè otto giorni dopo che avevo assunto il Dicastero, pur non risultandomi nessuna responsabilità da parte di nessuno, cambiai di colpo il provveditore, il viceprovveditore e l’ingegnere capo con questa motivazione: Voi, dissi, siete involontariamente implicati nella regìa. Ho bisogno di tre nuovi funzionari che non abbiano questa corresponsabilità, e vi cambio.

E il 29 luglio, nell’insediare il nuovo provveditore, il nuovo viceprovveditore e il nuovo ingegnere capo, diedi ordini tassativi che fosse stroncata decisamente la regìa. Ma il problema non era facile. Mi accorsi dopo pochi giorni che la regìa continuava ad esistere e che non era eliminata. Me ne preoccupai subito e con circolare tassativa del 6 agosto scrivevo queste precise parole:

«Ai provveditori di tutta Italia. – Abbiasi peraltro tassativamente presente che non consento esecuzioni lavori non rispondenti effettive necessità ricostruzione economiche nazionali, né che si adottino sistemi a regìa».

In tutta Italia la regìa che si era verificata in alcune zone, era sparita con risultati favorevoli. L’8 agosto, e quindi prima ancora delle campagne giornalistiche, scrivevo al Ministero dell’interno, al Ministero del lavoro ed alla Confederazione invitandoli ad aiutarmi a vincere le difficoltà e chiedevo aiuto per indurre ed obbligare questi operai a fare le otto ore al giorno.

La battaglia non fu vinta, ed allora, il 3 settembre, presi un provveditore che veniva dall’Africa italiana (qui qualche giornale ha detto che avevo fatto ciò perché non mi fidavo dei miei funzionari; no, dei miei funzionari io mi fido, perché devo dire che, salvo rare eccezioni, i funzionari dei lavori pubblici fanno la fame, ma sono onesti); e non lo presi nel Ministero per non creare incompatibilità; e questi mi fece rilevare che la regìa continuava con tutte le conseguenze.

Il 3 settembre ebbe l’incarico, il 5 giugno mi diede la relazione e il 7 settembre io scrivevo al provveditore di Roma e delle altre regioni: «Malgrado tassative disposizioni da me impartite e malgrado la mia circolare telegrafica del 6 agosto e malgrado istruzioni verbali, risulta ancora l’esecuzione di lavori a regìa. Poiché non posso ulteriormente tollerare che si prolunghi in tale andamento di lavoro, richiamo alla rigorosa osservanza delle mie istruzioni ed ordino che si provveda immediatamente, senza indugio, a trasformare i cantieri a regìa in cantieri a misura».

Persuaso che il secondo provveditore non avesse l’energia necessaria per trasformare la regìa, anche perché ciò non era facile – ed i fatti del Viminale lo hanno dimostrato e i fatti attuali lo dimostrano – cambiai il detto provveditore, mettendone uno veramente energico, per trasformare questa regìa. Ed ai primi d’ottobre, finalmente il piano di trasformare la regìa a misura si stava attuando. Il 7 ottobre convocai nel mio ufficio i vari funzionari e diedi ordini tassativi per trasformare gradualmente la regìa a misura.

Poi è successo quel che è successo, perché era fallito il sistema, e degli ingegneri ed un competente come l’onorevole Canevari lo possono comprovare: la trasformazione dei cantieri da regìa in misura si era dimostrata fallace, perché lo stesso operaio che prima non lavorava a regìa, continuava a lavorare nello stesso modo, quando si trattava di lavoro a misura.

Allora, come dissi, il 7 ottobre diedi ordini precisi per la trasformazione graduale di questi cantieri da regìa a misura, per cui prima si licenziavano gli operai dal cantiere a regìa e nel termine di sei giorni venivano riassunti dagli altri cantieri a misura.

L’inchiesta della polizia sui fatti del Viminale ha stabilito che si è equivocato sulla parola licenziamento. È successo quello che è successo. Gli avvenimenti del 9 ottobre sono stati dolorosi, essi si sono verificati malgrado che, prima ancora di partire per Palermo per accompagnare il Presidente della Repubblica, dessi disposizione di non licenziare nessuno. Tali avvenimenti hanno disturbato questa trasformazione, creando il danno che voi tutti sapete. Il 9 ottobre la situazione si è aggravata, perché purtroppo la parte sana, la maggioranza dei lavoratori romani, che voleva aiutarmi in questa trasformazione, si è trovata menomata dalla parte minore, da una piccola percentuale di operai che non voleva saperne di trasformazione e purtroppo la stampa non ci ha aiutato; ed ancora adesso che si sta trasformando la regìa in misura, si legge sui giornali l’invito di non licenziare gli operai.

Ebbene, io dico chiaro e tondo, anche a costo di farmi disapprovare da voi dell’estrema sinistra, che ho dato ordine che gli operai che non vogliono lavorare debbono essere licenziati. Gli operai hanno diritto di lavorare, ma devono lavorare; e come ho dato ordine di punire tutte le imprese che hanno favorito la regìa (c’è un elenco di imprese che saranno cancellate dall’Albo), come ho dato ordine, e lo ha ripetuto il mio successore, di licenziare determinati funzionavi ed ingegneri che non si sono comportati con l’energia e la scrupolosità necessarie, così io dico che la regìa si trasformi in misura. Ho detto al Genio civile di continuare imperterrito nel suo lavoro; gli operai devono effettivamente lavorare. E le imprese che non attuano la trasformazione devono essere radiate dal l’Albo dei costruttori e denunciate all’Intendenza di finanza per i super guadagni.

Però la trasformazione non poteva essere attuata con la bacchetta magica. Il Genio civile, in poco tempo, ha preparato circa 250 nuovi progetti; e per attuare gradualmente la trasformazione da regìa a misura si spostavano piccoli gruppi di operai.

Questo lavoro si poteva cominciare il 20 dicembre. Ma eravamo alla vigilia delle feste e temevamo altri disordini. Devo dire che l’amico Corsi mi ha aiutato in modo lodevole. Abbiamo disposto delle ricerche all’anagrafe per accertare la posizione degli operai e per conoscere quanti non fossero di Roma. Siamo riusciti ad obbligare gli operai a stare nei cantieri ed a rispettare l’orario delle otto ore.

La battaglia doveva iniziarsi l’8 o il 9 di gennaio. Ma, dato che il Presidente del Consiglio si trovava in quel periodo in America e temevo che eventuali disordini a Roma avrebbero potuto impressionare l’opinione pubblica e disturbare l’azione che il Presidente stava svolgendo, attesi il suo ritorno. Subito dopo l’arrivo del Presidente del Consiglio, il giorno stesso convocai i funzionari del Genio civile ed immediatamente iniziai l’azione per debellare la «regia». Se non ci fossero state le piogge di questi giorni, il sistema della regìa si sarebbe potuto considerare finito completamente; ma si può dire virtualmente finito, sol che il Governo e la stampa aiutino il Ministero.

Intanto, i 25 mila operai sono meno che dimezzati; per i 21 mila operai a regìa, ho creato nuovi lavori a misura per 22 mila, con un piano graduale di appalto che ho qui sotto gli occhi, il cui rinvio di qualche giorno devesi alle piogge.

Come Ministro – e lo dico come cittadino onorato della Repubblica – ho bloccato tutte le energie, minacciando anche con la forza armata. Quella della «regìa» è stata la battaglia più dura.

Lavori utili o improduttivi. Qui non sono d’accordo con molti oratori.

Intanto, c’è poco da discutere. Questi operai che hanno fatto dieci anni di servizio militare in Etiopia, in Albania, in Spagna, in guerra, cosa potevano fare? O li lasciavamo andare per le strade, e purtroppo c’era il pericolo che commettessero dei reati, o li impiegavamo in questi lavori per poterli a poco a poco, come ora avviene, portare ad un utile rendimento. Non dimentichiamo che la gran forza d’Italia è il lavoro manuale e il lavoro intellettuale.

Abbiamo istituito i cantieri scuola per gli operai. E ho il piacere di dire, coi documenti alla mano, che oggi molti cantieri di Roma, dove prima si facevano soltanto 0,30 oppure 0,60 metri cubi al giorno, oggi fanno 4 o 5 o 6 metri cubi al giorno.

Non tutto è sanato, ma c’è una parabola che sale rapidamente, sicché fra non molto a Roma, come già è avvenuto nelle Puglie e anche a Torino, la maestranza renderà come rende altrove.

Ma lavori utili o lavori improduttivi? Movimento di terra: erano operai che non sapevano far altro. Mi assumo la completa responsabilità di questi lavori non predisposti da me, ma studiati dal Genio civile. Del resto non li ho inventati io. Se noi avessimo fatto lavori di opera d’arte, come ho tentato di fare, ci saremmo trovati nella condizione di avere mancanza di operai qualificati e di materie prime. Perché questa è la tragedia: a Roma ci sono 65 mila operai disoccupati; se invece fossero 70 mila, di cui 5 mila qualificati, noi avremmo risolto il problema della disoccupazione di Roma, perché i 5 mila qualificati renderebbero possibile il lavoro dei non qualificati. E si potrebbero costruire case con maggiore rapidità.

Ecco un esempio tipico: quello dei lavori del Tevere, e mi dispiace che non ci sia l’onorevole Nobile che ha fatto una critica cortese al riguardo. Se non li avessimo fatti pulendo, allargando la sezione, creando degli argini, i dolori che le piogge più che eccezionali hanno dato in questi giorni sarebbero stati gravissimi, incalcolabili sarebbero stati i danni. E se il mio successore continuerà questa politica dei lavori del Tevere e farà, se lo riterrà opportuno, l’impianto idroelettrico di Castelgiubileo, con relativo invaso, da me predisposto, io posso dire che noi avremo fatto in modo – e parlo da tecnico – che le inondazioni di Roma non ci saranno mai più per l’avvenire. Ed è strano che i nostri predecessori non abbiano mai pensato a sistemare il Tevere così a valle come a monte e a preparare il progetto di Castelgiubileo, che permetterà di regolare le piene. Se ciò si farà, noi verremo a garantire che Roma non sarà più allagata, e non si verificheranno più gli immensi danni che si sono verificati ora.

Si capisce che se si muove la terra, che se le strade vanno sistemate, si determina il fango. Ma qui c’è un altro inconveniente. Tutti i colleghi che girano per l’Italia sanno che quasi tutti i paesi hanno le strade di circonvallazione: soltanto Roma non le ha, e dobbiamo vedere gli autotreni passare nel centro della città recando grave danno al traffico. Ma entrate a Torino, a Milano: vi sono strade di circonvallazione larghe 30-40 metri; si arriva ad un piazzale e di là partono sei, sette strade per il centro. Soltanto a Roma non è così.

Io mi vanto dunque di aver preparato, di aver predisposto questo importante movimento di terra. È un problema fondamentale della vita economica. Così, le altre strade: perché non ci sono le strade? Perché il Comune di Roma si è sempre ridotto a costruire le case e poi a fare le strade; per modo che, noi oggi, cari amici, abbiamo anticipato. Tanto che il nuovo Comune non ha fatto altro che sanzionare, nel suo piano regolatore, queste strade che noi abbiamo aperte. Mi permetterete un confronto: e non lo faccio con la mia persona, perché, per carità! sarebbe ridicolo.

Cavour, nel 1849, trovò il Piemonte disastrato, rovinato. Ebbene, egli rifece le strade, quelle strade meravigliose fatte da Cavour, che era un grande ingegnere, non con tutti i passaggi a livello che ci hanno dati i Ministri delle ferrovie italiane, ma la prima strada ferroviaria a doppio binario – la Torino-Genova – da lui voluta senza un passaggio raso, cioè a livello. Poiché la maldicenza vi era anche allora, sorse la diceria che Cavour faceva quelle strade per favorire amici e parenti: e invece faceva la salvezza del Piemonte. Simili lavori si fanno quando c’è la disoccupazione. Diceva bene l’onorevole Tremelloni, che nel 1950 sarà sanato il bilancio economico del Paese e non ci saranno più disoccupati. E perciò questi lavori si fanno oggi che c’è la disoccupazione. Io spero che il mio successore continui in quest’opera.

E le case? voi dite. Ma io ho dato tre miliardi per le case e ho dovuto diffidare gli stessi dirigenti delle case popolari e dell’Incis che, se non facevano rapidamente, li toglievo dalle rispettive cariche. Ma mancano gli operai, mancano le materie prime; ed allora, onorevole Nobile, questi lavori non sono lavori improduttivi; possono essere, caso mai, lavori intempestivi, che daranno imbarazzo al mio successore, perché adesso queste strade bisogna sistemarle, asfaltarle. Si farà poco per volta, ci penseranno i cittadini romani, ci penserà il Governo, e penserà a sistemare la città di Roma nelle vere condizioni di sviluppo economico e produttivo di cui abbisogna. Quindi, non parliamo di lavori improduttivi, di scandali, di regìe, di imprese che hanno mancato. Ormai posso dire che queste imprese saranno torchiate inesorabilmente e che quindi ripeteremo quello che fu tolto; ma i lavori furono fatti e i lavori si faranno. L’unica cosa da chiedere a voi e alla stampa è di aiutare il Governo in quest’opera. Il Genio civile vuol licenziare; le cooperative vogliono licenziare. Io ripeto la frase dell’onorevole Ministro dell’interno: noi non licenziamo gli operai che lavorano; licenziamo quelli che non vogliono lavorare.

Mi dispiace che non sia presente l’onorevole Finocchiaro Aprile. Noi non abbiamo introdotto nessuna impresa nel Ministero dei lavori pubblici. Anzi, se io ho commesso un errore, è quello di non aver introdotto quelle imprese nel Ministero dei lavori pubblici. Ho cercato di fare, ho convocato le imprese a venire presso di noi perché mi aiutassero in questa battaglia, per eliminare quei costruttori che non sono produttori, ma sono degli affaristi. Mi sono trovato abbandonato, perché queste imprese minacciano di andare all’estero.

Io dico che l’Italia si salva solo col lavoro; non ha materie prime, ma ha cervello da vendere. I nostri operai, come mi diceva il presidente della Fiat, Valletta, pochi giorni or sono, sono i migliori del mondo; a Torino il loro rendimento è arrivato al 115 per cento. Anche a Roma, dove gli operai hanno intelligenza ed onestà, si deve arrivare a questo rendimento. Mi auguro che il mio successore abbia tutto il vostro aiuto per il conseguimento di questo nobile scopo, che in questo caso si compendia sul programma da me tracciato al Provveditorato delle opere pubbliche e cioè:

  1. a) eliminazione della regìa, oramai virtualmente finita;
  2. b) aumento del rendimento degli operai, oramai in corso, e notevole;
  3. c) conseguente riduzione dei prezzi di appalto, ossia del costo delle opere.

Ma di tutto ciò calcolo di avere occasione per parlarne o per scriverne pubblicando i dati relativi, da cui risulterà chiaro quanto il Ministro dei lavori pubblici ha fatto, e ciò dico a suo onore. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Canevari ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CANEVARI. Io ritengo che l’onorevole Romita mi debba esser grato per questa interpellanza che gli ha dato modo di esporre tante belle cose, di esporre addirittura un programma di Governo per i lavori pubblici, particolarmente nella Capitale; e credo che questo programma potrà esser preso in seria considerazione anche dal suo successore.

È vero quanto ha detto l’onorevole Romita: la trasformazione di quella società, trasformazione ideata per salvare l’utile che è stato accaparrato in seguito a lavori ottenuti illecitamente dallo Stato, è stata omologata dal tribunale di Roma con una diligenza ed una premura sorprendenti. Basti pensare che il 21 ottobre 1946, durante l’inchiesta promossa dal Ministero del lavoro, veniva steso l’atto da parte del notaio ed il 25 dello stesso mese il tribunale di Roma omologava la trasformazione. Noi abbiamo delle cooperative che attendono da mesi l’omologazione degli atti di costituzione, mentre in tre giorni si è ottenuta questa omologazione da parte del tribunale, che ha messo in difficoltà lo stesso Ministero del lavoro per il provvedimento che aveva adottato per salvare un patrimonio nell’interesse generale.

Prendo atto dell’affidamento e dell’impegno assunto dal Ministro Romita che il commissario sarà assistito dallo Stato, legalmente, perché possa esplicare in pieno il suo mandato.

I colleghi riconosceranno che io ho svolto l’interpellanza, non per fare del clamore intorno a questo disgraziato episodio, non per fare delle critiche acerbe e meno ancora per fare delle critiche personali. Riconosco, come sempre ho riconosciuto, nell’onorevole Romita un amico della cooperazione e ne ho avuta la prova non appena egli è stato assunto al Ministero dei lavori pubblici. Però lo stesso onorevole Romita dovrà riconoscere che era doveroso da parte mia che me ne occupassi, particolarmente per la posizione mia nel campo della cooperazione, davanti alle critiche che in relazione a questo fatto si facevano nell’opinione pubblica e per il fatto che anche la stampa se ne era occupata; e anche per altre considerazioni, cioè che questo pseudo Consorzio ha potuto stipulare ben dieci contratti, senza che risultasse la sua illegalità, quando si sa che per ogni contratto bisogna presentare la documentazione della costituzione della società appaltatrice.

È quindi lecito da parte mia di domandare ai Ministri responsabili come mai per un anno, e con dieci contratti, non hanno trovato la maniera di scoprire il falso e la truffa esercitata da questa gente ai danni dello Stato. Sì, ai danni dello Stato. Perché, se questi fatti (e il Ministro lo ha riconosciuto) sono stati scoperti, ciò è avvenuto in seguito ad una inchiesta fatta da parte dal Ministero del lavoro; altrimenti la cosa sarebbe andata avanti ancora per quest’anno,

Mi era stato anche riferito erroneamente in un primo tempo che questo pseudo Consorzio avesse eseguito pure dei lavori per 300 milioni a regìa. Il fatto è che i contratti sono cessati quando è intervenuto il provvedimento del Ministero del lavoro con la nomina del commissario.

Il Ministro Romita ha promesso, e si è impegnato a questo riguardo, di presentare prossimamente e nel più breve tempo possibile, la nuova legge sulla cooperazione.

ROMITA, Ministro del lavoro e previdenza sociale. La legge è già pronta, onorevole Canevari.

CANEVARI. Io vorrei chiudere questa mia breve esposizione pregando l’onorevole Romita di voler dare corso intanto a quei provvedimenti che sulla cooperazione sono stati predisposti dal suo predecessore e ciò in attesa che la nuova legge sia emanata al più presto. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Segue l’interpellanza presentata dagli onorevoli, Colonnetti, Alberganti, Ambrosini, Arcaini, Arcangeli, Bargagna, Bellavista, Bettiol, Bianchi Bianca, Binni, Bonino, Bulloni Pietro, Calamandrei, Calosso, Cappi, Caristia, Caso, Cavallotti, Cianca, Codignola, Cosattini, Einaudi, Ermini, Fanfani, Ferrario, Celestino, Foa, Fornara, Giacchero, Giua, Gortani, Gui, Jacini, La Pira, Leone Giovanni, Lettieri, Lombardi Riccardo, Lucifero, Lussu, Marchesi, Martinelli, Martino Gaetano, Mattei Teresa, Medi Enrico, Mortati, Musotto, Pajetta Giancarlo, Pecorari, Pesenti, Pieri Gino, Pignedoli, Ponti, Riccio Stefano, Rivera, Rodinò Ugo, Schiavetti, Tomba, Tosato, Tosi, Valiani, Valmarana, al Governo, «per sapere se – accogliendo finalmente le ripetute istanze del Consiglio nazionale delle ricerche, i voti unanimi dei Corpi accademici e degli studiosi, nonché l’esempio dei Paesi più consapevoli e progrediti – intenda dare adeguato e stabile finanziamento alla ricerca scientifica, necessaria non solo per il progresso culturale e spirituale, ma anche per l’urgente ricostruzione e per l’invocato sviluppo economico nazionale».

L’onorevole Colonnetti ha la facoltà di svolgere l’interpellanza.

COLONNETTI. Onorevoli colleghi, nel suo programma di Governo, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha fra l’altro dichiarato che «lo Stato si propone di aumentare i suoi sforzi finanziari per venire incontro alle disagiate condizioni dell’alta «cultura».

Nel prendere atto di questa dichiarazione, che risponde alle più vive aspirazioni ed alle più urgenti necessità del nostro mondo universitario, un solo dubbio ci assale, ed è che essa abbia a restare, contro la volontà stessa dell’onorevole De Gasperi, lettera morta. Perché non è la prima volta che affidamenti del genere ci vengono concessi.

Esattamente un anno fa, in occasione di una solenne assemblea dei Comitati del Consiglio nazionale delle ricerche, ad un mio accorato appello in difesa degli interessi dell’alta cultura, il Presidente del Consiglio rispondeva personalmente, dichiarandosi «pienamente consenziente», ed aggiungeva: «Il Governo sa che le spese che si fanno per aiutare la ricerca scientifica sono feconde, e non può non auspicare che l’opera iniziata dal Consiglio nazionale delle ricerche sia continuata ed intensificata per il maggior prestigio nostro all’estero, e perché all’interno si acceleri il ritmo della ricostruzione.

«Per il raggiungimento di quest’altissimo compito il Governo non negherà certamente il suo aiuto».

E che il Presidente del Consiglio fosse, allora come ora, animato da così nobili intenzioni e da una così illuminata e larga visione degli interessi supremi del Paese, lo dimostra il fatto che, pochi mesi dopo, per sua stessa personale iniziativa, consenziente il Ministro del tesoro onorevole Corbino, un decreto legislativo veniva approvato dal Consiglio dei Ministri «per la realizzazione di un programma di organizzazione scientifica che dia incremento all’attività sperimentale degli Istituti e dei Laboratori esistenti, nonché per il rafforzamento e la istituzione di nuovi organi di ricerca».

Con quel decreto veniva autorizzato, a favore del Consiglio nazionale delle ricerche, un contributo straordinario di 200 milioni di lire.

Ora, quel decreto, promulgato il 25 maggio 1946, registrato alla Corte dei conti il 7 giugno, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 10 stesso mese, non ha avuto nessun seguito. Non un soldo, dico non un soldo, di quei 200 milioni, è stato versato al Consiglio delle ricerche; ed oggi, dopo molti mesi di poco eleganti tergiversazioni, gli organi competenti del Ministero del tesoro dichiarano che, per l’avvenuta chiusura dell’esercizio, quel decreto è decaduto e mi invitano a presentare alla Presidenza del Consiglio una nuova richiesta. (Commenti).

In occasione della recente crisi, l’onorevole De Gasperi ha più di una volta detto di voler costituire «un Governo che governi», ed io amo credere che tale sia nelle sue intenzioni quello che egli ha effettivamente costituito, e penso che un tale Governo questo dovrebbe, per lo meno, proporsi: che le leggi che fa vengano eseguite.

Ad ogni buon conto, la nuova richiesta che la sua burocrazia mi costringe a rivolgergli, ho voluto rivolgerla in questa sede, perché resti una durevole traccia del modo con cui le cose si sono svolte e perché vengano una volta per tutte precisate dinanzi a voi, onorevoli colleghi, e dinanzi al Paese, le responsabilità che dall’accoglimento o meno della mia istanza possono derivare a ciascuno di noi.

Sta di fatto che, tra le tante rovine a cui dobbiamo porre riparo, ve ne sono di quelle che, pur avendo una profonda incidenza sulla vita nazionale, sono meno appariscenti, sono meno immediatamente sentite, perché meno direttamente connesse ai bisogni quotidiani, e di cui perciò pochi si preoccupano.

Sono quelle che si sono verificate nel campo della ricerca e degli studî, e che non consistono soltanto nella distruzione di istituti, di attrezzature, di biblioteche, ma nella menomazione di attività culturali in dipendenza della prolungata interruzione dei nostri rapporti con gli ambienti culturali esteri, della perdita o dell’allontanamento di molti uomini di studio, delle condizioni economiche in cui sono oggi ridotti uomini ed istituti che pure ci sono rimasti.

Devo dire subito che io non sono di quelli che pensano che agli studiosi debbano farsi posizioni di privilegio e che la loro opera non possa esplicarsi se non in istituti ricchi e grandiosamente attrezzati.

Tutta la storia del nostro pur cospicuo contributo al progresso delle scienze e delle arti sta a dimostrare che questo contributo non è mai stato dovuto all’opulenza dei mezzi, ma al valore intrinseco, alla sincerità di vocazione, allo spirito di abnegazione dei nostri uomini di pensiero. In mezzo alle difficoltà e nello spirito di sacrificio sono in questa nostra terra maturate cose grandi ed idee nuove.

Ma vi è un limite a tutto; un limite al di sotto del quale la stessa vita di studio riesce compromessa, perché allo studioso vengono a mancare gli strumenti del suo lavoro, e quella serenità d’animo che è il presupposto di ogni attività di pensiero. Quando si varca questo limite, la migliore buona volontà può riuscire impotente, e nessuno ha più diritto di meravigliarsi se gli stessi più innamorati della scienza abbandonano sfiduciati il loro compito, si ritraggono da uno sforzo diventato sterile, o si volgono verso altri Paesi, dove i mezzi indispensabili non siano loro negati.

Bisogna poi tener conto del fatto che la ricerca scientifica non è più oggi, come fu per tanto tempo, l’opera silenziosa e nascosta dello studioso isolato: essa si svolge oggi prevalentemente in grandi complessi, in cui la collaborazione di ricercatori diversi è elemento essenziale. È intervenuta nel campo della scienza una profonda evoluzione di metodi, le cui conseguenze sono del tutto paragonabili a quelle che nel campo della produzione si sono verificate all’atto del passaggio fra l’artigianato e la grande industria. E la ricerca scientifica ha, in certi settori, assunte alcune delle caratteristiche della grande industria; e, come la grande industria, vuole essere organizzata e richiede mezzi ingenti.

Il perché delle somme enormi che i Paesi più progrediti hanno destinato e stanno destinando alla ricerca scientifica non lo si deve andare a cercare in un mecenatismo idealistico e disinteressato, bensì nella constatazione che è assai più economico affrontare con larghi mezzi la soluzione di certi problemi fondamentali, che non attendere tale soluzione dall’opera slegata e indipendente di ricercatori isolati.

Esempio tipico il caso dell’energia atomica, a proposito del quale informazioni precise e attendibili mi permettono di dirvi oggi che il problema della produzione dell’energia atomica per uso industriale è ormai risolto; e risolto, badate bene, non già soltanto sul piano scientifico, ma anche sul piano economico; cioè in termini tali da far prevedere non solo possibili, ma prossime attuazioni pratiche.

Gli studi relativi vengono febbrilmente condotti in diversi Paesi, alcuni dei quali in condizioni assai simili alle nostre: mancanza di carbone e di olii minerali; industria ed economia domestica basate sempre più sull’uso dell’elettricità, con conseguente insufficienza di bacini e di impianti idroelettrici.

Ed un’altra notizia vi interesserà forse di conoscere, ed è che dagli esperti non è più considerata come proibitiva l’assenza di giacimenti di uranio.

Considerazioni analoghe possono del resto farsi a proposito dei più diversi settori dell’attività scientifica: dal campo della biologia, dove urge far convergere gli sforzi verso la ricostruzione e la difesa del nostro patrimonio zootecnico, e verso l’incremento della nostra produzione agricola di qualità, al campo della tecnica delle costruzioni, dove il più modesto progresso realizzato nei metodi di calcolo e nel più razionale impiego dei materiali può determinare un’economia di materie prime capace di ripagare ad usura tutti i sacrifici che potremmo fare per il finanziamento della ricerca scientifica.

Sta di fatto che l’avvenire del nostro Paese, la sua futura posizione fra i popoli civili, le possibilità di lavoro e le condizioni di vita delle nostre masse lavoratrici, possono dipendere dalla silenziosa e nascosta attività di pochi uomini di studio.

Persino la sorte di quelli dei nostri fratelli che restano o che dovranno recarsi fuori dei confini della patria – ospiti volontari o forzati di altri popoli – può dipendere dal valore della nostra produzione scientifica, perché solo un’Italia il cui prestigio si estenda al di là dei confini può rendere onorato e rispettato ogni uomo che porta il nome di italiano; perché solo la sovranità del prestigio non conosce confini né può essere menomata da iniqui trattati. (Applausi).

Ora, l’Italia, vinta sul terreno militare, avvilita sul terreno diplomatico, non è una Nazione vinta nel mondo dell’intelligenza.

Si tratta di sapere se, per una gretta e malintesa economia, essa vuole ora rinunciare a quel posto d’onore nel mondo della cultura ed a quel primato che i secoli le hanno attribuito, e che l’intelligenza e lo spirito di sacrificio dei suoi figli migliori possono conservarle. Si tratta di sapere se per salvare un bilancio deficitario essa vuole rinunciare a quella che è stata sempre e che può continuare ad essere la ragione prima della sua grandezza: la superiorità sul piano dello spirito.

Del resto, non si tratta qui neppure di intaccare il precario equilibrio del nostro bilancio, ma semplicemente di vedere se i numerosi miliardi che spendiamo non li potremmo, per avventura, spendere meglio.

Ho già avuto occasione di denunciare pubblicamente l’intollerabile squilibrio fra le nostre spese militari che ammontano, in sede di bilancio preventivo, a 91 miliardi di lire, ma che in pratica stanno superando di parecchio i 100 miliardi, e quei 350 milioni che sono stati nominalmente assegnati alla ricerca scientifica, e che in pratica, per le ragioni che ho dette, si sono poi ridotti a solo 150.

Ma qui a voi, onorevoli colleghi, voglio dire qualcosa di più concreto e di più preciso; e perciò non mi riferirò alle spese militari in genere, bensì a quelle che i Ministeri militari sopportano per le loro scuole, cioè per quelle Accademie nelle quali vengono preparati i futuri ufficiali dell’esercito e della marina.

Da notizie direttamente fornitemi dai Ministeri stessi, risulta che il finanziamento dell’Accademia militare è stato quest’anno predisposto in vista di una popolazione scolastica di 250 allievi, per ciascuno dei quali si prevede una spesa giornaliera di lire 1191. Nell’Accademia Navale di Livorno, per una popolazione scolastica di 290 allievi, si è preventivata una spesa giornaliera di oltre 2000 lire per allievo.

Ora, vi è nel nostro Paese una sola istituzione universitaria che per la struttura può in qualche modo paragonarsi alle accademie militari, ed è la Scuola Normale Superiore di Pisa; scuola di alta classe, di gloriose tradizioni, e dalla quale sono usciti uomini che nelle lettere e nelle scienze hanno onorato l’Italia.

Orbene, volete sapere a qual grado di pietosa miseria questa scuola è stata ridotta dall’azione fiacca e disorganica del Ministero della pubblica istruzione e dalla sistematica ostilità del Ministero del tesoro?

Secondo le informazioni trasmessemi dal direttore stesso della Scuola, la sua dotazione annua è oggi ancora quella che era dieci anni fa: 568.000 lire. Ripartita sui sessanta normalisti che la scuola è ridotta ad ospitare, questa dotazione si precisa nella cifra ai 40 lire al giorno per allievo – dico 40 lire – di fronte alle 2000 lire al giorno per allievo che lo Stato spende per la vicina Accademia di Livorno.

È bensì vero che il Governo ha promesso di quintuplicare le dotazioni universitarie, ma questa è soltanto una deplorevole mezza misura che documenta una volta di più la incomprensione da parte degli organi responsabili dei veri problemi dell’università italiana.

Nel caso concreto, quando questo provvedimento sarà stato attuato, ci troveremo a questo: che lo Stato spenderà per i 120 studenti universitari, che la scuola di Pisa potrebbe e dovrebbe ospitare, esattamente quello che spende per sei allievi dell’Accademia di Livorno.

Io lascio volentieri a voi, onorevoli colleghi, di giudicare se e fino a qual punto le spese che si fanno per preparare dei futuri ufficiali dell’esercito e della marina siano giustificate. Ma affermo – e confido che voi sarete concordi con me nell’affermare – che il Paese ha, in questo momento, almeno altrettanto, se non maggior bisogno di preparare, e di preparar bene, un ragionevole numero di fisici, di chimici, di ingegneri, di giuristi, di letterati, di biologi, di medici.

Affermo – e confido che sarete con me concordi nell’affermare – che queste élites del pensiero devono essere formate scegliendo i migliori fra i nostri giovani, senza pregiudizio di classe sociale o di condizioni economiche, in Scuole come quella di Pisa che urge far sorgere nei maggiori centri culturali a costo di qualunque sacrificio.

Perciò al Governo, e per esso al Ministro del tesoro, chiedo che, prima di opporre il solito rifiuto alle istanze del Ministro della pubblica istruzione e del Presidente del Consiglio delle Ricerche, prima di considerare queste istanze come altrettanti attentati alle finanze nazionali, le paragoni, queste istanze, nella loro entità e nella loro giustificazione, alle voci spesso ingiustificate ed ingiustificabili dei bilanci militari. Potrà così convincersi che l’uno od il due per cento di economia sulle spese militari potrebbe bastare per avviare a soluzione almeno i più angosciosi ed urgenti fra i problemi che oggi gli ho segnalati.

Dopo di che potrà anche se vuole, persistere nello sdegnoso rifiuto che i suoi uffici hanno predisposto. Ma mi permetta di dirgli, in nome di un’antica amicizia che alle mie parole toglie ogni possibile senso di critica ostile e conferisce il carattere di ammonitrice collaborazione, che nessuno potrà più tenergli per buone la solita scusa delle tristi condizioni delle nostre finanze.

Mi permetta di dirgli che se, in causa di questo rifiuto, questo nostro Paese, che fu già maestro di civiltà a tutte le genti, dovesse diventare soltanto un museo di monumenti e di memorie abitato da un popolo culturalmente arretrato, nessuno potrà scagionare da sì grave colpa chi avrà voluto questo, o chi, potendo, non l’avrà impedito. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Medi ha presentato la seguente interrogazione il cui contenuto è analogo a quello dell’interpellanza in discussione:

«Al Ministro della pubblica istruzione, per conoscere le provvidenze che intende adottare, affinché le scienze sperimentali, e in particolare le scienze fisiche, possano, in maniera adeguata al moderno sviluppo della ricerca, assolvere decorosamente al loro compito per la dignità morale e il maggiore progredire della vita della Nazione».

L’onorevole Medi ha facoltà di svolgerla.

MEDI. Il problema della ricerca scientifica va esaminato sotto diversi aspetti: morale, economico, storico. È proprio dell’umana natura l’indagine sui fatti e sulle cose. Quanto più la mente umana apre i veli del mondo che la circonda, tanto più essa si nobilita ed eleva. È una magnifica lotta non contro la natura, ma con la natura che si fa conquistare dall’uomo perché ne divenga il signore. Purtroppo è talvolta avvenuto che le conseguenze del sapere tecnico hanno procurato all’uomo tragedie e dolori. La responsabilità non è della scienza, ma di una mancata sapienza. Quando l’opera dell’uomo prende la mano al suo operatore stesso, questo si degrada; ma quando l’uomo rimane sempre il padrone delle opere sue, e le domina in tutti i settori, tecnico, economico e morale, allora ne trae benefici incalcolabili. Non è l’uomo fatto per servire la scienza, ma la scienza è al servizio dell’uomo, e l’uomo per adempiere i disegni di Dio. Lo studio di materie tecniche che col controllo di esperienze e realtà sensibili guida la ricerca nei più difficili sentieri, fortifica la mente e la capacità di penetrazione e di sano equilibrio.

Un vasto e profondo sapere scientifico, diffuso, per quanto possibile, anche fra le masse, è uno strumento di sanità morale. Poi l’opera dello scienziato non è frutto di lui solo, ma può efficacemente svilupparsi se con lui è tutto l’ambiente che lo forma, lo comprende e lo sostiene. Gli scienziati, come i geni e gli eroi, sono il prodotto della società, sono le bandiere da essi sostenute non isolate sulle vette del pensiero, ma portate lassù dal sacrifizio di tutto un popolo, e per questo ne sono un segno di gloria e di vanto.

La scienza non è un lusso, né un sopramobile nella casa dei popoli. È un necessario alimento per il loro sviluppo morale ed economico. Si può dire che gran parte delle cose delle quali gode oggi la vita sociale, sono nate nei laboratorî di chimica e fisica, e quasi germi di vita di nuove idee, sono sorte e cresciute in questi laboratorî. Uscendo da questi hanno preso sviluppo nelle applicazioni tecniche. È difficile trovare delle verità scientifiche che non abbiano avuto prima o poi un benefico impulso, anche nei campo dell’economia e dello sviluppo della civiltà, anche perché ognuna di esse è così intimamente legata a tutto il complesso che ne costituisce un anello o un ramo, da cui possono derivare i più imprevedibili sviluppi.

Una ragionevole indagine scientifica in qualsiasi campo è sempre utile e non è bene ostacolarla. Queste cose si dicono non perché la scienza vada pesata sull’arida bilancia dell’economia, ma perché anche da questo punto di vista venga considerata come altamente redditizia. È una branca che moltiplica in breve tempo, senza fallire, il capitale affidato. In fondo, l’uomo pur non essendo solo ӕconomicus, è anche legato alle necessità di un bisogno materiale. Possibile che per la strada calcata dai piedi si spendano miliardi e per le vie percorse dal pensiero si diano le briciole? Questo vuol dire che è meglio ragionare con i piedi. C’è, per esempio, una terza coordinata, nella quale possiamo penetrare in profondità. Penso in questo momento alla mia amatissima terra di Sicilia, dalla quale vorrei essere considerato come figlio. In fondo la maternità non è solo una questione di anagrafe, ma anche un problema di amore, e questo lo vorrei dire all’onorevole Finocchiaro Aprile, io che non sono siciliano e per questa isola vorrei dare tutte le mie opere e tutte le mie possibilità: una terra inesauribile e tanto poco conosciuta, forte di popolo, di energie e natura, di ricchezze del suolo, e forse e senza forse del suo sottosuolo. Ma va aiutata, sorretta generosamente, efficacemente, realizzando un completo ed ordinato piano di indagini geofisiche, con tutti i mezzi più moderni, elettrici, magnetici, sismici, con l’aiuto della geologia e della geografia, aprendo alla tecnica la possibilità di ottenere risultati economici, i cui valori voi stessi potete comprendere sono di una portata incalcolabile.

Occorrono osservatorî e centri di studio. Noi guardiamo in questo momento alla nostra posizione e a questa scienza che è uno strumento di storica grandezza. L’avere scoperto i positroni e i neutroni non è meno gloria di quella dei nostri padri, quando scoprivano nuove terre sperdute fra gli oceani. Le conquiste delle armi si fanno con il sangue degli uomini e si perdono fra le lacrime dei loro figli: le conquiste della verità e del bene si realizzano nel travaglio del pensiero e della volontà e non conoscono morte. Se non abbiamo eserciti lanciati a sconvolgere frontiere nemiche, è schierata dinnanzi a noi la grande compagine della natura, per la cui conquista tutti gli uomini si sentono fratelli. La nobiltà della nostra stirpe è messa a nuove prove, per queste vie sulle quali ancora una volta essa farà da guida, sarà di luce e avrà il suo grande posto nel consesso civile delle nazioni. L’Italia non si siede piangendo sui pianerottoli della storia. Essa vuol vivere e non vuole essere schiava dei tempi, ma costruttrice del tempo. Non è la storia che deve dominare i popoli; ma un popolo che ha vita, la nostra gente, balza avanti e crea la sua storia. Come nei passati secoli, riprendiamo sereni la nostra ascesa per le vie del pensiero e del bene, levando, segno di speranza nei tempi buoni che vengono, alto il vessillo della verità e della pace. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro, ha facoltà di rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Il Ministero del tesoro si rende ben conto della importanza delle ricerche scientifiche e dei bisogni dell’alta cultura, che sono stati prospettati così efficacemente dal Presidente del Consiglio nazionale delle ricerche, onorevole Colonnetti; cui si sono associati l’onorevole Medi ed altri onorevoli interpellanti.

Nessun rifiuto il Ministero del tesoro intende opporre alle giuste richieste che gli vengono fatte, per sodisfare queste esigenze. Quindi io posso tranquillare gli onorevoli interpellanti che noi non opponiamo affatto un fine di non ricevere.

Anche noi siamo deputati di questa Assemblea, anche noi partecipiamo all’ansia, alla preoccupazione che tutta l’Assemblea dimostra per le ricerche scientifiche e per i problemi dell’alta cultura.

Il Ministero del tesoro intende venire incontro alle esigenze dei varî organi, che nel Paese intendono occuparsi di questi problemi. E, a prova del suo buon volere, richiamo il decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 6 settembre 1946, n. 137, che all’articolo 9 ha stanziato per il corrente esercizio finanziario lire 150 milioni per l’attività del solo Consiglio nazionale delle ricerche.

Ricordo ancora che, in seguito, appunto, alle promesse fatte dal Presidente del Consiglio l’anno scorso, ed in conseguenza del decreto legislativo 25 maggio 1946, che stanziava un contributo straordinario di lire 200 milioni, si trova in corso di approvazione una variazione di bilancio, che provvede all’assegnazione concreta di 50 milioni in conto di quei 200, che rappresentano il contributo straordinario (contributo che verrà erogato a mano a mano che il Presidente del Consiglio nazionale delle ricerche farà presenti le necessità al Ministero del tesoro).

Con questi due contributi – quello ordinario di 150 milioni annui e quello straordinario di 200 milioni, di cui è imminente il primo acconto di 50 milioni – e con l’avanzo di 42 milioni dell’esercizio finanziario del Consiglio nazionale delle ricerche chiusosi il 30 giugno, in altri termini con 392 milioni, il Ministero del tesoro ritiene che il Consiglio nazionale delle ricerche possa attendere senza gravi preoccupazioni allo sviluppo del proprio programma.

È vero, il Presidente del Consiglio lo scorso anno fece presente la necessità, il dovere dello Stato di venire incontro alle esigenze dell’attività scientifica. Ricordo però anche all’onorevole interpellante, e agli altri colleghi che a lui si sono associati nel prospettare le necessità finanziarie di quella attività, che il Presidente del Consiglio dovette pur giustificare la modestia degli stanziamenti a cui il bilancio dello Stato è costretto aggiungendo alle parole già ricordate dall’onorevole Colonnetti queste altre: «Il popolo italiano si trascina in questo momento carico di affanni attraverso stenti e privazioni verso l’erta della rinascita».

Queste parole l’onorevole De Gasperi riteneva necessario aggiungere quasi a giustificazione della modestia delle somme che lo Stato, in concreto il Ministero del tesoro attraverso il proprio bilancio, può dare in favore delle ricerche scientifiche.

Ad ogni modo stiano sicuri gli onorevoli interpellanti che queste esigenze sono sentite dal Ministero del tesoro, non meno che da tutte le altre amministrazioni, in conformità delle direttive del Presidente del Consiglio, da cui immediatamente dipende il Consiglio nazionale delle ricerche.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro della pubblica istruzione ha facoltà di rispondere.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Intendo innanzitutto sottolineare la mia piena adesione ai principî affermati sia dall’onorevole Colonnetti, sia dall’onorevole Medi, in fatto di soccorsi e di aiuti all’alta cultura.

Mi sembra però che sia necessaria qualche rettifica di fatto alle affermazioni contenute nelle dichiarazioni dell’onorevole Colonnetti.

Il Sottosegretario di Stato per il tesoro ha già chiarito ciò che riguarda il finanziamento del Consiglio nazionale delle ricerche che, come tutti ben sappiamo, ha una gestione autonoma e quindi indipendente da quella della pubblica istruzione. La pubblica istruzione, come può far fede lo stesso Presidente del Consiglio nazionale delle ricerche, si è sempre associata, si associa e si associerà a tutte le richieste che provengono da quell’organismo. Mi pare però che si impicciolirebbe notevolmente il problema dell’alta cultura, se si riducesse lo sforzo dello Stato a favore di essa esclusivamente entro il modestissimo quadro degli aiuti che lo Stato può dare all’attività del Consiglio nazionale delle ricerche.

L’onorevole Colonnetti ha parlato di «gretta e male intesa economia». Qui ci vorrebbe un discorso molto lungo per dimostrargli come, malgrado le inevitabili difficoltà e le evidenti deficienze, lo Stato ha fatto uno sforzo notevole anche in questo campo. E per citare solo un dato molto sommario, dobbiamo pur dire che il bilancio della pubblica istruzione, che dieci anni fa circa raggiungeva appena i 900 milioni, attualmente tocca i 50 miliardi, vale a dire è stata moltiplicata per oltre 50 volte la spesa che lo Stato sopportava per l’alta cultura.

Con ciò non intendo dire che questa spesa sia sufficiente per venire incontro a tutti i bisogni. Però è onesto e logico non prescindere da questo positivo sforzo.

Su altri due punti brevemente devo fare delle rettifiche.

L’onorevole interpellante, se non erro, ha parlato di una «promessa quintuplicazione» dei contributi dello Stato a favore delle Università. Ora non si tratta di una «promessa», ma di un provvedimento legislativo che già è stato deliberato e in gran parte applicato.

L’onorevole interpellante ha poi definita questa quintuplicazione come una «deplorevole mezza misura». Indubbiamente sarebbe una mezza misura, se la quintuplicazione dei contributi dello Stato a favore delle Università non fosse stata accompagnata da un’altra lunga serie di contributi di cui hanno beneficiato le Università stesse. Qui ricordo molto succintamente i primi 50 milioni che lo Stato ha destinato per le Università del Centro-Meridione. Successivamente vi è stata un’altra erogazione di 300 milioni a favore delle Università; ed infine una nuova erogazione di 500 milioni per il personale universitario. Sono stati poi stanziati in bilancio 10 milioni per le borse di studio a favore degli studenti. Si tratta quindi di oltre un miliardo di nuove spese che lo Stato affronta per gli istituti superiori soltanto, e l’onorevole interpellante sa che la ricerca scientifica entra nel quadro della ricerca universitaria. (Interruzione dell’onorevole Dugoni).

Ora si stabilisce un rapporto tra i bilanci militari e quelli della pubblica istruzione; ma io desidererei che questo rapporto si stabilisse non solo con il bilancio presente, ma anche con quello di 10 anni fa.

Una voce a sinistra. Prima eravamo sotto il fascismo.

GONELLA. Ad ogni modo, ho citato questi dati per rilevare che questo rapporto viene progressivamente spostato a favore della pubblica istruzione.

L’onorevole interpellante sa poi bene che il Ministero della pubblica istruzione ha chiesto uno straordinario stanziamento di tre miliardi, di cui un miliardo e mezzo dovrebbe essere destinato alle attrezzature dei gabinetti e dei laboratorî, mentre un altro miliardo e mezzo è destinato agli aumenti degli stipendi del personale. Non voglio entrare nel campo di competenza del Ministro dei lavori pubblici, ma c’è la questione edilizia. La sola Università di Bologna ha speso più di 300 milioni per la ricostruzione di alcuni edifici scientifici.

Sento infine la necessità, per amore del vero, di rettificare altri errori in cui involontariamente è caduto l’onorevole interpellante. Egli ha parlato di 568 mila lire, quale contributo dello Stato alla Scuola normale di Pisa. Ciò figura nel bilancio normale, ma egli forse non sa che lo Stato ha erogato altri milioni in via straordinaria; sicché tale Scuola riesce a fronteggiare le sue necessità. Essa ci ha chiesto recentemente un altro solo milione: cifra modesta. Il rapporto con l’Accademia navale di Livorno va preso con molta riserva: essa grava completamente sullo Stato, mentre la Scuola normale di Pisa, oltre al contributo dello Stato, ha altri cespiti propri.

Ho dovuto precisare alcuni dati, rettificare queste informazioni; rettifiche le quali però nulla tolgono al principio riaffermato dall’onorevole Colonnetti; cioè nulla tolgono alla riaffermazione della necessità che lo Stato moltiplichi i suoi sforzi per venire incontro ai bisogni dell’alta cultura. (Approvazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Colonnetti ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

COLONNETTI. Sono dolente di dovermi dichiarare completamente insodisfatto della risposta dei due rappresentanti del Governo. La risposta dell’onorevole Petrilli, in sostanza, conferma che, dopo di avere assegnato al Consiglio delle ricerche 200 milioni, attraverso un semplice giochetto di mancato passaggio da un esercizio all’altro, il Governo si accinge a ridurre quell’assegnazione a 50 milioni, lasciando che gli altri 150 vengano, se verranno, e quando verranno!

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Non ho detto questo.

COLONNETTI. Questi milioni erano stanziati per lo scorso anno; ma nessuno di essi è giunto nell’anno stesso. E si annunzia oggi che dei 200 milioni che inizialmente erano stati stanziati, 50 soltanto ci verranno dati. Per arrotondare la cifra, l’onorevole Petrilli somma a questi i residui di esercizi precedenti, cioè le economie che il Consiglio delle ricerche forzatamente aveva fatto in quei due anni in cui non ha funzionato per via della occupazione, residui che non bastano neppur lontanamente a riparare i danni della forzata inazione. Mi dichiaro dunque su questo punto completamente insodisfatto, e debbo dirvi che mi dichiaro altrettanto insodisfatto delle parole del Ministro della pubblica istruzione, dalle quali, senza entrare nei dettagli, risulta che egli giudica che gli sforzi che sono stati fatti per la sistemazione delle Università e degli Istituti scientifici sono, se non del tutto adeguati, in ogni caso ragguardevoli.

Non credo che questa sia l’impressione degli studiosi italiani, e non credo che le parole dette oggi potranno portare alle Università italiane quel senso di conforto che esse attendevano certamente da questa nostra discussione.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Mi si fa dire qualcosa che non ho detto. Non ho mai dichiarato la mia sodisfazione per le spese dello Stato a favore delle Università. Ho detto solo che venne misconosciuto qualche contributo che lo Stato ha dato, come è il caso della Scuola Normale di Pisa.

COLONNETTI. Ho l’impressione che le Università italiane ed i nostri istituti siano fatalmente condannati ad una immediata decadenza, se le direttive del Governo verso di essi resteranno quelle che sono state espresse qui dall’onorevole Petrilli e dall’onorevole Gonella. (Applausi).

Oggi non ho altro da aggiungere.

In sede di discussione delle comunicazioni del Governo mi riservo di ritornare sull’argomento, per esprimere tutta la delusione degli scienziati italiani per l’accoglienza che è stata fatta all’appello che qui ho lanciato nel nome della scienza e della cultura.

Se oggi il Governo non ha altro da rispondere, non mi resta che dolermi che le parole che avevo pronunciate nel timore di un insuccesso del mio appello, diventino realtà.

Gli Istituti scientifici italiani sono, dal vostro contegno in questo momento, condannati alla decadenza. E mi sembra ciò tanto più doloroso e deplorevole in quanto, in un Paese come il nostro, che tanto ha sofferto, è proprio e soltanto su questo terreno che possiamo sperare di riprendere le nostre posizioni nel mondo. (Applausi).

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Natoli ha presentato la seguente interrogazione chiedendo risposta con urgenza.

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se, al fine di arrestare la campagna di insinuazioni diretta a svalutare l’Assemblea Costituente e di difendere il decoro di questa, non creda opportuno di pubblicare l’elenco dei deputati i quali coprono una carica retribuita e affidata dal Governo, presso enti parastatali, economici, finanziari o in altri organismi che abbiano relazione con lo Stato, indicando anche l’ammontare della retribuzione o dell’indennità; se non creda possibile di invitare la Presidenza dell’Assemblea a richiedere ad ogni deputato se fa parte, e in quale qualità, di istituti finanziari, economici o imprese private».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. In assenza del Presidente del Consiglio, dichiaro, a nome del Governo, di ritenere che nella seduta di domani l’onorevole Presidente del Consiglio potrà dire quando intende rispondere.

PRESIDENTE Si dia lettura delle altre interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge.

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se corrisponda a verità quanto pubblicato dal giornale Ala Libera, anno I, n. 6, circa le dichiarazioni che il Capo di Stato Maggiore dell’aeronautica, generale Mario Ajmone-Cat, avrebbe fatto in data 16-17 novembre 1946 in una riunione di alti ufficiali dell’Arma.

«Il generale Ajmone-Cat avrebbe lamentato che la situazione creata dai giudizi di discriminazione metterebbe l’autorità militare di fronte alla necessità di liberarsi di elementi ottimi con piccole pecche discriminatorie e di tenere elementi meno buoni senza tali pecche; il generale avrebbe aggiunto che gli errori commessi in sede di discriminazione potranno essere eliminati in sede di sfollamento e che, del resto, questa è una situazione transitoria, che sarà certamente sanata in breve tempo.

«Nel caso che i sopracitati giudizi siano effettivamente stati pronunciati, l’interrogante desidera conoscere quali provvedimenti siano stati adottati o siano per essere adottati nei confronti di un così alto responsabile delle Forze armate, che critica, in una riunione di suoi subordinati, le leggi dello Stato e che mostra di considerare la collaborazione col nemico (sia pure assistita da circostanze attenuanti) come un elemento di secondaria importanza ai fini della permanenza degli elementi compromessi nell’Aeronautica della Repubblica italiana.

«Foa».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri del lavoro e previdenza sociale e delle finanze e tesoro, per sapere se non ritenga meritevole di considerazione il caso seguente. Con decreto legislativo del 20 maggio 1946, n. 373, venne stabilito che per determinate località e nell’ambito di ciascuna di esse, può essere disposta, con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro dei tesoro, la concessione di sussidi straordinari di disoccupazione a favore di lavoratori involontariamente disoccupati. Con decreto 22 ottobre 1946, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 18 dicembre 1946, n. 288, è stata estesa la concessione del sussidio straordinario per i lavoratori disoccupati nella provincia di Caserta, dipendenti dalle categorie dell’industria metalmeccanica, edile.

«Poiché per la provincia di Napoli tale concessione è stata estesa anche alla manovalanza generica, l’interrogante chiede che l’estensione della norma adottata per Napoli sia applicata alla vicina provincia di Caserta, la quale ha sofferto anch’essa danni enormi dalla guerra e si trova nelle identiche condizioni per la disoccupazione tormentosa della popolazione immiserita in tutti i modi.

«Notarianni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se creda che la Direzione generale delle ferrovie dello Stato abbia provveduto secondo legge e secondo giustizia, escludendo dalle promozioni per gli anni 1944-1945 tutti gli impiegati sottoposti a giudizio di epurazione e per i quali il Consiglio di Stato dichiarò non esser luogo a irrogazione di sanzioni disciplinari, e se non pensi che l’illegittima esclusione violi le disposizioni del decreto legislativo 9 novembre 1945, n. 702.

«Abozzi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dei lavori pubblici, per sapere quali provvedimenti intendano prendere per far cessare finalmente la condizione inumana e indecorosa in cui vivono ancora le martoriate popolazioni del Cassinate e di tutta la zona che va dalle Mainarde agli Aurunci.

«Persico».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, perché voglia considerare la dolorosa e precaria situazione del personale non di ruolo degli uffici statali, per riguardo soprattutto all’irregolarità del pagamento dei suoi miseri stipendi.

«L’interrogante si riferisce, in particolar modo, al personale non di ruolo degli uffici Statali della provincia di Varese, ma ritiene che il caso si verifichi anche in altre provincie.

«Detto personale dovrebbe essere pagato con fondi stanziati dalle varie Amministrazioni, trimestre per trimestre di ogni esercizio finanziario, sui relativi capitoli del bilancio statale. Ma vi sono uffici che attendono, anche da oltre tre mesi, i fondi per pagare il proprio personale. Occorrerebbe che le Intendenze venissero autorizzate ad anticipare i fondi necessari colle somme da esse amministrate.

«Comunque, un provvedimento di ordine generale si impone per garantire a questi modesti collaboratori dello Stato almeno la regolarità della riscossione dei loro magri emolumenti, veramente inadeguati alle più impellenti esigenze della vita. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Momigliano».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non riconosca giusto riportare a settanta anni il limite di età per il collocamento a riposo dei professori di scuole medie assunti prima del 1935, per i quali la legge del 24 aprile 1935, n. 565, abbassando per tutti i professori medi il detto limite di età da 70 a 65 anni, veniva a modificare a loro danno, e quindi a danno delle loro famiglie, il contratto d’impiego col quale erano entrati in servizio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Targetti».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere:

1°) le ragioni per le quali, mentre col primo comma dell’articolo 10 del decreto-legge 25 ottobre 1946, n. 263, si estende ope legis, come già nei precedenti decreti-legge, l’obbligo alle Amministrazioni locali della estensione dei miglioramenti statali ai segretari comunali e provinciali, quali funzionari dichiarati di Stato, questo obbligo venga poi negato loro col non estendere di pari passo ai medesimi, quando passano allo stato di quiescenza sempre a carico dei medesimi enti locali, gli stessi benefici previsti per i pensionati statali, in quanto non si può concepire che il fatto del loro passaggio allo stato di riposo debba in loro annullare d’un tratto la loro qualifica di segretari comunali, provinciali, e le loro benemerenze acquisite col loro lungo stato di servizio riconosciuto statale;

2°) le ragioni per le quali, una volta ammesso il diritto alla pensione, che è la base principale del loro trattamento organico, e come tale riconosciuta spesa obbligatoria in tutti i testi delle leggi comunali e provinciali sin qui emanate, l’adeguamento di essa, che è l’accessorio di emergenza conseguente della svalutazione monetaria, lo si possa considerare e tramutare da obbligatorio in facoltativo, contro ogni principio giuridico consacrato dalla dottrina del nostro diritto amministrativo e civile e dalla costante giurisprudenza dei nostri maggiori organi giudiziari;

3°) le ragioni per le quali il carovita, considerato come elemento transitorio e di emergenza per fronteggiare i più elementari bisogni della vita, non venga ammesso e riconosciuto indispensabile nella stessa misura e con lo stesso sistema della scala mobile anche ai pensionati, che per la loro età hanno anzi più bisogno di cure e di assistenza;

4°) se, di fronte alla mancanza nella legge di questo tassativo obbligo, a causa della quale mancanza parecchie Amministrazioni locali, giudicano la facoltatività loro lasciata nei limiti della possibilità dei loro bilanci e delle locali situazioni peculiari, quasi come un dovere a non incontrare spese facoltative, e negano quindi perfino del tutto ogni benché minimo miglioramento alle pensioni anteguerra (così che già molti di questi poveri disgraziati sono passati a miglior vita innanzi tempo, in mezzo a stenti ed alla più pietosa miseria), il Governo non ritenga finalmente di intervenire con tutta urgenza alla revoca delle disposizioni tutte, che sanciscono tale facoltatività, e rendere per giustizia umana e civile obbligatoria la parificazione delle condizioni tutte stabilite per i pensionati dello Stato, anche ai pensionati dipendenti ed a carico degli enti locali.

«Mariani, Alberganti, Mirelli».

«I sottoscritti chiedono d’interpellare il Ministro della difesa, per sapere se non ritenga doveroso, aderendo ad una richiesta già fatta nel luglio 1946, comunicare all’Assemblea i termini precisi dei contratti stipulati con Società straniere per l’esercizio in Italia di linee aeree civili.

«Nobile, Longo».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno inscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà inscritta nell’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 20.40.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

  1. – Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
  2. – Esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

SABATO 15 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XXXVIII.

SEDUTA DI SABATO 15 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Sul processo verbale:

Presidente                                                                                                        

Finocchiaro Aprile                                                                                         

Gronchi                                                                                                            

Campilli, Ministro delle finanze e del tesoro                                                       

Mentasti                                                                                                          

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro                                                     

Restagno, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici                                      

Tripepi                                                                                                               

Micheli                                                                                                             

Chieffi                                                                                                              

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Verifica di poteri:

Presidente                                                                                                        

Annuncio di nomina di Sottosegretari di Stato:

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Bencivenga                                                                                                      

Li Causi                                                                                                            

Scotti Alessandro                                                                                          

Tumminelli                                                                                                       

Puoti                                                                                                                 

Martino Gaetano                                                                                           

Tremelloni                                                                                                      

Interrogazioni d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della sedata precedente.

Sul processo verbale.

FINOCCHIARO APRILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola devo dire all’Assemblea, dopo la dolorosa seduta di ieri, che è nostro dovere ricordare che la libera critica deve trovare limiti, soprattutto nel linguaggio. Non si frappongono ostacoli all’espressione di qualunque pensiero, ma si chiede che tutti ricordino di essere i rappresentanti della Nazione, e di conservare in ogni momento il senso della dignità. (Approvazioni).

Io spero che tutti siano d’accordo nel deplorare gli incidenti verificatisi ieri e nell’assicurare che non si abbiano a ripetere. (Vivi, generali applausi).

L’onorevole Finocchiaro Aprile ha facoltà di parlare.

FINOCCHIARO APRILE. Rendo omaggio alla nobiltà delle dichiarazioni del nostro illustre Presidente.

Non è affatto mio proposito di agitare gli animi dell’Assemblea. Non intendo di ritornare su quello che avvenne ieri; né voglio neppure soffermarmi a protestare per la violazione del mio diritto alla libertà di parola; violazione che è stata compiuta dal Presidente Tupini, il quale si è rivelato partigiano (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, mi permetta di osservare che non le fu tolta la parola. Fu sciolta la seduta, a norma di Regolamento, per il tumulto che si era verificato: fu un dovere del Presidente. Continui.

FINOCCHIARO APRILE. Io avevo però la parola.

Ora ho un dovere, il dovere di dare una risposta all’onorevole Gronchi.

Perché l’onorevole Gronchi disse queste parole: «L’onorevole Finocchiaro Aprile, se è un galantuomo, deve precisare le generiche accuse fatte. Se non lo farà, avrà da scegliere solo fra la qualifica di pazzo commediante e quella di volgare mentitore».

Io desidero dare all’onorevole Gronchi e all’Assemblea la dimostrazione che, se vi è un pazzo e se vi è un commediante, se vi è un volgare mentitore, questi non sono certamente io.

Stia a sentire onorevole Gronchi: io dissi e ripeto, riferendomi alle parole nobilissime dell’onorevole Conti e riferendomi ad altre parole non meno giuste pronunciate, qualche tempo fa, in quest’aula dall’onorevole Nitti, che è necessario che i membri dell’Assemblea servano il Paese con piena dedizione di sé e con completa abnegazione, e che rifuggano dal ricercare e dall’occupare posti largamente rimunerativi. Affermando ciò, non ho fatto che portare nell’Assemblea il desiderio e la voce del popolo italiano. Aggiunsi che la Democrazia Cristiana raccoglie nelle sue fila il maggior numero dei profittatori. Onorevoli deputati, io confermo in pieno la mia dichiarazione. (Commenti).

PRESIDENTE. La prego di usare un linguaggio moderato, onorevole Finocchiaro Aprile!

FINOCCHIARO APRILE. M’incombe, pertanto, l’obbligo di darvi un elenco molto sommario dei deputati democratici cristiani che occupano cariche largamente retribuite.

Cominciamo: l’onorevole Pietro Campilli, esponente del Banco di S. Spirito, è amministratore delegato, con pieni poteri, della Società Italiana Condotte d’Acqua, con sede in Roma, collegata con varie altre società di acquedotti, tra cui quella dell’Acqua Pia, Antica Marcia, di Roma. (Commenti).

CAMPILLI, Ministro delle finanze e del tesoro. È falso!

GRONCHI. E una!

FINOCCHIARO APRILE. Non credo. L’onorevole Vanoni, nominato Commissario della Banca Nazionale di agricoltura, per undici mesi ha percepito quattro milioni di lire, valuta 1945. (Interruzioni).

Una voce al centro. È falso!

FINOCCHIARO APRILE. Non credo. L’onorevole Vanoni, lasciata la Banca, è stato nominato Presidente della Ferrobeton. (Interruzioni – Commenti).

Non l’avrei voluto dire, ma poiché qualcuno desidera saperlo…

Una voce al centro. Lo faccia per tutti i settori!

PRESIDENTE. Non interrompano! Chi vorrà, potrà domandare la parola.

FINOCCHIARO APRILE. …io dirò che la maggioranza delle azioni della Ferrobeton è nelle mani dell’ingegnere svizzero Hüber. Durante il regime fascista, la Società Ferrobeton esegui lavori di appalto per costruzioni edilizie e stradali (lavori in Italia, in Albania, in Africa Orientale), realizzando centinaia di milioni di lire di utili, che in una maniera o nell’altra trovarono modo di varcare la frontiera.

L’onorevole Vanoni si è fatto difensore presso il Governo degli interessi di questa società straniera, per aiutarla a liquidare i suoi crediti ingenti. È falso?

L’onorevole Spataro è stato nominato Presidente del Consiglio di Amministrazione della R.A.I.: parecchie centinaia di migliaia di lire al mese. Anche questo è falso?

L’onorevole Micheli, già Presidente dell’Istituto Nazionale delle assicurazioni e di molte altre aziende aventi rapporti con lo Stato, mantenne la prima carica fin dopo tre mesi la sua nomina a Ministro. L’onorevole Micheli era stato preceduto da un altro democristiano, l’onorevole Gilardoni, che fu materialmente cacciato via dagli impiegati dell’Istituto Nazionale delle assicurazioni.

L’onorevole Jacini è Presidente della Cassa di Risparmio delle province lombarde.

L’onorevole Restagno è Presidente della Banca Popolare di Novara.

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. È falso!

FINOCCHIARO APRILE. L’onorevole Scoca è stato nominato Avvocato generale dello Stato, scavalcando 41 suoi colleghi, molto più capaci e meritevoli di lui.

L’onorevole Proia è Presidente dell’Associazione nazionale delle industrie cinematografiche.

PROIA. È una carica gratuita.

FINOCCHIARO APRILE. L’onorevole Paolo Bonomi è Presidente della Confederazione Nazionale dei coltivatori diretti. (Ilarità al centro).

L’onorevole Chieffì è amministratore del gruppo delle aziende dei carboni italiani.

L’onorevole Petrilli, un gabinettista che era ineleggibile e che diventò eleggibile cambiando semplicemente di stanza, è stato nominato Consigliere di Stato.

L’onorevole Colonnetti è stato nominato Presidente dell’Istituto delle ricerche e deputato, benché funzionario di Gabinetto.

L’onorevole Rodinò è Commissario del Consorzio nazionale per la canapa.

Gli onorevoli Arcaini e Balduzzi sono Direttori di banca.

Vi è di più. Con decreto 11 gennaio 1947, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13 febbraio, n. 36, pag. 489, l’Alto Commissario Mentasti, in articulo mortis, ha nominato Commissario liquidatore del disciolto Ufficio centrale per la distribuzione dei cereali, farine e paste il signor Augusto De Gasperi. Egli, già Presidente della Confederazione dei cooperatori italiani, è incaricato del reperimento dell’olio.

Questo è un primo sommario e non certo preciso elenco. Mi riservo di depositare alla Presidenza della Camera fra pochi giorni un elenco quanto più sarà possibile completo dei deputati democratici cristiani, profittatori.

Non ho altro da dire. (Rumori – Commenti).

GRONCHI. Chiedo la parola per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. La prima constatazione è la seguente: per quanto ieri all’onorevole Finocchiaro Aprile io abbia chiesto di precisare, anche nei miei riguardi; ed egli abbia risposto: «Comincerò da te», oggi, come probabilmente domani, non è stato in grado di farlo.

FINOCCHIARO APRILE. Quando tu eri Sottosegretario di Stato di Mussolini, eri uno straccione. (Vivissime proteste al centro). Oggi hai i milioni. (Vivissimi rumori – Vivace scambio di apostrofi – Agitazione – Tumulto – Ripetuti richiami del Presidente).

PRESIDENTE. La seduta è sospesa.

(La seduta, sospesa alle 15.35, è ripresa alle 15.40).

Devo deplorare vivissimamente quanto è accaduto. Richiamo all’ordine l’onorevole Finocchiaro Aprile, che è trasceso in un linguaggio assolutamente deplorevole e non ammissibile in questa Assemblea. (Vive approvazioni).

Deploro vivamente anche l’onorevole Caiati, che dal suo banco si è mosso per procedere ad atti di violenza contro l’onorevole Finocchiaro Aprile. Lo richiamo all’ordine e invito tutti i colleghi all’osservanza della disciplina dell’Assemblea. Così non è possibile procedere. Se l’onorevole Finocchiaro Aprile mi darà motivo di altri richiami, sarò dolente di dover applicare il regolamento. (Approvazioni).

L’onorevole Gronchi ha facoltà di continuare a parlare.

GRONCHI. Nel riprendere la parola, mi verrebbe fatto di proporre alla Camera una iniziativa che solo all’apparenza è faceta, ma che, nella sostanza, farebbe al caso dell’onorevole Finocchiaro Aprile: vedere cioè se non sia opportuno di sottoporlo ad una perizia psichiatrica. (Rumori vivissimi – Commenti).

PRESIDENTE. Non ammetto assolutamente che si continui a parlare così! Onorevole Gronchi, prosegua, ma si contenga nel suo linguaggio.

GRONCHI. Per quanto mi riguarda personalmente posso permettermi di non rilevare l’ingiuria. Dirò solo che io sono a pienissima disposizione del signor Finocchiaro Aprile, quando egli si degni di presentare degli addebiti precisi. E stia sicuro che io non mi coprirò del mandato parlamentare; e altrettanto dovrà fare lui, quando gli potremo chieder conto delle sue attività politiche e politico-finanziarie.

FINOCCHIARO APRILE. Quali attività finanziarie?

GRONCHI. Non lo so; può darsi che, se lei ci consente, ne troviamo qualcuna. Potremmo avere dei documenti desunti da pubbliche dichiarazioni.

Ma veniamo al caso nostro particolare: la serietà delle cosiddette denunce e del cosiddetto elenco dell’onorevole Finocchiaro Aprile, è anzitutto documentata dal numero dei casi, che egli ha citati qui, dieci o dodici, mentre noi siamo 207 ed io vorrei vedere, se facessi, absit injuria, un esame dei vari settori della Camera… (Rumori – Proteste all’estrema sinistra).

PERTINI. Non abbiamo messo in dubbio la vostra onestà, mentre voi mettete in dubbio la nostra.

PRESIDENTE. Onorevole Gronchi, la prego di moderare i termini.

GRONCHI. Ho detto, non a caso, absit injuria, perché, secondo me, i casi indicati dall’onorevole Finocchiaro Aprile non costituiscono neppure lontanamente alcuna immoralità.

Per documentare poi l’inesattezza delle sue informazioni basterebbe che mi riferissi a quanto ha detto dell’onorevole Campilli e che questi ha smentito, mentre l’onorevole Finocchiaro Aprile non potrebbe sostenere con prove quello che ha dichiarato, e quello che ha detto nei riguardi del Sottosegretario onorevole Restagno, che è egualmente falso; dell’amico Proia, che è stato eletto a presiedere una libera associazione cinematografica senza un centesimo di retribuzione; dell’onorevole Bonomi: caso particolarmente curioso, quest’ultimo, perché io potrei dire che gli onorevoli Di Vittorio e Lizzadri sono nientemeno che i lautissimamente retribuiti segretari della Confederazione generale italiana del lavoro, insieme coll’altro profittatore onorevole Rapelli. (Rumori all’estrema sinistra – Approvazioni al centro – Commenti). Ed in ultimo l’ironia del suo sadismo ha voluto che egli nominasse Rodinò, non il nostro collega onorevole Ugo, ma il fratello Guido, non Deputato, che ieri sera un malore improvviso ha fatto decedere e che è stato soltanto per alcuni mesi Commissario del Consorzio nazionale canapa. Io rivendico a me, Ministro dell’industria, la responsabilità di averlo nominato, perché, avendo bisogno di un galantuomo e di un capace amministratore, io lo scelsi; e sfido chiunque a trovare qualcuno che mi possa indicare che nella sua gestione ci sia stata non solo la minima irregolarità, ma quanto meno l’assenza del più minuzioso scrupolo di retto e saggio amministratore. Tutto ciò vi dice quanto mai siano fondate le affermazioni dell’onorevole Finocchiaro Aprile. D’altra parte, credo che nessuno potrebbe negare che se noi procedessimo con un criterio rigoroso, tale da escludere che uno scienziato o un tecnico, solo perché Deputato, possa presiedere alcun ente, solo perché questo ha rapporti con lo Stato, evidentemente arriveremmo, per successivi inevitabili ampliamenti, ad escludere tutta la nostra Assemblea dal collaborare direttamente con le proprie energie intellettuali e con la propria volontà di lavoro a quelli che sono gli interessi generali del Paese.

Credo che i colleghi qui nominati avranno la possibilità di dimostrare dove sono le parecchie centinaia di migliaia di lire al mese a cui si è riferito l’onorevole Finocchiaro Aprile. Ma mi sia consentito incidentalmente di ripetere che, anche se tutto ciò fosse vero, cioè se 10 o 12 Deputati, quanti sono quelli che egli ha indicati su 207, occupassero, prestandovi il loro lavoro e mettendovi a contributo la loro capacità, dei posti retribuiti, non per questo ci sarebbe motivo per la stolta affermazione dell’onorevole Finocchiaro Aprile, che bolla il nostro partito come avido accaparratore di cariche e ne desume un giudizio inammissibile di disonore o di inferiorità politica. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto la parola per fatto personale l’onorevole Ministro delle finanze e del tesoro.

CAMPILLI, Ministro delle finanze e del tesoro. Rispondo all’onorevole Finocchiaro Aprile: primo, che non sono esponente, non faccio e non ho mai fatto parte del Banco di Santo Spirito, il quale (per chi non lo sappia) è in mano dell’I.R.I.

Secondo, che non sono consigliere delegato della Società per le condotte d’acqua, carica dalla quale mi sono dimesso prima delle elezioni politiche, secondo le buone norme. Oggi non ho nessuna relazione con detta Società, la quale, peraltro, è schiettamente privata.

Terzo, che non ho mai avuto nessuna relazione, né diretta, né indiretta, con la Società dell’Acqua Marcia, all’infuori di quella che ogni abitante della città di Roma ha con detta società, quale utente per il consumo di acqua.

E non dico altro! (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto la parola per fatto personale l’onorevole Mentasti. Ne ha facoltà.

MENTASTI. L’onorevole Finocchiaro Aprile mi ha accusato di avere, in articulo mortis, nominato Commissario dell’U.C.E.F.A.B. il dottor Augusto De Gasperi.

Faccio presente, prima di tutto, che si tratta di uomo di competenza specifica, e di onestà preclara; ed a quel posto era necessario proprio un uomo dotato di queste qualità.

La retribuzione relativa è di poche migliaia di lire al mese, che non sarebbero neppure bastate per il dispendio di carattere personale di venire a Roma per quel servizio. Tanto è vero, che il dottor De Gasperi ha declinato l’incarico.

L’onorevole Finocchiaro Aprile deve sapere che il dottor De Gasperi, per il suo antifascismo, dovette abbandonare Trento ed i posti che ivi occupava – e non già per ragioni politiche – nel passato.

Il dottor De Gasperi, durante il periodo dell’attività clandestina, ha fatto parte dei C.L.N.A.I. e si è comportato veramente da valoroso. Poi è stato mandato dallo stesso Comitato in Valdossola, nel periodo di tempo in cui le pallottole fischiavano ed i partigiani combattevano.

Infine, l’onorevole Finocchiaro Aprile ha detto che il dottor De Gasperi ricopre anche la carica di Presidente della Confederazione dei cooperatori italiani. Ciò è vero, ma perché è stato nominato dalle federazioni cooperative dei vari partiti come uomo degno e capace, e come tecnico esperto e di onestà riconosciuta da tutti i cooperatori italiani.

Questo è quanto posso dire per la nomina da me fatta e di cui assumo tutta e piena la responsabilità. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per fatto personale l’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. A me sono stati fatti due addebiti: anzitutto quello di essere stato nominato consigliere di Stato, onde sono stato qualificato profittatore.

Faccio presente, per chi non lo sappia, che a questa carica sono arrivato dopo 24 anni di servizio fedele ed onorato in favore dello Stato; e che già, quando fui nominato consigliere di Stato, avevo raggiunto l’altissimo grado di sostituto avvocato generale dello Stato.

Nominato magistrato nel lontano maggio del 1922, vinsi il concorso, quinto in graduatoria, tra 60 concorrenti di tutta Italia. Fui accolto, quarto in graduatoria, nell’Avvocatura dello Stato; e promosso sempre per meriti eccezionali.

Non devo dunque a nessuno, se non alla Provvidenza che mi ha dotato d’ingegno, (Applausi al centro) e alla forza di volontà che in un quarto di secolo ho sempre dimostrata, se ho raggiunto quel posto per il quale il Presidente Bonomi volle propormi al Consiglio dei Ministri, nonostante la mia riluttanza, come possono testimoniare tutti gli amici che ho frequentato alla Presidenza del Consiglio.

Quanto poi all’altro addebito di profittantismo perché avrei messo la mia candidatura a deputato subito dopo aver cessato dalla carica di capo di Gabinetto alla Presidenza del Consiglio, non vedo proprio come si possa parlare di profittantismo. Non la intendono così i miei elettori che mi hanno dato 50 mila voti preferenziali.

Io non ho profittato di nulla, perché mi sono dimesso, prima di porre la mia candidatura, non in modo formale, ma sostanziale. Comunque non si può, non è lecito, né giuridicamente, né moralmente, confondere una eventuale causa di incompatibilità ad essere eletto deputato con un profittantismo morale ed economico.

Per le cause di incompatibilità esiste anche la Giunta delle elezioni, che ha convalidato, con piena cognizione degli elementi di causa, la mia elezione. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per fatto personale l’onorevole Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Ne ha facoltà.

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Una semplicissima precisazione. L’onorevole Finocchiaro Aprile ha dichiarato che io sono il Presidente della Banca Popolare di Novara.

Tengo a chiarire che conosco la Banca Popolare di Novara per rapporti di carattere professionale, ma che non ho mai avuto occasione di interferire con essa per quanto concerne la sua Amministrazione, e che non ho mai salito le scale della sede centrale della Banca stessa, né come funzionario, né come membro del Consiglio d’Amministrazione, né, tanto meno, come Presidente.

A tale carica, a quanto mi risulta, è preposto l’Ambasciatore Cerruti; quindi la dichiarazione dell’onorevole Finocchiaro Aprile è assolutamente infondata e si basa su informazioni false e tendenziose.

Penso che il collega, prima di esporre alla Camera dichiarazioni di questa importanza, avrebbe avuto il dovere di controllarle. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. L’incidente è chiuso.

TRIPEPI. E gli altri che cosa rispondono? Niente? (Vivi commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Tripepi, ella non ha diritto di parlare.

TRIPEPI. Io, come rappresentante della Nazione, chiedo che cosa rispondono gli altri. Prendiamo atto del silenzio. (Interruzioni – Commenti).

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Ritenevo che fosse inutile da parte mia una risposta all’onorevole Finocchiaro Aprile; ma giacché un collega ha voluto insistere a questo riguardo, non ho per conto mio che da ricordare che dopo la liberazione i partiti politici, i quali facevano parte del Comitato di Liberazione Nazionale, hanno assegnato i varî posti più importanti delle amministrazioni in modo che ciascun partito avesse la sua rappresentanza. (InterruzioniCommenti).

PRESIDENTE. Non interrompano!

MICHELI. E come il Partito socialista ha avuto la Previdenza sociale e il partito comunista gli Infortuni (I.N.F.A.I.L.), così al Partito democratico cristiano è stato attribuito l’Istituto nazionale delle assicurazioni. E quando il Presidente, allora nominato, per particolari ragioni sue personali ha presentato le dimissioni, sono stato chiamato io a sostituirlo. La cosa è molto semplice: ed è evidente come non ci sia stata nessuna ragione di profittantismo né da parte mia, né da parte d’altri nelle mie condizioni.

Il Partito mi ha chiamato e io ho accettato il posto, come era mio dovere. Altre cariche sono aggiunte, sono unite per forza di cose all’Istituto medesimo, così come succede in altri grandi istituti: ad esempio, i rappresentanti dell’I.R.I., della Banca d’Italia, della Previdenza sociale entrano in tutte le compagnie collegate.

Quanto alle cifre accennate, debbo ricordare che l’I.N.A. è ancora uno dei pochi enti che hanno mantenuto le indennità dei tempi passati, non avendo fatto nessun ragguaglio monetario. Quindi, allorché si è parlato di cifre molto cospicue, certo si intendeva parlare di altri Enti, non di quello delle Assicurazioni, nel quale le rimunerazioni agli amministratori rappresentano cifre tali che non espongo nemmeno, perché sono troppo modeste. (Applausi al centro).

CHIEFFI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CHIEFFI. Se da un deputato di destra non fosse venuto l’invito per un completo chiarimento da parte di tutti gli incriminati dall’onorevole Finocchiaro Aprile, io non avrei chiesto la parola. Debbo invece farlo, anche per adempiere alla richiesta di cui ho detto, proveniente da un qualunquista.

Sono stato nominato Commissario della Azienda Carboni Italiani oltre due anni fa, cioè quando non ero deputato. Ho trovato l’Azienda in condizioni tali che soltanto una capacità tenace ed una volontà ferrea (Commenti – Interruzioni) potevano portarla nelle condizioni in cui oggi essa è. Ho trovato le miniere sarde con una produzione di carbone di appena 28 mila tonnellate mensili e l’ho portata, con la collaborazione dei miei operai, a 108 mila tonnellate il mese, in poco più di un anno. (Approvazioni).

Una voce al centro. Questo è vero.

CHIEFFI. Debbo un’ulteriore precisazione all’onorevole Finocchiaro Aprile: quando fui chiamato a dirigere l’Azienda Carboni Italiani, non ero un individuo qualsiasi, ma provenivo da altra importante azienda industriale, ove per lunghissimi anni avevo ricoperto la carica di dirigente.

Credo di avere risposto esaurientemente all’onorevole Finocchiaro Aprile, aggiungendo soltanto che le laute prebende sono fissate dai Ministeri competenti che controllano l’Azienda e che, si riducono a ben modeste cifre. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo deputati: Valenti, Stella e Spataro.

(Sono concessi).

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. Comunico che, in seguito alla morte dell’onorevole Achille Grandi, deputato per la Circoscrizione di Milano-Pavia (IV), fu chiamato a sostituirlo, e dalla Camera proclamato nella seduta del 12 dicembre 1946, l’onorevole Pietro Ferreri.

Contro la proclamazione dell’onorevole Ferreri è pervenuto un reclamo, che la Giunta delle elezioni, nella sua seduta odierna, ha ritenuto inconsistente, proponendo all’Assemblea Costituente la convalida della elezione.

Do atto alla Giunta di questa sua comunicazione e, salvo i casi di incompatibilità preesistenti e non conosciuti fino a questo momento, dichiara convalidata questa elezione.

Annuncio di nomina di Sottosegretari di Stato.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Mi onoro informare l’Assemblea che il Capo provvisorio dello Stato, con decreti in data 14 corrente, ha nominato Sottosegretari di Stato:

per la difesa: l’onorevole avvocato Giuseppe Brusasca, deputato all’Assemblea Costituente; l’onorevole generale Luigi Chatrian, deputato all’Assemblea Costituente; l’onorevole Francesco Moranino, deputato all’Assemblea Costituente; l’onorevole avvocato Vito Mario Stampacchia, deputato all’Assemblea Costituente;

per la marina mercantile, l’onorevole ingegner Giosuè Fiorentino, deputato all’Assemblea Costituente.

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: «Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri».

È iscritto a parlare l’onorevole Bencivenga. Ne ha facoltà.

BENCIVENGA. Dobbiamo essere grati al Presidente onorevole De Gasperi di aver trovato finalmente quelle parole che tutti gli italiani, e particolarmente i reduci, attendevano, parole che suonano esplicito riconoscimento delle virtù militari dell’esercito, della marina e dell’aviazione.

Virtù militari a servizio della Patria e non di questo o di quel partito; poiché tradizione mai violata dalle Forze armate italiane è stata quella di tenersi al di fuori delle competizioni politiche, o meglio di trovare nella vita dei reggimenti, sulle navi e negli aeroporti un ambiente sereno nel quale un solo ideale si levava superbo, quello delle fortune della Patria.

Con profonda commozione abbiamo udito, dalla voce accorata del Presidente del Consiglio, la ingiusta condizione imposta all’Italia dal Trattato cosiddetto di pace.

Era ora che una parola così autorevole si levasse a far giustizia di tutte le assurde accuse rivolte, soprattutto all’esercito, quasi che esso fosse responsabile di una guerra sfortunata. Le Forze armate al servizio della Patria non hanno alcuna responsabilità dello scatenamento di una guerra che andava contro gli ideali del popolo italiano; ma, una volta dichiarata, esse si sono prodigate fino all’estremo limite del sacrificio. Quello che esse fecero ha del leggendario e mi auguro che presto gli Stati maggiori dell’esercito, della marina e dell’aviazione, faranno conoscere ciò che le nostre Forze armate fecero, nonostante l’inferiorità di mezzi, di armamenti, e nonostante l’assurda impostazione del piano di guerra aggravata dal fatto di avere virtualmente posto le nostre Forze militari alla dipendenza della Germania, per la quale il nostro contributo si può riassumere in una sola parola: sacrificio!

L’esercito soprattutto era talmente impreparato che, allorquando nel 1939 il Capo del Governo, capo delle Forze armate, prospettò l’eventualità di scendere in guerra nel 1943 (dico 1943), il nostro Stato Maggiore fu preso da un vero sgomento, e dichiarò essere impossibile in quattro anni circa, e nonostante l’offerta di larghi mezzi finanziari, mettere l’esercito in piena efficienza nei riguardi degli armamenti. È facile immaginare in quali condizioni noi siamo quindi scesi in campo nel giugno 1940! Non è esagerato affermare che il rapporto degli armamenti poteva paragonarsi a quello di un esercito armato di lance e frecce contro eserciti provvisti di armi da fuoco.

Si è detto da qualche pubblicista che l’Alto Comando si sarebbe dovuto opporre. È codesta un’affermazione pericolosa e che solo lo smarrimento dell’ora può giustificare. Le Forze armate sono a servizio dello Stato; ad esse non resta che obbedire, sia pure dopo aver manifestato la propria opinione. Del resto, anche la Costituzione elaborata dai nostri colleghi, sulla quale mi riservo di parlare a suo tempo, mantiene fermo quel principio ed anzi rimette all’Assemblea Nazionale la decisione di guerra.

Non dunque si può rimproverare ai capi delle Forze armate l’impreparazione. E neppure il piano di guerra.

Farei torto ai miei colleghi se ripetessi qui quello che ha lasciato scritto Clausewitz, che è il più grande teorico della guerra, traendo le sue deduzioni dalle campagne dei più celebri capitani, essenzialmente da quelle napoleoniche.

Secondo il grande filosofo, la guerra è la continuazione della politica con le armi alla mano, ed è assurdo far ricadere sui capi militari la responsabilità del piano di campagna. Tanto meno poi quando, come avvenne da noi nel 1940, il Capo del Governo è anche il comandante delle Forze armate. Si aggiunga altresì che l’Alta Direzione della guerra fu assunta virtualmente dallo Stato Maggiore germanico; ed alla Germania il nostro Paese dovette la perdita delle Colonie dell’Africa settentrionale per l’impulsività di Rommel e l’inettitudine di Kesserling, ed alla Germania si dovette altresì il disastro della campagna di Russia.

Io invito il popolo italiano a leggere la pubblicazione del nostro Stato Maggiore su questa campagna ed il libro del Maresciallo Messe dal titolo «Come finì la guerra in Africa», per avere una visione di quei tragici avvenimenti nei quali si rilevò tutta la brutalità del soldato germanico, eroe nella buona fortuna, vile nell’avversa. Quei soldati, non solo non dimostrarono nessuno spirito di cameratismo con i nostri, ma esercitarono su di essi violenza per strappare i mezzi di trasporto, impadronirsi dei magazzini viveri, lasciando morire di fame i nostri fratelli, negando ai feriti ogni soccorso, ed ai morti una pietosa sepoltura.

Eppure nel disastro che coronò le due campagne quanti atti di eroismo! La campagna in Africa Orientale poi, sostenuta soltanto dalle nostre truppe, costituisce una pagina meravigliosa e gloriosa delle nostre Forze armate. Gli stessi avversari resero omaggio a quei capi che sostennero la lotta fino a che rimase una goccia di acqua per dissetare le gole arse dei combattenti, un pezzo di galletta per non morire di fame, una cartuccia da sparare ed un proietto da lanciare dalle bocche da fuoco!

Nei Balcani la guerra ebbe un carattere selvaggio per la natura dei luoghi e la pratica di guerra seguita da quelle popolazioni; ed i nostri capi, spesso con forze insufficienti, sostennero l’onore delle nostre bandiere, senza trascendere nelle crudeltà insite in guerre di partigiani.

Io affermo, in piena coscienza, che in questa guerra le Forze armate hanno scritto pagine di cui i nostri figli potranno andare fieri.

È pura demagogia, che si manifesta sempre nei Paesi di scarse tradizioni militari, voler contrapporre, quando la guerra sia sfortunata, il valore delle truppe all’inettitudine dei capi! Si ignora con ciò l’aforisma che: tali sono le truppe quali i loro capi!

Ho detto che il fenomeno della denigrazione dei capi si ripete per i popoli di scarse tradizioni e di scarsa cultura militare. Infatti guardate il popolo francese! guardate il popolo germanico! La Francia ha sempre glorificato la campagna del 1870-71, nonostante la dura sconfitta subita; ed oggi si guarda bene dal sollevare querimonie contro il suo esercito, potente per mezzi e per numero, che, travolto sulla linea difensiva a nord, in una settimana circa perdeva tutto il territorio francese e si scioglieva come neve al sole!

È oggi una ironia del destino che quelle bandiere francesi che si trascinarono nel fango durante la ritirata, debbano sventolare su terre italiane che il diktat delle quattro Potenze ci ha imposto di cedere.

Noi, per contro, dimostriamo un vero accanimento nel diffamare esercito e capi. L’onorevole Lombardo nel suo discorso sentenziò che nessun generale italiano sarebbe ritornato nei ranghi. Non so se questo sia il pensiero del popolo italiano; certo, quelli che non torneranno saranno i 56 generali caduti sul campo dell’onore. (Applausi a destra).

Una voce a destra. Cinquantasette col generale Bellomo.

BENCIVENGA. Abbiamo perduto la guerra. È una realtà. Ma io chiedo che per fini politici non si disperda il patrimonio morale conquistato sui campi di battaglia!

Abbiamo perduto la guerra! ripeto, ma avremmo potuto salvare la pace, se i Comitati di salute pubblica che si sono succeduti dopo la liberazione di Roma non avessero favorito il disegno degli Alleati di non mantenere gli impegni presi di farci partecipare alla guerra con un vero e proprio esercito regolare. Fu pura demagogia da parte dei governi del Comitato di Liberazione Nazionale costituire la così detta guerra di partigiani, genere di guerra che non poteva dare che scarso rendimento sul nostro teatro di operazione così fittamente popolato di fronte ad un nemico come il tedesco… (Interruzioni a sinistra).

BENEDETTINI. Basta con questi sistemi! (Rumori – Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Benedettini, la prego!…

BENCIVENGA. …che aveva dimostrato con l’eccidio delle Fosse Ardeatine la misura della sua ferocia.

Se il Comitato di salute pubblica, invocato dal collega Nenni come pura reminiscenza romantica, avesse veramente voluto assolvere un compito eroico, invece di riempire le galere di uomini che altra colpa non avevano che quella di avere creduto a chi a prezzo della libertà prometteva una Patria più grande; se invece di dividere gli italiani in puri ed impuri avesse chiamato a raccolta tutti gli italiani al grido: «La Patria è in pericolo»! avremmo potuto pretendere di reclamare la stessa posizione della Francia che, pur avendo collaborato col tedesco, si era riscattata con poche truppe coloniali. (Commenti a sinistra).

BENCIVENGA. L’onorevole De Gasperi, nel suo accorato discorso ha detto che «purtroppo, dopo il disarmo che ci è imposto, la difesa delle nostre frontiere resterà affidata, soprattutto, al genio dei comandanti e al petto valoroso del nostro popolo in armi». E l’Assemblea ha calorosamente applaudito.

Mi permetta il Presidente di chiedergli se nella politica seguita dai Governi del Comitato di liberazione nazionale, ed anche seguita oggi, in confronto di capi e gregari reduci di guerra, sia la premessa utile alla realizzazione del suo nobilissimo pensiero!

Crede il nostro Presidente che l’aver cacciato in galera capi valorosi che la Magistratura, nella sua alta probità, ha poi rimesso in libertà, l’aver deferito al giudizio di commissioni arbitrarie l’esame della condotta di questi capi, sia tale da incoraggiare uomini di alto sentire e di fierezza di carattere ad assumere la funzione di capi? No!

Roma, che era maestra nel governo degli uomini dava ben altro esempio.

Ricorderò come dopo la disfatta di Canne il Senato romano movesse incontro al generale Varrone ringraziandolo di aver avuto fiducia nella Patria! L’amico Conti, appartenente a quei repubblicani che godevano di tante simpatie nel nostro esercito, perché primi in linea quando erano in giuoco le sorti della Patria, mi dirà che tutto quanto è avvenuto contro i nostri capi si è verificato prima dell’avvento della Repubblica.

Ma io penso che si sia ancora in tempo. E sono certo che se il compassionevole giuoco dei partiti politici non avesse costretto il Ministro Facchinetti ad abbandonare la direzione del Ministero della guerra, egli avrebbe portato nella soluzione del problema dei capi un nobile senso di umanità e giustizia.

Invero dall’insediamento dei Comitati di liberazione nazionale ad oggi è stato tutto un susseguirsi di leggi che nessun consenso hanno avuto dai rappresentanti del popolo italiano; leggi e disposizioni dettate da uno spirito fazioso che offende non solo l’alto senso di giustizia, ma la stessa sensibilità di nostra gente. Si afferma che si vuol, con tali mezzi, epurare l’esercito, ricostituirlo… No! Egregi colleghi, così lo si distrugge. Il disarmo imposto dagli alleati è cosa che non preclude l’avvenire; ma l’opera fin qui seguita compromette per sempre la rinascita di un esercito degno di questo nome.

Perché un esercito vive delle sue tradizioni, della fiducia che riscuote nel Paese; e quali tradizioni potrebbe vantare questo nuovo esercito? quale fiducia potrebbe riscuotere nel popolo, qualora si facesse strada il convincimento che quello sceso in campo, pur guidato da uomini che avevano dato prove di valore nella grande guerra, ha miseramente fallito alla prova?

Io giungo al paradosso affermando che pur se l’esercito fosse colpevole di tutti gli errori che gli si attribuiscono, carità di Patria dovrebbe indurre a nasconderli! Così hanno sempre fatto i paesi che tengono al loro prestigio guerriero!

La Francia, dopo la guerra 1870-71, si limitò a porre sotto giudizio, a senso dei regolamenti comuni ad ogni esercito, solo i generali che si erano arresi in campo aperto; a promuovere una inchiesta sul funzionamento di taluni servizi e nulla più! Essa onorò i generali dell’Impero, anzi taluni elevò alle supreme cariche dello Stato, come il MacMahon che, nel 1873, alla caduta di Thiers, fu Presidente della Repubblica!

Tuttavia io non contesto che il nostro Paese abbia il diritto di sapere come sono andate le cose e quali siano le responsabilità dei suoi capi; così come facemmo a Caporetto. Com’è noto, fu allora nominata una Commissione d’inchiesta costituita da alte personalità militari, politiche e giuridiche, che assolse il suo compito alla luce del sole!

Quale differenza col procedimento usato oggidì, in dispregio a tutti i principî di democrazia! Oggi nessuna Commissione d’inchiesta è stata nominata per far luce sulla responsabilità della dichiarazione di guerra e sul modo col quale la guerra fu condotta. Nessuna inchiesta sui fatti d’arme, ma una semplice Commissione, in prevalenza di uomini politici, è chiamata a dare il parere sulla conservazione in servizio degli altri generali; giudizio che, per disposizione recente, sarà esteso fino ai colonnelli!

Ciò in base ad un decreto in data 14 maggio 1946, emanato cioè alla vigilia delle elezioni di questa Assemblea! Il decreto non precisa quale debba essere questo parere e su che cosa fondato, quali inoltre debbano essere i costituenti della Commissione. Donde il legittimo sospetto di arbitrii e di errori.

Soprattutto di errori! Perché, egregi colleghi, non è cosa facile dare il giudizio sul comportamento in guerra di alti comandanti. Assai istruttiva, al riguardo è la lettura della relazione d’inchiesta su Caporetto. Quanti e quali giudizi contradittori da parte dei testi chiamati a deporre! E quanti in buona fede! Il testimone infatti è portato a generalizzare episodi nei quali fu coinvolto, ad esagerare ciò che colpì la sua fantasia, quando poi non si tratti di individui che, travolti dalla fuga, sono indotti a giustificare la propria condotta denunciando errori e deficienze che spesso non erano che nella loro fantasia alterata! Non si dimentichi poi che la fuga sui campi di battaglia comincia dal di dietro e che i fuggiaschi non possono sapere gli eroismi di coloro che sono ancora intenti a combattere sul fronte!

La riduzione dei quadri è una necessità assoluta, alla quale non possiamo sottrarci. Ad essa avremmo dovuto addivenire anche se vincitori! È ovvio che, per essa, debba prevalere il criterio della selezione. Ma a questa tragica necessità si deve pervenire attraverso la più rigida legalità.

Se, come ci si affanna a dire, abbiamo restaurato la democrazia, è al popolo, attraverso i suoi legittimi rappresentanti, che spetta definire i modi e gli organi, che debbono presiedere all’opera di selezione. È il Paese che deve dare il suo assenso alla scelta dei giudici. In sostanza: nulla deve restare nell’ombra, nulla deve essere lasciato all’arbitrio di uomini dei quali possiamo pur riconoscere la dirittura morale, ma dei quali non possiamo escludere l’incompetenza e la possibilità di errore!

Ho accennato innanzi all’accoglienza fatta ai reduci! La sensazione che essi hanno riportato al loro ritorno – sensazione condivisa dal Paese – è quella di essere riguardati quali colpevoli, complici dell’avventura fascista! Non voglio io, che rimprovero la demagogia negli altri, cadere nello stesso errore; e pertanto non insisterò sull’argomento limitandomi a far rilevare il diverso trattamento fatto ai partigiani, dei quali nessuno può disconoscere le benemerenze, ma dei quali non si deve sopravalutare il rendimento; non già per mancanza di buona volontà o di vigoria o di coraggio, ma perché non era loro possibile far di più, senza attirare sulle popolazioni crudeli rappresaglie e distruzioni selvagge sul nostro territorio!

MASSOLA. Non è vero!

BENCIVENGA. E veniamo alla costituzione del Ministero della difesa.

Non contesto al Capo del Governo la facoltà di sostituire i tre Ministeri militari con un unico Ministero; osservo però che di un provvedimento del genere, per le difficoltà d’ordine pratico che presenta, per le ripercussioni psicologiche e materiali che avrà, meglio sarebbe stato farne oggetto di preventiva approvazione dell’Assemblea.

A dire il vero, non so spiegarmi i motivi che hanno spinto il Capo del Governo a metterci di fronte a un fatto compiuto! Non posso dare che un valore letterario alla dichiarazione del Presidente di voler cancellare perfino il nome «Guerra» dalla terminologia di due dei tre preesistenti Ministeri! Dio volesse che una così nobile manifestazione di buona volontà trovasse eco nei popoli! Purtroppo l’orizzonte della pace è ancora coperto da folte nubi.

Se il motivo addotto dall’onorevole Presidente vuole essere davvero quello di dare la sensazione del nostro sentimento pacifista, mi permetto di fargli rilevare che la costituzione di un Ministero di difesa nazionale costituisce strumento tipico di una politica aggressiva, in quanto permette di coordinare in uno sforzo armonico e secondo un disegno operativo segreto, l’attività e lo sviluppo degli organi preposti all’Amministrazione dell’Esercito, della Marina e dell’Aviazione.

E difatti il Governo fascista costituì il Ministero di difesa nazionale proprio per quelle Campagne dell’Africa Orientale che segnarono il principio di quella politica di espansione che si concluse poi con la guerra mondiale!

Penso piuttosto che il Presidente del Consiglio abbia voluto, con la istituzione di un unico Ministero, dare un indirizzo nuovo ed uniforme, e soggiungo umano, alla liquidazione del passato (e sotto questo punto di vista non può non riscuotere il consenso di chi abbia carità di Patria), eliminando germi di malcontento capaci di insidiare l’opera di ricostruzione del nostro Paese!

E pertanto, a tranquillizzare tutti coloro che da una radicale trasformazione possono trarre danno, io vorrei che il Presidente accentuasse quel pensiero chiaramente espresso nel dare l’annuncio della fusione dei tre Ministeri, cioè che la trasformazione deve compiersi gradualmente e proporsi anzitutto di fondere insieme le virtù militari della Marina e dell’Aviazione, dopo l’altra guerra;

Sulla gradualità della trasformazione materiale io metterei un tale accento da ridurla per il momento ad una semplice fase di studi preliminari!

Perché, creda a me, che ho preso parte alle ampie e numerose discussioni sulla stampa relative a questo problema, esso non è facile, non è economico (come può apparire superficialmente) e soprattutto mal si concilia con un regime veramente democratico e parlamentare. E di fatto i Ministeri di difesa sono propri dei regimi autoritari.

Ed ora mi rivolgo al Ministro Gasparotto, preposto al Ministero della difesa, di cui conosco la elevatezza dell’animo, provato dalla sventura. Veda di rimediare al mal fatto fin qui; porti nel penoso lavoro al quale non possiamo sottrarci per l’imposizione del trattato di pace di riduzione dei quadri delle Forze armate, cuore e senso di giustizia e soprattutto di legalità. Eviti offese morali che incidono sugli animi più dei danni materiali.

E mi permetta di richiamare la sua attenzione su una questione che ritengo di somma importanza.

Per effetto della riduzione dei quadri avremo un gran numero di pensionati. Ebbene, bisogna, almeno per i più giovani, preoccuparsi di render loro possibile una attiva partecipazione alla vita civile.

Non debbo ricordare a voi, egregi colleghi, che furono i famosi «demis-soldes» (i cosiddetti pensionati dal Governo della prima restaurazione in Francia, dopo la caduta di Bonaparte ed il suo invio all’isola d’Elba) che ricondussero sul trono Napoleone!

Io non credo che i nostri pensionati coltiveranno simili propositi di restaurazione, ma è certo che nell’ozio potrebbero maturare propositi non sempre ragionevoli, specie se stimolati da esigenze materiali di vita.

Bisogna dunque preoccuparsi, come dicevo dianzi, che specie i più giovani possano trovar modo di esplicare la propria attività nella vita civile. Per la qual cosa io penso che si debba facilitare a questi pensionati la concessione di titoli accademici che permetta poi ad essi dedicarsi a professioni liberali. Il Ministro della pubblica istruzione potrà all’uopo suggerire gli opportuni provvedimenti.

Ed ora mi consenta, il Ministro Gasparotto, di portare la questione su un terreno, direi cosi, scottante. Quello degli ufficiali di fede monarchica!

Mi consta che in questo campo si va compiendo un lavoro di indagine con metodi addirittura inquisitori!

Le Forze armate non hanno mai fatto questioni di fede monarchica o repubblicana: ma di fedeltà alla Patria, di obbedienza allo Stato. Lo sanno i numerosi e valorosi repubblicani che hanno servito nelle Forze armate.

Coloro, tra i vecchi ufficiali di carriera, che oggi ostentano fede di repubblicani, sono quegli stessi che ieri ne ostentavano altrettanta per quella monarchica. Sono uomini di poco carattere e pertanto i meno meritevoli di coprire alti gradi nella gerarchia!

La Repubblica non deve temere delle nostalgie del passato. I nuovi regimi hanno da temere soltanto della delusione che provocano in coloro che avevano atteso con speranza la costituzione di un nuovo ordine; nel nostro caso la delusione è in coloro che, lottando per la restaurazione della democrazia, vedono ripetuti ed aggravati gli arbitri del regime dittatoriale fascista! (Interruzioni).

E concludo. La guerra è perduta; ma non dobbiamo lasciarci abbattere, né dobbiamo disperare del nostro avvenire! Altre grandi nazioni subirono disastri militari, e dovettero piegarsi alle imposizioni dei vincitori; ma, educate dalla sventura, risorsero più forti e vigorose di prima.

Se non fosse un po’ un paradosso, direi che dobbiamo essere grati alle Nazioni che ci hanno imposto condizioni di pace inique, che saranno di maggior stimolo alle nostre virtù.

Una pace iniqua – che offende il senso morale – non è una pace duratura. Versailles informi.

Allora il disarmo imposto alla Germania non servì a nulla. È infatti illusione ritenere di stringere in catene la vita di un popolo!

Oggi le quattro potenze hanno superato per crudeltà le imposizioni di Versailles.

Noi pure disarmeremo! Ma se le nostre divisioni verranno disciolte, noi daremo i loro nomi gloriosi ai nostri battaglioni; se ci saranno tolte le nostre superbe navi, onuste di gloria, noi battezzeremo coi loro nomi le più piccole imbarcazioni. Il culto del passato sarà il viatico del nostro calvario.

L’Italia, ne sono certo, risorgerà più bella, più grande di prima, se gli italiani sapranno tutti sentirsi figli di una stessa terra, se sapremo soffocare i risentimenti, i rancori, lo spirito di vendetta.

Quel giorno, che io mi auguro vicino, noi potremo guardare con disprezzo e disdegno quei vincitori che tradirono la bandiera e quegli ideali per i quali dissero al mondo di essere scesi in campo; e l’Italia tornerà ad essere quella grande Madre di civiltà che fu nel passato e nel mondo presente.

In alto dunque i cuori. La sventura abbatte i deboli, non i forti! Il nostro tricolore, cantato dai poeti, baciato dai morenti sui campi di battaglia, raccolga tutti gli italiani stretti da un vincolo di fratellanza, di amore, di solidarietà sociale, tutti uniti in una sola fede per la rinascita della Patria!

Erompa dai nostri petti, ora più che mai, il grido: «Viva l’Italia!». (Vivi applausi a destra – Si grida: «Viva l’Italia!»).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Li Causi. Ne ha facoltà.

LI CAUSI. Onorevoli colleghi, desidero richiamare l’attenzione di questa Assemblea su un avvenimento di importanza eccezionale che avrà luogo nel nostro Paese tra qualche settimana: le elezioni per l’autonomia regionale della Sicilia.

L’avvenimento, oltre che di grande importanza politica, certamente è di portata storica, poiché sta per essere finalmente risolto nel nostro Paese uno dei più gravi problemi che hanno agitato l’Italia fin dalla sua formazione ad unità: problema che è sorto e risorto continuamente in tutti i momenti in cui il nostro Paese ha attraversato una grave crisi politico-sociale, come la dimane del 1860, nel 1876, nel 1893-94, alla fine dell’altra guerra, alla fine di questa guerra. Vi sono, cioè, profonde ragioni di squilibrio che, per quanto ripetutamente denunziate e, soprattutto, poste in evidenza dalle agitazioni delle masse siciliane, con maggiore o minor vigoria in questi vari momenti storici, mai hanno trovato accoglienza né appagamento. Mai queste esigenze sono state avvertite come giustificate, come esigenze di tutto il Paese, senza sodisfare le quali noi non potremo mai pervenire ad uno stabile equilibrio nazionale.

La catastrofe provocata dalla guerra fascista ha posto la nostra Sicilia – prima fra tutte le. Regioni d’Italia – immediatamente di fronte a tutte le sue contradizioni politiche e sociali. Alla rottura dell’equilibrio, prodotto dallo sbarco degli alleati, il problema si è posto da prima in maniera quasi ingenua dinanzi alla coscienza del popolo siciliano. Vi era una frattura: la Sicilia materialmente, politicamente, economicamente separata dal resto d’Italia; ogni scambio fra la Sicilia e il continente interrotto.

La infausta parola d’ordine di Badoglio, «la guerra continua», accanto ai tedeschi, accese il separatismo, come sentimento ingenuo di tutto il popolo siciliano.

Intanto è importante tener presente la debolezza delle forze politiche democratiche, per il fatto che l’antifascismo in Sicilia non aveva avuto modo di temprarsi e di organizzarsi durante il ventennio; e allo sbarco in Africa degli alleati, preludio dello sbarco nell’isola, la classe possidente siciliana, gli agrari, lo strato più attivo di essi, che vedevano lontano, entrarono in relazione con gli anglo-americani. In Sicilia l’antifascismo attivo, oltre che da sparutissimi nuclei di sinceri democratici, venne allora rappresentato, in stretto legame con gli agrari, da quanti negli anni 1926-27 erano stati colpiti dall’azione del prefetto Mori: la mafia dispersa nelle carceri e nei confini di polizia. I mafiosi si dissero antifascisti continuando ad essere mafiosi e profittarono largamente della situazione di emergenza. Gli alleati poggiarono su queste forze per fondare il loro controllo sulla vita siciliana, impedendo, anche con mezzi estremi, composti movimenti dei contadini e la nascita di qualsiasi organizzazione sindacale, della formazione delle sezioni socialiste e comuniste. I contadini della Sicilia andavano incontro agli alleati liberatori con la bandiera della Patria, con le bandiere americana e inglese e con la bandiera della Unione Sovietica. Ebbene, tanto la bandiera dell’Unione Sovietica, quanto la bandiera italiana, venivano subito fatte ammainare e i contadini, che avevano sperato fiduciosi di liberarsi dagli eterni oppressori, di lenire le sofferenze della dittatura fascista, e che credevano in buona fede ai liberatori, si trovarono ricacciati nella schiavitù, esposti alla provocazione.

Essi hanno visto rimanere nelle amministrazioni locali (e voi sapete che cosa significhi nei nostri paesi detenere i municipi) coloro che vi erano stati nel ventennio fascista; hanno visto assurgere ad amministratori i loro vecchi sfruttatori, i mafiosi ammantati di antifascismo e protetti dagli alleati, subendo quella profonda delusione che doveva accendere il loro malcontento e spingerli alla rivolta.

Gravissima colpa delle classi dominanti siciliane è l’essersi adoperate perché il popolo dell’isola non partecipasse alla guerra di liberazione, vittima del separatismo malizioso.

Mi duole che l’onorevole Finocchiaro Aprile non sia presente; ma non posso non accennare alla sua opera rivolta ad impedire la partecipazione del popolo siciliano alla guerra di liberazione. Nella seconda metà del 1943 furono gli alleati ad opporsi a qualsiasi costituzione di formazioni volontarie siciliane combattenti; a cavallo del 1944-45 furono i separatisti, in combutta con fascisti vecchi e nuovi, con emissari tedeschi e repubblichini, a dare la parola d’ordine della rivolta contro la chiamata alle armi, per la partecipazione alla guerra di liberazione anche dei siciliani, del governo democratico nazionale.

E si ebbero i gravissimi e sanguinosi episodi della provincia di Ragusa e qua e là un po’ in tutta la Sicilia.

Ebbene, a contrapporsi ai rivoltosi, ai separatisti, che tentarono, in quel momento delicatissimo per la vita del nostro Paese, di determinare la frattura tra la Sicilia e l’Italia, di impedire che soldati siciliani potessero nel nuovo sangue versato cementare l’unità con i soldati delle altre regioni, con i partigiani del Settentrione, sono stati insieme con la parte più cosciente del popolo siciliano, in prima linea, permettete che lo dica, sono stati i giovani comunisti. Ma ecco che in quella situazione torbida, in cui l’antifascismo non si era chiaramente spiegato, le autorità di polizia, anziché procedere agli arresti dei separatisti e degli organizzatori delle rivolge, arrestarono i nostri giovani che con i loro petti ed a prezzo della vita difesero i municipi, gli edifici pubblici, dalle fiamme e dalla furia devastatrice dei separatisti, rimanendo in carcere fino a qualche settimana fa, e non tutti sono stati ancora scarcerati.

Questi episodi cosa vi dicono, onorevoli colleghi? Che nella vita siciliana è mancato e ancora non è avvenuto quel processo di chiarificazione – soprattutto politica – per cui, ad esempio, tutta l’azione delittuosa del separatismo è ignota al resto del Paese. Il quale ha invece un’immagine deformata di quello che accade in Sicilia, ora creduta terra di banditi, ove non sia possibile girare neanche di giorno, non solo per le campagne, ma anche in città, senza essere accoppati, ora descritta come oasi di idilliaca convivenza. Ieri dai banchi dell’altra sponda un deputato monarchico, mentre l’onorevole Di Vittorio denunziava gli assassinî a catena dei dirigenti contadini, interrompeva per dire che in Sicilia si uccidono i comunisti perché il popolo siciliano non vuole il comunismo.

A far diffondere questa immagine deformata della realtà siciliana ha contribuito il Governo, i passati Governi, che hanno impedito la chiarificazione politica, che sola avrebbe permesso di far piena luce sull’azione dei separatisti, sull’azione dei baroni siciliani impeciati nel separatismo. Con quale coerenza ieri l’onorevole Finocchiaro Aprile designava e invocava l’onorevole Nitti alla direzione del Governo, non è chiaro comprendere, poiché l’onorevole Nitti è contrario apertamente, non dico alla separazione della Sicilia dall’Italia, ma all’autonomia delle regioni, al decentramento amministrativo, ad ogni forma di federalismo e di confederazione.

Ci troviamo di fronte ad un giuoco multiplo dell’onorevole Finocchiaro Aprile, il quale qui fa il demagogo, mentre in Sicilia lascia che il movimento che dirige permanga, come già alla vigilia del 2 giugno, «agnostico», sia su terreno istituzionale che su quello sociale.

Vorremmo che egli, come non ha fatto all’ultimo congresso di Taormina, ci dicesse che pesce è.

E finché questa chiarificazione non avrà luogo, l’onorevole Finocchiaro Aprile può continuare il suo giuoco, le idee rimarranno confuse, la situazione pericolosamente torbida, i fenomeni, come quello della mafia, chiari nella loro origine e nel loro permanere rimarranno misteriosi, stranissimi e non potranno essere eliminati.

Ed è vitale, non solo per il popolo siciliano, ma per tutto il popolo italiano, sapere se le elezioni del 20 aprile dovranno farsi sotto il segno del blocco agrario alleato alla mafia, oppure sotto il segno della democrazia; se in Sicilia dovranno affermarsi le forze che consolideranno la Repubblica o quelle che vogliono minarla.

Un gravissimo fatto politico si è prodotto giorni fa in Sicilia. Vi è noto come, sotto l’impulso dell’Alto Commissario avvocato Selvaggi, giunto nell’isola in un momento di grave tensione per l’applicazione del decreto Segni, relativo alle terre incolte, si giunse ad un patto di concordia e di pacificazione fra proprietari terrieri e contadini senza terra. Il patto, applicato e rispettato nella sua lettera e nel suo spirito lealmente dai contadini, fu ripetutamente e continuamente violato dagli agrari.

Quando, di fronte al nuovo anno agrario, l’Alto Commissario convocò le parti per rassodare e sviluppare il precedente patto, dinanzi alla legittima richiesta dei contadini di riaprire i termini per la presentazione di nuove domande di assegnazione di terre incolte, gli agrari siciliani hanno rotto coll’Alto Commissario, decisi a non volere più l’applicazione del decreto Segni in Sicilia! «Ora avremo la nostra autonomia – dissero i baroni – e le leggi agrarie ce le faremo noi!». Ecco l’animo dei terrieri siciliani, ch’io denunzio, affinché tutto il Paese sappia come essi intendono l’autonomia regionale. Non solo la struttura feudale terriera dell’isola non deve essere toccata, ma l’avvento, al Governo della regione, del blocco agrario deve significare l’arresto di ogni sia pur minima riforma.

Un grosso proprietario terriero, uno dei tanti baroni di cui v’è dovizia nell’isola, si rivolse ad un tecnico agrario di grande valore per avere un piano di trasformazione fondiaria; presolo in esame concluse: il piano è ottimo, risponde agli interessi nazionali, ma non risponde ai miei particolari interessi. Se fossi costretto ad eseguire un piano simile, venderei la mia terra in Sicilia per comprarmene altra già trasformata nel continente.

Ecco la mentalità di gran parte dei grossi proprietari siciliani.

Essi dicono: le mie terre? Non ne so neanche l’estensione; non me ne sono mai occupato direttamente. Ho il mio amministratore che tratta coi gabellotti e pensano loro a vedersela coi contadini. A me ogni anno entrano tanti milioni.

Dunque, chiarissimo signor tecnico agrario, il suo piano è ottimo, è nell’interesse nazionale, ma non fa per i miei particolari interessi!

Ecco la mentalità che bisogna distruggere in Sicilia, senza di che nessuna possibilità vi è di porre un problema di rinascita per la Sicilia, di elevare i nostri contadini.

Non vedo neanche l’onorevole Vito Reale che l’altro giorno diceva: Non va questo doppio giuoco dei comunisti; il ricorso alla piazza, alle agitazioni. C’è un Parlamento, un Governo; tutto si svolga in questo semicerchio ovattato di Montecitorio. Cosa c’entrano le masse?

Si governa per il popolo, ma senza il popolo.

Onorevole Reale, onorevoli colleghi, credete voi che sarebbe stato possibile in Sicilia, non dico applicare, ma tentare di applicare i decreti Gullo, il decreto Segni, se i contadini non si fossero messi in movimento, se non avessero manifestato la loro decisa volontà di ottenere qualche cosa? In Sicilia anche elementi di partiti democratici hanno boicottato le leggi a favore dei contadini. Il decreto Gullo, essi dicevano, va bene per le altre parti d’Italia non per la Sicilia. Che ne sa il Ministro Gullo della nostra Sicilia? Dobbiamo esser noi siciliani a farci le nostre leggi sulla terra.

Ma chi è questo Gullo? facevano eco i marescialli dei carabinieri. Gullo non è più Ministro dell’agricoltura, quindi i suoi decreti non contano più.

Di fronte al movimento dei contadini gli agrari rimpiangono Crispi e il generale Morra di Lavriano; essi preferiscono che i contadini siciliani non si elevino dalle condizioni di lupi affamati, anche a costo di subire rivolte e devastazioni. Tanto poi si popolano galere e cimiteri, e per molti anni i contadini stanno tranquilli. Gli agrari paventano il movimento ordinato o organizzato dei contadini e ce l’hanno coi comunisti che li guidano nella lotta. Ebbene no! Abbiamo l’orgoglio di affermare qui, dinanzi a questa Assemblea, che dal 1944 in Sicilia non vi sono più rivolte di contadini, non vi sono più quelle esplosioni d’odio di masse sottoposte ad ogni abuso che non trovano ascolto presso nessuno. Il contadino siciliano non è arretrato; egli è tra i più laboriosi e intelligenti della terra ed ha piena e perfetta coscienza delle sue possibilità. «Finché c’è lei, veda, noi siamo contenti e tranquilli», mi dicono i contadini dei borghi delle zone latifondistiche. «Ma quando lei se ne va, chi ci difende da don tizio, dal maresciallo dei carabinieri, dal pretore? Io non posso andare a Caltanissetta, o a Palermo, e tanto meno a Roma. Dove ho i mezzi? e soprattutto chi mi darà l’anno venturo lo spezzone di terra che serve per nutrire i miei figli?»

Altro che arretratezza e ignoranza dei contadini siciliani; altro che arretratezza del nostro popolo lavoratore! Lo abbiamo visto, nel corso delle agitazioni per l’applicazione delle leggi Gullo e Segni; essi hanno espresso dal loro seno meravigliosi combattenti, come già in passato; ma la maffia, a tradimento, come per il passato, assassinò questi dirigenti, e alla schiera gloriosa di Lorenzo Panepinto, Giovanni Orcel, Sebastiano Bonfiglio, Bernardino Verro, Giuseppe Rumore e altri delle passate agitazioni, oggi si aggiungono i nuovi martiri, di cui il più forte e amato, Accursio Miraglia.

Che cos’è la mafia? Ce ne sono di diverse specie, a seconda dell’ambiente sociale in cui opera. Ma è necessario premettere che se questa organizzazione che si chiama mafia non sodisfacesse in certo modo a qualche esigenza della vita sociale, evidentemente non esisterebbe; nessun fenomeno sociale perdura e si riproduce, se non ha una sua ragione di essere. Non bisogna, dunque, giudicando della mafia, astrarre dalla funzione sociale che essa adempie.

Alla disgregazione sociale, all’atomismo dei lavoratori, all’isolamento che si vuole perpetuare con la violenza dei contadini, subentra l’intermediario, colui che tratta da una parte con i contadini e dall’altra col grande proprietario. Questo intermediario è di regola il mafioso che, non ha nulla a che vedere con l’imprenditore capitalista della Valle Padana, in quanto non impiega un soldo nella terra e sfrutta da perfetto parassita e i contadini e il proprietario.

Attraverso patti angarici strappa ai contadini il meglio del prodotto e spia il momento in cui il grosso proprietario si indebolisce per debiti contratti per ghermirgli il feudo. Il feudo passa in mano del mafioso o d’un gruppo di essi e lo sfruttamento dei contadini si perfeziona.

La «mafia dei giardini» fa da intermediaria tra i numerosi piccoli produttori della fascia costiera intensamente coltivata e chi detiene l’acqua per l’irrigazione, i mezzi di trasporti, il controllo dei mercati di sbocco e tutto quanto occorre a questi industri lavoratori.

Mafia delle città: l’episodio del cantiere navate di Palermo, che ha avuto risonanza nazionale ed ha stimolato il senso di solidarietà nazionale dei metallurgici, la illumina in pieno. In una città arretrata e disgregata come Palermo, i duemila e più operai del Cantiere, che fanno la loro esperienza di aggregazione nella disciplina della fabbrica, costituiscono un nucleo di forze sano, vitale. È un aggregato che a Palermo dà il tono politico nelle agitazioni e nelle manifestazioni.

Ebbene, c’è un impiegato di questo cantiere, già licenziato per le sue malefatte – il licenziamento è avvenuto d’accordo tra la FIOM e la Direzione – che intriga con la mafia del quartiere per esser riassunto. Questi mafiosi hanno il coraggio di presentarsi una mattina al cantiere, per imporre la riassunzione dell’impiegato aguzzino. Gli operai li individuano e, badate bene, avevano sbarre di ferro a loro disposizione; di fronte a questa gente armata che spara e ferisce mortalmente due giovani metallurgici, la massa non torce loro un capello, ma li consegna ai carabinieri. Ecco la mafia della città, forma diversa dell’unico fenomeno della disgregazione sociale, della intermediazione che sfrutta i lavoratori e fa pagare lo scotto anche agli industriali e ai commercianti, che rassicura contro i lavoratori e contro delinquenti non associati, indisciplinati.

Ebbene, è venuto il tempo di distruggere la mafia. E non, signori miei, come si invoca da qualche parte, con un nuovo prefetto Mori.

Nel 1926-27 sono stati gli agrari a dare l’elenco dei maffiosi al prefetto Mori, sicuri di avere le spalle al coperto del Governo fascista. E a migliaia, tra cui molti innocenti e traviati, i siciliani popolarono tutte le galere d’Italia.

Oggi, il problema della eliminazione della mafia devono porlo le forze democratiche, tutti i partiti sinceramente democratici. I partiti politici, per prima quei partiti politici che conservano i legami con la mafia – ed in Sicilia tutti sanno, in tutti i paesi si sa chi sono i partiti che hanno questi legami – debbono reciderli, o essere chiamati corresponsabili. Ebbene, di tutte le forze sociali capaci di accelerare questo processo di chiarificazione, la forza purificatrice, il movimento che ha posto questo problema e lo rende ora assolutamente inderogabile, è particolarmente il movimento contadino. I contadini in movimento costringono ceti e partiti ad assumere chiara posizione. Tutte le maschere cadono, ognuno è costretto a dire se è o no per la legge a favore dei contadini.

E niente di sovvertitore c’è nel programma dei contadini siciliani. Per prima cosa essi hanno detto: «Noi rispettiamo la piccola e media proprietà; escludiamo dalla richiesta di terre incolte la proprietà inferiore ai 100 ettari».

Ed hanno soggiunto: «Non possiamo continuare a produrre il frumento a 4-5 mila lire il quintale, perché fra qualche anno il frumento d’oltre oceano si potrà avere per molto meno e non vogliamo dannarci con gli operai, a spendere tutto il nostro salario per il solo pane. Vogliamo trasformare, bonificare questa terra. Datecene i mezzi. Via gli intermediari parassiti; via i proprietari assenteisti. Sappiamo che in Sicilia il capitale è scarso – la Sicilia è povera economicamente – siano benvenuti tutti coloro, ad incominciare dai proprietari, i quali hanno voglia di impiegare il loro capitale nella terra per questa opera di bonifica, per quest’opera di trasformazione».

Ebbene, di fronte a questa umana e civile posizione dei contadini, i signori della terra rispondono: «No». Essi si alleano colla mafia contro i contadini, e ostacolano in tutti i modi il consolidarsi delle cooperative che hanno avuto assegnate terre, creando un’atmosfera di sfiducia attorno ad esse: «Vedrete, dicono, i contadini non sapranno far nulla, non hanno preparazione tecnica, non hanno capitali, sono incapaci di affrontare la trasformazione».

Questa atmosfera di diffidenza influisce sulla magistratura, sugli organi di polizia, sugli strati intermedi, su quella «intelighentia», che in un Paese poverissimo, dove le industrie sono poco sviluppate, quasi sempre è al servizio di forze retrive.

In un Paese povero come la Sicilia, in cui i contrasti sociali si acuiscono, e tendono a trapassare repentinamente a forme violente, quale immensa, salutare azione potrebbero svolgere queste classi intermedie, questi intellettuali, questi tecnici, questi professionisti, questi magistrati; coloro, e sono molti delle classi medie, che avendo due o tre salme di terra, che non coltivano e da cui spremono quello che serve per far studiare i loro figli, per fare la dote alle figlie, che sono, permettetemi di dirlo, gli sfruttatori più esosi dei contadini, guardano con diffidenza, se non con ostilità, al moto redentore delle plebi rurali ! Essi cambierebbero atteggiamento, se avessero dinanzi a loro la visione che promovendo lo sviluppo economico della Sicilia, trasformando il latifondo, aprirebbero ai loro figli nuove strade che non siano quelle dell’impiego burocratico, del meschino posto in provincia. In Sicilia vi sono stati in ogni tempo ingegni doviziosi che, trovato l’ambiente favorevole, hanno dato tutto quello di cui erano capaci. Quale occasione migliore di questa, per i proprietari attivi, di rompere il vincolo avvilente che li asservisce alla maffia, quale compito politico e storico più alto di quello delle classi intellettuali di porsi accanto ai contadini, di aiutarne il movimento?

Questa situazione ho voluto brevemente lumeggiare, perché abbia risonanza in tutto il Paese e perché il Governo intervenga. Esso lo sa. Lo sa attraverso i carabinieri, l’Ispettorato di pubblica sicurezza, l’Alto Commissariato, e tutte le altre fonti d’informazioni.

Quando alla conferenza di organizzazione di Firenze del nostro partito, è giunta la notizia dell’assassinio del compagno Accursio Miraglia, Segretario della Camera del lavoro di Sciacca, una commissione nominata da quella assemblea è stata colà inviata. Ebbene, tra le molte testimonianze raccolte, la commissione ha assodato che l’elemento fortemente indiziato di aver fatto da palo nel momento dell’assassinio di Miraglia, è un confidente dei carabinieri; egli è inoltre gravemente indiziato di essere autore di una strage di sette contadini nello stesso territorio di Sciacca. Chi queste cose è venuto a riferire ai commissari soggiungeva: per carità non lo dite alla polizia; domani lo saprebbero i mafiosi e ci ammazzerebbero. Questo è stato detto da diecine e diecine di persone alla nostra commissione d’inchiesta, le cui conclusioni saranno rese pubbliche a giorni.

Perché questo avviene? Non è sul fatto in sé che io voglio richiamare la vostra attenzione, quanto sul sistema che rende possibile simili collusioni. Quando si fece il compromesso politico con i separatisti, quando si gettò un velo sul compromesso del generale Berardi con i grandi proprietari fondiari siciliani per assicurare in Sicilia il trionfo della monarchia, compromesso politico che portò alla scarcerazione immediata dei capi separatisti impeciati coi banditi; che diede mano libera alla polizia di sterminare le bande armate ormai abbandonate al loro destino dagli agrari, mafia e polizia hanno collaborato. Ora è evidente, in questo groviglio di responsabilità e di collusione, come volete che la gente sia tranquilla? Come volete che la gente affronti con serenità le elezioni del 20 aprile e non si preoccupi che l’autonomia consolidi il prepotere di queste forze antisociali? I siciliani vogliono conquistarsi l’autonomia, ma con una lotta affidata a metodi civili sul terreno democratico e che non abbiano ad ogni istante a temere l’insidia della collusione fra quel partito politico che dispone ai capi mafia protetti da una parte della forza pubblica. Qual è il timore che hanno le masse contadine? Di non essere sul piede eguale nella lotta politica, ma di essere invece, in partenza, in svantaggio, per cui i delitti perpetrati ai loro danni e che tanto hanno commosso l’opinione pubblica, delitti che nella stragrande maggioranza rimangono impuniti, gettino il discredito sullo Stato e sui suoi organi.

Allora, poiché si tratta non solo della prima elezione regionale, ma di una elezione di particolare importanza per l’autonomia della Sicilia, cioè del primo grandioso esperimento storico-politico del nostro Paese, della nostra Isola, che risponde alle esigenze profonde di rinnovamento del nostro popolo siciliano; poiché questo popolo siciliano vuole conquistarsi l’autonomia per sostanziarla delle sue aspirazioni, e vuole che in suo aiuto si schierino le forze democratiche di tutto il Paese per sbarazzare il cammino da tutte quelle incrostazioni feudali che finora hanno ostacolato il suo cammino, noi chiediamo che il Governo consideri con profondo senso di responsabilità la situazione siciliana, per salvaguardare in Sicilia, come in tutta Italia, l’istituto della Repubblica e la democrazia. (Applausi).

PRESIDENTE. È inscritto a parlare l’onorevole Scotti Alessandro. Ne ha facoltà.

SCOTTI ALESSANDRO. Onorevoli colleghi, cerco di interpretare davanti a questa Assemblea il pensiero di quella compatta famiglia di agricoltori – mezzadri, affittuari, piccoli e medi proprietari terrieri – che formano una delle più belle e benemerite categorie produttrici della Patria nostra e che sono politicamente orientate verso il partito dei contadini d’Italia. La gente rurale, sempre calma e serena nei suoi apprezzamenti, aveva aperto il cuore alla speranza nei giorni in cui l’onorevole De Gasperi era in America e sperava che, con l’aiuto di questa generosa nazione, il popolo italiano, moralmente unito, avrebbe ripreso sollecitamente la sua marcia ricostruttiva, rivalorizzando se stesso e la propria moneta. Invece, dopo il ritorno di De Gasperi si è avuta la crisi del Governo e con la crisi i giornali hanno dato in pascolo al buon popolo italiano tutte quelle notizie, più o meno vere e tendenziose, di beghe, di ambizioni di partiti e di persone che hanno fatto scomparire dal cuore della gente rurale la speranza di una rinascita vicina.

I rurali hanno intuito che i massimi esponenti delle varie correnti politiche non avevano nelle loro pupille l’immagine della Patria martoriata e sopraffatta dall’ingiustizia, ma le finalità propagandistiche dei rispettivi partiti, ed è dalla mancanza di questa visione degli interessi superiori della Nazione che deriva la mancanza di autorità del Governo presso il popolo, mancanza di unità e autorità che si è fatta sentire in tutti i Governi dal giorno della liberazione ad oggi.

La mancanza di unione del popolo italiano e dei partiti che lo rappresentano ha fatto svolgere al Governo una politica estera troppo remissiva nei confronti dei nostri vincitori, con i quali pure abbiamo collaborato negli ultimi diciotto mesi della guerra.

In forza dei loro sacrifici, delle loro sofferenze, delle loro case distrutte, delle loro stalle vuotate e soprattutto di tanto sangue versato nella guerra partigiana, gli agricoltori desideravano che i confini della Patria fossero stati difesi con più energia e che almeno allo Stato libero di Trieste fossero aggiunte le città rivierasche dell’Istria e specialmente Pola e Fiume; e avrebbero voluto che la Francia, questa Nazione che tanto sangue di origine italiana ha nelle proprie vene, sentisse un profondo disagio morale a valicare ed occupare quelle altissime vette che alimentano di acqua, di luce e di lavoro le nostre pianure e le nostre città piemontesi. È una spina che essa ci ha infitto nelle nostre carni vive togliendoci il Moncenisio, il Piccolo San Bernardo, Briga e Tenda, e finché questa spina resterà nelle nostre carni la fratellanza latina non potrà mai essere cordiale e sincera, ed è questo un grave danno morale e politico per le due nazioni sorelle.

Alla mancanza di prestigio dei passati Governi nei confronti con i vincitori dobbiamo lamentare la troppa arrendevole condiscendenza verso l’ordine interno motivata sempre dal fatto che i tre grandi partiti di massa non hanno trovato quella cordiale unità di propositi e di vedute che è necessaria per fronteggiare i gravi problemi sia della pace esterna, sia della ricostruzione interna.

Il fascismo, con la sua tirannide, ci aveva dato un ordine esteriore togliendoci la libertà; i Governi della liberazione ci hanno dato in molti settori la libertà, ma non sempre ci hanno dato l’ordine. Ora i rurali ritengono che al Paese sia necessario l’ordine e nell’ordine la libertà per tutti i cittadini.

È con amarezza che i piccoli agricoltori devono duramente constatare che, mentre l’autorità dello Stato è stata arrendevole verso tante categorie di cittadini che hanno scioperato anche fuori proposito; mentre ha concesso un’amnistia troppo generosa verso individui colpevoli di gravi delitti sociali – abuso di potere, dilapidazione del pubblico denaro, collaborazione aperta con il nemico, uccisione di partigiani e di contadini che li ospitavano – sia particolarmente severa ed ingiusta solo verso gli agricoltori, i quali hanno una sola colpa: quella di difendere il loro salario, che è il prezzo dei prodotti agricoli.

Essi constatano che mentre nessun controllo viene esercitato sui prezzi delle stoffe, delle scarpe, della biancheria, delle sementi, dei fertilizzanti, del solfato di rame, dello zolfo e di quanto altro occorre all’agricoltura; mentre nella città è lasciata la più assoluta libertà alla vendita dei prodotti razionati, una vigilanza armata esasperante è pronta a colpire nelle campagne i produttori ai quali è stata lasciata una razione insufficiente e tolto il mezzo di mangiare con tranquillità la polenta.

I piccoli agricoltori hanno chiesto come premio della Repubblica che ad essi fosse concesso mezzo quintale di granoturco pro capite, ma ad essi non fu risposto.

All’origine di ogni male sta il prezzo di imperio imposto ai loro prodotti senza tenere in alcun conto il loro duro lavoro ed i costi effettivi di produzione, mentre si sono abbandonati agli speculatori i grandi mercati di consumo.

Quello che in campagna è pagato dieci, in città è venduto cinquanta, e mentre si mette in prigione il piccolo coltivatore che si reca al mulino con qualche diecina di chili di grano in più per il mantenimento della sua famiglia, e gli si nega la libertà provvisoria e lo si multa con cifre così elevate che economicamente lo rovinano, si assolvono poi o si lasciano in libertà quelli che trasportano interi camions di grano con la complicità di agenti addetti agli ammassi, agli uffici della Sepral o dell’Upsea o delle medesime squadre di vigilanza.

Questa non è giustizia distributiva, e i piccoli proprietari chieggono unanimamente di ritornare al più presto possibile al regime di libertà. Quando un’azienda è passiva è interesse del proprietario di sopprimerla; ed io credo che se il Governo conteggiasse separatamente i milioni che giornalmente spende per mantenere vivi tutti gli uffici, a cominciare dall’Alto Commissariato per l’alimentazione, fino a tutti gli uffici accertamenti dei più piccoli comuni rurali; se conteggiasse il costo della benzina e le trasferte alle squadre volanti di vigilanza; se considerasse il tempo che perdono gli agricoltori a fare le lunghe code per la consegna dei prodotti e per la regolarizzazione delle tessere di macinazione; se considerasse il tempo che perde la gente per avere le tessere e gli impiegati per controllare i tagliandi, il Governo renderebbe al popolo italiano la sua libertà economica e con la libertà scomparirebbe ben presto la deprecata borsa nera, e tutti i milioni spesi in questa mastodontica bardatura di guerra potrebbero benissimo integrare il prezzo del pane a favore delle classi veramente povere.

Ho parlato di libertà economica, ma debbo pure dire che questa libertà è stata offesa anche per generi che non sono di prima necessità: così il Prefetto di Cuneo ha emanato un decreto che bloccava i bozzoli nella provincia; il prefetto di Alessandria ha tentato il blocco delle uve; il prefetto di Asti ha posto il blocco alle vinacce ed ai vinaccioli, ed anche il commercio delle sanse dell’olio non è libero. Ora, questi provvedimenti, presi dai signori prefetti con il tacito consenso del Governo, avevano ed hanno un solo scopo: quello di asservire l’agricoltore all’industria; ed è questo concetto che, applicato negli anni passati e da tutti i regimi, ha immiserito il nostro Paese e gli ha tolto le basi vere della sua prosperità.

Molte cose buone sono state dette dall’onorevole Presidente del Consiglio nelle sue dichiarazioni. È stato accennato all’aumento della produzione, ma nessun accenno è stato fatto alla benemerita categoria dei produttori agricoli, che pure attendevano che una buona parola li rassicurasse nel senso che i frutti del proprio lavoro, i prodotti agricoli, avranno un giusto ed equo prezzo, che saranno difesi dalle intemperie con l’assicurazione statale, che la previdenza sociale sarà applicata anche nei loro riguardi e che i loro piccoli risparmi saranno difesi dall’opera del fisco, il quale si accanisce contro chi possiede pochi ettari di terreno al sole, lasciando indisturbate tante ricchezze fasciste e borsaneriste, che sono e resteranno sempre all’ombra, senza che il fisco si preoccupi di scovarle.

Il popolo rurale avrebbe visto molto volentieri una legge finanziaria che avesse decimato le ricchezze di tutti quei grandi fascisti, anche se galantuomini, ma che per ambizioni personali di carica hanno collaborato a mantenere al potere per vent’anni e più il fascismo, il quale ha rovinato non solo moralmente, ma anche economicamente la patria nostra.

I rurali avrebbero voluto sentire affermare che l’agricoltura è la regina delle industrie nazionali, che è la ruota maestra intorno alla quale devono girare tutte le altre attività della nazione, affinché questa, contando sulle sue vere e naturali risorse, possa veramente risorgere senza troppo contare sull’esosa elemosina dello straniero.

I rurali avrebbero sentito volentieri una parola di promessa da parte del nuovo Governo che le industrie fittizie ed improduttive non risorgeranno più e saranno sostituite da industrie agricole e che invece di sussidiare industrie parassitarie, le quali non potranno mai ricompensare bene gli operai per la concorrenza di industrie straniere che posseggono le materie prime, sarà posto mano alla costruzione di bacini montani, alla canalizzazione dei nostri migliori fiumi, alla irrigazione delle nostre terre, opere tutte che dovrebbero occupare la mano d’opera disoccupata, o malamente pagata per non far nulla.

Nei campi c’è la vita, ed è un ritorno alla terra che il Governo dovrebbe favorire con tutti i mezzi, concedendo ai rurali tutte quelle moderne comodità che oggi sono accentrate nelle grandi città e che sono l’obiettivo per cui molti giovani rurali abbandonano le campagne, aumentando la crisi e la miseria della vita cittadina.

I rurali, caduto il fascismo, speravano di vedere nell’Italia un volto nuovo, un volto giovane e fresco; credevano di vedere scomparire tutte quelle istituzioni quegli ordinamenti e quegli uomini che rappresentavano il fascismo e che per venti anni avevano fatto vivere il popolo italiano in uno stato d’animo umiliante.

I rurali erano veramente stanchi delle molte, troppe, milizie fasciste: milizia stradale, milizia ferroviaria, milizia confinaria, milizia postale, milizia tributaria; tutte milizie che con fare autoritario e sprezzante trattavano ed azzannavano il popolo come il cane del pastore rincorre ed azzanna le pecore. Essi avrebbero volentieri visto scomparire queste istituzioni col ritorno a quelle semplici dell’anteguerra del 1914. Invece sono rimasti delusi; le istituzioni sono rimaste e non tutti gli uomini sono stati cambiati.

Oggi, in regime di libertà, i cittadini sentono che ancora troppe istituzioni, troppi ordinamenti, troppi uomini compromessi con il passato ci amministrano, ci governano e ci comandano con il medesimo tono del passato.

I rurali, da buoni agricoltori, desidererebbero che una mano energica procedesse ad una potatura radicale di questo vecchio albero che è la Patria nostra e che tante istituzioni, tanti uffici, che attualmente hanno funzioni inutili, fossero portati via quali rami non produttivi ed ingombranti. I rurali desiderano dalla nuova Costituzione ordinamenti semplici, desiderano che gli impiegati siano pochi, ben pagati e che lavorino.

Oggi in Italia dobbiamo constatare che si è troppo pochi a lavorare e produrre e troppi a consumare; per cui la razione diventa per ogni cittadino sempre più piccola.

Per dare sembianze nuove all’Italia essi desidererebbero che, almeno nei Comuni rurali, si procedesse al trasferimento di tutti quegli impiegati che hanno per troppo tempo e con troppo zelo servito il passato regime.

L’onorevole Presidente del Consiglio ha brevemente accennato di volere favorire la istruzione in tutti i campi. Io debbo però constatare come una circolare del Ministero della pubblica istruzione consigli ai provveditori, per ragioni di economia e di bilancio, di chiudere quelle classi che non raggiungono un minimo di 15 alunni. Questo provvedimento, apparentemente necessario ed innocuo, è invece molto grave e dannoso per l’istruzione nelle campagne.

Chiunque abbia conoscenza delle nostre vallate alpine ed appenniniche e della campagna in genere, sa che vi sono borgate che distano 5 e anche 6 e 10 chilometri dai centri rurali. In queste borgate vi è una scuola rurale che, molte volte, riunisce in una sola classe gli alunni delle cinque classi elementari; ebbene, questa scuola che, per causa della guerra – i giovani erano tutti in guerra – ha pochi alunni, dovrebbe ora essere chiusa, con la triste conseguenza che i genitori, data la distanza e l’impraticabilità delle strade nella stagione invernale, lasciano a casa i loro bambini favorendo così il deprecato analfabetismo.

Ritengo che sarebbe molto meglio, per premiare questi buoni agricoltori che furono sempre devoti alla Patria, inviare in questi piccoli centri rurali lontani da ogni comodità una delle tante maestre disoccupate, anche se gli alunni non sono esattamente 15! Vorrei inoltre richiamare l’attenzione del Ministro della pubblica istruzione sulla obbligatorietà che la legge impone ai genitori di mandare a scuola i fanciulli sino al loro 14° anno d’età. Ora, come possono assolvere a questo obbligo gli agricoltori dei piccoli centri rurali quando non esistono le scuole? Sarebbe quindi bene che in tutti i centri rurali fosse istituito il corso popolare post-elementare con carattere professionale, corso affidato non già a giovani professori o studenti universitari, bensì a maestri di ruolo specializzati in agraria o in artigianato che, oltre alle nozioni generali, insegnerebbero le materie professionali, secondo le colture agrarie e le industrie agricole delle varie regioni.

Sarebbe questo un adattamento molto semplice ed economico, che, mentre risolverebbe anche il problema dell’agronomo condotto, darebbe ai giovani agricoltori quella istruzione professionale e tecnica tanto necessaria per apportare nelle nostre campagne quel moderno rinnovamento agricolo, che migliorerebbe la quantità e la qualità della produzione nazionale.

L’onorevole Conti ha affermato la necessità di dare vita ai Comuni, ed è proprio dai Comuni rurali che si deve iniziare il movimento di rinascita.

È necessario che tutti i Comuni rurali comincino a lavorare, e con mezzi propri, senza dover attendere l’aiuto dello Stato; aiuto che, attraverso alle lunghe formalità burocratiche, non arriva mai o arriva sempre in ritardo.

Per assecondare la buona volontà delle nuove amministrazioni comunali, che sono tutte animate dal desiderio di fare qualche cosa di buono, di utile, di concreto per i loro paesi, è necessario dare loro i mezzi finanziari adatti. Quasi tutti i bilanci delle amministrazioni comunali rurali sono passivi, perché gli amministratori non sanno più a quali voci attingere i fondi per sopperire alle gravi spese degli aumenti degli stipendi agli impiegati, dei trasporti, della viabilità, della pubblica assistenza.

Vorrei suggerire al Ministro delle finanze un mezzo molto semplice per aiutare tutti i Comuni rurali a sanare i loro bilanci e cominciare veramente l’opera della ricostruzione: che autorizzasse, cioè, anzi rendesse obbligatoria, una modesta imposta d’uscita sul valore dei prodotti agricoli che vengono esportati dai Comuni.

Mediante tale imposta, che sarebbe più naturale e logica della tassa di entrata che favorisce solo i grandi centri urbani, i Comuni rurali comincerebbero a costruire scuole, ospedali, impianti elettrici, centralini per telefono; costruirebbero acquedotti locali per darsi l’acqua potabile, migliorerebbero la loro viabilità e si darebbero tutte quelle comodità moderne che sono l’aspirazione più sentita dalle nostre sane popolazioni rurali. Tutte queste opere, iniziate in tanti Comuni rurali, darebbero lavoro a migliaia di disoccupati di tutte le categorie sociali, a tutto l’artigianato; poiché quando la campagna si muove e lavora, è la ruota maestra della Nazione, che gira a beneficio di tutti.

Termino, onorevoli colleghi, ricordando al nuovo Governo che una sola grande classe ancora non ha scioperato, ma silenziosamente, con fede nell’avvenire della Patria, lavora, produce, risparmia e chiede al Governo di non essere più oltre tormentata con misure poliziesche e con gravami fiscali insopportabili, altrimenti sarà anch’essa costretta ad alzare la sua voce e sarà la voce dei migliori cittadini che chiederanno alla vanga, all’aratro, al trattore, a questi grandi strumenti di pace di lavoro e di benessere, giustizia ed onore. (Applausi).

PRESIDENTE È iscritto a parlare l’onorevole Tumminelli. Ne ha facoltà.

TUMMINELLI. Onorevoli colleghi, l’argomento per il quale ho chiesto di parlare è particolarmente specifico del programma di Governo.

Ma prima voglio esprimere il disgusto per le manifestazioni di ieri, che hanno infangato quest’Aula al cospetto di tutto il Paese e della stampa dei Paesi stranieri.

Abbiamo avuto un lungo discorso dell’onorevole Di Vittorio: discorso ritmato, massiccio, con la cadenza di quadrate truppe in movimento; tutta una critica in cui non ci sono altro che diritti e recriminazioni, reazione; da una parte la classe padronale, dall’altra la classe degli sfruttati. Infine, un nemico: il fascismo. Direi quasi che i colleghi comunisti, dopo la pausa di questi mesi, durante la quale pareva che veramente avessero intenzione di conformarsi al costume della democrazia, che si va predicando in Italia da molti mesi, avessero smesso questo motivo, ormai fritto e rifritto. Invece no. Non hanno fantasia, così come non hanno avuto l’accorgimento di stare almeno zitti di fronte allo spettacolo commovente di Pola, dei polesani, di una città che abbandona case, tradizioni, morti per sfuggire al giogo straniero, per non perdere il carattere della propria stirpe, per non perdere l’italianità.

Questo nostro discorrere, dopo le dichiarazioni del Governo, che abbiamo avuto due volte in otto mesi, a me dà l’impressione che quel distacco che si è verificato nel Paese fra Governo e popolo sia una nota dominante anche di questa Assemblea.

Non voglio darne colpa all’onorevole De Gasperi, per il quale ho una particolare stima e che ritengo veramente pensoso dei destini del Paese e veramente preoccupato del bene del popolo italiano. È forse l’eredità dell’esarchia che gli pesa troppo nell’esercizio quotidiano del Governo; ma in verità è probabile che la crisi stessa, di cui nessuno ha dato una ragione specifica, sia stata determinata da questo trauma psichico, da questa frattura che esiste tra l’Assemblea ed il Governo, tra il popolo e il Governo, frattura che viene dalle delusioni e dalle debolezze del Governo stesso, dalla mancanza di quella libertà che il popolo, qualunque popolo democratico, ritiene inderogabile e insostituibile, la libertà della vita serena, la libertà di poter lavorare, la libertà della sicurezza personale, la libertà di vedere finalmente avviata la ricostruzione, attraverso i mezzi offerti da una sana e saggia legislazione, verso quelle finalità che tutto il popolo italiano aspira, desidera e vuole.

Orbene, qui si è parlato di bastonate, di delitti, di crimini. Amici di tutti i banchi, il giorno 10 di novembre a Monza, in un congresso chiuso, per inviti, protetto da 50 guardie ausiliarie, io venni aggredito dai «compagni». Donne che erano nella sala furono prese per i capelli e trofei fatti da ciuffi di quei capelli, mostrati all’indomani nella città di Monza; furono gettati gas lacrimogeni, sparati colpi di rivoltella. Io ho presentato una interrogazione al Governo per sapere qual fosse l’esito dell’inchiesta sulla responsabilità di quel Commissario di pubblica sicurezza. L’interrogazione è nel fascicolo dell’ordine del giorno e non so quando verrà in discussione. Questo mio esempio personale non è il solo e altri potrei portarne. Non c’è luogo ove io in alta Italia abbia parlato in cui non mi si gridi: venduto; io non sono stato mai venduto a nessuno; non mi si gridi: fascista reazionario! A Mantova fui costretto a parlare con le spalle al muro contro un camino, nel quale non avrei avuto altro scampo che arrampicandomi per la canna fumaria. Eppure il mio linguaggio è stato sempre sereno. Questo, onorevole De Gasperi, è ciò che ha determinato e che determina la frattura tra Paese e Governo: questa mancanza di sicurezza, questa mancanza di reale esercizio del metodo democratico. Non basta dichiarare che vi è democrazia, perché la democrazia sia un fatto certo. La democrazia è un fatto di civiltà, è un fatto spirituale, e noi dobbiamo lavorare in questo senso. Noi dell’Uomo Qualunque non abbiamo paura di nessuna riforma sociale. Non temiamo il comunismo, ma temiamo i comunisti per il loro costume di violenza, per la dittatura a cui tendono.

Una voce. Non li temiamo affatto.

TUMMINELLI. Noi dichiariamo che se oggi esiste un fascismo in Italia e se il fascismo era un metodo, questo metodo è quello che essi esercitano in tutte le manifestazioni della vita nazionale.

Dopo di che passo all’argomento specifico per cui ho chiesto la parola. Uno dei passi delle dichiarazioni del Governo dice testualmente: «Convinti che l’Italia potrà rinascere dalla scuola, le cure del Governo, a mano a mano che crescono i mezzi, si rivolgeranno sempre più verso l’educazione del popolo».

Ottimamente. La rinascita è di ordine spirituale, le opere della ricostruzione sono fatti che lo spirito vuole, che lo spirito determina. La scuola è la sede di tutte le nostre tradizioni, è il solo presidio dove confluiscono tutte le virtù della stirpe, attraverso le opere del genio insuperato di nostra gente, della nostra antichissima civiltà.

Orbene, non basta esprimere propositi, occorre vedere come questa ricostruzione, che è opera prevalentemente spirituale, come questa ricostruzione di ponti, ferrovie, di case distrutte, possa avere il concorso morale, il concorso dei valori eterni dello spirito che trovano presidio nella scuola. In questi due ultimi anni noi non possiamo dire che ci sia stata un’azione legislativa e assistenziale da parte del Ministero della pubblica istruzione, che abbia incoraggiato l’attività scolastica.

Dobbiamo rendere atto all’onorevole Gonella che ha compiuto uno sforzo per uscire dai vincoli e dalle strettoie che aveva imposto alla scuola l’esarchia. Ma quanto ha potuto egli fare? Forse gli è mancato un po’ il coraggio di andare in fondo ai problemi e rimuovere gli ostacoli, e così è venuto probabilmente a dei compromessi che non curano il malato né alleviano la malattia.

La scuola ha bisogno innanzitutto di edifici. Molto bene ha fatto il Ministro. Gonella ad istituire mille scuole elementari, a dare i ruoli aperti ai maestri elementari, sicché essi possano avere un più alto tenore di vita. Ma come possono funzionare codeste mille nuove scuole elementari e le altre mille e mille di tutta Italia, della Sicilia, dell’Italia meridionale, centrale e settentrionale, se non hanno edifici a sufficienza? Il Ministro Gonella dovrebbe premere vivamente sul Ministro del tesoro e su quello dei lavori pubblici. E, per inciso, io lamento che sia stato sostituito un tecnico ai lavori pubblici, come l’onorevole Romita, con persona che non risulterebbe essere un tecnico. Dovrebbe insistere, perché questa ricostruzione e questa costruzione di edifici abbia luogo rapidamente e sullo stesso piano dei ponti e delle ferrovie. Vi sono edifici distrutti del tutto, altri che possono essere riparati, vi è necessità di costruirne dei nuovi, specialmente nell’Italia meridionale.

Orbene, per quale ragione queste spese per le scuole non devono esser fatte con la sollecitudine necessaria? Per quale ragione le scuole, che rappresentano il nocciolo della nostra civiltà, che sono la sede dove i nostri figli, i figli di tutto il popolo italiano, vivono l’intera giornata, non devono funzionare regolarmente? Nella scuola un ragazzo trascorre almeno 5 ore del giorno. Orbene, come si svolge la vita di questa scuola, come si possono istituire mille scuole elementari nuove, se mancano le sedi? Queste scuole funzionano con orari impossibili; e quindi con un disordine formale, che di necessità si ripercuote sull’ordine educativo, che è fatto soprattutto di sostanza, ma anche di forma.

Ma vi è di più. Nell’Italia settentrionale le condizioni delle scuole oggi non sono molto diverse di quelle di due anni fa. Esclusi gli allarmi ed i bombardamenti, la scuola ha ancora l’orario ridotto di tre quarti d’ora; e per due mesi quest’anno, come l’anno scorso, non si sono fatte lezioni, perché mancava il riscaldamento. In molti istituti di Milano, di Torino e di altre città mancano i vetri alle finestre.

Di conseguenza, la scuola non ha avuto e non ha regolare svolgimento.

Il Presidente del Consiglio, in altro passo del suo discorso programmatico, afferma:

«I prossimi concorsi per maestri e per professori permetteranno l’immissione di nuove giovani forze nella scuola ed una ristabilita severità degli esami servirà a rialzare il tono delle scuole secondarie, depresso dalle agevolazioni del periodo bellico».

Benissimo. Noi concordiamo.

La scuola ha bisogno di serietà e di severità, ha bisogno di avere restituito il suo volto integro, la sua funzione umana e austera.

Ma come si può parlare di serietà e di severità, quando la scuola sta chiusa per due mesi durante il periodo invernale?

Ed in quanto ai concorsi, noi sappiamo da voci indirette che si sta preparando un bando; ma non è improbabile che codesto bando non richieda ai candidati la stessa severità che si vuole per gli alunni, che influenze di carattere demagogico costituiranno una specie di lascia-passare a chi avrà particolari benemerenze. Orbene, signori del Governo, noi diciamo: La scuola per essere seria ha bisogno di insegnanti seri e ben preparati. I concorsi siano severi; i nuovi insegnanti che dovete assumere nei ruoli dello Stato siano scelti con criterio di vere virtù, di cultura e di esperienza.

La Patria, il Governo per essa, dia premi in denaro, dia riconoscimenti cartacei a chi ha benemerenze nazionali, ma non dia le cattedre se non a coloro che diano severo affidamento di saperle tenere con prestigio.

Vi sono difficoltà per un piano che possa dare subito alla Nazione le case degli alunni: difficoltà economiche; ma esse devono essere superate. Abbiamo avuto strappato tutto dalla guerra, fuorché la memoria della nostra gloria, delle nostre virtù, del genio nostro, fuorché il patrimonio culturale. È su questo che si ricostruirà la Patria.

I nostro ragazzi, i nostri intelligentissimi ragazzi, sono il patrimonio più sacro che oggi possediamo.

È su questo patrimonio che noi dobbiamo puntare tutte le armi della nostra rinascenza, di questo secondo Risorgimento della Patria. Su questi ragazzi noi dobbiamo portare i nostri cuori più puri, liberi delle passioni politiche; è a favore di questi ragazzi che dobbiamo portare il contributo di tutto il danaro possibile e perciò invochiamo dal Presidente del Consiglio e dal Ministro Gonella un’azione forte, perché presto siano ricostruiti gli edifici scolastici e possano funzionare integralmente le scuole.

Ma c’è di più. Io vorrei che il Ministro Gonella, uscendo dagli schemi tradizionali della burocrazia scolastica, si affidasse a quello che potranno fare i capi d’istituto, i direttori e i presidi delle scuole elementari e delle scuole medie d’Italia.

Noi abbiamo un materiale umano ottimo. Lo Stato ha nelle sue scuole capi d’istituto veramente valorosi. Ma costoro non possono operare con la libertà che sarebbe necessaria perché vi sono limitazioni legislative. Io sono certo che in Lombardia e in Piemonte, a Milano, a Torino, a Brescia, in tutte le città in cui le scuole sono rimaste chiuse per mancanza di riscaldamento, se le Autorità superiori avessero dato la facoltà ai presidi di fare appello al libero contributo delle famiglie per provvedere al carbone, le famiglie certo non si sarebbero rifiutate a concorrere per riscaldare le case di istruzione destinate ai loro figli e agli insegnanti dei loro figli.

Sono altresì sicuro che se la stessa prassi fosse applicata nei riguardi del materiale scientifico, specialmente a quello occorrente agli istituti tecnici e professionali, cioè agli istituti destinati in modo particolare al popolo, materiale scientifico, o distrutto dai bombardamenti, o insufficiente, o difettoso perché invecchiato, certamente un appello di questa natura avrebbe ottenuto un libero, generoso concorso. Se noi pensiamo che questi italiani immiseriti dalla guerra versano cento o centoventi milioni la settimana alla Sisal, possiamo arguire che qualche lira si possa ottenere anche per i gabinetti scientifici destinati alla creazione degli operai specializzati.

A questo proposito voglio dire che è urgente pensare al fenomeno dell’emigrazione e alla preparazione dei nostri emigranti.

Non facciamoci illusioni. Noi abbiamo in Italia forse più di molte centinaia di migliaia di nostri lavoratori che devono abbandonare il caro suolo della Patria per cercare all’estero pane e lavoro. Abbiamo quindi la necessità di porci il problema dell’educazione degli emigranti. Dobbiamo pensare che i nostri emigranti trovano in terra straniera costumi diversi, lingua diversa, tradizioni particolari diverse, cioè un mondo dove, specialmente nel primo tempo, avranno gravi difficoltà da superare.

Orbene, è necessario fondare, con provvedimento di urgenza, le scuole professionali per gli emigranti, scuole che diano ad essi emigranti una guida, che trasformato il bracciante in operaio specializzato. È noto che una piaga della nostra emigrazione all’estero era precisamente quella degli operai generici che non avevano un mestiere specifico su cui poter contare e perciò erano trattati nei Paesi stranieri come i cinesi, come i paria. È solo la seconda generazione di emigranti quella che poi si fa strada, che impone alto il nome della Patria. Ma nella seconda generazione si è verificato il fenomeno della ripulsa spirituale dei figli verso i padri, perché i figli erano più evoluti dei padri. È necessario che sia tolta questa macchia che grava sui nostri emigranti e che questi nostri fratelli, costretti a partire, escano dal Paese col conforto di un nutrimento culturale e tecnico che consenta loro di far valere la loro capacità produttiva e di avere coscienza di quel contributo che il nostro Paese, attraverso le loro braccia operose, dà alle nazioni di tutto il mondo dove fluisce il lavoro italiano che la patria non può assorbire.

Infine voglio fare un ultimo riferimento alle Università. Il nostro Paese ha una tradizione Universitaria di primissimo ordine. Le nostre Università hanno una tradizione gloriosa ed io mi sono meravigliato che i molti rettori che siedono nei banchi di questa Assemblea non abbiano levata alta la voce perché le Università escano dalla povertà e dalla quasi indigenza in cui si trovano. È necessario che siano dati molti mezzi alle Università, perché il patrimonio scientifico e spirituale del Paese, che trova il suo faro più alto nelle cattedre dei nostri antichi studi universitari, possa ritrovare tutto il fulgore di una volta.

Onorevoli colleghi, noi abbiamo perso con la guerra le colonie, abbiamo perso le navi da guerra, che onoratamente e valorosamente avevano solcato i mari di tutto il mondo; noi siamo costretti (obtorto collo), ad accettare balzelli gravissimi dai vincitori; abbiamo perso territori italianissimi che erano costati 600 mila morti nell’altra grande guerra – di cui io sono un reduce ed un ferito – e non abbiamo altro che la nostra tradizione, la nostra cultura, la nostra civiltà rinascimentale e cristiana. Non abbiamo altro che questa nostra civiltà, che nessuno potrà mai toglierci, non abbiamo altro che la nostra anima civile, che il nostro spirito di popolo maturo. Questa tradizione è l’eredità che noi non potremo negare ai nostri figli, ed è un dovere sacrosanto del Governo – con la pace interna e la sicurezza del cittadino – di dare anche i mezzi perché i nostri figli possano ereditare gli strumenti della rinascita in futuro. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Puoti. Ne ha facoltà.

PUOTI. Onorevoli colleghi, chi, come me, frequenta da pochi mesi questo austero palazzo, chi come me, ha sempre creduto che al di sopra di ogni interesse personale debba essere la Patria, chi ha servito questa Patria con sincerità ed onestà, rischiando la vita in guerra; chi, come me, è entrato ed entra in quest’Aula con quel giusto senso di rispetto che le nostre funzioni ci impongono, non può non rimanere profondamente scosso e turbato per quanto ha veduto e udito in quest’Aula nelle sedute di ieri e di oggi. E che cosa dirà il popolo italiano di noialtri? Vi ponete mai questa domanda, o signori? Questo è il punto grave su cui la mia coscienza di giovane parlamentare mi pone, è un interrogativo che mi tormenta, perché io so che il nostro popolo ci segue con enorme interesse e vorrebbe vedere da noi rinascere veramente quell’Italia, tormentata da una guerra combattuta onestamente e valorosamente.

Non ritengo che sia simpatico e conveniente che ci si accapigli, alle volte, per questioni di partito, o, peggio, per questioni personali.

Noi dobbiamo pensare che il momento è quanto mai difficile; che noi siamo venuti qui con un compito specifico e determinato. Siamo Deputati all’Assemblea Costituente per dare una nuova Carta costituzionale all’Italia e dobbiamo al più presto assolvere questo compito per tornare ai nostri lavori, alle nostre case, perché il popolo italiano possa governarsi con quella sincerità ed onestà di intenti che vuole, oggi, in questo nuovo clima democratico.

E quindi, o colleghi, mi sono permesso – come giovane – di esprimere questo mio vivo sentimento, credendo di interpretare il sentimento anche dei più anziani, i quali hanno una maggiore esperienza parlamentare. E penso che non siano abituati a simile spettacolo; almeno, me lo auguro sinceramente.

Non mi permetto di fare ulteriori divagazioni dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, perché mi sembrerebbe di frustrare lo scopo per cui ognuno di noi chiede la parola. Voglio mantenermi il più possibile – e mi manterrò – nei limiti delle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, perché vi sarà un momento in cui si potrà parlare di altri problemi: avremo da discutere la Carta costituzionale e, in tale occasione, potremo dire quelli che sono i nostri bisogni.

La mia brevissima esperienza parlamentare mi ha fatto formare il convincimento, però, che tutto quanto viene da questi banchi non sempre è ascoltato con attenzione da parte dei signori del Governo.

Comunque, reputo necessario esprimere qualche pensiero, perché anche il mio modestissimo contributo possa giungere alle orecchie del Governo e possa effettivamente portare qualche cosa di buono nell’opera che esso conduce alacremente, ma senza buoni risultati.

Il Governo, nella sua esposizione programmatica, si mantiene su linee di carattere generale che sono molto simili a quelle esposte nel programma del precedente Gabinetto ed è sicuro che, al termine di questa discussione, otterrà quel voto di fiducia che è necessario per governare, in quanto che il programma è stato stilato d’accordo fra i vari partiti che hanno la maggioranza in questa Assemblea, ed è quindi logico che il voto di fiducia sia dato in pieno.

Ma voglio far presente al Governo che questa maggioranza parlamentare non corrisponde esattamente e proporzionatamente alle concezioni politiche della maggioranza del popolo italiano, in quanto dal 2 giugno ad oggi queste correnti politiche si sono spostate in determinati sensi; e quindi, aver avuto una maggioranza di voti sul programma di Governo non significa che la maggior parte del popolo italiano sia sodisfatta dei suoi governanti. Perciò è bene che il Governo tenga presenti anche i risultati delle elezioni del 10 novembre, le quali potranno fornirgli un giusto indice e indurlo a tener conto di quelle che oggi sono le modestissime minoranze di destra, perché già vi è un certo sensibile spostamento in tale direzione. Il Governo dovrebbe, secondo me, limitarsi oggi ad una normale amministrazione e l’Assemblea dovrebbe, al più presto, condurre a termine il mandato che le è stato affidato, per potere giungere subito ad una nuova consultazione popolare da cui sorga una rappresentanza che sia la vera espressione della volontà del popolo.

L’onorevole De Gasperi, nelle sue dichiarazioni a proposito della firma del così detto Trattato di pace, ha tentato di dimostrare la imprescindibile necessità di firmare, accollando su se stesso e sul suo Governo tutta la responsabilità del grave atto e impedendo all’Assemblea di esprimere il proprio preventivo pensiero.

A me non sembra che questo gesto, secondo la concezione che ho della democrazia sia conforme ai criteri democratici cui dovrebbe ispirarsi l’attuale nostra politica. Se fossimo in regime dittatoriale la soluzione dell’onorevole De Gasperi sarebbe logica; ma oggi che si parla tanto di democrazia, si sarebbe dovuto consultare prima la rappresentanza ufficiale del popolo italiano, e poi, in base al risultato ottenuto, dire al nostro rappresentante a Parigi di firmare o non firmare un atto così grave e importante per tutti gl’italiani, che impone condizioni addirittura insopportabili.

Il volere sopravalutare la ratifica del Trattato di pace nei confronti della firma è stata una manovra del Governo per potere, ancora una volta, sfuggire al controllo della Assemblea.

Tutti conosciamo il testo dell’articolo 90, in base al quale basta la ratifica delle quattro potenze che ci hanno imposto il Trattato per farlo entrare in vigore. Ora se la nostra parola non ha alcun valore giuridico, mi auguro che abbia almeno un valore morale, qualora non fosse conforme a quella delle quattro potenze firmatarie.

Con una certa abilità, che senza dubbio non si può disconoscere al Presidente del Consiglio, nessun cenno è stato fatto circa i motivi che hanno determinata l’ultima crisi ministeriale, mentre da parte di tutti si attendeva una spiegazione quanto mai esauriente, anche perché vediamo seduti al banco del Governo quasi tutti i Ministri che vi sedevano prima della crisi. Ed ora che siamo in regime democratico, il popolo italiano esige da parte di coloro i quali hanno la massima responsabilità del Governo, di sapere quello che avviene.

La crisi è scoppiata a meno di 30 giorni dalla firma del cosiddetto Trattato di pace, quando cioè in tutto il Paese era una profonda aspettazione per la forma e la sostanza del Trattato stesso. Anche gli uomini politici che rappresentano il Paese avrebbero dovuto dimostrare di essere preoccupati per il grave atto che si stava per compiere. Invece essi hanno dato una sensazione poco gradita ed il popolo italiano è rimasto enormemente deluso.

Rilevo che il programma governativo non si differenzia da quello dei precedenti Ministeri. Esso non porta elementi nuovi al nostro esame e non ci dimostra di essere completamente aggiornato e coerente con quanto, a distanza di sei mesi, si è verificato nel Paese.

Il programma del Presidente del Consiglio ci parla di potenziamento dell’iniziativa privata nel campo dell’economia nazionale. Benissimo; ma non ci offre nello stesso tempo quelle necessarie garanzie affinché questa iniziativa possa tranquillamente svilupparsi, anzi la si vorrebbe conciliare con i consigli di gestione, la cui legge istitutiva non è stata ancora esaminata da questa Assemblea e quindi il popolo ufficialmente non la conosce ancora. Noi dovremmo trovare il modo per cui possano convivere l’iniziativa privata e i consigli di gestione.

Ritengo che il Governo dovrebbe redigere un più vasto e preciso programma sociale, perché in questo campo non si vada avanti a sbalzi e a piccoli passi con eccessivi slittamenti a sinistra, mentre sarebbe necessario e indispensabile che si sapesse quale è la nuova organizzazione sociale che il Governo democratico vuol dare all’Italia, affinché ognuno possa dare il proprio, contributo per la sua realizzaione. Si fanno leggi o troppo di sinistra, o troppo di destra, ma non si sa effettivamente quale è l’indirizzo governativo.

L’incertezza sull’avvenire che oggi abbiamo non si risolverà che col risorgere delle iniziative private, di cui oggi tutti lamentiamo l’assenza e che invece sono indispensabili per la ricostruzione del nostro Paese, che esce squassato da una dura guerra combattuta in casa e perduta, una guerra che ha messo a dura prova e i soldati combattenti e i pacifici cittadini nelle città e nelle campagne. Per questi combattenti e per coloro che sono tornati dopo anni di sofferenze, chiusi in recinti di filo spinato, per coloro che ancora son ristretti in campi di concentramento e di cui si ignora la sorte, è necessario che il Governo adotti seri provvedimenti, non istituendo o togliendo soltanto un Ministero dell’assistenza post-bellica, perché non è il nome che conta, ma dando una vera assistenza a coloro i quali hanno sofferto per l’Italia.

È necessario anche che si ottenga al più presto una vera e sana concordia fra tutti gli italiani e che di ciò il Governo faccia uno dei punti base del suo programma; che si ponga termine alle minacce e alle persecuzioni di parte; che si instauri e si agevoli un clima di maggiore fraternità, che non si pensi più a leggi eccezionali e a confino di polizia, che turbano la serenità di chi vuol provvedere a lavorare per il benessere della propria famiglia e della Patria e quindi del nostro risorgimento morale e materiale.

La crisi che attraversa il Paese, onorevoli colleghi, è crisi morale, oltre che materiale. Ogni guerra perduta o vinta genera sempre una molteplicità di problemi e il più grave è certamente quello che concerne il rilassamento dell’ordine pubblico e il conseguente aumento dei delitti contro la persona e contro il patrimonio. Io, che esercito la professione di avvocato, vi posso dire che la delinquenza minorile è quella che più preoccupa noi uomini onesti, perché, per ragioni professionali, ci dobbiamo occupare troppo spesso di giovani viziati, pervertiti e traviati, i quali voglio vivere con troppo facili guadagni. E quindi alla repressione dei delitti contro le persone e contro il patrimonio che il Governo deve rivolgere la maggiore attenzione ed ha l’obbligo di intervenire nella maniera più energica per garantire la tutela di tutti i cittadini.

Ma a questo gravissimo problema un altro se ne affianca non meno grave: la necessità, cioè, che i cittadini abbiano una fiducia piena nelle leggi stesse e nel Governo. Bisogna convenire che tale fiducia è ancora profondamente scossa nella gran parte del popolo italiano. Le leggi e i decreti da qualche anno sono alla mercé non di un unico e sano criterio informatore, ma delle varie tendenze e passioni politiche che hanno permesso la formulazione di assurdi giuridici, quali mai si sarebbero potuti concepire nella terra madre del diritto. Ora, se ciò poteva essere ammesso, ma non consentito, subito dopo la cosiddetta liberazione, quando regnava in pieno il disordine e gli uomini erano ancora presi dalla lotta di parte e lo stesso Governo e la Repubblica non avevano ricevuto il crisma ufficiale, oggi non è più ammissibile.

Onorevole colleghi, dopo un Trattato di pace del genere di quello che dovremo subire, bisogna esaminare tutti gli accorgimenti necessari per ottenere una rapida ricostruzione morale dell’Italia, la quale ha bisogno di tutti i suoi figli, di tutte le persone oneste, di tutti coloro che con onestà di intenti hanno il dovere e il diritto di contribuire a tale processo di ricostruzione.

Per ricostruire noi dobbiamo prima sanare una situazione che non crea fiducia, ma timore, che minaccia di approfondire un solco tra Governo e popolo, fra italiani e italiani, invece di colmarlo.

Bisogna avere del coraggio per affrontare le situazioni come si presentano e risolverle col migliore dei sistemi democratici, cioè seguendo la volontà del popolo.

Smobilitiamo, quindi, l’armamentario che impedisce agli italiani di ritrovarsi, eliminiamo i motivi di attrito, prepariamo gli animi ad una effettiva fruttifera collaborazione; creiamo le premesse di una intesa che ritorni ad unico vantaggio dell’Italia; pensiamo, insomma, a superare una volta per sempre un’antitesi che non ha ragione di essere se gli animi stessi sono sgombri di sentimenti faziosi.

Presentiamoci allo straniero che viene ad imporci le sue fredde decisioni, come un sol blocco di volontà, di fede e di serio intendimento ricostruttivo. Ricordiamoci, che siamo e dobbiamo essere solamente e unicamente italiani.

Questa è la base della nostra riscossa morale. Oltre questo non c’è che il pericolo di nuove lotte, di nuovo sangue, di nuovi lutti. Rifletta il Governo e riflettano soprattutto coloro ai quali può risalire un merito enorme o sui quali può ricadere una tremenda responsabilità.

Noi vorremmo che il nuovo Governo si presentasse al popolo e al mondo con un nuovo volto; che intorno ad esso potesse finalmente raccogliersi tutta la Nazione; che non le passioni di partito predominassero, ma una sola passione, quella dell’Italia, sovrastasse ogni azione degli uomini politici responsabili; che si risvegliassero tutte le energie e la Nazione assumesse infine quel volto di austero raccoglimento e di estrema decisione, così come la vorrebbero vedere tutti i nostri Morti, caduti non invano per un altissimo ideale sia in Patria che in terre straniere. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Martino Gaetano. Ne ha facoltà.

MARTINO GAETANO. Disse l’altro giorno l’onorevole Scoccimarro nel suo discorso che oggi c’è una sola esigenza: «l’esigenza di risolvere i problemi concreti della politica nazionale, cioè i problemi della ricostruzione».

Io intendo appunto occuparmi brevemente di alcuni aspetti di questo complesso problema della ricostruzione che si segnala in modo particolare all’attenzione del Governo.

Ho creduto, onorevoli colleghi, di trovare un barlume di speranza per la ricostruzione edilizia del Paese nella dichiarazione programmatica del Governo, là dove l’onorevole De Gasperi ha manifestato il proposito di stimolare l’iniziativa privata nella ricostruzione. È questo appunto che noi attendevamo, convinti come siamo che senza la molla dell’iniziativa privata è vano sperare nella ricostruzione edilizia dell’Italia.

Se questo si fosse fatto prima, io penso che contemporaneamente noi avremmo in parte risolto l’assillante e grave problema della disoccupazione operaia e forse avremmo potuto fare a meno di ricorrere, per combatterla, a quei tali lavori improduttivi per i quali, non so in verità con quanto sense of humour, è stata coniata la teatrale denominazione di «lavori a regìa». A proposito dei quali, io credo che sarebbe bene illuminare il Paese, attraverso il Parlamento, sui risultati dell’inchiesta che è stata eseguita: sarebbe opportuno il farlo, perché parecchie voci circolano nel Paese, voci che attendono o di essere smentite o di essere confermate.

Si dice, ad esempio, che nel corso dell’esecuzione di questi lavori a regìa l’Istituto della previdenza sociale sia stato frodato per centinaia di milioni di lire. Io non so se questo risponda a verità, ma credo che il Governo abbia il dovere di dire una parola al Paese, perché penso che sia bene restituire al Paese il costume democratico.

È certo che la ricostruzione edilizia langue; langue perché le misure finora adottate per accelerarla si sono manifestate inadeguate.

Come voi sapete, in virtù del decreto legislativo luogotenenziale 9 giugno 1945, n. 305, detto legge detta «dei senzatetto», lo Stato concorre alla spesa nella misura del 50 per cento (elevabile sino al 60 per cento per coloro che ricostruiscono entro un determinato tempo) per le ricostruzioni più modeste, e nella misura di un terzo per ricostruzioni di maggiore entità. Ora, a conti fatti, la ricostruzione edilizia con queste provvidenze non può avvenire, non avviene e non avverrà. Gli Istituti di credito fondiario, i quali dovrebbero fare l’operazione di mutuo, non possono per legge concedere mutui per importo superiore alla metà del valore del fabbricato, e lo Stato non concorre che fino al 33 per cento della spesa. Non solo, ma anche questa non è misura certa, perché la legge dice: «in misura non superiore ad un terzo». Ora, gli Istituti di credito fondiario hanno bisogno di dati certi, non possono contentarsi dei dati di probabilità. In ogni caso dunque è necessario che coloro i quali intendano ricostruire dispongano di mezzi propri, di finanza propria. E costoro rappresentano la minoranza dei proprietari di fabbricati. Nella maggioranza dei casi, i proprietari di fabbricati non hanno mezzi propri. Ma se pure essi li hanno, noi vediamo che non li investono nella ricostruzione del Paese.

Secondo uno studio intelligente eseguito da un Comitato provinciale per la ricostruzione della provincia di Messina, i proprietari di fabbricati non trovano convenienza ad impiegare i loro capitali nella ricostruzione edilizia, tenuto conto del tasso di ammortamento e degli interessi che occorre pagare agli Istituti di credito fondiario, degli oneri di imposte che gravano sui fabbricati ricostruiti e di quello che è il mercato dei fitti. Ciò appunto secondo i calcoli eseguiti dal Comitato, e che sono riferiti in una assai pregevole relazione, a firma dell’avvocato Pietro Tripodo.

La relazione dimostra che questa convenienza non si riscontra, a meno che lo Stato non intervenga per il 75 per cento nella spesa. Di modo che il problema da esaminare è quello della possibilità per lo Stato di intervenire in questa misura.

Pare che il concorso dello Stato nella misura del 75 per cento sia possibile. Si tratta di ricostruire complessivamente in Italia sei milioni e mezzo di vani. Secondo i calcoli fornitici giorni or sono dall’onorevole Nobile, l’importo complessivo sarebbe di seicento miliardi di lire; secondo i calcoli, invece, del Comitato provinciale per la ricostruzione di Messina, esso sarebbe di 775 miliardi.

Ora, se lo Stato concorresse col 75 per cento nella spesa della ricostruzione, alle condizioni di cui al decreto 9 giugno 1945, l’onere, per tasso di ammortamento ed interessi da pagare agli Istituti di credito fondiario, sarebbe di 35 miliardi l’anno, per 40 anni. Cifra cospicua, senza dubbio. Però, lo Stato deve già avere stanziato nel suo bilancio una somma per aiutare l’iniziativa privata nella ricostruzione edilizia; poiché ha emanato il provvedimento del 9 giugno 1945. Non credo infatti che, quando furono emanate queste disposizioni, lo Stato contasse sul fatto che la ricostruzione non dovesse avvenire. Di modo che, siccome il massimo che lo Stato ha pensato di poter dare alla ricostruzione edilizia è del 50 per cento, aumentabile di altro 10 per cento per coloro che ricostruiscono entro un determinato termine, praticamente i 4/5 di questa cifra complessiva (per la durata di 40 anni) lo Stato già si propone di spenderli. Ed allora, l’ulteriore aggravio al bilancio dello Stato non sarebbe che di sette miliardi di lire.

Ma dobbiamo fare un’altra considerazione: a mano a mano che la ricostruzione avviene, il capitale edilizio viene restituito al reddito, e quindi grava su questo capitale edilizio l’onere delle imposte. Quando sei milioni e mezzo di vani saranno tutti ricostruiti, sarà restituito al reddito un capitale di 1300 miliardi di lire; e l’onere complessivo delle imposte (senza tener conto naturalmente dell’imposta progressiva sul patrimonio o delle altre diavolerie suggerite dall’onorevole Scoccimarro) sarà di 26 miliardi di lire. Pertanto, in definitiva, resterà per lo Stato solo l’onere di 9 miliardi di lire (35 meno 26); che presumibilmente sarà bilanciato dalle imposte sulle attività industriali connesse con l’edilizia.

Esaminato attentamente il problema, è facile dunque rendersi conto che, in sostanza, quando lo Stato intervenga, sia pure in misura così elevata, nella ricostruzione edilizia del Paese, per esso non esiste un onere reale. Come afferma acutamente la relazione che ho ricordato, «l’edilizia crea da sé la propria finanza».

Io credo che il Governo dovrebbe esaminare attentamente questo problema e questo suggerimento, in armonia con l’enunciato stesso del Presidente del Consiglio che «occorre eliminare le spese superflue e graduare le altre secondo la loro capacità produttiva».

Ed a proposito della dichiarazione programmatica del Governo su questo punto, devo dire che ho rilevato con compiacimento il proposito espresso dall’onorevole Presidente del Consiglio di emanare leggi speciali per i centri più duramente colpiti dalla guerra. Con compiacimento, perché nel mio discorso del 19 luglio invocavo appunto queste leggi speciali per la città di Messina e per le altre città del continente, altrettanto od anche più duramente colpite. Leggi speciali – dicevo – occorrono per questi centri, provvidenze speciali, finanziamenti speciali.

E vorrei dire che leggi speciali occorrono in genere per tutti i centri terremotati, indipendentemente dai danni che essi hanno subìto per la guerra. Perché le leggi speciali sul terremoto impongono l’adozione di norme particolari per la ricostruzione con sistemi antisismici, il che importa, secondo quanto è riconosciuto dal testo unico di quelle disposizioni legislative, un aumento nel costo della costruzione pari al 35 per cento. In questi casi quindi bisognerebbe arrivare fino all’85 per cento nel concorso dello Stato.

Un altro aspetto del problema della ricostruzione, e che io ho pure segnalato con il mio ordine del giorno, è quello della ricostruzione sanitaria del Paese. A questo problema accennavo pure nel mio discorso del 19 luglio; e dopo di me vi faceva cenno anche l’onorevole Togliatti.

Il Presidente del Consiglio, in quella occasione, volle tranquillizzare l’onorevole Togliatti ed affermò che l’indice della mortalità infantile ha presentato un miglioramento sensibile negli ultimi tempi. Ciò è confortante; ma coloro che hanno qualche dimestichezza colla medicina non ignorano che la mortalità infantile non è che uno degli indici della salute del popolo. Molti altri ne esistono, ed è superfluo che io insista su questo punto. Tutti sanno, ad esempio, quanto pauroso sia oggi il dilagare della tubercolosi in Italia.

Ora, le condizioni sanitarie del popolo sono dipendenti, possiamo dire condizionate, da quelle della nutrizione. Ed è soprattutto a questo che noi dobbiamo guardare. Oggi, come tutti sapete, le condizioni della nutrizione sono poverissime in Italia, e non serve sventolare, come dopo l’altra, guerra, lo slogan di Francesco Saverio Nitti: «produrre di più e consumare di meno». Esso va invece, nelle attuali condizioni, così modificato: «produrre di più per consumare di più». È infatti urgente, indispensabile, se noi vogliamo salvare il nostro popolo, che i consumi aumentino.

Mi propongo di dare appena qualche cifra, cifra ufficiale, che ho rilevato dalla pregevole relazione del Governo al V Consiglio generale dell’U.N.R.R.A., pubblicata a cura del Ministro Campilli.

Ho letto in questa relazione che per il 1947 è prevista una distribuzione di generi razionati pari a 1320 calorie per uomo-medio, elevabili, con gli alimenti forniti dal mercato libero, fino a 2000 calorie. Ora 2000 calorie sono qualche cosa che sta molto al di sotto di quello che è da tutti considerato come il minimo fisiologico indispensabile per l’uomo medio, cioè 2700 calorie nette, pari a 3000 calorie lorde. È naturale che molti consumano di più; e credo che quanti siano qui consumiamo più di 2000 calorie al giorno. Ma questo significa che vi sono altri che consumano molto di meno; il che è ancora più grave, onorevoli colleghi. Noi dobbiamo preoccuparci, e seriamente, di questo fondamentale problema della nostra esistenza; problema che ancora più grave appare, se lo si considera non sotto l’aspetto quantitativo, ma sotto l’aspetto qualitativo.

Nella suddetta relazione ho rilevato anche la frase seguente: «Si è dovuto per quest’anno rinunciare alla distribuzione di generi razionati a base proteica, con grave pregiudizio della sanità del popolo». Vi è dunque non solo una deficienza quantitativa, ma anche, e dal punto di vista fisiologico ancora più grave, una forte deficienza qualitativa dell’alimentazione. Debbo dirvi che da questo lato le condizioni dell’Italia erano già gravi prima della guerra, perché anche allora i fisiologi segnalavano con preoccupazione il fatto che l’uomo medio italiano disponesse di appena 18 grammi di proteine animali al giorno, al posto dei 40 grammi che rappresentano il minimo fisiologico indispensabile. E, del resto, anche dalla lettura di questa relazione del Ministro Campilli potete rendervi conto di ciò, perché in essa sono pure le cifre relative alle disponibilità alimentari del 1938. Vi si legge che nel 1938 ogni cittadino italiano disponeva di kg. 8,400 di carne all’anno. Ebbene, in quell’epoca, prima appunto dell’ultima guerra, un cittadino francese disponeva di 34 chilogrammi di carne all’anno, un belga di 40, un tedesco o un inglese di 49, un americano degli Stati Uniti di 70, un argentino o un australiano di 107.

Voi vedete dunque quanto già allora era scarsa per noi la disponibilità del principale alimento animale. Ma oggi questa disponibilità si è ridotta notevolmente, perché – dice la stessa relazione – essa è oggi di 3 chilogrammi e mezzo di carne per abitante e per anno. La riduzione trova le sue cause ovviamente nella distruzione del patrimonio zootecnico operata dalla guerra, nella diminuzione della produzione dei foraggi, nella diminuzione di estensione dei pascoli (per l’aumento delle colture cerealicole) e forse – anzi, certamente – anche nella diminuzione delle importazioni di carne. Noi importavamo prima della guerra 700 mila quintali di carne all’anno; oggi importiamo, credo, 390 mila quintali.

Questo problema deve preoccuparci moltissimo, perché, onorevoli colleghi, le condizioni della nutrizione hanno una importanza enorme per la produzione, per il progresso, per l’esistenza stessa dei popoli. Nel secolo passato un filosofo tedesco, il Feuerbach, che fu, possiamo dire, l’araldo del materialismo scientifico nel campo filosofico, lanciò il noto aforismo: «L’uomo è ciò che mangia». (Interruzione dell’onorevole Saragat). Lo contestate? Io da fisiologo non lo contesterei, onorevole Saragat. Se Ella non avesse simpatia per gli aforismi germanici, potrei citarne un altro, britannico questo: «Se vuoi essere un leone, mangia da leone».

Disse a questo proposito una cosa molto esatta l’onorevole Conti, che pure si preoccupò di queste gravi condizioni della nutrizione nel Paese. Egli disse che a qualche accorgimento si può pensare, per migliorare lo stato delle cose. In effetti, noi non possiamo sperare, se pure è vero, come sembra, che il patrimonio zootecnico è andato aumentando in questi ultimi tempi, di portarlo ad un tale livello da renderci sodisfacente la disponibilità dell’alimento animale per il popolo italiano, perché, come vi dicevo, la situazione era già grave per noi prima della guerra. L’entità del patrimonio zootecnico, evidentemente, è condizionata dai foraggi disponibili e dalla estensione dei pascoli dei quali possiamo disporre. Qualche accorgimento bisogna dunque escogitarlo e concordo in ciò pienamente con l’onorevole Conti. Non concordo con lui nel ritenere utili a questo fine quegli accorgimenti che egli ha suggerito, cioè l’abolizione dei Commissariati e le autonomie regionali e comunali.

Non che io, da liberale, non apprezzi l’opportunità dell’abolizione dei Commissariati, cioè della bardatura pesante della economia controllata; non che io, da autonomista convinto, non desideri, come lui, che al più presto si realizzi la vera libertà amministrativa dei Comuni e delle Regioni. Ma io penso che, per questo problema specifico, non sarebbero utili né l’uno accorgimento né l’altro. Qualche cosa di diverso, invece, si può escogitare. Si può razionalizzare la nostra industria zootecnica, si può adattarla – in altre parole – alle nostre esigenze fisiologiche. Si può, come vorrebbe appunto l’onorevole De Gasperi, «disporre nel senso più utile per la collettività delle risorse locali».

Noi dobbiamo tener presente che gli animali domestici dei quali ci alimentiamo non sono che trasformatori dell’energia alimentare già esistente: essi sono, cioè, convertitori dell’alimento vegetale in alimento animale. E, da questo punto di vista, occorre rilevare che non tutti eseguono la conversione nella medesima forma; non tutti, cioè, sono ugualmente economici o ugualmente antieconomici. Tutti, in genere, sono convertitori antieconomici; ma alcuni lo sono di più, altri di meno. Per esempio, convertitori tipicamente antieconomici sono proprio i bovini, i quali hanno bisogno, per costruire un chilogrammo di alimento animale, di ben 64 chilogrammi di fieno; convertitori invece meno antieconomici sono gli ovini, che hanno bisogno di 24 chilogrammi di fieno per la costruzione di un chilogrammo di alimento animale.

Ma bisogna tener presente che i bovini diventano così antieconomici solo dopo aver raggiunto il completo sviluppo somatico: prima di tale stadio dello sviluppo essi sono convertitori relativamente economici della energia alimentare.

Occorre, quindi, allo scopo di accrescere la disponibilità della carne, imporre la macellazione dei bovini prima che sia raggiunto il completo sviluppo somatico, cioè durante il periodo dell’accrescimento, e limitare l’allevamento ulteriore soltanto alle vacche lattifere, le quali costruiscono un chilogrammo di alimento animale con soli 22 chilogrammi di fieno, ed ai maschi necessari per il lavoro e per la riproduzione.

Inoltre, c’è un’altra considerazione da fare: che una buona vacca è capace di fornire in un anno, col latte, una quantità di proteine doppia di quella contenuta in tutti i suoi tessuti e che essa può fornire in un anno, col latte, un numero di calorie pari a quello di tutti i costituenti chimici dei suoi tessuti. Conviene dunque favorire, incrementare, l’allevamento delle vacche lattifere, scegliendo quelle razze che sono più produttrici di latte; occorre cioè procedere ad una selezione imponendo l’allevamento delle vacche che siano più produttrici di latte e che presentino idoneità all’acclimatazione. Ed a questo scopo una sola cosa, a parer mio, è indispensabile: diffondere e rendere obbligatoria la fecondazione artificiale del bestiame.

Io penso che queste poche notizie possano essere utili a chi voglia effettivamente proporsi di migliorare, con provvidenze legislative, il patrimonio zootecnico italiano, sia dal punto di vista quantitativo che dal punto di vista qualitativo. E penso che questo dovrebbe essere considerato come un suo dovere preciso dal Governo, perché l’iponutrizione esercita effetti deleteri sul rendimento della macchina umana, e quindi anche tutta la ricostruzione del Paese soffre per la deficiente nutrizione degli uomini. E non solo la iponutrizione esercita effetti deleteri sul rendimento della macchina umana, ma essa esercita pure effetti altrettanto deleteri sul morale degli uomini.

Venticinque anni fa un nostro grande fisiologo, Filippo Bottazzi, scriveva che «la iponutrizione dispone l’animo alla sfiducia, al pessimismo; tarpa le ali ad ogni entusiasmo; rende l’uomo perfino dimentico dei suoi più sacri doveri verso la Patria e verso l’umanità». Se questo voi considerate, onorevoli colleghi, io penso che dovranno sembrarvi futili quegli espedienti che si vorrebbero escogitare per la difesa della Repubblica.

Noi parliamo ancora del giuramento, noi pensiamo ancora sempre al giuramento. Ma io non credo, onorevoli colleghi, che la coartazione della coscienza rappresenti davvero un mezzo efficace per la difesa della Repubblica. Perché la Repubblica non si difende che nella libertà. È stato già un errore il mantenere il giuramento politico. Il giuramento era una volta una cosa seria, una cosa sacra; oggi non lo è più. Oggi esso non è che un atto puramente formale, considerato superfluo da coloro i quali credono nella bontà della istituzione, considerato odioso da coloro i quali in questa non credono.

È stato un errore, ripeto, mantenere il giuramento. (Interruzione dell’onorevole Lussu). Io penso che la Repubblica avrebbe dovuto abolirlo. Abolendo il giuramento, onorevole Lussu, noi avremmo sottolineato una cosa che a parer mio è importante. Noi sappiamo che il giuramento storicamente deriva dal diritto di conquista, dal diritto della forza. Ebbene, noi avremmo sottolineato che questa Repubblica italiana, per nostra fortuna, non è stata partorita dalla conquista, non è scaturita dal diritto della forza, che essa è nata invece per la forza del diritto.

Il terzo punto del mio ordine del giorno riguarda il problema della scuola. Non desidero diffondermi su questo argomento, perché altri colleghi ne hanno già parlato e perché so che molto più autorevolmente di me si propone di parlarne l’onorevole Colonnetti.

Desidero dire solo questo: le condizioni dei nostri Istituti superiori, delle nostre Università sono gravissime. Esse sono state già denunciate in quest’Aula da due rettori di università: dall’onorevole Pellizzari nel suo discorso del 18 luglio e dall’onorevole Calamandrei in occasione di una sua interrogazione al Governo. Ciò mi esonera sia dal parlarne diffusamente, sia dal rispondere, quasi per fatto personale, all’onorevole Tumminelli che poco fa rimproverava ai rettori di Università presenti in quest’aula di non interessarsi sufficientemente all’argomento. Le condizioni delle Università sono gravissime ed è bene preoccuparsene, perché è ben vero quello che diceva l’onorevole De Gasperi, che l’Italia potrà rinascere solo dalla scuola. In effetti, se noi abbiamo contato qualche cosa nel passato, ciò è stato non soltanto per il braccio, ma soprattutto per l’ingegno dei nostri padri, cioè dei nostri artisti, dei nostri filosofi dei nostri letterati, dei nostri scienziati. Oggi le Università italiane sono tutte in condizioni così penose da doversi perfino affacciare alla mente del Senato Accademico o del rettore dell’Università l’ipotesi di una chiusura della scuola. Sono esse tutte, o quasi tutte, indebitate; e tutte sono creditrici dello Stato. Infatti i rimborsi annuali che lo Stato deve alle Università per varie ragioni, avvengono con una velocità incomparabilmente minore di quelle delle spese che l’università deve affrontare. E accade questo fatto paradossale, che le università sono costrette a fare da banchiere allo Stato. Credo che ciò non sia assolutamente tollerabile. Occorre restituire immediatamente la propria efficienza alle Università e agli Istituti di cultura superiore. Occorre restituire tutta la loro efficienza ai laboratori scientifici ed alle biblioteche, perché non bisogna dimenticare che il compito principale delle Università non è già quello di fabbricare i professionisti, cioè i medici, gli ingegneri o gli avvocati; ma di contribuire, con le indagini scientifiche o storiche, al progresso della scienza, al progresso delle idee. Le Università sono e, debbono essere soprattutto, i nostri efficienti «laboratori del pensiero».

Io credo che questo problema debba essere risolto al più presto, anche perché giustamente poco fa diceva l’onorevole Tumminelli, è questo un nostro grande patrimonio che dobbiamo preservare e potenziare; è forse il solo patrimonio che la guerra non ci ha tolto e che nessun trattato di pace ha potuto (o poteva) toglierci: il solo patrimonio che potrà consentirci di riprendere ancora una volta domani, e con dignità, il nostro posto nel mondo. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Tremelloni. Ne ha facoltà.

TREMELLONI. Mi limiterò a prendere in esame alcuni dei temi economici che si ricollegano a quelli accennati nell’esposizione dell’onorevole De Gasperi: e ciò perché, a mio avviso, l’azione sociale del Governo deve oggi, almeno per i tre quarti, essere azione economica. È questo forse il terreno nel quale – dalla liberazione in poi – si procedette con singolare improvvisato empirismo, con insufficiente valutazione della sua importanza. È mancato forse il coraggio di dire recisamente che le condizioni attuali, le quali limitano e condizionano la nostra politica economica, non si prestano alle prodigalità delle demagogie di ogni colore, e che dalle attese impossibili delle une, o dalle attese impossibili delle altre, si ottiene soltanto una ulteriore remora o nebulosità nella via di uscita. Così dalla liberazione in poi si è vissuti alla giornata, propinando cambiali in bianco a lunga scadenza, nei giorni pari alla destra, nei giorni dispari alla sinistra. I problemi economici di questo dopoguerra non si prestano a contemporanee alternate soluzioni, né – per la loro connessione coi problemi sociali – si prestano ad una delle astratte soluzioni-limite: compito di chi suggerisce ed attua brevi programmi di Governo è di condizionare il fine ai mezzi, scegliendo con chiarezza e senza pentimenti o reticenze una sola strada la cui linea di demarcazione, sebbene difficile a trovare in realtà, esiste. Ma, scelta che sia, bisogna su questa strada camminare, ed aver l’energia di non imboccare allettevoli viottoli laterali, cioè aver coraggio di determinare, nella gerarchia d’urgenze con cui occorre graduare la folla paurosa dei problemi immensi da risolvere, ciò che è fondamentale, e tralasciare ciò che è accessorio, anche se ha la parvenza del fondamentale.

Noi italiani – e non da oggi – bruciamo sull’altare della nostra povertà le nostre migliori energie per discutere, riaffermare e tentare immediate soluzioni di problemi insolubili a breve termine. La tragedia dei popoli poveri è questa, che essi sono spesso così lungimiranti da abbandonare l’attenzione sulle concrete modeste soluzioni del problema quotidiano e – se hanno un pesante bagaglio di teorie e di ideologie da trascinarsi dietro, come noi abbiamo – ragionano come gli Arcadi. Troppo spesso esaminiamo il problema economico e sociale italiano guardandolo a un chilometro di distanza, senza accorgerci che sarebbe forse più utile guardare al di qua delle macerie, alla distanza di pochi metri da noi. Questa presbiopia esalta le ideologie, ma in certi momenti, come l’attuale dopoguerra fallimentare, ci impedisce la soluzione dei problemi concreti e immediati. Così si allontanano, non si avvicinano, le mete ideologiche, e si compie il lavoro di Sisifo di fare e rifare i programmi per il duemila, lasciando all’empirismo quotidiano i programmi per il prossimo quadriennio. Così si procede a tentoni e ci si esaspera mutuamente, perché si danno schiaffi al vento, senza accorgerci che non è il vento che ne ha colpa.

L’essenziale sembra per ora di uscire in concreto dalla strozzatura, e di uscirne il più presto possibile senza vittime umane; non di discutere troppo astrattamente sulle formule o sui fantasmi, come usiamo noi italiani con particolare voluttà. È perdonabile ai partiti di usare ed abusare della politica degli slogan – anche se è desiderabile che non lo facciano – ma non deve questa politica diventare una formula di Governo. Non c’è un problema di massimalismo o di minimalismo: in termini concreti, oggi ci sono delle strade obbligate, che non sono né massimaliste né minimaliste.

Oggi il compito preminente ed essenziale è di rialzare il cosiddetto «livello di benessere» del popolo italiano, anche se questa parola è per noi ferocemente sarcastica. Il livello di benessere di un Paese non si accresce durevolmente, se il dividendo nazionale non si eleva; e il dividendo nazionale non si eleva se non utilizzando meglio la somma delle nostre energie.

Se è vero, come è vero, che il progresso economico si attua con gradualità ed in mezzo a costanti limitazioni, non dobbiamo promettere al Paese e al popolo più di quanto onestamente potremo offrire, anche se è più simpatico, più elettoralistico, meno impopolare promettere molto, lasciar lavorare di fantasia i nostri ascoltatori. Oggi la situazione è quella che è. Inutile nasconderla ai lavoratori, nasconderla al Paese. Fuor d’ogni pessimismo, non potremo portare il nostro livello di esistenza a quello del 1913 prima del 1950. Inutili le formule miracolistiche, inutili le bacchette magiche e i giuochi di azzardo, inutile e dannoso attizzar speranze e miraggi. Bisogna aver il coraggio di dirlo, e non soltanto di pensarlo o di convenirne a quattr’occhi. Tutto quel che ci rimane da fare – ed è moltissimo – è di evitare che questo livello del 1913 sia raggiunto nel 1960 invece che nel 1950; ma soprattutto di far sì che sia raggiunto col minimo di sacrifici per le classi lavoratrici. Chi promette di più bara; e mente sapendo di mentire.

I lavoratori italiani chiedono dunque che non si nasconda la reale condizione economica del Paese, né la concreta e non illusoria possibilità di migliorarla: la gran forza di un regime democratico è, o dovrebbe essere, la sincerità, che è una forza profondamente educativa. Il Paese è stato pochissimo informato, e spesso lo è stato in ritardo, di tutta la sua vita economico-finanziaria; talvolta non lo potevano essere neppure gli stessi membri del Governo. Uno sforzo organico di documentazione deve essere compiuto, e con ogni urgenza. Non si possono prendere decisioni – e spesso decisioni di somma importanza non effimera – se non si ha la più minuta tempestiva obiettiva conoscenza del panorama economico-sociale del Paese. In questa sagra di miliardi, che rappresentano le spese pubbliche di ogni mese, non si devono trovare – ad esempio – le pochissime decine di milioni annui perché l’Istituto centrale di statistica ridiventi un organo efficiente nelle rilevazioni economiche, attui un’ampia rapida indagine sulla nuova struttura che ha assunto questa vulcanicamente sconvolta nostra economia? Non si può vedere, con dati il meno possibile ritardati, quel Conto del tesoro, che esce ora soltanto per i nostri storici della finanza, quasi come la Gazzetta Ufficiale che pubblica i decreti-legge talvolta due o tre mesi dopo che sono entrati in vigore, e come le cifre del nostro commercio estero e della produzione industriale che durano almeno tre mesi per arrivare a conoscenza del Paese? Non si possono conoscere molti altri dati oggi quasi segreti, come ad esempio l’utilizzazione del fondo lire? Questo Paese – che subito dopo l’Unità, in un periodo stranamente somigliante all’attuale, sebbene ora i problemi siano esaltati geometricamente, dispose di una serie di indagini amplissime come l’inchiesta Jacini e l’inchiesta industriale, ha vivo desiderio di essere più rapidamente e più compiutamente informato di quanto non possa esserlo con la doccia scozzese delle interviste, spesso deformate superficiali e contradittorie, e terreno di polemiche mal fondate e più atte ad aumentare malcontenti che non a ragionevolmente sedarli.

La vita economica del nostro Paese, che sempre fu succube di una singolare sproporzione tra capitali e uomini, ma dove la guerra e l’autarchia hanno rincrudito questa cronica sproporzione, ha una struttura economica di estrema fragilità, d’una tale fragilità che la predispone in modo imponente ai regimi totalitari. Compito della democrazia è di risolvere questo problema, è di colmare questo hiatus tra l’ieri, incapace di assicurare, se non attraverso la dittatura e l’autarchia, condizioni di vita meno dure per la grande maggioranza del popolo, e il domani, che in tutto il mondo si avvia verso concezioni solidaristiche. Colmare questo hiatus costituisce la prova del fuoco della democrazia, ed è la prova del fuoco di tutti i Governi che desiderino di allontanare il pericolo di nuovi insuccessi della democrazia, col loro corteo inevitabile di nazionalismi, di autarchie, di guerre, di privilegi.

Dalla liberazione in poi lo sforzo di colmare la frattura cui accennavo dianzi non ha sortito un esito apprezzabile; la conciliazione tra l’economico e il sociale non si è risolta. Si è andata accentuando una somma di malcontenti – taluni giustificati, taluni ingiustificati – che può mettere in pericolo lo stesso istituto democratico. Vi siete mai chiesti le cause profonde di questo malcontento? Esse, a mio avviso, non risiedono soltanto nelle condizioni gravi in cui un lungo periodo di nazionalismi economici ha gettato l’Europa, ma anche nell’impotenza dei Governi di conciliare organicamente la libertà con la giustizia sociale, cioè nell’impotenza di affrontare il problema economico nei due aspetti contemporanei del clima produttivistico e del clima sociale. È innegabile che questi problemi si pongono in circolo, e mentre si cerca il punto in cui spezzarlo, non ci si accorge che occorre premere su tutti i punti del circolo con unità di intenti e di direttive: ciò che riesce sommamente difficile ai Governi di costituzione estremamente eterogenea. Essi non riescono a condurre una politica economica unitaria e univoca, e il loro sforzo di accontentare tutti finisce per scontentare tutti.

Mentre l’azione economica in favore dei lavoratori, in periodi normali, poteva essere condotta più vantaggiosamente attraverso una redistribuzione operata con la lotta sul solo terreno sindacale, in periodi di economia disastrata e di grave impoverimento collettivo come l’attuale, può e deve essere condotta anzitutto dagli organi di Governo.

Oggi non si tratta infatti di distribuire di più, ma di assicurare un minimo vitale per tutti, di evitare che il superfluo di taluno sia ottenuto a spese del necessario per gli altri. Occorre almeno assicurare un minimo di alimenti, di indumenti, di case per coloro che rischiano di non avere questa diga contro la più pericolosa miseria. Si chiede spesso: «Possiamo permetterci di farlo?». La domanda deve essere invece questa: «Possiamo permetterci il lusso e i danni di non farlo»?

Occorreva predisporre tempestivamente un piano organico generale per questa nostra ricostruzione, che non è soltanto edilizia. Ora il piano viene annunziato, e noi ci auguriamo che esso non si limiti a quelli parziali d’un solo o di pochi settori della vita economica del Paese. Deve trattarsi d’un ampio e precisato programma economico per quel prossimo quadriennio che sarà di un’importanza decisiva per l’avvenire dell’Italia: compito al quale quasi tutti gli altri Paesi si sono già accinti, imponendosi anche dei sacrifici notevoli per il raggiungimento di mete ben determinate. La ricostruzione esige infatti una somma di sacrifici: quali sono quelli – deve dirci il piano – che gli italiani possono sopportare, e come sarà suddiviso il loro onere?

Si capisce che tutti riluttano ai sacrifici, ma li accetteranno con minore amarezza, se sapranno a vantaggio di che è di chi andranno. I lavoratori devono potersi difendere del pericolo di vedersi addossati in troppo grande parte tali oneri, o dal pericolo che ci si fidi con eccessiva longanimità dei cosiddetti processi di aggiustamento a lunga scadenza, quando le facoltà di attesa dei singoli ceti sociali sono ben differenti. Per mettere in sesto la nostra economia, bisogna dotarla di beni strumentali più efficienti e numerosi – ferrovie, strade, macchine; – e quindi bisogna avere il coraggio di ridurre certi consumi voluttuari. Meno automobili fuori serie, meno profumi e meno liquori, meno pane bianco, più cemento, più ferro, più bonifiche, più centrali idroelettriche, più mezzi di trasporto. Non si può avere l’uno e l’altro. Guardate l’Inghilterra, onorevoli colleghi!

Essenziale ed urgente compito del Governo – se il piano è realmente in elaborazione – è quello però di renderlo pubblico, affinché possa essere utilmente discusso dal Paese, giacché rappresenta il più importante e decisivo atto di orientamento per la vita economica italiana di oggi e di domani. Ma l’attuazione di tal piano orientativo non potrà avvenire se manca la forza politica che dia unità di indirizzo, e soprattutto se il Governo non potrà o non saprà predisporre dei congegni adatti. Altrimenti il piano sarà stritolato dalla morsa degli interessi di gruppi e di classe, e l’interrogativo che ponevo all’inizio rimarrà ancora una volta irrisolto.

Il primo modo di allargare questa morsa, perché non ci strangoli, è quello di ripristinare i congegni dell’azione statale. Bisogna avere il coraggio di affrontare subito il problema del risanamento di questa macchina, da cui dipende quel ripristino dell’autorità statale il cui svilimento è motivo di compiacenza per i cittadini meno meritevoli della stima dei lavoratori.

La struttura tradizionale dei Ministeri economici non va più bene; non ha seguito quel processo, diciamo di «riconversione», che si intende programmare per le aziende. I Ministeri economici vanno in gran parte infatti mutati nei loro uomini, nei loro metodi, nella loro mentalità, per adattarli alle nuove esigenze della politica economica italiana. Il numero dei funzionari è eccessivo; occorre probabilmente averne meno, ma meglio scelti, meglio retribuiti, aggiornati con periodiche selezioni più severe. Lo Stato può avere degli ospizi benefici, ma essi devono essere altra cosa che non i Ministeri. Bisogna avere il coraggio di ripristinare subito l’autorità dello Stato perseguendo il fine della prontezza, della capacità, dell’agilità, della serietà, dell’onestà dei suoi strumenti. Badate che la macchina dello Stato si sta dissolvendo; sia per colpa d’una parte della burocrazia che è spesso lontana dalle esigenze concrete della nostra economia; sia per colpa di un’opinione pubblica che è avviata ad un fatalismo iconoclasta, dopo gli eccessi di statalismo totalitario, sia per colpa di un rinato individualismo miracolistico, che si manifesta in un pericoloso prevalere di irrequieti interessi di gruppo, di aspirazioni provinciali o regionali, di campanilismi eccitati, di egoismi dilaganti. Si lesinano i milioni per i Ministeri che si occupano delle cose economiche, e non si lesinano ancora oggi i miliardi per i Ministeri militari. Il Ministero dell’industria ha a disposizione mezzo miliardo di lire all’anno, meno, assai meno di quel che può spendere la Confindustria coi suoi uffici centrali e periferici; e meno di un ventesimo di quel che possono spendere i Ministeri militari in tempo di pace.

La condotta economica d’un Paese, da cui dipende la stessa possibilità di miglioramenti sociali – non può poi essere affrontata dai Ministeri a compartimenti stagni. È un ruotismo complicato di cui non basta affidare ogni singola ruota ad un partito o ad un uomo, lasciandogliela muovere come crede. Bisogna dunque che ogni ruota si muova in simpatia col moto delle altre. Questo, finora, non è accaduto nei due o tre anni del nostro dopoguerra italiano; e il Paese se ne accorge. Aboliti utilmente altri Ministeri (e io avrei fuso anche il Ministero del commercio estero con quello dell’industria e avrei istituito un sottosegretariato per le risorse energetiche), essenziale mi pareva dunque la formazione d’un Ministero degli affari economici, il quale – più che non il placido C.I.R. – sapesse rompere il circolo vizioso dei palleggiamenti di responsabilità, dello scoordinamento tra i vari Dicasteri, dello zero ottenuto per somma algebrica tra le opposte soluzioni dei singoli Ministri.

Non si può lasciare che il Ministro del commercio estero faccia una politica e quello dell’industria o dell’agricoltura un’altra, che altri Dicasteri redigano piani annunziando spese di centinaia di miliardi, e non si assicurino prima che i miliardi ci sono da spendere e che i materiali necessari esistono e possano essere procurati; che si faccia conto sulla disponibilità quantitativa di masse di lavoratori disoccupati e non si provveda a qualificarli convenientemente; che non ci si preoccupi se il risparmio del Paese o i prestiti esteri, e in che misura, possano seguire docilmente le esigenze di investimenti in beni strumentali e via numerando.

Non si può volere che una politica di blocco dei prezzi si attui, se il Comitato prezzi deve limitarsi ad agire come «machine à calculer» prendendo nota oggi di un aumento dei prezzi dei prodotti (il che ci ha condotti negli ultimi 6 mesi ad un salto dei 50 per cento nel livello dei prezzi), o affidandosi alle coreografiche «tregue», senza poter manovrare con le leve e sulla piattaforma di una ben definita politica economica generale; non si può non accostarsi intimamente alla politica monetaria, né ambire a questa, se non si risana il bilancio statale, se non si ottengono i necessari prestiti esteri, e via numerando.

Noi giriamo come una trottola, passando da un problema insolubile da solo, ad un altro insolubile da solo, soltanto perché non li affrontiamo con contemporaneità e unità di direttive. Non si salva la lira se non attuando un piano produttivo, e non si attua un piano produttivo se non sulla tesi solida di una moneta sana; si acuiscono le agitazioni sociali perché la spirale inflazionistica soffoca e riduce alla fame i lavoratori; si ritarda una politica di occupazione perché non si può attuare questo clima produttivistico.

In materia economica difficilmente si può ricercare se vi siano relazioni di causa ad effetto e di effetto a causa: vi è un’interdipendenza che rende difficile trovare il punto in cui far forza per spezzare i circoli viziosi. In questa problematica, se si vuole evitare rimbalzi da un tema all’altro, tra i primi è – in grado di urgenza – l’avviamento deciso ad un metro monetario meno folleggiante. Se ne è parlato in tutti i programmi di Governo, ma nessuna azione coordinata è stata compiuta finora, e questa Assemblea deve dire che il nuovo Governo la compia senza ritardi, perché senza una moneta relativamente stabile tutti i programmi economici sono edifici che si finisce per costruire su un piano inclinato e sdrucciolevole. I lavoratori ben sanno che il processo inflazionistico è l’imposta forse più insidiosa per contrarre silenziosamente il loro salario reale; che nessuna opera ricostruttiva, che nessun risanamento dei bilanci pubblici, che nessuna seria azione fiscale, che nessun piano a lunga scadenza, che nessuna politica produttivistica, che nessun risparmio nazionale sono possibili sul terreno franoso dell’erosione monetaria. Su un prossimo prestito interno – congegnato meglio del precedente – e che sarà inevitabile prima del secondo semestre, non si può far conto se non se ne farà la bandiera della stabilizzazione, e con la contemporanea assunzione d’un adeguato prestito estero.

Quanto a Bretton Woods, molto bene se le incognite numerose che si presentano con questo inserimento si giudicano dal Governo facilmente risolvibili. Ma è bene che il Paese sappia che Bretton Woods non è la panacea della nostra malattia monetaria; e che il risanamento della lira dipende da molte altre condizioni, da molti altri coordinati sforzi. La nostra stessa partecipazione a Bretton Woods ci impone di essere cauti nell’assumere impegni fino a che altri non ci abbiano dato la certezza di poterceli assumere attraverso l’adeguatezza di prestiti a lunga scadenza: e bisogna dire chiaro ai Paesi che ce li possono fornire che questa è una condizione di vita o di morte.

Non si può pensare che ad un’economia disastrata si prometta di venir incontro soltanto quando sarà risanata. È come promettere medicine al malato quando sarà guarito, o, peggio, quando sarà presumibilmente morto.

Noi socialisti, che non siamo internazionalisti solo a parole, poniamo in prima linea il tema della collaborazione economica internazionale. È una cooperazione che dobbiamo dare, ma che dobbiamo anche avere: e noi porremo in atto ogni sforzo perché tale scambio di solidarietà sia reciproco. Se si formerà una O.N.U. per il commercio internazionale, bisognerà esserne attivi collaboratori, incoraggiando gli scambi, purché questa solidarietà internazionale non si fermi alle merci, ma venga estesa agli uomini e ai capitali; altrimenti sarebbe una falsa, parziale e spesso iniqua libertà, mascherante delle limitazioni a danno dei paesi sovrapopolati come il nostro.

I grandi problemi che riflettono l’alta occupazione sono spesso irrisolvibili in sede nazionale, e il Governo deve studiarli e risolverli anche in sede internazionale, così come il problema di un più alto tenore di vita non può ricevere soluzione in sede di obbligate autarchie. Se gli altri Paesi desiderano realmente di raggiungere questi obiettivi – che noi riteniamo gli scopi più immediati d’una politica sociale inderogabile – non devono limitarsi alla formula del «mondo uno», ma realizzare praticamente i presupposti di questa esigenza, in un mondo diventato piccolo e desolatamente sperequato nella sua povertà. Non manca certo, né deve mancare, a noi la volontà di utilizzare gli strumenti internazionali che la pace offre, ma bisogna che questi strumenti siano veramente e interamente utilizzabili da tutti: altrimenti continueremmo a ripetere, con imperdonabile malvagità, gli errori dell’altra pace. Ancora oggi i più seri problemi del trattato di pace non sono soltanto quelli territoriali, ma in maggior misura quelli economico-sociali: i pericoli dei prossimi anni, più che nelle frontiere e nei chilometri quadrati delle zone d’influenza, risiedono soprattutto, a mio avviso, nella formazione di autarchie economiche e sociali, nella permanenza e nella prepotenza di gruppi e zone privilegiate sotto il velame delle conclamate solidarietà.

Le incognite della nostra bilancia dei pagamenti restano gravi anche dopo il viaggio dell’onorevole De Gasperi in America. È da escludere che si possa consentire un pareggio ottenuto attraverso una drastica riduzione del già ridottissimo livello di esistenza del popolo italiano. Poiché sarebbe estremamente pericoloso ridurre le partite passive (per quanto non sia indifferente la loro composizione qualitativa), bisogna dunque stimolare con ogni energia l’aumento delle partite attive; e ciò, più che nelle voci invisibili (il cui maggior contributo ci si potrà attendere verosimilmente non prima del 1948), nella bilancia commerciale. Noi dobbiamo raggiungere al più presto, e superare, il livello di esportazione d’anteguerra, facilitando in ogni modo il reinserimento nella vita economica internazionale, all’occidente e all’oriente.

Del bilancio dello Stato – il cui assestamento è una delle condizioni per ottenere il risultato d’una sana moneta, e io non sono così ottimista come l’onorevole Scoccimarro – occorre dire che difficilmente si potrà diminuire il capitolo delle spese. Gli ottocento miliardi di spese – cioè oltre un terzo del reddito nazionale – non devono essere però superati. E sarà necessario spenderli bene, cioè operare chirurgici tagli in alcune voci, a favore di altre inderogabili. Finora il Paese ha l’impressione che si sia speso male il danaro pubblico: senza cioè un giudizio severo sulle destinazioni, e senza un concertato programma-limite sulle destinazioni. Ascolteremo dal Ministro del tesoro come pensa di far fronte nel prossimo semestre alle esigenze della Tesoreria. Sebbene non si debbano suscitare grandi attese su una politica finanziaria straordinaria, è necessario però che essa si attui con ogni urgenza con il prelievo che deve colpire tutte le forme di ricchezza materiale, e soprattutto avendo riguardo alla stratificazione operatasi nelle rendite congiunturali; ma è al postutto la politica finanziaria ordinaria che consentirà – con una pressione fiscale distribuita secondo la capacità contributiva – di avviare al risanamento il bilancio dello Stato.

Ciò che è da raccomandare è di evitare che le imposte indirette assumano l’eccessiva importanza proporzionale che è stata loro oggi conferita: e che il congegno fiscale sia ripristinato e reso veramente efficiente, dopo lo scardinamento bellico e post-bellico.

Il programma del Governo ripete il desiderio d’una politica produttivistica. Anche questo è uno slogan che ha avuto fortuna, forse per la sua nebulosità., presso tutti i partiti. Ma cosa vuol dire? È un insieme di massimi contemporanei che mutuamente si condizionano. Vuol dire predisporre tutte le premesse necessarie e sufficienti perché le imprese abbiano lo stimolo e il clima per una maggiore produzione, ai fini d’un dividendo nazionale più alto; vuol dire utilizzare meglio e il più compiutamente possibile tutti i fattori produttivi disponibili; vuol dire operare quella «riconversione» della nostra economia che va svolgendosi con una lentezza tartarughesca. Su questo terreno, dalla liberazione in poi, non si può dire che si sia camminato a passi decisi, e nessun programma di riconversione è stato perseguito organicamente. Intende ora il Governo darci questo programma, oppure intende continuare a finanziare e puntellare quasi a caso imprese che si propongono – dopo di aver largamente guadagnato quando puntavano sul cavallo vincente – di guadagnare ora su quello che i loro calcoli giudicavano il cavallo perdente?

Il problema si farà più grave, molto più grave nei prossimi mesi, quando le effimere euforie dei mercati mondiali cesseranno, e la curva dei prezzi internazionali potrà subire una rapida inversione. Noi abbiamo imprese che producono a costi altissimi, sulle quali la spazzola di ferro non è ancora passata per togliere le scorie stratificate dall’autarchia e dall’inflazione.

Delle politiche protezioniste – che io ritengo tutte in minore e maggiore misura perniciose – la più cattiva è quella di proteggere senza scopi precisi, cioè di distribuire privilegi a piccoli gruppi e a spese della collettività. È perciò che mi preoccupa il significato vago di quegli «opportuni accorgimenti», di cui parla l’onorevole De Gasperi, per evitare che il reinserimento dell’economia italiana sul mercato internazionale abbia le ripercussioni temute. Perché, se una politica di sostegno occorre, e in via transitoria purtroppo occorrerà, essa non deve rischiare di distribuire extra-redditi ai pochi godenti di rendite di posizione, ma deve essere rigorosamente controllata, perché il sacrificio si attui veramente nell’interesse di tutti e non si tramuti in un’allegra prodigalità per i più svelti nell’assalto alla diligenza. Se lo Stato ritiene che sia di pubblico interesse intervenire, è condizione indispensabile che sia attrezzato e si attrezzi convenientemente perché nessuno singolarmente approfitti di posizioni monopolistiche, o goda di regali pagati dalla collettività.

Il grosso problema dell’Istituto di ricostruzione industriale, non ancor risolto, attende anch’esso la sua urgente soluzione. Occorre che lo Stato si impegni a condurre bene e organicamente le imprese che già possiede, e che tali imprese seguano la sua politica economica, ne siano gli strumenti ove occorra: questa è la premessa indispensabile per poter procedere oltre, nei settori ove si renda utile; e non bisogna aspettare che il temporale che si addensa sul mondo economico ci faccia trovare impreparati con troppi salvataggi da compiere e privi di congegni per quelli che si compirono.

E bisognerà che il Governo ci dica se intende, e come intende, operare una politica degli investimenti, giacché questo è il punto nevralgico che può compromettere anche il più allettevole piano produttivo.

Bisogna, in sostanza, attuare un certo grado di controllo sulla vita economica del Paese. Nessun obiettivo osservatore, che abbia un minimo di conoscenza della vita economica italiana e internazionale, può metterlo in dubbio: è una delle soluzioni «obbligate» in cui – salvo la misura e la durata – sono pressoché tutti d’accordo. Il problema – di fronte al quale il Governo non è riuscito finora a trovare la soluzione – è il problema dei limiti del controllo, dell’efficienza e della competenza dei controlli.

Ora, qui bisogna essere molto severi, e demolire ogni controllo inutile o che rischia di essere inefficiente ed arbitrario; ma non severi al punto da cadere nell’allegro fatalismo dei liberisti ad oltranza, i quali si coprono gli occhi di fronte al problema sociale, e non vogliono consentire che vi sono degli scopi morali nella vita economica.

Non ci si deve lasciar ingannare dagli attacchi bene organizzati, ma altrettanto interessati, dei gruppi che vogliono sfuggire non ai controlli pletorici o pleonastici, ma a ogni controllo sociale; e forse oggi si tratta di scegliere se siano meglio spese alcune centinaia di milioni per assicurare l’efficienza dei pochi ma ben congegnati strumenti di pace sociale, oppure decine di miliardi per mantenere un esercito che eviti la guerra civile.

L’esperimento del C.I.A.I., contro il quale si appuntarono tutte le armi munificamente dotate di non disinteressati avversari di ogni controllo, dovrebbe essere assunto come veramente innovatore. Non si tratta di far rivivere dei corporativismi, dove il giuoco era in mano di interesse di gruppi sotto la maschera dell’interesse collettivo, ma di ottenere proprio il contrario.

Il grosso problema di aree depresse, di categorie sociali depresse, che affiora in prima linea oggi nel nostro Paese, non è risolvibile se non con una politica economica solidaristica: ed essa non si attua se non si determinano, con nitida visione delle mete, gli strumenti per la sua attuazione. Lasciare al caso questa formazione dei congegni, ritenerla secondario compito, vuol dire rinunziare agli scopi, o dar vita a organi che a ragione possono essere qualificati bardature dannose. Bisogna che, una volta determinata una politica economica, essa abbia attuazione, anche se impone sacrifici o suscita doglianze in taluni gruppi potenti: e il potere esecutivo che ha di fatto, in questo momento, un’ampiezza eccezionale di mandato, non utilizzi le sue facoltà con grande disinvoltura e temerarietà in alcuni casi, con eccessiva prudenza in alcuni altri.

Occorre determinare con chiarezza gli obiettivi vicini da raggiungere; che il Paese li. sappia; che non siano obiettivi fantasiosi o nebulosi e il Paese sia convinto che non lo sono; che il Paese sia consapevole essere il Governo deciso a raggiungerli senza compromessi e senza debolezze o rimpianti.

Oggi viviamo in un’atmosfera di «autofagia democratica». È la democrazia che rischia di mangiare se stessa, perché confonde la decisione democratica con l’attuazione concreta del deliberato, perché è timida nel determinare i limiti dell’azione pratica delle maggioranze, perché non vuol scontentare nessuno. E ciò si risolve in provvedimenti parziali, contradittorî, e in effetto spesso più nocivi che utili; si risolve nella indecisione del potere esecutivo.

Noi dobbiamo uscire, ed al più presto possibile, da questa indecisione, da questo labirinto maledetto della povertà. E ciò che noi socialisti vogliamo oggi è che le masse lavoratrici non paghino tutto il pedaggio feroce di questa porta d’uscita dall’autarchia, dall’inflazione e dalla guerra: intendo dire non lo paghino con sofferenze che mettano in pericolo la stessa loro vita fisica oltreché la loro capacità produttiva.

Altrimenti, onorevoli colleghi, noi ci avvieremmo ad un alto grado di disordine distributivo, e quindi di disordine sociale; e quando le forze di disgregazione predominano, quando esse non riescono che a trasferire la loro energia nel lusso delle reciproche interiori violenze, è sempre il proletariato che sta peggio. Perché il proletariato non può sempre aspettare che il benessere futuro compensi la fame di oggi. Il processo è insanabilmente irreversibile, come purtroppo sappiamo tutti. Non ci saranno pagamenti di «arretrati» per coloro che frattanto si sono ammalati per fame.

Se il Paese non saprà uscire dal vortice, se noi non sapremo – anche sfidando effimere impopolarità – determinare i limiti del possibile, se non ci sapremo imporre un clima di lavoro – che non vuol dire, intendiamoci bene, una serra calda per qualcuno e la fame per gli altri – se non avremo la forza di far agire con minore inerzia la gran macchina dello Stato, ebbene allora sarebbe proprio il caso di concludere che le volontà suicide superano in noi le volontà di esistenza e che il popolo italiano è uscito da un carcere per entrare in un deserto. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio è rinviato a martedì alle ore 15.

Interrogazioni d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Gallico Spano Nadia, anche a nome degli onorevoli Matteotti Carlo, D’Onofrio, Sansone, Minio, Massini, Vernocchi, Nobili, ha presentato chiedendo risposta di urgenza, la seguente interrogazione:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, per sapere: 1°) per quali motivi in alcuni paesi della provincia di Roma e precisamente a Nemi, Albano, Lanuvio e Monteporzio si sia proceduto in questi ultimi tempi a perquisizioni nelle case di elementi notoriamente democratici, con uno spiegamento di forze, che richiama il periodo dell’occupazione nazista (blocco delle strade, delle case, con mitragliatrici in assetto di guerra, ecc.). Mentre, in questi stessi paesi, elementi neo-fascisti possono impunemente inneggiare al passato regime e permangono indisturbati, anche quando sono trovati in possesso di armi e di esplosivi, i lavoratori iscritti ai partiti di sinistra vengono continuamente sottoposti ad angherie in un regime di terrore; 2°) quali provvedimenti si intenda prendere contro quei funzionari di polizia, i quali nell’esercizio delle loro funzioni: a) adoperano metodi brutali anche contro bambini; b) si permettono di pronunciare frasi tendenti a ledere il prestigio delle istituzioni repubblicane e dei ministri in carica».

Chiedo al Governo se e quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà lunedì.

PRESIDENTE. L’onorevole Cevolotto ha presentato, chiedendo risposta d’urgenza, la seguente interrogazione:

«Al Ministro dell’interno, per sapere se risponde a verità quanto è affermato in un comunicato della «Direzione del Giardino Albergo di Russia», apparso sui giornali di Roma (Il Tempo, giovedì 6 febbraio 1947), cioè che il giuoco nel salone dell’Albergo di Russia è gestito dall’Associazione nazionale reduci, in seguito a regolare licenza delle Autorità di polizia.

«L’interrogante chiede, inoltre, se altre simili licenze sono state rilasciate alla stessa Associazione od a altri, in quali luoghi e in base a quali criteri di concessione e di distribuzione».

Chiedo al Governo se e quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà lunedì.

PRESIDENTE. L’onorevole Benedettini ha presentato, chiedendo risposta di urgenza, la seguente interrogazione:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere se è vera la notizia apparsa sulla stampa che da ieri sera sono state sospese le comunicazioni telegrafiche e telefoniche con la Sicilia, e nel caso affermativo, il motivo di tale provvedimento».

Chiedo al Governo se e quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà lunedì anche a questa interrogazione.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle altre interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e l’Alto Commissario per l’alimentazione, per conoscere i risultati degli accertamenti disposti sulle responsabilità nel fatto della distruzione avvenuta in Reggio Calabria di quintali 49,67 di latte evaporato, ed i provvedimenti adottati in conseguenza.

«Sardiello».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei trasporti e degli affari esteri, per sapere se loro consti che il Governo francese abbia emanato dei provvedimenti che stabiliscano delle tariffe preferenziali portuali e ferroviarie per il traffico delle merci dirette da Marsiglia verso la Svizzera, con il conseguente già avvenuto dirottamento di un piroscafo che faceva normalmente scalo nei porti italiani, e per conoscere quali misure di urgenza si intendano adottare, soprattutto per quanto concerne le tariffe ferroviarie, per salvaguardare e difendere i legittimi interessi, gravemente minacciati, dei porti di Savona e di Genova, che con grandi sforzi e a soddisfazione dei ricevitori svizzeri hanno creato e sviluppato un importante movimento di merci verso la loro Federazione Elvetica con il solidale concorso dei rispettivi Consorzi e delle maestranze portuali.

«Pera».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere i criteri che hanno presieduto nella concessione delle linee aeree civili.

«Chieffi, Murgia».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della marina mercantile, per conoscere quali sono le ragioni per le quali, con la dovuta sollecitudine, non vengono accolte le domande per ottenere la licenza di pesca, inoltrate fin dal mese di dicembre alla Capitaneria di porto di Bari da parte di motovelieri di Rodi (Foggia).

«L’ingiustificato ritardo lascia nella disoccupazione centinaia di famiglie e priva la popolazione affamata di quell’aiuto che a noi offre il mare e lascia marcire un patrimonio di natanti e reti. Si sollecitano adeguati provvedimenti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Miccolis».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se e quali provvedimenti sono stati presi in merito ad un ricorso avanzato dal Presidente dell’E.C.A. di Carpino (Foggia) il 19 novembre 1946 tendente a fare correggere l’estaglio affitto di un fondo rustico olivetato, assegnato alla Cooperativa di produzione, lavoro e consumo di Carpino stesso.

«Se ritiene che sia umano e giusto il sottrarre ad una Opera di beneficenza, a vantaggio palese di una organizzazione cooperativa, cui non può disconoscersi il fine speculativo, quel dippiù di affitto che tocca e servirebbe a lenire dolori e miserie della povera gente. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Miccolis».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se realmente da tempo sia stato già disposto il congedamento per il 31 marzo 1947 di tutti gli ufficiali di complemento, trattenuti in servizio a domanda, perché domiciliati in territorio irraggiungibile (colonie, territori francesi dell’Africa settentrionale, regioni istriane). Nel caso affermativo, gl’interroganti chiedono quali provvedimenti di favore possano essere presi. Essi, dopo aver partecipato alla guerra, e molti alla guerra di liberazione, o provenienti dalla prigionia, com’è il caso di parecchi, si trovano in una situazione eccezionalmente grave, perché senza casa, senza impiego, e nell’impossibilità di una prossima sistemazione. Nessuno di loro ha potuto ancora ottenere la liquidazione dei danni di guerra subiti. Dato il loro numero esiguo (non sono più di trecento) apparrebbe giusto, qualora sia impossibile sistemarli nelle amministrazioni civili, inviarli in congedo almeno con due annualità di stipendio, sì che sia loro consentito attendere con decoro il reingresso nella vita civile. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Lussu, Priolo, Pertini, Natoli, Molè, Canevari, Uberti, Amendola».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se intenda aderire alle ripetute richieste del comune di Fossano (Cuneo), dirette ad ottenere la cessione al comune stesso della parte dell’ex polverificio non adibita a caserma e da circa cinquant’anni totalmente inutilizzata, in guisa da non lasciare inoperosi e sterili alla periferia della città (che ha oltre mille disoccupati ed industrie costrette in limitati ambienti) sessanta ettari di terreno cintato e solcato da due canali, un centinaio di fabbricati, fra grandi e piccoli, che danneggiati e diroccati per il lungo tempo d’incuria e per i bombardamenti, ogni giorno più franano e cadono in rovina; due salti d’acqua generanti energia idraulica corrispondente a duecento cavalli. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Badini Confalonieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere come intenda provvedere – di fronte alla tanto sbandierata autonomia comunale – nei confronti dei bilanci comunali, che sono strettamente vincolati e controllati nel procurarsi le entrate, ma non sono liberi di adeguare ad esse le spese; e se non reputi l’autonomia comunale incompatibile con provvedimenti di imperio emanati dal Governo, sui quali ai comuni non è neppure consentito interferire. Ad esempio, ed in particolar modo:

«Nell’approvare il bilancio preventivo per il 1946 molti comuni chiesero allo Stato un contributo integrativo per sanare i disavanzi precedenti, o quanto meno per pagare gli interessi passivi. Lo Stato lo negò nella considerazione che si sarebbe trattato di oneri eccedenti l’ordinaria amministrazione da fronteggiare con introiti straordinari, come se l’escogitare questi fosse cosa agevole, e come se quegli oneri non fossero residui passivi di precedenti bilanci per cui il contributo era riconosciuto e promesso. Non pochi comuni cercarono allora di risolvere il loro problema finanziario con i loro mezzi, e vi sarebbero probabilmente riusciti almeno in parte, specialmente imponendo taluni tributi su prodotti del comune, a’ sensi dell’articolo 41 del decreto-legge luogotenenziale 8 marzo 1945, n. 62. Ma quando detti tributi furono approvati dal competente Ministero e la situazione sembrava farsi più rosea, il Governo col decreto legislativo 25 ottobre 1946, n. 263, articolo 10, aumentò in maniera sensibilissima gli stipendi dei segretari comunali, per di più coll’ormai usuale effetto retroattivo al 1° settembre 1946, e praticamente anche degli altri dipendenti per evidenti ragioni di parità di trattamento; e le autorità statali periferiche ebbero cura di precisare che ciò dovevasi fare senza ricorrere a richieste di contributi statali. Ora è manifesto che, essendo i tributi sui prodotti del comune stati limitati allo stretto indispensabile, essi non erano più sufficienti a fronteggiare i nuovi oneri. A fine dello scorso novembre inoltre alcune Prefetture precisarono che gli oneri per il passato assunti dallo Staio e relativi agli emolumenti degli addetti ai servizi annonari non avrebbero potuto superare una cifra fissata per contingente e per ogni comune: e ciò a malgrado che il contingentamento avesse effetto fin dal semestre decorso e fosse stato annunciato cinque mesi dopo il suo inizio. Questo importa una maggior spesa per i comuni, dovuta al fatto che lo Stato non ha tenuti fermi i suoi impegni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Badini Confalonieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se gli consta che nel clima fascista, subito dopo la marcia su Roma, nacque l’idea della spartizione del Trentino fra le provincie di Brescia, Verona, Vicenza e Belluno; la prima delle quali doveva ingrandirsi annettendo la Valle del Chiese; la seconda coll’annessione dei circondari di Rovereto, Ala e Mori; la terza comprendendo nei suoi confini l’Altipiano di Lavarone e le Alpi di Caldonazzo, Levico e Grigno e tutta la Valsugana fino ai laghi di Caldonazzo e di Levico; la quarta includendo nel suo territorio Ampezzo, Livinallongo e Primiero; che in particolare Vicenza voleva estendere il proprio confine alle sorgenti dell’Astico, onde comprendere nello stesso le sette montagne di Folgaria e aumentare di altrettanto il patrimonio del comune di Lastebasse, accampando il motivo che dette montagne erano state conquistate col sangue dei nostri soldati, mentre l’Austria le aveva usurpate a danno di Lastebasse e della Repubblica di Venezia; se è a sua conoscenza che il regime fascista, quantunque tirannico e violento, mai si azzardò di correggere il confine a danno di Folgaria, la cui causa fu difesa personalmente anche da quel principe vescovo di Trento monsignor Endrici, che fu internato dall’Austria per aver difesa la sua Diocesi dalle sopraffazioni pangermaniste; se gli è noto infine che nel gennaio ultimo scorso si verificava a danno delle selve di Folgaria un saccheggio di legname del valore di oltre mezzo milione da parte di una banda di Lastebassesi, mentre la benemerita e le guardie forestali, facendo l’intero loro dovere, intervennero con arresti e denuncie e sequestri di refurtiva; se non gli risulta evidente essere sommamente inopportuno che l’autorità politica si adatti a disseppellire e decidere riguardo a controversie già decise e passate in giudicato da secoli, specialmente quando l’intervento dell’autorità politica è invocato da una sola parte per ostacolare e rendere vana l’azione del tribunale ordinario o per giustificare l’offensore a danno dell’offeso. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Carbonari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della difesa e delle finanze e tesoro, per sapere se non intendano prendere provvedimenti in favore di quei capi famiglia che, avendo raccolto bambini (orfani o meno) in tenera età, allevandoli ed educandoli come figli con notevoli sacrifici, facendo assegnamento sul loro aiuto negli anni della vecchiaia, nel caso in cui uno di tali giovani sia poi deceduto in servizio di guerra, non hanno la possibilità di ottenere un qualsiasi sollievo materiale da parte dello Stato, in quanto l’attuale legge sulle pensioni di guerra ha abolito la figura dell’allevatore, riconosciuta invece ed applicata dalla legislazione del 1918. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Garlato».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per richiamare la sua attenzione sul caso del signor Pisani Leonardo, in servizio presso la Casa di cura di Cipressa fin dal 1936, il quale nel 1941 fece domanda alla Direzione generale dell’I.P.S. (Servizio G.C.C.), per ottenere l’inquadramento tra il personale subalterno; ma la sua domanda fu respinta dalla Direzione generale, perché egli «non era iscritto al partito nazionale fascista». Successivamente, dopo la liberazione, il Pisani rinnovò la sua istanza, caldamente sostenuta dal Direttore della Casa di cura, che lo definiva «ottimo elemento»; ma la Direzione generale respinse il suo esposto, con lettera n. 11991, del 6 aprile 1946, perché a quella data egli aveva superato l’età massima prevista dalle vigenti disposizioni regolamentari. Né ulteriori istanze della Direzione della Casa di cura ottennero che si facesse diritto alla richiesta di quel valentuomo, vittima di una iniqua disposizione fascista.

«Ciò premesso, l’interrogante chiede all’onorevole Ministro se, fra le numerose disposizioni di indulgenza emanate a favore degli antichi gerarchi del fascismo, non se ne possa comprendere una a favore di chi fu e – a quanto pare – resta reo di non volere iscriversi al partito fascista. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pellizzari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere quali provvedimenti intenda prendere in seguito agli avvenimenti occorsi a Galatina il giorno 3 febbraio 1947 ed al comportamento che nel fatto ha tenuto il Procuratore dello Stato della Procura di Lecce.

«Il giorno tre febbraio, alle ore 15, alcune tabacchine all’uscita dallo stabilimento Fedele in Galatina venivano aggredite da elementi estremisti e ridotte in gravi condizioni, tanto che le responsabili dell’aggressione erano, in seguito a mandato di cattura, tradotte in carcere a Lecce.

«Pochi giorni dopo, il segretario provinciale della Camera del lavoro di Lecce, indiceva un comizio, alla fine del quale si recava dal Procuratore dello Stato e, minacciandolo di rappresaglie, lo costringeva a rilasciare le detenute. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cicerone».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se non ritenga possibile e opportuno che si ammettano i danneggiati di guerra alla liquidazione immediata di congrui acconti mediante una corrispondente assegnazione di titoli del Prestito della ricostruzione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Spallicci».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri di grazia e giustizia e delle finanze e tesoro, per sapere se nello stato di disagio diffuso tra i magistrati, i quali si dibattono nelle strettoie di un trattamento veramente intollerabile, non creda il Governo di adottare provvedimenti urgenti, atti a far cessare una situazione così penosa, il cui prolungarsi verrebbe ad aggravare il disservizio giudiziario. Si annuncia, infatti, una legge che darebbe facoltà ai magistrati che non intendessero prestare il nuovo giuramento, di poter chiedere la liquidazione di quiescenza a condizioni favorevoli. Essi si troverebbero, quindi, indotti a profittare di tale circostanza per lasciare l’ufficio e dedicarsi ad una congrua attività professionale, più giustamente rimunerativa; mentre un ulteriore esodo di magistrati inciderebbe sulla crisi già preoccupante dell’Amministrazione della giustizia.

«In vista, dunque, di tale pericolo, occorre non frapporre indugi nel restituire la tranquillità ai magistrati, consentendo loro di svolgere con la dovuta serenità il proprio delicatissimo ufficio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bertini».

«Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se risponde a criteri di giustizia ed all’interesse dello Stato il ricollocamento in congedo dei finanzieri richiamati i quali hanno prestato servizio con diligenza ed onore in difficile periodo; mentre contemporaneamente si provvede all’arruolamento di nuovo personale privo di addestramento.

«Candela».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 20.10.

Ordine del giorno per la seduta di lunedì 17.

Alle ore 16:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Svolgimento di interpellanze.

VENERDÌ 14 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XXXVII.

SEDUTA DI VENERDÌ 14 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TUBINI

INDICE

Sul processo verbale:

Presidente                                                                                                        

Nobile                                                                                                               

Codacci Pisanelli                                                                                            

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio:

Presidente                                                                                                        

Benedettini                                                                                                      

Di Vittorio                                                                                                       

Russo Perez                                                                                                     

Finocchiaro Aprile                                                                                         

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Romita, Ministro del lavoro e della previdenza sociale                                        

Campilli, Ministro delle finanze e del tesoro                                                         

Gronchi                                                                                                            

La seduta comincia alle 15.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della seduta di ieri.

Sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare sul processo verbale l’onorevole Nobile. Gli ricordo che è concessa la parola sul processo verbale per proporre una rettifica; per chiarire o correggere il proprio pensiero; per fatto personale. Non si deve quindi fare un discorso.

L’onorevole Nobile ha facoltà di parlare.

NOBILE. Non ho nessuna intenzione di fare discorsi, onorevole Presidente; desidero soltanto rettificare un’osservazione fatta alla chiusa della sua esposizione dall’onorevole Cingolani, affermazione che mi riguarda personalmente.

Egli, come si rileva anche dal resoconto sommario, asserì che io avrei avuto le notizie da informatori clandestini. Desidero assicurare l’onorevole Cingolani di non avere informatori clandestini.

In seguito l’onorevole Cingolani mi spiegò che si riferiva ad un giornale, «L’Ala libera» che qualificò clandestino. Ma «L’Ala libera», non è un giornale clandestino: è stato tale quando esserlo era un onore, oggi non lo è più. Questo giornale è tanto poco clandestino che lo stesso Ministro, onorevole Cingolani, gli concesse un’intervista ed è da questa intervista che ricavai alcune frasi che ho comunicato all’Assemblea. Altre notizie ho rilevate da bollettini e da altri documenti ufficiali.

D’altra parte desidero dire che, quando voglio avere notizie, sono solito recarmi direttamente negli uffici a chiederle, perché è mio diritto, come deputato, ottenere le informazioni che mi occorrono per il disimpegno del mio mandato; e credo che sia dovere darmi queste notizie. Questo è quello che volevo dichiarare.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare sul processo verbale l’onorevole Codacci Pisanelli. Ne ha facoltà.

CODACCI PISANELLI. Solo per un chiarimento, in relazione all’interpellanza discussa ieri.

L’onorevole Sottosegretario di Stato per le finanze ha ritenuto, forse, che vi fosse eccessivo spirito di regionalismo in quelle richieste ed ha fatto presente che l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato ha il carattere di un’azienda industriale, la quale deve provvedere, innanzitutto, a raggiungere i propri scopi che sono scopi economici, senza poter svolgere compiti di assistenza, quali sarebbero quelli di far compiere determinate coltivazioni in zone inadatte.

A questo proposito, voglio precisare che la mia richiesta era ispirata ad un principio di cui tutti sentono l’esigenza: cioè che anche nell’industria non si possono tenere sempre presenti i principî dell’economia liberista e, come si pretende che gli industriali tengano alle loro dipendenze operai, bloccando i licenziamenti, così era mia intenzione confermare la necessità che l’Amministrazione dei monopoli dia il buon esempio non realizzando in questo momento principî di economia, che sarebbero dannosi per un larghissimo numero di lavoratori del Salento.

E questo mi sono permesso di far presente, anche per tener conto della esigenza attuale di non utilizzare per il tabacco le terre da cui può venire il grano, ma quelle terre che altrimenti rimarrebbero improduttive, sacrificando – se mai – i fumatori. Questi, come per gli anni passati, dovranno contentarsi di una qualità di tabacco non eccessivamente buona, per evitare che in un periodo in cui non vi è valuta per acquistare il grano e i grassi all’estero si spendano milioni di valuta pregiata per acquistare dall’estero proprio il tabacco, prodotto voluttuario.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Comunico che, in seguito ad accordi presi nei rispettivi gruppi, una gran parte degli iscritti a parlare – che sono ancora sessanta – ha l’intenzione di rinunziare alla parola. Comunque avverto gli onorevoli colleghi, che eventualmente dovessero leggere i loro discorsi, che il regolamento pone un limite di 15 minuti di tempo per la lettura dei discorsi stessi.

È iscritto a parlare l’onorevole Benedettini. Ne ha facoltà.

BENEDETTINI. Onorevoli colleghi, nelle sue dichiarazioni relative al programma del Governo, l’onorevole De Gasperi ha affermato che il Governo considera, come suo naturale dovere, quello di fare opera di consolidamento e, quando occorra, di difesa del regime repubblicano.

Dico subito che se questa opera di consolidamento e di difesa sembra naturale, è vero in modo pregiudiziale che proprio la maniera secondo la quale tale opera viene svolta può dare luogo a provvedimenti legislativi profondamente antidemocratici, perché violatori della libertà fondamentale dell’individuo e del popolo.

In 80 anni di vita italiana sotto la monarchia non si è mai inteso parlare di leggi di consolidamento della monarchia stessa. (Commenti a sinistra).

Consolidare vuol dire rafforzare, il che fa supporre che l’attuale Repubblica non si senta pertanto affatto consolidata, per cui si rendono necessarie queste previste disposizioni di legge.

Come monarchico prendo atto di tale esplicita dichiarazione e non posso non constatare che non è per colpa nostra se tale dichiarata debolezza si rilevi in modo tanto importante da richiamare particolari provvedimenti del Governo. Io invito perciò, al principio di queste mie osservazioni, l’onorevole De Gasperi ed il Governo a non dimenticare il modo col quale si è svolto il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 (Rumori a sinistra); quel referendum che ha generato quella debole Repubblica che oggi si deve cercare di consolidare con opportuni provvedimenti. Invito a non dimenticare in qual modo l’esito ambiguo e oscuro di quel referendum fu proclamato e a non dimenticare, ma a tenere sempre presente, che quel referendum, comunque svoltosi, anzi malgrado il suo poco chiaro svolgimento, testimoniò che circa 11 milioni di italiani avevano votato a favore della monarchia. (Commenti a sinistra).

Prego l’onorevole Presidente del Consiglio ed il suo Governo di tenere sempre presente, in ogni atto del regime repubblicano, che quegli 11 milioni di monarchici già nel giugno del 1946 erano certamente molto più di 11 milioni (Rumori a sinistra) e che essi in questi sette mesi, per vari motivi, sono non diminuiti, ma aumentati di numero. (Interruzioni Commenti – Rumori a sinistra).

Un regime veramente democratico, sia esso repubblicano, come quello degli Stati Uniti d’America, o monarchico come quello della Gran Bretagna ed Irlanda, non può, non deve dimenticare queste realtà di fatto se vuole mantenersi nei limiti della onestà, legalità e della vera democrazia. Non può e non deve dimenticarlo, non solo perché la democrazia, sanamente intesa, significa rispetto assoluto della minoranza, ma anche perché questo rispetto deve essere ancora maggiore, quando questa minoranza reale è pari ad una maggioranza virtuale. (Rumori a sinistra).

Mi sia permesso di notare, fra parentesi, che l’elogio dell’onorevole Romita, tessuto dall’onorevole Labriola in quest’Aula tre giorni fa a proposito dell’esito del referendum, e quindi del nascere della Repubblica in Italia, è stata una gaffe diplomatica che fa nascere leciti dubbi sulla legalità della Repubblica italiana, e sull’opera svolta dall’onorevole Romita, Ministro dell’interno, durante il referendum. (Interruzioni – Rumori a sinistra).

Chiudo la parentesi e vengo ad esaminare le successive dichiarazioni dell’onorevole De Gasperi. Egli ha precisato che contro i funzionari che venissero meno al giuramento, basterà applicare le sanzioni previste dalla legge sullo stato giuridico degli impiegati e applicare ai funzionari che si rifiutassero di prestare giuramento un trattamento che potrebbe essere analogo a quello della legge sulla smobilitazione delle forze armate.

Onorevoli colleghi, io credo che se per un momento mettiamo da parte le nostre personali convinzioni sulla Repubblica o sulla Monarchia, se per un momento solo cerchiamo di interpretare lo spirito e le esigenze della democrazia e della libertà, non potremmo fare a meno di riconoscere che un tale provvedimento è quanto mai ingiusto, antidemocratico e violatore di libertà. A parte il fatto che esso non dovrebbe mai colpire dei funzionari che iniziarono la loro carriera prima dell’avvento della Repubblica, è quanto mai ovvio che siffatto provvedimento per la sua coercizione limita e viola la libertà politica dell’individuo. E tutto ciò senza entrare in merito al valore intrinseco dei giuramento stesso. Giuramento di fedeltà alla Repubblica: a quale Repubblica, se essa ancora non è definita? (Rumori – Interruzioni).

Giurare fedeltà al Capo della Repubblica senza peraltro ancora conoscere quali saranno i poteri che saranno a lui conferiti, e senza che egli ancora abbia a sua volta giurato fedeltà alla Costituzione?

Che valore possono avere delle formule svuotate del loro contenuto morale? Si ricordi che l’ufficiale, che era legato da un giuramento al re ed alla Patria, fu dal sovrano prima della sua partenza per l’esilio, sciolto dal giuramento verso di lui, ma non da quello verso la Patria. Ed allora, se il giuramento fatto alla Patria all’atto dell’inizio della propria carriera ha tuttora valore morale, perché costringere l’ufficiale a farne un altro alla Patria? E se a quel primo giuramento non si dà più nessun valore, come si può pretendere di dare valore ad un secondo imposto con forma coercitiva?

Un giuramento coatto è di valore nullo e non dura, un giuramento scelto per libera vocazione è di valore infinito ed è eterno. Prova ne sia il comportamento degli stessi ufficiali fedeli alla monarchia dopo l’8 settembre 1943 e specie dopo il 2 giugno 1946; essi seppero, come sapranno, per il bene supremo della Patria, in obbedienza agli ordini, far tacere i loro intimi sentimenti. L’ufficiale è soldato; ed i soldati non sono né fascisti né comunisti, né rossi né bianchi, né monarchici né repubblicani. Sono soldati d’Italia, sempre al servizio del loro Paese. (Approvazioni a destra – Interruzioni – Rumori a sinistra).

Una voce. E Graziani cosa era?

BENEDETTINI. Ma io mi chiedo: ammesso che un funzionario abbia giurato fedeltà alla Repubblica, può esso appartenere a un partito monarchico e può votare per questo? Se quel giuramento dovesse vincolare, impedire, sopprimere questa fondamentale libertà degli individui e nella fattispecie dei funzionari dello Stato, implicitamente esso spingerebbe i partiti monarchici e la Unione monarchica italiana, che è una associazione apartitica, a essere formati da elementi che il Governo repubblicano non esiterebbe a qualificare «sovversivi». Così che, per ironia del caso, noi avremmo questo assurdo che le forze monarchiche definite forze dell’ordine…

Una voce. Di quale ordine?

BENEDETTINI. …e reazionarie, si muterebbero di punto in bianco in forze sovversive.

Ma a parte queste considerazioni, non si può dimenticare che l’imposizione del giuramento, contro la quale io protesto, certo di interpretare il sentimento unanime di tutti i monarchici d’Italia, indipendentemente dai partiti cui essi appartengono, questa imposizione mette migliaia e migliaia di padri di famiglia nella dura condizione di prestare un giuramento contro la propria coscienza, contro la propria convinzione (Rumori a sinistra), perché, quando si attraversano periodi tempestosi e duri e minacciosi come quelli che noi viviamo, un padre di famiglia non può, per la propria preferenza istituzionale, permettersi il lusso di gettare la propria famiglia in una miseria ancora più dolorosa di quella nella quale oggi già vive. Da ciò si deduce che il giuramento che il Governo della Repubblica oggi pretende dai suoi funzionari è coartato, non è frutto di due volontà veramente libere e quindi esso è inficiato alla sua base, come ogni costrizione più o meno legalizzata dal potere, anzi dal prepotere politico.

E veniamo all’altra dichiarazione del Presidente del Consiglio. Egli ha precisato che «le istituzioni repubblicane e le libertà democratiche troveranno un’adeguata protezione nell’aggiornamento e, rispettivamente, nella riforma degli articoli 270, 274, 275, 279 e 290 del Codice penale, libro II, titolo I, nel richiamo in vigore, entro certi limiti opportunamente aggiornati del decreto legislativo 23 aprile 1945, n. 195, e nell’applicazione del decreto legislativo 26 aprile 1941, n. 149». Semplici parole e semplici citazioni di articoli sono questi, onorevole De Gasperi; ma qui si tratta di vedere, di sapere, di discutere come si intenda riformare quegli articoli del Codice e come si intenda aggiornare opportunamente quei decreti. Se noi stiamo in quest’aula quali rappresentanti del popolo, non dobbiamo dimenticare che l’opinione pubblica c il popolo, quel popolo tanto beffato e dimenticato, sa che in questi ultimi tempi, con la scusa dell’antifascismo, si sono mantenute in vigore le peggiori leggi fasciste, come quella del confino, e – contro ogni principio giuridico – si è persino arrivati ad ammettere la retroattività della legge. Bisogna intendersi sulla riforma di quegli articoli e sugli opportuni aggiornamenti di quei decreti; bisogna che la Costituente ne discuta e che il popolo sappia di che si tratti, per non far trovare domani il Paese e il popolo di fronte a un fatto compiuto che – con l’attenuante dell’antifascismo prima e del consolidamento della Repubblica poi – si risolva in un insieme di leggi e di decreti polizieschi e liberticidi degni di regimi totalitari e dittatoriali.

Una voce a sinistra. Ma se sono tutti in libertà i fascisti!

BENEDETTINI. Il Presidente De Gasperi ci ha detto inoltre che, da varie parti, si sollecita un regolamento della stampa. Precisiamo la verità a tal riguardo. Da una parte, c’è gente libera che vuole la libertà di stampa senza che essa degeneri in immorale pornografia; da un’altra parte c’è gente che, sempre con la scusa dell’antifascismo, vuol soffocare la libertà di stampa. Questa parte è chiaramente individuabile e individuata. Oggi, in Italia, chi non è favorevole alle ideologie social-comuniste è giudicato dai partiti di sinistra come reazionario, monarchico e neofascista. Ed è per questo che sento il dovere di denunciare dinanzi a questa Assemblea che qualche giornale chiaramente antitotalitario e anticomunista è stato sequestrato o soppresso per apologia di fascismo o per neofascismo, quando il fascismo era criticato da quei fogli proprio nella parte condannabile e condannata. Precisiamo una volta per sempre che, quando si condanna il fascismo, di esso non si condanna che una sola cosa, dalla quale tutte le altre derivano: cioè il regime totalitario che significa dittatura, soppressione delle libertà di pensiero, di associazione, di parola, di stampa e quindi regime liberticida e poliziesco, regime che mira a soffocare le fondamentali libertà di un popolo. (Rumori a sinistra). Ma ora guardiamoci bene dall’instaurare un regime di stampa che, per impedire il ritorno del fascismo, per consolidare e difendere la Repubblica, ricorra all’applicazione di quelle leggi sulla stampa che furono, sono e saranno in uso in tutti i Paesi antidemocratici, in tutti i governi tirannici, in tutti i regimi totalitari e dittatoriali. La libertà è libertà ed essa va difesa e non soppressa con la scusa di difenderla.

Certo, questi miei timori e queste prevenzioni non li avrei espressi se l’attuale Governo non fosse stato frutto di un lungo, laborioso e difficile parto. Parto risoltosi in un nuovo compromesso fra i tre partiti di massa.

Ma qui tutti ricordano che i social-comunisti posero come prima condizione della loro collaborazione al Governo precisamente il consolidamento e la difesa della Repubblica, realizzabile con il soffocamento della stampa e dei possibili conati monarchici, reazionari e neo-fascisti. E poiché, come ho già detto, per i partiti di sinistra chi non è con loro è reazionario e fascista, è facile intendere dove quella loro pregiudiziale voglia giungere.

Una voce a sinistra. Le fa comodo la libertà!

BENEDETTINI. Ma proprio perché noi comprendiamo il portato di quella pregiudiziale, oggi ci schieriamo in difesa della libertà che è minacciata.

Molti, molti desiderano sapere a quali condizioni sia stato raggiunto il compromesso fra i tre partiti al Governo, ma molti, molti sono coloro che non sono disposti a subire delle leggi capestro che offendano la nostra libertà e la nostra dignità di uomini liberi. (Interruzioni, proteste all’estrema sinistra).

PERTINI. Perché non avete difeso la vostra dignità sotto il fascismo?

BENEDETTINI. Pertanto, si prendano pure le misure che il Governo ritiene naturali per il consolidamento e la difesa della Repubblica, ma non si tenti con questo di ridurre nuovamente in ceppi il popolo italiano.

Non si violino le sue fondamentali libertà democratiche con la scusa di difendere la democrazia. (Vivaci Interruzioni – Rumori a sinistra).

PERTINI. Siete stati i servitori del fascismo!

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, fo appello al loro senso di tolleranza; loro sono i più (Accenna alla sinistra) e non devono dimostrare che col numero vogliono sopraffare la libertà di parola. (Applausi a destra).

All’onorevole Benedettini ricordo che all’inizio della seduta ho raccomandato di attenersi al regolamento, il quale limita a 15 minuti la lettura dei discorsi. In questo momento devo rinnovare la raccomandazione per dovere d’imparzialità. Quindi, prego l’onorevole Benedettini di concludere.

BENEDETTINI. Non si approfitti di questo momento di miseria per ridurlo, con nuove misure poliziesche, in schiavitù.

Io, monarchico, devo far presente a questa onorevole Assemblea che gli undici milioni di monarchici italiani, pur sapendo in quale clima si è svolto il referendum, hanno dato al Paese una prova esemplare di disciplina. Essi hanno così mostrato quanto possente sia il loro attaccamento, la loro devozione alla Patria. Essi hanno mostrato che la Repubblica non può temere da parte loro colpi di testa e azioni armate, sebbene la fantasia e la malafede di alcuni giornalisti militanti in determinati partiti creino di tanto in tanto notizie assurde al solo fine di giustificare, di fronte all’opinione pubblica, la richiesta di provvedimenti e di leggi per il consolidamento e la difesa della Repubblica, consolidamento e difesa di cui nessuno fin’ora ha sentito il bisogno, perché nessuno ha mai pensato di attentarne la vita.

Milioni di monarchici italiani, divisi nei vari partiti, ma uniti nell’Unione monarchica italiana, che è, come ho detto, associazione apartitica, non conoscono e non amano che le vie legali, quelle della democrazia. Ma proprio per questo, ne sono certo, essi non consentirebbero né oggi, né mai che un qualsiasi Governo attentasse alle libertà fondamentali cui essi hanno diritto. Un Governo che con la scusante del consolidamento e della difesa della Repubblica minacciasse la piena libertà dei monarchici, quel Governo sarebbe reo d’aver scavato un pericoloso abisso fra gli italiani, e vedrebbe gravare su sé tutte le responsabilità delle non prevedibili conseguenze.

E perciò mi auguro che l’opera che il Governo De Gasperi vuole intraprendere per consolidare e difendere la Repubblica si ispiri ai principî della vera democrazia, della vera libertà.

Poiché solo in tal modo, anche con la Repubblica, si può servire e si serve la Patria: l’Italia.

Bisogna ispirarsi a quei principî di democrazia e di libertà che sotto la monarchia consentirono ai repubblicani di instaurare la Repubblica.

Ecco perché assolutamente antidemocratico e liberticida è quell’articolo del progetto di Costituzione secondo il quale la forma repubblicana non può essere oggetto di un procedimento di revisione della Costituzione stessa. Questo significa limitare, sopprimere la libertà del popolo. (Interruzioni – Rumori a destra).

PRESIDENTE. Onorevole Benedettini, ne parleremo a suo tempo.

BENEDETTINI. Bisogna ispirarsi a quei principî di democrazia e di libertà che nel 1920 consentirono ai social-comunisti di restar seduti in questa stessa aula quando vi entrò Sua Maestà Vittorio Emanuele III (Rumori a sinistra) e di uscirne al canto di «Bandiera Rossa» prima che il Sovrano pronunciasse il suo discorso. (Rumori).

E proprio rivendicando quella piena libertà monarchica, io, certo di interpretare il sentimento degli 11 milioni di monarchici, concludo con il grido di «Viva il re!». (Applausi a destra – Vivi rumori a sinistra – Commenti).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Di Vittorio. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. Onorevoli colleghi, dico subito che approvo nel complesso le dichiarazioni del Presidente del Consiglio, e desidero fare alcune osservazioni specialmente sulla politica economica enunciata dal Governo.

È stato già osservato che le dichiarazioni dell’onorevole De Gasperi, relative alla politica economica e sociale del Governo, sono troppo limitate, troppo vaghe, nonostante il chiaro riferimento, almeno tendenziale, al programma del passato Governo.

Io dico la verità: non sono preoccupato della limitatezza o della vaghezza delle dichiarazioni del Governo in questo campo; sono preoccupato più della loro possibilità di realizzazione, perché in verità a tutti i Governi che si sono succeduti dalla liberazione in poi del nostro Paese non sono mancati buoni programmi e buone intenzioni.

Ciò che è mancato, specialmente in questo campo, è stata la capacità di realizzazione. Socialmente nei suoi aspetti sociali, si può dire che l’azione del Governo è stata ed è praticamente nulla. Tant’è che io credo che se invece di discutere il programma dovessimo discutere un bilancio preventivo o consuntivo dell’attività del Governo, il Governo stesso si troverebbe molto imbarazzato a presentarlo.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Quell’altro Governo! Non sarà tutta mia la colpa!

DI VITTORIO. Bisogna però dire che il nuovo metodo introdotto dall’onorevole De Gasperi di determinare le crisi, esenta il governo dal presentare all’Assemblea un bilancio consuntivo della propria attività, e limita il nostro potere a discutere soltanto sulle buone intenzioni che si annunciano invece che sull’azione che è stata svolta.

Intendo discutere uno dei vari aspetti di questo problema, che credo sia il più grave e il più angoscioso per il popolo italiano e per tutta la nostra vita nazionale: il problema del carovita. È un problema difficile, complesso; è un problema per la soluzione del quale non basta la buona volontà. È evidente che non si possono fare miracoli; bisogna contare sulle possibilità concrete, reali. Tuttavia, signori, sono fermamente convinto che anche in questo campo un’azione armonica, concreta, decisa del Governo avrebbe potuto apportare almeno alcuni risultati. Invece non siamo stati capaci di opporre la minima diga al dilagare dell’aumento dei prezzi e del costo della vita. È un fatto questo che determina un aggravamento incessante delle condizioni di vita dei lavoratori, che sono già gravissime in tutta Italia, e crea delle ingiustizie che sono intollerabili, e non dovrebbero essere tollerate in uno stato veramente democratico e repubblicano.

Grazie all’aumento incessante dei prodotti alimentari e anche non alimentari più indispensabili alla popolazione, e dato il fatto che il nostro Paese non dispone che di una piccola quantità dei prodotti più pregiati per la popolazione, che cosa accade? Che questi prodotti sono quasi completamente monopolizzati, accaparrati e consumati dai ceti ricchi, mentre i lavoratori, stipendiati e salariati, e tanto più i disoccupati, non hanno la minima possibilità di attingere ad essi. Per cui il nostro Paese oggi lo si può ben definire in questo campo un Paese eccezionale: è il Paese in cui vi è la maggiore libertà di commercio, il Paese meno cicolista d’Europa e di una parte importante del mondo; il Paese dove, se si eccettua l’ammasso teoricamente totalitario dei cereali qualificati, l’ammasso parziale, e sempre più parziale, dei grassi, e quella regolamentazione del latte che noi conosciamo, per tutto il resto vi è la più assoluta libertà. Il mercato nero è diventato il mercato legale, e lo si chiama oggi il mercato libero. Mentre in altri Paesi i possidenti, i ricchi, i gaudenti, che volessero procurarsi anche delle leccornie, sono costretti, malgrado le loro ricchezze, a rischiaro qualche cosa – e qualche volta anche di andare in galera – in Italia i gaudenti possono insolentire ogni giorno alla miseria atroce di cui soffre la grande maggioranza del popolo. (Applausi a sinistra).

E perché succede questo? Perché in Italia vi è una forte pressione delle classi privilegiate perché si segua una politica economica liberista. In Italia il popolo, votando in grande maggioranza per i partiti di massa, per i partiti che sono al Governo, ha voluto votare per una politica, anche economica e sociale rispondente ai bisogni della grande maggioranza, ai bisogni cioè della parte più povera della popolazione.

In realtà, la politica economica che segue il nostro Governo, specialmente in questo campo, è la politica dell’onorevole Corbino. Comprendo bene che l’onorevole Corbino non sia molto malcontento della politica che si segue e non sia stato nemmeno molto malcontento delle dichiarazioni che in proposito ha fatto l’onorevole De Gasperi.

Signori, io credo che bisogna cambiare strada per evitare che i migliori, i più pregiati, i più indispensabili prodotti di cui può disporre il nostro Paese continuino ad essere monopolizzati soltanto dalla parte ricca della nazione, a detrimento di tutto il resto del popolo. Non vi è che un mezzo veramente efficace, e questo mezzo non è il calmiere, non sono le grida, non sono i decreti e gli artifizi coi quali si vogliono diminuire i prezzi di prodotti che sono stati già comperati a prezzo elevato, ma è l’allargamento del tesseramento a tutti i generi indispensabili al popolo. E bisogna che il tesseramento non sia limitato soltanto ai prodotti agricoli.

Sono d’accordo, in certo senso, con alcune dichiarazioni che ha fatto in questa Camera l’onorevole Bonomi, quando ha protestato contro il fatto che vi sono dei vincoli anche severi, sia pure limitati, su alcuni prodotti, esclusivamente per l’agricoltura, mentre ne sono esentati i prodotti industriali, che pure sono indispensabili alla popolazione. Questo non è giusto. Bisogna allargare il tesseramento ai prodotti tessili, alle calzature, a tutti gli altri prodotti che sono di larghissimo ed indispensabile consumo popolare.

Perché questo non si vuole fare? Perché non si fa? Credo che non sia giusto dare la colpa di tutto ciò all’inefficienza di alcuni strumenti dello Stato per l’esecuzione di leggi tendenti ad allargare la regolamentazione della distribuzione di questi prodotti. Penso che uno Stato, a seconda del suo carattere, deve trovare e saper trovare la forza su cui poggiare per realizzare i suoi scopi. Uno Stato tirannico, assolutista, si appoggia su una forte polizia; uno Stato democratico e repubblicano, uno Stato popolare, si deve appoggiare sulle forze popolari. Se il Governo mostrasse maggiore fiducia nella collaborazione delle masse popolari, nel realizzare una politica favorevole ai bisogni più vitali del popolo, tutti i lavoratori italiani sarebbero felici di collaborare con entusiasmo per raggiungere questi fini, ed in tal modo il Governo troverebbe la forza sufficiente per realizzare una politica economica più rispondente ai bisogni del popolo ed ai bisogni di vita e di sviluppo della Nazione.

Bisogna allargare il tesseramento, perché quando si pretende dai contadini che diano tutti i loro prodotti, ad un determinato prezzo, allo Stato, per distribuirli a prezzi controllati e accessibili al popolo, e si permette invece agli industriali tessili, agli industriali del pellame, delle calzature, dell’industria chimica, dell’industria vetraria, di realizzare tutti i profitti che vogliono, approfittando della situazione particolare del mercato interno e del mercato internazionale, si compie un’opera che non è giusta. Ma perché lo Stato non dovrebbe obbligare gli industriali cui ho accennato, i quali realizzano profitti molto larghi, e che, nella situazione economica generale del Paese, si potrebbero definire scandalosi, a cedere una parte dei tessuti, una parte delle pelli e delle calzature, una parte dei concimi per offrirla alla popolazione operaia e impiegatizia, ai contadini, a prezzi controllati e corrispondenti a quelli che lo Stato impone per i prodotti agricoli ai contadini? È evidente che questo offenderebbe alcuni consolidati privilegi di determinati strati della plutocrazia industriale; ma noi pensiamo che in uno Stato democratico e repubblicano bisognerebbe avere il coraggio ai subordinare gli interessi particolari, anche se legittimi, di determinati gruppi, specialmente dei ceti più privilegiati e quindi più fortunati, agli interessi generali e vitali della grande maggioranza del popolo ed allo sviluppo della Nazione.

Penso che bisogna cambiare rotta e bisogna in questo campo allargare il tesseramento, come unico mezzo per riuscire ad assicurare ai lavoratori a basso salario, ai disoccupati, ai reduci, ai pensionati, cioè alla parte più povera della Nazione, parte dalla quale dipende la ricostruzione del Paese, i prodotti di cui hanno bisogno a prezzi più ragionevoli.

Bisogna combattere con nuovi metodi contro il mercato nero. Possiamo dire che lo Stato italiano abbia condotto una lotta seria contro il mercato nero? Possiamo dire che si faccia questa lotta seria, quando si mandano squadre di poliziotti a gettare all’aria le bancarelle dei disgraziati che sono l’ultima ruota di questo carro, che è stato creato ed è mosso dai ceti possidenti più elevati? Bisogna risalire alla produzione, ai grandi accaparratori dei prodotti; bisogna fissare i prezzi di determinati prodotti destinati al mercato interno e indispensabili al popolo, alla produzione; e fissarli, onorevoli colleghi, non su basi capricciose, su basi esclusivamente politiche, ma su basi economiche, perché noi abbiamo bisogno di aumentare la produzione, e questo, è (ovvio), è il rimedio che può sanare tutto. Perciò dobbiamo stimolare la produzione e non possiamo obbligare nessun produttore a lavorare in perdita, non possiamo e non dobbiamo scavalcare nessuno. Ma, assicurato ai produttori un giusto ed onesto beneficio, bisogna stabilire quale deve essere il prezzo al quale, salvo la maggiorazione di spese vive, i prodotti devono essere distribuiti alla popolazione. Se non si vuole far questo, non si arriverà a dare un colpo al mercato nero.

Non si può dire che si combatte efficacemente il mercato nero con sanzioni severe di multe e anche di carcere; i margini di beneficio che assicura il mercato nero sono tali che queste minacce non costituiscono una remora effettiva. Bisogna risalire a una proposta che da anni è stata agitata dalla Confederazione del lavoro e presentata ripetutamente al Governo: bisogna giungere a confiscare le aziende produttive o commerciali degli speculatori sorpresi in flagrante delitto e assicurare la continuità della produzione e l’opera dell’azienda per mezzo dei Comuni e delle Camere del lavoro, o per mezzo dello Stato, o di enti di interesse pubblico, in modo che le aziende degli speculatori possano divenire uno strumento della collettività per sviluppare la produzione e far giungere ai consumatori i prodotti a prezzi ragionevoli ed economici.

Questo non lo si è voluto fare e non lo si fa, perché si teme di offendere i diritti sacri della proprietà capitalista. Voi vedete che in questa proposta non vi è nulla, assolutamente nulla, di rivoluzionario; nulla che voglia attentare al diritto della proprietà e sconvolgere le basi della società nazionale. Vogliamo soltanto stroncare la speculazione alla base, anche se per questo dobbiamo privare i proprietari di un’azienda che, nelle contingenze attuali del Paese, è d’interesse pubblico, della facoltà di servirsi di questa azienda per continuare ad arricchirsi, aggravando le sofferenze del popolo. È soltanto questo che noi vogliamo ottenere e se la nostra proposta fosse stata accettata due anni or sono, oggi lo Stato, i Comuni, potrebbero avere nelle proprie mani una serie di aziende industriali e commerciali, mediante le quali sarebbe possibile dare un colpo serio al mercato nero.

Del resto, per ovviare alle maggiori difficoltà che pone l’allargamento del metodo degli ammassi e quindi del razionamento, bisognerebbe anche per gli ammassi stabilire una differenziazione nella determinazione dei prezzi che lo Stato deve pagare ai produttori. Non è giusto, per esempio, che si paghino il grano e l’olio e gli altri prodotti allo stesso prezzo al contadino che deve ricavare dalla vendita del prodotto il sostentamento per la propria famiglia, il compenso del proprio lavoro, e al grande proprietario che vuole realizzare profitti favolosi, i quali costituiscono soltanto un aumento ingiustificato della rendita fondiaria parassitaria che grava sulla nazione. Come non è giusto che, per esempio, per far rientrare nelle spese, come si deve, il proprietario di terre della Sicilia, o della Sardegna, o delle Puglie, per cui bisogna pagare il grano o gli altri prodotti a quel determinato prezzo, si debba permettere a dei grandi proprietari di altre contrade dove, per un complesso di circostanze diverse, fra cui la maggiore fertilità naturale del suolo, si ha una produzione doppia o tripla, di realizzare profitti colossali sulla crescente miseria del popolo. Si devono praticare prezzi di ammasso differenti per i contadini coltivatori diretti e per i grandi proprietari che ne ricavano una doppia rendita, per le regioni più povere e dove il costo di produzione è più elevato, e per le regioni meno povere dove il costo di produzione è meno elevato. Occorre altresì un tesseramento preferenziale in favore dei lavoratori, in favore delle donne gestanti, in favore dei bambini, in favore dei pensionati. Oggi esiste questo razionamento, ma non nella misura che sarebbe necessaria per assicurare una esistenza tollerabile, nelle contingenze attuali, a queste categorie di cittadini che, per l’avvenire stesso della Patria, devono vivere nelle condizioni più tollerabili possibili.

Ma questo, ripeto, non si fa perché vi sono troppe pressioni, tendenti sempre ad evitare, a tutti i costi, che siano toccati determinati privilegi.

E qui, cari colleghi, si pone un problema di politica sociale, che è pregiudiziale per la ricostruzione del Paese e per la risoluzione di tutti gli altri problemi economici della nostra Nazione: è il problema del contenuto sociale della Repubblica. Capisco bene che questo problema, nelle sue linee essenziali generali, dovrà essere definito e risolto dalla nuova Carta costituzionale, che questa Assemblea è chiamata ad adottare. Però, il Governo avrebbe già dovuto cominciare a dare un certo contenuto sociale alla nostra Repubblica.

Il 2 giugno, contrariamente alla asserzione che faceva l’onorevole Benedettini un momento fa, la grande maggioranza del popolo italiano ha liberamente decretato la fine della monarchia e l’avvento della Repubblica in Italia. Ma l’avvento della Repubblica per il popolo italiano, per la grande massa dei lavoratori italiani, non può essere soltanto una manifestazione puramente politica. Questo ha la sua importanza intrinseca, ma non è sufficiente. La Repubblica – come ogni altro regime – è un contenente; bisogna vedere che cosa ci vogliamo mettere dentro. Finora, dopo la proclamazione della Repubblica, come contenuto sociale non ci si è messo nulla.

Le cose continuano ad andare come prima: alcune secondo la china d’un miglioramento; altre secondo la china del peggioramento. Nel campo economico-sociale non vi è stata nessuna innovazione di rilievo. Ebbene, se vogliamo cominciare a dare il contenuto sociale, che le masse popolari italiane attendono, alla nostra Repubblica, dobbiamo mettere in pratica alcuni principî generali, sui quali facilmente tutti o quasi tutti dovremmo essere d’accordo: per esempio – lo si è visto nelle discussioni in seno alla Commissione dei 75 – proclamare in astratto che la proprietà deve avere una funzione sociale nella società nazionale odierna è un principio sul quale siamo tutti d’accordo.

Una voce al centro. Tutti.

DI VITTORIO. Però, bisognerebbe cominciare ad attuare questo principio.

Cosa vuol dire che la proprietà deve avere una funzione sociale? Vuol dire questo. Se un grande mulino e un grande pastificio cede una parte, più o meno notevole, del prodotto avuto dallo Stato, al mercato nero, sottraendolo al popolo per farne oggetto di speculazione e di arricchimento, allora, applicando questo principio, la proprietà si deve togliere allo speculatore e dare alla società. (Commenti).

Sino ad oggi, onorevoli colleghi, si è fatto un po’ il contrario di questa politica, ed è perciò che noi domandiamo che il Governo interpreti con la maggiore concretezza possibile i passi della dichiarazione dell’onorevole De Gasperi relativi alla lotta per contenere i prezzi; che il Governo abbia il coraggio di prendere tutte le misure che l’esperienza dimostrerà veramente efficaci per non deludere più le aspettative del Paese, che attende dal Governo un’azione energica per stroncare la speculazione; e che intanto si prendano le misure per moltiplicare, nei grandi e medi centri urbani, i ristoranti popolari, per moltiplicare le mense aziendali, per moltiplicare in ispecie le aziende comunali e regionali, per potenziare le grandi cooperative di consumo, per facilitare gli scambi diretti tra collettività di contadini e collettività di lavoratori delle città, di impiegati, di tecnici, di lavoratori di ogni categoria. Si prendano tutte le misure necessarie per alleviare in tutti i modi possibili le grandi sofferenze dei lavoratori italiani. E se queste misure devono colpire determinati privilegi e determinati principî superati, relativi al diritto della grande proprietà capitalistica intesa nel senso quiritario, si abbia il coraggio di prenderle, perché è ciò che il popolo attende dal Governo democratico e repubblicano.

Lo stesso problema si pone per quanto concerne lo stimolo alla produzione. Noi siamo tutti d’accordo in un’affermazione contenuta nella dichiarazione dell’onorevole De Gasperi, cioè che la massima energia deve essere impiegata nell’aumento della produzione, sia per i bisogni interni, sia per i bisogni dell’esportazione.

Io so che i lavoratori italiani, e per essi la Confederazione generale italiana del lavoro, si sono impegnati con tutte le forze a portare il massimo contributo possibile allo sviluppo della produzione. I lavoratori italiani sono fieri di aver portato un contributo effettivo, efficace, al processo della ricostruzione del Paese in tutti i campi.

I lavoratori hanno rinunciato ad una cosa importante per essi: ad una vecchia posizione di principio sul lavoro a cottimo, e hanno accettato e accettano in tutte le categorie il lavoro ad incentivo, per contribuire ad aumentare la produzione, a ribassare i costi di produzione – problema nazionale fondamentale – senza però peggiorare, ma migliorando le condizioni dei lavoratori. Poiché bisogna combattere una mentalità deleteria, secondo la quale si dovrebbe tendere ad abbassare i costi di produzione mediante la corresponsione di salari miserabili ai lavoratori. No! Non sarebbe soltanto ingiusto; sarebbe un errore economico.

Una voce a destra. Non ci pensa nessuno.

DI VITTORIO. Si deve giungere ad abbassare al massimo i costi di produzione mediante l’intensificazione del lavoro, la migliore organizzazione del lavoro…

Una voce a destra. E gli scioperi?

DI VITTORIO. …mediante l’introduzione di nuovi metodi di lavoro; ma non si deve tendere ad abbassare i costi di produzione, abbassando la rimunerazione dei lavoratori. Con un proletariato a tenore di vita estremamente basso, si ha una massa di schiavi, non una massa di produttori intelligenti che possono far rinascere l’Italia, come farà rinascere l’Italia la classe operaia italiana insieme a tutti i lavoratori italiani.

Ma anche su questo terreno bisogna vedere l’aspetto sociale della questione. È giusto: dobbiamo tendere a sviluppare al massimo grado la produzione in tutti i campi, e dobbiamo per questo stimolare e incoraggiare l’iniziativa privata, perché noi stimiamo che nella situazione attuale del Paese bisogna fare appello a tutte le forze sane per ricostruire la nostra economia e far rinascere l’Italia. Però, possiamo noi contenere lo sviluppo della produzione esclusivamente nei limiti consentiti dall’iniziativa privata? Soltanto nei limiti cioè in cui il privato capitalista può trovare conveniente e profittevole l’investimento? Evidentemente no! Noi pensiamo che lo Stato democratico e repubblicano, senza mortificare in nulla l’iniziativa privata, anzi stimolandola al massimo grado e dirigendola, deve porsi in grado di sostituirsi all’iniziativa privata là dove essa risulti inoperante, là dove essa non può giungere. E oggi vi sono moltissimi campi in cui l’iniziativa privata non può giungere, e invece la società nazionale avrebbe moltissima convenienza a giungere. Faccio un esempio: la ricostruzione edilizia. La ricostruzione edilizia del nostro Paese è uno dei problemi più gravi della ripresa economica. Ebbene, perché la ricostruzione edilizia non ha lo slancio che dovrebbe avere e che è richiesto dal bisogno di milioni di famiglie prive di abitazione e dalla totalità degli italiani che sono condannati ad abitare in condizioni disagiate? È un’industria nella quale solo in parte si ha bisogno di materie prime che devono venire dall’estero.

In molti casi si ha tutto sul posto per costruire.

Una voce a destra. Manca il ferro!

DI VITTORIO. In molti casi abbiamo mano d’opera disoccupata che non fa che domandare lavoro; abbiamo le pietre, abbiamo la calce, abbiamo, in parte, il cemento; abbiamo altre materie che possono essere utilizzate per le costruzioni, e non si costruisce. Ci si può domandare meravigliati: perché? Perché questi disoccupati non possono utilizzare queste materie prime e mettersi a costruire una casa in cui abitare? Perché occorrono dei capitali e il capitalista privato non trova conveniente, dato il costo di produzione attuale, di investire il capitale nella costruzione.

Ora, se noi, per costruire, dobbiamo attendere che si verifichino in Italia automaticamente le condizioni per le quali ogni imprenditore privato troverà conveniente investire i propri capitali e avrà la garanzia del suo profitto, il processo della ricostruzione edilizia sarà ritardato di decenni e decenni.

Qui deve intervenire l’iniziativa dello Stato e lo Stato può, con mezzi propri e con mezzi che si procurerà in parte dalla stessa proprietà edilizia, che non è stata danneggiata, ma che, grazie alla guerra, è stata largamente valorizzata, dare impulso alla ricostruzione edilizia del Paese.

Io penso che non sia, onorevoli colleghi, da scartare a priori la proposta, già avanzata dall’Associazione degli inquilini e dalle organizzazioni sindacali, della costituzione di un Ente nazionale per la ricostruzione edilizia che attinga i suoi fondi, oltre che da un contributo dello Stato, dei Comuni, delle collettività, anche dalla proprietà edilizia e da alcuni aumenti di fitto che, a questo scopo, si potrebbero imporre per alcune categorie di inquilini. Lo Stato avrebbe così un mezzo per dare uno slancio maggiore alla costruzione edilizia, di cui il nostro Paese ha tanto bisogno.

Ma anche qui non si vogliono toccare, da parte di troppa gente, alcuni interessi consolidati e non si vogliono intaccare alcuni princìpi di conservazione sociale che sono stati superati dal tempo e che saranno inevitabilmente travolti dal popolo italiano nel suo divenire, nella sua pacifica e libera evoluzione democratica.

Così, per il problema della disoccupazione. Nonostante un lieve, ma costante miglioramento della situazione economica generale, dell’indice della produzione, abbiamo ancora circa due milioni di disoccupati in Italia; reduci, lavoratori di ogni categoria, manuali ed intellettuali. Non possiamo ignorare questo problema, che deve essere legato a quello della ricostruzione del Paese.

Se noi applichiamo il principio di subordinare gli interessi particolari dei ceti privilegiati, dei ceti plutocratici e dei grandi agrari, agli interessi generali del popolo e del Paese, in tutti i campi della nostra attività economica, possiamo dare un grande impulso al lavoro di ricostruzione, poiché dare lavoro ai disoccupati non è soltanto un problema di lavori pubblici, onorevoli colleghi. I lavori pubblici sono un aspetto del rimedio che bisogna attuare, ed anche a questi lavori bisogna dare un piano organico. Io spero che il nuovo Ministro dei lavori pubblici avrà dal Governo mezzi sufficienti per sviluppare una politica di lavori, per cui non si sia più obbligati a subire la vergogna dei lavori pubblici a regìa, non si sia più obbligati a subire la vergogna di far eseguire lavori inutili o di dubbia utilità, mentre il Paese ha tanto bisogno di lavori utilissimi.

CAMPILLI, Ministro delle finanze e del tesoro. È questione di uomini e di materiale, non è soltanto questione di mezzi.

DI VITTORIO. Capisco questo per il materiale, ma che in Italia manchino gli uomini…

CAMPILLI, Ministro delle finanze e del tesoro. Lo domandi all’onorevole Sereni.

Una voce al centro. I soldi bisogna stamparli?

DI VITTORIO. I soldi si possono trovare. Noi non siamo per l’inflazione. In Italia tutti i biglietti che si sono stampati e sono in circolazione non sono andati in gran parte nelle casse dello Stato, ma non sono nemmeno spariti. Ci sono. L’essenziale è che il Governo democratico, appoggiandosi sulle masse popolari, riesca a tirar fuori il denaro da coloro che li hanno e lo spenda per la ricostruzione del Paese. E questo dovrebbe essere il principio fondamentale della politica economica del Governo. (Commenti a destra).

RODI. Che sistema è questo per cui il Governo si appoggi sulle masse popolari per far danaro?

DI VITTORIO. A questo problema di sviluppo della produzione è collegato il problema della nazionalizzazione delle industrie chiave del Paese, problema compreso nei programmi di tutti i partiti di massa e che dobbiamo pur incominciare a realizzare. Noi pensiamo che bisogna incominciare a realizzarlo al più presto possibile, anche perché su questo terreno abbiamo una situazione particolarmente urgente e drammatica, quella della elettricità. Sono stato costretto a studiare un po’ questo problema con i tecnici e con i lavoratori direttamente interessati in questa industria. I tecnici affermano che il problema della elettricità in Italia, come industria chiave di tutto il sistema industriale, ha bisogno di dieci anni almeno, per essere risoluto, se si continua col metodo dell’iniziativa privata e spontanea. Penso che la situazione dell’Italia è tale che non possiamo attendere 10 anni per risolvere questo problema fondamentale. Occorre uno sforzo collettivo grandioso di tutta la Nazione e perciò soltanto lo Stato, uno Stato democratico, può risolvere questo problema nel più breve termine possibile.

Una voce. In cento anni! (Commenti).

DI VITTORIO. Lo so, onorevoli colleghi, che voi non avete fiducia nello Stato come imprenditore, come del resto non avete fiducia in generale nello Stato democratico; ma è perché voi vi preoccupate del monopolio dei grandi capitalisti, della grande plutocrazia che noi invece vogliamo ridurre a più modeste proporzioni. (Commienti – Interruzioni).

RODI. C’è differenza fra Stato democratico e Stato imprenditore. Noi abbiamo l’esperienza in Italia che lo Stato imprenditore rallenta la produzione. La democrazia è un’altra cosa.

Una voce. Ci parli delle ferrovie. (Commenti).

DI VITTORIO. Lo Stato democratico che può poggiare sulla adesione delle masse popolari è quello più in grado di amministrare e condurre le aziende industriali di qualsiasi tipo. Del resto, la tendenza alla nazionalizzazione delle industrie chiave non è soltanto un fatto localizzato all’Italia; è una tendenza generale in Europa, che si allargherà al mondo e non è un problema tecnico, come alcuni di voi vuol far credere di pensare, ma è un problema sociale ed anche politico. (Commenti).

Noi pensiamo che soltanto con uno sforzo colossale, grandioso, che solo l’intera nazione può permettersi, possiamo risolvere il problema della elettricità in pochi anni, invece dei dieci o quindici di cui si è parlato. Ma in generale noi vogliamo la nazionalizzazione delle industrie chiave, anche per ridurre il potere economico e, quindi, il potere politico della grande plutocrazia industriale nel nostro Paese. (Commenti – Interruzioni).

RODI. Dove sono in Italia le grandi plutocrazie? (Commenti).

DI VITTORIO. Il Presidente del Consiglio ha detto nelle sue dichiarazioni che una delle condizioni per lo sviluppo della produzione nel nostro Paese è la collaborazione che egli ha definita organica tra capitale e lavoro. Io penso che il desiderio dell’onorevole Presidente del Consiglio sia giusto. Noi, in linea generale, questo desiderio lo condividiamo. Noi desideriamo collaborare con le forze produttive sane del nostro Paese. Non abbiamo nessuna ripugnanza a collaborare con quella borghesia produttiva, intraprendente, competente e lavoratrice che può portare un notevole contributo alla ricostruzione del Paese, con quella borghesia, però, che non pretenda al monopolio, che non degeneri nella speculazione e che guarisca finalmente da una mentalità feudale, secondo la quale il padrone deve avere il prepotere assoluto nella azienda e, quindi, nell’economia generale del Paese; ed il lavoratore, a seconda che sia manuale o intellettuale, non dovrebbe essere altro che un locatore delle proprie braccia o della propria mente.

Questo non lo accetteremo mai. Noi vogliamo collaborare, come ho accennato poco fa, alla ricostruzione del Paese, allo sviluppo della produzione, ma vogliamo collaborare nell’interesse generale del popolo e della Nazione; non collaboreremo mai con coloro i quali pensano che la collaborazione debba significare un asservimento della classe operaia e dei lavoratori alla plutocrazia capitalistica e ai grandi agrari. Vogliamo collaborare nell’interesse collettivo della Nazione, e perciò concepiamo come strumenti essenziali di questa collaborazione i consigli di gestione.

Ma quale è l’orientamento della grande maggioranza dei grandi industriali italiani sui consigli di gestione? Avversione completa e totale. Ci auguriamo che il Governo emani al più presto possibile la legge sui consigli di gestione, estendendola in tutta Italia; anche per contribuire a creare nel Paese un’atmosfera favorevole a quella collaborazione che l’onorevole De Gasperi auspica. La collaborazione sana nell’interesse del Paese si può realizzare soltanto attraverso i consigli di gestione, nei quali la rappresentanza dei datori di lavoro, dei lavoratori e dei tecnici affermi il principio che l’azienda non è una cosa alla quale sia interessato esclusivamente il padrone, ma è qualche cosa nella quale i lavoratori si sentono e si devono sentire sempre più direttamente interessati, poiché lo sviluppo dell’azienda è la condizione dello sviluppo e del miglioramento delle proprie condizioni economiche e morali. Nei consigli di gestione i tecnici e i lavoratori hanno la possibilità di portare un contributo ai miglioramenti dei metodi di lavoro e alle innovazioni tecniche, che sono necessari per sviluppare la produzione. I consigli di gestione sono anche una garanzia per il Paese in generale, poiché devono anche intervenire nella determinazione dei prezzi, in quanto determinabili dall’azienda. E qui vi è per il popolo la garanzia contro ogni pretesa monopolistica di sfruttamento mediante aumenti non giustificati di prezzi.

Perciò i consigli di gestione devono essere realizzati al più presto, perché sarà un notevole contributo alla creazione in Italia d’una atmosfera adatta a questa collaborazione.

Ma un’altra condizione è che la politica sociale del Governo sia tale da convincere la parte più reazionaria della classe capitalistica che indietro non si torna più. Mentre l’onorevole Presidente del Consiglio parla giustamente di collaborazione, sappiamo che vi sono gruppi plutocratici, i quali, invece della collaborazione coi lavoratori, cercano di finanziare le associazioni illegali di neo-fascisti e giornali fascisti o d’altro colore di destra, per tentare di ricacciare indietro la classe operaia e la democrazia italiana.

È evidente che con costoro la nostra collaborazione non potrebbe essere possibile.

Vi sono poi i grandi agrari della Confida. Costoro, nella loro maggioranza, hanno ancora una mentalità addirittura schiavistica. Essi non vogliono nemmeno trattare con le organizzazioni dei lavoratori.

Signori, la Confederazione del lavoro e la Federterra non sono riuscite in due anni e mezzo a stipulare un solo contratto di lavoro collettivo con i signori della Confida. Per i lavoratori della terra oggi in Italia non vi è gratifica natalizia, non vi sono vacanze pagate; vi sono prestazioni previdenziali miserabili, assegni familiari meschini perché gli agricoltori hanno resistito sinora a versare i contributi necessari per assicurare delle prestazioni tollerabili ai lavoratori della terra. E bisogna deplorare che i vari Governi che si sono succeduti al potere fino ad oggi dopo la liberazione, sono stati così longanimi, da non essere ancora giunti ad obbligare questi signori a versare i contributi, come li versano gli industriali, per assicurare anche ai lavoratori della terra le prestazioni che sono già basse per i lavoratori dell’industria, per assicurare un minimo indispensabile di assistenza ai lavoratori ammalati, o infortunati, o con carico di famiglia.

Possiamo collaborare con questi signori?

Noi vogliamo collaborare con tutti coloro che non si oppongano alla realizzazione del progresso sociale e delle rivendicazioni più urgenti dei lavoratori; ma con chi ha un atteggiamento di diniego categorico, assoluto, permanente, cocciuto, irragionevole verso le rivendicazioni dei lavoratori non è possibile nessuna collaborazione.

Del resto, lo stesso Presidente del Consiglio ha provato ad arbitrare una vertenza, quella ormai famosa sulla mezzadria, ed egli stesso ha potuto constatare di essersi urtato a tali resistenze che il lodo emesso non è applicato ancora nella maggior parte dei casi, perché il Governo – anche questo è deplorevole – non ha trovato ancora il tempo di mutarlo in legge e di estenderlo a tutte le regioni in cui deve essere applicato.

D’altra parte sappiamo che i grandi agricoltori cercano di organizzare certe squadre di resistenza attive per la sedicente difesa delle aziende non soltanto contro i lavoratori, ma anche contro il Governo democratico, richiedendo ai membri della loro associazione delle quote speciali per ettaro e per capo di bestiame, ed è molto probabile che non pochi grandi proprietari trovino volentieri dei milioni da impiegare per cercare di organizzarsi ancora una milizia privata da contrapporre al popolo e alla sua volontà di progresso, e non trovino una lira per migliorare le condizioni di vita, che sono meschine e insopportabili, dei nostri lavoratori agricoli. (Vive interruzioni a destra – Commenti).

Una voce a destra. Dopo tutto quello che è avvenuto con le squadre rosse, si parla di milizia privata! (Rumori).

DI VITTORIO. Noi tutti siamo in linea di principio disposti a collaborare con tutti coloro che non disconoscano i diritti elementari dei lavoratori, con tutti coloro che accolgano le loro rivendicazioni più elementari. In particolare domandiamo per i contadini la conversione in legge del lodo mezzadrile, perché sia esteso a tutte le regioni mezzadrili d’Italia. Domandiamo una maggiore stabilità di impiego per i braccianti agricoli mediante l’assegnazione di un certo numero di essi per ettaro di terreno, a seconda della coltura, a seconda delle regioni, perché questi lavoratori siano impiegati e il proprietario sia in un certo senso obbligato ad occuparli e quindi ad assicurare una lavorazione più razionale dei fondi, ciò che corrisponde all’interesse del Paese. Da questo obbligo noi domandiamo che siano esclusi soltanto i contadini coltivatori diretti; domandiamo l’applicazione sincera, e previo un maggior chiarimento, dei decreti Gullo sulla mezzadria impropria, perché ai lavoratori della terra, ai compartecipanti della mezzadria impropria del Mezzogiorno sia assicurata una parte dei prodotti – e parliamo di prodotti seminativi e di prodotti arborei nello stesso tempo – non inferiore al 60 per cento del raccolto.

Domandiamo il blocco delle disdette che già ha dato luogo a numerose agitazioni, che potrebbero essere evitate; domandiamo un sostegno attivo delle cooperative agricole, perché le terre occupate dei contadini sulla base dei decreti Gullo e del più recente decreto Segni, siano coltivate razionalmente, e i contadini siano incoraggiati alla più razionale possibile coltivazione di queste terre.

Infine domandiamo per tutti i lavoratori della terra le prestazioni previdenziali e gli assegni familiari nella stessa misura in cui sono in vigore per i lavoratori dell’industria.

Poche parole, se mi permettete, onorevoli colleghi, sulla difesa e sul consolidamento della Repubblica. (Commenti).

Io non voglio trattare questo problema in generale; né è mia intenzione di rispondere all’oratore che mi ha preceduto, quando ha protestato contro ipotetici decreti che offenderebbero il senso della libertà, della dignità umana e di tante altre cose. E dice tutto ciò a noi, ai social-comunisti, a coloro cioè che per difendere la libertà hanno fatto diecine di anni di galera, di miseria, di esilio e di confino. (Interruzioni a destra – Vivi applausi a sinistra).

Una voce a sinistra. Dove eravate voi?

BENEDETTINI. Eravamo in Italia. La difesa della libertà non è monopolio vostro.

Una voce a destra. Comunismo equivale a fascismo. (Vive proteste – Rumori – Commenti a sinistra).

DI VITTORIO. Onorevoli colleghi, di questo problema mi occupo soltanto per la parte che è più attinente alle questioni sociali.

Io voglio denunciare in questa Assemblea la situazione gravissima che, sotto questo aspetto, vi è nel Mezzogiorno d’Italia, e in particolare in Sicilia e in Puglia. La popolazione meridionale in generale non ha ancora la sensazione che siamo in un regime democratico e repubblicano. (Interruzioni a destra).

RODI. Non è vero! Il Mezzogiorno è civile e democratico, e lei lo ignora!

DI VITTORIO. È un fatto che la mafia agrario-fascista siciliana in breve tempo ha fatto assassinare sei organizzatori sindacali uno dopo l’altro. (Rumori – Interruzioni a destra).

RODI. Non è vero! Il Mezzogiorno è stanco del comunismo.

Una voce a destra. Ricordatevi di quelli di Francavilla, bruciati vivi! (Vivi Rumori a sinistra).

BENEDETTINI. Non ne vogliono sapere di comunismo, in Sicilia!

Una voce a sinistra. Voi siete responsabili degli assassinî.

BENEDETTINI. Voi siete responsabili di tutto quello che avviene. (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Prego i colleghi di sinistra di non agitarsi e di non soverchiare coi loro rumori la voce del loro stesso oratore.

BENEDETTINI. È la verità che scotta! (Rumori).

PRESIDENTE. Onorevole Benedettini, non interrompa, e lei, onorevole Di Vittorio, non raccolga le interruzioni.

DI VITTORIO. Io avrei avuto il diritto di pensare che anche quell’altra parte dell’Assemblea si associasse a noi, almeno per deplorare questi assassinî a tradimento di onesti lavoratori e di esponenti del movimento sindacale. Invece, non troviamo espressioni di solidarietà da parte loro, talché dobbiamo ritenere che proprio essi siano i mandanti di quegli assassinî. (Vive proteste a destra – Rumori). È un fatto che in Puglia, e particolarmente nel Leccese, numerose sedi di sindacati e di cooperative sono state assalite da squadre di tipo fascista.

RODI. Non è vero! Quali sedi? Elevo formale protesta per quello che l’onorevole Di Vittorio dice in quest’aula!

DI VITTORIO. Onorevole Presidente, poiché la mia affermazione è stata oggetto di contestazione dall’altra parte dell’Assemblea, propongo formalmente che sia accettato il voto emesso domenica scorsa a Lecce da un Congresso delle organizzazioni contadine di quella provincia, cioè che l’Assemblea Costituente nomini una Commissione d’inchiesta per andare ad esaminare la situazione in Puglia.

RODI. Ben venga! Facciamo nostra questa proposta: allora le Camere del lavoro saranno finalmente soppresse! Siamo stanchi delle Camere del lavoro. (Proteste a sinistra – Rumori).

DI VITTORIO. Domandiamo che il Governo prenda serie misure, affinché la legalità democratica repubblicana sia rispettata in tutto il Mezzogiorno d’Italia!

BENEDETTINI. In tutta l’Italia, non nel Mezzogiorno soltanto!

RODI. E soprattutto che la Camera del lavoro diventi finalmente un organo apolitico! (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Basta con le interruzioni, onorevole Rodi!

DI VITTORIO. Le Camere del lavoro sono le organizzazioni più democratiche che esistano. (Commenti a destra).

Io penso, per concludere, onorevole Presidente, che bisogna prendere misure efficaci per quanto riguarda il Mezzogiorno e, ne convengo, per quanto riguarda il resto d’Italia, in ordine al problema di Governo concernente la libertà di organizzazione, che debbo denunciare in questa Assemblea.

È avvenuto che, in Emilia e in Toscana, comandanti delle stazioni dei carabinieri, funzionari di pubblica sicurezza, hanno chiamato i contadini, i mezzadri, membri delle commissioni di cascina, diffidandoli a sciogliere queste loro organizzazioni perché illegali. E la cosa più strana e più grave è che, quando i dirigenti della Camera del lavoro di Modena si sono rivolti al prefetto di quella provincia per protestare contro questa illegalità, si sono sentiti dire che si tratta di una azione preventiva, diretta ad impedire il sorgere di una organizzazione illegale. Chi è che ha dichiarato illegali le commissioni di cascina? Le commissioni di cascina sono, in un certo senso, nelle campagne, l’equivalente delle Commissioni interne delle aziende industriali. Nemmeno al tempo di Giolitti e nemmeno quando le commissioni di cascina avevano il carattere più avanzato, che aveva contribuito a dare loro l’onorevole Miglioli, si era mai pensato di dichiararle illegali. Illegali queste commissioni? Ma perché? Nello stesso momento in cui l’Assemblea Costituente è riunita per proclamare solennemente i diritti dei cittadini e dei lavoratori italiani, bisogna tollerare che il prefetto o il maresciallo dei carabinieri ci dicano quali sono le forme tollerabili e legali nelle quali i lavoratori si devono organizzare? Noi domandiamo che siano date istruzioni precise. I lavoratori hanno il diritto di organizzarsi in tutte le forme che ritengono più opportune per la difesa e la tutela dei propri interessi. (Commenti – Interruzioni a destra).

RODI. Ma è possibile queste dire cose?

PRESIDENTE. Onorevole Rodi, faccia silenzio! Onorevole Di Vittorio, continui.

DI VITTORIO. Io prego il Governo di tener conto di questi fatti che avvengono nelle campagne e che costituiscono un attentato alla libertà di organizzazione dei lavoratori. Illegali non possono essere che le organizzazioni clandestine create per scopi contrari a quelli della legge. Le commissioni di cascina dei contadini sono create pubblicamente, funzionano legalmente, trattano con i datori di lavoro e con le autorità locali e a nessun titolo possono essere definite organizzazioni illegali che possano essere comunque proibite. (Commenti – Interruzioni).

Una voce a destra. Anche in Emilia?

DI VITTORIO. Sì, anche in Emilia.

SCOCCIMARRO. Dove avete organizzato gli assassinî. (Rumori vivissimi – Proteste a destra).

BENEDETTINI. Non conoscete il significato delle parole.

COPPI. In Emilia gli assassini noti sono comunisti. (Rumori – Interruzioni – Proteste a sinistra).

AMENDOLA. Non è vero! È vergognoso dir questo. (Rumori vivissimi a destra).

DI VITTORIO. Per concludere dirò pochissime parole sul trattato che è stato imposto all’Italia. Il pensiero profondo dei lavoratori italiani tutti è stato espresso nel manifesto pubblicato in comune dalla Confederazione del lavoro, dalle Associazioni combattentistiche e partigiane. Questo manifesto e la sospensione dal lavoro e da ogni attività in tutta Italia per dieci minuti hanno espresso il sentimento profondo del popolo italiano contro l’ingiustizia che viene inflitta al nostro Paese, ingiustizia che deriva dal fatto che non si è voluto tener conto del contributo di sacrificio e di sangue che il popolo italiano, attraverso la sua resistenza attiva, attraverso il suo Corpo di liberazione, attraverso i suoi marinai e i suoi aviatori, attraverso le gloriose formazioni partigiane, ha portato alla causa della liberazione della Italia e dell’Europa dal fascismo e dall’invasione tedesco-hitleriana. (Commenti). Noi lavoratori abbiamo fiducia nel senso di giustizia dei popoli civili e nel sentimento di solidarietà che lega i lavoratori di tutti i Paesi. L’ingiustizia che è stata inflitta all’Italia colpisce anche ed in modo particolare i lavoratori. Alcune clausole del trattato, in particolare quelle economiche, se dovessero essere applicate integralmente, costituirebbero un ostacolo gravissimo a che il popolo italiano possa riorganizzare la propria economia.

Noi già, – e chi parla personalmente – in seno alla Federazione sindacale mondiale abbiamo avuto occasione di porre questa questione riferita alla confisca dei beni italiani all’estero ed abbiamo avuto la sodisfazione di constatare che i lavoratori organizzati degli altri Paesi si sono manifestati solidali con noi. Siamo certi che al momento opportuno l’appello della Confederazione generale italiana del lavoro a tutte le sue consorelle d’Europa e del mondo perché i lavoratori di tutti i Paesi intervengano nel senso di ottenere giustizia per l’Italia e di ottenere che il nostro popolo sia messo in condizioni di riorganizzare la propria economia, sarà ascoltato.

Il popolo italiano non domanda sussidi: è un popolo sano, lavoratore, di antica civiltà. È un popolo che domanda soltanto giustizia, perché sia messo in grado di rinascere con il proprio lavoro e di conquistare per i propri lavoratori quel tenore di vita che è compatibile col suo grado di civiltà. (Vivi applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Russo Perez. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Veramente sentivo il bisogno di un po’ di riposo dopo questo… magnifico discorso e dopo questo esempio di libertà e di democrazia! C’è stato un fiorito scambio di carte di visita: mentitore, bugiardo, buffone! Ho sentito dire anche: «ispiratore di assassini»!

C’è, per esempio, chi considerava proprio titolo di merito, pel suo recente passato politico, gli anni trascorsi in galera; ed evidentemente, in particolari circostanze, questo può essere un titolo di merito. Il massimo titolo di merito, difatti, è il martirio. Ma non stupitevi se da quest’altra parte c’era qualcuno poco fa che ascriveva a suo titolo di merito le medaglie al valore che ha riportato combattendo per la patria, nello stesso periodo di tempo in cui quegli altri erano in galera.

Libertà di eloquio. Abbiamo avuto conferenze di carattere storico, di carattere letterario; abbiamo avuto anche qualche comizio elettorale; mentre io penso che si dovrebbe parlare, con misura e buona logica, sull’argomento all’ordine del giorno: «Discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio». Cioè: la crisi, il programma esposto dal Governo; quale parte esso abbia attuato del programma esposto dopo la precedente crisi.

Non parlerò di quella recente, perché sono dei parere che crisi di Governo non c’è stata; c’è stata una crisi di coscienza del nostro Presidente del Consiglio. Anzi, è la seconda. La prima egli l’ebbe quando si accorse di non essere Facta. Allora c’era una feroce contesa per Corbino: Corbino fuori, Corbino dentro! Sembrava che con quella frase il nostro Presidente del Consiglio intendesse dire che si proponeva di trattenere Corbino.

Corbino fu mollato.

La seconda crisi avvenne al ritorno del Presidente del Consiglio dagli Stati Uniti d’America, dove egli difese – e di ciò gliene sia data pubblica e unanime lode – gli interessi dell’Italia. Noi non sappiamo che cosa sia avvenuto in America, tranne quel poco che ci hanno comunicato i giornali. Ma che cosa può averlo imbaldanzito, al punto da ritenersi che fosse arrivato il momento di liberarsi dai comunisti, e, dopo, a pronunziare la frase: «non si torna indietro», noi non sappiamo.

Crisi di coscienza! Perché – come bene è stato rilevato dai Partiti di estrema sinistra – il Paese non sentiva la necessità di questa crisi, se non nel caso in cui veramente il Presidente del Consiglio avesse creduto opportuno di dare un altro volto alla compagine ministeriale. Egli voleva divorziare dai comunisti, ma questa volta fu proprio l’onorevole Togliatti il custode della indissolubilità del matrimonio (Si ride); ed il cattolico De Gasperi si arrese. E la crisi si è risolta con un nuovo governo a base dei tre partiti.

Ma la critica principale che può farsi a questo modo di risolvere la crisi credo che sia da ricercare nel perpetuarsi ostinato del sistema dei partiti.

Mi permetto di ricordare (e quelli che fanno parte di questa Assemblea da maggior tempo che io non ne faccia possono darmi atto che ciò è vero) che nel 1921 il Paese attraversava una crisi simile a questa che attraversa oggi. Le forze politiche si polarizzavano in quel tempo intorno al Partito Popolare, con Don Luigi Sturzo, ed ai social-comunisti con Claudio Treves e Filippo Turati.

A Giolitti, per la prima volta, fu imposto il sistema dei partiti; cioè, da quel tempo, ebbe inizio quel pessimo sistema per cui colui che è designato a reggere il Governo del Paese non può scegliere i suoi Ministri e Sottosegretari di Stato liberamente, in base ai suoi personali criteri e in relazione alle finalità che si propone di raggiungere. E così avvenne che l’adagio inglese «the right man in the right place», (cioè, per qualcuno che non sappia, nelle tribune, l’inglese: «il giusto uomo al giusto posto»), non poté più trovare applicazione.

E così, col sistema della prepotenza dei partiti, furono a poco a poco minate la libertà e la dignità del Parlamento italiano ed il Paese ebbe nausea di questo; e fu in tale ambiente che ebbe origine il partito fascista, che doveva uccidere in Italia la democrazia.

Ho voluto citare questo precedente storico per una semplicissima ragione. Poco fa, in un grazioso scambio di invettive tra una parte e l’altra dell’Assemblea, ho sentito ripetere una parola ambigua ed ormai stantia: «fascista». Gli eredi di quei tre partiti e gli eredi morali e politici di quegli uomini che li capitanavano, sono attualmente il nostro Presidente del Consiglio e la Democrazia Cristiana, che rappresenta l’antico Partito Popolare; l’onorevole Nenni e l’onorevole Togliatti, e adesso anche l’onorevole Saragat, per i partiti socialista e comunista. Quindi io ammonisco i miei amici avversari di quella sponda a non provocare nel Paese una situazione che somigli a quella del 1921, perché le conseguenze – e sarebbe una disgrazia per la democrazia e per questa o codesta Repubblica che volete consolidare – non possono non ricadere sul Paese, con avvenimenti simili e pur diversi.

Infatti, quando voi parlate di fascismo, errate profondamente, perché il metodo fascista era il metodo della violenza, mentre par i partiti di destra oggi il metodo preferito, il solo seguito, è il metodo della propaganda e del voto.

La questione è questa, che allora i partiti di sinistra sognarono di conquistare il potere con la forza. Il popolo italiano oppose la forza e nacquero i fasci di combattimento. Oggi i partiti di estrema hanno pensato di sostituire alla forza l’intelligenza, o meglio la furberia, che è un surrogato dell’intelligenza; conquistare il potere, e naturalmente tutto il potere, con l’intelligenza. Da ciò nacque quel primo slogan: «o la Costituente o il caos». Ma il popolo italiano oppose all’intelligenza l’intelligenza e nacque il qualunquismo.

Credete veramente, onorevoli colleghi, che fossero molte in Italia le persone che sentivano il bisogno di una nuova Costituzione? Che veramente fossero numerosi i gruppi di cittadini, i quali pensavano che lo Statuto Albertino, con piccole modificazioni, non potesse fare al caso nostro?

TOGLIATTI. Almeno 12 milioni.

RUSSO PEREZ. Io sento parlare di milioni. È un affare che può riguardare gli amici di quella sponda, perché noi i milioni non li abbiamo. (Si ride – Commenti).

 TOGLIATTI. Milioni di elettori! (Commenti).

RUSSO PEREZ. Insomma io volevo dir questo: quando voi parlate di reazione, anzi, per usare la vostra frase, di «bieca reazione in agguato», voi presupponete che ci sia un’azione. Siate più prudenti in questa azione; non provocate la reazione; non limitatevi a dirci che siete democratici: siatelo veramente. Perché non basta un’etichetta per cambiare una merce; non basta dire: non siamo più comunisti, ma siamo democratici progressivi. Io posso anche chiamare un pugno nell’occhio una carezza progressiva.

TOGLIATTI. Non abbiamo mai detto di non essere comunisti.

RUSSO PEREZ. E allora perché vi chiamate democrazia progressiva?

Una voce a sinistra. Noi ci chiamiamo come vogliamo!

RUSSO PEREZ. Comunque, entriamo nel vivo delle comunicazioni del Governo.

Spero di essere più piacevole adesso. Consolidamento della Repubblica. Onorevole De Gasperi, aveva ragione il collega Benedettini, l’irruente collega Benedettini, a dirvi che non siete stato chiaro. Si parla sempre di consolidare questa Repubblica. Si vede che i suoi genitori si sono accorti che il bimbo è macilento, ha bisogno di molte cure, se ogni giorno scoprite che le leggi ordinarie non bastano a garantirne lo sviluppo e che occorrono sempre leggi nuove. A meno che l’onorevole De Gasperi, sempre intelligente e sempre abile (un giornalista americano, un uomo politico, lo chiamò «eccessivamente abile»; e si può anche peccare per eccesso), non abbia voluto essere intenzionalmente nebuloso, perché può darsi – come diceva poco fa un collega – che una delle richieste dei comunisti per la partecipazione al Governo fosse proprio questa: leggi di consolidamento della Repubblica. Ed egli promise che queste leggi sarebbero state emanate, senza l’intenzione di emanarle. Però è stato preciso nel citare alcuni testi di legge. Il mio maestro mi diceva che, per quanto si sia vecchi avvocati, occorre sempre rileggere il testo della legge.

L’onorevole De Gasperi ha parlato degli articoli 276 e 279 del Codice penale. Ed ha avuto ragione, perché nel primo articolo si tratta delle prerogative del Re e adesso le prerogative devono essere del Capo dello Stato, del Presidente della Repubblica; nell’altro articolo si parla di attentato al Re ed è giusto che ora sia previsto il caso di attentati al Capo della Repubblica.

Ma poi vi sono gli articoli 274 e 270, sui quali io spero che il Presidente del Consiglio ci spiegherà che cosa egli abbia inteso dire con la frase: «Occorre aggiornare o modificare questi articoli di legge».

L’articolo 274 dice: «Chiunque partecipa ad enti o istituti, ecc., di carattere internazionale non autorizzati». Noi siamo, dicono, nazionalisti, quindi questo articolo non può concernere noi; se mai può dispiacere ad altri. Ed allora bisogna che noi sappiamo se l’articolo deve essere aggiornato nel senso che adesso potranno essere tollerate le organizzazioni di carattere internazionale, anche se non autorizzate dal Governo.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il progetto sarà presentato alla Camera; si rassicuri.

RUSSO PEREZ. Dobbiamo essere rassicurati veramente, perché l’articolo 270 è ancora più interessante: «Chiunque promuove associazioni dirette a stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre…».

Aggiornare in questo caso significherebbe forse sopprimere questo articolo? A noi così com’è piace, onorevole Presidente del Consiglio: è un articolo che fa proprio al caso nostro, perché noi non vogliamo che nessuna classe sociale prevalga sulle altre, né quella dei ricchi su quella dei poveri, né la classe dei poveri su quella dei ricchi.

Poi vi è la legge 26 aprile 1945, n. 125: «Chiunque sotto qualsiasi forma o denominazione tende a far risorgere il disciolto partito fascista, ecc.» Sta bene; ma occorre leggere la parte seconda, dove, per fortuna, per la prima volta appare chiarito il significato della molto ambigua parola «fascismo».

Voi sapete che il congresso delle gioventù universitarie a Praga pose come tema la definizione del fascismo; ebbene, dei giovani sfavillanti di intelligenza discussero per una settimana, e, alla fine, rinunziarono a fare tale definizione. Ma la nostra legge qui ci soccorre, perché dice: «Chiunque svolga attività fascista impedendo od ostacolando con atti di violenza o minaccia, l’esercizio dei diritti civili e politici, ecc.».

Che si voglia alludere ai fatti dell’Emilia? o ai fatti del Viminale? o a quella oscura, anzi palese minaccia, di cui parlò l’onorevole Corbino e che sarebbe stata fatta dall’onorevole Togliatti, e per iscritto, al Presidente del Consiglio?!

Comunque, intendiamo dire al Governo che noi troviamo che questi articoli vanno molto bene. Soltanto, vorremmo che venissero applicati, ma con quella vera indipendenza della Magistratura, della quale non troppo bene testimonia la presenza in questa aula dall’onorevole Venditti.

C’è, poi, la legge 20 aprile 1945 n. 149, che dovrebbe essere ritoccata. Si tratta delle sanzioni per fascisti politicamente pericolosi. Sta bene; però la legge dice che essa si applica a chiunque abbia compiuto fatti gravi che non rivestano gli estremi di reato.

Onorevoli colleghi di quest’Assemblea, si tratta ancora una volta di quelle famose leggi penali di carattere retroattivo, che rappresentano in Italia, culla del diritto, una turpe offesa alla civiltà, al buon senso e alla democrazia. Pietro Colletta, nella sua storia del reame di Napoli, dice che soltanto i re della dinastia borbonica pensarono ad una enormità come una legge penale con carattere retroattivo.

Uno voce a sinistra. Anche i Savoia, con Mussolini, fecero leggi retroattive! Con una legge speciale del 1926 furono condannati individui per fatti commessi nel 1922!

RUSSO PEREZ. Lei è in errore!

TOGLIATTI. Per una legge retroattiva Gramsci è morto in prigione, regnando Vittorio Emanuele III.

Una voce a sinistra. Ma queste cose voi non le sapete! Perché parlate dei Borboni?

TOGLIATTI. Terracini è stato quasi venti anni in carcere per una legge retroattiva! Non mi si potrà mai smentire!

RUSSO PEREZ. Il fascismo fece delle pessime cose, delle pessime leggi; ma la vergogna di una legge penale di carattere retroattivo il fascismo non la fece mai. (Rumori – Commenti).

TOGLIATTI. Fra di voi c’è qualcuno che l’ha approvata.

RUSSO PEREZ. Impostiamo una buona volta la questione. Vi è una legge che proibisce in Italia l’apologia di uomini e istituti del regime. C’è o non c’è questa legge? Dunque, vi pongo questo dilemma: O le leggi fasciste erano cattive, e voi non dovete imitarle; o erano buone ed allora potete copiarle. Quindi, se voi dal fascismo copiate, pur ammettendo che sono empie, le leggi penali di carattere retroattivo, siete voi che fate coi fatti e con le leggi l’apologia del fascismo. (Applausi a destra – Rumori a sinistra).

LI CAUSI. Gli anni di galera non si distruggono. Si tratta di una logichetta formale che non convince nessuno. (Rumori a destra).

PRESIDENTE. Ciascuno cerchi di essere il più tollerante possibile dell’opinione dell’avversario. Continui, onorevole Russo Perez.

RUSSO PEREZ. Comunque, degli eminenti parlamentari, come l’onorevole Francesco Saverio Nitti e l’onorevole Labriola, (Nitti nel suo recente discorso di Milano e Labriola in quest’Aula) hanno detto che il pericolo del risorgere del fascismo non c’è. Questo fascismo, di cui parlano le sinistre, è come il fantoccio di Pierino: l’Italia lo butta dalla finestra e voi lo fate rientrare per la cappa del camino. (Interruzioni a sinistra).

LI CAUSI. Difatti, Nitti c’era nel 1920 ed il fascismo è sorto nel 1920 con Nitti. (Interruzioni – Commenti).

RUSSO PEREZ. Onorevoli colleghi, dopo questo breve e cortese consiglio agli avversari di non far risorgere con la loro condotta ciò che è morto e sepolto, e di non fare con le parole e con le leggi l’apologia del fascismo, veniamo un po’ a parlare dell’ordine di pace.

Onorevole Presidente del Consiglio, la Assemblea Costituente si è sentita defraudata del diritto di risolvere il problema se convenisse firmare o non firmare il Trattato di pace, e si è offesa, almeno nelle nostre persone, anche per il modo da voi scelto per superare questo ostacolo, per riuscire a liberarvi dal controllo dell’Assemblea Costituente. Voi ricordate benissimo che, quando presiedeva l’ottimo repubblicano Conti, questi mi voleva abbracciare dall’alto del suo scanno; ma questa tenerezza di sentimenti non esclude che egli, nel vostro interesse, abbia violato il regolamento, perché quando l’onorevole Conti si è appellato alla prassi parlamentare, ai precedenti, egli doveva sapere che precedenti in questo senso non ce ne sono. E così non abbiamo avuto il tempo e il modo di esprimere il nostro pensiero sulla opportunità della firma del Trattato di pace.

E quali sono state le vostre giustificazioni, onorevole Presidente del Consiglio? Parlerò con quel senso di misura che l’argomento richiede. Le giustificazioni che avete date all’Assemblea sono queste: la firma ha importanza minore della ratifica. Si è arzigogolato, avete detto, sull’interpretazione dell’articolo 90; ma le Potenze alleate e associate non possono aver prevista la pratica esecuzione del Trattato senza la cooperazione nostra, che nessun Governo può dare senza la decisione dell’Assemblea. Non ho voluto impegnare, avete soggiunto, la responsabilità dell’Assemblea, perché ciò avrebbe, è vero, alleggerito la mia, ma avrei anche impegnata la responsabilità della Costituente nel primo atto iniziale della procedura, mentre ad essa è riservato il secondo e più definitivo intervento.

Questo non è perfettamente esatto. È esatto che, con gli accorgimenti adottati dal Presidente del Consiglio e dal Ministro degli esteri, il diritto dell’Assemblea Costituente italiana a dire l’ultima parola sulla validità e sulla eseguibilità del Trattato è stato garantito. Ma è anche vero che in base alla dizione di quell’articolo 3 della legge 16 marzo 1946, per cui a noi è riservata l’approvazione dei Trattati di pace, avevamo altresì il diritto di esprimere la nostra opinione sull’opportunità del primo atto, che impegnava la responsabilità del Governo, cioè la firma del Trattato stesso. Del resto, avrebbe potuto sempre rimanere salvo il diritto dell’Assemblea Costituente di dire la sua ultima parola in sede di ratifica, pur dicendola prima in sede di apposizione di firma, perché, per esempio, in seguito ad una discussione sobria, dignitosa, obiettiva, l’Assemblea avrebbe potuto lasciare al Governo, come di fatto è stata lasciata dalla Commissione dei trattati, la responsabilità di risolvere per suo conto il problema della firma, addossandosene tutta la responsabilità.

Io invito gli onorevoli colleghi dell’Assemblea a pensare in quali condizioni si sarebbero trovati i Parlamenti delle Potenze alleate e associate, e soprattutto il Senato degli Stati Uniti, qualora il nostro Governo avesse rifiutato la sua firma. È possibile che la reazione del Senato americano, la reazione dei popoli, sarebbero state favorevolissime a noi. Questa reazione avrebbe potuto finalmente aprire gli occhi dei pochissimi grandi, tenacemente chiusi alla verità, e polarizzare intorno a noi le simpatie degli infiniti piccoli, che, nel mondo, la miopia dei grandi perennemente deluse.

Io mi permetto di accennare a qualche problema per il quale effettivamente un’azione utile del Governo può svolgersi nel tempo che passa tra la firma e la ratifica, per esempio il problema delle colonie, giacché voi sapete, onorevoli colleghi, che, secondo il Trattato di pace, la sorte definitiva delle colonie sarà decisa tra un anno.

Coloro che la cronaca frettolosa e compiacente, senza aspettare il sereno giudizio della storia, si affrettò a chiamare “grandi”, ci hanno tolto tutte le colonie, anche, in ispregio alle molte assicurazioni e promesse formali fatteci, le colonie prefasciste, quasi che quello che per gli altri è un diritto per noi sia un delitto; e ci hanno privato anche di quelle sabbie africane, che i nostri contadini, con un lavoro che sarebbe da schiavi se non l’avessero fatto uomini liberi, avevano trasformato in fiorenti giardini, mentre ora, sotto l’amministrazione inglese, la sabbia comincia a coprire i giardini e interrare i pozzi. Che cosa vogliono fare di noi, gente buona e laboriosa, chiusa nei nostri angusti confini, in una terra priva di materie prime, di metalli nobili e plebei, di carbone?!

Ma, ci si dice: a voi è permesso di esportare i vostri contadini, i vostri lavoratori, i vostri braccianti. Così la condizione dei nostri lavoratori diventa simile a quella dei servi della gleba, a quella che i nostri operai avevano prima che a tutelarne i diritti fosse sorto il Partito socialista italiano. Ed io devo deplorare che uomini politici responsabili abbiano detto che per noi le colonie sono un peso. Il primo è stato, nell’agosto dell’anno scorso, l’onorevole Pietro Nenni, seguito ad una corta incollatura dall’onorevole Lussu, che, in materia, non vuole essere secondo a nessuno.

Le colonie non sono un peso, sono una necessità vitale per noi. L’avere tolto tutte le colonie alla Germania fu causa non ultima dell’ultima grande guerra. Per noi le colonie rappresentano un bisogno vitale; e io spero che il nostro Ministro degli esteri, che il nostro Presidente del Consiglio, facciamo tutti i passi indispensabili perché una parte delle nostre colonie ci venga conservata.

Vi è un problema particolare su cui richiamo l’attenzione dell’Assemblea; esaminando il quale vi apparirà chiara la ragione principale per cui, se avessi avuta la possibilità di parlare prima della firma dell’ordine di pace, sulla mia proposta di non firmare è probabile che molti in quest’aula sarebbero stati con me consenzienti, perché, mentre, per quanto riguarda le colonie e per quanto riguarda i confini, si tratta di materia opinabile, qui si tratta di un problema su cui non è possibile avere un’opinione diversa dalla mia. Intendo parlare della cobelligeranza. Il nostro Governo ha fatto finalmente una richiesta di partecipazione alle trattative di pace con la Germania. Le reazioni nel mondo sono state varie. La stampa inglese ha detto: prima firmate, firmando vi acquisterete il diritto di partecipare alle trattative di pace con la Germania.

Dagli Stati Uniti d’America ci si è risposto press’a poco allo stesso modo. Cioè: nella probabile vostra ammissione alle trattative di pace vi è implicito il concetto della revisione.

Qui bisogna fare ricorso agli articoli 18 e 77, n. 4, del Trattato di pace, quelli che nel progetto erano gli articoli 15 e 67.

Coll’articolo 67 del progetto (77, n. 4, dell’attuale Trattato) l’Italia rinunzia a tutti i suoi diritti in confronto alla Germania (una volta, in sede di Commissione per i trattati, si era erroneamente creduto che si trattasse soltanto dei crediti che vantiamo per le espoliazioni avvenute nel nostro territorio). Tutti i diritti in confronto alla Germania vengono rinunziati, senza esclusione alcuna.

Con l’articolo 18 l’Italia si impegna, ora per allora, a riconoscere validi tutti i trattati di pace che le Potenze alleate ed associate faranno con altre Nazioni, con cui sono state in guerra, tra cui la Germania.

Voi comprendete il valore di queste clausole.

Quando ci si dice: «prima firmate il Trattato di pace e poi vi ammetteremo alle trattative di pace con la Germania», possiamo rispondere: ma, scusate!, noi vantiamo il diritto alla spartizione dell’asse ereditario, e voi, prima di ammetterci dinanzi al notaio, perché la spartizione sia effettuata, volete che facciamo la rinunzia completa a tutti i nostri diritti ereditari?

Tutte le altre clausole del Trattato, onorevoli colleghi, possono essere discutibili, perché, in fondo, vi è quel solito argomento, la spada di Brenno: Vae victis! Cioè: noi Potenze alleate ed associate siamo i vincitori; voi siete gli sconfitti. Ma qui no! Qui si tratta d’un problema, che è estraneo alla materia del contendere e verte fra parti diverse.

Si tratta, non di rapporti tra le Potenze vincitrici e l’Italia sconfitta, ma tra l’Italia cobelligerante, quindi convittoriosa, e la Germania, onoratamente sconfitta, ma sconfitta.

Quindi, questa questione verte fra parti diverse e le parti non sono state interpellate. Sono state assenti dal giudizio.

Supponete che il Signor Lupi di Soragna fosse stato incaricato di fare una dichiarazione di questo genere:

«Il Governo italiano è pronto a firmare il trattato di pace tra le Potenze vincitrici e l’Italia, ma non la pace tra l’Italia convittoriosa e la Germania sconfitta». Credete che, ad una motivazione di questo genere, gli Alleati avrebbero potuto reagire in qualunque modo e, soprattutto, in un modo che, solo a pensarlo, rappresenta un’offesa per il nobile popolo degli Stati Uniti, rifiutandoci, cioè, a cagione di questa nostra santa protesta, quel po’ di frumento che ci occorre per sopravvivere?

Non capisco, onorevoli colleghi, perché da parte dell’Assemblea, del Governo e, sovrattutto, da parte di quel settore (indica la sinistra), si sia così poco sensibili al tema della cobelligeranza.

Forse pensate che gli Alleati, invece di essere guidati da un palese criterio giuridico, che è sicuramente con noi, siano guidati da un occulto criterio morale, che potrebbe essere a noi sfavorevole?

In questo caso, potremmo comprendere il vostro travaglio. Ma qui non si tratta di questioni morali. Si tratta di interessi, di diritti della Nazione. E dovremmo essere concordi e tenaci nel difenderli, quale che sia il nostro segreto pensiero.

Noi abbiamo dato nella cobelligeranza sangue e beni; è giusto che riceviamo l’alto prezzo del nostro sangue e il giusto prezzo del nostro sacrificio, che non può essere rappresentato dai 30 sicli della nostra entrata nel novero delle Nazioni Unite.

Questa strana inerzia di fronte alla cobelligeranza, che ci è costata 65 mila uomini delle truppe regolari, 65 mila delle forze partigiane, 139 mila tonnellate di naviglio affondato e migliaia di miliardi di danni, non è ammissibile. Noi dobbiamo ben valorizzare il nostro sacrificio. Abbiamo il diritto di negoziare queste benemerenze nel trattato di pace con la Germania, e se non facessimo questo, mentre da una parte non potremmo più avere il diritto al conguaglio tra le riparazioni attive e quelle passive, tra i danni fatti e i danni subiti, onorevoli colleghi dell’altra sponda, dal punto di vista morale ciò significherebbe un’altra cosa: significherebbe rinnegare il valore morale della vostra, della nostra cobelligeranza.

Se voi rimaneste inerti, dalle loro tombe i caduti dell’esercito regolare e, con maggiore sdegno, quelli delle forze partigiane, si leverebbero a rimproverarvi l’inutilità del loro sacrificio. I fascisti uccisi vi domanderebbero: perché ci avete ucciso? I fascisti condannati vi domanderebbero: perché ci avete condannato? E chi sa se anche da Piazzale Loreto non si leverebbe qualche ombra a rimproverarvi che i mitra democratici hanno avuto troppa fretta ad anticipare il giudizio della storia.

Onorevole Presidente del Consiglio, onorevole Ministro degli esteri, io ho accennato ai punti in cui credo e spero che l’azione del Governo possa essere più intensa ed efficace e possa portare a maggiori risultati: colonie, confini, e, soprattutto, valutazione della cobelligeranza in relazione alla nostra richiesta di partecipare alla preparazione del trattato di pace con la Germania. Perché, se entrasse in vigore il Trattato, con la nostra rinunzia a tutti i nostri diritti in confronto alla Germania, e poi fossimo ammessi alle trattative di pace, di che cosa andremmo a discutere? Dei confini tra la Francia e la Germania, o delle riparazioni che la Russia imporrà alla Germania?

Io ho finito, onorevoli colleghi, e non mi pare di aver fatto opera di sterile opposizione, se ho creduto di dirvi il mio pensiero su alcuni problemi nella soluzione dei quali il Governo è chiamato ad un compito arduo. Signori del Governo, mi auguro che la vostra fatica possa riuscire, ed i primi ad applaudirvi, in tal caso, saremo noi. (Applausi a destra).

(La seduta sospesa alle 17,50, è ripresa alle 18).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Finocchiaro Aprile. Ne ha facoltà.

FINOCCHIARO APRILE. Signori Deputati! Matteo Renato Imbriani, nel 1896, iniziava un suo discorso sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri, onorevole Crispi, dicendo con la sua voce stentorea: «Sono sei mesi che in Italia si governa senza Parlamento!». Nelle parole di Matteo Renato Imbriani è scolpita tacitianamente, la situazione del tempo. Non si sarebbe potuto esprimere meglio il pensiero d’allora degli italiani da parte di quegli che era chiamato il bardo della democrazia.

Le parole di Matteo Renato Imbriani io potrei ripeterle oggi, perché effettivamente, da che questa Assemblea funziona, si è governato senza e al di fuori dell’Assemblea Costituente. La colpa principale, se non esclusiva, di ciò è dell’onorevole De Gasperi. Ed il mio discorso di oggi sarà in modo particolare rivolto al Capo del Governo, personalmente. (Commenti).

LUCIFERO. Non c’è.

FINOCCHIARO APRILE. Gli sarà riferito.

È singolare il concetto che l’onorevole De Gasperi ha della rappresentanza popolare. Già, prima ancora che egli diventasse Capo del Governo, al tempo della Consulta nazionale, si cercò di organizzare le cose in modo tale da esautorare completamente, in partenza, quella che doveva essere l’Assemblea Costituente. Quando si pensò di stabilire con legge le norme per il funzionamento della Assemblea Costituente, si volle, violandone il diritto di sovranità, che questa Assemblea non avesse il potere legislativo: si volle che questo, per la durata dell’Assemblea medesima, risiedesse esclusivamente nel Governo. Non mi pare, in verità, che ciò rispondesse e risponda ai dettami e alle esigenze della democrazia. Effettivamente, se alla nostra Assemblea, nella legge istitutiva, si fosse attribuito il potere legislativo, sia pure in ambito ristretto, sarebbe stato rendere omaggio alla rappresentanza popolare. Non mi sembra che, con la istituzione delle Commissioni legislative, si sia ristabilito quel diritto essenziale dell’Assemblea Costituente e che si sia riparato ai lamentati inconvenienti. Ma, tant’è.

L’Assemblea Costituente, secondo affermazioni partite dal banco del Governo e ripetute in quest’aula, autorevolmente, dall’onorevole Conti, dovrebbe circoscrivere il suo ufficio alla redazione e all’approvazione della Costituzione. Io non sono di questo avviso. Un’Assemblea Costituente normale può limitare il suo compito alla formazione della Carta costituzionale; ma un’Assemblea Costituente come la nostra, nata dopo ventidue anni di regime fascista, di soppressione delle pubbliche libertà, di sovvertimento di ogni principio democratico, è la vera ed unica depositaria ed interprete della volontà del popolo italiano. Ed io vi dico che per me, e non soltanto per me, l’Assemblea Costituente deve avere ed ha un potere prevalentemente politico, potere di indirizzo, potere di controllo, potere di deliberazione.

Il Governo avrebbe dovuto, pertanto, non tralasciare nessuna occasione per interpellare questa rappresentanza popolare. L’onorevole De Gasperi ha avuto una specie di idiosincrasia nei riguardi dell’Assemblea Costituente; l’onorevole De Gasperi, in ben otto mesi, non ha fatto che convocarci poche volte e per appena trentasette sedute. Sono passati inutilmente gli otto mesi stabiliti dalla legge per la vita dell’Assemblea: e, in queste trentasette sedute, si è parlato di molte cose senza mai concludere nulla; ma vere e proprie discussioni politiche non sono avvenute, e non sono avvenute perché all’onorevole De Gasperi non è piaciuto che avvenissero. Perché la critica all’onorevole De Gasperi non confà. Egli desidera soltanto le conclamazioni che spesso ha avuto, e non soltanto da parte dei suoi amici politici.

Una voce. Meritate!

PRESIDENTE. Se è possibile, si evitino le interruzioni!

FINOCCHIARO APRILE. L’ultima volta che ci riunimmo, ci riunimmo dopo tre mesi di sospensione dei lavori parlamentari. Erano avvenute cose di eccezionale gravità ed era ovvio che l’Assemblea Costituente desiderasse di esprimere il suo pensiero su alcuni, almeno, dei più importanti avvenimenti. Ma l’onorevole De Gasperi non fu di questa opinione. Si cominciò con il dire che era carità di patria di non parlar di nulla: non del Trattato di pace, non della situazione interna, non di quella economica, finanziaria e monetaria, non della disoccupazione, non delle difficoltà alimentari, non della pubblica sicurezza e via dicendo. E si finì con l’occuparci soltanto di qualche verifica di poteri e delle formule dei giuramenti. Così noi ascoltammo la bella eloquenza del nostro amico Enrico Molè, che trattenne a lungo l’Assemblea Costituente su questo ultimo argomento. Però nessuno di noi riconobbe che l’argomento fosse di troppa importanza: era un argomento di ordinarissima amministrazione.

E si volle imbavagliarci soprattutto al dichiarato fine di non compromettere il prestito allora in corso: un volgare pretesto. Da tutti si disse: come si fa a trattare preoccupanti argomenti politici, quando le sottoscrizioni non sono ancora chiuse? Veramente io ricordai ad alcuni amici che, quando Francesco Nitti, nel 1920, emise il prestito, il suo prestito, tenne la Camera dei Deputati ed il Senato sempre aperti, ed il prestito Nitti dette allora 22 miliardi di lire, qualche cosa come 700 miliardi di lire di oggi. Orbene, nonostante tutta questa precauzione da parte dell’onorevole De Gasperi, il prestito ci ha dato una grande delusione. Il prestito è stato un fallimento, in quanto emesso dal Governo De Gasperi, in quanto emesso dal Ministro del tesoro Bertone, l’uno e l’altro privi di ogni ascendente e di ogni credito nel Paese. (Commenti al centro).

Io faccio una colpa all’onorevole De Gasperi, fra le molte che dovrei rimproverargli: quella di non sapere scegliere i suoi collaboratori, almeno quelli che egli può liberamente scegliere, perché l’onorevole De Gasperi ha rinunziato a quella dignità, a quel minimo di dignità, che avevano tutti i capi di Governo passati, di scegliere i propri collaboratori nei partiti decisi a partecipare al potere, senza lasciarseli imporre. (Interruzioni – Rumori – Commenti al centro).

Una voce al centro. Siamo stanchi di sentirla.

FINOCCHIARO APRILE. Ho appena incominciato.

Finalmente, noi possiamo oggi parlare di politica, possiamo assolvere, cioè, il nostro compito essenziale in un’Assemblea che ha mero carattere politico.

Noi avremmo voluto, nell’ultima tornata, chiedere all’onorevole De Gasperi alcuni chiarimenti e alcune spiegazioni; ed io, non avendo potuto far ciò allora, glieli chiedo oggi, poiché egli è sempre il Capo del Governo e non può trincerarsi certo sul fatto che il precedente Gabinetto è cessato ed egli ne presiede attualmente un altro, il terzo ed ultimo suo Ministero. (Ilarità). Io debbo fare alcune domande all’onorevole De Gasperi.

Eccone una: che cosa accadde al tempo dei fatti del Viminale? Onorevole De Gasperi, il Paese ebbe la sensazione precisa che non ci fosse un Capo di Governo, ebbe la sensazione precisa di una discrasia ministeriale. Il Paese rideva alle sue spalle e continua a ridere. (Rumori – Commenti). Onorevole De Gasperi, è mai possibile che sui fatti del Viminale, che tanta diminuzione di prestigio e di autorità portarono al Governo, l’Assemblea Costituente non debba ancora sapere nulla?

E mi perdoni di farle un’altra sommessa domanda. Ci vorrebbe dire qualche cosa, e certamente ce la dirà, sui fatti dell’Emilia? Perché, onorevole De Gasperi, lei stesso non si è fatto iniziatore di un chiarimento in materia? L’altro giorno l’onorevole Scoccimarro, che ha pronunciato un discorso veramente notevole (Commenti), gran parte del quale ha la mia approvazione, faceva rilevare che vi era stato un contrasto aspro e violento tra i comunisti da una parte e i democratici cristiani dall’altra. Noi abbiamo il diritto, come rappresentanti del popolo, di sapere come sono andate le cose. È inutile che lei si trinceri in un assoluto mutismo, onorevole De Gasperi, perché, dei fatti dell’Emilia lei, allora Ministro dell’interno, è responsabile verso il Paese. È, infatti, inspiegabile che gli avvenimenti dell’Emilia, iniziati attraverso l’azione del capitano Lavagnini, fossero dal Governo considerati in un modo ben diverso di come furono considerati altri analoghi avvenimenti. Noi ascoltammo il discorso tribunizio dell’onorevole Nenni, il quale, in quella occasione, venne a dire – e io non so onestamente dargli torto – che nella questione dei partigiani bisognava agire con molta cautela e con molta discrezione, e che bisognava stendere un velo pietoso su quello che era avvenuto, per ricondurre la calma negli spiriti. Io reputo che fu fatto bene allora; ma perché, quando gli stessi fatti si verificarono per opera di altri partigiani si agi in guisa del tutto diversa? Perché Andreoni, del quale io ricordo, con gratitudine, il leale riconoscimento della legittimità e dell’onestà dell’agitazione indipendentista siciliana; perché Andreoni fu arrestato e fu tenuto tanti giorni in carcere? Perché fu diffamato dalla stampa ministeriale come un volgare delinquente, mentre era ed è un grande patriota e un grande galantuomo? Perché questa offensiva disparità fra il trattamento fatto a Lavagnini e quello fatto ad Andreoni? Forse solo perché Andreoni non era nel cuore dell’onorevole Nenni? (Commenti – Rumori).

Altro argomento, onorevole De Gasperi. È un argomento consacrato in una interrogazione da me depositata al banco della Presidenza, l’interrogazione relativa ai prigionieri di guerra in Jugoslavia, argomento molto doloroso, argomento che fu lì lì per determinare una crisi ministeriale, naturalmente extraparlamentare. Onorevole De Gasperi, noi indipendentisti siciliani abbiamo seguito molto attentamente tutte le vicende di questi poveri nostri prigionieri in Jugoslavia. Io non attribuisco a lei la volontà di ritardare il ritorno di questi nostri connazionali; non ho nessun elemento che mi possa portare ad ammettere che vi sia stata in lei la volontà di non farli ritornare; ma, onorevole De Gasperi, come risulta anche dai verbali del Consiglio dei Ministri, ella ha la responsabilità personale di non avere in tempo e convenientemente agito per il ritorno dei nostri prigionieri dalla Jugoslavia.

Io non condivido il pensiero di coloro che ripetono ancora che questi prigionieri non si volle da lei che ritornassero in patria perché erano comunisti o perché erano siciliani indipendentisti. (Commenti). Sarebbe stata questa una cosa enorme ed io respingo tale voce che ha tutti i caratteri di una insinuazione.

Certo è però che, se ella fosse intervenuto tempestivamente, i prigionieri sarebbero ritornati molto prima. Se sono ritornati e non ancora tutti, non è merito suo: è merito dell’onorevole Togliatti ed io gli esprimo la profonda loro riconoscenza. (Rumori). Faccia, almeno, il Presidente del Consiglio che siano rimpatriati, senza altri indugi, gli ultimi scaglioni.

Altro argomento. Ci fu una notte lo scoppio di una piccola bomba atomica. L’onorevole Togliatti era ritornato dalla Jugoslavia e aveva portato la notizia che il Maresciallo Tito era disposto a transigere sulla questione di Trieste, lasciando la città all’Italia. Onorevole De Gasperi, lei non vide bene ciò, lei lasciò sfuggire questa buona occasione e si lasciò vincere dal suo temperamento sospettoso e diffidente. Non ci fu in lei la gelosia di sminuire un eventuale successo dell’onorevole Togliatti? (Rumori – Si ride).

Che cosa fece lei, onorevole De Gasperi, perché l’accordo Togliatti-Tito arrivasse ad una felice conclusione? Lei non fece niente e lasciò che la soluzione dei «Quattro» rimanesse immutata. Parleremo più avanti dei rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia.

Noi avremmo desiderato, nelle passate tornate, di sentire dichiarazioni chiare, esplicite, inequivoche da parte dell’onorevole De Gasperi sulla politica interna. Avremmo desiderato di sapere quali erano le ragioni dei frequenti disordini avvenuti in tutta la penisola; avremmo desiderato di sapere quale era stata l’azione del Governo per combattere il brigantaggio, per tutelare la vita e gli averi dei cittadini; avremmo desiderato chiedere al Capo del Governo che cosa pensava di fare per il riordinamento della pubblica sicurezza, che cosa aveva disposto che si facesse perché fosse soppresso l’incivile, ignobile sistema delle sevizie adoperato dalla polizia italiana; avremmo desiderato essere pienamente informati di tutta l’azione governativa in materia alimentare, azione suscettibile di tante e tante critiche.

A questo proposito noi non sappiamo ancora niente sulle vere intenzioni del Governo. Non sappiamo quali quantitativi di grano verranno e dove andranno e da chi ci verranno. Ho però notato che un egregio deputato di parte democratica cristiana, molto esperto in materia, l’onorevole Raimondi, era stato autorizzato ad andare in Argentina, con lettere credenziali del Capo del Governo. Chi fu a far tornare l’onorevole Raimondi scornato e beffato in Italia, mentre l’opera sua avrebbe potuto procurare certamente all’Italia non pochi milioni di quintali di grano? (Ilarità).

Ho fatto queste semplificazioni per mettere sempre più in rilievo che l’azione dell’onorevole De Gasperi è stata un’azione pervicacemente ostile all’Assemblea Costituente, una azione di svalorizzamento, un’azione di perturbamento nei rapporti fra i rappresentanti del popolo italiano e il Governo.

Ritorno ora là donde ero partito. Funzione essenziale dell’Assemblea Costituente è quella politica; non ha essa soltanto il compito, come crede l’onorevole De Gasperi, di redigere e di approvare la Costituzione. Di questa ci occuperemo, è sperabile, rapidamente e ce ne occuperemo sulla base del progetto predisposto, progetto che non è un gran che, ma che ha qualche buon lineamento. L’Assemblea Costituente potrà migliorare e perfezionare questo progetto, se il Presidente della Commissione dei 75, onorevole Ruini, il Licurgo del confusionismo italico (Si ride), ci consentirà di procedere speditamente nei nostri lavori.

Ma, ripeto, la funzione dell’Assemblea Costituente è essenzialmente, squisitamente politica e tale l’onorevole De Gasperi aveva il dovere di considerarla, senza snaturarne il carattere.

E vengo al nuovo Ministero. Nella sua composizione, è su per giù come il precedente, forse peggiore. Vi è, però, in esso un uomo notevole, l’onorevole Sforza. Io devo ricordare alla Costituente – la quale probabilmente non lo sa – che l’onorevole Sforza fu nel 1922 (se non erro) il Presidente della Conferenza della Piccola Intesa; ebbe allora un importante successo. L’onorevole Sforza ottenne che l’Italia diventasse l’arbitra della politica dell’Europa occidentale. Non so se l’onorevole Sforza, nel lungo periodo della sua assenza dall’Italia e nel proseguimento della sua azione di esperto ed abile diplomatico, abbia mantenuto la posizione di grande riguardo che egli aveva saputo al tempo della Piccola Intesa conquistarsi.

Degli altri onorevoli Ministri non occorre che io parli. Noto, però, una cosa. Ogni tanto, volgendo gli occhi al banco del Governo, noi vediamo taluni di quei signori guardare con certa sicumera il proprio ombelico. Credono così di acquistare importanza, almeno nell’aula, e hanno un’aria molto sodisfatta. Io gliela lascio questa soddisfazione; è la sola soddisfazione che essi possano avere. Un carissimo collega veneziano dei settori di sinistra mi diceva l’altro giorno: «Ma guarda! Quando io affiso i miei occhi sul banco del Governo, penso alla mia fanciullezza, quando nei teatrini dei sobborghi della mia città vi erano in fila tanti fantocci e noi ragazzi tiravamo su di essi con tre palle un soldo. (Vivaci proteste – Invettive – Rumori – Interruzioni).

Quale è stato il risultato dei lunghi pensamenti dell’onorevole De Gasperi avanti e durante la crisi? Prima di tutto l’onorevole De Gasperi ha compiuto una sconvenienza, un vero abuso, dappoiché egli non aveva il diritto di presentare le dimissioni del Ministero senza una preventiva deliberazione del Consiglio dei Ministri. (Commenti).

Vanamente l’onorevole De Gasperi si è riferito al precedente Bonomi. Non è esatto. Il precedente Bonomi è ben diverso. Dopo quaranta giorni di crisi, l’onorevole Bonomi dichiarò che, se l’accordo non fosse avvenuto tra i partiti entro breve termine, avrebbe presentato le dimissioni. Cosa completamente diversa. Lei, invece, onorevole De Gasperi, non disse niente a nessuno e agì alla chetichella, con violazione della legge e della consuetudine costituzionale. (Rumori al centro).

L’onorevole De Gasperi era partito per gli Stati Uniti con il proposito di escludere i comunisti dal Governo. Era chiaro. L’onorevole De Gasperi è andato in America con idee molto confuse e senza un chiaro disegno: non ci fosse mai andato! (Si ride – Commenti). Egli ebbe molte sollecitazioni a svincolarsi dal comunismo italiano. Le sue smentite valgono ben poco. Siamo d’accordo che l’invito a liberarsi dai comunisti non gli fu, né poteva essergli fatto, dal signor Truman o dal signor Byrnes. Ma l’onorevole De Gasperi – che non è mai abbastanza informato – ignorava, evidentemente, che anche in Italia vi erano emissari americani che giravano a destra e a sinistra e che si rivolgevano a tutti gli uomini politici di prima e di seconda grandezza per dimostrare loro la necessità di stringersi intorno all’America contro il comunismo. Ora l’onorevole De Gasperi tentò questa esclusione dei comunisti, s’impegnò ad escluderli…

DE GASPERI, Presidente del Consiglio. È falso!

FINOCCHIARO APRILE. …ma rimase con un pugno di mosche nelle mani, come gli capita spesso. Perché, quando i suoi amici democratici cristiani premevano da tutte le parti, perché l’onorevole De Gasperi si inducesse a fare il Ministero soltanto con essi, l’onorevole De Gasperi non può avere ritenuto serio far ciò e che ciò sarebbe stato conforme ai suoi interessi. L’onorevole De Gasperi, del resto, non doveva tardare a persuadersi che, praticamente, non poteva presentarsi all’Assemblea con un Ministero imposto soltanto di democratici cristiani.

Una voce al centro. Con gli autonomisti l’avremmo fatto!

FINOCCHIARO APRILE. Avvenne così che l’onorevole De Gasperi si servì della minaccia di fare un gabinetto di soli democratici cristiani con esclusione dei comunisti, per influire sulle determinazioni dell’onorevole Togliatti. Io non so se questa minaccia, che taluno chiamò un ricatto da parte dell’onorevole De Gasperi, abbia indotto l’onorevole Togliatti a modificare il suo precedente e più logico atteggiamento. Certo è che quel benedetto articolo «Tamburo e tamburini» scompaginò un po’ le aspettative generali. I tamburini erano i comunisti, il tamburo l’onorevole De Gasperi. Gli uni dovevano battere a più non posso sul secondo. Ma vivaddio, onorevole Togliatti, il tamburo si fa con la pelle d’asino, mentre l’onorevole De Gasperi è un filosofo, un teologo, un teosofo ed ha tante altre belle virtù. (Rumori – Commenti).

Una voce al centro. Teosofo, poi!

FINOCCHIARO APRILE. Non vorrei che, attraverso tanta preparazione culturale, l’onorevole De Gasperi si fosse messo oggi a studiare anche l’esistenzialismo. (Commenti). L’esistenzialismo per quei dotti colleghi, molto dotti – come voi sapete – è la elevazione a dottrina filosofica dell’amletico «essere o non essere?». Molto spesso, credo, in questi giorni l’onorevole De Gasperi si pone il dubbio amletico: «sono o non sono?». Io dico al Presidente del Consiglio come tale: «Lei oggi è; ma guardi, fra brevissimo tempo lei non sarà più». (Commenti – Si ride).

La verità è che l’onorevole De Gasperi si presenta all’Assemblea Costituente e al Paese come un minorato. Egli era partito per fare un Ministero con l’esclusione dei comunisti e doveva fare un Ministero senza i comunisti: non riuscendo a costituire il Ministero senza i comunisti, doveva declinare il mandato di costituire il nuovo Gabinetto.

D’altra parte, dovendo prevedere la impossibilità dell’esclusione dei comunisti, non doveva determinare la crisi ministeriale; crisi, ripeto, illegittima che ha messo il Capo provvisorio dello Stato in una condizione di estremo imbarazzo, perché lei, onorevole De Gasperi, non era più il designato a comporre il nuovo Ministero. (Commenti – Interruzioni).

Una voce al centro – E chi allora? Lei?

FINOCCHIARO APRILE. Non era designato a comporre il nuovo Ministero, perché le situazioni politiche sono contingenti, sono mutabili. Lei ha ripreso la direzione degli affari in base al risultato delle elezioni del 2 giugno; ma lei, onorevole De Gasperi, ha dimenticato che nelle elezioni successive, nelle elezioni amministrative, che ebbero aperto carattere politico, il partito democratico cristiano è stato solennemente battuto; non c’è dubbio. (Commenti).

Una voce al centro. Lo dice lei!

FINOCCHIARO APRILE. Lo dico io? Lo dicono i risultati, i numeri. Ed è altrettanto innegabile che il partito comunista è uscito dalle elezioni amministrative accresciuto ed era perfettamente giustificata la richiesta dell’onorevole Togliatti di avere un maggior numero di posti nel Ministero.

D’altra parte, non essendovi nessuna designazione in persona dell’onorevole De Gasperi, essendo la posizione del partito democratico cristiano una posizione di sconfitto in confronto alle elezioni del 2 giugno, era evidente che la designazione non fosse per la sua persona. Dissi e ripeto che si doveva venire dinanzi all’Assemblea Costituente, perché questa facesse una discussione sulle ragioni in base alle quali l’onorevole De Gasperi aveva rassegnato le dimissioni del Ministero e il Capo provvisorio dello Stato avesse così una norma nelle sue determinazioni. Solo dopo un’ampia discussione nella Assemblea Costituente, in seguito ad una designazione dell’Assemblea stessa, si doveva procedere al conferimento dell’incarico per la composizione del nuovo Ministero.

Sarà che io mi riferisco ad una vecchia prassi politica e parlamentare, mentre oggi le cose sono molto modificate; ma io penso che l’onorevole De Gasperi, per quello che ho detto, non rappresenti in questo momento al Governo legittimamente il Paese. (Commenti – Ilarità). Io penso che l’onorevole De Gasperi sia anche in gravi angustie in rapporto ai suoi amici. Noi non viviamo nel mondo delle nuvole; viviamo a Montecitorio, ed abbiamo saputo di riunioni del gruppo parlamentare democratico cristiano e di voci che si sono elevate contro l’onorevole De Gasperi: chi lo voleva trarre da una parte, chi dall’altra. Il dissidio è tutt’altro che sedato e la fiducia nell’onorevole De Gasperi da parte della Democrazia cristiana è fortemente diminuita.

Nel partito della Democrazia cristiana si va affermando insistentemente e nettamente una decisa tendenza a destra: vi è il Padre Lombardi che si agita in questo senso. (Ilarità). Egli è fiancheggiato dall’onorevole Jacini, espressione dello spirito più apertamente reazionario. Vi sono agitazioni, vi sono ribellioni, vi sono ostracismi che inficiano la consistenza del partito. E poi vi è il principe ereditario… (Commenti).

Una voce. Nella Democrazia cristiana? (Si ride)

FINOCCHIARO APRILE. Egli ha addome tondo e prominente, occhio di sparviero, ganascia forte e robusta, passo felpato di volpe; e procede con in mano un’anfora di acqua tofana, per versarne nella coppa del suo signore e donno. L’acqua tofana è quel dolce liquore di cui si serviva il duca Valentino per sbarazzarsi della gente, lui che pure andava a messa due volte il giorno. (Rumori – Si ride).

Ora, non mi pare che il tempo, per gli eredi delle corone, sia molto propizio. Cadono le dinastie, crollano i troni ed anche il soglio della Democrazia cristiana sta per essere sparecchiato.

E io vi dico che l’onorevole De Gasperi ha recato danno a tutti, sempre; ma anche e specialmente alla Democrazia cristiana. L’onorevole De Gasperi è come la mummia di Tutankamen. Egli non porta fortuna e semina il suo cammino di morti.

Quali sono, onorevoli colleghi, le ragioni della disfatta progressiva della Democrazia cristiana? Sono molte. Ne ricorderò alcune. La prima è costituita dai sistemi elettorali adottati il 2 giugno. Ne ho parlato altre volte all’Assemblea Costituente, e me lo ricordo bene. (Si ride). Manovre subdole di ogni genere, corruzioni senza limite, pressioni e violenze sul corpo elettorale, intimidazioni fatte dai confessionali e dai pergami (Rumori – Commenti), determinarono il grande successo al quale è seguita una inevitabile e salutare reazione. Ma quando i vescovi, i parroci e in genere i sacerdoti aventi cura di anime non si sono occupati di schede e di votazioni, come nelle ultime elezioni amministrative, il risultato è stato disastroso. È, dunque, nell’intervento illegittimo e abusivo degli organi della Chiesa che i democratici cristiani ripongono la loro salvezza.

Onorevole De Gasperi, io non chiedo a lei il rispetto della legge su questo terreno; lei non la farà rispettare mai perché ha interesse a che sia violata. (Rumori – Commenti al centro). Però, poiché noi ci avviamo verso le elezioni, mi permetto di ricordare a lei, e forse, più che a lei, a chi fra breve le succederà (Si ride), che vi è un articolo del Concordato il quale dice: «La Santa Sede prende occasione dal presente Concordato per rinnovare a tutti gli ecclesiastici e religiosi d’Italia il divieto di iscriversi e militare in qualsiasi partito politico». Non poteva il Trattato Lateranense usare espressioni diverse. Vi è poi la legge elettorale per l’Assemblea Costituente la quale punisce il ministro di culto, che abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati ed a vincolare il suffragio degli elettori a favore o in pregiudizio di determinate liste e di determinati candidati o di indurli all’astensione. Io, quindi, debbo richiamare l’attenzione dell’Assemblea Costituente sul fatto che la partecipazione degli aventi cura di anime e cioè, a norma del Concordato, degli ordinari, dei parroci, dei vice-parroci, dei coadiutori, dei vicari e dei sacerdoti stabilmente appartenenti a Chiese aperte al pubblico, è un reato. Ricordi ciò l’onorevole De Gasperi e non si lamenti, poi, se il rispetto della legge, che è un dovere per tutti, sarà, un bel momento, imposto dal popolo.

Ma, onorevole De Gasperi, non sono soltanto le indebite ingerenze del clero che hanno determinato, come reazione, lo sfaldamento bella Democrazia cristiana. Io non voglio, però, che sorgano equivoci: noi non siamo affatto contro la religione. Tutt’altro! (Commenti al centro). Noi la rispettiamo, noi la onoriamo come uno dei fondamentali elementi su cui si asside la coscienza popolare; ma noi non vogliamo che la religione serva come strumento di bassa speculazione politica e di profittantismo elettorale.

Vi è un’altra ragione per cui la Democrazia cristiana va scadendo, e forse l’enunciazione di questa ragione di fronte all’Assemblea Costituente e al Paese scatenerà alquanto disappunto ed è questa: gli onorevoli Deputati democratici cristiani vanno in cerca affannosa di tutti i posti più largamente retribuiti. (Rumori – Commenti). Io confido di potere presentare prossimamente all’Assemblea Costituente l’elenco dei Deputati democratici cristiani i quali sono direttori di banca, presidenti di istituti, consiglieri di amministrazione di società e via dicendo, che hanno numerose e lautissime prebende. Questa è una indecenza. (Interruzioni vivissime – Rumori).

GRONCHI. Oggi lei doveva portare questo elenco.

FINOCCHIARO APRILE. Comincerò da lei.

Una voce. Non si può andare avanti così! Presidente, lo inviti a ritirare le sue parole.

Voci. Non deve più parlare! (Rumori vivissimi).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, prego di far silenzio. Se c’è taluno che si senta colpito dalle affermazioni dell’onorevole Finocchiaro Aprile, ha soltanto il diritto di domandare la parola e a suo tempo l’avrà. Invito quindi l’onorevole Finocchiaro Aprile a non interrompere, ché, mi pare, sia piuttosto in vena di facezie. (Commenti – Interruzioni).

Voci. No, no!

FINOCCHIARO APRILE. Io mi rivolgo al Presidente: quello che ho detto risponde perfettamente a verità. Io mantengo quello che ho detto. Non è una facezia, è una cosa molto seria, onorevole Presidente; è un fatto vergognoso che intacca la dignità e l’onore del partito democratico cristiano. (Rumori vivissimi – Interruzioni al centro).

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, lei colpisce indiscriminatamente l’onore di 207 deputati che siedono in questa Camera. La richiamo all’ordine per la prima volta.

FINOCCHIARO APRILE. Questo mio rilievo si riconnette evidentemente ad una proposta fatta dall’onorevole Nitti. L’onorevole Nitti, in uno dei suoi primi discorsi, affermò che i Deputati alla Costituente non devono avere cariche di carattere soprattutto finanziario, che il Deputato deve servire il Paese con abnegazione e non deve andare alla ricerca spasmodica, come molti hanno fatto e fanno, di uffici presso organismi statali e parastatali o comunque aventi pubbliche finalità o rapporti con lo Stato, e ciò a puro scopo di lucro.

Ed io mi riferisco anche alle parole dell’onorevole Conti. L’onorevole Conti è un uomo nobile e generoso. Egli con veemenza richiamò la Camera alla necessità del rispetto e dell’elevazione del senso morale nella vita pubblica.

L’onorevole Scoccimarro, l’altro giorno, con accento commosso, parlò di impiegati che servono onoratamente il Paese, e fece bene. Sono d’accordo con lui. Questi impiegati dovrebbero essere tutelati, protetti, dovrebbero avere ogni vantaggio possibile, dovrebbero essere tolti dal dimenticatoio. Ma, onorevoli colleghi, oggi purtroppo vi sono amministrazioni e uffici nei quali, per ottenere qualche cosa, bisogna andare provvisti di un mezzo chilo di biglietti da mille per distribuirli. Ciò è indegno. Oggi noi viviamo in un clima di corruzione, in un grave disagio morale.

Onorevole De Gasperi, non crede lei che sarebbe stato compito precipuo dei suoi Gabinetti di moralizzare la vita politica e amministrativa d’Italia? Che cosa ha fatto lei in tal senso? Nulla.

Onorevole De Gasperi, io la prego di dirmi qualche cosa, ad esempio, sulla gestione del Ministero dei lavori pubblici da parte dell’onorevole Giuseppe Romita.

ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Quando vuole, anche adesso.

FINOCCHIARO APRILE. L’onorevole Giuseppe Romita ha popolato il Ministero di impresari, di costruttori, di speculatori. La ditta Cidonio, della quale l’onorevole Romita è stato impiegato, si è mantenuta in testa a tutti. Io non dico, onorevole Romita, che lei sia un disonesto. No, davvero. Però, onorevole Romita, vi sono delle compagnie che bisogna tener lontane, quando si maneggia il danaro dello Stato. Dieci miliardi di lire sono stati distribuiti durante la sua direzione del Ministero dei lavori pubblici. Troppi individui famelici erano intorno a lei che hanno mangiato abbondantemente. Questo è staio scandaloso. Lei è stato giuocato.

Onorevole De Gasperi, lei ha mandato via l’onorevole Bertone, un onesto uomo.

BERTONE. La ringrazio!

FINOCCHIARO APRILE. La successione di Bertone in persona dell’onorevole Campilli è stata la migliore, la più adatta? L’onorevole Campilli è stato uno speculatore… (Interruzioni – Rumori al centro) anche speculatore di borsa. Non importa a me di sapere se abbia fatto bene o abbia fatto male; ma a me pare che l’onorevole Campilli non offra al Paese, come Ministro del tesoro e delle finanze, sufficienti garanzie. (Interruzioni al centro – Proteste vivissime – Rumori).

Una voce. Si tratta di uomini di Governo; non si può più oltre tollerare che parli!

FINOCCHIARO APRILE. Onorevoli colleghi, altra importante ragione che ha determinato la crisi ministeriale è stata la scissione del partito socialista. Era una scissione necessaria. E l’onorevole Saragat, che l’ha determinata, ha, secondo me, acquistato una particolare benemerenza in rapporto al socialismo italiano. Io penso che l’onorevole Saragat abbia salvato il partito socialista dalla rovina. Certo che il ducismo dell’onorevole Nenni non era destinato a rafforzare e a potenziare il socialismo. Quello di Saragat è un nobilissimo tentativo e possiamo dire che sia già riuscito. È sorto un nuovo partito socialista, che vuole essere il partito di tutti i socialisti, non legato ad un altro partito o agli interessi di politica estera di un paese straniero, il partito di tutti i socialisti, che respingono la dittatura e il totalitarismo e credono nella libertà come metodo e nel socialismo come fine. Credo che il programma dell’onorevole Saragat si riconnetta alle pure origini del marxismo; credo che il voler convogliare verso il socialismo i ceti medi sia volere dare una gran forza al socialismo. Lo vedremo nei prossimi mesi. Io auguro pieno successo sia al nuovo partito, sia all’amico Saragat, che ha voluto e saputo raccogliere l’eredità evoluzionista di Filippo Turati.

Voci al centro. Tessera onoraria!

FINOCCHIARO APRILE. La verità è che il socialismo permea ormai in tutti gli ambienti; è diventato un minimo comune denominatore. Se voi esaminate la dottrina liberale di oggi, voi la troverete profondamente diversa da quella che era al tempo di Cavour. Il socialismo esercita un’influenza determinante e decisiva sul liberalismo; e io penso che, oltre al socialismo, anche il liberalismo abbia ancora da adempiere un’alta missione nella vita internazionale e nella vita italiana in particolare.

D’altra parte non dovreste esser voi di parte democristiana a lamentarvi di questa permeazione del socialismo anche nelle vostre file. Per quanto voi siate nemici giurati di Miglioli, egli è, fra i cattolici, l’uomo che ha mirato all’integrazione dello spiritualismo cristiano col socialismo classista.

E che cosa, nell’ultima fase della sua vita veramente luminosa e grande, pensava Filippo Turati? Non era Filippo Turati che auspicava un incontro tra le forze socialiste italiane e le forze del cristianesimo?

Il socialismo si diffonde, il socialismo è nella coscienza di tutti, è luce di progresso, è luce di civiltà: noi indipendentisti siciliani vogliamo che le classi lavoratrici arrivino al Governo; noi vogliamo che i contadini e gli operai, meglio di tutte queste persone che, come dicevo, guardano il proprio ombellico, vadano al banco del Governo, poiché soltanto… (Rumori vivissimi – Interruzioni – Commenti).

PRESIDENTE. La richiamo all’ordine, per la seconda volta! Non è questo il modo di parlare di colleghi che siedono al banco del Governo. (Vivi applausi al centro).

FINOCCHIARO APRILE. Lei presiede in modo poco tollerante. (Vivi rumori – Proteste).

PRESIDENTE. Sono stato anche troppo tollerante. Continui!

FINOCCHIARO APRILE. Soltanto, soggiungevo, ripetendo cose dette tante volte, con la partecipazione, diretta e senza interessati intermediari, dei contadini e degli operai al Governo, la voce delle classi lavoratrici potrà risuonare alta a rivendicare i loro diritti e potrà essere ascoltata.

Noi indipendentisti siciliani abbiamo appreso con viva sodisfazione l’uscita dal Governo e la non partecipazione al nuovo Ministero dei repubblicani storici. Nonostante le lusinghe dell’onorevole De Gasperi, i repubblicani storici hanno capito che il loro posto non poteva essere più a fianco dell’onorevole De Gasperi.

In altra occasione io dichiarai che, nelle prime fasi della agitazione indipendentista siciliana, vi era stato un accostamento fra i repubblicani italiani e gli indipendentisti siciliani. L’accostamento era avvenuto sul terreno federativo. Venuti alla Camera, i repubblicani storici abbandonarono questo terreno federativo e non potemmo più accordarci. Io tuttavia confido che il partito repubblicano, rotti gli indugi, saprà assolvere l’alta funzione di restaurare il pensiero politico di Carlo Cattaneo per la confederazione dei liberi Stati italiani.

E, a questo proposito, voi non potete non aver avvertito i lieviti di disintegrazione nazionale che vanno affiorando un po’ dappertutto. Io sono siciliano, io guido il “Movimento per l’indipendenza della Sicilia” e potrei e vorrei circoscrivere la mia azione alla mia terra e alla realizzazione della grande aspirazione della patria siciliana. Ma ho visto con grande soddisfazione venire a me gente della Sardegna, che ha creato la «Lega sarda», agognante della piena indipendenza della terra di Eleonora d’Arborea; ho visto venire a me i capi della Valle di Aosta…

Una voce al centro. Non è vero.

FINOCCHIARO APRILE. Non è vero? Come, non è vero? È venuto da me il Presidente del Consiglio della Valle di Aosta Caveri; è venuto il direttore dell’«Union Valdôtaine» Deffeyes; è venuto l’avvocato Page, tutti in rappresentanza di quel nobile paese, e mi hanno esposto le loro ragioni, mi hanno parlato con commossi accenti delle aspirazioni delle loro popolazioni, mi hanno esortato ad invitare l’Assemblea Costituente a sodisfarle. La semplice autonomia non basta loro e si vuole che la Valle di Aosta sia elevata a cantone.

Una voce. Non è vero!

FINOCCHIARO APRILE. Come non è vero? Lo domandi all’onorevole Bordon.

BORDON. Lo Stato federale non lo vogliono.

FINOCCHIARO APRILE. Vogliono la Confederazione di Stati liberi: e quei signori sono venuti qui a Roma per dirmelo; ed ho loro promesso di sposare la causa valdostana, che è una vera causa di giustizia. Io vi invito, signori deputati, ad esaminare con benevolenza i voti delle popolazioni valdostane e ad appagarli. (Commenti – Interruzioni).

E aggiungo che non sono soltanto essi ad invocare un diverso assetto politico e amministrativo: vi sono anche gli altoatesini, tanto vicini all’onorevole De Gasperi. I rappresentanti del Süd-tiroler Volkspartei seguono, in massima, la stessa direttiva dei rappresentanti della Valle di Aosta; essi vogliono l’elevazione della loro terra a cantone, di tipo svizzero. E perché il Governo italiano, perché la classe dirigente italiana debbono opporsi alla sodisfazione di queste legittime aspirazioni di popolazioni meritevoli della più alta considerazione? (Interruzioni).

CINGOLANI. Perché vogliono che l’Italia non vada a brani.

BORDON. È fuori causa l’Italia.

FINOCCHIARO APRILE. Benissimo! L’Italia non andrebbe affatto a brani. La Confederazione Nord Americana non distrusse l’unità dei popoli del suo vastissimo territorio; la rafforzò: la Confederazione Svizzera rese granitica l’unità dei popoli elvetici: la Confederazione Germanica fece un solo blocco dei popoli di lingua tedesca. Non è vero che la Confederazione di Stati liberi e sovrani distrugga l’unità dei popoli entro l’ambito confederale: invece la determina, la costituisce, la rinsalda.

Persuadetevi che il sistema unitario del 1860 ha fatto fallimento; che bisogna sostituirgli qualche cosa di più conforme ai supremi e reali interessi delle varie collettività. Non per opporci alle loro esigenze, ma per venire incontro ad esse noi siamo all’Assemblea Costituente; non già per rifare lo Stato, su per giù, così com’era prima, con la sola trasformazione istituzionale. Bisogna operare una grande riforma, degna del pensiero politico e giuridico dei nuovi tempi: bisogna dare alle nostre popolazioni che lo desiderano e che ne sono degne il diritto di governarsi da sé. Non potete imporre a queste popolazioni, che hanno ormai raggiunto un elevato grado di civiltà, di dovere chiedere a Roma, accentratrice e dispotica, la sodisfazione dei loro più elementari diritti, dei loro più elementari bisogni.

Io ho avuto la sodisfazione di veder sorgere a Trieste, tempo fa, un «Movimento per l’indipendenza della Venezia Giulia». A capo di questo movimento c’è un purissimo italiano, Paulin. Io ho assecondato questo movimento, il quale è ormai federato a quelli analoghi della Sicilia, della Sardegna, della Valle di Aosta e dell’Alto Adige. Ebbene, Trieste è città italianissima; nessuno può mettere in dubbio ciò. Orbene, il «Movimento per l’indipendenza della Venezia Giulia», mirava e mira a questo: a svincolare Trieste dalla soggezione di Roma, dal potere esclusivista e soverchiatore di Roma.

Una voce al centro. È un movimento pagato dai finanzieri e dai grossi capitalisti. Questa è la realtà.

FINOCCHIARO APRILE. Lei s’inganna. Però non è avvenuto ciò che Paulin e gli altri indipendentisti triestini desideravano, cioè l’erezione a Stato libero di Trieste e la sua partecipazione ad una Confederazione di Stati italiani. Non è avvenuto, dolorosamente. È avvenuto, invece, qualche cosa che ha colpito nostri cari fratelli triestini, perché gli alleati, nelle loro vacillanti ideologie, hanno concepito un ordinamento diverso.

Il senatore americano Connally, in un discorso tenuto a Parigi il 16 settembre, diceva: «Il libero territorio di Trieste non deve esistere soltanto sulla carta; esso deve essere uno Stato reale, con la sua propria identità ed il suo proprio carattere, con la sua propria indipendenza e la sua propria dignità». Orbene, se questo fosse avvenuto, mantenendo le richieste di Paulin e compagni di una confederazione dello Stato libero di Trieste con lo Stato italiano, tutti sarebbero stati contenti. Non si è fatto ciò; si è creato, sì, uno Stato libero, ma lo si è voluto staccare dall’Italia e gli si è imposto un governatore straniero.

Diceva Connally: «Lasciateci fare di Trieste il simbolo della sicurezza nel mondo». No, signori; si è fatta di Trieste una nuova Danzica, una roccaforte angloamericana contro l’avanzata russa nell’Europa occidentale, una polveriera che farà saltare nuovamente il mondo per aria.

Io non so se voi siate informati di certi piani militari alleati nel Mediterraneo. Io ne ho avuto notizia da varie fonti, notizia raccolta anche da Don Sturzo. I piani angloamericani hanno già stabilito una linea di difesa, che comprende il Portogallo, la Spagna, l’Africa settentrionale e la Sicilia. Voi ben comprendete, come io siciliano, consideri questo avvenimento con estrema perplessità e preoccupazione, perché è evidente che, quando la pace è appena avvenuta, già le armi si affilano, disgraziatamente.

Io non ho approvato il viaggio dell’onorevole De Gasperi in America. (Commenti al centro). È stato un grosso errore. Si dice che questo viaggio ha determinato una ripresa di rapporti fra i due Paesi; si dice che si è verificata una maggiore distensione fra di loro e che l’America si propone ora di aiutare maggiormente l’Italia. Non nego ciò, per quanto io ignori qual ne sia la contropartita. Ma, rovesciate la medaglia. Avete notato la reazione violenta da parte della Russia? E credete che avere la Russia ancor più nemica valesse la pena di un viaggio in America?

Il Trattato, signori Deputati, se anche lo volete considerare tale, non è in funzione di pace, ma è in funzione di guerra. Se non fosse così, le decisioni degli alleati nei riguardi di Trieste sarebbero state completamente diverse. Vanamente il signor Bevin sparge oggi lacrime di coccodrillo. Egli è stato uno dei più pervicaci nemici del nostro Paese. Il diktat è un documento disonorevole per noi. L’Italia perdette la guerra; era ovvio, quindi, che dovesse e debba risentire le conseguenze di una guerra perduta; ma per noi, sul terreno politico interno, il responsabile primo dell’odioso Trattato è l’onorevole De Gasperi. (Si ride).

Mi sovviene che, nel 1905, fu negoziato un trattato di commercio con la Spagna, trattato di commercio che non fu, specialmente riguardo ai vini, un buon trattato. Orbene, il Ministro delle finanze era allora l’onorevole Majorana. Egli venne alla Camera dei Deputati e disse tutto quello che aveva fatto per ottenere un trattato migliore. La Camera si persuase che nulla si sarebbe potuto fare di più e di meglio da parte del Ministro delle finanze. Ma l’onorevole Majorana, di fronte all’insuccesso, sentì di non potere restare al suo posto e l’indomani rassegnò le sue dimissioni. Lo stesso avrebbe dovuto fare l’onorevole De Gasperi. Io non nego che qualche cosa egli abbia tentato di fare, ma la verità è che il suo è un incommensurabile insuccesso, un insuccesso di cui non ve n’è l’uguale, e l’onorevole De Gasperi deve subirne le conseguenze.

Io vorrò in poche parole esaminare questa azione dell’onorevole De Gasperi. Già egli avrebbe dovuto intervenire fin da due anni fa, fin dalla sua nomina a Ministro degli esteri: egli doveva andare a destra ed a sinistra, a Washington ed a Mosca, a Parigi e a Londra, dappertutto, chiedendo condizioni umane, parlando in nome della tradizione di civiltà del popolo italiano, del nostro genio, delle nostre necessità di vita, dell’onore del nostro Paese. L’onorevole De Gasperi si dilettò, invece, di rafforzare il suo partito, si dilettò di trovare ai suoi amici posti nell’Assemblea Costituente o altrove, e si accorse che c’era un Trattato di pace da concludere soltanto quando il Trattato fu a lui comunicato dagli alleati. Troppo tardi, onorevole De Gasperi!

Quale fu la condotta dell’onorevole De Gasperi in rapporto alla Francia? Ho rimproverato aspramente all’onorevole De Gasperi di avere rinunziato agli statuti di Tunisi, rinunzia che tanto danno recò ai miei fratelli siciliani di laggiù, ormai oggetto della più sfrontata persecuzione. La richiesta francese doveva essere virilmente contrastata e comunque negoziata. Si poteva ottenere il mantenimento degli statuti, consentendo e cedendo qualche altra cosa. Lei invece, rinunziò puramente e semplicemente, dimenticando – e lo dissi l’altra volta alla Camera e non si ebbe il coraggio di oppormi nulla – che lei in tal modo tradiva i siciliani di Tunisia, i quali con il loro lavoro e la loro tenacia, avevano creato la ricchezza e la prosperità di quella grande colonia francese nel Mediterraneo. Lei rinunziò, come ha sempre rinunziato. Non ha saputo fare altro che rinunziare in politica estera.

Un giorno dovevo commemorare a Palermo l’anniversario del Vespro Siciliano. Mi fu inviato un emissario del generale De Gaulle, il quale si dolse del mio proposito e pretendeva quasi d’impormi di astenermi dal celebrare il grande avvenimento, per non offendere la suscettibilità francese. Risposi che avrei commemorato egualmente questa memorabile data che segna veramente, nella storia, l’inizio del risveglio della coscienza e dell’anima popolare di tutto il mondo. In quella occasione dissi anche a questo emissario francese che De Gasperi aveva tradito noi siciliani, rinunziando agli statuti di Tunisi, rinunzia da noi considerata illegittima. Confidiamo, infatti, di ritornare domani in possesso di questi statuti ai quali abbiamo sacrosanto diritto.

L’onorevole De Gasperi ha portato al fallimento anche l’internazionale cattolica. Quando Bidault assunse il governo in Francia, era quella la migliore occasione per incontrarsi con lui e per intendersi. Voi, professando la medesima ideologia, parlavate la stessa lingua. Tentò lei questo incontro, onorevole De Gasperi? O mostrò il viso duro ed arcigno a questo suo correligionario?

E lei, onorevole De Gasperi, ha anche la responsabilità di avere determinato pure il fallimento – nei riguardi dell’Italia, ben’inteso – dell’internazionale rossa. Quando lei – e lo ha fatto ripetutamente – ha rimproverato all’onorevole Togliatti di non avere ottenuto nulla dai suoi amici di Mosca e del Kremlino, lei ha sbagliato, perché egli non poteva ottenere nulla, data la politica stolta del Capo del Governo. Quando, onorevole De Gasperi, lei, forse senza volerlo, prendeva partito per l’Inghilterra, era evidente che la Russia doveva mettersi, come poi effettivamente si è messa, contro l’Italia.

Se dal principio lei avesse fatto veramente una politica estera accorta ed illuminata, se avesse manovrato scaltramente, se avesse messo da parte gli interessi suoi di partito, i risultati sarebbero stati certo diversi.

Il famigerato congresso di Bari mise lei e tutti gli altri fuori strada; quel congresso di Bari che fu pronubo di tante sciagure. Una delle maggiori fu la scelta degli ambasciatori che le profferirono i vari partiti e che lei manda per rappresentare l’Italia all’estero: tutta gente senza conoscenze, senza esperienze, senza prestigio, senza dignità. Cosa voleva e poteva lei ottenere da questi ambasciatori di nessun conto?

Eh! onorevole De Gasperi, quando si pensa che l’Italia ebbe diplomatici come Nigra, Tornielli, d’Avarna, Tittoni, di Sangiuliano, vi è veramente da rimanere desolati di fronte agli ambasciatori che lei ha chiamati a succedere loro ed a parlare in nome dell’Italia.

La politica estera di De Gasperi io la chiamo la politica estera del nulla.

Senta, una volta che parlo della Francia, io le voglio ricordare l’esempio di Visconti Venosta. Visconti Venosta, in tempi di Triplice Alleanza, riuscì abilmente ad annodare rapporti con la Francia ad Algesiras. Vero è che Bülow disse che l’Italia ormai era abituata ai giri di valzer, ma la politica di Visconti Venosta assicurò dei grandi successi all’Italia, non certo equiparabili ai successi dell’onorevole De Gasperi!

Come con la Francia, l’onorevole De Gasperi non ha saputo trattare con la Jugoslavia.

Era venuto in Italia il dottor Josip Smodlaka ed io ho qui una sua lettera pubblicata sul giornale Il Popolo.

Scrive il dottor Smodlaka: «La Jugoslavia ha fatto il primo passo per riprendere le relazioni con l’Italia, come fu pubblicamente affermato dal Presidente del Governo Jugoslavo, Maresciallo Tito, senza che nessuno potesse smentirlo, in quanto ero stato inviato proprio io a Roma quale rappresentante speciale con il compito di un accordo diretto con il Governo italiano per le questioni in pendenza fra i due Paesi. E se non si poté pervenire a trattative formali, di ciò il Governo italiano ne porta tutta la responsabilità. Al mio arrivo a Roma, comunicai lo scopo della mia venuta al ministro italiano Togliatti, e, dietro sua richiesta, lo autorizzai ad informare i suoi colleghi dello scopo della missione. Nel corso delle conversazioni in cui era apparsa la possibilità di un accordo, Togliatti ed io siamo giunti alla conclusione che, per iniziare le trattative, bisognava creare prima di tutto un’atmosfera adatta. Mentre io avevo il compito di comunicare al nostro Governo i desiderati italiani, il signor Togliatti si era dichiarato d’accordo con me che il Governo italiano dovesse dare pubblica sodisfazione alla Jugoslavia per tutte le ingiustizie e le prepotenze sofferte dalla stessa per gli attacchi italiani. Togliatti mi aveva pure promesso formalmente di parlarne ai colleghi del Governo e di riferirmene l’esito. Rimanemmo senza risposta».

Certo, bisognava trattare con la Jugoslavia con mentalità adeguata, che non era quella dell’onorevole De Gasperi. L’onorevole De Gasperi ha trattato sempre come una specie d’imperatore della Cocincina, mirando tutto e tutti dall’alto in basso, come se dovesse non domandare, ma concedere qualche cosa. Egli merita il rimprovero di Churchill, il quale disse che il Governo italiano agì sempre come se l’Italia avesse vinto la guerra e l’Inghilterra e le altre potenze l’avessero perduta.

Se l’onorevole De Gasperi, anziché scrutare le nuvole, avesse volto gli occhi a terra, si sarebbe accorto che con la Jugoslavia vi era possibilità di una intesa giusta, d’una intesa feconda di bene.

L’onorevole De Gasperi è il responsabile del mancato accordo con la Jugoslavia.

È questione che gli uomini non si improvvisano.

L’onorevole De Gasperi, solo per la conoscenza di qualche lingua, ha creduto di poter fare il ministro degli esteri e di riuscire a barcamenarsi astutamente sul terreno internazionale; ma il risultato è stato che è fallito in pieno. Perché non s’è ispirato all’esempio di Venizelos?

Nell’ultima guerra Venizelos era detestato da tutti, amici e nemici; ma era uomo pieno di tatto e di abilità. Egli con il lungo insistere, con una pazienza da certosino, con le sue argomentazioni serrate, finì col vincere ogni resistenza. In ultimo egli riuscì a raddoppiare il territorio nazionale greco.

L’onorevole De Gasperi è, mi dicono, uno studioso; ma forse non si è mai interessato di storia diplomatica. Io voglio ricordare a lui ed a voi la conferenza di Berlino del 1878. Ebbene, allora Disraeli si trovava in una situatone alquanto grave e con lui il suo paese, l’Inghilterra. Disraeli era circondato dall’avversione più tenace di Bismarck e di Gorgiakoff, il molosso ringhioso tedesco e l’orso zoppo russo. Bismarck e Gorgiakoff volevano assestare qualche colpo mortale alla Gran Bretagna e particolarmente al suo impero coloniale. Erano ormai d’accordo. Si erano sempre odiati. Si unirono strettamente al fine di raggiungere quell’intento. Ma, più i due si accanivano, più divenivano arroganti, più Disraeli si faceva umile e suadente. Egli aveva buon sangue veneziano, era fine, elegante, profumato, subdolo. La sua era una logica impeccabile. I suoi avversari, pur tanto adusati alla schermaglia diplomatica, non avevano mai trovato il punto debole, per colpire quegli che doveva poi essere lord Beaconfield. Il trattato di Berlino richiese parecchio tempo. Alla fine Disraeli uscì vittorioso: ed anziché il tradizionale mazzetto di primule, poté offrire all’innamorata regina Vittoria, su un piatto di malakite verde e azzurra, la corona di imperatrice delle Indie.

Nessuno pretende che l’onorevole De Gasperi avrebbe dovuto e potuto imitare Disraeli: ma era giusto attendersi da lui una più convinta e vigorosa difesa degli interessi italiani. Tale difesa è completamente mancata.

Con la Jugoslavia l’onorevole De Gasperi avrebbe potuto ottenere quello che avesse voluto. Gli slavi, del nord o del sud che siano, sono ben migliori della fama che si è loro fatta. Lo avrebbe potuto ottenere prima che apparisse chiaro alla Russia che l’Italia si era fatta attrarre nel giuoco diplomatico britannico, giuoco consistente nel promettere Trieste sia all’Italia sia alla Jugoslavia. L’onorevole De Gasperi credette alla promessa fatta all’Italia e si strinse alla Gran Bretagna, senza riflettere che, proprio da questa parte, con Attlee e Bevin, come prima con Churchill e Eden, erano i più tenaci e irriducibili nemici dell’Italia.

Seppe l’onorevole De Gasperi della promessa di Trieste fatta dalla Gran Bretagna a re Pietro? È a credersi di no. Ma è molto strano che la notizia, non certo riservatissima, non sia pervenuta all’onorevole De Gasperi. Se non gli pervenne fu a causa dell’insufficienza dei suoi informatori e dei suoi ambasciatori.

Ma la notizia giunse all’onorevole Togliatti e ad altri, e giunse anche a me attraverso il capo dell’Ufficio stampa del reale Governo jugoslavo che, al tempo dell’occupazione alleata della Sicilia, ebbe a comunicarmela a Palermo. (Commenti).

Venne la smentita britannica, ma la smentita britannica, come quasi sempre le smentite diplomatiche, non smentì nulla. La smentita britannica era questa: «Secondo quanto si apprende da alcuni giornali italiani, il capo del partito comunista italiano, onorevole Togliatti, avrebbe, in una intervista concessa dopo il suo ritorno da Parigi, dichiarato che tra il Governo di re Pietro di Jugoslavia e il Governo britannico era stato firmato un patto per cui alla Jugoslavia sarebbe stata attribuita, dopo la guerra, la frontiera dell’Isonzo».

Un patto scritto? Ma nessuno aveva parlato di un patto scritto. Era una smentita gratuita. L’impegno esisteva inequivocabilmente, per quanto il mantenerlo non fosse nelle sole possibilità britanniche e le prevedibili sopravvenute circostanze internazionali, con la caduta del regime monarchico in Jugoslavia, dovessero renderlo frustraneo.

Quando il destino di Trieste fu deciso, così come tutti voi sapete, l’onorevole De Gasperi si meravigliò del mancato impegno britannico, gridò al tradimento, ma non pensò di attribuire alla sua fanciullesca ingenuità il proprio insuccesso con la dolorosa perdita di Trieste.

È una fatalità per il Paese che, alla direzione del Ministero degli esteri, vadano talvolta dei creduloni. Altro che discendenti di Machiavelli! Capitò anche a Cairoli. Cairoli, da galantuomo e da soldato, credette alla parola di un ambasciatore francese che la Francia non sarebbe mai andata a Tunisi. Dopo 48 ore, la Francia era sostanzialmente padrona di Tunisi.

La verità è che, attraverso la inconsistente e incongruente politica estera dell’onorevole De Gasperi, l’Italia è oggi isolata. La Russia si è posta anzi contro di noi. Bisogna assolutamente far sì che questa situazione non perduri; bisogna, per la salvezza d’Italia, che a Capo del Governo si mandi un uomo che sappia riprendere e consolidare i rapporti con tutte le potenze e con la Russia in ispecie. (Commenti – Interruzioni). Quest’uomo è l’onorevole Nitti, soltanto lui. (Interruzioni – Commenti).

Onorevole De Gasperi, occorre non ingannarsi: il nostro Paese è ridotto veramente a mal partito (Interruzioni) per opera sua, per opera della sua insipienza. (Rumori). Dovunque è ansietà, è preoccupazione, è dolore, è miseria. Onorevole De Gasperi, è necessario e urgente che lei si decida ad andar via. (Commenti – Rumori – Interruzioni).

Non vi meravigliate, signori Deputati, che io parli in questo modo, in sede di discussione sulle comunicazioni del Governo, appena dopo costituito un nuovo Gabinetto, perché io considero la crisi ancora aperta: ed è, infatti, virtualmente aperta. Si disilluda l’onorevole De Gasperi che il suo Ministero possa resistere al più lieve stormir di fronde: fra un mese, fra due mesi lei dovrà lasciare il suo posto. Si decida a lasciarlo prima. (Si ride). E ricordi le parole di Alessandro Manzoni: «È un dovere impiegare le proprie forze in servizio della Patria; ma, dopo averle misurate, il lasciar libero un posto importantissimo a chi possa più degnamente occuparlo, è una maniera di servirla».

Vada via, onorevole De Gasperi! (Commenti – Rumori).

E si decida finalmente l’Assemblea Costituente, che è oggi la depositaria unica e vera della sovranità popolare.

Il Trattato, purtroppo, per nostra sciagura, è quello che è. Voi avete perduto molto tempo a discutere, se il Trattato avrebbe dovuto o meno essere firmato prima dal Governo, com’è avvenuto, e poi ratificato da noi. Certo l’onorevole De Gasperi non ha adempiuto al suo dovere verso l’Assemblea Costituente: doveva portarci il Trattato appena gli fu comunicato. Egli avrebbe dovuto cercare e trovare conforto nell’Assemblea Costituente e regolarsi in base alle decisioni dell’Assemblea stessa. Che domani il Trattato, firmato dal Governo italiano, sia portato alla ratifica dell’Assemblea è ovvio; ma l’Assemblea, checché si dica in contrario, non sarà più libera e sarà certamente vincolata dalla decisione del Governo.

Rifiutare la ratifica sarebbe una cosa sciocca. Anche Brokdorf Rantzau rifiutò di firmare, per la Germania, il Trattato di Versaglia, ma, dopo poco tempo, dovette egli stesso sollecitare di sottoscriverlo. Capiterebbe anche a noi la stessa cosa. Occorre, quindi, ratificare il Trattato. E occorre ratificarlo, perché noi non siamo in condizioni di resistere, perché siamo alla mercé dei vincitori. Se essi dirottassero solo alcuni piroscafi carichi di grano diretti in Italia, noi saremmo a terra. E bisogna ratificare il Trattato, perché l’Italia ha d’uopo di entrare nell’Organizzazione delle Nazioni Unite; ha d’uopo di prendere parte alle decisioni che dovranno prossimamente esser prese su problemi urgenti ed interessanti la vita presente e l’avvenire del nostro Paese. Per esempio: le denunzie di due Trattati, quello di Montreux, da parte sovietica, e quello anglo-egiziano, da parte del Governo del Cairo, hanno riportato sul terreno della discussione internazionale gravi problemi, cui la situazione politica determinatasi dopo la guerra impone nuove soluzioni. Si tratta, nientemeno, che del passaggio dei Dardanelli, di Suez e del Panama. Se non ratificheremo il Trattato di pace, non potremo partecipare né alle conferenze che si terranno al riguardo, né agli ulteriori accordi che dovranno su questo o su altro campo essere presi.

Io vi dico schiettamente una mia personale opinione.

Una voce a destra. E le altre opinioni non erano personali?

FINOCCHIARO APRILE. La mia opinione è questa: che il Paese attende che a Capo del Governo sia un altro uomo (Interruzioni – Commenti). Il nome di questo altro uomo è sulla bocca di tutti; è quello, ripeto, di Francesco Nitti… (Commenti). Francesco Nitti, per esperienza, per competenza, per preparazione in materia finanziaria ed economica, per relazioni internazionali è veramente l’uomo capace che potrà, forse, tentare il salvataggio dell’Italia ed io vi dico che, nel supremo interesse del popolo, noi dobbiamo auspicare fervidamente che l’onorevole Nitti vada, al più presto, alla direzione del Governo; noi dobbiamo auspicare fervidamente che il timone dello Stato sia finalmente in mani più pure e in mani veramente italiane come le sue. (Rumori – Vivissime proteste al centro – (Commenti).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. (Vivissimi applausi). Circa le affermazioni politiche di questo, per tanti aspetti, inqualificabile discorso, mi riservo di rispondere – se sarà il caso – alla chiusura di questo dibattito. (Vive approvazioni).

Per quello che mi riguarda personalmente, il modo con cui il precedente oratore ha osato parlare della mia persona non mi permette di rispondere per fatto personale (Vivissimi applausi al centro), ma ho il dovere di deplorare vivamente e protestare indignato contro le infondate insinuazioni dirette contro membri del mio Governo. (Vivissimi applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per fatto personale l’onorevole Romita. Ne ha facoltà.

ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. L’onorevole Finocchiaro Aprile ha fatto contro di me due affermazioni, che se fossero minimamente vere, smentirebbero la stessa patente di onestà da lui riconosciutami. Ha detto che io ho popolato il Ministero dei lavori pubblici di impresari e di costruttori. Quello che affermo non viene smentito: non ho introdotto al Ministero dei lavori pubblici né un impresario, né un costruttore; non mi sono mai occupato né direttamente né indirettamente, né in senso positivo né in senso negativo, di qualsiasi impresa o di qualsiasi costruttore italiano.

Ha detto che io, come ex impiegato della impresa Cidonio, ho favorito l’impresa Cidonio. Fui impiegato anni or sono e per pochi mesi nella impresa Cidonio. All’impresa Cidonio non ho dato nulla e, a quanto mi risulta, dal mio Ministero non ha avuto un soldo di lavoro e ciò in conformità dei miei ordini. Non mi sono mai occupato né direttamente, né indirettamente dell’impresa Cidonio, che nulla mai mi ha domandato.

Ha chiesto inoltre come ho distribuito i 10 miliardi dal Tesoro concessimi. I 10 miliardi sono stati non da me, ma dal Ministero, distribuiti alle varie Regioni d’Italia, a seconda delle richieste, ai prefetti, provveditorati, comuni, autorità locali. Nessuna persona quindi ha avuto un soldo di lavoro da me. Ed a proposito di questo, un’altra smentita: mi si dice che il Ministro ha il torto di essere piemontese. Dei 10 miliardi, o colleghi, nonostante che al Ministero dei lavori pubblici ci fosse un Sottosegretario piemontese, l’onorevole Restagno, e un Ministro piemontese, Romita, ed al Tesoro un Ministro pure piemontese, l’onorevole Bertone, dei 10 miliardi tutte le Regioni d’Italia hanno beneficiato; il Piemonte non ha avuto nemmeno un centesimo. (Vivi applausi a sinistra e al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare, per fatto personale, l’onorevole Ministro delle finanze e del tesoro. Ne ha facoltà.

CAMPILLI, Ministro delle finanze e del tesoro. In mia assenza, l’onorevole Finocchiaro Aprile ha osato fare degli apprezzamenti generici che potrebbero interpretarsi come lesivi della mia onorabilità per l’attività da me svolta nella vita privata. Dichiaro decisamente che nessuna delle molte forme della mia attività di lavoro può dare motivo comunque a insinuazioni del genere, che dimostrano soltanto la irresponsabilità di chi le ha pronunciate. (Vivi applausi al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare, per fatto personale, l’onorevole Gronchi. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Ho esitato alquanto a mantenere la mia domanda di intervento per fatto personale perché discorsi come quelli dell’onorevole Finocchiaro Aprile si qualificano da sé. Però io ho già detto, sia a nome mio personale che dei miei amici, che egli se è un galantuomo deve precisare le generiche accuse che ha lanciato, ed aggiungo ora che se non lo farà egli avrà – secondo il mio parere personale e quello dei miei amici – la scelta tra la definizione di commediante pazzo o di volgare mentitore. (Vivi applausi al centro – Commenti).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Finocchiaro Aprile per fatto personale. Ne ha facoltà. (Rumori – Commenti).

Una voce. Ha il diritto di replicare.

FINOCCHIARO APRILE. Il Presidente del Consiglio, toccato dalle mie ultime parole con le quali auspicavo che il Governo fosse in mani veramente italiane… (Vivissimi rumori – Proteste – Vivaci apostrofi dal centro).

Voci. Non si può più tollerare!

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, io l’ho già richiamata all’ordine due volte e dovrei a questo punto ricorrere alle sanzioni previste dal Regolamento. È la seconda volta che lei offende un membro dell’Assemblea, che è anche Presidente del Consiglio, dichiarando che non è italiano. (Vivissimi applausi).

FINOCCHIARO APRILE. L’onorevole Presidente del Consiglio, toccato dalle mie ultime parole con le quali auspicavo che il Governo fosse in mani veramente italiane… (Vivissimi rumori – Proteste – Interruzioni – Apostrofi dal centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Presidente del Consiglio ha chiesto che l’onorevole Finocchiaro Aprile continui a parlare, riservandosi di replicare. (Commenti).

FINOCCHIARO APRILE. L’onorevole Presidente del Consiglio, toccato dalle mie ultime parole con le quali auspicavo che il Governo fosse in mani veramente italiane… (Agitazione vivissima – Tumulto).

PRESIDENTE. Sciolgo la seduta.

La seduta termina alle 20.10.

GIOVEDÌ 13 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XXXVI.

SEDUTA DI GIOVEDÌ 13 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Interrogazioni (Svolgimento):

Carpano, Sottosegretario di Stato per l’interno                                                     

Spano                                                                                                                

Bettiol                                                                                                             

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Presidente                                                                                                        

Bonomi Paolo                                                                                                  

Nobile                                                                                                               

Cingolani Mario                                                                                              

Valiani                                                                                                             

Saragat                                                                                                            

Mazza                                                                                                               

Caso                                                                                                                  

Interpellanze e interrogazioni d’urgenza:

Codacci Pisanelli                                                                                            

Presidente                                                                                                        

Micheli                                                                                                             

Pella, Sottosegretario di Stato per le finanze                                         Gabrieli      

Canevari                                                                                                          

Romita, Ministro del lavoro e della previdenza sociale                                        

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Mastino Pietro                                                                                                

Priolo                                                                                                               

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca lo svolgimento della seguente interrogazione: Spano, Pratolongo, Pellegrini, Longo, ai Ministri dell’interno e degli affari esteri, «per conoscere per quale motivo non sono state prese le opportune precauzioni allo scopo di proteggere la sede della Delegazione Jugoslava presso la Commissione consultiva per l’Italia; e per sapere quali misure sono state adottate a carico dei funzionari sui quali ricade la responsabilità dei deplorevoli incidenti di lunedì, 10 febbraio».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di parlare.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. In occasione della firma del trattato di pace si sono svolte manifestazioni in molti centri d’Italia, senza dar luogo ad inconvenienti. A Roma, durante una cerimonia svoltasi all’altare della Patria, vi è stato un lieve incidente, che peraltro non ha avuto alcun rilievo, per la rimozione di una corona depostavi qualche giorno prima dall’Ambasciatore americano.

Per quanto riguarda i fatti accaduti in Via Quintino Sella, si deve premettere che in detta strada, al n. 56, ha sede un ufficio dipendente dalla Delegazione Jugoslava presso il Comitato Consultivo per l’Italia, la cui sede ufficiale si trova in Via Monte Parioli n. 24, e che non costituisce comunque sede coperta da immunità diplomatica.

Pertanto la Questura aveva disposto, a titolo puramente precauzionale, un servizio di vigilanza con due guardie di pubblica sicurezza in borghese, come da richiesta fattale ed un carabiniere, in relazione sia al carattere dell’Ufficio, sia anche alla opportunità di non richiamare su di esso l’attenzione del pubblico, cui non era noto anche per la mancanza di ogni segno esteriore.

Di fronte a tale Ufficio ha sede il Comando della Divisione dei Carabinieri e, non appena è apparsa la folla dei dimostranti, sono scesi fuori dalla Caserma 7 carabinieri armati di moschetto, oltre ad un maresciallo, ad un ufficiale dell’Arma, nonché un Commissario di pubblica sicurezza.

Il gruppo di dimostranti passava casualmente per Via Quintino Sella, di ritorno dalla cerimonia di Piazza Venezia, e l’attenzione sull’edificio fu attirata, nella particolare circostanza, dalla bandiera jugoslava, esposta per la prima volta in quel giorno.

I dimostranti ne chiedevano il ritiro, mentre circa un centinaio di essi, sopraffacendo le guardie ed i carabinieri che cercavano di opporvisi e travolto il Commissario di pubblica sicurezza, salivano la scala.

Al terzo piano costoro trovarono chiusa la porta che tentavano di forzare; veniva sparata dall’interno, dal personale degli uffici, una raffica di mitra a scopo intimidatorio; dopo di che i dimostranti si allontanavano.

Sul posto si recavano subito il Questore ed il Vice Questore; con l’ausilio di rinforzi fatti affluire si ristabiliva l’ordine.

Non si lamentano danni alle persone e si è verificata soltanto la rottura di due vetri.

Il Questore, immediatamente, ha espresso il suo rammarico per l’increscioso incidente al rappresentante jugoslavo, disponendo pure opportune misure di protezione.

Sono in corso, tuttavia, ulteriori accertamenti per valutare l’opera svolta dagli organi di polizia nell’incidente, soprattutto ai fini di stabilire la tempestività dell’intervento dei rinforzi disponibili, e per quei provvedimenti che al caso si ravvisassero opportuni.

PRESIDENTE. L’onorevole Spano ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

SPANO. Se fossimo stati in circostanze ordinarie e gli avvenimenti che noi abbiamo lamentato e sui quali abbiamo interrogato il Ministro dell’interno fossero avvenuti in circostanze ordinarie, forse per pura e semplice cortesia ci si sarebbe potuti dichiarare soddisfatti: E dico per cortesia, perché è difficile tuttavia dichiararsi soddisfatti di una informazione nella quale ci si dice che la folla è passata «casualmente» di fronte a una sede consolare, nella quale pare sia considerata una provocazione l’esposizione della bandiera di una delle Nazioni Unite.

Una voce a destra. Che cosa strana!…

SPANO. Che sia considerata una provocazione pare dal contesto stesso della risposta del Sottosegretario di Stato per l’interno; ma sta di fatto che noi non eravamo in quel giorno in circostanze ordinarie. Gravi e delicate erano le circostanze e grave è il fatto che gli episodi accaduti non possano essere considerati come isolati in una giornata in cui questi avvenimenti si sono svolti «casualmente», come dice il Sottosegretario di Stato. La verità è che quel giorno l’Italia protestava. Tutto il popolo italiano protestava nell’ordine e manifestava il suo cordoglio e la sua indignazione per l’ingiusto trattato che ci veniva imposto. Era particolarmente necessario quel giorno che questa protesta apparisse come la protesta di tutto il popolo italiano e della sua volontà di rinnovamento. Era particolarmente pericoloso che questa protesta si confondesse con provocazioni fasciste ed assumesse il volto della provocazione fascista. È proprio quello che le autorità di polizia non hanno saputo impedire. Questi incidenti, del resto, non sono stati uno solo, poiché si è rimosso un nastro di una corona americana, si è attaccato il Consolato Jugoslavo, si è manifestato in modo indegno contro le forze armate delle Nazioni Unite e alcuni rappresentanti di esse sono stati picchiati. Le reazioni a queste provocazioni fasciste non sono venute dalle forze di polizia, dalle quali sarebbero dovute venire, ma sono venute dalla spontanea indignazione delle masse popolari, dalla spontanea indignazione dei lavoratori, i quali, manifestando la loro protesta, intendevano darle un carattere di italianità e non un carattere fascista.

Ma, ripeto, sarebbe stata forse ancora soddisfacente la risposta del Sottosegretario di Stato per l’interno, se gli episodi di quel giorno fossero stati isolati e non avessero avuto precedenti. Disgraziatamente i precedenti ci sono, e gravi, talmente gravi da preoccupare tutto il Paese; e noi pensiamo che dovrebbero in primo luogo preoccupare il Ministro degli interni e le Autorità di polizia. Si sta creando, in Italia, o si sta ricreando, sulla base della giusta protesta e della giusta indignazione del popolo italiano, un’atmosfera pericolosa per il nostro Paese, un’atmosfera nella quale possono avvenire fatti come quelli lamentati non molti giorni fa a Pola, dove una impiegata italiana, inviata dall’Italia e alle dipendenze dell’addetto alla Commissione Pontificia, ha assassinato un generale inglese. (Rumori, proteste a destra e al centro – Interruzioni dell’onorevole Miccolis).

Poiché si leva da codesti settori una tale protesta, forse voi ne sapete qualche cosa di questa impiegata, assassina di un generale inglese. È evidente che ciò denuncia una complicità, per lo meno morale. (Rumori vivissimi – Proteste al centro e a destra – Interruzioni dell’onorevole Miccolis).

Sta di fatto che un generale inglese è stato assassinato a Pola da una fascista. (Vive proteste all’estrema destra – Interruzioni dell’onorevole Miccolis).

PRESIDENTE. Onorevole Miccolis, la richiamo all’ordine.

SPANO. Sta di fatto che un console jugoslavo è stato assassinato…

Una voce a destra. Ma da chi?

SPANO. D’altra parte, questi avvenimenti sono senza dubbio collegati con l’ambiente arroventato che si sta creando in queste settimane nelle regioni giuliane, dove tutti i democratici più in vista ricevono lettere minatorie a firma d’una sedicente divisione Gorizia o di altre organizzazioni, che si nascondono sotto le apparenze più tenebrose.

Sono avvenuti altri fatti: bombe sono state lanciate contro le abitazioni e contro le sedi di organizzazioni democratiche in queste ultime settimane a Monfalcone, Cormons, Gradisca e Gorizia.

Il fatto che questi avvenimenti si susseguono, e nella regione giuliana e nel resto del territorio italiano, ha conseguenze particolarmente gravi; il nostro Paese e il nostro Governo si trovano in questo momento di fronte alla necessità di creare un’atmosfera nella quale possano essere risolte le gravi questioni internazionali che si pongono alla popolazione giuliana ed al popolo italiano in generale.

Ora, i provvedimenti presi dalle Autorità di pubblica sicurezza, proprio nel giorno in cui il popolo italiano protestava contro il trattato di pace imposto, nella situazione che vivevamo in quei giorni, appaiono assolutamente insufficienti.

E non è a dire che il Ministero dell’interno potesse contare sullo zelo e sullo spirito di vigilanza della polizia italiana.

Da quello che ci risulta, i capi della polizia italiana sono ancora quelli che si sono preoccupati sovrattutto di emanare circolari contro il partito comunista negli ultimi mesi.

Sono ancora i signori inventori della «Troika». Noi non crediamo che il Ministero dell’interno possa in modo molto semplicistico affermare di avere fiducia in questi dirigenti della polizia, per la difesa del buon nome italiano. Vengano prese, pertanto, le misure necessarie ad evitare incidenti incresciosi per tutti gli sviluppi della politica italiana.

Per questo ci dichiariamo assolutamente insoddisfatti della risposta del Sottosegretario di Stato per gli affari interni.

BETTIOL. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Non posso darle facoltà di parlare, perché siamo in sede di interrogazioni.

BETTIOL. Per fatto personale: si è parlato di Gorizia, Monfalcone, Gradisca; posso rispondere. (Commenti – Rumori).

PRESIDENTE. Non c’è il fatto personale. Ha chiesto di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Egregi colleghi, sentiamo tutti dobbiamo sentire tutti la responsabilità nostra innanzi ad una situazione così tesa.

Innegabilmente il trattato ha portato nell’animo italiano una reazione che in altri tempi, senza la disciplina di cui va data lode alle masse popolari, ci avrebbe portato a ben diversi conflitti. (Applausi).

Io dico, ripetendo con ciò le dichiarazioni del Sottosegretario per l’interno, che è riservata ancora un’ulteriore inchiesta circa la sufficienza o l’insufficienza, la tempestività o non tempestività dei provvedimenti di polizia. Però non posso accettare l’interpretazione generica che, dopo una panoramica rassegna di fatti che hanno o non hanno connessione con quello che formava oggetto dell’interrogazione, conclude con un voto di sfiducia ai direttori della polizia sui propositi, sulle intenzioni, sulla mentalità di mantenere l’ordine a qualunque costo, contro chiunque lo disturbi, da qualunque parte venga. Su questo mi pare che anche nei riguardi dei dirigenti di polizia non si possa dubitare. Circa la sufficienza o l’insufficienza, abbiamo ancora da riesaminare la questione, come ha già detto il Sottosegretario di Stato per l’interno.

Devo aggiungere però che trovo del tutto inadeguato, fuori di proposito, che si citi il fatto gravissimo di Pola, per il quale abbiamo espresso il nostro profondo rincrescimento. Esso deve essere considerato sotto due aspetti: che la vittima è completamente fuori causa nella questione del trattato; che un’italiana sia ricorsa a simili mezzi per manifestare la propria indignazione. Complicità da parte delle autorità italiane o del pubblico italiano non ve ne possono essere. E c’è una prova, onorevole Spano, che finora non è ancora conosciuta, ma che è di una gravità particolare: le autorità alleate erano state avvertite che la signorina Pasquinelli aveva manifestato tali propositi, o propositi similari, ed erano state messe in guardia. Erano le autorità alleate responsabili dell’ordine pubblico nella città di Pola, non noi! (Applausi al centro e a destra).

Devo aggiungere ancora che, contrariamente a quello che è stato pubblicato su un giornale, non è vero che la signorina Pasquinelli sia stata delegata o mandata a Pola da qualsiasi organo statale o parastatale. Anzi, la signorina Pasquinelli, essendo conosciuta come una esaltata, era stata licenziata dal Comitato di liberazione nazionale di Trieste qualche tempo fa, e si era recata a Pola partendo da Milano. E in quella occasione era stato dato il monito, o l’avviso a cui mi sono riferito. A Pola s’era messa a disposizione del Comitato esodo, il quale è completamente indipendente, sia da qualsiasi altro centro di assistenza che si trovi in Italia, sia in modo particolare dal Comitato interministeriale che cerca di assistere coloro che hanno voluto, nonostante le sollecitazioni da parte del Governo, abbandonare Pola in uno stato d’animo che ci è stato assolutamente impossibile di frenare. Dinanzi a questa volontà energica, tragica, eroica, che cosa resta al Governo italiano, se non di fare di tutto perché essi siano bene accolti? (Applausi al centro e a destra).

Quindi, non tentiamo di allargare gli amari incidenti che sono avvenuti, collegandoli l’uno all’altro. C’è naturalmente, nello sfondo, la reazione contro il trattato di pace. Ma, lo ripeto, pensate, se ciò fosse avvenuto nell’immediato dopo-guerra dell’altra guerra, nel 1919 o nel 1918, quale sarebbe stato lo stato d’animo, quale l’effervescenza.

Riconosco che ciò è un merito, soprattutto della maggiore disciplina delle masse popolari, (Approvazioni a sinistra) ma devo dire che anche da parte degli organi dello Stato si è fatto di tutto per calmare una reazione. Lo stesso contegno, lo stesso atteggiamento che ha tenuto il Governo qui, e le istruzioni date alle autorità di pubblica sicurezza, ve ne fanno garanzia. Vi prego di non guastare questo atteggiamento con polemiche e discussioni tra fascismo e antifascismo. Non so se questa signorina sia stata o no fascista; il fatto è che, anche se non fosse stata fascista il fatto sarebbe purtroppo spiegabile anche da uno stato di eccitamento generale, anche al di fuori e al di sopra del fascismo. Comunque, deploriamo l’accaduto, ed uniamoci con un senso di pace e di responsabilità. (Vivi applausi al centro).

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ricordo all’Assemblea quanto è stato convenuto ieri: che si debbano cioè contenere i discorsi in limiti quanto più è possibile sobri. Ricordo anche che chiunque sia iscritto non potrà rifiutarsi di parlare fino alle ore 20. Non sarà ammessa nessuna richiesta di rinvio.

È inscritto a parlare l’onorevole Bonomi Paolo. Ne ha facoltà.

BONOMI PAOLO. Onorevoli colleghi, parlo a nome della Confederazione nazionale dei coltivatori diretti. Mi riferirò unicamente alle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, che riguardano problemi dell’agricoltura e problemi dell’alimentazione.

Tre mesi or sono, il Congresso nazionale della Confederazione dei coltivatori diretti, che interpreta i voti, i desideri e le aspirazioni della grande massa dei piccoli agricoltori e dei coltivatori diretti, discusse vari problemi importanti e li presentò all’attenzione del Governo, al quale chiese in modo particolare la proroga dei contratti e la perequazione dei canoni di affitto, la conversione in legge del lodo De Gasperi, l’estensione ai coltivatori diretti delle assicurazioni malattia, chirurgica, ospedaliera e tubercolosi. In quell’occasione, il Presidente del Consiglio, il Ministro dell’agricoltura e il Ministro del lavoro, intervenuti al Congresso, assicurarono ai coltivatori diretti che i loro desideri non sarebbero andati delusi. L’altro giorno, il Presidente del Consiglio, con le sue dichiarazioni, ha mantenuto le promesse. Con i provvedimenti annunciati, ritorna la pace nelle campagne, ritorna il sereno in mezzo ai lavori dei campi.

Il Presidente del Consiglio, l’altro giorno, ha assicurato che immediatamente uscirà il provvedimento per la proroga dei contratti d’affitto ed è necessario su questo problema dire una parola, perché, da tante parti, qualcuno incomincia già a protestare in nome di non so quale libertà. Vorrebbero tanti proprietari essere liberi, alla fine di quest’anno in corso, di fissare i canoni di affitto più convenienti per i proprietari terrieri, e non, logicamente, per gli affittuari. È vero che la proroga non è un provvedimento perfetto; è vero che la proroga può, in ultima analisi, essere considerata come un male minore, come il minore dei mali; ma quando si dice, da qualche parte, che continuare a prorogare i contratti di affitto danneggia la produzione, e che in qualche famiglia le unità lavorative sono aumentate, ed è quindi necessario, anzi indispensabile, passare a più vaste estensioni di terra, occorre tener presente anche il rovescio della medaglia. Se dovessimo lasciar liberi gli affitti in questo momento, dato che tanta gente vuol tornare alla terra e le domande di terra aumentano, vedremmo i canoni salire alle stelle: proprio questa è la ragione principale che spinge i proprietari terrieri a chiedere la libertà e a combattere la proroga.

Ma ai proprietari, e specialmente ai piccoli proprietari, io ricordo che la proroga è conseguenza della guerra. È vero che con la proroga guadagneranno meno – guadagneranno sempre, sia detto fra parentesi – ma è anche giusto che la guerra sia pagata da tutti. Finora chi paga la guerra? Le masse degli operai, degli impiegati, dei pensionati, di coloro, cioè, che dal lavoro, dallo stipendio, dal salario non ricavano l’indispensabile per vivere. Le conseguenze della guerra, le pagano anche i proprietari dei beni urbani, che non solo hanno la proroga dei contratti d’affitto, ma anche del quid dell’affitto, e dall’affitto ricavano oggi cifre irrisorie.

Per i proprietari terrieri non c’è, invece, il blocco dei canoni, ma soltanto la proroga dei contratti.

Già un anno e mezzo fa, attraverso il decreto Gullo, i canoni in danaro sono stati perequati: e non si dimentichi che se è vero che a causa della proroga in qualche caso i proprietari terrieri guadagnano poco, essi peraltro hanno un capitale che non è stato deprezzato, ma che è aumentato di dieci, di venti ed anche di trenta volte. Per questo noi chiediamo la proroga dei contratti d’affitto, e non per un anno ma per tre anni, perché la proroga per un solo anno significherebbe sfruttamento irrazionale della terra. Infatti, se il contadino non ha la certezza di restare sul fondo almeno per tre anni, finisce per praticare un’agricoltura di rapina.

Ma non è sufficiente il decreto di proroga dei contratti d’affitto: occorre qualche altra cosa. Ci vogliono le condizioni per l’equo canone d’affitto, quelle condizioni che il Ministro dell’agricoltura ha già preparato dopo averle discusse con le varie organizzazioni.

Perché, onorevoli colleghi, quelli di voi che hanno un po’ di pratica di questioni agricole, sanno in quali condizioni si trovano gli affittuari, ad esempio, delle provincie di Napoli e Caserta, dove vi sono affitti che arrivano al 60, al 65, e anche al 70 per cento della produzione lorda.

C’era nel periodo borbonico una precisa disposizione che vietava gli affitti, riferiti alla misura locale, a non più di due fasci di canapa. Oggi, nel ventesimo secolo, in qualche zona della provincia di Napoli e di Caserta, gli affitti sono saliti da due e mezzo a oltre tre fasci di canapa, più le onoranze.

Questa è la realtà.

In alcuni casi si è cercato di arrivare ad un accordo. L’Associazione degli agricoltori di Napoli aveva firmato un accordo per una riduzione del 25 per cento degli affitti. Però i proprietari si sono rifiutati di eseguire l’accordo e non intendono concedere alcuna riduzione. Questa è la realtà contro cui lottano oggi gli affittuari.

Questo non accade soltanto nelle provincie di Napoli e Caserta. Anche a Mantova e a Verona, per esempio, troviamo affitti che raggiungono le 70 o 75 mila lire per ettaro, affitti assolutamente insopportabili, affitti riferiti a uva, a latte, a formaggio, che non possono essere più pagati dagli affittuari. È necessario, quindi, che il Governo intervenga e intervenga con quelle Commissioni paritetiche presiedute da un magistrato, che potranno domani perequare gli affitti esagerati. E non dimentichiamo una cosa: un po’ tutti i partiti hanno detto e ripetuto, durante e dopo le battaglie elettorali, che vogliono il diffondersi, il potenziamento delle piccole aziende; ma andare di questo passo, se lasciate questi affitti, significa non diffondere e potenziare, ma distruggere le piccole aziende.

L’altro ieri, il collega Perrone-Capano si è lamentato della legge sulle terre incolte e mal coltivate; ha protestato e attaccato la legge Segni. Devo dire che l’onorevole Perrone-Capano aveva perfettamente ragione di lamentarsi, di gridare, di protestare. Per quale ragione? Per una ragione semplicissima: che, con questa seconda legge sulle terre incolte e mal coltivate, gli agrari e i grossi proprietari sono stati costretti realmente a dare la terra e, se volessimo consultare le statistiche, troveremmo che hanno dovuto concedere varie migliaia di ettari di terra. Con la precedente legge Gullo era troppo facile per il proprietario dire ed affermare che le terre incolte non c’erano o erano destinate al pascolo. È proprio quella dizione specifica messa dal Ministro Segni, cioè «per una coltura migliore», che costringe il proprietario a dare la terra. Terre incolte non ce ne sono: che interesse avrebbe il proprietario a pagare le tasse e mantenere le terre incolte? Che interesse avrebbero a fare altrettanto gli affittuari? Quindi, ai contadini non bisogna dare terre che non fruttano, ma quelle terre che sono suscettibili di una coltivazione più intensiva, di una produzione maggiore. Aveva perfettamente ragione il collega Perrone-Capano, ma non doveva attaccarsi ad una questione di forma, bensì ad una questione di sostanza.

Sia chiaro che su questa strada il Governo ha fatto qualche cosa, ma questo non è sufficiente. Bisogna andare ancora oltre, e non basta dare le terre ai contadini; bisogna dare anche i mezzi ai contadini per lavorare la terra: bisogna dare aratri e trattori. Qui è assente il Ministro dell’industria; ma, se non erro, ultimamente si trattava di importare dei trattori da dare ai contadini. Ebbene, gli industriali hanno riposto che non era necessario importare i trattori, perché l’industria italiana era in condizioni di produrre tutto quello che era necessario per lavorare la terra. E poi, voi andate in giro – come è capitato a me quindici giorni fa – nella zona di Cassino, martoriata dalla guerra, e vedete aggiogati all’aratro non buoi, né cavalli, ma la moglie e i figli del colono o del coltivatore diretto! Questa è la realtà!

Il Presidente del Consiglio si è dichiarato quasi soddisfatto dell’ammasso dei cereali, ma non altrettanto quasi soddisfatto della disciplina del latte e dei grassi. Io vorrei dire al Presidente del Consiglio e agli altri membri del Governo: la disciplina del latte non ha dato risultati soddisfacenti per quella ragione precisa che ancora una volta abbiamo fatto presente agli organi di Governo ed agli organi interessati prima ancora che la legge venisse emanata. Non si può, con una bella legge, con un articolo, regolare tutto, livellare tutto. Prima che questa disciplina andasse in vigore il prezzo del latte variava nelle diverse provincie da 16 lire a 65 lire il litro; improvvisamente si pensò che era possibile con una norma legislativa stabilire per tutte le provincie il prezzo di 28 lire, senza portare un beneficio al consumatore di latte alimentare e di prodotti caseari. È impossibile attuare questa disciplina, perché le provincie che già vendevano latte industriale a 55, a 60, a 65 lire il litro, difficilmente accetteranno le disposizioni ministeriali.

Ma c’è ancora qualcosa di peggio. Il decreto stabilisce il prezzo del latte a 28 lire alla stalla. Era stato stabilito negli accordi di Commissione 32 lire; non sappiamo per quale ragione è diventato 28 lire. Si stabilisce poi una integrazione, per una cassa conguaglio, giustamente al fine di non fare aumentare il prezzo alimentare delle grandi città, di 6 lire, di modo che il latte che andrà alla lavorazione, il latte industriale verrà pagato dai signori industriali non 28, ma 34 lire. Ma, io mi chiedo, come mi sono già chiesto e come ho già chiesto alla Presidenza del Consiglio, al Ministro Macrelli, che era Presidente di una Commissione per questo problema, come mi sono già chiesto anche alla terza Sottocommissione per l’esame delle leggi, dove un ordine del giorno preciso è stato presentato, mi chiedo questa cosa semplicissima: se il latte industriale non costa, non vale, in base alle quotazioni del burro e dei formaggi, 34 lire, ma vale 45, 50, 55, 60 lire, a beneficio di chi andrà la differenza? La risposta, onorevoli colleghi, è molto semplice. Non a beneficio del consumatore, perché, in questo caso, sarei pronto a dichiararvi che i produttori sarebbero lieti di sottoscrivere questa disciplina; ma invece fino ad oggi possiamo affermare senza tema di smentite che il beneficio va esclusivamente a favore dei grandi industriali caseari del latte. E se si compilasse una statistica – e vorrei che il Ministero delle finanze facesse questa statistica – si rileverebbe che chi acquista continuamente terreni da tutte la parti, ed offre invece di 2 o 3 milioni per un terreno anche 4, 5, 6 milioni, è la massa degli industriali caseari, prima che degli agricoltori.

Che cosa si può fare? Ho fatto già presente all’Alto Commissario del tempo, Mentasti, che bisognava modificare questa situazione; modificarla in questo senso: fermo restando il prezzo del latte alimentare per la popolazione meno abbiente, fermo restando il prezzo del burro da distribuire con la tessera, se gli industriali, attraverso la vendita dei prodotti caseari – e mi sia permesso di dire che nessuna disciplina riuscirà a regolarli attraverso i prezzi, attraverso i calmieri – se gli industriali guadagneranno di più attraverso i prodotti industriali, formaggi, grano e via di seguito, il prezzo del latte al produttore deve essere non un prezzo fisso di 28 lire, ma un prezzo riferito a quelli dei prodotti caseari.

L’onorevole Mentasti, assente quando è stata preparata questa disciplina, si è dichiarato d’accordo sul mio punto di vista e ha interessato il Presidente del Consiglio per la modifica della legge.

Non chiediamo al Governo di modificare il prezzo del latte alimentare, né il prezzo del burro; chiediamo soltanto di far sì che questa categoria di industriali non abbia a guadagnare sulle spalle di chi lavora, sulle spalle dei produttori agricoli. Nient’altro che questo.

Ammasso dell’olio. Anche il Ministro dell’agricoltura, Segni, si è dichiarato non sodisfatto del suo andamento. Avevamo chiesto noi di tentare un ammasso per contingente. Il Ministro ha accettato la nostra proposta e il Ministero tenta, con la collaborazione delle organizzazioni sindacali, di far riuscire questo ammasso per contingente. C’è qualche provincia però che ha fatto molto male. Ma mi sia permesso di dirlo, perché già l’ho scritto ai vari Ministri competenti, e quindi anche al Ministro Segni, che dal lavoro fatto dalle nostre Commissioni che si sono recate a Bari, a Reggio Calabria, a Firenze, risulta che l’intralcio alla realizzazione di questo ammasso per contingenti non è dato dagli agricoltori, dai produttori ed in special modo dai produttori piccoli, ma da certi frantoiani che nascondono l’olio e lo vendono alla borsa nera. Abbiamo richiamato l’attenzione del Ministro dell’agricoltura, del Ministro dell’alimentazione, dell’UPSEA. Bisogna provvedere perché, se si son messi ieri in prigione i contadini che non hanno consegnato qualche quintale di grano, si agisca con necessaria energia anche nei confronti di questi industriali frantoiani. (Applausi).

Ma sulla questione dell’ammasso, me lo permetta il Presidente del Consiglio, io qui ho oggi il dovere di esprimere anche quello che pensano i coltivatori diretti, la massa degli agricoltori italiani. L’ammasso del grano è andato discretamente bene: 22 milioni di quintali ammassati. Gli agricoltori hanno fatto il loro dovere.

Se voi andate in questo periodo a visitare le carceri, troverete, accanto ai delinquenti comuni, degli agricoltori, dei coltivatori, responsabili di aver trattenuto qualche quintale di grano in più dei consentiti due quintali per persona, assolutamente insufficienti per un contadino che lavora dieci, dodici e anche quindici ore al giorno.

C’è della gente in Italia che fa la borsa nera, che guadagna milioni, onestamente e disonestamente. Io mi chiedo, si chiedono i contadini di tutta Italia: se i momenti sono duri e difficili, se questo è il momento della solidarietà e non dell’egoismo, il momento in cui bisogna saper guardare indietro, a chi sta peggio, e non davanti, a chi sta meglio di noi, perché non si agisce con la necessaria severità anche nei confronti delle altre categorie?

Noi vediamo, ad esempio, che sotto le finestre del Commissariato dell’alimentazione, o poco lontano, si venda pubblicamente, sfacciatamente, a quintali, il pane (dico a quintali perché l’altro giorno, mentre passavo per il Trionfale, ho visto un carrettino con almeno mezzo quintale di «sfilatimi» di pane che scaricava sulle bancarelle di vendita), si vendono a quintali lo zucchero, la farina, l’olio. Perché non si agisce con severità anche nei confronti di costoro?

Ricordavo al Ministro Morandi, qualche giorno fa, che gli industriali tessili avevano assunto l’impegno preciso di lavorare quelle cotonate, quelle lane, quei pellami messi a disposizione, gratuitamente, dall’UNRRA e di consegnare la loro produzione in modo che potesse essere distribuita in settembre, ottobre e novembre alle diverse categorie lavoratrici. Ma risulta che gli industriali hanno fatto forte resistenza; poi hanno ceduto solo in parte. Hanno fatto resistenza perché conveniva loro molto di più lavorare per l’esportazione che per l’interno, perché, quelle scarpe o quei tessuti che possono produrre a 1200 lire il paio o a 1800 il metro, possono venderli in borsa nera ufficiale a 4-5 mila lire il paio o il metro, senza rischiare di andare in prigione.

Questa è la realtà in cui viviamo oggi. C’è una disciplina dei ristoranti; perché non la si fa osservare? Nessun ristorante chiede i bollini del pane. Quanto pane si potrebbe risparmiare! E allora chiedo, non a nome mio, ma a nome degli agricoltori, che, se si deve agire, bisogna agire anche nei confronti delle altre categorie.

A nome degli agricoltori e dei produttori, diciamo apertamente al Governo, come l’abbiamo detto nel nostro Congresso al Presidente del Consiglio: siamo pronti a sottoporci a qualunque vincolo, siamo pronti a qualunque opera di solidarietà (perché, prima di protestare, bisogna spezzare il pane con chi ne è senza, con chi è disoccupato), ma chiediamo: o libertà per tutti o libertà per nessuno.

E passiamo ai tabacchi. Mi rivolgo all’onorevole Scoccimarro. L’altra settimana sono venuti da me 4 o 5 contadini di Arpino, zona rovinata dalla guerra, perché intervenissi presso il Monopolio a scaricarli da una multa di 60 o 70 mila lire, inflitta loro perché avevano coltivato 10 o 15 piante di tabacco in più. Mi hanno fatto questo ragionamento: «Noi dobbiamo pagare 60 mila lire di multa, mentre, venendo da lei, abbiamo notato ad ogni 50 metri bancarelle colme di tabacchi, che si vendono liberamente; se c’è una legge che impedisce la coltivazione dei tabacchi, ve n’è pure un’altra che ne impedisce la vendita!».

Ora, se si può avere qualche scrupolo per stroncare la borsa nera del pane (perché qualcuno ha detto che, se no, saremmo morti di fame tutti), ritengo che certi scrupoli per le sigarette non ci dovrebbero essere. Bisognerebbe stroncare energicamente la borsa nera delle sigarette. Se è vero, come è vero, quanto ha detto l’onorevole Scoccimarro, che il Monopolio ci dà 70 miliardi, è altrettanto vero che, se si agisse con maggiore fermezza ed energia, i 70 miliardi, potrebbero diventare 100 o 120, perché ognuno di noi non si accontenta delle sigarette distribuite con la tessera, ma ogni giorno ne compra altre in borsa nera.

Il Presidente del Consiglio ha accennato al prezzo differenziato per il pane. Abbiamo partecipato alle discussioni su questo problema. Il Governo lo studi bene. Dai rilievi fatti risulta che per mettere in atto questa nuova disciplina, si spenderebbero, per stampati e burocrazia, circa 10 miliardi. Il giuoco vale la candela? E, poi, non ritengo sia il caso di dividere l’Italia in due. Se domani sarà proprio necessario, non facciamo la differenziazione del prezzo del pane, ma preoccupiamoci di assicurare il pane soltanto alle categorie meno abbienti; lasciamo stare le altre. Ma non facciamo una differenziazione del prezzo soltanto.

Mi vorrei ancora rivolgere all’onorevole Scoccimarro per un’altra questione, anche se non è più il Ministro delle Finanze. In questi giorni gli Uffici finanziari di alcune provincie – di Campobasso, Benevento; stamattina mi hanno telefonato da Alessandria e da Milano – stanno mettendo in atto quella legge sui profitti di speculazione. E qui mi viene un dubbio: il Ministero delle Finanze – non intendo dire il Ministro Scoccimarro – che è riuscito o non è riuscito ad avocare i profitti di guerra e di regime (e il perché non lo so: forse perché chi aveva fatto questi profitti di regime e di guerra ha alle spalle diversi milioni, e coi milioni si esce di prigione e si riesce a fare tante cose) oggi sta cercando di incassare ciò che non ha incassato coi profitti di regime e di guerra, coi profitti di speculazione. Giusto! Non intendo entrare nel merito della legge. Criterio giustissimo quello di colpire chi ha guadagnato disonestamente e senza scrupoli. Però c’è nella legge un criterio di presunzione. La voce di allarme che si raccoglie in questi giorni è questa: si va dai contadini senza nessun accertamento; si presuppone che abbiano fatto la borsa nera; si presuppone, per esempio, che, per ogni ettaro coltivato a grano, essi abbiano venduto sei o sette quintali alla borsa nera. E sei o sette quintali equivalgono a 60-70 mila lire. C’è poi la borsa nera del bestiame, e c’è qualche altra cosa. Gli uffici finanziari di Benevento hanno stabilito in certe zone 100 mila lire all’ettaro per profitti di speculazione. Credo che non si possa giuocare in simile modo, quando c’è di mezzo il sudore della povera gente. I contadini è vero, verissimo, che hanno fatto e fanno la borsa nera. Non sono io a dar loro la patente dell’onestà assoluta; ma io vorrei chiedere: chi è che non ha fatto la borsa nera? (Interruzioni – Commenti). Parlo delle categorie produttive, naturalmente. Il Ministro d’Aragona, certamente no, perché non è categoria produttiva. (Si ride).

È facile dire al contadino che non deve fare la borsa nera. Ma volete che il contadino che, ad esempio, quest’anno ha portato all’ammasso il grano turco a 1.600 lire il quintale, poi si compri il mangime per le bestie e la crusca a 4 o 5 mila lire al quintale? Perché il granoturco non è andato all’ammasso nelle provincie produttrici del Veneto e del Piemonte? Per questa ragione semplicissima: una volta, il contadino, coi danaro ricavato dalla vendita di un quintale di risone, comprava un paio di scarpe, comprava un vestito; adesso non più.

Quindi io credo di affermare una cosa giustissima: è verissimo che il contadino ha fatto la borsa nera; ma non l’ha fatta per fare il signore, per non più lavorare; l’ha fatta per avere i mezzi per continuare a lavorare, a produrre, per dare da mangiare a tutte le altre categorie.

Altro argomento: siamo a due anni e mezzo dalla liberazione, e certi regimi commissariali continuano a durare, sebbene si fissino le date per la loro fine. Voglio riferirmi agli Istituti assicurativi per le malattie, gli infortuni, la previdenza. Abbiamo chiesto molte volte ai Ministri competenti la trasformazione di questi istituti che il fascismo aveva creato, istituti mastodontici con centinaia e centinaia di impiegati, che assorbono gran parte di quanto i contribuenti pagano. A tutt’oggi non si fa ancora nulla.

E qui si innesta un’altra questione sulla quale richiamo l’attenzione del Ministro del lavoro: la questione dei contributi unificati. Un po’ da tutte le provincie ci vengono lamentele di questo genere: si fanno pagare i contributi unificati, anche qui, con un criterio di presunzione, ed ai contadini che non dovrebbero pagarli. Accenno soltanto a qualche dato. Siamo riusciti, in provincia di Lucca, a far esonerare dai contributi unificati circa 30 mila famiglie colpite abusivamente: tutti piccoli proprietari della montagna che non avevano mano d’opera e che erano stati colpiti dal contributo unificato.

Il Presidente del Consiglio ha sintetizzato il programma del Governo con la formula: aumentare la produzione. Le categorie agricole sono le prime che dovrebbero partecipare a questo aumento della produzione, per migliorare quelle che sono le condizioni della alimentazione; ma io qui devo dire che l’opera del Governo nei confronti dell’agricoltura è stata molto importante. Alle aziende agricole distrutte dalla guerra si è dato molto, molto poco. Ho accennato qualche minuto fa a Cassino dove tutto manca, dagli attrezzi al bestiame e ai concimi. È uscito recentemente il decreto del 1° luglio dello scorso anno che stabiliva lo stanziamento di 6 miliardi per rimettere in efficienza le aziende agricole. Di questi 6 miliardi, 500 milioni dovevano andare come contributo del 40 per cento per l’acquisto di bestiame ed attrezzi.

Mi risulta che di questi 6 miliardi si son potuti mettere a disposizione solo due miliardi e 750 milioni, ma per le industrie gli stanziamenti sono di gran lunga superiori. Soltanto nel mese di dicembre sono stati assegnati 8 miliardi all’Istituto per la ricostruzione industriale e 5 miliardi all’Istituto mobiliare italiano. Anche se non è un aiuto a fondo perduto, si tratta di una fonte di credito per l’industria, mentre per l’agricoltura si fa molto poco. Bisogna che tutti i Ministeri vengano incontro ai bisogni della agricoltura, incominciando da quello del tesoro, che ultimamente non voleva nemmeno darci la valuta necessaria per importare le patate da seme e il solfato di rame.

Si sono stanziate diverse decine di miliardi per i lavori pubblici. Ebbene io dico agli uomini di Governo: aiutate l’agricoltura, aiutate e ricostruite queste aziende, perché dal loro apporto alla produzione dipenderà il domani di questa nostra Italia.

È giusto aiutare l’industria; ma io ritengo di non errare se affermo che l’avvenire dell’Italia sta innanzi tutto nell’agricoltura.

Aiutiamo questa agricoltura. I contadini che hanno avuto le terre in concessione, quelli che le hanno già in affitto o in proprietà, non vi chiedono l’elemosina, non vi chiedono dei privilegi e dei favori: ma solo i mezzi per poter continuare a lavorare e a produrre.

È gente pacifica; è gente che non intende mettere in difficoltà il Governo; è gente che non intende dimostrare in modo rumoroso contro il Governo. No! assicura al Governo la sua collaborazione all’opera di produzione.

Dico quindi ai signori del Governo: aiutate questa categoria, che è quella che in Italia chiacchiera di meno e lavora di più per il bene della Patria. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nobile. Ne ha facoltà.

NOBILE. Mi permetto prendere la parola per richiamare la vostra attenzione su alcune cose concrete, che si riferiscono innanzi tutto alla politica dei lavori pubblici seguita fino ad ora dal governo. L’argomento merita la vostra attenzione, perché nelle condizioni in cui si trova oggi il nostro Paese – scarsezza di mezzi da un lato ed enormi bisogni dall’altro – il controllo dell’Assemblea Costituente sul modo con cui vengono spese le somme stanziate nel bilancio si impone.

Questo argomento fu oggetto da parte mia di una interrogazione presentata fin dal settembre scorso, nella quale denunciavo fra l’altro una situazione che dieci giorni dopo sboccò nei dolorosi fatti del Quirinale. A quella interrogazione non ho avuto mai risposta, come del resto non ne ho avuto mai ad altre rivolte allo stesso Ministro.

La spesa prevista per i lavori pubblici, aggiornata al 31 gennaio 1947, per l’esercizio 1946-47, ammonta a 110 miliardi circa, su una spesa totale dello stato di circa 750 miliardi. È molto per il nostro stremato bilancio, poco per i nostri bisogni. Se fosse possibile, vorremmo accresciute, e di molto, le somme stanziate per le opere pubbliche; ma, prima di ogni altra cosa, è nostro dovere esigere che i fondi siano spesi bene, che nulla vada sprecato.

I danni arrecati dalla guerra alle opere pubbliche dipendenti dal Ministero dei lavori pubblici ed ai fabbricati di proprietà privata, sono enormi. In base ai prezzi che correvano alla fine del 1945, essi furono valutati a 1800 miliardi. Oggi questa cifra andrebbe di molto aumentata. Basti considerare che, soltanto per ricostruire i sei milioni di vani di abitazione danneggiati dalla guerra, che sono ancora da riparare, occorrerebbe una spesa di oltre 600 miliardi, senza contare altri 900 miliardi per i 5 milioni di vani nuovi che si sarebbero dovuti costruire per il normale incremento edilizio.

Si giunge così ad una cifra notevolmente superiore a quella valutata nel 1945. Anche se si stanziassero nel bilancio dello Stato 300 miliardi l’anno per opere pubbliche, non basterebbero dieci anni per riparare completamente i danni della guerra. A ciò aggiungete i lavori per opere nuove, che non sempre si possono differire, e vi renderete conto che il bilancio dei Lavori Pubblici, per un’intera generazione, dovrà essere forse uno dei più importanti dell’Amministrazione statale. Oggi esso rappresenta un settimo del bilancio complessivo dello Stato, ma io credo che si debba giungere ad un quarto o un quinto.

Tutta questa grande massa di opere è affidata, come sapete, ai Provveditorati regionali, i quali, ricostituiti troppo sommariamente nel 1945, soltanto con un decreto del 25 giugno dell’anno scorso furono riordinati giuridicamente. Ma non si può dire che essi funzionino regolarmente e con soddisfazione, soprattutto a causa della mancanza di personale tecnico adeguato e per il cattivo trattamento economico che si fa a questo personale.

Sulla questione del personale del Genio civile, richiamai già l’attenzione del Governo con l’interrogazione che ho ricordata poco fa. Tale questione è di una gravità eccezionale. Il personale tecnico di ruolo è scarso, mentre abbonda quello avventizio. Migliaia di ingegneri e geometri sono stati assunti senza una rigorosa selezione: in gran parte per via di protezioni e raccomandazioni. Questo personale, il più delle volte, non ha la preparazione tecnica, che sarebbe pur necessaria, mentre d’altra parte è pagato insufficientemente, con la inevitabile conseguenza che, a contatto come si trova tutti i giorni con imprese avide di grossi guadagni e di pochi scrupoli morali, esso è esposto ad ogni genere di tentazione. È un male, al quale non sarebbe stato difficile, una volta segnalato, porre rimedio; ma non mi risulta che si sia in alcun modo provveduto. Una selezione di questo personale avventizio, licenziando i disonesti ed i tecnicamente poco idonei e trattando meglio, dal punto di vista economico, quelli che sono meritevoli di restare, è necessaria. Bisogna anche decidersi ad accrescere il numero degli ingegneri di ruolo e migliorarne decisamente il trattamento economico e di carriera. In questo campo il risparmio conduce all’effetto opposto. Bisogna che di ciò si convinca colui che in quest’aula, qualche mese fa, l’onorevole Einaudi chiamava l’orco, il ragioniere generale dello Stato.

Questi rilievi si riferiscono agli organi tecnici governativi incaricati di dirigere le opere pubbliche, ma altri non meno gravi van fatti all’azione generale del Governo.

È chiaro che non si può mettere mano sul serio, sistematicamente, alla ricostruzione del Paese senza un piano organico, senza un lavoro ben coordinato di tutti gli apparati statali ad essi interessati. Il problema, senza dubbio, fin dall’inizio si presentava doppiamente grave, perché, non si trattava solo di ripristinare le opere pubbliche danneggiate dalla guerra o le case private, ma anche di fronteggiare la disoccupazione. I due problemi, però, si integravano a vicenda: l’uno avrebbe dovuto risolver l’altro, a patto, beninteso, che fossero state prese in anticipo le misure occorrenti.

Nessuno vuol negare le difficoltà che si presentavano e si presentano tuttavia: la mano d’opera specializzata è insufficiente e più insufficienti ancora sono le materie prime. I manovali capaci di fare uno scarico od un trasporto di terra si possono improvvisare: basta avere buone braccia e voglia di lavorare; ma i muratori non si improvvisano con la stessa facilità: devono imparare.

Ma queste difficoltà non fanno, a mio parere, che accentuare la necessità da parte del Governo di un’azione organica. Non si può lasciare la decisione all’iniziativa dell’uno o dell’altro Provveditore regionale, dell’uno o dell’altro Ministro. Il piano organico di opere pubbliche, nelle circostanze attuali, richiede la collaborazione, oltre che del Ministero dei lavori pubblici e del tesoro, anche di quelli dell’agricoltura e foreste, del lavoro, dell’industria, dei trasporti, dell’interno. E non bisogna dimenticare la pubblica istruzione ed il commercio estero. La pubblica istruzione, perché deve provvedere all’istruzione dei lavoratori, il commercio estero perché vi sono da importare materie prime dall’estero. E consentitemi a questo riguardo di osservare di sfuggita che, nelle nostre condizioni economiche, noi non ci dovremmo permettere il lusso di importare un miliardo e duecento milioni di caffè all’anno, allorquando abbiamo bisogno di cemento o di carbone per fabbricare.

Il problema è complesso: programma di ricostruzione, distribuzione di mano d’opera, selezione di questa, istruzione professionale, importazione di materie prime: sono i suoi aspetti principali. Se mai vi fu un periodo della storia del nostro Paese, in cui doveva esservi un coordinamento degli sforzi dei vari dicasteri, era proprio questo. Tale coordinamento spettava, io penso, alla Presidenza del Consiglio. Non credo di sbagliarmi asserendo che esso o è mancato o è stato insufficiente.

Non si può ammettere che l’assegnazione stessa dei fondi per eseguire questa o quell’opera sia fatta, per così dire, alla giornata. Ottiene chi preme di più e sollecita di più, e più efficacemente. Vi sono progetti già bell’e studiati di opere che potrebbero mettersi in esecuzione, ma a questi se ne sostituiscono altri improvvisati per i quali i progetti non esistono o, se esistono, sono molto sommari.

È superfluo indugiarmi ad illustrarvi i danni che derivano da tale sistema: i fondi stanziati nel bilancio si spendono male; essi non danno il risultato che si dovrebbe conseguire. I soli che ne ricavano un beneficio reale sono i privati intraprenditori che spesso fanno guadagni favolosi. Bisogna finirla col sistema di concedere a chi preme più energicamente. I lavori e la loro priorità devono essere decisi su un piano nazionale, tenendo presenti tutte le varie circostanze inerenti alla mano d’opera, alle materie prime occorrenti ed alla gravità dei danni da riparare.

Occorre, nella politica delle opere pubbliche, un indirizzo chiaro e preciso, e visto che si cambiano i ministri ogni cinque o sei mesi (dall’agosto 1944 ad oggi siamo già, ai Lavori Pubblici, al sesto ministro) bisogna creare evidentemente un organo tecnico, amministrativo, economico, dotato dei poteri necessari, capace di assicurare una certa continuità di indirizzo, altrimenti non si riuscirà mai a risolvere né il problema di ricostruire presto ciò che è stato distrutto, né quello di dare lavoro ai disoccupati.

È precisamente nel modo come i Governi hanno affrontato il gravissimo problema della disoccupazione, dove si è palesato e si palesa tuttora la impreparazione e la mancanza di coordinamento fra i vari dicasteri.

Una riprova di quest’affermazione si ha esaminando le misure prese dal Governo qui a Roma per dare lavoro ai 70.000 od 80.000 disoccupati affluiti da ogni angolo di Italia.

Roma, oggi, è una specie di Mecca dove i disoccupati, i reduci, i sinistrati, ecc., affluiscono nella speranza di trovar lavoro. Si tratta di una massa eterogenea, nella quale son rappresentati i più svariati mestieri: fotografi, tappezzieri, pittori, camerieri, cuochi, studenti, diplomati e persino ufficiali e laureati. Numerosissimi tra essi sono i giovanissimi che non hanno avuto alcuna possibilità di apprendere un mestiere.

Per occupare tutti costoro si sono improvvisati lavori nei quali si può impiegare molta mano d’opera non specializzata, come sono i movimenti di terra occorrenti alla costruzione di strade; ma le strade così iniziate vengono poi lasciate incompiute, perché i lavori di completamento (massicciata, pavimentazione, fognatura ecc.), non permetterebbero più di assorbire una quantità rilevante di mano d’opera comune. Si tratta di lavori ai quali sono più adatti i terrazzieri, ma di questi, tra le decine di migliaia di disoccupati di Roma, ve ne sono pochi e non può recare meraviglia che il rendimento di tali lavori sia molto basso.

Inoltre, molti di essi vennero appaltati con quell’infausto sistema che si chiama «a regìa», che si risolve in guadagni scandalosi per gli impresari e nella più completa degradazione del personale operaio, che dagli impresari stessi viene incitato a non lavorare.

Il numero di questi cantieri a regìa salì molto rapidamente: in quattro o cinque mesi, tanto che nel settembre scorso a Roma ve ne erano una cinquantina con oltre ventimila operai. Oggi, grazie all’opera del passato Ministro, il numero di questi operai si è ridotto a tredicimila, essendosi cominciati a trasformare i lavori a regìa in lavori a misura.

ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Non ce ne sono più; sono finite le regìe.

NOBILE. No, a me risulta che sono ancora molti. Comunque, bisognava aver preso già da gran tempo questo provvedimento. Però bisogna osservare che anche nei lavori a misura, data la composizione della mano d’opera, il rendimento è scarso, e, quindi, alto il costo dei lavori. Ma questo sarebbe ancora tollerabile, se non ci fossero le più gravi preoccupazioni per l’immediato avvenire.

A Roma si costruisce ora una grande strada di circonvallazione, che deve collegare le varie strade statali esterne in modo da liberare la città dal traffico dei veicoli di transito. Eccellente cosa in sé, sebbene si potrebbe obiettare che ci sono lavori molto più urgenti e necessari da fare. Per questa strada si sono stanziati sei miliardi, di cui due miliardi e mezzo sono impegnati per i lavori ora in corso. Si sono preparati inoltre progetti per costruzioni edilizie per due miliardi e trecento milioni. Un altro miliardo e mezzo è stato assegnato al Comune per lavori di interesse cittadino. Un miliardo e quattrocento milioni è stato destinato alla sistemazione del Tevere a monte di Roma. Infine, alcune centinaia di milioni sono stati stanziati per opere di bonifica. Si tratta in complesso di una cifra di dieci o undici miliardi, cifra che potrebbe apparire cospicua, ma che in realtà è irrisoria, se voi tenete conto che una parte di quei fondi dovrà servire a pagare lavori già eseguiti e che, per dare lavoro a tutti i disoccupati di Roma, occorrono per lo meno ventiquattro miliardi l’anno. Fra qualche mese, quindi, si presenterà il problema gravissimo: che cosa fare per dare lavoro a questa grande massa di disoccupati.

L’imprevidenza del Governo che si è lasciato prendere alla sprovvista da un fenomeno che pure era di così facile previsione, è stata poi aggravata dal fatto che il Provveditore di Roma, non avendo a disposizione i fondi necessari per pagare i lavori già eseguiti e quelli in corso, è stato assai spesso costretto a stornare fondi destinati ad altre opere ed a sospendere, quindi, altre attività, certamente più urgenti. Ne hanno risentito particolarmente le zone maggiormente devastate dalla guerra a sud di Roma, come quelle attorno a Formia e a Cassino, e ne hanno risentito altresì i lavori di riparazione di case, con la conseguenza di ostacolare ulteriormente la soluzione dei problemi edilizi, già ritardata da una legislazione difettosa.

Sulle spalle del nuovo Ministro è in realtà una responsabilità assai pesante, alla quale egli non potrà far fronte, se non gli sarà assicurata la collaborazione degli altri Ministeri. Questo di coordinare l’azione dei vari organi ministeriali interessati ai problemi della ricostruzione e della disoccupazione è compito che certamente spetta alla Presidenza, ed io confido che il Presidente del Consiglio, il quale nel suo discorso ha proclamato la necessità di ricostruire in un «clima di efficienza tecnica», vi provvederà.

I nostri ministeri economici oggi costituiscono dei compartimenti stagni: ognuno fa per sé. La cosa è aggravata poi dal continuo mutare di direzione politica in ognuno di essi. Ciò costituisce una causa di disordini e di sprechi non tollerabili. Oggi l’unicità di direzione dell’economia del Paese è assolutamente indispensabile. Si obietterà che vi è il Comitato interministeriale per la ricostruzione; ma esso finora si è occupato, più che altro, dei nostri rapporti con l’estero. Esso compila il piano del nostro fabbisogno di importazioni e quello delle possibili esportazioni; tratta con l’UNRRA e con le due banche internazionali esistenti per ottenere i mezzi finanziari occorrenti. Sono i piani cui si riferiva il Capo del Governo nella sua esposizione; piani essenziali, naturalmente, ma che non sono se non una piccola parte dei compiti assai più vasti che oggi dovrebbe avere un organismo centrale dello Stato, cui affluissero i piani dei singoli Ministeri economici, per coordinarli fra loro e per compilare in base ad essi un piano generale di ricostruzione e di sviluppo. Questo organismo non esiste ancora. È necessario formarlo al più presto possibile. Occorre un Comitato tecnico-economico che raccolga il meglio, il fior fiore, dei nostri esperti in materia economica e tecnica e che stia al centro della vita economica del Paese. Solo così si eviterà quello che è già avvenuto e che tuttora avviene: che il denaro pubblico vada sperperato per lavori non necessari e non redditizi.

E ora, onorevoli colleghi, permettetemi di intrattenervi brevemente su un’altra questione tecnica che concerne il Ministero della difesa, la cui costituzione ci è stata annunziata cosi laconicamente dal Capo del Governo.

Or sono sei mesi, in questa medesima aula, io stesso ne dichiarai l’opportunità; però feci osservare che all’unificazione dei tre Ministeri delle forze armate si sarebbe dovuto addivenire solo dopo che essi fossero stati smobilitati. Questa smobilitazione non ha avuto ancora luogo e in qualche Ministero, come quello dell’Aeronautica, si potrebbe perfino dire che essa è appena iniziata, o non ancora iniziata. Giudico, perciò, che sia stata prematura la decisione presa di fondere insieme i tre Ministeri, e che essa, probabilmente, ritarderà quella smobilitazione, anziché affrettarla.

Provvedimenti di tal genere non si possono improvvisare; non è durante una crisi ministeriale che un problema così grave e complesso quale l’istituzione di un Ministero della difesa possa venire risolto. Si tratta di tre dicasteri, i quali ancora oggi conservano in gran parte la complicata struttura del tempo di guerra. Il Capo del Governo avrebbe fatto, io penso, cosa assai più saggia formando un Comitato dì persone esperte che studiasse a fondo la questione, e decidesse quali servizi e in che modo si potessero unificare e quali lasciare tra loro distinti.

Sulla base del risultato degli studi di un tale comitato, si sarebbe potuto predisporre l’organizzazione del Ministero unico. Questa era la via maestra da seguire: il Capo del Governo ha preferito, invece, risolvere il problema sulla carta, con un tratto di penna.

Non è difficile prevedere che la cosa rimarrà, in buona parte, sulla carta; e poco di fatto seguirà.

Non si può invidiare il Ministro Gasparotto per il pesante fardello che gli è stato accollato: egli ha bisogno di tutta la nostra simpatia. Ma, nonostante la sua buona volontà, dubito che possa fare molto. È probabile che quando l’attuale Governo, fra alcuni mesi, avrà cessato di vivere, le cose saranno rimaste presso a poco come prima, con questo di peggiorato, però: che in ciascun Ministero, proprio nel momento in cui per la difesa della Repubblica si sarebbe dovuta rafforzare l’azione politica, questa azione politica è sostituita da quella dei tre Capi di Stato Maggiore, giacché – in ultima analisi – sarà precisamente questo il risultato immediato della fusione dei tre Dicasteri.

Ma, se si vuole, si è ancora in tempo a riparare e a trarre qualche vantaggio dalla decisione presa. Si dovrebbe dare ai singoli Sottosegretari l’autorità di veri e propri viceministri, di modo che il Ministro della difesa debba occuparsi delle tre forze armate solo attraverso le persone dei Sottosegretari. Ma dubito che il Capo del Governo vorrà fare questo o, per lui, l’onorevole Gasparotto.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Facendo così, si farebbe quello che ha fatto Mussolini: i tre sottosegretari diventano tre ministri. E questo mi pare che sia tecnicamente errato.

NOBILE. E allora, che ci stanno a fare i tre sottosegretari?

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Quello che fanno i sottosegretari da per tutto: collaborano col Ministro.

NOBILE. Per quello che fanno ora tanto vale che non ci siano. In ogni modo, l’esistenza dei tre sottosegretari è in piena contradizione col fatto della fusione.

Io auguro di cuore al Ministro della Difesa di riuscire, nonostante le immense difficoltà che gli si parano avanti, ad organizzare questo Ministero o per lo meno ad iniziarne l’organizzazione. Ma, riuscire, secondo me, significa in questo caso, fra le altre cose, anche concentrare i tre organismi ministeriali. in un medesimo edificio (questa sembra una piccola cosa, ma non è per chi è pratico di amministrazione militare), e fondere insieme dopo aver riunite insieme le direzioni generali ed i servizi che si occupano di materie analoghe. Se questo non si facesse, non saprei proprio che significato possa avere il parlare di unificazione delle forze armate, né come si possa ridurre ad una percentuale tollerabile della spesa totale dello Stato la somma stanziata per i tre Ministeri, che nello stato di previsione 1946-47, aggiornato al 31 gennaio scorso, ammontava a 111 miliardi di lire, cioè 2500 per ogni cittadino italiano.

Ma, a mio avviso, l’unificazione dei tre dicasteri in nessun caso si sarebbe dovuta fare prima che fosse stato effettuato lo sfollamento del personale militare e civile. Ma, visto che esso non ha avuto ancora luogo, si dovrebbe sperare per lo meno che siano unificati i criteri e le modalità che dovranno regolarlo.

Mi sia a questo proposito permesso fare qualche breve rilievo.

Sono ormai trascorsi nove mesi dall’emanazione del decreto legislativo concernente lo sfollamento degli ufficiali generali e superiori dai quadri delle forze armate, ma fino ad oggi esso è ben lungi dall’essere completato. Anzi, per il Ministero dell’Aeronautica credo si possa dire che sia stato appena iniziato. Questo ritardo è un grave male, perché è causa di malcontento, di nervosismo, di apatia, di indifferenza al servizio da parte degli ufficiali stessi. È evidente che non si può prendere passione al proprio compito quando si teme di poter essere compresi fra quelli che dovranno lasciare l’Amministrazione. Questa spada di Damocle sulla testa di questi ufficiali già pende da quasi un anno.

Questa dolorosa operazione della riduzione dei quadri ai limiti consentiti dal trattato di pace, e anche dalle possibilità finanziarie del nostro Paese, si sarebbe dovuta fare rapidamente. Sarebbe stato un vantaggio per tutti.

Nell’applicazione del decreto 14 maggio 1946, vi è un punto basilare intorno al quale sono sorti gravi quesiti. L’articolo 2 di questo decreto stabilisce che il collocamento nella riserva o in ausiliaria di autorità, deve avvenire di massima per coloro i quali, pur essendo stati discriminati, hanno riportato sanzioni disciplinari per il loro comportamento dopo l’8 settembre 1943. Bisogna riconoscere che questa espressione «di massima», inserita nel decreto, è stata assai poco felice perché rende elastici i criteri di selezione e consente qualsiasi salvataggio. In un caso come questo dove la riduzione dei quadri deve essere operata su vasta scala, sarebbe stato preferibile un criterio rigido da applicarsi senza eccezioni, direi quasi meccanicamente. Ci sarebbero state anche meno lagnanze.

Si aggiunga a questo la considerazione del modo come sono formate le Commissioni alle quali è affidato il giudizio. Per i generali dei gradi più elevati, l’articolo 3 stabilisce che lo sfollamento deve aver luogo dopo che il Ministro abbia sentito il parere di un’apposita Commissione da lui nominata. Come debba essere costituita questa Commissione il decreto non dice.

Era ovvio pensare che la cosa più opportuna, in questo momento, fosse quella di nominare una Commissione parlamentare. Fu quella che io proposi, con interrogazioni e interpellanze rivolte ai tre ministeri competenti. La selezione nei gradi più elevati è cosa quanto mai delicata e importante. La Commissione parlamentare da me suggerita avrebbe dovuto non già giudicare del valore tecnico dei singoli generali – al che sarebbe stata incompetente – ma solo fissare, in modo preciso e categorico, i criteri da seguire nello sfollamento, criteri che in questo speciale momento della vita nazionale, quando si tratta di rafforzare le istituzioni repubblicane, devono essere anche, ed in primo luogo, io direi, politici. La necessità di una Commissione parlamentare estranea, che dettasse questi criteri, era suggerita dalla considerazione che commissioni costituite di elementi tratti esclusivamente dalle alte gerarchie militari, quali sono le Commissioni di avanzamento, non possono offrire garanzie di obiettività se non quando siano stati già stabiliti in modo preciso i criteri che esse devono seguire. Ora, il Ministro della Marina, ed in forma assai più ampia e soddisfacente quello della Guerra, accolsero, almeno in parte, la sostanza del suggerimento da me dato, e costituirono essi stessi delle Commissioni formate di parlamentari.

Certamente, manchevolezze non possono non esservi, dati anche i difetti intrinseci della legge. Mandar via di autorità, come essa stabilisce, tutti quelli che sono stati puniti per il loro comportamento dopo l’8 settembre, sta bene. È quello che è detto nell’articolo 2. Ma sta il fatto che i giudizi che condussero alle punizioni furono emessi da Commissioni differenti, variamente composte, ed in tempi diversi, per cui non si ha alcuna certezza di uniformità dei criteri che ispirarono le loro decisioni.

Un’altra grave obiezione è che dopo la pubblicazione del decreto, molte punizioni, in seguito a reclami quasi sempre appoggiati autorevolmente, furono dai Ministri ridotte o annullate, di loro arbitrio, senza che i vari casi fossero rinviati alle competenti Commissioni che li avevano prima giudicati. Mi riferisco, per questo, particolarmente all’Aeronautica, dove è avvenuto anche di peggio, perché potrei citare qualche esempio di encomio solenne dato per iscritto dal Ministro a personale che aveva aderito alla repubblica fascista. Come si può, allora, in tali condizioni parlare di equità di giudizio nello sfollamento degli ufficiali? È certo che si commetteranno molte ingiustizie. Da qui deriva la necessità di fissare con rigore i criteri che devono condurre all’eliminazione.

Ma questo non basta, perché quei criteri negativi devono essere poi integrati da criteri positivi di selezione, nel senso che si dovrebbero trattenere in servizio quegli ufficiali generali e superiori che hanno ben meritato del Paese nella guerra di liberazione, sia per essersi distinti militando nell’esercito regolare, sia per avervi partecipato come partigiani. I criteri di selezione tecnica, che si vorrebbero applicare anche in questi casi, sono troppo elastici per dare affidamento di obiettività.

Finora non sono noti i risultati per lo sfollamento fatto al Ministero della Guerra e quello della Marina, ma, per quello che ne so, è a buon punto. Altrettanto non si può dire del Ministero dell’Aeronautica.

Il Ministro onorevole Cingolani non ha creduto necessario nominare, come ha fatto il suo collega del Ministero della guerra, una commissione parlamentare, costituita prevalentemente di personalità estranee all’ambiente militare. In un’intervista concessa ad «Ala libera», egli dichiarò di non essere favorevole ad includere nella commissione elementi civili, parlamentari o magistrati che fossero. Aggiunse che, in casi di particolari qualità tecnico-professionali, egli pensava che un ufficiale, anche se compromesso dopo l’8 settembre 1943, avrebbe potuto continuare a rimanere in servizio…

CINGOLANI. Non precisamente così; ricordi la frase esatta.

NOBILE. Questo precisamente è detto nell’intervista pubblicata dall’«Ala libera».

L’onorevole Cingolani, dunque, a differenza dei suoi colleghi della Guerra e della Marina, ha lasciato che la Commissione per l’avanzamento procedesse da sola alla eliminazione.

Ora, di questa Commissione fa parte non solo un generale, che apertamente si dichiara monarchico (e di questa schiettezza bisogna fargliene lode), ma anche un altro, che fu in Spagna, a capo dell’aviazione legionaria, fatta, come si sa, di volontari. Non ritengo che una Commissione così composta possa dare affidamento di scrupolosa imparzialità. In più casi essa deve, per lo meno, trovarsi imbarazzata a giudicare.

Il fatto è che ho qui, davanti agli occhi, la lista degli ufficiali dell’Aeronautica, di cui fin oggi è stato deciso l’esodo. Vi sono compresi: 38 colonnelli, 102 tenenti colonnelli ed alcuni maggiori; ma non un solo generale. Quando si lascia decidere sullo sfollamento agli stessi generali, come ha fatto il Ministro dell’aeronautica, è chiaro che essi penseranno a sfollare se stessi il più tardi che sia possibile.

Ma non basta ancora. Qualcuno dei colleghi ricorderà che nel luglio scorso, in questa medesima aula, richiamai l’attenzione dell’Assemblea sul gran numero di generali allora in servizio in Aeronautica e sulla nomina fatta alcuni mesi prima di altri ventidue di essi. Fui molto ingenuo – oggi lo riconosco – a meravigliarmi del fatto; perché il Ministro dell’Aeronautica repubblicana ha ritenuto perfino insufficiente il numero di generali allora esistenti; ed infatti ne ha creati recentemente altri 10. Siamo così giunti, nel dopoguerra, alla bella cifra di 50 generali promossi nel giro d’un solo anno. Oggi, di questi 50 sono in servizio 32.

Quali importanti compiti essi disimpegnino io non saprei dire; ma il Ministro certamente lo sa.

Sono dell’opinione che la smobilitazione dell’Aeronautica, come degli altri ministeri militari, debba aver luogo prima di tutto negli alti gradi. Due anni fa (e a questo riguardo vorrei pregare l’onorevole Gasparotto di riesaminare la questione e provvedere secondo giustizia), due anni fa il Ministro della guerra del tempo non esitò a mettere sul lastrico da un giorno all’altro, con un semplice ordine di servizio, migliaia di operai degli stabilimenti militari, che, per non morire di fame, essi e le proprie famiglie, avevano dovuto lavorare alle dipendenze del Sottosegretariato dell’esercito fascista. Quando invece si tratta di mandare a casa con tutti gli onori e con tutti gli emolumenti uno di quei generali che l’8 settembre non seppero fare il proprio dovere e causarono con il loro contegno lo sbandamento degli ufficiali subalterni e delle truppe, ci si pensa a lungo, e magari lo si promuove.

Nell’Aeronautica – bisogna avere la franchezza di dichiararlo – le cose non vanno. I dodici miliardi annui che essa costa allo Stato (e non sarebbero molti se con essi si facesse veramente dell’aviazione) sono in gran parte spesi male. Vi è stato alla caserma Macao un fatto gravissimo, uno sciopero di avieri, per protestare contro le cattive condizioni in cui erano tenuti in quella caserma. La cosa, altamente deplorevole in se stessa, è un triste indizio dell’abbandono in cui sono tenute le truppe. Non è così che si risanano le nostre forze armate.

E nemmeno si risana l’Aeronautica coll’istituzione che il passato Ministro ha fatto di una nuova carica, quella di Segretario generale, varata proprio nell’imminenza della crisi ministeriale o forse quando la crisi era già aperta, perché il Foglio d’ordini sul quale compare l’istituzione della nuova carica porta la data del 15 gennaio 1947.

È una curiosa caratteristica dell’Aeronautica italiana di questo dopo-guerra che la sua struttura si ampli tutte le volte che sta per cambiare Ministro. Si vede che l’onorevole Cingolani non ha voluto essere da meno del suo predecessore, che in un periodo analogo aveva creato cinque nuove direzioni generali.

Ed eccomi, per concludere, ad una questione grave sulla quale richiamo per un minuto l’attenzione dell’Assemblea: quella degli ufficiali e sottufficiali in servizio permanente effettivo, mutilati o invalidi di guerra. Secondo le disposizioni vigenti, gli ufficiali mutilati di carriera, dichiarati permanentemente non idonei al servizio, sono collocati in pensione, se per gli anni di servizio prestato ne hanno acquistato il diritto; altrimenti vengono inviati a casa con la sola pensione privilegiata di guerra, la quale per una invalidità totale ammonta oggi per un capitano, compresi gli ultimi aumenti, a 10.849 lire al mese; e per un’invalidità dell’80 per cento – quasi totale – a 4.584 lire mensili. Così può avvenire che un giovane ufficiale, dopo aver versato il sangue in difesa del proprio Paese ed essere rimasto mutilato cosi gravemente da non potere, abbandonato il servizio, trovare altra occupazione, sia lasciato pressocché in preda alla miseria. Quando si confronta questo trattamento con quello che il decreto legislativo del maggio 1946 accorda ai generali che si compromisero dopo l’8 settembre 1943, si vede quanto esso sia iniquo.

Dopo la prima guerra mondiale vi furono disposizioni di legge a favore degli ufficiali mutilati di carriera, ai quali fu lasciata facoltà di continuare a prestare servizio nelle armi cui appartenevano.

A me non pare concepibile che la Repubblica possa essere meno generosa del Governo di quei tempi verso i mutilati. Perciò, a nome anche di altri numerosi colleghi, presento un ordine del giorno con cui invoco che sia riconosciuta anche agli ufficiali invalidi della seconda guerra la facoltà di rimanere in servizio, collocandoli fuori quadro in un ruolo speciale, come si è fatto dopo la passata guerra, in modo da non contrastare con le disposizioni del trattato di pace; e che misure adeguate siano prese per tutti gli altri mutilati a qualunque categoria appartengano.

L’articolo 49 del progetto di Costituzione stabilisce che la difesa della Patria è un sacro dovere. Ma non meno sacro è il dovere dello Stato di assistere i cittadini che per difendere il Paese hanno riportato gravi menomazioni fisiche.

In questo senso avevo proposto alla Commissione dei 75 un’aggiunta a quell’articolo, sembrandomi giusto che la Costituzione che proclama quel dovere dovesse sancire anche questo diritto.

La Commissione accettò all’unanimità quella mia proposta come raccomandazione da trasmettersi al Governo per preparare un disegno di legge destinato a provvedere in modo adeguato alla situazione di coloro che tutto diedero al Paese. Io spero che questo disegno di legge sia al più presto un fatto compiuto. (Applausi).

CINGOLATI MARIO. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CINGOLANI MARIO. Io sono iscritto a parlare, quindi la rettifica di molte cose che qui ha detto l’onorevole Nobile la darò al momento opportuno.

Non posso però non rettificare immediatamente alcune sue affermazioni.

Egli ha certo una grande passione per l’Aeronautica; ma io non sono secondo a lui in questa passione.

Posso dirvi subito, per quanto riguarda le cifre e i metodi dello sfollamento, che i criteri che hanno informato e Commissione e Ministro fino ad oggi sono stati questi: colpire innanzi tutto coloro che hanno tradito l’Italia e gli italiani passando al servizio della cosiddetta repubblica sociale di Salò. E posso dire anche all’onorevole Nobile che questa linea molto precisa e decisa, per cui in nessun caso si è tenuto conto di quell’«in massima» che c’è in quel tale articolo di quel decreto, ha determinato proteste, raccomandazioni, eccitamento a rivedere questa situazione da parte anche di onorevoli colleghi di ogni parte della Camera.

Comunque, di fronte ad un procedimento già iniziato, di fronte ai problemi che si presentavano al Ministro per l’applicazione del trattato di pace, io ho fermato lo sfollamento. E l’ho fermato per due motivi: il primo, perché ritenevo che in verità potessi accettare il suggerimento dell’onorevole Nobile di nominare una Commissione di carattere politico composta di ex ministri e di autorevoli parlamentari, tanto che parlai in proposito con l’onorevole Terracini, prima che sopravvenisse la crisi; l’altro, perché pensavo di poter studiare, anche con l’assenso della Sottocommissione alleata per l’aeronautica, la formazione di una aviazione di quadri che salvasse il pane quotidiano a più gente possibile.

Il progetto è rimasto in aria per la crisi sopravvenuta; ma è servito almeno a richiamare sul problema l’attenzione di un appassionato come l’onorevole Nobile e del nuovo Ministro della difesa.

Posso dire all’onorevole Nobile questo: che ho trovato il Ministero dell’aeronautica in condizioni quanto mai difficili, uno stato d’animo nel personale di malumore, di scoraggiamento, di furore. Ho cercato di fare del mio meglio, onorevole Nobile. Domandi lei ad uomini di ogni parte politica, militanti nelle file dei vari Partiti e facenti parte del Ministero: dopo appena sei mesi, credo di essere riuscito a dare una coscienza aviatoria patriottica repubblicana all’Aeronautica italiana. Interroghi il Comitato di concentrazione repubblicana, composto di rappresentanti dei partiti democratici. Quello che posso dire è che la disciplina rilassata, di cui è stato un episodio quello della caserma Macao, non è dipesa dalle condizioni di spirito dell’Aereonautica, ma dalla irrequietezza di elementi perturbatori operanti per fini non ben definiti.

L’Aeronautica è composta di elementi tutti dediti al loro dovere.

Ho potuto visitare tutti i campi d’Italia: c’è uno spirito altissimo, una serena aspettazione di quello che il Paese farà, soprattutto per quelli che hanno combattuto eroicamente negli stormi dell’Italia meridionale. Abbiamo avuto combattenti eroici, la cui storia è poco nota, e sono quelli che hanno appartenuto agli stormi che combatterono a fianco degli anglo-americani per venticinquemila ore di combattimento. (Applausi). Essi sono quelli che devono formare l’ossatura della nuova aviazione.

Guardi, onorevole Nobile; che ci sia nelle alte gerarchie un generale che sia stato in Spagna a me non risulta, comunque non ha importanza, se non vi sia andato volontario. Quello che importa è che di fronte all’obbligo del giuramento che ieri è stato prestato, un solo generale ha dichiarato che non avrebbe giurato, ed è stato subito mandato via. Gli altri hanno giurato.

Posso ripetere qui quello che già disse il collega Facchinetti in altro ambiente: ciò che vale è la lealtà della posizione presa ieri col giuramento. E oggi – se questi ufficiali, ieri sono stati monarchici in buona fede, se in buona fede oggi accettano di servire la Repubblica, ed è il caso del nuovo Capo di Stato Maggiore – non c’è nessuna ragione per non credere a quella fede e a quella parola. (Applausi).

Su questo è basata anche la ricostruzione delle forze armate, per la quale esprimo all’onorevole Gasparotto tutta la mia fiducia. Certo, il compito è molto difficile; ma egli sarà aiutato, onorevole Nobile, proprio da quei Segretari generali che ho imparato ad ammirare nel Ministero della marina, che funzionano al Ministero del lavoro e al Ministero degli esteri.

L’istituzione del Segretario generale non volevo davvero vararla tra una crisi e l’altra: io sono un ingenuo, malgrado le apparenze. Lo avevo preparato perché non immaginavo, il 15 gennaio, che la crisi sopravvenisse dopo pochi giorni: non avevo nessuna ragione di poterlo pensare o sperare o temere!

Io ho fatto il mio dovere studiando bene il funzionamento del Segretario generale, discutendone anche col Sindacato dei dipendenti civili e sono felice di averlo varato. Mi auguro che anche dal Dicastero della guerra possa venir fuori un Segretario generale, che renda molto più facile ed efficiente l’opera del Ministro Gasparotto.

Non ho altro da aggiungere per ora. Dirò all’onorevole Nobile che da ogni mia ulteriore dichiarazione, documentata, verrà fuori questo fatto: che gli informatori clandestini che può avere avuto l’onorevole Nobile – e che potrei facilmente domani avere io, se lo volessi – non sono certo la parte più nobile dell’Aeronautica italiana.

Tutti sanno che nel mio Ministero non c’era il «passi» per venire su dal Ministro: ché, dall’ultimo aviere fino al generale di squadra, potevano tutti venire a parlare liberamente. I nemici non del Ministro, ma dell’Aeronautica, sono dei subdoli informatori che tentano di gettare il fango su di una arma gloriosa, che ha sempre fatto il suo dovere. (Applausi).

(La seduta, sospesa alle 17,5, è ripresa alle 17,45).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Valiani. Ne ha facoltà.

VALIANI. Onorevoli colleghi, la grande maggioranza di questa Assemblea si attendeva che il Presidente del Consiglio, nelle sue dichiarazioni sulla politica del nuovo Governo, parlasse dettagliatamente dei risultati del suo viaggio negli Stati Uniti d’America e delle impressioni politiche che ne ha riportate. Questa aspettativa è andata delusa, perché l’onorevole De Gasperi si è limitato ad alcuni cenni sull’esistenza nei musei americani di molti capolavori della pittura italiana, che indubbiamente esistono e sono una gran cosa, ma esistono indipendentemente da questo come da qualsiasi altro Governo. Egli ha anche accennato all’esistenza di un sentimento patriottico, forte, fortissimo nella collettività italo-americana, che esiste indubbiamente ed è una magnifica cosa, ma esiste indipendentemente da questo o da qualsiasi altro Governo. Invece, dei problemi politici il Presidente del Consiglio non ha parlato, per quanto fosse evidente che, sia la prima parte del suo discorso, relativa alla firma del Trattato di pace, come la seconda parte, relativa alla politica economica che il nuovo Governo intende seguire, si trovavano strettamente connesse con quel viaggio in America.

Ed allora, in mancanza di delucidazioni da parte del Presidente del Consiglio, mi trovo costretto ad occuparmi di questa questione, che mi pare molto importante, sulla pura scorta dei giornali americani ed italiani, prendendo in esame in primo luogo i giornali più vicini al Governo.

Se guardiamo quello che hanno riferito i giornali al momento stesso dell’arrivo dell’onorevole De Gasperi negli Stati Uniti, vediamo che egli è stato accolto con cordialità e amicizia, dovute indubbiamente al nostro Paese, ma anche alla sua persona – e se lo è meritato – ma è stato anche accolto da un brindisi di Byrnes, in quel momento ancora Segretario di Stato degli Stati Uniti, il quale diceva che compito dell’onorevole De Gasperi, ospite dell’America, sarebbe stato quello di firmare. L’onorevole De Gasperi non rispose a questa che era una richiesta, che cioè si firmasse senz’altro. L’onorevole De Gasperi forse intendeva guadagnare tempo. E non sarò certamente io a rimproverarlo, perché si capisce che in questioni così gravi guadagnare anche qualche giorno può avere la sua importanza. Però, malgrado tutto, sarebbe stato preferibile se si fosse risposto, da parte del Presidente del Consiglio, in quella occasione o le volte successive, quando egli ebbe occasione di parlare al pubblico degli Stati Uniti, mettendo in rilievo che, a parte le pressioni materiali alle quali possiamo o non possiamo essere in grado di resistere, per persuaderci a firmare, alcune condizioni almeno dovevano essere adempiute da parte delle Potenze vincitrici. Condizioni così elementari che senza di esse io veramente mi domando come si sia potuto, pur nello stato di necessità, firmare il Trattato; condizioni che del resto erano state indicate abbastanza bene dall’onorevole De Gasperi nel suo discorso a Parigi, e che sono delle serie garanzie per la validità delle nostre nuove frontiere, per l’italianità dello Stato libero di Trieste e per la sorte della minoranza italiana che sarebbe rimasta sotto dominazione straniera.

Una volta, un anno fa, discutendosi alla Consulta, sia in seduta pubblica che in seduta di Commissione per gli affari esteri, la nostra politica estera, rispetto al Trattato di pace di cui già allora si intravvedeva la gravità, l’onorevole De Gasperi disse prima che si trovava senza carte e poi, nel corso della discussione, ammise che una carta tuttavia l’aveva, cioè quella di rifiutare la firma ad un Trattato che non sapesse per nulla di pace. Egli soggiunse che, tuttavia, quella carta si riservava di giocarla in tempo utile, perché giocarla prematuramente gli sembrava un errore.

Ho l’impressione – posso sbagliare, ma ho questa impressione – che la carta non sia stata giocata affatto, neppure in ritardo. Si è rinunciato a giocarla. Ora, evidentemente, ci possono essere dei motivi superiori di una tale gravità da obbligare il Governo a non giocare questa carta. Ma allora sarebbe meglio che questi motivi fossero esposti alla Costituente. Quali sarebbero state, ove avessimo tentato di giocare la carta del rifiuto, le pressioni americane su di noi, si può immaginare. Evidentemente sarebbero state pressioni di natura economica, ed io sarò l’ultimo a sottovalutarle. Dico di natura economica, riferendomi all’occupazione alleata con le sue spese, perché purtroppo quanto allo sgravio politico-militare della cessazione dell’occupazione alleata dopo la firma, mi pare che per il momento non se ne parli ancora, non essendo risolta nei suoi particolari la questione dello Stato libero di Trieste. Altre minori sanzioni ci sarebbero forse state applicate, e avremmo sofferto soprattutto la mancanza degli aiuti economici che ora ci vengono, anche grazie all’ultimo viaggio del Presidente del Consiglio.

Comunque, mentre il Presidente del Consiglio è stato piuttosto cauto sui risultati e sulle impressioni del suo viaggio, noi abbiamo invece visto in Italia i muri tappezzati da manifesti eloquenti in pro e contro, gli uni che dicevano che De Gasperi ci portava molte cose buone, farina, carbone e prestiti, e che, se mai, solo gli avversari interni – interni al Governo – impedivano all’onorevole De Gasperi di salvare il Paese (riferisco testualmente quel manifesto); gli altri che affermavano il contrario.

In sostanza, il Paese ha avuto l’impressione, e noi con il Paese, che le pressioni di natura economica e gli aiuti che viceversa sarebbero venuti ove avessimo firmato, fossero gli uni e gli altri di discutibile entità, anche perché sembra che fino a questo momento si tratti più di promesse che di aiuti reali. Non so, insomma, se condizionando la firma, se facendo un tentativo estremo, ma facendolo però possibilmente non all’ultimo momento, saremmo stati trattati veramente molto peggio.

Da un certo punto di vista, avrei quasi considerato come cosa buona se effettivamente ci fosse stato detto da parte americana che, senza la firma, avremmo veduto annullati degli aiuti, altrimenti concessici. Questo avrebbe significato che, avendo ora firmato, gli aiuti considerevoli li riceveremmo di sicuro.

In generale, gli aiuti che ci vengono dagli Stati Uniti vengono per parecchie cause: per la generosità di quel popolo, per il senso di interdipendenza economica mondiale, che hanno indubbiamente i governanti, gli uomini d’affari americani. Ci vengono per la presenza in America della collettività di origine italiana. Ed il fatto che ci vengano, in misura meno copiosa del resto che ad altri Paesi, dipende anche da una determinata politica estera degli Stati Uniti, quella di Byrnes, il quale pensava di poter risolvere i problemi che gli stavano a cuore, cioè i problemi della presenza politica dall’America in Europa, attraverso aiuti economici. Si dice giustamente che a cavallo regalato non si guardano i denti. Ed è chiaro che, se aiuti ci vengono, dobbiamo accettarli con riconoscenza, anche se fra i motivi che li determinano possono esserci motivi di natura politica, che noi non condividiamo.

Quindi, riconoscenza; però dobbiamo renderci conto, per non lasciarcene influenzare, di quei motivi che sono estranei alla nostra situazione e ai nostri interessi, e poi perché quella determinata politica non era destinata a durare eternamente.

Credo che la sostituzione del generale Marshall a Byrnes significhi l’inizio d’una progressiva rinuncia a quella politica; cosa, del resto, prevedibile da tempo e preveduta e sulla quale alcuni organi di stampa internazionali, forse anche italiani, hanno già attirato l’attenzione dei governi, anche del nostro.

Contrariamente a quello che scrivono molti giornali nostrani, che si sono specializzati nel volere scorgere in ogni cambiamento politico un appoggio alla loro tesi, la tesi del blocco antisovietico, credo che l’assunzione di Marshall – che ha coinciso per caso, ma forse non del tutto per caso, col viaggio dell’onorevole De Gasperi – non significhi una politica di ostilità nei confronti della Russia. Coloro che lo pensano o lo temono o lo sperano saranno delusi. Dal punto di vista dell’atteggiamento politico generale verso la Russia, non vi è differenza fra Byrnes e Marshall. Sono diversi i metodi dell’uno e dell’altro. Non è poi vero che il metodo di Marshall sia più affine ai metodi di coloro che propugnano un blocco occidentale antisovietico. È vero il contrario, come Marshall stesso l’ha dimostrato in Cina.

Da noi si è molto inclini a pensare che un generale non possa fare che una sola politica, quella dei generali che sono nazionalisti e sciabolatori per professione. Non è sempre così.

Il generale Marshall certamente affronterà con estrema energia i problemi che ritiene di interesse vitale per l’America; ma per tutto quello che si sa, la sua politica è quella di trattare tutti i problemi direttamente col Governo di Mosca, di porre tutti i problemi sul tappeto direttamente nei confronti di Mosca, e di dare minore importanza di quanta non ne desse Byrnes alle posizioni politiche americane nell’Europa occidentale e meridionale, da sostenere attraverso aiuti economici.

Io metto in guardia questa Assemblea contro l’illusione che quella determinata politica americana, di cui noi abbiamo approfittato – ripeto, senza condividerne i motivi – e che i suoi avversari hanno chiamato la «diplomazia del dollaro», possa durare ancora a lungo. La politica che l’America, a mio giudizio, si accinge a seguire, potrebbe essere per noi, inizialmente, dal punto di vista degli aiuti economici, anche meno favorevole. Appunto per questo mi pare che lasciar cadere così la carta relativa alla non firma del trattato di pace, per la sola promessa di aiuti economici e in un momento in cui cambia la politica americana incline a dare aiuti economici con finalità politiche, sia stata cosa un po’ affrettata. Forse ci conveniva resistere alle pressioni americane, proprio in previsione della politica estera del generale Marshall, che intende porre sul tappeto tutti i grandi problemi mondiali, e si sforzerà di trovare un modus vivendi generale nel quale noi dovremo ancora inserirci. Forse ci saremmo potuti inserire meglio se avessimo condizionata, riservata o ritardata ancora, per qualche mese o per qualche settimana, la firma del Trattato. Dico questo non per fare dei rimproveri all’onorevole De Gasperi e al Governo. Lungi da me questa intenzione: in politica estera non si devono mai fare recriminazioni. Di ciò il gruppo, a nome del quale vi parlo, vi ha dato la prova quando l’onorevole De Gasperi assunse il potere e noi ci trovammo in polemica politica acuta con lui (credo che avevamo ragione di trovarci in polemica con lui nella politica interna italiana), e tuttavia abbiamo sostenuto che la politica estera dovesse continuare ad avere la fiducia del Paese. Io lo scrissi anche sui giornali americani, trovandomi allora a New York. Anche ora sosterremo il Conte Sforza. Però dobbiamo metterlo in guardia contro questa abitudine di promettere una politica di ferro, di resistenza, e poi non farla. Allora è meglio non prometterla.

Quello che si è svolto qui fra Governo, Assemblea, Commissione dei trattati, Lupi di Soragna, firma o non firma, ecc., non ci ha giovato nell’opinione pubblica mondiale. Basta che leggiate i grandi giornali americani; non parliamo poi di quelli degli altri grandi paesi: hanno considerato queste cose come manovre puerili. O si fa sul serio una politica di resistenza, come l’onorevole De Gasperi aveva preannunciato di voler fare, o non la si auspica neppure. Se la si fa, bisogna farla sistematicamente, per parecchi mesi di seguito, per anni di seguito. Oscillare fra una politica e l’altra, non credo sia stato utile. E lo dico – ripeto – non per recriminazione, non per spirito di opposizione, ma semplicemente per il desiderio che d’ora in poi queste oscillazioni dannose vengano a cessare. Vorrei poi spiegare, senza spirito di acrimonia, per quale ragione sia caduta così, senza veramente fare le sue prove, la politica di resistenza che l’onorevole De Gasperi pur aveva preconizzato. Forse una delle spiegazioni si trova anche nel già citato brindisi di Byrnes. Byrnes salutò il Presidente del Consiglio come l’uomo che aveva guidato la resistenza al nazismo e al fascismo. Ora, effettivamente, a parte la questione personale, aveva ragione Byrnes. La politica di resistenza che egli temeva che l’Italia volesse fare sul terreno internazionale, era possibile solo nello spirito dell’altra Resistenza, quella che doveva influire sulla politica interna del Paese.

Invece, avendo il Governo, e in particolare la direzione del Governo, troppo presto rinunziato nella politica interna del Paese allo spirito della Resistenza, che faceva sì che noi, molto spesso, durante la guerra di liberazione partigiana, rifiutassimo le imposizioni che ci volevano fare gli angloamericani, dai quali pur ricevevamo aviolanci, si è giunti alla conseguenza naturale a cui sempre si perviene quando si smobilita lo spirito della Resistenza. Si è indebolita anche la politica di resistenza nel campo internazionale.

Dispiace che l’onorevole De Gasperi, nella sua visita in America, abbia trovato soltanto un’occasione per accennare alla Resistenza. A Chicago egli imputò alla guerra civile antifascista la crisi dell’apparato statale. Certamente, le deficienze dell’apparato amministrativo dello Stato sono dovute anche alla guerra civile che si è dovuta combattere contro il fascismo. Però la Resistenza partigiana è stata anche un grande elemento di forza, persino nei rapporti internazionali.

Che la possibilità per noi di riguadagnare sforza e prestigio nel campo internazionale dipenda dalla nostra guerra di liberazione, è dimostrato anche dal messaggio di Bevin che comincia col richiamarsi a Mazzini e Matteotti. Credo che questo messaggio noi dobbiamo accettarlo con la necessaria riserva di chi non può rallegrarsi per i soli complimenti sentimentali da parte di colui che lo ha trattato con la durezza con cui noi siamo stati trattati dagli inglesi. Ma bisogna anche che noi teniamo conto del permanere nel mondo di uno spirito democratico molto avanzato, spirito democratico che deve essere portato conseguentemente nella politica estera italiana, se si vuole ottenere qualche risultato. Altrimenti, si parlerà di resistenza all’ingiustizia, e, poi, si cederà sempre, senza neppure aver avuto qualche cosa in cambio.

Evidentemente la storia non è finita. Personalmente sono del parere di Don Sturzo, circa il valore della firma e della ratifica. Ma questa è materia assai opinabile e, anche accettando il parere di Don Sturzo, rimane il fatto che non bisogna sottovalutare l’azione diplomatica che il Governo può ancora condurre, avendo riservato il giudizio dell’Assemblea sulla ratifica. Mi auguro dunque che il Governo conduca l’azione adeguata per valorizzare questa nostra riserva; però credo che tale azione sarà coronata da successo – non da molto successo, perché i grandi successi sono lontani per il momento – soltanto se si sapranno mettere a fuoco e, direi, in una situazione gerarchica, alcuni pochi problemi.

Il primo è quello delle nuove frontiere. Il fatto più grave non è tanto che non abbiamo più un esercito o una flotta per difenderle; questo, che è doloroso, non sarebbe affatto grave se ci fosse una garanzia internazionale delle frontiere. Ma io ho letto due, tre, quattro volte il Trattato, ho letto la Carta delle Nazioni Unite e ho constatato che questa garanzia internazionale non esiste e, quindi, bisogna chiederla. E mi riferisco in modo particolare alla frontiera orientale. Mi riferisco senza astiosità in proposito, perché penso anzi che il mezzo fondamentale di ritrovare le vie dell’amicizia italo-jugoslava sia quello di far regnare chiarezza in proposito. È difficile che l’amicizia regni fra due popoli vicini, quando le rispettive frontiere non sono garantite. In altri tempi, le frontiere si garantivano con le fortificazioni; oggi si dovrebbero garantire con impegni internazionali. Bisogna chiederli di urgenza, prima della ratifica, giacché non le abbiamo chieste prima della firma. Dobbiamo avere garanzie sulla maggioranza italiana a Trieste libera.

E dobbiamo anche chiedere la protezione delle minoranze che restano nei territori che passano sotto il dominio altrui. Anche lì si lavora meglio alla distensione degli spiriti, se si è sicuri che questa garanzia ci sarà.

Città italiane, Fiume, Pola, Pisino, Zara ed altre, passano sotto la sovranità jugoslava. Io non dirò una sola parola patetica al riguardo; però dico che dobbiamo esigere, non solo noi giuliani, ma noi italiani, la Costituente italiana, il Governo italiano, opportune garanzie internazionali, prima della ratifica. Solo in questo modo potremo arrivare, dopo aver avuto le necessarie garanzie, alla rinascita dell’amicizia italo-jugoslava.

Un’altra questione essenziale è quella economica e io devo dire che, mentre sono sempre stato critico aspro della politica economica dell’onorevole Corbino come Ministro del tesoro, che poggiava su presupposti sbagliati, tuttavia condivido quello che l’onorevole Corbino va dicendo e scrivendo da due o tre giorni sulla prossima grave crisi monetaria internazionale. Problemi di svalutazione esistono per il dollaro e per la sterlina e la nostra economia, che noi pensiamo di averla salvata con la firma, andrà per aria, se non chiederemo tempestivamente garanzie internazionali. Inoltre, dobbiamo far sentire la nostra voce sul problema più grave, quello della Germania. L’economia europea non rinascerà mai finché non rinasce l’economia della Germania. È necessario che, tanto ad Oriente che ad Occidente, ci si renda conto di ciò.

Gli inglesi oggi sollecitano da noi un avvicinamento economico. Questo nuovo atteggiamento inglese è forse uno dei risultati positivi – indiretti – del viaggio dell’onorevole De Gasperi, perché evidentemente gli inglesi hanno avuto l’impressione che noi ci volevamo troppo legare all’America. Perciò oggi vengono a chiederci di lasciare la porta libera anche a loro. Gli inglesi vedono realisticamente il futuro della Germania, anche se tengono un atteggiamento pratico assai contradittorio.

Avevano costruito buoni progetti di socializzazione per la Germania, ma hanno ceduto davanti a resistenze capitalistiche interne.

Dunque anche agli inglesi io credo che possiamo avvicinarci. Ma dobbiamo farlo chiedendo sempre, apertamente, alcune garanzie; e non tanto garanzie di revisione delle clausole militari che oggi essi già ci offrono – stando almeno ai giornali di questa mattina – ma piuttosto altre garanzie, garanzie economiche e la garanzia appunto della nostra presenza nella definizione del problema tedesco. E poi anche questo: che ci si lasci fare, che non ci si impedisca, come più volte ci si è impedito, di fare una politica di amicizia anche verso l’Oriente.

Il Trattato di pace ha inciso sulla carne viva del territorio nazionale, peserà su una o due generazioni e ripeto perciò che avrei desiderato che non si fosse apposta la firma. Tuttavia, un risultato positivo ci può essere anche così ed è quello di creare all’Italia un’apertura verso l’Oriente, un’apertura cioè verso Paesi in cui non eravamo finora ammessi, o eravamo ammessi solo attraverso la porta di servizio, perché eravamo considerati come un Paese ancora legato alle responsabilità del fascismo, quindi ancora nemico. Ora questa condizione è mutata. Il nostro avvenire economico, poiché si dà tanta importanza alla questione economica da parte del Governo, a lunga scadenza non sta ad occidente. Dico ciò in base all’esperienza fra le due guerre mondiali, e in vista delle direzioni verso cui vanno gli investimenti di capitale statunitense e che sono l’America latina, la Cina, il Giappone, non l’Europa.

Il nostro avvenire economico sta sì in parte nell’America latina, per quanto concerne l’emigrazione, ma sta fondamentalmente nei rapporti con l’Europa orientale e centrale.

Ho avuto il privilegio di trascorrere alcune settimane, recentemente, nell’Europa danubiana e la prima constatazione che ho fatto è che il sipario di ferro non esiste, non esiste nulla che ci divida da quella parte del mondo, se non il residuo psicologico di una guerra che ora è finita.

Esistono delle incomprensioni, ma esistono colà dei regimi economici e politici di libertà, di democrazia e di progresso sociale, che possono essere diversi dal nostro, ma non sono tanto diversi da non permetterci l’integrazione con quelle economie e la rinascita, che ne deriva, di una politica estera italiana capace di iniziativa propria autonoma.

Se è ridicolo voler fare da mediatori, data la nostra forza modesta, tra tutto l’Occidente e tutto l’Oriente, fra Washington e Mosca, è però realistico creare una politica mediatrice tra Parigi, Roma, Praga, Budapest, Bucarest e anche Belgrado, Vienna, Berlino.

È qui che può rinascere la nostra politica estera. È qui che deve rinascere quello spirito della Resistenza, per cui abbiamo piegato persino gli alleati, quando volevano imporci la monarchia e immischiarsi nelle cose interne nostre.

Ci siamo trovati in guerra con le democrazie, ma grazie alla guerra di liberazione possiamo rialzare la testa. Quei paesi dell’Europa centrale possono avere bisogno di noi, come noi di loro. Noi possiamo avere bisogno degli Stati Uniti d’America, ma gli Stati Uniti d’America non hanno bisogno di noi; salvo che per il castello di carta di Byrnes, il quale si era immaginato, dopo il discorso di Churchill a Fulton, di doversi assicurare delle basi politiche particolari in Europa.

In realtà il problema dell’unità è all’infuori delle proposte di Churchill, è l’unità tra l’Europa occidentale e quella orientale. In questo senso noi valutiamo quel che il Conte Sforza ha messo nella sua nota dopo la firma del Trattato di pace, cioè l’accenno alla nostra sovrapopolazione, ai 45 milioni di italiani che non tutti trovano pane in questo Paese. Quella frase ha il suo valore rispetto all’emigrazione, ma venendo dal conte Sforza, che non è mai stato nazionalista, ha anche un valore politico, avrà un peso economico e politico quando si potrà riferire a masse che lavorano nelle nostre fabbriche e creano prodotti che sappiamo dove esportare; quando si riferirà ad un popolo forte, che si è riconquistato il suo prestigio e che sa farlo valere. Questo varrà soprattutto verso l’Europa centrale, in unione alla quale noi, 45 milioni di italiani, conteremo moltissimo.

Ed anche questa volta, come dopo il 1849, malgrado le delusioni che ci dà la democrazia internazionale – analoghe a quelle che ci davano allora la democrazia francese e il liberalismo inglese – questo Paese saprà risorgere con la sua propria forza di volontà, e grazie allo spirito democratico internazionale, che sopravvive nei popoli. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Saragat. Ne ha facoltà.

SARAGAT. Abbiamo ascoltato con deferenza il discorso dell’onorevole De Gasperi ed abbiamo trovato in esso gli accenti che sono tipici della personalità del nostro Primo Ministro. La nota umana ha risuonato nel suo discorso, quando egli ha parlato dell’ingiusto dettato di pace; ha risuonato perché egli parlava di cose che sente profondamente.

De Gasperi è veramente, come è stato detto già da altri, l’uomo della marca di frontiera. Chi, come me, ha avuto l’onore di collaborare con lui a Parigi, intende il significato della sua emozione ed intende perché, quando Egli parlò di quei problemi, tutta l’Assemblea vibrò come un’anima sola. Ma sono stati solo pochi istanti di emozione.

Appena l’onorevole De Gasperi è passato dai problemi internazionali a quelli della politica interna, appena è passato a trattare della politica del Governo in materia sociale, siamo subito scesi al terreno dell’ordinaria amministrazione. Ed, in fondo, non poteva essere diversamente, perché, a differenza dell’uomo di Stato francese, che recentemente, presentando alla Camera di quel Paese il suo Governo, poteva dire che si trattava di qualche cosa di insolito, l’onorevole De Gasperi, presentando il suo Governo, non poteva dire altro che si trattava di cosa arcinota.

Il nuovo Governo, infatti, è la copia, leggermente modificata, non voglio dire, deformata, del Governo precedente.

Ed il programma di questo Governo – per valermi di un’immagine di cui si è valso lo stesso Presidente De Gasperi nel suo discorso ai 21 a Parigi – è come quella prefazione, che si scrive dopo che il libro è stato compilato. Il programma è stato fatto dopo la formazione del Governo. L’onorevole Tremelloni vi dirà in un discorso che deve tenere in questa Assemblea, cosa pensa il partito socialista dei lavoratori italiani del programma di questo Governo.

Non entriamo, quindi, nel dettaglio per questa parte, tanto più che ad illuminare intorno alle prospettive di quella che sarà l’azione di questo Governo, basta ricordare ciò che è stato fatto o meglio ciò che non è stato fatto nei mesi scorsi.

Basterà, del resto, dare uno sguardo alle cifre, a quelle cifre, di cui è stato detto che non si sa se governino il mondo, ma che ci dicono, però, se il mondo è bene o è male governato.

E stando alle cifre bisogna concludere su un giudizio non troppo favorevole intorno alla gestione del Governo degli ultimi mesi passati: né possiamo farci prospettive troppo rosee sulla gestione di questo Governo nei mesi prossimi.

È mancato, intanto, dal 2 giugno ad oggi, un serio coordinamento fra i progetti governativi coi dati della realtà effettiva del nostro Paese. Perché non basta, per esempio, parlare di centinaia di miliardi di lavori pubblici, quando non si sono prese le misure adeguate per raccogliere questi miliardi ed i materiali necessari per i lavori.

Un secondo elemento, che emerge dalla gestione del passato Governo, elemento che abbiamo la certezza di vedere risorgere anche nel Governo attuale, è che i Ministeri tecnici si sono trovati quasi sempre in contrasto fra di loro ed hanno neutralizzato reciprocamente la loro azione.

C’è stato, però, un elemento favorevole, che non dipende dal Governo.

C’è stata una congiuntura internazionale, che ha favorito le nostre esportazioni. C’è stata, sovrattutto, la qualità eccezionale di lavoro, delle nostre classi lavoratrici.

Ma – badate! – la congiuntura favorevole sul mercato internazionale non è eterna. Tra pochi mesi noi ci troveremo di fronte alla concorrenza dell’industria di altri Paesi e dovremo difendere duramente le posizioni oggi conquistate.

Badate, infine, che la pazienza ed il potere di sopportazione delle nostre classi lavoratrici non sono illimitati.

Nel giugno, l’onorevole De Gasperi aveva preso l’impegno di difendere la circolazione ad ogni costo.

La parola d’ordine allora qual era?

Si diceva: o prestito o inflazione. Abbiamo avuto il prestito e abbiamo avuta l’inflazione. In quanto al prestito, il meno che si possa dire è che non è stato organizzato con quegli accorgimenti che avrebbero potuto rendere più efficace il suo gettito; e, cosa peggiore, non è stato organizzato, con quegli accorgimenti che avrebbero permesso di non pregiudicare il nuovo prestito che fra qualche mese – lo vogliate o non lo vogliate – dovrà figurare all’ordine del giorno.

D’altro canto, la circolazione è passata dai 400 miliardi circa del mese di giugno, a 465 miliardi in novembre, e credo che oggi non si sia lontani dai 500 miliardi. I prezzi intanto, nello stesso periodo, sono saliti di oltre il 50 per cento.

Il Governo si era impegnato di potenziare i sistemi di accertamento delle imposte; di applicare l’imposta straordinaria sul patrimonio, di fare il cambio dei biglietti; di contenere in cifre ragionevoli il deficit. In un momento di euforia si è persino parlato di pareggio per il bilancio ordinario per l’esercizio 1947-48. Oggi la situazione qual è? Il deficit che era di circa 200 miliardi nel giugno 1946, oggi è presumibilmente intorno alla cifra di 500 miliardi; ed è in questa cifra tutto l’elemento problematico della situazione attuale.

Si era promesso anche di riorganizzare le finanze delle altre imprese pubbliche. Ora voi sapete che le ferrovie hanno un deficit di circa 25 miliardi. È pur vero che, dagli elementi che abbiamo, si può sperare che sarà ridotto.

E per carità di Patria vogliamo stendere un velo sulla gestione delle finanze comunali. D’altro canto, voi tutti sapete come le poste navighino in acque molto difficili. Si era promesso anche di decentrare i lavori pubblici; e questa promessa è rimasta allo stato di puro progetto.

Intanto i prezzi continuano a salire, e i due milioni di disoccupati che abbiamo in Italia attestano quanto sia irrisorio l’articolo 32 del nuovo progetto di Costituzione della Repubblica. E si potrebbe continuare in questo doloroso elenco.

Sono in fondo delle cose che tutti conosciamo, che tutto il Paese conosce. Ma ciò, che è grave, vedete, nella situazione attuale è appunto questo: non è già l’ignoranza che faccia velo; è l’inerzia ed è la sfiducia che paralizzano. Si ha quasi l’impressione oggi che la società italiana si installi passivamente in una situazione, nella quale in mancanza di un risveglio rapido e decisivo, non potrà che aggravarsi in modo forse irrimediabile. Questo vuol dire che il problema non è più di natura puramente tecnica, ma di natura sociale e politica. Il che non vuol dire che non ci siano le forze politiche suscettibili di risolvere questi problemi; vuol dire che manca la classe politica capace di dirigere queste forze o portarle alla risoluzione di questi problemi. E ciò che è più doloroso è la constatazione che alla caduta del fascismo esistevano le condizioni per ricostruire l’economia italiana su basi meno inique di quelle di fronte alle quali ci troviamo oggi.

In nessun paese d’Europa, se si eccettua la Spagna, forse, esistono differenze così offensive per il senso morale fra il livello di vita delle classi lavoratrici e quello dei ceti privilegiati; in nessun paese d’Europa esistono differenze così offensive fra il livello di vita di regioni italiane con altre regioni italiane. Il potere d’acquisto medio delle popolazioni dell’Italia meridionale è ancora oggi – voi lo sapete – circa la metà del potere d’acquisto medio delle popolazioni dell’Italia del Nord.

E che dire poi in generale della situazione dei lavoratori italiani di tutta la penisola, se si paragona a quella dei ceti privilegiati? Sapete che il potere di acquisto dei salari degli operai è circa la metà di quello che era prima della guerra; e sapete egualmente che il      potere di acquisto degli impiegati è circa un quarto. C’è in questa solidarietà, nella miseria tra operai e impiegati, una ragione profonda che ci spinge a considerare la necessità dell’unione fraterna di tutte queste forze del lavoro italiano. (Applausi).

Queste inique differenze operano in Italia nel senso di una dissociazione di quello spirito unitario, nel senso di una lacerazione di quell’anima collettiva che deve essere il fondamento di ogni comunità democratica, perché nessuna democrazia può vivere e prosperare se, pur nelle differenze di classe inevitabili nel regime attuale, non esista un denominatore comune di ideali e di interessi, che saldi tutti gli uomini viventi sulla stessa terra in un patto unico di solidarietà e di fratellanza.

Ma quando la differenza di vita tra uomo ed uomo, fra regione e regione diventa troppo iniqua, come nel caso del nostro Paese, allora questo patto, che è il fondamento stesso della vita democratica, rischia di essere spezzato e ci vuole tutto il sentimento patriottico delle nostre classi lavoratrici, tutto il sentimento patriottico delle nostre popolazioni dell’Italia meridionale, per non reagire contro questa forza disgregatrice.

Ma esisteva, ripeto, alla caduta del fascismo, appunto per la decomposizione totale della società italiana, la possibilità di iniziare l’opera di ricostruzione secondo un piano generale che avrebbe dovuto essere ispirato al criterio di convogliare le forze della ricostruzione nel senso di determinare almeno un minimo di giustizia sociale.

Ci trovavamo allora nella situazione in cui si trova colui che è di fronte ad una città distrutta, alla cui ricostruzione è possibile provvedere secondo un piano regolatore che tenga conto delle esigenze degli abitanti. È avvenuto invece che per la carenza dell’apparato statale la ricostruzione si è determinata secondo la linea degli interessi privati e, quel ch’è peggio, secondo la linea di interessi egoistici di privilegiati a detrimento della collettività.

La vita certo riprende in Italia, e riprende in un modo che può stupire chi non conosce le immense risorse del nostro Paese. Ma riprende travolgendo o mettendo in condizioni di assoluta inferiorità il ceto economicamente più debole, cioè quello dei lavoratori.

Mi si può obiettare che la ricostruzione secondo un piano generale richiedeva lo strumento della pianificazione, e che lo strumento era lo Stato; ma che lo Stato doveva a sua volta essere ricostruito, perché in piena disgregazione.

L’osservazione è esatta. Ma che si è fatto in questi due anni per riorganizzare veramente la macchina dello Stato?

L’onorevole Tremelloni si intratterrà particolarmente su questo problema che è il problema fondamentale che in questi due ultimi anni non abbiamo saputo risolvere.

Ne volete una prova? In quasi tutti i paesi di Europa si è stati in grado di affrontare il delicatissimo problema del cambio della moneta. Per esempio, in Francia, il Ministero del tesoro è riuscito, per compiere questa operazione, a far aprire simultaneamente 40 mila sportelli. L’operazione è stata fatta due anni fa, se non erro. Ma noi dopo due anni non ci siamo riusciti. E non ci si venga a raccontare la storia dei clichès rubati. Non ci crediamo. Il cambio non l’abbiamo fatto perché lo Stato italiano non è ancora attrezzato a far quello che tutti gli altri paesi d’Europa hanno saputo fare.

Ma quello che è più grave, vedete, è che questa troppo lenta riorganizzazione della macchina statale – sono l’ultimo a pensare che sia deliberatamente voluta – asseconda quasi naturalmente come una tendenza ad accantonare quelle grandi riforme di struttura che sono indispensabili per rinnovare veramente il Paese. Anche qui, in quasi tutti i paesi d’Europa, si stanno apprestando risolutamente coraggiose riforme industriali, agrarie, coraggiose riforme nel mercato del credito; da noi si rinvia tutto alle calende greche. E dove questa volontà di procrastinare le necessarie riforme è emersa nel modo più evidente lo si è visto nella formazione della legge costitutiva di questa stessa Assemblea.

Quale sede sarebbe stata la più adatta per affrontare i grandi problemi di riforma di struttura che non un’Assemblea Costituente? Era un’occasione splendida per legare le grandi masse del popolo all’istituto rappresentativo della nuova Repubblica, per legare le classi lavoratrici allo Stato che sorge: e quella frattura dolorosa che constatiamo in Italia fra Stato e Paese avrebbe, forse, potuto essere saldata.

Questa frattura permane ancora, perché, appunto per procrastinare queste necessarie riforme, si è creata un’Assemblea Costituente, come quella che conosciamo, privata di ogni potere legislativo. Il che, vedete, ha avuto una doppia grave conseguenza. In primo luogo non s’è data una risposta efficace ed immediata ai bisogni delle classi lavoratrici. Per le classi lavoratrici la Repubblica non è soltanto la partecipazione attiva alla vita politica del Paese, ma anche partecipazione attiva alla sua vita economica e sociale.

Ma, in secondo luogo, svuotando questa Assemblea di ogni potere legislativo, si è determinata inconsciamente nel Paese una svalutazione dell’istituto parlamentare. Non nascondiamocelo, o colleghi; abbiamo un bel farci degli elogi reciproci sul funzionamento di questa Assemblea, abbiamo un bel riconoscere obiettivamente il lavoro magnifico che i nostri colleghi delle Commissioni hanno fatto. Ma dobbiamo dirci francamente: c’è un senso di sconforto; abbiamo l’impressione che questa Assemblea non sia quella che il popolo italiano avrebbe voluto.

BENEDETTI. Ma non era lei il Presidente?

SARAGAT. E ciò è avvenuto per colpa delle limitazioni che la legge stessa ci ha imposto all’atto della costituzione di questa Assemblea. (Commenti).

Avviene oggi, onorevoli colleghi, che la sostanza del potere politico permane fuori di quest’Aula. I partiti regolano i loro rapporti di forza fuori di qua; i Governi si fanno e disfanno fuori di qua. Nell’Assemblea si viene unicamente per prendere atto di quel che avviene fuori o, peggio ancora, nell’Assemblea i partiti vengono unicamente per portare lo strascico delle querele, delle loro giuste lotte che avvengono nel Paese. Si passa, nel seno di quest’Aula, a discussioni interessanti, ma quasi sempre monotone, a forma di agitazioni verbali violente; ma manca sempre in questa Assemblea l’elemento drammatico che scaturisce quando nel seno delle Assemblee politiche i partiti versano la sostanza del loro potere, dibattendo i problemi nazionali ed internazionali che interessano tutto il Paese.

Ci può essere in quest’Aula la passività, il diverbio: mancherà sempre quell’elemento drammatico che assume rilievo quando nelle Assemblee si discutono problemi nazionali e internazionali che interessano tutto il popolo.

Abbiamo creato un’Assemblea che ha tutti i difetti del sistema parlamentare, senza averne nessun vantaggio. E, signori, si è contribuito, così, ad allontanare dall’anima popolare un istituto che avrebbe potuto essere qualche cosa di veramente vivo e di veramente efficace.

E l’ultimo grave episodio di questa atonia dell’Assemblea, che è indipendente dalla volontà nostra, ma risulta dalla natura stessa delle cose in cui ci siamo venuti a trovare, lo si è visto nella storia della firma del trattato di pace. Singolare vicenda questa, che denuncia, non tanto la coraggiosa volontà del Governo di avocare a sé tutte le responsabilità, quanto la diffidenza nella capacità dell’Assemblea di avocare a sé questa responsabilità. Ha detto bene l’onorevole Lombardi che non è tanto la sostanza della cosa ad offenderci, quanto il modo: si era sempre pensato da tutti, ed anche da noi che siamo stati a Parigi di fronte ai 21, che questa Assemblea avrebbe dovuto essere investita della facoltà di decidere se firmare o meno. E lo pensava anche il Governo, pochi giorni fa, come risulta da un documento ufficiale del Ministero degli esteri; ma poi il Governo, per ragioni che noi non conosciamo, quand’anche possano essere eccellenti, ha cambiato idea ed oggi esso si presenta con l’aureola che gli deriva dall’essersi assunta la responsabilità.

Muoverò al Governo due obiezioni. La prima è che questo Governo ha avocato a sé la decisione, ma non è esatto che, fin dall’inizio, abbia evitato di impegnare la responsabilità dell’Assemblea.

La verità è che, attraverso la Commissione dei trattati, il Governo ha cercato di ottenere un avallo che, se fosse stato concesso, avrebbe pregiudicato gravemente la nostra libertà di azione.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non l’ho chiesto.

SARAGAT. Non siete voi che lo avete chiesto, ma l’onorevole Gronchi ed è la stessa cosa. (Commenti). Si deve alla fermezza della Commissione, se questo avallo non è stato concesso; e non ho bisogno di dire che questa linea di condotta del Governo non era la più felice. Due sarebbero state le strade che si sarebbero potute seguire: o investire l’Assemblea di tutte le responsabilità, oppure evitare che l’Assemblea fosse implicata in qualsiasi modo in questo problema, così da farle avere le mani pienamente libere all’atto della ratifica. Se ciò non è avvenuto, si deve alla saggezza della stessa Commissione dei trattati. La seconda osservazione è che, per un complesso di circostanze, onorevole De Gasperi, abbiamo ricavato l’impressione che, da parte vostra, in questa faccenda dell’avocazione di tutte le responsabilità al Governo, ci fosse, sì, certamente un desiderio patriottico di evitare di investirne l’Assemblea, ma anche qualche altra cosa: abbiamo assistito ad assicurazioni ed a contro-assicurazioni fra i membri di un grande partito che è al Governo. Da parte dell’onorevole De Gasperi, vi è stato, sì, un sentimento patriottico, ma anche qualche altra cosa: la volontà, sì, di sottrarre l’Assemblea da una troppo grave responsabilità, ma anche quella di evitare di porre un partito politico nella necessità di dover decidere.

Questa mi sembra la ragione che ha determinato l’onorevole De Gasperi ad assumere questo atteggiamento: atteggiamento che non è valso certo a rafforzare il prestigio dell’Assemblea di fronte al Paese. Qui noi non portiamo che l’eco di quella amarezza che oggi è nel cuore di tutti gli italiani.

Noi non ci siamo fatti e non ci facciamo nessuna illusione intorno alla possibilità di rimuovere sul piano diplomatico le implacabili decisioni dei quattro Grandi. Ed erra, a mio avviso, chi pensa che il Trattato di pace avrebbe potuto essere migliore di quello che è. Chi, come me, è stato testimone della gestazione di questo Trattato, sa quali forze e quali interessi erano in giuoco, che hanno soverchiato interamente la nostra debole condotta.

È stato detto giustamente che questo Trattato, più che Trattato di pace fra l’Italia e le Nazioni Unite, può essere considerato come un trattato di pace che i quattro Grandi hanno stipulato fra di loro. Ne parleremo, del resto, quando il problema della ratifica sarà posto all’ordine del giorno. Oggi ci limitiamo ad affermare che la voce di protesta di questa Assemblea non avrebbe certo modificato la sostanza delle cose. Lo sappiamo che non avrebbe certo modificato l’implacabile volontà degli Stati maggiori dei quattro grandi Stati. Ma siamo certi che la voce dell’Assemblea avrebbe trovato eco presso le Assemblee degli altri Paesi del mondo, ed oggi noi non possiamo rinunciare a nessuna di quelle cose che possono mettere i germi di una rinascita dello spirito di giustizia a domani. Del resto, il simbolo più espressivo di questa situazione assurda in cui noi ci siamo trovati (e ci siamo trovati per colpa dell’azione del Governo in questi giorni) è che l’atto più grande della storia italiana in questo periodo è stato solennizzato da noi non da una voce di protesta, non da un grido di protesta, ma da trenta minuti di silenzio. I dieci minuti di silenzio del popolo italiano sono stati profondamente eloquenti; i trenta minuti di silenzio di questa Assemblea sono stati unicamente la prova della nostra impotenza. Ed ancora una volta l’Assemblea non ha potuto dare una voce alla tragedia profonda che ha dominato in quel momento il popolo italiano.

Ma anche in questi casi, onorevoli colleghi, a che giova fare recriminazioni? Sono cose che tutti sentono, che tutti sanno. E la gravità della situazione è precisamente in ciò, che manca la volontà di reagire, di dare un’anima a queste istituzioni repubblicane che sono l’unica garanzia di rinascita al nostro Paese.

Gioverà, a questo proposito, onorevoli colleghi, ricordare la definizione che della repubblica ha dato un grande socialista il Faurés. Che cos’è la Repubblica? È un grande atto di fiducia. Instaurare la Repubblica è proclamare una riunione di uomini che sapranno tracciare, essi stessi, le regole comuni alle loro azioni. Se sapranno conciliare la libertà e la legge, il movimento e l’ordine, essi sapranno combattersi senza lacerarsi, perché le loro divisioni non andranno fino al colore cronico della guerra civile ed essi non cercheranno mai una dittatura, anche passeggera, una tregua funesta o un vile riposo.

L’onorevole Lombardi ha ricordato giustamente per noi delle sinistre, ha rivendicato per noi delle sinistre che non siamo al Governo, la funzione di veri oppositori. Questa funzione non la rivendichiamo, perché sentiamo che nel conformismo in cui si installava la maggioranza, il sistema democratico repubblicano si svuotava a poco a poco della sua sostanza più viva, della sua sostanza più ricca, che è appunto la fiducia delle masse popolari.

Certo, oggi, onorevole colleghi, l’orrore profondo per la dittatura fascista è tale, il ricordo dei suoi delitti è così scolpito nello spirito di tutti gli italiani, le conseguenze delle catastrofi che ha provocato sono così presenti e pesano così sul destino della nostra generazione, che la Repubblica democratica oggi può beneficiare di un largo, larghissimo margine di credito che la storia gli accorda. Ma badate però che non conviene abusarne, perché nessun regime può vivere unicamente in funzione degli orrori che suscita negli uomini il ricordo del regime che l’ha preceduto; la democrazia soprattutto non può veramente prosperare e vivere, se non trae la propria ragione d’essere in sé stessa, se non trae la propria forza dalla fiducia profonda delle classi popolari. Inazione, paralisi, ordinaria amministrazione, per un sistema democratico sono sintomi di decadenza, e la democrazia non può vivere se non dilata la sua sfera d’azione in campi sempre più vasti, se non passa, in altri termini, dalla sfera puramente politica alla sfera economica e sociale. Ma oggi noi assistiamo al riaffermarsi in Italia ed al consolidarsi di forze politiche e di forze economiche che hanno interesse ad arrestare, o quanto meno a frenare, questo moto democratico del nostro Paese. Sono le forze del capitalismo monopolistico, di cui ha parlato molto bene l’onorevole Riccardo Lombardi, le quali rapidamente riconquistano le posizioni che avevano perdute; sono le forze del parassitismo agrario, le quali riprendono in molte regioni il controllo che noi pensavamo aver potuto debellare per sempre.

È stato acutamente detto che, totalitarie fino a ieri, queste forze oggi si presentano con una maschera liberale. Viviamo in tempi in cui ognuno si riveste dell’armatura del proprio avversario per meglio combatterlo. Se noi ci attenessimo ai programmi dei vari movimenti sociali e politici che oggi ci sono in Italia, dovremmo considerare che viviamo veramente nell’epoca aurea della libertà democratica e della giustizia sociale.

Ma la realtà, purtroppo, è un po’ diversa. I veri amici della democrazia in Italia sanno che hanno ragione di essere turbati ed inquieti, e le ragioni dell’inquietudine non risiedono soltanto nelle difficoltà obiettive di fronte alle quali ci troviamo per risolvere i problemi economici e sociali del Paese. Le ragioni della inquietudine stanno in ciò che noi sentiamo oggi, che la sorte stessa della democrazia in Italia è in giuoco, e per non estendere troppo il dibattito, e per limitarlo alla sfera di rapporti tra Governo e partiti, possiamo dire che il problema essenziale, il problema centrale che dobbiamo affrontare è appunto quello di armonizzare l’attività del primo con l’attività dei secondi.

I partiti politici sono certo uno degli strumenti essenziali al funzionamento di una democrazia moderna. I partiti politici sono sorti storicamente per organizzare il suffragio universale, ed hanno visto in seguito la loro azione dilatarsi in sfere sempre più vaste, abbracciare zone sempre più larghe e comprendere tutto ciò che nell’individuo è sociale. Oggi i partiti politici appaiono come gli organismi che danno la risposta a tutti i problemi della vita collettiva. In essi il singolo trova la possibilità di lottare per i propri ideali, vi trova il luogo in cui può uscire dall’isolamento in cui la società attuale lo ha collocato, il modo di stabilire rapporti fraterni e umani con coloro che vivono nello stesso partito e di ricreare nel partito i rapporti di fraternità che il sistema economico nel quale viviamo esclude. Ciò vale soprattutto per i partiti di sinistra, che danno risposta al più profondo bisogno umano che è quello della giustizia. Come stupirsi, onorevoli colleghi, se in esso il singolo versa tutta la somma delle sue capacità, i suoi sacrifici, tutto il suo fervore; e se talvolta questo patriottismo di partito va a detrimento dei doveri che in una democrazia ogni cittadino deve avere verso lo Stato? Certo è, in ogni caso, che il loro sviluppo irresistibile rompe gli schemi delle vecchie democrazie parlamentari, le quali mal si adattano al sorgere di queste forze giovani che portano in sé come la speranza di un vero ordine nuovo.

Le stesse difficoltà di adattamento si trovano, appunto, per il funzionamento dei governi parlamentari. Una voce eloquente, molto eloquente, si è levata all’inizio dei lavori di questa Assemblea, per ammonire che questo appunto è il problema politico centrale del nostro tempo.

Come esso si risolverà non lo sappiamo.

Oggi ci troviamo in pieno travaglio di adattamento di queste forze, delle forze che la democrazia tradizionale ci ha legato e che le forze nuove devono trasformare dall’interno.

A noi spetta di assecondare questo moto di adattamento dei partiti all’apparato dello Stato, al funzionamento dei Governi moderni, salvando, però, il diritto inalienabile della responsabilità individuale, vale a dire la libertà umana.

Questa nozione di responsabilità può e deve evolversi e trasformarsi dalla nozione egoistica della responsabilità verso se stesso, che è tipica della cosiddetta libertà borghese, al sentimento più vasto della responsabilità che abbiamo verso i nostri simili, verso tutti gli uomini.

È quella che noi socialisti chiamiamo libertà sociale.

Ma il principio che deve permanere come valido in tutti i regimi liberi e che, in ultima istanza, è nell’intimità della coscienza dell’individuo, è che l’uomo deve potere decidere a trarre norme per la propria condotta, senza che una coercizione esterna gli tolga il diritto di giudicare e di agire nel quadro della legge democratica, in conformità di ciò che crede il giusto, di ciò che crede il bene.

Oggi è questo problema di conciliazione del bisogno di giustizia e del bisogno di libertà, che si traduce in termini politici sul piano dell’azione di Governo, nella possibilità di armonizzare le forze che più impetuosamente rispondono a questo bisogno di giustizia, che sono i partiti di sinistra, i partiti proletari, con quelle che sono legate ad interessi o ideali tradizionali, in cui non tutto naturalmente è da respingere.

In altri termini, il problema oggi è di armonizzare tra di loro, sul piano del Governo, partiti politici, ognuno dei quali è completo in se stesso, quasi Stato nello Stato, e tendenti, per impulso delle loro strutture, a modellare la società a loro immagine esclusiva.

Questa tendenza esclusivistica dei partiti politici, tendenza che è implicita in tutti i partiti e da cui alcuni sono dominati più ed altri meno, è il pericolo maggiore che insidia le democrazie moderne.

È da queste tendenze che derivano tutte le difficoltà dei Governi di coalizione e tutti i pericoli dei Governi di maggioranza.

È lo spettro di un’invadenza esclusivistica dei partiti che induce molti a considerare, quasi con apprensione, i Governi di maggioranza omogenea e portare quasi d’istinto a considerare come salvaguardia della democrazia dei Governi di coalizione, che necessariamente sono impotenti in ragione delle forze contrastanti, che si annullano nel loro seno.

La democrazia vive così sotto il segno dell’impotenza, come se questa fosse l’unica garanzia.

Ma è chiaro che questa situazione a lungo non può durare.

Quella che chiamiamo democrazia sul piano interno è, per molti aspetti, simile a quella che chiamiamo pace sul piano internazionale.

Come la pace che oggi conosciamo non è altro che equilibrio di forze antagoniste, in ognuna delle quali è contenuto un pericolo di guerra, così quella che chiamiamo nell’interno la democrazia, nell’Europa occidentale, non è altro che equilibrio dei partiti, in ognuno dei quali è contenuto, virtualmente, un pericolo di dittatura.

Questa non è la vera pace, come non è la vera democrazia.

Come la vera pace non potrà generarsi dall’equilibrio di forze opposte, ma dal concorso di forze convergenti e solidali, così la democrazia non può consolidarsi che se lo spettro dell’intolleranza in seno ai partiti viene bandito, e se la maggioranza potrà allontanare da sé l’ipoteca funesta dell’oppressione della minoranza, l’ipoteca funesta della dittatura.

Il Governo che sta di fronte a noi è l’immagine esatta della situazione che vi sto descrivendo. Esso ha quasi l’aria di dirci che la sua relativa impotenza è il prezzo che noi dobbiamo pagare per la salvaguardia del nostro Paese, per la salvaguardia della democrazia politica. Diciamo subito che nella situazione attuale il Governo esprime esattamente i rapporti di forze esistenti, e che pertanto nulla di molto diverso si poteva fare da quello che è stato fatto. Ma è appunto perché noi del Partito socialista dei lavoratori italiani non ci vogliamo installare in questa situazione – situazione che alla lunga porterebbe alla paralisi e alla dittatura – che noi abbiamo rifiutato la nostra collaborazione. E come nel campo internazionale noi socialisti invochiamo il sorgere di una forza popolare che rompa l’antitesi tragica che esiste oggi tra la pace di equilibrio e la guerra e assicuri all’Europa la pace vera – e pensiamo che questa forza di pace in Europa non può essere trovata nei consessi internazionali, ma deve essere suscitata nel seno delle masse popolari in virtù degli ideali della democrazia socialista – così sul piano politico interno pensiamo che sia assurdo cercare in una sapiente combinazione ministeriale fra i partiti esistenti la formula per uscire dalla contradizione in cui la democrazia italiana si dibatte oggi.

Noi pensiamo che per uscire da questa situazione occorra suscitare nel Paese una forza animata dal senso di giustizia sociale e profondamente dominata dall’ideale di libertà, che travolga questa contradizione nel moto congenito appunto della libertà e della giustizia sociale. L’impresa cui noi ci siamo accinti, onorevoli colleghi, è stata dettata dalla consapevolezza profonda che la democrazia italiana si è venuta a trovare in un vicolo cieco, e dalla volontà di riportarla sulla via maestra, quella via maestra della democrazia socialista che si richiama al pensiero e all’esempio di Filippo Turati, Giacomo Matteotti e Bruno Buozzi. Le forze popolari cui facciamo appello noi socialisti e che vogliamo organizzare devono poter proiettare nella vita politica del nostro Paese quell’elemento veramente risolutivo che darà impulso verso la giustizia sociale, eliminando gli ostacoli costituiti dal pericolo ideale o presunto della dittatura.

È quindi a tutte le classi lavoratrici che noi ci rivolgiamo: agli operai, ai contadini, ai tecnici, ai professionisti, agli impiegati, agli intellettuali, perché ci aiutino in questo lavoro di liberazione della democrazia italiana (Commenti); in questo compito che sgombrerà la strada che il nostro popolo percorre, affinché nulla lo arresti nella sua marcia in avanti verso quell’ordine nuovo di libertà, di giustizia sociale e di pace a cui, dopo gli orrori della guerra, della dittatura e della miseria, ha diritto di tendere per il proprio benessere e per il benessere dei propri figli. (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mazza. Ne ha facoltà.

MAZZA. L’ora tarda mi avrebbe dovuto far rinunciare alla parola; ma dopo l’inizio della campagna elettorale dell’onorevole Saragat, io ardisco prenderla, anche essendo un novellino.

Poco fa, l’onorevole Saragat «in sé medesmo si volgeva coi denti», e tutto mordeva: il Governo, l’Assemblea Costituente, la democrazia dei partiti di sinistra; quella democrazia dei partiti di sinistra, della quale fino a ieri, egli è stato uno dei maggiori alfieri. Ora io mi domando: l’onorevole Saragat, che cosa rappresenta? L’ala sinistra della sinistra? L’ala destra della sinistra? Io non ci capisco più niente. (Si ride – Commenti).

In omaggio all’ora tarda accetterò il consiglio di sobrietà che il Presidente onorevole Conti ieri ci rivolgeva, ma non seguirò l’esempio dell’onorevole Conti oratore di giorni fa. (Si ride).

Dai discorsi degli oratori precedenti ho avuto l’impressione che tutti siano d’accordo sulla necessità della concordia nazionale. Necessità sentita nel Paese, espressa dai giornali, richiesta dalla popolazione. Necessità, quindi di ottenere questa concordia oltre che, attraverso la piena solidarietà ministeriale, anche attraverso la conciliazione dei partiti, attraverso un complesso di leggi valide a riconciliare gli italiani, atte a far dimenticare ogni differenza, ogni sperequazione fra nord e sud, atte a far ottenere anche la ricostruzione morale, psicologica degli italiani, perché solo attraverso questa politica unitaria si possono trovare le basi per la ricostruzione materiale della Patria.

Ciò si può ottenere, non parlando mai più delle leggi fasciste, del confino di polizia, del fermo di polizia, di leggi speciali per la stampa, di leggi retroattive. Se ci sono dei disonesti, dei criminali, degli infatuati, capaci di rinunciare alla sovrumana bellezza di questa libertà di parola che consente ad ognuno di noi di esprimere il proprio pensiero, ci sia per essi il Codice penale. Ma quelli che hanno solo la colpa di aver servito onestamente le loro idee, come ognuno di noi oggi serve la propria, per quelli nei dobbiamo ricordare la legge del perdono dettata dal Vangelo per ottenere la fratellanza nazionale. Il Governo deve altresì sentire il dovere di distribuire equamente il lavoro.

Oggi si verifica questo, che mentre al nord le industrie hanno tre turni quotidiani di lavoro, al sud o non si lavora, o si lavora poche ore alla settimana.

Bisogna estendere la cassa di integrazione salari che esiste solo al nord al di là della linea gotica, anche al sud, perché anche al sud gli industriali pagano i contributi e con gli industriali pagano i lavoratori.

Bisogna distribuire contemporaneamente e in maniera simile gli approvvigionamenti alimentari. A Napoli, o signori (e non ho nessuna intenzione di essere il nuovo Finocchiaro Aprile della mia Napoli) non abbiamo ancora ricevuto la pasta del mese di dicembre e, vi dirò di più, i signori della Sepral vorrebbero comodamente saltare a piè pari la distribuzione dell’arretrato di dicembre.

Bisogna che i sussidi siano distribuiti in egual misura in ogni Regione d’Italia.

Se noi vogliamo la concordia degli italiani, è necessario che il Governo difenda con leale giustizia non determinate classi sociali, ma tutte le classi e i loro discordanti interessi: bisogna che li difenda con giustizia senza demagogia.

Non si può dimenticare, onorevoli colleghi, che in Italia esiste un problema della ricostruzione edilizia: cinque milioni di piccoli proprietari vedono sparire la loro proprietà, perché oggi gli oneri fiscali sono maggiori delle entrate. In questa maniera si anticipa una eventuale abolizione del diritto di proprietà che forse la Costituzione non sancirà mai.

Bisogna affrontarlo e risolverlo questo problema, perché non si tratta soltanto del problema di cinque milioni di piccoli proprietari; ma si tratta di un problema economico che investe tutta la Nazione; perché, quando la ricostruzione edilizia rinasce, rinascono tutte le industrie e perché – non illudetevi, signori del Governo – voi non potrete mai combattere la tubercolosi e le malattie sociali, se gli italiani non avranno le loro case.

C’è un altro grave problema che riguarda la classe medica e le classi lavoratrici: il problema delle casse mutue. Succede questo, in Italia: gli operai pagano dei contributi; i medici ricevono il 6 per cento dei contributi pagati dagli operai; un altro 8 per cento viene speso per i medicinali, 6 più 8 uguale 14 per cento; l’86 per cento viene assorbito dai direttori amministrativi, dalle segretarie e dai ragionieri, dalle sopra strutture parassitarie, (Approvazioni) a danno della classe lavoratrice che non viene assistita e senza la possibilità per i medici di sfamare le loro famiglie.

Solo attraverso delle leggi umane, delle leggi giuste, uniche in Italia, si può arrivare a quell’abbraccio che, molto opportunamente, l’onorevole Conti si augurava di poter scambiare, abbraccio che io personalmente sono onorato di accettare, perché la mia sensibilità mi fa porre l’Italia – oggi repubblicana – al disopra di ogni mio sentimento. Ma perché il nostro abbraccio sia efficace, onorevole Conti, deve essere contemporaneo a quello di tutti gli italiani.

Una sola osservazione vorrei fare all’onorevole Riccardo Lombardi, il quale però, tenendo conto della mia nullità, si è dileguato. Gli vorrei chiedere: egli ha chiesto la punizione dei generali responsabili della nostra sconfitta ed io sono d’accordo con lui; se i generali sono colpevoli, devono essere puniti; ma in questo caso, onorevole Lombardi, devono essere puniti anche i politici e i propagandisti che ugualmente contribuirono alla nostra sconfitta. (Commenti a sinistra).

Non credo che questo volesse dire l’onorevole Lombardi, ma le sue parole hanno tradito gli intimi suoi pensieri.

Ieri, l’onorevole Scoccimarro si è posto un interrogativo: vorrà la rinascente democrazia italiana dare libero campo alle richieste della classe lavoratrice? Io rispondo sì, alla domanda dell’onorevole Scoccimarro. Ma pongo un interrogativo: onorevole Scoccimarro, il partito comunista italiano vorrà permettere, allorché avrà conquistato il potere – che Iddio ce ne liberi – l’esistenza di una opposizione democratica, libera di diventare democraticamente maggioranza? Che ne dice, onorevole Scoccimarro? (Commenti a sinistra). Egli ha detto pure: il Governo non ha fatto il suo dovere. Proprio quel Governo al quale egli ha appartenuto per due anni, ma non ha avuto, però, il coraggio di dire che quel che s’è fatto di buono in Italia è stato fatto dall’iniziativa privata.

In una sola cosa io sono d’accordo con l’onorevole Scoccimarro: è per la questione dei pensionati. Io non so se egli abbia ragione di dire che ieri non si poteva risolvere il problema; ma, se così è, si affronti questo problema e lo si risolva oggi che a suo dire è possibile farlo.

È con molto dolore che ieri io ho sentito parlare dall’onorevole Scoccimarro del doppio giuoco dei partiti al Governo; egli ha accusato i democratici cristiani; ho sentito le beccate democristiane accusare i comunisti e speravo che tutto ciò riguardasse il passato Governo e che, con le nostalgiche e autobiografiche dichiarazioni dell’onorevole Scoccimarro, si fosse posta la parola fine al sistema. Oggi però l’onorevole Saragat ha riposto in giuoco la questione. Oggi si verifica infatti un altro paradosso; che cioè al Governo vi è una sinistra e all’opposizione vi è un’altra sinistra. Non credo che la nazione possa comprendere questa strana solidarietà; voglio augurarmi viceversa che, onestamente, la Camera del lavoro vorrà farlo. E d’altra parte non credo che oggi la Confederazione generale del lavoro possa fare diversamente, perché scioperare contro il Governo, chiedere pane e lavoro, significa scioperare contro il compagno Cerretti e contro il compagno Sereni.

Onorevoli colleghi, ho finito. Ho veduto espressa da molti colleghi e da molti giornali la meraviglia per l’infame trattato inflittoci dagli alleati: permettetemi di dirvi che io sono sorpreso di questa meraviglia; non bisogna dimenticare che altri uomini delle stesse nazioni hanno già altra volta tradito ed umiliato la nostra vittoria. Voglio soltanto rivolgere all’assente Ministro degli esteri, onorevole Sforza, una viva preghiera. Egli, nella seduta del 26 settembre, nella sua dichiarazione di voto, dichiarò che il fascismo si è imposto in Italia con il plauso delle grandi nazioni europee. Questa corresponsabilità si deve ricordare allo straniero, come a coloro i quali ci accusano di avere svolto una politica di aggressioni, bisogna ricordare che tutta la storia inglese, tutta la sua politica imperialistica e coloniale, sta a dimostrare una politica di aggressioni. E ricordi pure alla Russia, onorevole Sforza; ricordi le aggressioni zariste, le aggressioni dell’ultimo decennio, i paesi baltici; ricordi le responsabilità nell’ultima guerra scatenatasi, perché le frontiere orientali germaniche erano garantite dal patto Molotov–Von Ribbentrop.

Uniamoci, onorevoli colleghi, nelle opere della ricostruzione, nel ricordo dei nostri morti, dei nostri grandi, delle arti e delle scienze, che sono gli unici veri grandi che la storia ricordi. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Caso. Ne ha facoltà.

CASO. Onorevoli colleghi, quasi tutti i problemi della vita odierna presentano il carattere d’urgenza e il difficile sta appunto nello stabilire una approssimativa graduatoria della loro risoluzione, non potendo avere naturalmente la pretesa di risolverli tutti di un colpo.

Primeggiano quelli della ricostruzione, la quale merita l’attento esame del Governo e degli uomini politici, perché sia all’altezza dei nuovi compiti che si è assunta l’Italia nel voler trarre dalle necessità contingenti ed impellenti della disoccupazione una parte almeno di opere che siano veramente produttive, non solo per la formazione di nuova ricchezza, ma per attaccare alle opere medesime, ultimate, il maggior numero possibile di lavoratori.

Desidero portare qui un contributo di fervida esperienza personale tratta da questi 7 mesi di attività politica ai fini di contribuire a rendere più agile e rispondente all’ora che viviamo (così piena di giustificata ansietà in tutti i campi) il meccanismo esecutivo centrale e soprattutto periferico della burocrazia.

A furia di controlli, di passaggi, di analisi e contro-analisi, di pareri e contro pareri si crea una fitta rete di interferenze che sistematicamente frustrano la tempestività e l’utilità della legge.

Il Governo fatto di uomini ultrapopolari, in tali evenienze, finisce perfino per passare per un Governo statico tanto, alcune volte, sembra insensibile all’aspettativa e alle aspirazioni del popolo che, nella sua più assoluta semplicità, non sa rendersi conto come mai un provvedimento emanato da Roma e pubblicato ufficialmente dai giornali impieghi alcuni mesi per essere attuato in Provincia, quando addirittura non cada nel dimenticatoio, com’è, ad esempio, per il ritardato o mancato riconoscimento ai vari indennizzi di guerra, di prigionia, di invalidità, di pensione che affliggono tanti nostri fratelli derelitti.

La colpa non è del Governo, che è vigile ed ansioso del bene del popolo, e non è della maggioranza dei funzionari ed impiegati che lavorano con intelligenza e fedeltà, pur fra ristrettezze economiche di ogni genere, ma è da addebitarsi al sistema opprimente e debilitante di quel grande macchinone che è la burocrazia italiana.

Per richiamare meglio l’attenzione del Governo citerò alcune mie impressioni ed osservazioni che, voglio augurarmi, siano condivise anche da altri Deputati, le quali, se confortate dalla convalida dell’Assemblea, potranno più agevolmente dar luogo ad un provvedimento riparatore di autentiche ingiustizie, seppure involontariamente perpetrate.

Il pubblico ha precisa questa impressione: che fra le intenzioni del Governo sollecitamente risanatrici e l’attuazione pratica dei provvedimenti intercorra un tempo ingiustificabile, e che finisce per far sospettare della bontà del provvedimento o del desiderio di evaderle le conseguenze benefiche.

In tema di lavori pubblici basta tener presente il mastodontico comitato tecnico dei Provveditorati alle opere pubbliche (il quale ha l’obbligo di studiare ed approvare tutti i progetti delle province ad esso sottoposte da un minimo di L. 200.000) e, in contrapposto, la mancata facoltà deliberante degli uffici provinciali del Genio civile per comprendere, attraverso il contrasto stridente del vantato decentramento e dell’attuato accentramento di pratiche negli uffici già di per sé plerotici dei Provveditorati, per comprendere, dicevo, come sia indispensabile promuovere provvedimenti che affrettino la conclusione dei problemi di emergenza, evitando tutti quegli inutili ritardi che annullano la bontà della legge. Ho presentato in proposito un’interrogazione al Governo in data 22 gennaio 1947. Ripeto qui in pubblico che le ragioni principali che, secondo me, determinano la lentezza nell’esecuzione dei lavori pubblici vanno ricercate, appunto, nel complicato sistema accentratore del Provveditorato alle opere pubbliche e nella mancata facoltà deliberante da parte del Genio civile, la quale da sé sola, costituirebbe già un atto di utile decentramento. Voglio ricordare qui l’alto senso di attaccamento al dovere di tutti i funzionari dell’uno e dell’altro organismo, sia pure nello sforzo impari ai bisogni del momento e per causa di forza maggiore estranea alla loro intelligenza, alla loro volontà e capacità tecnica, per fare apparire ancora più evidente la necessità per il Governo di intervenire, con adeguato provvedimento di urgenza, per non rendere vana quella che è la fase di attuazione periferica della ricostruzione.

Tenete, onorevoli colleghi, ben presente questa assurdità: quando la lira aveva un valore cinquanta volte superiore all’attuale, il Genio civile aveva facoltà di approvare i progetti sino a lire 50.000. Ora che la moneta è svalutata, può approvare progetti fino a 200.000 lire, laddove la sua competenza dovrebbe, secondo me, allargarsi di molto al di là del limite della svalutazione e comprendere progetti fino alla concorrenza di 7 o 8 milioni di lire attuali, se veramente vuole rendersi spedita la ricostruzione delle Province.

È consigliabile inoltre che quel comitato tecnico, formato da 35 membri presso i Provveditorati, oggi così pletorico e accentratore, sia suddiviso fra i vari uffici provinciali del Genio civile, che continuerebbero a svolgere, così, una più intensa ed efficace azione tecnica sotto la direzione dell’ingegnere capo, a sua volta fornito di maggiore responsabilità. Occorre inoltre semplificare il continuo andirivieni di lettere e progetti tra Genio civile e Provveditorato e fra quest’ultimo, la Ragioneria e la sezione staccata della Corte dei conti.

Immaginarsi che fra il richiamo di un progetto da parte del Provveditorato (da farsi in triplice copia dal Genio civile), la relazione e l’approvazione del comitato tecnico, la formulazione del decreto del Provveditore, il passaggio alla Ragioneria ed alla Corte dei conti e di qui al Genio civile (perché disponga l’appalto), e la consegna del progetto alla ditta appaltatrice trascorrono comodamente cinque o sei mesi nella migliore delle situazioni, quando non capiti di peggio come il rinvio o la sospensione definitiva, senza che ci sia verso di conoscerne le ragioni.

UBERTI. Non c’è che un rimedio: la Regione.

CASO. Facciamo qualche cosa per rendere attuabile quello che si decide al centro. Bisogna inoltre tener conto di un’altra contradizione nei termini riguardante il decreto sulla disoccupazione. A sentir dire che si faranno delle opere per combattere la disoccupazione ed a leggere i giornali che segnalano l’utilità e la tempestività del decreto medesimo, si crea nel pubblico, specie e logicamente in quello sensibilissimo dei disoccupati, l’impressione che le opere avranno sollecita esecuzione. Invece si verifica il contrario con grave danno del prestigio dello Stato. Con ciò non ho la pretesa che, in fretta, si debba spendere malamente il denaro del pubblico, ma vi è pure una via di mezzo sulla quale potersi accordare ed è quella di servirsi di mezzi sbrigativi e nello stesso tempo efficienti e liberali, alleggerendo il lavoro degli uffici tecnici ed affidando la progettazione a liberi professionisti che accettino le condizioni e diano le garanzie richieste dal Ministero dei lavori pubblici.

Attualmente esiste una disposizione in proposito, ma gli uffici del Genio civile sono molto restî a dare incarichi a professionisti privati e non li danno se non in quei rari casi di opere già finanziate. Questo modo di agire naturalmente ritarderà di mesi o di anni l’esecuzione delle opere, giacché bisognerà attendere i finanziamenti e l’autorizzazione dall’alto prima di dar corso alla progettazione.

A me pare che, in base a programmi ben definiti e sollecitamente approvati per ogni singola Provincia, converrebbe passare alla progettazione ed al visto degli organi tecnici contemporaneamente allo stanziamento di fondi o in attesa di questi. È, comunque, da scartarsi l’attuale sistema di iniziare la progettazione solo a stanziamento avvenuto presso i Provveditorati, il che crea ritardi enormi per le opere, che magari sono più urgenti, e privilegi per quelle non preventivate a seconda di protezionismi più o meno palesi. Occorre invece mettersi d’accordo presso le singole Prefetture, con l’intervento delle autorità politiche e dei funzionari tecnici, sopra un programma di lavori pubblici da attuare in base alla disponibilità finanziaria, e in un determinato periodo di tempo per ogni singolo paese, così da dare la sensazione che, sia pure in forma limitata, ogni popolazione è salvaguardata nelle sue esigenze ed è appagata nella sua graduale ricostruzione, riservando opere di più grande mole dove maggiore e più minacciosa è la disoccupazione.

Così facendo possiamo veramente agevolare l’esecuzione di opere pubbliche, non soltanto sostitutive di quelle distrutte, ma più efficaci e produttive per la nostra economia. L’onorevole Presidente del Consiglio ha detto nelle sue dichiarazioni nella seduta del giorno 8 febbraio: «Ai lavori pubblici necessari alla nostra ricostruzione dedicheremo tutte le risorse possibili». Mi spingo a raccomandare soprattutto la viabilità, le case operaie, gli edifici di istruzione e di educazione, gli acquedotti, le opere di assistenza e le nuove ferrovie di interesse nazionale limitate a brevi tratti di collegamento fra le linee principali, ma che rappresentano vantaggi per le più rapide comunicazioni fra i grossi centri e al tempo stesso economia nelle spese di esercizio. Valga a tale proposito il progetto di massima da me presentato al Ministero dei lavori pubblici fin dal 12 novembre 1946 per la costruzione di un allacciamento, che non interessa solo me, ma anche i deputati delle Puglie e del Lazio, fra la Roma-Napoli (Via Cassino) e la Napoli-Foggia, fra le due stazioni di Vairano-Caianello e Telese, allo scopo di economizzare tempo, anche rispetto alla Caserta-Formia, nella percorrenza fra le Puglie e Roma, creando, con appena 43 chilometri di nuova linea, la tanto auspicata direttissima Bari-Foggia-Cassino-Roma.

Al tempo stesso, con questa nuova ferrovia, si verrebbe a valorizzare una plaga industre ed ubertosa che, al presente, è provvista di qualsiasi comunicazione ferroviaria e, precisamente, la pianura del Medio Volturno. Questa mia proposta, nonostante abbia sollecitamente ottenuto il parere tecnico favorevole del Ministero dei trasporti, non ha avuto finora alcun esito positivo presso il Ministero dei lavori pubblici, se si eccettua la calda adesione orale e scritta del Ministro del tempo onorevole Giuseppe Romita, e malgrado che rappresenti un vivissimo sollievo per la disoccupazione della zona ed un sicuro vantaggio per la nazione.

Richiamo inoltre, in materia di comunicazioni, l’attenzione del Ministro dei trasporti sulla necessità non solo di provvedere alla ricostruzione della rete statale, ma anche delle ferrovie secondarie in concessione le quali hanno, per il passato, svolto un compito regionale molto importante. Ed a questo proposito ci tengo a far rilevare che, fra le strade ferrate secondarie della Campania, l’unica ferrovia non ancora ricostruita è la Napoli-Piedimonte d’Alife, nel suo tratto totalmente distrutto dai tedeschi in ritirata da S. Maria Capua Vetere a Piedimonte d’Alife, per la quale ho rivolto apposita interrogazione e svolto azione diretta presso la Camera di commercio di Caserta, sui giornali, nelle pubbliche adunanze, presso il Ministero dei trasporti, con la partecipazione entusiastica e solidale di tutti i Deputati del collegio Napoli-Caserta. Ho insistito ed insisto dinanzi all’autorità di questa Assemblea, visto lo stato di vivissima agitazione in cui si trovano circa 100 mila abitanti, i quali, dopo trascorsi tre anni dalla liberazione, hanno avuta la precisa sensazione che le autorità governative non solo non hanno affrontato il problema della ricostruzione della linea, ma intenderebbero rimandarla a tempo indeterminato, sostituendola, per ora, con servizi automobilistici del tutto inadeguati all’importanza ed al traffico della zona Alifana e della vallata del Medio Volturno.

Sono sicuro che il Governo risponderà alla giustificata richiesta delle popolazioni interessate, facendo sollecitamente ricostruire la ferrovia, soprattutto in base al diritto precostituito dei comuni della linea (fin dall’inizio della concessione, diritto che nessuno potrà mai contestare e che, voglio augurarmi, faccia escludere la ventilata possibilità di ricorso alla Magistratura per il suo riconoscimento.

Stando ai concetti espressi, la costruzione e la ricostruzione delle ferrovie, già da sé sole e per almeno due anni, assorbirebbero una gran parte dei disoccupati con grande vantaggio per loro e per il bene della Patria.

Ad esse andrebbero aggiunte la ripresa delle industrie esistenti e la creazione di nuove industrie, giusta l’incitamento e l’assicurazione dell’onorevole Presidente del Consiglio. Egli ci ha detto: «… nel settore economico l’esigenza fondamentale si riassume, come fu detto altrove, nella formula: produrre in un clima di efficienza tecnica e di perequazione sociale…». L’aumento della produzione è indispensabile per il mercato interno, affinché diminuiscano i prezzi, salgano i salari reali, cessi la disoccupazione e si disponga di mezzi per la ricostruzione… Il Governo intende incoraggiare e sostenere l’iniziativa privata… L’aumento della produzione sarà favorito anche da una collaborazione organica fra capitale e lavoro; senza il concorso di entrambi la ripresa della produzione è impossibile: premesse indispensabili sono lo spirito di intraprendenza ed un clima di interessamento e di cooperazione operaia». Profitto di tale impostazione programmatica per invitare l’onorevole Ministro dell’industria e commercio a rivedere la proposta di nuovi impianti industriali, per la lavorazione di fibre tessili in provincia di Caserta, fatta, tramite quella Camera di industria e commercio, dalla ditta Donagemma e Capuano e inopinatamente respinta. Eppure si trattava di assorbire 5 mila lavoratori!

Sono sicuro di un benevole accoglimento della proposta ora che, in un clima di concordia derivante dalla comune sventura, ci accingiamo per primi e da soli a dare la prova della nostra volontà di rinascita.

Per affrettare questa rinascita, anche sul terreno spirituale e morale, dobbiamo innanzitutto, nel campo del lavoro, preoccuparci di dare, a tutti coloro che lavorano, delle leggi di tutela e di assistenza che siano una autentica garanzia contro tutti i rischi professionali generici e specifici e non una lustra teorica.

Di qui la necessità della riforma dell’assistenza sanitaria e della previdenza sociale, cui con lena si accingono a contribuire tutti i medici italiani attraverso il referendum e la speciale commissione che speriamo di vedere una buona volta all’opera presso il Ministero del lavoro, la quale riforma, se non attuabile subito, per ovvie ragioni di studio e di ponderatezza, ci auguriamo che si manifesti per lo meno con qualche provvedimento di emergenza, onde evitare lo stridente contrasto fra gli obblighi assunti dallo Stato e la scarsezza e la povertà dell’aiuto assistenziale. Le pensioni di vecchiaia e di invalidità sono di per sé scarsissime, nonostante i recenti ritocchi.

Giorni or sono è stata concessa una pensione di lire 1790 annue, maggiorata dell’assegno temporaneo di carovita in lire 150 mensili, ai genitori di un valoroso caduto in guerra al seguito delle truppe inglesi presso Montevarchi. Ai sensi dell’articolo 27 della legge infortuni il salario annuo massimo di legge viene tuttora valutato in lire 12.000 e la rendita annua calcolata sui due terzi del salario, cioè su lire 8.000.

È mai possibile tutto ciò?

Senza attendere la riforma, si impone l’adeguamento dell’indennizzo e della rendita oltre che delle pensioni per una ragione di perequazione sociale, non altrimenti dimostrabile che col fatto concreto di una efficiente solidarietà legale.

E continuando a prospettare la necessità che, in attesa della riforma nel campo del lavoro, delle assicurazioni, dell’assistenza malattia, dell’istruzione pubblica, il Governo attui provvedimenti legislativi di attesa o di sospensiva anziché tollerare contraddizioni palesi fra le esigenze della vita che corre veloce e l’inadeguatezza della legge, raccomando vivamente di apportare modifiche quanto più larghe possibili in ogni branca della vita nazionale.

Il regolamento d’igiene del lavoro è ancora quello del 1929, per giunta non integralmente applicato; esso merita di essere aggiornato, per lo meno aumentando i poteri dell’Ispettorato medico del lavoro e istituendo un servizio medico quanto più decentrato possibile. Soltanto un servizio medico decentrato può assicurare l’assistenza continuativa e dare il senso preciso della fraternità operante ai lavoratori da parte di una società più civile e più giusta. Per valutare appieno l’importanza del servizio si tenga presente che l’ispettore medico dovrà compiere visite frequenti di controllo alle aziende industriali, agrarie, commerciali, artigianali (in queste comprese le aziende a tipo familiare), sorvegliare il lavoro delle donne e dei fanciulli, visitare spesso gli addetti alla produzione e smercio delle sostanze alimentari, vigilare il lavoro della mietitura, la risicoltura, il tabacco, le miniere, le industrie polverose, l’ammissione delle donne e dei fanciulli al lavoro (scartando i mestieri pericolosi allo sviluppo delicatissimo della maternità e della pubertà), collaborare in pieno coi medici di fabbrica. Questi dovrebbero, in tutte le aziende, essere assunti per pubblico concorso, col titolo preferenziale della specializzazione in medicina del lavoro e col rapporto di almeno un medico per ogni mille operai, scartando la forma dell’appalto, tuttora in vigore. Come medici e come uomini ci ribelliamo, nell’intimo della nostra coscienza, a vedere l’intelligenza e la capacità dei nostri valorosi colleghi strette nelle maglie della intraprendenza e della speculazione altrui.

Inoltre bisognerà estendere le voci dell’assicurazione contro le malattie professionali ed eliminare quelle, come il fosforismo, che si sono dimostrate inesistenti fin dall’inizio dell’Assicurazione e, come l’anchilostomiasi, che dà luogo all’assistenza per gli operai dei cantieri e dell’industria dei laterizi (i quali per lo più ne sono immuni), mentre che la esclude per gli ortolani ed in genere per i lavoratori agricoli, che facilmente ed a cagione del loro lavoro se ne contagiano.

Legata alle osservazioni qui sopra prospettate è la necessità di diffondere l’insegnamento della medicina del lavoro nelle Università, non solo per accrescere il prestigio scientifico ed umano di una branca tutta italiana, sorta tre secoli or sono ad opera di Bernardino Ramazzini, ma per produrre una schiera di medici specializzati da impiegare nelle varie attività di lavoro, quali utili collaboratori degli operai e delle aziende legati da un patto di comune solidarietà nella produzione.

In base al grande bene compiuto dalle Cattedre di medicina del lavoro a Napoli (Castellino, Caccuri e loro scuola), a Milano (Devoto, Vigliani ed allievi), a Bari (Ferrannini Luigi e la sua scuola), a Roma (Ranelletti e la sua scuola) a Padova (Maugeri, Pellegrini ed allievi), a Siena (Aiello ed allievi), da una notevole schiera di liberi docenti e di specialisti di tutta Italia, si ha il dovere di segnalare al Governo tali benemerenze e chiedere alcuni provvedimenti di urgenza per non pregiudicare quella che potrà essere l’intonazione della riforma, oltreché nei campi del lavoro, della previdenza, e dell’assistenza, anche in quello dell’istruzione superiore universitaria e professionale. Pertanto raccomando vivamente (e desidero assicurazioni in proposito) che venga sospesa l’istituzione di nuove cattedre universitarie in attesa del referendum in corso fra tutti i medici d’Italia sulla distinzione fra materie obbligatorie, fondamentali, complementari, postuniversitarie, ed in attesa inoltre di poter rendere obbligatorio in tutte le facoltà mediche l’insegnamento della medicina del lavoro ed il relativo esame. Frattanto suggerisco di scegliere adatte sedi per le scuole di perfezionamento in medicina del lavoro, fondamentali per l’istruzione dei medici, affidandole a professori di ruolo coadiuvati da liberi docenti e da insegnanti di materie affini. In tal modo si raggiunge un duplice scopo: rendere proficua la scuola specializzata e migliorare le condizioni del lavoro umano, senza peraltro compiere riforme affrettate che solo la lunga esperienza ed il concorso di coefficienti tecnici saggiamente elaborati possono portare ad utili e stabili conclusioni.

Onorevoli colleghi, proprio perché siamo in periodo di emergenza e di grande rinnovamento sociale, occorre che la legge si adegui, giorno per giorno, alle necessità del momento per non correre il rischio di veder compromesso lo sforzo ricostruttivo della Nazione e per dare a noi stessi ed al pubblico il senso vivo della fiducia che è la potente leva animatrice di ogni progresso. (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani.

Interpellanze e interrogazioni d’urgenza.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Codacci Pisanelli. Ne ha facoltà.

CODACCI PISANELLI. Chiedo al Governo quando intende rispondere ad una interpellanza da me presentata l’11 dicembre 1946, relativa alla revoca di concessioni per la coltivazione tabacco nel Salento. Analoga interpellanza fu presentata dall’onorevole Gabrieli.

PRESIDENTE. Rammento la decisione presa dall’Assemblea di rinviare lo svolgimento delle interrogazioni e delle interpellanze alla fine della discussione sulle dichiarazioni del Governo.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Ricordo come negli antichi tempi vi fosse la consuetudine di discutere le interpellanze il lunedì. Penso che lunedì saremo liberi dalla discussione sulle dichiarazioni del Governo, in quanto le avremo terminate. (Commenti).

Consentano i colleghi che io nutra nel mio cuore questa speranza (Si ride); e se la discussione non sarà terminata, non sarà male inframezzarla con questo diversivo. Perciò chiedo che questa interpellanza e le altre di maggiore urgenza siano discusse nelle prime ore della seduta di lunedì.

PRESIDENTE. Credo che non vi sia alcuna difficoltà a riconoscere che l’onorevole Micheli abbia fatto una proposta ragionevole ed opportuna; ma faccio rilevare che gli iscritti a parlare sono ancora una sessantina e non so se per lunedì la discussione sarà esaurita. Se si riuscisse, come auguro, a restringere il numero degli oratori iscritti, e sabato si potesse passare ai voti, lunedì si potrebbero discutere le interpellanze.

Ad ogni modo, chiedo all’onorevole Sottosegretario di Stato per le finanze quando intende rispondere alle interpellanze degli onorevoli Codacci Pisanelli e Gabrieli.

PELLA, Sottosegretario di Stato per le finanze. Il Ministero è in grado di fornire notevoli assicurazioni in proposito. Sono pronto a rispondere anche subito.

PRESIDENTE. Si dia allora lettura delle interpellanze dell’onorevole Codacci Pisanelli e dell’onorevole Gabrieli.

RICCIO, Segretario, legge:

Codacci Pisanelli, al Ministro delle finanze, «circa i motivi che hanno indotto la Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato a non rinnovare per il prossimo quinquennio numerose concessioni speciali per la coltivazione del tabacco in provincia di Lecce, sopprimendo in tal modo molti complessi industriali, con irreparabile danno per l’economia agraria della zona e minaccioso aggravamento della disoccupazione, specialmente invernale, per migliaia di operaie specializzate (tabacchine); circa l’opportunità di non ispirarsi a malintesi criteri di perfezionamento della produzione di un genere voluttuario come il tabacco, anche a costo di sottrarre i terreni più fertili delle altre regioni alla produzione di derrate alimentari di prima necessità, sconvolgendo in tal modo la già difficile situazione economico-sociale del Leccese, di cui viene colpita la fondamentale risorsa industriale; e circa la conseguente necessità di rinnovare tutte le concessioni speciali finora esistenti, attribuendole ad associazioni di coltivatori, preferibilmente dei comuni privi di simili concessioni, qualora gli attuali titolari se ne siano dimostrati immeritevoli».

Gabrieli, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro delle finanze, «per conoscere le ragioni che hanno determinato il Governo a ridurre, nel Salento, di 1200 ettari la superficie autorizzata alla coltivazione del tabacco orientale. Tale provvedimento lede le condizioni economico-agricole della Regione salentina ed aggrava in maniera allarmante il fenomeno della disoccupazione, perché fa venire meno 1.300.000 giornate lavorative. Esso non tiene conto inoltre che gran parte della superficie coltivata a tabacco è costituita da terreni per cui non sono possibili altre colture».

PRESIDENTE. L’onorevole Codacci Pisanelli ha facoltà di svolgere la sua interpellanza.

CODACCI PISANELLI. Ho richiamato l’attenzione di questa Assemblea sul problema della coltivazione del tabacco nel Salento, che ha notevole importanza, inquantoché è stata iniziata al principio del secolo e, ormai da vari decenni, ha trasformato l’economia sociale della regione, dando possibilità di impiego a mano d’opera, specialmente femminile, durante tutto il periodo invernale.

Recentemente, dopo tentativi che si sono protratti per vari anni, l’Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato ha ritenuto di revocare ventuno concessioni in Provincia di Lecce ed altre due in provincia di Taranto e Brindisi.

Si tratta di oltre 660 ettari che non dovrebbero essere coltivati a tabacco l’anno prossimo.

Ma, oltre a questa riduzione, ve n’è un’altra del 10 per cento delle concessioni, le quali negli anni scorsi non hanno ricoperto la superficie per cui erano state autorizzate.

Il ragionamento dell’Amministrazione è questo: ho revocato le concessioni in quanto che, o i concessionari non avevano ricoperto la superficie disponibile, oppure non avevano coltivato il tabacco in maniera adeguata. In altri termini, o si tratta di riduzione per mancata coltivazione, oppure per motivi tecnici.

Quanto al primo punto, cioè alla mancata copertura della superficie autorizzata, mi permetto di rispondere che, in un passato abbastanza recente, l’Amministrazione autonoma faceva misurare, con la massima esattezza, la superficie coltivata e faceva spiantare anche una sola ara piantata in più dai coltivatori. Per conseguenza, i coltivatori si sono comportati con il massimo rigore successivamente e non hanno piantato nemmeno una pianta di più di quanto era stato loro consentito.

D’altra parte, nel periodo bellico, per necessità della produzione, si è adoperata una certa larghezza: si è consentito cioè di piantare quanto tabacco si credeva. Le misurazioni avvenivano con una certa latitudine; molto spesso, anche quando si era piantata una superficie superiore a quella autorizzata, ciò non risultava. Di qui la conseguenza che l’Amministrazione ha avuto dati non completamente esatti. Quello che mi interessa di far rilevare è che la mancata coltivazione è dovuta in gran parte alla mancanza di mano d’opera: molti lavoratori erano in prigionia o alle armi; molte famiglie, d’altra parte, pur di avere di che alimentarsi, preferivano coltivare il grano, sia pure in maniera antieconomica, perché, nelle nostre terre, la coltivazione del grano non è redditizia; preferivano cioè coltivare il grano piuttosto che darsi alla coltivazione del tabacco, il quale non avrebbe consentito loro di sfamarsi. Quanto poi alle ragioni tecniche, mi permetto di far rilevare che non è equo fondarsi su ragioni tecniche, dopo un periodo difficile come quello che abbiamo attraversato. Non era possibile ottenere concimi chimici, non era possibile ottenere i telai, le garze per i vivai per questa difficile coltivazione del tabacco. Ora non si può, dopo un periodo di guerra, dopo tante privazioni, rivolgersi ai concessionari e dire loro: – Voi non avete coltivato con sufficiente perizia il tabacco: è bene sottoporvi ad un nuovo esperimento. Ma quello che io chiedo è soprattutto questo: se i concessionari si sono portati male, vengano puniti, ma non si tolga questa lavorazione dalle nostre terre. Sono convinto che in altre parti d’Italia il tabacco può venire meglio; sono convinto che nel Salernitano sarà di qualità superiore e che il gusto dei fumatori italiani si va orientando verso i tabacchi a tipo americano. Ma non si dimentichi che è stata questa la regione dove, per la prima volta e con grande difficoltà, è stata introdotta la coltivazione del tabacco; non si dimentichi che, in quelle terre dove la roccia affiora, non è possibile introdurre altre coltivazioni che non sarebbero redditizie e non sarebbe possibile rimediare ad inconvenienti sociali che deriverebbero da una così grave menomazione di questa coltivazione nella nostra zona.

Non si dimentichi, d’altra parte, che, se tanti sacrifici si sono chiesti agli italiani, si potrà chiedere anche ai fumatori di contentarsi di un tabacco di qualità non troppo superiore, come hanno fatto dando all’erario sessanta – anzi settanta – miliardi di introito, come mi è stato confermato ieri. Viceversa, proprio in questo periodo, si va all’estero ad acquistare tabacco straniero, perché «nuove così vengan delizie, giovane fumatore, al tuo palato»! Non ritengo sia il caso di insistere tanto sul perfezionamento della qualità delle nostre sigarette, benché, senza dubbio, anche a questo occorra guardare. Ma non bisogna dimenticare l’importanza di questa coltivazione, per una zona che ha confidato sì nell’aiuto del Governo centrale, ma ha pensato che il problema del Mezzogiorno dovesse essere soprattutto risolto da ciascuno coi propri mezzi. Ed allora queste popolazioni che sono sobrie, che ricordano quasi Diogene, potranno dire a chi parla loro di grandi mezzi per risolvere i problemi del Mezzogiorno, potranno dire come Diogene ad Alessandro: – Non mi levare quello che non puoi darmi.

PRESIDENTE. L’onorevole Gabrieli ha facoltà di svolgere la sua interpellanza.

GABRIELI. Farò brevissime considerazioni. La direzione generale dei Monopoli, sopprimendo non 600 ettari solamente di superficie coltivata e tabacco, ma 1200, poiché, oltre ad abolire 23 concessioni, ha ridotto del 10 per cento anche le concessioni superstiti, ha commesso un grave atto di ingiustizia sociale, perché ha consolidato e confermato le grandi concessioni ai diritti dei grandi concessionari, di coloro che avevano migliaia di ettari e che quindi hanno accumulato milioni durante un ventennio di gestione dei tabacchi. E ha tolto queste 23 concessioni proprio ai piccoli coltivatori, a coloro che utilizzavano la loro piccola terra nella coltivazione dei tabacchi. Si è andati perciò contro quell’interesse economico-sociale che è stato assunto dall’attuale democrazia come indirizzo economico sociale prevalente.

Un altro aspetto del problema che noi abbiamo accennato costantemente agli organi ministeriali, ed anche in interrogazioni ed interpellanze a questo Governo che sta in questa Assemblea Costituente, è che il nostro Salento è afflitto dalla gravissima ed insanabile piaga della disoccupazione. In ogni piccolo comune, su una popolazione di 5, 6, 10.000 abitanti, vi sono per lo meno 1000 disoccupati agricoli al giorno che sono a carico della piccola e media proprietà, la quale è costretta a subire quella imposizione, venendo così ad esaurirsi quasi completamente, tanto che questi piccoli proprietari, non potendo più sostenere questo peso insostenibile, hanno deciso di emigrare dai paesi dove abitano per andare in zone dove questa piaga non potrebbe più attaccare. È per questa ragione che noi abbiamo svolto insieme agli altri colleghi un lavoro costante che serve solo per dare sfogo alla nostra fede ed al nostro compito di assistenza a quei lavoratori, che noi ci auguriamo che il Governo democratico italiano dia accoglimento a questa richiesta giusta che viene da tre milioni di popolazione della Puglia; cioè che queste 25 concessioni siano per questo anno restituite alla libera lavorazione, perché rappresentano l’unica risorsa di quella regione a cui è stato tolto l’olio e tutto quello che ha, per darlo alle altre regioni d’Italia. Rimaneva la risorsa del tabacco, e siccome il tabacco è sfruttabile in tutta la zona del Salento perché composta di rocce, come ben diceva il mio collega, il quale non è sfruttabile da altro, ho fiducia che anche da questo lato voi vogliate andare incontro alle esigenze dei piccoli agricoltori e delle piccole masse dei lavoratori, ai quali, con quel provvedimento caotico cervellotico ed arbitrario della direzione dei Monopoli, vengono ad essere tolte un milione e 300 mila giornate lavorative all’anno.

Mi affido più che alla sapienza ed alla saggezza, al cuore degli uomini di Governo.

PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato per le finanze ha facoltà di rispondere.

PELLA, Sottosegretario di Stato per le finanze. Onorevoli colleghi, non posso aderire a taluno dei giudizi che sono stati dati sull’opera della Direzione generale dei monopoli e sullo spirito informatore dei provvedimenti da essa adottati. Comprendo però l’ardore con cui gli onorevoli colleghi hanno svolto le loro interpellanze, che è per lo meno pari all’ardore con cui hanno insistito per il rinnuovo delle concessioni, nelle frequenti visite agli uffici ministeriali.

Non posso accettare il giudizio molto sommario che è stato dato sull’opera della Direzione dei monopoli. L’Azienda dei monopoli è una vastissima azienda industriale che ha il dovere preminente di amministrarsi con criteri sanamente economici, che nella fattispecie si traducono in un principio fondamentale: acquistare le materie prime necessarie al minor costo possibile e nella qualità migliore.

Gli onorevoli interpellanti vorrebbero trasferire sulla Direzione dei monopoli un compito di ordine largamente sociale, di natura quasi assistenziale che evidentemente non può essere di sua competenza. La funzione assistenziale è sacrosanta, ma lo Stato deve assolverla coi mezzi più appropriati e attraverso le vie più adatte.

La Direzione dei monopoli non ha rinnovato le ventitré concessioni della provincia di Lecce, perché il tabacco presentato dai concessionari da diversi anni era qualificato di qualità mediocre.

Altre zone sono in grado di presentare, a parità di prezzo, tabacco di qualità migliore; queste zone premono per un allargamento delle concessioni e non sono accontentate.

Sarebbe stato, evidentemente, un delitto, ancora prima che un errore, mentre si respingono istanze di tali zone, accogliere invece quelle altre, perpetuando la situazione di concessionari che presentano qualità mediocri.

Siccome però dai due onorevoli amici è stato prospettato – e devo senza altro presumere che sia con fondamento di verità, in linea di fatto – che la classifica di mediocre derivava da cause di forza maggiore, verificatesi presso i singoli concessionari – (mancanza di concimi, assenza dei titolari, per ragioni di guerra o di dopoguerra ecc.) – ho l’onore di assicurare che proprio nella riunione di stamane il Consiglio di amministrazione della Direzione dei monopoli ha adottato questa decisione di massima: qualora i titolari di ciascuna di queste ventitré concessioni siano in grado di dimostrare – come essi hanno affermato attraverso l’autorevole parola dei due onorevoli amici – che effettivamente la consegna di qualità mediocre derivava da cause di forza maggiore, sia concesso, a titolo di esperimento, il rinnuovo della concessione ancora per un anno; che se invece questa dimostrazione non fossero in grado di dare, non potranno avere il rinnuovo.

Infatti, i casi sono due: se, come non dubito, gli interessati hanno affermato il vero, saranno accontentati; se, come non voglio pensare, avessero carpito la buona fede dei due onorevoli amici, è più che naturale che la loro richiesta sia respinta.

In questo senso spero che i due onorevoli amici siano sodisfatti.

PRESIDENTE. L’onorevole Codacci Pisanelli ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CODACCI PISANELLI. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario sia per la cortesia dimostrata in passato, durante le ripetute mie visite, sia per la risposta, che ha voluto darci adesso.

Ritengo di non essermi spiegato bene. Io non intendevo difendere tanto i concessionari, quanto i lavoratori. Sono d’accordo che i concessionari vengano puniti se non hanno presentato la qualità di tabacco desiderata; ma non vorrei che rimanessero puniti i numerosissimi lavoratori da loro dipendenti e che hanno preparato il terreno per la coltivazione. Se queste concessioni non venissero rinnovate, molti terreni rimarrebbero incolti e numerosissimi braccianti disoccupati.

È questa la ragione per cui ritengo che, qualora l’Amministrazione sia nella necessità di mantenere la revoca per coloro che non risultino degni di riavere la concessione, non debba portar via, però, questa superficie dalla provincia di Lecce, Taranto, Brindisi, ma faccia coltivare il tabacco ivi stesso, affidandolo a cooperative di lavoratori, secondo i saggi criteri industriali accennati.

L’Amministrazione autonoma preferisce avere a che fare con un solo concessionario, perché è più facile trattare, invece che con molti. Ma sarebbe più rispondente ai nostri attuali principî attribuire queste eventuali concessioni a cooperative di coltivatori.

In questa maniera gli utili industriali verrebbero più equamente ripartiti.

Soprattutto faccio presente che non rinnovando queste concessioni, i concessionari non vengono colpiti affatto, perché è gente che ha realizzato sufficienti guadagni. Ma si tratta di complessi industriali che vengono meno, di piccoli complessi industriali, nei quali oltre 3000 donne trovano lavoro; 3000 donne che rimarrebbero completamente disoccupate per il prossimo inverno e per gli inverni futuri.

È questa la ragione per cui non posso dichiararmi completamente sodisfatto, e sottolineo la necessità di non portare in terre dove vi è il grano una coltura che noi realizziamo in terre nelle quali non è possibile coltivare il grano. Sono d’accordo che altrove il tabacco viene meglio, ma viene meglio perché si tratta di terre fertili; e noi che abbiamo bisogno di grano, dobbiamo lasciare queste terre alla coltivazione del grano.

PRESIDENTE. L’onorevole Gabrieli ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

GABRIELI. Neanch’io posso dichiararmi completamente sodisfatto. Innanzi tutto questa prova documentale che si richiede ai poveri coltivatori che stanno a Lecce o nel Salento, richiede l’impiego di molto tempo che frustra ogni possibilità di coltivazione, e – come sanno bene quelli che presiedono la direzione dei monopoli – i termini per presentare le domande di coltivazione scadono nel mese di febbraio. Come è possibile che questa documentazione sia offerta in termini utili per poter rinnovare quelle coltivazioni cui hanno diritto un milione e 300 mila persone che devono lavorare un anno? Per questa ragione chiedo che, siccome la ragione della cattiva qualità del tabacco è dovuta a cause di indole generale che superano le forze individuali dei coltivatori, sia preso subito un provvedimento che per un anno di esperimento annulli il provvedimento di revoca dato per tutte le concessioni. Da domani noi dobbiamo essere in grado di comunicare alle nostre popolazioni che il Ministero ha emanato questo provvedimento che va incontro in maniera chiara e immediata a quelle che sono esigenze urgenti dei lavoratori che devono vivere, mangiare e lavorare in quelle coltivazioni.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Sottosegretario di Stato per le finanze. Ne ha facoltà.

PELLA, Sottosegretario di Stato per le finanze. Desidero brevemente replicare agli onorevoli amici Codacci Pisanelli e Gabrieli.

All’amico Codacci Pisanelli, con tutto il garbo possibile, vorrei dire che dobbiamo andare molto cauti prima di svolgere a fondo determinati a base sociale, poiché senza accorgercene scivoleremmo in un ragionamento autarchico, di cui in Italia purtroppo si sono fatte troppe prove, e non certamente con esito brillante per il benessere collettivo.

Molto spesso, un determinato risultato di ordine sociale, conseguito in un limitato settore, rappresenta un costo maggiore. Per questo insisto nel ritenere che il compito genericamente assistenziale molto meglio può essere svolto attraverso i mezzi normali, attraverso i canali naturali. Personalmente sono convinto che questo significhi un minor costo per la collettività.

Per quanto riguarda l’amico Gabrieli, osservo che egli chiede un atto di fede sopra le affermazioni dei ventitré concessionari. Evidentemente neanche l’onorevole Gabrieli si sentirebbe di avallare con la sua parola di uomo d’onore che sono esatte tutte quelle affermazioni: possono esserlo e possono non esserlo. Non è vero che chiediamo una prova documentale; chiediamo una dimostrazione con tutti i mezzi che possono essere a disposizione: si tratta quindi, di una dimostrazione che può esser data nel giro di pochi giorni.

Se l’onorevole Gabrieli porterà tutta la diligenza e tutto l’ardore dimostrati nella difesa delle questioni di principio, nel raccogliere le prove, sono sicuro che nel giro di pochi giorni risolveremo la questione.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Canevari. Ne ha facoltà.

CANEVARI. Chiedo se il Governo intende rispondere d’urgenza all’interrogazione da me presentata ai Ministri dei lavori pubblici e del lavoro e previdenza sociale, «per sapere: 1°) come sia stato possibile che una società con denominazione di «Consorzio Ricostruente» e mascherata come consorzio di cooperative di lavori, con sede in Roma, presieduta da un impresario e con la partecipazione di funzionari dell’Ufficio provinciale del lavoro, abbia potuto ottenere dallo Stato, mediante cottimi fiduciari, per lire 99.735.500 di lavori, e abbia pure ottenuto per circa lire 300 milioni di lavori a regìa; 2°) quali provvedimenti si intendono adottare con la maggiore urgenza perché siano colpiti con la giusta severità i colpevoli di simile truffa, e siano riparati i danni in tal modo causati allo Stato».

ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Risponderò lunedì prossimo.

(Così rimane stabilito).

PRESIDENTE. È stata presentata con richiesta d’urgenza la seguente interrogazione dagli onorevoli Sullo, De Martino, Perlingieri, Lettieri, Caso, Colombo, Riccio, Froggio, Carratelli, Trimarchi, De Maria, Codacci Pisanelli, Gabrieli, Vinciguerra e Priolo, ai Ministri del lavoro e previdenza sociale e degli affari esteri, «per conoscere se risponda a verità la notizia, diffusa da alcuni giornali, che nel reclutamento dei lavoratori italiani che prossimamente si recheranno a lavorare in Francia, sarà data la precedenza ai lavoratori centro-settentrionali, con esclusione almeno per un primo momento dei meridionali, adducendosene a motivo la difficoltà climatica di ambientamento in Regioni fredde, specioso motivo perché larghe zone montane dell’Italia meridionale hanno abitatori temprati al freddo più di quelli di talune zone litoranee del nord d’Italia.

«Poiché i lavoratori che dovrebbero emigrare sono richiesti anche per l’edilizia, cioè per un settore in cui abbonda la mano d’opera disoccupata (qualificata e non) nell’Italia meridionale, si chiede ai Ministri interpellati se non intendano estendere la possibilità di emigrare sin dal primo tempo ai lavoratori dell’Italia meridionale».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Anche a questa interrogazione risponderò lunedì prossimo.

(Così rimane stabilito).

PRESIDENTE. L’onorevole Pertini ha chiesto lo svolgimento d’urgenza della seguente interrogazione, ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, «per sapere: a) se a loro consta che organi della polizia, nel sottoporre ad interrogatorio indiziati di reati, usano metodi illeciti, disumani ed anche sevizie, le quali – come di recente qui in Roma – sono, talvolta, persino causa di morte dell’inquisito; b) quali provvedimenti intendano prendere per impedire nel modo più drastico che abbiano a ripetersi questi veri abusi d’ufficio, i quali, oltre a costituire una palese violazione della legge, offendono quel concetto della dignità umana, che deve stare a fondamento d’ogni vera democrazia».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà lunedì prossimo.

(Così rimane stabilito).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Mastino Pietro. Ne ha facoltà.

MASTINO PIETRO. Anche io presentai, chiedendo che ne fosse riconosciuta l’urgenza, la seguente interrogazione:

Mastino Pietro, Lussu, Mastino Gesumino, Bozzi, Laconi, Mannironi, Murgia, Falchi, al Ministro dell’aeronautica, «per sapere se sia vero che la società italo-americana di trasporti aerei (L.A.I.) abbia ottenuto, in regime di monopolio, l’esercizio della linea Cagliari-Roma, con esclusione di un’altra società, sorta per sviluppare e sostenere, principalmente, gli interessi isolani con capitali sardi, che già dal 1944 aveva avanzato richiesta di concessione della suddetta linea ed alla quale la possibilità di tale esercizio era stata riconosciuta. Ciò costituirebbe non solo disconoscimento di un giusto diritto di precedenza ed un danno sicuro per la società, che vi ha già impegnato ingenti capitali, ma annullerebbe anche le iniziative e danneggerebbe gli interessi dell’Isola».

Desidero sapere se il Governo sia disposto a rispondere lunedì.

PRESIDENTE. Chiedo al Governo se accolga tale richiesta.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo è pronto a rispondere lunedì.

PRIOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PRIOLO. Propongo che, per cercare di esaurire il grosso volume delle interrogazioni e interpellanze, la seduta di lunedì, dalle quindici fino alle venti o alle ventuno, sia tutta dedicata a questo scopo.

PRESIDENTE. Se ne riparlerà nella formazione dell’ordine del giorno di lunedì. Posso intanto preannunziare che così quasi certamente si farà, poiché se la discussione sulle dichiarazioni del Governo non potrà essere conclusa sabato, sarà rinviata a martedì.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno e l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per sapere se non ritengano opportuno dare disposizioni, perché per la prossima primavera sia sgombrata dai profughi stranieri, attualmente residenti, la spiaggia di Santa Cesarea in provincia di Lecce, stazione termale di primaria importanza. Ciò è indispensabile nell’interesse dei numerosi pazienti che dalle Puglie e da varie altre parti d’Italia lì affluiscono per necessità sanitarie.

«Per i profughi si potrebbero eventualmente requisire altre spiagge che non adempiono finalità di pubblico interesse.

«De Maria, Codacci Pisanelli, Gabrieli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere:

  1. a) i motivi che hanno determinato l’Amministrazione centrale dei telegrafi ad isolare sempre più nelle comunicazioni la città di Reggio Calabria (che sino al luglio 1943 era collegata direttamente con la Capitale e per tal mezzo istradava la corrispondenza anche con l’Alta Italia e l’estero), privandola pure della comunicazione celere multipla Reggio-Bari attivata nell’ottobre 1943; in conseguenza di che la corrispondenza da Reggio dev’essere ora istradata esclusivamente su Catanzaro, Messina e Catania:
  2. b) se sia vera la voce, riferita anche dalla stampa, della cessione dell’unico apparato telegrafico celere di cui Reggio poteva disporre ad un’altra città non della Calabria, e della asportazione dei dispositivi esistenti nelle amplificatrici in dotazione all’ufficio di Reggio Calabria; ed – in caso la voce risponda a verità – per quali motivi ciò è avvenuto;
  3. c) quali provvedimenti intende di adottare per riparare al più presto al danno della predetta città di Reggio Calabria che – superata in un quarantennio la tragedia del terremoto e della guerra con le prove migliori della volontà di risorgere – ha diritto di non vedersi ostacolata nella sua volontà di ripresa e danneggiata ulteriormente nei suoi interessi.

«Sardiello».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro dei trasporti, per sapere con quali provvedimenti intendano frenare il progressivo peggioramento delle comunicazioni ferroviarie fra la Regione Salentina, da una parte, e Roma ed il Nord Italia, dall’altra.

«A parte i ritardi quotidiani, che ormai hanno assunto la stabilità di un orario e che oscillano fra le 16 e le 12 ore, è il materiale ferroviario usato esplicitamente per tali comunicazioni quello che maggiormente umilia e mortifica i viaggiatori, tanto esso è lurido, sconquassato, primordiale, con vetture anche di seconda classe, ove i sedili sono formati da assicelle sporche e con chiodi sporgenti, le porte mancanti dell’intero telaio di vetro, i vetri dei finestrini sostituiti da mal connesse tavolette e le lampadine mancanti.

«A questo devesi aggiungere, e mettere in rilievo, lo stato davvero deplorevole del cosiddetto scompartimento riservato ai deputati, il quale, oltre agli inconvenienti qui denunziati, è quasi sempre invaso ed occupato da tumultuanti viaggiatori, anche di terza classe, al cospetto del personale di servizio completamente inattivo. Il che è stato constatato e sperimentato personalmente da vari Deputati della Regione, i quali, perdurando tale stato di cose, si troveranno facilmente nella impossibilità di continuare a partecipare ai lavori dell’Assemblea.

«La Gravinese Pasquale».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se e quale provvedimento intendasi prendere per la costituzione, nella regione dell’Albese e delle Langhe, di un centro specializzato di motoaratura per lo scasso dei terreni vitati per la ricostituzione dei vigneti fillosserati; il che appare tanto più urgente e necessario, in relazione all’eccessiva gravosità dei prezzi praticati dall’industria privata, alla poliennale stasi dovuta alla guerra ed all’intensificazione della invasione fillosserica.

«Bubbio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere – riferendosi ad una precedente interrogazione sul funzionamento del Provveditorato agli studi di Siracusa e sull’opera del reggente provveditore professore Agosello – se ritiene lecito che il detto professore Agosello, traendo pretesto dalla cennata interrogazione, aggredisca per mezzo della stampa il Deputato interrogante, a causa e nell’esercizio della funzione parlamentare, trascendendo ad un libello oltraggioso ed esponendosi al conseguente deferimento al magistrato penale; e se ritiene ancora compatibile la sua permanenza nell’arbitraria reggenza del Provveditorato agli studi di Siracusa, specialmente dopo le precise segnalazioni dei giornali di diversi partiti sulla illegalità della sua posizione.

«Di Giovanni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze e tesoro e dell’industria e commercio, per sapere se non ritengano urgente provvedere con apposita legge al pagamento dei danni di guerra subìti dall’industria, con particolare riguardo alle piccole e medie aziende dell’Italia meridionale ed insulare che hanno subìto, prevalentemente nel 1943, danni valutati con i valori dell’epoca e non hanno ancora avuto alcun risarcimento, pur essendo trascorsi oltre tre anni, mentre gli industriali del Nord sembra abbiano ottenuto, sino alla occupazione degli Alleati, il pagamento dei danni di guerra in misura del 50 per cento sul danno totale ed in moneta meno svalutata della attuale. Questo invocato provvedimento consentirebbe a numerose industrie di ripristinare, almeno in parte, le rispettive attrezzature, favorendo l’assorbimento di numerosi disoccupati, che cesserebbero di essere a carico dell’assistenza, e facilitando la ricostruzione nazionale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bonino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle poste e telecomunicazioni, sui motivi che ostacolano il ripristino del normale recapito dei telegrammi e se la Direzione provinciale di Bari non provvede per propria passività o per ordini superiori. Si rileva che il telegramma recapitato dal portalettere perde la sua efficacia, più che indispensabile nella ripresa delle relazioni industriali e commerciali, specie in passi dove le attività produttive e di scambio sono rilevanti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Miccolis».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere:

1°) i motivi per i quali l’articolo 18 del regio decreto 12 febbraio 1940, n. 740, non sia stato applicato nel suo spirito oltre che nella lettera a favore dei maestri elementari provenienti dalle scuole italiane all’estero, rimpatriati esclusivamente per causa di guerra. Risulta che, nei riguardi di molti insegnanti, non solo non si è interpretato il disposto dell’articolo 18 predetto, il quale garantisce agli interessati il diritto di scelta e di preferenza di sede (ad esempio i casi: Busi Maria, Gazzola Rosa, Lollis Giovanni, Toti Brandi Maria, Bertozzi Vera, Garlando Francesco, Lamonato Vanda ed altri), ma le relative pratiche sono trascinate da lunghi mesi ed i reclami motivati non sono presi in considerazione, con grave danno degli interessati che attendono con legittima ansia una definitiva sistemazione;

2°) per quali motivi non sia più data applicazione generale all’articolo 35 del regio decreto citato e alla decisione del Consiglio di Stato n. 357-941 (lettera del Ministero della pubblica istruzione n. 20736 del 20 aprile 1943), cosicché, mentre alcuni insegnanti hanno potuto usufruire dell’iscrizione in sedi già considerate di 1a categoria a’ sensi della legge 1° luglio 1933, n. 786, altri, invece, specie se rimpatriati per cause belliche negli ultimi anni, e già regolarmente assegnati a sedi di primaria importanza, sono stati improvvisamente trasferiti, ad arbitrio dei provveditori, ma su ordine del Ministero, in sedi già di 5a categoria, e i loro ricorsi non sono presi in considerazione dal Ministero, con grave danno economico e morale degl’interessati (ad esempio i casi: De Bernardo Arrigo, Corelli Francesca; Deste Antonio, Ferrari Riva Pasqua, Innocenti Ada, Messadaglia Maria ed altri).

«Considerato il numero e la complessità dei casi, l’interrogante chiede se non sia opportuno procedere alla domina di una Commissione mista (rappresentanti del Ministero degli affari esteri, della pubblica istruzione e dell’Associazione nazionale insegnanti all’estero) per la loro rapida ed equa soluzione, che metta termine ad una situazione di grave disagio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cevolotto».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere per quali motivi siano stati esclusi dal concorso per esami e titoli ai posti di notaio, secondo l’articolo 2 del decreto del Ministro di grazia e giustizia 24 dicembre 1946, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 30 dicembre 1946, n. 297, i militari reduci dall’internamento in Svizzera, essendo contemplati in tale articolo soltanto i reduci dalla prigionia e deportazione.

«L’interrogazione s’appalesa necessaria in quanto, trattandosi di norme eccezionali, non è possibile l’interpretazione analogica, e pertanto questa categoria ne viene esclusa, mentre si trova nelle medesime condizioni di quelle dei reduci dalla prigionia e deportazione, tanto è vero che il Ministero dell’assistenza post-bellica, il Ministero della guerra e l’Associazione nazionale reduci equiparano in modo assoluto le tre categorie.

«L’interrogante ritiene necessario il provvedimento che dichiari l’equiparazione dei militari reduci dall’internamento in Svizzera a quelli della prigionia e deportazione, ai fini del decreto ministeriale 24 dicembre 1946.

«Ritiene inoltre necessario procedere con la massima urgenza a riparare tale omissione, data la prossima scadenza dei termini per la presentazione delle domande. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cavallotti».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro della difesa, per conoscere quali misure si intendano prendere per rapidamente liquidare le spettanze dei reduci, già residenti nell’Africa Italiana, ed ora provenienti dai campi di prigionia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pellegrini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere le ragioni per le quali a tutt’oggi non sono stati presentati alla Corte dei conti, per la debita registrazione, i decreti di nomina dei nuovi Ministri e per sentire come il Governo giustifica un tale deplorevole ritardo che determina il gravissimo arresto nel funzionamento dell’Amministrazione dello Stato nei suoi riflessi esterni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Marina».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere le misure che intende prendere, perché nelle scuole professionali di Venezia sia proibito, quale libro di testo, il volume La luce del mondo, autore Onofrio Di Francesco, in cui si fa aperta apologia delle istituzioni monarchiche, del «re imperatore», e si offende la democrazia italiana, attraverso le volgari calunnie contro alcuni partiti democratici. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Pellegrini, Ravagnan».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’interno e dell’industria e commercio, per conoscere le cause che in questi ultimi tempi hanno determinato un gravissimo peggioramento nella distribuzione dell’energia elettrica nella Sicilia sud orientale e segnatamente nella provincia di Ragusa, dando luogo a deficienze ed irregolarità, che da un canto costituiscono un pericolo per la sicurezza pubblica e dall’altro paralizzano ogni attività, creando un disagio insopportabile in tutti gli ambienti, specialmente nei centri industriali e scolastici.

«L’interrogante chiede, altresì, di conoscere se, in presenza di tale situazione, non si reputi necessario un intervento urgente, con provvedimenti intesi almeno ad una più equa e razionale distribuzione tra le varie provincie e le varie città, ove non sia possibile incrementare subito la produzione di energia, e se nel contempo non si ritenga opportuna una inchiesta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Guerrieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se non ritenga opportuno elevare la misura degli «assegni di cura» di cui fruiscono attualmente gli invalidi di guerra affetti da tubercolosi, i quali non godano degli assegni di superinvalidità.

«Tale assegno, malgrado gli aumenti stabiliti dal 1923 ad oggi, attualmente non supera le otto lire giornaliere, cifra assolutamente inadeguata alle esigenze della cura della tubercolosi (superalimentazione, collassoterapia, ecc.).

«Sarebbe opera di umana solidarietà, oltre che un compito di profilassi sociale, adeguare gli assegni di cura agli indici della vita attuale, sulla base dei criteri seguiti nell’emanazione del decreto presidenziale 29 dicembre 1946, che non ha tenuto in alcun conto le particolari necessità della vasta categoria dei tubercolotici di guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Patricolo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno e l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per sapere quali provvedimenti intendano prendere per risolvere urgentemente il gravissimo problema dell’Ospedale civile di San Donà di Piave, che, distrutto da bombardamento nel 1944, ha dovuto ricoverare gli ammalati in una villa, dove medicina, chirurgia e malattie infettive costituiscono – nonostante l’encomiabile zelo dei sanitari – tutto un insieme impressionante e di grave pericolo per la salute pubblica (ammalati due per letto, infettivi separati di pochi metri dai sani, una epidemia di tifo scoppiata in questi giorni e via dicendo); e se non ritengano opportuno di far iniziare subito la ricostruzione del nuovo ospedale, il cui progetto attende l’approvazione del Ministro dei lavori pubblici e della Direzione di sanità. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bastianetto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per sapere quali provvedimenti intenda immediatamente prendere per l’epidemia di tifo che va sempre più estendendosi a San Donà di Piave e paesi limitrofi e se non intenda inviare una ispezione, che accerti le cause di tale epidemia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bastianetto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non ritenga opportuno e urgente estendere agli orfani della guerra 1915-18 il beneficio, di cui godono gli orfani della guerra ultima, nelle assunzioni in servizio, disposte dal decreto 4 agosto 1945. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Basile».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non ritenga opportuno disporre il trasferimento dei 47 profughi che occupano l’edificio scolastico di Montalbano Ionico (Matera), accogliendo le richieste di quell’Amministrazione comunale, in modo da rendere possibile il funzionamento delle scuole e dell’asilo infantile; tanto più che i profughi attualmente a Montalbano potrebbero agevolmente essere trasferiti nei locali della colonia agricola della vicina Pisticci. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pignatari».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.30.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

  1. – Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
  2. – Esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

MERCOLEDÌ 12 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XXXV.

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 12 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Costituzione dei Comitati direttivi di Gruppi parlamentari:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Svolgimento):

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste                                                    

Gabrieli                                                                                                            

Restagno, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici                                      

Finocchiaro Aprile                                                                                         

Laconi                                                                                                              

Romano                                                                                                            

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Presidente                                                                                                        

Scoccimarro                                                                                                    

Damiani                                                                                                            

Di Fausto                                                                                                         

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

 

La seduta comincia alle 16.

 

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Costituzione dei Comitati direttivi di Gruppi parlamentari.

PRESIDENTE. Comunico che il Gruppo parlamentare comunista ha proceduto alla ricostituzione del suo Comitato direttivo, che è risultato così composto: presidente, onorevole Togliatti; vicepresidenti, onorevoli Scoccimarro e Grieco; segretari, onorevoli Minio e Iotti Leonilde; componenti, onorevoli Amendola, Maffi, Allegato, Rossi Maria Maddalena.

Il Comitato direttivo, poi, del Gruppo parlamentare della democrazia cristiana è stato così costituito: presidente, onorevole Gronchi; vicepresidente, onorevole Cingolani; segretario, onorevole Andreotti; componenti, onorevoli Angelini, Avanzini, Bettiol, Caronia, Marazza, Mastino Gesumino, Moro, Ponti, Rodinò Ugo.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni. La prima è quella dell’onorevole Gabrieli al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’agricoltura e foreste, «per conoscere le ragioni che hanno determinato il legislatore, nel recente decreto legislativo sull’assegnazione delle terre incolte ai contadini, a non fissare il criterio da seguire per i terreni alberati. L’interrogante (ad evitare divergenze d’interpretazione, che si sono già verificate) segnala l’opportunità di integrare il testo del decreto con una norma interpretativa, diretta a stabilire che, in caso di terreni alberati, si deve avere riguardo allo stato tecnico colturale dell’albero, più che a quello del terreno sottostante».

L’onorevole Ministro dell’agricoltura e delle foreste ha facoltà di rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Il criterio per il riconoscimento dello stato di insufficiente coltivazione dei terreni, agli effetti dell’applicazione dei decreti legislativi 19 ottobre 1944, n. 279 e 6 settembre 1946, n. 89, è enunciato nell’articolo 1 dello stesso decreto, senza discriminazione fra terreni nudi e terreni alberati: «Sono insufficientemente coltivati i terreni adibiti a colture, siano esse erbacee o arboree, per le quali potrebbero essere praticati metodi più attivi ed intensivi, in relazione anche alla necessità della produzione agricola nazionale».

Consegue che i terreni investiti a coltura arborea possono formare oggetto di concessione, ai sensi dei menzionati decreti legislativi, tutte le volte che la coltura stessa si ravvisi insufficientemente curata o, comunque, curata in modo non conforme alle buone regole tecniche in materia, sì che se ne ottengono raccolti scarsi in confronto a quelli che potrebbero ottenersi, in relazione al grado di fertilità del suolo e alle condizioni ambientali.

E, poiché l’attività agricola nei riguardi delle colture arboree comprende non soltanto le pratiche colturali dirottamente applicate agli alberi, ma anche quelle che, pure riverberandosi, in definitiva, sulla produttività dell’albero, riguardano direttamente il suolo, è evidente che non può prescindersi dal considerare anche queste ultime in sede di valutazione dello stato colturale del fondo, agli effetti del giudizio sulla concedibilità di esso, ai sensi dei ricordati decreti legislativi. Ma l’omissione di pratiche, quali l’aratura, riguardanti il suolo, in tanto potrà, di per sé, costituire elemento dal quale scaturirà la dichiarazione di insufficiente coltivazione del terreno alberato, in quanto risulti incontrovertibilmente – e qui si tratta di un giudizio tecnico da formulare caso per caso – che l’omissione stessa, per la sua gravità e persistenza, assurge a causa unica determinante scarsi raccolti in confronto a quelli realizzati in arborati della stessa specie, vegetanti in condizioni ambientali analoghe, nei quali le pratiche colturali al suolo non furono omesse.

PRESIDENTE. L’onorevole Gabrieli ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

GABRIELI. I chiarimenti dell’onorevole Ministro possono considerarsi sodisfacenti. La questione che forma oggetto della mia interrogazione è sorta specialmente in relazione agli oliveti, ove il tradizionale accorgimento dei tecnici ha costantemente consigliato di limitare le attività colturali alla rimonda dell’albero e alla concimazione, o all’aratura del terreno sottostante, omettendo ogni altra seminagione che potesse riuscire dannosa all’efficienza produttiva dello stesso oliveto.

In rapporto a tali criteri deve ritenersi sufficientemente coltivato l’oliveto che si presenti in buone condizioni di vegetazione, anche se il terreno non sia stato sfruttato con altre colture complementari.

La formulazione dell’articolo 1 del decreto è perciò imperfetta dal punto di vista tecnico-giuridico. La dizione adoperata dal legislatore: «Possono ottenere la concessione di terroni incolti o insufficientemente coltivati, cioè tali da potervi praticare colture o metodi colturali più attivi ed intensivi», autorizza ad interpretare l’articolo nel senso che possono essere ritenuti suscettibili di concessione perché insufficientemente coltivati, anche quei terreni che, pur essendo coperti da oliveti in buone condizioni colturali, siano ritenuti eventualmente capaci di maggiore rendimento, se al posto dell’oliveto fossero praticate colture o metodi colturali più attivi o intensivi: così, ad esempio, qualora un fondo coltivato ad oliveto possa rendere di più se coltivato a vigneto, o a tabacco, o a cereali, l’autorità può ordinarne la concessione ritenendolo insufficientemente coltivato ai sensi di legge.

Mi fa piacere che il Ministro abbia dato questo chiarimento.

L’articolo in esame lascia inoltre pensare che sono suscettibili di concessione anche quei terreni olivetati che possano essere sfruttabili con colture complementari. Il danno che può derivare dall’applicazione letterale di tale articolo è enorme. Si potrebbe arrivare all’assurdo di ordinare il diradamento degli alberi di olivo per sostituirvi un’altra coltura opinata più attiva o più intensiva.

I chiarimenti che in questa sede l’onorevole Ministro ci ha dati permettono di calmare tutti gli agricoltori pugliesi e d’interpretare la portata della legge stessa facendo aderire la lettera al vero pensiero del legislatore.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Finocchiaro Aprile al Ministro dei Lavori Pubblici, «per sapere quali somme siano state stanziate o s’intenda di stanziare per il completamento e l’attivazione dell’acquedotto di Montescuro Ovest, opera di alto interesse pubblico, destinata a soddisfare le esigenze idriche di ben 18 comuni delle provincie di Palermo, Trapani e Agrigento».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

RESTAGNO. Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Nel finanziamento delle opere per il completamento dell’acquedotto di Montescuro Ovest (Trapani), il Ministro dei lavori pubblici aveva predisposto un provvedimento legislativo concernente l’autorizzazione della spesa di 900 milioni, distribuita in tre esercizi: 1946-47, 1947-48 e 1948-49. Lo schema di tale provvedimento fu sottoposto all’esame dei Ministri dell’interno è del tesoro; ma, mentre il Ministro dell’interno vi ha aderito, quello del Tesoro ha fatto conoscere che dovrebbe consentire la concessione di un concorso in capitale di lire 400 milioni, ripartiti in tre esercizi e, per la rimanente somma di lire 500 milioni si potrebbe autorizzare l’Ente interessato a stipulare un apposito mutuo ai sensi dell’articolo 4 della legge 18 gennaio 1942, n. 24.

Ritenendosi opportuno, anche per evitare ulteriori perdite di tempo, di aderire all’accennata proposta, è stato predisposto, d’accordo col Ministero del tesoro, il relativo provvedimento legislativo, che sarà prossimamente esaminato dal Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’onorevole Finocchiaro Aprile ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

FINOCCHIARO APRILE. Sono assolutamente insodisfatto della risposta datami dal Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Prima di tutto la diminuzione, da parte del Ministero del tesoro, dello stanziamento chiesto dal Ministero dei lavori pubblici è tale da non consentire che le opere di completamento e di attivazione dell’acquedotto di Montescuro Ovest possano essere condotte con relativa sollecitudine e con generale soddisfazione a compimento. Si tratta di uno dei problemi più urgenti ed interessanti della Sicilia.

Fu mio padre a determinare l’origine e la creazione dell’acquedotto di Montescuro, ed io stesso ebbi occasione di incrementarne lo sviluppo nel pubblico interesse. L’acquedotto di Montescuro Est è stato completato con grande compiacimento delle popolazioni. Esso nacque per il servizio delle ferrovie secondarie siciliane, ma poté fortunatamente servire al rifornimento idrico di molti Comuni della Sicilia occidentale. L’abbondanza e la eccellente qualità delle acque convogliate consentì di progettare anche l’acquedotto di Montescuro Ovest, destinato a dare l’acqua a ben 18 Comuni, fra cui quello di Trapani.

Sono Comuni di grande estensione territoriale e densi di popolazione. Essi sono quelli di Giuliana, Sambuca, Menfi, Santa Margherita, Montevago, Partanna, Gibellina, Salaparuta, Poggioreale, Santa Ninfa, Castelvetrano, Campobello, Salemi, Vita, Calafatimi e Paceco; Comuni appartenenti a tre province siciliane.

Come vedete, è un complesso di Comuni, notevole anche numericamente, e di popolazioni che mancano quasi del tutto di acqua, costrette a subire le gravi conseguenze di tale mancanza, che sono per ciò stesso sottoposte a malattie infettive di ogni genere.

Tra questi Comuni è Trapani, centro importante anche dal punto di vista economico ed industriale. Trapani ha grande, assoluto bisogno di acqua. Ora il Ministro del tesoro viene a diminuire lo stanziamento chiesto dal Ministero dei lavori pubblici, mettendo in serio pericolo la sodisfazione dei legittimi desideri di quella cittadinanza. Trapani è capoluogo di provincia. Vorrei vedere che cosa avrebbe fatto il Governo se si fosse trattato di un capoluogo di provincia o di una città dell’Alta Italia! È una vergogna mantenere la Sicilia in queste condizioni e farle mancare persino l’acqua, tanto necessaria alla vita ed ai bisogni delle popolazioni.

Per quanto riguarda Trapani, è vero che vi è un altro sistema di rifornimento idrico in progetto, ma questo progetto sarà molto dispendioso e la costruzione dell’acquedotto per Trapani potrebbe determinare grossi inconvenienti anche per le finanze dello Stato. Per il solo acquedotto di Trapani sono preventivati 290 milioni di lire per dare alla città 60 litri di acqua al secondo. Viceversa, utilizzando l’acquedotto di Montescuro Ovest, la città di Trapani potrebbe essere ugualmente rifornita con una lieve diminuzione a 55 litri al secondo. Si tratta di un acquedotto che può convogliare una massa importante di acqua e può dare una fornitura di litri 168 al secondo, pari a 14.428 litri sulle 48 ore.

È, dunque, assolutamente necessario che il Ministero dei lavori pubblici insista presso il Ministero del tesoro perché lo stanziamento sia portato alla somma di 900 milioni di lire precedentemente chiesta e appena sufficiente, altrimenti il problema non sarà risoluto o sarà risoluto in modo molto parziale, imperfetto e fors’anche dannoso.

Sono quindi assolutamente insoddisfatto della risposta del Governo.

PRESIDENTE. Segue un’altra interrogazione dell’onorevole Finocchiaro Aprile, al Ministro dei lavori pubblici, «per conoscere quali provvedimenti intenda prendere per le urgenti opere di riparazione e di ricostruzione del porto di Messina, che richiede altresì importanti impianti ed attrezzature per potere assolvere il suo precipuo compito di centro dell’attività marittima e mercantile del Mediterraneo, anche ai fini dell’indispensabile creazione della zona franca».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Per la parziale ricostruzione del porto di Messina è stato compilato ed approvato tecnicamente un progetto di massima che prevede una spesa di lire 500 milioni.

L’attività svolta in attuazione di tale progetto si riassume come appresso:

1°) lavori appaltati e già eseguiti: lire 48.375.000;

2°) lavori appaltati ed in corso di esecuzione: 76.312.000 lire;

3°) lavori da appaltarsi subito, perizie in corso di approvazione: 88.800.000 lire;

4°) progetti in corso di redazione da appaltarsi ed iniziarsi nei prossimi mesi: 342.000.000. – Totale: 555.487.000 lire.

Per quanto concerne la creazione della zona franca, è in via di costituzione una Commissione di rappresentanti di tutti i Ministeri interessati, che dovrà studiare il modo di eliminare le difficoltà di ordine vario che ostacolano la istituzione di detta zona franca.

Desidero poi far presente all’onorevole interrogante che la insinuazione cui ha accennato, nella precedente interrogazione, circa gli stanziamenti per la zona del Nord non ha nessun fondamento e che l’onorevole collega potrà prendere visione negli uffici competenti del Ministero dei lavori pubblici come gli stanziamenti effettuati per la zona Sud, ed in modo particolare per la Sicilia, sono notevolmente superiori. Dirò anzi che nel precedente Governo il Ministro Romita non ha fatto nessun stanziamento, neanche per una lira, per intere regioni dell’Italia settentrionale.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

FINOCCHIARO APRILE. Sono insodisfatto, assolutamente insodisfatto, completamente insoddisfatto (Commenti) della risposta data dal Governo alla mia interrogazione.

Il porto di Messina, nella economia marittima siciliana e mediterranea, rappresenta qualche cosa di veramente importante. Il porto di Messina e la stessa città di Messina sono fra i più danneggiati che vi siano stati in Sicilia e altrove. Messina ha avuto, niente di meno, che il 96 per cento dei fabbricati colpiti e danneggiati dai bombardamenti e il porto di Messina è in gran parte distrutto. È un gran porto, necessario ai traffici dell’Isola e a quelli internazionali. Le riparazioni, le ricostruzioni, gli ampliamenti, i nuovi impianti e le attrezzature moderne sono un’assoluta, urgente ed inderogabile necessità.

Gli stanziamenti, di cui ha parlato il Sottosegretario di Stato, sono del tutto insufficienti. Nell’elenco che il Sottosegretario ha fatto sono compresi anche i progetti che dovranno essere approvati. Le somme effettivamente spese sinora ascendono appena a poche diecine di milioni di lire!

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Cinquecento milioni.

FINOCCHIARO APRILE. Stanziati, ma non spesi! Voi non fate nulla con questi stanziamenti! Se si fosse trattato di parecchie centinaia di milioni di lire effettivamente spese, potrei dichiararmi sodisfatto: oggi assolutamente no!

In quanto alla creazione della zona franca, quel che ha detto il Sottosegretario di Stato non può certo appagarmi. Le difficoltà non possono essere che nella volontà del Governo. La zona franca è indispensabile a Messina ed io confido che noi siciliani riusciremo, come è nostro diritto, ad ottenerla.

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Desidero fare presente all’onorevole interrogante e all’Assemblea che è in corso di controfirma un decreto legislativo che autorizza per opere pubbliche in Sicilia la spesa di otto miliardi, che sarà ripartita d’accordo con l’Alto Commissario per la Sicilia stessa.

FINOCCHIARO APRILE. Lo sapevamo. (Commenti). Ma gli otto miliardi di lire bisognerà spenderli effettivamente, non lasciarli segnati sulla carta. Che valore ha uno stanziamento di otto o di cento miliardi di lire, quando l’onorevole Romita dice che non ha un soldo? (Commenti).

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Inoltre con decreto legislativo 2 gennaio 1947, n. 2, relativo alla costituzione e all’ordinamento dell’Ente siciliano di elettricità, è stato concesso un contributo statale di 31 miliardi e 795 milioni, che sarà ripartito in dieci esercizi, dal 1946-47 al 1955-56, ed è stata autorizzata la spesa di un miliardo per l’esercizio 1946-47 per impianti idrici o termici di produzione e distribuzione di energia elettrica che saranno costruiti o acquistati dall’Ente predetto.

Questo ho voluto dire per evitare manifestazioni demagogiche che non hanno nessun fondamento. (Vivi applausi al centro).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Laconi, al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per sapere se sia esatto che egli considera decaduti i decreti di requisizione di terre incolte disposti con provvedimenti dell’ottobre 1944 dal prefetto di Sassari e successivamente prorogati per l’annata 1945-46, e che ha disposto per l’attribuzione delle stoppie ai proprietari. E per conoscere, altresì, se non ritenga opportuno devolvere il riesame di tutto il complesso delle assegnazioni alle apposite Commissioni, le quali potrebbero decidere caso per caso, su istanza della parte interessata, sentita l’altra parte e nello spirito delle ultime disposizioni, che prolungano a nove anni il periodo della concessione».

L’onorevole Ministro dell’agricoltura e delle foreste ha facoltà di rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Ritengo che la questione sia superata nel tempo, perché le concessioni di terre effettuate nell’ottobre 1944 in base all’articolo 19 della legge comunale e provinciale, ebbero la durata di soli due anni. In massima parte esse non furono rinnovate per accordi presi fra le parti. In qualche altro caso, quando le cooperative insistettero perché la concessione fosse prorogata, si è raggiunta una intesa.

Non mi consta che vi siano stati casi di ulteriori discussioni. Forse l’interrogazione dell’onorevole Laconi si riferisce ad un periodo precedente ai provvedimenti da me presi per risolvere la questione.

Ad ogni modo, se vi fossero casi individuali, pregherei l’onorevole Laconi di indicarmeli, per vedere esattamente a che cosa si riferiscono.

PRESIDENTE. L’onorevole Laconi ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

LACONI. Convengo con l’onorevole Ministro che la questione è ormai superata nel tempo. L’interrogazione si riferiva infatti ad una procedura che non ha avuto di fatto quella efficacia che sarebbe stata rispondente alle esigenze di quel determinato periodo.

Poiché dunque la questione è superata nel tempo, non posso che dichiararmi sodisfatto.

PRESIDENTE. Segue un’altra interrogazione dell’onorevole Laconi al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per sapere se sia esatto che il decreto legislativo luogotenenziale 13 settembre 1945, n. 593, che disponeva speciali provvidenze a favore degli agricoltori sardi danneggiati nel 1945 dalla siccità e dalle cavallette, non ha avuto applicazione per il mancato stanziamento dei fondi occorrenti preventivati in circa 350 milioni di lire, e per l’insufficiente assegnazione di cotonate. E per sapere anche se intenda disporre le misure necessarie per dar pratica attuazione al succitato decreto, venendo così incontro alla giusta aspettazione degli agricoltori sardi».

L’onorevole Ministro dell’agricoltura e delle foreste ha facoltà di rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. I 350 milioni di cui al decreto 13 settembre 1945, n. 593, furono effettivamente stanziati con qualche ritardo da parte del Ministero del tesoro. In ogni modo, allo stato attuale, i primi 200 milioni sono stati già stanziati nel bilancio del Ministero dell’agricoltura per il corrente anno e sono in erogazione. Abbiamo l’assicurazione del Tesoro che i successivi stanziamenti avverranno non appena possibile.

I primi acconti sono stati inviati all’Alto Commissariato per la Sardegna, per modo che le distribuzioni sono state iniziate. Le cotonate sono state integralmente distribuite.

Forse anche qui lo stato cui si riferiva l’onorevole interrogante è stato superato successivamente dal tempo, poiché vi è stato adempimento sia per il finanziamento, che per la distribuzione.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

LACONI. Convengo col Ministro che lo stato cui si riferiva la mia interrogazione è parzialmente superato. E per quanto convenga anche nel fatto che la responsabilità non è unicamente del Ministro dell’agricoltura e delle foreste, ma è condivisa dal Ministro del tesoro, non posso dichiararmi sodisfatto della risposta.

Le calamità riversatesi sulla Sardegna nell’estate del 1945 furono di tale entità ed investirono una tale massa di popolazione, da potersi considerare calamità nazionali.

Ed è per questa ragione ed anche per le esigenze particolari, che queste masse di agricoltori avevano, che ritengo che i soccorsi stanziati dal Governo avrebbero dovuto essere distribuiti direttamente alle popolazioni con sollecitudine molto maggiore.

Allo stato attuale – siamo nel 1947 – non posso ancora dire che i fondi stanziati siano entrati in distribuzione regolare e l’esigenza possa dirsi minimamente soddisfatta.

Per questo, nel dichiararmi insoddisfatto della risposta dell’onorevole Ministro, prego i Ministri del tesoro e dell’agricoltura ed il Governo di provvedere, in modo che nelle masse agricole della Sardegna si ristabilisca la fiducia che quando il Governo delibera uno stanziamento o una provvidenza nei loro confronti, questa provvidenza entri rapidamente in attuazione.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Romano, al Ministro dei lavori pubblici, «per conoscere per quale motivo non si provvede alla classificazione come strada statale della strada Pirato-Catania, via Stazione Raddusa, con il n. 121-bis, e ciò in considerazione della sua particolare importanza a norma del decreto-legge 15 novembre 1923, n. 2506. Detta strada, mantenuta per il breve percorso di 78 (settantotto) chilometri da quattro enti diversi, è in istato di abbandono, mentre è l’arteria che per il suo tracciato altimetrico, senza dislivelli, meglio congiungerebbe al porto di Catania le due provincie più interne della Sicilia, cioè Caltanissetta ed Enna, con un percorso minore di ventiquattro chilometri rispetto alla strada che passa per Pirato, Leonforte, Agira, Regalbuto, Adrano, Biancavilla, Paternò e Misterbianco, strada con dislivelli notevoli, che variano dai trecento ai novecento metri».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Premesso che la detta strada proposta non fu mai statale, né risulta mai presa in esame agli effetti della classificazione in tale categoria, e rilevato che la classificazione stessa non potrà aver luogo, eventualmente, se non con la contemporanea declassificazione della rete statale del citato differente percorso ora incluso nella strada statale n. 121, sono state impartite istruzioni al Compartimento della viabilità di Palermo perché provveda alla necessaria istruttoria tecnica in ordine alla detta sostituzione di tracciato della strada statale n. 121 tra Pirato e Catania, tenendo presente che è già intendimento dell’A.N.A.S. di migliorare il tracciato stesso in corrispondenza di Adrano, e precisamente tra il Ponte Maccarone (sul fiume Simeto), e Paternò, sostituendo ivi all’attuale tratto di detto tracciato, passante per Adrano-Biancavilla-S. Maria di Licodia, quello ora provinciale allacciante direttamente gli indicati due estremi.

PRESIDENTE. L’onorevole Romano ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

ROMANO. Non posso dichiararmi completamente sodisfatto, giacché l’interrogazione investe interessi notevoli della Sicilia, in quanto la strada Pirato-Catania è l’unica strada che unisce direttamente il centro dell’isola col porto di Catania. Per recarsi dal centro dell’isola al porto di Catania si è costretti ad utilizzare la strada che passa per Enna e Leonforte, toccando i seguenti paesi Leonforte, Agira, Regalbuto, Adrano, Biancavilla, Paternò e Misterbianco, cioè si fa un circolo vizioso e si percorrono 24 chilometri di più. Invece, rendendo statale la strada che unisce Pirato con Catania – strada pianeggiante – si accorcerebbe il percorso di 24 chilometri e si eviterebbero dislivelli che variano dai 300 ai 900 metri. Si tratta di una strada necessaria, che servirebbe anche a scopi di polizia, giacché in questi 78 chilometri di strada tra Pirato e Catania, non viene toccato alcun villaggio, ma si attraversa quella zona dove imperversano le famose bande armate. Questa strada sarebbe utile non solo dal punto di vista commerciale, ma anche dal punto di vista sociale ed agricolo.

Quindi, io penso che rendendo statali questi quattro tronchi che dipendono da quattro enti diversi, si farebbe opera utile per tutta l’isola, in quanto i centri di Caltanissetta ed Enna, e tutti i centri dell’isola, sarebbero messi in comunicazione diretta, attraverso questa nuova grande arteria pianeggiante, col porto di Catania, che così riceverebbe l’afflusso da tutto l’interno.

Chiedo, pertanto, che si venga incontro a questi bisogni impellenti della Sicilia.

PRESIDENTE. È così trascorso il tempo assegnato alle interrogazioni.

Seguitò della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: «Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri».

Onorevoli colleghi, desidero far presente che gli iscritti a parlare sono ancora 65. (Commenti). Propongo, perciò, che l’inizio delle sedute sia anticipato da domani alle ore 15, e che i lavori proseguano fino alle ore 20. Fino a tale ora nessun oratore potrà rifiutarsi di parlare.

È necessario che da parte degli oratori sia osservata una certa sobrietà nella discussione. Si era fatta la proposta alla Presidenza di ridurre a venti minuti il tempo di ogni intervento; ma non si ritiene opportuno accettarla, perché la discussione deve essere liberissima e completa.

Peraltro la Presidenza prega gli onorevoli Deputati di ridurre i loro interventi al puro necessario. Sarebbe inoltre opportuno che durante la discussione sulle dichiarazioni del Governo, fosse sospeso lo svolgimento delle interrogazioni.

Se non vi sono osservazioni in contrario, così rimarrà stabilito.

(Così rimane stabilito).

È iscritto a parlare l’onorevole Scoccimarro. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Onorevoli colleghi, la discussione sulle dichiarazioni del Governo ha rapidamente superato i termini del programma esposto dal Presidente del Consiglio, involgendo nel dibattito problemi politici fondamentali per la vita del nostro Paese.

Era naturale, direi quasi inevitabile, che così avvenisse, per la natura stessa della crisi dalla quale è uscito il nuovo Governo.

Per la prima volta in questa crisi è stata posta in discussione la formula politica del Governo; ad un certo momento pareva persino possibile una soluzione non troppo corrispondente a quella che è stata la chiara manifestazione dell’orientamento politico del popolo italiano nelle più recenti elezioni amministrative, soluzione che proprio per questo non so fino a qual punto sarebbe stata rispettosa di un vero costume democratico.

Elementi di questo genere sono rivelatori della situazione di incertezza e di instabilità della situazione politica del nostro Paese e fanno chiedere a molti: Che cosa sarà la nuova democrazia italiana? Sarà essa un regime politico che consentirà al popolo lavoratore di muoversi liberamente, di elevarsi e progredire senza urtare contro limiti assurdi che gli sbarrano la via? Sarà essa un regime capace di porre radici profonde e sicure nella coscienza dei lavoratori, aprendo ad essi tutte le vie del progresso e dell’avvenire, o non piuttosto si erigerà di fronte ad essi, come spesse volte in passato, ostile e diffidente, sempre pronta ad opporre resistenza ad ogni loro passo in avanti?

È questo l’interrogativo che risorge costantemente dinanzi a noi: in esso si racchiude il segreto del nostro avvenire. Direi di più: se volgiamo lo sguardo fuori del nostro Paese, vediamo che questo problema, in forme diverse e secondo le tradizioni proprie di ciascun Paese, agita la vita politica di tutti i Paesi democratici. È il problema del periodo storico che noi viviamo ed a cui ha dato inizio la seconda guerra mondiale con la distruzione del fascismo e del nazismo.

Ora, è alla luce di queste esigenze che bisogna considerare la formula politica del Governo.

Bisogna elevare tale problema dal piano della cronaca a quello della storia, per intenderlo in tutto il suo significato. E non pare a me che le considerazioni svolte giorni or sono dall’onorevole Vito Reale abbiano tenuta presente questa esigenza, poiché non è vero che fra i comunisti e i democratici cristiani si ponga oggi preminente e prevalente un problema di contrasto di ideologie. Oggi c’è nel nostro Paese l’esigenza di affrontare i problemi concreti della nostra ricostruzione e su questi problemi concreti – non se lo abbiano a male i democristiani – vi sono meno differenze fra democristiani e comunisti che non fra democristiani e liberali.

Non sono neppur vere le considerazioni svolte ieri dall’onorevole Labriola, il cui discorso ha fatto a me l’impressione che una realtà storica nuova la si giudichi attraverso schemi mentali che rispecchiano una realtà storica superata e così non si riesca a comprenderne il vero valore e significato.

Oggi, signori, a mio giudizio, i termini della lotta politica in Italia si pongono molto chiari: coloro che hanno tentato di spezzare la formula politica che è alla base del nuovo Governo sono espressione di forze politiche e sociali che, come certi dannati di Dante, hanno il collo ritorto e lo sguardo sempre rivolto al passato e, di fronte ad essi, stanno partiti e correnti politiche che esprimono e riflettono l’impulso che viene dalle grandi masse lavoratrici, l’impulso che viene dalla nuova coscienza nazionale che la storia ha forgiato a prezzo di sangue. Questo impulso supera il passato, non solo fascista ma anche prefascista, e ci addita le vie nuove della rinascita nazionale. Questa è la realtà che uomini e partiti politici oggi dovrebbero comprendere e non mi pare che a tale comprensione abbia corrisposto, ad esempio, l’onorevole Corbino, quando, ponendo a noi comunisti il quesito di che cosa significava la nostra opposizione ad un Governo puramente democratico-cristiano, attraverso un artificioso sillogismo, arrivava alla conclusione: dittatura, guerra civile. È il solito spauracchio, il solito fantasma che si agita dinanzi al popolo italiano per nascondere la vera realtà.

Una voce a destra. Non è vero!

SCOCCIMARRO. La nostra opposizione ad un tale Governo sarebbe stata inflessibile, perché con quella soluzione non si sarebbero superati i motivi che hanno tormentato i precedenti Governi: essa li avrebbe forse mascherati, limitati, ma certamente aggravati, proiettandoli nel Paese e suscitando reazioni e ripercussioni così profonde, da divenire veramente pericolosa per influenze che avrebbe avuto sullo sviluppo della situazione politica italiana. Quali sono questi motivi? Si è detto che questa crisi era necessaria per costituire un Governo più unito, più solidale e più efficiente. Ora, mi si permettano alcune osservazioni ed impressioni. Le misure adottate per raggiungere questo scopo mi lasciano alquanto perplesso, perché mi pare siano insufficienti, se non saranno integrate da elementi nuovi. L’unità del Governo? Ma l’unità del Governo dipende in primo luogo dalla direzione politica del Governo. E poi bisogna arrivare a superare l’anacronismo di forze politiche che collaborano al Governo e non collaborano nel paese. (Commenti al centro). Questa è una verità. Considerate, amici democristiani, a chi ne risale la responsabilità, specialmente in certe regioni. (Commenti). Noi potremo anche fare un dibattito su questo punto; per ora io constato dei fatti (Interruzioni) obiettivi: io constato, per esempio, che sulla questione dei fatti dell’Emilia, mentre noi al Governo, d’accordo, facevamo una inchiesta per appurare la verità, voi, amici democristiani, non avete accolto l’invito dei socialisti e dei comunisti del luogo per lavorare insieme sul posto alla ricerca della verità. (Commenti).

Una voce. Qual è la verità? Ne riparleremo.

SCOCCIMARRO. Bisogna poi, per realizzare l’unità del Governo, che non vi sia alcun settore dell’apparato dello Stato che operi contro un partito al Governo, cosa che qualche volta è avvenuta. Io non dico questo per fare della critica, ma per richiamare l’attenzione su alcuni inconvenienti che hanno turbato la vita del passato Governo e per proporci di evitare che si ripetano nel nuovo Governo. Ci vuole una maggiore solidarietà, è giusto; ma, signori, la solidarietà non è un atto formale, essa ha per presupposto un programma e solo nel quadro di quel programma si ha il diritto di esigere la solidarietà di tutti i partiti al Governo.

Io riconosco che un programma di Governo, specialmente oggi, abbisogna di una certa elasticità per potersi adeguare alla sempre mutevole realtà; ma vi sono limiti oltre i quali i partiti che hanno responsabilità di Governo non possono superare, ciascuno per proprio conto, senza venire a preventivi accordi con gli altri partiti.

E poi, l’efficienza operativa del Governo. Sia consentito a me, dopo una esperienza di più di due anni di attività governativa, di ricordare che, se è vero che questi elementi influiscono sull’efficienza operativa del Governo, tuttavia la ragione vera della relativa inefficienza del Governo deriva in gran parte dalla particolare situazione che si è creata nell’apparato amministrativo dello Stato. In taluni settori della pubblica amministrazione oggi c’è uno stato d’animo che si potrebbe chiamare di doppio giuoco; vi è cioè una tale incertezza, una tale preoccupazione, anche verso il regime democratico, da far pensare a taluno che: «non si sa mai; è bene non compromettersi troppo anche con la Repubblica e con la democrazia». Ora, da che cosa dipende questo stato d’animo? Dalla direzione politica del Governo, il quale, quando si trova di fronte a certi episodi, come quello di un altissimo magistrato che mancava di rispetto al Capo Provvisorio dello Stato (Applausi a sinistra), ha il dovere di intervenire subito, per dissipare eventuali illusioni o malinconiche nostalgie di un passato che non può più ritornare.

Il Governo aveva deciso unanime di intervenire in questo caso, e solo l’assenza del Presidente del Consiglio, per deferenza verso la sua persona, ci ha indotti ad attendere il suo ritorno. Ma il suo ritorno ci ha portato la crisi. Noi attendiamo dal nuovo Governo un provvedimento adeguato. D’altra parte, tutti i funzionarî dello Stato devono poter contare sul pieno appoggio del Governo, devono essere assicurati che nessuna rappresaglia sarà mai esercitata contro di loro, e non si ripeterà lo sconcio di funzionarî onesti i quali, per avere operato negli organi dell’epurazione, sono oggi soggetti a rappresaglie. L’efficienza operativa del Governo, signori, dipende in grande misura da un mutamento psicologico-spirituale dell’apparato amministrativo dello Stato. Io ricordo quante volte, in seno al Consiglio dei Ministri, di fronte a situazioni obbiettive che esigevano provvedimenti urgenti su cui tutto il Governo era d’accordo, molte volte dovevamo constatare, in tono sconsolato, che non si poteva fare quanto ritenevamo necessario, perché gli strumenti dell’Amministrazione dello Stato non rispondevano con la energia che sarebbe stata necessaria. Bisogna infondere negli organi dell’Amministrazione, del Governo, una energia e uno spirito nuovi: solo così il tono dell’azione del Governo si eleverà e le sue decisioni non saranno più, come nel passato, soltanto una possibilità.

Vorrei ora, richiamare l’attenzione su un altro aspetto del problema. Si è dimenticato un fatto essenziale: i Governi che abbiamo avuto dalla liberazione in poi, e che abbiamo ancora oggi, non esercitano soltanto il potere esecutivo, ma anche il potere legislativo. Questo significa che i dibattiti che dovrebbero avvenire nell’Assemblea legislativa, avvengono invece nel Governo e in esso i partiti prendono posizione ed è naturale che, quando c’è diversità di giudizio e di atteggiamento, questo si faccia conoscere fuori. È una esigenza, direi, caratteristica di questi Governi, che non esisterebbe, quando avessimo istituzioni democratiche normali funzionanti nel nostro Paese. Non è da meravigliarsi che i partiti sentano il bisogno di far conoscere al Paese le ragioni per le quali hanno approvato o non approvato un certo provvedimento di Governo. Questa è la conseguenza della duplice funzione che oggi ha il Governo e che assorbe anche quella della Camera legislativa.

Queste sono le considerazioni che volevo svolgere in ordine alla crisi. Vorrei raccomandare al Presidente del Consiglio che nell’azione e nel metodo di direzione del Governo tenesse presente queste considerazioni. Se così sarà, allora io penso che questo Governo segnerà un passo avanti rispetto a quello che lo ha preceduto.

E vengo al tema che particolarmente mi interessa: alla politica finanziaria ed alla nostra attuale situazione finanziaria. Le dichiarazioni del Presidente del Consiglio in questa materia sono state di una tale sobrietà, direi di una tale concisione, che è molto difficile discuterle. È molto difficile, per esempio, discutere l’affermazione che è proposito del Governo aumentare le entrate e diminuire le spese, perché, in verità, non so quale Governo si presenterebbe dinanzi a questa Assemblea per sostenere che bisogna aumentare le spese e diminuire le entrate. Si è accennato alla imposta straordinaria sul patrimonio. Però si sa che tale imposta può esser diversamente concepita e congegnata: stando alle dichiarazioni del Presidente, non sappiamo con quali principî sarà varata la legge relativa.

Si è accennato a problemi di aliquote e di imponibili. Nulla di nuovo rispetto a tutto ciò che si sta facendo in Italia da un anno. Ma noi avremmo sentito volentieri dal Governo una parola precisa sul problema non di aliquote e minimi imponibili, ma sul problema sostanziale dei tributi che colpiscono i redditi di puro lavoro. Il Presidente del Consiglio avrebbe avuto oggi la possibilità di accennare a questa Assemblea le linee generali di un piano finanziario, per il quale in questi ultimi tempi sono maturate tutte le condizioni necessarie.

Ed allora posso dire io qualche cosa a questo proposito. È stato osservato che l’onorevole Corbino quando è al Governo si dimostra estremamente ottimista – e tutti ricordano le caustiche ed acute osservazioni dell’onorevole Nitti – ma quando poi esce dal Governo diventa estremamente pessimista. In verità, l’ottimismo di allora è altrettanto esagerato quanto il pessimismo di oggi. Io personalmente non sono oggi più ottimista o più pessimista di ieri; ma per le cose che dirò credo si possa affermare che le realizzazioni raggiunte ci permettono di guardare con grande fiducia verso l’avvenire.

Io credo – e cercherò di dimostrarlo – che l’anno 1947 sarà per il nostro Paese l’anno del risanamento finanziario. Ed è in vista di questo obiettivo che la decisione presa in merito alla unificazione dei Ministeri finanziari, per taluni aspetti mi lascia un po’ perplesso, perché io penso che il problema vero è quello di un’effettiva direzione unitaria di tutta la politica economica e finanziaria. Ed allora, dal punto di vista organizzativo, il problema non sta nei rapporti fra Ministero delle finanze e del tesoro, ma nel Comitato interministeriale della ricostruzione. È nel C.I.R. che sta il segreto della soluzione di questo problema, è lì che bisogna riorganizzare, perché l’esperienza ci ha dimostrato che, nonostante la intelligente attività data dal Ministro Campilli in questo campo, si può ancora perfezionare l’organizzazione di questo strumento dell’azione del Governo. Per quanto riguarda i due dicasteri finanziari dirò una cosa che forse sorprenderà molti: non è vero che vi sia stata azione del Ministero delle finanze contro il Ministero del tesoro e viceversa, che vi sia stata polemica permanente nell’attività quotidiana, come nel corso della crisi ha accennato l’onorevole De Gasperi. La verità è questa: quando l’onorevole Corbino era al Governo, abbiamo avuto con lui delle discussioni serie e vivaci in seno al Consiglio dei Ministri; ma una volta presa una decisione nel Consiglio – è bene non dimenticarlo – noi ci siamo adattati pur non essendo concordi e vi abbiamo collaborato lealmente, come lo stesso onorevole Corbino ha dichiarato in questa Assemblea.

La verità in questo campo è un’altra: è che di fronte a determinate decisioni del Governo – come mi propongo di dimostrare in seguito – vi sono state decisioni che avrebbero dovuto realizzarsi e non si sono realizzate. E se noi ci domandiamo il perché, nessuno saprebbe dare una risposta seria a questa domanda.

Ora, signori, vediamo che cosa è avvenuto nell’Amministrazione finanziaria dello Stato in quest’ultimo anno. All’indomani della liberazione, l’Amministrazione finanziaria dello Stato si trovava in una situazione di disgregazione e di caos, che spesse volte ci ha fatto vedere davanti il baratro nel quale potevano precipitare le finanze dello Stato: numerosi uffici distrutti, danneggiati e perfino occupati dagli alleati; una notevole quantità di documenti e di atti di accertamento dispersi e scomparsi; il personale dell’Amministrazione finanziaria ridotto dalla guerra al 25 per cento; un’altra grande quantità di funzionari in uno stato di sbandamento e di demoralizzazione; gli organi tributari paralizzati ed inefficienti. Ancora: durante il periodo della occupazione tedesca e del fascismo uno degli strumenti di lotta era stato lo sciopero fiscale. Ora, allo sciopero fiscale ci si era un po’ troppo abituati, ed è continuato a liberazione avvenuta per forza d’inerzia.

Inoltre, per molti mesi tutte le provincie del Nord sono rimaste sotto il Governo militare alleato, il che non consentiva all’Amministrazione centrale un intervento riorganizzativo.

Non bisogna poi dimenticare il disordine economico, la svalutazione monetaria ed il processo di redistribuzione violento della ricchezza avvenuto nel nostro Paese, per cui tutto l’apparato fiscale si è trovato all’improvviso di fronte a situazioni reddituali distrutte ed alla creazione di redditi nuovi sconosciuti agli organi tributari. Era un apparato che girava a vuoto.

Io ricordo una lettera del Conte Sforza, il quale, recatosi un giorno in Apuania, ha assistito ad un episodio di questo genere: della povera gente che ritorna dallo sfollamento e trova la sua casetta distrutta o devastata, e si vede avvicinare come prima persona l’agente del fisco con la bolletta delle tasse. Ed il Conte Sforza ha scritto a me una lettera in cui esprimeva tutta l’angoscia e la pessima impressione che questo fatto aveva provocato, e mi pregava di intervenire e trattenere un po’ l’eccessivo zelo di certi funzionari.

Bisogna tener presente un altro fatto: le nuove situazioni createsi nel Nord in conseguenza della legislazione fiscale della ex repubblica fascista. E poi tutta la legislazione fiscale che aveva perso ogni contatto ed aderenza con la realtà.

Bilancio di questa situazione: le entrate 1945-46 previste in 133 miliardi.

Quale opera si è svolta in poco più di un anno? Gli uffici sono ricostituiti e rimessi a posto, anche se non in piena efficienza. Ve ne sono ancora 46 che attendono gli ultimi lavori di riattamento e che gli alleati sgomberino. Tutti gli atti di accertamento distrutti e dispersi sono stati faticosamente ricostituiti impiegando in tale lavoro un gran numero di funzionari. Ai vuoti dell’Amministrazione finanziaria si è provveduto con numerosi concorsi e nei prossimi giorni, forse nelle prossime settimane, tremila nuove unità entreranno nell’Amministrazione finanziaria: unità tecnicamente selezionate con concorsi per esami.

È stato anche predisposto un provvedimento speciale per gli avventizi che, se attuato, permetterà al Ministero delle finanze di rimettere a posto gli organi finanziari come non lo sono mai stati dalla liberazione in poi.

Inoltre, o signori, si è ripreso il contatto con il contribuente: opera molto più difficile di quello che non si creda; si è unificata la legislazione tributaria in tutto il Paese e soprattutto si è investito tutto il sistema tributario italiano il quale è stato ricostituito con nuove leggi per adeguarlo alla realtà attuale.

Gli ultimi due provvedimenti che non si è fatto a tempo a varare per l’avvenuta crisi, e che sono sul banco del nuovo Ministro, sono: la riforma della imposta di ricchezza mobile e la riforma dell’imposta sui terreni; dopo questi provvedimenti non c’è settore dell’Amministrazione tributaria che non sia stato ritoccato da una attività legislativa che ha rimesso il sistema dei nostri tributi in rapporto ai reali redditi e valori patrimoniali. Ora, qual è la risultante di questo lavoro?

Permettetemi di darvi qualche cifra: anno 1945-46: entrate 133 miliardi; anno 1946-47: entrate previste 140 miliardi, effettive, quasi certe, da 280 a 300 miliardi; bilancio di previsione per il 1947-48, elaborato poche settimane or sono, proprio negli ultimi giorni di mia presenza al Ministero: entrate previste 404 miliardi.

Ora, se voi ponete in serie queste cifre, avete l’indice di quello che è stato il lavoro di ricostruzione fatto dall’Amministrazione finanziaria dello Stato. Ma ciò che interessa, più di queste cifre, è vedere il ritmo col quale le entrate sono aumentate:

primo trimestre 1945-46: entrate mensili 6 miliardi;

secondo trimestre 1945-46: entrate mensili 10 miliardi;

terzo trimestre 1945-46: entrate mensili 12 miliardi;

quarto trimestre 1945-46: entrate mensili 16 miliardi.

Esercizio 1945-46:

mese di luglio: 16 miliardi e mezzo;

mese di agosto: 18 miliardi;

mese di ottobre: 22 miliardi;

mese di novembre: 25 miliardi.

Voi vedete in questa tendenza la caratteristica dello sviluppo della situazione finanziaria, dell’attività dell’Amministrazione finanziaria. Ma bisogna tener presente quale è stato il fattore principale di questo aumento. Non sono le nuove leggi, perché solo poche di queste leggi hanno avuto effetto immediato, ed avranno effetto dal gennaio 1947 in poi.

Una voce al centro. Sono gli accertamenti che mancavano.

SCOCCIMARRO. La causa vera dell’aumento è in parte la ripresa economica del Paese, ma in maggiore parte la ripresa dell’attività degli organi tributari dello Stato, e se qualcuno domandasse, se non si poteva fare più rapidamente, rispondo che fin dal 1945 è stata disposta e condotta innanzi la revisione straordinaria degli accertamenti per l’imposta di ricchezza mobile e sarà ultimata solo fra pochi mesi. Si sono dovuti avvicinare 600.000 contribuenti. E poiché devo dire che i risultati di questa revisione straordinaria non sono sodisfacenti, noi, nella riforma della legge, vi abbiamo già provveduto con adatte misure. Per adeguare l’imposta sui fondi rustici nel 1946, si sono mobilitati 800 tecnici, ingegneri e periti che hanno girato tutta Italia, non per una revisione degli estimi, che oggi è impossibile, ma per aggiornare, sia pure con coefficienti medii, i dati obbiettivi per una legislazione consapevole delle condizioni obiettive e dei suoi limiti.

Nel frattempo si è provveduto con revisioni automatiche e si sono rapidamente messe in atto tutte le risorse che la tecnica finanziaria poteva suggerire. Ma il risultato di questa opera si riavrà nell’anno 1947, quando i nuovi accertamenti, i nuovi ruoli, i nuovi dati di cui l’Amministrazione finanziaria oggi è in possesso, permetteranno di adeguare le entrate a quello che deve essere il ritmo normale.

Si pone la questione: la cifra di 400 miliardi è l’ultimo limite? Io non credo. Penso che già nell’esercizio 1947-48 questo limite sarà superato, perché nelle previsioni, ad esempio, per il monopolio dei tabacchi, abbiamo inscritto in bilancio la cifra di 70 miliardi, mentre la Direzione generale ci dava la previsione di 80 miliardi di entrate. Abbiamo voluto essere prudenti, ma nel margine che è lasciato da questa prudenza c’è la possibilità di superare quel limite.

Non bisogna dimenticare che c’è un dato molto concreto che ci avverte dei limiti a cui possono giungere le entrate ordinarie. C’è una correlazione quasi sempre stabile fra circolazione monetaria ed entrata ordinaria dello Stato. Dopo la passata guerra si aveva una circolazione di poco più di 20 miliardi e un’entrata di 25 miliardi. Oggi abbiamo una circolazione di 450-460 miliardi. Io penso che questo sarà il limite normale. Ma è certo che se noi daremo alla ripresa economica del nostro Paese l’impulso che dobbiamo dare, la cifra di 500 miliardi non sarà esagerata come previsione normale delle nostre entrate tributarie.

Con quale politica abbiamo noi realizzato questi risultati?

Signori, io richiamo la vostra attenzione brevemente sull’analisi della struttura del nostro bilancio.

Le entrate nel bilancio sono così distribuite: 93 miliardi di imposte dirette; 159 miliardi per tasse e imposte sullo scambio della ricchezza; 60 miliardi per imposte di consumo e fabbricati; 70 miliardi per i monopoli; 22 miliardi per entrate diverse.

Se voi analizzate queste cifre, constatate che nelle imposte dirette, e precisamente nell’imposta di ricchezza mobile, il maggior contributo viene dalle imposte sui redditi di lavoro.

Se prendete il bilancio nel suo complesso, trovate che la maggiore entrata viene dalle imposte indirette sui consumi, imposte di fabbricazione, ed altre analoghe.

Questa struttura antidemocratica ha sorpreso persino gli americani e gli inglesi, che si stupivano che nel nostro Paese esistesse ancora un simile sistema tributario.

In quest’anno non abbiamo potuto capovolgere questa realtà, perché questo sarà il compito della futura Camera legislativa, che dovrà realizzare la riforma tributaria. Ma abbiamo cercato di attenuare, di togliere le asprezze maggiori e tutta una serie di provvedimenti è stata destinata ad attenuare la pressione fiscale per i piccoli affittuari, per i piccoli esercenti, per i piccoli contadini, per la piccola economia montana e via via. Tutta questa serie di provvedimenti tendeva ad evitare che la incidenza sulle parti povere della popolazione italiana rimanesse quella che era prima. Questo obiettivo hanno le riforme dell’imposta sull’entrata e le altre studiate per la imposta di ricchezza mobile. Si tende a sgravare i redditi di puro lavoro che sono assolutamente necessari per i bisogni elementari della vita.

Voglio richiamare l’attenzione del Governo su un dato che dev’essere ben conosciuto da questa Assemblea.

Il provvedimento che ha dinanzi a sé il Ministro Campilli porta per la ricchezza mobile un elevamento del minimo imponibile a 240 mila lire l’anno.

In questa cifra comprendiamo quasi tutti gli operai e gli impiegati medi. Ma – badate! – questa cifra rimane ancora al disotto di quello che era il limite di esenzione, che il legislatore aveva posto per questi redditi nel 1864.

La cifra allora era di 800 lire l’anno; ma i prezzi oggi, rispetto a quelli del 1864, sono aumentati molto di più di 300 volte.

Alla fine del secolo scorso, un ministro liberale, moderato, fissava che i redditi di lavoro dovevano essere esenti da ogni imposta fino al limite di lire 3,50 il giorno; se moltiplicate 3,50 per 300, constatate subito che noi dovremmo oggi esentare non i redditi che arrivano a 240 mila lire, ma anche quelli che superano le 360 mila lire l’anno, solo per fare la politica moderata dei governi della destra storica in Italia.

Ma oggi vi sono perplessità.

Dico che, quando si ha un bilancio di previsione, nel quale le entrate superano le spese ordinarie – come dimostrerò poi – questo problema deve essere affrontato e risolto. (Interruzioni).

E dirò di più. Nelle dichiarazioni del Governo – e me ne dispiace – non è stato accennato ad un problema, che ritengo non si possa più rinviare in Italia. Non lo abbiamo ancora risolto, perché la situazione di bilancio era quella che era; ma lo dobbiamo e lo possiamo affrontare e risolvere oggi.

Parlo del problema dei pensionati. Le pensioni per la vecchiaia in Italia costituiscono una vergogna per il nostro Paese. (Commenti).

Non è lecito che un uomo, dopo aver servito lo Stato per 40 anni, debba prevedere con spavento il giorno in cui, raggiunti i limiti di età e di servizio, verrà collocato a riposo, perché ciò significa la fame per lui e per la famiglia. (Vive approvazioni).

Una voce. Non l’avete fatto; bisognava farlo.

SCOCCIMARRO. Abbiate pazienza. Io parlo senza nascondere nulla.

Non è lecito mettere i Ministri di fronte al tragico dilemma: dovere mettere a riposo dei vecchi funzionari ed essere tentati di non farlo per evitar loro la miseria e la fame.

D’altra parte, c’è la pressione di coloro che hanno il diritto di far carriera e che non possono rimanere bloccati.

Per conto mio, il problema l’ho risolto così: mettevo a riposo il funzionario e lo richiamavo immediatamente come avventizio per assicurargli uno stipendio.

Una voce. Bisogna aumentare le pensioni.

SCOCCIMARRO. Bisogna modificare le pensioni; sicuro.

Se il Governo non l’ha fatto, ciò non è dipeso da me: io lo richiedo da molto tempo.

Oggi esistano le condizioni per farlo: il problema può e deve essere affrontato seriamente ed è per ciò che io desidero dal Presidente del Consiglio una parola su questo problema. Qualche cifra giustificherà il mio asserto. Il bilancio di previsione del 1947-48 porta nelle entrate ordinarie 404 miliardi, nelle spese ordinarie 364 miliardi. Che cosa vuol dire questa cifra? Vuol dire che lo Stato italiano non provvede adeguatamente a tutti i servizi cui esso ha il compito di provvedere. Noi non provvediamo adeguatamente per la istruzione; non provvediamo adeguatamente per l’assistenza; non provvediamo per i pensionati; lo Stato non fa il suo dovere.

Ieri avevamo un’Amministrazione finanziaria scardinata e disgregata; delle cifre che non si sapeva quale valore potevano avere. Ma oggi abbiamo un ordine nell’Amministrazione finanziaria, sentiamo di camminare sul sodo; e allora, certi problemi si possono porre e risolvere. Non è un rimprovero che io faccio ai Governi precedenti; ma è un compito, un dovere. (Commenti a destra).

Egregi signori, non è a me che lo dovete dire, perché io – il Presidente del Consiglio lo può attestare – più di una volta ho posto questo problema, ma capivo le rimostranze del Ministro del tesoro, le cui condizioni rendevano molto perplessi. (Commenti).

Una voce a destra. Non è cambiato nulla!

SCOCCIMARRO. Avrò molte novità da dirvi, egregi colleghi. (Commenti – Interruzioni).

I dati di previsione per il 1947-48 ci danno per le spese ordinarie la cifra di 364 miliardi; per le spese straordinarie 285 miliardi: totale, spesa complessiva di 649 miliardi. Nelle spese straordinarie vi sono 164 miliardi destinati al pagamento dei danni di guerra.

Quale è dunque il problema che si pone oggi? Se è vero che il bilancio ordinario è in pareggio, come si provvede per le spese straordinarie perché il bilancio nel suo complesso non rimanga in disavanzo? Bisogna provvedere a coprire questo disavanzo con mezzi che si inquadrino organicamente in un piano che dia garanzia al Governo di poter contare su entrate certe e non soltanto su entrate possibili.

E allora voi mi permetterete di esporre qui quello che era il piano finanziario elaborato per rispondere a questa seconda esigenza. Oggi esistono le condizioni e gli elementi per elaborare un piano simile. Ieri si sarebbe potuto fare soltanto se nel 1945-46 avessimo realizzato il cambio della moneta che – come poi dimostrerò – ha incontrato tali e così strani ostacoli, da lasciare molto dubbiosi nel giudizio da dare in merito.

Un piano finanziario straordinario deve rispondere a queste esigenze: 1°) rimanere entro i limiti obiettivi delle possibilità offerte dalla situazione finanziaria del Paese; 2°) essere capace di mobilitare per la ricostruzione tutto il risparmio nazionale che non sia impiegato dall’iniziativa privata; 3°) il bilancio straordinario deve avere un’entrata stabile ed un’altra elastica per potersi adeguare alle variazioni della situazione; 4°) deve essere tale da non costituire un onere troppo pesante e nemmeno un pericolo per il Tesoro; 5°) deve essere anche un sistema differenziato che offra al Ministro del tesoro non una leva sola, come era quella che maneggiava l’onorevole Corbino, ma una molteplicità di leve, che gli consentano di manovrare nello sviluppo del mercato finanziario e monetario; 6°) non deve costituire un ostacolo all’iniziativa privata.

Voglio ora citare alcuni dati: oggi il reddito nazionale si calcola che si aggiri intorno ai 2200 miliardi; è questa la cifra intorno alla quale diversi centri di studio, la Banca di Italia da una parte e gli uffici statistici dall’altra, più o meno concordano.

Ora, su questa cifra noi possiamo calcolare che almeno un terzo può essere destinato al pagamento delle imposte ordinarie, al pagamento dei tributi straordinari ed al finanziamento della iniziativa privata.

Noi abbiamo perciò la possibilità di avere oggi in Italia da 750 a 800 miliardi, dei quali 400 vanno alle entrate ordinarie e 350-400 miliardi rimangono a disposizione, una parte per l’iniziativa privata, una parte a disposizione dello Stato.

Perciò noi calcoliamo che almeno di 300 miliardi l’anno, come previsione prudente, lo Stato potrà disporre per la ricostruzione del Paese.

Il problema che si pone è questo: in quale modo lo Stato può raccogliere questa parte del risparmio nazionale e come deve farlo, senza compromettere la situazione economica del Paese ed esporre il Tesoro ad eccessivo gravame?

Ebbene, io penso che i provvedimenti da prendere siano diversi: alcuni si ritrovano già nei programmi che noi avevamo predisposto fin dal 1945 e che non ci è stato permesso di realizzare; una parte sono provvedimenti che la nuova situazione creatasi nel nostro Paese ci permette oggi di tradurre in realtà. Anzitutto vi è l’imposta straordinaria sul patrimonio.

L’onorevole Corbino aveva ragione quando diceva che non bisogna credere che l’imposta straordinaria possa bastare da sola alle spese straordinarie. Ma nel piano di una molteplicità di proventi, l’imposta straordinaria ha il suo posto d’onore. Senonché, signori, in materia di imposta straordinaria vi sono due concezioni: una, la quale pensa che questa è una imposta che va a mettersi accanto alle altre e che deve pagarsi col reddito normale; l’altra, la quale pensa invece che la catastrofe che ha colpito il nostro Paese dà allo Stato il diritto di avocare a sé una parte della ricchezza nazionale per impiegarla alla ricostruzione del Paese.

Partire dall’uno o dall’altro punto di vista non è la stessa cosa per quanto riguarda il modo di congegnare e organizzare questo tributo. Da calcoli approssimativi, sia pure ipotetici, risulta che l’imposta straordinaria può dare allo Stato oggi almeno 400 miliardi, da scaglionare in quattro o cinque anni. Questo è il limite nel quale questo tributo può contribuire alla ricostruzione del Paese.

L’onorevole Corbino diceva che fare oggi l’imposta straordinaria vuol dire riscuoterla l’anno venturo. Io penso che l’imposta straordinaria si può cominciare a riscuotere molto rapidamente: basta iscrivere a ruolo le denunce che fanno gli stessi contribuenti, incominciare a pagare su quelle denunce, salvo a conguagliare in seguito quando gli accertamenti saranno fatti. Ciò che a me pare essenziale è che l’imposta straordinaria deve investire tutta la ricchezza mobiliare e immobiliare. Inoltre, suo presupposto essenziale deve essere la stabilità monetaria. Prima di oggi questo era possibile solo col cambio della moneta. Oggi, nella nuova situazione finanziaria cui ho accennato, il cambio della moneta può ancora essere utile, ma non è essenziale.

Secondo provvedimento. Noi abbiamo nel nostro sistema un’imposta istituita nel 1939 per ragioni di guerra, l’imposta ordinaria sul patrimonio. Ora, logicamente, quest’imposta oggi bisognerebbe abolirla, perché è finita la guerra. Però io penso che se la guerra è finita le conseguenze della guerra stanno ancora innanzi a noi, ed allora, si può organizzare il riscatto di questa imposta e farla contribuire a facilitare l’opera di ricostruzione. Questa imposta ha oggi un imponibile di 2500 miliardi: basterebbe chiederne, a mio parere, il 3 per cento per il riscatto e realizzare una entrata di 75 miliardi.

Poi, vi sono i profitti di guerra, di regime e di speculazione, i quali incominciano ora a realizzarsi, perché solo da poco tempo il meccanismo apprestato è potuto divenire operante. So che su questo tema, un po’ scottante, le opinioni sono diverse. Ma al nuovo Ministro delle finanze ho da dire una cosa: egli deve attendersi una seria offensiva contro le commissioni giudicatrici dei profitti di regime. Nell’ultimo mese di mia permanenza al Ministero (non farò nomi, né citerò nulla di compromettente per nessuno) è affiorata una nuova teoria. In alcune province certi personaggi si sono molto interessati delle commissioni giudicatrici: constatando che in talune località le ultime elezioni hanno rivelato un orientamento politico che non è più quello dei Comitati di liberazione, essi ritengono che di conseguenza i delegati di quella commissione indicati dal Comitato di liberazione dovrebbero essere cambiati, per mettere al loro posto uomini più a destra.

Ora, io non credo che organi di questo genere debbano variare col variare delle situazioni politiche.

Una voce al centro. D’accordo!

SCOCCIMARRO. C’è una legge, vi sono dei criteri stabiliti e non c’è nessun motivo per cui in qualche provincia, ove elementi monarchici possano avere avuto il sopravvento, si debbano mandar via i delegati indicati dai vecchi Comitati di liberazione e sostituirli con altri che sono gli amici dei profittatori di regime.

E vi dirò di più: colui che si era fatto sostenitore di questa nuovissima teoria, preconizzando gravi conseguenze se non fosse stata accolta, era lui stesso soggetto a giudizio per profitti di regime. Non voglio fare nomi; avverto solo il Ministro delle finanze che su questo terreno la materia diviene scottante, perché oggi si è cominciato a concretare; basta una piccola cosa per fermare il giudizio delle commissioni ed allora tutto si sfascerà.

Io ho fatto un’esperienza che voglio qui ricordare. Sono stato commissario all’epurazione: nel momento in cui si era arrivati, con molta fatica, a costituire in Italia le commissioni giudicatrici e pareva a me di averle costituite nel modo più obiettivo possibile, si è scatenata un’offensiva per la quale ho dovuto andarmene dal Commissariato. Le cose poi sono andate come tutti sanno: oggi, quelli stessi che avevano provocato l’offensiva hanno riconosciuto di avere sbagliato. Ora si ripete la stessa situazione: abbiamo appena completato la costituzione delle sezioni giudicatrici per i profitti di regime ed ecco che succede qualcosa per cui ho dovuto andarmene. Non vorrei che si ripetesse l’esperienza dell’epurazione! (Commenti).

Questi provvedimenti possono essere integrati da altri e si potrebbe immediatamente porvi mano. Noi dovremmo in Italia organizzare l’emissione di obbligazioni speciali per determinati settori e per determinati programmi specifici della ricostruzione: elettrici, trasporti, bonifica, edilizia e via di seguito: per questa via un’altra parte del risparmio può essere convogliata verso la ricostruzione. Il Ministro del tesoro può inoltre disporre del flusso ordinario dei buoni del tesoro e di altri mezzi di tesoreria. Ma c’è un problema nuovo che oggi si può porre, e sul quale richiamo la vostra attenzione, poiché esso può costituire una leva importante nelle mani del Ministro del tesoro: si tratta della rivalutazione degli impianti industriali. Oggi i bilanci delle società industriali, per la maggior parte, registrano il valore dei loro impianti così come era prima della guerra. Bisogna portare questi bilanci alla realtà. Esiste una legge, concepita dall’onorevole Corbino come strumento di tesoreria, ma che può essere trasformata in uno strumento tributario, secondo la quale una parte di quelle rivalutazioni dovrebbe passare allo Stato. Non sarebbe questa una ingiustizia, anche se si tratta di pura rivalutazione monetaria: essa servirebbe anzi a porre le società industriali in una posizione di giustizia rispetto ai proprietari di terre, di case, a coloro che in generale possiedono la ricchezza immobiliare. L’iniziativa nuova da prendersi in questo campo sarebbe quella di organizzare uno strumento finanziario, nuovo per il nostro Paese, ma del quale s’è fatta qualche esperienza all’estero. Si tratti di una specie di buoni di imposta che noi in Italia dovremmo però organizzare in maniera molto diversa da quella con cui fu organizzata, per esempio, in Germania. Lo Stato emette un titolo, che io chiamerei, buono di ricostruzione, che si impegna a ritirare dopo un certo tempo, accettandolo come mezzo di pagamento di imposte. Con questi titoli lo Stato paga una parte delle sue commesse ad appaltatori ed industriali, i quali possono servirsene come pagamento ad altri appaltatori e industriali. Qui si chiude la sfera della loro circolazione. L’importante è di creare sul mercato una domanda ai buoni di ricostruzione.

Ora, si dovrebbe rendere obbligatoria la rivalutazione degli impianti industriali e, poiché parte di tale rivalutazione dovrebbe essere avocata allo Stato, si potrebbero fare particolari agevolazioni a quegli industriali che conservano per un certo tempo nel loro portafoglio una certa quantità di tali buoni. Inoltre, all’atto del ritiro dei buoni in pagamento d’imposta, lo Stato concede un aggio, per esempio dell’l per cento: in tal modo i contribuenti hanno interesse a provvedersi di tali buoni e dopo qualche tempo a pagare con essi le imposte realizzando un piccolo beneficio. Così può essere mobilitato ed utilizzato anche il minuto risparmio polverizzato, che ora non serve a nulla. La cosa può avere importanza specie per i contadini, i cui risparmi possono essere così mobilitati come oggi ancora non lo sono. In questa operazione ha una funzione importante la Banca, alla quale lo Stato, previo compenso, deve chiedere la collaborazione. Si tratta, come si vede, di un titolo nel quale si fondono i caratteri del prestito con quello dell’imposta. Quale sfera d’azione esso possa assumere è dato dai seguenti dati: il capitale delle società industriali, che prima della guerra ammontava a 60 miliardi, oggi dovrebbe essere rivalutato almeno fino a 600-700 miliardi. D’altra parte si possono calcolare 200 miliardi di imposte che potrebbero pagarsi con quei buoni.

Si può obiettare che questo sistema può ridurre le entrate future: l’osservazione non ha gran peso, perché l’incremento dato alla ricostruzione significa anche aumento di entrate, il che neutralizzerebbe la prevista minore entrata. Comunque si tratta di una esperienza che ha avuto successo altrove e può averlo anche in Italia e può divenire uno strumento importante nelle mani del Ministro del tesoro. Ora, fra imposta straordinaria, riscatto dell’ordinaria patrimoniale, sopraprofitti di guerra, buoni di ricostruzione, rivalutazione impianti industriali e, in più, obbligazioni speciali per la ricostruzione e i normali mezzi di tesoreria, il Ministro del tesoro può assicurare un finanziamento straordinario annuale di almeno trecento miliardi, quanti sono cioè consentiti dalla situazione finanziaria del Paese.

Diceva giorni fa l’onorevole Einaudi che il mercato finanziario in Italia può dare, come minimo, un miliardo al giorno: lasciate pure una parte all’iniziativa privata; tutto il resto può essere mobilitato per la ricostruzione. Oggi il problema può essere risolto, mentre non poteva esserlo ieri per la diversità delle condizioni economiche e finanziarie del Paese. Ciò che a me pare essenziale è una cosa: di non ripetere l’errore commesso dall’onorevole Corbino, di maneggiare una leva sola: quella dei buoni del tesoro che, ad un certo momento, hanno messo il tesoro stesso in gravissimo pericolo. Il Ministro del tesoro deve manovrare diverse leve, riducendo al minimo, quando occorra, i buoni del tesoro ordinari.

E qui, benché non sia presente l’onorevole Corbino – e me ne dispiace – vorrei dire due parole sulle affermazioni da lui fatte. Egli ha detto: voi avete una esigenza immediata a cui far fronte: 500 miliardi di disavanzo. Il mercato vi potrà dare in un anno 300 miliardi; ove andrete a prendere i 200 miliardi che mancano? Signori, io penso che bisogna chiarire questo punto: 500 miliardi di disavanzo nel bilancio di competenza non vogliono dire 500 miliardi di deficit nella cassa del tesoro. L’esperienza del passato dimostra che nel 1945-46 le spese stanziate erano per 510 miliardi, e poi si è fatto in tempo a spenderne solo 340. Vi sono spese che non si esauriscono nel corso di un esercizio, ma vanno a ricadere anche al di là dell’esercizio, e ve ne sono altre che addirittura non si fanno nell’esercizio in cui sono state deliberate. Per cui, a mio modo di vedere, non c’è da preoccuparsi esageratamente della situazione del tesoro, la quale è difficile, sì, è preoccupante se volete, ma non è senza soluzione, soprattutto non è una situazione che obblighi il tesoro necessariamente alla inflazione.

E qui vorrei rettificare quanto è stato detto dall’onorevole Lombardi e dall’onorevole Conti. Il tesoro non ha emesso nuova carta moneta.

La circolazione in Italia è aumentata, ma la circolazione può aumentare o diminuire, secondo il flusso della situazione economica. Ciò che importa è che non aumenti per anticipazioni che vanno al tesoro. Ora l’unico elemento di inflazione che si ha nella nostra situazione è dato dai prelievi degli Alleati. Però anche di questi prelievi una parte ci viene riconosciuta come credito dall’America e rappresenta valuta di cui il Governo può disporre.

Inoltre, nelle condizioni attuali non si può pensare, come diceva l’onorevole Lombardi, a porci come obiettivo di arrivare a mille miliardi di entrate l’anno. Per arrivare a mille miliardi, bisognerebbe avere almeno cinquemila miliardi di reddito nazionale, vale a dire quasi il doppio del reddito di prima della guerra. E noi siamo ben lontani da questo, perché siamo appena al 70 per cento del reddito nazionale quale era prima della guerra.

E non è vero, onorevole Conti, che la lira stia paurosamente slittando, perché il movimento dei prezzi può avere un duplice significato: i prezzi possono aumentare per un fenomeno che parte da una svalutazione monetaria, ed allora si tratta veramente del riflesso di una situazione di inflazione; ma possono modificarsi anche per altri fattori che non dipendono dalla situazione monetaria, ed allora si crea una situazione di squilibrio come esiste in Italia, per cui il livello dei prezzi non corrisponde a quello che dovrebbe essere in rapporto alla circolazione monetaria. In questo secondo caso, il Governo può avere delle leve di manovra per fare ricadere gradatamente i prezzi al loro giusto livello, e la leva principale è quella di aumentare la produzione.

Ora, se la situazione è difficile, io devo riaffermare che non è disperata. E quando ho detto dianzi che il Presidente del Consiglio avrebbe avuto la possibilità di dire una parola più confortante al Paese, intendevo che questa parola avrebbe potuto essere la seguente: in Italia noi ci avviamo verso il risanamento finanziario. Abbiamo da una parte un bilancio ordinario per il quale sono create le condizioni del pareggio, dall’altra un bilancio, chiamatelo come volete, straordinario o della ricostruzione, per il quale vi sono possibilità di entrate certe che possono far fronte alle spese straordinarie. Con tutto questo noi abbiamo anche la possibilità di affrontare e risolvere il problema della imposta sui redditi di lavoro e il problema dei pensionati. Il periodo più difficile è di arrivare al giugno 1947: la responsabilità di questa situazione la chiarirò subito. Comunque occorre superare questo breve periodo.

Il Ministro del tesoro può impostare un piano finanziario che può dare la tranquilla assicurazione a tutti gli italiani che la lira non cadrà, può dare l’assicurazione a tutti gli italiani che nella nostra amministrazione finanziaria si è fatto un grande passo in avanti, e si sta veramente per mettere ordine nelle finanze dello Stato. (Applausi a sinistra).

Ed ora, permettetemi di rispondere ad alcune critiche. Perché molte proposte che si fanno oggi non si sono fatte ieri? Perché, mi si dice, non hai fatto l’imposta straordinaria già dal 1945-46? Perché non si è provveduto ai mezzi straordinari dei quali avete tanto parlato? Ebbene, signori parliamoci pure chiaramente. Io non avrei parlato di questo se troppo la stampa non vi avesse insistito. Ma poiché di questo ritardo si fa una colpa al Ministro delle finanze, mi permetterete che io sollevi qualche velo su una realtà che il popolo italiano non conosce. Ancora ieri, un giornale del pomeriggio diceva che una delle cause della grave situazione finanziaria è l’inerzia del Ministro delle finanze. E che cosa avrebbe dovuto fare il Ministro delle finanze, secondo quel tale scrittore? Avrebbe dovuto mettere una imposta sullo zucchero: ed egli ancora non sa, questo signore, che questa è una cosa già fatta da molti mesi.

La verità è che quando si vogliono fare critiche si ha il dovere di documentarsi e di conoscere la realtà delle cose.

Perché non abbiamo fatto l’imposta straordinaria l’anno scorso? Il problema si collega al cambio della moneta e lo riassumerò in breve. Nel 1945, secondo semestre, la situazione del Paese era questa: la produzione ridotta al 50 per cento, una circolazione esuberante (quindi, situazione aperta di inflazione), mancanza di trasporti e squilibrio di prezzi da una Regione all’altra, favoriscono la più sfrenata speculazione. Inoltre, notevoli somme all’estero inviate dai gerarchi fascisti negli ultimi mesi della vita dell’ex repubblica fascista. Poi, un arricchimento illecito in borsa nera in pieno sviluppo con i capitali monetari nelle mani dei borsari neri. Poi, un’amministrazione finanziaria disordinata, disgregata ed in pericolo di dissolversi, senza dati, senza strumenti adeguati per poter fare una politica finanziaria che non fosse fatta alla cieca. Gli strumenti fiscali sono strumenti pericolosi, sono armi a doppio taglio e bisogna maneggiarli con prudenza, se non si vuole correre il rischio di fare più male che bene alle finanze dello Stato. Ci occorreva il censimento dei patrimoni e della distribuzione della ricchezza.

In tali condizioni noi abbiamo proposto questo programma: cambio della moneta, contemporanea emissione dell’imposta straordinaria sul patrimonio. Il cambio della moneta doveva avvenire col blocco almeno di un terzo della circolazione esistente allora. Fermare un terzo della circolazione, tanto era la circolazione esuberante al bisogno della attività economica di quel tempo, voleva dire combattere l’inflazione, e strappare di mano agli speculatori i mezzi di cui si servivano per la loro opera nefasta, bloccare la valuta italiana all’estero togliendole ogni valore a beneficio del tesoro, cogliere i nuovi ricchi coi capitali monetari in mano. Poi, fare il censimento nominativo della moneta e dei patrimoni indispensabile per le condizioni in cui si trovava l’amministrazione finanziaria in quel tempo, ed impostare così su sicure basi obiettive l’imposta straordinaria sul patrimonio: questo si poteva fare raccogliendo i dati in occasione del cambio della moneta. Senonché, questo piano largamente concordato con il compianto Ministro Soleri, ad un certo momento è rimasto sospeso in aria. Nel settembre, non vedendo concretarsi l’organizzazione del cambio, chiedo al Presidente del Consiglio del tempo, onorevole Parri, una convocazione speciale dei Ministri per esaminare il problema. Ci si comunica che non ci sono biglietti a sufficienza. Per me, quelli che c’erano sarebbero bastati, dato il modo come si sarebbe realizzato il cambio. Ma il problema ha un altro aspetto: mentre di biglietti non ce ne erano abbastanza, il mese prima, anzi, quindici o venti giorni prima, una grande fabbrica di carte valori di Milano aveva invano supplicato il Tesoro di avere un’ordinazione per la stampa dei biglietti. Si trattava di un complesso tipografico che da solo avrebbe potuto stampare in pochi mesi tutti i biglietti di cui avevamo bisogno; nonostante le richieste, non era mai riuscita ad avere questa ordinazione. Alla fine si sono rivolti a me, io mi sono rivolto al Ministro Ricci che ignorava la questione e subito è stata data l’ordinazione di stampare i biglietti anche a loro. Senonché, dopo venti giorni ricevo una seconda lettera nella quale mi si dice che, caso strano, la carta filigranata, che doveva andare a Milano in quella tipografia, era andata invece a Novara in un altro stabilimento che lavorava a pieno ritmo: quindi nuovo ritardo.

Naturalmente, quando ci si sente dire: non abbiamo biglietti sufficienti, e poi si viene a conoscenza di questi fatti, viene il dubbio se sia stato fatto tutto quello che era necessario per avere i biglietti sufficienti in tempo.

In quell’occasione chiesi al Presidente del Consiglio Parri di affidare personalmente a me l’organizzazione del cambio ed io mi impegnavo, sotto la mia personale responsabilità, di realizzarlo nello spazio di un mese o un mese e mezzo, e di realizzare così i programmi ed i provvedimenti finanziari, che erano stati predisposti per combattere l’inflazione e tentare per lo meno di stabilizzare la moneta.

Non si volle fare questo, perché non si ebbe coraggio abbastanza. Si rinviò di due o tre mesi, e quando nel dicembre-gennaio si ripresentò il problema, l’onorevole Corbino era Ministro del tesoro.

Ed allora io ho il diritto di pensare (e mi rivolgo ai colleghi del partito liberale ed anche del partito democratico cristiano, che consentì a questo, rilevando che portare al Governo in quel momento un uomo che nella Consulta aveva preso aperta posizione contro il cambio della moneta ed era uomo abbastanza diritto e fermo che, se si faceva il cambio, se ne sarebbe andato dal Tesoro, e lo disse subito) che ciò voleva dire non volere il cambio della moneta.

Una voce. Lei ha accettato però di collaborare.

SCOCCIMARRO. Le rispondo subito, onorevole collega, e la ringrazio di avermi offerto questa possibilità.

Verso la fine dell’anno – l’onorevole De Gasperi me ne può fare testimonianza – chiedo che venga esaminato il problema e portato in Consiglio dei Ministri. In quell’occasione ripeto la proposta di assumere l’impegno personale di organizzare il cambio.

Una voce. Come personale?

SCOCCIMARRO. Responsabilità personale mia e del mio Ministero. Mi si poteva colpire personalmente se non riuscivo! (Commenti).

Questo per dire a che punto stavano le cose. In quell’occasione feci presente che si incominciava a ritardare troppo se non si faceva il cambio allora, nel febbraio 1946, prima delle elezioni. Nella vivace discussione che ebbe luogo in Consiglio dei Ministri, io allora tracciai le prospettive della grave situazione finanziaria verso la quale si andava se non si faceva il cambio, e dissi chiaro che le conseguenze potevano essere così gravi da porre in seguito il Governo nella necessità di prendere misure molto più radicali di quelle che si consideravano allora. La discussione portò a questo: la maggioranza del Consiglio dei Ministri era per il cambio, ma l’onorevole Corbino molto lealmente poneva la questione: se fate il cambio, dovete cambiare il Ministro del tesoro.

Una voce a destra. Ma queste notizie non sono riservate?

SCOCCIMARRO. Si decide ancora il rinvio. L’onorevole De Gasperi ricorda che io ritenevo di non poter più rimanere al Ministero delle finanze. Fui da lui pregato di rimanervi e di collaborare lealmente con Corbino, sia pure in quella politica che io non approvavo, perché vi era il problema della Costituente, del referendum e bisognava assolutamente evitare una crisi politica in quel momento. Questo fu l’argomento che m’indusse a rimanere a quel posto. (Commenti).

E collaborai lealmente con l’onorevole Corbino, che seguiva una politica della quale io non ero affatto convinto. (Commenti).

Veniamo al terzo atto del dramma. Qui la storia del cambio della moneta incomincia a divenire un romanzo giallo. Due giugno: programma economico e finanziario del Governo. In una prima riunione, l’onorevole Corbino ci comunica che ci hanno rubato le pellicole fotografiche dei nuovi biglietti. Non si può più far uso di quelli stampati. Questo sarebbe stato non solo un pericolo economico, ma anche una impossibilità giuridica: la stampa dei biglietti è subordinata a certe leggi, solo rispettando le quali lo Stato ha il diritto di mettere in circolazione gli strumenti monetari. Il cambio si presenta impossibile. La prima volta mancavano i biglietti, la seconda c’era l’opposizione dei liberali, la terza c’è il furto: ognuno ne tragga le conclusioni che vuole. Devo ricordare ai colleghi che nelle proposte presentate dal partito comunista per il programma governativo di quel tempo, al cambio della moneta non si accenna più, non perché vi fossimo contrari, ma perché una nuova situazione si veniva creando. Le condizioni di sei mesi prima cominciavano a modificarsi. Ed io devo ricordare anche che, in una pubblica dichiarazione, feci rilevare che il cambio della moneta non è una questione di principio, ma solo un mezzo per raggiungere determinate finalità. Se queste si possono raggiungere per altra via, noi comunisti non avevamo difficoltà ad abbandonare il cambio della moneta. Tuttavia si è mantenuta la decisione di preparare gli strumenti necessari per fare ancora il cambio. Ma, non si può non tener conto delle nuove condizioni che nel frattempo si sono venuto creando, anche in rapporto al cambio della moneta.

Oggi la situazione è notevolmente mutata. Sarebbe assurdo pensare a bloccare una parte della circolazione per combattere l’inflazione: la circolazione oggi è insufficiente, non esuberante. Non è possibile, quindi, servirsi del cambio come strumento di lotta contro la speculazione. I quantitativi di lire italiane all’estero sono stati già in gran parte ritirati; gli illeciti arricchimenti, specialmente negli ultimi sei mesi, si sono largamente coperti. Ma il problema è di vedere se si può fare o no il cambio nominativo, e quindi il censimento della distribuzione della ricchezza. È un problema che deciderà il Governo. Se però si decidesse di fare il cambio anonimo col prelievo di un’aliquota una volta tanto, bisogna tener presente che il cambio della moneta è stato concepito come uno strumento per reperire la ricchezza che si nascondeva, per avere un congegno da servire all’imposta straordinaria sui grossi patrimoni, non per colpire anche i piccoli o medi risparmiatori. In tal caso si pensi – e la possibilità tecnica esiste – a risparmiare la povera gente da tale prelievo.

Ora ci si domanda: e gli impegni per il prestito? Non siamo certo contrari al rispetto degli impegni per il prestito.

Vorremmo che il cambio fosse nominativo, col censimento della ricchezza e dei patrimoni che non è un elemento da svalutare, onorevole Lombardi.

Gli impegni del prestito possono essere mantenuti tutti, qualunque sia la decisione del Governo. Vi è la possibilità tecnica di farlo, e di garantire ai sottoscrittori i benefici loro consentiti in rapporto al cambio della moneta.

La possibilità tecnica esiste. Esporla qui non credo sia opportuno, preferirei farlo alla Commissione di finanza e tesoro. Io non voglio creare difficoltà al Ministro Campilli, a cui assicuro tutta la mia collaborazione. Ma dico che gli impegni morali e politici presi dallo Stato verso i sottoscrittori del prestito possono essere mantenuti: può cambiare la forma e il modo, ma è la sostanza quello che conta.

Una voce al centro. Anche se paghiamo in carta straccia.

SCOCCIMARRO. Senza modificare le condizioni del prestito possono essere mantenute tutte le agevolazioni previste e concesse ai sottoscrittori.

Mi pare che ora dovrebbe essere chiaro, perché non è stato possibile finora attuare l’imposta straordinaria: senza il cambio della moneta ciò non era possibile.

L’imposta straordinaria, senza garanzia di stabilità monetaria, è un inganno. La svalutazione della moneta svuota l’imposta straordinaria del suo contenuto. Peggio ancora, si fa credere di aver attuato un tributo straordinario, mentre in realtà una gran parte di esso si volatilizza e rimane nelle mani di coloro che si volevano colpire.

La prima condizione, perché l’imposta straordinaria sia una cosa seria, è che la moneta non si svaluti. Potevamo farla nel 1945 e 1946, col cambio della moneta, perché con questo si realizzava tutto un programma per la stabilizzazione del valore della moneta. Senza cambio della moneta non si poteva istituire l’imposta straordinaria: sarebbe stato un errore. Significava sciupare uno strumento prezioso con scarsissima utilità per il Tesoro dello Stato. Oggi, l’imposta straordinaria si può istituire, anche senza il cambio della moneta, perché, per il piano finanziario che vi ho esposto e per le condizioni del bilancio ordinario, penso che le condizioni di stabilizzazione della moneta comincino concretamente ad esistere. Ed esistono perché, una volta portato il bilancio ordinario al pareggio ed equilibrate le spese straordinarie con le entrate straordinarie, una volta ammessi a Bretton Woods e garantita la stabilità di cambio della nostra moneta, le condizioni finanziarie per la stabilità della lira sono realizzate. Occorre solo realizzare le condizioni economiche, cioè – questo è compito del Governo – bisogna stabilizzare i prezzi. Il giorno che queste condizioni saranno realizzate, la moneta italiana non si svaluterà più.

E siccome questa prospettiva – a mio giudizio – può essere realizzata nel giro di alcuni mesi, dico che oggi è una cosa seria istituire l’imposta straordinaria anche indipendentemente dal cambio della moneta. Le condizioni, che in passato erano garantite dal cambio, oggi sono garantite dalla nuova situazione delle finanze dello Stato.

Credo di avere risposto alla domanda: Chi è responsabile del ritardo dei provvedimenti straordinari: cambio della moneta, imposta straordinaria, ecc.?

Il partito liberale, proprio quel partito che in questi ultimi tempi ha assunto imprudentemente posizione offensiva su questo problema.

Avendo impedito il cambio della moneta, si sono pure necessariamente ritardati i provvedimenti che avrebbero dovuto essere presi almeno un anno fa. Così per i profitti di regime: i liberali ci hanno fatto perdere almeno sei mesi: prima con la crisi governativa del novembre 1945, poi con l’opposizione alla Consulta.

Tutti coloro i quali, per una ragione o per un’altra, hanno ostacolato la realizzazione del programma che fin dal 1945 si poteva realizzare, sono essi, e solo essi i responsabili del fatto che la nostra situazione finanziaria oggi non è migliore di quella che è.

Ed io ricordo – se qualcuno ne avesse voglia – che c’è un verbale del Consiglio dei Ministri, dal quale risulta che queste cose io le dissi fin dal febbraio 1946. Ed è assurdo – che oggi si faccia colpa al Ministro delle finanze del ritardo nella realizzazione di quel programma, quando noi eravamo disposti ad affrontare qualunque responsabilità, pur di riuscire a realizzarlo, poiché ritenevamo quella la giusta politica finanziaria richiesta dalle condizioni del Paese.

Oggi l’amministrazione finanziaria si trova ad una svolta. Nel 1946 si è compiuta una larga opera di ricostruzione e di riorganizzazione, però non ancora ultimata. Si è adeguato il sistema tributario alla nuova realtà economica e finanziaria del Paese. Abbiamo anche riformato alcuni dei tributi essenziali.

L’opera del nuovo Ministro deve oggi consistere nel realizzare un maggiore potenziamento, attraverso una più differenziata specializzazione tecnica degli organi tributari.

Si deve inoltre incominciare quell’opera di sfrondamento del sistema tributario che semplifichi e unifichi i tributi, e poi si deve preparare la riforma generale tributaria, che deve essere portata alla discussione della prossima Camera legislativa. I risultati raggiunti in poco più di un anno hanno superato quelle che erano le nostre stesse previsioni. Ed io voglio da questi banchi mandare un saluto di riconoscente gratitudine ai miei collaboratori ed ai funzionari che in quest’anno hanno lavorato con uno spirito di sacrificio che poca gente conosce ancora. Permettetemi, colleghi, che vi racconti un piccolo episodio. Ieri si è parlato qui di corruzione nell’Amministrazione dello Stato. C’è della corruzione in Italia, è vero. Ma io direi che prima ancora che nell’Amministrazione dello Stato la corruzione esiste nel Paese, perché se c’è qualche funzionario che si lascia corrompere, c’è necessariamente chi lo corrompe. Quando, nei primi giorni in cui assunsi il dicastero delle finanze, volli fare una visita agli uffici, per avere una conoscenza personale e diretta dei funzionari, in un ufficio, dietro ad un tavolo pieno di carte, trovo un uomo: egli si alza rispettoso, ha l’abito sdrucito, è pallido, macilento. Converso con lui, e poiché vedo dei tavoli vuoti, chiedo come mai non c’era nessuno. «Sono in licenza!». E allora mi viene di chiedergli se lui era andato in licenza, e mi risponde: «Non posso; perché – vede? – e mi accenna ad un mucchio di carte: questo è un lavoro che posso farlo bene solo io. In quell’attimo abbasso lo sguardo: quell’uomo aveva le scarpe rotte. Esco; mi informo di lui: un vecchio funzionario, che faceva la fame con la sua famiglia. Aveva le scarpe rotte; lavorava senza contare le ore; da anni non andava in licenza, e considerava che non poteva andare in licenza, se non aveva compiuto tutto il suo dovere; mettere a punto tutti i documenti venuti dal Nord. Ebbene, signori, quest’uomo era passato attraverso il fascismo, attraverso venti anni di corruzione, integro e puro; nessun’ombra nella sua azione. Di questi uomini ce ne sono nell’Amministrazione dello Stato. (Vivi applausi). Di fronte ad essi io sento un profondò rispetto; questi sono veramente gli umili ed oscuri eroi della Amministrazione dello Stato. Ora, io dico che a questi uomini noi facciamo troppo poca attenzione. Noi guardiamo ai corrotti e cerchiamo di colpirli; ma noi dobbiamo pure esaltare le virtù; noi dobbiamo fare uscire dalla burocrazia italiana tutto ciò che essa ha ancora di più sano, e fare di essi lo strumento per combattere i corrotti.

Nel mio Ministero ho cambiato un costume: c’era l’abitudine di deferire i funzionari che si lasciavano corrompere alla Commissione di disciplina, la quale giudica dopo cinque o sei anni aggiustando spesso le cose in famiglia. Da quando ho preso io la direzione del Ministero delle finanze, i funzionari scoperti in questa situazione sono stati denunciati all’autorità giudiziaria (Applausi); nessuno è stato risparmiato.

Ma quando mi incontravo con funzionari dome quello, io venivo loro in aiuto con tutti i mezzi, anche con sussidi particolari, anche interessandomi della loro famiglia, perché solo così io penso che si possa ricreare uno spirito nuovo nella burocrazia italiana. (Approvazioni).

Ora, che cosa si voleva dal Ministero delle finanze? È una cosa strana, signori, tutti sanno che l’Amministrazione dello Stato porta con sé le tare dei residui del fascismo e della guerra, nessuno si meraviglia che ancora non sia tutto perfetto e che ci siano ancora molte cose da organizzare e da rimettere a posto. Però si ha la strana pretesa che proprio nel Ministero, tecnicamente il più complesso e difficile a maneggiare, si potesse in pochi mesi portare le cose alla perfezione. Tutti criticano: che cosa fa il Ministero delle finanze?

La gente gira l’Italia, vede ponti di fortuna, costruzioni di ripiego, rimedi contingenti e nessuno si meraviglia. Ma, se poi scopre un borsaro nero, ancora ignoto al fisco, allora si grida allo scandalo.

Ora, quello che non si è potuto fare nelle altre Amministrazioni dello Stato non lo si è potuto nemmeno nell’Amministrazione finanziaria. Ci vuole tempo ed io debbo dire che i più esperti ed anziani funzionari ritengono che occorrano almeno 4-5 anni per avere un’Amministrazione come l’avevamo in passato. Io, ho posto per obiettivo che entro il 1947 l’Amministrazione finanziaria deve essere tutta messa a posto.

Ma bisogna svolgervi un lavoro particolare, perché, come giustamente diceva l’onorevole Einaudi, la macchina finanziaria è ancora rattoppata con lo spago, è un po’ aggiustata alla meglio. E questo lo abbiamo fatto per poterla mettere subito in movimento, perché non potevamo attendere di rifarla tutta nuova bella e pulita. È certo, però, che bisogna ricostruirla e vi si può arrivare, secondo me, entro il 1947. Prima sarebbe opera impossibile.

Ciò che noi abbiamo fatto fino ad oggi è molto, ma è solo un primo passo. Però è il passo decisivo, da quel lato ormai nessun pericolo ci minaccia. Questa è la prova, a mio giudizio, che il popolo italiano ha non solo la volontà, ma anche la capacità di risorgere. Noi dobbiamo bandire ogni scetticismo; non dobbiamo farci ingannare dalle fatue illusioni dell’ottimismo, ma neanche dallo sconforto del pessimismo.

Bisogna guardare in faccia alla realtà e saper affrontare le sue asprezze e difficoltà con animo virile e con la decisa volontà di dominarle e superarle.

Onorevoli colleghi, in questi giorni, su questa Assemblea si è distesa l’ombra sinistra di un ingiusto trattato. Ebbene in quest’ora triste e buia della nostra storia noi dobbiamo essere più forti dell’avverso destino che si è abbattuto su di noi. Noi dobbiamo dimostrare al mondo che, se grande è la sfortuna che ci ha colpito, ancor più grande è la nostra volontà di risorgere a nuova vita. Solo così, nelle opere feconde di lavoro e di pace, l’Italia a nuova grandezza risorgerà. (Vivissimi applausi – Congratulazioni).

(La seduta, sospesa alle 18,35, è ripresa alle 19,5).

Presidenza del Vicepresidente TARGETTI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Damiani. Ne ha facoltà.

DAMIANI. Io non so se in queste speciali condizioni, in cui nell’aula c’è appena un quinto dei deputati presenti a Montecitorio, si possa parlare.

Dobbiamo sentire, in questo momento, profondo il dovere di essere qui presenti quando la seduta è aperta.

Nel discorso che Fiorello La Guardia tenne il 22 luglio del passato anno ai deputati della Costituente, emerse, fra i vari rilievi sui problemi della disoccupazione, una frase particolarmente incisiva che deve essere ricordata perché sintetizza tutta l’asprezza del momento e richiama i vincitori ed il mondo ad un esame di coscienza.

Fiorello La Guardia disse:

«Non vi può essere un mondo felice con una Italia infelice».

Purtroppo, nel giuoco dei fattori della vita, sia singola che collettiva, le passioni tendono sempre a prevalere e perciò quel che accade e quel che si fa, è, purtroppo, spesso lontano dalla logica, dalla giustizia e dal diritto naturale.

Basta il pietoso spettacolo delle guerre, ripetutesi sempre a breve scadenza, per rilevare la triste e insensata passionalità che era alla base di quei grandi crimini che sono i conflitti tra i popoli.

Oggi i vincitori non hanno saputo far trionfare la saggezza e un superiore senso di umanità, nel risolvere il problema della pace, che doveva essere il problema della ricostruzione del mondo ed è diventato invece il problema delle dure sentenze di espiazione da infliggere ai popoli vinti e umiliati nel dolore e nella miseria.

C’è in qualcuno un sadico desiderio di vedere milioni di creature umane dibattersi disperatamente fra stenti di ogni genere, col pretesto di far scontare loro colpe, che non sono colpe ma errori, e dell’umanità intera.

E la guerra, che è stata combattuta in nome della libertà, genera una così detta pace che ribadisce la scissione del mondo in popoli opulenti che comandano e in popoli poveri che debbono obbedire.

Se questa scissione dovesse restare, sarebbe inevitabile una nuova guerra, cui, certamente, non sopravviverebbe la civiltà.

Ma gli uomini che vivono secondo la propria coscienza, e sono la maggioranza, devono denunziare, davanti al tribunale dell’Umanità, questo nuovo delitto; devono gridare ai popoli che il mondo è uno, perché una è la giustizia, una è la libertà, uno è il diritto.

Le guerre non risolvono i contrasti internazionali, ma li peggiorano.

La guerra è oggi una tale assurdità che dev’essere scacciata dalla nostra mente con la più decisa repulsione.

Il problema fondamentale della pace non è di assicurare al mondo una tregua che permetta ai popoli di riarmarsi per ripetere domani il tentativo di tornare a sopraffarsi, ma è di rendere impossibile la guerra.

E, dunque, ciò che si è fatto finora e si sta facendo deve essere considerato come una fase di smorzamento del conflitto, ma non come un inizio della ricostruzione.

Ciò che si è edificato sulla base della passione non è solido e non può durare. Così i trattati, che nasceranno da questo primo accostamento tra vincitori e vinti, non possono essere che transitori accordi, perché sono lontani dal naturale orientamento della storia, che è quello diretto all’unità mondiale.

È assurdo pensare che la vita culturale e scientifica del mondo, che ha raggiunto luminose basi di unità, possa marciare indipendentemente dalla vita sociale ed economica.

È evidente che il mondo rimpicciolito dalla radio e dall’aeroplano marcia verso l’unione, verso un governo economico internazionale.

La società delle nazioni fu un pallido tentativo.

Oggi l’Organizzazione delle Nazioni Unite rinnova l’azione su basi più promettenti. Ma ciò che fa sperare nel rapido progresso di questa evoluzione, che del resto è fatale, è il fiorire spontaneo, in ogni continente, di numerose associazioni che hanno la stessa mèta: unire gli stati; è il sentir ripetere da alte personalità della politica, della scienza e della cultura, incitamenti, giudizi e previsioni sull’affratellamento dei popoli.

Il grande statista americano Cordell Hull, nel suo testamento spirituale, dettato nel settembre scorso, affermò:

«Il raggiungimento e il mantenimento dell’unità e della cooperazione internazionale devono continuare ad essere il supremo dovere degli uomini di Stato».

Baruch, già consigliere di Roosevelt, e ora rappresentante americano alla Commissione per l’Energia Atomica dell’O.N.U., è noto in tutta l’America per il suo progetto di Stato Universale.

Einstein, l’eminente fisico che fin dal 1905 predisse che la materia e l’energia sarebbero state reciprocamente convertibili (teoria che schiudendo il cammino alle ricerche nucleari ha portato alla liberazione dell’energia atomica), ha recentemente dichiarato: «Alla luce delle nuove cognizioni, un’autorità mondiale e, alla fine, uno stato mondiale non sono semplicemente desiderabili, in nome della fratellanza: essi sono necessari per la sopravvivenza».

«Nelle epoche precedenti, la vita e la cultura di una Nazione potevano essere protette, in certa misura, mediante lo sviluppo di eserciti e rivalità produttive. Oggi dobbiamo abbandonare la rivalità ed assicurare la cooperazione.

«Questa deve essere la pietra angolare di tutte le nostre considerazioni sugli affari internazionali, altrimenti andremo incontro ad un sicuro disastro.

«I metodi contemporanei del pensiero non hanno impedito le guerre mondiali; il pensiero futuro deve impedire altre guerre.

«La nostra difesa non sta negli armamenti o nella scienza o nell’andare nel sottosuolo. La nostra difesa sta nella legge e nell’ordine.

«D’ora innanzi la politica estera di ogni nazione deve essere giudicata interamente in base ad una sola considerazione: ci conduce essa alla legge e all’ordine mondiale, oppure ci conduce all’anarchia e alla morte?

«Non dobbiamo essere semplicemente disposti, ma effettivamente ansiosi, di sottometterci ad una autorità suprema necessaria per la sicurezza del mondo».

Considerazioni simili ha più volte espresso anche Churchill.

Egli propugna l’unità europea, come già sostenne e sostiene Coudenhove-Kalergi con la sua opera Paneuropa. Ma a questa unità bisogna pensare come fase intermedia per giungere alla unificazione del mondo.

In un recente discorso Churchill ha, tra l’altro, asserito:

«Bisogna gettar via il fardello delle contese e delle lamentele del passato, che impedisce ai popoli di proseguire nel loro cammino. Essi debbono guardare avanti, all’ideale di un’Europa unita!».

Pochi giorni fa il senatore Taylor, degli Stati Uniti, ha dichiarato che nell’êra atomica la pace non può essere mantenuta se non con la costituzione di un Governo mondiale.

Le sue precise parole sono queste:

«Gli sviluppi che fanno ora pensare ad un Governo mondiale, come ad una necessità, sono dovuti all’impiego dell’energia atomica.

«L’O.N.U. è un’organizzazione di inestimabile pregio: sono sicuro che essa continuerà lungo le direttive di una crescente cooperazione mondiale, ma le Nazioni Unite non potranno essere all’altezza del compito.

«Dobbiamo mettere la guerra al bando dell’umanità, e questo è possibile soltanto col trasferire parte della nostra sovranità ad una organizzazione che sappia far rispettare la pace contro chiunque.

«La sola organizzazione che sia in grado di assumersi un tale compito – ha aggiunto Taylor – è un Governo rappresentativo mondiale».

Non è possibile citare tutti i brani salienti dei vari autorevoli sostenitori di un Governo mondiale, ma quel che importa è rendersi conto della grandezza e significato di questa nuova forza che sorge come autodifesa della civiltà stessa.

Del resto, in un’epoca in cui la storia non annunciava ancora la seconda guerra mondiale e la conquista atomica, uno dei più acuti pensatori europei, Anatole France, con quella chiaroveggenza che distingue gli intelletti supersensibili, espresse una felice sintesi della crisi storica che viviamo.

«Che si voglia o no – egli disse – è venuta l’ora di essere cittadini del mondo o di rassegnarsi a veder perire ogni civiltà».

E questa è la verità che domina la vita del mondo.

E, dunque, il nuovo orientamento dei popoli verso una convivenza mondiale è l’unica via di salvezza, è il segno più chiaro della guarigione dalle funeste malattie del nazionalismo cieco e del militarismo tracotante.

Bisogna creare una coscienza federalista, bisogna che i popoli si convincano che fanno ancora in tempo a salvare se stessi e il mondo dal terribile cataclisma che li minaccia, dando vita concreta a organizzazioni politiche che creeranno l’avvento del nuovo ordine internazionale.

Bisogna riconoscere alle forze della ragione il diritto di intervenire nella soluzione del problema della pace.

I problemi nazionali non possono essere considerati a sé, ma devono essere studiati in relazione al complesso dei problemi mondiali.

La politica interna di ogni paese è oggi stretta funzione della politica estera.

Bisogna che i popoli si dichiarino contro ogni blocco. Devono ritenere che le grandi forze che si sono concentrate oggi in due poli opposti, non hanno ragione di combattersi, ma nell’interesse dei propri paesi e dell’umanità, devono incontrarsi su un piano di stima e di rispetto reciproco per giungere ad una soluzione che le forze dello spirito non possono e non debbono affidare alla forza bruta delle armi.

Bisogna lavorare per questa maggiore comprensione e maggiore intesa, e a questo lavoro sono chiamati tutti i popoli.

Il     nuovo spirito democratico li chiama a protagonisti della storia.

Essi eleggano rappresentanti che nelle varie camere legislative sappiano propugnare la causa dell’Unione internazionale e il mondo uscirà rapidamente dal disordine per organizzarsi in una nuova vita veramente degna dello spirito umano.

Il Movimento Unionista Italiano, che rappresento in questa Assemblea, e che sorse nel 1944 per tradurre in forza politica questa naturale e nobile aspirazione degli uomini alla realizzazione della fratellanza mondiale, e che è stata la prima organizzazione politica ad assumere tale iniziativa, ha preso atto con vivo compiacimento dell’articolo 4 del progetto di Costituzione della Repubblica italiana, che dichiara: «L’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli e consente, a condizione di reciprocità e di eguaglianza, le limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli».

La recente costituzione francese contiene pure simile dichiarazione.

Ciò è un fatto di una importanza immensa, ha un significato solenne.

Esso rappresenta il fattore potenziale della nuova storia umana.

Ma occorre sviluppare ed educare tale nobile impulso, per passare dallo stato potenziale a quello di realizzazione. E deve ripetersi, per il mondo tutto, quello stesso meraviglioso fenomeno etico-politico-sociale, per il quale tanti popoli diversi per indole, educazione ed origine, affratellati dal lavoro, si fusero per formare gli Stati Uniti d’America.

Essi, nell’armonia delle loro energie, hanno trovato tali possibilità di sviluppo industriale ed economico da poter oggi elargire al resto del mondo, dissanguato dalla guerra, gli aiuti più generosi.

Milioni di tonnellate di merci sono stati donati dall’America ai popoli immiseriti e questi, mercé i loro aiuti, stanno rinascendo e riorganizzando il loro lavoro.

Questi popoli europei, che dettero vita e civiltà all’America, sono oggi riportati alla rinascita dall’America stessa.

Il lavoro europeo tornerà a risplendere e ricambierà in ricchezza ciò che oggi ci viene offerto in aiuto.

Il sogno di Mazzini si concreterà in una vivente e palpitante costruzione, ove le incertezze e le storture sociali saranno vinte dall’armonia che andrà sempre più rafforzandosi fino a conformare il tutto a quei principî universali di libertà, di giustizia e di solidarietà che Iddio fa ugualmente vibrare nel cuore di tutti gli uomini.

E questo doloroso periodo dobbiamo affrontarlo con decisione, con spirito di illimitato sacrificio, per ridare all’Italia un volto degno delle eccellenti qualità della sua gente laboriosa e profondamente sensibile al progresso democratico e civile.

La Costituente deve rispondere alle aspettative del Paese che ha visto con disappunto quest’aula chiusa per cosi lunghi mesi.

Esso sapeva che le Commissioni lavoravano per elaborare un progetto dal quale deve nascere la nuova Costituzione democratica italiana; ma non sapeva e non sa capire perché, mentre 75 Deputati erano intenti alla esecuzione del progetto, gli altri 480 erano posti in condizione di non poter contribuire, mediante il pubblico dibattito, alla definizione e soluzione dei complessi e difficili problemi della nuova vita italiana.

Ora questa Assemblea deve lavorare con eccezionale intensità perché il popolo abbia da essa la prova che la democrazia è superiore alla dittatura, che dalla democrazia nasce e si sviluppa la vita del popolo, mentre nella dittatura esso è ridotto ad una massa passiva e abulica di sfruttamento.

I partiti, espressione della libertà, devono superare i punti critici del loro interno travaglio e dei loro esterni contatti; essi sono forze di uno stesso popolo, nati per lavorare a suo vantaggio, per dargli coscienza dei suoi diritti, e nei momenti difficili, come l’attuale, devono trovare un comune piano d’intesa, di comprensione e d’azione, perché l’Italia risorga, più splendente che mai, dalle rovine della tragedia impostale dalla cecità di un esperimento politico che non deve più ripetersi.

E il Governo sia messo in condizione di operare nel modo più efficiente, sia liberato dalla funesta ruggine dei contrasti dei partiti, originati spesso da interessi particolari che non debbono interferire nell’interesse generale del Paese, interesse che deve prevalere su ogni altro.

Tra le tante azioni che il Governo deve svolgere occorre promuovere energicamente anche quelle dirette a difendere il popolo dal malcostume, dalla pornografia, dalla stampa incosciente e turpe che per scopi di lucro alimenta le curiosità morbose e psicopatiche dei pervertiti e dei pervertibili, dando loro in pasto i più sporchi racconti e ripugnanti illustrazioni sulle crescenti manifestazioni della criminalità, pretendendo, in malafede, questi perniciosi fogli, di fare opera di divulgazione scientifica.

I delitti aumentano sempre più con un crescendo impressionante!

La cronaca divulghi invece le manifestazioni della bontà e dell’altruismo, che sono più numerose di quanto si possa supporre e che commuovono e dispongono l’animo al bene.

L’onorevole Presidente del Consiglio, nelle sue comunicazioni fatte sabato scorso a questa Assemblea, ha dichiarato che la massima cura sarà dedicata alla tutela delle emigrazioni e che sarà richiamato in vita l’antico Consiglio Superiore dell’emigrazione.

Il Paese attende con ansia nuovi adeguati provvedimenti che facciano cadere la barriera della legislazione fascista, che purtroppo ancora vige in questo campo, e che fu ispirata a quel funesto principio cui fu dato il nome di autarchia.

È urgentissima una nuova legge che regoli tale delicata materia, subordinandola alle esigenze del lavoro e dell’economia italiana, e nello stesso tempo conformandola alle aspirazioni e necessità dei lavoratori e assicurando la più pronta ed efficace tutela del Governo italiano per il nostro lavoratore che porta in terra straniera il patrimonio della sua laboriosità intelligente e fattiva.

Occorrerebbe promuovere a tal uopo opportune intese con i Governi degli Stati interessati ad accogliere i nostri lavoratori, per la esecuzione del loro piano di lavori pubblici, affinché ditte specializzate italiane fossero invitate a presentare progetti e preventivi di lavori stradali, idraulici, edilizi e agricoli, impegnandole nel caso di aggiudicazione, a portare dall’Italia le maestranze occorrenti per i detti lavori. E si dovrebbe altresì promuovere la costituzione di Istituti finanziari, sostenuti da capitali italiani e stranieri, che potessero potenziare cooperative e colonie agricole italiane, provvedendo al fabbisogno occorrente per dare alle nuove aziende nascenti dal lavoro italiano all’estero la massima efficienza produttiva.

Un altro urgente bisogno del Paese è quello di procedere al riordinamento delle anagrafi comunali sconvolte dalla guerra.

Necessità questa reclamata anche dall’Associazione dei Comuni italiani in occasione del recente primo convegno dei sindaci.

È assolutamente urgente indire un nuovo censimento generale della popolazione per il riassesto della situazione anagrafica e del tesseramento annonario.

Inoltre occorre considerare che sono più di cento le leggi la cui applicazione è subordinata all’esito del censimento. Esso da ben 11 anni non si esegue più, e il grave perturbamento demografico prodotto dalla convulsa vita dell’ultimo quinquennio, rende inutilizzabili i dati del censimento precedente.

Occorre assolutamente aggiornarsi circa l’attuale situazione demografica, economica e sociale.

Gli stessi problemi della disoccupazione e dell’emigrazione, del riordinamento regionale e della ricostruzione edilizia e della definizione delle circoscrizioni elettorali secondo il loro effettivo peso demografico, non possono essere razionalmente risolti senza la conoscenza dell’effettiva struttura professionale ed economico-sociale della popolazione e della sua distribuzione e relativa densità di accentramento nelle varie zone urbane, industriali e agricole.

Voler governare, prescindendo da una precisa documentazione sulla consistenza quantitativa e sulle caratteristiche strutturali della popolazione, significa, in realtà, non governare ma affidarsi al caso, cioè procedere alla cieca.

Inoltre, disposizioni legislative, tuttora vigenti, fanno obbligo di eseguire, ogni cinque anni, il censimento della popolazione e perciò si rende assolutamente inderogabile tale importantissima rilevazione.

Questo nuovo periodo della vita del Paese impegna tutti in un lavoro intenso e concorde.

L’Assemblea Costituente deve, contrariamente alle aspettative dei nemici della rinascita, assolvere pienamente il suo alto compito di rigeneratrice della democrazia italiana. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Di Fausto. Ne ha facoltà.

DI FAUSTO. Nei sette mesi trascorsi, dacché questa Assemblea ha iniziato i suoi lavori, non una volta ha risuonato in quest’Aula la parola che avrà potere forse di trarci dalle rovine, così come quella del divino Maestro trasse Lazzaro dai regni delle ombre.

Arte. Magica parola che esprime qualcosa di veramente connaturato con la terra, col cielo e col sole d’Italia.

Chi vi parla ha avuto la singolare ventura di dare volto di dignità e di arte a numerosissime opere di civiltà dell’Italia nel mondo.

Oggi, nell’angoscia che ci opprime per l’altrui ingiustizia, che offende con noi la stessa civiltà, e per l’altrui cupidigia, che ci priva anche dei lontani lembi di terre primitive acquisite dalla nostra opera altamente umana e civilizzatrice, chi vi parla sente sanguinante la mutilazione sofferta dalla Patria, ma sente altresì che le pietre grideranno «Italia» pei secoli, così come quelle di Roma, ancora e sempre, lungo i lidi del mare della civiltà antica.

L’iniquo trattato che ci è stato imposto, riaffermando, a conclusione dell’ultima più grande e più inutile strage, il trionfo della forza sul diritto, dimostra che la difesa del principio di libertà – che è difesa della stessa civiltà cristiana – spetta ormai a noi, vinti.

E l’Italia, affidandosi alle sue inesauribili forze morali, potrà ancora esprimersi e sopravvivere.

Nulla ci è stato più fedele nel passato, nulla ci sarà più fedele nell’avvenire.

Nelle precedenti sessioni fui tentato di impostare il problema dell’arte. Mi parve però che tra le angustie materiali relative al nostro problematico durare fisiologico, quello di investire questa Assemblea di questioni prevalentemente spirituali, fosse atto intempestivo.

Oggi, il perdurare di quelle mi ha confermato nel convincimento che anche i problemi materiali debbono essere soccorsi dalle forze dello spirito: proprio come è dell’uomo che, posto dinanzi a compiti che superano le sue possibilità, leva alto lo sguardo in cerca di un ausilio ultraterreno.

Peraltro, l’interesse alle cose dell’arte – che fu prerogativa di classi privilegiate prima e della borghesia poi – è oggi, con tendenza ad una sempre maggiore universalizzazione, così permeato nella vita sociale, che sarebbe assurdo, dopo il pauroso collasso politico, proporsi il compito immane della ricostruzione senza l’ausilio dell’arte, alla quale l’Italia deve la sua più inconfondibile gloria.

E sia subito affermato che tutto quanto gravita nell’ambito delle attività artistiche – direttamente od indirettamente, con effetto immediato o lontano – costituirà per l’Italia una delle più sicure e cospicue basi della nuova economia.

Riacquisteremo, con la nostra specifica missione, piena consapevolezza del nostro più vero destino.

Tra i sintomi più dolorosi della disintegrazione conseguente alla guerra, ed alla disfatta, è l’indifferenza del pubblico e dei Governi ai problemi dello spirito.

L’umanità imbestiata cerca in ogni modo di sfuggire ai richiami dell’ordine spirituale. Il problema dell’arte assurge pertanto ad importanza politica in quanto deve essere riaffermato – ad ogni costo – nelle sue esigenze di dignità e di ordine sociale. Trattandosi di un settore di qualità e non di quantità, esso è trascurato dai partiti politici, dagli organizzatori e dagli agitatori. Esso è trascurato naturalmente anche dalle democrazie.

Ecco perché questo autentico proletariato – al quale mi onoro di appartenere – è ufficialmente assente in questa Assemblea, ove tutti, anche i più banali interessi, trovano rappresentanza e tutela. Ecco perché la frattura col mondo intellettuale si riflette nello sforzo delle democrazie ad affermarsi.

Ma poiché l’arte è fattore essenziale di vita – per un Paese come il nostro – sia dato ad essa, nel quadro generale della ricostruzione, il posto che le compete, se veramente ricostruzione dovrà essere.

Urgente è quindi definire una politica dell’arte, evitando di costringerla alla politica del Governo – come è capitato in tempi non lontani – con le conseguenze a tutti note. Sorge la necessità di nuovi orientamenti organizzativi e di nuovi statuti, atti ad impedire il ripetersi della soggezione politica e nel contempo ad assicurare l’istaurazione di un ordine artistico, nel quale possano manifestarsi, in libero giuoco, tendenze, fermenti e reazioni che dovranno risolversi infine in arricchimento della vita spirituale della nazione.

E poiché il Governo non ha inteso fin qui, nelle sue varie esposizioni programmatiche, l’esigenza di così preminente questione – io – unico artista presente in questa Assemblea – non posso non chiedere che siano posti senza indugio all’ordine del giorno della Nazione i problemi: delle Arti Maggiori; delle Arti Collettive; delle Arti Sociali e Minori; ed in connessione con questi, il problema dell’economia turistica. Veramente di quest’ultimo è cenno nelle recenti dichiarazioni di Governo, delle quali mi piace sottolineare l’accidentale richiamo alle arti.

Gi ha narrato l’onorevole De Gasperi che a Washington, durante la visita alla Galleria Nazionale, i capolavori italiani gli sono stati mostrati con l’ammirata espressione: «Ecco i vostri più autentici ambasciatori nel Mondo».

Ed ora una scorsa, sia pure fugacissima, attraverso i vari settori:

Alle arti pure accedono le sole classi intellettuali. Una riforma ed una riorganizzazione, del resto già in studio presso il Ministero dell’istruzione, si impone. Si impone anche un riesame del «Novecento», fenomeno che trovò in Francia il clima per la sua naturale espansione, ed in Italia i suoi imitatori prima e gli speculatori poi, quando il fenomeno da letterario divenne politico.

Quanto alle arti spettacolari collettive, nelle quali è ormai totale l’accesso delle folle, è superfluo il richiamo all’interesse di un Governo democratico. Urge un pronto intervento per arrestare il rapidissimo declinare del teatro, a causa del troppo rapido ascendere del cinematografo e della radio. Anche in funzione turistica, l’esperienza insegna che le nostre possibilità per gli spettacoli all’aperto – ove entrano in giuoco grandi masse e grandi mezzi organizzativi – sono veramente eccezionali. Chi ha assistito agli spettacoli del Teatro Greco di Siracusa e del Teatro Romano di Sabratha può affermare di avere vissuto un prodigio di bellezza e di elevazione spirituale davvero incomparabile.

Del cinema e della radio basterà accennare come a nuovi fattori ad ampio sviluppo sociale. In Italia stanno essi oggi all’arte solo come fatti di eccezione per inaridimento di fonti e crisi manifesta di contenuto. È palese il dissidio fra gli interessi dell’industria, prevalenti su quelli dell’arte.

Occorrerà suscitare opere a più profondo senso morale sociale e umano, opere che trovano largo consenso nelle folle, così come hanno dimostrato recenti esperienze straniere.

Delle arti sociali – quelle cui accede la più vasta collettività – l’architettura è preminente, in quanto comprende in sé le altre arti plastiche ed in quanto più direttamente interessa la vita dell’uomo. Arte sociale di assoluta attualità per le necessità imperiose della ricostruzione.

Un cenno anche alla crisi che investe l’artigianato e le piccole industrie: crisi economica, sindacale-organizzativa e di produzione.

L’attività artigiana è la più idonea al libero temperamento italiano, così come lo sono la piccola proprietà, il lavoro domestico ed i mestieri indipendenti in genere, nei quali si realizza l’unità ideale del produttore e del lavoratore, sfuggendosi ai rapporti coattivi che tendono, nelle grandi industrie, a rendere odiosa la parte dell’uno e dell’altro, con la conseguente graduale distruzione della gerarchia, della solidarietà e del senso cristiano ed umano del lavoro. L’italiano ha sempre amato il lavoro, che gli consente anche libera espressione e che dia diletto al suo animo.

Purtroppo la guerra ha devastato anche questo settore in profondità: abbassamento del senso morale, febbre del facile guadagno e del godimento, disprezzo delle tradizioni e paralisi di sviluppo della personalità umana, col crollo di ogni aspirazione alla formazione di un avvenire individuale sul piano del lavoro. Ma non è tutto perduto: i mercati esteri richieggono tuttora insistentemente il prodotto italiano.

Urge rieducare i giovani all’amore del dovere, urge suscitare le nostre migliori tradizioni attraverso scuole, musei, biblioteche, centri sperimentali, ecc.

Concludo la rassegna delle attività artistiche facendo miei i voti di eminenti colleghi, di Istituti storici, di Enti insigni, enumerando le necessità effettive dell’arte nel quadro generale della nazione e nel quadro di Roma particolarmente.

1°) Che sia agevolata l’organizzazione unica apartitica di tutti gli Artisti d’Italia per la loro tutela, la loro rappresentanza e la loro difesa economica.

2°) Che sia agevolata – per gli stessi scopi – l’organizzazione unica apartitica degli artigiani d’Italia.

3°) Autonomia e riordinamento delle grandi Accademie storiche, col potenziamento della insigne Accademia di San Luca in Roma, affinché essa assolva – debitamente riorganizzata – nel campo delle arti quello che la gloriosa Accademia dei Lincei assolve nel campo delle scienze.

4°) Protezione dell’arte e dell’artigianato all’estero e vigilanza illuminata delle manifestazioni individuali e collettive.

5°) Riorganizzazione delle mostre nazionali ed internazionali.

6°) Riordinamento delle gallerie di arte moderna, con la revisione delle opere acquistate nell’ultimo ventennio, e nuovo disciplinamento che sottragga una così delicata materia al capriccio ed al mutevole gusto di dirigenti transitori.

7°) Restituzione alla sua funzione di origine del grande Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale, in Roma.

8°) Assetto, in Roma, in edificio adeguato, della Collezione Loria e suo completamento così da farne un Museo Etnografico tra i più importanti nel mondo.

9°) Assegnazione del complesso edilizio e delle aree annesse all’ex-Foro Mussolini in Roma al Ministero della Istruzione, affinché sia destinato «a città dell’arte», per accogliere, in ambiente organico e suggestivo, le Accademie di arti figurative, i pensionati artistici, l’Accademia di recitazione ed un Conservatorio musicale.

Saranno attratte allo studio delle arti in Roma vaste correnti da tutti i Paesi del mondo, correnti già assai notevoli, malgrado il disagio e la insufficienza delle sedi attuali.

10°) Concessione e destinazione dei Mercati Traianei in Roma a centro artistico per mostre continuative e ritrovi suggestivi, integrati da un quartiere artigiano di eccezione.

11°) Assegnamento a cooperative edilizie fra gli artisti della zona fra via Flaminia e le pendici della villa Strohl-fern in Roma, per costruzioni esclusive di studi e piccoli alloggi.

12°) Partecipazione dell’organizzazione unica fra gli artisti italiani alla tutela del patrimonio artistico nazionale esercitata dallo Stato.

13°) Gradualmente – con l’auspicata ripresa costruttiva – per quanto si riferisce a chiese, edifici pubblici ed opere monumentali in genere, sia salvaguardato, con quello degli architetti, l’interesse dei pittori, degli scultori e dei decoratori, assicurando all’attività di questi una adeguata partecipazione alla realizzazione di tali opere. Sarà ripresa così la tradizione della collaborazione fra le arti, nobile caratteristica dell’arte edificatoria italiana. E sarà avviato a soluzione anche in questo settore il problema silenzioso ma tragico della disoccupazione intellettuale.

Eccoci infine alla attività pratica che compendia e valorizza tutte le manifestazioni dell’arte.

Dico della economia turistica italiana.

Questa industria, per la parte superstite della guerra, sta morendo in silenzioso isolamento, mentre in tutti i Paesi turistici del mondo – anche in quelli non meno rovinati dell’Italia – la riorganizzazione è in atto da tempo.

L’Italia, pel primato indiscusso delle sue bellezze naturali artistiche e storiche, è paese turistico per eccellenza.

Questa attività deve essere ripresa e potenziata. L’annuncio dato dal Presidente del Consiglio del ripristino della rete ferroviaria pel 1949 è già un elemento incoraggiatore e, sotto vari aspetti, risolutivo.

I venti miliardi di danni, sofferti dalla attrezzatura ricettiva alberghiera – i 1.500 alberghi colpiti, i 60.000 letti perduti – sono entità cospicue, ma la riattivazione di questa immensa industria, che interessa non meno di 700 Comuni, presenta tali prospettive di rendimento da non fare davvero esitanti finanziatori appena intelligenti. Si aggiunga la ricorrenza dell’Anno Santo nel 1950 per affermare l’attualità e l’urgenza della questione. Occorre, come ha già dichiarato il Presidente De Gasperi, affrettare il graduale processo di derequisizione degli alberghi da parte degli alleati. Occorre affrontare ed incoraggiare il coordinamento degli sforzi che i singoli sono pronti ad affrontare, ma, soprattutto, occorre anche, con opportune riforme legislative, dare un sicuro indirizzo alla politica del turismo in Italia, affinché sia riattivata al più presto questa naturale fonte di lavoro e di ricchezza. Con questa enumerazione di esigenze per una politica dell’arte e della ospitalità io ho finito.

Nelle sue recenti comunicazioni il Presidente ha annunciato la costituzione di un organo di Governo agile e snello, che presieda alla attività turistica. È augurabile che – anche avulso dalle attività affini – questo organo risponda veramente e completamente alle effettive necessità.

Quanto alle Arti, la vigile attenzione del Ministro Gonella ha messo allo studio molti dei punti da me toccati. Manca però al Ministero dell’istruzione un organo centrale propulsore, coordinatore e convogliatore di tante possibilità reali.

La Direzione Generale delle Arti, organizzata ed attrezzata per mansioni normali, è oggi impegnata invece anche alla urgente opera di salvezza del patrimonio artistico, uscito largamente devastato dalla guerra: compito di una enorme vastità e pel quale non si dispone che di mezzi assolutamente esigui, per poco che si pensi all’incalcolabile valore delle opere che, intaccate dagli aventi bellici, ora per ora, cedono all’azione del tempo.

Dai mirabili sepolcri angioini distrutti con Santa Chiara in Napoli, agli affreschi del Mantegna perduti con la Chiesa degli Eremitani a Padova, agli ormai scomparsi affreschi del Trionfo della morte nel chiostro del camposanto di Pisa, è tutto un mondo che si svuota dell’infinito che gli era stato apportato dal genio italiano e cristiano.

I mezzi debbono essere trovati: la nostra responsabilità dinanzi al mondo e dinanzi alle future generazioni è di quelle che non consentono alternativa.

Appare strano comunque che nella situazione di effettiva emergenza del Ministero della istruzione si sia insistito nella soppressione del Sottosegretariato alle Arti: l’unico che avesse effettive ragioni di esistenza, fra le alcune dozzine di Sottosegretariati conservati, e dei quali l’utilità è largamente discussa. Vien fatto di pensare che l’agitare problemi nell’aula sia meno efficace dell’agitarsi di uomini nei corridoi.

Peraltro, come ha affermato l’onorevole Corbino nel suo recente chiarissimo discorso, in pochissimi paesi è così viva ed incontenibile la capacità a riprendersi, malgrado tutto, come nel nostro.

Nulla di più preciso e di più vero posso confermare anch’io, dopo una recente peregrinazione attraverso i paesi dell’Europa centro-occidentale.

Così che è possibile, ed è certo anzi, che l’Italia si leverà veramente al centro della attenzione universale, perché nessun’altra terra può rispondere come essa alle necessità dello spirito – necessità che il dolore, l’orrore e le delusioni sofferte susciteranno su scala sempre più vasta nel mondo.

In Italia ed a Roma, le libere arti, i liberi cuori, le anime libere.

È il suo fatale destino: chiamare a raccolta le forze dello spirito – come sempre – nei secoli.

Secondiamo fidenti questo destino, sotto lo sguardo di Dio.

Esso non fallirà! (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle ore 15.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Avverto che è pervenuta alla Presidenza la seguente interrogazione firmata dagli onorevoli Spano, Pratolongo, Pellegrini e Longo, per la quale è stata chiesta la discussione d’urgenza:

«Ai Ministri dell’interno e degli affari esteri, per conoscere per quale motivo non sono state prese le opportune precauzioni allo scopo di proteggere la sede della Delegazione jugoslava presso la Commissione consultiva per l’Italia; e per sapere quali misure sono state adottate a carico dei funzionari sui quali ricade la responsabilità dei deplorevoli incidenti di lunedì 10 febbraio».

Chiedo al Governo se riconosce l’urgenza di questa interrogazione e quando intende rispondere.

DE GASPERI. Presidente del Consiglio dei Ministri. Riconosco l’urgenza e prego di rinviarne lo svolgimento a domani.

PRESIDENTE. L’interrogazione sarà iscritta nell’ordine del giorno della seduta di domani.

Si dia lettura delle altre interrogazioni pervenute oggi alla Presidenza.

AMADEI, Segretario, legge.

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non intenda provocare una riforma legislativa all’articolo 33 del testo unico 3 marzo 1934, n. 383, che prescriveva per la costituzione di nuovi Comuni un minimo di tremila abitanti.

«Tale riforma si impone per non creare delle diverse situazioni fra i vari Comuni e per dare agio a delle frazioni, aventi piena possibilità di assurgere a Comuni, di poter vedere accolti i loro legittimi desideri.

«Bovetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere quanto vi sia di vero in ciò che la stampa ha pubblicato intorno al funzionamento dell’A.R.A.R., alle merci che esso ha lasciato e lascia perire ed ai «carrozzoni» che ha consentito e consente, e per avere precisazioni e ragguagli intorno al modo onde si ritiene garantire ai cittadini una razionale utilizzazione e distribuzione delle ingenti quantità di materiali di recupero dall’A.R.A.R. incettati, sì che tale incetta si risolva in un sollievo della popolazione a traverso una riduzione di molti prezzi e non in una sozza fonte di continui arricchimenti per ingordi speculatori.

«Perrone Capano».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, perché, in relazione al recente episodio del detenuto Caroselli, che, fermato mentre era in ottime condizioni di salute, è deceduto appena tradotto a Regina Coeli, precisi se e come è stata eseguita in mento un’inchiesta, quali esatti risultati essa ha dati e perché faccia conoscere se, di fronte all’eventuale profilarsi di responsabilità di funzionari o di agenti, non abbia creduto o non creda di dare corso agli opportuni provvedimenti di natura disciplinare e penale, affinché sia dissipato anche il dubbio che i sistemi di investigazione poliziesca non sempre si adeguino al dovere del rispetto della integrità fisica degli inquisiti e siano, nonostante ciò, tollerati.

«Perrone Capano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se, in base anche agli affidamenti dati, intenda provvedere nel modo più sollecito alla ricostituzione del tribunale di Pinerolo.

«Tale ricostituzione, per vero, trova giustificazione e fondamento nelle tradizioni insigni di quel Tribunale e nelle necessità inderogabili di quelle popolazioni e corrisponde anche al principio di avvicinare sempre più al popolo gli organi della giustizia.

«Bovetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non si intenda dare una sistemazione definitiva, così come venne praticato nell’altro dopoguerra, ai segretari comunali provvisori reggenti, che, pur sprovvisti di titolo, hanno prestato e prestano validissima opera presso varie Amministrazioni comunali.

«Nell’altro dopoguerra, con regio decreto-legge 2 ottobre 1919, n. 1858, veniva autorizzato il Governo ad indire un esame straordinario, in base al quale molti segretari reggenti vennero definitivamente sistemati.

«Il riproporre oggi un siffatto provvedimento costituirebbe opera di giustizia verso una benemerita categoria, che nelle attuali contingenze ha dato prova di solerzia e di proficuo rendimento.

«Bovetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro degli affari esteri, per conoscere se non credano opportuno far precedere alla discussione del cosiddetto Trattato di pace una rievocazione del testo preciso della «Carta Atlantica», con la quale le Nazioni Unite si impegnarono solennemente a concludere la guerra con una pace umana e generosa ed ottennero per questo che popoli neutri e combattenti si augurassero la loro vittoria, si schierassero a loro fianco e sacrificassero migliaia di giovani vite alla certezza di portare finalmente la «pace cristiana» ad imperare sui forti e sui deboli.

«L’interrogante chiede che il Governo, ove le conosca e ritenga opportuno di rivelarle, indichi quali siano le ragioni che indussero le Nazioni Unite a smentire con i fatti i loro primitivi propositi, per addivenire alla imposizione di patenti ingiustizie, che non daranno pace ad alcuno e che lasceranno un perenne risentimento nei popoli che credettero all’impegno solenne dei Grandi capi di quelle potenti Nazioni.

«Rivera».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del commercio con l’estero, per sapere la ragione del rifiuto, opposto alle industrie conserviere siciliane, di licenze d’importazione di stagno, indispensabile per la manifattura delle conserve in scatole che si esportano all’estero.

«Natoli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e commercio, per conoscere – dato che il Ministero ha avocato a sé l’importazione e la distribuzione dello stagno e delle bande stagnate assegnate all’Italia pel 1947 – le ragioni che consigliano di ripartire queste materie a gruppi monopolistici e di negarle alle industrie conserviere siciliane. Queste, con le loro esportazioni, specialmente di pomidori pelati, hanno, infruttifere, forti somme in sterline giacenti a Londra, divise che potrebbero essere, invece, impiegate all’acquisto di materie prime necessarie all’industria conserviera siciliana.

«Natoli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della marina mercantile, per sapere quando sarà inviata una draga nel porto-canale di Mazara del Vallo.

«Da anni il porto-canale, sul quale si trova il centro peschereccio più importante, non è dragato e i motopescherecci corrono il rischio di infrangersi.

«Già piroscafi, motovelieri e velieri non possono attraccare, dato il fango trasportato dal fiume Màzaro e le alghe accumulate dal mare verso le rive.

«L’invio di una draga è urgente, per assicurare l’attività di questo centro peschereccio e centro industriale fra i più attivi d’Italia, ma fra i meno assistiti e che ancora attende la soluzione del problema del suo porto, senza banchine e senza gru pel carico.

«Natoli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quali provvedimenti sono stati adottati o si intenda di adottare, in occasione del riconoscimento di Scuole ed Istituti privati e pareggiati, onde impedire un indegno sfruttamento del personale insegnante da parte dei privati od enti che geriscono le nuove scuole, sì che non si ripetano casi come quello che si è dato in un Istituto pareggiato della provincia di Bergamo, che ha liquidato ad un suo insegnante una pensione di lire 1250 per trimestre.

«Montemartini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, sulla dolorosa lentezza colla quale si procede alla liquidazione della pensione a umili lavoratori che hanno passato tutta una vita di lavoro nei nostri istituti scientifici.

«Montemartini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere quali concreti ed immediati provvedimenti intenda adottare perché la liquidazione degli acconti ai danneggiati di guerra della provincia di Frosinone possa procedere con un ritmo, che almeno non sia di quella esasperante lentezza che sino ad oggi l’Intendenza di finanza è stata costretta a seguire.

«L’interrogante ricorda all’onorevole Ministro:

1°) che sino al 31 dicembre 1946 sono state presentate all’Intendenza di Frosinone circa 140 mila domande per danni a beni mobili ed immobili;

2°) che, in 22 mesi, sono state definite solo 18 mila pratiche, limitatamente agli acconti per danni a mobili e ad arredi domestici;

3°) che, di fronte a una richiesta complessiva di risarcimento che si aggira intorno ai 40 miliardi, sono stati erogati acconti per 400 milioni di lire circa;

4°) che al servizio danni di guerra sono addetti 21 impiegati, dei quali uno soltanto, il capo reparto, di ruolo;

5°) che l’amministrazione centrale non ha creduto sinora di poter autorizzare l’Intendenza di Frosinone a svolgere lavoro straordinario retribuito.

«L’interrogante fa, inoltre, presente che è assolutamente necessario adeguare il personale all’importanza del servizio, destinandovi impiegati di ruolo, che potranno eventualmente essere distolti da altri servizi che abbiano un grado minore di urgenza; e che è del pari necessario far eseguire lavoro straordinario, congruamente retribuito.

«Fa voti, infine, perché la liquidazione degli acconti – ben misera cosa al cospetto dei danni subiti da ciascun danneggiato – possa essere definita nel volgere di pochi mesi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bozzi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze e tesoro e della difesa, per conoscere:

1°) quali provvedimenti intendano prendere per definire al più presto la situazione dei dispersi e delle loro famiglie, allo scopo di liquidare loro una pensione;

2°) se nell’attesa di tale definizione, non credano dovere aumentare l’ammontare degli assegni d’assistenza al fine di evitare che: gli orfani diventino dei candidati alla tubercolosi; le vedove diventino delle candidate alla prostituzione; i parenti diventino dei candidati alla mendicità.

«L’interrogante fa presente che le famiglie dei soldati dispersi nell’ultima guerra continuano a percepire somme irrisorie a titolo di assistenza; che le povere vedove, per mantenere le loro creature, sono costrette ad un doppio lavoro: quello della casa e quello dell’officina; e, in mancanza di quest’ultimo, sono costrette a tutte le rinunce, a tutti gli avvilimenti, compreso il mercimonio del loro corpo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Vischioni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere in quale modo e quando pensa di procedere alla sistemazione della categoria dei dipendenti statali già addetti presso i vari uffici pubblici del Possedimento delle Isole Egee, che, per categorica disposizione delle Autorità alleate, sono stati costretti a lasciare le loro funzioni e le loro sedi. Costoro che, tra personale di ruolo egeo (200) e personale a contratto (136), sono in tutto appena 336 unità, dopo essere stati esposti, a seguito dell’armistizio, ad inenarrabili sofferenze per la durezza dei tedeschi, e dopo essere stati, a seguito della liberazione, strappati dai loro posti, ove pure avevano svolta tanta utile opera a servizio della Patria e della civiltà, vivono oggi in condizioni ben dure, di abbandono materiale e morale, mentre, in definitiva, non dovrebbe essere difficile riassorbirli e distribuirli tra le varie Amministrazioni dello Stato. Costituiti in Comitato per la gestione amministrativa delle Isole italiane dell’Egeo, hanno posta la questione e formulato delle sollecitazioni, ricevendo promessa di opportuna considerazione, ma sin’oggi tali promesse non si sono tradotte in realtà. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Perrone Capano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se non creda opportuno che il personale subalterno in servizio di avventiziato da oltre un decennio presso varie Amministrazioni statali (e in particolar modo presso i Ministeri della grazia e giustizia, dei lavori pubblici e delle finanze e tesoro) riceva una definitiva sistemazione in ruolo, per modo che in tempi così calamitosi, come gli odierni, tanti laboriosi ed onesti padri di famiglia cessino di tribolare per il loro domani. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Perrone Capano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, perché – con riferimento al decreto legislativo presidenziale 6 dicembre 1946, n. 424, recante disposizioni sulla disciplina degli immobili adibiti ad uso di albergo, pensione o locanda – dica se non riconosca l’opportunità di sottoporre a riesame i criteri informatori di quella legge e di proporne la modifica nei sensi:

1°) che la proroga resti esclusa quando l’entità dei danni subiti dall’immobile in dipendenza della guerra riveli l’impossibilità che l’albergatore li ripari e se ne rivalga nel tempo concessogli;

2°) che, del pari, la proroga resti esclusa nei casi nei quali il proprietario dell’immobile intenda gestire lui l’albergo e dimostri capacità e mezzi economici e tecnici per i miglioramenti e per la gestione stessa;

3°) che, a scelta del proprietario dell’immobile, il canone sia adeguato ad una misura fissa di percentuale sugli incassi, facendosi applicazione così, in materia alberghiera, dello stesso criterio adottato in tema di proroga dei contratti agrari col decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, n. 435;

4°) che, infine, siano esclusi dalla ulteriore proroga di anni tre gli alberghi che abbiano subito danni da requisizioni.

«Le reclamate modifiche si ispirano al criterio di contemperare i diritti della proprietà e della impresa e non vorrà disconoscere, l’onorevole Ministro, che ad entrambi quei diritti si deve, in clima di rinnovata fiducia della privata iniziativa, adeguata tutela. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Perrone Capano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze e tesoro, dei lavori pubblici, dell’industria e commercio e dell’agricoltura e foreste, per conoscere il piano di impiego delle somme costituenti il fondo lire U.N.R.R.A., e l’utilizzazione effettiva da parte dei Ministeri cui l’interrogazione è rivolta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Dugoni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non ritenga opportuno intervenire perché il dottor Lorenzo Filippone, che è stato assegnato come segretario generale al comune di Pavia, possa prendervi servizio, vincendo la ingiustificabile resistenza di quell’Amministrazione comunale – o, se questa persista a ribellarsi al Ministero – non creda di provvedere a trasferirlo in altra sede, previa assicurazione che l’invio di un funzionario di altra città o regione sia accolto senza ostruzionismo, che offendono il senso dell’unità italiana e il prestigio del Governo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«BASILE».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se e quali provvedimenti abbia adottato in merito alla sistemazione a ruolo del personale contrattista delle Ferrovie dello Stato in relazione al progetto proposto da tempo dal Ministro dei trasporti, e per conoscere, in ogni caso, se non intenda, e per quali motivi, addivenire alla auspicata sistemazione del detto personale, il quale da parecchi anni dà le migliori energie in favore dell’Amministrazione, per fare cessare, tra l’altro, un trattamento non consono all’Amministrazione stessa e una inutile e dannosa finzione introdotta dal fascismo, che ha istituito questa categoria unicamente per fare credere alla riduzione del numero dei ferrovieri. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Bulloni, Cappugi».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.55.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

  1. – Svolgimento della seguente interrogazione:

Spano (Pratolongo, Pellegrini, Longo).

Ai Ministri dell’interno e degli affari esteri.

– Per conoscere per quale motivo non sono state prese le opportune precauzioni allo scopo di proteggere la sede della Delegazione jugoslava presso la Commissione consultiva per l’Italia; e per sapere quali misure sono state adottate a carico dei funzionari sui quali ricade la responsabilità dei deplorevoli incidenti di lunedì, 10 febbraio.

  1. – Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
  2. – Esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.