Come nasce la Costituzione

Come nasce la Costituzione
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POMERIDIANA DI VENERDÌ 7 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LIV.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 7 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TUPINI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Zuccarini                                                                                                         

Lussu                                                                                                                

Capua                                                                                                               

La seduta comincia alle 16.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Pignedoli, Macrelli e Caristia.

(Sono concessi).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE; L’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri ha trasmesso i decreti legislativi luogotenenziali n. 545 e n. 546 del 7 settembre 1945, relativi all’ordinamento amministrativo della Valle d’Aosta e alle agevolazioni economiche e tributarie a favore della Valle stessa, perché – a norma, rispettivamente, degli articoli 23 e 6 dei decreti medesimi, siano sottoposti all’Assemblea.

Ritengo che sui due provvedimenti possa riferire la Commissione per la Costituzione. Se non vi sono osservazioni in contrario, così rimarrà stabilito.

(Così resta stabilito).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Zuccarini. Ne ha facoltà.

ZUCCARINI. Prospetterò, onorevoli colleghi, alcune esigenze della democrazia e mi riferirò a qualche esperienza. Spero di non ripetere cose già dette. Non mi soffermerò su questioni di principio.

Noi repubblicani non abbiamo mai considerato la Repubblica come pura forma, ma ci siamo sempre preoccupati che la Repubblica fosse anzitutto sostanza. È in tale senso che mi propongo di intervenire in questa discussione.

Incomincerò coll’osservare come sia spiacevole che la partecipazione del pubblico a questo dibattito sembri molto scarsa. La stampa in genere non si occupa del nostro progetto, e quella che se ne occupa lo fa spesso con la preoccupazione di svalutarlo e di criticarlo.

Sappiamo benissimo a che mirano tali svalutazioni e dobbiamo preoccuparcene. Dobbiamo perciò dare, almeno qua dentro, l’impressione di un grande spirito democratico ed anche di una grande volontà di realizzazione. È augurabile che la partecipazione degli onorevoli colleghi a queste discussioni sia in avvenire molto pili numerosa. Bisogna riguadagnare il tempo perduto, e richiamare sulle nostre discussioni, con una più viva e seria partecipazione, l’attenzione e l’interessamento del Paese. Se questa discussione si fosse fatta 7 mesi addietro, forse noi saremmo molto più avanti nel nostro lavoro ed avremmo assolto meglio la nostra funzione. Non lo abbiamo fatto e recriminare è perfettamente inutile. Siamo di fronte ad un progetto completo ed ad esso dobbiamo ora fermare la nostra attenzione, con l’intento di migliorarlo, di adeguarlo alle nuove necessità e, soprattutto ai bisogni di democrazia del popolo italiano.

Si è detto che questo è un progetto di compromesso. Può anche essere vero. Compromesso a parte, non è ciò che mi preoccupa, quanto invece il fatto che alla formazione del progetto stesso hanno contribuito due concezioni, due diverse preoccupazioni: quella della libertà e quella dell’autorità. Ebbene, bisogna che il principio di libertà sovrasti al principio di autorità, perché se un pericolo c’è, è solo nella possibilità che il principio di autorità prevalga sul principio di libertà.

E dico anche il perché. Non siamo ancora completamente usciti dal sistema fascista. Sono ancora vive le correnti autoritarie e le volontà totalitarie. Tutto l’apparato, il vecchio apparato fascista, è in piedi. Le critiche stesse che si volgono alla Repubblica, non sono critiche che investano anche il vecchio sistema. Anzi, mirano a rivalutarlo e a giustificarlo e sono adoperate contro il sistema che noi vogliamo instaurare in Italia. (Applausi a sinistra). Bisogna preoccuparsene. E bisogna intanto preoccuparsi di realizzare veramente quella democrazia, per la quale qua dentro manifestiamo tutti le stesse buone intenzioni.

Purtroppo è mancata e manca in questo progetto una chiara delimitazione dei compiti e delle funzioni dello Stato. Ci siamo fermati alla forma, al meccanismo esteriore, e non ci siamo preoccupati a sufficienza dell’organizzazione interna, delle sue strutture, del modo in cui il nuovo organismo repubblicano dovrà essere formato.

Questa nuova Costituzione potrà inserirsi sul vecchio sistema?

Usciamo dal fascismo e dobbiamo preoccuparcene, anzi doveva essere questa la sola preoccupazione, prima di addentrarci nel lavoro di preparazione del nuovo sistema di libertà: di sapere come e perché eravamo caduti nel fascismo. E saperlo, non tanto per noi che abbiamo assistito al suo sorgere ed affermarsi, quanto per gli altri molti che oggi partecipano ai nostri lavori e che non hanno preso parte alle vicende del passato. Occorreva soprattutto sapere che cosa dei vecchi sistemi, parlamentare e fascista, avesse male funzionato e perché avesse male funzionato. Quando due anni addietro il Ministero per la Costituente creò una speciale Commissione con compiti inizialmente non ben precisati, e volle escluso dai compiti di tale Commissione quello puramente politico (mentre il suo compito avrebbe dovuto essere proprio quello di preparare progetti costituzionali dal momento che la Costituente era cosa ormai decisa, ed evidentemente si parlava di Costituente, appunto perché il vecchio regime, anche quello parlamentare, non aveva funzionato bene), io dissi in una delle prime riunioni di quella Commissione che, dal momento che le si volevano assegnare compiti solamente di inchiesta, essa avrebbe potuto giovare ugualmente al lavoro dei costituenti di domani, ricercando come e perché quei vecchi istituti parlamentari avessero male corrisposto e ci avessero invece condotti al fascismo. In questo modo si sarebbe reso un grande servizio ai costituenti, perché fossero bene avvertiti di non cadere, nella loro opera costruttiva, nei vecchi errori e verso gli stessi risultati.

Bisogna vedere come e perché il nostro vecchio sistema parlamentare è caduto ed è precipitato nel fascismo.

La crisi che ha portato al fascismo non è stata nemmeno una crisi particolare all’Italia. È avvenuta prima in Italia, ma si è successivamente determinata nella maggior parte degli Stati di Europa. È necessario, quindi, anche estendere l’indagine.

Ci siamo decisi per il sistema parlamentare. Essendo mancate le discussioni preliminari, è naturale che ci siamo volti istintivamente verso la vecchia costruzione. Ma il sistema parlamentare è un sistema vecchio: vecchio di due secoli. L’onorevole Cevolotto ieri metteva in dubbio che fosse il miglior sistema e che debba considerarsi il sistema unico e definitivo. Probabilmente le necessità democratiche di domani esigeranno altra soluzione e altro sistema. Tuttavia lo abbiamo adottato e ci dobbiamo preoccupare che risponda alle necessità per le quali lo abbiamo creato. Ora, questo vecchio abito dell’Ottocento è oggi evidentemente un abito troppo piccolo per un organismo che, come lo Stato, è diventato frattanto troppo grosso. Questo è il suo difetto fondamentale. Bisogna, quindi, vedere di adattarlo e magari di allargarlo, ma se vogliamo fare la democrazia allargarlo non basterà: dovremo anche sottoporre il corpo dello Stato ad una energica cura di dimagrimento!

Il sistema parlamentare, prima ancora di precipitare nel fascismo, era già oggetto di molte critiche ed erano critiche in senso democratico. La necessità di una sua sostanziale riforma e anche di nuovi ordinamenti, d’una diversa organizzazione dello Stato, fu ampiamente dibattuta nel periodo dal 1914 al 1915 e successivamente all’altra guerra. Si era allora parlato di democrazia diretta, di rappresentanza degli interessi; specialmente si era lamentata la insufficienza del sistema a rappresentare bene, completamente, la volontà popolare. Si osservava come, attraverso il sistema di elezioni, la sovranità dei cittadini si riducesse alla sovranità di pochi minuti, all’atto cioè della deposizione del voto, e che, poi, tutto passasse senza una loro effettiva partecipazione alla vita dello Stato. Più che un esercizio, era una abdicazione di poteri. Gaetano Mosca, 60 anni addietro, lo aveva già notato, ed era giunto alla constatazione che, in fondo, la vita politica risultava governata da pochi gruppi, che erano sempre quelli. Di qui la sua nota teoria della classe politica. Nel nostro sistema parlamentare, non era questo il solo difetto, ve n’erano altri, e il difetto sostanziale era nel suo ordinamento accentrato, nel fatto che tutti i poteri vi partivano dall’alto per scendere verso il basso. Quel sistema, che inizialmente, finché i compiti dello Stato erano molto ridotti, rispondeva sufficientemente, non rispose più, man mano che i compiti dello Stato si vennero estendendo, quando lo Stato dalle sue funzioni puramente politiche passò anche a compiti economici e sociali. Il fatto che questi istituti parlamentari partissero proprio da una concessione sovrana, stabilendo un sistema di poteri per cui dall’alto si scendeva verso il basso e l’alto controllava e faceva funzionare la macchina, anche quella elettorale, aveva portato lo Stato ad un sistema di dittature, alla formazione nello Stato di gruppi oligarchici. La dittatura era, cioè, già in atto in una infinità di funzioni dello Stato.

Nonostante l’estendersi del suffragio, la sovranità del cittadino si riduceva ogni giorno di più; appunto perché il centralismo si faceva più rigido, i compiti dello Stato diventavano sempre più complessi ed invadenti, e la burocrazia, che è lo Stato nello Stato, si ingrandiva maggiormente ogni giorno. Proprio per questo il sistema parlamentare determinò il sorgere e lo svilupparsi di formazioni con volontà dittatoriali. Molto spesso, anzi quasi sempre, avvenne – giacché l’organizzazione dei partiti si modella istintivamente sulla organizzazione dello Stato, cioè dell’organo sul quale essi devono esercitarsi – che i partiti assumessero caratteri quasi dittatoriali. È un fenomeno questo che si verificò non solamente in Italia, ma in tutti gli stati centralisti dell’Europa. Il Michels fin dal 1915 fece un’acuta diagnosi di tale fenomeno, e scoprì fin da allora che si andava verso il Duce, che anzi il Duce era già formato, implicito nell’organizzazione sindacale e in quella dei partiti. Egli aveva particolarmente visto il fenomeno in Germania, però con molti riferimenti – egli viveva allora tra noi – all’Italia.

E se siamo precipitati nel fascismo è appunto perché, tale era lo sviluppo logico del sistema. Non restava infatti che l’assalto al potere. Quando tutti i poteri si assommano nello Stato, il colpo di mano sullo Stato è quasi inevitabile.

Dopo la guerra 1914-1918, ci fu, come adesso dopo questa guerra per tutti gli Stati, proprio in relazione alle idee, ai principî di democrazia per i quali la guerra fu combattuta e vinta, il sorgere di nuove Costituzioni in molti degli Stati d’Europa, nuove Costituzioni ispirate a principî democratici, in alcuni casi con finalità molto larghe e socialmente molto avanzate. Vedremo quale fu la loro sorte perché formi oggetto di riflessione.

L’Italia fu la prima in cui il parlamentarismo sboccò nella dittatura. Venne poi la Spagna, e vennero altri Stati. Quello che però è sintomatico e di cui ci dobbiamo preoccupare in questo momento, perché la situazione è, su per giù, la stessa, è che pure queste nuove Costituzioni parlamentari, formate in base a nuovi principî, dettate da un nuovo spirito, aperte anche alle esigenze sociali, anche queste, dico, ad una ad una precipitarono nella dittatura. Per quali motivi? Il principale, se non unico, motivo fu che le nuove Costituzioni si innestarono sulla vecchia organizzazione dello Stato, e prima di iniziarsi non provvidero a smantellare tutto il vecchio apparato. Così stiamo per fare ora noi. Facciamo la Costituzione, senza esserci preparati ad evitare l’inserimento della nuova Costituzione democratica nell’organismo dello Stato, che è rimasto quello che era: conservatore, autoritario e burocratico. È questa la nostra preoccupazione maggiore.

Valgano gli esempi. Fra gli Stati che ebbero una buona Costituzione c’è stata anche la Germania; ed è l’esempio che ha avuto l’epilogo più disastroso.

È accaduto spesso che durante le nostre discussioni di Commissione fosse citata ad esempio la Costituzione di Weimar. Anche l’onorevole Mortati ebbe a dire che si tratta di una bella Costituzione. Ed era forse una Costituzione più avanzata, di quella di cui stiamo discutendo il progetto, nel campo sociale.

Ebbene anche quella Costituzione, la quale ebbe a presidio non forze reazionarie, ma, inizialmente, forze socialiste, operaie, forze che si erano educate per lungo tempo alla dottrina del marxismo (vero è che durante la guerra non avevano saputo dimostrare la loro efficienza!) anche quella Costituzione è fallita, come tutte le altre. Ha portato anzi con la sua caduta all’esperimento peggiore, il più dannoso che ci sia mai stato, per tutta l’umanità. Perché questo? Non vi sembri strano che io insista su questo punto, anche a costo di poter sembrare noioso. Perché dunque quella Costituzione è fallita? Non vi sono dubbi. Appunto perché non provvide a demolire la vecchia struttura burocratica e autoritaria dello Stato. Si fece una Costituzione in cui erano sancite tutte le libertà, in cui si erano affermate persino quelle autonomie comunali che non si sono volute inserire nella nostra. C’era già il precedente degli stati federali che diventavano stati regionali e che, quindi, godevano di una relativa autonomia. Ebbene, che cosa ferì la Costituzione? Non solamente il centralismo, cioè la vecchia organizzazione burocratica dello Stato rimasta in piedi, ma anche il fatto (e qui il riferimento deve farci meditare su una parte della nostra Costituzione, una parte che mi sta particolarmente a cuore, cioè quella della Regione per la quale si è contemplato qualche cosa di simile) che pure in Germania, come si pensa da noi nelle autonomie delle regioni, che vennero accompagnate con la creazione di uno speciale Presidente, si inserì, e non a lato con lo stesso grado, con la stessa autorità, come si pensa di fare in Italia, ma in sottordine, un rappresentante del Governo centrale e, accanto a questo, altri funzionari ad esso subordinati. Avvenne così, che per quanto, in certo modo, il rappresentante dello Stato fosse un subordinato di fronte al Presidente della Regione, praticamente la parte del rappresentante dello Stato diventò determinante e finì coll’uccidere di fatto le autonomie locali.

Ma ci furono altri motivi che dovete tenere presenti. Lo dico per i molti che si preoccupano che venga intaccato il centralismo, confondendo il centralismo, cioè l’unità di partenza di tutti i poteri, con l’unità nazionale. Uno dei motivi fu che si provvide nel 1919 all’applicazione di un nuovo sistema finanziario unitario per tutto il Reich, e si crearono anche gli speciali funzionarî per l’applicazione di tale sistema. Avvenne così (è una considerazione che forse avrei potuto risparmiarmi, ma che è tuttavia utile sia richiamata fin da ora) che si diede vita nelle regioni e nei comuni a due specie di amministrazione: una autonoma, che era quella del comune e della regione, ed un’altra subordinata, dello Stato, che inevitabilmente interferiva nell’amministrazione autonoma.

Vi furono anche altri motivi: uno tra i principali l’estensione che fu data alla legislazione sociale, ed anche lì con criteri centralisti. E siccome la legislazione era molto ampia, anche essa contribuì a determinare l’asservimento, anzi l’annullamento di tutte le autorità locali e il concentramento di poteri sempre più assoluto e rigido da parte delle autorità centrali. Con tale organizzazione dello Stato, come avviene sempre per tutte le organizzazioni che vogliono operare nello Stato – ecco la questione dei partiti! – anche i partiti si organizzarono allo stesso modo; era infatti l’unico modo in cui essi potessero organizzarsi per influire sullo Stato, e si organizzarono infatti dittatorialmente e con l’intenzione di conquistare lo Stato. I partiti erano molti, finché il partito più audace, quello che era riuscito ad acquistare più forza, un bel giorno diede l’assalto alla «centrale» dello Stato, confiscando tutte le «centrali» degli altri partiti: e si ebbe il partito unico, la dittatura.

Passo subito all’altro esperimento del dopoguerra relativo al sistema parlamentare, che ci può insegnare qualche cosa, e aiutare ad orientarci in fatto di democrazia.

Sono crollate molte delle istituzioni parlamentari, e sono crollate quasi tutte quelle che si sono istituite in un sistema centralistico dello Stato, cioè nell’unità dei poteri, nell’unità dei comandi, nell’unità dell’amministrazione, che ha voluto dire centralismo e burocrazia. La burocrazia in Italia si è sviluppata troppo largamente, perché di essa, del suo sviluppo, del suo funzionamento non ci si debba specialmente preoccupare. È questa, infatti, la parte più importante dell’organizzazione interna dello Stato che abbiamo trascurata completamente, mentre, secondo me, doveva essere studiata contemporaneamente alla formulazione del nostro progetto di Costituzione.

Ora, mentre crollarono tutti quei sistemi parlamentari più o meno democratici, che ebbero il torto di innestarsi sulle vecchie strutture dello Stato e di mantenere allo Stato tutte le vecchie attribuzioni e tutti i vecchi impiegati – e noi in Italia non abbiamo fatto una buona epurazione, né sappiamo ancora quanta parte della nostra burocrazia sia fedele alla Repubblica e possa servirla! – mentre caddero tutti quei sistemi, ci furono tuttavia – ed ecco l’altro lato della questione che dobbiamo tener presente per ispirarci nelle modifiche da apportare alla nostra Costituzione – vi furono altri Stati che invece si salvarono, che resistettero alla dittatura, mantennero, sia pure attraverso molte difficoltà, la libertà dei cittadini, la democrazia insomma, se è vero che la libertà del cittadino è democrazia. Ebbene, esaminateli questi Stati, vedete come sono organizzati, come si sono sviluppati. Non mi riferisco all’esempio di oltre Atlantico, agli Stati Uniti, che potrebbe sembrare lontano per quanto sia probativo; mi riferisco agli esempi europei. L’Inghilterra ha un parlamento che è sorto, si è sviluppato attraverso le autonomie locali e che si mostra capace di tutti gli esperimenti anche sociali, ma in cui le autonomie sono sempre state la base della sovranità, in cui la sovranità ha per base la dignità del cittadino, il senso di responsabilità del cittadino, la volontà cioè dei cittadini di essere liberi. In democrazia occorre anche una volontà del cittadino! Ma c’è anche il Belgio, che ha un sistema di autonomie comunali. Non vi parlerò della Svizzera – che, essendo repubblica, per qualcuno di voi potrebbe essere argomento di ironici commenti – unico angolo di vera durevole libertà rimasto in Europa; non della Svizzera dunque, ma dell’Olanda, della Danimarca, degli Stati scandinavi. Ebbene, tutti questi, Stati pure non avendo raggiunta la perfezione repubblicana ed essendo democrazie ancora spurie, sono tuttavia fondati su un sistema di autonomie locali e di autonomie regionali, e in tali autonomie hanno trovato una valida garanzia per la continuità del loro sistema parlamentare. E quelle autonomie non hanno affatto indebolito e tanto meno distrutto la loro unità nazionale! Anzi, ha permesso ai loro popoli di resistere più dignitosamente e unitariamente alle dittature anche nei periodi più tragici di questa guerra. Mentre la Francia, già minata nel suo parlamentarismo, cadde subito, ed il Parlamento rinunciò ai suoi poteri proprio nel giorno della disfatta, quando avrebbe dovuto dimostrare la propria volontà di autonomia, tutti gli Stati che ho citato, invece, anche dopo essere stati invasi e soggiogati, hanno saputo mantenere la loro dignità e il loro senso di autonomia, e hanno offerto all’invasore una resistenza molto maggiore. Qualcuno è riuscito persino a salvarsi dalla guerra, come la Svezia e la Danimarca; tutti, ad ogni modo, hanno dato una prova di dignità molto superiore in confronto agli altri Stati parlamentari.

Non è una semplice coincidenza questa a cui mi sono ora riferito. Tra i sistemi parlamentari che sono stati travolti e quelli che hanno resistito c’è infatti una notevole differenza di struttura. Si tratta di due sistemi parlamentari, di cui uno, il primo, può definirsi costituzionalmente malato; il secondo si potrebbe invece indicare come costituzionalmente sano. E i parlamenti sani sono proprio quelli fondati sopra una tradizionale e attiva amministrazione autonoma.

È in vista della impostazione che dobbiamo dare alla nostra Costituzione, che io mi sono riferito alle esperienze parlamentari del passato recente. Se vogliamo garantire la libertà, dobbiamo preoccuparci di estendere la sovranità. Il problema della sovranità non si risolve coll’atto elettorale che si ripete una volta ogni tanto; la sovranità si realizza, si perfeziona, diventa consapevolezza, quanto più si esercita e quanto più vasti sono i campi del suo esercizio. Le autonomie locali sono per questo, perché estendono l’esercizio della sovranità del cittadino, presidio della libertà.

Si è detto tante volte che l’ambiente, il costume, le abitudini, formano la dignità, il senso di responsabilità del cittadino. È nel comune, è nel piccolo ambiente della vita locale che i cittadini si educano. Ed allora preoccupiamoci anche di ciò: di formare dei cittadini. E non guardiamo ai pericoli di forme di decentramento che solamente per spirito di conservazione, diremo così, anzi per aspirazione verso il passato, oggi si combattono. È da deplorarsi che nel manifestare diffidenza e ostilità al decentramento – anche nelle forme modeste in cui è stato concepito per l’Italia – partecipino anche quegli amici o colleghi che dovrebbero sentire (e che certamente sentono) vivo il desiderio della democrazia, così come noi lo sentiamo.

Certe prese di posizione sono inconcepibili. Io sono poco entusiasta, per esempio, del progetto di regione che abbiamo inserito nella Costituzione; eppure lo accetto: lo accetto come un acconto per l’avvenire, come un inizio di qualche cosa, di molto più importante, che deve stare alla base della nostra revisione costituzionale: cioè come punto di partenza per una radicale riforma burocratica dello Stato italiano.

Tutti gli attacchi che si fanno alla regione, comunque siano manovrati, sono solo ispirati dalla preoccupazione di mantenere quello che c’è, e di non mutare nulla nelle strutture del passato.

Ebbene, amici della sinistra, preoccupiamoci anche degli scopi reconditi di questa avversione alle autonomie, e non avanzate, proprio voi, pericoli di separatismo, di sbriciolamento dell’unità dello Stato, perché sono preoccupazioni ridicole. Ridicole, mi si permetta di dirlo, non solamente riferendosi ai sistemi regionali, ma riferendosi allo stesso federalismo. Quando si parla, cioè, del federalismo come di un pericolo di disgregazione, si dice una grande sciocchezza. La realtà storica dice precisamente il contrario. La federazione ha sempre realizzato una maggiore e più salda unità.

Non c’è un esempio solo in cui la federazione non abbia creato vincoli di solidarietà e di maggiore saldezza. Datemi un esempio di uno Stato solo che, attraverso il regionalismo o attraverso la federazione, si sia sbrindellato. Le vostre stesse costituzioni, o amici comunisti, consacrano il sistema della federazione. Prendete la Serbia, la Jugoslavia: là ci sono regioni, anzi stati, che sono molto più piccoli anche delle regioni più piccole che si pensa di creare in Italia.

MAFFI. Questi preesistevano alla federazione.

ZUCCARINI. Si dice: qui in Italia si stanno manifestando in questo momento troppi particolarismi, ci sono troppe aspirazioni regionali, troppe richieste di creare nuove regioni.

Ora, lasciatemi dire: non penso che tali manifestazioni, dacché ci sono, non possano anche in ogni caso essere contenute dalla nostra saggezza, dalla nostra previdenza, dal nostro senso di responsabilità. Non credo che tali manifestazioni di particolarismo possano indebolire l’unità d’Italia. Sono manifestazioni – lasciatemelo dire – dell’insopportabilità del sistema burocratico ed accentratone d’Italia; sono rivendicazioni di diritti che sono stati misconosciuti per 60, anzi per 80 anni. E infine ci si deve rendere ragione che tali movimenti hanno, in fondo, questo di buono: che non sono più delle petizioni allo Stato, come ci siamo abituati a vedere per ottenere aiuti, sussidi e concorsi; sono volontà nuove che, bene o male, sorgono in Italia per chiedere di fare da sé e con l’intenzione di fare meglio di quanto i capi non abbiano saputo e probabilmente non sapranno mai fare.

Ad ogni modo, vediamo di intenderci anche su tale questione: la Regione, così come è stata creata, con quelle quattro o cinque legislazioni differenziali a me non fa affatto piacere. Di legislazione io ne avrei voluta, una e di un solo tipo. Fui proprio io a proporre in tal senso un emendamento: che allo Stato appartenesse tutto quello che riguarda lo Stato e tutto il resto passasse alle amministrazioni regionali e alle amministrazioni locali. Quindi, non quattro legislazioni, ma una legislazione: lo Stato che fissa insieme alle materie, il campo della sua competenza per tutto quello che ha carattere unitario nazionale, e lascia poi che gli altri organi provvedano invece agli interessi particolari. Non è stato mai detto, infatti, che un interesse particolare debba sempre diventare un interesse nazionale. Sarà questione, quindi, di fissare i limiti, le linee degli interessi particolari, non già di sopprimerli o di conculcarli.

Ed intendiamoci bene anche su un altro lato della questione: il decentramento.

Si dice: autonomie no; però dobbiamo decentrare, siamo invece disposti al decentramento. Ma cosa intendete per decentramento? Siamo sempre qua: intendete amministrazioni che sorgano dal basso, che vadano verso l’alto e amministrino esse la parte che le riguarda? Oppure pensate ad un decentramento burocratico?

E se pensate ad un decentramento burocratico, allora, lasciatemi osservare che anche il Prefetto di cattiva memoria diventa in tal modo un organo di decentramento, anzi non mi meraviglierei, che con tale decentramento, si arrivasse addirittura al commissario comunale.

Intendiamoci bene, quindi, anche sulla questione del decentramento, tenendo presenti le osservazioni che ho fatto in precedenza.

La sovranità deve partire dal basso e salire verso l’alto. Ecco il carattere differenziale tra i due sistemi parlamentari a cui mi sono riferito, quello che è crollato e l’altro che ha saputo resistere. L’unità che parte dal basso, che si basa sulle autonomie locali ed ha la possibilità di espandersi ancora verso campi più vasti, è una autorità stabile e progressiva. L’unità che parte dal centro per diffondersi verso il basso è invece una unità limitata, che non va verso il più grande, ma verso il più piccolo.

Il problema della regione, il problema delle autonomie, a cui io qui accenno solo in senso generale (la discussione particolare la faremo dopo), si innesta in un altro problema, che è il problema legislativo.

Io avrei voluto che questa Assemblea, nei sette mesi che ha funzionato solo per fare discorsi sulla crisi ministeriale senza grandi risultati, avesse funzionato legislativamente. Allora molti di voi si sarebbero certamente resi conto della impossibilità materiale dell’Assemblea stessa di provvedere, non dico utilmente, ma solo passabilmente all’enorme compito legislativo che le verrebbe affidato, data appunto la complessità dei compiti dello Stato.

Questo è il problema. Volete un’Assemblea che funzioni? Volete un Parlamento, cioè un sistema parlamentare, che legiferi bene sulle cose essenziali della vita nazionale? Allora bisognerà che anche nello Stato si passi all’applicazione del principio della divisione del lavoro. In quanto a competenza, lo Stato, l’Assemblea legislativa cioè, potrà assolvere utilmente a compiti di carattere generale. E ve ne sarà già abbastanza per le sue discussioni e per le sue deliberazioni. Ma tutto il resto?

Adesso andiamo avanti con i decreti-legge e, quindi, della complessità di questa materia non ci rendiamo sufficientemente conto. Ma prendete un momento la Gazzetta Ufficiale e vedrete quante leggi e quanti decreti si trovino tutti i giorni inseriti in quel foglio.

Ditemi onestamente: con tale mole di lavoro legislativo quale Camera potrà assolvere utilmente la sua funzione? Se voi non vi preoccuperete perciò di ridurre i compiti dello Stato a quelli essenziali, per modo che le sue discussioni e le sue deliberazioni siano proficue, non avrete risolto, nel sistema parlamentare, il sistema della organizzazione migliore della vita del Paese.

Questa è la realtà, contro la quale non c’è da dire niente, perché è quella che noi tutti conosciamo e conosceremo di più, se un giorno ritorneremo qui dentro in veste di Deputati.

Occorre una divisione del lavoro, e per arrivarvi occorre snellire, suddividere, snodare la macchina dello Stato. Altrimenti, dal momento che ci proponiamo di affidare allo Stato sempre nuovi e maggiori compiti sociali, il sistema parlamentare non funzionerà più del tutto. Volete che il sistema funzioni? Rendetelo semplice e lo renderete rapido ed anche competente; liberatelo di tutta la legislazione particolare che oggi costituisce i nove decimi della legislazione. Del resto se la Camera una competenza può avere, sarà solo nelle questioni generali. Voi potrete benissimo qua dentro decidere della riforma agraria, fissandone i principî, fissandone le modalità, i metodi. Potrete fare la riforma industriale, potrete dettare le leggi per tutta la vita nazionale. Ma le leggi particolari, tutto il resto, quello che riguarda una regione o l’altra, quello che riguarda una zona o l’altra, non sono di vostra competenza. Se anche vorrete tale competenza non potrete averla, perché se siete uomini politici e quindi infarinati necessariamente di tutto un po’, competenti su questioni particolari e specifiche non lo siete! Anche se fra voi ci fossero dieci o cinquanta competenti su ogni questione, vi sarebbero sempre gli incompetenti tra voi, cioè una stragrande maggioranza d’incompetenti, che dovrebbero risolvere tali questioni.

Non mettiamoci quindi, su una strada sbagliata; non facciamo un Parlamento per metterlo nella impossibilità di funzionare. Semplifichiamo lo Stato, miglioriamo i suoi organismi, pensiamo a nuovi compiti e alle nuove necessità, e soprattutto pensiamo a creare per questi varî compiti gli organi adatti. E siano essi organi rappresentativi!

Ho già detto che la democrazia non consiste nella meccanicità del voto, e che il rimprovero che è stato fatto più spesso al sistema parlamentare è proprio quello che esso non risolve il problema delle competenze.

Quando si è parlato di rappresentanza di interessi, se ne è parlato proprio in tal senso. È giusto che gl’interessi economici trovino gli organi che li rappresentino. Si tratta di vedere come e dove. In sede di Commissione, mi sono dichiarato contrario alla rappresentanza degli interessi, quando si pensava di fare del Senato, della seconda Camera, l’organo di rappresentanza di tali interessi. Io dissi: no. Perché? Perché gli interessi sono i più svariati ed una Camera di rappresentanza di interessi, proprio appunto perché gli interessi non sono gli stessi – e se ciascuno che vi sia interessato conosce benissimo la sua materia non conosce quella degli altri – sarebbe nel suo complesso una Camera d’incompetenti. Vi avverrebbe, cioè, che su ogni interesse sarebbe la maggioranza degli incompetenti a decidere.

Ed allora anche per gl’interessi bisognerà pensare a qualche cosa di diverso, cioè a qualche cosa che corrisponda anche a tale esigenza, perché è pure un’esigenza quella che siano i competenti e gli interessati, a decidere dei loro interessi, e sempre nel campo della loro specifica competenza.

Nel progetto di Costituzione, per esempio, si parla di un Consiglio economico. È una cosa messa là senza una chiara definizione. Non si sa cosa voglia essere, come lo si debba formare, né come funzionerà.

Bisognerà creare non già un Consiglio economico, ma parecchi Consigli economici, e su ogni materia. Vi saranno così i Consigli dell’agricoltura, i Consigli del commercio, quelli dell’industria e del lavoro. E bisognerà che siano organi di rappresentanza destinati a rendersi utili al lavoro legislativo e formati intanto da rappresentanze elettive.

Lo stesso dicasi per i Ministeri. Io cercherò oramai, di riassumere, per non tediarvi troppo. La questione dei Ministeri fu incidentalmente sollevata dall’onorevole Calamandrei, il quale disse: e dei Ministeri cosa ne fate? È un’altra questione molto importante e riguarda tutta l’organizzazione dello Stato. C’è qualche domanda da farsi sempre in relazione agli interessi. Un Ministero politico della giustizia è compatibile intanto con la nuova Costituzione che consacra l’indipendenza della Magistratura? Io dico di no. Ma gli altri Ministeri, i Ministeri propriamente economici, devono restare dei Ministeri politici o diventare invece dei servizi veri e propri, da cui la politica esuli ed in cui gli interessati siano in qualche modo rappresentati? lo ricordo in questo senso un progetto del professore Ghino Valenti, che era un competente in materia di agricoltura e che propendeva pure per la creazione di Consigli economici regionali di agricoltura. Altra questione è quella degli Istituti della previdenza, dell’assistenza, dell’assicurazioni sociali e contro gli infortuni, ecc. Debbono essi restare organismi dello Stato, devono essere amministrati dallo Stato, con patrimoni in mano dello Stato? O invece vogliamo andare incontro alle aspirazioni dei lavoratori e fare amministrare questi organi dagli stessi lavoratori e metterli a servizio della causa del lavoro? Questi sono altri problemi essenziali della nostra Costituzione, problemi attraverso i quali, quali siano i compiti che vorremo affidare allo Stato, possiamo andare verso tutte le mète sociali.

Gli amici di quella parte (Indica l’estrema sinistra) sanno che noi repubblicani ci sentiamo al loro fianco in tutte le rivendicazioni del lavoro, perché crediamo non solo nella santità del lavoro, ma crediamo altresì nel diritto dei lavoratori ad emanciparsi, a diventare padroni di sé stessi, ad essere uomini in mezzo agli uomini, e a non dipendere da nessuno. Noi abbiamo quest’alta concezione del lavoro: che i lavoratori debbano raggiungere la loro emancipazione, attraverso i loro sindacati e le loro libere associazioni. Noi vogliamo che i lavoratori, nella nuova società, siano padroni di qualcosa. Ecco perché avremmo preferito che tra i doveri economici fosse affermato non il principio del lavoro assicurato, ma invece un altro principio, pure rivoluzionario, anzi altamente rivoluzionario, nel senso sociale: il diritto alla proprietà e il compito dello Stato di garantirla e di promuoverla, facendo in modo che ogni lavoratore abbia a disposizione di sé stesso, per il proprio miglioramento, un capitale che gli permetta di muoversi dove vuole e di scegliersi la via che vuole.

Ma questi sono problemi più complessi e più vasti. Noi guardiamo la sostanza, noi guardiamo la realtà che deve uscire dalle nostre deliberazioni, la realtà di una democrazia attiva effettiva e duratura.

Ho finito. Non voglio annoiarvi di più. Ho voluto parlarvi con sincerità. Diamo al popolo italiano una buona Costituzione; garantiamolo, soprattutto, da ogni pericolo presente e futuro. Questo vi chiedo e vi raccomando. Questo chiede ed attende il popolo italiano. Non altro. (Applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Lussu. Ne ha facoltà.

LUSSU. Onorevoli colleghi, dopo il discorso del collega Calamandrei io mi limiterò solamente a toccare alcuni punti puramente politici che riguardano lo Stato come costruzione democratica e poi farò solo qualche breve considerazione in risposta ad obiezioni che sono venute da diverse parti.

Qui ci rendiamo tutti conto che l’edificio costituzionale che stiamo costruendo può essere solido o debole e che la sua consistenza dipende non solo dalle parole più o meno egregiamente scritte nel testo fondamentale, ma anche, e soprattutto, dalla coscienza democratica del Paese, dal costume democratico, dalla vita che saremo in grado di suscitare attorno allo Stato. In altre parole, perché uno Stato democratico sia realmente tale è necessario che la democrazia sia realizzata nello Stato e nella società. Mettendo la democrazia degli Stati Uniti d’America di fronte alle democrazie dei molteplici Paesi dell’America latina, abbiamo un esempio di questa esigenza.

Noi intendiamo costruire uno Stato democratico, uno Stato della democrazia che viva nella democrazia, uno Stato in cui i cittadini tutti, non solo una minoranza fra di essi, vivano nello Stato, in cui tutti i cittadini, nessuna minoranza esclusa, si sentano partecipi, costruttori e difensori dello Stato.

Lo Stato liberale – chiedo scusa ai colleghi di questo partito – non era questo Stato. La nostra generazione ha assistito a parecchi crolli di Stati moderni creati con lo spirito più o meno ardente e rivoluzionario, dalle rivoluzioni del 1848 in poi, e li abbiamo visti crollare, incominciando da noi. in Italia, poi in Spagna, in Portogallo, in Austria, in Germania e infine in Francia. Mi perdonino gli amici francesi, ma anche la Francia ha avuto il suo duce e il suo fascismo, non meno ambiziosi e avventurieri e non meno miserabili dei nostri.

Perché sono crollati tutti questi Stati? Perché allo Stato erano estranee ingenti masse di lavoratori e di popolo minuto, ivi compresa quella modesta e laboriosa piccola borghesia lavoratrice e produttiva e quell’immensa parte del popolo minuto senza tessera e senza occupazione fissa Questa ingente massa politicamente composta di cittadini era effettivamente estranea allo Stato: in Italia, in Spagna, in Portogallo, anche in Austria, benché in modo un po’ differente, in Germania e in Francia; assente ed estranea ed anche ostile e nemica, perché lo Stato non era anche il loro Stato.

Ma lo Stato è di tutti – rispondono i teorici dello Stato liberale.

Lo Stato è di tutti! E che è lo Stato?

Io mi guarderò bene dal definire, con formula filosofica o giuridico-politica, che cosa sia lo Stato, perché non vorrei suscitare dissensi e contrasti da parte dei massimi costituzionalisti e cultori di diritto pubblico, che sono qua dentro, non esclusi i miei amici più vicini. Non voglio definire questo Stato, ma ho il dovere di ricordare come lo definiscono quelle correnti politiche che lo negano.

Io ricordo – e chiedo scusa ai colleghi di scuola puramente marxista, se entro nelle loro biblioteche – ricordo la polemica accesasi quasi un secolo fa attorno a questa questione teorica, in cui intervennero Marx e Bakunin, allora meno noti di oggi.

L’uno e l’altro definivano lo Stato: una organizzazione di oppressione della minoranza sulla maggioranza, uno strumento di dominio di classe; per cui appariva necessario a quei teorici, per arrivare alla vera e finalistica libertà, distruggere lo Stato, ogni forma di Stato, in ogni tempo e in ogni luogo. Poiché lo Stato è sempre questa oppressione, distruggerlo, per creare, attraverso la sua distruzione, una società senza classi, una libera amministrazione di uomini liberi ed uguali.

La polemica allora si imperniò attorno al passaggio fra la società con lo Stato, fra lo Stato distrutto ed il periodo della società senza Stato e quindi la dittatura del proletariato, concepita da Marx come il governo provvisorio, di transizione dallo Stato al non-Stato.

Non mi soffermerò qui ad esprimere i miei consensi o dissensi, consensi sulla parte critica, dissensi sulla parte teorica, costruttiva.

Per chi, in fondo, ha un cervello come il mio, suonerà stranamente difficile la possibilità di arrivare al non-Stato, a una società cioè senza burocrazia, senza un’organizzazione centrale e periferica, e rimarrà la preoccupazione che questo sistema, che vorrebbe essere provvisorio in attesa di questa società senza stato, non divenga permanente.

Non mi soffermerò su questo; e ricordo (e qui chiedo scusa ancora ai colleghi comunisti e un poco anche al collega e grande amico Nenni e al collega Basso) il concetto di Stato e di democrazia, così come sono definiti in modo estremamente chiaro, che non lascia equivoci, nello scritto Stato e Rivoluzione di Lenin, apparso prima della rivoluzione d’ottobre.

Io devo lealmente esprimere in questa Assemblea tutto il mio pensiero e credo che tutti qui dentro siano d’accordo sulla necessità di un’assoluta chiarezza. Mi sforzerò dunque di parlare un linguaggio serio e leale, e mi sforzerò di farlo senza alcuna riserva mentale, senza nessuno di quei prudenti e sapienti artifici, senza nessuno di quei nascondigli psicologici in cui erano assi i padri Molina e Escobar di buona memoria e i loro compagni, che Pascal ha immortalati nella polemica di Port-Royal.

Dirò dunque in modo estremamente chiaro il mio pensiero: lo Stato, la democrazia a cui io tengo non sono quelli illustrati nell’opera Stato e Rivoluzione di Lenin.

Peraltro, e non sono il solo, sono d’accordo con molti altri colleghi qua dentro, compresi parecchi demo-cristiani, nella critica verso e contro il cosiddetto Stato liberale. Lo Stato liberale era lo Stato di una classe, lo Stato creato dalla borghesia in una grande ora della civiltà nazionale dei paesi che entravano nella società moderna; e fu una grande conquista certamente (e certamente rivoluzionaria) in rapporto e in confronto della società feudale e teocratica sulle cui rovine si costruiva.

Ma oggi lo stato liberale sarebbe un anacronismo, sarebbe conservatore e reazionario. Esattamente allo stesso modo, conservatori e anche reazionari sono i liberali d’oggi.

BELLAVISTA. Grazie, onorevole Lussu; lei invece è progressista e oltranzista.

LUSSU. Io chiedo scusa ad un uomo come Benedetto Croce, che spero ci perdoni come noi perdoniamo a lui la sua azione politica. Un uomo della grandezza di Benedetto Croce…

BELLAVISTA. Doccia scozzese!

LUSSU. …può anche commettere degli errori politici e può essere facilmente perdonato. In Inghilterra, Bacone, nonostante fosse un pessimo cancelliere del regno, è sempre ricordato e venerato. Perché Croce rimarrà una delle più grandi personalità della cultura e della civiltà del nostro Paese, e, pur se oggi la sua azione politica è criticabile, molti giovani debbono a lui se, durante questi venti lunghi anni, hanno potuto salvare la loro coscienza, e oggi possono sedere qui nei differenti banchi.

Lo Stato liberale è fallito e indietro non si torna. Lo Stato liberale appartiene al passato. Esso, in teoria, era la casa di tutti: di tutti i cittadini e di tutti i partiti; la casa nella quale poteva a turno pacificamente e legalmente entrare, a volta a volta, un partito dopo l’altro, per poi preparare ancora ai successivi l’alloggio sicuro.

Ma, in realtà, lo Stato liberale era esclusivamente la casa della borghesia: costruita in perfetta buona fede per tutti, la borghesia se l’era riservata per sé, per i suoi figli e per i suoi nipoti.

BELLAVISTA. Perché, lei non è un borghese?

LUSSU. La stessa domanda mi fece l’altro giorno il mio barbiere. (Si ride Approvazioni a sinistra).

E tutto è andato più o meno bene per circa un secolo. Ma quando quell’ingente massa di cittadini, aventi teoricamente i diritti politici, ha potuto, bene o male, organizzarsi, riunirsi e poi incamminarsi verso questa casa, verso lo stabile del liberalismo, perché anch’essi avevano diritto all’alloggio, allora tutto si è capovolto. Io dico sempre in buona fede, così come in perfetta buona fede agiscono i proprietari di casa che sono anche inquilini i quali, non contentandosi di un solo appartamento che sarebbe per loro sufficiente, li occupano tutti, e non ne escono mai malgrado i decreti del commissariato degli alloggi.

In perfetta buona fede, ma lo Stato liberale è in crisi e crolla appunto quando questa immensa massa che vi era estranea si presenta e reclama il suo posto. Allora questa costruzione austera e gioiosa, stile rinascimento, spara da tutte le porte e da tutte le finestre. Questa è la fine dello Stato liberale e questo è l’atto di nascita del fascismo.

BADINI CONFALONIERI. Per fortuna che non c’è lei come Commissario degli alloggi!

LUSSU. Anche questa è una bellissima interruzione. Io non discuto se tutto quanto è avvenuto sia conseguenza di molti errori – e riconosco che molti se ne sono commessi e di grossi. Non ne discuto, ma tutti siamo obbligati a prendere conoscenza dei fatti compiuti, a prenderne atto e a trarne le conseguenze per la definizione dello Stato nella teoria e nella pratica.

Questo Stato liberale noi non lo vogliamo ricostruire. Non intendiamo affatto partecipare alla sua ricostruzione. Perché abbiamo chiara coscienza che se noi lo ricostruissimo, andremmo incontro agli stessi errori e alle stesse catastrofi del passato. Noi vogliamo costruire uno Stato durevole e non uno Stato effimero; uno Stato per il restante dei nostri giorni, per i nostri figli e per le nostre generazioni che verranno: lo Stato della democrazia. Intendiamo costruire lo Stato della democrazia, e la democrazia, finalmente, in Italia. Vogliamo uno Stato a sovranità popolare, pertanto uno Stato popolare, uno Stato in cui anche il proletariato, estraneo e nemico sempre in questi Paesi a civiltà occidentale, si senta anch’esso partecipe, costruttore di questo Stato, e lo consideri nei momenti più gravi come sua conquista e suo patrimonio da difendere in comune. Uno Stato democratico alla base, democratico al vertice, nelle sue organizzazioni centrali e periferiche, nel metodo, nelle realizzazioni e nelle finalità. Uno Stato della maggioranza e non uno Stato della minoranza; uno Stato che elimini progressivamente ogni oppressione di classe e di residui di classe.

Noi tendiamo – e ci sforziamo lealmente – a costruire uno Stato solido; uno Stato il cui compito non è solamente – come disse avant’ieri il giovane oratore del partito comunista, l’onorevole Laconi – quello di assicurare che si realizzi la volontà della maggioranza; ma il cui compito è anche che si tutelino in modo certo e permanente i diritti delle minoranze, e quindi si difenda perennemente l’individualità di ciascuno, l’individualità politica e l’individualità umana; uno Stato in cui lo spirito liberale non diserti.

BELLAVISTA. È uno spirito duro a morire!

LUSSU. Ciò presuppone certamente all’atto di nascita un compromesso: un compromesso fra le classi. Ogni democrazia, che non sia scaturita direttamente da una rivoluzione vera e propria, presuppone alla sua nascita un compromesso; il compromesso è fissato nella Carta costituzionale elaborata in comune, e che le leggi successive non potranno mai, per quello che è fondamentale, violare. Per essere chiaro, io sono d’accordo con l’onorevole Tapini, quando dico che se domani, per interessi generali, per esigenze collettive, è necessario espropriare la proprietà industriale, o commerciale, o agraria di un cittadino, occorrerà farlo con un equo indennizzo. Io sono perfettamente d’accordo con questo principio, perché, se questo non avvenisse, si estrometterebbero dallo Stato e si porrebbero contro lo Stato una parte di quei cittadini che oggi in comune, insieme a noi, collaborano per costruire la stessa Carta costituzionale che deve servire per tutti i cittadini. Quindi io sono perfettamente d’accordo.

Un concetto analogo, in rapporto ai diritti individuali, ha espresso nel suo intervento l’onorevole Calamandrei, ed io sono rimasto stupito ieri, quando il collega onorevole Saragat, rilevando questa parte del discorso del collega onorevole Calamandrei sia pure molto eufemisticamente e cortesemente, gli ha attribuito una posizione conservatrice. Io mi trovo perfettamente d’accordo con il concetto espresso dall’onorevole Calamandrei.

Certo, nella Costituzione che stiamo elaborando ci sono aspetti conservatori e aspetti progressisti. Quando noi pensiamo a questa Assemblea e ai suoi componenti, i quali, dai comunisti, ai socialisti e così via via fino all’Uomo Qualunque e al partito liberale, si trovano qui insieme l’uno a fianco dell’altro per discutere e per arrivare insieme, attraverso un lavoro comune, alla Costituzione, comprendiamo che questa Costituzione risente della volontà e degli interessi di questi varî settori che esprimono volontà diverse.

Ma ciò avviene in tutta la Costituzione, avviene anche nei nostri rapporti personali tra colleghi. Quando io ho trovato, alcune settimane fa per la prima volta, credo in ascensore, a pochi passi da me l’onorevole Guglielmo Giannini (al quale mi permetto inviare i miei auguri per una rapida guarigione, poiché a un avversario inacidito dai malanni è sempre preferibile un avversario in ottima salute), leader dell’Uomo Qualunque, che non avevo mai salutato fino a quel momento, ed allorché l’onorevole collega Giannini si è avvicinato a me, forse per rispetto ai miei capelli bianchi, ed ha chiesto se poteva presentarsi e stringermi la mano, io, che l’onorevole Giannini non avevo mai avvicinato, ho detto: Ma certo, onorevole Giannini, perché noi viviamo qui in un ambiente di collaborazione obbligatoria.

Noi siamo usciti da una rivoluzione mancata; la rivoluzione del grande movimento partigiano, la rivoluzione del Comitato di liberazione nazionale. Può dispiacere a molti, e ad altri dare invece una estrema gioia. Io stesso dichiaro che per me è stato uno dei dolori più grandi della mia vita. Ma così è e nessuno può fare che non sia così. A noi non rimane che registrare il fatto, accusare il colpo e trarne le conclusioni. Immediatamente, ci veniamo a trovare in una posizione totalmente differente; ci ritroviamo in una necessità di legalità democratica, di esigenza di legalità, senza di che sarebbe follia parlare di democrazia o di Stato democratico.

E ci troviamo perfettamente nella stessa situazione di quei monarchici, leali e fedeli fino al 2 giugno, i quali, dopo l’espressione repubblicana della volontà popolare, l’hanno accolta come volontà democratica nazionale ed hanno lealmente accettato la Repubblica. Ci troviamo nella stessa identica situazione e, in un primo tempo, possiamo guardarci con una certa diffidenza reciproca, gli uni e gli altri; ma poi, rotto il ghiaccio, dobbiamo riconoscere che siamo, insieme, gli stessi servitori della stessa Repubblica.

Riprendendo il filo del discorso, questo tentativo di intromettere tutti i cittadini nello Stato, nella vita dello Stato, noi dobbiamo farlo e questo è il fatto nuovo della rivoluzione nazionale pacifica, è la caratteristica della nuova democrazia. È una rivoluzione che si compie gradatamente e ordinatamente.

Quando noi vediamo il partito comunista, intendo dire una parte rilevante del proletariato italiano, essere al Governo, mandare il Presidente in questa Assemblea, partecipare alla discussione della Costituzione per poi approvare questa Costituzione, ebbene, onorevoli colleghi, questo è un fatto nuovo di una grande importanza. Se voi pensate alla situazione di venti anni fa, o anche di 13-15 anni fa, questo è un fatto di una importanza storica che sarebbe puerile sottovalutare: è di straordinaria importanza per noi, è un fatto storico per la nostra democrazia, è una grande forza popolare che agisce legalmente, democraticamente nel Paese. E necessariamente, aggiungo io – anche se la necessità coincide con la sua volontà – agisce democraticamente, perché è una minoranza di fronte a tutte le altre forze nazionali ed è obbligata a discutere in comune con gli altri partiti, a misurare il suo passo con quello degli altri, e a rimanere pertanto nella democrazia.

A questo punto desidererei, per mia chiarezza e lealtà, aggiungere qualcosa. Ho ascoltato con estrema attenzione ieri il discorso dell’onorevole Basso e devo dire che in gran parte condivido il suo pensiero. Mi attendevo però – e non ero il solo – che egli cogliesse quella occasione per esprimere in modo chiaro e definitivo di fronte a tutti il pensiero che in altri ambienti ha espresso, in sede di partito, in sede di adunanze popolari, sulla violenza, sulla forza, sulla legalità, sulla posizione di fronte allo Stato.

È necessario, perché tutti noi dobbiamo conoscere le nostre posizioni e le nostre intenzioni. Lo Stato della democrazia non si costruisce in comune, se in comune non si esprime una posizione di legalità assoluta.

Che cosa significa violenza, illegalità? Vi sono due vie di fronte allo Stato della democrazia: o si accetta di vivere nella democrazia e nello Stato, e allora si accetta la legalità, che è per tutti; o se ne rimane fuori, e si combatte lo Stato per attaccarlo dal di fuori, e dal di fuori attaccandolo, distruggerlo. Ma non si possono adottare insieme le due vie.

Il partito bolscevico ha negato lo Stato, come Stato di diritto, come organizzazione collettiva che rappresenta la volontà dei cittadini. Lo ha negato e lo ha combattuto quale organizzazione nemica del popolo e non lo ha accettato, e così ha sabotato la Duma, il Pre-parlamento, e la Conferenza di Stato. Ha attaccato lo Stato dal di fuori, lo ha smantellato e lo ha distrutto.

Ma qui non si possono seguire le due vie: o si sceglie l’una o l’altra, altrimenti si corre il rischio di scombussolare la situazione generale, e di creare un caos dannoso senza poi concludere un bel niente. E mi sia permesso di chiedere al collega onorevole Nenni (solo per la grande amicizia e la grande stima che ho per lui) che cosa significhi la formula: «il socialismo va al potere».

Posso supporre di capire anche il suo pensiero, ma dico che al potere non va il socialismo, perché al potere ci sta, permanentemente, la democrazia; ed il socialismo, nei settori dell’organizzazione centrale e periferica, democraticamente realizza se stesso, accetta la realtà democratica e pratica la legalità democratica. Il socialismo entra nella democrazia, non per sabotarla con colpi equivoci, ma perché è la sua casa. Se è vero quello che io sento ed altri sentono con me, che la democrazia moderna è socialista, o non è democrazia, non può accettarsi, caro onorevole Tupini, la sua formula che la democrazia è democristiana, o non lo è.

Una voce al centro. Non democristiana, ma cristiana.

LUSSU. La democrazia moderna o è socialista o non è democrazia, sia essa cattolica, protestante o laica. (Commenti).

TUPIN1. Democrazia cristiana!

LUSSU. Ebbene, riusciremo noi a costruire questo Stato della democrazia? Io credo di sì, malgrado le immense difficoltà. Credo che vi riusciremo e daremo un esempio che rimarrà nella storia della civiltà del nostro Paese. Lo credo anche perché alla democrazia, malgrado le apparenze, qui in Italia, è legata la stessa indipendenza e sovranità della Nazione.

Posti fra due blocchi che sono ancora antagonistici – il blocco anglosassone e il blocco sovietico – noi possiamo ammirare gli uni e gli altri, ma dobbiamo conservarci equidistanti dagli uni e dagli altri. In ciò è la salvezza della nostra democrazia. E questa è anche la salvezza della nostra sovranità e della nostra indipendenza, perché il giorno in cui ci accodassimo ad una di queste potenze noi saremmo finiti e non avremmo più né democrazia, né sovranità, né indipendenza. Io credo che sia nell’interesse di tutti e nella volontà di tutti creare e difendere questa nostra democrazia che è legata a tutta la vita del nostro Paese, perché in fondo è la sola speranza di resurrezione autonoma del popolo italiano.

Ma lo Stato della democrazia e la democrazia non si creano e non si realizzano, se non si attuano quelle grandi trasformazioni sociali che sono annunciate nello schema della Carta costituzionale. Bisogna realizzarle immediatamente, perché, se non si realizzano queste grandi riforme, non avremo lo Stato della democrazia. Noi dobbiamo, attraverso queste realizzazioni, immettere nello Stato tutta la massa, non solo proletaria, lavoratrice, ma tutta la massa misera e sofferente del popolo italiano, sicché nessuna parte si senta estranea allo Stato.

Se non realizziamo queste fondamentali trasformazioni sociali al più presto possibile, non potremo conseguire alcun risultato.

L’onorevole Calamandrei, nel suo intervento, ha parlato di questi articoli sociali proponendo (siccome non sono leggi vere e non corrispondono ad istituti già creati) che siano messi nel preambolo dove avrebbero un posto più opportuno. Io condivido il suo punto di vista. E non capisco perché da varie parti sia stato detto: ma questo è parlare contro la Costituzione, questa è una concezione non progressista.

Io mi meraviglio altamente perché la Costituzione francese, prevalentemente voluta dai tre grandi partiti di massa, così come la nostra, non ha messo questi articoli nel testo della Carta costituzionale, ma li ha messi in riassunto brevissimo ed estremamente suggestivo solo nel preambolo.

Ma, preambolo o testo, l’essenziale è che si realizzino questi postulati che oggi appaiono piuttosto come paternalistici. È possibile questo? Le difficoltà sono enormi. Io devo dichiarare (e mi sia permesso dire queste cose senza alcuna ombra di spirito polemico, perché d’altronde io nella democrazia cristiana ho molti amici, alla cui amicizia per nessuna cosa al mondo vorrei rinunziare) che le maggiori difficoltà io le vedo nella democrazia cristiana.

Ha detto l’onorevole Tupini, nel suo discorso, che la democrazia cristiana è una trincea avanzata. Ma come può quel partito essere trincea avanzata, quando è definito costituzionalmente partito di centro? Se mai, sarà una trincea di seconda o di terza linea: oppure un partito di centro, costituzionalmente e perennemente – come ha detto in modo brillante il collega onorevole Cappi nel suo ottimo discorso di pochi giorni fa – un partito di centro per definizione, per nascita e per vocazione, il quale può essere e con la sinistra e con la destra, e quindi risentire dell’una e dell’altra…

TUPINI. Le trincee stanno anche al centro!

LUSSU. In quest’aula c’è anche la destra, che è monarchica.

Ma ciò preoccupa, e preoccupa soprattutto per il fatto che la democrazia cristiana, nei momenti culminanti di crisi politica, in ogni paese (dico in ogni paese) dal centro sempre si è spostata a destra. Come non preoccuparsi, quando noi sappiamo che, per realizzare questi postulati sociali, si dovranno affrontare difficoltà gigantesche? Se queste difficoltà portassero ad una crisi politica, quale sarebbe l’atteggiamento della democrazia cristiana? E mi sia permesso, a questo punto, di esprimere la mia profonda meraviglia per il discorso che l’onorevole Presidente del Consiglio, leader della democrazia cristiana, ha fatto pochi giorni fa ad un banchetto di giornalisti americani. (Interruzioni Commenti).

È una questione di interesse generale e nazionale. (Commenti al centro).

In una situazione delicata come la nostra, non si può parlare, in modo che possa apparire equivoco, della Repubblica. È una cosa troppo seria la Repubblica!

Insomma, questo partito della democrazia cristiana, che se non fosse sorto come confessionale, avrebbe giovato non poco alla democrazia, si presenta bifronte: da un lato promette la pace e dall’altro minaccia la guerra. Noi abbiamo bisogno, per la sicurezza delle realizzazioni sociali, di essere maggiormente tranquilli. Fino a che punto la democrazia cristiana si impegnerà per la realizzazione di queste trasformazioni sociali? Dobbiamo credere che il partito comunista ha fatto molto affidamento sulla democrazia cristiana: in compenso, la democrazia cristiana ha chiesto per sé l’inclusione dei Patti del Laterano nella Costituzione. Ma sta di fatto che se noi lo consentissimo, i Patti lateranensi sarebbero immediatamente compresi nella Costituzione, mentre le realizzazioni sociali sarebbero ancora da venire. La democrazia cristiana si prenderebbe fin da oggi e l’uovo e la gallina, mentre le realizzazioni sociali sono solo sulla carta.

Qui tutti abbiamo il ricordo vivo del discorso del collega onorevole Calamandrei, che a molti è apparso come definitivo: non si può aggiungere niente di più. Non mi soffermerò quindi su questo problema che è già esaurito. Ebbene, tutti noi abbiamo egualmente ascoltato, ed io con estrema attenzione, il discorso del collega onorevole Tupini, rappresentante del grande partito democratico cristiano. Non vi è stato in esso nessun cenno di risposta, anzi l’onorevole Tupini ha reso all’onorevole Calamandrei pan per focaccia, e poco c’è mancato che ci recitasse qui per esteso il pater noster, provocando le vivaci reazioni del collega onorevole Tonello, che è protestante. (Ilarità).

Mi sia consentito – e parlo senza desiderio di fare dell’umorismo – di dichiarare che se questo avverrà, cioè se i Patti del Laterano saranno compresi nell’atto costituzionale della democrazia italiana, si entrerà in un vicolo cieco. Le cose stanno già male oggi, starebbero peggio domani. Mi permetto di leggere per intero – poiché è breve – questo avviso dettato agli allievi di una scuola media a Roma, sede del Governo, sede dell’Assemblea Costituente, mentre l’Assemblea Costituente è aperta. Questo avviso è stato dai professori dettato agli allievi perché lo facciano firmare ai loro genitori:

«Sabato 15 marzo, la nostra scuola celebrerà con la solennità consueta il precetto pasquale nella chiesa di S. Ignazio. I genitori e le famiglie sono invitati ad intervenire. Mercoledì 12 marzo, giovedì 13 e venerdì 14 dalle 15 alle 16,30 si terranno gli esercizi spirituali…» (Commenti Interruzioni).

Voi tutti sapete che io non ho mai fatto dell’anticlericalismo e che non ho avuto mai niente a che fare con la massoneria, e che quello che io dico risponde soltanto alle esigenze di una coscienza democratica che ha il diritto di esprimersi. (Approvazioni a sinistra).

…«esercizi spirituali in preparazione al precetto pasquale, in via del Seminario n. 120. Verrà fatto l’appello nominale e gli assenti dovranno presentare ai professori di lettere, la mattina seguente, una giustificazione dei genitori. (Vivi commenti Interruzioni).

«Questo non perché la frequenza degli esercizi spirituali sia obbligatoria; essa è del tutto libera, ma perché si stabilisca un controllo sia per le famiglie che per la scuola su quanto i ragazzi faranno in questi tre pomeriggi». (Interruzioni Commenti).

Una voce al centro. È grave!

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, forse lei si allontana troppo dal merito della discussione generale.

LUSSU. Mi dispiace, devo dire che sono nel mio pieno diritto e che per lo meno una volta nella sua carriera lei, onorevole Presidente, non è dalla parte della ragione. (Si ride). Io sono perfettamente in tema. Si tratta della questione dei Patti lateranensi.

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, io non rispondo al suo rilievo. Le faccio osservare che in questo momento non si sta discutendo l’articolo 5 del progetto di Costituzione.

Lei può richiamarlo a titolo di esemplificazione; ma, invece, sta anche portando una documentazione, che supera, forse, il limite della nostra discussione. Prosegua!

LUSSU. Mi sia permesso di chiarire un principio, che è costituzionale: di ricordare che io avevo ragione quando sostenevo che le dimissioni da Presidente presentate dall’onorevole Saragat, capo d’un gruppo di minoranza, dovevano essere accettate, perché il presidente deve sempre essere espressione della maggioranza al governo. (Ilarità).

Ad ogni modo, il documento conclude così:

«Per le spese della cerimonia (Commenti) – è questione di coscienza non di borsa – gli alunni dovranno versare liberamente 20 lire» (Interruzioni Commenti).

Questa è la pace religiosa, onorevole Tupini! (Commenti).

Noi che ci sentiamo, in parte, continuatori della tradizione del Risorgimento nazionale, non accettiamo che il Patto lateranense rientri nella Costituzione. Cosa ne pensano i liberali?

Una voce a destra. Lo diremo al momento opportuno.

LUSSU. A quei banchi non è più presente l’ombra di Camillo Cavour, ma quella di Solaro della Margherita. (Interruzioni).

BELLAVISTA. Questo è colloquio con i morti, onorevole Lussu; parli coi vivi.

LUSSU. Questa preoccupazione ed altre circondano la nostra mente, mentre ci accingiamo a investire della nostra critica, del nostro giudizio, il progetto di Costituzione, che noi desideriamo approvare e per il quale vogliamo collaborare.

L’onorevole Tupini ha detto: «L’onorevole Calamandrei ha fatto un discorso di opposizione alla Costituzione». Ma la Costituzione è in parte accettata, in parte criticata da ciascuno di noi. Non credo ci sia un solo fra di noi che sia, per principio, oppositore della Costituzione.

Vi sono, in questa Costituzione, parti che condividiamo e difendiamo e vogliamo siano approvate e parti che desideriamo siano modificate. Noi, sostenitori di uno Stato democratico, vogliamo dare il nostro contributo.

Io non entro nel merito in nessun punto. Toccheremo le questioni specifiche nei successivi di lavori, con successivi interventi e diremo il nostro pensiero.

Ora, mi limito solo ad esprimere rapidissimamente le mie considerazioni su due punti che mi appaiono come i fondamentali nel progetto di Costituzione: sulla seconda Camera e sulle autonomie.

Una voce a destra. Ci parli del Partito sardo d’azione!

LUSSU. Sulla seconda Camera, ricordo i lavori della seconda Sottocommissione, che l’onorevole Presidente di questa Assemblea diresse amicalmente e saggiamente: egli può far testimonianza del nostro buon volere. Abbiamo lavorato come negri due mesi per questa seconda Camera e ne è uscito un mostro! (Si ride). Bisognerà adoperare i ferri per operarlo e per fargli cambiare i connotati, o addirittura per sopprimerlo.

Ieri l’onorevole Rubilli, in un discorso pieno di facezia, ha distrutto la seconda Camera quale è uscita dai nostri lavori e ha presentato una sua seconda Camera, molto lieta a vedersi, composta di grandi, auguste e pompose personalità che dovrebbero servire ad impressionare l’estero. Crede l’onorevole Rubilli che la sua seconda Camera sia molto più seria di quella che risulta dal progetto costituzionale? (Commenti).

Io personalmente non credo all’utilità della seconda Camera, io non sono per il sistema bicamerale.

RUBILLI. Se non la volete la seconda Camera, fatene a meno!

LUSSU. L’onorevole Tupini, nel suo notevole intervento, ha difeso questa necessità della seconda Camera, non tanto con suoi argomenti, quanto con gli argomenti di un illustre uomo politico francese, Duvergier De Hauranne, ma non ci ha detto chi era Duvergier De Hauranne. Mi permetta dunque che lo dica io: era uno degli allievi più ossequiosi del signor Guizot e debuttò come giornalista nel Globe, un giornale che a quell’epoca era terribilmente rivoluzionario, come il Giornale d’Italia del collega onorevole Bergamini. (Si ride). In economia e in politica era poi seguace di Royer Collard, un caposcuola che può farci ricordare l’onorevole Corbino. (Si ride). Si schierò successivamente per il Ministero di Casimir Périer. Infine, onorevoli colleghi sostenitori della seconda Camera, votò per le leggi eccezionali di Carlo X! E poi, quasi che questo non bastasse, sempre manovrò per entrare in tutti i Ministeri conservatori, e finì, negli ultimi due giorni della dinastia di Luigi Filippo, nel Ministero di Thiers e di Odilon Barrot.

Caduta poi la monarchia, all’Assemblea Costituente il signor Duvergier de Hauranne fece quel discorso così autorevole che l’onorevole Tupini ci ha citato. Vero è che, quando Luigi Bonaparte fece il colpo di Stato, mise Duvergier de Hauranne in galera. Ma è anche vero che, se un secondo ipotetico duce facesse una seconda ipotetica marcia su Roma, metterebbe in galera anche l’onorevole Tupini. (Si ride).

TUPINI. Mi ci ha messo una prima volta, in galera: mi ci metterebbe sicuramente una seconda.

LUSSU. Questi argomenti non bastano dunque a convincerci per la seconda Camera. A me pare preferibile una Camera unica, con quelle limitazioni che possono trovarsi e nei poteri presidenziali, e per l’approvazione nelle leggi e per il tempo della loro entrata in vigore. Si possono trovare parecchi correttivi preferibili alla creazione di questa seconda Camera, che peserebbe sulla prima, come palle di piombo alle caviglie di un uomo libero.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Il Senato in Francia è stato il massimo difensore della Repubblica.

LUSSU. Il Senato francese può avere avuto degli ammiratori e dei sostenitori democratici altamente degni, quale l’onorevole Sforza. Ma la Repubblica francese ha anche avuto altri democratici, egualmente rispettabili, che di quella democrazia parlamentare liberale erano tutt’altro che contenti, i quali non hanno mai guardato alla terza repubblica come al loro ideale.

I bisogni e le aspirazioni di queste ingenti masse popolari erano rimasti estranei anche allo Stato della terza Repubblica. La terza Repubblica è stata una Repubblica conservatrice: il Senato pertanto difendendola, difendeva la sua Repubblica. Io d’altronde avrò occasione, credo, di intervenire nella questione della seconda Camera.

Parlerò ora due minuti sulle autonomie. Su questo argomento interverremo a suo tempo; dirò quindi ora solo pochissime parole. Avevo pensato anzi di sfiorare appena questo argomento, se da quei banchi (Accenna alla destra) non mi fosse stato gridato: ci parli del Partito sardo d’azione. Ebbene, io ne parlo. Alcuni, e autorevoli, dicono che queste autonomie non sono, in fondo, l’espressione di una democrazia progressista, ma appaiono come tentativi di reazione. Io mi permetto di leggere qui un periodo solo che è contemplato nel manifesto di Pietro Gobetti, nel primo numero di Rivoluzione Liberale e che riguarda il Partito sardo d’azione. Sono uno di coloro che hanno avuto l’onore di crearlo e di rappresentarlo e che ha l’onore di rappresentarlo ancora in questa Assemblea. Dice dunque il Gobetti nel manifesto di Rivoluzione Liberale: «La base della nuova vita italiana deve trovarsi nella Costituzione di due partiti intransigenti di opposizione ai programmi riformisti, rivoluzionari nella loro coerenza: il partito operaio e il partito dei contadini. I nuclei iniziali di queste due tendenze stanno operando nella realtà della nazione, anche se ancora non si esprimono in termini di parlamento, e sono il partito comunista (nonostante la demagogia ridicola dei Bombacci e dei Misiano) e le prime organizzazioni agricole del Sud, sostenute dal Partito sardo, d’azione che si sta estendendo, ad altre regioni, mature per accoglierlo. Queste solo forze si scorgono capaci di accettare l’eredità della piccola borghesia, ormai burocratizzata in tutte le sue manifestazioni».

Io non credo di poter avere la pretesa di imporre il pensiero critico di Piero Gobetti come un testo che fa legge. Peraltro, questo uomo liberale spregiudicato, dal talento straordinariamente critico, ha affermato alcune verità che ci appaiono tali ancora oggi. Come rappresentante di questo partito di masse rurali, di questo partito progressista che già nel primo dopo-guerra si metteva – piccolo ma deciso – all’avanguardia della democrazia repubblicana in Italia, io affermo che il concetto autonomistico è un concetto di libertà e di democrazia. E questo avrò l’onore di sostenere nel mio intervento nella discussione generale sulle autonomie.

E finisco, onorevoli colleghi. Come voi vedete, qui ci troviamo gli uni di fronte agli altri, disposti a collaborare in comune; eppure proveniamo da differenti origini. Ma io credo che a tutti i costi, a costo anche di non essere totalità, ma solo maggioranza, la nostra democrazia non dovrà mai rinunziare ad essere democrazia antifascista. La nostra democrazia ha due origini come fatti positivi di importanza e di scaturigine popolare: il grande movimento democratico, nazionale e rivoluzionario, che è l’epopea di questo secondo Risorgimento, il movimento dei partigiani; e la Repubblica popolare che la sovranità del popolo ci ha data il 2 giugno. Il movimento partigiano e il movimento repubblicano, che ci hanno dado la Repubblica, segnano la nascita della democrazia: ad essa noi saremo fedeli in ogni sua ora. (Applausi a sinistra Congratulazioni).

(La seduta, sospesa alle 18,15, è ripresa alte 18,30).

Presidenza del Vicepresidente TUPINI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Capua. Ne ha facoltà.

CAPUA. Io prendo la parola a nome del gruppo qualunquista e di fronte a questa Assemblea non so se cominciare col vecchio motto: «pochi ma buoni», ovvero con l’altro vecchio motto «vox clamans in deserto».

Parlo per esprimere un giudizio su questo progetto di Costituzione che ci viene presentato per la discussione.

Prima di me ha parlato l’onorevole Mastrojanni, il quale ha illustrato con belle e sagge parole quello che è il lato etico e giuridico dei tratti più salienti del progetto, e debbo a questo punto fare una precisazione importante: chiamo a testimoni quelli che erano presenti – ciò che del resto risulta anche dal resoconto stenografico – che egli si è espresso con elevate e nobili parole nei riguardi del lavoro e dei lavoratori.

Ciò tengo a confermare, perché qualche giornale ha inteso travisare le parole dell’onorevole Mastrojanni, e non in buona fede. Io non farò uso del linguaggio giuridico, perché non lo conosco, onorevoli colleghi; parlerò così alla buona, come posso. Io sono un uomo della strada e se sarò a volte impolitico e forse la mia parola potrà suonare, non dico scortese, perché spero di non giungere a tanto, ma sgradita a qualcuno o a qualche idea, sarà pure opportuno che nel momento più importante della nostra vita di costituenti, si faccia, per così dire, un esame di coscienza, si vuoti il sacco, per dirla con frase più modesta, affinché gli altri sappiano ciò che noi vogliamo e noi comprendiamo ciò che essi vogliono.

Questo progetto, onorevoli colleghi, che è pure frutto, indubbiamente, di poderosi cervelli, allorché io l’ho letto, mi ha dato un certo senso di sconforto e di amarezza! È vero che l’artista molte volte è capace di prendere un blocco informe, quasi mostruoso e poi sotto le sue agili mani modellarlo o scolpirlo fino a farne un’opera perfetta; né, senza dubbio, in quest’Aula non mancherebbero artisti capaci di fare altrettanto. Però bisogna tener presente che, allorché l’artista crea, è libero, è sovranamente libero, non ha inceppi di sorta, mentre in questo progetto, onorevoli colleghi, ad ogni piè sospinto si vede spuntar fuori l’ostacolo, il freno della ideologia di parte. Vi sono infatti interi programmi di Partito, tanto che io mi sono chiesto – nel mio intimo – se valeva la pena di disturbare settantacinque giuristi per una fatica simile. Penso che sarebbe stato più economico che i partiti di maggioranza avessero inviato il loro programma per lettera raccomandata all’Uffìcio di Presidenza e successivamente, poi un modesto cervello legale avesse potuto incolonnare i desideri dei varî partiti, fino a dare una veste legale al tutto. Forse sarebbe venuto fuori un costrutto più logico, più consistente, più umano.

Questo progetto, è tripartito: è tripartito come il Governo. Io tocco questo argomento, onorevoli colleghi, perché l’onorevole Tupini, al quale mi permetto rivolgermi, indipendentemente dalla sua funzione di Presidente, nel suo alato discorso, polemizzando con la frase dell’onorevole Calamandrei, che metteva in evidenza i numerosi contrasti fra gli articoli, ha affermato che questi contrasti sono naturali e, direi, quasi necessari, perché rispecchiano il contrasto che c’è nella vita politica.

E ieri l’onorevole Saragat – mi dispiace che sia assente! – ha aggiunto: «Il Paese segue con una certa indifferenza le discussioni che hanno luogo qui dentro attorno a questo documento».

Quanta verità in queste parole! Vogliamo parlarne un po’, onorevoli colleghi?

Questo progetto pare a me, e pare al nostro gruppo, che risenta principalmente di un male che è il male della stessa Assemblea. Queste sono parole che prendo dalla bocca di tanti oratori che hanno prima di me parlato, e non solo da questo settore: rispecchia male, per così dire, quello che è il pensiero del popolo italiano, non solo quale è stato nelle passate elezioni che ci hanno qui inviati, ma anche alla luce di come si è evoluto nelle sue successive manifestazioni politiche. Onorevoli colleghi, non poteva essere diversamente. Anche questa frase non è mia: l’ho presa in prestito da altri oratori che mi hanno preceduto!

Questa Assemblea, così come è costituita, non è stata capace per il passato di esprimere un Governo che dia veramente fiducia al popolo italiano e, quindi, penso che essa – a parer mio – difficilmente possa esprimere una Costituzione definitiva che dia tranquillità, dia serenità a tutti quegli italiani i quali, fuori di questo palazzo, nelle case, nelle strade, nei campi guardano a noi con malcelata ansia, perché sanno di aver consegnato nelle nostre mani un mandato, che – mi si perdoni la parola che può sembrare grossa – è stato già in parte tradito. (Commenti).

Spiegherò meglio: dico tradito, perché già altre volte – e non solo da questo settore, ma anche da altri settori – ho udito parlare di quel famoso equivoco di cui si è fatto qui uno slogan, un luogo comune. Dico tradito, perché nell’ultima tornata, durante le discussioni sulle dichiarazioni del Governo ho visto cose strane: ho visto, ad esempio, i repubblicani fare gli oppositori alla prima macilenta Repubblica! ho visto i socialisti fare da oppositori ad un Governo che dichiara di avere come fondamento un programma sociale. Ho visto insomma uno stato di disagio, di strano disagio che qui dentro si manifesta, e che poi, in fondo, non è altro che il riflesso di quello che è disagio esterno!

Ciò, onorevoli colleghi, avviene indubbiamente, perché molti di noi hanno fatto, a volte, della politica non intesa nel senso elevato della parola, ma intesa nel senso un poco basso, decadente della parola, ed hanno tentato di fiutare il vento e mettersi sulla coda del cavallo che intendono puntare come cavallo vincente.

Mi spiegherò con qualche esempio. I monarchici, in Italia, al responso delle passale elezioni, rigidamente controllate, sono stati 10 milioni, il che significa, con ragionamento matematico che, in quest’aula, vi è per lo meno il 46 per cento di Deputati che hanno avuto un mandato da monarchici.

Orbene, onorevoli colleghi, io, nelle manifestazioni a cui ho assistito in quest’Aula, di deputati monarchici ne ho visti sei o sette e non più; e quel che è più bello, e leale, tutti gli altri non solo sono repubblicani, ma affermano di essere sempre stati dei convinti repubblicani. (Commenti).

Non è, onorevoli colleghi, in questa mia affermazione alcuna concezione legittimista; non intendo fare del legittimismo, intendo soltanto dire che nella stesura di una Costituzione non si possa assolutamente trascurare quella che è la maniera di pensare e quello che è l’indirizzo sociale di dieci milioni di monarchici elettori, che corrispondono al 46 per cento della popolazione.

Ancora un altro esempio, questo forse un poco più pungente, un poco più spinoso. Io, nelle passate elezioni, ho visto, e molti di voi con me hanno visto, che alcuni partiti, fra cui qualcuno molto numeroso, hanno impostato la loro battaglia elettorale principalmente su di un programma: anticomunismo. Per conseguenza i voti che hanno preso, li hanno presi principalmente in funzione di questo slogan. Tutti coloro che hanno una ideologia di sinistra spinta, hanno con pieno diritto dato il loro voto a socialisti e comunisti, i quali hanno apertamente spiegato quelli che sono i loro programmi e principalmente quelle che sono le loro finalità.

Chi, a parer mio, non ha votato per i socialisti e per i comunisti, vuol dire che non mirava agli stessi fini, perché, se agli stessi fini avesse mirato, avrebbe dato il voto direttamente e non per interposta persona.

Ora, se io non sbaglio, dal computo complessivo dei voti che si sono avuti nelle passate elezioni, l’idea social-comunista è stata in minoranza, non in maggioranza. Non so che cosa potrà succedere in futuro, perché dice la vecchia frase: le urne sono di genere femminile e, quindi, sempre infide!

Ma, nella passata elezione è stato così, non diversamente!

Ora, posto così il problema, dopo aver letto questo progetto, mi sono chiesto fra me e me: ma perché viene fuori un orientamento di netta sinistra, di sinistra avanzata? Tanto che io, se potessi, per un momento, spogliarmi della mia veste di uomo di partito, sentirei quasi il bisogno, fuori da questi banchi, di fare le congratulazioni all’abilità manovriera dell’onorevole Togliatti.

Perciò affermo che lo spirito di questo progetto non corrisponde al mandato della maggioranza. Non voglio dire «barattato», perché questa potrebbe sembrare una parola grossa e potrebbe suonar male di fronte ad un’Assemblea così elevata; ma, onorevoli colleghi, indubbiamente qui, ad un certo punto, si è confuso, e si è confuso di grosso; cioè si sono confuse quelle che sono le possibilità attuali, contingenti di Governo, che impongono a determinati partiti di vivere in convivenza, con quelle che sono le aspirazioni naturali del popolo italiano. E le due cose, a parer mio, sono ben diverse, perché mentre la prima è stretta contingenza, la seconda illumina come faro quella via che dovremo percorrere tutti per un vivere felice.

Noi siamo stati inviati qui per trovare una soluzione, non per prospettarla. Noi rappresentanti del popolo italiano, posti oggi fra un liberalismo assoluto, che pare abbia fatto il suo tempo e che dimostra, alla stregua dei tempi che noi abbiamo vissuto, di non soddisfare più; ed un marxismo contrapposto, il quale sta facendo anche il suo tempo e dimostra anch’esso, alla stregua degli esperimenti, di non essere il toccasana, e principalmente ha dimostrato di non essere gradito alla maggioranza del popolo italiano; noi oggi avremmo avuto il dovere di trovare un piano di slittamento comune, una soluzione che fosse intermedia. Liberalismo, ripeto, e marxismo, intesi come gli asindoti di una proposizione in mezzo alla quale oggi c’è una realtà contingente, c’è un materialismo economico, c’è una linea storica; e noi questa linea storica dovevamo trovare e cercare di codificare per la sicurezza di tutti.

Onorevoli colleghi, credete voi che il progetto che andremo a discutere risolva questo angoscioso problema? No, io non lo credo assolutamente. Mi si potrebbe obiettare che questo è un progetto soltanto e che quindi nel corso della discussione ci sarà tempo di vedere, di limare, di correggere; così si sono espressi alcuni oratori.

Ma io ho anche udito e letto che nelle Commissioni sono stati composti già molti dissidi, il che significa che questa stesura, così come noi la vediamo, è il risultato di tesi già concordate. Afferma anzi l’onorevole Tupini che i comunisti e i democristiani hanno collaborato senza eccessive difficoltà nella discussione, esclusa, si capisce, la questione dei rapporti fra Stato e Chiesa. Egli ha affermato che è favorevole al progetto e lo difenderà, perché è la risultante feconda di uno sforzo compiuto da ciascuno di loro per superare le divergenze e trovare un cemento comune. Sono le parole testuali.

Ciò fa prevedere, poiché’ l’onorevole Tupini è uno degli autorevoli rappresentanti del più numeroso partito di questa Assemblea, che poche modifiche la maggioranza è disposta a fare e in ogni caso in questioni di dettaglio e non in questioni di principio.

È profondamente vero che la nuova Costituzione ha l’obbligo di risolvere un problema, il problema sociale, di modo che in essa vi sia, accanto a quelli che furono i sacramentali diritti vecchi, questo diritto.

E non sarà certo, onorevoli colleghi, l’affermazione dei diritti sociali che farà tremare qualcuno in quest’Aula o lo farà essere oppositore, perché già dalle discussioni dei 75, che poi, in fondo, sono espressione numerica di questa Assemblea, voi avrete notato che siamo stati tutti d’accordo sulla base del problema; tanto che io oggi mi permetterei di dire, con una frase traslata, che noi siamo tutti socialitari, se socialitario viene dalla comprensione del problema sociale, se tale origine ha avuto! Ma se il problema sociale, onorevoli colleghi, è parte importante della nuova Costituzione, non è tutto, e non può, esasperato, soppiantare o minare quelli che sono i diritti fondamentali preesistenti.

Qui io vi chiedo scusa se per poco scivolo nel campo astratto.

Dirò che le leggi di Cristo, che forse sarebbero state la migliore delle costituzioni, se fossero state codificate su questa terra, se avessero avuto sanzioni civili, consigliano l’uomo ad essere saggio, giusto ed altruista.

Ora, se l’uomo può diventare saggio, specie quando ha perduto i denti, giusto e altruista è difficile che diventi. Non ci diventa perché è profondamente egoista, onorevoli colleghi; e su questo egoismo, che è parte integrante della sua anima, io dirò che la religione stessa ha dovuto transigere ammettendo il concetto dell’individualismo. L’individuo, l’io innanzi tutto, tanto che, come voi ben sapete, la religione ha affermato agli uomini che già furono prima trattati come massa e come numero, che essi erano fatti a somiglianza della divinità. Ed è perciò che la religione di Cristo si regge da 2 mila anni sempre più forte.

Ho udito in quest’Aula, onorevoli colleghi, parlare di Costituzione imperniata sul rispetto della personalità umana, di diritti del cittadino, di Costituzione fondata sui cardini della libertà e della giustizia e coerente col cristianesimo. Queste sono parole prese a volo dall’alato discorso dell’onorevole Tupini.

Ora, tutto ciò significa salvare l’individuo, questo individuo che, pur limitando alcune delle sue libertà per le necessità del vivere consociato, altre intende che non siano mai toccate. Tutto ciò, onorevoli colleghi, significa fare dell’individualismo.

Ora, se voi impiantate o permettete che si impianti il problema sociale su quelli che sono i concetti ed i bisogni di massa, come assolutamente predominanti, ciò potrete fare solamente a danno dell’individuo, cioè andando contro la natura stessa dell’uomo! Voi farete del collettivismo di cui tanto oggi si parla e di cui alcuni esperimenti sono stati fatti. Ma questi esperimenti stessi ci dimostrano che anche in quei – chiamiamoli fortunati – paesi dove ciò è avvenuto, ad un certo punto si è dovuto transigere con l’individualismo, allorché si è affermato in maniera categorica che chi più merita più avrà beni di consumo. E si sono ricostituite delle classi di privilegiati! E la formula collettiva si è salvata solamente nell’ambito dei beni di produzione. Vedremo quanto durerà. Staremo a guardare, e se non noi, staranno a guardare i nostri figli.

Voi mi potreste obiettare – e questo dico specialmente ai partiti di centro – che nessuno intende fare del collettivismo, perché non è nel vostro animo e non è nel vostro desiderio. Ma, onorevoli colleghi, io mi permetterò di rispondervi che quando si afferma, o si permette che altri affermino, così, direi quasi un pochino alla leggera, che la base dello Stato è il lavoro, che il lavoro è condizione essenziale per i diritti politici, che lo Stato ha l’obbligo di garantire il lavoro ai suoi cittadini, che ogni attività economica deve tendere a provvedere il benessere collettivo, che la legge determina le norme perché queste attività possano essere coordinate ai fini sociali, che la legge può trasferire allo Stato, o a comunità di lavoratori, imprese o categorie di imprese che si riferiscano, oltre che a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia, a situazioni di monopolio, mi permetto di rispondere, onorevoli colleghi, che abbiamo tutti gli elementi sufficienti e necessari per l’affermazione di una formula collettivista, di un’etica statale nuova che si aggiunge all’etica e alla mistica di felice memoria.

Ciò che distingue, dal punto di vista filosofico, la norma giuridica dalla norma etica e religiosa, è la convinzione della necessità dell’osservanza della prima e non della seconda. Nel campo positivo ciò che distingue la norma giuridica da quella morale è il fatto che alla prima si accompagna la possibilità di una coazione che non c’è per la seconda.

Ora, onorevoli colleghi, in questo progetto si afferma con norma giuridica e quindi con possibilità di coazione.

E vi dimostrerò, se mi seguirete nel ragionamento, che non sbaglio riportando intanto le parole dell’onorevole Togliatti tolte dalla discussione generale. Egli dice – e parte di queste parole sono state ripetute da oratori che mi hanno preceduto – quanto segue: «La Costituzione sovietica, dopo aver affermato un diritto può nel capoverso fissare un complesso di condizioni di fatto che permettono di realizzarlo perché queste condizioni di fatto esistono. In Italia queste condizioni di fatto si debbono creare, perciò si debbono affermare determinati diritti e sancire determinate norme che applicate serviranno a garantirle. Il diritto al lavoro verrà garantito soltanto quando si avrà un’organizzazione economica del Paese diversa dall’attuale, per cui coloro che sono capaci di lavorare abbiano la possibilità di esplicare la loro forza di lavoro».

Così egli obietta a coloro i quali volevano che la dizione del diritto al lavoro fosse relegata nel preambolo, affermando ancora che, mentre nel preambolo non ha nessun significato, essendo esso soltanto generico, messa nel complesso degli articoli stabilisce obblighi precisi per il futuro legislatore.

E, come vedete, la dizione è stata posta negli articoli e non nel preambolo.

Qualcuno ha qui dentro affermato che si è ricorso all’espediente del compromesso politico, nel quale prevale la formula elastica, con la speranza che poi si vedrà chi tirerà di più e, dice l’onorevole Calamandrei: questi sono articoli vaghi, sono sermoni, non sono norme giuridiche. Corregge tempestivamente con lapidaria chiarezza l’onorevole Laconi, se ho ben capito il costrutto delle sue parole: questo non è un compromesso, ma è un impegno preciso a rendere effettivo questo principio. Questi impegni sono stati presi e quindi non si tratta di discuterli, ma soltanto di sottoscriverli.

Non valgono, onorevoli colleghi, le argomentazioni che alcuni di voi hanno opposto all’onorevole Togliatti, cioè che la sola affermazione del diritto al lavoro, anche in un articolo, non è sufficiente se non c’è la garanzia precisa che tale affermazione abbia applicazione. Non valgono!

Vale, a parere mio, il principio che una futura Camera legislativa di sinistra, o di prevalenza sinistra, può applicare; e noi potremo in mezz’ora soltanto scivolare in pieno nella formula collettivista, perché la Corte stessa costituzionale nulla avrà da farci.

Gli onorevoli colleghi di sinistra potrebbero fare una obiezione, e cioè dire: noi abbiamo affermato in maniera netta un principio preciso, per cui se l’opinione pubblica si evolverà nella maggioranza per la formula collettiva, questa stessa Costituzione avrà tutti gli elementi sufficienti e necessari per permetterla. È giusto!

Ma, ammesso anche che i nostri avversari divengano la maggioranza, noi, nel fare questa Costituzione in Italia, siamo partiti dal principio basilare che devono essere rispettati i diritti di tutti e la libertà di tutti. Allora, ciò posto, sapete dirmi come armonizzate nella formula collettiva i diritti delle minoranze?

A questo ha risposto l’onorevole Laconi, affermando che: anima del Governo democratico non è di garantire la libertà dei pochi, ma di permettere che si affermi l’indirizzo della maggioranza.

Già! Non c’è che un solo metodo; e proprio quello che temiamo: ridurre questa minoranza a minoranza sempre più esigua, fino a giungere a quel famoso plebiscito col 99.9 per cento di «sì!».

Ma questo è un sistema che già è stato usato altre volte in Italia e non pare che, alla stregua dei fatti, abbia dato risultati duraturi e lodevoli.

Onorevoli colleghi, allorché si afferma che la Repubblica ha per fondamento il lavoro e della dizione di «lavoratore» non di «cittadino» si fa una condizione essenziale per i diritti politici, o si fa della demagogia, o – scusate l’espressione – si scopre l’America.

Perché, se ci atteniamo alla organizzazione sociale vigente in Italia, credo sia difficile trovare chi non concorra allo sviluppo materiale e spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità ed alla propria scelta. È questa l’espressione che voi usate negli articoli per definire il lavoratore.

Così stando le cose, credo che non si dovrebbe riuscire ad escludere dai diritti politici neppure il più tipico dei rentiers, colui che vive di rendita, perché se egli afferma che, amministrando le sue rendite, compie un lavoro od una funzione sociale, poiché sull’amministrazione delle rendite ci vive tanta gente (in banca, in borsa), egli avrà ragione. E se gli si obietta che egli amministra male, può rispondere che, così facendo, il suo patrimonio passerà ad altri; ed anche questa è funzione sociale.

Ho sentito, sempre dall’onorevole Laconi, al quale chiedo scusa di chiamarlo spesso in argomento…

PRESIDENTE. Credo che l’onorevole Laconi ne sia contento.

CAPUA. …che bisogna aprire le porte al popolo, perché esso possa permeare – della sua linfa vitale – questa frase l’ho aggiunta io, perché è bella – tutti i posti direttivi dello Stato.

Onorevole Laconi, su questo c’è l’accordo più completo; però, l’accordo non è solo di adesso, ma del 1848 in poi; e vi spiegherò perché.

Noi, in Italia, dal 1848 in poi, non abbiamo mai avuto un sistema sociale che presuma caste chiuse o privilegi di classe. (Interruzioni Commenti). Se mi usate la cortesia di ascoltarmi fino in fondo, vi convincerete che nelle mie parole c’è un fondamento di verità, un po’ amaro, ma c’è.

Anche col vecchio ed ancora presente Statuto albertino vi era la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori, intesi come singoli, non come massa, alla organizzazione economica, politica e direi anche sociale del Paese. (Commenti).

Una voce. Non potevamo neppure votare.

CAPUA. In Italia anche questa è acquisizione di molti anni fa!

Noi stessi ed i nostri padri abbiamo visto umili figli delle classi più modeste giungere ai più alti posti direttivi, nell’agricoltura, nella banca, nell’industria, nello Stato. Mi permetterò di ricordare qui le meravigliose parole di Emanuele Gianturco, parole che ricordo perché scolpite in una lapide che si trovava di fronte alla finestra della mia cameretta di studente in Napoli: «Umili ebbi i natali e avversa la fortuna, e questa vinsi e quelli nobilitai, con la sola perseverante virtù del lavoro».

Da molti anni in qua nessun privilegio di classe era in Italia. (Proteste Rumori a sinistra).

Il fatto stesso che l’onorevole Di Vittorio si risente dimostra che ho colpito nel segno.

Noi abbiamo visto giorno per giorno questa linfa vitale del popolo salire attraverso un duro lavoro e concretarsi in quella classe direttrice che solo per necessità polemica voi chiamate con dispregio borghesia, ma che è popolo evoluto, come voi siete popolo evoluto, e quindi anche voi borghesi in questo senso; sinché non avrete dimostrato che esiste una definizione della parola borghese che permette di includerci dentro soltanto noi e non voi! (Commenti).

Se poi volete, come delle frasi che qui ho udite, aprire le porte del Governo esclusivamente ai rappresentanti di una determinata categoria di popolo, vi risponderò democraticamente: se sarete maggioranza, ebbene sia!

Staremo a vedere se sarete maggioranza. In ogni caso io sento il bisogno di affermare qui dentro che anche lì dove la formula da voi difesa si è affermata e il capitale è stato trasferito allo Stato, la critica storica deve ancora dimostrare se veramente si è raggiunta la giustizia sociale e se – cosa questa più importante – risultati simili ed anche migliori non si sarebbero potuti raggiungere in regime libero.

Ed allora, stando le cose così, se l’affermazione che noi facciamo è pura affermazione dottrinaria noi, per dirla con una nota frase, portiamo vasi a Samo e nottole ad Atene.

Se noi invece intendiamo fare affermazioni specifiche che diano indirizzo al legislatore futuro, io vedo in ciò un’idea non espressa, un pensiero nascosto, un’ipoteca che si vuol fare sulla legge costituzionale. Allorché si afferma che l’adempimento del lavoro è condizione per l’esercizio dei diritti politici, io ho il diritto di chiedermi: chi deve giudicare della qualifica di lavoratore? Perché, indubbiamente, è inutile una qualifica amplissima da cui nessuno sia escluso. Ad un certo punto si avrà il diritto, in base a quella Costituzione, di giudicare chi è lavoratore e chi non lo è.

E chi dovrà giudicare?

Non potrà giudicare altro che il potere politico, il quale avrebbe ad un certo punto il diritto, in base ad una nuova etica, di affermare che soltanto certe categorie di lavoratori possono usufruire dei diritti politici ed altre no, perché solo alcune concorrono allo sviluppo materiale e spirituale della società!

Cosa significa concorrere allo sviluppo materiale o spirituale della società? Quali sono gli elementi etici fondamentali di questa affermazione e quali i limiti?

È qui il problema!

Questo è uno di quegli argomenti che l’Assemblea ha il dovere di discutere e cercare di sviscerare fino in fondo, perché, se questa affermazione è di indole generica, nel senso che intende includere chiunque nello Stato eserciti una qualsiasi attività, allora è pleonastica la precedente affermazione che soltanto chi lavora ha i diritti politici. Ognuno infatti, uomo o donna che sia, così nel grande come nel piccolo, esercita una funzione sociale e quindi lavora.

Se questa, onorevoli colleghi, è invece un’affermazione che ha l’intendimento di dare al legislatore il diritto di limitare a determinate categorie di cittadini l’esercizio dei diritti politici, noi dobbiamo chiedere che se ne indichino anticipatamente e specificatamente i limiti.

Onorevoli colleghi, la Costituzione è la legge fondamentale secondo la quale ognuno conosce i suoi diritti e i suoi doveri.

Io, in base a quanto ho letto in questo progetto, conoscerò i miei doveri, anzi potrò soltanto sospettare la entità dei doveri che mi si vogliono imporre; ma non conoscerò i miei diritti, compreso quello fondamentale ed importante della libertà personale. E spiego il perché. Nell’articolo settimo, si afferma che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza degli individui.

Ma che cosa intendete per uguaglianza? Si è uguali di fronte alla legge e di fronte a Dio; ma voi qui non avete specificato, il che mi fa supporre che intendiate un altro tipo di uguaglianza.

Che cosa intendete poi per ostacoli? Io, per esempio, potrei ad un certo momento essere un ostacolo di ordine sociale, perché potrei non essere disposto ad accettare un tipo di uguaglianza che non condivido. E allora, in questo caso, la Repubblica avrebbe il dovere e il diritto di rimuovermi; ma rimuovere un uomo significa metterlo sotto chiave, o sopprimerlo! (Rumori a sinistra).

Come vedete, noi navighiamo nel pieno equivoco. In questo progetto le correnti opposte, trovatesi di fronte, invece di darsi battaglia subito, o per elidersi o per amalgamarsi, hanno preso soltanto posizione da battaglia futura nella quale le impostazioni social-comuniste cercano di precostituirsi un vantaggio.

E, come potete notare in questa prima fase, la tesi comunista è uscita nettamente avvantaggiata, poiché noi abbiamo qui tutti gli elementi costituzionali perché i comunisti possano imporre la loro ideologia al completo.

Dall’incontrarsi insomma di queste tendenze diverse non è venuto fuori un incrocio, un qualche cosa che avesse amalgamato questi contrasti, sia pure un ibrido; ma è venuta fuori una specie di bestia strana, favolosa, che mi ricorda la mitica chimera, che aveva la testa del leone, la coda del drago e il corpo della capra. (Rumori). E per la sua struttura stessa, ci fa vedere delle cose strane, che a volte potrebbero suscitare il riso e a volte il pianto: il riso se si pensa alla mentalità del legislatore (absit iniuria verbis); il pianto, se si pensa alle conseguenze che queste cose possono avere.

Tutti i lavoratori hanno il diritto di sciopero! Dal punto di vista etico, questa affermazione è pleonastica, perché se noi abbiamo sancito prima il principio della libertà, delle libertà che non si possono in nessuna maniera violare, il lavoratore ha diritto di manifestare questa sua libertà di scioperare.

Ma qui però il concetto è diverso: si intende affermare la non incriminabilità dello sciopero! E, scusate, le conseguenze civili inerenti alla violazione del patto di lavoro, le avete considerate o no? Perché, chi esercita un suo diritto, non può subire sanzioni di sorta. A parte le amenità di veder scioperare certa gente, come per esempio i medici, le ostetriche; e perché no! anche il Consiglio dei ministri…

DI VITTORIO. Tutte cose che non sono mai avvenute.

CAPUA. Noi dobbiamo pensare a tutto quello che può avvenire, onorevole Di Vittorio.

DI VITTORIO. Lei fa delle ipotesi che non si sono mai verificate.

CAPUA. Ma proprio a questo noi dobbiamo pensare: a quello che può avvenire.

Io voglio dirvi una cosa, onorevole Di Vittorio; se noi fossimo animati qui tutti dalla buona fede, non ci sarebbe stato bisogno di una Costituzione; sarebbe bastato darci la mano. Noi dobbiamo fare la Costituzione, perché dobbiamo presumere la malafede. (Commenti Rumori). È la verità!

A parte, ripeto, queste amenità, qui s’intende dare un’arma molto appuntita a certe categorie di italiani; arma della quale esse intendono servirsi, perché si è già tolto agli antagonisti la possibilità di difesa, cioè il diritto di serrata. (Interruzioni).

Onorevoli colleghi, io potrei accettare, anzi senz’altro accetto, l’idea dello sciopero, perché molte volte il lavoratore fa bene a servirsene: è necessario; ma portare un principio simile in Costituzione significa ammettere che certe categorie di persone hanno sempre ragione, devono sempre aver ragione. E questo, perdonatemi, non è una norma di buona convivenza, e quindi non può essere neppure una buona norma costituzionale.

Dulcis in fundo, anzi, per dir meglio, in cauda venenum: l’articolo 50. (Commenti).

L’articolo 50, dove è sancito il diritto alla violenza, dove si aprono costituzionalmente le porte alla rivoluzione e alla guerra civile… (Interruzioni) …allorché si afferma che è diritto e dovere dei cittadini resistere all’oppressione, quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali e i diritti sanciti nella Costituzione. (Interruzioni Rumori).

Voi ne avete data una spiegazione; io mi permetterò di darne un’altra. Voi mostrate la faccia della medaglia; io, con bontà vostra, ne mostrerò il rovescio: è questo il mio compito.

Questo articolo può significare che nell’eventualità che si affermi il principio del diritto al lavoro – cosa che lo Stato non potrà mantenere, se non impadronendosi dei mezzi di produzione o imponendo assunzioni obbligatorie di lavoratori, e quindi in ogni caso violando le libertà di altri – se lo Stato non lo farà subito, alcune categorie di italiani saranno autorizzate a scendere in piazza e usare la violenza. Questo significa l’articolo 50!

Una voce a sinistra. Avete paura!

CAPUA. In altri termini, onorevoli colleghi, socializzazioni, collettivizzazioni diventano principî costituzionali, ed alcune categorie di lavoratori potrebbero usare la violenza per farli affermare. Parliamoci chiaro, onorevoli colleghi, è così.

Io vedo un giuoco strano fra due forze, di cui una è decisa e l’altra lo è un po’ meno. Dice questa: io ti concedo questi diritti senza sanzioni, perché riconosco i tuoi principî come principî fondamentali; però, di là da venire, proiettati nel futuro.

Risponde l’altra, la più decisa (abbassando oggi il velo che di abitudine le copre il volto): no, scusa, cara, guarda che ti sbagli, sta’ attenta, perché io questi diritti li ho posti negli articoli come un impegno preciso ed immediato, come una cambiale da pagare subito.

È questo il crudo significato delle polemiche che si odono qui dentro, sia pure velate, tra centro e sinistra!

Girate questo problema e troverete il volto politico.

Ricorderete le parole pronunciate altre volte in questa Assemblea dall’onorevole Togliatti. Io ve le ripeto, invertendone la dizione: Governo di centro può significare Governo Facta; Governo di centro può significare Governo Kerensky. Meditateci su, onorevoli colleghi del centro! Intelligenti pauca! (Commenti Interruzioni a sinistra).

Una voce. Ma non può accadere!

CAPUA. Il mondo non è altro che un succedersi di evenienze strane, nelle quali chi non è stato attento è stato sempre accoppato. (Commenti Interruzioni a sinistra).

E finisco su questo argomento!

Vedo anche in questo progetto un grave pericolo per l’unità della famiglia. L’unità della famiglia, sia pure dal punto di vista morale e da quello giuridico, è l’effetto del rapporto di matrimonio, reso indissolubile dalla legge ed inteso come tale dai coniugi, per la sua forza spirituale e sacramentale.

In funzione di ciò, l’articolo 24 sancisce la indissolubilità del matrimonio.

Ma se una famiglia, fondata sul puro rapporto naturale e fisiologico di filiazione, è ormai destinata per legge a produrre gli stessi effetti che conseguono ad una famiglia fondata sul matrimonio, io oso pensare che saranno ben pochi coloro che (a meno che non abbiano una superiore coscienza morale e un alto spirito religioso) accederanno a giuste nozze.

Perché, in fondo, sarebbero sciocchi ad affrontare la indissolubilità del vincolo quando dall’altra parte si possono avere tutti i vantaggi del matrimonio. Questo riporta la famiglia ad un mero prodotto naturale, al suo momento primordiale.

Non è ammissibile, a parer nostro, che un vincolo, contratto dinanzi alla legge e a Dio, nella consuetudine di un rito che esprime il sentimento etico e religioso di un popolo, abbia lo stesso valore e gli stessi effetti che può avere una unione la quale spesso sorge nel peccato, e nella riprovazione pubblica.

Io vedo in ciò un divisamento: allorché si vuole scardinare lo Stato si comincia sempre con lo scardinare la famiglia. Forse sbaglierò; anzi, mi auguro di sbagliare, ma ho questo sospetto.

L’onorevole Tupini, democristiano, questa questione non l’ha toccata e vi ha sorvolato elegantemente, ripetendo il gesto di Ponzio Pilato!

Nei riguardi dell’indipendenza della Magistratura e del suo auto-governo e nei riguardi della Corte costituzionale, emerge qui dal progetto lo sforzo convergente per determinare, sia nell’una che nell’altra, ingerenze politiche, e non poche. Alcuni colleghi della estrema sinistra ben ricordano quanto sia stata esiziale e riprovevole l’ingerenza della influenza politica sulla Magistratura e, alla luce di quella esperienza, essi oggi avrebbero dovuto essere fra i più intransigenti sostenitori della indipendenza assoluta della Magistratura. Ma, indubbiamente, poiché oggi presumono o sperano di poter diventare una maggioranza, ora optano per l’ingerenza politica. Tanto è vero che – accettino questo come uno scherzo e non come una provocazione – al dicastero della giustizia loro, repubblicani, hanno ripetuto una frase monarchica: «Ci siamo e ci resteremo!».

Nella Corte costituzionale i giudici sono nominati per tre quarti dall’Assemblea nazionale. Ma, onorevoli colleghi, l’Assemblea ha un colore politico e quindi, anche di riflesso, i giudici potranno avere un colore politico. Questa Corte, secondo la nostra concezione, avrebbe dovuto essere una specie di tempio, nel quale uomini anziani, profondamente saggi, liberi da ogni influenza e da ogni bisogno, avrebbero dovuto, alla maniera delle antiche vestali, essere i custodi del libro della Costituzione. Si sarebbe dovuto accedere a tale tempio per diritto automaticamente acquisito, attraverso una vita intera di prove, direi, lontano dalla politica. Solo così avremmo visto in quei giudici una superiore garanzia, un’ancora di salvezza contro ogni tempesta e solo così forse sarebbe tornata fra noi la fiducia, perché oggi, forse, il fondamentale, il primo di ogni male è che voi diffidate di noi e noi diffidiamo di voi, perché nella legge non c’è nessuna garanzia reciproca.

Si è anche parlato qui di partiti; considerato che essi ormai costituiscono una parte viva della nazione, è necessario inquadrarli e considerarli nella Carta costituzionale.

Il principio, o meglio, l’idea può essere utile; però in un senso preciso e positivo, perché i partiti possono anche scomparire, come qualche esempio ne abbiamo visto, ed altri sorgere. Quello che conta sono i fini ed i metodi che i partiti perseguono.

Questa discussione di dettaglio sarebbe molto importante, perché avremmo così la maniera di chiarire sia positivamente sia negativamente il significato esatto attuale di alcune parole: fascismo, antifascismo, democrazia, antidemocrazia, popolo, classe sfruttatrice, tutte parole che io sento aleggiare in quest’Aula come fantasmi, direi quasi; fantasmi inutili e a volte dannosi.

Onorevoli colleghi, io mi sono chiesto come è possibile che certe affermazioni siano passate nei lavori delle Sottocommissioni: affermazioni che, prese singolarmente, hanno un po’ l’aspetto di retorica innocua, e sono come i tasselli di un mosaico che presi isolatamente possono non significare nulla, ma quando si uniscono, ne balza fuori il disegno; e così, onorevoli colleghi, quando si riuniscono gli articoli in un documento unico, balza fuori quello che è il divisamento, quella che è la idea base, la quale ha l’aspetto di un estremismo, per me, troppo spinto.

Io, nel pensare alle possibili spiegazioni di questo fatto, ho immaginato ad un certo momento che molti dei colleghi, forse occupati nei particolari, non si siano preoccupati della questione generale. Ho immaginato, anche, che forse in alcune discussioni molti dei colleghi saranno stati assenti, mentre erano presenti con disciplina esemplare, al loro posto, quelli che avevano interesse che questa ideologia si affermasse.

L’onorevole Lucifero, l’altro giorno, in quest’Aula, ad un certo punto, ha parlato di commercio, al che l’onorevole Tupini si è ribellato, dicendo che si trattava soltanto di buona volontà d’intendersi. Se l’onorevole Tupini mi perdonerà anticipatamente lo scherzo, mi permetterò di far notare che il commercio è l’espressione più pratica della buona volontà di intendersi! (Si ride).

Ma, onorevoli colleghi, se io dovessi essere realmente convinto che una maggioranza ha votato coscientemente questa impostazione della Costituzione, dovrei ritornare al concetto precedentemente espresso e che ha sorpreso qualcuno, cioè che non si sia stati aderenti al mandato e che nel nostro Paese, se si dovesse avverare questa jattura, per certe categorie di gente non ci sarà altro che da chiedere un passaporto… se ce lo daranno! (Commenti).

Io vi dico, che nel 1922 una Camera intera irrise a chi, come me, lanciava lo stesso allarme! Cose che succedono!

Nello scorrere gli articoli di questo progetto, viene fuori a ogni piè sospinto la Repubblica, la quale intende assumere tanti impegni che spesso fanno a pugni con quelli che sono i principî fondamentali della libertà. Ciò io ricordo, perché in quest’Aula ho udito dalla voce di uno dei suoi più autorevoli rappresentanti che questa Repubblica doveva avere un volto umano, profondamente umano, ma se, indubbiamente, il problema sociale è uno dei lati del volto umano, non lo diventa più quando lo si voglia artatamente esasperare per portarlo alle estreme conseguenze. Io non credo che si faccia così opera salutare per questa Repubblica, alla quale anche noi ci inchiniamo (Commenti) e che possiamo affermare si sia finora retta più sulla lealtà dei monarchici che sulla saggezza dei repubblicani. (Applausi a destra Commenti a sinistra).

Il 25 luglio gli italiani fecero giustizia del mito dell’uomo infallibile. Io vorrei che noi, dopo questi dibattiti, escludessimo anche un presunto possibile principio della nostra infallibilità. (Commenti).

Per quanto sia auspicabile, e direi certo, che 500 e più cervelli siano in condizioni di sbagliare meno di un cervello solo, bisogna però tener presente che l’unione fa la forza quando le singole energie convergono, non quando divergono. È perciò che su noi incombe in maniera imprescindibile l’obbligo di alleggerirsi di responsabilità, chiamando a giudice del nostro operato il popolo italiano.

Se egli vorrà, ebbene sia! «Ça ira», ha gridato un giorno in quest’Aula l’onorevole Molè, ripetendo il glorioso motto dei Sanculotti! «Ça ira», ripeto io in tono minore, se il popolo italiano lo vorrà!

Ma io sono fortemente dubbioso che ciò possa succedere, perché, se ciò fosse, sarebbe un errore ed in politica gli errori (come diceva Fouché, che è contemporaneo del «ça ira») sono peggiori dei delitti!

Se ben ricordo, Fouché fu colui che a Lione tagliò la testa come rivoluzionario a circa 5-6 mila borghesi; poi, come tutti i rivoluzionari, appena trovò il filo buono, si fece monarchico, imperialista, divenne marchese e principe, e visse di rendita!

Onorevoli colleghi, lo scopo che mi ha spinto a parlare è quello di denunciare in quest’Aula i pericoli che io vedo insiti in questo progetto di Costituzione. Non è ai colleghi di estrema sinistra che io mi devo rivolgere: essi conoscono bene questa Costituzione, ne sono stati i principali artefici e poi, in ogni caso, hanno difeso una ideologia ben nota e ben chiara che hanno sempre propugnata per le strade d’Italia. È piuttosto ai colleghi del centro che io sento il bisogno di rivolgermi e chiederò: siete voi convinti di essere stati strettamente aderenti al mandato imperativo e categorico che avete ricevuto?

Voci dal centro. Sì!

CAPUA. A questa domanda risponderete in silenzio, nell’intimo stesso vostro, così come noi rispondiamo a noi stessi. Però ciò significa, onorevoli colleghi, che noi abbiamo il dovere di portare questo progetto al giudizio del popolo, perché se noi siamo con la coscienza perfettamente a posto non c’è nessun motivo perché si abbia a temere del giudizio del popolo italiano, e se noi cerchiamo di svicolare, vuol dire che c’è nell’animo nostro una piccola incrinatura, una piccola pecca, sia anche minima, un qualche cosa che non ci fa dormire tranquilli.

Sentite, io negli ambulacri di questo palazzo ho parlato con coloro che sono amici ed ho udito parlare altri che sono semplicemente conoscenti, e ne ho ricavato l’impressione che, presi singolarmente, molti elementi sono convinti della necessità di un referendum. Ora, se ciò non si dovesse avverare, significherebbe che la tecnica di partito ha oppresso anche in quest’Aula l’individualità nostra, la nostra libera maniera di pensare; e se così fosse, la conclusione che dovremmo trarne per ultimo è ancora più amara.

Colleghi, alcuni oratori, per dar maggior forza alla parte terminale del loro discorso, hanno evocato i loro morti ed il sangue versato. Io non condivido questo principio, perché i morti, specialmente i morti gloriosi, bisognerebbe lasciarli in pace nell’empireo dove sono: essi, per il loro stesso meraviglioso sacrificio, trascendono dall’idea di parte e sono patrimonio nazionale.

Ma, giacché evocati da qualcuno, aleggiano in quest’Aula come spiriti inquieti, io mi permetterò di rivolgermi a loro e di apostrofarli, in relazione a quanto ho detto prima con le parole divine del Poeta: «Oh! degli eroi esercito gentile, triste novella io recherò fra voi: la Patria nostra è vile!». (Commenti Applausi a destra Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 15.

La seduta termina alle 19.40.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 7 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LIII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 7 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Interrogazioni (Svolgimento):

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei ministri                                                

Picciardi                                                                                                           

Ferrari, Ministro dei trasporti                                                                           

Cifaldi                                                                                                              

Scelba, Ministro dell’interno                                                                             

Condorelli                                                                                                      

Discussione del disegno di legge: Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, c successive modificazioni:

Lami Starnuti                                                                                Presidente      

Priolo                                                                                                               

Condorelli                                                                                                      

Platone                                                                                                            

Zotta                                                                                                                

Interrogazione con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della seduta antimeridiana precedente.

(È approvato).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca una interrogazione dell’onorevole Pacciardi al Presidente del Consiglio dei Ministri, «sul senso e la portata delle sue strabilianti dichiarazioni ai giornalisti stranieri, relative alla stabilità del regime repubblicano».

L’onorevole Presidente del Consiglio ha facoltà di rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. L’interrogante trova strabilianti le mie dichiarazioni. Io trovo stupefacente la sua interrogazione (Commenti). Mi pare quasi che egli voglia, in questi lumi di luna, invitarmi ad una strana tenzone, a ripetere una specie di dialogo ciceroniano del De Republica, nel quale dialogo, che si svolge fra Lelio e Scipione Emiliano Africano Minore, il posto del generale spetta naturalmente all’interrogante.

Ma lasciamo stare queste reminiscenze scolastiche, che mi sono state richiamate alla memoria proprio dalla interrogazione. Vengo al fatto concreto. Si tratta di una intervista. Per conoscere bene il senso e la finalità delle risposte occorre avere notizia delle domande, e forse l’interrogante non ne ha avuto la possibilità; certo, perché la stampa non è stata esplicita né sul contenuto né sulla forma delle domande che mi sono state poste nel corso di una conversazione conviviale. Ed allora rimedio io, perché conoscendo le domande meglio si possono giudicare la finalità e il tono delle risposte.

Il Presidente dell’Associazione dei giornalisti americani, di cui ero ospite, mi ha posto due domande di carattere politico, che corrispondono alle questioni che mi sono state quasi sempre proposte anche in America, e che evidentemente corrispondono a certe esigenze ed a certe curiosità non meramente teoriche della opinione pubblica americana. Ecco le due questioni: la prima, circa la posizione dei comunisti nel Governo; la seconda sulla consistenza del movimento monarchico e sulla possibilità di una rinascita legittimista.

Alla prima domanda – e il senso era chiaro: «come è possibile che voi collaboriate insieme con i comunisti, dei quali non è certo che accettino il programma integrale di una Repubblica liberale e democratica?» – ho risposto che se i comunisti continuano a collaborare nel mio Governo dopo una discussione programmatica, è perché ci siamo trovati d’accordo sopra l’attività del Governo – a parte tutte le ideologie e il futuro, su cui non abbiamo da far profezie – in questo periodo della difesa della Repubblica, evidentemente in armonia con i principî fondamentali di libertà e di democrazia.

Sarà meglio che citi il testo della mia risposta: «Sono uomini che si mettono al servizio temporaneo di questa azione, senza rinunciare al loro programma generale, alle loro ideologie e alle loro responsabilità future; che si mettono al servizio del consolidamento della Repubblica italiana e della democrazia con i metodi della libertà; sono cioè uomini che si mettono al servizio della democrazia e della libertà».

Alla seconda domanda: «Consistenza del movimento monarchico e possibilità di un movimento legittimista», ho risposto così: «La questione della monarchia in Italia non esiste. Se la Repubblica farà il suo dovere, se sarà un regime di libertà dove il diritto e la dignità dell’uomo saranno rispettati; se sarà un regime tutore dell’ordine e della libertà, se sarà un regime di democrazia con rappresentanza della volontà popolare, e se a questa democratica formula politica si aggiungerà una formula democratica che tocchi anche la struttura sociale e sia ragione di giustizia a tanti milioni di uomini che soffrono in miseria, che non hanno nulla e tutto hanno perduto; se la Repubblica sarà così, la questione monarchica non esiste e non esisterà».

Che cosa voleva dire questa risposta? Voleva dire che non ci sono ragioni positive di temere che, sia per motivi sentimentali, sia per attaccamento a tradizioni, il movimento monarchico e legittimista abbia una base. L’unico pericolo per un regime – per ogni regime, ma anche per la Repubblica – è se questa viene meno al suo programma, alle sue finalità.

Mi pare di essere qui in perfetta ortodossia mazziniana, perché il vostro e, se permettete, come italiano, nostro Mazzini dice: «La Repubblica, cosa pubblica, ma Governo della nazione tenuto dalla nazione stessa; Governo sociale; Governo nato dalle leggi che siano veramente l’espressione della volontà generale». Ossia, la Repubblica non è semplicemente regime nel senso strutturale, cioè cambiamento di forme rappresentative di Governo, ma è soprattutto nel suo contenuto sostanza sociale, sostanza di riforme sociali, di giustizia sociale e di libertà nel metodo e di libertà nel fine e nell’evoluzione umana.

Voi direte: «A chi lo viene a dire?».

PACCIARDI. Sono contento che si sia rinfrescata la memoria.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Però, io debbo rinfrescare anche la sua, mi scusi, caro Pacciardi, ricordandole che questa definizione di Mazzini corrisponde appieno alla definizione ciceroniana: igitur respublica res populi. E qui non ho bisogno di rinfrescare niente, come ho accennato altre volte, perché ai tempi in cui ero bibliotecario, ho studiato il palinsesto del De Republica, scoperto, come sapete, nella Biblioteca vaticana.

Esso dice che «la Repubblica è lo Stato del popolo… che lo vincola ad una condizione sociale. Ma è popolo non qualsiasi riunione di uomini, ma una consociazione di uomini che accettano le stesse leggi ed hanno comuni interessi». Questo signor Cicerone, che ha pagato con la sua testa la sua fedeltà alla Repubblica contro i pericoli della tirannia e che dichiarava che l’unico compenso che egli aveva avuto, il più grande compenso al suo lavoro, era di aver potuto salvare la Repubblica (ed infatti così si esprime: «quando, all’uscita dal mio consolato, potei giurare all’Assemblea del popolo che la Repubblica era salva, allora mi sentii ben ricompensato di tutte le cure e gli affanni sofferti»); questo Cicerone, però, in tutto quel volume sulla Repubblica, fa dire ora a Lelio ed ora ad Africano Minore tante critiche sopra il regime repubblicano e tanti moniti: che la Repubblica andrebbe perduta, che si finirebbe in una dittatura se la Repubblica non rispondesse ad esigenze morali e democratiche di libertà, ecc. (E questo è il più bello esempio che io potrei citare in risposta all’interrogante circa i moniti che io, lontano epigone, ho potuto introdurre nella mia intervista).

Ma, vediamo un po’ in questa intervista le dichiarazioni positive che vi sono contenute circa la Repubblica. Ho cominciato ringraziando (e non venite ora a spaccarmi il pelo in due, perché si tratta di una intervista improvvisata alla radio e le parole sono talmente controllate che tutto quello che si dice viene inciso; tuttavia non è un testo sottoposto ad una esegesi minuta); ho cominciato, dicevo, con un augurio che nasca una pace con la quale si assicuri la libertà e l’amicizia fra il Governo repubblicano americano e la piccola, giovane, ma piena di speranze, Repubblica italiana. E qui vi furono applausi generali dei convitati. Poi, a proposito della domanda che mi si era fatta sulla stabilità o meno di questo Governo, io ho risposto, con un certo senso di distacco, che in un uomo di opposizione può essere più comprensibile che in me stesso: «Io non saprei dire quale sarà l’avvenire di questo Governo, ma posso dire quale è la mia volontà, quale la tendenza, e quale il mio indirizzo. Io sono ben deciso a consolidare lo stato presente, la Repubblica italiana, col concorso di tutte le nazioni che hanno una intelaiatura più robusta e possono essere più utili perché un nuovo Stato, ancora bambino, cresca forte e si prepari a prendere parte alla costruzione della pace nella comunità delle Nazioni. Per questo piano io vorrei intorno a me uniti in un pensiero di collaborazione, quanti più italiani è possibile, senza differenza di partito».

Ma, onorevole interrogante, c’era proprio bisogno di andare a cercare e frugare in questa mia conversazione conviviale, quando voi avevate sott’occhio, e forse anche nell’orecchio, ancora la mia dichiarazione ultima fatta all’Assemblea in sede di comunicazioni del programma di Governo, del quale programma siamo tutti responsabili, ed in modo particolare io, come Presidente del Consiglio? E si ricordi il discorso che pronunziai dinanzi a questa Assemblea il 25 febbraio e nel quale dissi: «Onorevoli colleghi, voi voterete secondo coscienza; ma comunque, voterete; spero che la mia presenza qui per la terza volta non attribuirete ad altra ragione che al senso di responsabilità che a me, socio fondatore, per dir così, di questa Repubblica, ha imposto di non disertare, nel momento storico in cui l’Assemblea è chiamata a darle un regime solido, libero e giusto. Il tempo corre e i problemi incalzano; ma il primo problema rimane quello di dare alla Repubblica una base solida nei suoi istituti rappresentativi, i quali, superando i partiti e gli interessi, costituiscano l’espressione politica definitiva della nostra millenaria civiltà».

È più oltre aggiungevo: «Quanto più libero è lo spirito che si respirerà in queste istituzioni autonome, tanto più largo sarà il settore della nostra comunanza, tanto più sicura quella parte di vitalità comune che si svolge al di fuori della lotta quotidiana ed ha carattere superiore e permanente, perché sugge dal terreno della nostra civiltà ed è perciò stesso la res publica che svolge la sua vita sopra di noi e la continua dopo di noi». (Vivi applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

PACCIARDI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. Se io devo dare alle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, fatte ai giornalisti americani, il valore di un carattere conviviale, come ha detto oggi il Presidente del Consiglio stesso, è evidente che io non possa che dichiararmi soddisfatto delle delucidazioni date oggi in questa Assemblea.

Ma quando io ho sentito le sue dichiarazioni alla radio, cioè le ho sentite di prima voce, sono rimasto veramente stupito o, per dir meglio, stupefatto, per usare il suo termine, onorevole Presidente del Consiglio.

Se l’onorevole De Gasperi permette, io gli rileggerò la parte che mi ha stupito, che mi ha «strabiliato», leggerò la parte che considero negativa; in tutto il suo discorso e nella sua conversazione vi sono evidentemente anche lati positivi, altamente apprezzabili.

Ma per quanto riguarda la Repubblica, egli ha risposto – lo rilevo dal Popolo, perché non vi siano equivoci – esattamente così: «Voi mi avete fatto un’altra domanda, anch’essa un poco delicata, ma i giornalisti ci sono apposta per queste domande, lo capisco.

– E la monarchia?

– Io vedo quello della monarchia, non come un problema positivo, perché non penso che un regime si cambi per ragioni positive o per affezione. In genere si cambia per ragioni negative. La monarchia in Italia è esiliata e scomparsa, non perché sia ammesso, come cosa evidentissima, il regime repubblicano…».

DE GASPERI, Presidente del Consigliò dei Ministri. Né solo per questo.

PACCIARDI. …«ma per ragioni negative, ché la monarchia, in un momento di capitale importanza, soprattutto durante il periodo delle dittature e nel momento di guerra, non ha esercitato la funzione che doveva esercitare per tutelare il destino della Nazione che le si era affidata e per il quale, in altri che rispetti la libertà, è l’interesse del Paese.

«Ho risposto così non per citare una formula ma, in tutta sincerità, con convinzione: la questione della monarchia in Italia non esiste, se la Repubblica saprà fare il proprio dovere, se sarà un regime di ordine come tutore della libertà, se sarà un regime di democrazia come rappresentante delle singole libertà popolari e se a questa formula politica si aggiungerà una formula che tocchi la giustizia sociale per tanti milioni di uomini che soffrono la miseria ed hanno perduto tutto.

«Se la Repubblica sarà così, la questione monarchica non esiste e non esisterà. Se invece la Repubblica venisse meno al suo compito, tutti i rimpianti sarebbero possibili e può essere che in un altro periodo torni negli italiani il pensiero che mutare regime voglia dire mutare sostanzialmente la questione delle cose, come il malato che nel letto sente male ad un fianco e si volta su un altro, non perché sia certo che il male scompaia, ma perché spera che il suo male si attenui. E così può accadere nella vita politica italiana. Io spero di no, e quando si parla di rivolgimenti dell’estrema sinistra o dell’estrema destra, io dico che tutto dipende dal centro» ecc., ecc.

Io, a queste dichiarazioni faccio alcune osservazioni che mi sembrano di una evidenza palmare. Il Presidente del Consiglio è il Capo del Governo della Repubblica italiana. Non è un professore di scienze politiche o di diritto costituzionale, che può dissertare in astratto sulla monarchia o sulla Repubblica. Se lo avesse fatto come professore, io direi che mettere la Repubblica e la monarchia sullo stesso piano, in questi tempi, dopo le rivoluzioni liberali e sociali, anche sul piano teorico, sarebbe, secondo me, un’aberrazione. Non si può non fare una distinzione fra regimi che considerano la Nazione come una specie di proprietà privata di famiglia, che si trasmette per diritto di eredità ai componenti la famiglia stessa, e regimi che invece sono l’organizzazione politica, giuridica, morale e sociale di una nazione che governa se stessa, com’è la Repubblica. Ma, ripeto, queste sono dissertazioni che potremo fare in altra sede come cultori di diritto pubblico. Ma lei è Presidente del Consiglio e Capo del Governo della Repubblica; lei non può mettere la Repubblica e la monarchia sullo stesso piano, perché se lei non è convinto della superiorità del regime repubblicano, come si può convincere il cittadino comune che ha ancora nostalgie monarchiche a trovare nella Repubblica la strada della vera salute della Nazione?

La seconda osservazione che volevo fare, onorevole Presidente del Consiglio, è questa: ella dice che noi abbiamo la Repubblica in Italia non per ragioni positive, cioè perché c’è un sentimento repubblicano, una simpatia repubblicana diffusa nelle masse del Paese, perché c’è una concreta realtà repubblicana nelle masse, ma l’abbiamo per ragioni negative, perché la monarchia, quella monarchia, si è alleata col fascismo, cioè non ha assolto le funzioni che tutti i bigotti della monarchia le attribuiscono. Se la monarchia non avesse fatto tutto questo, ella sottintende, avremmo la monarchia e non la Repubblica.

Ed anche qui, onorevole Presidente del Consiglio, io non voglio fare una polemica teorica. Se crede, pregherò il Presidente attuale dell’Assemblea di darle qualche volume della copiosa letteratura repubblicana che è a nostra disposizione, per approfondire nel suo spirito questi argomenti. Non starò a dirle come i mutevoli aspetti che assume in un Paese la monarchia (monarchia militarista, monarchia liberale, monarchia fascista, e perfino monarchia di sinistra e monarchia comunista, perché ha parlato anche di questo l’ex re in una delle sue interviste proprio ai giornalisti americani), non sono aderenze sincere agli sviluppi della vita nazionale, ma sono apparenze per obbedire alla sola legge a cui obbediscono le dinastie, che è questa: perpetuare il loro dominio. Nella Repubblica non ci saranno mai conflitti di questo genere, perché la Repubblica è la Nazione che governa se stessa, mentre nella monarchia, quando c’è conflitto tra l’interesse dinastico e l’interesse nazionale, è evidente che per la legge della sua stessa conservazione, è l’interesse dinastico che prevale sull’interesse nazionale, come abbiamo fatto tragica esperienza in questi ultimi anni.

Ma mi dispiace di essere messo nella necessità di portare argomenti alla convinzione repubblicana del Presidente del Consiglio, perché se a un cittadino comune si può domandare soltanto di essere leale al regime repubblicano, al Presidente del Governo repubblicano si deve domandare qualche cosa di più che la lealtà – la sua lealtà indiscussa – si deve domandare fede repubblicana, convinzione repubblicana. La terza osservazione…

PRESIDENTE. Onorevole Pacciardi, la prego di concludere.

PACCIARDI. Solo di un minuto ho ancora bisogno.

Altra osservazione che desidero fare, che è poi, a mio avviso, la più importante, è questa:

Interrogando se stessa, o interrogandola i giornalisti americani sulla stabilità del regime repubblicano, ella ha messo un serie di «se». Se la Repubblica farà il suo dovere, se garantirà la libertà, se soddisfarà le esigenze sociali dei lavoratori, sarà un regime che durerà. Se no, la Nazione inferma si può rivoltare sull’altro fianco. Le faccio notare questo scetticismo désabusé, che mi pare fuori posto. Si rivolterà la Nazione inferma sull’altro fianco, credendo di potersi salvare dalla sua infermità, mentre probabilmente non si salva, come l’inferma dantesca. Ora, io dico, onorevole Presidente del Consiglio, che lei parlando come Presidente del Consiglio, come del resto ella stessa ha giustamente rilevato, non può dire cose effimere e scherzose; sono le ragion superiori dello Stato e del Governo che escono dalla sua bocca, anche nelle conversazioni conviviali, specialmente con dei giornalisti stranieri.

E questa serie di «se» all’indirizzo della Repubblica, francamente mi ha impressionato, per non dire strabiliato, se le dispiace la parola. Ella, come Presidente del Consiglio, deve pur sapere che il ritorno della monarchia non può avvenire con mezzi legali.

Una voce a destra. Perché?

PACCIARDI. Non ci sono mezzi legali che possano far tornare la monarchia. Non ci sono nella Costituzione che stiamo per votare, perché la Costituzione repubblicana non ammetterà mai che si possa, con mezzi legali, far ritornare la monarchia.

BENEDETTINI. Ma la volontà sovrana del popolo?

PACCIARDI. Non c’è possibilità di mezzi legali per il ritorno della monarchia (Proteste a destra Rumori a sinistra), perché ella che è il custode delle leggi, il secondo cittadino della Repubblica – il primo è il Presiderite della Repubblica – deve nelle leggi repubblicane trovare la difesa della Repubblica e impedire il ritorno della monarchia. Né tanto meno può tornare con mezzi illegali, perché ella è tenuta, come Capo del Governo, e noi siamo tenuti come cittadini, a contrastare le violenze per il ritorno della monarchia, con qualunque mezzo. Anche questo è stato scritto nel progetto di Costituzione che noi approveremo.

Quindi, la sola cosa che ella doveva dire ai giornalisti americani, che deve dire ai giornalisti stranieri, che deve sempre dire a tutti gli italiani, è che il regime repubblicano, uscito dalle elezioni del 2 giugno, è un regime permanente e definitivo e guai a chi lo tocca. (Applausi vivissimi a sinistra).

Fatte queste osservazioni, onorevole Presidente del Consiglio, posso dirmi soddisfatto delle sue dichiarazioni fatte oggi dinanzi all’Assemblea.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Io mi richiamo alla mia dichiarazione fatta all’Assemblea, dove parlai di definitiva espressione politica della nostra millenaria civiltà. Quando parlai della civiltà, non mi pare che lasciassi dei dubbi sul programma del Governo e sulla concezione del Governo. Quando faccio della filosofia della storia, posso però anche approfittarne, e mi pare che sia doveroso approfittarne, per un monito, perché nonostante tutta la nostra volontà e nonostante tutti i nostri statuti, se non facciamo uno sforzo per dare contenuto di libertà, di democrazia e di socialità – e questo è il vostro programma, come è il nostro – se non ci uniremo tutti su questa parte sostanziale, difficilmente potremo trovare la definitività o la conserveremo. La storia è la storia.

Non vorrei che dalla discussione potesse risultare il minimo dubbio sul mio proposito, sul proposito del Governo che qui presiedo. Sulla definitività del referendum del 2 giugno ho fondato tutta la mia propaganda; dopo il 2 giugno ho fondato tutte le mie manifestazioni all’Assemblea e tutto il mio ragionamento in confronto di quelli che non vogliono accettare la definitività. Credo su questo debba fondarsi l’azione avvenire dell’Assemblea e del Governo. Però, devo aggiungere che sarebbe vano chiudere gli occhi innanzi agli esempi della storia. In generale, non si progredisce per ragioni positive del bene o del meglio, ma si progredisce abbattendo qualcosa che in quel momento appare un male. Questa è una legge della storia, che è facile, perché corrisponde al sentimento, alle esigenze psicologiche delle masse popolari.

Qui parliamo, naturalmente, non di coloro che possono essere illuminati da un programma, da una cultura o da convinzione profonda o da entusiasmo tradizionale o da educazione familiare; parlo della grande massa, la quale deve essere avvinta ad un regime strutturale con un contenuto di programma.

Non faccio nessuna obiezione a quello che ha detto l’onorevole Pacciardi, perché so che nel programma mazziniano la parte essenziale è parte di contenuto, parte sociale; lo riconosco e dico questo: desidero, voglio, devo tendere con tutte le forze, dobbiamo tendere tutti, perché questa Repubblica abbia il contenuto sociale che avvinca a sé tutti quanti: tanto coloro, che originariamente erano repubblicani, quanto coloro che lo sono diventati il 2 giugno – e spero saranno tutti gli italiani – in un momento in cui è necessario guardare al popolo e pensare che Repubblica vuol dire popolo e che avvenire della Repubblica è avvenire del popolo italiano. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro dei trasporti intende rispondere anch’egli alla seguente interrogazione degli onorevoli Cifaldi e Lucifero, alla quale ha già risposto l’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno nella seduta del 27 febbraio scorso:

«Chiedono d’interrogare gli onorevoli Ministri dell’interno e dei trasporti, per conoscere che cosa ci sia di vero sui fatti pubblicati da qualche giornale circa il trasporto di ordigni di guerra e di materiale esplosivo fatto da privati su strada rotabile e per ferrovia e per conoscere quali provvedimenti intendano nel caso adottare per identificare e punire i colpevoli e prevenire l’eventuale ripetersi di fatti simili».

L’onorevole Ministro dei trasporti ha facoltà di parlare.

FERRARI, Ministro dei trasporti. L’interrogazione dell’onorevole Cifaldi e Lucifero, verosimilmente, si riferisce ad una pubblicazione apparsa sul Momento Sera del 15 febbraio.

Posso precisare quanto segue:

La Direzione generale delle ferrovie dello Stato ha disposto, insieme coi Commissariati compartimentali di pubblica sicurezza, accuratissime indagini sui trasporti effettuati antecedentemente al 25 febbraio. È risultato: nelle stazioni di Bologna e di Roma, stazioni alle quali si riferiscono le notizie date dai giornali, nessun carico abusivo di esplosivi è stato mai effettuato.

Risulta che sono stati eseguiti i seguenti trasporti regolari di materiale esplosivo, con destinazione allo scalo di Roma San Lorenzo: il 20 febbraio, un carico di esplosivo di chilogrammi 19,500, spedito dal deposito aeronautico militare di Vanvassone (Friuli) al 9° magazzino aeronautico militare; 21 febbraio, un carro di esplosivi di chilogrammi 16,200, stesso mittente e stesso destinatario.

All’infuori delle stazioni di Bologna e di Roma e indipendentemente dalle suddette indagini, svoltesi in tali stazioni, è stato constatato il giorno 21 febbraio un trasporto irregolare di esplosivi sul treno viaggiatori Torino-Roma.

E precisamente, all’atto della partenza di detto treno dalla stazione di Maccarese, dove aveva fermato un minuto per ragioni di servizio (perché il treno essendo direttissimo, non ha questa fermata) si sporse un viaggiatore dallo sportello di una vettura di 3a classe, gridando: «Qui c’è una valigia di dinamite». Il dirigente di Maccarese, che non ebbe il tempo di fermare il treno, avvisò subito del fatto il collega di Ponte Galeria (la stazione successiva), il quale provvide a far trovare all’arrivo del convoglio una pattuglia di carabinieri. Questa, dopo alcune ricerche, rinveniva nelle ritirate d’una vettura una cassetta di legno contenente circa 40 chilogrammi di tritolo, che fu scaricata e depositata in un punto lontano dal fabbricato viaggiatori, restando in consegna alla pattuglia dei carabinieri. Non è stato possibile identificare il viaggiatore che aveva dato l’allarme mentre il treno era già in moto e, d’altra parte, una volta consegnata la cassetta all’Arma dei carabinieri, esula dalla competenza di questo Ministero ogni ulteriore ingerenza nel fatto.

Le ferrovie dello Stato, nella accettazione di trasporti di esplosivi, si attengono rigorosamente alle norme prescritte, fissate in relazione al peso dell’esplosivo e alla sua natura. Tutta la materia è precisata dall’allegato 7, categoria 22, delle condizioni e tariffe per i trasporti delle cose sulle ferrovie, approvato per legge e in vendita al pubblico. Per quanto riguarda i trasporti di esplosivo sulle ferrovie in concessione, valgono le stesse norme che per le ferrovie dello Stato.

L’Ispettorato non ha finora notizia che trasporti abusivi di esplosivi siano stati effettuati dalle ferrovie in concessione. È stato rivolto invito a tutte le aziende esercenti tali ferrovie affinché sia svolta una accurata vigilanza sulle spedizioni delle merci.

In ordine ai trasporti privati su strade rotabili, ove si voglia far riferimento ai pubblici esercizi automobilistici, si fa presente che, essendo questi destinati al trasporto di persone, limitano il trasporto di cose ai soli bagagli e ai pacchi agricoli. Per quanto poi si riferisce ai veri e propri trasporti di cose effettuate da privati a mezzo di autocarri, l’Ispettorato non esercita alcuna diretta sorveglianza sulla natura dei carichi.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

CIFALDI. Ringrazio l’onorevole Ministro dei trasporti delle informazioni e dei chiarimenti forniti. Io mi riferivo però, nella mia interrogazione, non già alle garanzie necessarie per assicurare l’incolumità dei viaggiatori e delle cose circa il trasporto degli esplosavi, ma all’episodio, ricordato dallo stesso Ministro, relativo al trasporto di esplosivi fatto abusivamente da privati su un treno viaggiatori. Ed è per questo fatto che io richiesi contemporaneamente di interrogare il Ministro dell’interno e il Ministro dei trasporti affinché congiuntamente potessero fornirci le informazioni opportune. Indubbiamente il Ministro dei trasporti ha avuto della cortesia nel fare un riferimento preciso all’episodio ricordato; ma, a mio avviso, i chiarimenti dovrebbero essere forniti dal Ministro dell’interno, per quanto si riferisce alla sicurezza e alla tranquillità dei viaggiatori sulla nostra rete.

Qui non si tratta di una questione di tariffa o dei mezzi per assicurare che l’incolumità dei viaggiatori nei trasporti autorizzati di esplosivi, ma si tratta di assodare le possibilità di indagine in ordine alla responsabilità per un fatto di così grande e grave importanza.

E in effetti il Ministro dei trasporti ha dovuto dichiarare che, avendo fatto le ferrovie dello State consegna di questa cassetta ai carabinieri della stazione competente, alla prima fermata, il Ministro dei trasporti era liberato da ogni responsabilità. Per queste ragioni mi ero permesso di sollecitare qualche spiegazione da parte del Ministro dell’interno. Sono soddisfatto di quanto ha detto il Ministro dei trasporti, ma non per quanto si riferisce alla sostanza delle cose, sulla quale avrei desiderato chiarimenti da parte del Ministro dell’interno. Siccome il Ministro dell’interno non è presente, mi limito a formulare la raccomandazione perché gli organi competenti del suo dicastero vogliano portare avanti con la maggiore efficacia e premura l’inchiesta per assodare donde venissero e dove fossero dirette le rilevanti quantità di esplosivo. Forse con una più attenta indagine, fatta subito, si sarebbe potuto giungere, esaminando la posizione di tutti i viaggiatori, ciò che era non difficile trattandosi di un treno direttissimo, alla identificazione di colui il quale aveva fatto la consegna. Si tratta ora di continuare le indagini, per dare la sicurezza che si tende effettivamente a tutelare l’ordine e la tranquillità sulle linee ferroviarie e che si vuole evitare che i privati possano disporre delle ferrovie per trasporto di esplosivi, essendo evidente che tale trasporto non può avere che delle finalità non confessabili.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro dell’interno intende rispondere alla seguente interrogazione presentata, con richiesta di urgenza, dagli onorevoli Benedettini, Condorelli, Colonna, Penna Ottavia, Perrone Capano, Miccolis, nella seduta antimeridiana di ieri:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere: a) in base a quali disposizioni di legge l’onorevole Ministro si è inteso autorizzato a vietare con una circolare telegrafica «l’esposizione in pubblico o in luoghi aperti al pubblico della bandiera con lo scudo sabaudo e di altri emblemi della decaduta monarchia », scudo ed emblemi che sono anche insegne e distintivi di partiti e associazioni politiche; b) se ritenga che ciò, oltreché arbitrario ed illegale, non sia, comunque, contrario ai principî fondamentali e più certi della libertà politica; c) se non creda necessario revocare d’urgenza la denunciata circolare telegrafica, che costituisce un palese eccesso di potere, una flagrante violazione della libertà politica, una grave offesa al sentimento di milioni di italiani, un oltraggio alla storia».

L’onorevole Ministro dell’interno ha facoltà di parlare.

SCELBA, Ministro dell’interno. Rispondo agli onorevoli interroganti che io non sono disposto a revocare la disposizione telegrafica (Applausi), che fa divieto di esporre in luogo pubblico e nelle pubbliche manifestazioni la bandiera con lo scudo sabaudo o altri emblemi sabaudi. È anzi chiaro che mi propongo di rafforzare la disposizione già presa nell’interesse della Repubblica.

La ragione del provvedimento sta però nei suoi limiti: il divieto della esposizione della bandiera vale per i luoghi pubblici e per le pubbliche manifestazioni. Ed in tali limiti sta la ragione; cioè nel dovere che ha il Ministro dell’interno di garantire il pacifico sviluppo della vita politica del popolo italiano; sviluppo repubblicano che, come ha dichiarato il Presidente del Consiglio, per quanto riguarda la forma dello Stato, noi consideriamo definitivo. Questo Governo ha programmaticamente assunto l’impegno di difendere le istituzioni repubblicane.

L’ordine di divieto è stato originato da una serie di fatti che si sono verificati in Italia, cioè da dimostrazioni pubbliche con emblemi dinastici e col proposito di mettere in pericolo l’esistenza della Repubblica e la esecuzione della volontà popolare espressa con il referendum del 2 giugno.

Un Governo che sente il senso di responsabilità della sua ragion d’essere, mi pare che abbia questo elementare dovere di garantire la vita repubblicana dello Stato, impedendo qualsiasi manifestazione di carattere violento o provocatorio contro le istituzioni repubblicane. Ora, per impedire questi attentati alla libertà e alla sovranità popolare, espressi nel referendum del 2 giugno in senso repubblicano, per impedire questo attentato che viene ripetuto in diversi luoghi di Italia attraverso ostinate manifestazioni con emblemi dinastici, che rappresentano – dobbiamo dirlo – non un attentato alla storia, perché la storia non è in gioco, né un attentato alla libertà politica, ma un attentato alla pace del popolo italiano, ho preso questo provvedimento. (Applausi a sinistra e al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Condorelli ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CONDORELLI. È inutile ch’io dichiari che non sono sodisfatto da questa risposta. Però io credo di poter dar conto all’Assemblea delle ragioni per cui non sono sodisfatto e non può essere sodisfatto il popolo italiano e non lo possono essere i suoi rappresentanti (Commenti a sinistra). Perché la prima domanda che era contenuta nella mia interrogazione era tale che avrebbero potuto sottoscriverla tutti i 556 componenti di questa Assemblea. Io chiedevo al Ministro da quale disposizione di legge egli fosse autorizzato a limitare, con una circolare telegrafica, la libertà dei cittadini; sarà la libertà di propaganda, sarà la libertà politica, sarà la libertà di pensiero; saranno tutte queste libertà messe insieme. Io mi aspettavo che il Ministro dell’interno mi dicesse in base a quale legge egli fosse autorizzato a fare ciò. (Interruzioni). Io mi sarei atteso che un giurista mi rispondesse citandomi la legge che lo autorizzava a farlo. Egli mi ha parlato di ragioni d’ordine pubblico. Contesto queste ragioni d’ordine pubblico. Comunque, queste ragioni d’ordine pubblico potevano autorizzare il Governo a fare delle norme, potevano anche autorizzarlo a sciogliere determinate riunioni in cui queste agitazioni si fossero manifestate; non lo autorizzavano però certamente il Governo a stabilire con una circolare che la libertà dei cittadini italiani era così limitata.

E questa, cari signori, è l’opportuna chiosa a quanto ha detto poco fa il Presidente del Consiglio: un solo mezzo voi avete di consolidare la Repubblica: facendone veramente un regime di libertà!

CAMANGI. E di serietà!

CONDORELLI. E di serietà, certo. (Interruzione a sinistra). Quella serietà che non dimostra colui che mi interrompe in questo momento. Io ho posto una questione giuridica e mi attenderei che mi si rispondesse in questi termini. (Interruzioni).

PRESIDENTE. Non interrompano. Non raccolga le interruzioni, onorevole Condorelli.

CONDORELLI. Ora è indubbiamente questa una di quelle azioni che, sommate, potrebbero avere un effetto controproducente, quello di turbare l’ordine pubblico; perché voi darete la sensazione al popolo italiano che si voglia comprimere la sua libertà politica, che è prima di tutto libertà di propaganda che si estrinseca attraverso i simboli.

Poi, io avevo fatto anche un’altra domanda al Governo: se non gli sembrasse che questo provvedimento, comunque preso arbitrariamente, cioè non secondo legge, ma contro legge, fosse conforme ai principî della libertà. Questi da voi aborriti simboli, che poi sono i simboli intorno ai quali si è fatta l’unità d’Italia e con cui l’Italia è diventata protagonista della storia…

SCELBA, Ministro dell’interno. Ma, anche la disfatta è avvenuta con quei segni.

CONDORELLI. Anche; comunque l’Italia si è fatta onore attraverso quei simboli, ed è divenuta protagonista della storia!

Tutte le questioni che si sono agitate qui con elegante dibattito fra il Capo del Governo ed il leader del Partito repubblicano, si sono richiamate ai principî di libertà, secondo cui deve essere consentito a tutti i partiti di servirsi di qualsiasi emblema, così come nei tempi della monarchia, prima del fascismo, non si è mai vietato, che io sappia, nessun simbolo… (Commenti Rumori). Io mi riferisco a un periodo di libertà; (Commenti Interruzioni). Infatti, allora non è stato mai vietato che un partito adottasse persino una bandiera straniera e non è mai stata fatta nessuna limitazione ai partiti repubblicani nella scelta dei loro simboli.

Non dovete quindi fare limitazioni ai partiti aventi diversa dottrina e non bisogna dimenticare che, vogliate o non vogliate, i risultati che abbiamo avuto nel referendum, risultati che noi impugniamo e continueremo ad impugnare… (Interruzioni Commenti), risultati sui quali sarà fatta completa luce, sono stati tali per cui è indiscutibile che dieci milioni e 600 mila italiani hanno votato per la monarchia. (Rumori Commenti).

Oggi, un ministro, che è rappresentante della Sicilia monarchica, ha potuto fare una simile offesa al sentimento di così larghe correnti di italiani, che sono così ampiamente rappresentate nella sua Isola! Questa è dunque una palese offesa al principio di libertà ed io, non nell’interesse della mia idea, ma nell’interesse dello Stato, dico che voi avete offeso proprio quella Repubblica di cui parlava Cicerone e che non è certamente quella Repubblica che amava l’onorevole Pacciardi: respublica, secondo Cicerone,est res populi. Non amministrata, quindi, nell’interesse di una parte, più o meno vasta, ma amministrata nell’interesse della collettività, di tutta la collettività. (Interruzioni Commenti).

PRESIDENTE. Non interrompano! Ad un avversario si lascia libertà di parola.

CONDORELLI. Dicevo che altrimenti la Repubblica non sarebbe più respublica, ma res della parte al potere. E voi con questo atto, che di per sé è insignificante, fate una affermazione contraria. (Commenti a sinistra Applausi a destra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro dell’interno. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Sento il dovere di replicare all’onorevole Condorelli che anzitutto un Ministro non rappresenta la Sicilia monarchica, ma la Sicilia repubblicana. (Applausi a sinistra e al centro).

BENEDETTINI. Ma è per la monarchia che hanno votato le popolazioni meridionali!

SCELBA, Ministro dell’interno. Se l’onorevole Benedettini crede di utilizzare l’aula parlamentare per la propaganda politica ed elettorale in Sicilia, l’onorevole Benedettini sa che la Sicilia, il 2 giugno, attraverso i partiti, ha dato una espressione di maggioranza repubblicana, perché anche in Sicilia i partiti monarchici sono risultati in netta minoranza.

E quindi io dichiaro, nell’interesse della Sicilia, a nome della Sicilia, che posso parlare doppiamente della Sicilia repubblicana, perché la Sicilia è repubblicana nella sua maggioranza, perché io sono Ministro di un Governo repubblicano che ha preso l’impegno di difendere la Repubblica contro quel tentativo che voi, onorevole Condorelli, dichiarate, in questa Assemblea, che rappresenti un’affermazione di sovvertimento giuridico, politico e morale; perché quando voi dichiarate che continuerete ad impugnare quel referendum del 2 giugno, che noi consideriamo definitivo e legale, acquisito legalmente (Applausi a sinistra e al centro), noi abbiamo il diritto di difendere questo regime che è sorto dalla libera volontà del popolo italiano, contro tutte le mene che tendono a screditarlo e ad annullare quella che è stata la libera espressione del popolo italiano. E se nel difendere il regime repubblicano che il popolo si è dato liberamente, l’uso degli emblemi monarchici rappresenta un elemento di disordine nella vita italiana, il Ministro dell’interno, in virtù di una legge che esiste – esiste, sissignore, non è una illegalità che ha compiuto, perché, sia pure molto abusato, l’articolo 19 della legge di pubblica sicurezza consente ai prefetti di prendere tutte le misure necessarie per tutelare l’ordine pubblico italiano – il Ministro dell’interno non ha dato un ordine ai prefetti, ma li ha autorizzati a vietare l’emblema sardo e qualsiasi emblema dinastico, perché l’uso di questi emblemi, in questo momento, rappresenta un attentato al libero e pacifico sviluppo del popolo italiano.

Non c’è nessun attentato alla libertà politica dei partiti italiani, perché di questa libertà politica è garante il Ministro che vi parla e lo dimostra quotidianamente nella difesa contro tutti i tentativi che tendono a minare i diritti e le libertà dei cittadini.

Non è vietando un emblema in questo momento che rappresenta un segno di contraddizione e di disordine nella vita italiana, proprio per quelle ragioni che voi indicate, perché intendete contestare il risultato della volontà popolare, non è vietando questo emblema che si limita o viola la libertà dei cittadini, perché la esistenza vostra in questo Parlamento, la libertà garantita in tutte le maniere quando chiedete che sia garantita – ed io intervengo nell’interesse di tutti i partiti – dimostrano che il Governo della democrazia, della Repubblica garantisce tutte le libertà civili e politiche, garantisce tutti i partiti ed il loro libero sviluppo anche se, e ne ha il dovere, interviene per reprimere quelle manifestazioni politiche che possono turbare il libero sviluppo delle libertà civili e politiche. (Applausi).

PRESIDENTE. È così trascorso il tempo assegnato alle interrogazioni.

Discussione sul disegno di legge: Modifiche al Testo unico della legge comunale e provinciale approvato con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni (2).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Modifiche al Testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni (2).

È aperta la discussione generale. È iscritto a parlare l’onorevole Lami Starnuti. Ne ha facoltà.

LAMI STARNUTI. Onorevoli colleghi. Io ho da fare soltanto alcune modeste osservazioni in questa discussione generale. Mi ero iscritto a parlare con il proposito di proporre che la discussione del disegno di legge presentato e contenente modificazioni alla legge comunale e provinciale, venisse rinviato a dopo l’approvazione della Costituzione.

Nel progetto della legge fondamentale vi sono alcuni criteri di ordine generale, vi è la creazione di nuovi enti locali amministrativi i quali, senza dubbio, avrebbero potuto trovare accoglimento o disciplina in questo disegno di legge, che è necessariamente transitorio tra le vecchie leggi comunali e provinciali e quello che sarà il nuovo Codice di diritto amministrativo. Se noi, onorevoli colleghi, nelle discussioni e nelle deliberazioni sulla legge costituzionale, accetteremo il concetto e l’istituto della regione, ci troveremo necessariamente di fronte al problema di dare a questo concetto, finora teorico e giuridico, un contenuto pratico e concreto. A me pareva che queste modificazioni alla legge comunale e provinciale avrebbero dovuto o potuto essere ritardate, per rispondere anche a questo bisogno che si manifesterà assoluto e urgente.

Io non so se nel nuovo ordinamento giuridico italiano la Provincia sarà mantenuta, o se la Provincia sarà trasformata secondo le proposte della Commissione dei 75. Nel primo caso noi dovremo coordinare la Provincia alla Regione, e nel secondo caso, nell’ipotesi, cioè in cui la Provincia non sia mantenuta come ente autarchico, noi potremo utilizzare provvisoriamente tutte le disposizioni di legge che regolano la vita dell’Amministrazione provinciale per regolare la nuova vita dell’ente regionale.

Per questo, dicevo, mi pareva opportuno che il disegno di legge venisse ritardato, avesse atteso cioè la discussione della nostra Costituzione per far tesoro di quelli che saranno i voti e le decisioni dell’Assemblea Costituente.

Il disegno di legge, alla sua lettura, non può che deludere. È senza dubbio una cosa modesta. Dopo vent’anni di regime dittatoriale, dopo vent’anni di distruzione di quasi tutte le libertà comunali, dopo che i Comuni italiani erano stati ridotti dal fascismo ad organi amministrativi del potere centrale, vedere delle proposte di riforme così tenui e così modeste, come sono quelle contenute nel disegno di legge che noi esaminiamo, non può che essere oggetto di meraviglia.

Il disegno di legge riporta puramente e semplicemente i Comuni nello Stato giuridico in cui si trovavano prima del fascismo, riporta i Comuni a quella che è la vigilanza e la tutela dell’autorità centrale. Dirò, anzi, che non li riporta nemmeno completamente alla loro situazione giuridica preesistente, perché il disegno di legge mantiene quella figura singolare, strana, del segretario comunale, del capo cioè della burocrazia comunale, alle dipendenze del potere centrale, alle dipendenze del Ministero dell’interno, lasciando così viva una delle maggiori ferite che all’autonomia comunale aveva inferto il regime fascista.

Tutto questo il disegno di legge non esamina; di tutto questo non si grava nemmeno. Ed allora io mi domando: è opportuna questa modificazione, sia pure a carattere transitorio, della nostra legge comunale e provinciale, quando fra qualche mese, se non fra qualche settimana, si presenteranno le urgenze alle quali io ho modestamente e brevemente accennato? Non sarebbe più opportuno e più logico sospendere il disegno di legge per riprenderlo in esame quando la Costituzione sarà approvata, quando i nuovi concetti di autonomie comunali saranno sanciti nella Costituzione, quando il grave problema amministrativo che sorgerà per la creazione delle Regioni, per il mantenimento delle Provincie, sarà stato risolto dall’Assemblea Costituente?

Mi si consenta un’altra osservazione. Il decreto legislativo luogotenenziale 7 gennaio 1946, n. 1 introducendo la proporzionale nelle amministrazioni comunali, ha creato nuovi problemi per la continuità e il funzionamento delle nostre amministrazioni locali. Io non sollevo il problema in sé del mantenimento della proporzionale amministrativa: discuteremo questo problema, se verrà in discussione, in occasione delle prossime leggi elettorali. Ma richiamo l’attenzione del Ministro dell’interno su quella che è la situazione creatasi in conseguenza dell’applicazione della proporzionale ai consigli comunali. Io non vorrei che in molti Comuni d’Italia ci fossero prossime crisi o difficoltà di funzionamento.

Nella legge del 1915 vi è una disposizione, che, fra qualche mese, potrà turbare la vita ed il funzionamento delle amministrazioni comunali: quella disposizione, cioè, o quelle disposizioni che riguardano l’approvazione dei conti consuntivi e per i quali i componenti delle Giunte comunali e il Sindaco potranno, sì, intervenire nelle discussioni del conto da loro presentato e che i Consigli esaminano, ma dovranno necessariamente astenersi dalla votazione per l’approvazione del bilancio, non soltanto per assolute ragioni di dignità morale, ma perché questo è il preciso categorico disposto della legge.

Ed allora, quando le amministrazioni comunali non beneficeranno, e difficilmente beneficiano, d’una larga maggioranza nel Consiglio comunale, queste astensioni necessarie e forzate nell’approvazione del bilancio consuntivo potranno porre le amministrazioni comunali in minoranza ed in crisi. Cosa accadrà, onorevoli colleghi, se nei nostri Consigli comunali i conti consuntivi non saranno approvati per un giuoco politico di opposizione?

Il disegno di legge non esamina affatto nemmeno questo aspetto del problema, che, a mio avviso, è pure urgente; e nemmeno la relazione, fa parola di alcuno dei problemi cui ho accennato.

Ed allora – io mi proponevo soltanto di porre all’attenzione dell’Assemblea queste modeste osservazioni e queste domande – non sarebbe preferibile fare l’esame di questo disegno di legge con maggiore competenza e tranquillità in un secondo tempo, quando tutti questi problemi di carattere amministrativo saranno davanti a noi sicuri? Altrimenti, oggi ci troveremo a fare una legge transitoria, cui fra poche settimane dovrà seguire altra legge transitoria per dare esecuzione alle norme di carattere costituzionale che l’Assemblea Costituente avrà deliberate ed approvate.

Ho presentato, ad ogni modo, alcuni emendamenti che racchiudono le osservazioni alle quali ho brevemente accennato. Se la Assemblea Costituente, se la Commissione parlamentare incaricata dell’esame del disegno di legge, non saranno d’avviso di sospenderne la discussione per rinviarla a dopo l’approvazione della Costituzione, io ritornerò, in sede di emendamenti, sulle questioni alle quali ho accennato, non soltanto per difendere, da un punto di vista tecnico, gli emendamenti da me proposti, ma soprattutto per difendere quello che io credo indispensabile nella vita amministrativa locale, cioè l’autonomia piena ed assoluta dei nostri Comuni.

Il disegno di legge, come ho detto, mantiene non soltanto il controllo di legittimità, il quale è necessario perché risponde ad una esigenza di legalità e di giustizia, che ha valore assoluto, ma mantiene anche la tutela di merito, la quale ferisce l’autonomia dei Comuni, impedisce alle amministrazioni comunali di governarsi con i propri criteri e i propri sentimenti e subordina al beneplacito delle autorità centrali tutta la vita e tutto lo slancio delle amministrazioni comunali.

Se si dovrà scendere all’esame particolareggiato del disegno di legge, ritornando sugli emendamenti, difenderò soprattutto quest’ordine di idee, il quale ha già avuto l’approvazione della Commissione dei 75, perché lo ritengo, più che utile, necessario, indispensabile ad una vita proficua e altamente feconda dei Comuni italiani. (Applausi).

PRESIDENTE. Onorevole Lami Starnuti, lei ha accennato alla sospensiva, ma io le faccio osservare che la richiesta di sospensiva può essere discussa soltanto se presentata per iscritto da 15 Deputati.

LAMI STARNUTI. Onorevole Presidente, mi ripromettevo di presentarla formalmente dopo la discussione.

PRESIDENTE. Ciò non è possibile, dato che si deve decidere se sospendere o no la discussione. La faccia quindi pervenire rapidamente.

LAMI STARNUTI. Sta bene.

PRESIDENTE. Essendomi pervenuta da parte dell’onorevole Lami Starnuti la richiesta di sospensiva con le prescritte firme, hanno diritto di parlare due oratori a favore della sospensiva e due contro.

PRIOLO. Chiedo di parlare contro la sospensiva.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PRIOLO. Non so se onorevole Lami Starnuti abbia mai rivestito la carica di sindaco: se sì, mi meraviglio che chieda la sospensiva di questo disegno di legge. Quanti di noi hanno avuto il grande onore, ma anche il pesantissimo onere di essere stati o di essere ancora, sindaci, conoscono le difficoltà enormi, attraverso le quali i comuni si muovono, con danno delle collettività e del regime repubblicano, difficoltà che pongono i nuovi amministratori comunali, nominati in seguito a libere elezioni, in grandissime imbarazzo. Mi ero illuso, conversando giorni or sono con il compagno Lami Starnuti, di averlo persuaso a non proporre la sospensiva: purtroppo ho predicato al vento. Siamo d’accordo che in un secondo tempo potrà essere fatto meglio e di più, ma occorre intanto cominciare a fare qualche cosa. Il progetto in esame non è perfetto, ed io stesso lo dirò più tardi e presenterò alcuni emendamenti, ma d’altra parte occorre uscire, sia pure in via transitoria, dalla precaria situazione attuale, la quale può essere così riassunta. Quando gli Alleati sbarcarono nel Mezzogiorno, soppressero la legge comunale e provinciale fascista del 1934 e rimisero in vigore quella del 1915. Si accorsero però subito dopo, che la legge del 1915 non suffragava completamente, ed allora si servirono ora dell’una ora dell’altra, contemperandole con uno spirito pratico, che noi dobbiamo prendere ad esempio; ma, andati via gli Alleati, si tornò alla legge del 1934. A questa situazione incerta occorre però porre intanto un rimedio. Siccome la Costituente ha ancora quattro mesi di vita, il Ministro dell’interno potrà frattanto presentare un nuovo disegno di legge più organico e più ampio.

Perché, prima che si metta in moto tutto l’ingranaggio burocratico, conseguente alla riforma costituzionale, dovranno passare, a mio avviso, almeno due anni e non è assolutamente possibile ed opportuno prolungare di tanto la situazione attuale. Ciò risulterebbe pregiudizievole alle collettività ed allo stesso regime repubblicano, perché nei paesi, specialmente in quelli del Mezzogiorno, non si esita a giudicare la Repubblica dal modo come funziona l’amministrazione comunale. Ora, non fare niente in attesa di fare di più è per me un male: cominciamo a fare qualche cosa, togliamo alcuni controlli, liberiamo i comuni da alcune opprimenti bardature, snelliamo un poco la vita delle amministrazioni comunali.

Io sono stato sindaco di Reggio Calabria prima e poi prefetto politico di quella provincia: porto quindi in questa discussione il frutto di una esperienza pratica.

E poiché desidero la discussione e la sollecita approvazione, sia pure con i dovuti emendamenti, dell’attuale disegno di legge, chiedo che l’Assemblea respinga la proposta di sospensiva, che anzi vedrei volentieri ritirata dallo stesso proponente. (Approvazioni).

CONDORELLI. Chiedo di parlare a favore della sospensiva.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Sono convinto che l’Assemblea farebbe cosa savia rinviando l’esame del disegno di legge in discussione. Mi pare che l’intervento dell’onorevole Priolo abbia portato argomenti, anziché contro, a favore della sospensiva. L’onorevole Priolo si rende infatti conto che le decisioni della nostra Assemblea in rapporto al progetto di Costituzione, che prevede l’autonomia regionale e l’autonomia comunale, porteranno certamente alla formazione di una nuova legge comunale e provinciale, per necessità. Ma dice che questa legge verrà troppo tardi; che intanto sono necessari altri emendamenti, altri ritocchi per continuare sino a quando la nuova organica non ci sarà. E allora oggi facciamo dunque una prima serie di provvedimenti, salvo fra due mesi a farne una seconda serie, e poi tornare sull’argomento in via definitiva. Evidentemente tutto questo non conferirebbe né al principio dell’economia dei nostri dibattiti, né all’economia dell’attività legislativa e nemmeno alla bontà dell’opera nostra, perché si sa che questi ritocchi che si susseguono uno dopo l’altro incrinano l’organicità di una legge, che poi è il primo requisito di tutte quante le leggi.

Dunque, se davvero volessimo fare dei ritocchi ulteriori, non previsti da questo progetto e che l’esperienza dell’onorevole Priolo ci lascia supporre necessari e urgenti, sarebbe per lo meno il caso di esaminare i ritocchi oggi proposti insieme con i ritocchi che vorrà proporre l’onorevole Priolo.

Mi pare, dunque, che le ragioni espresse dall’onorevole Priolo vengano a sorreggere la richiesta della sospensiva. Questo mi pare troppo evidente e credo che su questo non si possa dubitare. Discutiamo, una volta tanto, al di fuori degli schieramenti politici.

PRIOLO. Facciamo questo intanto.

CONDORELLI. È un provvedimento in materia amministrativa, puramente tecnico, sul quale mi aspetterei che si votasse al di fuori degli schieramenti. Non c’è nessun dibattito di carattere politico: ci possiamo benissimo intendere. Ora io mi sono inteso su questo con l’onorevole Priolo, e mi sembra, in sostanza, che io venga a dar ragione a lui, e lui venga a dar ragione a me; cioè che è inutile che torniamo sullo stesso argomento a distanza di due mesi. (Interruzioni).

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, la prego di concludere.

CONDORELLI. Debbo ancora dire gli argomenti miei; questi sono gli argomenti dell’onorevole Priolo. Noi, in fondo, siamo oggi in argomento di autonomie locali e dobbiamo giudicare su questa questione. Se vogliamo fare dei ritocchi a questa legge, aspettiamo le direttive che ci verranno dalla Costituzione; e dopo esamineremo magari in sede di ritocchi, non di legge organica, questi stessi ritocchi con le direttive che ci avrà dato la discussione che qui si svolgerà.

Ma poi io trovo che anche per altre ragioni non sia il caso di discutere oggi questo disegno di legge. Esso in sostanza, tende ad attenuare i controlli del Governo, e magari ad escluderli in una certa maniera. Io penso che questa è una delle ragioni dell’intempestività di questa legge. E questa ragione, badate, non ha relazione con lo schieramento politico al quale io appartengo, giacché la dottrina liberale è proprio fautrice del «self-government», è fautrice delle autonomie locali. E aggiungo che, se anche volessi guardare agli interessi transeunti del mio schieramento politico, dovrei vedere di buon occhio tutte quelle disposizioni che tendono a diminuire le interferenze del Governo, del quale sono oppositore. Evidentemente!

Dunque, interessi teorici e pratici del mio schieramento politico mi dovrebbero portare ad essere favorevole a questa legge. Ma è proprio la mia preoccupazione per gl’interessi del Paese che mi fa porre in seconda linea quelli che potrebbero essere gli interessi dottrinari o pratici del mio schieramento.

Ora, noi, in questo momento, credo che, se mai, dovremmo aumentare i controlli perché si è ripetuto ovunque che ci troviamo in una situazione…

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, non entri nel merito!

CONDORELLI. No, voglio soltanto riferirmi alla ragione di intempestività di queste disposizioni. Siamo tutti d’accordo che navighiamo in un momento in cui la miseria è dilagante, e volete proprio in questo momento diminuire il controllo di merito? La sostanza di queste disposizioni è che si diminuiscono i controlli di merito, e si lasciano modificati i controlli di legittimità. Si abolisce però il controllo di merito del Prefetto. Ma vi pare che sia proprio questo il momento di farlo? C’è anche un’altra ragione: la tradizione amministrativa del nostro Paese è stata scombussolata. L’antica classe degli amministratori, che era costituita di uomini dei partiti e degli uomini più in vista della politica locale, fu dal fascismo allontanata dalle amministrazioni.

PRESIDENTE. Lei deve parlare sull’opportunità o meno della sospensiva, senza divagare.

CONDORELLI. Io dico che in questo momento la classe degli amministratori, tanto quella prefascista, quanto quella che bene o male si formò durante il fascismo, è stata messa in disparte. Noi ci troviamo di fronte a degli amministratori che, anche se hanno retta coscienza, hanno una certa inesperienza. Ora, è questo il momento di togliere o attenuare i controlli? A me sembra che queste e molte altre ragioni militino per la sospensiva.

Prima di tutto bisogna tener conto delle direttive che ci verranno dalla discussione che si farà sulle autonomie regionali, e questo darà tempo perché la tradizione amministrativa si riprenda e siano più preparate le amministrazioni alla più larga autonomia. Le amministrazioni oggi non sono preparate né tecnicamente, né, spesse volte, politicamente. Io mi dichiaro, quindi, per la tesi della sospensiva.

PLATONE. Chiedo di parlare contro la sospensiva.

QUINTIERI ADOLFO. Chiedo di parlare anch’io contro la sospensiva, come rappresentante dell’Associazione dei Comuni d’Italia.

PRESIDENTE. Non posso concederle di parlare, in quanto ha già chiesto di parlare contro la sospensiva l’onorevole Platone.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Platone.

PLATONE. Onorevoli colleghi, noi siamo contro la sospensiva. L’esperienza di due anni ha dimostrato soprattutto che la vita dei Comuni è priva di respiro, è oppressa dall’intervento continuo operato dai prefetti e paralizzata dalla mancanza di un termine perentorio entro il quale l’autorità tutoria debba esprimere il suo parere, prendere le proprie decisioni.

Abbiamo fatto così la nostra amara esperienza in questi due anni di amministrazione comunale; abbiamo avuto contratti importanti annullati dalla tardata approvazione da parte delle autorità tutorie; abbiamo avuto dei casi anche dolorosi nelle nostre amministrazioni dovuti a questo intralcio insormontabile da parte delle autorità tutorie.

È per questo che noi siamo contro la sospensiva, in quanto questo progetto, pur essendo poca cosa, è sempre qualche cosa.

Questa situazione di disagio delle nostre amministrazioni è di tutti i giorni ed è intollerabile, né valgono a mitigarla sensibilmente i buoni rapporti che si stabiliscono con i prefetti, con le autorità tutorie, né valgono le continue sollecitazioni.

Ritengo pertanto necessario che ogni qual volta sia richiesto il parere del prefetto e della Giunta provinciale amministrativa, sia sempre fissato un termine perentorio entro il quale la decisione deve essere presa e notificata.

Poiché in questo progetto vi è qualche cosa in questo senso, noi siamo contro la sospensiva.

PRESIDENTE. Onorevole Platone, le annuncio il ritiro, da parte dell’onorevole Lami Starnuti, della proposta di sospensiva.

PLATONE. Allora, non ho altro da aggiungere.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Lami Starnuti. Ne ha facoltà.

LAMI STARNUTI. Non insisto nella domanda di sospensiva, anche perché la domanda è combattuta o accolta per ragioni antitetiche e contraddittorie. Mi si permetta un’osservazione.

L’onorevole Condorelli, che aderisce alla proposta di sospensiva, vi aderisce per mantenere sui comuni il giogo del potere centrale.

Nella mia intenzione, invece, come ho detto, la proposta di sospensiva era fatta per affermare, in migliori condizioni, il diritto dei comuni alla loro piena autonomia.

Discutiamo pure il disegno di legge. Quando la Costituzione sarà stata approvata, chiederemo all’onorevole Ministro dell’interno di proporre un’altra legge per coordinare con la Costituzione le varie leggi sugli enti locali.

PRESIDENTE. Allora si continui la discussione sul disegno di legge.

CONDORELLI. La proposta di sospensiva la facciamo noi!

PRESIDENTE. Deve essere sottoscritta da 15 deputati.

CONDORELLI. Ma è stata già presentata con la firma di 15 deputati.

PRESIDENTE. È stata ritirata!

CONDORELLI. La riproduciamo.

PRESIDENTE. Occorre una nuova proposta di sospensiva che abbia 15 firme. Se non vede questa possibilità, onorevole Condorelli, è preferibile non insistere.

Lei ha largo campo d’intervento quando si tratterà degli emendamenti.

CONDORELLI. Mi permetta, onorevole Presidente. Mi pare che i colleghi della sinistra abbiano ritirato questa proposta di sospensiva per la sola ragione che ho avuto la disavventura di sostenerla io. Evidentemente è così.

Quali che potessero essere le ragioni di merito che potevano indurre me ad essere d’accordo con loro, eravamo perfettamente d’accordo nella sospensiva, perché dicevamo che questo problema si deve esaminare funditus.

PRESIDENTE. Si prosegua nella discussione generale. Ha chiesto di parlare l’onorevole Priolo. Ne ha facoltà.

PRIOLO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. Se il collega, onorevole Lami Starnuti, col quale avevo parlato qualche giorno fa, si fosse persuaso, come io consigliavo, della inopportunità della sospensiva, noi avremmo risparmiato tempo ed io avrei già esposto le mie considerazioni sulla legge. Comunque, la sospensiva è stata ritirata e possiamo andare avanti nella discussione.

Ora, onorevoli colleghi, io sento il bisogno, ed anche il dovere, di esporre brevemente qualche rilievo, che mi sembra importante, sul disegno di legge in discussione, perché, come sindaco e come prefetto, ho vissuto per due anni dopo la liberazione la vita degli enti locali, ho conosciuto le difficili condizioni delle amministrazioni, ed ho condiviso il tormento dei nuovi amministratori democratici, costretti a lottare giornalmente contro difficoltà finanziarie insuperabili e, quel che è peggio, contro ostacoli giuridici e burocratici che il fascismo, insieme con innumeri altri malanni, ci ha lasciati in eredità, e che paralizzano il funzionamento delle Provincie e dei Comuni;

È ormai ora, onorevoli colleghi, di rimuovere tali ostacoli, dopo tre anni di regime democratico, per rendere meno arduo e pesante il compito degli amministratori, e per far sì che le amministrazioni, sorte dai liberi suffragi, non siano esposte a deprecabili insuccessi, che potrebbero apparire derivanti dal nuovo ordine democratico e che sarebbero sfruttati a fine politico, mentre in realtà essi sarebbero determinati unicamente dal perdurare d’impedimenti e di interferenze della legislazione fascista, in contrasto con i bisogni attuali degli enti e coll’aspirazione del popolo al decentramento ed alla autonomia.

Dell’autonomia si discuterà in seguito, a proposito della nuova Costituzione, per valutare fino a qual punto e come l’autonomia potrà giovare alla vita locale, armonizzandosi con la vita nazionale; ma intanto debbo osservare che un’autonomia locale anche limitata deve essere preceduta e preparata da un coraggioso decentramento dell’Amministrazione statale, e da una larga autarchia degli enti locali, poiché, continuando sulla strada finora seguita, ci troveremo nella situazione anacronistica di dover attuare un’autonomia regionale mentre sarà ancora vigente ed operante l’ordinamento accentratore del fascismo.

Quale è oggi la legge comunale e provinciale in vigore? Durante i sei mesi in cui il Governo militare alleato resse direttamente il Mezzogiorno, abolì senz’altro la legge comunale e provinciale fascista del 3 marzo 1934, e rimise in vigore l’ultima legge comunale e provinciale democratica, che è quella del 4 febbraio 1915.

Ma gli stessi Alleati rilevarono nell’applicazione che la legge del 1915 era insufficiente, talché essi finirono coll’applicare anche la legge del 1934 ogni qualvolta ciò risultò conveniente.

Non appena i poteri degli Alleati furono trasferiti al Governo italiano, questo rimise in vigore ed applicò unicamente la legge fascista del 1934, ma poiché essa demanda al Governo stesso la nomina degli amministratori locali, è stata modificata una prima volta col decreto legislativo luogotenenziale del 7 gennaio 1946, che regola la ricostituzione delle amministrazioni comunali elettive.

Tale decreto, emanato prima della elezione di questa Assemblea, potrà essere riveduto e completato dalla nuova Camera, quando essa procederà alla formazione della nuova legge comunale e provinciale.

Invece, il disegno di legge che stiamo discutendo, e che costituisce una seconda modifica alla legge comunale e provinciale vigente, merita tutta la nostra attenzione, perché nelle intenzioni del Governo esso si propone (cito le parole della relazione) «di apportare una semplificazione nel vigente sistema dei controlli in modo da rendere meno grave l’ostacolo, che essi frappongono allo svolgimento della vita amministrativa degli enti locali». In realtà però, è ben lontano da tale finalità, e costituisce appena un timido tentativo di semplificazione informato a schemi teorici tradizionali, non più aderenti all’attività odierna degli enti locali.

Senza scendere a dettagli, che metterebbero a prova la vostra pazienza, accennerò per sommi capi alle lacune del decreto in esame, ed alle aggiunte e modificazioni che mi appaiono urgenti.

I venti articoli del disegno in esame contengono:

1°) un aggiornamento, in rapporto al valore della lira, dell’importo dei contratti per i quali è consentita la licitazione o la trattativa privata; dei contratti da sottoporsi al parere del Consiglio di prefettura: degli atti da sottoporsi alla Giunta provinciale amministrativa; dei progetti di opere da sottoporsi al parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici ed a quello del genio civile.

2°) La modificazione delle Commissioni di disciplina degli impiegati o salariati dei Comuni e delle Provincie, con l’aggiunta dei rappresentanti delle amministrazioni e delle categorie interessate.

3°) La sostituzione del controllo preventivo col controllo repressivo di legittimità del prefetto sulle deliberazioni dei consigli o delle giunte comunali e delle deputazioni provinciali.

Com’è evidente si tratta di modesti ritocchi alla legge vigente, che mantengono al prefetto la facoltà di intervenire nell’attività degli enti locali, per agevolarli od ostacolarli secondo proprie direttive personali o secondo la volontà e le disposizioni del Governo centrale.

Ora, sembra inutile avere ripristinato le amministrazioni comunali elettive, quando a queste non si assicuri la possibilità di funzionare con libertà d’iniziativa e di esecuzione, e con organi e mezzi idonei; e sembra grave incoerenza che, mentre nelle Commissioni della nuova Costituzione sono stati approvati all’unanimità o a grande maggioranza moderni ordinamenti di autonomia locale, si mantenga nella legge comunale e provinciale vigente, quell’ordinamento fascista, che l’esperienza ha dimostrato deleterio, e per la sua inefficienza sostanziale mal dissimulata sotto un presuntuoso formalismo, e, soprattutto, per l’esoso centralismo autoritario, che per venti anni ha tenuto in piedi la dittatura ed ha corrotto ed ingannato il popolo italiano. (Applausi).

Poiché son certo che il Governo e tutti i partiti democratici sono animati dal desiderio di andare incontro alle nostre Provincie ed ai nostri Comuni per aiutarli a risolvere i problemi locali, oggi complicati e moltiplicati da enormi difficoltà economiche e finanziarie di ordine nazionale, propongo che entro il breve periodo di attività, che ancora resta alla Costituente, il Governo presenti un disegno di legge, che modifichi opportunamente la legge comunale e provinciale fascista, conferendo una maggiore autarchia agli enti locali per il periodo di uno o due anni, che presumibilmente dovranno ancora trascorrere prima che la nuova Camera legislativa possa approvare la nuova legge comunale e provinciale sulla scorta della nuova Costituzione.

Le modifiche che i nostri comuni chiedono unanimi e che gli esperti ritengono non dilazionabili, sono fondate sui seguenti criteri:

1°) Totale abolizione del controllo di legittimità del prefetto, che il disegno in esame trasforma invece da preventivo in repressivo; il che significa che i Comuni dovrebbero rimettere, come oggi fanno, copia di tutte le deliberazioni dei consigli e delle giunte alle prefetture, le quali dovrebbero egualmente rivederle, per annullare quelle eventualmente viziate da violazioni di legge.

SCELBA, Ministro dell’interno. Di questo si parlerà in sede di discussione degli articoli.

PRIOLO. Per ora accenno genericamente, a suo tempo proporrò degli emendamenti.

Si tratterebbe, quindi, di un visto tacito, che non allevierebbe in alcun modo il lavoro degli uffici municipali e prefettizi, e che, come ho detto, consentirebbe in ogni caso (sia pure con pretesti legali) l’intervento nell’amministrazione locale del prefetto.

Tale controllo defaticante per gli uffici e politicamente inammissibile, risulta praticamente inutile, perché a garanzia della legge e dei terzi basterebbe stabilire che le sole deliberazioni contro le quali venissero elevati reclami, fossero sottoposte insieme colle opposizioni all’esame, non del prefetto, ma della Giunta provinciale, per l’eventuale annullamento.

2°) Totale abolizione dei pareri e dei controlli del Consiglio di prefettura, che è un doppione del prefetto, perché costituito da funzionari da lui dipendenti.

Si tratta del resto di un organo, che in molte prefetture non funziona da tempo, e che esiste solo formalmente, per dare autorità collegiale a relazioni compilate secondo le istruzioni del prefetto da singoli funzionari, designati caso per caso dal prefetto stesso.

3°) Mantenimento del controllo preventivo sui bilanci comunali e provinciali del controllo di merito nel corso della gestione sugli atti più importanti delle amministrazioni; nonché del controllo contabile successivo sui conti consuntivi annuali, riservando però tale controllo unicamente alla Giunta provinciale amministrativa.

Un sistema di completa autarchia dovrebbe affidare ogni controllo sulle amministrazioni locali ad organi locali elettivi come le amministrazioni stesse, ma perché ciò presupporrebbe un grado di esperienza amministrativa e di maturità democratica, che ancora non abbiamo raggiunto, si può ammettere per alcuni anni ancora l’esistenza della Giunta provinciale amministrativa così com’essa è oggi, cioè un organo misto di componenti elettivi e di elementi tecnici, nell’intesa però, che, quando si applicherà la nuova Costituzione, i funzionari tecnici, oggi governativi, passeranno alla dipendenza dell’ente autarchico regionale o provinciale, mentre il presidente della Giunta amministrativa sarà elettivo.

Però, lasciando in vita l’attuale organo misto, è necessario che il numero dei componenti elettivi sia portato da 4 a 7, per modo che nell’eventualità di una votazione prevalga la decisione degli elementi rappresentativi locali su quella dei funzionari tecnici.

Vedrà la futura Camera legislativa se i membri rappresentativi della Giunta amministrativa debbano essere eletti dall’Assemblea dei Sindaci, o dai Consigli comunali, ma intanto i membri da aggiungersi a quelli oggi in carica potrebbero essere nominati, come questi ultimi, dalle amministrazioni provinciali.

Per tal modo le amministrazioni comunali, alleviate da un lavoro burocratico inutile, sarebbero più libere nella loro attività, mentre le Giunte provinciali amministrative, quali unici organi di controllo autarchico locale, potrebbero meglio dedicarsi alla vigilanza finanziaria e contabile, che deve essere sviluppata ed intensificata in un regime di democrazia, il quale voglia dimostrare coi fatti che il denaro dei contribuenti è sacro, e che come tale esso viene rigidamente amministrato e tutelato. (Approvazioni).

4°) Attribuzione alla Giunta provinciale amministrativa anche dei controlli di merito, oggi affidati al Ministero dell’interno ed alla Commissione centrale per la finanza locale.

In regime fascista, per la manìa centralista, che la burocrazia alimentava di buon grado, allo scopo di istituire nuovi uffici ministeriali e nuovi posti nei gradi superiori, fu avocata al Ministero dell’interno tutta la materia relativa ai segretari comunali, e assorbita dal Ministero delle finanze quella della finanza locale, istituendo per tale ultimo scopo una direzione generale.

Sarebbe lungo ridire i ritardi, i disagi, i danni, che tali avocazioni hanno apportato ai Comuni, i quali chiedono, perciò, che il sistema vigente sia modificato e decentrato.

Ed a tale fine i segretari comunali potrebbero, comunque, essere considerati quali funzionari di Stato, ma dovrebbe essere riservato alle Giunte amministrative delle rispettive Provincie di giudicarli, di promuoverli, di trasferirli nell’ambito della Provincia, ed anche fuori Provincia per accordi interprovinciali.

Il fascismo istituì e poi abolì in ogni Provincia un consiglio di amministrazione, che, formato da un ispettore, da un consigliere e da un ragioniere capo di prefettura, era in grado di valutare la capacità ed il rendimento dei segretari, e tale consiglio potrebbe essere utilmente ripristinato, ma completato con almeno tre membri eletti dalla classe interessata per dar parere su tutti i provvedimenti relativi ai segretari comunali.

Questi, infatti, sono oggi trasferiti e promossi a volontà dei prefetti e del Ministero dell’interno, con danno delle amministrazioni interessate, le quali si vedono all’improvviso private di ottimi elementi e costrette ad accettarne in cambio altri scadenti e non desiderati, senza avere neanche il diritto di esprimere il proprio parere.

Circa la Commissione centrale per la finanza locale, essa è competente, fra l’altro, ad approvare i bilanci dei Comuni, che non riescono a pareggiare la propria gestione con le ordinarie risorse, previste dalla legge, e che, perciò, hanno bisogno di un contributo d’integrazione dello Stato. E, poiché nell’attuale periodo quasi tutti i Comuni italiani sono deficitari, quella Commissione ha dovuto rivedere ed approvare migliaia di bilanci, non avendo all’uopo adeguato numero di funzionari competenti: da ciò enorme ritardo nella restituzione dei bilanci ai comuni.

SCELBA, Ministro dell’interno. Ma questi non li mandano in tempo.

PRIOLO. Ciò’, onorevole Ministro, talvolta è vero, ma molti sono gli inconvenienti, che derivano da tale accentramento. Basterà per tutti accennare al fatto che i bilanci approvati da tale Commissione pareggiano solo fittiziamente, perché dagli stessi vengono stralciate molte spese obbligatorie, mentre vengono aggiunte entrate non realizzabili.

Ciò si verifica perché, chi sta al centro si trincera facilmente dietro enunciazioni formali, e ritiene a torto, che, dilazionare i problemi, sia anche un modo di risolverli.

Lo stesso Ministero delle finanze si è accorto che le cose non possono continuare così come oggi vanno, e di recente ha consentito che i bilanci dei Comuni, con popolazione inferiore a 5000 abitanti, siano approvati dalle Giunte amministrative.

È questo un provvedimento lodevole, ma insufficiente e che perciò deve essere esteso a tutti i Comuni e a tutte le Provincie.

Il Ministero delle finanze obietterà che, quando lo Stato deve concedere contributi per centinaia di milioni e per miliardi, non può affidarsi alle decisioni di organi locali come le Giunte amministrative, ma è facile rispondere che delle giunte fanno parte oggi anche gli intendenti di finanza, i quali possono tutelare gli interessi dell’erario dello Stato.

Il Ministero delle finanze, all’evidente scopo di garantirsi contro eventuali larghezze delle Giunte, ha richiesto che i bilanci dei Comuni inferiori a 5000 abitanti, siano approvati su relazione degli intendenti di finanza, e questa norma ricalca le orme e ripete gli errori, già commessi dal Governo militare alleato, il quale, ignorando l’ordinamento statale italiano, attribuiva agli intendenti compiti per i quali mancava loro la competenza e la preparazione.

Ora, se si vuol restare nel campo della realtà, bisogna riconoscere che i bilanci dei Comuni debbono essere approvati su relazione del competente della Giunta amministrativa, specificamente competente in materia, che è il ragioniere capo della prefettura, il quale, attraverso l’esame dei conti consuntivi e tutto il controllo esercitato dal suo ufficio, è in grado di prospettare alle giunte stesse le reali risorse patrimoniali, la capacità contributiva ed il fabbisogno di spesa dei Comuni.

E però, qualora il Ministero delle finanze voglia prevenire eccedenze nelle concessioni di contributi statali, egli potrà raggiungere praticamente meglio lo scopo, stabilendo responsabilità personali per i ragionieri revisori e relatori, così come già esse esistono per la revisione dei conti consuntivi.

Comunque, assicuro l’onorevole Ministro delle finanze, che, se, affidando l’approvazione dei bilanci dei Comuni alla Commissione centrale per la finanza locale, lo Stato ha risparmiato alcune centinaia di milioni, tale beneficio dell’erario si è risolto però in un grave danno per le amministrazioni comunali e provinciali, le cui gestioni sono rimaste deficitarie di fatto, i cui servizi pubblici restano in gran parte disorganizzati, ed i cui dipendenti riescono a riscuotere con enorme ritardo le loro magre e sudate retribuzioni. (Approvazioni).

LUCIFERO. Esattissimo.

PRIOLO. Confido, perciò, che l’onorevole Ministro delle finanze consenta che anche il controllo finanziario sugli enti locali deficitari passi per intero alle giunte provinciali amministrative, i cui componenti, vivendo a contatto con le amministrazioni locali, sono particolarmente idonei a valutarne le esigenze ed a soddisfarle con la ragionevole parsimonia, imposta dalle odierne condizioni dell’economia nazionale.

La medesima esperienza pratica, che mi ha indotto a proporre una riforma in senso autarchico e democratico della legge comunale e provinciale vigente, mi impone però, in pari tempo, di avvertire che, affinché l’autarchia riesca proficua alle amministrazioni locali, e più specialmente ai minori comuni, essa deve essere accompagnata da altri provvedimenti intesi:

1°) a precisare e rafforzare le responsabilità dei funzionavi e degli amministratori locali;

2°) ad assicurare anche ai più poveri Comuni, specialmente del Mezzogiorno, i mezzi finanziari richiesti dai servizi loro attribuiti dalla legge;

3°) a conferire maggiore efficienza agli uffici municipali dei Comuni minori.

Illustro dettagliatamente ciascuno di codesti tre punti.

Primo punto. Le responsabilità da precisare sono quelle del Segretario comunale, del ragioniere, del tesoriere, del sindaco, dei componenti la Giunta municipale, dei revisori dei conti.

Anzi, sarebbe utile sostituire questi ultimi, che nella pratica non hanno mai funzionato, con ristrette Commissioni di finanza, le quali, elette dai Consigli comunali, ed assistite dai ragionieri municipali, dovrebbero rivedere i bilanci di previsione, i conti consuntivi ed apporre il visto di ammissione a pagamento sui mandati emessi dal sindaco.

Commissioni di finanza, sindaci e Giunte comunali dovrebbero però essere equamente retribuiti, non essendo concepibile, in regime democratico, l’assolvimento gratuito di funzioni onerose e laboriose, e non potendosi ammettere, d’altra parte, che i soli ricchi abbiano il diritto di assumere le funzioni di pubblici amministratori. (Approvazioni).

Secondo punto. Circa le risorse occorrenti ai Comuni, è noto che l’attuale ordinamento della finanza locale non assicura i mezzi necessari al funzionamento delle amministrazioni locali e dei servizi pubblici.

L’onorevole Ministro delle finanze ha fatto assai bene a rendere obbligatoria e con aliquota progressiva l’imposta di famiglia, perché questa non darà solo un cospicuo gettito, ma servirà anche a perequare il carico tributario fra i contribuenti, finora eccessivamente gravoso per i minori abbienti, sulle cui povere risorse incidono fortemente le imposte di consumo.

Ma in molti piccoli Comuni del Mezzogiorno anche l’imposta di famiglia rende ben poco, o per la povertà dell’economia locale, o perché i ricchi proprietari risiedono nelle grandi città, e sfuggono, quindi, alla tassazione proprio nei Comuni, dal cui territorio essi ricavano le loro rendite, che spesso ascendano a molti milioni annui. A tale riguardo, chiedo che siano accolti i voti dei Comuni rurali, i quali hanno proposto di ripartire l’imposta di famiglia fra il Comune di residenza e quelli dal cui territorio derivano i redditi tassabili.

Una voce. Ma ciò non è tecnicamente possibile.

PRIOLO. Io non sono un tecnico della materia, ma una formula si potrà e si saprà ben trovare dai tecnici della finanza.

È stato assicurato autorevolmente che nel 1947, applicandosi le nuove disposizioni tributarie in corso di esame, i Comuni potranno pareggiare con risorse proprie i rispettivi bilanci.

Sarà bene però che il Governo proceda in tale materia con ponderazione, evitando di ridurre i contributi statali prima che abbiano effettiva applicazione le disposizioni modificative dei tributi locali, per dar tempo ai Comuni di riscuotere le nuove entrate, e per non inasprire le difficoltà finanziarie già gravissime nelle quali le amministrazioni locali si dibattono.

E, poiché fra le modificazioni predisposte sono compresi aumenti delle tariffe vigenti delle imposte di consumo, è necessario dire chiaramente che tali aumenti frustreranno praticamente la lotta al caro vita, che il Governo deve condurre.

SCELBA, Ministro dell’interno. Ma di ciò non si parla in questo decreto.

PRIOLO. Lo so, onorevole Ministro, ma io qui sto facendo un poco anche una esposizione generale dei problemi, che riguardano i nostri comuni. Ora l’esperienza insegna infatti, che un aumento del 5 per cento delle imposte di consumo determina in definitiva un aumento del 50 per cento per il consumatore, dappoiché il rimanente 45 per cento si disperde nella organizzazione commerciale a beneficio di speculatori, di grossisti e di dettaglianti.

All’aumento delle imposte di consumo si dovrebbe ricorrere perciò in giorni più tranquilli, mentre oggi si dovrebbero aiutare i Comuni, cedendo loro parte di talune entrate statali di agevole riscossione, come quella dei monopoli.

Anche tale cessione, però, renderà dove molto e dove poco, talché resterà sempre insoluto il problema finanziario di molti Comuni meridionali, i quali, tanto dalle sovrimposte sui terreni, quanto dalle imposte di famiglia e di consumo ricavano poco per la povertà del territorio, cui consegue la generale povertà economica ed il basso tenore di vita degli abitanti.

Mi sia permesso, a questo punto, di citare il caso di un comunello della mia Provincia, che può considerarsi tipico fra quelli poveri del Mezzogiorno: il comune di Roghudi, che ha 1800 abitanti e dista dallo scalo ferroviario 35 chilometri, 15 dei quali sono di mulattiera, interrotta nell’inverno dalle piene di due fiumi a regime torrentizio.

Il territorio, che solo l’irrigazione potrebbe rendere altamente produttivo, è molto misero e malarico, così che la popolazione, costituita di pastori, contadini e piccoli proprietari, conta appena una trentina di famiglie in mediocri condizioni, mentre tutte le altre sono formate di lavoratori e lavoratrici poverissimi, senza scarpe, con vestiti e biancheria laceri, ricoverati in stamberghe antigieniche e primitive.

Il paese non ha luce elettrica, non ha acquedotto, non fognature, non edificio scolastico, non edificio comunale, non caserma di carabinieri: ha solo il cimitero per seppellire i propri morti. (Commenti).

L’acqua potabile viene attinta ad una sorgiva distante cinque chilometri dall’abitato, e che in estate si dissecca, mentre in inverno è sotto la perenne minaccia d’inquinamento.

Codesti 1800 abitanti, che vivono ancora come nei paesi di più arretrata civiltà, e che nel dicembre scorso rimasero per 25 giorni senza pane, si troverebbero certo in ben altre condizioni se il fascismo, nella sua megalomane follia, non avesse dispersi circa cento miliardi (pari forse a tremila miliardi di oggi) in Etiopia, in Albania ed in Ispagna, ed avesse invece costruito acquedotti, scuole, strade, bonificato le zone sterili del litorale ionico, imbrigliando a monte ed arginando a valle i fiumi, per produrre energia per l’industria, acqua copiosa per l’irrigazione, e per salvare le campagne da periodiche devastazioni. (Applausi).

Ebbene, il comune di Roghudi, con tutta la buona volontà dei suoi amministratori, riesce appena a realizzare 12.000 lire annue dalla sovrimposta terreni, lire 50.000 – dalle imposte di consumo, lire 40.000 – dalla imposta di famiglia, lire 130.000 dall’imposta sul bestiame e dalle altre minori, ed in totale circa 235.000 lire annue, colle quali deve far fronte oggi ad un complesso di almeno un milione e mezzo di spese obbligatorie, senza poter provvedere, come pur sarebbe necessario, a lavori di manutenzione stradale, a medicinali e spedalità per i poveri, ad arredamento, per le scuole, ecc.

Di comuni come Roghudi ve ne sono parecchi in provincia di Reggio, in Calabria, ed in tutto il Mezzogiorno, ed io spero, perciò, che l’onorevole Ministro delle finanze vorrà convenire che, per tali comuni, occorrerà l’aiuto finanziario dello Stato ancora per molti anni.

Ed a proposito di aiuti finanziari, mentre ringrazio pubblicamente l’onorevole Romita, ex Ministro dei lavori pubblici, per l’interessamento e la comprensione da lui dimostrati a favore della Calabria, la quale gli è e gli sarà perennemente grata, mi permetto pregare oggi il nuovo Ministro di detto dicastero onorevole Sereni, di voler visitare con me a dorso di mulo i paesi di Roghudi, di Roccaforte e di Africo, ed altri paesi ancora, che per brevità non nomino, per rendersi conto della enorme distanza, che esiste fra le condizioni nostre e quelle del nord e per convincersi che, se noi rappresentanti della Calabria assilleremo anche lui come abbiamo fatto col paziente Romita, di richieste incessanti, e che possono sembrare eccessive, ciò facciamo non già per spirito campanilistico, ma perché non possiamo restare sordi agli appelli disperati, che ci giungono da popolazioni, che ancora sono prive di ogni conforto civile. (Approvazioni).

Terzo punto. Per conferire maggior efficienza agli uffici municipali dei piccoli Comuni, bisogna fissare per legge l’organico obbligatorio del personale necessario per i servizi amministrativi, contabili, igienici, di nettezza, di polizia urbana e campestre, e determinare altresì le retribuzioni minime, equiparandole, per quanto sia possibile, a quelle dei dipendenti statali…

Una voce al centro. Ma è contro l’autonomia: è ciascun comune, che deve provvedere a questo.

PRESIDENTE. Lascino parlare l’onorevole Priolo.

PRIOLO. …tenendo presente che i dipendenti dei piccoli comuni sono degli autentici benemeriti dell’amministrazione pubblica italiana, perché disimpegnano con onestà e con zelo il proprio dovere in località quasi sempre disagiate ed in cambio di retribuzioni modestissime, e che gli impiegati e salariati residenti in piccoli centri all’interno per istruire i propri figli debbono sottoporsi a spese ingenti ed a sacrifizi spesso eroici. Ed insieme con quella dei modesti impiegati e salariati deve essere migliorata particolarmente la condizione dei segretari comunali, i quali sono, specie nei Comuni minori, collaboratori tecnici preziosi ed insostituibili delle amministrazioni elettive e la cui funzione implica responsabilità e richiede anche spirito di abnegazione. (Approvazioni).

Tale miglioramento si potrebbe ottenere mediante ruoli aperti, che, partendo dall’attuale grado sesto, assicurino a tutti i segretari, qualunque sia il Comune nel quale prestano servizio, di pervenire almeno al grado quarto di segretario capo nel termine di venti anni di servizio.

Un trattamento decoroso attirerà alla carriera di Segretario comunale elementi preparati, e permetterà di dare ai Comuni funzionari competenti e laboriosi attraverso la selezione di esami e concorsi da affidarsi alle Giunte amministrative.

Tali funzionari non difettano nei Comuni maggiori e medi, ma sono ancora scarsi nei piccoli Comuni, molti dei quali sono perciò paralizzati dalla incapacità di segretari inidonei per età, o perché assunti in via temporanea senza alcuna garanzia.

Nell’interesse dei Comuni e delle amministrazioni elettive è perciò necessaria una selezione da affidarsi alle Giunte provinciali amministrative, stabilendo che i segretari che saranno dichiarati non idonei possano godere di un trattamento favorevole di pensione, se titolari, o possano essere assunti a posti esecutivi se siano reggenti.

Inoltre, a fianco al segretario, occorrerà dare ad ogni Comune un ragioniere egualmente idoneo, che assicuri l’efficienza dei servizi finanziari e che condivida ed allevi le responsabilità degli amministratori.

Oggi i soli Comuni di una certa importanza dispongono di un ragioniere, talché in tutti i Comuni minori non funziona il controllo sulla gestione finanziaria e contabile con giustificata preoccupazione degli amministratori, i quali si sentono spesso malsicuri ed ostacolati nella loro attività e nelle loro iniziative, dal dissesto contabile delle civiche amministrazioni.

Ma perché la funzione del ragioniere nei Comuni possa riuscire proficua per gli enti ed utile per gli amministratori, essa dev’essere parificata a quella del segretario, perché un controllo razionale ed efficace sorge automaticamente dalla contrapposizione di funzioni e d’interessi posti sopra un medesimo piano gerarchico.

Tale criterio è del resto seguito dallo Stato, il quale ha inquadrato nel gruppo A i funzionari delle ragionerie dei Ministeri, assicurando loro la medesima carriera dei funzionari amministrativi.

La stessa parificazione va, pertanto, estesa dallo Stato ai Comuni ed alle Provincie, comprendendovi anche i funzionari dei servizi tecnici e sanitari.

Mi è stato segnalato che il Ministero dell’interno non avrebbe approvato la deliberazione di un grande Comune della Sicilia, che ha parificato al segretario comunale i dirigenti dei servizi tecnici, sanitari e di ragioneria, mentre ritengo che quel Comune sia proprio sulla giusta strada, e che in tutti i Comuni ed in tutte le provincie le funzioni amministrative e quelle tecniche debbano essere parificate e coordinate sotto la direzione degli amministratori elettivi, così come nei Ministeri le varie direzioni generali sono coordinate sotto l’autorità dei Ministri e dei Sottosegretari.

E a tale proposito, per analogia di materia, rivolgo all’onorevole Ministro delle finanze e del tesoro la raccomandazione di colmare al più presto una lacuna, lasciala dal Governo fascista, il quale, mentre ha unificato il controllo contabile e finanziario dello Stato, concentrando presso il Ministero del tesoro le ragionerie di tutti gli altri Ministeri, e conferendo così a tali uffici l’autorità ed indipendenza, di cui abbisognano, ha lasciato invece le ragionerie dei capoluoghi di Provincia alle dipendenze dei rispettivi Ministeri, ed in condizioni di inferiorità gerarchica rispetto agli uffici amministrativi.

Ciò ha portato come conseguenza che in regime fascista le ragionerie delle Provincie hanno dovuto spesso avallare irregolarità ed abusi delle rispettive amministrazioni, perché non avevano l’autorità e l’indipendenza per contrastarle.

Nell’interesse dello Stato, e per evitare il ripetersi degli sperperi, che hanno caratterizzato la gestione fascista del pubblico danaro, risulta, quindi, necessario che anche le ragionerie provinciali di tutte le amministrazioni statali abbiano lo stesso inquadramento gerarchico delle ragionerie centrali, e siano poste alla diretta dipendenza del Ministero del tesoro, anche se materialmente debbano essere distaccate presso gli uffici provinciali, così come per pratica convenienza le ragionerie centrali, pur dipendendo dal Tesoro, svolgono la loro attività a fianco dei singoli Ministeri.

Onorevoli colleghi, concludo formulando il voto che le mie proposte, frutto di pratica e recente esperienza, siano accettate dal Governo e riscuotano il vostro consenso.

Il Paese lamenta a ragione che la pubblica amministrazione sia tarda, arretrata, ingombrante, perché ancora regolata, al centro ed alla periferia, dallo spirito centralista del fascismo, che opprime, soffoca, e spesso paralizza la vita nazionale.

È certo che la futura Camera legislativa rinnoverà radicalmente l’apparato statale sopra sicure basi democratiche, realizzando le autonomie locali e chiamando a guidare e controllare l’alta burocrazia centrale, Commissioni di tecnici e di rappresentanti elettivi, tratti anche dai gradi minori della burocrazia periferica, che, vivendo a stretto contatto colla vita del Paese, meglio ne conosce i bisogni.

Ma intanto, è compito urgente di questa Assemblea di preparare condizioni favorevoli a tale rinnovamento, decentrando e semplificando l’attuale struttura dell’apparato statale per modo che esso incominci finalmente a funzionare con quel ritmo sciolto e veloce che le moderne esigenze richiedono, e col quale il popolo italiano ha vitale bisogno di avanzare e di ascendere sulle vie dell’avvenire, sinceramente democratico, decisamente repubblicano. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Zotta. Ne ha facoltà.

ZOTTA. Onorevoli colleghi, l’onorevole Priolo ha fatto molte proposte e molte osservazioni. Io ne farò una sola e mi sorge perciò il dubbio se per caso la sede per essa più opportuna sia quella della discussione sui singoli articoli. Però, riflettendo che il progetto ha due obbietti ben determinati, limitazione o abolizione del controllo e della ingerenza dei poteri statali nelle amministrazioni degli enti pubblici e adeguamento al diminuito potere di acquisto della moneta, poiché la mia proposta riflette per intero il primo punto, pur dovendosi essa compendiare nel richiedere l’abrogazione di un solo articolo del progetto, essa trova fin da questo momento utile collocazione.

Lo schema si propone di abolire il controllo generale di merito attribuito al prefetto su tutte le deliberazioni delle amministrazioni locali dalla legislazione fascista; poi va molto più oltre nel cammino delle autonomie, in quanto sostituisce il tradizionale intervento di legittimità in forma preventiva del prefetto con un controllo successivo e repressivo. Dunque lo schema fa un passo notevole nel settore delle autonomie locali e delle libertà democratiche. Ma mi sembra, onorevoli colleghi, che sotto questo aspetto sia insufficiente, perché lascia al prefetto un ampio potere di ingerenza nell’attività degli enti locali.

Questa ingerenza del prefetto trova la sua sede nel famoso articolo 19, comma 5°, della legge comunale e provinciale. Tale norma, concedendo al prefetto il potere di adottare, in caso di necessità od urgenza, i provvedimenti che creda indispensabili nel pubblico interesse, come ognuno sa, fu introdotta dal passato regime col preciso intento di rafforzare l’ingerenza dei poteri centrali nella vita autarchica locale.

Qual è la storia di questo articolo 19? Vi era nella vecchia legge comunale e provinciale l’articolo 3, il quale, ricevendo l’eredità da analoga norma contenuta nella legge del 1889, era così concepito: «In caso di urgenza, il prefetto fa i provvedimenti che crede indispensabili nei diversi rami dei servizi». Con la vecchia legislazione, quella prefascista, il prefetto, dunque, aveva un controllo sostitutivo, aveva un potere diretto ad assicurare, in ogni caso, il funzionamento degli organi ordinari, preposti ai diversi rami di servizio, sempre nell’ambito delle norme vigenti. Quindi il controllo, il potere del prefetto, secondo l’articolo 3, era di stimolo, era di sollecitazione, era di integrazione, ma sempre nel quadro della legge.

Poi, trasformato lo Stato di diritto in Stato di polizia, incomincia la vicenda dell’articolo. E molti ricorderanno che fu prima un prefetto a chiederne l’applicazione per ottenere il divieto sulla libertà di stampa. Fu poi il legislatore ad ampliarlo, ad arricchirlo, a trasformarlo di forma e di contenuto, inserendolo prima nell’articolo 2 della legge di pubblica sicurezza del 1926, che è stato riprodotto poi nella legge del 1931, e poi nella forma attuale nell’articolo 19 del testo unico della legge comunale e provinciale. L’onorevole Federzoni, alla Commissione parlamentare chiamata ad esaminare il progetto di legge di pubblica sicurezza, nella sua relazione disse: «Si è inteso attribuire al prefetto una competenza funzionale, e non una semplice competenza surrogatoria». Il che significa che, mentre in virtù dell’articolo 3 della legge del 1915 il prefetto poteva intervenire soltanto quando mancava l’azione degli organi preposti dalla legge ai diversi rami di servizio, e nei casi urgenti soltanto, in virtù di questo articolo 19 veniva dato al prefetto un ampio indeterminato potere discrezionale, al di là della materia legislativamente circoscritta nei diversi rami di servizio, in una sfera, direi, delimitabile soltanto col criterio elastico della necessità e dell’urgenza, con elementi quindi molto sensibili alle valutazioni e alle influenze delle situazioni politiche.

Per cui avvenne che, forte di questo potere, il prefetto poté allora legittimare ogni usurpazione, rendersi arbitro del diritto di proprietà, arbitro del diritto di libertà, con aperta offesa sia degli enti locali che dei cittadini.

Ora viene qui in esame uno schema il quale intende ridurre o abolire questa penetrazione dell’autorità centrale nella vita autarchica degli enti locali. Ebbene, non si prevede – e ciò mi sorprende – l’abolizione di questa norma creata dalla dittatura, dall’accentramento, dall’esclusione di ogni idea democratica. Questa norma, nonostante tante innovazioni, è ancora in vita. E i prefetti, spesso, continuando la prassi del cessato regime, e talvolta aggravandola (Interruzioni), se ne valgono, facendo un uso che è pernicioso quanto l’abuso.

Se dovessero invocarlo soltanto per la applicazione della legge, non ci sarebbe bisogno dell’articolo 19. Il prefetto sostanzialmente fa questo ragionamento; quando prende un provvedimento dice: quello che io stabilisco e che non trova riferimento nelle norme delle leggi speciali, viene sanato dal potere straordinario che mi conferisce l’articolo 19».

Quindi, onorevoli colleghi, l’articolo 19 non serve per l’applicazione della leggo, ma per superare i limiti che la legge pone, con aperta ingiuria dei diritti dei cittadini e degli enti locali.

Io vorrei citare un esempio solo, perché riguarda la mia circoscrizione, la provincia di Matera, dove c’è un prefetto che fa il legislatore, specialmente in materia agraria. Questo prefetto stabilisce che la proprietà al di là dei 40 ettari di terreno deve essere distribuita. Egli dispone della proprietà e l’assegna, secondo norme di legge, che egli stesso crea in virtù del suddetto potere, al di là di ogni norma giuridica vigente.

A questo proposito vorrei domandare al Ministro degli interni se non sia giunto il tempo che questo improvvisato legislatore vada a fare i suoi esperimenti legislativi in qualche altro luogo, lasciando un po’ in pace la mia provincia che viveva in perfetta pace e che ora è messa a soqquadro dalle velleità soloniche di questo improvvisatore. E sarà appunto prudenza dell’onorevole Ministro dell’interno di vedere nel mio invito un motivo per meditare e per provvedere, perché costui osa essere un nostro emulo nella funzione costituente.

Ora questo schema intende eliminare i sistemi, cui il cessato regime faceva ricorso per rafforzare la sua ingerenza nella vita degli enti locali.

Ebbene, si abroghi l’articolo 19, richiamando in vigore l’articolo 3 della vecchia legge comunale e provinciale, e così davvero nel quadro delle libertà democratiche saranno salvi e garantiti i diritti degli enti locali e dei cittadini.

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a martedì 11, alle ore 10.

Interrogazione con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. L’onorevole Pastore Giulio ha presentato, con richiesta di risposta urgente, la seguente interrogazione:

«Ai Ministri del lavoro e previdenza sociale e degli affari esteri, per conoscere d’urgenza i motivi in base ai quali il Ministero del lavoro si oppone a che l’emigrazione in Francia avvenga in via normale mediante richieste o contratti individuali, ed insista nel dare assoluta preferenza al sistema dell’emigrazione collettiva, nonostante i gravi inconvenienti cui ha già dato luogo.

«L’interrogazione ha carattere di estrema urgenza, poiché la questione forma in questi giorni oggetto di esame da parte della Commissione mista italo-francese e si deve fra l’altro dare corso a migliaia di richieste da mesi giacenti al Ministero del lavoro».

Il Governo si riserva di far conoscere nella seduta di martedì se intende rispondere d’urgenza a questa interrogazione.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle altre interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della difesa, per sapere quale ordinamento intenda dare al Corpo di Stato Maggiore delle Forze armate.

«Nobile, Longo, Scotti Francesco, Barontini Ilio».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere quali provvedimenti intenda prendere in favore dei militari che subirono l’internamento in Svizzera dopo l’8 settembre 1943, per una loro equiparazione ai reduci dalla prigionia, ai fini dell’ammissione ai concorsi a posti di notari, banditi con decreti in data 24 dicembre 1946 (Gazzetta Ufficiale 30 dicembre 1946, n. 297). (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Puoti, Rodinò Mario».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per conoscere se non intenda estendere a favore degli editori di musica non rilegata la tariffa postale ridotta per le spedizioni nel Paese, quando il diritto alla tariffa stessa nella specie in questione è riconosciuto da tutti gli Stati stranieri, in base alla convenzione del Cairo, con la quale tali pubblicazioni vennero definite «carte di musica» ed ammesse alla riduzione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Puoti».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se, in accoglimento dei voti espressi in ogni parte d’Italia dai Consigli dell’Ordine degli avvocati e procuratori, non intenda promuovere la sollecita abrogazione dell’attuale Codice di procedura civile e il ripristino del Codice anteriore e della legge sul procedimento sommario, unico mezzo pratico per rimediare al crescente disagio nel funzionamento della giustizia civile, resa dal vigente Codice fascista intollerabilmente lenta, complicata e dispendiosa. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Platone, Lozza».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere come intenda venire incontro alla inderogabile esigenza delle tre Vallate del Sesia, del Sermenza e del Mastallone, in provincia di Vercelli, le quali chiedono il ripristino in Varallo Sesia, loro capoluogo, del Tribunale ingiustamente soppresso dal fascismo. L’interrogante rileva che prima dell’avvento del fascismo, allorché nel 1921 si ventilarono proposte per la soppressione di vari Tribunali, il Tribunale di Varallo Sesia venne escluso dall’elenco di quelli da sopprimere, riconoscendosi così esplicitamente, anche allora, l’incontestabile sua utilità e quindi la necessità della conservazione. La posizione geografica della zona per la grande distanza di molti paesi dal capoluogo di Provincia e per la mancanza di comodi mezzi di comunicazione, nonché la particolare situazione delle popolazioni interessate sottoposte ai gravi disagi dei paesi di montagna, inducono l’interrogante ad insistere perché la richiesta sia al più presto accolta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pastore Giulio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per segnalare il caso del Manicomio di Racconigi. A questo Manicomio – dove in media sono ricoverati 1200 ammalati – era stato assegnato dal Commissariato combustibili Alta Italia, con sede in Milano, piazza Diaz 5, a datare dal mese di gennaio 1947, un quantitativo mensile di 20 tonnellate fossile estero e 40 tonnellate fossile sardo.

«A tutt’oggi detto Ospedale non ha ricevuto, in conto di tale assegnazione, nemmeno un chilogrammo di carbone, perché l’Unione trasportatori carboni con sede in Genova, alla quale le assegnazioni tutte vengono trasmesse, ha delegato la ditta Perinetti di Torino, via Saluzzo 9, ad effettuare le forniture al Manicomio di Racconigi.

«La ditta Perinetti, ripetutamente sollecitata, dichiara che il carbone non è arrivato e quindi non può dar corso alle assegnazioni stesse. Genova interessata in proposito ha confermata questa situazione. Di conseguenza la Direzione del Manicomio di Racconigi ha dovuto provvedere al riscaldamento ed al funzionamento della centrale termica con della legna acquistata a caro prezzo, perché difficilmente reperibile, incorrendo così in una maggior spesa di qualche milione: milioni sciupati a beneficio di nessuno!

«Ora, invece, è notorio che tutte le ditte che trattano carbone di qualsiasi specie sono rifornite di tutti i tipi e che lo vendono al prezzo di mercato libero, cioè a lire 25.000 la tonnellata in confronto al prezzo d’assegnazione che è di lire 7000 la tonnellata.

«Dato questo stato di cose e l’importanza vitale del fattore carbone in tutti i settori dell’economia del Paese, l’interrogante chiede se l’onorevole Ministro non crede opportuno di prendere severi provvedimenti per approfondire l’andamento di questo mercato e soprattutto di prendere provvedimenti adeguati perché alle assegnazioni sia dato corso puntualmente e con ogni sollecitudine. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Chiaramello».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se gli sia stato riferito dai dipendenti uffici sull’ingiusto diniego della libertà provvisoria ad alcuni operai della Commissione di fabbrica degli stabilimenti industriali di Crotone, ai quali si erano attribuiti, al principio, dei reati gravissimi, apparsi in prosieguo di tempo alle Autorità inquirenti di assai tenue entità.

«Le reiterate reiezioni della libertà provvisoria da parte della Sezione istruttoria e del tribunale di Catanzaro, sono tanto più ingiustificate, in quanto in stridente contrasto con le favorevoli richieste del procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Catanzaro e con la concessione dello stesso beneficio a un notevole numero di coimputati in identica posizione processuale. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Silipo, Musolino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere: 1°) il numero dei nostri soldati prigionieri, tuttora trattenuti in Jugoslavia; 2°) le ragioni che ne ostacolano il rimpatrio; 3°) i passi che ha fatto, o intende fare il Governo per effettuare il rimpatrio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Coppa».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno e l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per conoscere perché da cinque mesi (1° ottobre 1946) i dispensari antitracomatosi pubblici e scolastici della provincia di Messina sono chiusi; se non ritiene opportuno farli riaprire con ogni sollecitudine, dato il carattere endemico ed anche epidemico del tracoma in quella provincia.

«Candela».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere quali motivi ostino alla emanazione di un provvedimento – chiesta sin dal settembre 1946 – che estenda le indennità di disagiata residenza previste dal decreto legislativo luogotenenziale 11 gennaio 1946, n. 18, ai dipendenti statali nel comune di Troina (Enna), dove sono stati distrutti o danneggiati dagli eventi bellici del 1943 quasi tutti gli edifici destinati ad abitazioni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, sui motivi del ritardo dello sgombero del deposito in Taurienova (Reggio Calabria), permanente causa di allarme e preoccupazione in quella laboriosa popolazione dopo l’esplosione avvenuta il 5 settembre 1943, che causò gravi danni all’abitato, fortunatamente senza vittime umane. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Turco».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei trasporti e dei lavori pubblici, per sapere se non ritengano necessario ed urgente provvedere alla ricostruzione sulla Genova-Spezia delle stazioni di Recco-Levanto-Zoagli distrutte dai bombardamenti di guerra, nonché al sollecito riattamento della elettrificazione del tratto Sestri Levante-Spezia, indispensabile alla normale ripresa del traffico su quella importantissima e troppo dimenticata linea ferroviaria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Guerrieri Filippo».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 12.25.

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 6 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LII.

SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 6 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Verifica di poteri:

Presidente

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Basso        

Cevolotto

Rubilli      

Saragat   

La seduta comincia alle 16.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. La giunta delle elezioni, nella riunione odierna ha verificato non essere contestabili le elezioni dei deputati: Danilo Paris per la Circoscrizione di Trento (VIII), Dante Veroni e Bruno Bernabei per la Circoscrizione di Roma (XX), e, concorrendo negli eletti i requisiti previsti dalla legge elettorale, ne ha dichiarata valida la elezione.

Do atto alla Giunta di questa sua comunicazione e, salvo i casi di incompatibilità preesistenti e non conosciuti sino a questo momento, dichiaro convalidate queste elezioni.

La stessa Giunta delle elezioni, in seguito alla morte dell’onorevole Antonino D’Agata, deputato per la Circoscrizione di Catania (XXIX), ha deliberato di proporre, a termini dell’articolo 64 della vigente legge elettorale, la proclamazione del candidato Umberto Fiore, che nella stessa lista risulta primo dei non eletti nella Circoscrizione medesima.

Do atto alla Giunta di questa sua comunicazione e metto ai voti tale proclamazione.

(È approvata)

Avverto che da oggi decorre il termine di venti giorni per la presentazione di eventuali proteste o reclami.

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana. È iscritto a parlare l’onorevole Basso. Ne ha facoltà.

BASSO. Onorevoli colleghi, è difficile intervenire in questo dibattito senza toccare punti già discussi dai colleghi che mi hanno preceduto. Anche io, per esporre il punto di vista del Partito socialista, incomincerò dove ha incominciato ieri il collega Laconi. Si è da più parti mossa a questo progetto di Costituzione la critica che esso rappresenti il frutto di un compromesso; si è parlato, da qualche parte, riguardo a questo progetto, che esso contenga in sé l’equivoco del tripartito. Se con questo si vuol dire che il progetto di Costituzione è il frutto di uno sforzo di diversi partiti per trovare un’espressione concorde che rappresenti l’espressione della volontà della grande maggioranza degli italiani, questo non è un difetto. Noi non abbiamo mai pensato che si potesse portare a questa Assemblea una Costituzione socialista, non abbiamo mai pensato che si potesse portare a questa Assemblea una Costituzione che fosse il frutto di punti di vista particolari. Sarebbe una posizione facile, declamatoria, demagogica; non sarebbe una posizione socialista. E questo proprio perché noi siamo socialisti e come tali, abbiamo vivo il senso della storia.

Non abbiamo appreso, onorevole Calamandrei, il nostro storicismo da Benedetto Croce;

lo abbiamo appreso da coloro che sono stati maestri vicini e lontani di Benedetto Croce: da Carlo Marx e da Antonio Labriola. Ed appunto perché abbiamo appreso questo senso storico, noi diciamo che la Costituzione non può rispondere ad un modello, non è mai una cosa perfetta, non è un archetipo, ma è una traduzione di realtà sociali, è il frutto dell’incontro di diverse correnti, rappresenta il punto di equilibrio delle forze sociali che sono in atto in un determinato momento.

La Costituzione non ha il compito di trasformare la società o di creare qualcosa di nuovo; la Costituzione è il frutto di precedenti trasformazioni, è il riflesso delle trasformazioni che sono in atto; ed è la porta aperta verso trasformazioni che verranno. In questo senso noi voteremo in questa Costituzione degli articoli che certamente non corrispondono alle vecchie tradizioni del Partito ed altri che contraddicono a quelle che sono le nostre aspirazioni lontane; ma voteremo degli articoli che siano l’espressione della complessa realtà oggi in atto e li voteremo con perfetta lealtà. Voteremo gli articoli in cui si accetta la proprietà privata, in cui si dice che è assicurata l’iniziativa privata, perché sappiamo che nella società di oggi questi articoli esprimono la concreta realtà e voteremo in perfetta lealtà e in perfetta coscienza l’affermazione che i rapporti tra la Chiesa e lo Stato devono essere regolati su basi concordatarie, perché questa è una situazione storica che noi accettiamo lealmente, perché lealmente noi vogliamo conservare all’Italia la pace religiosa. Non vi è quindi in noi quel contrasto che vedeva l’onorevole Calamandrei, quando diceva che vi sono articoli che contengono affermazioni contradittorie, che possono sodisfare l’una il socialista, l’altra l’individualista.

È l’espressione di una complessa e multiforme realtà che noi vogliamo interpretare e che interpretiamo votando tranquillamente questi articoli. Quello che desideriamo, però, è che lo stesso avvenga da altre parti, cioè che non si voglia qui approfittare di maggioranze magari esigue, magari effimere, magari forse non più corrispondenti alla realtà politica di oggi, per consacrare in questa Carta costituzionale dei principî che non riflettono la coscienza collettiva e farne le linee maestre della Costituzione. Noi ci opporremo a che questa Costituzione possa comunque apparire una Costituzione di parte, e ci opporremo anche se si volesse intendere questa Costituzione come un freno al realizzarsi di ulteriori trasformazioni sociali.

Ogni Costituzione è un limite che la sovranità popolare dà a se stessa e noi accettiamo questo limite, noi accettiamo questa legalità in cui la Costituzione ci pone, ma vogliamo che questi limiti che si pongono alla sovranità popolare non siano delle barriere per il futuro, perché non intendiamo che si possa approfittare di questa Costituzione per garantire il permanere di posizioni di privilegio o di condizioni particolari che riteniamo destinate ad essere superate.

In questo senso mi associo, senza ripeterlo, a ciò che diceva ieri il collega Laconi circa, tutto l’apparato di pesi, di contrappesi, di precauzioni e di intralci che la Costituzione nella seconda parte pone ad un normale sviluppo legislativo e a un normale affermarsi della sovranità popolare, col proposito confessato ieri dall’onorevole Tupini di rallentare il moto e il progresso della democrazia repubblicana.

Costituzione, quindi, aperta verso tutte le trasformazioni democratiche future, e Costituzione che sia riflesso delle trasformazioni già avvenute o in atto, ed espressione della coscienza popolare collettiva: ecco la Costituzione che noi vogliamo.

Orbene io credo di non poter essere contraddetto se affermo che, nelle circostanze presenti, all’indomani del fascismo e della guerra mondiale, quello che la coscienza popolare collettiva in Italia e fuori d’Italia chiede è essenzialmente la difesa di due principî: da un lato la difesa della persona umana che regimi tirannici hanno avvilito e sacrificato; dall’altra la coscienza, specialmente dopo il fallimento delle vecchie democrazie prefasciste, che questa dignità umana, questa persona umana, questi diritti di libertà, non si difendono soltanto con gli articoli di una legge scritta sulla carta, ma traducendo in realtà effettiva gli articoli della legge, cioè sostituendo ad una democrazia puramente formale una democrazia sostanziale, rendendo effettivi i principî di libertà che da secoli sono sanciti nelle carte costituzionali. Sono due aspirazioni di libertà e giustizia sociale, che in realtà sono due momenti inscindibili della stessa aspirazione umana, anche se talvolta ama qualcuno distinguerli e contrapporli. Sono questi due principî che devono essere sanciti dalla nostra Carta costituzionale.

Da Dunkerque a Stalingrado milioni di uomini sono caduti per questi ideali; per questi ideali i migliori figli del nostro popolo hanno offerto volontariamente la vita sulle nostre montagne, e non ne è ancora spento il ricordo nella nostra mente, e non sono ancora chiuse le ferite nel nostro cuore.

È la voce che si leva da questi milioni di tombe sparse per tutta l’Europa, la voce che si leva dai popoli doloranti dell’Europa, che ancora non hanno ricostruito le loro rovine e ancora non hanno asciugato le loro lacrime; la voce che si leva dalla terra stessa, ancora sconvolta e ferita, ma già anelante a rinascere al soffio di una nuova primavera; è la voce che ci ammonisce che nulla vi è in questa terra di più sacro all’uomo che l’uomo stesso, immagine di Dio per i credenti, termine ultimo dell’evoluzione per i non credenti. È la voce che ci ammonisce che val meglio perdere la propria vita che avvilirla; è la voce che ci ammonisce che val meglio sacrificare milioni di vite piuttosto che consentire ad un popolo di perdere il senso e la coscienza della libertà.

Ebbene, questa voce è stata, sì, presente ai nostri colleghi della Commissione per la Costituzione, e non starò qui a citare i molti articoli già citati dall’onorevole Tupini e dall’onorevole Laconi, che consacrano questa profonda aspirazione; ma, mancherei al mio dovere se non dicessi qui senza reticenze, senza preoccupazioni, che vi è nella nostra Carta costituzionale qualcosa che la nostra coscienza di libertà non può ammettere.

Io credo che fra tutti gli articoli del trattato di pace di cui abbiamo riconosciuto il diritto di revisione, uno ve n’è la cui revisione nessuno vorrebbe chiedere ed è l’articolo 15 che dice: «L’Italia prenderà tutte le misure necessarie per assicurare a tutte le persone senza distinzione di razza, di sesso, di lingua e di religione il godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, compresa la libertà della espressione di pensiero e la libertà di stampa».

Ed è stato davvero doloroso per me, poche settimane fa, quasi alla vigilia della partenza della nostra missione che andava a Londra a negoziare accordi economici, leggere sulle colonne del grave «Times», la deplorazione che la Costituente italiana si apprestasse a votare una Costituzione in cui l’articolo 15 del trattato di pace è violato, perché è violato il principio fondamentale della libertà di religione.

Mi riferisco, onorevoli colleghi, all’articolo che, inserendo nella nostra Costituzione i Patti Lateranensi, inserisce perciò stesso nella nostra Costituzione l’articolo 5 del Concordato. Io non posso non ripetere qui le cose che già dissi nella prima Sottocommissione, che dissi nella Commissione dei settantacinque e ripetei sulle colonne del giornale del mio Partito. Le dico con la stessa lealtà, con cui ho detto in principio: «Noi siamo fermamente decisi, ad accettare il principio concordatario e ad adoperarci per il mantenimento della pace religiosa». Ma con la stessa fermezza e con la stessa lealtà, senza preoccupazioni elettoralistiche, devo dichiarare che includere nella Costituzione l’articolo 5 del Concordato rappresenta per la nostra coscienza civile una grave offesa al principio di libertà.

Non mi si dica, come ha affermato l’onorevole Tupini ieri, che la Chiesa cattolica, nella sua sconfinata saggezza, correggerà anche questi errori. Noi siamo chiamati oggi a votare questa Costituzione in cui si vuole inserire questo Concordato e questo articolo 5; e noi siamo chiamati a dare il nostro voto a quell’articolo che ha permesso, che ha servito a far tacere nell’Ateneo romano la libera voce di Ernesto Buonaiuti.

Io credo che noi verremmo meno ai nostri doveri di garanti di una nuova vita democratica se accettassimo anche indirettamente, anche per richiamo che nella nostra Costituzione entrasse questo principio.

A parte questo, io credo che il progetto abbia veramente tenuto conto di queste fondamentali esigenze di libertà; ma ne ha tenuto conto – secondo noi – in un modo e in una forma che non rispondono più oggi alla nostra condizione storica. Si sente negli articoli del progetto che esso si inspira ancora, per quanto attiene a questa parte delle libertà individuali, ad un concetto vorrei dire illuministico, al vecchio concetto individualistico del Settecento da cui nacquero le Carte dei diritti dell’uomo. La stessa intitolazione della prima parte: «Diritti e doveri dei cittadini», non è che una giustapposizione del principio illuministico del Settecento e del mazzinianismo dell’Ottocento, ma non credo che risponda ad una moderna ed organica visione dei problemi sociali, non credo che noi ci possiamo ancora oggi inserire in questa concezione individualistica, per cui lo Stato, come qualche cosa di estraneo, si contrappone ai cittadini considerati ciascuno come individui isolati, come individui chiusi in se stessi, tutti uguali e perfetti, che ricordano, secondo la felice espressione di Benedetto Croce, tante uguali fredde e lisce palle di ghiaccio.

Non è questa evidentemente la nostra concezione della società; concezione che si spiega in riferimento all’ambiente storico dove è nata, ma che oggi non risponde più alla complessa vita sociale del nostro tempo. Di là dall’individualismo del Settecento, di là da questa concezione un po’ gretta, un po’ chiusa, un po’ egoistica, che un filosofo tedesco, uno studioso proprio dello spirito borghese, il Tillich, chiamava «finita in sé conchiusa e sodisfatta», di là da quelle vecchie concezioni è nata una nuova coscienza, è nata una nuova esperienza, è nata una nuova concezione della vita del mondo ed è nata dalla esperienza di vita della classe operaia.

L’operaio che vive oggi nella grande fabbrica, l’operaio che vive oggi nella disciplina della divisione del lavoro, l’operaio che fa continuamente la stessa vite, lo stesso dado, la stessa molla, sa che la sua vita, sa che il suo dado, sa che la sua molla non hanno alcun senso, presi in se stessi; ma che fanno parte del lavoro collettivo. L’operaio sa che il suo lavoro, la sua opera, la sua stessa vita, assumono un valore nell’armonia dello sforzo collettivo. L’operaio sa che la macchina che esce dalla sua officina non è una somma di pezzi freddi e uguali, ma è l’armonia dell’opera complessiva, sa che la macchina non è una semplice somma di viti o di dadi, ma che le viti e i dadi hanno un senso in quanto sono parti della macchina.

Ed è da questa esperienza che nasce la nostra esperienza; oggi la società non si può considerare una somma di individui, perché l’individuo vuoto non ha senso se non in quanto membro della società. Nessuno vive isolato, ma ciascun uomo acquista senso e valore dal rapporto con gli altri uomini; l’uomo non è, in definitiva, che un centro di rapporti sociali e dalla pienezza e dalla complessità dei nostri rapporti esso può soltanto trovar senso e valore.

E allora anche le nostre concezioni politiche e giuridiche assumono un significato diverso. Non si tratta più di contrapporre l’individuo allo Stato, intesi quasi come entità astratte e lontane l’una dall’altra. Si tratta di realizzare invece la vita collettiva dalla effettiva partecipazione di tutti i mezzi.

Ecco allora il senso dell’espressione dell’articolo primo del nostro progetto, che è per questa parte opera mia, e che l’onorevole Calamandrei citava l’altro giorno, là dove si dice che la «Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; appunto, perché oggi non concepiamo più l’uomo come individuo contrapposto allo Stato, ma, al contrario, concepiamo l’individuo solo come membro della società, in quanto centro di rapporti sociali, in quanto partecipe della vita associata. La Repubblica, espressione della vita collettiva, trae il suo senso e il suo significato solo dalla partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale.

Ed ecco anche il senso del lavoro, inteso come fondamento della Repubblica; altra espressione che è stata criticata. Perché noi non facciamo, e non vogliamo fare, una Repubblica di individui, ma vogliamo fare non una Repubblica di individui astratti, una Repubblica di cittadini che abbiano solo una unità giuridica, vogliamo fare la Repubblica, lo Stato in cui ciascuno partecipi attivamente per la propria opera, per la propria partecipazione effettiva, alla vita di tutti. E questa partecipazione, questa attività, questa funzione collettiva, fatta nell’interesse della collettività, è appunto il lavoro; e in questo, penso, il lavoro è il fondamento e la base della Repubblica italiana.

Ed ecco perché noi pensiamo che sia errata la concezione a cui parecchi colleghi si sono sovente inspirati nella redazione degli articoli, e che si trova nel progetto della nostra Costituzione che la democrazia si difende, e si difende la libertà, e si difendono i diritti del cittadino, limitando i diritti dello Stato, limitando l’attività o le funzioni dello Stato. Concezione che si inspira sempre a quella che noi riteniamo una contrapposizione superata fra individuo e Stato. Noi pensiamo che la democrazia si difende, che la libertà si difende non diminuendo i poteri dello Stato, non cercando di impedire o di ostacolare l’attività dei poteri dello Stato, ma al contrario, facendo partecipare tutti i cittadini alla vita dello Stato, inserendo tutti i cittadini nella vita dello Stato; tutti, fino all’ultimo pastore dell’Abruzzo, fino all’ultimo minatore della Sardegna, fino all’ultimo contadino della Sicilia, fino all’ultimo montanaro delle Alpi, tutti, fino all’ultima donna di casa nei dispersi casolari della Calabria, della Basilicata. Solo se noi otterremo che tutti effettivamente siano messi in grado di partecipare alla gestione economica e politica della vita collettiva, noi realizzeremo veramente una democrazia.

E questo è il senso profondo, onorevole Calamandrei, degli articoli sul lavoro, che ella e molti altri colleghi hanno criticato; ella in forma particolare, quasi con spavento, dicendo che questi articoli sono formulati in modo che i cittadini domani, leggendo la Carta costituzionale, potrebbero dire: «Non è vero». Certo, non è vero oggi che la democrazia italiana, che la Repubblica italiana sia in grado di garantire a tutti il lavoro, che sia in grado di garantire a tutti un salario adeguato alle proprie esigenze familiari; ma il senso profondo di questi articoli nell’armonia complessa della Costituzione, dove tutto ha un suo significato, e dove ogni parte si integra con le altre parti, sta proprio in questo: che finché questi articoli non saranno veri, non sarà vero il resto; finché non sarà garantito a tutti il lavoro, non sarà garantita a tutti la libertà; finché non vi sarà sicurezza sociale, non vi sarà veramente democrazia politica; o noi realizzeremo interamente questa Costituzione, o noi non avremo realizzata la democrazia in Italia.

Non posso dire che questa concezione, che abbiamo cercato di difendere, e che forse è apparsa talvolta frammentaria o dispersa nella redazione dei vari articoli, sia stata tenuta presente completamente e si trovi nel testo che ci viene sottoposto.

Certo, vi sono alcuni progressi sensibili sulla via di questa effettiva partecipazione di tutti i cittadini alla gestione degli interessi collettivi.

È rimasto, ancorché corretto ed attenuato, l’articolo che io avevo proposto, e che si trova ora al capoverso dell’articolo 7, che dice: «È compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui, ecc.».

Questo articolo è rimasto, ma, non so come, modificato, Il testo del mio articolo era il seguente: «Rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza di fatto degli individui», appunto per mettere in evidenza il contrasto fra i diritti e la realtà vissuta. Su questa via della effettiva partecipazione di tutti, qualche altra cosa si ritrova nella Costituzione: per esempio, un maggiore riconoscimento, direi un riconoscimento integrale, della eguaglianza della donna, e questo principio è affermato anche laddove si ammette la partecipazione della donna nell’ordine giudiziario. Ma, nel complesso, non direi che questo sia stato lo spirito che si è tenuto presente in tutta la Costituzione. Non era certamente presente quando si è redatto l’articolo 30, dove si dice che la Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro. È una espressione un po’ paternalistica, questa; comunque, se io sono riuscito a rendere bene il senso della nostra concezione, è chiaro che quello che noi desideriamo è che il lavoro sia finalmente soggetto e non oggetto della storia; che i lavoratori siano finalmente i veri protagonisti della vita politica; è chiaro che non si tratta di una Repubblica che dall’alto tutela il lavoro, ma piuttosto di un lavoro che ha conquistata la propria maggiorità e che permea di se stesso gli Istituti della nuova Repubblica italiana.

È sempre su questo piano, di una più completa e più reale partecipazione di tutti alla vita collettiva, che io direi che l’ordinamento regionale non segna un vero progresso. È certamente vero che le autonomie locali, in quanto avvicinano i cittadini ai problemi collettivi, in quanto portano i cittadini a partecipare più intimamente alla vita pubblica, rappresentano una educazione all’autogoverno, ma è pure certamente vero che il sottrarre alla competenza dello Stato e deferire a quello della Regione determinate materie – per quelle Regioni che sono più arretrate ed in cui questo processo di partecipazione effettiva di tutti alla gestione della vita pubblica non è ancora avvenuta – può indubbiamente rappresentare un regresso. Ed in questo senso credo che molti tentativi che sono stati fatti per giustificare certe forme di bicameralismo non possono essere accolti. Si è tentato sovente, e si è tentato anche in questa Assemblea, di parlare di rappresentanze di interessi, economici e professionali, ora di interessi locali, ora regionali, ecc, per giustificare l’esistenza di una seconda Camera; in realtà, appunto perché noi non crediamo che si possa parlare di un cittadino, di un individuo nel vecchio senso, concepito come un’ipotesi politica, distinto dalla sua forma economica, ma crediamo che si debba sempre parlare soltanto dell’uomo, che vive nella società, come centro di confluenza di tutti i rapporti, dell’uomo che vive della interezza di questi rapporti, noi pensiamo che l’uomo manifesta il proprio voto politico, esprime il proprio voto in quanto esso è al centro di tutta questa vita concreta, e non lo esprime di volta in volta, ora come uomo politico, ora come economico.

E sempre su questa strada, credo che sia una lacuna veramente profonda nella nostra Costituzione, proprio nel senso in cui noi sentiamo ed intendiamo il progresso della democrazia, come partecipazione sempre più attiva, sempre più effettiva e concreta, di tutti alla vita pubblica, il silenzio totale sui partiti politici, che rappresentano un grande passo avanti della vera democrazia.

Noi sentiamo spesso criticare quello che oggi si chiama il Governo dei partiti, la democrazia dei partiti, che qualcuno chiama la dittatura dei partiti. Si dice che esso ha ucciso il Parlamento. Ed indubbiamente la vita dei partiti ha ucciso certi aspetti della vita parlamentare, ma noi crediamo che ciò sia stato un progresso. Ha ucciso il trasformismo, ha ucciso la dittatura personale alla Giolitti, ha ucciso le facili crisi che caratterizzano soprattutto certe forme di democrazia parlamentare francese, quando la vita parlamentare non aveva dietro di sé il controllo della vita dei grandi partiti.

Ma noi pensiamo che proprio attraverso la vita dei partiti si correggono questi difetti della vita parlamentare, perché non si tratta più dell’opinione del singolo Deputato che può mutare di volta in volta, secondo le combinazioni parlamentari o magari le manovre di corridoio. Si tratta di grandi partiti che hanno la responsabilità di grandi masse, di milioni di elettori che sanno che ogni loro gesto, ogni loro atteggiamento politico, ogni loro decisione implica la responsabilità di milioni di cittadini, e che sanno altresì che ogni loro errore può costare caro sul piano dell’influenza che il partito ha nella vita del Paese. Non c’è dubbio che in questo senso la vita dei partiti, l’esistenza dei grandi partiti rappresenta un notevole progresso della democrazia, perché dà un maggior senso di responsabilità e quindi una maggiore stabilità alla vita politica e trasforma conseguentemente l’istituto parlamentare.

Ma anche in altro senso, la vita dei partiti è un progresso per la democrazia, perché oggi non accade più che il cittadino, chiamato alle urne per eleggere i propri rappresentanti, compie la manifestazione della sua volontà politica ogni quattro o cinque anni a seconda della durata del mandato parlamentare, e poi sia costretto a rimettersi a quello che faranno i suoi mandatari. Oggi il cittadino che deve occuparsi di politica, che vuole veramente partecipare all’esercizio della sovranità popolare, lo può fare ogni giorno, perché attraverso la vita del suo Partito, la sua partecipazione all’organismo politico cui aderisce, egli è in grado di controllare giorno per giorno, d’influire giorno per giorno sull’orientamento politico del suo partito e, attraverso questo, sull’orientamento politico del Parlamento e del Governo.

È un esercizio direi quotidiano di sovranità popolare che si celebra attraverso la vita dei partiti, e i partiti di massa sono veramente oggi la più alta espressione della democrazia, perché consentono a milioni di cittadini di diventare ogni giorno partecipi della gestione politica della vita del Paese.

Ma allora è chiaro che vi è una lacuna nella nostra Costituzione, la quale ignora l’esistenza dei partiti e ci ripete ancora schemi tradizionali di costituzioni che erano valide e legittime espressioni di condizioni sociali che non sono le nostre.

Anche qui io ricordo ai colleghi della prima Sottocommissione che avevo proposto un articolo che in qualche modo introducesse il Partito nella vita costituzionale, e dopo ampie discussioni la Sottocommissione fu unanime nell’accogliere il principio, ma ritenne di demandarne l’applicazione pratica alla seconda Sottocommissione, la quale, non so perché, lo ha ignorato completamente ed ha dato un testo costituzionale che, non c’è dubbio, sotto questo aspetto rappresenta una vera lacuna.

Questo è fondamentalmente il senso e lo spirito con cui noi socialisti esamineremo il progetto che ci sarà sottoposto.

Credo di aver detto con sufficiente chiarezza, senza scendere in dettagli, senza ripetere troppe cose già dette da altri, che il senso della nostra visione costituzionale è quello che ispira tutta l’attività, politica del nostro Partito, cioè che la democrazia che noi vogliamo realizzare in questa Costituzione non è un problema astratto, ma un problema concreto; non è soltanto questione di leggi, di articoli sulla carta, ma è questione di partecipazione effettiva, di tutti, è questione, vorrei dire, di vita e di sicurezza economica, per lo meno altrettanto quanto di articoli sanciti nella legge, è un problema di salari, è un problema di diritto al lavoro, per lo meno altrettanto quanto è un problema di diritto di riunione o di associazione. Nessun istituto giuridico, nessuna legge, nessun congegno ben costruito di meccanica costituzionale potrà mai garantire una democrazia che non abbia le sue radici nella cosciente, matura, effettiva partecipazione del cittadino alla vita collettiva, alla gestione degli interessi pubblici, si chiamino essi economici o politici. Ecco perché, come dicevo in principio, le due grandi aspirazioni che sono oggi nella coscienza di tutti, quella di libertà e quella di giustizia sociale sono, in fondo, due aspetti di una sola aspirazione, che si realizza veramente solo se si realizza nei suoi due momenti.

Se noi riusciremo a tradurre nella nostra Carta costituzionale questa grande aspirazione di libertà e di giustizia sociale intesa nel senso che non c’è libertà senza giustizia sociale, che non c’è democrazia politica se non c’è democrazia economica; se noi riusciremo a tradurre nella Carta costituzionale quei principî in cui si incontrano i più antichi motivi della civiltà cristiana, le più vive esigenze della democrazia e le più profonde aspirazioni del movimento socialista, noi avremo realizzato una grande opera: non solo avremo assolto al compito che ci è stato affidato dai nostri elettori, ma avremo veramente fatto qualcosa di un’importanza storica, avremo inserito nella vita dello Stato le grandi masse lavoratrici, avremo cioè dato una garanzia di sviluppo democratico al movimento sociale.

Noi crediamo profondamente in una democrazia così intesa, e noi ci batteremo per questa democrazia. Ma se altri gruppi avvalendosi, come dicevo in principio, di esigue ed effimere maggioranze, volessero far trionfare dei principî di parte, volessero darci una Costituzione che non rispecchiasse quella che è la profonda aspirazione della grande maggioranza degli italiani, che amano come noi la libertà e come noi amano la giustizia sociale, se volessero fare una Costituzione che fosse in un certo qual modo una Costituzione di parte, allora voi avrete scritto sulla sabbia la vostra Costituzione ed il vento disperderà la vostra inutile fatica. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cevolotto. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Onorevoli colleghi, poche dichiarazioni, spero brevi e spero chiare. Si è accennato da due oratori della parte destra alla opportunità, alla necessità, anzi, che questa Costituzione, dopo che sarà votata, sia sottoposta all’approvazione del referendum popolare. Ora, io domando: ma nel mandato che ci è stato dato dagli elettori non vi è già qualcosa che autorizza noi a ritenere già fissati i limiti di questa Costituzione, anche se non è stato possibile di sottoporre delle precise domande al corpo elettorale? Io ricordo che si è discusso da parte del Ministero, che rappresentava allora anche in sostanza le funzioni del Parlamento, e che ha fatto la legge in base alla quale si è formata la Costituente, si è discusso se non fosse opportuno di formulare e proporre

 


 agli elettori dei quesiti relativi alla forma e al contenuto della futura Costituzione. E non si è potuto, perché sarebbe stato difficile, in una formula breve è comprensiva per gli elettori, segnare i limiti della Costituzione. Però vi è stata lo stesso un’indicazione precisa del corpo elettorale. I partiti si sono presentati con programmi che erano sì inerenti prima di tutto alla questione istituzionale, ma che erano anche inerenti alla nuova Costituzione da dare al popolo italiano. E questi programmi non son stati i programmi, diremo così, massimi di ciascun partito, sono stati espressione di un compromesso, perché tutti i partiti, e specialmente quelli che sono usciti vittoriosi dalla lotta elettorale, si sono trovati concordi nel dire al corpo elettorale: noi vogliamo dare all’Italia una Costituzione democratica, progressiva, una Costituzione che permetta la rinnovazione fondamentale degli istituti dello Stato, una Costituzione che consenta di formare in Italia uno Stato che sia lo Stato della democrazia del lavoro.

Questo è stato il programma di tutti i partiti, ed è stato il programma che hanno affermato i candidati quando si sono presentati davanti agli elettori. In tanto gli elettori hanno dato la maggioranza ai partiti che questi programmi affermavano, in quanto i partiti hanno dichiarato che volevano che in Italia si desse una Costituzione democratica, progressiva, sociale, la Costituzione di una Repubblica sociale del lavoro. Se noi formiamo una Costituzione in questo senso, non abbiamo bisogno di sottoporla a nessun referendum, perché abbiamo obbedito a quella che è stata la volontà precisa del corpo elettorale.

E allora perché si fa la questione? Se realmente i partiti seguissero in questo primo schema e poi attuassero, nel testo definitivo, le promesse che hanno fatto al corpo elettorale, cioè formassero una Costituzione democratica, progressiva, per instaurare la Repubblica sociale del lavoro, la questione non potrebbe neanche sorgere. Se non che, si obietta, il progetto che si presenta non risponde alle dichiarazioni. Importa poco che i partiti avessero dichiarato di convergere su una linea intermedia tra loro, che seguiva l’idea in sostanza rappresentata da quei partiti della democrazia di sinistra che sono riusciti viceversa largamente battuti nelle elezioni; importa poco, perché da una parte e dall’altra ci si è spostati da questa linea mediana che si era promesso di seguire.

I partiti di massa, invero, sono bensì partiti democratici in quanto, in questo momento, vogliono lavorare e collaborare sul terreno comune della democrazia; ma sono democratici più qualche cosa: democratici più socialisti, democratici più comunisti, democratici più cristiani. Qualcuno dice che per una parte del partito della democrazia cristiana questo più diventa un meno, perché sarebbe in certo modo una attenuazione della democrazia. Credo che il mio amico onorevole Jacini non si dorrebbe se io dicessi che la sua democrazia è senza dubbio cristiana, ma è anche un poco conservatrice. (Commenti).

Nel complesso non si può negare che questi grandi partiti collaborano per la democrazia. Senonché è successo che quando ci si è trovati a dover formulare la Costituzione, ciascun partito, come era naturale ed era inevitabile, ha cercato di metterci qualche cosa di quel più che in quel partito va oltre la democrazia, e si sono così verificate due spinte, una a sinistra e una a destra, spinte che avrebbero potuto, come nella meccanica, convergere in una linea intermedia. Ma, dice l’onorevole Lucifero, questa convergenza invece non c’è stata e si è andati un po’ a zig zag e si sono fatte le montagne russe.

Ora è un fatto che se anche ciò non è successo proprio con quelle forme di compromesso palesi e quasi dichiarate di cui ha parlato l’onorevole Lucifero, anche se proprio non è successo che si sia comunque contrattato – non stupitevi della parola che può essere poco riguardosa – quasi una forma di do ut des, c’è stato uno scambio di favori, e n’è uscita realmente qualche volta una accentuazione di punte, da una parte e dall’altra. Così, per esempio, è successo che accanto a quelle affermazioni avanzate in senso sociale, che io approvo perché sono nella realtà delle cose, perché le abbiamo promesse al corpo elettorale, perché abbiamo dichiarato che avremmo formato una Costituzione di democrazia progressiva, accanto a queste vi sono state altre affermazioni, come ad esempio, quella dei rapporti fra Chiesa e Stato con la creazione di uno Stato confessionale, che a me non piacciono. Nel discuteremo a suo tempo, a fondo; qui non è il caso.

E vi sono stati anche infortuni sul lavoro; per esempio l’articolo 23. Gli amici della Democrazia cristiana hanno le loro tenaci idee e le hanno, in sede di Sottocommissione, difese molto validamente, forse anche troppo, sicché molte volte non sono stati aderenti alla via intermedia ed hanno troppo voluto tirare la corda. Ebbene, gli amici della Democrazia cristiana hanno fra le loro idee quella che la famiglia preesiste allo Stato.

(Commenti al centro).

Una voce. È una cosa evidente!

CEVOLOTTO. Ne discuteremo a suo luogo. Intanto è capitato l’infortunio. Quando hanno voluto affermare che la famiglia è una società naturale, e noi ne discutevamo, c’è stato l’onorevole Togliatti che immediatamente ha detto: «Sono d’accordo, mettiamo pure questa formula». E non si sono accorti che l’onorevole Togliatti li soffocava sotto una pioggia di rose. Timeo Danaos et dona ferentes. Ma non hanno avuto paura di Togliatti, forse perché sanno che non è greco.

La famiglia è una società naturale e la Repubblica ne riconosce i diritti. Ma allora la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale, cioè dell’unione libera. (Proteste al centro).

Come no? Tanto è vero che se ne sono viste le conseguenze quando si è parlato di figli illegittimi. Noi avevamo proposto una formula che ci pareva potesse avere un certo pregio e cioè: la legge provvede perché non ricadano sui figli le conseguenze di uno stato familiare non conforme al diritto.

Si è voluto di più, si è voluta una formula che ora a molti fa paura. Anche di questo discuteremo a suo tempo.

Comunque, queste accentuazioni ci sono state da una parte e dall’altra. E allora? E allora ne è venuto fuori – per qualche parte – quello che si temeva, una Costituzione di compromesso. Noi non dobbiamo fare una Costituzione di compromesso, perché sarebbe una Costituzione provvisoria, e noi vogliamo sforzarci di non fare una Costituzione provvisoria.

E qui subentrano le critiche che a questa Costituzione sono state proposte da molte parti. L’onorevole Calamandrei, che è un grande giurista, ha sostenuto quelle idee che, del resto, aveva già espresso anche in un suo ordine del giorno presentato alla Commissione dei settantacinque:

«La Commissione, mentre si dichiara Convinta che nel testo della Costituzione, come suprema legge della Repubblica, debbano trovar posto non proclamazioni di ideologie etico-politiche, ma soltanto norme giuridiche aventi efficacia pratica, che siano fondamento immediato di poteri, ecc.».

Anche qui, bisogna un po’ che ci intendiamo.

La Costituzione è una legge; ma non è però e non deve essere un codice. Ora, il codice è formato esclusivamente di norme, perché fotografa una realtà di rapporti che esistono e che la legge deve regolare, cosicché è aderente ad una situazione precisa di un determinato momento. I rapporti cambiano, si evolvono, mutano: la legge non muta; ad un certo momento, quando la legge non sarà più sufficiente neanche nelle forme dell’adattamento e dell’interpretazione analogica, si cambierà. Si è detto, efficacemente, che un codice comincia a invecchiare lo stesso giorno che entra in vigore. Ma non è lo stesso di una Costituzione. La Costituzione ha bensì delle norme; ma ha anche qualche cosa d’altro: crea gli organi politici, crea gli organi amministrativi dello Stato, crea la struttura politica ed amministrativa dello Stato. E ha delle norme che presentano un carattere, un aspetto speciali.

Per esempio, vi sono quelle norme che si rivolgono non al singolo, ma al legislatore, e gli impongono dei limiti alla formazione delle leggi, e gli dicono: «Tu devi fare la legge in questo modo ed entro questi limiti». Ed anche nel nostro progetto vi è una quantità, forse, anzi – secondo me – un eccesso di rimandi alle leggi speciali. Tante volte si dice: «La legge provvederà; una legge sancirà questo»; il che, per quelle materie che sono già regolate da leggi particolari, mi sembra per lo meno inutile, in quanto è chiaro che queste leggi particolari dovranno essere adattate alla nuova Costituzione.

Ma vi sono anche norme che si dirigono al singolo: questa è una estensione delle Costituzioni moderne, le quali, per ragioni storiche, per ragioni contingenti, perché hanno regolato anche rapporti sociali ed economici che nelle Costituzioni vecchio tipo non erano regolati, hanno anche un contenuto di norme particolari.

Nella nostra Costituzione ve ne sono forse troppe: questo è il difetto. Vi sono norme che sono necessarie, o quanto meno opportune, per ragioni contingenti – come per esempio quella relativa al sequestro della stampa, o quelle relative alle perquisizioni – ma che avrebbero trovato posto benissimo in leggi particolari. Vi sono altre norme le quali, più opportunamente, dovrebbero trovar posto nelle leggi particolari. Non trovo logico e giusto che nella Costituzione ci sia una norma particolare per le Corti d’assise: questa è proprio materia di Codice di procedura penale. Ma è un difetto, o un eccesso evidente che nella Costituzione si è messa troppa roba. Tutti hanno voluto metterci qualche cosa; e perché c’era questo, si è messo anche quello.

Per esempio, io ho il massimo rispetto per l’altissima funzione dell’Avvocatura generale dello Stato; ma non trovo ragionevole che nella Costituzione si parli della Avvocatura dello Stato, in quanto non si tratta di organo costituzionale. Siccome si è parlato di tante altre cose, giustamente la suscettibilità degli avvocati dello Stato ha chiesto che anche l’Avvocatura fosse nominata nella Costituzione.

Ma proprio tutto quello che non è norma deve essere rimandato – come ha chiesto l’onorevole Calamandrei – al preambolo, a quel preambolo di cui molti hanno già parlato e che, secondo me, è necessario?

Se si tratta di affermazioni di carattere filosofico o di carattere morale, io sono perfettamente d’accordo: è più che giusto rimandarle al preambolo.

Il Presidente della prima Sottocommissione, onorevole Tupini, con quella altezza morale che lo anima, ha detto che la nostra Costituzione deve accompagnare l’uomo dalla nascita alla tomba.

Ha fatto una esaltazione dell’affermazione della Costituzione relativa alla perfezionabilità dell’uomo.

È questione che abbiamo discusso tante volte, in sede di prima Sottocommissione. Gli amici democristiani propugnavano tenacemente alcune idee loro, altissime e nobilissime, che io rispetto, come quella del perfezionamento della natura umana. Io mi domando se veramente la Costituzione deve proporsi l’obietto del perfezionamento della natura umana.

Secondo me, no; non che non debba avere un contenuto etico, anche religioso, nel senso alto, umano della parola. Ma la Costituzione deve regolare i diritti degli uomini, deve sancire e stabilire i diritti politici, civili, sociali dei cittadini, e non proporsi il fine del perfezionamento della natura umana, che è altissimo e nobilissimo proposito, ma che non è fra gli scopi della Costituzione.

Ecco, dunque, perché queste affermazioni di carattere teorico, di carattere etico, di carattere filosofico, se si vorranno mantenere, troveranno posto più adatto nel preambolo.

Quanto alle norme relative ai diritti sociali ed economici, sono di altra idea, almeno parzialmente diversa.

È vero, nella nostra Costituzione abbiamo voluto inserire anche questa parte – di importanza sostanziale – conforme all’indirizzo di tutte le Costituzioni moderne.

Ma questa parte, per forza di cose, ha anche un contenuto programmativo, oltre che un contenuto normativo. Vi è un contenuto normativo preciso; ma vi è anche l’espressione di propositi, di aspirazioni, la descrizione, quasi, di un progresso evolutivo dei rapporti sociali.

Abbiamo detto che avremmo fatto una Costituzione democratica progressiva. Il progresso è appunto questo.

Ora, noi non possiamo prescindere da questa parte, se non vogliamo fare una Costituzione provvisoria. Perché noi marciamo rapidamente – e peggio per chi non lo intende – verso una trasformazione della società, in senso socialista; non vi è dubbio su questo; dobbiamo prevederlo nella Costituzione; dobbiamo tenerne conto; l’abbiamo promesso, l’abbiamo detto. Se non lo facessimo, che cosa succederebbe? Badate che noi facciamo una Costituzione rigida ed è giusto; dobbiamo fare una Costituzione rigida perché, nelle Costituzioni flessibili, il potere legislativo diventa potere costituente e questo noi non vogliamo. Ma se non teniamo conto della possibilità di questo progresso sociale che è già in marcia, di questo avviamento verso istituti, verso forme nuove di giustizia sociale, se non teniamo conto di ciò e se non prevediamo queste nuove forme, potremmo trovarci costretti a modificare progressivamente la Costituzione, di volta in volta, con i modi abbastanza complicati che sono stati previsti, oppure potremmo anche trovarci di fronte al pericolo che qualcuno impugni la Costituzione per negare questi necessari progressi.

Accadrebbe allora che la Costituzione diverrebbe un ostacolo all’evoluzione sociale, un ostacolo che rischierebbe di trasformare questa evoluzione in rivoluzione. Quando si dice che Stalin ha affermato che le Costituzioni non debbono contenere dei programmi, io rispondo che Stalin parlava in Russia, dove un programma è ormai realizzato.

Noi parliamo invece in Italia, dove vi è tutta una materia in evoluzione, tutta una materia che lievita e cresce, non dobbiamo dunque segnare le vie verso l’avvenire? Ecco il punto per cui io, pur riconoscendo che la Costituzione deve avere essenzialmente un contenuto normativo, dico: badiamo, specialmente in questo campo, di non irrigidirci, di non creare barriere, perché è necessario che la Costituzione preveda il domani. Non facciamo una Costituzione destinata a durar poco. Abbiamo degli ostacoli delle difficoltà gravi da superare: la via è disseminata di scogli.

Quando don Sturzo ha rilevato già nel nostro progetto un eccesso di statalismo, ha detto probabilmente cosa che ha alcune apparenze di verità; ma qui sta, non dirò la tragedia, ma la difficoltà della democrazia. Noi dobbiamo avviarci verso forme di giustizia migliore, ma dobbiamo avviarci verso queste forme in modo che la giustizia non si attui a detrimento della libertà. Non voglio dire bestemmia, affermando che giustizia e libertà siano termini contrapposti; anzi sono la stessa cosa. Ma, nell’avviarci verso le nuove forme della giustizia sociale, può essere anche che alcuno ritenga necessarie delle forme di accentramento, di statalismo, che potrebbero diventare la base, o che si teme diventino la base, di nuovi totalitarismi. Ecco lo scoglio che la democrazia deve evitare; perché noi dobbiamo segnare una strada che concili giustizia e libertà.

Vorrei dire una parola sul progetto di Costituzione in concreto, per quello che si riferisce la parte politica.

L’onorevole Calamandrei ha fatto una grave osservazione che purtroppo tutti, più o meno, abbiamo fatto in varie occasioni. Altro scoglio al quale ci troviamo davanti: è possibile, mentre noi facciamo e vogliamo formare la Costituzione di una Repubblica parlamentare, è possibile ancora la funzione del Parlamento? Ha ancora funzione il Parlamento? Questa è la domanda. Il nostro è un progetto di Costituzione parlamentare, bicamerale, con tutti gli annessi e connessi dell’apparato parlamentare; ma già qui nell’Assemblea molte volte ci siamo accorti che il Parlamento – diciamolo pure – funziona con difficoltà; non dirò non funziona, ma funziona fino a un certo punto. I partiti decidono; ed è giusto che oggi siano i partiti a decidere. Qui cosa veniamo a fare? A discutere per convincere? Forse. Ma chi anche sia convinto, poi vota secondo la disciplina del suo partito. E allora, qual è la funzione di questo Parlamento? Qual è la funzione del Deputato? È una funzione tecnica, sì, la formazione delle leggi, l’elaborazione delle leggi nel nostro caso, poiché noi siamo la Costituente, l’elaborazione della Costituzione. Ma la vita politica vera sfugge al Parlamento e si concentra nei partiti. Ed ecco, allora, la domanda logica di Calamandrei: «Ma perché non avete disciplinato la vita dei partiti nella Costituzione». Perché? Ma perché forse domani vi saranno forme nuove, sorgeranno forme nuove; oggi non sono ancora sorte e non si preannunziano. Non è poi detto che Parlamento e democrazia siano termini indissolubilmente connessi; domani sorgeranno forse altre forme politiche in cui la democrazia esprimerà la sua funzione politica. Oggi non vi è che questa vecchia forma, anche se funziona male e forse – diremo le cose come stanno – si avvia al suo tramonto, anche se oggi vi sono i partiti.

Ma in Italia si poteva basare, in una Costituzione, la vita politica della Nazione sui. partiti? Io non lo so. Non è questo che Calamandrei chiedeva. Certo non vi era né il tempo, né il modo di studiare una innovazione così profonda. Anche perché i partiti in Italia sono, sì, ormai formati e delineati nelle loro grandi linee, ma non raccolgono, non che la totalità, neanche la maggioranza degli elettori: vi è tutta una massa ondeggiante che vota e aderisce ai singoli partiti, ma non ne fa parte e che si sposta. Non vi sono ancora delimitazioni precise; i vari partiti sono molte volte in trasformazione: abbiamo assistito e assistiamo a scissioni, a moltiplicazioni per divisione, ad assorbimenti, a riorganizzazioni diverse delle varie correnti: è anche qui una massa in formazione, una massa che fermenta.

Regolare sui partiti e nella vita dei partiti e con i partiti la vita politica non è sembrato facile, anzi non è sembrato che fosse possibile. Ecco perché dei partiti nella Costituzione si è fatta parola soltanto in un breve articolo, alquanto generico.

Certo è che il Parlamento è regolato secondo una formula vecchia che non risponde più alla situazione e non risponde più all’affermarsi dei partiti nella nostra vita politica. Potranno rimediare a questo difetto in qualche parte le leggi elettorali? Forse. Qualche miglioramento attraverso le leggi elettorali è sperabile per riportare la vita parlamentare ad un livello che sia tollerabile.

Ad ogni modo il progetto propone di adottare il sistema parlamentare ed il sistema bicamerale. E qui si sono prospettate altre obiezioni. Per esempio, l’obiezione che il sistema bicamerale renderà lenta la formazione delle leggi. E questo è vero. L’ordinamento del sistema bicamerale non è certo il più adatto per una rapida legislazione. Non dobbiamo dimenticare che noi viviamo in un momento di trasformazione dello Stato in cui è necessario rinnovare tutta la legislazione precedente. Perché, insomma, abbiamo ancora in vita le leggi, i codici fascisti, e qualche volta questo dà fastidio. Non è soltanto il fastidio quasi fisico che io posso provare nel maneggiare leggi che sono firmate da Mussolini, ma è che sono leggi molte volte in camicia nera; dobbiamo quindi rinnovarle. L’onorevole Calamandrei diceva: ma nel progetto non è stato previsto nemmeno il decreto-legge. Forse l’osservazione non è del tutto esatta. L’articolo 75 infatti dice che l’esercizio delle funzioni legislative non può esser delegato al Governo se non previa determinazione dei principî e criteri direttivi e soltanto per un tempo limitato e per un dato oggetto; quindi, con delle limitazioni, questa delegazione vi può essere e per i decreti legislativi valgono le norme che esistono in questa materia.

Arrecherà impaccio questa forma ristretta e prudente della decretazione che è prevista dalla Carta costituzionale rispetto al bisogno di rinnovare rapidamente la vecchia legislazione. Che cosa volete? Io per mio conto penso che se anche si dovessero fare meno leggi, non sarebbe poi un gran male. Comunque, non credo che di questa delegazione, per tutte quelle leggi che non hanno una grande importanza, che non sono grandi leggi istitutive fondamentali, non si possa fare un uso prudente, ma almeno in un primo tempo non limitatissimo. È necessario però che questa rinnovazione legislativa sia compiuta. E la Costituzione ha infatti il suo punto fondamentale nella profonda riforma di tutta la struttura amministrativa dello Stato.

Voglio accennare soltanto al problema della regione, ma non me svolgo la discussione perché chissà quanto ne dovremo parlare a suo tempo. Certo che si è partiti dal principio ovvio del decentramento politico-amministrativo, ma non so se si è arrivati veramente al decentramento amministrativo-politico. Ho una grave preoccupazione a questo riguardo: che la nuova forma porti ad una inflazione burocratica, che si determini una complicazione dei congegni burocratici e non una semplificazione. Ho il timore che si creino nuovi organi senza sopprimere i vecchi. Del resto, vedete l’agitazione che c’è già da parte di tutti i capoluoghi di provincia per mantenere la provincia ed è una agitazione alla quale non so se noi resisteremo. Già è molto male, ma è inevitabile, che la Costituzione si debba elaborare in un periodo pre-elettorale.

Vi è la questione grave dei limiti del potere politico della provincia, perché se fossimo in tempi normali questo problema potrebbe non preoccupare, ma è indubitato che questa guerra, con tutte le sue orribili conseguenze, ha portato anche ad una accentuazione di separatismi di ogni genere, di divisioni: Nord contro Sud, e non è colpa né del Sud né del Nord; è colpa delle cose; regione contro regione: abbiamo visto persino, in momenti gravi della situazione alimentare, provincie contro provincie. Abbiamo visto la provincia mettere delle barriere attorno a sé, per isolarsi e per difendere il proprio grano e i propri prodotti.

La costituzione della regione in un momento così delicato – e badate che io non sono né centralista né statalista, e anzi non domando di meglio che il decentramento – non creerà delle barriere fra le parti d’Italia, e non vi sarà il pericolo – la Corte costituzionale provvederà poi – che una regione legiferi con criteri opposti a quelli di un’altra, con tali differenze di criteri tra regione e regione da rendere necessario normalmente l’intervento – che dovrebbe essere eccezionale – della Corte Costituzionale per regolare poi questa materia?

L’istituzione dell’Ente Regione non sarà un salto nel buio se attenueremo, se limiteremo, se preciseremo la facoltà legislativa che vogliamo dare alle regioni. Dovrà essere, io penso, come si era proposto, una legislazione integrativa e regolamentare piuttosto che una legislazione originaria e autonoma.

Il problema è gravissimo e quindi non è il caso di trattarne in pochi minuti, tanto più che non ho intenzione di allungare il mio discorso. Ho voluto dare uno sguardo panoramico alla Costituzione, esaminandone gli aspetti principali e soprattutto le tendenze, gli indirizzi che essa vuole seguire, senza scendere ai dettagli, neanche a quelli di forma che meno mi interessano. Già, la forma ha tuttavia notevole importanza, perché molte volte ha il suo peso. Però trovo che della forma e dello stile di questa Costituzione si è detto troppo male. Si è detto persino che bisogna tradurla in italiano e questa è una esagerazione; però una certa revisione formale ancora sarà forse necessaria e non sarà facile, perché non è riuscito né nella Commissione dei diciotto, né in quella dei settantacinque, né nel Comitato di redazione e quindi men che meno riuscirà in questa Assemblea di quattro o cinquecento persone che vi dovrebbero mettere le mani. D’altra parte, se questa ripulitura non si farà prima, quando i singoli articoli saranno approvati, modificarli successivamente, anche dal punto di vista della forma, non risulterà più possibile.

In questa Costituzione trovo espressioni molto diverse, che non so se corrispondano per esempio a concetti diversi. Per esempio, trovo che la Repubblica garantisce, assicura, promuove, favorisce, cura, tutela, rimuove gli ostacoli, attua: tutte queste parole hanno un significato analogo o vi è una graduazione?

La differenza significa qualche cosa di concettualmente diverso? Perché, per esempio, ad un certo momento all’articolo 12 trovo che «delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica». E non mi piace neanche l’espressione, poiché penso che senza motivi l’autorità non potrebbe intervenire in nessun caso.

All’articolo 25 trovo qualche cosa un po’ differente: «nei casi di provata incapacità morale o economica», ecc. ecc. Comprovata e provata è la stessa cosa? Queste accentuazioni non le metterei nella Costituzione, perché non vorrei che si dicesse che dove una data espressione non ricorre, l’intenzione è più debole, mentre dove si è messa una data parola, l’intenzione è più marcata e più decisa.

L’articolo 16, per esempio, dice qualche cosa che non approvo: «Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni che siano contrarie al buon costume».

Le pubblicazioni a stampa possono essere contrarie alla morale, ma al buon costume mi pare un po’ difficile. E poi si aggiunge:

«La legge determina misure adeguate». E come? Si può pensare al caso che, dove non si dice questo, la legge determini misure meno adeguate?

Sono accentuazioni che non si addicono alla sobrietà dello stile di una Costituzione.

L’articolo 45 dice: «Sono eleggibili, in condizioni di eguaglianza, tutti gli elettori che hanno i requisiti di legge». Ora, per inserire il concetto ovvio e quindi superfluo delle «condizioni di eguaglianza» siamo caduti in una evidente tautologia.

Ma queste sono quisquilie, sono difetti che si correggeranno nel corso della discussione: quello che importa è ciò di cui ho parlato prima, cioè i pericoli a cui andiamo incontro e in mezzo a cui dobbiamo muovere.

Noi dobbiamo compiere una navigazione abbastanza lunga, verso un porto che non è troppo vicino, in mezzo a scogli, e a tutto vapore perché abbiamo il termine fisso. Dobbiamo cercare di evitare questi scogli e togliere soprattutto dalla Costituzione ciò che è superfluo, per una parte rimandandolo al preambolo, e per l’altra rimandandolo alle leggi speciali, senza perdere però di vista la mèta, la linea direttrice, perché dobbiamo fare una Costituzione che si presti il meno possibile alle critiche.

Critiche ve ne saranno sempre; una Costituzione, non dico perfetta, ma neanche una bella Costituzione non so se in questo momento, nelle attuali contingenze, nelle attuali condizioni di partiti, sia possibile farla. Del resto abbiamo visto tutte le nuove Costituzioni: di veramente belle non ce n’è neanche una!

Dobbiamo cercar di fare una Costituzione che si presti il meno possibile alle critiche nel suo complesso, nel suo schema, perché da parte di tutti coloro che non sono democratici, anche se si chiamano democratici, c’è il deciso proposito di approfittare di ogni occasione per combattere la democrazia e la Repubblica.

Qui si chiama alla pietra di saggio la democrazia: si vuole conoscerne la capacità e noi dobbiamo compiere il nostro dovere per formare una Costituzione veramente democratica e repubblicana che assicuri alla nostra Nazione, a questa povera Italia massacrata e delusa, le possibilità del suo avvenire. Alle altre delusioni dell’Italia martoriata, amputata, non si deve aggiungere la delusione della democrazia. La democrazia deve rispondere al suo compito, formando quegli organismi che permettano alla patria di riprendere il suo cammino nel campo del lavoro, pacifico e concorde con gli altri popoli, verso nuove, più alte e più belle vittorie. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Rubilli. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Onorevoli colleghi, vi dirò lei mie impressioni di indole generale sul progetto di legge, con qualche breve accenno a quelli che ritengo i punti fondamentali e, naturalmente, nuovi che sono stati proposti.

Finora mi pare che nella grande maggioranza, o nella totalità, abbiano parlato soltanto i componenti, della Commissione. Non vi dispiaccia di sentire altri, in modeste e semplici osservazioni, più che altro di carattere pratico. Anche chi è fuori della Commissione può portare qui le impressioni sincere che ha avute nell’esame di questo progetto.

Ed io incomincio col premettere che prendo sull’argomento attuale ben volentieri la parola, perché si tratta di questioni assai importanti, quasi fondamentali nella vita politica della Nazione, e perché credo di potermi avvalere dell’articolo 16 del progetto in esame «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero». Quindi, mi auguro che mi sia concessa almeno ora una completa tolleranza.

D’altronde, in caso di dissenso, so a che cosa varrebbero le nostre opinioni. Noi siamo pochi e dispersi in quest’Aula, ed io sono ben consapevole della scarsa efficacia che può avere la nostra parola proprio qui, dove permane e prevale solo quello che hanno forse di già stabilito o saranno per stabilire i grandi partiti di massa. Può restare a noi soltanto la soddisfazione di un dovere compiuto, e questo ci basta per la tranquillità della nostra coscienza.

Ora, non credo inopportuno ricordare in questa occasione le origini della nostra Assemblea Costituente, il momento in cui sorse, lo scopo precipuo che si proponeva. E poiché essa ebbe l’atto di nascita nei nostri paesi meridionali, quando purtroppo eravamo ancora separati, violentemente avulsi, dai fratelli del settentrione, anche per questo non sarà inutile qualche ricordo che può forse essere sfuggito a qualcuno dei nostri colleghi del Nord. Noi ci trovavamo nel 1944 in questa situazione politica nelle città meridionali di fronte all’istituto monarchico: era uniforme quasi unanime il sentimento che riteneva, se non l’indegnità, per lo meno l’incompatibilità del re al trono. Anche coloro i quali non sapevano decidersi sulle origini e sulle cause del fascismo, ed esitavano a dichiarare se fosse stato più debolezza di re o non piuttosto aberrazione di popolo, o derivato e conservato dal concorso dell’uno e dell’altro elemento, di fronte alle case crollate, alle rovine della Patria, che con triste eloquenza parlavano al cuore ed alla coscienza di ogni italiano, ritenevano che il re il quale comunque e contro la volontà del popolo, aveva firmato la guerra non potesse ancora rimanere al suo posto. Venne allora il provvedimento del 5 giugno 1944, il primo provvedimento con cui si istituiva il luogotenente del re. L’onorevole Orlando, insigne maestro, come sempre, di ogni cosa, ma più specialmente di diritto costituzionale, in un mirabile discorso che pronunciò alla Consulta tra l’unanime plauso e l’entusiasmo dei presenti, e di cui venne anche decretata l’affissione, censurò con una certa asprezza questa soluzione, e aveva ragione, perché, dal punto di vista costituzionale, questo provvedimento non si spiega e non si comprende. Però l’onorevole Orlando era a Roma e non sapeva quello che avveniva laggiù. Qui non sentivate nulla, non arrivava neppure l’eco delle bombe non vi era modo di raccogliere il sentimento pubblico di paesi più o meno lontani; e voi non sapevate, onorevole Orlando, che quel provvedimento, nell’istante in cui fu preso valse a risparmiare all’Italia altri lutti e altri dolori.

Questo provvedimento del 5 giugno 1944 non bastò, e quando, dopo la liberazione di Roma, il Governo si trasferì a Salerno, l’agitazione contro il vecchio Monarca non era ancora calmata. Si voleva di più. Non bastava il luogotenente che rappresentava sempre il re, ma si voleva l’abdicazione, si voleva che se ne andasse il re della guerra, di quella guerra che aveva rovinato una nazione prospera e fiorente, elevata mano mano a grande prestigio dal sacrificio dei suoi figli e dalla sapiente guida dei nostri grandi uomini del Risorgimento. Il re invece, forse mal consigliato, si ostinò a resistere al sentimento pubblico, e non volle decidersi ad abdicare, mettendo così maggiormente anche in pericolo l’istituzione monarchica, come i fatti poi hanno meglio dimostrato. Allora sorse la necessità del decreto col quale poté in certo modo calmarsi ogni agitazione, del decreto Bonomi del 25 giugno 1944, il quale implicitamente rappresentava, come si disse, una sosta sulla questione istituzionale per aspettare i fratelli del Nord.

Ma intanto si stabiliva come un punto fermo che sarebbe stata l’Assemblea Costituente, eletta a suffragio universale, a decidere e a risolvere le sorti della Monarchia. Per questo scopo specialmente sorse l’Assemblea Costituente.

Io ho un convincimento, personale che non so fino a che punto possa essere esatto, ho il convincimento cioè che se il re, o meglio la monarchia, in quel momento si fosse decisa ad andarsene, noi non avremmo avuto l’Assemblea Costituente, non ne avremmo forse sentito il bisogno. In quel momento era quello l’unico problema che assillava. Chi volete che pensasse in quelle tristi condizioni dell’Italia alla Costituzione, alle nuove leggi, alla nuova attività politica o nazionale? Chi prevedeva come e quando, ed in quali condizioni saremmo risorti?

Il decreto Bonomi riuscì a frenare gl’impulsi del momento, l’attesa imposta per legge venne accettata dal popolo; si rinviò ogni dibattito ad altro periodo più calmo, in cui con maggiore oculatezza tutto quanto il popolo italiano riunito da un capo all’altro della Nazione, potesse pronunziarsi sulla Monarchia e decidere del suo avvenire politico.

Ma quando si arrivò alla Consulta, sorse l’idea del referendum, e fui forse il primo tra quelli che maggiormente sostennero la necessità del referendum nazionale: così dicemmo in molti e dissi anch’io: sì, vi sarà un’Assemblea Costituente, ma qui si tratta d’un problema fondamentale che riguarda il nostro nuovo Stato, e allora perché demandarlo solo ai rappresentanti che possono anche farsi guidare dal loro personale pensiero? Sarà meglio invece ed assai più opportuno che lo risolva direttamente il popolo, con espressione sincera e diretta della propria volontà. Quindi la Consulta propose – non toccava infatti ad essa di decidere – ed il Governo accettò la proposta soluzione.

Dopo di che il problema fondamentale, lo scopo precipuo per cui si era creata e doveva sorgere la Costituente se ne andò; ed allora mi permisi di inoltrare alla Consulta un’altra proposta: se si accetta il referendum e la soluzione del problema fondamentale dello Stato è affidata direttamente al popolo, perché due prossime Assemblee, perché due prossime riunioni, perché due prossime agitazioni elettorali? Rimane il compito di una legge che è importante sì, ma non completamente diversa da altre leggi, per l’organizzazione della nuova monarchia, perché sarebbe stata una nuova monarchia, se l’istituzione fosse rimasta, o della nuova Repubblica. Avevamo uno Statuto di già vecchio, prima del fascismo, che doveva sempre essere rinnovato, tanto più che per le troppe violazioni, quasi annullamento di sé stesso, che aveva subite, avrebbe sempre rappresentato un cattivo ricordo per il nuovo Stato. È vero, lo Statuto Albertino non poteva rimanere, e sarebbe stata sempre necessaria una nuova Costituzione. Ma essendo il problema fondamentale demandato al referendum, cioè demandato al popolo, non vedevo la necessità di due Assemblee che si seguissero l’una all’altra, di due successivi movimenti elettorali che maggiormente avrebbero sconvolto il Paese.

Ed aggiungevo: se non si vuole proprio che la Camera legislativa si occupi della nuova legge costituzionale, in un primo periodo, e di pochi mesi soltanto, l’Assemblea che sorge dalle prime elezioni potrà funzionare come Costituente, e poi si muterà in Camera legislativa.

Non si volle accettare questa soluzione, e allora si è verificato quello che si poteva agevolmente prevedere, con evidente riflesso sulla formazione della legge costituzionale.

Si è verificato, cioè, che abbiamo avuto una costante, continua permanenza di movimento e di periodo elettorale: il 2 giugno si sono fatte le elezioni, ed il 3 giugno è ricominciato il periodo elettorale. Questo ha paralizzato tutta l’attività dell’Assemblea Costituente per nove mesi, ed ha influito – ecco la conseguenza, ecco la conclusione dei precedenti rilievi – ha influito, a mio avviso, sulla formazione della legge costituzionale. Io credo – ecco le impressioni che riporto, se errate o vere, vedete voi, ma permettetemi solo di esporvele – che il progetto di costituzione in esame sia stato formulato in parte, anzi in gran parte, sotto l’assillo delle ansie elettorali, per cui ogni Partito ha lottato ad ottenere affermazioni, sia pur vaghe, imprecise ed inconsistenti, le quali poi debbono costituire una piattaforma più o meno salda per le prossime agitazioni elettorali.

I democristiani – non vi ribellate troppo violentemente, ad essi dico – (Commenti al centro) i democristiani ne trassero quanto potevano dai rapporti tra lo Stato e la Chiesa all’indissolubilità del matrimonio. Non me ne dolgo, perché non sono democristiano, ma sono cristiano e cattolico anch’io. Da parte opposta, gli altri partiti di massa si presero la rivincita sul terreno dei rapporti economici, e stabilirono tante altre affermazioni che possono essere utilmente sfruttate davanti alle loro masse nel momento elettorale.

Ora comprendete tutta la portata di quanto vi affermavo; questo lungo periodo elettorale permanente, di un anno e mezzo per lo meno, e che durerà ancora per altri mesi, mentre ha posto l’Assemblea Costituente nella condizione di non fare niente – perché non abbiamo fatto niente, signori miei – d’altra parte ha influito enormemente per quello che riguarda la formazione della legge costituzionale. E badate, come vi ho detto, che non mi dolgo, almeno personalmente, per i miei sentimenti, di quello che voi (Accenna ai democristiani) siete riusciti ad affermare per il vostro Partito nel seno della Commissione; non mi dolgo nemmeno di quello che in cambio avete strappato voi (Accenna ai banchi di sinistra) perché, in tema di riforme io non sono affatto restio, anzi non so se possa anche prevenirvi o superarvi. Ma dico all’una e all’altra parte: vi sembrano proprio le quistioni, di cui vi ho fatto cenno, tali da potersi risolvere con un articolo di legge in tema di Costituzione? Questo è quello che vi dico. Sono grandi argomenti che richiederanno ampie discussioni e meritano di essere assai oculatamente ponderati. Se è così, mettiamoli da parte per ora ed occupiamoci soltanto della legge costituzionale. Ma senza dubbio essi dovranno essere esaminati in sede opportuna, ed al più presto possibile, come la loro gravità ed importanza impone alla coscienza dei rappresentanti del popolo dinanzi alla prossima Camera dei Deputati.

Le affermazioni che avete fatte da ogni parte, anche se inconsistenti, anche se non mi dispiacciono, non possono passare così, in modo superficiale e quasi inconsapevolmente, con un periodo, o con una frase, in un articolo di legge generale, ma meritano a parte, leggi separate e distinte che possano comprendere le soluzioni veramente conformi al desiderio, alla volontà ed alle esigenze del popolo italiano. Se senza dubbio adunque, venuto meno lo scopo precipuo per cui venne creata l’Assemblea Costituente, si affermò anche un lungo periodo elettorale, ne è innegabile la ripercussione sulla legge per la Costituzione dello Stato; vediamo, ciononostante, se questa legge risponda ai requisiti che dovrebbe avere. Io ho appreso dai grandi maestri di diritto costituzionale, tra cui Orlando che li supera tutti quanti; ho appreso sempre che, in fondo, una legge costituzionale, deve contenere i diritti fondamentali, imprescrittibili, inalienabili del cittadino e deve occuparsi della struttura politica dello Stato con l’ordinamento dei poteri.

Questo mi hanno insegnato; e così è.

E voi che avete fatto?

Il presidente della Commissione dei settantacinque esponendo nella sua relazione i requisiti della legge costituzionale, dice che essa deve essere breve, chiara e semplice.

In verità, l’impressione che ho riportata è che essa non risponde per niente a questi tre requisiti.

E mi spiego meglio. Non tratta solamente di quei punti, di cui si deve occupare la Costituzione, come or ora ho esposto e come mi confermava col suo assenso anche l’onorevole Orlando, ma tratta dei più svariati problemi e di multiformi questioni, non trascura niente, non tralascia nessun argomento, traversa tutti quanti i Codici, dal Codice civile al Codice penale, al Codice di procedura penale, al Codice penitenziario; dimodoché si arriva ad un punto, in cui non si sa più se ci troviamo di fronte ad una legge costituzionale o ad una enciclopedia giuridica.

Basta uno sguardo anche superficiale al progetto per una simile constatazione. Valutatela voi.

E cominciamo: la famiglia, i diritti di famiglia, la definizione della famiglia. Ma in quale legge costituzionale avete visto la definizione della famiglia? Ditemi voi se esista e dove una legge simile.

C’è bisogno di fare una legge costituzionale per dire che cosa è una famiglia? Quella definizione poi non si sa che cosa voglia dire: «è una società naturale»; una definizione più scialba non si potrebbe immaginare; è priva d’ogni colore e d’ogni calore, d’ogni nota sentimentale.

È una società naturale. Non so perché poi sia indissolubile; tutte quante le società si possono sciogliere. Vedete adunque che avete definito in modo da stabilire una contradizione in una stessa legge.

Si parla dei diritti dei figli, del trattamento dei figli naturali, di diritti di successione, ecc.

Ma questa è materia di Codice civile. Vi sono leggi di già complete con molteplici disposizioni al riguardo. Se poi vi sembrano manchevoli le norme di già adottate, si potranno modificare. Ma distinguete la legge ordinaria dalla Costituzione.

Non hanno nulla a che vedere con la Costituzione la famiglia, la successione, i diritti dei figli.

Poi, si passa dal diritto civile al diritto penale. I principî più banali, più elementari, noti ormai a tutti i cittadini ed anche agli uscieri dei Tribunali e delle Università, dovunque accolti; la pena è personale, non vi è colpevole se non vi è una sentenza passata in giudicato, le leggi penali non hanno effetto retroattivo, di due pene diverse si applica quella più favorevole, ecc.

Ma vi era proprio bisogno di un’Assemblea come la nostra, creata con tanta solennità, per affermare concetti così elementari?

MANCINI PIETRO. È appunto il principio che si afferma.

RUBILLI. Ma ogni articolo di Codice contiene un principio e non tutti i principî si debbono evidentemente includere nella legge fondamentale.

Però nella elaborata relazione dell’insigne Presidente, che io ho esaminata con tutta l’attenzione possibile, si dice che, siccome questi principî sono stati violati qualche volta, sarà bene che noi li inseriamo nella Costituzione per ribadirli. Ma questa violazione ha avuto luogo in tempi di tirannia; noi invece facciamo una Costituzione per tempi liberi e civili, non per tempi tirannici; ché, se viene la tirannia – non sia mai, Presidente – non se ne vanno le piccole norme di cui ho fatto cenno, ma se ne va, cade e si annulla tutta la Costituzione.

RUSSO PEREZ. Non può cadere la Costituzione, perché c’è l’articolo 131, nel quale si dice che la forma repubblicana è definitiva.

RUBILLI. E poi ancora le norme penitenziarie: come deve essere espiata la pena, la pena deve essere di rieducazione. Ma questo sta scritto in tutti i manuali! E poi ancora: che i detenuti non debbono essere maltrattati. E questo è un reato, è un delitto di già previsto dal Codice penale, anzi precisato come un grave ed esoso delitto: e non vi è proprio ragione di ripeterlo nella Costituzione! Si passa persino, quindi, alla procedura penale, e voi vi siete pronunciati per la giuria, mentre vi è una Commissione parlamentare che ora propone il contrario, cioè che noi si ritorni ai giurati. Io credo che nella Commissione dei Settantacinque non ci fosse nessun avvocato penale, perché non è possibile che un avvocato penale sostenga ancora il sistema dei giurati.

MANCINI PIETRO. Eravamo invece in molti avvocati penali ed eravamo tutti per la giuria.

RUBILLI. Ho cinquant’anni di Corte d’assise: lasciatemi parlare.

MANCINI PIETRO Tanto vero che il fascismo non fece altro che abolire la giuria.

RUBILLI. Ma c’è la Commissione della giustizia che è una Commissione parlamentare, la quale propone, come propongo io, che non si torni ai giurati. La democrazia è una cosa magnifica, ma non ha nulla da vedere col retto funzionamento della giustizia dove si decidono le sorti dei cittadini. Né si può ripristinare un’istituzione sol perché il fascismo l’aveva abolita. E se poi l’Assemblea approva il parere dato dalla Commissione parlamentare per gli affari di giustizia, comincia a cadere un pezzo della Costituzione, prima che si sia approvata.

Una voce al centro. Ma lo vogliamo fare.

RUBILLI. L’inconveniente è appunto questo: che non bisognava parlarne; non è materia di Costituzione. Lasciamo andare quello che pensate sui giurati; ve la vedrete voi quando verrà la legge, e io potrò, spero, modestamente esprimere il mio pensiero. Ma quello che è certo è che questa non è affatto materia di Costituzione; tutto quello che muta, che cambia, non può, non deve trovar posto nella Costituzione. La Costituzione rappresenta appunto i cardini fondamentali, sacri ed intangibili che non possono, non devono essere sgretolati. I re, per tradizione, giuravano sul vangelo o sulla bibbia la fede alla Costituzione. Noi non la giuriamo, noi la votiamo soltanto; però, per noi Deputati e uomini di onore, il voto vale quanto il giuramento.

Dalle leggi civili, penali e procedurali poi si passa ad un lavoro di enunciazione dei rapporti economici che, secondo me – come ho detto – rappresentano la piattaforma elettorale della parte di sinistra della nostra Assemblea. Ora, come vi ho già detto, io non mi oppongo affatto anche alle riforme più ardite. Anzi, giacché si parla sempre, e sento dire ad ogni istante in quest’Aula del dovere di consolidare la Repubblica, io sono convinto che la Repubblica non si consolida né con mezzi di coercizione, né con parole persuasive; la Repubblica si consolida in un solo modo: con grandi riforme sociali ed economiche, specialmente a vantaggio delle classi più umili e più bisognose; altrimenti avrete la rivoluzione. Questo è il mio concetto.

Noi ci siamo già di troppo indugiati – confessiamolo apertamente – in crisi ministeriali e dibattiti sulle dichiarazioni dei governi, dei successivi governi, che poi in fondo si riducono ad un Governo solo, sempre lo stesso Governo; mentre il popolo aspettava ben altro da noi, e non ha avuto né una riforma, né una legge, né un provvedimento. Questo dobbiamo dire e confessare. Invece occorre provvedere alla Repubblica, ma non con frasi roboanti e articoli fugaci di Carte costituzionali. Come sarebbe a dire? C’è un articolo che solennemente afferma: «Si ha il diritto al lavoro». Che avete concretato? Con quali mezzi, con quali leggi? Che avete fatto per stabilire sul serio questo diritto al lavoro? Risponde il Presidente della Commissione, sempre oculato, a cui non sfugge niente: «Ma questo è un diritto potenziale». E come, i diritti potenziali, le possibilità si mettono nella Carta costituzionale?

RUINI: Sì, in tutte le Costituzioni moderne!

RUBILLI. Io non ce li metterei, perché nella Costituzione trova posto ciò che è stabile, non quello che è solo possibile ed aleatorio, e rappresenta una mera speranza, quando si sa poi che sono assai difficili i mezzi per appagarla.

Per me la Costituzione deve limitarsi ai diritti effettivi, non alle promesse, ma a quello che si può mantenere fin da questo momento. Non si risolve con una frase il grande problema della disoccupazione.

Le famiglie, si aggiunge, hanno diritto al sostentamento, ai mezzi di cui hanno bisogno; chi non può lavorare, chi è inabile deve avere efficace, completa assistenza. Il Presidente della Commissione dice: che questo non è diritto potenziale, ma un diritto concreto.

RUINI. Vi sono infatti gli istituti di assistenza.

RUBILLI. Ma si sa con quale scarsa efficacia questi istituti funzionano, ed io dico invece che dovete prima stabilire i mezzi adeguati, e poi affermare un diritto. E penso che si potrà anche arrivare al momento in cui, allorché sarete chiamati a mantenere le promesse sancite nella legge costituzionale, voi direte: non è possibile per il momento, perché c’è stata una piccola distrazione; infatti la Commissione si è dimenticata di chiamare tra i suoi componenti il Ministro del tesoro, per averne i fondi indispensabili.

Ora quale è la conclusione? Che tutta questa parte è opera della Camera legislativa. Riforme, sì, ma è la Camera legislativa che dovrà essere chiamata a tutto questo lavoro, e trovare i mezzi per attuare i diritti che solennemente vengono stabiliti.

Il popolo non vuole promesse, ma vuole fatti concreti e questi bisogna dare. Ora questo vagare della legge fra i vari codici, questo passaggio da un codice all’altro, senza escluderne nessuno, con una serie di affermazioni che potranno servire solo per i prossimi comizi elettorali, ma nulla danno al popolo, tranne che vaghe promesse, bisogna evitarlo. Secondo il mio avviso, questa materia dovrebbe essere tolta dalla Carta costituzionale…

LA ROCCA. Ma allora facciamo una Costituzione del 700!

RUBILLI. No; facciamo una Costituzione seria ed onesta, perché gli argomenti complessi e di grande portata sociale ed economica debbono essere demandati alla Camera legislativa.

Io credo che queste, che a mio avviso potrebbero rappresentare delle deficienze della Costituzione, e che secondo l’avviso di altri ne sarebbero forse pregi emeriti, siano anche da attribuirsi ad un fatto semplicissimo: cioè al modo come si è svolto il lavoro per formare la Costituzione. Io non so da quali criteri sia stato spinto il Presidente Saragat nel fare una Commissione di settantacinque persone per preparare la Carta costituzionale. Nessun digesto, nessun corpus juris, nessun codice, nessun trattato di pace, anche mondiale, ebbe un comitato di tante persone.

E naturalmente, in tanti, ognuno ha desiderato portare un pensiero proprio e dire qualche cosa che aveva nell’animo, nella coscienza; quindi, avete una legge costituzionale la quale si è ingrandita mano mano, secondo le idee che sorgevano a ciascuno dei costituenti. (Commenti — Interruzioni).

Non abbiate impazienze, perché dovete sentire anche il parere di coloro che sono di avviso contrario al vostro. Non possiamo avere tutti la vostra opinione.

Una voce a sinistra. Torniamo allo Statuto!

RUBILLI. Non c’è pericolo. Non era per i tempi nostri, ed era di già invecchiato prima del fascismo, tanto che si sentiva da ogni parte il bisogno ed il desiderio di modificarlo, ma anche se fosse stato adatto ai tempi nostri, bisognava abolirlo come un documento che non aveva avuto grande fortuna dopo quello che si è verificato. Si capisce, quindi, colleghi, che non ho proprio alcuna voglia di richiamare in vigore lo Statuto Albertino; parlo invece in modo puramente sereno ed obiettivo.

Aggiungo che anche il metodo ha la sua importanza, ed il metodo seguito dai settantacinque non mi piace affatto, perché non si spiega quella divisione in varie sottocommissioni e sezioni con un lavoro affidato ad alcuni ed altro lavoro a diversi componenti che agiscono per conto proprio. Questo si può fare nei codici, dove ogni parte è quasi autonoma e può essere trattata a sé, indipendentemente dalle altre parti, ma non si può fare per una legge costituzionale, che dev’essere considerata nel suo complesso con uno sguardo di assieme così come si presenta, di getto.

Mi pare che si sia fatto con la costituzione come quell’artista, che dovendo creare una statua, aveva affidato le braccia a un suo discepolo, le gambe ad un altro discepolo e la testa se l’era riservata per sé. Presso a poco è così.

Sono queste le osservazioni d’indole generale a cui mi limito per non dilungarmi troppo. Qualche piccolo rilievo devo fare ancora. Come volete che io capisca il significato vero, reale dell’articolo 1? Che significa la repubblica dei lavoratori? Credo piuttosto che la Repubblica italiana sia di tutti quanti i cittadini italiani, che la stessa Carta costituzionale dichiara eguali dinanzi alla legge ed egualmente tutela e garantisce. Nessuno più di me ama il lavoro ed i lavoratori, perché ho vissuto sempre e vivo anche ora esclusivamente di lavoro quotidiano. Sì, amo il lavoro ed i lavoratori, ma non mi spiego questa affermazione solenne e risonante che l’Italia sia la Repubblica dei lavoratori.

Per quanto riguarda il preambolo, ritengo che non sia indispensabile; se non c’è preambolo la Costituzione rimane egualmente, né si cambia o si modifica solo perché vi è o non vi è il preambolo, ma in fondo credo che sia utile, che sia opportuno ed anche esteticamente farebbe assai buona impressione e suonerebbe bene alla coscienza del popolo italiano. Fatelo come volete, per me è indifferente; potete preferire l’invocazione a Dio, come dice Lucifero, oppure un caldo appello al popolo, alla coscienza del popolo, come è stato detto dall’altra parte; potete unire Dio e popolo anche per contentare gli storici mazziniani. Come vi piace; occorre però che vi sia un pensiero caldo che scenda al cuore e parli all’anima del popolo italiano. È la Repubblica che si presenta, la Repubblica col suo saluto augurale, che salda si afferma con le sue prime leggi costituzionali. Ripeto che non è indispensabile, ma senza dubbio sarebbe utile. Se vi è qualcuno che sappia dettare come si conviene questo preambolo, e credo che ve ne siano tanti nella Commissione a cominciare dal Presidente, è bene farlo e sarà l’espressione della nostra coscienza che troverà eco profonda in eguale espressione del popolo italiano.

Vi ho fatto adunque qua e là degli accenni fugaci, poiché, come vedete, io parlo così per semplici impressioni ed in pari tempo con sincero convincimento. Per discutere tutta la legge costituzionale occorrerebbe almeno una settimana. Una discussione completa non può venire da un solo Deputato, ma dal complesso degli oratori.

Consentitemi ora che una parola io dica su quelli che sono i due punti fondamentali, i cardini del progetto. Le disposizioni che io modestamente ho criticate, ci siano o non ci siano, utili o no, in fondo non rappresentano un gran male. A me pare che sarebbe bene obbedire di più al precetto che ci ha dato il Presidente della Commissione, che cioè la Costituzione debba essere breve, chiara e semplice. Se fosse sfrondata di tante materie che non sono indispensabili o vanno rinviate alla Camera legislativa, o non possono essere trattate incidentalmente e di straforo, sarebbe meglio. Non volete farlo? Non importa. La legge costituzionale rimane la stessa, anche se voglia comprendere argomenti non proprî o riuscire inutilmente pletorica, e grave danno in fondo non apporta.

Ma dove richiamo, per debito di coscienza come Deputato, ed anche come cittadino tutta quanta la vostra attenzione, è sui due punti fondamentali, sui due cardini come ho già detto del progetto di Costituzione: la riforma regionale e la formazione del Senato. Sono due punti nuovi. Naturalmente non farò, come hanno fatto altri oratori fino a questo momento, che dire concetti puramente di indole generale, perché la discussione più ampia sarà fatta a suo tempo. Ma permettetemi di manifestare il mio pensiero come l’hanno manifestato altri sia pure in senso opposto a ciò che io sono per dirvi. Per conto mio, sono contrarissimo alla riforma regionale. Esempi ne abbiamo di già avuti fino a questo momento. Abbiamo date delle autonomie e state vedendo quello che avviene e che non è certo confortante. Ma ad ogni modo dove ora esistono hanno rappresentato una giusta, legittima ed opportuna transazione. Dopo la guerra non si poteva fare diversamente. Avremmo avuto peggiori sconvolgimenti se non si fossero concesse le autonomie. Io sono contrario a tutte le autonomie, ma dico che quelle concesse debbono rimanere. Più che concesse veramente sono state strappate e imposte, diciamo la verità. Qui possiamo dire, anzi dobbiamo dire, sempre tutta quanta la verità, e se sarà pure indiscutibile quello che ripete con calda anima di siciliano l’onorevole Orlando, che la Sicilia non può rimanere senza l’Italia e l’Italia non può rimanere senza la Sicilia, non si potrà neppure in alcun modo negare che ove mai voi mettiate in dubbio la concessa autonomia della Sicilia, onorevole Orlando, io non so se la Sicilia sarà senza l’Italia o l’Italia sarà senza la Sicilia. Quello che è fatto bisogna mantenerlo. Non avverrà niente, come voi sostenete, ma è prudente che ogni inconveniente sia anche lontanamente previsto ed eliminato.

Ma se si son dovute per forza consentire, e, diciamolo pure, non molto volentieri delle autonomie, perché, vi domando, volete estenderle ancora? Io sono completamente contrario per ragioni politiche e per esigenze amministrative. Dal punto di vista politico perché, (sarà anche una questione di nostalgia) noi abbiamo conservato sempre vivo nell’animo il ricordo del nostro Risorgimento e sappiamo i sacrifici che esso è costato. Ci hanno insegnato sin dalle scuole elementari ad onorare i Martiri che hanno creato l’unità d’Italia. Noi siamo abituati al culto di questa unità. Non scacceremo mai dall’animo nostro, finché viviamo, questo sentimento nobilissimo che è ormai connaturato in noi. Anche se nulla di male dovesse avvenire, a noi parrebbe sempre che questo spezzettamento rovini l’Italia. In un’altra nazione forse la cosa potrebbe importar poco, ma proprio in Italia, dove c’è il triste ricordo dei vari Stati e staterelli, oggi mi fate le varie regioni e mi fate i vari Parlamenti? Uno deve essere il Parlamento! Dall’unità dell’Italia siamo abituati a vedere i grandi uomini politici, uniti, spendere tutte quante le loro forze, la loro attività e morire poveri per l’Italia nell’unico parlamento italiano che ha sempre rappresentato la saldezza della Patria nostra ed ha raccolte in sé tutte le virtù della nostra gente. Come vi viene in mente di fare proprio ora un parlamento napoletano, o un parlamento lombardo, o tanti altri parlamenti grandi o piccoli che sieno? Ora, per queste ragioni di carattere politico, sono completamente contrario alla riforma regionale.

E sono contrario anche per esigenze amministrative. Decentrare, sì, decentrare finché volete, ma decentrare significa pure semplificare, mentre voi decentrate per complicare. E questo non mi pare opportuno, né credo possa rappresentare un giusto criterio di diritto amministrativo.

Voi mi create tanti enti, con multiformi facoltà, e lo fate con troppa leggerezza e superficialità, senza rendervi conto di quello che potrà avvenire. Quindi, anche per ragioni di carattere amministrativo, io sono contrario alla riforma regionale e sono meravigliato nel sentire che di questa riforma proprio ora non si voglia e non si possa fare a meno. Chi l’ha detto? Non vi è una stampa che ne abbia fatto oggetto della sua attività, non vi sono uomini politici che ne abbiano parlato nei comizi elettorali, non vi sono opuscoli o trattati che se ne occupino o la consiglino, non vi è niente e nessuno se ne è occupato. Noi non riceviamo che ordini del giorno votati da enti, istituti, associazioni, tutti eguali e tutti contro le regioni. Non c’è un solo ordine del giorno in favore della riforma regionale. (Proteste Commenti).

Una voce al centro. Non ve li mandano, perché non ci credete.

RUBILLI. Questa proposta inventata, non si sa come, dalla Commissione è servita solamente, per ora, ad alimentare le rivalità e le vanità dei vari capoluoghi delle varie popolazioni interessate. Ogni città vuol essere capoluogo di Regione. Si parla di regione del Sannio, della Daunia, del Molise, del Salernitano, ecc. Credevo che fosse una specialità dell’Italia meridionale, ma ora vedo che vengono anche dall’Italia settentrionale questi desideri; così per Imperia, Cuneo, ecc. E naturalmente il male si è propagato ed è passato pure nel settentrione. Si è creata così un’agitazione nel Paese, mentre la riforma regionale nessuno la desidera, nessuno la vuole, anzi nessuno l’ha prevista o se l’aspettava.

Una voce al centro. È inesatto. Bisogna aggiornarsi.

RUBILLI. Può essere che sia inesatto quello che ho detto, sebbene a me sembri che siate inesatti voi e non io. Ma non capisco perché vi dovete ostinare su certi concetti. Quando vi è una ragione di partito, io mi arrendo, perché la ragione di partito purtroppo è predominante. Per esempio: la proporzionale. Voi sapete che ho combattuto accanitamente contro la proporzionale; ad ogni modo, la proporzionale è rimasta, con le sue non liete conseguenze e con i suoi inevitabili inconvenienti sino al punto che non possiamo avere un Governo diverso da quello che c’è, intangibile ed inamovibile, e non possiamo neppure avere un Sindaco a Roma. Ma la proporzionale posso anche tollerarla, perché s’imposta su di una ragione di Partito; essa giova ai partiti di massa, quindi, se non la giustifico, me la spiego, e mi spiego pure che, ad onta di tutte le evidenti difficoltà che presenta, vi accingiate a sostenerla ancora.

PRESIDENTE. Onorevole Rubilli, non devii dall’argomento. La legge elettorale la discuteremo poi.

RUBILLI. Chiedo scusa, ma ho creduto mio dovere di rispondere ad una interruzione e ad una domanda che mi è stata rivolta.

Per la riforma regionale, però, non vi è nemmeno una ragione di partito, quindi non so spiegarmi perché ad ogni costo voi volete insistervi.

Ma io vi dico un’altra cosa: supponiamo che sia una grande riforma, il che, mettetevi in mente, non si può dire o ritenere in alcun modo. Vi faccio ora un quesito: vi pare che sia questo il momento di attuarla? Stiamo appena rinascendo, stiamo risorgendo dalle rovine, dalle ceneri della Patria e volete abolire quelle provincie che hanno tanto servito, e bene, il Paese dall’unità d’Italia in poi? Proprio in questo momento si deve attuare e con tanta incomprensibile fretta una grande riforma pericolosa di cui non possiamo prevedere le conseguenze? Anche se fosse una riforma utile, vi direi di aspettare un altro momento più opportuno, a breve o a lunga cadenza.

Ma volete ancora elementi decisivi a riguardo? Ebbene io vi dico che se non vi fossero altre ragioni per ostacolare, almeno in questo momento, la riforma regionale, per me basterebbe e dovrebbe bastare anche per gli altri, quello che ha scritto il Presidente della Commissione nella sua relazione. Il Presidente della Commissione scrive infatti questo: «Nell’atto di dare il via a così rilevante forma strutturale della vita italiana, la Commissione non si è celata la complessità e le difficoltà di pratica attuazione. Basti pensare all’autonomia finanziaria non agevole a congegnarsi».

E voi volete proporre la riforma, e non avete pensato a risolvere e concretare prima quello che ne è il punto quasi essenziale e certo il più difficile?

RUINI. Le difficoltà le sentivamo.

RUBILLI. Vuol dire che allora le difficoltà le rimettete agli altri. Intanto segnate nella Carta costituzionale la grande ardita pericolosa riforma, e poi gli altri se la vedranno. (Commenti).

Io alla mia età non ho grandi interessi da sostenere, né un avvenire da coltivare, non ho nulla da temere ed anche nulla da sperare, tengo solo a compiere modestamente il mio dovere, e dico a voi: riflettete, pensateci e vedete se con le presenti difficoltà volete proprio ora mettere la nazione in una situazione di vero sbaraglio, di fronte ad una grande incognita e ad una riforma tutt’altro che matura e preparata.

Un’altra parola debbo ancora dire, e poi concludo, su di un altro punto che ritengo fondamentale del progetto di Costituzione, cioè sul Senato. Vi dichiaro che io sono contrario ad un Senato completamente elettivo. Non vi parlo del modo come sono state stabilite le categorie dei senatori. Vi ricordo solo che si arriva al punto di rendere eleggibili al Senato i consiglieri comunali anche dei più piccoli Comuni, dei quali abbiamo un triste ricordo che ci viene da quando li abbiamo visti funzionare come giurati. I giurati erano in gran parte Consiglieri comunali, perché i professionisti, ed in genere quelli delle categorie più elevate, trovavano sempre il modo di farsi ricusare.

(Commenti – Interruzioni).

Ora sapete che notavamo, e non di rado, i perché la votazione avveniva in udienza, di fronte a noi? Che un giurato guardava il suo vicino, e se questi sulla scheda scriveva egli pure scriveva , se poi vedeva scrivere no si regolava egualmente. E questi consiglieri comunali, ex giurati e presso a poco analfabeti, possono giungere al Senato!

Ma dove siamo arrivati? (Commenti Si ride).

Una voce. Alla sovranità del popolo! (Commenti).

RUBILLI. La sovranità del popolo va rispettata più di ogni altra cosa, ma dobbiamo evitare gl’inconvenienti dei capricci elettorali. Io parlo del progetto: quello che farete voi è un’altra cosa; anzi sono ben disposto a sperare che non mancheranno attraverso la discussione notevoli miglioramenti. Dico che nelle condizioni proposte non vedo perché debba esservi un Senato, che poi rappresenta sempre un peso sul bilancio dello Stato: una Camera legislativa costa e non poco. Il sistema completamente elettorale rende inutile una seconda Camera. Quelli che eleggeranno i Deputati al Parlamento saranno poi gli stessi che eleggeranno i Senatori, identici nella loro fisonomia politica o di partiti. Avremo, quindi, tanti comunisti, tanti democratici cristiani, tanti socialisti e che so io per la Camera; e per il Senato avremo ugualmente tanti comunisti, tanti socialisti e tanti democristiani, perché sono sempre quelle le masse che operano direttamente o indirettamente su terreno elettorale. E allora i comunisti al Senato, per disciplina di partito, faranno quello che fanno i Deputati comunisti alla Camera. Nello stesso modo si regoleranno i democristiani ed i socialisti. Ma allora questa seconda Camera perché la fate? (Applausi a destra).

Sarà una seconda, ma identica edizione dell’altra Camera e non servirà a niente. Un tripartito, insomma, alla Camera dei deputati ed un altro eguale tripartito al Senato.

Una voce a sinistra. La seconda Camera noi non la volevamo.

RUSSO PEREZ. E noi la vogliamo seria.

RUBILLI. Allora se non la volevate è meglio non farla, perché sarà un peso di meno pel bilancio. Almeno una volta siamo d’accordo. Per chi la vuole poi, deve essere costituita in modo che abbia una ragione di esistere.

Cerco di concludere, perché mi accorgo di avere un poco abusato della vostra cortesissima pazienza. Ma una legge costituzionale richiede pure discussione. Quindi, mi limito per ora a questo che ho detto, salvo a riprendere la parola, quando il Presidente me la concederà, in un altro momento opportuno.

La seconda ragione per cui sono contrario alla Costituzione del Senato, così come è prevista dal progetto, è questa: esistono o pur no nella Nazione delle personalità elevate, di competenza indiscutibile, uomini dotti, che sono assurti ai più alti fastigi nelle scienze, nell’arte, nelle questioni sociali e politiche? Uomini che per la loro stessa natura vivono fuori dei partiti? Per esempio, il Primo Presidente della Corte di cassazione, che poi non sarà il Presidente attuale. (Si ride). Un Primo Presidente di Corte di cassazione è una personalità spiccata, è il più alto funzionario, il numero uno nella graduatoria dei pubblici funzionari. E perché dovrebbe star fuori del Senato?

Vi sono persone di grande preparazione. Perché all’attività legislativa, alle alte mansioni da cui dipende la vita dello Stato, perché debbono rimanere assolutamente estranee? Perché debbono essere avulse da ogni efficace e benefica collaborazione? Io domando: uomini come questi che mi circondano, per esempio, perché dovrebbero stare fuori del Senato?

Una voce. Saranno eletti.

RUBILLI. Può darsi pure che siano eletti. Ma può verificarsi anche il contrario, e poi come vi dicevo, si tratta per lo più di persone che o sono fuori di ogni Partito, o per il loro grado e per le loro qualità elevatissime sono restìe ad affrontare l’alea elettorale, mentre sarebbe per esse non solo un diritto, ma anche un dovere di contribuire con la loro competenza, dottrina e perspicacia alla formazione delle leggi.

Ecco la seconda ragione per cui sono contrario ad un Senato che sia tutto quanto elettivo. Una parte, un terzo almeno non sia elettivo; che ci sia una possibilità, nei limiti che volete, di fare entrare al Senato queste grandi personalità, queste grandi voci che possono onorare l’Italia e la patria nostra e che col loro nome possono anche elevare la Nazione di fronte all’estero – dovete i tener conto di ciò specialmente ora che tutte le forze convergono a farci riprendere il nostro prestigio. Proprio in questo momento voi scegliete solo gli uomini che vengono dai partiti; uomini nuovi; è vero che sono i giovani, siamo perfettamente d’accordo, i quali debbono farsi avanti ed essere preferiti. Ma date un posto anche a quelli che con la loro virtù e con la loro esperienza, come per esempio i più alti funzionari, come coloro che a forza di studio hanno quasi acquistato una fama mondiale, possono validamente contribuire ad accreditare col loro nome onorato l’Italia, ed a guidarla nella nuova legislazione, nei nuovi orientamenti economici, sociali e politici. Anche di questi uomini la Patria ora ha bisogno.

Le discussioni, in fondo, a qualche cosa servono: servono per creare ed anche per modificare e migliorare. Orbene, ad onta di queste osservazioni che vi ho prospettate, io sono certo che con lo studio diligentissimo fatto dalla nostra, sia pure esuberante, Commissione e con l’ausilio delle ampie riflessioni, che verranno da ogni parte dell’Assemblea, di qui a qualche mese, l’Italia avrà la sua Costituzione, veramente degna delle sue grandi e gloriose tradizioni. (Vivi applausi al centro e a destra Molte congratulazioni).

(La seduta, sospesa alle 18.50, è ripresa alle 19.10).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Saragat. Ne ha facoltà.

SARAGAT. Onorevoli colleghi, il progetto di Costituzione, che sta di fronte a noi, è il risultato necessario di un compromesso politico fra differenti partiti, non poteva essere diversamente.

Questa eterogeneità delle forze politiche, che hanno contribuito alla elaborazione di questo documento, si riflette necessariamente sulla eterogeneità delle sue formulazioni.

E questo si spiega.

Il crollo del fascismo in Italia si è accompagnato col crollo delle forme politiche, di cui il fascismo era l’espressione, ma non si è accompagnato col crollo della vecchia struttura economica italiana, della vecchia struttura sociale italiana. Molte parti di questa struttura economica e di questa struttura sociale sono rimaste in piedi.

È avvenuto in Italia qualcosa di molto diverso di quello che è avvenuto in altri Paesi d’Europa, dove le rivoluzioni politiche hanno trascinato con sé anche il vecchio mondo sociale, di cui queste società politiche erano l’espressione.

Potremmo dolerci di questo o potremmo felicitarci, a seconda del punto di vista in cui ci collochiamo; ma questo è un dato di fatto, da cui dobbiamo partire.

Questa situazione di fatto, di fronte alla quale ci troviamo, propone al legislatore dei compiti speciali, che sono diversi dai compiti che si sono proposti ai legislatori dei Paesi, in cui le rivoluzioni hanno, invece, fatto tabula rasa del vecchio mondo.

In queste società, in cui le rivoluzioni hanno fatto tabula rasa del vecchio mondo, i legislatori si sono trovati non soltanto, talvolta, nella necessità di creare un ordine nuovo, ma anche, di far rivivere elementi del vecchio mondo, che si mostrarono utili ed erano stati spazzati via.

Da noi il problema è diverso.

Si tratta di eliminare progressivamente tutto quello che del vecchio mondo sociale italiano non risponde più allo spirito dei tempi. Da noi si tratta, in altri termini, di creare un tipo di Costituzione moderna, di gettare le fondamenta d’un ordine nuovo, anche dal punto di vista sociale ed economico, e di farlo, anche se sappiamo che su queste fondamenta non ci sarà possibile elevare subito le mura della nuova casa.

E questo spiega perché, mentre nelle società, in cui la rivoluzione ha spazzato via tutto, le Costituzioni hanno carattere di linearità e di semplicità, che molte volte confina anche con il semplicismo, da noi, invece, la Costituzione deve seguire le curve d’una realtà infinitamente più complessa. È per questo che la nostra Costituzione ha un carattere, che può apparire contraddittorio; ma la contraddittorietà è nella natura delle cose e della materia, che noi dobbiamo elaborare dal punto di vista legislativo e costituzionale.

È molto facile fare delle Costituzioni – vedete! – quando le minoranze non hanno voce in capitolo. In questo caso i testi legislativi hanno un carattere di omogeneità.

Si direbbe veramente che la storia universale sia docile al cenno d’un legislatore imperioso. È molto facile fare Costituzioni omogenee, dove non c’è che un partito unico che legifera. È molto più complesso farle nel caso in cui ci troviamo noi, in cui ci sono molti partiti, che hanno cooperato al compito nuovo di ricostruzione della nuova casa italiana. Non voglio fare qui che una questione di forma perché, se dovessimo fare una questione di fondo, dovremmo dire: la Costituzione che abbiamo creato è suscettibile di rispondere, sia pure progressivamente, ai bisogni profondi della grande maggioranza del popolo italiano? Questo infatti è il problema. Dal modo come gli sviluppi della situazione italiana risponderanno a questo quesito, dipenderà il destino della democrazia che abbiamo creato.

Tutto quello che possiamo oggi chiedere al testo legislativo che dobbiamo elaborare è di assecondare questo processo di evoluzione delle masse, fondato su una nuova giustizia sociale, questo ordine nuovo fondato sulla libertà politica. E noi dobbiamo anche chiedere al legislatore di assecondarlo in misura efficace. Ed io penso che questa misura non sia piccola perché, contrariamente alle prevenzioni che hanno molti, i quali pensano che il testo legislativo non abbia efficacia sull’azione economica, che il testo legislativo sorga un po’ al crepuscolo dell’azione, noi pensiamo invece che ci sono dei casi in cui l’azione rivoluzionaria del legislatore ha una efficacia profonda, per trasformare la sostanza economica del Paese, per assecondare il processo di evoluzione verso un ordine nuovo sociale ed economico.

In linea generale, si può ammettere che è pur vero che vi sono le condizioni economiche che determinano le evoluzioni legislative; ma possiamo anche ammettere che un’audace innovazione di carattere legislativo può avere un’efficacia nel senso della trasformazione economica della società. Ed è per questo che, mentre nei paesi in cui le rivoluzioni sono state, in un certo senso, già fatte, si può considerare esatta la frase del grande legislatore russo, Stalin, il quale dice che le Costituzioni non sono dei programmi; questa frase non può invece esser presa alla lettera, perché va adattata alle varie situazioni storiche, perché, in un mondo come il nostro in cui la curva degli avvenimenti non ha subìto salti bruschi, ma segue invece un andamento progressivo, noi possiamo ammettere che le Costituzioni siano anche dei programmi.

Del resto, onorevoli colleghi, è il caso di chiederci veramente se questa distinzione, fra paesi in cui le rivoluzioni si sono fatte e Paesi in cui le rivoluzioni sono ancora da farsi, non abbia un carattere un po’ scolastico, formale. Nei paesi, per esempio, in cui la rivoluzione è stata già fatta, nei paesi in cui i diritti sociali sono stati realizzati in misura maggiore che non negli altri, noi possiamo constatare che, purtroppo, in alcuni casi, certi diritti di libertà debbono essere di nuovo restaurati.

Noi vediamo allora che appunto manca qualche cosa di fondamentale in quella Costituzione. Nei paesi, però, come il nostro, in cui le rivoluzioni sociali non sono state ancora fatte, certi diritti fondamentali e politici sono veramente acquisiti, in modo che non si può dire che vi sia ancora tutto da fare.

Molte cose sono state fatte e molte cose si faranno. Il popolo italiano è riuscito, in ogni caso, col crollo del fascismo, a riconquistare quei diritti fondamentali politici che sono dei diritti inalienabili della persona umana, e la democrazia politica che abbiamo instaurato noi in Italia è una democrazia che risponde pienamente ai requisiti di una vera comunità politicamente libera. Il progetto che noi esaminiamo ha fatto molto bene a sottolineare il carattere inalienabile di questi diritti. Ma, accanto a questi diritti di libertà che sono sanzionati da tutte le Costituzioni moderne, accanto a questi diritti individuali, il testo della nostra Costituzione introduce una nozione che è nuova per l’Italia, ma non è nuova per altre legislazioni e per altri paesi d’Europa, ed è la legislazione dei diritti sociali.

Questo punto è essenziale al nostro documento, ed è quello che conferisce alla Costituzione che noi esaminiamo il suo carattere specifico, e ne fa una Costituzione veramente moderna e adeguata allo spirito dei tempi. Con questa innovazione fondamentale, il testo che noi discutiamo si adegua al moto di trasformazione della struttura economica delle società moderne. Si passa da un’economia a carattere puramente individualistico al tipo di economia in cui la libera impresa si trova a contatto con l’impresa non privata, collettiva, di Stato, con l’impresa socializzata. In termini più generali, si può dire che il progetto che stiamo discutendo riflette sul piano giuridico un compromesso tra le forme tradizionali dell’economia privata e la forma nuova dell’economia collettiva.

Ma, prima di scendere all’esame più particolareggiato di questo aspetto della questione, vorrei intrattenermi per un istante su un altro fatto: vorrei dire quanto sarebbe assurdo stabilire un’equazione fra economia privata e diritti individuali, quasi che la scomparsa progressiva delle istituzioni privatistiche dovesse coincidere con la scomparsa progressiva dei diritti di libertà, dei diritti individuali. Diciamo subito che i diritti di libertà sono diritti inalienabili in qualsiasi tipo di società; e il testo ha fatto molto bene a dare ad essi un rilievo essenziale e a considerarli come principî assolutamente inviolabili. Questi diritti sono talmente radicati nella coscienza del mondo moderno che, anche dove vengono praticamente calpestati, non vengono mai pubblicamente negati. È questo un tacito omaggio che la dittatura rende alla libertà politica; e la critica che da parte dei socialisti si è mossa, per esempio, nel secolo scorso ai così detti diritti dell’uomo, è una critica delle limitazioni egoistiche di questi diritti, non del contenuto umano che è in questi diritti. La critica che socialisti teorici hanno mosso nel secolo scorso alla nozione di libertà di stampa, per esempio, era una critica che moveva dal fatto dell’aspetto improprio di questa libertà, fino a tanto che questa libertà era privilegio di gruppi, e non invece patrimonio di tutte le classi lavoratrici. Ma è chiaro che è nella misura in cui tutte le classi lavoratrici possono usufruire di questo bene che la libertà di stampa cessa di essere un diritto sezionale, per diventare veramente un diritto universale, generale. La Costituzione ha fatto molto bene, quindi, a sottolineare il carattere inalienabile di questi diritti e il loro valore assoluto. Queste limitazioni dei vecchi diritti dell’uomo, dei diritti che si chiamavano «diritti borghesi», sono a mano a mano superate dalla natura stessa delle cose, dalla possibilità che hanno le classi lavoratrici di poterne beneficiare nel modo più vasto; ed è assurdo oggi ripetere certe critiche che avrebbero potuto avere un senso cinquanta anni fa, ma che oggi perderebbero senz’altro ogni valore.

Ripetiamo, quindi, che l’economia individualistica potrà scomparire a vantaggio di forme diverse di economia sociale, ma che le libertà individuali dovranno sopravvivere, perché se non sopravvivessero sarebbe morto ogni tipo di società fondato sulla nozione di responsabilità personale.

Accanto a questi diritti di libertà noi troviamo nel progetto i diritti sociali. L’articolo 1 di esso dice: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Può darsi benissimo che dal punto di vista giuridico questa formulazione non sia tra le più felici; ma io ritengo che la sostanza di questa affermazione sia storicamente esatta, e che anzi su di essa poggi tutta quanta la struttura di questo progetto relativamente a diritti sociali. Ciò che caratterizza il nostro testo è appunto il dilatarsi della nozione di responsabilità da quella unicamente verso se stessi, che è il fondamento dei diritti di libertà, a quella più vasta di responsabilità verso i propri simili, che è il fondamento dei diritti sociali.

I rapporti da uomo a uomo si estendono oggi dall’ambito individuale, alla sfera più vasta dell’ambito sociale; il che non è soltanto giusto dal punto di vista etico, ma anche vero dal punto di vista storico. Oggi si prende atto che l’individuo si avvantaggia del lavoro di tutti e dà a tutti il suo contributo. Questo contributo è appunto il lavoro umano. Il rapporto concreto di solidarietà che nel mondo moderno lega gli uomini non può essere che il lavoro. Se questo rapporto, per ragioni che sono note agli studiosi di economia, può assumere un carattere antagonista, non è men vero che abbiamo diritto di ritenere che verrà un giorno in cui questo rapporto di lavoro sarà la base di una società più giusta.

Può darsi che la critica dal punto di vista giuridico di questo aspetto del problema sia giusta, ma io penso che ogni lavoratore, leggendo questo documento, può capire che cosa si vuol dire. Che cosa vuol dire infatti questo articolo primo della Costituzione? Vuol dire che essa mette l’accento su tutto ciò che è lavoro umano, che essa mette l’accento sul fatto che la società umana è fondata non più sul diritto di proprietà e di ricchezza, ma sulla attività produttiva di questa ricchezza. È il rovesciamento, insomma, delle vecchie concezioni, per cui si passa dal fatto della ricchezza sociale a considerare l’atto che produce questa ricchezza. E questo dà luogo a sviluppi molto importanti. Il fatto della proprietà in sé può essere anche un fatto di carattere egoistico, ma l’atto del lavoro è veramente un atto per sua natura altruistico e determina un rapporto collettivo che dà un risalto anche al carattere sociale dei diritti. In altri termini, mentre la proprietà può isolare, il lavoro unisce, ed è da questa nozione dell’attività produttiva e del lavoro – nozione che deve essere associata al diritto al lavoro – che sgorgano tutti gli altri diritti sociali.

Questa è la nozione fondamentale di questo documento e su essa poggia tutto il sistema giuridico che ha ispirato il legislatore di questo documento. Ed aggiungo che questa nozione del lavoro regola non soltanto i diritti sociali, ma regola anche i diritti di libertà. Non vorrei fare della demagogia, ma bisogna tener conto di questo fatto fondamentale: che valore può avere oggi per un disoccupato, per un uomo che lotta per la sua vita fisica, che valore può avere la nozione di libertà di stampa, o di pensiero, o di riunione? Certo, può avere un valore importante; ma, badate, che queste libertà varranno al disoccupato come armi di guerra in un clima che non sarà più democratico.

I diritti sociali sono un complemento necessario oggi dei diritti di libertà, e qui sorge un problema fondamentale, ed è un problema che ha posto anche l’onorevole Togliatti nella sua relazione in sede di Sottocommissione: il problema cioè della garanzia di questi diritti. È un problema che storicamente si pone in modo analogo a quello della garanzia dei diritti di libertà delle vecchie Costituzioni. Anche allora si poneva il problema di queste garanzie del diritto di riunione, di stampa, di pensiero. Oggi si pone questo problema in modo moderno: quale è la garanzia che questi diritti sociali possano venire effettivamente realizzati e finalmente applicati? Allora, nelle vecchie Costituzioni, questi diritti di libertà venivano garantiti da istituti formali e venivano affidati al senso di civismo del Paese, al senso di libertà delle masse popolari. Così, oggi, in certo senso, la garanzia effettiva di questi diritti può bensì essere trovata in alcuni istituti formali, ma deve essere affidata al senso di civismo del popolo italiano ed all’azione che i partiti possono esercitare per dare un contributo concreto.

Ed ecco che, lungi dal relegarli, come è stato proposto, nel preambolo, io ritengo che essi vivifichino, con la loro presenza, tutto quanto il documento che stiamo esaminando. Qui veramente la Costituzione si può dire che cessi di essere un documento astratto e diventi qualche cosa di concreto e di vivo, diventi un programma nel senso che abbiamo detto noi, un programma costruttivo che dà un orientamento al Paese. Ed è evidente che, se noi togliessimo dalla Costituzione moderna questo diritto sociale, faremmo una cosa morta.

In verità, essi sono la parte più viva di questo documento; posso ammettere che la formulazione sia stata più o meno felice, ma bisogna riconoscere che senza di essi questo documento perderebbe ogni sua ragione storica, ogni sua giustificazione sociale.

Bisogna quindi reagire contro lo stato d’animo che si è formato in questa Assemblea, e che nasce appunto da una sfiducia sul valore della democrazia. In fondo è la possibilità di vita stessa della democrazia politica che è in discussione, perché, vedete, è il problema della garanzia di questi diritti sociali che si pone, come è stato detto, storicamente, in modo analogo a quello per cui si poneva nelle vecchie Costituzioni il problema di garanzia dei diritti di libertà. È un problema di vita o di morte della democrazia politica. A chi dicesse quali garanzie abbiamo noi da realizzare, direi che il problema va posto in modo diverso. Se veramente noi avessimo l’impressione che nessuno di questi diritti sociali può essere realizzato, dovremmo porre la domanda in modo diverso, dovremmo porla in questo modo: quali garanzie abbiamo noi che la democrazia politica possa oggi vivere? Se non siamo capaci di dare un contenuto concreto a questi diritti sociali, non possiamo difendere neanche i diritti di libertà. Se cade la parte sociale di questa Costituzione e se, in altri termini, non siamo in grado di realizzare la parte sociale di questa Costituzione, non saremo in grado di difendere la parte politica.

Oggi la democrazia sociale è talmente legata alla democrazia politica per cui, se non realizziamo un minimo di giustizia sociale, non saremo in grado neanche di difendere i diritti di libertà.

Dal punto di vista tecnico è stato rilevato che questa parte del documento è di una formulazione giuridica imperfetta. Può darsi, in quanto le contraddizioni che si rilevano nel documento sono contraddizioni – va notato – della natura stessa delle cose. Il documento è stato elaborato da forze sociali contrastanti, da partiti diversi, e queste contraddizioni riflettono le contraddizioni che sono proprie della situazione italiana di oggi, una situazione che, noi tutti sentiamo, è transitoria.

Ciò che è essenziale è che in esso sia stato dato un rilievo efficace a tutto ciò che del mondo passato deve essere conservato, e sono essenzialmente i diritti di libertà, e sia stato dato un rilievo efficace a tutto ciò che noi vogliamo costruire di nuovo per creare un mondo veramente migliore per tutti i lavoratori italiani.

Questa Costituzione, a mio avviso, concilia in modo abbastanza felice la nozione di libertà e la nozione di giustizia sociale, la nozione di personalità e la nozione di umanità. In altri termini, tutto ciò che è individuale e tutto ciò che è collettivo. Queste due nozioni, vedete, nozione di libertà e nozione di solidarietà, in fondo sono state compromesse dai regimi passati. Per esempio, la nozione di libertà è stata compromessa profondamente nella coscienza moderna. Da che cosa? Dall’aspetto egoistico con cui la libertà si è presentata nelle Costituzioni del secolo scorso. La libertà appariva veramente come qualche cosa che isolasse l’individuo, lo sottraesse ai doveri di solidarietà che esso ha verso la collettività.

D’altra parte, la nozione della solidarietà è stata compromessa dai regimi totalitari, i quali hanno compromesso, con la formula «tutto per lo Stato», la nozione di responsabilità sociale e di solidarietà sociale. Ed ecco invece che queste due nozioni, la nozione di libertà e la nozione di solidarietà, devono essere abbinate, mentre sono state compromesse nello spirito di molti, per cui se oggi uno mette l’accento sul problema della libertà individuale, si ha l’impressione che voglia, con questo, trascurare la necessaria solidarietà che deve legare un individuo all’altro; e se mette l’accento sulla solidarietà, si ha l’impressione che voglia trascurare il problema della libertà individuale.

Merito di questa Costituzione è di avere instaurato queste due nozioni ed averle collocate nella loro luce umana e veramente democratica.

Questo progetto, del resto, ha un altro merito, per me: è un progetto che non è caduto nell’errore, che poteva esser grave, di valorizzare le forme di rappresentanza dei cosiddetti interessi corporativi, le forme corporative.

Io ho l’impressione che dappertutto dove esiste il corporativismo, la democrazia muore. Ho l’impressione che, in linea generale, il corporativismo è un pretesto per mettere la museruola alla bestia popolare. L’unica cosa veramente organica della società è l’individuo sociale, l’individuo che è collocato nei suoi rapporti sociali con tutto il resto del mondo del lavoro. L’unico modo organico di rappresentare la solidarietà è il suffragio universale. Il suffragio universale non può, come è stato detto ieri, trovare un’espressione automatica; bisogna che sia elaborata attraverso determinati filtri, attraverso un meccanismo che è tutta la tecnica della democrazia. L’impressione che la volontà del popolo possa esprimersi automaticamente è errata. Questo non è possibile. La volontà popolare deve essere prima di tutto estratta, devono crearsi gli organi per filtrare e tradurre questa volontà popolare. Tutto il meccanismo politico, tutto il meccanismo democratico è fondato su questo.

Merito di questa Costituzione è l’avere accantonato le forme corporative, che possono falsare il gioco della volontà popolare; ma uno dei difetti di questo testo è di avere dimenticato qual è lo strumento che oggi dà veramente una forma di rappresentanza organica alla volontà popolare nelle democrazie moderne. Qual è questo strumento? È il partito politico. Questa è la vera forma di rappresentanza organica della democrazia. Eppure in questa Costituzione questo strumento fondamentale che è il partito politico non esiste. Se ne fa un vago accenno e non si intende che proprio lì è il fulcro delle democrazie moderne.

Ora, un oratore, se non mi sbaglio, l’onorevole Calamandrei, ha accennato alla possibilità di determinate garanzie costituzionali per il funzionamento democratico dei partiti. E ho udito una obiezione, che è venuta dall’estrema sinistra, in cui si diceva che il popolo giudicherà se i partiti sono democratici o meno, dando il voto o non dandolo. Questa è una illusione, perché se veramente questo criterio fosse valido, il problema non si porrebbe. La tragedia è che molte volte il popolo può essere ingannato. Tutta la storia è un esempio di questi inganni di cui il popolo è stato vittima. Il popolo molte volte ha votato per partiti che erano antidemocratici, totalitari, reazionari. Ora, può questa Costituzione studiare qualche cosa che dia al popolo la garanzia di essere tutelato da questi inganni? I partiti politici sono lo strumento più efficace della volontà popolare se essi sono democratici. Questo è il punto fondamentale della realtà politica moderna. Se ciò è, la democrazia è al riparo di ogni pericolo. Ma se i partiti sono tendenzialmente antidemocratici, allora tutto il problema della democrazia è posto in discussione, ed è difficile determinare un criterio di discriminazione fra partiti democratici e partiti che non lo sono, perché tutti i partiti, tutti indistintamente, tendono a trasformare lo Stato e la società, e mentre oggi, in un certo senso, tutti i partiti sono profondamente esclusivisti, ogni partito è la cellula di formazione di un nuovo tipo di società e di un nuovo Stato. Questa, più o meno, è la tendenza generale dei partiti politici di oggi.

Ora, io penso, che se questo esclusivismo dei partiti, lo chiamerò così, è spinto fino al punto di fare, delle eliminazioni violente degli altri partiti, l’obiettivo tacito ed espresso, allora l’esclusivismo cessa ed al suo posto subentra spesso una cosa più grave, che è il totalitarismo.

Questo è il criterio di discriminazione tra partiti democratici e partiti che non lo sono. La garanzia contro questo pericolo è rappresentata oggi, nella democrazia moderna, dalla pluralità dei partiti. Dove ci sono molti partiti c’è una specie di neutralizzazione di forze antagonistiche e di queste tendenze esclusivistiche; ma più che la pluralità dei partiti, a mio avviso, è nella funzionalità democratica, nella vita democratica dei partiti stessi che risiede la garanzia di vita della democrazia politica. E, ciò che è grave nel nostro tempo gli elementi fondamentali della vita politica, gli elementi fondamentali che creano lo Stato, si elaborano in un’atmosfera che molte volte sfugge al controllo dell’opinione pubblica e sfugge in parte al controllo degli stessi militanti che vivono nell’interno dei partiti. Ma se nel militante da un lato si determina un comportamento di devozione e di sacrificio, che è altamente sociale, dall’altro lato la vita di partito determina in lui un comportamento conformistico che molte volte è in netta opposizione con lo spirito critico e che può costituire una minaccia per la democrazia. I capi di partito sovente sono costretti a richiamare i loro militanti ai pericoli del settarismo che insidia e minaccia le finalità democratiche nell’interno dei partiti stessi. E questo è il processo che minaccia la democrazia moderna. Tutto dipende dal modo come i partiti funzioneranno, dipende dalla possibilità di mantenere una vita democratica nell’interno dei partiti stessi. Può la Costituzione offrire delle garanzie per favorire questo processo di sviluppo democratico nell’interno dei partiti o non può farlo? Questo è il problema. Ora, ci sarebbe da fare un lungo discorso, che io non voglio fare. Dirò che la migliore garanzia è nella creazione di un clima generale politico del Paese che favorisca la tolleranza reciproca. E questo clima non si può alimentare che in un’atmosfera sociale in cui i peggiori antagonismi economici vengono soppressi, in un regime economico che attenui i motivi di sofferenza e di rivolta morale della classe lavoratrice.

In altri termini, soltanto con la giustizia sociale si possono risolvere questi problemi. Il problema della giustizia sociale ed il problema della libertà sono intimamente collegati. Implicitamente, il progetto nella sua esplicita enunciazione dei diritti sociali dell’individuo, indica questo rimedio fondamentale ed il pericolo di un avviamento al totalitarismo.

Un’altra garanzia, a mio avviso, del funzionamento democratico dei partiti è nel civismo degli stessi militanti che si trovano nell’interno di questi partiti, civismo che può dare un certo equilibrio di patriottismo di partito. Ma è chiaro che un accenno a questo problema e qualche garanzia devono pure essere formulati nella Costituzione. Per una certa analogia, si sarebbe potuto applicare ai partiti politici quello stesso criterio che nella Costituzione si è applicato per la stampa. Un certo controllo analogo a quello sul funzionamento dei giornali si sarebbe potuto, a mio avviso, elaborare per quanto si riferisce alla vita interna dei partiti politici.

Ma lasciamo stare questo argomento. Il testo della Costituzione, così come è nel suo complesso, è suscettibile, a nostro avviso, di un’utile discussione, e noi l’affronteremo con la volontà di fare di questo documento uno strumento che sia veramente efficace per lo sviluppo della democrazia politica del nostro Paese. Per la democrazia sociale del nostro Paese il valore della Costituzione è sempre in funzione della situazione storica in cui questa Costituzione è stata elaborata.

Questa Costituzione, è stato detto, non è scritta bene. Credo che non sia questo l’inconveniente peggiore di questa Costituzione, perché è molto facile sottoporla ad un riesame e fare un testo, anche da un punto di vista stilistico, corretto.

Il problema non è questo. Se vi è un difetto in questa Costituzione, esso è un difetto di stile. Ma questo difetto di stile è inevitabile. Da che cosa deriva? Questa mancanza di stile deriva dal fatto non già che il documento non sia stato composto da letterati – anche gli altri documenti politici non sono mai stati fatti da letterati, ma da uomini di azione – ma dal fatto che il nostro progetto è stato elaborato due anni dopo gli avvenimenti che lo hanno reso necessario, quando le passioni si sono calmate. Questa è la ragione della inefficacia stilistica di questo documento. Se esso fosse stato elaborato prima, sono certo che avrebbe avuto maggiore calore, maggiore unità, maggiore organicità. Oggi esso si presenta come la espressione di aspirazioni e di esperienze che sono venute a mancare al Paese. In tutte le Costituzioni ci sono dei problemi di questo tipo: un problema di ritmo e un problema di tempo che sono fondamentali. L’essenziale è di immergere questa Costituzione nelle vive correnti del Paese, di metterla in contatto con l’anima popolare. In che modo? Non già, come si crede, facendo dei comizî per spiegare lo spirito di questo documento; questo può anche essere utile e vi sarà anche la necessità di fare questa divulgazione e mettere questo documento in contatto con l’anima popolare. Ma il problema, a mio avviso, è un altro. Non si tratta soltanto di fare della propaganda, si tratta di ricreare quell’atmosfera che esisteva in un certo senso due anni fa e di colmare il distacco che si è avuto fra l’ambiente di cui questo documento avrebbe dovuto costituire l’essenza e la situazione che si è formata oggi. Molte parti di questo documento possono essere le più democratiche, ma possono anche essere quanto vi è di più conservatore, perché un documento di questo tipo va giudicato a seconda della natura e della situazione sociale a cui si adatta. C’è in tutti i documenti di carattere giuridico una bivalenza che ne fa dei documenti che potrebbero essere i più progressivi o i più conservatori, a seconda appunto della situazione speciale a cui si adattano e dell’atmosfera che in un certo senso devono organizzare e controllare.

Considerate, per esempio, la parte relativa alle autonomie regionali; questo può essere il fatto più democratico o più conservatore del mondo a seconda delle circostanze. Se l’autonomia regionale si applica ad una situazione in cui il processo di democrazia che segue la regione è già sviluppato, allora evidentemente questa riforma assume un carattere perfettamente democratico; ma se, invece, l’autonomia regionale viene applicata a regioni che sono rimaste arretrate nello sviluppo democratico, noi abbiamo con questa forma di autonomia un processo di cristallizzazione e non facciamo che sanzionare un distacco progressivo di quella regione dalle altre più evolute. Ecco che la stessa norma può diventare di carattere democratico o di carattere reazionario.

Questo vale anche per altri problemi. L’onorevole Calamandrei ha fatto il caso della Magistratura. L’autonomia della Magistratura può, a seconda dello spirito di questo organismo, essere o non essere un fatto di carattere democratico.

Per eliminare questi pericoli che ci sono e che derivano da questo scarto, da questa sfasatura tra la norma politica e la situazione che si è venuta creando oggi, bisogna ristabilire un contatto profondo tra questo testo legislativo e la Repubblica. Come stabilirlo? Ho già detto che non basterà fare dei comizî per divulgare questo testo. L’unica via da seguire, come abbiamo visto, è di non attendere che la Costituzione, una volta varata, dia impulso al moto democratico, ma di mettere in moto sin da ora la democrazia sociale, in modo che quando sarà varata la Costituzione acquisti un vero e profondo significato sociale.

Se vogliamo rendere efficace questo testo fondamentale, la divulgazione nel Paese non deve limitarsi all’aspetto giuridico e sociale delle norme, ma deve sollecitare quelle profonde trasformazioni economiche e sociali a cui quelle riforme daranno il loro vero significato.

Se vuole essere una cosa veramente viva, questa Costituzione deve essere la lucida coscienza dei problemi ancora insoluti nella storia del nostro Paese. Ma appunto per questo noi tutti dobbiamo collaborare a realizzare tutti i problemi. La Costituzione da sola non può operare il miracolo. La lettura del testo, come è stata fatta, per esempio, dall’onorevole Calamandrei, che si è divertito a contrapporre una disposizione all’altra, ad immaginare il contrasto nel dialogo fra un progressivo e un conservatore, diventa una cosa quasi comica e contraddittoria. Ma per mettere in moto un meccanismo di questo genere bisogna operare dal di fuori, affidandosi al Paese, ai partiti politici, al popolo. Questa Costituzione, lungi dal saldare un conto immaginario che la storia avrebbe col Paese, stabilisce nuovi e solenni impegni, che non saranno saldati se non quando l’ultimo suo articolo avrà trovato perfetta rispondenza nella realtà storica. Si tratta di gettare le basi giuridiche di un edificio che dovrà aderire in modo sempre più perfetto alla realtà più libera di domani.

Noi siamo dei legislatori sui generis. Siamo quegli stessi uomini che per venti anni hanno guidato la lotta contro il fascismo. Questi stessi uomini hanno elaborato questo documento, ed essi hanno la possibilità e la capacità di mettere in pratica le norme che esso conterrà.

Questo è l’impegno che dobbiamo prendere esaminando il progetto di Costituzione, ed è un impegno che non può figurare nel testo. Ma questo impegno è la parola più viva di questa Costituzione.

Bisogna che dal corso dei lavori questo impegno traspaia evidente, e allora questo testo che oggi è un testo freddo, troverà le vie del cuore del popolo. Perché, non dimentichiamolo, onorevoli colleghi, questo testo è stato scritto col sangue del popolo italiano.

(Vivi applausi a sinistra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani.

La seduta termina alle 19.50.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazione.
  2. – Discussione del disegno di legge:

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni.

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 6 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LI.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 6 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio:

Presidente                                                                                                        

Sui poteri di una Commissione:

Presidente                                                                                            Rubilli      

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Lucifero                                                                                                           

Selvaggi                                                                                                           

Nenni                                                                                                                

Gronchi                                                                                                            

Persico                                                                                                             

Dugoni                                                                                                              

Orlando Vittorio Emanuele                                                                         

Gullo Rocco                                                                                                    

Tonello                                                                                                            

La Malfa                                                                                                          

Corbino                                                                                                            

Russo Perez                                                                                                     

Molè                                                                                                                 

Grassi                                                                                                               

Togliatti                                                                                                          

Interrogazioni (Svolgimento):

Togni, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale                      

Gabrieli                                                                                                            

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro Michele Parise, per il reato di vilipendio dell’Assemblea Costituente:

Presidente                                                                                                        

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Colombi, per il reato di diffamazione a mezzo della stampa:

Presidente                                                                                                        

La Rocca                                                                                                          

Ciampitti, Relatore                                                                                            

Scalfaro                                                                                                          

Presentazione di un disegno di legge:

Sforza, Ministro degli affari esteri                                                                     

Interrogazioni ed interpellanza con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Gullo, Ministro di grazia e giustizia                                                                   

Martino Gaetano                                                                                           

Interrogazioni e interpellanze (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

Congedo.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati De Caro Raffaele e Mentasti.

(Sono concessi).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che la Commissione incaricata di esaminare il fondamento dell’accusa rivolta, nella seduta del 26 febbraio 1947, dall’onorevole Finocchiaro Aprile all’onorevole Parri, ha proceduto alla propria costituzione, nominando Presidente l’onorevole Reale Vito, Vicepresidente l’onorevole Della Seta, Segretario l’onorevole Corbi.

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio.

PRESIDENTE. Il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso una domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Li Causi, per il reato di diffamazione a mezze della stampa.

Sarà stampata, distribuita e inviata alla Commissione competente.

Sui poteri di una commissione.

PRESIDENTE. Prima d’iniziare l’esame degli argomenti all’ordine del giorno, chiedo all’Assemblea di volersi trattenere sulla questione relativa all’attività della Commissione nominata su proposta dell’onorevole Natoli alcune sedute or sono.

Ho ricevuto dal Presidente della Commissione stessa, onorevole Rubilli, il testo di un ordine del giorno che la Commissione, sin dalla sua prima seduta, ha approvato, e che successivamente ha confermato, avendo sentito la necessità di riesaminare questa sua prima decisione, in conseguenza di alcune osservazioni che erano state mosse.

Devo comunicare all’Assemblea il testo di questo ordine del giorno ufficialmente, sebbene in realtà a tutti i colleghi, dai giornali di stamane, e anche da quelli di ieri sera, sia stato già offerto integralmente. Ora, tale ordine del giorno, essendo stato comunicato personalmente a me come Presidente dell’assemblea, avrebbe dovuto trovare soltanto attraverso le parole mie comunicazione ai membri dell’Assemblea stessa.

I poteri della stampa sono grandi e noi li rispettiamo. Riconosco che i giornalisti hanno diritto di attingere ogni volta che possono alle fonti di notizie. Certe volte, tuttavia, occorrerebbe che le fonti non offrissero troppo facilmente, a coloro che sono assetati, la possibilità di togliersi la sete.

Comunque, in via ufficiale l’Assemblea ignora l’ordine del giorno votato dalla Commissione, e ufficialmente lo comunico in questo momento.

L’ordine del giorno è stato trasmesso a me, ma evidentemente è destinato all’Assemblea, perché se, come Presidente, ho proceduto alla designazione dei componenti della Commissione, ho assolto in questa maniera al mandato che avevo ricevuto. Dopo di che i rapporti tra Commissione e Assemblea si devono svolgere direttamente, e io non posso essere che un semplice tramite per qualsiasi comunicazione.

L’ordine del giorno è il seguente:

«La Commissione, nominata dal Presidente dell’Assemblea Costituente nella seduta del 19 febbraio 1947, in seguito all’approvazione della proposta Natoli;

considerato che la proposta stessa assegna alla Commissione tre ordini d’indagini:

1°) esaminare gli elementi che saranno comunicati dal Governo e dalla Presidenza dell’Assemblea, concernenti i deputati i quali «coprano una carica retribuita e affidata dal Governo presso enti parastatali, economici, finanziari o in altri organismi che abbiano relazione con lo Stato»; ovvero facciano parte «di istituii finanziari, economici o imprese private»;

2°) riferire alla Presidenza dell’Assemblea le «proposte circa eventuali casi d’incompatibilità morale e politica»;

3°) riferire circa «l’opportunità di stabilire nel regolamento della futura Camera o nella legge elettorale norme riguardanti il problema generale delle incompatibilità»;

ha espresso all’unanimità l’avviso che, mentre per formulare le proposte di legge sulle future incompatibilità, potranno essere sufficienti gli elementi che il Governo e la Presidenza dell’Assemblea si sono impegnati di fornire alla Commissione, per adempiere invece al compito, assai più delicato e che più vivamente interessa l’opinione pubblica, previsto dal n. 2, è necessario che la Commissione disponga dei poteri per indagare sulla fondatezza delle accuse, lesive dell’onorabilità, formulate contro deputati nella pubblica discussione dell’Assemblea».

Ha chiesto di parlare l’onorevole Presidente della Commissione. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Ho domandato la parola per chiarire ancora meglio, e con maggiore precisione, il concetto della Commissione, e per eliminare eventuali equivoci che potrebbero creare anche delle difficoltà o legali o regolamentari.

Posso garantire all’Assemblea che questo ordine del giorno che ha letto il Presidente venne votato all’unanimità e dopo ampia e serena discussione. Posso anche riferire che il pensiero della Commissione è questo: di non fare di più, ma neanche di meno di quello che l’Assemblea, la sola competente a decidere, vuole e prescrive. Io ero momentaneamente lontano dall’aula allorché venne votata – e credo anche all’unanimità – la proposta Natoli.

Non ho elementi, quindi, per sapere se l’Assemblea, in uno di quegli scorci di seduta, che spesso sono anche confusi e tumultuari, abbia ben ponderato la portata di quella proposta e ne abbia considerate quelle che forse ne possono essere le inevitabili conseguenze.

La proposta Natoli senza dubbio chiede che si indaghi sulla incompatibilità morale e politica, ed è certo altresì (questa è la seconda osservazione che bisogna soprattutto tener presente) che non derivò per considerazioni astratte o da un pensiero momentaneo sorto nella mente dell’onorevole Natoli, ma rappresentò la conseguenza e la conclusione immediata di quello che si era verificato in quest’Aula per le allusioni fatte in rapporto ad alcuni Deputati e per le risposte che da questi Deputati vennero, più o meno efficaci e convincenti.

Ora, se è così, se si considera il concetto informativo della proposta Natoli, se si considera lo scopo per cui essa venne presentata (perché le cose acquistano anche valore dal momento in cui si verificano), è indiscutibile che sarebbe una ingenuità credere che si tratti di un esame puramente giuridico delle incompatibilità presenti o future. Le incompatibilità, le quali non hanno né carattere morale né carattere politico, ma non possono avere che un carattere esclusivamente giuridico, sono esaminate e decise, se attuali, dalla Giunta delle elezioni; se future vanno proposte dalla Commissione che si dovrà occupare della prossima legge elettorale.

Quindi, senza dubbio, si tratta di ben altro, e la parola incompatibilità è servita solo ad ammorbidire il concetto dell’onorevole Natoli accolto poi e fatto proprio dall’Assemblea; bisogna perciò consentire che la Commissione sia posta in grado di espletare intero e con coscienza il compito che ad essa è stato affidato.

In fondo, noi non domandiamo niente di più di quello che si può ritenere di già consentito; non è esatto, come ho sentito sospettare da qualcuno, che noi intendiamo mutarci sin da ora in una Commissione di inchiesta. Noi domandiamo soltanto, per tranquillità della nostra coscienza, che sia meglio chiarito il pensiero dell’Assemblea. È implicito nella stessa proposta Natoli che delle indagini debbano essere fatte e che accertamenti dovranno aver luogo. Noi, quindi, se non possiamo d’un tratto mutarci in una Commissione di inchiesta, non possiamo neanche considerarci una semplice Commissione di studio, perché, per l’indole del nostro compito, riteniamo essenziali le più ampie indagini. Ma desideriamo un’autorizzazione più chiara, più precisa ed esplicita da parte dell’Assemblea.

Occorre innanzi tutto stabilire la sussistenza dei fatti riferiti in quest’Aula e che sono ormai di dominio pubblico (è inutile dissimularlo); quando poi sia stato definito se le accuse siano fondate o meno, occorre esaminare quale valore e quale portata possano avere dal punto di vista giuridico, morale e politico.

Questo a noi sembra il compito affidato alla Commissione; e sarà indispensabile, se tali accertamenti debbono pure essere fatti, che venga dall’Assemblea un’autorizzazione che permetta tra l’altro di sentire parti interessate e testimoni, di chiedere informazioni e documenti. Se noi non siamo a tanto regolarmente ed esplicitamente facoltati, non possiamo farlo, e non sappiamo in che modo ci sia dato emettere un giudizio veramente consapevole.

Come vedete, adunque, ho sentito il bisogno, anche a nome dei miei colleghi, di chiarire la portata della nostra richiesta; niente di nuovo o di inutile noi domandiamo, ma vogliamo soltanto i mezzi, i poteri, la possibilità di espletare il compito che dall’Assemblea ci è stata affidato.

Onorevoli colleghi, in questo compito, che potrà essere, come si spera, assai lieto, se si potrà, ancora una volta, ribadire e riaffermare la più pura illibatezza di tutti i Deputati, senza distinzione di partito, ma che potrà anche essere assai increscioso, se per lo meno il più lieve appunto, il più tenue dei rilievi potrà esser fatto in rapporto anche ad un solo dei nostri colleghi; in questo compito che, senza dubbio e senza esagerare, è seguito appassionatamente dalla pubblica opinione, di fronte alla prima e più grande Assemblea creata dalla nuova Repubblica, noi non abbiamo che un solo desiderio, cioè che le eventuali manchevolezze, le eventuali delusioni non siano mai attribuite a colpa o deficienza della Commissione, la quale, comunque l’Assemblea si pronunzi, nei limiti che ad essa saranno assegnati, saprà compiere intero e con serena obbiettività il proprio dovere. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha Chiesto di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Debbo fare, a nome del Consiglio dei Ministri, la seguente dichiarazione votata dal Consiglio stesso ad unanimità:

«Il Governo accetta, da parte sua, l’ordine del giorno presentato dalla Commissione, nella sua interezza.

«Per quanto riguarda le accuse mosse dall’onorevole Finocchiaro Aprile ad alcuni suoi componenti, il Governo ha già accertato che nessun addebito può essere ad essi fatto, così come risulta dalle dichiarazioni qui pronunziate dal Presidente del Consiglio, le quali hanno raccolto la fiducia dell’Assemblea Costituente.

«Tuttavia, il Governo fa espressa e formale richiesta che anche per gli addebiti mossi a Ministri la Commissione inviti l’onorevole Finocchiaro Aprile a produrre gli elementi, che egli considera come prove delle sue affermazioni (Vivi generali applausi), affinché si possa valutarne l’attendibilità e trarne un giudizio, che valga, anche nei confronti di chi ha lanciato l’accusa, come tutela della dignità e del decoro dell’Assemblea». (Vivissimi, generali applausi).

Dovrebbe bastare, perché la dichiarazione è molto chiara. Tuttavia, poiché nella stampa, e forse anche in qualche collega può essere nato il dubbio, in modo particolare dal mio atteggiamento, che fosse nel mio proposito di nascondere qualche cosa o di rifugiarmi dietro il voto di fiducia dell’Assemblea, sento il personale bisogno di aggiungere alcune parole di commento ad illustrazione di questo ordine del giorno.

PERTINI. Speriamo che il commento non guasti il testo.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non lo guasterà. Ricordo che l’onorevole Finocchiaro Aprile il 17 febbraio ha espresso il senso delle sue accuse con queste parole:

«Non ci si deve avvalere del mandato parlamentare per andare all’arrembaggio di cariche largamente remunerative». Così egli stesso ha indicato lo scopo, la mèta, la finalità, il sapore del suo attacco e delle sue accuse».

Egli ha inteso di porre una questione generale di dignità e di moralità pubblica.

Di fronte a che io devo osservare che nella preparazione stessa dell’ordine del giorno, nelle conversazioni avvenute in quell’occasione, il Governo non ha mai inteso di porre limitazioni agli accertamenti che vorrà fare la Commissione intorno al problema delle incompatibilità, generiche o personali, parlamentari.

Se a tale scopo la Commissione non troverà sufficienti i dati che il Governo ha trasmesso o che, su richiesta della Commissione, trasmetterà, esso è pronto a mettere a disposizione della Commissione tutti i mezzi di cui dispone.

La Commissione, per quanto dipende dal Governo, è completamente libera ed efficiente nelle sue indagini e nei suoi apprezzamenti. In quanto alle attività ministeriali, il Governo, di fronte alle accuse dell’onorevole Finocchiaro Aprile, ha assunto solidalmente le sue responsabilità e l’Assemblea, col suo voto di fiducia, ne ha preso atto. Tuttavia la dignità e il decoro dell’Assemblea – finalità dell’ordine del giorno dell’onorevole Natoli, unanimemente accolto – vanno salvaguardati anche nei confronti del Deputato che ha mosso le accuse dirette all’attività ministeriale. Il Governo pensa perciò che la Commissione debba chiedere all’accusatore i suoi elementi di prova. Se da questi essa traesse la convinzione che fosse necessaria una inchiesta parlamentare sull’opera dei Ministri, la proporrà; in caso contrario, il decoro dell’Assemblea dovrà essere salvaguardato nei confronti dell’accusatore. (Vivissimi, generali applausi).

Il Governo, di fronte a una campagna che dilaga nel Paese, deve pur dirlo: il Governo ha la coscienza tranquilla. Dopo il ventennio dell’immensa corruzione fascista, durante il quale non funzionò né il controllo parlamentare né quello della stampa… (Applausi).

TOGLIATTI. Barzini esaltava il fascismo allora (Commenti).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. …il Governo democratico non ha posto altro limite alla critica che la difesa del proprio onore e di quello dei funzionari dell’Amministrazione. Il Governo ha accolto ed accoglie, come elemento indispensabile del regime democratico, il controllo, la discussione, la critica dell’Assemblea; e la stampa usa oggi di una libertà che, in qualche caso – io non voglio qui generalizzare, ché ho il massimo rispetto per la stampa onesta – non ha sempre corrisposto ad un senso obiettivo di responsabilità. (Vivi applausi).

Il Governo ha proceduto, esso stesso, come accennai altra volta portando anche delle cifre, senza riguardo, contro funzionarî indiziati di corruzione, avanzo di abitudini di un tempo, e intende ora, con il vostro concorso, di intensificare la sua vigilanza. Ma non è giusto che tutta l’Amministrazione venga avvolta come da una nube di sospetti e di accuse che non merita, né è giusto che uomini i quali hanno assunto le più pesanti responsabilità per servire il Paese in un’ora difficile, si vedano accusati con avventatezza di colpe che non hanno.

Qui vi è un patrimonio comune a tutti i partiti che viene messo in pericolo; qui si tocca, consapevolmente o no, il regime, il sistema di Governo, (Vivissimi generali applausi); insinuando nella coscienza spesso ignara del popolo che nulla è mutato, che la corruzione fascista continua, che la morale democratica vale quella dittatoriale. (Vivi applausi).

Come Ministro, e a nome anche dei miei colleghi, dichiaro all’opinione pubblica che noi non isfuggiremo, che noi non temiamo, ma anzi desideriamo ogni controllo possibile. Come uomo ad uomini, dico che sono umiliato, che anni di povertà o, comunque, di resistenza ad ogni lusinga dei potenti non bastino ad affrancare dalle insidie della calunnia i galantuomini che servono con sacrificio il proprio Paese. (Tutta l’Assemblea si leva in piedi Vivissimi generali prolungati applausi).

E termino facendo appello alla Camera tutta, in modo particolare alla Commissione, di voler collaborare, cosicché questa campagna di calunnie possa aver fine e non più ripetersi. (Vivissimi applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Lucifero. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Ho chiesto la parola, benché dopo le esplicite dichiarazioni del Presidente del Consiglio, che ha dissipato i sospetti che erano stati messi in giro dalla stampa, poteva essere inutile, perché mi trovo in una situazione particolare. Cioè, io sono il solo Deputato che, dopo aver votato a favore della sospensiva proposta dall’onorevole Reale, giustificando il fatto appunto con l’osservare che certe decisioni vanno prese con ponderatezza, poi votò contro la costituzione della Commissione d’inchiesta, perché mi sembrava nebulosa tutta la procedura attraverso la quale si era arrivati a questa nomina, e ritenevo che si sarebbero avute le perplessità, le discussioni, i commenti che successivamente si sono avuti. E ciò dissi allora nella mia dichiarazione di voto.

Io penso – e in questo concordo col Presidente del Consiglio – che gli uomini i quali hanno la responsabilità della cosa pubblica, siano su questi o su quel banco, debbano essere veramente come la moglie di Cesare. Noi dobbiamo accettare che la Commissione abbia tutti i poteri, per dare al Paese, non solo, come noi speriamo e siamo certi, la sicurezza che gli uomini che lo guidano sono moralmente degni di farlo, ma che non potrà più accadere in Italia che uomini indegni possano sedersi a questi o a quei posti. (Approvazioni a destra).

PRESIDENTE. Credo che possiamo adesso precisare, per quanto sia dal commento fatto dall’onorevole Rubilli all’ordine del giorno votato dalla Commissione, sia dalle dichiarazioni dell’onorevole Presidente del Consiglio appaiano già ben chiari quegli elementi che, almeno fino a poco fa, apparivano, magari non a tutti, alquanto oscuri e non ben comprensibili.

La Commissione può, quindi, d’ora innanzi, lavorare per portare rapidamente a termine l’incarico che l’Assemblea le ha affidato. Essa ha chiaro di fronte a sé il mandato del quale è stata investita: da una parte quella ricerca sopra le incompatibilità, che la Commissione stessa ha con molta chiarezza precisato nei punti elencati dall’ordine del giorno che ha votato, e del quale l’Assemblea ha preso oggi conoscenza. Pertanto, la Commissione dovrà esaminare gli elementi che saranno comunicati dal Governo alla Presidenza dell’Assemblea. Rileggo le parole dell’ordine del giorno della Commissione, perché in tal modo equivoci o dubbi non potranno più sorgere: «Esaminare gli elementi che saranno comunicati dal Governo e dalla Presidenza dell’Assemblea, concernenti i Deputati i quali coprano una carica retribuita e affidata dal Governo presso enti parastatali, economici, finanziari o in altri organismi che abbiano relazione con lo Stato», ovvero facciano parte di «istituti finanziari, economici o imprese private». Ecco il primo incarico dato alla Commissione. 2°) Riferire alla Presidenza dell’Assemblea le «proposte circa eventuali casi di incompatibilità, morale e politica»; 3°) riferire circa «l’opportunità di stabilire nel Regolamento della futura Camera o nella legge elettorale norme riguardanti il problema generale delle incompatibilità».

La Commissione invita coloro che hanno presentato accuse a fornire alla Commissione stessa elementi probatori o comunque che siano parsi sufficienti per potere elevare le accuse stesse. La Commissione indagherà sopra l’attendibilità di queste accuse, traendo poi, alla fine di questa ricerca che chiamerei pregiudiziale, le conseguenze che essa riterrà del caso e che eventualmente presenterà all’Assemblea.

V’è il problema dei poteri. Questi poteri consistono non soltanto nell’esaminare e analizzare gli elenchi che saranno forniti, e che anzi sono stati già trasmessi sia dalla Presidenza del Consiglio, sia dalla Presidenza dell’Assemblea – questi ultimi sulla base delle dichiarazioni che sono state fornite dai singoli membri dell’Assemblea – ma anche nel fare quegli altri accertamenti che essa riterrà necessari in relazione all’incarico che ha ricevuto.

Fin dal primo momento avevo assicurato il Presidente della Commissione che, qualunque richiesta in questo senso fosse stata fatta dalla Commissione alla Presidenza dell’Assemblea, sarebbe stata pienamente sodisfatta; ed oggi il Presidente del Consiglio ha, a sua volta, dichiarato che il Governo stesso darà alla Commissione tutto quel sostegno e quell’ausilio che è nelle sue facoltà di dare sulla base delle richieste che la Commissione stessa gli presenterà. I poteri della Commissione, quindi, non sono così limitati, come qualcuno aveva inizialmente inteso, a fare una pura indagine che si sarebbe risolta, secondo una parola adoperata un po’ nei giorni scorsi, a degli accertamenti di carattere statistico. Anche la statistica c’è, ma in quanto strumento per andare più in là e dare indicazioni su ciò che si vuole raggiungere.

Fissato in questo modo il mandato che l’Assemblea aveva già dato e che oggi, con gli applausi con i quali ha salutato alcune dichiarazioni fatte, riconferma; e chiarito che i poteri della Commissione sono ampi, così come essa richiede, credo interpretare il desiderio dell’Assemblea stessa, pregando la Commissione di fare ciò che essa, d’altra parte, ha desiderato fare fin dall’inizio, svolgere cioè il più rapidamente possibile il suo lavoro, in modo che questo episodio spiacevole della vita della nostra Assemblea possa sollecitamente esser chiuso e noi possiamo, quindi, con piena tranquillità d’animo e di coscienza, applicarci interamente al compito che il Paese ci ha affidato. (Vivissimi, generali applausi).

Ha chiesto di parlare l’onorevole Rubidi. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Penso molto modestamente che gli applausi non rappresentino una forma di votazione. Quindi, pregherei l’onorevole Presidente, se crede, di mettere in votazione quello che è stato ormai quasi deliberato ed accolto col consenso del Governo.

PRESIDENTE. Onorevole Rubilli ed egregi colleghi, mi pare che le parole che si sono dette qui avevano uno scopo ed un significato di chiarimento. Noi abbiamo dato tutti insieme un’interpretazione ad una decisione che l’Assemblea aveva preso. Ritengo che quella decisione non ha visto aggiungersi nulla di nuovo e di diverso, e d’altra parte la Commissione stessa, nelle parole dell’onorevole Rubilli, all’inizio di questa seduta, aveva detto che essa chiedeva di avere dei chiarimenti e delle delucidazioni sopra il significato ed il valore della decisione presa dall’Assemblea su proposta dell’onorevole Natoli. Ripeto che ciò che è stato detto da alcuni ha avuto appunto questo scopo. Gli applausi non sono certamente una forma di votazione normale, per quanto alcune volte siano una forma di votazione implicita. Ma, evidentemente, questi applausi hanno un significato, cioè che i chiarimenti, le delucidazioni e le spiegazioni che sono state date non soltanto sodisfano oggi l’Assemblea, ma riecheggiano quello che essa pensava nel passato.

Infine, onorevole Rubilli, la Presidenza può mettere in votazione delle proposte che le vengano trasmesse, non può presentare per la votazione dei documenti che essa stessa elabora. (Commenti a destra).

Dico che la proposta fatta deve trovare una forma. L’ordine del giorno della Commissione non può di per so stesso diventare l’ordine del giorno dell’Assemblea, ma l’Assemblea può fare una proposta nella quale dica che l’Assemblea fa proprio l’ordine del giorno.

LUCIFERO. Lo faccio mio, e lo propongo all’Assemblea come ordine del giorno da votare alla fine di questa discussione.

PRESIDENTE. Siamo già alla fine della discussione, onorevole Lucifero.

Gli onorevoli Tupini, Molè e Molinelli hanno presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea, udite le dichiarazioni del Governo, approva l’ordine del giorno della Commissione degli Undici».

Inoltre gli onorevoli Togliatti, Nerini e Gronchi hanno presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, approvando le comunicazioni del Governo e l’ordine del giorno della Commissione, passa all’ordine del giorno».

SELVAGGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SELVAGGI. Delle comunicazioni del Governo noi possiamo prender atto, ma esse non hanno nulla a che fare con l’ordine del giorno della Commissione. Cosa ha che fare il Governo con la Commissione? (Vivi commenti al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Lucifero. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Io ho fatto un fugace accenno nel mio precedente intervento ad una questione politica che sembrava si adombrasse in questa questione che politica non è, non può e non deve essere.

Qui non si tratta di stabilire se si approvano le dichiarazioni fatte dal Presidente del Consiglio. Del resto la Camera ha unanimemente dimostrato di approvare quello che nobilmente ha detto l’onorevole De Gasperi.

Ma qui si tratta di chiarire di che cosa decidiamo. Noi decidiamo d’un fatto interno dell’Assemblea, di una questione che riguarda i Deputati e i Ministri soltanto in quanto Deputati, non in quanto Ministri.

Il Governo è completamente estraneo alla questione, tanto è vero che, pendendo questa discussione, il Governo ha avuto il voto di fiducia. Qui non si tratta di riprendere una discussione su terreno politico.

«Udite le dichiarazioni del Governo», significa dare un voto politico. Onorevoli Colleghi, l’onorevole De Gasperi lo sa, e voi tutti lo sapete: se io potessi votare la sfiducia al Governo due volte al giorno lo farei volentieri. (Commenti).

UBERTI. Si capisce, lei fa l’opposizione!

LUCIFERO. Questa è la vera opposizione, e se volete la democrazia in Italia, imparate a rispettare l’opposizione, imparate ad amare l’opposizione, tutela, palladio e primo interprete della democrazia. (Applausi a destra).

Qui si tratta semplicemente di chiarire che nelle decisioni che riguardano se stessa, l’Assemblea non conosce che se stessa, e, quindi, prende le sue decisioni nei propri riguardi, con la propria responsabilità.

In queste decisioni i signori membri del i Governo sono dei Deputati come noi e niente più di noi; quindi io sono del parere che voler introdurre una questione politica dove una questione politica non c’è, significa non solo alterare il significato profondo della decisione che noi prendiamo, ma voler spostare tutto il piano di una discussione e di una deliberazione; ed io sono convinto che se rifletteranno attentamente a quello che io ho detto gli onorevoli colleghi, compresi quelli del Governo, si convinceranno che bisogna separare completamente quella che può essere la decisione e l’attività politica, da quella che è semplicemente una questione di dignità e di vita interna del Parlamento. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Nenni. Ne ha facoltà.

NENNI. Onorevoli colleghi, mi sembra che il problema, così come è stato posto dal collega Lucifero, non si presenti logicamente. Noi abbiamo avuto in questa Assemblea una richiesta della Commissione degli Undici sui poteri di indagine che, siamo tutti d’accordo, la Commissione deve avere.

Abbiamo udito il Presidente del Consiglio fare una dichiarazione di carattere politico, alla quale noi desideriamo di dare la nostra piena ed intera approvazione, e desideriamo di dargliela non per il fatto in sé dell’intervento del Governo in questo dibattito, ma per il significato che le parole del Presidente del Consiglio hanno assunto di protesta contro il tentativo politico di diffamare, e l’Assemblea Costituente e il Governo, per cercare di coprire le responsabilità del vecchio regime e quanto del vecchio regime persiste nell’attuale società. (Vivi applausi a sinistra e al centro).

Sembra a me che, accordando alla Commissione degli Undici i poteri che essa chiede (che ha il diritto di chiedere, e direi anche il dovere di chiedere, perché è eletta non per soffocare un eventuale scandalo, ma per dimostrare dov’è lo scandalo, se scandalo di diffamazione o scandalo di indegnità) (Approvazioni), noi dobbiamo nel contempo affermare la nostra solidarietà politica col Presidente del Consiglio per le parole così degne e così ferme che egli ha pronunziato qualche istante fa in quest’Aula. Questo è il significato del nostro ordine del giorno e aggiungo che nell’apprezzamento che intendiamo dare delle parole pronunziate dal Presidente del Consiglio mi pare che nulla possa urtare i colleghi della destra, giacché il Presidente del Consiglio ha parlato qui più che nella sua qualità di Capo del Governo, in quella di tutore del decoro e della onorabilità di tutta la democrazia italiana. (Applausi a sinistra e al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Gronchi. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Desidererei aggiungere una sola osservazione, che è questa: nella dichiarazione del Presidente del Consiglio si fa esplicito invito alla Commissione a considerare anche la posizione di coloro che lanciano accuse senza avere elementi probanti di qualche serietà. Ora è evidente che questa specie di invito, che il Governo giustamente fa alla Commissione, di sanzionare almeno moralmente coloro i quali, cogliendo dicerie e insinuazioni, si fanno perturbatori della dignità e della solennità di questa Assemblea, offendendo per ciò stesso il suo decoro, deve essere approvato esplicitamente dall’intera Assemblea, ed è perciò che non è fuor di luogo che noi abbiamo incluso nell’ordine del giorno, presentato dai colleghi Togliatti e Nenni, anche l’approvazione delle dichiarazioni del Governo. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Persico. Ne ha facoltà.

PERSICO. Onorevoli colleghi, abbiamo presentato, a nome del Gruppo parlamentare del Partito socialista dei lavoratori italiani, un ordine del giorno puro e semplice, nel quale si dice testualmente così: «L’Assemblea, udite le richieste della Commissione degli Undici, le approva e passa all’ordine del giorno».

Vogliamo dire subito all’onorevole Presidente del Consiglio che questa formulazione non ha nessun significato contrario alle sue dichiarazioni, che noi abbiamo applaudite e approvate, ma rimette la questione nei suoi veri termini di fatto e di diritto. Che cosa ha chiesto l’onorevole Rubilli nel discorso, col quale si è iniziata questa discussione? Ha chiesto che alla Commissione d’indagine (non d’inchiesta, perché non è tale, ma una Commissione che potrà preparare eventualmente l’inchiesta) fossero dati i poteri che non aveva. E perché tale richiesta? Perché tutta questa procedura è nata attraverso un errore di tecnica parlamentare. Rispondendo ad una interrogazione dell’onorevole Natoli, il Presidente del Consiglio ne ha accettato il contenuto ed allora dalla interrogazione è nata una proposta, il che è veramente assai strano e credo che non ci sia nessun precedente parlamentare in proposito. La proposta fu formulata lì per lì, e, alla fine di seduta, lo stesso onorevole Natoli, presentò la sua frettolosa conclusione. Ecco perché la Commissione, e per essa l’onorevole Rubilli, ha chiesto a noi di specificare e di determinare. Il Governo ha fatto una dichiarazione che noi abbiamo ascoltata ed approvata, e tutti riconosciamo la nobiltà dell’intervento del Capo del Governo nella discussione. Ma la discussione è demandata all’Assemblea: il Governo è estraneo in questo momento alla stessa. Il Governo è rappresentato qui da un numero ragguardevole di degnissimi Deputati, ma non ha interesse diretto alla questione. La discussione si svolge nell’ambito parlamentare tra il Presidente dell’Assemblea, la Commissione e i singoli Deputati; abbiamo quindi un solo dovere, quello di ritenere giusta la richiesta fatta dall’onorevole Rubilli a nome della Commissione e di approvare la estensione temporanea dei suoi poteri; dico temporanea, perché voi vedrete, successivamente, che si dovranno dare altri più estesi poteri alla Commissione, la quale attualmente ha soltanto dei poteri direi quasi storico-statistici e non ha altro compito che quello di fare indagini preliminari.

Del resto, questa è la prassi parlamentare. Nel suo libro sulle inchieste parlamentari lo stesso Arcoleo sostiene appunto che in questi casi in un primo tempo bisogna nominare una Commissione di indagine e, solo quando vengano portati innanzi all’Assemblea risultati positivi, viene nominata la vera Commissione di inchiesta.

Ed allora, sembra che il Governo debba accettare il nostro ordine del giorno, perché non v’ha nulla di offensivo per lui, né viene posta alcuna questione di fiducia. Sarebbe strano che, appena pochi giorni dopo il voto di fiducia, fosse presentata una nuova questione in un caso in cui la fiducia non c’entra. L’Assemblea ha ascoltato le dichiarazioni del Governo, le ha applaudite: ecco il caso in cui l’applauso è un voto. L’Assemblea ha acclamato il Capo del Governo che vuole sia tutelata la dignità dei membri del Governo e quella di tutta l’Assemblea. Siamo anche concordi nel volere che, alla luce dei fatti, questa pesante nebbia che grava sull’Assemblea sia una volta per sempre allontanata. Per questo l’Assemblea ha delegato ad undici dei suoi membri una facoltà d’indagine e vuole che questi undici egregi colleghi esercitino il loro mandato nel modo migliore per la tutela della dignità dell’Assemblea. Non mi sembra che si debba aggiungere a questa, che è una situazione di fatto, una questione di fiducia, che è estranea al fatto stesso.

Quindi ritengo che l’Assemblea debba rimettere veramente sulla giusta via quella discussione – nata male per le osservazioni che ho fatto in precedenza – e dar vita ad una vera e propria Commissione di indagine, approvando le proposte dell’onorevole Rubilli intese ad aumentare, per il momento, i poteri per poter giungere ad un risultato positivo. (Applausi).

SELVAGGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SELVAGGI. Mi associo completamente a quanto ha dichiarato l’onorevole Persico. Desidero aggiungere solo una osservazione circa quanto ho sentito dire in merito al voto politico chiesto dagli onorevoli Togliatti, Nenni e Gronchi. Il voto politico il Governo lo ha già avuto a maggioranza quando è stata discussa la politica del Governo e quando già questo problema morale esisteva. Non vedo quindi perché oggi, senza nessuna ragione, debbano essere mischiati un problema essenzialmente morale…

UBERTI. Non c’è un problema morale! (Commenti Proteste a destra).

SELVAGGI. Se c’è una Commissione di inchiesta per decidere sulla onorabilità di tutti noi, per me c’è un problema morale. (Commenti).

È necessario che questo problema sia chiarito; è un problema morale che investe alcuni di noi. (Commenti Interruzione dell’onorevole Uberti). L’onorevole Uberti lo chiami come vuole, io lo chiamo problema morale. Non vedo, quindi, perché bisogna mettere insieme una questione morale e una questione politica con un voto che riguarda una semplice procedura interna dell’Assemblea Costituente.

Il Governo questa mattina poteva anche non fare delle dichiarazioni; ad ogni modo le ha fatte, ha interferito, in certo senso, nell’attività interna dell’Assemblea. Comunque noi abbiamo dato atto, da tutti i banchi, con il nostro applauso, delle intenzioni del Governo ed abbiamo applaudito in modo particolare alle parole dette personalmente dall’onorevole De Gasperi, considerandone tutto il valore. Ci siamo tutti alzati in piedi per applaudire perché egli si è fatto difensore della dignità della democrazia in Italia e del rispetto che è dovuto alle persone che in questo momento la rappresentano.

Tuttavia, ripeto, non vedo perché bisogna mettere insieme una questione politica con una questione che ha carattere semplicemente interno dell’Assemblea e che nulla ha a che fare con il Governo; il voto politico il Governo lo ha avuto al termine della discussione sulle dichiarazioni del Governo stesso. Non vedo perché il voto debba essere ripetuto oggi: il problema è soltanto questo; dare alla Commissione degli Undici i poteri che essa richiede. Non c’è altra via di uscita e sul tappeto non c’è un altro problema. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Dugoni. Ne ha facoltà.

DUGONI. Noi eravamo d’avviso che non fosse necessario un voto, dopo il consenso manifesto che l’Assemblea aveva dato, tanto alle dichiarazioni del Presidente della Commissione, quanto alle dichiarazioni del Presidente del Consiglio.

Tuttavia, giacché un voto è richiesto, è sembrato a noi che non fosse possibile disgiungere le dichiarazioni della Commissione da quelle del Governo.

Il Governo aveva ampliato il dibattito, portandolo anche dal piano puramente riservato all’Assemblea e agli accusati, al più ampio campo dell’accusa nei confronti dell’onorevole Finocchiaro Aprile. Cioè, l’onorevole Finocchiaro Aprile, che aveva portato qui delle accuse riguardanti Deputati e Ministri, dovrebbe e deve essere chiamato a rispondere di fronte alla Commissione.

Questa dichiarazione del Presidente del Consiglio noi vogliamo consacrare con questo ordine del giorno presentato.

SELVAGGI. Allora, è inutile che vi sia la Commissione degli Undici.

DUGONI. Malgrado ciò, diciamo: votiamo per divisione: cioè, prima la parte dell’ordine del giorno, in cui si approvano le dichiarazioni e le proposte della Commissione d’inchiesta; poi l’altra parte in cui votiamo, non la fiducia al Governo (Interruzioni), ma le dichiarazioni del Governo, in quanto allarghino il dibattito.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Orlando Vittorio Emanuele. Ne ha facoltà.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Io non ho ben capito la questione, forse – chissà? – a causa degli altoparlanti. Quando l’oratore comincia a parlare, io sento; appena l’altoparlante entra in funzione, io non sento più. (Ilarità). Non capisco, dicevo, la questione.

Prima di tutto, pare che si contesti da quella parte (Accenna a destra) l’aggiungere, nella qualsiasi votazione che faremo, l’inciso: «Udite le dichiarazioni del Governo». Ora, da un punto di vista generale, direi: Come è possibile, qui, nell’Assemblea, prescindere dal Governo e dal suo intervento nelle discussioni e deliberazioni di essa? Ed anzi, poiché viene a proposito, dirò che non ho approvato è non approvo l’assenza del Governo da quei banchi durante la discussione della Costituzione. Come può un’Assemblea squisitamente politica, che ha riposto la sua fiducia in una direzione politica, qual è quella che deriva dal Gabinetto, in un momento così solenne, come questo in cui si vota la Costituzione dello Stato, prescindere affatto dal Governo e – se mi si permette l’espressione – manovrare in libertà? Un’Assemblea politica separata dal Governo non la concepisco se non in casi eccezionalissimi, quando è lo stesso Governo che, per sue ragioni, dichiara di volersi astenere, come accade in materia di convalidazione di elezioni, per rispetto alle prerogative della Camera. Il Governo dichiara di astenersi; ma ciò non vuol dire che sia da ammettersi una possibilità normale di una sua assenza in qualsiasi discussione politica.

Mi pare che l’onorevole Selvaggi abbia detto: «È una questione morale, non politica».

Prima di tutto, la distinzione – in questa sede e su questa materia – fra morale e politica la intendo difficilmente.

In secondo luogo, una questione che tocca l’onoratezza di questo corpo sovrano dello Stato non è, per ciò stesso, politica? Ed in quanto uno degli aggrediti fa parte del Governo, non diviene la questione politica per eccellenza? Se le dichiarazioni del Governo non sono essenziali per la votazione, che dovremo fare?

In verità, mi pare che sarebbe fuor di luogo, anzi addirittura strano, se non si aggiungesse: «Udite le dichiarazioni del Governo». Bisogna che ciò sia espressamente detto.

Viene poi la questione del chiarimento dei poteri; ma su di essa mi pare che il discorso del Presidente dei Consiglio abbia bastantemente chiarito. Rimane, tuttavia, un aspetto delicato ed arduo di tale questione, che può meritare qualche spiegazione di più.

Per quanto riguarda i poteri, io ho sentito il mio amico Persico fare una distinzione fra poteri di indagine e poteri di inchiesta. Or, a prima vista, può sembrare che sia la stessa cosa. Però, una differenza in concreto c’è, ed ecco in qual senso.

Se i poteri riguardano la Camera, perché è dalla Camera che è partita l’offesa e dalla Camera muove l’iniziativa, essa ha tutti i poteri, compreso quello di dire al collega che ha accusato se egli sia un diffamatore o un calunniatore. Non occorre, quindi, un trasferimento di poteri. Se poi i poteri toccano gli uffici pubblici, cioè a dire qualora, per avventura, la Commissione senta il bisogno di avere contatti con uffici pubblici, di prender visione di documenti pubblici, di sottoporre funzionari ad interrogatori, anche per tutto ciò i poteri ci sono; e ci sono per il fatto stesso di queste dichiarazioni del Governo. Vedete, tutt’al più, se sia necessario riconoscerli; ma, poiché il Governo ha consentito, questi poteri li avete. (Commenti).

Dove invece i poteri mancherebbero, è per quanto riguarda il cittadino. Il cittadino, infatti, non obbedisce che alla legge. Oh, badiamo: il cittadino può prestarsi volontariamente, e credo che in fondo, dopo tutto, egli si presterebbe. Ma se vi fosse bisogno di un intervento coattivo, di un atto di sovranità, allora occorrerebbe una Commissione di inchiesta, allora occorrerebbe una legge. Ora, a me pare che, allo stato delle cose, data la sensibilità che il nostro popolo ha dimostrato riguardo a queste accuse, non sia necessario ricorrere alla procedura di un disegno di legge.

Di fronte anche alla consistenza delle accuse mosse, qui troverebbe luogo la distinzione dell’onorevole Persico. In un primo tempo, si presenta sufficiente un periodo di indagini con i poteri che ho detto: cioè, nei riflessi parlamentari e nei riflessi dell’Amministrazione pubblica e del Governo; dopo di che, la Commissione trarrà le sue conclusioni. Io ritengo ed auguro che ciò possa bastare perché l’Assemblea sia in grado di formarsi un giudizio su queste accuse. Che se si rendessero, in seguito, necessari altri poteri, i quali potrebbero essere diretti anche contro l’accusatore – ben inteso, dobbiamo supporre tanto il caso che le accuse risultino fondate quanto il caso contrario – giudicherà allora l’Assemblea se e come quei poteri vadano estesi e rafforzati. Quindi, a me pare che, approvando l’ordine del giorno, così com’è stato proposto, la questione sia sufficientemente chiarita. (Applausi).

GULLO ROCCO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GULLO ROCCO. Sembrava, un’ora fa, che non valesse la pena di intervenire in questo dibattiti; ed anzi, da parte di molti di noi, si aveva l’impressione che si fosse drammatizzato su ciò su cui non era opportuno drammatizzare, perché, in fondo, fin dal primo momento siamo stati tutti d’accordo. Anche il presidente della Commissione, onorevole Rubilli, se mi consente questa modesta osservazione, ha parlato forse un po’ più a lungo del necessario, quasi che contro la richiesta della Commissione vi potessero essere opposizioni da parte di qualcuno. Per fortuna non vi furono opposizioni, e le dichiarazioni del Presidente del Consiglio, onorevole De Gasperi, sono servite per far finire in un bicchiere d’acqua la tempesta profetizzata dalla stampa. E allora, dopo le dichiarazioni del Presidente del Consiglio, accolte da un applauso unanime, sembrava che non ci dovesse essere altro. Ma giustamente il Presidente della Commissione ha voluto ché l’applauso, che in fondo era l’applauso alla richiesta della Commissione, si traducesse in un voto. E a questo punto occorreva puramente e semplicemente votare l’accoglimento delle richieste della Commissione. Invece si è voluto inserire un elemento nuovo che ha complicato quello che era necessario semplificare; anzi, che era già stato semplificato sia dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, sia dall’opinione unanime espressa da tutti noi.

MOLINELLI. L’applauso andava al Presidente del Consiglio e alle sue dichiarazioni.

GULLO ROCCO. Ma l’applauso era un applauso personale. (Interruzioni Commenti). Esso esprimeva la speranza che c’è in tutti gli uomini onesti, che non vi sia nulla di vero nelle accuse che sono state fatte. (Applausi a destra). Ma quando noi diciamo che abbiamo questa speranza e che vogliamo credere che nessuna delle accuse pronunciate da qualsiasi banco e contro qualsiasi dei membri di questa Assemblea o del Governo risponda a verità, questa speranza, che si è poi concretata in questo applauso, non dice già che fin dal principio vogliamo, non dico tagliare le indagini, ma dare semplicemente l’impressione che attraverso un voto di fiducia si voglia tagliare le indagini. (Commenti).

Onorevoli colleghi, le questioni a volte assumono un aspetto procedurale, un aspetto più rigido. Ora, quando intervengono fattori morali, anche noi avvocati dobbiamo dimenticarci di essere dei giuristi; soprattutto non dobbiamo essere dei causidici. Qui la questione è semplice, e non riguarda il Governo; il Governo in questo momento è estraneo alla questione. La Commissione di inchiesta ha proposto di avere quei poteri, che di fatto essa non aveva avuto con la nomina fatta di questa Commissione il 18 del mese scorso. E allora a noi non resta, lasciando da parte ogni voto di fiducia (Commenti Interruzioni), ogni voto di approvazione, che accettare puramente e semplicemente le richieste della Commissione.

E badate, onorevoli colleghi, che questo voto che si chiede complica, anziché semplificare, la discussione, perché potrebbe dare l’impressione ad una parte che vi sia una maggioranza che voglia sopraffare una minoranza (Approvazioni a destra); mentre da parte di chi non è disposto a votare neanche per divisione – come ha proposto l’onorevole Dugoni – quella parte dell’ordine del giorno, questo gesto potrebbe essere interpretato come sfiducia al Governo in questa particolare occasione. E in noi non c’è nulla di questo; non c’è che un solo desiderio: il desiderio già manifestato dalla Commissione, cioè che la luce sia fatta e la verità accertata; aggiungo, il desiderio che questa verità possa rivelarci che non c’è nulla di losco, che non c’è nulla di guasto nel nuovo regime democratico repubblicano. Ma noi, col nostro voto puro e semplice, semplifichiamo; voi, con l’aggiunta che avete fatto, complicate la situazione. Da parte nostra dichiariamo di votare semplicemente e puramente l’accoglimento delle proposte della Commissione. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Tonello. Ne ha facoltà.

TONELLO. Onorevoli colleghi, io non sono un giurista, ma nel considerare le cose vado a cercare quella che è la voce della mia coscienza di galantuomo.

Era stata concessa questa Commissione di indagine, che non è una Commissione d’inchiesta, e va bene. Ad un certo momento gli amici e colleghi di questa Commissione hanno detto: sarà bene che l’Assemblea precisi meglio quali sono le nostre possibilità di indagini. Ed allora hanno votato un ordine del giorno. Era naturale che questo ordine del giorno fosse dall’Assemblea accolto; ma intanto voi non dovete dimenticare che attraverso la stampa e attraverso talune dichiarazioni di uomini politici, pareva che gli uomini del Governo, alcuni dei quali sono anche indicati nelle accuse, non vedessero di buon occhio questa estensione di indagini sul loro operato.

E allora perché mi venite a dire che il Governo non c’entra, che il Governo è estraneo? Ma il Governo era direttamente interessato e quando noi abbiamo applaudito poco fa, abbiamo applaudito a De Gasperi il quale ha detto: si faccia l’indagine su tutto, perché io non ho nulla da rimproverarmi. Ora non è giusto che noi che sanzioniamo questa nostra determinazione, non diciamo che il Governo non è contrario a questa indagine, perché il Governo è anzi il primo a dire che sia fatta la luce. Anche se io fossi un oppositore – va bene che non sono neanche tanto un sostenitore del Governo – (Si ride) sentirei nella mia coscienza il bisogno di dire: De Gasperi ha detto che non è contrario. De Gasperi, che fino a prova contraria deve difendere i suoi compagni di lavoro, oggi, di fronte alla domanda della Commissione e di fronte alla realtà delle cose, dice: Sì, la Commissione questo diritto l’ha e noi non ci opponiamo.

Volete sollevare obiezioni, voi della destra, e fare gli oppositori dove non occorre farlo! In questo terreno noi dobbiamo dare ragione al Governo e dire che prendiamo atto anche delle dichiarazioni del Governo. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole La Malfa. Ne ha facoltà.

LA MALFA. Non vorrei che l’Assemblea, che ha trovato l’unanimità sulla sostanza della questione (e questa unanimità è quella che importa di fronte al Paese) si dividesse su questioni secondarie. Mi pare che l’unanimità dell’Assemblea sia stata raggiunta su questo punto che, a mio giudizio, è stato convenientemente illustrato dall’onorevole Persico e convalidato dall’autorità dell’onorevole Orlando.

In sostanza, è esatto quanto dice l’onorevole Persico, che noi diamo oggi alla Commissione i poteri di una Commissione di indagine, non di una vera e propria Commissione di inchiesta. Io credo che questa procedura sia la più corretta e direi la più seria.

In questa Assemblea, sono state lanciate delle accuse. Prima di procedere alla nomina di una Commissione di inchiesta è giusto che si accerti l’attendibilità di queste accuse, perché altrimenti la vita politica del nostro Paese sarebbe alla mercé di qualsiasi avventata accusa.

Quindi, Commissione di indagine con tutti i poteri che alla Commissione sono necessari per accertare l’attendibilità delle accuse mosse. Naturalmente, è stato stabilito che la Commissione, dopo aver vagliato le accuse, potrà richiedere all’Assemblea la costituzione di una Commissione di inchiesta. Questa mi pare la posizione raggiunta sul problema dall’Assemblea.

Ora, al Gruppo repubblicano pare che nessuno degli ordini del giorno abbia messo a punto la questione sostanziale; quindi, chiedo alla Presidenza di sospendere per dieci minuti la seduta in maniera che l’Assemblea possa raggiungere l’unanimità sulla questione. (Commenti).

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Onorevoli colleghi, ho l’impressione che non si capisca più niente. Noi avremmo qui un interesse, che per me è preminente, sia per l’Assemblea che per il Governo, cioè che la deliberazione sia unanime. Ora, perché rendere impossibile questa unanimità, facendo entrar in una questione in cui la politica, come si è detto, non ci deve entrare, un elemento politico? Quando voi volete che il voto abbia anche significato di fiducia del Governo (Commenti al centro), bisogna che allora il Governo esplicitamente dica che al voto non annette nessun significato di fiducia, non perché da parte nostra vi possa essere il più lontano dubbio che le accuse involgano più o meno seriamente membri del Governo (io personalmente ho avuto occasione di fare al Presidente del Consiglio delle dichiarazioni in questo senso), ma perché, non più tardi di otto giorni fa, noi abbiamo votato contro la fiducia del Governo, ed a così breve distanza non mi pare che ci sia, né nella situazione generale, né nel fatto concreto, un complesso di mutamenti tale che ci induca a mutare il nostro atteggiamento politico.

Ecco perché io ritengo che votare l’ordine del giorno puro e semplice che concede i poteri di indagine richiesti dalla Commissione sia quello che, dalla maniera con cui si è svolta la discussione, potrebbe chiudere la discussione medesima con quella unanimità che, a mio giudizio, sarebbe necessaria in un problema come quello che è stato posto di fronte all’Assemblea. (Commenti).

UBERTI. Sicché per essere unanimi dobbiamo accettare il vostro punto di vista. (Commenti).

DE GASPERI. Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI. Presidente del Consiglio dei Ministri. Mi pareva di essermi collocato in una posizione superiore a quella del presente Governo. Mi pareva che la mia tesi e le mie conclusioni riguardassero il regime democratico e la difesa che a questo regime noi dobbiamo. (Applausi).

Se l’Assemblea desidera onestamente e francamente esprimersi su tale questione, senza che ciò implichi un voto di fiducia generale nel consueto senso parlamentare, accetto tale desiderio. Non richiedo, pertanto, che questo voto di fiducia, dato alla democrazia e all’antifascismo, implichi anche un voto di fiducia parlamentare che, del resto, il Governo ha già ottenuto. (Vivi applausi).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Sembra anche a me che l’aggiungere all’ordine del giorno la frase «udite le dichiarazioni del Governo». ci faccia incorrere in un equivoco. Il Governo vuole o non vuole che siano concessi alla Commissione i poteri che essa richiede? Sembra di sì. (Commenti). Però nelle dichiarazioni del Governo, che noi non possiamo naturalmente aver imparato a memoria per averle soltanto ascoltate, c’è una parte, diremo così, ufficiale, quella che il Presidente ha letto e nella quale, in fondo, si dice questo: per quanto riguarda quelli tra gli imputati che appartengono al Governo, noi consideriamo la questione chiusa e decisa. Poi ha aggiunto, se mal non ricordo: «E adesso aggiungo delle dichiarazioni personali». (Commenti).

In queste seconde dichiarazioni di carattere personale egli disse di non aver niente in contrario a che la Commissione abbia i poteri richiesti.

E, se anche io abbia capito male, ciò prova che includere la frase «Udite le dichiarazioni del Governo», può far incorrere in equivoci; quindi, chiedo che sia votato l’ordine del giorno puro e semplice! (Commenti).

MOLÈ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MOLÈ; Insieme con gli onorevoli Tupini e Molinelli avevo presentato un ordine del giorno, che avrebbe evitato gli equivoci di una discussione assolutamente inutile e dannosa.

Perché è sorta questa discussione? Perché ci sono alcuni che dicono: «Il Governo chiede un voto di fiducia. E noi non intendiamo di darlo, pregiudicando il nostro atteggiamento futuro».

Tutti infatti dichiarano di approvare quanto l’onorevole De Gasperi ha detto in difesa della democrazia contro il tentativo di menomarne gl’istituti, coinvolgendo tutti gli uomini rappresentativi in una sola atmosfera di discredito complessivo. Ma alcuni non intendono, nella questione che attualmente si dibatte, pregiudicare la loro posizione, in attesa delle indagini degli Undici, con un voto di fiducia preventiva. E questo pensano che avverrebbe, accettando l’ordine del giorno che contiene l’approvazione delle dichiarazioni del Governo.

Ma l’ordine del giorno che noi abbiamo presentato toglie di mezzo la ragione del dissidio, ricomponendo l’unanimità dell’Assemblea. Perché la sua dizione è chiara: «L’Assemblea, udite le dichiarazioni del Governo, approva l’ordine del giorno della Commissione degli Undici». Ora se si può evitare di approvare le dichiarazioni del Governo, non si può non prenderne atto. Onorevoli colleghi, se voi non prendete atto delle dichiarazioni del Governo, voi negate implicitamente alla Commissione i poteri per agire, perché, in tanto la Commissione può interrogare i funzionari e richiedere i documenti che si trovano negli uffici, in quanto il Governo ha dichiarato di metterli a sua disposizione. Se il Governo nobilmente si è messo a disposizione della Commissione, potete non prendere atto di questo impegno solenne, che dà un contenuto concreto ai poteri della Commissione? Sarebbe un non senso. Io penso che, al di sopra e al di fuori di ogni preoccupazione di parte, l’Assemblea debba, con un voto unanime, dimostrare il suo proposito così di fare la luce, che di troncare la ignobile speculazione scandalistica, che non risparmia ormai più nessuno, dando al Paese la precisa sensazione che essa affronta le questioni che attengono al suo prestigio e al suo decoro, in piena concordia d’intenti.

Io dichiaro pertanto, anche a nome degli onorevoli Tupini e Molinelli, di mantenere il nostro ordine del giorno e penso che l’Assemblea farebbe bene a votarlo all’unanimità. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Grassi. Ne ha facoltà.

GRASSI. Onorevoli colleghi, ho presentato un ordine del giorno molto semplice:

«L’Assemblea, udite le dichiarazioni del Governo, approva l’ordine del giorno della Commissione e passa all’ordine del giorno».

Mi pare che in questa maniera si sintetizza la situazione presente, in quanto è necessario, al di fuori di ogni interesse di parte, di prendere atto delle dichiarazioni del Governo. La questione è squisitamente giuridica e politica, perché l’Assemblea, per quanto riguarda l’organismo politico, deve vivere sulle basi regolamentari che sono il fondamento della sua essenza e della sua funzione.

Ora, non c’è dubbio che in questo caso non pensiamo a Commissioni d’inchiesta che avrebbero altre direttive ed altre procedure; noi siamo sempre nei limiti regolamentari dell’articolo 80-bis per cui, di fronte ad accuse formulate da un membro dell’Assemblea contro membri dell’Assemblea, questa trova la maniera, sulla stessa richiesta di coloro che sono stati colpiti, di dare un giudizio attraverso una Commissione nominata dalla Presidenza. Quindi la Commissione è una Commissione presidenziale. Questi sono i limiti politici e giuridici della questione. Ora, di fronte ai membri dell’Assemblea i quali facciano richiesta al Presidente perché si indaghi sulla accusa lanciata, non v’è dubbio che la Commissione può e deve operare mettendo allo stesso livello l’accusato e l’accusatore, per stabilire nettamente se ci sono colpe o calunnie; ma, di fronte alla situazione particolare in cui un membro dell’Assemblea è anche membro del Governo, sorge la questione specifica.

Potrebbe il membro del Governo essere sciolto dalla responsabilità collettiva del Gabinetto ed essere messo sotto indagine la parte dell’Assemblea? Ecco la necessità della frase «udite le dichiarazioni del Governo», perché il Presidente del Consiglio, appunto per poter dire una parola decisiva su questa tendenza scandalistica, la quale ha cercato di colpire anche membri del Governo, poteva trincerarsi dietro il voto politico, che è il mezzo con cui le Assemblee possono censurare e colpire il Gabinetto o parte del Gabinetto. Il Presidente del Consiglio non ha creduto di trincerarsi dietro questo voto, ma ha detto: metto anche i membri del Governo, i quali sono stati accusati nell’Assemblea, da un membro dell’Assemblea, nelle stesse Condizioni degli altri.

Ora questa situazione alla quale ha fatto cenno l’illustre Maestro onorevole Orlando poco fa, stabilisce la possibilità che la Commissione vada oltre quei limiti ai quali non poteva andare col suo ordine del giorno precedente. Quindi l’Assemblea, prendendo atto delle richieste della Commissione, non può fare a meno di dire «udite le dichiarazioni del Governo», perché sono le dichiarazioni del Governo che stabiliscono la possibilità che si indaghi anche sui membri dell’Assemblea investiti delle funzioni ministeriali. Noi speriamo che le indagini possano essere rapidamente avviate da parte della Commissione, in modo da mettere la parola fine a questa ondata scandalistica che investe la nostra Assemblea. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Togliatti. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Onorevoli colleghi, parlo come uno dei presentatori dell’ordine del giorno intorno al quale si sta discutendo, ma non voglio ripetere cose che già sono state dette, e per questo sarò brevissimo. Desidero fare osservare all’onorevole Lucifero due cose: la prima è che in un’Assemblea politica non vi è nessuna questione la quale non sia politica, in qualunque modo essa venga sollevata. Desidero inoltre fare osservare all’onorevole Lucifero e agli altri colleghi che hanno sostenuto un’opinione differente dalla nostra, che occorre guardare alla realtà: non possiamo giocare a mosca cieca, non possiamo ignorare che attorno a questa questione è stata scatenata una campagna la quale non ha investito soltanto Tizio, Caio o Sempronio, ma ha investito tutti gli istituti democratici, tutto il metodo democratico che noi stiamo attuando qui per rinnovare l’Italia. (Vivi applausi a sinistra).

Ora, si dice, il Presidente del Consiglio vuole un voto di fiducia. L’onorevole De Gasperi lo ha già precisato e ben precisato, secondo me. Se l’onorevole De Gasperi parlando qui avesse ripetuto le cose che ha detto dieci giorni or sono a chiusura del dibattito sulle dichiarazioni da lui fatte in sede di presentazione del nuovo Governo, la vostra opinione sarebbe giusta; egli sarebbe venuto qui a chiedervi un secondo voto di fiducia. Ma egli non vi ha nemmeno alluso e non ci ha chiesto un secondo voto di fiducia. Effettivamente egli ha posto qui soltanto la questione generale del metodo democratico, che deve essere seguito quando si presentano questioni di questo genere, ed ha aggiunto: voi chiedete poteri di indagine; benissimo, avrete i poteri d’indagine che sono necessari per fare piena luce sulle accuse e sulle diffamazioni, e, se sarà necessario e quando sarà necessario, su coloro che appaiono colpiti da accuse che abbiano il menomo fondamento. Questo ha detto il Presidente del Consiglio; egli soprattutto, poi, non ha qui difeso la onorabilità di Tizio, Caio o di Sempronio, ma delle istituzioni che noi rappresentiamo e di cui siamo una parte; ha difeso la democrazia contro un attacco ingiustificato, non onesto, che viene da parte di forze le quali, per quanto grande sia l’abilità con cui si riescono a mascherare, sappiamo che cosa rappresentano e che cosa sono. (Applausi a sinistra ed al centro).

Onorevoli colleghi, mettiamoci pure d’accordo per trovare un ordine del giorno che raccolga il massimo dei voti.

PERTINI. L’unanimità.

TOGLIATTI. Comunque sia ben chiaro che il voto del nostro Gruppo significa approvazione delle dichiarazioni del presidente del Consiglio. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Tupini, Molè e Molinelli hanno così modificato il loro ordine del giorno, affinché su di esso si possa raccogliere l’adesione unanime dell’Assemblea:

«L’Assemblea, udite le dichiarazioni del Presidente della Commissione degli Undici e quelle del Presidente del Consiglio, accoglie la richiesta della Commissione e passa all’ordine del giorno».

RUBILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI Desidero dire una sola cosa: qui avviene proprio l’imprevedibile. Si era di già votato, se non nella forma, almeno nella sostanza. Tante volte noi creiamo degli equivoci la cui colpa può essere attribuita non alla stampa o all’opinione pubblica, ma a noi stessi, Deve ritenersi certo che dopo le semplici mie dichiarazioni, e dopo le autorevoli dichiarazioni del Presidente del Consiglio, si era avuto il consenso unanime di tutta l’Assemblea. (Commenti). Ora, frazionare un voto e dire che non è unanime, significa distruggere questo accordo e questa intesa che si erano già verificati. (Commenti). Noi non possiamo sopprimere le dichiarazioni mie né quelle del Presidente del Consiglio: vi sono state e bisogna prenderne atto. Soltanto il Presidente, interpretando ed intuendo l’unanimità di consensi, ha detto che bastavano gli applausi ad esprimerla. Io mi sono permesso di pregare che si degnasse anche di chiedere a norma e con le forme previste dal Regolamento, almeno una votazione per alzata e seduta, che maggiormente avvalorasse questa unanimità di consensi determinatasi con gli applausi generali dell’Assemblea. La discussione che ne è seguita poteva anche non verificarsi. Dichiaro ad ogni modo che, qualunque sia l’ordine del giorno prescelto, la Commissione si asterrà dalla votazione per doverosa delicatezza.

PRESIDENTE. Onorevole Rubilli, tutta questa discussione mi sembra che l’abbia procurata lei! (Si ride Applausi).

RUBILLI. La colpa è del Regolamento, ed il Regolamento non l’ho fatto io.

PRESIDENTE. Onorevole Rubilli, non sono stato io a dire che l’applauso non è votazione. È stato lei a chiedere che l’applauso fosse tradotto in votazione formale.

Io avevo proposto che la votazione avvenisse per l’appunto sull’ordine del giorno, che, forse, un’ora fa, se fosse stato immediatamente accolto, avrebbe evitato questa lunga discussione.

Comunque pongo ai voti l’ordine del giorno Tupini, Molè e Molinelli, del quale ho dato lettura.

CORBINO. Chiedo la parola per dichiarazione di voti.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Dichiaro che, dopo le parole del Presidente del Consiglio, ed accolta la mia preghiera di spogliare questa questione di qualunque significato di fiducia nel Governo, noi voteremo a favore dell’ordine del giorno presentato, desiderando che l’unanimità dell’Assemblea dia al Paese la certezza che non c’è nessun settore, in cui la sensibilità personale e la sensibilità politica siano poste in discussione di fronte ad attacchi di qualsiasi natura, da qualunque parte essi vengano. (Applausi).

SELVAGGI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SELVAGGI. Dichiaro, a nome del mio gruppo, che voteremo a favore dell’ordine del giorno, così come è stato presentato, dichiarando, però, che interpretiamo le dichiarazioni del Presidente del Consiglio come una difesa, come una riaffermazione della dignità di questa Assemblea, in tutti i suoi membri, e della dignità della democrazia italiana. (Commenti).

PERSICO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Dichiaro, anche a nome dei colleghi del Partito socialista dei lavoratori italiani, di votare a favore dell’ordine del giorno, col significato che esso valga a snebbiare ogni situazione di sospetto verso i membri dell’Assemblea.

NENNI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NENNI. Devo dichiarare, come presentatore del primo ordine del giorno in discussione, che, giacché sull’ordine del giorno Tupini, che per noi ha lo stesso significato, si forma l’unanimità dell’Assemblea, non abbiamo nessuna obiezione a ritirare il nostro ordine del giorno.

PRESIDENTE. Rileggo l’ordine del giorno posto in votazione:

«L’Assemblea, udite le dichiarazioni del Presidente della Commissione degli Undici e quelle del Presidente del Consiglio, accoglie la richiesta della Commissione e passa all’ordine del giorno».

(L’ordine del giorno è approvato all’unanimità, astenendosi la Commissione – Vivi generali applausi).

Sono certo che la Commissione, investita dei poteri, che essa giustamente richiedeva, si porrà all’opera in modo da potere rapidamente comunicare all’Assemblea il risultato dei suoi lavori.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca le interrogazioni.

La prima è quella dell’onorevole Candela, al Ministro dell’interno e all’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, «per conoscere perché da cinque mesi (1° ottobre 1946) i dispensari antitracomatosi pubblici e scolastici della provincia di Messina sono chiusi; se non ritiene opportuno farli riaprire con ogni sollecitudine, dato il carattere endemico ed anche epidemico del tracoma in quella provincia».

Non essendo presente l’interrogante, si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Gabrieli, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro del lavoro e previdenza sociale, «per conoscere le ragioni per cui il Governo è rimasto indifferente dinanzi al gravissimo fenomeno della disoccupazione agricola nel Salento, ove la piccola e media proprietà terriera, essendo costretta da oltre un anno ad assorbire la mano d’opera disoccupata in lavori improduttivi, se non dannosi, si è venuta a trovare in condizioni quasi disperate. L’interrogante segnala l’opportunità politica e sociale di disciplinare il fenomeno con un provvedimento legislativo che metta a carico dello Stato, e quindi della generalità dei cittadini, l’onere dei veri disoccupati e bisognosi».

L’onorevole Sottosegretario per il lavoro e la previdenza sociale ha facoltà di rispondere.

TOGNI, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale. Prima di entrare nel merito della proposta interrogazione sembra opportuno premettere talune considerazioni di carattere generale perché il problema possa essere inquadrato nella sua giusta luce.

Il Salento è una zona quasi esclusivamente agraria. Le colture prevalenti sono le cerealicole e quelle dell’ulivo, delle viti e del tabacco.

La forma di conduzione prevalente nella zona è quella in economia.

Si ha quindi un’altissima cifra di bracciantato agricolo, quale non trova riscontro neppure in altre provincie della Puglia, che notoriamente è una regione dove nel settore agricolo l’attività bracciantile è sempre stata di gran lunga prevalente.

Giovi al riguardo l’esame dei seguenti dati:

Provincia di Bari: di fronte ad una popolazione addetta a lavorazioni agricole di circa 60.000 unità, si hanno 5000 salariati fissi, 54.000 braccianti o giornalieri di campagna:

Provincia di Foggia: di fronte ad una popolazione addetta ai lavori della terra di circa 70.000 unità, si hanno 8000 salariati fissi, 5000 mezzadri e coloni e 54.000 braccianti:

Provincia di Lecce: di fronte ad una popolazione addetta a lavori agricoli di circa 100.000 unità, si hanno 1200 salariati fissi, 1500 coloni e mezzadri, ivi compresi i piccoli coloni, e ben 95.000 braccianti.

Se si estende poi l’esame alle altre provincie dell’Italia meridionale, vediamo come la provincia di Lecce presenta di gran lunga il maggior numero di giornalieri di campagna, come risulta dal presente prospetto:

Provincie di:

Lecce                        95.000 giornalieri di campagna

Bari                          56.000

Foggia                      54.000

Catanzaro                  53.000           

Catania                     52.000           

Reggio Calabria         46.000           

Brindisi                     44.000

Taranto                     40.000

Sotto questo profilo la situazione del Salento si presenta quindi particolarmente grave, anche in considerazione del fatto che per il passato molta manovalanza agricola emigrava nella stagione invernale nelle provincie limitrofe, mentre questo fenomeno di migrazione interna è venuto, ora, quasi completamente a cessare a causa, molto probabilmente, delle generali difficoltà economiche e del conseguente rallentamento delle attività produttive.

Si è quindi determinata una preoccupante situazione di disagio per la categoria per la quale il prefetto della Provincia, analogamente a quanto avvenuto in altre provincie della Puglia, ha ritenuto necessario disciplinare il collocamento della mano d’opera agricola con norme che impongono a ciascun proprietario terriero l’assorbimento di un determinato quantitativo di giornalieri di campagna, non peraltro in modo indiscriminato, tenendo conto della sola estensione dei fondi, ma proporzionando l’assunzione obbligatoria di mano d’opera agricola alle singole colture praticate, e distinguendo la mano d’opera che deve essere assorbita direttamente dai conduttori dei fondi, siano essi proprietari o affittuari, da quella che deve essere assunta a carico dei proprietari come tali per compiere lavori di miglioria e di trasformazione fondiaria.

A questo punto è bene fare le seguenti precisazioni. L’onorevole interrogante ha affermato che il Governo sia rimasto indifferente dinanzi al gravissimo fenomeno della disoccupazione agricola del Salento. Non sembra al riguardo che tale asserzione corrisponda alla situazione di fatto, in quanto in un primo tempo, attraverso l’azione delle autorità prefettizie locali tuttora in atto, e successivamente mediante l’invio di una apposita Commissione di studio che recentemente ha presentato le sue conclusioni, si è cercato di risolvere il problema in via generale.

Si deve accennare anche, al riguardo, che presso il Ministero del lavoro è in corso lo studio per l’approntamento di un opportuno decreto legislativo diretto a disciplinare la materia sul piano nazionale, in modo da conciliare la necessità di ridurre la disoccupazione della mano d’opera agricola con quella di ottenere una migliore coltivazione delle terre e quindi un incremento della produzione.

L’onorevole Gabrieli ha altresì affermato che «a seguito della imposizione di mano d’opera la piccola e media proprietà terriera, essendo costretta da oltre un anno ad assorbire la mano d’opera disoccupata in lavori improduttivi se non dannosi, si è venuta a trovare in condizioni quasi disperate».

Si deve premettere al riguardo che l’imponibile di mano d’opera recentemente disposto nelle provincie pugliesi per fronteggiare una situazione che presenta, senza dubbio, caratteri di gravità dovuti anche a motivi contingenti ed eccezionali, oltre che intrinseci, è già da diversi decenni in applicazione, ad esempio, nelle provincie di Ferrara, di Rovigo e di Mantova, dove pure si riscontrano analoghe situazioni di esuberanza di mano d’opera bracciantile e dove è stato possibile conseguire con questo mezzo notevoli risultati, sia ai fini della sensibile riduzione del fenomeno della disoccupazione stagionale, sia ai fini di un effettivo miglioramento fondiario, che ha portato le dette provincie all’avanguardia della intensità produttiva e del perfezionamento colturale.

Il sistema è quindi già passato, sia pure in diversi ambienti, attraverso il vaglio di una lunga esperienza, con risultati più che favorevoli e che superano di gran lunga gli eventuali immancabili inconvenienti.

Ciò premesso, in linea di principio giova esaminare se, nel caso specifico, il decreto prefettizio che ha stabilito il collocamento obbligatorio della mano d’opera nella provincia di Lecce, abbia carattere di eccessiva ed ingiustificata onerosità, tale da riuscire insopportabile specie per le piccole e medie aziende.

Il decreto prefettizio fissa il quantitativo medio di mano d’opera che le aziende debbono annualmente assorbire per ogni ettaro a coltura; i dati presentano carattere di attendibilità, sia perché in linea tecnica generale non sembrano eccessivamente elevati, sia perché sono stati determinati su parere dell’Ispettorato dell’agricoltura.

L’applicazione del decreto è inoltre affidata ad apposite commissioni comunali miste, in cui gli interessi degli agricoltori siano garantiti dalla presenza di due propri rappresentanti.

Inoltre è stato disposto che l’agricoltore possa distribuire nel corso dell’anno, con suo criterio discrezionale, l’assorbimento del quantitativo di mano d’opera impostagli, così da consentire l’utilizzazione nella maniera più appropriata, secondo le esigenze della tecnica colturale e delle necessità di miglioramento di fondi.

Per quanto si riferisce in particolare alle piccole proprietà terriere, il decreto prefettizio ha disposto che nell’imponibile aziendale siano detratte le giornate lavorative del conduttore della azienda e dei suoi familiari in ragione di 200 giornate all’anno per ogni unità uomo dai 14 ai 65 anni.

Il senso di equilibrio cui si è ispirata tale disposizione risulta chiaramente dal seguente esempio.

L’imponibile di mano d’opera annualmente previsto per un ettaro di seminativo arborato e di oliveto promiscuo è di 27 giornate lavorative; ad una famiglia di coltivatori diretti composta di tre unità lavorative uomo vengono detratte 600 giornate. Ciò significa che nessun imponibile di mano d’opera viene addossato al predetto coltivatore per i primi 22 ettari di terreno ([200 x 3]: 27 = 22.2).

Ma anche a prescindere dal diretto esame delle disposizioni localmente adottate, occorre tener presente che il Governo ha già affrontato il problema sul piano generale con il decreto 1° luglio 1946, n. 31, diretto appunto a favorire la ripresa dell’efficienza produttiva delle aziende agricole e l’utilizzazione della mano d’opera agricola disoccupata. Come è noto, ai sensi del predetto decreto, il Ministero dell’agricoltura e delle foreste è stato autorizzato a concedere sussidi che vanno dal 35 per cento al 67 per cento della spesa occorrente per lavori agricoli di carattere straordinario, ciò che riduce ancora in misura sensibile l’onere derivante agli agricoltori dall’imposizione di mano d’opera agricola per far fronte ai lavori predetti.

Non si nega che nella pratica applicazione di tutte le predette disposizioni si siano potuti verificare taluni inconvenienti e soprattutto talune sperequazioni, per l’eliminazione delle quali le autorità locali, d’accordo con le organizzazioni sindacali interessate, pongono la loro cura costante.

L’onorevole interrogante ha ritenuto infine di segnalare «l’opportunità politica e sociale di disciplinare il fenomeno con un provvedimento legislativo che metta a carico dello Stato, e quindi della generalità dei cittadini, l’onere dei veri disoccupati e bisognosi».

Si deve preliminarmente osservare che il citato decreto 1° luglio 1946, n. 31, sia pure in via indiretta, risponde già all’esigenza prospettata dall’onorevole Gabrieli.

Ogni altro provvedimento di carattere generale da adottare in sede di finanziamento della estensione del sussidio di disoccupazione alle categorie agricole non sembra attuabile allo stato della legislazione vigente, sia perché, secondo le norme in vigore, gli oneri assicurativi gravano per ora direttamente sui singoli settori della produzione a cui appartengono i lavoratori assicurati, sia perché, come è noto, finora i lavoratori agricoli sono esclusi, per un complesso di ragioni, dal beneficio dell’assicurazione contro la disoccupazione.

Altra questione è che i gravissimi problemi sopra indicati siano sollecitamente posti allo studio ed a questo riguardo si possono fornire le più ampie assicurazioni che da parte del Ministero del lavoro non si tralascerà di svolgere ogni possibile concreta attività per raggiungere una soluzione organica e definitiva.

PRESIDENTE. L’onorevole Gabrieli ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

GABRIELI. Apprezzo lo sforzo, di cui mi ha dato atto la dichiarazione dell’onorevole Sottosegretario, che ha compiuto il Governo per venire incontro alle esigenze veramente allarmanti della disoccupazione nel Salento; ma allo stato dei fatti non posso dichiararmi soddisfatto.

La situazione è talmente grave in quella zona che la Commissione composta dai rappresentanti di tutti i Comuni e di tutte le categorie interessate ha raggiunto Roma per essere ricevuta dagli organi governativi e per esporre direttamente le proprie necessità al Presidente del Consiglio.

Da oltre un anno i proprietari agricoli del Salento subiscono il peso di una disoccupazione in gran parte fittizia, che li ha letteralmente esauriti. Né il decreto prefettizio ha potuto sanare e legalizzare la situazione, perché già dopo il primo mese di attuazione, onorevole Sottosegretario, è stato completamente violato a danno dei proprietarî agricoli, in quanto il carico di mano d’opera imponibile, previsto in quel decreto, è stato completamente sostenuto dai proprietari, sicché restano ancora dieci mesi ed il decreto rimane scoperto, e gli aventi diritto invocheranno non più il decreto, ma la forza delle loro ragioni per essere occupati e per richiedere quelle mercedi che i proprietarî non sono più in grado di pagare.

Attualmente il fenomeno ha assunto forme allarmanti e insostenibili. Molti onesti agricoltori sono costretti a vendere i loro beni, frutto di decenni di lavoro; altri, in numero rilevante, sono stati messi nella necessità dolorosa di allontanarsi dal Comune di origine per liberarsi dall’incubo quotidiano che finisce per ridurli alla disperazione. Si è costretti ogni giorno a pagare alte mercedi per lavori inutili ed anche dannosi. I disordini e le agitazioni sono frequentissimi. Sono stati sequestrati sindaci di alcuni Comuni importanti, e fra questi un deputato, l’onorevole Vallone.

Il problema ha due aspetti: da un lato la così detta disoccupazione o non esiste, o esiste in proporzioni molto ridotte. Essa viene creata ed ingrossata dagli agenti del disordine che hanno finito per togliere ogni tranquillità alle popolazioni salentine, che sono state sempre amanti del lavoro e della operosità. E così, ai varî disoccupati bisognosi, ai quali mai è stato negato e sarà negato quel compenso e quell’aiuto che è doveroso, si mischiano i disoccupati di professione, i quali si improvvisano braccianti nelle campagne, ed altra gente, che, pur non avendo bisogno, trova modo, per approfittare della generale confusione, di percepire un salario cui non corrisponde un effettivo rendimento. In tal modo, molte aziende sono in rovina. Lo Stato ha l’obbligo di intervenire per disciplinare il fenomeno, riportandolo sulle vie della legalità. Esso deve istituire uffici statali, allo scopo di controllare e di accertare l’effettivo stato di disoccupazione dei richiedenti. Lo Stato ha il dovere di intervenire introducendo il sussidio a favore dei disoccupati e sottraendo in tal modo il singolo ad un obbligo che la legge ed i civili ordinamenti non impongono. Lo Stato deve curare che la legge e l’ordine pubblico siano rigorosamente osservati a difesa della pace sociale. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. È così esaurito lo svolgimento delle interrogazioni inscritte all’ordine del giorno di oggi.

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro Michele Parise, per il reato di vilipendio all’Assemblea Costituente.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: «Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro Michele Parise, per il reato di vilipendio dell’Assemblea Costituente». (Documento I, n. 3).

La Commissione all’unanimità propone all’Assemblea di negare la chiesta autorizzazione. Pongo ai voti tale proposta.

(È approvata).

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Colombi, per il reato di diffamazione a mezzo della stampa.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Colombi, per il reato di diffamazione a mezzo della stampa.

La Commissione conclude proponendo di concedere l’autorizzazione.

Ha chiesto di parlare l’onorevole La Rocca. Ne ha facoltà.

LA ROCCA. A me pare che la richiesta autorizzazione debba essere negata dall’Assemblea per un duplice ordine di motivi: in fatto e in diritto, e per la tutela dell’esercizio della libertà di critica e di controllo da parte dei membri di questa Assemblea.

Non ho il privilegio di essere un anziano di questa Assemblea e mi si dice che la vecchia prassi abbia stabilito che l’autorizzazione a procedere si nega unicamente quando vi è il sospetto di una persecuzione politica. Mi pare che questo criterio non possa essere adottato nel caso attuale, innanzitutto perché questa prassi si riferisce ad una situazione politica e storica già superata, alla situazione esistente prima dello stabilirsi della dittatura, in un’epoca di stagnazione e di quiete, in cui pure uno starnuto era un gran caso. D’altra parte, la teoria è grigia, mentre l’albero della vita è perennemente verde, come diceva il poeta. Bisogna giudicare non già con un criterio strettamente giuridico, ma porre una questione di principio, sul piano politico.

Qual è il fatto che ha dato luogo alla risposta dell’onorevole Colombi, per cui si chiede l’autorizzazione a procedere?

C’è stata una campagna continua da parte di un giornale dell’Emilia, campagna che arroventava l’atmosfera, avvelenava gli animi e speculava sulla situazione politica generale, alimentando intrighi e manovre nel campo internazionale e auspicando quasi una nuova guerra, mentre la disfatta aveva ridotto il paese a due tronchi sanguinanti, aveva rovinata la nostra economia, distrutte le città, devastate ed arse le campagne, diroccate le fabbriche e le case, stroncato il fiore della nostra giovinezza, sconvolta la famiglia. A questa campagna, che appariva ed era un crimine ai danni della Nazione, l’onorevole Colombi rispose che il giornalista, autore degli articoli incendiari, avrebbe fatto molto meglio a tacere e a ritirarsi sulle montagne, dove era stato, camuffandosi da partigiano.

Il che significava, a giudizio della maggioranza della Commissione, quasi intaccare il patrimonio morale, ledere quel diritto alla tutela della propria persona, volendo giudicare con la bilancia dell’orafo.

Ora qui si solleva un’altra questione, che cioè il criterio politico debba prevalere su quello giuridico, e che l’uomo politico italiano, nell’esercizio della sua attività, quando veda in giuoco i sovrani interessi del Paese, che devono naturalmente superare quelli individuali, abbia anche il diritto, nella polemica, di mettere un po’ in soffitta l’avversario, di ridurlo al silenzio.

Con un criterio diverso, rischiamo d’imbavagliare tutta la stampa, di soffocare la polemica politica.

D’altra parte, la molla, la spinta, nella questione, è essenzialmente politica. Il motivo determinante della polemica ha la sua radice nella ragione politica. L’individuo non c’entra: si colpisce la corrente che tende a mettere il Paese un’altra volta sul piano inclinato dei conflitti internazionali.

Noi siamo stati per vent’anni la forza motrice della rinascita del Paese e col nostro sacrificio e con la nostra lotta abbiamo cercato di difendere, insieme con gli altri antifascisti, l’onore e la dignità della Nazione di fronte alla storia e in faccia all’avvenire, Siamo stati chiamati provocatori di torbidi, assassini, antinazionali. E nessuno di noi ha mai pensato di uscire dal terreno politico e mettersi sul binario giudiziario, per udire il magistrato pronunciare la condanna a una multa.

Pur col massimo rispetto per le tradizioni giuridiche, credo che non dobbiamo farci guidare dai giudizi dei vari Papiniani e Labeoni e Giustiniani, se non vogliamo che lo spirito dei morti continui a guidare i vivi.

Né accade richiamarsi, con pedanteria e con angustia mentale, al fatto, in sé e per sé, come Shylok rivendicava la libbra di carne, in base al contratto. L’onorevole Colombi, nella polemica, ha interpretato lo spirito nazionale ed ha cercato di difendere la pace, l’ordine e gli interessi supremi della Nazione di fronte ad un giornalista che, esercitando il diritto della libertà di stampa, ma abusandone, cercava di buttare il Paese in quello abisso in cui si è frantumato e dal quale lavoriamo a risollevarlo.

Credo che l’Assemblea debba, nel caso concreto, subordinare il criterio rigorosamente giuridico a quello preminente politico e – sovvertendo la vecchia prassi, se è esistita – stabilire che quando non si è mossi dall’intenzione di colpire altri per il gusto di colpire, e fare dell’immunità parlamentare un privilegio per rompere gli schemi della legge; che quando, sul terreno della lotta politica, si tratta di difendere interessi superiori, che sovrastano e debbono far tacere quelli individuali, bisogna negare l’autorizzazione a procedere, per la tutela della libertà di critica e di controllo, per la tutela di quei diritti che potrebbero dirsi, con l’immagine del grande tragico greco, il «flore del bottino», se per bottino intendiamo quell’insieme di diritti e di libertà, riconquistati con tanto sangue sul cadavere del fascismo. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il Relatore onorevole Ciampitti. Ne ha facoltà.

CIAMPITTI, Relatore. Come Relatore della Commissione per le autorizzazioni a procedere, devo difendere l’opera, non tanto mia, quanto della maggioranza della Commissione per le autorizzazioni a procedere contro le critiche e gli addebiti che sono stati mossi dal collega che mi ha preceduto. È bene che l’Assemblea conosca, sia pure brevissimamente, di che cosa si tratti.

È stata sottoposta al giudizio della Commissione una domanda di autorizzazione a procedere contro l’onorevole Arturo Colombi in base a querela sporta con ampia facoltà di prova, in data 9 agosto 1946, dal giornalista Tullio Giordana, direttore del Giornale dell’Emilia, il quale ha ritenuto di ravvisare gli estremi della diffamazione a mezzo della stampa in un articolo pubblicato il 3 agosto 1946 nel giornale La lotta, organo della Federazione provinciale bolognese del Partito Comunista Italiano, articolo firmato con le iniziali A.C., corrispondenti al nome e cognome dell’onorevole Arturo Colombi, che, del resto, è direttore responsabile del giornale stesso, e che in una dichiarazione che ha reso alla Procura della Repubblica di Bologna, ha ammesso esplicitamente di essere l’autore dell’articolo. Il querelante Tullio Giordana fa consistere il reato di diffamazione nelle frasi «fanfarone», la «sua lurida pellaccia» nonché nella attribuzione del fatto specifico e determinato di «essersi durante la lotta partigiana rifugiato comodamente in un albergo di montagna, allo scopo di mettersi al sicuro».

In una prima seduta la Commissione per le autorizzazioni, a procedere, per un eccesso di scrupolo, credette opportuno di richiamare i precedenti giornalistici, sia in rapporto al giornale di cui è direttore il Tullio Giordana – Il Giornale dell’Emilia – sia in rapporto al giornale La Lotta di cui è direttore l’onorevole Colombi, per l’eventualità che si potessero trovare in questi precedenti gli elementi per escludere o per mettere in dubbio l’esistenza del delitto di diffamazione, di cui il Giordana si lamentava. Questo materiale giornalistico fu fornito alla Commissione, per il tramite dell’autorità giudiziaria di Bologna, e la Commissione ha portato il suo esame sopra questo materiale, pervenendo alla conclusione che neanche l’articolo specificamente invocato dal Colombi dal titolo «Shylok e la realtà» pubblicato il 28 luglio 1946 nel Giornale dell’Emilia, potesse dare l’appiglio alla giustificazione della diffamazione che si conteneva nell’articolo incriminato.

Intanto la Commissione, dopo maturo esame, perveniva a queste conclusioni specifiche:

1°) che nessun dubbio potesse sorgere che autore dell’articolo incriminato fosse l’onorevole Colombi, per le ragioni che ho già accennato poco fa, perché egli è il direttore responsabile, perché egli aveva firmato con le proprie iniziali l’articolo, perché egli esplicitamente lo aveva ammesso davanti al Procuratore della Repubblica di Bologna;

2°) che, tenuto conto delle funzioni di delibazione assegnate alla Commissione per le autorizzazioni a procedere, per negare o concedere l’autorizzazione a procedimento penale, contro chi è protetto da garanzie parlamentari – (il che non implica naturalmente un giudizio di merito che è riservato al magistrato) – non si possa non riconoscere la necessità di concedere la chiesta autorizzazione;

3°) che l’articolo querelato sembra contenere gli estremi della diffamazione. Il fatto materiale è contenuto nell’articolo, già acquisito agli atti, e che sia offensivo è evidente, non occorrendo dimostrare che costituiscano un’offesa all’altrui onore e all’altrui reputazione le espressioni «fanfarone», «lurida pellaccia» e simili e più specialmente non si può mettere in dubbio che costituisca offesa alla reputazione e all’onore di una persona l’attribuzione del fatto determinato che durante la lotta partigiana essa si sia allontanata e si sia rifugiata in un albergo di montagna, per mettere al sicuro la propria pelle.

Una voce a sinistra. È vero. (Commenti).

Una voce a destra. Non è vero, e lo sapete bene che non è vero. (Commenti).

CIAMPITTI. Tanto più era rilevante la cosa, in quanto il giornalista Giordana ha assunto e ha dimostrato di essere stato tra i partigiani col grado di ufficiale superiore, sicché l’attribuirgli che durante la lotta partigiana egli si fosse rifugiato in un albergo di montagna, per mettere al sicuro la sua pelle, era un’affermazione più che lesiva dell’onore, del patrimonio morale e della reputazione di questo giornalista;

4°) d’altra parte resta sempre salvo e impregiudicato il diritto dell’onorevole Colombi di provare davanti al Magistrato, in periodo istruttorio o in pubblico dibattimento, la propria incolpevolezza, sia in fatto che in diritto, e di ottenere l’esenzione dalla pena se, avvalendosi dell’ampia facoltà concessagli dal querelante, riuscisse a dare la prova della verità del fatto addebitato al Giordana;

5°) né vale, a mutare l’opinione della Commissione, il risultato dell’esame da essa portato sul materiale giornalistico esibito dalla parte avversa e nemmeno di quello di cui all’articolo «Shylok e la realtà» al quale l’onorevole Colombi fa particolare riferimento, e che invoca specificamente per giustificare il proprio operato.

Difatti l’onorevole Colombi come si è difeso davanti al Procuratore della Repubblica di Bologna? In questa maniera: l’articolo incriminato fu scritto a seguito di un atteggiamento nazionalistico, guerrafondaio, antipartigiano e anticomunista assunto dal Giornale dell’Emilia, in un complesso di pubblicazioni culminate nell’articolo di fondo dal titolo «Shylok e la realtà» apparso su detto giornale il 28 luglio 1946. Ora la Commissione non poteva entrare nel merito, se cioè fosse giustificata la reazione, se così si può chiamare, dell’onorevole Colombi; se mai la questione può interessare il Magistrato del merito, sia nel periodo istruttorio, sia nel pubblico dibattimento, in quanto che la funzione della Commissione per le autorizzazioni a procedere è limitata semplicemente ad una delibazione sommaria, nel senso di stabilire se sia o non il caso di autorizzare il procedimento penale. Con questo né si condanna, né si assolve, perché questo compito è riservato al Magistrato.

Ora, l’onorevole collega, che ha mosso appunti e critiche alla decisione della Commissione per le autorizzazioni a procedere, faceva appello alla tutela della libertà di critica e di controllo, sostenendo che tale diritto fosse incondizionato nel senso che si potesse anche ingiuriare ed offendere impunemente a mezzo della stampa. La Commissione ha rilevato che, se pure l’articolo «Shylok e la realtà» avesse potuto dare appiglio all’onorevole Colombi per replicare e confutare quello che Tullio Giordana aveva scritto, questo si sarebbe potuto fare senza ingiuriare e diffamare. Comunque, ci troviamo di fronte ad un fatto specifico attribuito dal Colombi al Tullio Giordana, cioè che durante la lotta partigiana il Giordana si sarebbe rifugiato, per paura, in un albergo di montagna, per mettere al sicuro la propria pelle. Ed allora una delle due; o questo è vero, o non è vero. Se è vero, il Colombi potrà fornirne le prove nel periodo istruttorio o nel pubblico dibattimento ed allora andrà esente da pena ed il Giordana pagherà anche le spese di giudizio; se invece non è vero, resta il fatto che il Giordana è stato diffamato ed ha querelato legittimamente l’onorevole Colombi, e questi dovrà subirne le conseguenze. Se il Colombi ha altri mezzi per giustificare la mancanza del dolo o di altri elementi costitutivi dal reato, può farlo in periodo istruttorio o in pubblico dibattimento, ma venire a discutere oggi della libertà di critica e di controllo, quando ci troviamo di fronte ad un delitto di diffamazione, a me pare che sia un fuor d’opera. D’altra parte se ne vuol fare una questione politica? Io ammetto che possano esserci stati precedenti giornalistici, cui si appella l’onorevole Colombi, ma non è detto che in una polemica anche di natura politica, anche quando c’è eccitazione di animi, sia consentito di diffamare e di ingiuriare un galantuomo, perché se questo si fa, allora si tradisce veramente la finalità della disposizione che richiede la autorizzazione a procedere contro chi è rivestito del mandato parlamentare. Negando, sempre ed in ogni caso, l’autorizzazione a procedere, si creerebbe la falsa convinzione che basta esser deputato per poter violare impunemente la legge, perché la qualità di deputato esime dal rispondere davanti al magistrato delle violazioni di legge.

L’onorevole collega, sostenitore della tesi opposta, ha sentito il bisogno di deformare e minimizzare il fatto specifico attribuito dall’onorevole Colombi al Giordana, asserendo che dopo tutto il Colombi avrebbe detto: «Faresti meglio a tacere ed andartene in montagna dove sei stato». Questa è la prova migliore della onesta convinzione dell’onorevole collega della sussistenza del reato, dal momento che ben diversa fu l’espressione adoperata e tale da rappresentare una grave offesa al patrimonio morale del Giordana. Una cosa è dire: vattene in montagna e taci, va in montagna dove sei stato; altro è dire: tu che ti vanti di essere stato un combattente, anzi un comandante durante la lotta partigiana, non è vero che hai combattuto con i partigiani; tu te ne sei scappato in montagna, ti sei rifugiato in un albergo per mettere al sicuro la pelle.

Per queste ragioni, e per quelle che per brevità si omettono, a me pare che il giudizio della Commissione, che non è, del resto, e non dev’essere né di affermazione, né di esclusione di responsabilità, limitandosi a stabilire se concorrano le condizioni per concedere o negare l’autorizzazione a procedere, debba essere accolto.

E confido che l’Assemblea delibererà negli stessi sensi, compiendo un atto di serena giustizia.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Scalfaro. Ne ha facoltà.

SCALFARO. È soltanto per una ulteriore chiarificazione.

Mi pare sia indispensabile porre chiara «una affermazione; che, cioè, nell’istituto della immunità parlamentare quello che conta, oserei dire, è un contenuto eminentemente negativo; cioè, noi abbiamo il compito – l’avevamo prima nella Commissione e l’abbiamo oggi come Assemblea – di vedere se sotto accuse o denunzie o comunque sotto parvenze giuridiche siano mascherate delle ombre o delle realtà di persecuzione politica.

Quando abbiamo compiuto questo, si è esaurito il nostro compito. Non possiamo entrare nel merito.

Per sintetizzare, vi è da una parte un articolo di Tullio Giordana che a noi non interessa nel suo contenuto, ma che certo non ha alcuna offesa personale per nessuno; dall’altra la risposta del collega Colombi, che scende a delle accuse o ingiurie nei confronti del Giordana («quel botolo di Giordana», «scriba fascista» ed altro).

È quindi il fatto preciso diffamatorio, il fatto concreto. Si dice: «tu che ti sei vantato di essere stato in montagna, quando in montagna non sei stato; sei stato in albergo».

Attraverso l’istruttoria della Commissione siamo venuti a conoscenza di altri elementi: che, cioè, altra volta il Giordana fu accusato nello stesso senso; ed il Giordana ebbe a pubblicare la documentazione delle sue attività partigiane, il che eventualmente porterebbe ad incidere maggiormente nel lato soggettivo, perché esistano gli elementi del reato.

Ma questo a noi non può interessare; non possiamo assolutamente entrare nel merito.

A noi basta che vi siano questi elementi; basta che escludiamo un contenuto di persecuzione politica; basta inoltre che vediamo un cittadino italiano, il quale chiede di poter ottenere una dichiarazione pubblica, formale, circa le sue attività e chiede, in altri termini, di passare da querelante ad imputato, perché questo è l’atteggiamento di chi dà querela con ampia facoltà di prova. Non possiamo votare contro la autorizzazione a procedere, perché – mi si consenta – daremmo l’impressione alla Nazione che l’istituto della immunità parlamentare è uno scudo, dietro il quale ci si può nascondere, in nome del quale noi, qui dentro, abbiamo diritto di criticare e di trascendere in ingiurie e diffamazioni, mentre gli altri questo diritto non hanno.

In altri termini, l’istituto della immunità parlamentare, anziché essere un istituto di tutela non di noi singoli, ma della veste nostra di deputati, rappresentanti del popolo, finirebbe per avere i caratteri di un istituto di ingiustizia. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta dell’onorevole La Rocca di non accogliere le conclusioni della Commissione e negare quindi l’autorizzazione a procedere contro l’onorevole Colombi.

(Non è approvata).

Pongo ai voti le conclusioni della Commissione.

(Sono approvate).

Il seguito dello svolgimento dell’ordine del giorno è rinviato a domani alle ore 10.

Presentazione di un disegno di legge.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro degli affari esteri. Ne ha facoltà.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Mi onoro di presentare il seguente disegno di legge:

«Approvazione dell’accordo per la costituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura».

PRESIDENTE. Do atto all’onorevole Ministro degli affari esteri della presentazione di questo disegno di legge. Sarà trasmesso alla Commissione competente.

Interrogazioni ed interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. L’onorevole Pacciardi ha presentato, con richiesta di risposta urgente, la seguente interrogazione:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, sul senso e la portata delle sue strabilianti dichiarazioni ai giornalisti stranieri, relative alla stabilità del regime repubblicano».

Gli onorevoli Angelucci e Dominedò hanno pure richiesto che sia risposto d’urgenza alla interrogazione circa la sospensione, presso gli Uffici del Genio civile del Lazio e presso il Provveditorato delle opere pubbliche di ogni attività tendente a predisporre i lavori pubblici già in programma ed il relativo finanziamento.

Gli onorevoli Condorelli, Benedettini, Colonna, Penna Ottavia, Perrone Capano, Miccolis hanno presentato la seguente interrogazione urgente:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere: a) in base a quali disposizioni di legge l’onorevole Ministro si è inteso autorizzato a vietare con una circolare telegrafica «l’esposizione in pubblico o in luoghi aperti al pubblico della bandiera con lo scudo sabaudo e di altri emblemi della decaduta monarchia», scudo ed emblemi che sono anche insegne e distintivi di partiti e associazioni politiche; b) se ritenga che ciò, oltreché arbitrario ed illegale, non sia, comunque, contrario ai principî fondamentali e più certi della libertà politica; c) se non creda necessario revocare d’urgenza la denunciata circolare telegrafica, che costituisce un palese eccesso di potere, una flagrante violazione della libertà politica, una grave offesa al sentimento di milioni di italiani, un oltraggio alla storia».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Domani i Ministri interessati comunicheranno quando intendono rispondere.

PRESIDENTE. L’onorevole Codacci Pisanelli ha presentato la seguente interpellanza con carattere d’urgenza.

«Al Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per restituire il dovuto prestigio all’Istituto orientale di Napoli, riportandolo alla sua missione di custode, diffusore e incrementatore del patrimonio di cultura e civiltà, merito degli orientalisti italiani».

Chiedo al governo quando intenda rispondere.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Il Ministro della pubblica istruzione comunicherà domani quando intende rispondere a questa interpellanza.

MARTINO GAETANO. Ricordo di aver presentato una interrogazione con carattere di urgenza all’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica.

PRESIDENTE. Avverto che il Governo ha già fatto sapere che risponderà quanto prima.

Interrogazioni e interpellanze.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e delle interpellanze pervenute alla Presidenza.

AMADEI, Segretario, legge.

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere i motivi per cui non si è dato corso alla pratica relativa alla statizzazione della Scuola d’arte di Enna, tanto utile per l’interno della Sicilia.;

«Romano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere i motivi per cui non si eleva a sede di Pretura la sezione staccata di Pietraperzia dipendente da Barrafranca.

«Romano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere i motivi per cui non si eleva a sede di Pretura la sezione staccata di Biancavilla, dipendente da Adrano.

«Romano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali siano i proponimenti del Ministero dei lavori pubblici relativamente alla ferrovia che dovrebbe congiungere Catania a Nicosia, già quasi completa fino a Regalbuto, in considerazione anche che i lavori eseguiti sono in completo stato di abbandono.

«Romano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere – essendo noto che le condizioni economiche dei pensionati diventano ogni giorno più disagevoli e preoccupanti – quali provvedimenti si intendano adottare in merito ad una equiparazione ai trattamenti di contingenza concessi agli altri impiegati, mediante la corresponsione:

1°) del premio della Repubblica;

2°) della tredicesima mensilità;

3°) degli aumenti, per effetti della scala mobile, sulle indennità caro viveri.

«Marinaro».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere:

1°) se risulti che, malgrado il disposto del decreto legislativo presidenziale del 27 giugno 1946, n. 19, che prevede l’esecuzione del lavoro straordinario da parte dei dipendenti dello Stato – civili e militari – il Ministero della difesa – Esercito – abbia ancora giacenti numerose richieste di pagamento per lavoro effettuato sin dal mese di giugno 1946 da parte di impiegati civili degli enti periferici;

2°) le ragioni per le quali, malgrado le disposizioni generiche sopracitate, non sia stato ancora autorizzato l’inoltro al Ministero della difesa – Esercito – delle proposte di compenso per lavoro straordinario eseguito dai militari degli enti periferici;

3°) se risulti che non è stato ancora autorizzato il pagamento del lavoro straordinario effettuato dai militari e civili degli enti periferici nel 1946, mentre tutti gli ufficiali ed i civili del Ministero della difesa – Esercito – lo hanno da tempo riscosso, in base al lavoro svolto, coi criteri fissati dal decreto legislativo presidenziale 27 giugno 1946, n. 19;

4°) se non sia indispensabile, per un complesso di ovvie ragioni, usare una maggiore cautela nel concedere beneficî solo al personale delle Amministrazioni centrali, lasciando che quello addetto agli enti dipendenti raggiunga poi la parità dei diritti attraverso manifestazioni che contribuiscono a minare la disciplina dei dipendenti statali.

«Perugi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’agricoltura e delle finanze e tesoro, per segnalare che attraverso la scarsità delle dotazioni concesse, si raggiunge la soppressione di istituti di ricerca scientifica e di difesa delle piante dalle malattie.

«Tale è il caso della gloriosa stazione di patologia vegetale di Roma, cui si assegnano lire 600 mila, con il carico di tre avventizie.

«Rivera».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti intendano adottare in materia di Commissariati alloggi (rivelatisi assai spesso inutili o addirittura dannosi) e, in particolare, quali provvedimenti siano stati adottati in seguito alle gravi ammissioni fatte dal prefetto di Roma in merito alle irregolarità burocratiche e giudiziarie verificatesi nel Commissariato alloggi di Roma.

«Mazzei».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non intenda revocare il divieto, posto nel 1940, al bando ed all’espletamento dei concorsi a primari, aiuti ed assistenti ospedalieri. Si tenga presente che in realtà, ancor prima del divieto per lo scoppio della guerra, da un biennio, cioè dal 1938, perché alla legge di tale anno le Amministrazioni non avevan fatto seguire i regolamenti relativi, non si bandivano più concorsi: quindi quasi da dieci anni il personale, ospedaliero non è più rinnovato, ed è scelto unicamente con criteri, che non dànno sempre garanzia di serietà e di ossequio alla giustizia.

«Ora, siccome non si intende né abolire né ripristinare la legge del 1938 e neppure si vuole modificarla, l’interrogante chiede se non sia il caso, in attesa che modifiche vengano apportate alla legge o che nuova legge sia preparata ed approvata – il che importerà non breve periodo di tempo – di permettere che le singole amministrazioni, applicando i loro regolamenti interni, bandiscano concorsi valevoli per un biennio.

«Così il Governo avrebbe la possibilità di compilare una legge ed un regolamento rispondenti ai nuovi concetti della funzione ospitaliera, e sarebbe nel contempo eliminato l’inconveniente, che turba assai la vita delle istituzioni preposte alla cura ed all’assistenza degli ammalati.

«L’interrogante crede non conforme a ragioni di sana amministrazione il dilazionare ancora tali concorsi.

«Longhena».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se il più volte annunciato progetto di legge riguardante quei dipendenti dagli enti locali che, sottoposti a giudizio di epurazione e discriminati, trovano ostacolo, nell’avversione e nelle proteste dei colleghi, ad essere rimessi in servizio, stia per essere approvato, ed ancora se sia esatto che da tale progetto siano esclusi i dipendenti dalle opere pie, così che queste vengono a trovarsi in difficoltà, non sapendo come sistemare non pochi dipendenti conforme a serietà ed a giustizia.

«L’interrogante non nasconde la propria meraviglia per la lentezza del provvedimento ed anche per la sua incompletezza.

«Longhena».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere esattamente la natura degli accordi intervenuti per la costituzione delle linee aeree civili italo-americana ed italo-inglese, in relazione anche alla assunzione del personale.

«Geuna».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se risponde a verità che l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica abbia disposto, con sua circolare ai Prefetti ed agli Uffici sanitari provinciali, che venga sospesa la rigida applicazione delle norme del Codice penale e del testo unico delle leggi sanitarie, le quali vietano l’esercizio abusivo della professione di medico-odontoiatra. E per conoscere, nel caso affermativo, quali ragioni abbiano ispirato tale provvedimento.

«Martino Gaetano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’interno e delle finanze e tesoro, per conoscere di urgenza lo stato attuale dell’organico dei vigili del fuoco (dall’interrogante prospettato in precedenti interrogazioni e colloqui) e per invitarli a soprassedere a qualsiasi riduzione di personale, non solo per le benemerenze di guerra da questo Corpo acquisite, ma per l’importanza medesima del servizio contro gli incendi e contro tutti gli altri imprevisti dannosi della vita. Esso merita una più ampia applicazione, anche ai centri urbani minori, anziché intempestive riduzioni in antitesi con la tutela degli uomini e delle cose sancita dal progetto della nuova Costituzione italiana. L’interrogante richiama inoltre l’attenzione degli onorevoli Ministri perché vogliano, in linea subordinata, rinviare ogni variazione di organico alla formazione della nuova Camera dei Deputati, cui è devoluta la responsabilità delle riforme fra le quali, non ultima, quella del servizio contro gli incendi e gli altri eventi dannosi improvvisi ed imprevisti della vita.

«Caso».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere quale provvedimento riparatore intenda adottare a favore degli ufficiali effettivi che hanno partecipato al Corpo nazionale di liberazione, i quali si troverebbero in uno stato d’inferiorità di fronte alla pur giusta immissione di partigiani nell’Esercito col grado di capitano (decreto n. 304 del 16 settembre 1946), e se non ritenga doveroso equiparare moralmente ai partigiani, mercé qualche avanzamento straordinario o altro vantaggio di carriera, tutti coloro che, con la spontanea adesione al Corpo nazionale di liberazione, hanno fervidamente e valorosamente contribuito ad esaltare l’onore e le altre virtù civili e militari dell’Esercito italiano.

«Caso».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, sull’ingiusta sentenza emessa recentemente dalla la Sezione del tribunale di Lecce contro sei giovani di Maglie, appartenenti al Fronte della Gioventù, e con la quale essi furono condannati a ben 18 mesi di carcere, per aver semplicemente tentato di prendere possesso di un locale, che era stato loro promesso dalla Prefettura come sede della propria organizzazione.

«Trattandosi di sei giovani, tutti onesti lavoratori e di buonissima condotta, la detta sentenza ha offeso il senso di giustizia della popolazione ed è stata generalmente interpretata come un atto fazioso.

«L’interrogante chiede quale provvedimento intenda prendere l’onorevole Ministro per riparare sollecitamente alla ingiustizia di cui sono vittime i sei giovani in questione, al fine di calmare il vivo e giustificato malcontento che la sentenza ha suscitato nelle masse del popolo.

«Di Vittorio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere quali provvidenze intenda assumere nei confronti dei dipendenti dell’Amministrazione delle poste e telegrafi che versano in precarie condizioni finanziarie: il commesso di ruolo, sia celibe che sposato, percepisce lire 11.000 al mese; l’ausiliario lire 9000; il diurnista lire 8400; il responsabile notturno, con tutte le responsabilità che tale sorveglianza comporta, percepisce lire 7,25 per notte in più dello stipendio. Qualsiasi operaio, specie se lavora di notte, è meglio retribuito. Per sapere ancora per quali motivi non siano stati concessi i richiesti aumenti.

«Badini Confalonieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se ritenga opportuno emanare apposita disposizione legislativa che stabilisca la riammissione in termine dei contribuenti già ammessi al godimento della temporanea esenzione dell’imposta di ricchezza mobile per gli opifici tecnicamente organizzati, per il periodo in cui non hanno potuto godere di tal beneficio per la distruzione totale o parziale o per danneggiamento dei detti opifici causato dagli eventi bellici.

«Castelli Avolio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non ritenga opportuno modificare il decreto legislativo luogotenenziale 4 agosto 1945, n. 453, nel senso di estenderne l’applicazione anche agli orfani della guerra 1915-1918, affinché possa esser connesso anche ad essi il collocamento nelle graduatorie speciali sia per il conferimento di provvisoriati, sia per i prossimi concorsi.

«Non appare, infatti, equa una discriminazione tra gli orfani dell’una o dell’altra guerra, essendo identica la privazione da essi sofferta con l’immolazione dei propri genitori. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Zaccagnino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se non ritenga assolutamente inadeguato il contributo assegnato alla provincia di Treviso in base alla legge 1° luglio 1946, n. 31, per favorire la ripresa produttiva delle aziende agricole con la esecuzione di lavori di miglioramento agrario, anche a sollievo della disoccupazione, contributo finora limitato a quindici milioni (che si dovrebbe almeno quadruplicare), in una provincia che conta un centinaio di comuni che insieme sommano oltre 600 mila abitanti, con circa 40 mila braccianti disoccupati e molti centri gravemente danneggiati dalla guerra; ché, soltanto nella zona dell’aeroporto di Treviso si richiederà la disponibilità di una cinquantina di milioni, per ottenere di restituire le terre di una modesta zona alla produttività. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ghidetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per richiamare la sua attenzione sulla situazione di una benemerita categoria di personale della scuola.

«Con la revisione dello stato giuridico ed economico dei segretari economi e dei vicesegretari degli istituti e delle scuole d’istruzione media tecnica, contemplata dal decreto legislativo presidenziale del 27 giugno 1947, n. 107, si è finalmente resa giustizia ad una benemerita classe d’impiegati che, a differenza di quanto avveniva nei ruoli delle altre amministrazioni, iniziavano e terminavano la loro carriera rispettivamente nei gradi 11° e 12° del gruppo B.

«Eliminato così un evidente stato di disagio morale e materiale del personale suddetto, occorrerebbe completare l’opera di giustizia iniziata, dando a quei segretari e vicesegretari degli istituti e delle scuole d’istruzione media tecnica, i quali da anni aspettano una sistemazione definitiva prestando servizio da supplenti o incaricati, la possibilità di una carriera.

«Trattasi di personale che, nella quasi totalità, è degno di ogni benevola considerazione sia per il servizio encomiabile da molto tempo prestato, sia per le capacità dimostrate nell’espletamento delle proprie mansioni, rendendosi certamente degno di ricoprire un posto di ruolo nell’amministrazione dello Stato.

«Detto personale attende finalmente di avere la sicurezza del proprio lavoro in modo da continuare a prestare la propria opera con maggiore serenità, senza l’assillo della sua futura sorte e con la certezza di potere percepire, dopo avere spese le proprie energie in una vita di lavoro, una modesta pensione nella vecchiezza.

«L’interrogante chiede di sapere se il Ministro intenda adottare in favore di esso i seguenti provvedimenti:

1°) passaggio in ruolo, su proposta dei rispettivi capi d’istituto o mediante concorso interno, dei segretari e vicesegretari che, in possesso del prescritto titolo di studio o di altro titolo equipollente, abbiano prestato per lo meno un quinquennio di lodevole servizio;

2°) riconoscimento agli effetti della carriera di tutto o, in tesi subordinata, di parte del servizio prestato da supplente o incaricato, applicando, a seconda dei casi particolari, gli articoli del decreto legislativo presidenziale del 27 giugno 1946, n. 107;

3°) conseguente modificazione delle piante organiche, su proposta dei capi d’istituto, tendente a trasformare in posti di ruolo i posti previsti per incarico. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Firrao».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se la Direzione generale della pubblica sicurezza abbia indagato sulle notizie date dal Risorgimento Liberale del 28 dicembre 1946, in una corrispondenza da Firenze a firma Emanuele Farneti, nella quale si parlava di traffici d’armi tra agricoltori toscani e del Mezzogiorno e della esistenza in Toscana di gruppi armati organizzati dagli agricoltori; e quali risultati ha dato la eventuale inchiesta di polizia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Grieco».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della pubblica istruzione e delle finanze e tesoro, per conoscere i motivi per i quali non ancora si è ritenuto di estendere ai maestri elementari insegnanti in Napoli, ma costretti a risiedere fuori del centro urbano, le indennità stabilite per le città sinistrate;

«Le spese notevoli che tale categoria di impiegati deve sostenere per il viaggio quotidiano ed una refezione fuori casa; il servizio effettivamente prestato nella città più duramente colpita dalla guerra; le particolari condizioni di disagio in cui essa si dibatte, rendono legittima l’aspirazione in oggetto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Falco».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze e tesoro e dell’agricoltura e foreste, per sapere come mai nella provincia di Bologna non sia stata accolta la richiesta dei braccianti, perché sia loro riconosciuto il prezzo politico per il grano ritirato e da ritirare. Tale prezzo si pratica nelle finitime provincie di Modena, Ferrara e Ravenna; e la condizione dei suddetti lavoratori dopo quasi tre mesi di ininterrotta disoccupazione è così dura da determinare fra essi una grave agitazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Longhena».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro delle finanze e tesoro, per conoscere se abbiano ricevuto la commovente e ben motivata istanza degli abitanti delle frazioni di Lotte, Mortola Superiore ed Inferiore, San Lorenzo, Ville, Calandri, Scalza, Sant’Antonio, Grimaldi, Carletti, Villatella, tutte del comune di Ventimiglia, tendente ad ottenere un temporaneo esonero dalle imposte sui beni immobili e dalla complementare sul reddito; e quali provvedimenti intendano prendere per venire incontro a quelle sventurate popolazioni, sulle quali gravano in modo eccezionale – pur nella comune sventura – i danni e le conseguenze in genere della non voluta guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pellizzari».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere:

1°) se non ritenga necessario, in considerazione dell’alto numero di senzatetto che ha la città di Foggia, in conseguenza dei noti bombardamenti sulla città, di cedere a quel comune – sia pure provvisoriamente – le cosiddette «casermette», attualmente non utilizzate e dove comodamente potrebbero trovare alloggio ben 400 famiglie;

2°) se non ritenga opportuno disporre per il trasferimento della Infermeria presidiaria nei propri locali di via Manzoni in Foggia, da quelli attualmente occupati, ove avevano sede l’Ospedale provinciale di maternità ed il Brefotrofio provinciale, i quali furono costretti a sfollare a causa dei noti bombardamenti sulla città.

«Detta sistemazione è tanto più urgente in quanto un numero rilevante di piccoli nati del Brefotrofio vive in inadatte corsie del Preventorio di Manfredonia con un’alta percentuale di mortalità; né l’Ospedale di maternità, l’unico in provincia della specialità di ostetricia e ginecologia, può dare ricovero alle gestanti per la ristrettezza dei locali nei quali è attualmente ospitato (Ospedale oftalmico di Lucera). (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Imperiale, Allegato».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della difesa e delle finanze e tesoro, per sapere se e quali provvedimenti intenda assumere il Governo nei riguardi di quegli ufficiali della Marina militare che, già appartenendo al «ruolo speciale di complemento», parteciparono ai concorsi per il passaggio nel «ruolo speciale in servizio permanente effettivo» indetti a norma dell’articolo 6 della legge 3 dicembre 1942, n. 1417, e tuttora attendono di conoscere l’esito dei concorsi stessi; ciò in relazione al diverso trattamento di quiescenza previsto per gli ufficiali in servizio permanente effettivo e per quelli del « ruolo speciale di complemento» dagli articoli 4 e seguenti del decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 490. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bibolotti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, in merito all’occupazione delle miniere del Valdarno, da parte di quelle maestranze, ed alla conseguente gestione delle miniere stesse da parte di un cosiddetto «Comitato provvisorio di gestione» degli operai.

«In particolare, l’interrogante chiede di conoscere se e quali misure erano state prese preventivamente per impedire tali atti di violenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Marinaro».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere se sono stati concessi alla Cooperativa «Il Cavatore», Cava di Villa Inglese in Torre del Greco, i carri ferroviari occorrenti per il trasporto di pietrisco ed altri materiali alle Ferrovie dello Stato, Sezione lavori di Napoli, poiché, essendosi saturato ogni spazio disponibile, si è dovuto sospendere il lavoro con gravissimo disagio economico per circa 400 operai rimasti disoccupati. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mazza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere:

1°) se conviene nel principio che i magistrati, essendo direttamente investiti dell’esercizio indipendente di uno dei poteri dello Stato – principio, questo, accolto anche negli articoli 94 e 97 del progetto di Costituzione – debbano godere di un trattamento economico adeguato, indipendentemente da quello riservato agli impiegati dello Stato;

2°) se, in relazione a quanto premesso, intenda aderire od opporsi ai provvedimenti intesi a tradurre in atto, per ora almeno in parte, l’adeguamento della situazione economica della Magistratura alla sua posizione istituzionale;

3°) in particolare, se intenda aderire od opporsi alla istituzione di una cassa nazionale magistrati, da alimentarsi con il gettito di apposita tassa.

«A quanto risulta, il relativo schema di decreto trovasi fin dal settembre 1946 presso il Tesoro, che non ha ancora dato alcuna risposta al Ministero della giustizia.

«Si chiede, in particolare, di conoscere se intenda opporsi allo schema, benché esso implichi non un onere per l’erario, ma solo la istituzione di una speciale tassa giudiziaria; istituzione alla quale aveva già aderito il precedente Ministro delle finanze;

4°) si chiede di conoscere, altresì, se è vero che per le gravose funzioni di giudice istruttore e di presidente di Assise vengano corrisposte indennità mensili nette di lire 41 e di lire 23 rispettivamente per i giudici istruttori dei grandi e dei piccoli tribunali e di lire 59 per i presidenti di Assise e se l’onorevole Ministro del tesoro giudica adeguate tali misure, o ritiene invece di aderire all’aumento di esse, richiesto da tempo dal Ministero di grazia e giustizia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Matteo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per sapere per quale ragione non è intervenuto per risolvere, sullo stesso piano dello stabilimento Ilva di Piombino, con lo stanziamento di fondi per la predetta Società, la situazione dello Stabilimento siderurgico di Portoferraio, intorno al quale gravita tutta la vita dell’Isola e per cui sono stati proposti alcuni progetti di ricostruzione ritenuti sconsigliabili, per ragioni contingenti, dalla Commissione governativa. E per conoscere, altresì, se non sia possibile effettuare l’assegnazione di parte delle somme richieste a titolo di indennizzo di guerra, che si aggira su «un miliardo e duecento milioni» o somministrando l’aiuto governativo sotto forma di assegnazione mensile, per esempio, di lire 50 milioni, per un periodo di 14-18 mesi, richiesto dal completamento dei lavori di ricostruzione.

«Tale ricostruzione consentirebbe una ripresa generale della vita economica dell’Isola in un complesso di attività, che oggi rimangono allo stato latente, perché non ci si accinge ad iniziative, ritenute poco prudenti in uno stato di abbandono e di miseria, e risolverebbe il problema gravissimo della disoccupazione locale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Matteo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze e tesoro e dell’agricoltura e foreste, per sapere se non intendano adottare delle misure di sgravio fiscali e di contribuzione da parte dello Stato, previste dalle vigenti norme, per venire incontro alle popolazioni dei seguenti comuni della provincia di Savona: Andora, Alassio, Stellanello, Testico, Garlenda, Villanova di Albenga, Onzo, Vendone, Casanova Lerrone, Erli, Zuccarello, Cisano sul Neva, Toirano, Balestrino, Arnasco, Albenga, Laigueglia, Ortovero, Nasino, Castelbianco, Castelvecchio di Rocca Barbena, e dei seguenti della provincia di Imperia: Chiusavecchia, Chiusanico, Borgomaro, Caravonica, Cesio, Rezzo, Vessalico, Borghetto d’Arroscia, Pieve di Teco, Pornassio, Cosio d’Arroscia, che ebbero a subire, in seguito alle eccezionali nevicate del decorso mese di febbraio, danni ingentissimi alle colture e specialmente alle zone olivate, ove una grandissima quantità di piante venne distrutta. Detti danni sono tanto più gravi in quanto sono necessari parecchi anni per la ricostituzione degli oliveti danneggiati o distrutti. Le misure invocate sono urgenti e indispensabili, in quanto l’olivo rappresenta per tutti i comuni indicati la principale coltura e per molti, anzi, l’unica fonte di lavoro e possibilità di occupazione della popolazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pera».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare i Ministri dell’interno e della pubblica istruzione, sul grave problema della tubercolosi infantile. Sta per iniziarsi la terza estate dalla liberazione d’Italia: le cifre constatanti la tubercolosi infantile diventano sempre più paurose. Se l’iniziativa privata fa qualcosa, ma sparsamente ed inorganicamente e senza collegamento, l’iniziativa statale e quella comunale è nulla, o quasi. Obbedendo a vecchi concetti ed a distinzioni ormai superate si crede che l’assistenza all’infanzia e la profilassi infantile siano spese straordinarie facoltative, e perciò si tollera dai Comuni che i ragionieri del Ministero dell’interno cancellino dai bilanci tutte le somme impostate a tali scopi.

«L’interpellante chiede di sapere se, in vista di un alto interesse nazionale – quale è l’assistenza all’infanzia misera e la sua protezione contro gli assalti del male più fiero – a difesa della ricchezza fisica – ed anche morale – della generazione di domani, non si creda opportuno, nell’attesa che una moderna legislazione sistemi tutta questa vasta materia, in ossequio agli articoli 25 e 26 del progetto di Costituzione, accogliere le proposte seguenti di cui l’interpellante a sé non dissimula l’azione rivoluzionaria:

  1. a) siano momentaneamente raccolte sotto l’amministrazione comunale delle città capoluogo di provincia tutte le istituzioni di assistenza all’infanzia ed alla fanciullezza;
  2. b) del pari si concentrino nell’amministrazione comunale tutte le proprietà dell’ex G.I.L., ora rette da Commissari, delle quali proprietà è già cominciata la dispersione, ché cessioni temporanee son già avvenute e di tali cessioni hanno avvantaggiato gli enti e gli individui più pronti a gettarsi sulle proprietà comuni.

«Tale concentrazione dovrebbe avvenire provincia per provincia.

«Cesserebbero così le gestioni commissariali, cesserebbe ogni ragione di spesa e s’otterrebbe la garanzia della conservazione intatta del patrimonio;

  1. c) il prefetto, con i suoi organi adatti, provveda all’attuazione di queste concentrazioni nel Comune capoluogo di provincia e secondo il disposto dell’articolo 58 della legge 1890;
  2. d) tutte le lodevoli iniziative di enti, di partiti, di individui siano collegate con queste istituzioni a cui si riferisce la presente interpellanza;
  3. e) un Comitato di poche persone adatte nominate dal Consiglio comunale del Comune capoluogo di provincia dirigerà ed amministrerà l’insieme di istituti per l’infanzia che verrà in tal modo a costituirsi.

«Longhena».

«I sottoscritti chiedono d’interpellare il Ministro della difesa, sulla situazione presente delle Forze armate italiane e sulle linee programmatiche del nuovo ordinamento delle Forze stesse.

«Bozzi, Reale Vito».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Ministro della difesa, per conoscere come egli intenda valorizzare il patrimonio di eroismi e sacrifici compiuti dall’Esercito durante le operazioni belliche, a partire dal 1940 fino al termine della guerra, al fine di farne base morale per la ricostruzione dell’Esercito.

«Per avere, inoltre, assicurazioni che la selezione politica negli alti gradi della gerarchia non infirmi il principio democratico di un Esercito a servizio nella Nazione ed allontani il sospetto di diventare uno strumento di parte capace di porre in pericolo le libertà civili; che tale selezione non allontani dall’Esercito capi che hanno dimostrato il loro valore sui campi di battaglia e soprattutto uomini di carattere; che il piccolo Esercito che ci è concesso mantenere possa riscuotere la fiducia dell’intera Nazione, sicché costituisca l’intelaiatura della Nazione in armi, qualora deprecabili eventi lo richiedessero.

«Per chiedere, infine, se, a rassicurare il Paese, al riguardo di quanto sopra, non ritenga opportuno portare alla discussione in Parlamento leggi e decreti, riguardanti le Forze armate, anteriori al 2 giugno 1946, emanati da Governi non investiti di quell’autorità che deriva dalla fiducia di una Camera elettiva ed in clima politico diverso dall’attuale.

«Bencivenga».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure le interpellanze saranno iscritte nell’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 12.45.

MERCOLEDÌ 5 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

L.

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 5 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica Italiana:

Presidente                                                                                                        

Tupini                                                                                                                

Della Seta                                                                                                       

Lucifero                                                                                                           

Mastrojanni                                                                                                    

Laconi                                                                                                              

La seduta comincia alle 15.30.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Mazzoni.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendendo la discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana, desidero rivolgere l’invito ai colleghi componenti dell’ufficio di Presidenza della Commissione per la Costituzione e ai membri del Comitato di redazione a prendere posto ai banchi normalmente occupati dai membri del Governo.

Questo invito è giustificato da due ragioni: la prima, di carattere molto modesto e banale, riguarda la comodità stessa della discussione, poiché, specialmente dal momento in cui comincerà la discussione più specifica, è evidente che sono i membri della Presidenza della Commissione e i membri del Comitato di redazione che dovranno rispondere a tutte le obiezioni, a tutte le sollecitazioni, accogliere o no le proposte; ed è più che naturale che essi si trovino di fronte, non dirò a quelli che saranno i loro contradittori – ché forse saranno invece i loro collaboratori e sostenitori – in una posizione più comoda per poter discutere. La seconda è una ragione di carattere sostanziale, a mio giudizio. È stato notato ieri, ed oggi su tutti gli organi di stampa è stato largamente sottolineato, il fatto che i banchi del Governo sono vuoti; ciò che è un’affermazione della sovranità dell’Assemblea nel corso di questo suo specifico lavoro costituente. Orbene, io credo che, se a questo aspetto negativo della nostra apparenza esteriore si aggiunge anche l’aspetto positivo, cioè se questi banchi non resteranno orfani di ogni ospite, ma accoglieranno invece coloro che rappresentano il momento iniziale di impulso di questi nostri lavori, il concetto che l’Assemblea Costituente risolve in sé in questo momento tutta la sovranità popolare, riceverà una maggiore evidenza.

D’altra parte, i membri della Presidenza della Commissione e i membri del Comitato di redazione sono andati un po’ all’avanscoperta per tutti noi in questo terreno nuovo e inesplorato dei problemi costituzionali; ed è naturale che essi, anche per i banchi che li accolgono ricevano un segno del merito particolare che hanno acquistato dinanzi a noi e in definitiva, quindi, anche dinanzi ai risultati del nostro lavoro.

La nostra Assemblea non è un complesso inarticolato; ma nel suo interno ha un sistema di rapporti non soltanto fra gruppo e gruppo politico, ma anche fra gruppo e gruppo in relazione ai lavori che svolge. Ritengo che nell’articolazione la Presidenza della Commissione e il Comitato di redazione debbano rappresentare come il ganglio nervoso centrale del nostro lavoro, ciò che credo sarà ancora una volta sottolineato se i loro membri accettano il mio invito – e credo sia l’invito dell’Assemblea nel suo complesso – a prendere posto in quei banchi, in cui possano svolgere più liberamente il loro lavoro. (Applausi).

(I membri della Presidenza della Commissione ed i membri del Comitato di redazione prendono posto al banco del Governo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Tupini. Ne ha facoltà.

TUPINI. Onorevoli colleghi, il nostro Presidente ci ha indicato ieri la via della discussione, non tanto per gli elementi tecnici che dovranno guidarla, quanto per il tono e lo stile che dovranno animarla, e che non potranno non essere, come del resto già lo sono stati, alti e sereni come il Paese attende la dignità del nostro consesso richiede.

Gli accenti risuonati ieri in quest’aula, anche se qua e là discordi da quello che vi dirò, si sono mantenuti a simile auspicata altezza e sono sicuro che vi si manterranno nella presente e nelle prossime sedute e fino all’esaurimento del nostro mandato, che non esito a definire storico, non per vana e abusata jattanza di parola, ma per un profondo senso di trepida preoccupazione.

Protagonisti d’una grande pagina di storia, spetta a noi, onorevoli colleghi, di aprire un varco alle nuove fortune della Repubblica fra le macerie del passato e di porre le premesse e le garanzie di un avvenire di libertà e di giustizia. L’Assemblea Costituente saprà scrivere degnamente questa pagina, interprete consapevole e fedele delle aspirazioni e della nobiltà del popolo che qui ci ha mandato.

Cade opportuno un richiamo al passato: è un monito ed un incitamento di Giovanni Bovio: «È fiorente un popolo che è solcato da grandi idee e quando ha partiti convinti e discussioni libere. È cadente un popolo quando i partiti si corrompono in sette e la discussione si fa muta o pettegola».

Gli onorevoli colleghi che hanno ieri parlato – Lucifero, Bozzi e Calamandrei – hanno pronunziato tre discorsi che oserei giudicare, se pure da punti di vista diversi e con avverse motivazioni, di opposizione talvolta generale e, in alcuni tratti, specifica al progetto che ora è sottoposto al nostro esame.

L’onorevole Calamandrei l’ha giudicato calvo, mentre altri, nella stampa o in giudizi pubblici o privati, lo qualifica perfino troppo zazzeruto. (Ilarità).

La verità, onorevoli colleghi, sta sempre nel mezzo ed io vorrò esaminare il progetto proprio da questo punto di vista, annunciandovi senz’altro che mi pronunzierò in via di massima favorevole ad esso e che, per quanto mi sarà possibile, lo difenderò.

Critiche non sono mancate e certo non mancheranno, ed io stesso avanzerò qualche riserva; ma poiché, insieme a valorosi e non dimenticati colleghi della Commissione per la Costituzione, vi ho lavorato su con una discreta assiduità, sento di doverlo difendere nel suo assieme e di dovere fare onore ai voti espressi nel corso della sua elaborazione.

Intanto, un’osservazione preliminare va fatta. Il progetto è la risultante feconda degli sforzi dei componenti delle varie Sottocommissioni che hanno sempre cercato, come dissi ieri interrompendo cortesemente l’amico e collega onorevole Lucifero, di intendersi, di comprendersi ed hanno coltivato il proposito di giungere, quando potevano, all’accordo e all’intesa.

I contrasti, quando si sono delineati, non sono stati mai messi in sordina e la stampa li ha, volta a volta, sottolineati e resi noti alla pubblica opinione. Ogni deputato ha voluto tener fede alla concezione che rappresentava. L’ha esposta, l’ha puntualizzata in formulazione di articoli, ma non sono mai venute meno la volontà di conciliazione e la convinzione responsabile che la Carta fondamentale di un popolo non può riflettere l’intransigente pensiero del minimo numero possibile di cittadini, uniti da una medesima fede, sibbene il pensiero del maggior numero di essi, consenzienti su una sostanza comune di pensiero e di vita. Ciò dimostra come sia ingiusto affermare che il nostro è un progetto o comunque sarà uno statuto di compromesso. A me sembra invece che se un rilievo va fatto al riguardo esso deve unicamente riferirsi allo sforzo durato da ciascuno di noi per superare molte delle troppe divisioni che separano i cittadini e i partiti, per trovare, al di là e al di sopra dei motivi contingenti di attrito e di divergenze, un minimo comune denominatore, un cemento comune alla gran parte del popolo italiano.

Se questo spirito di consapevole conciliazione informerà anche la discussione dell’Assemblea, il progetto della Costituzione sarà, sì, perfezionato e migliorato, ma non potrà mutarne i tratti caratteristici e i motivi ispiratori fondamentali.

Tra questi ve n’è uno che differenzia da ogni altro il progetto di nostra Costituzione e ne annuncia la nota caratteristica e dominante: è il senso umano che intimamente e profondamente lo pervade. È stato, questo, onorevoli colleghi, il punto d’incontro, faticosamente cercato e trovato, dei programmi diversi di cui i colleghi delle Sottocommissioni erano portatori; punto d’incontro felice e provvidenziale nella confusione delle idee e nella varietà dei partiti. L’uomo, dico l’uomo, ha agito da criterio uniformatore e da principio coordinatore.

Se ci fosse consentito di indagare al di là della storia i motivi che la determinano, noi dovremmo domandarci per quale fortunato disegno si siano trovate d’accordo concezioni che hanno sempre posto l’uomo al centro di ogni ordinamento sociale e concezioni che tali preoccupazioni hanno mostrato o mostrano di non avere. Come mai, ad esempio, la concezione cristiana della vita si sia trovata vicina a concezioni che tali non sono o come tali non si pongono.

La ragione è che nella memoria di tutto il popolo italiano è ancora viva una storia recente, che deve essere una volta tanto, almeno, maestra di vita: è la storia della dittatura del fascismo, con le note conseguenze di guerra e di disfatta che hanno colpito al cuore l’uomo nelle sue libertà personali, nella sua famiglia, in tutta la sua vita.

Se ogni Costituzione è il prodotto e l’interprete delle situazioni di fatto e delle aspirazioni prevalenti di una nazione nel momento in cui si attua il processo costituente, il nostro progetto non poteva non tener conto della profonda avversione determinata da quel passato nell’animo del popolo italiano verso ogni forma statale e verso ogni regime politico che minacci di vulnerare di nuovo la sfera dei naturali diritti della persona umana.

Per questo, e per l’apporto che talune concezioni, basate sull’uomo, hanno dato alla elaborazione del progetto, esso è tutto intriso di una visione umana della vita, e se un nome dovrà ricordare la futura Costituzione, io mi auguro che sia questo: «La Carta dell’Uomo». (Approvazioni).

La Democrazia cristiana ha impresso un po’ il crisma della sua ampia e costruttiva collaborazione al progetto di Costituzione. Quanti hanno dato il 2 giugno la loro fiducia alla Democrazia cristiana non devono ritenersi ingannati. Essa aveva promesso di garantire al Paese una Costituzione imperniata sui cardini fondamentali della libertà e della giustizia ed ispirata al Cristianesimo. Questa promessa è stata e, per quanto dipende da noi, sarà mantenuta. L’impegno assunto verso più di otto milioni di cittadini non è stato e non sarà tradito. Naturalmente non tutto il programma spirituale, morale, politico, civile, non tutta la Weltanschauung della Democrazia cristiana ha trovato in questo progetto il suo adeguato riflesso. Ciò non poteva essere per le ragioni che ho detto da principio. Possiamo però con tranquilla coscienza affermare che non uno dei postulati essenziali della nostra concezione democratica è stato da noi e non sarà da noi, nel corso di questa discussione, abbandonato.

La Democrazia cristiana si è preoccupata subito di impostare e di incentrare l’intelaiatura del nuovo edificio costituzionale sulla persona umana. Questo dovrà essere, a nostro avviso, il termine di riferimento di tutta la Costituzione. Occorre salvare l’uomo dalla morsa in cui gli Stati totalitari lo afferrano, dalle ruote in cui le dittature lo macinano. Si trattava e si tratta soprattutto di avere e di concretare nel progetto una visione integrale dell’uomo. Integrale, ho detto, perché le passate e le presenti Carte costituzionali hanno anch’esse una visione dell’uomo, ma parziale e unilaterale. Era stata a lungo la preoccupazione della libertà dell’uomo il criterio ispiratore delle Carte del XVIII e del XIX secolo; poi l’èra del liberalismo e della democrazia individualistica è andata man mano cedendo alle istanze dei nuovi processi produttivi ed ai rapporti sociali che ne derivano.

Le dichiarazioni dei diritti e lo spirito delle Carte hanno cominciato a scorgere nella trama dei rapporti tra cittadini e cittadini e tra i cittadini e lo Stato un vincolo sempre più stretto di solidarietà; ma la sintesi di libertà e di solidarietà sociale, di libertà e di giustizia sociale, non è stata quasi mai raggiunta e dall’eccesso di autonomia si è passati presto, in alcune Carte, all’eccesso delle costrizioni statali e del collettivismo gregario.

Fare la sintesi: ecco, onorevoli colleghi, il compito che la Democrazia cristiana si è assunto in questa Costituente; attuare cioè una visione integrale della persona umana, superando la contesa che è al fondo del dramma del nostro tempo tra libertà e giustizia sociale, tra autonomia dell’uomo e autorità dello Stato. In fondo è proprio qui il problema della democrazia contemporanea. Esso non può essere risolto in un senso ad esclusione dell’altro. Integrale dovrà essere la sua soluzione o non sarà.

La Democrazia cristiana si è impegnata a fondo per questa soluzione, perché, cioè, la Costituzione ponga tra i suoi fini il presidio e il potenziamento della persona e degli enti sociali nei quali essa si integra e progressivamente si espande. C’è stato e forse ci sarà ancora qualche contrasto su questo punto e sull’attuazione dei principî direttivi della Costituzione. Noi crediamo infatti che non basti, onorevole Togliatti, non basti definire la democrazia, come ella ha fatto in questa Assemblea, un regime in cui le istituzioni politiche e sociali devono avere per scopo il miglioramento sociale, morale, intellettuale e fisico della classe più numerosa e più povera della Nazione, cioè dei lavoratori; noi riconosciamo anche questo. Per noi democrazia vuol dire anche questo. Toniolo dava una definizione della Democrazia cristiana molto simile alla sua, onorevole Togliatti; ma la democrazia vuol dire per noi anche difesa e attuazione della libertà in tutti gli istituti politici sociali e familiari dell’uomo. Democrazia significa, sì, miglioramento della classe più numerosa e più povera, ma, occorre aggiungere, con l’esclusione di ogni regime totalitario. Significa, sì, liberazione completa dell’uomo e del lavoratore dall’oppressione economica e politica insieme, ma all’infuori di ogni dittatura paternalistica e tutoria. (Applausi Commenti).

Il Cristianesimo, cui guarda con speranza rinnovata l’attesa di milioni di uomini, può veramente offrire il punto d’incontro, la base per questo sforzo fecondo. Noi abbiamo ferma fede nell’affermazione di Ozanam, che acquista oggi sapore di profezia: la democrazia o sarà cristiana o non sarà. (Approvazioni al centro Commenti all’estrema sinistra).

L’esame particolareggiato del progetto dà conferma del profondo e integrale senso umano che ne costituisce la caratteristica distintiva in confronto delle altre Costituzioni anche più recenti; ma di fronte ad esso un’altra particolarità deve essere sottolineata: la nuova Costituzione non è, né sarà frutto di arbitrio o del colpo violento di una ondata rivoluzionaria che spazzi via indiscriminatamente il vecchio ordine e indiscriminatamente fondi il nuovo.

La futura Carta fondamentale sarà, come io mi auguro, come noi tutti ci auguriamo, il risultato di un atto consapevole e libero di un popolo che democraticamente si dà i propri ordinamenti. Ad essa spetterà anche di innestare su una tradizione giuridica e costituzionale la nuova realtà repubblicana scaturita dal referendum popolare.

Nelle disposizioni generali del progetto che ne costituiscono la introduzione solenne è racchiuso lo spirito informatore della Costituzione: Repubblica democratica, l’Italia ha per suo fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dello Stato, il quale si fonda, dunque, sull’uomo socialmente attivo, sul cittadino che ha nel lavoro lo strumento della sua fatica e della sua redenzione.

In omaggio a questa concezione umana della vita, che fa contrasto con superate «mistiche» basate sullo spirito di imperialismo e di oppressione, l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa e consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli in condizioni di reciprocità e di eguaglianza. E Dio voglia che questa non sia soltanto una generosa utopia del nostro popolo, ma una aspirazione comune a tutta l’umanità, dopo la tremenda lezione dell’ultimo conflitto.

Pace fra i popoli, ma anche pace fra il popolo italiano.

Se i Patti Lateranensi saranno inseriti nella nuova Costituzione repubblicana, un nuovo e definitivo passo potrà essere compiuto verso il consolidamento della pace religiosa nel nostro Paese. Sarà questo un atto opportuno e giusto, perché riconsacrerà nel piano democratico la fine del dannoso divorzio tra la coscienza cattolica e la coscienza nazionale del nostro popolo, che nella sua quasi totalità rimane fedele alla religione dei Padri. (Approvazioni al Centro e su vari banchi).

È appunto l’appartenenza della grande maggioranza dell’Italia alla religione cattolica che giustifica appieno la nuova posizione di natura costituzionale che si dovrebbe fare e che, io spero, si farà ai Patti del Laterano.

L’onorevole Togliatti ha detto in un suo recente discorso all’Assemblea che i comunisti e i democratici cristiani hanno collaborato senza eccessiva difficoltà nelle varie Commissioni per la Costituzione, fino a che non si venne alla discussione di un grave problema, quello dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, cioè dei Patti lateranensi.

Questo modo di porre la questione già delinea, onorevoli colleghi, in modo sufficientemente chiaro la diversità di posizioni fra i vari gruppi. Vi era infatti e vi è tutt’ora la tendenza da parte di taluni a passare oltre questi rapporti, senza affrontarli. La Democrazia Cristiana invece ha creduto e crede di doverli affrontare ed ha portato e porterà nella discussione in proposito il peso di questo suo atteggiamento.

Per altri questo era ed è un problema che non interessa o che si preferisce evitare. Per noi involge la libertà spirituale dei cattolici italiani. Nessuna meraviglia, onorevoli colleghi: non per nulla sono diverse le dottrine che individuano, sul piano ideologico, i vari partiti e che sono alla base della dinamica delle competizioni democratiche. Io non trovo di meglio per raffigurare questa diversità di dottrine che appellarmi a quanto scriveva qualche mese fa il giornale dell’onorevole Nenni: «La differenza fra noi socialisti ed i democristiani (scriveva press’a poco l’articolista) è questa: noi, cioè il socialismo, accompagniamo l’uomo dalla culla alla bara; loro, cioè i democristiani, lo accompagnano pure come noi dalla culla alla tomba, ma non lo lasciano senza speranza oltre la tomba».

Esatto, onorevoli colleghi; per questo, altri si disinteressano dei Patti Lateranensi o li avversano, e per questo noi li difendiamo. Il segretario generale del Partito comunista ha auspicato che alla firma… (Interruzioni a sinistra Commenti).

Mi spiace di non poter sentire le vostre interruzioni, perché altrimenti risponderei volentieri.

TONELLO. Il Patto lateranense è però di questa terra.

TUPINI. Mira però a finalità superiori e tutt’altro che materialistiche, come pensa l’onorevole Tonello. (Approvazioni al centro). Dicevo, dunque, al momento in cui sono stato interrotto, che il segretario generale del Partito comunista ha auspicato che alla firma del fascismo, che è in calce ai Patti, si sostituisca la firma della Repubblica italiana.

Noi non desideriamo altro, onorevoli colleghi. I Patti firmati dal fascismo non sono nati come funghi sotto la pioggia della dittatura, ma furono preparati nell’attesa ansiosa di tutto il popolo italiano e dall’opera lenta e lungimirante di statisti egregi, tra i quali vedo ancora con soddisfazione in mezzo a noi gli onorevoli Nitti e Orlando, che con la loro presenza conferiscono prestigio e decoro alla nostra Assemblea. Inserendoli nella Costituzione, la Repubblica vi apporrà la sua firma solenne, che sarà la firma di una nazione credente, che vede nella pace religiosa la premessa e la garanzia della sua unità politica e della sua ricostruzione democratica. Non bisogna vedere in essi tutto nero, come avete fatto voi, onorevole Calamandrei, attraverso le lenti affumicate del vostro, non dirò bizzarro, ma arguto spirito fiorentino. (Ilarità).

Questi Patti hanno segnato la fine di un dissidio tra la coscienza cattolica e quella nazionale del Paese. Hanno cancellato – bisogna ricordarlo – una ipoteca, prima di essi sempre accesa, sull’unità del nostro territorio; e poiché sono due, Trattato e Concordato, di cui uno condiziona l’altro, non credo che debba essere così pesante, anche per uomini come voi, che vi mostrate contrari ad uno solo o a qualche parte di uno di essi, quella che chiamate – e vorrei che non fosse – la «sopportazione dell’ospitalità di entrambi nella Carta costituzionale». (Approvazioni).

D’altra parte, onorevoli colleghi, essi non costituiranno mai alcuna anchilosi o cristallizzazione di posizioni. Lo abbiamo detto molte volte in sede di discussione alla prima Sottocommissione: la Chiesa cattolica è sempre talmente saggia che, intransigente nella difesa del suo patrimonio spirituale e religioso, mostra, come ha sempre dimostrato, di tenere esatto conto della varietà successiva o progressiva delle condizioni storiche dei vari Paesi, con uno spirito di adeguamento che desta sorpresa e meraviglia nei profani e, comunque, negli estranei alla dinamica della sua perenne vitalità.

Se ciò dovrà verificarsi a proposito dei Patti lateranensi. nessuna difficoltà di ordine costituzionale potrà opporvisi, in quanto l’articolo 5 del nostro progetto prevede che qualunque eventuale modificazione dei Patti bilateralmente negoziata ed accettata, esclude il procedimento di revisione costituzionale.

Né essi contraddicono, onorevole Calamandrei, alla libertà religiosa degli altri culti e delle altre confessioni, che avete ieri ricordato a proposito dell’incontro tra l’onorevole De Gasperi e i gruppi protestanti di America, perché i loro diritti sono ampiamente assicurati dall’articolo 16 del progetto, mentre, secondo l’articolo 5, viene anche ad esse data la possibilità di trattare con lo Stato italiano e di stabilire i reciproci rapporti in apposite intese. Si attua così sul terreno costituzionale quello che Jacques Maritain ha definito un pluralismo anche nel campo religioso.

Ma torniamo, onorevoli colleghi, al motivo dominante del mio discorso e cioè alla persona. Noi abbiamo voluto che di essa fossero affermate e garantite le caratteristiche peculiari: la libertà e la dignità. È vero che in una Costituzione non possono esservi solo delle norme da cui scaturiscono diritti azionabili. Dal secolo XVIII in poi hanno finito per avere la supremazia le dichiarazioni dei diritti. Ma è noto che quelle platoniche dichiarazioni hanno ben scarso valore, quando da esse non si facciano derivare istituti concreti e diritti azionabili.

Non potevamo, dunque, accontentarci – in ordine a ciò che attiene alla persona umana, e ai valori di cui essa è portatrice – di generiche dichiarazioni, come quella che da opposte e pur discordanti parti vorrebbero i sostenitori del preambolo. Se questo, onorevole Lucifero, dovesse unicamente servire per invocare sulla nostra Costituzione il nome e la protezione della divinità, ben più solenne sarà il sostegno di questa, se sapremo indicare in termini positivi l’avviamento alla realizzazione della volontà divina, che associa l’avvento del suo regno all’assicurazione del pane quotidiano, al perdono, al bene che vince il male, secondo la divina e umana e sempre perenne poesia del Pater noster. (Applausi al centro).

TONELLO. Ma questo è Catechismo. (Rumori).

TUPINI. È vero, onorevole Tonello, questo è Catechismo, ma il Catechismo è sempre il libro insuperato e insuperabile della più alta sapienza dei secoli. (Applausi al centro e in altri settori).

Ecco perché noi preferiamo istituti concreti e diritti azionabili, come quelli previsti dal nostro progetto.

Cito, tra gli altri, gli articoli in cui si assicurano libertà fisica, libertà di corrispondenza e di circolazione, di riunione e di associazione, e, sovratutto quello in cui, sulle orme della gloriosa scuola penale italiana, si afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e l’altro ancora, per il quale sono addirittura vietate le pratiche sanitarie lesive della dignità umana,

Ma due norme vogliono essere qui sottolineate, anche se per motivi diversi. La prima è quella che riconosce espressamente il diritto e il dovere della resistenza alla oppressione; norma, che può essere variamente apprezzata, ma che è opportuna, che è cristiana, perché furono i primi martiri e poi i nostri pensatori ad affermare, attestare e a testimoniare colla vita il diritto e il dovere di resistenza all’ordine contrario alla legge naturale e alla legge di Dio.

Nessuna apprensione, però, nessun allarme per questa disposizione.

Il pericolo che il cittadino abusi di quest’arma, che la Costituzione gli pone nelle mani, in Italia non vi sarà; perché, in ultima istanza, sarà sempre il giudice a decidere se il singolo ha fatto buon uso del suo potere ed ogni ordinamento giuridico trova la sua messa a punto nell’opera costante della giurisprudenza.

L’altra norma, sulla quale mi preme richiamare l’attenzione dei colleghi dell’Assemblea, è quella che prevede l’abolizione della pena di morte, idea che è vanto del nostro pensiero e della nostra storia e che, per noi italiani, ha un nome immortale ed universale: Beccaria; idea che è cristiana, perché non l’uomo ha diritti sull’uomo; idea che l’Italia aveva dovuto accantonare e non già dimenticare per volontà di una tirannide ventennale, idea che chi vi parla sentì di dover affermare mediante apposito decreto legislativo come uno dei primi atti del primo Governo libero e democratico formatosi all’indomani della liberazione di Roma.

Esaminata così la posizione che il progetto fa alla persona umana nell’ambito che trascende la materia e i confini stessi dello Stato, consideriamola ora in se stessa e in quella delle minori comunità naturali. La Repubblica italiana prenderà cura della salute e dell’igiene del popolo, della sua educazione e della cura degli indigenti. Speriamo, onorevole Calamandrei, che la situazione economica italiana si liberi presto dalle stretture che oggi la comprimono; noi ci proiettiamo nel futuro e dobbiamo adoperarci perché le attuali condizioni di miseria siano superate e il futuro legislatore possa fare onore all’impegno che la nuova Costituzione si prepara ad assumere. Lasciamo, dunque, libero il passo ai non possidenti e proclamiamo in termini chiari e precisi la volontà di redimerli dal male fisico, che spesso è anche causa di quello morale e spirituale. Il nostro progetto li ha voluti sempre presenti, anche se non li nomina, e predispone gli ordinamenti degli istituti politici e giuridici in vista della loro redenzione. Per essi si delineano attività e funzioni capaci di condizionare il progresso della società umana; per essi la legge stabilisce degli obblighi e dei vincoli alla proprietà terriera e limita il latifondo. Non dunque per la porta di servizio, né per un gesto di degnazione, i proletari entrano nella Costituzione d’Italia. Ma la libertà e la dignità dell’uomo non saranno mai sicure se non si darà al lavoro la preminenza su ogni altro valore economico e se il lavoro non sarà il fondamento stesso della Repubblica. Né qui si deve intendere il solo lavoro manuale, alla stregua di una concezione piatta e materialistica della vita: l’articolo primo, infatti, si integra con l’articolo 31, in cui il lavoro è considerato come condizione dei diritti politici e in cui si precisa che ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività e una funzione che non è quella onorevole Calamandrei, del dolce far niente, ma di concorrere allo sviluppo materiale e spirituale della Società. È lavoratore, dunque, per una espressa norma statutaria, non solo l’operaio manuale, l’artigiano, ma anche il maestro, ma anche il sacerdote, ma anche il missionario: chiunque concorra alla potenza della tecnica e della cultura, della civiltà e della morale italiana, comprese anche, onorevole Lucifero, le cosiddette suore di clausura che, secondo la legge divina della compensazione, pregano e con le loro preghiere ristabiliscono l’equilibrio turbato dai nostri e dai vostri peccati. (Applausi al centro Interruzioni a destra Commenti a sinistra).

Una volta che la civiltà del lavoro fa il suo ingresso trionfale nella Costituzione è logico che la proprietà debba esservi da un lato riconosciuta e dall’altro limitata. Riconosciuta innanzitutto: perché se è titolo di nobiltà il lavoro, bisogna pur difendere l’onesto frutto della fatica del lavoratore…

TONELLO. E il disonesto?

TUPINI. Il disonesto sarà perseguito e condannato. Non è d’accordo con me, onorevole Tonello, che bisogna difendere l’onesto frutto della fatica del lavoratore? TONELLO. Sì.

TUPINI. E allora, perché mi contraddice? Pretende forse al monopolio socialista di questi principî? (Approvazioni al centro Rumori a sinistra).

TONELLO. Parlo del frutto del lavoro dogli altri…

PRESIDENTE. Onorevole Tonello, per favore, non interrompa.

TUPINI. …tutelandone il risparmio, nonché la piccola e media proprietà che rappresentano la proiezione e l’integrazione della stessa sua personalità. Ma oltre ciò non è lecito andare, onorevoli colleghi. Il latifondo, la proprietà che giace sterile, che non serve al bene comune, non può trovare diritto di cittadinanza in una cristiana Repubblica, ove il cittadino non vive isolato ed ha invece vincoli di solidarietà con i propri simili.

Così, per il bene comune, deve essere possibile e lecito espropriare e trasferire allo Stato, agli enti pubblici o a comunità di lavoratori e di utenti, determinate imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni monopolistiche di preminente interesse generale. Ciò, naturalmente, previo il giusto indennizzo. Secondo il nostro pensiero – che è il pensiero della scuola sociale cristiana – l’espropriazione è un atto necessario quando serve al bene della comunità, quando rappresenta un vantaggio economico superiore a quello prodotto dall’iniziativa privata; ma non può mai avvenire senza adeguato indennizzo della proprietà espropriata. (Approvazioni).

Sono altresì raccomandate e previste nel nostro progetto la cooperazione e la partecipazione dei lavoratori alla vita delle aziende. Questo punto di vista noi difenderemo, poiché esso rappresenta il riconoscimento e l’attuazione di una civiltà, di un ordinamento giuridico e sociale in cui il lavoratore è posto al centro e sottratto alla speculazione, alla miseria, alle cause insomma che feriscono la sua libertà e la sua dignità.

Quale pilastro naturale della società è concepita da noi anche la famiglia, e come tale riconosciuta e tutelata nella sua indissolubilità, nella sua saldezza e nella sua missione. La donna vi trova eguaglianza e parità di fronte all’uomo, che pur dovrà sempre essere – ricordatelo, onorevoli colleghi – il primus inter pares. La prole legittima vi è educata, nutrita, istruita, mentre i figli nati da colpa, senza loro colpa, dovranno anche essi avere un trattamento di giustizia, ma che non si risolva a detrimento dell’unità e dell’integrità della famiglia legittima. I termini del progetto a questo riguardo non si presentano abbastanza chiari e dovranno essere perciò, nel corso della discussione, approfonditi e chiariti.

E, accanto alla famiglia, il Comune, che è tanta parte della storia d’Italia, e fra il comune e lo Stato, intermediaria, la regione.

Bisogna dire che questo è un postulato tipicamente e prevalentemente nostro, anche se sostenuto con forza, con energia e con efficienza da esponenti di altre correnti politiche che siedono su questi banchi. Essa è tale, la regione, che garantisce un effettivo «self-government», senza frammentare lo Stato stesso.

Peraltro, la sua attività, anche quando è di competenza esclusiva, primaria, anche quando è di natura legislativa, resta infrenata nel rispetto dei limiti costituzionali con opportuni eventuali interventi della Corte Costituzionale.

Si è da taluno accennato, a questo riguardo, al pericolo di salti nel buio, di ritorni al feudalesimo ed al campanilismo, e, addirittura, di nuovi indugi che si frapporrebbero alla soluzione degli stessi gravi e cogenti problemi meridionali.

Il pessimismo, onorevoli colleghi, non ha mai creato e non crea nulla di concreto. E questa volta la prova del suo torto è nel fatto che il regionalismo, così come noi lo concepiamo e che ci auspichiamo venga realizzato nel nostro statuto, è qualche cosa di ben lontano e diverso dal federalismo, mentre è proprio dal Mezzogiorno che ci giungono istanze di maggiori autonomie.

Anche il problema del Mezzogiorno va impostato e risolto in termini di libertà. L’accentramento si paga sempre in moneta di libertà. Il decentramento è ragione e fonte di autonomia. La difficoltà di trovare il punto in cui l’autonomia si concilii con l’unità e la saldezza dello Stato mi pare di vederla felicemente superata in quelle norme del progetto, in cui si dispone che, sotto il controllo della Corte Costituzionale, la regione non può essere avulsa dalla compagine economico-sociale del tutto, in quelle in cui si vietano dazi d’importazione e di esportazione regionale e in quelle ancora in cui, riconoscendosi la potestà legislativa della regione, si stabilisce che quella attività non può essere mai discordante con la Costituzione e gli interessi dello Stato e delle altre regioni. La regione sarà così il tramite per avvicinare, non per allontanare, la periferia e il cittadino al centro; la regione non sarà considerata causa di discrasia e di lacerazione, ma costituirà il più grande baluardo contro la suggestione e l’avvento delle dittature. E se taluno pensasse che, allontanato il pericolo di una dittatura nazionale, si favorisce, con la regione, quello di dittature locali, l’articolo 118, prevedendo in loco un commissario del Governo e l’articolo 117 lo scioglimento della regione per gravi violazioni di legge, fugano ogni timore al riguardo.

Onorevoli colleghi, l’ordinamento della Repubblica, previsto dal progetto, è lo strumento di attuazione di principî che ho avuto l’onore di richiamare nel corso del mio intervento in questa discussione. Qui si passa dal piano teorico a quello concreto dell’articolazione della organizzazione costituzionale, delle garanzie e dei limiti di libertà.

Punto centrale e fulcro di tutto l’ordinamento è il Parlamento. Noi auspichiamo che il Parlamento possa, in avvenire, rappresentare per il nostro popolo come il palladio delle sue libertà e l’istituto senza del quale la democrazia è nome vano e artificioso. Anche il regime fascista parlava di democrazia, ma il Parlamento era ridotto a una smorfia ed a una contraffazione di se stesso. E così, ovunque il Parlamento non sia espressione di libero voto ed autore di libere determinazioni, la democrazia è la maschera e non il volto di un regime democratico. (Approvazioni).

A chi spetterà, onorevoli colleghi, il compito di rendere vitale ed efficace il nostro sistema parlamentare? Soprattutto, e direi esclusivamente – non si scandalizzi nessuno – ai partiti. Contro di essi si appuntano e si appunteranno molte critiche, in parte anche giustificate; ma è illusione o ipocrisia affermare o anche pensare che un regime democratico possa oggi funzionare senza partiti, senza i partiti politici. Non è il sistema dei partiti che va criticato, ma sono le colpe specifiche, sono le concezioni eterodosse dal punto di vista democratico di alcuni partiti che vanno combattute; altrimenti si combatte la stessa democrazia che non può funzionare al di fuori di essi e della loro realtà.

Il giorno in cui i partiti cessassero di esistere e al loro posto subentrasse il partito unico, sarebbe, signori, l’atto di morte della democrazia e sulle sue rovine insorgerebbe prepotente e tirannica una nuova dittatura.

Naturalmente altri sono i partiti ed altri i gruppi e i gruppetti che esprimono piuttosto aspirazioni e ambizioni di singoli che vaste esigenze di collettività. Noi vogliamo parlare delle formazioni politiche basate su una fede, unite da un comune sentimento, sollecitate da legittimi interessi, espressioni di idee più che di uomini singoli. In questo senso i partiti sono necessari e salutari alla democrazia. Quando manca un partito, ammoniva il Minghetti, si resta a discrezione dei gruppi, ed aggiungeva: non è possibile un Gabinetto forte, autorevole, parlamentare, senza indicazioni di voti, compagini di idee, base di partiti. Se le vecchie Camere italiane hanno avuto i loro torti, questi ebbero causa, in modo preminente, nell’assenza di grandi partiti, che fece decadere il Parlamento nel parlamentarismo. I partiti saranno invece di grande aiuto alla giovane democrazia italiana, a condizione però:

1°) che attuino sinceramente il metodo democratico, a cominciare dal loro interno, e che si propongano di attuarlo nel Paese;

2°) che non si ingeriscano indebitamente nella pubblica Amministrazione;

3°) che svolgano fra il popolo una vasta funzione educatrice di libertà, suscitatrice di civili competizioni politiche.

Noi crediamo che la democrazia potrà realizzarsi in Italia nella misura in cui potrà realizzarsi l’educazione popolare e potrà essere contenuta la demagogia, nemica irriducibile di ogni educazione. Ripetendo esattamente le parole di Mazzini, noi potremmo dire: l’educazione è la grande parola che racchiude tutta quanta la nostra dottrina.

Il progetto prevede, onorevoli colleghi, che il Parlamento sarà composto della Camera dei Deputati e della Camera dei Senatori. La Democrazia cristiana, come sapete, si è battuta e si batterà a favore del bicameralismo. Perché? Per motivi attinenti al perfezionamento tecnico dell’ordinamento statale e per profondi motivi politico-giuridici che si riassumono nell’alta opportunità politica di costituire saldi presidi alle libertà costituzionali.

Le accuse fatte alla seconda Camera non sono, a mio avviso, esatte e spesso scambiano l’istituto con qualche tipo storicamente determinato di Camera alta. Ma è facile dimostrare che la seconda Camera prende significati e funzioni diverse a seconda del suo modo di composizione e delle forze politico-sociali che essa rappresenta. Se vi sono, e vi sono stati, precedenti tipi di Senati rappresentativi di forze politico-sociali privilegiate, vi sono, negli ordinamenti contemporanei di alcuni Stati, delle seconde Camere che rappresentano invece forze popolari espresse attraverso il metodo elettivo e che integrano la rappresentatività dell’altro ramo del Parlamento.

Non dunque, onorevoli colleghi, per spirito «reazionario», come è stato detto da alcuni, noi abbiamo difeso e difendiamo il bicameralismo, ma proprio per l’opposta concezione di integrare e rendere più sicura la democrazia. Se reazione vuol dire antilibertà, noi, invece, sosteniamo la Camera dei Senatori come garanzia di libertà ed insieme elemento di progresso sociale.

Attraverso la elezione a base regionale che, secondo me, dovrà essere meglio approfondita in sede di discussione generale, essa potrà infatti radunare e rappresentare ceti e forze che non troverebbero altrimenti il loro riflesso nello Stato. La Camera dei Senatori contribuirà al perfezionamento tecnico della funzione legislativa ed al consolidamento del nuovo ordine repubblicano.

Un’altra obiezione è stata fatta: cioè che la seconda Camera sia la sopravvivenza di una tradizione monarchica incompatibile con la Repubblica. Io rispondo con le stesse parole con cui Duverger de Hauranne rispondeva alla medesima obiezione della Costituente francese del 1848: «Quanto a me, egli diceva, sono di avviso completamente opposto. Credo che bisogna parlare di tradizioni delle repubbliche ben più che delle monarchie. Ed ecco perché le Costituzioni, se non sbaglio, hanno per scopo quello di introdurre nelle diverse forme di Governo le qualità che loro mancano e di preservarle da vizi che potrebbero prendere. Quale è il vizio delle monarchie? «La routine» e l’immobilità. Qual è il vizio delle repubbliche? La mobilità e la precipitazione. Io concludo che se noi facessimo una Costituzione monarchica dovremmo premunirci contro la «routine» e l’immobilità; ma quando noi facciamo una Costituzione repubblicana è, soprattutto contro la precipitazione e la mobilità che noi dobbiamo metterci sempre in guardia». Sono parole ancora attuali, onorevoli colleghi, e sulle quali dobbiamo tutti meditare. Guai, io dico, se gli ordinamenti che stiamo per dare non dovessero dimostrarsi stabili e sicuri. Il popolo, abituato alla stabilità secolare del vecchio statuto, perderebbe la fiducia nel nuovo Stato che deve, invece, sorgere forte e al riparo da ogni insidia.

Onorevoli colleghi, ho l’impressione, per finire, che questo progetto costituisca, anche se imperfetto, una prova della capacità del nostro popolo ad elevarsi a più alte concezioni di vita, verso nuove e umane istituzioni giuridiche e sociali. Ho la convinzione che il mio partito abbia degnamente assolto finora al suo compito, a presidio dei valori eterni dell’uomo. La Democrazia Cristiana vuole essere la trincea avanzata ove si combattono le buone battaglie contro la disumanizzazione della vita e l’asservimento dell’uomo all’uomo. Difendendo la persona umana nelle sue aspirazioni secolari e nelle sue necessità vitali, sappiamo per ciò stesso di difendere la libertà, la democrazia e i valori eterni della civiltà cristiana.

L’Italia ha subito una disfatta fra le più grandi della sua storia; ha visto distrutte parte delle sue città, dei suoi comuni, delle sue navi, dei suoi cantieri, delle sue strade; tuttavia l’Italia dimostra di essere sempre viva e operante nel campo del pensiero, della civiltà e del diritto. Questo progetto, quando attraverso le nostre discussioni sarà stato completato nelle sue parti manchevoli, depurato delle sue imperfezioni, raffinato nella sua struttura, dovrà esserne la prova evidente.

L’applicazione della pena come mezzo di rieducazione, l’abolizione della pena di morte, la sollecitazione verso una comunità internazionale valida ed effettiva, la proclamazione della civiltà del lavoro, la libertà conciliata con l’autorità, auspice la legge che ne è il punto vitale d’incontro e di compenetrazione, il regionalismo temperato e ancorato alle esigenze dell’unità nazionale, il presidio parlamentare della democrazia, la indipendenza delle funzioni giudiziarie, garantita su basi di sicurezza economica della Magistratura e su una ben congegnata autonomia di poteri: ecco, onorevoli colleghi, in sintesi, i pilastri fondamentali di questo progetto, che trae gran parte della sua ispirazione dalle istanze sempre vive dell’umanesimo cristiano. Ma noi sentiamo che questa è anche la vera voce d’Italia, voce che di continuo si leva dalla tradizione del nostro popolo, e alla quale seguitano a fare eco le voci sorelle di tutte le nazioni ove, al di là delle lingue particolari, si parla il comune grande linguaggio del Cristianesimo. Quella voce è il filo antico e nuovo che ci collega al nucleo vitale della comunità civile, europea e mondiale. Rafforzare quel filo e annodarvi saldamente la nuova democrazia italiana, questo è il compito storico che l’Assemblea Costituente dovrà assolvere. (Vivissimi, prolungati applausi al centro e in altri settori Molte congratulazioni).

TONELLO. Richiamandomi al Regolamento, desidero osservare che i discorsi non dovrebbero essere letti.

PRESIDENTE. Onorevole Tonello, penso che lei sia ben sicuro che io, approssimativamente, conosco il Regolamento. Pertanto, se avessi avvertito l’esigenza di fare questa osservazione, l’avrei fatta. Ma io credo che nell’occasione di questa discussione speciale, nella quale ritengo ed auguro che non si dicano cose non troppo bene meditate, si possa anche largheggiare nell’interpretazione delle disposizioni regolamentari. (Applausi al centro).

È ora iscritto a parlare l’onorevole Della Seta. Ne ha facoltà.

DELLA SETA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, conforme alla topografia ideologica o alla ideologia topografica di questa Assemblea, dovrei cominciare col dichiarare che io parlo a nome del Gruppo parlamentare repubblicano.

Ma, nell’ora storica nella quale questa Assemblea si accinge ad espletare il compito per cui è stata espressamente convocata, nell’ora storica nella quale per la prima volta la Costituente italiana è chiamata a discutere una Costituzione repubblicana, mi si permetta di dire che la parola «gruppo» mal risponde alla solennità del momento. Preferisco dire che per la mia modesta parola il gruppo parla a nome non di un partito, ma di una scuola, di quella scuola repubblicana italiana la quale, attraverso una lotta secolare, col pensiero e con l’azione, affermò il principio della sovranità del popolo, della sovranità nazionale, di quella scuola che, con la voce di Giuseppe Mazzini, costantemente, ardentemente, lanciò il grido: «Costituente e patto nazionale».

Oggi quanto i Padri sognarono si è in parte realizzato.

Il primo momento è stato segnato dal referendum, cioè dall’esercitato diritto del popolo per dare a se stesso il proprio civile ordinamento; il secondo momento è stato segnato dalla prescelta forma repubblicana; il terzo momento, il più solenne, è questo nel quale noi ora siamo qui raccolti per discutere la Costituzione, per fissare i principî basilari del nuovo ordinamento repubblicano.

Parole di colore oscuro sono state pronunciate ieri in quest’aula. L’onorevole Lucifero si è doluto ieri di non avere potuto portare in questa discussione il contributo dei propri studi. Certo deve essere un appassionato cultore di archeologia. L’onorevole Lucifero ha detto che questa Costituzione ha un carattere provvisorio, interlocutorio; che questa Costituzione è l’ombra di un sogno, che la Nazione non la sente, che c’è un vuoto e su questo vuoto non c’è un ponte, ed ha aggiunto che l’ideale della Costituzione dovrebbe essere una Costituzione, sintesi – d’accordo in questo con l’onorevole Togliatti – di tutte le ideologie.

La Costituzione dovrebbe quindi essere da un lato un amalgama ibrido di tutte le tendenze politiche; e dall’altro, anche se repubblicana, una Costituzione solo in difesa della minoranza monarchica.

L’onorevole Calamandrei ieri ha anche tenuto a rilevare che, se in questa Costituzione ci sono dei difetti, è che questa Costituzione non è un epilogo, ma è un prologo, non segna il risultato di una rivoluzione, ma l’inizio di un lungo cammino che ancora è da percorrere. Ora, onorevole Calamandrei, quello che lei ha detto, in parte è vero; ma mi lasci rispondere all’onorevole Lucifero che se oggi siamo qui a discutere una Costituzione repubblicana, una tale Costituzione non è il risultato esclusivo di date contingenze, di contingenze che possono riassumersi nelle colpe di una monarchia complice del fascismo; ma per noi questa Costituzione è il risultato di tutto un processo storico, in piena rispondenza con la evoluzione della coscienza morale. Il problema che noi oggi poniamo, il patto che noi oggi discutiamo, non costituiscono un fatto semplicemente politico, economico o sociale; è un fatto anzitutto per noi di ordine morale. C’è nella Costituzione un titolo che parla dei poteri del Presidente. Orbene, questa Costituzione repubblicana sta a significare che noi riteniamo che alla sommità dello Stato non si può, non si deve più ormai ascendere per il diritto ereditario, feudale, di nascita, ma ci si deve ascendere per la dignità della mente coronata dalla virtù. Questo non si vuole intendere; e questo invece è il punto che bisogna mettere in particolare rilievo.

Ora, non rileverò quelli che sono i pregi di questa Costituzione. Non siamo qui per fare l’apologia o il panegirico del testo. Riconosciamo le sue innegabili benemerenze; e ampia lode va data ai membri delle Sottocommissioni.

Le libertà fondamentali sono riconosciute; la sovranità del popolo è affermata; consacrato il diritto di referendum e di petizione; la responsabilità dei pubblici poteri è sancita; le autonomie locali sono riconosciute; i nuovi rapporti economici e sociali, i diritti di gestione, le organizzazioni sindacali, la eventuale socializzazione di dati complessi industriali sono ammesse; la indipendenza della magistratura è stata riaffermata; la pena di morte è stata abolita e tante e tante altre norme e tanti e tanti altri istituti che innegabilmente imprimono all’attuale progetto il carattere di una Costituzione essenzialmente democratica.

Il merito principale di questa Costituzione è questo: in essa non si parla semplicemente di diritti, ma anche di doveri. In questa Costituzione troviamo la sintesi tra il principio individuale e il principio collettivo. In questa Costituzione, inspirata al sentimento della solidarietà sociale, è giustamente riconosciuta la preminenza del fine collettivo sul fine individuale, pur affermando in pieno il valore della personalità umana.

Ma io non posso soffermarmi su questo. Devo fare delle considerazioni di ordine generale. Non intendo fare ciò che qualche collega ha già fatto, cioè una sintesi di tutto il progetto, né tanto meno intendo soffermarmi su questo o su quel problema particolare; perché allora questa non sarebbe più una discussione generale. Io debbo attenermi alla norma che il nostro Presidente ci ha ricordato. Mi limiterò a valutare il progetto di Costituzione nelle sue linee generali, riferendomi ad un qualche articolo, ad una qualche norma solo per avvalorare il problema generale che è in discussione.

Sarò aridamente schematico; sarò scandalosamente breve.

Primo punto. Sono lieto che l’onorevole Calamandrei abbia cominciato il suo discorso proprio con una osservazione che, parecchi giorni or sono, in data 20 febbraio, feci in una intervista che fu pubblicata dalla Voce Repubblicana, col titolo: «Estetica della Costituzione».

Una Costituzione è una Costituzione. Non è questo che enuncio un giudizio tautologico. Esso significa che una Costituzione non è una legge qualsiasi, né tanto meno è un Codice. Una Costituzione è un documento storico, solenne, nel quale, con i diritti e con i doveri del cittadino, è disciplinato, nei principî basilari, tutto l’ordinamento dello Stato. Orbene, non è esagerato il pensare che in rispondenza con questa storicità, in rispondenza con questa solennità, una Costituzione debba avere uno stile, tanto più quando si voglia fare una distinzione fra una Costituzione che è semplicemente elargita, fra una Costituzione che è data dal potere già costituito – quali i famosi statuti del nostro Risorgimento – e una Costituzione che è dettata dal potere costituente, cioè dal popolo nel pieno esercizio della sua sovranità.

Una tale Costituzione deve, ripeto, deve avere uno stile; uno stile incisivo, lapidario; uno stile nel quale veramente, virilmente, si esprima il sentimento repubblicano di tutto un popolo, quel sentimento che non è semplice lealismo, è fede civile costante e profonda.

Vi potrei dire: leggete, ad esempio, la Costituzione repubblicana della Roma del 1849; preferisco dirvi: seguite l’esempio di Roma antica, di quella Roma che, in uno stile veramente lapidario, scolpì la sapienza delle sue leggi, ond’essa nei secoli è rimasta, e rimarrà, immortale.

Secondo. Più volte ho letto, nei resoconti delle sedute delle Commissioni, che una Costituzione ha anche un valore pedagogico. Giustissimo. Una Costituzione politica ha un valore pedagogico, in quanto addita una norma, in quanto segna un orientamento alla coscienza morale e civile del cittadino. Quindi, perché questa Costituzione possa possedere, veramente, questo valore pedagogico bisogna anzitutto che sia chiara. Chiara non solo nella dizione, onde essa sia facilmente accessibile anche alle comuni intelligenze, ma chiara anche nel senso che non contenga una qualche espressione equivoca, onde poi non dia luogo ad esercizi di ermeneutica legale e non si debba discutere se una norma legislativa sia o no incostituzionale.

Diamo un esempio, senza troppo addentrarci nei problemi particolari.

L’articolo 5 del progetto dice che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Giusto. Ma perché nel progetto non si è inserito quanto troviamo nella relazione dell’onorevole Ruini? Ordine interno ovvero ordine esterno? Bisogna ben chiarire se questa indipendenza, se questa sovranità concernano, semplicemente, l’ordine interno dello Stato e l’ordine interno della Chiesa ovvero concernano per ciascuno anche l’ordine esterno; il che porterebbe uno di questi poteri ad invadere illegittimamente la sfera dell’altro.

Bisogna precisare dunque che la Chiesa e lo Stato sono indipendenti, ciascuno, nel proprio ordine interno.

Altro esempio: all’articolo 28 è detto che i capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti dell’insegnamento.

Noi ben comprendiamo cosa con questo si è voluto dire. È sancita una giusta norma democratica cui non possiamo non consentire incondizionatamente; però l’espressione è equivoca. Sembra che gli incapaci e gli immeritevoli, se non privi di mezzi, abbiano il diritto di raggiungere i gradi più alti dell’insegnamento. Sarebbe più chiaro dire che solo i capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, ecc….

Terzo: una Costituzione è la espressione sintetica, non la espressione analitica del pensiero giuridico.

Più sobrio nelle sue norme è un articolo, minore è il numero degli articoli e la Costituzione avrà una maggiore efficacia esplicativa e persuasiva.

Il progetto pecca alquanto di prolissità. L’articolo 28, ad esempio, dice: «La scuola è aperta al popolo».

Ma è inutile dirlo; è pleonastico.

Basta dire, come poi è detto: «L’insegnamento inferiore, impartito per almeno otto anni, è obbligatorio e gratuito».

Occorre, per un qualche articolo o per taluni articoli, compiere quest’opera di raggruppamento, di sintesi; per conferire al testo una maggiore snellezza bisogna sfrondarlo del troppo e del vano.

Ma, in rapporto a questa esigenza di una maggiore sobrietà, dobbiamo soprattutto osservare che il progetto pecca, come già scrissi, di elefantiasi costituzionale. Si è voluto travasare nella Costituzione tutto il travasabile, quasi usurpando il campo dell’attività legislativa.

Si trovano, così, ad esempio, nel progetto, delle norme che riguardano il matrimonio e i figli naturali e la scuola privata e il diritto al riposo e le ferie retribuite: tutte norme che potranno essere diversamente apprezzate, ma che certo, anziché in una Costituzione, trovano il loro riconoscimento in un Codice civile e nella legislazione scolastica e sociale.

Voler conferire a certe norme il carattere della costituzionalità potrebbe anche nascondere l’insidia di voler fare della Costituzione un impedimento a previste riforme legislative che non si vogliono accettare.

Quinto: importante, in una Costituzione, è la sistematica; non è indifferente, in una Costituzione, la logica distribuzione delle parti; non è indifferente che una norma sia precedente o susseguente ad un’altra. Per esempio, nella parte prima i rapporti politici (titolo quarto) seguono i rapporti economici (titolo terzo). Io invertirei. Prima i politici, dopo gli economici. Non certo per disconoscere i valori di questi. Ma solo perché è attraverso un sano ordinamento politico che noi potremo attuare una vera democrazia del lavoro, una vera democrazia sociale.

Si è parlato molto, a proposito di sistematica, del famoso preambolo. L’onorevole Lucifero ed anche l’onorevole Tupini vogliono anzi un preambolo al preambolo, vogliono l’invocazione all’assistenza di Dio. Noi non abbiamo nulla in contrario a questo; noi comprendiamo tutta la grande importanza che, tra i problemi dello spirito, ha il problema religioso. Non poco della mia vita ho dedicato e dedico, filosoficamente parlando, allo studio del problema religioso. Ma non potremmo non domandarci: di quale Dio si deve parlare? Noi della scuola repubblicana abbiamo ereditato da Mazzini la formula «Dio e Popolo», non la formula panteistica «Dio è popolo». Il grande problema non è se Dio sia con noi, come tanti pazzi criminali affermarono, ma se noi siamo con Dio, cioè se sappiamo ascendere, individualmente e collettivamente, nella condotta individuale, nelle leggi e nelle istituzioni, a quel senso di spiritualità, a quell’anelito al bene, al giusto, all’onesto, senza di cui le repubbliche non si fondano, le repubbliche non si reggono. (Applausi). Noi respingiamo quel Dio che, pur consacrato in una Costituzione, pure untuosamente invocato, viene poi ateisticamente bestemmiato, facendolo complice necessario di ogni insania e di ogni delitto; facendolo talvolta anche sacrilego strumento di speculazione elettorale.

L’onorevole Lucifero vuole che nel preambolo ci sia una parola nuova: ma niente è nuovo sotto il sole; neppure il sentir dire che l’Italia oggi non ha bisogno di una nuova Costituzione, perché non la sente, e perché tutto si potrebbe ridurre a qualche ritocco dello Statuto albertino. Io comprendo il ritocco nel ritratto; comprendo, senza approvarla, l’arte del ritocco sul volto non bello di certe signore; ma, in fatto di Costituzione certi ritocchi non si ammettono, non si possono ammettere. Bisogna, gradualmente, rinnovare, con ben altri orientamenti, dalle fondamenta.

L’onorevole Lucifero, monarchico, parla dei diritti inalienabili e imperscrittibili del popolo; e quale diritto più inalienabile e più imperscrittibile di quello per cui un popolo non vuole abdicare la propria sovranità nelle mani di un monarca, cioè del privilegio ereditario dinastico?

L’onorevole Calamandrei vorrebbe che nel preambolo fossero inserite non delle vere e proprie norme giuridiche, ma delle norme etiche, che rappresentino un indirizzo, un orientamento, proiettate verso il futuro. Ora, io mi permetto di osservare che la Costituzione è quella che è; la Costituzione è una Costituzione; la Costituzione – la parola lo dice – è uno status. Le norme, anche se etiche, non possono essere norme vaghe, proiettate come un ideale verso il futuro. Una Costituzione, se non vuole ridursi ad un catechismo morale, se non vuole peccare di antistoricità, deve contenere norme precise, rispondenti, in una data ora, al reale stato delle coscienze.

Nel preambolo – se un preambolo ci deve essere – io scolpirei quei principî che scolpiscono, per così dire, lo spirito di tutta la Costituzione; nonché quei principii che oggi, non in quanto riconosciuti dallo Stato, ma in quanto, pur se conquista morale di tutto un processo storico, sono di diritto naturale, fanno parte del patrimonio spirituale dell’uomo e del cittadino e costituiscono, nell’ordinamento dello Stato, l’essenza della vera democrazia.

E quale principio più democratico, quale quello che riconosce la eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, che non disconosce, in rapporto a date funzioni, date prerogative, ma nega ogni privilegio, soprattutto il privilegio dinastico, il privilegio razziale, il privilegio teologale?

Tornando alla sistematica, per continuare negli esempi, io riporterei l’articolo 27, che riconosce la libertà dell’insegnamento lì dove si parla delle pubbliche libertà. Raggrupperei tutti gli articoli che concernono il referendum. Il conferimento della grazia e della commutazione di pena da parte del Capo dello Stato, come l’amnistia e l’indulto da parte dell’Assemblea, tutto questo lo riporterei là dove, nella parte seconda, si parla della magistratura. Al modo stesso che, come parte ultima della Costituzione, raggrupperei tutte quelle norme che hanno aderenza con l’ordinamento internazionale.

Ma c’è un’altra esigenza, un’esigenza logica, che non si limita alla razionale distribuzione delle parti, ma bensì esige quella logicità interiore che non permette in una Costituzione la contradittorietà. Comprendo una Costituzione retrograda; non comprendo una Costituzione contradittoria. La contraddittorietà, disautorandole, toglie valore morale alle norme stesse. La contraddittorietà, nella legge, specie in una Carta costituzionale, si può esplicare, non legittimare.

Ci si consentano taluni esempi. Non per entrare nel merito, ma per avvalorare il principio.

Noi troviamo, nella Costituzione, all’articolo 7, solennemente sancito il principio della eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, senza distinzione di opinioni religiose. E troviamo, all’articolo 48, non meno esplicitamente, sancita la eguaglianza dei cittadini nell’accedere ai pubblici uffici.

Molto giuste, giustissime, ad esempio, tutte quelle disposizioni che, nella Costituzione, sottraggono la donna a quelle condizioni di inferiorità morale, giuridica, politica ed economica nelle quali è vissuta da secoli.

Ma, sia lecito il domandare, come armonizzare il suddetto conclamato principio dell’eguaglianza sancito nella Costituzione con quanto è stabilito nei Patti Lateranensi inseriti nella Costituzione e con quanto si trova in altri Codici, in altre leggi, come logica esplicazione dei Patti stessi?

Primo esempio: l’articolo 5 del Concordato dice che un ecclesiastico, se irretito da censura, se apostata e quindi non più appartenente alla Chiesa e quindi tornato ad essere un cittadino italiano qualsiasi, non può concorrere a pubblici impieghi nei quali sia messo a contatto col pubblico, non può concorrere ad una cattedra, non può aspirare al pubblico insegnamento, anche se fosse un’arca di scienza, ponendolo così al bando dal mondo civile, condannandolo alla miseria, infliggendogli la pena della interdizione perpetua dai pubblici uffici, quella pena che il Codice penale contempla come appendice alla pena dell’ergastolo, per i più gravi reati infamanti.

Una tale disposizione, in una tale Costituzione che si vuol chiamare umana e cristiana, non solo contradice col principio dell’eguaglianza, ma è in contradizione anche con l’articolo 27 che nella Costituzione stessa sancisce la libertà dell’insegnamento.

Secondo esempio: l’articolo 36 del Concordato. Dice questo articolo che anche nella scuola pubblica tutto l’insegnamento – non solo l’insegnamento religioso – deve avere per fondamento e per coronamento la dottrina cristiana secondo la prassi cattolica.

Quindi delle due, l’una: il cittadino non cattolico, o dovrà rinunziare, pure avendone le attitudini, a concorrere al pubblico impiego come insegnante, oppure dovrà essere reticente, dovrà insegnare contro la sua coscienza; e parimenti un alunno non cattolico o dovrà rinunziare a frequentare la scuola pubblica, oppure contro coscienza dovrà subire un insegnamento conforme alla prassi cattolica. Anche questo non è eguaglianza.

V’è di più. Vi sono alcune disposizioni nel Codice penale che sono il risultato logico dei Patti Lateranensi, del carattere della confessionalità dello Stato. Tali disposizioni vogliono punire, e giustamente, il delitto di offesa al sentimento religioso. Giusto, perché chi offende il sentimento religioso è un cittadino che mostra di non essere un cittadino, in quanto manca degli elementi primi della educazione civile.

Ma che cosa si deve punire? Il fatto immorale per se stesso dell’offesa al sentimento religioso, ovvero deve esservi nel Codice penale una discriminazione confessionale per cui, se il maleducato offende il sentimento religioso di un appartenente alla religione della maggioranza, la pena sarà tanto, cioè più grave, mentre se offende un cittadino appartenente alla minoranza religiosa, allora la pena sarà minore?

Voglio lusingarmi che molti cattolici, molti demo-cristiani sentano la incongruenza, sentano la non moralità, la non giuridicità di tali disposizioni. Ciò che si deve punire è il fatto immorale dell’offesa per se stessa, non può essere un criterio di giudizio il contenuto teologale della religione dell’offeso.

Nelle leggi, in tutte le leggi, e specialmente nel Codice penale, non vi possono, non vi debbono essere discriminazioni di carattere confessionale. Se queste discriminazioni vi sono, non parliamo più di eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.

È proprio un democristiano, l’onorevole Cappi, che, prendendo la parola sulle comunicazioni del Governo e rivolgendosi all’onorevole Togliatti, ebbe giorni or sono, a dire: quando ci troviamo dinanzi ai grandi problemi dello spirito, quando è in giuoco il grande problema della giustizia, allora queste distinzioni, in nome della democrazia, fra maggioranza e minoranza non contano, non valgono, perché altri sono i criteri, cioè i criteri morali con i quali tali problemi debbono essere posti e risoluti.

Quindi, concludo: a proposito di questa logicità interiore che deve animare una Costituzione, vi sono ancora in questo progetto delle incongruenze, delle illogicità, per cui, se si vuole realmente affermato il principio dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, bisogna togliere alcune disposizioni che si trovano nel Concordato e nel Codice penale, tuttora vigente.

Un’ultima osservazione: una Costituzione non deve essere reticente, deve dire esplicitamente quello che afferma.

Noi potremmo distinguere le Costituzioni pavide dalle Costituzioni coraggiose. Parlo come se fossi un cattolico fervente. Non qui è questione di problemi religiosi. All’articolo 5 del progetto si dice che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono disciplinati dai Patti Lateranensi. Io conosco tanti, anche fra gli onorevoli colleghi, ed anche fra gli uomini di legge, che sono venuti a dirmi: hai letto i Patti Lateranensi? Io non li conosco.

Orbene, mettete questa Costituzione nelle mani di un cittadino qualsiasi, il quale ha pure il dovere di conoscere la legge fondamentale dello Stato. Cosa potrà apprendere e comprendere nel leggere che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono disciplinati dai Patti Lateranensi? Nulla, assolutamente nulla.

Bisogna distinguere (parlo, ripeto, come se fossi un convinto e fervente cattolico) bisogna distinguere, in questi Patti, quelle norme che disciplinano dati rapporti particolari, da quelle, più generali, che scolpiscono, per così dire, la stessa fisionomia dello Stato, quelle che ci dicono se lo Stato ha o non ha una sua religione, se è o non è confessionale. Si comprende che, in una Costituzione, la norma, cioè il principio basilare, si riferisca alla legge posteriore che, nei particolari, avrà il compito di esplicarla e di disciplinarla; non si comprende che in una Costituzione, un principio basilare, taciuto, si riporti, per la conoscenza, ad una legge, ad una convenzione anteriore, di cui si ignori, all’istante, il contenuto.

Se dunque si vuole che il nuovo Stato abbia il carattere confessionale, se si vuole che esso abbia una sua propria religione, se si vuole che questa religione sia la cattolica apostolica e romana, ebbene, si abbia il coraggio di consacrare tutto questo in un esplicito articolo della Costituzione.

Una Costituzione reticente non è una Costituzione convincente.

Bisogna che il cittadino, senza riferimenti sibillini, possa conoscere immediatamente i principî basilari cui s’informa la costituzione.

Bisogna che una costituzione, sin dal suo primo articolo, riveli, lealmente, quale sia il suo reale volto, la sua propria fisionomia.

Bisogna che una Costituzione – come espressione della educazione civile e politica di tutto un popolo – possa esporsi al libero giudizio delle nazioni.

Lo spirito, purtroppo, che pervade questa Costituzione – lo avete udito già tante volte e lo udrete ancora – è, per quanto si cerchi di negarlo, lo spirito del compromesso. Nessuna meraviglia: esso è la risultante logica, non dirò del modo col quale è stata composta la Commissione, ma della situazione politica che ha portato a tale composizione.

Il compromesso è nei partiti, è nel Governo, è nella Commissione, è nella Costituzione. Si è voluto tra le due forze divergenti, evitare quel contrasto che avrebbe portato ineluttabilmente a due soluzioni, a due progetti: uno di maggioranza ed uno di minoranza. Ma il contrasto è rimasto indiscutibile ed irriducibile.

Si ha in questo progetto una Costituzione bifronte; è progressiva e retriva. Da una parte, per la costituzione repubblicana, per le fondamentali libertà, per le autonomie regionali, per le norme economico-sociali essa va oltre il liberalismo, va verso la democrazia; dall’altra, per lo Stato confessionale, pel ritorno allo Statuto albertino, cioè, su questo punto, allo Stato fascista (Rumori al centro); dall’altro, nelle menomazioni morali e giuridiche delle minoranze religiose, essa assume posizioni anacronistiche ormai superate dalla coscienza moderna, perché più non rispondenti alla ragione storica dei nuovi tempi.

Sarà superato questo dualismo? Auguriamocelo. Noi non dubitiamo che, attraverso un’ampia, libera e degna discussione, molte dissonanze potranno essere eliminate. Ma, qualunque sia per essere il risultato, noi della scuola repubblicana rimaniamo imperturbabilmente sereni. Noi ci affidiamo alla legge morale che non può mai essere violata impunemente; noi ci affidiamo alla legge della storia, il cui cammino, senza tragiche esperienze, non può mai essere ripercorso a ritroso.

Sul terreno morale noi educheremo i cittadini a rispettare la Costituzione, che è pur stata sempre una grande conquista della libertà, a prezzo di tante lagrime e di tanto sangue; ma li educheremo anche al senso della storia che porterà i futuri cittadini, i futuri legislatori, a ricorrere a quel diritto di revisione che sta a ricordare che – ferma restando la forma repubblicana – le stesse istituzioni democratiche sono suscettibili, nel tempo, di essere corrette e perfezionate. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Lucifero per fatto personale. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Ho chiesto di parlare per rispondere ad una domanda rivoltami dall’onorevole Della Seta al principio del suo discorso. L’onorevole Della Seta ha detto, circa il mio discorso di ieri, alcune cose alle quali non rispondo perché non le ho dette. C’è il resoconto stenografico a sua disposizione, come di qualunque altro, per poterlo constatare.

L’onorevole Della Seta mi ha domandato a quale Dio io mi riferivo nel mio preambolo. Rispondo all’onorevole Della Seta che quando si parla di Dio, ognuno di noi si riferisce a quel Dio nel quale crede. Per me, Dio è uno solo. Ma vi è un Dio che vive anche in coloro che in Dio non credono, che vive attraverso gli impulsi e i richiami della loro coscienza, cioè quel Dio che è la parte migliore dell’uomo; anche a quel Dio io mi riferivo. (Commenti).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mastrojanni. Ne ha facoltà.

MASTROJANNI. Onorevoli colleghi, ritenevo, in vero che a me spettasse di parlare domani. L’assenza di alcuni colleghi mi impone, invece, di prendere la parola innanzi tempo. Vi chiedo quindi venia preventivamente se, mancandomi le cartelle indicatrici dell’ordine del discorso, seguirò involontariamente un ordine non ortodossamente predisposto. Le critiche e le osservazioni che mi propongo di svolgere al progetto di Costituzione saranno serene ed obiettive e spero che non vorranno essere considerate come l’opera nefasta che la mitologia attribuisce a Saturno. Dico questo perché, avendo fatto parte della prima Sottocommissione per il progetto di Costituzione, mi devo ritenere in qualche modo coautore della Costituzione stessa. Ma se gli onorevoli colleghi avranno seguito i resoconti dei lavori della Sottocommissione, attraverso il resoconto a stampa che tempestivamente è stato distribuito, dovranno darmi atto che il mio dissenso non è di oggi, ma è stato contestuale alla discussione e all’approvazione dei diversi articoli.

Io non dirò che la Costituzione sia da respingersi, ma dirò anzi che essa è stata profondamente meditata ed elaborata, ed anzi fin troppo meditata, se essa ci viene presentata, nella complessità spesso eufemistica delle sue formule, le quali sono sapientemente congegnate ed organicamente distribuite, talché in esse io vedo uno stile coerente, al contrario di quanto ieri l’onorevole Calamandrei ha rilevato in ordine allo stile stesso.

Mi riferisco logicamente non allo stile soggettivo, ma allo stile obiettivo, quello che è insito cioè, secondo la definizione di Buffon, nella cosa stessa, e che rileva, in questo progetto una sapiente organica struttura, coerente dal suo esordio, contenuto nelle disposizioni generali, fino al suo epilogo. Si nota, infatti, attraverso tutto lo svolgimento, una elaborazione logica, rispondente ai principî informatori della stessa Costituzione, nella quale è possibile individuare una caratteristica particolare che non sfugge al controllo di un esame approfondito. Se apparentemente il progetta rappresenta l’ideale delle Costituzioni, in quanto sembra, ma solo apparentemente, che i sacri, inalienabili e imprescrittibili diritti dell’uomo siano stati esaltati fino all’esasperazione, sostanzialmente – come mi propongo di dimostrarvi – le incrinature, le vulnerazioni proprio dei diritti sacri della persona umana sono di sostanziale contenuto.

Onorevoli colleghi. La prima domanda che logicamente ed elementarmente vien fatto di rivolgere a se stessi, allorché si esamina l’organico congegno della Costituzione, è quella che si riferisce al miracolo raggiunto ed esaurito in pochi mesi, durante i quali le antitesi più inconciliabili ed i contrasti ideologici e programmatici dei diversi partiti, hanno trovato soluzioni apparentemente soddisfacenti per tutti, talché sembra impossibile che si sia potuto, attraverso i compromessi, storicamente affermare il presente e politicamente impegnare l’avvenire.

Se questa realtà storica è evidente, se queste antitesi inconciliabili esistono e permangono, se i diversi partiti che hanno concorso alla formazione di questa Costituzione devono prossimamente render conto, ai propri elettori, delle conquiste consacrate per il presente e di quelle proiettate nel futuro, io mi domando come potranno questi partiti di massa, egualmente servirsi delle stesse formule consacrate nella Costituzione, per potere soddisfare le opposte ideologie che costituiscono il fondamento della fortuna politica dei diversi partiti di massa. La ragione deve esserci: i colleghi che mi hanno preceduto, hanno dimostrato ed hanno esaltato questo spirito conciliativo, ed anzi da questo spirito conciliativo, consacrato nelle formule della Costituzione, hanno tratto auspicî per la possibilità di una pacifica collaborazione nell’avvenire.

Io penso invece che non a compromessi debba attribuirsi questo miracolismo conciliativo, ma debba invece ritrovarsi nella perspicacia e nella speculazione filosofica e politica dei diversi esponenti dei partiti che hanno concorso alla formazione del progetto di Costituzione. Se le stesse formule consentono ai partiti di massa di esaudire egualmente i loro programmi e di soddisfare le loro ideologie, ciò deve dipendere dai metodi diversi, dei quali nella Costituzione non vi ha traccia, ma che egualmente consentono di pervenire ai rispettivi obbiettivi. Ed è qui il punto basilare, ma non è qui il segreto del successo; al contrario, è nella reticenza dei diversi coautori della Costituzione, i quali hanno avuto per fermo il risultato finale, l’epilogo conciliativo delle tendenze, ma non si sono curati di domandarsi, vicendevolmente, attraverso quali metodi e quali sistemi hanno o avevano, intenzione di perseguire le stesse finalità.

Onorevoli colleghi, io voglio sommariamente esaminare le caratteristiche di questa Costituzione: altri, dopo di noi, interverranno per intrattenersi più profondamente in ordine ad ogni istituto, per rilevarne i difetti ed evitare le incongruenze, per proporre emendamenti, per far sì, insomma, che da questo lavoro grezzo possa uscirne qualche cosa di organico e di completo, nell’interesse di tutti o di alcuni partiti; ma è ovvio che per poter ritrarre dalla Costituzione quelli che sono i caratteri somatici, le caratteristiche salienti e decisive, io debba soffermarmi brevissimamente sui diversi istituti, dai quali ritrarrò esclusivamente le parti essenziali che dimostreranno e la organicità della Costituzione, e la finalità particolaristica che è in essa impressa in modo indelebile ed in modo perfettamente identificabile nello spirito informatore di tutta la Costituzione.

I partiti, però, non hanno tenuto conto – e questo è un errore gravissimo di ordine storico e di sensibilità psicologica e politica, non hanno tenuto conto, dico, che la Costituzione è carta fondamentale che deve garantire, non in situazioni contingenti, ma attraverso il tempo (collaudatore perfetto della bontà dei principî espressi) – e deve rappresentare in ogni tempo, la garanzia per tutti i partiti, per tutte le tendenze, per tutte le ideologie e programmi politici, deve garantire quelli che sono i diritti della libertà essenziali di tutti e specie quelli delle minoranze.

La Commissione non ha tenuto conto che l’equilibrio e lo schieramento dei partiti politici non è statico, ma mutevole e che i mutamenti delle organizzazioni politiche, subiscono fenomeni imprevisti ed imprevedibili, talché quella che oggi sembra la corrente predominante e prevalente, domani potrebbe essere una minoranza e, al contrario, quelli che oggi sembra, od è, una sparuta minoranza può, attraverso le incontrastate vie della libertà democratica, affermare e propagandare i suoi principî, estenderli in ogni settore, sicché può essa divenire maggioranza prevalente e la maggioranza di oggi divenire minoranza. Se ciò è vero, onorevoli colleghi, perché imprimere ad una Costituzione i crismi e le caratteristiche fondamentali ed inscindibili di un determinato orientamento politico, attraverso forme eufemistiche ed apparentemente conciliabili, che possono domani non rispondere all’orientamento politico prevalente ed alla coscienza collettiva del popolo italiano?

Le Costituzioni servono per riconsacrare e riaffermare nel tempo e per l’infinito, quelle che sono le prerogative fondamentali della personalità umana, le quali, preesistendo, con l’uomo, ad ogni forma statuale, costituiscono, nella loro origine, gli attributi che sono inalienabili, imprescrittibili, sacri ed inviolabili e che nessun consociato ha il diritto di incrinare, per imporre un determinato orientamento politico.

Questi sono i principî sui quali non è possibile discutere né oggi né mai, ed è attraverso la inviolabilità di questi principî, che dovrebbe imperniarsi l’orientamento della Carta costituzionale, ma con schemi rigidi e non flessibili, perché non sia consentito di fare esperimenti radicali sui diritti e sulle libertà essenziali della persona umana.

Gli esperimenti attuabili attraverso l’evoluzione lenta e naturale degli uomini e delle cose e quando la coscienza collettiva è matura, per potere affrontare e risolvere determinate questioni sociali, devono sempre essere subordinati ai diritti essenziali ed alle libertà fondamentali della persona umana.

Onorevoli colleghi, passando alle caratteristiche della Carta costituzionale, io penso che noi le troviamo condensate in modo inequivoco e preciso nelle disposizioni generali talché, se noi attentamente esaminiamo queste disposizioni generali, ci accorgiamo che il resto della Costituzione è strettamente, intimamente, inscindibilmente connesso con quanto, in modo solenne e categorico, è stato espresso in esse disposizioni generali. La interpretazione della Carta costituzionale, la quale consentirebbe una critica larga e severa anche dal punto di vista etico e da quello giuridico e costituzionale, trova un limite, una strettoia, una rete insuperabile nelle affermazioni limitatrici che sono consacrate nella parte generale della Costituzione.

Infatti: l’articolo primo parla della Repubblica italiana, che «ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo articolo primo rappresenta la soddisfazione parziale di una proposta specificamente espressa dal partito comunista.

L’onorevole Togliatti propose, che venisse definita l’Italia come una Repubblica democratica di lavoratori; io stesso in sede di discussione davanti la prima Sottocommissione feci garbatamente rilevare che la Repubblica rappresenta lo Stato e la Nazione, rappresenta tutti i suoi consociati, rappresenta le creature di Dio, fatte a sua immagine e somiglianza, le quali, per lo stesso fatto naturale di essere stati immessi nella società umana, hanno diritto di asilo e di rispetto da parte di tutti i consociati.

Definire una Repubblica, definire uno Stato, attraverso una caratteristica, che rappresenta, sì, la più nobile delle manifestazioni della vita umana, il lavoro, ma escludere coloro che non possono essere identificati in questa nobilissima categoria (che noi esaltiamo e nella quale noi riconosciamo gli attributi più elevati dell’umanità); definire una Repubblica, attraverso la circoscritta denominazione dei lavoratori, sembrava a noi, così come sembra, escludere dal consorzio umano coloro che, per ipotesi, non avessero la possibilità di essere annoverati fra i lavoratori.

Si desistette da questa caratteristica particolaristica, ma, scendendo nella subordinata, si volle affermare il principio in modo generico nell’articolo 1, ma in modo preciso e ben definito nell’articolo 31; talché, quanto noi avevamo osservato come non opportuno nell’articolo 1, trova la sua sede nell’articolo 31, il quale recita:

«Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività con una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta.

L’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici».

Onorevoli colleghi, come vedete, se è vero che l’Italia è definita Repubblica democratica, è innegabile che in essa hanno diritto di asilo solamente coloro che sono lavoratori, ed essendo lavoratori hanno l’obbligo dell’adempimento di determinati doveri, per potere partecipare alla gestione della cosa pubblica.

Ed allora, o signori, torto aveva Aristotele che definì l’uomo animale politico; torto quando egli pensò che l’uomo, per sua stessa natura politico, avesse diritto di partecipare nell’umano consorzio e nell’umana politica società, se noi ci arroghiamo il diritto di escludere dal consorzio umano il consociato, che per sua stessa natura, individuo politico non è identificato come lavoratore.

È vero che la formula di Stalin è: «Chi non lavora non ha diritto di mangiare», formula che, sotto un certo aspetto, si attribuiva anche a San Paolo, il quale, peraltro, pur esaltando il lavoro, affermava il principio, per cui omnis auctoritas omnis potestas a Deo, quasi per significare che l’autorità, qualunque ne sia l’investitura trova fondamento nella divinità.

Di conseguenza: anche se questa autorità personifichi una dittatura. Se il concetto di lavoro è connesso con quello di dittatura, perché con la dittatura sola può il lavoro realizzare i suoi diritti economici e morali, noi dissentiamo e decisamente da queste formulazioni particolaristiche, le quali incrinano e vulnerano quelli che sono i diritti essenziali, sacri, inalienabili, imprescrittibili, della persona umana. Contro questi diritti e libertà consacrati solennemente e che l’uomo arroga a sé, indipendentemente dal riconoscimento che altri uomini possano farne, non è consentito ad alcuno di porre limitazioni; noi vediamo in limitazioni siffatte il primo ed il più sacrilego attentato alle libertà della persona umana. Ma non basta, onorevoli colleghi; le libertà umane sono state concepite, in questo progetto di Costituzione, attraverso teoriche filosofiche, assai seducenti da un punto di vista scientifico ed estetico; ma i ragionamenti filosofici posti a base dell’efficienza della personalità umana noi, da questo settore, con naturale diffidenza, lo confesso, li vediamo rappresentati ed esasperati, perché tali libertà sono in funzione esclusiva del perseguimento di finalità sociali ed economiche, che non potrebbero essere realizzate se non attraverso questa particolaristica concezione della libertà umana. Spiego: abbiamo detto che l’uomo porta in sé, inscindibilmente, connesse, le caratteristiche della sua personalità, gli attributi dei suoi diritti fin dalla nascita, ipso iure, anzi: ipsa natura; ma si è detto che l’uomo da sé non può perfezionare ed integrare la sua personalità, se non attraverso le comunità naturali e attraverso le formazioni sociali, talché, la stessa Costituzione, in un articolo, mette sullo stesso piede di uguaglianza e i diritti dell’uomo e i diritti delle comunità, e i diritti delle fondazioni sociali, nelle quali, l’uomo deve necessariamente essere inserito perché possa perfezionare ed integrare la sua personalità.

La teorica filosofica è seducente, ma, considerata da un punto di vista squisitamente politico, non vi ha chi non veda il pericolo di questa concezione, la quale dà la sensazione di un super-riconoscimento della personalità umana ed anzi dà l’impressione di un volontario intervento dello Stato per perfezionare questa personalità umana. Ma quando noi, in una Costituzione, facciamo siffatta affermazione, quando noi, con un imperativo categorico, mettendo sullo stesso piede di uguaglianza l’uomo e le comunità naturali e le formazioni sociali, contemporaneamente eccitiamo lo Stato perché provveda alla efficienza di questi organismi, noi abbiamo già affermato un principio per il quale lo Stato diventa non lo strumento dell’uomo, ma diventa il particolaristico Stato totalitario, invadente e prepotente, che si inserisce nella vita dell’uomo, che inserisce l’uomo in determinati organismi, e che tutela questi organismi. Per tutelarli deve limitare le libertà umane! È chiaro pertanto che in piena legalità costituzionale si possa scendere in regime totalitario, cioè in quel regime deletario e nefasto, di cui le conseguenze non vi è alcuno di noi che oggi non senta e non veda per le gigantesche proporzioni delle sciagure di cui è stato macabro dispensatore. Noi dissentiamo dalle concezioni liberalistiche, così come sono state congegnate, per le ragioni che sommariamente vi ho espresso; noi dissentiamo da questa organizzazione capillare, che si insinua in tutti i settori della vita umana e si inserisce persino nella famiglia, di cui la concezione non risponde alle nostre ideologie ed alle nostre convinzioni etico-giuridiche.

Un duplice orientamento si appalesa: lo Stato si preoccupa eccessivamente della famiglia; lo Stato si sostituisce ai genitori. La Costituzione definisce la famiglia in senso che per noi è ambiguo. Identifica la famiglia in «società naturale», e quindi la considera una situazione di fatto e non di diritto, talché – e conferma questo concetto successivamente – allorché parla dei figli naturali e dei figli legittimi, accomuna gli uni e gli altri; e neppure tiene conto dei figli adulterini e incestuosi, e questo ibrido consesso di gente che deriva da diverse fonti, anche peccaminose e – dal punto di vista biologico – anche dannose, dovrebbe poter convivere sotto lo stesso tetto. Se distinzione non si è voluta fare in ordine alla diversa origine dei diversi figli, noi abbiamo ragione di ritenere che la concezione della famiglia, esclusivamente come società naturale, non risponda alla coscienza collettiva del popolo italiano, e abbiamo ragione di ritenere altresì che, avendosi riguardo alla spontanea unione societaria dell’uomo e della donna, senza preventivo crisma legale o religioso, sia da prevedere l’incapacità dei nuovi nuclei naturali ad esercitare la loro missione nella vita, e pertanto provvede lo Stato col suo intervento a colmare le lacune. Non solo, ma la incapacità morale od economica dei genitori consente allo Stato di sostituirsi ai genitori; non solo, lo Stato interviene per la protezione dell’infanzia e della maternità.

Ciò altamente onora lo Stato e siamo tutti perfettamente d’accordo; ma quando lo Stato, oltre alla protezione alla maternità e all’infanzia, s’ingerisce anche nell’educazione e nella protezione della gioventù, attraverso gli organismi che lo Stato a tal uopo crea o favorisce, esorbita dalle sue funzioni, per modellare sulle sue concezioni politiche particolaristiche la gioventù che a tale dominio ha diritto di non essere assoggettata.

Ma che cosa significa tutto ciò in una Carta costituzionale? Perché si è voluto in modo inequivoco, in modo categorico, impegnare lo Stato a creare persino gli organismi dove la gioventù trova la sua protezione?

Onorevoli colleghi, noi siamo preoccupati da queste affermazioni le quali, ripeto, possono essere determinate da fini nobilissimi, da un concetto etico della vita, da una religiosità e da una spiritualità che può anche commuovere, ma non dimentichiamo che noi non scriviamo un libro di filosofia o di morale, scriviamo la Costituzione, la quale impegna il legislatore futuro. Il legislatore futuro deve uniformarsi agli imperativi categorici della Costituzione e gli imperativi categorici rappresentano la legge fondamentale alla quale deve essere orientata tutta la futura legislazione e se, per ipotesi, onorevoli colleghi, domani un partito politico prevalente, che ha determinati orientamenti, determinati programmi filosofici, materialistici, economici o idealistici, intenderà di perseguire quelle finalità che la Costituzione gli consente, ed attua praticamente quanto la Costituzione afferma, noi potremmo trovarci di fronte ad uno Stato totalitario ed invadente, che vigila l’essere umano dalla sua nascita, vigila la famiglia per stabilire se adempie e soddisfa quelle esigenze sociali, economiche e morali che impone in coerenza a quegli orientamenti politici prevalenti. La stessa persona poi lo Stato controlla nella sua ascesa e nella sua formazione, la inserisce nelle comunità naturali, e poi nelle formazioni sociali che lo Stato protegge e sorveglia, e di poi gli appresta i mezzi materiali per formare la famiglia. La vicenda si ripete, di modo che questo essere vivente non ha più gli attributi della libertà, non sente le responsabilità del proprio io, non assurge alla dignità della sua persona, non sente il pungolo del bisogno, non si adopera per superare gli ostacoli, ma si adagia supinamente nella rete di provvidenze, che da un punto di vista sociale, possono soddisfare gli interessi economici dell’uomo, gli interessi materialistici dell’uomo, ma sopprimono in lui la libertà, la coscienza, la individualità, l’iniziativa e lo rendono una macchina priva di quella divina scintilla dell’intelligenza, che sola può farlo assurgere alle più alte dignità umane e consentirgli di portare il contributo della sua opera e della sua saggezza, attinta nella emulazione e nello sforzo individuale con spirito di iniziativa, che non deve essere soffocato e soddisfatto da esigenze di carattere esclusivamente materialistico. (Applausi a destra).

Onorevoli colleghi, queste le considerazioni, per quanto tratta la nostra concezione della personalità umana, che noi vogliamo vedere assolutamente garantita nei suoi diritti essenziali, ma con formule chiare, precise, apodittiche, che non consentano di filosofeggiare, né permettono interpretazioni particolaristiche, ma rispondano alla coscienza collettiva del popolo, non in un determinato periodo storico, ma nella eternità dei secoli, come eterno è l’uomo che, ricevendo da Dio il suo crisma, ha il diritto di conservarlo anche per diritto divino.

Onorevoli colleghi; fra i diritti e i doveri dei cittadini nulla rilevo di saliente che non abbia già rilevato contestualmente, attraverso l’esame del preambolo della Costituzione. Io vedo nelle disposizioni generali il preambolo, quel preambolo di cui tanto si è discusso e nel quale si era inteso di inserire quelle parti della Costituzione che, nobilissime nelle loro finalità di solidarietà umana e sociale, non potevano trovare in sede di Costituzione, la norma, diremo, giuridica per una concreta realizzazione.

Sui rapporti civili vi è una considerazione da fare, ed è quella che riguarda il diritto di asilo dello straniero in Italia, che nel suo Stato non gode di quelle garanzie costituzionali che la Repubblica italiana concede. Noi siamo consenzienti a questa nobilissima affermazione di solidarietà umana, specie quando l’uomo trova persecuzione alle libere sue finalità spirituali, ideologiche e politiche. Ma noi un’osservazione avevamo ritenuto di fare, in sede di elaborazione del progetto, ed era questa che, pur riconoscendo allo straniero il diritto del più largo asilo nello Stato italiano, si pretendesse che lo straniero si uniformasse agli ordinamenti dello Stato italiano.

Ciò non avrebbe menomamente diminuito la larghezza della nostra incondizionata ospitalità, ma ci avrebbe consentito di garantirci da interferenze o da situazioni che potrebbero risolversi in dannose conseguenze per la compagine della comunità italiana.

Passando ai rapporti etico-sociali, nulla di caratteristico per ora da rilevare in sede generale.

Due parole sui rapporti fra Chiesa e Stato. Non ne avrei parlato, se tutti indistintamente i colleghi che mi hanno preceduto, non avessero fermato la loro attenzione su questa enunciazione, che noi riteniamo felice, inserita nella Costituzione.

Per la storia, si era originariamente proposta in sede di discussione davanti alla prima Sottocommissione, una formula che, apprezzabilissima nella sua alta concezione, fu da me, come sempre, garbatamente non avversata, ma criticata sotto alcuni riflessi che, a mio avviso, meritavano considerazione. Si era proposto, cioè, che lo Stato italiano e la Chiesa, riconoscendosi parte della comunità internazionale, egualmente esercitavano i loro diritti di sovranità. Dimostravo allora che, con tale formula, noi Stato italiano per primi ci saremmo definiti in senso negativo, nel senso cioè di riconoscerci parte della comunità internazionale.

Premetto che, secondo le ideologie che il mio partito persegue, vi è quella, utopistica forse oggi, ma realizzabile domani, degli Stati Uniti di Europa. Considerate, pertanto, con quale entusiasmo noi avremmo aderito a quella formula per le finalità particolaristiche nostre! Ma il nostro dovere innanzitutto è quello di essere italiani, fedelissimi, fanaticamente devoti alla Patria italiana, e considerato, pertanto, che la coesistenza nello stesso territorio di due Stati, i quali derivano la loro sovranità dalla originarietà dei loro diversi ordinamenti, avrebbe potuto portare a conseguenze complesse di carattere internazionale, meglio sarebbe stato trovare una formula meno complessa. Si addivenne così a quella formula che noi pienamente approvammo ed accettammo. Siamo lieti che nella Costituzione abbia trovato posto questa solenne affermazione e siamo lieti che riconoscendo, nel suo ordinamento, la sovranità della Chiesa, il popolo italiano abbia voluto nella Costituzione darle l’onore che le compete.

Già ho pubblicamente espresse le ragioni per le quali dissentivo dalle critiche che dimostravano la opportunità di non fare menzione in Costituzione dei rapporti fra Stato e Chiesa. Anche il professor Jemolo, luminare in tema di diritto ecclesiastico, assumeva che, essendosi il Trattato ed il Concordato stipulati da un Governo detestato oggi dalla coscienza collettiva, sembrava incongruente che questo atto di nascita venisse oggi riconosciuto.

Obbiettavo che non è alla forma alla quale bisogna avere esclusivo riguardo, ma alla sostanza, e che sarebbe grave errore attribuire al Governo fascista tanta grandiosa concezione negli eventi storici e nella comprensione dello spirito nazionale. Era un fatto che doveva quel Governo registrare; una situazione matura che era impellente nella coscienza collettiva del popolo italiano, il quale da tempo si dibatteva, tra l’agnosticismo dello Stato per la questione religiosa e l’intimo desiderio e la convinta necessità della manifestazione, anche esteriore e formale, di questo sentimento. Il cittadino cattolico, il credente, specie se di elevata cultura, specie se investito di pubblici poteri, si trovava costantemente di fronte al dilemma fra l’esaudimento di quello che era l’imperativo categorico della sua coscienza, per manifestare anche pubblicamente la sua fede religiosa, e gli ordinamenti agnostici e legalitari dello Stato che impedivano queste manifestazioni; impedivano, preciso, non legalmente, ma impedivano in una ipocrita consuetudine protocollare e formale.

Se, malauguratamente, un Governo, che oggi logicamente detestiamo, ebbe la ventura di registrare un evento storico-spirituale, noi dobbiamo attribuire la paternità di quello evento, come conquista della pace religiosa, al popolo italiano, che giustamente aspira di vedere riconosciuto nella sua Costituzione l’esistenza del patto fondamentale fra Chiesa e Stato italiano.

Onorevoli colleghi, ho seguito con attenzione le osservazioni dell’onorevole professor Calamandrei sulle contradizioni esistenti in tema di riferimenti ai Trattati Lateranensi; se noi, esaminando quei trattati, dobbiamo riferirci allo Statuto Albertino e, in sede di coordinamento, a situazioni che oggi non sono coerenti colle libertà individuali e politiche, l’amico e collega onorevole Tupini, poco dianzi ha anch’egli, su questo argomento, diradate le nebbie affermando che la Chiesa Cattolica, come sempre saggia e previdente, non disdegna di adeguarsi e adattarsi, per quanto può, nella sfera delle sue competenze, alle necessità storiche e ambientali. Fu detto anche in sede di discussione davanti alla prima Sottocommissione che se alcuna incongruenza esiste che possa preoccupare la coscienza di alcuno, dobbiamo essere certi che rapidamente sarà eliminata, di modo che l’inserzione dell’esistenza di questa pace religiosa tra il popolo italiano e la Chiesa Cattolica Apostolica Romana, rappresenta una conquista spirituale del nostro popolo che non adombra in modo assoluto alcuna coscienza, né desta in alcuno preoccupazioni di sorta.

Rapporti economici: Sui rapporti economici, onorevoli colleghi, io rilevo e dichiaro che sarei col mio partito felicissimo se finalmente in questo mondo, fatto di uomini, si potesse raggiungere la perfezione di questo Stato ideale che a me sembra di identificare nella «Città del Sole»; è il regno della felicità per tutti; quivi felicemente si nasce e senza alcuna preoccupazione ci si avvia lentamente e giocondamente a percorrere la parabola della vita senza assilli e senza preoccupazioni, procul negotiis. Ma ci siamo domandati: quando il cittadino italiano leggerà questa Carta costituzionale e porterà decisamente la sua attenzione nel settore che più intimamente lo attrae e lo interessa e i con speculazione di indagine si soffermerà sui diritti economici e sociali e, specie se ingenuo, specie se non addestrato alle speculazioni ragionative e sofistiche di retori, di giuristi e di filosofi, egli credesse di aver conquistato finalmente quanto solo nei suoi sogni e nelle sue speranze costituiva possibilità reale, e se questo cittadino, esasperato da questi diritti in modo tanto solenne qui affermati, domani venisse da noi Costituenti, o andasse da coloro che nell’esercizio dei loro poteri hanno autorità ed ascendente, a domandar conto dell’esecuzione di questi impegni d’onore che lo Stato ha preso verso i suoi cittadini, e se eccitasse la sua diligenza per l’adempimento almeno parziale di questi impegni contratti solennemente, e si sentisse rispondere che lo Stato è nell’impossibilità di soddisfare queste esigenze, io mi chiedo quale potrebbe essere la reazione di questo cittadino e più ancora quale potrebbe essere la reazione di una collettività esasperata, la quale, ritenendosi beffata nella santità della sua miseria, eccedesse, e scendesse in piazza, onorevoli colleghi?

Mi sovviene in questo momento, quanto Gino Capponi, descrivendo il tumulto dei Ciompi nella rivoluzione di Firenze, disse a proposito di coloro che «assillati dal bisogno scendono in piazza». Disse egli: «Quando tu chiami la forza del popolo a far impeto nelle vie, il vero popolo non risponde, ma vedi uscire una turba, cui si pertiene diverso nome che non puoi né dirigere né contenere, e che travalica ogni tuo disegno».

Meditiamo pertanto, onorevoli colleghi, su quella che è la psicologia della massa, verso la quale il senso della nostra solidarietà è acuto e profondo e noi per primi auspichiamo ardentemente che questa umana solidarietà possa essere, ogni giorno vieppiù, cementata e possa ogni giorno divenire più attuale e concreta. Ma nel contempo misuriamo le nostre forze e le nostre possibilità, e cerchiamo, nella serietà contenuta delle nostre possibilità presenti e future, di fare il bilancio di quanto è possibile realizzare su quello che con tanta leggerezza si afferma essere già un diritto del popolo.

Noi abbiamo affermato in Costituzione il diritto, ed altresì il dovere, del lavoro. Mi sono domandato e domando, onorevoli colleghi, qual è la ragione per far presumere che si vuol quasi coartare l’umana personalità per l’esercizio di una attività lavorativa concreta che deve rispondere a finalità determinate, quando, da che mondo è mondo, il popolo italiano si è differenziato e si differenzia, fra tutti i popoli del mondo, per la sua parsimonia, per la sua laboriosità, per la sua inventiva, per la sua intelligenza spontanea, per la sua ansia nella ricerca di un lavoro qualsiasi. Perché, domando, di fronte ad un popolo così meravigliosamente caratterizzato, che ha tradizioni politiche, storiche, etniche e culturali, per cui non è a dubitare della sua laboriosità, per quale ragione, ripeto, noi abbiamo voluto imporre in una Costituzione il dovere al lavoro, quando noi sappiamo per il presente e per il futuro che finché i ristretti confini della nostra Patria non ci consentono purtroppo di dare a tutti lavoro proficuo, noi dobbiamo ricorrere all’unica valvola di sicurezza, che è quella dell’emigrazione. Essa d’altra parte, considerata sotto determinati riflessi, costituisce anch’essa ragione di onore per l’Italia e il lavoratore italiano, perché attraverso l’emigrazione, le spiccate qualità morali e di intelligenza dei nostri lavoratori, espandiamo per il mondo (come fino ad oggi abbiamo fatto) la civiltà italiana, la civiltà latina.

Onorevoli colleghi, il dovere al lavoro a noi sembra un pleonasmo ed un pericolo: è un pericolo perché se domani, per dannata ipotesi, dovesse prevalere un orientamento politico, basato sopra una ideologia economica od una teoria materialistica, e dovesse il legislatore, nella indagine interpretativa di questa Costituzione, identificare il concetto di lavoratore, pure non contrastando quanto in Costituzione è detto, nel senso che per lavoro si intende non lo sforzo materiale dei muscoli solamente, ma anche qualunque attività spirituale, tuttavia, fra le attività spirituali potrebbe anche esistere una gamma di proporzioni e di successioni, talché quegli che oggi – filosofo meditativo o sacerdote contemplativo – può rappresentare una attività lavorativa socialmente apprezzabile e socialmente utile, potrebbe essere domani non più annoverato fra i lavoratori, perché non economicamente valutabile, non socialmente utile.

Il sacerdote contemplativo, che oggi può essere annoverato fra i lavoratori che hanno diritto di partecipare alla gestione della cosa pubblica, potrebbe domani essere considerato soltanto da chi ha particolare sensibilità e adeguata preparazione spirituale, ma non da chi, concependo la vita attraverso il materialismo economico, deve necessariamente ripudiare tutto quanto non risulta economicamente valutabile. I diritti sacri, individuali, imprescrittibili e inalienabili sarebbero quindi facilmente, ma costituzionalmente, violentati e soppressi.

Ricordo quanto ieri ha detto l’onorevole Calamandrei, che per sensibilità ai versi di Dante, a lui dall’onorevole Togliatti ricordati, fu indotto a convenire che quanto risulta congegnato nel progetto di Costituzione, lo è non solo per affermare una realtà storica di cui siamo spettatori, testimoni e protagonisti, ma per proiettare nel futuro un orientamento ai nostri figli e ai nostri nipoti che, perseguendo la strada luminosa che nella concezione sublime dell’umana società noi qui tracciamo, devono condurre, in prosieguo di tempo, questa umanità versò realizzazioni migliori.

Onorevoli colleghi, a me sembra che se questo è il concetto che noi vogliamo consacrare in Costituzione, tale concetto deve essere trasportato in sede di preambolo, come auspicio per le future generazioni, ma non come impegno per il legislatore di domani, in quanto che, per le ragioni dianzi dette e che non starò a ripetere, l’equilibrio politico e lo schieramento di forze politiche sono mutevoli e può mutare l’orientamento ed il programma economico e sociale al quale, ripeto, è stata subordinata tutta la parte relativa alla concezione delle libertà umane.

Ho avuto l’impressione che, attraverso queste enunciazioni, noi avessimo fatto come quel tale, che, dopo essersi goduta l’esistenza, fece testamento lasciando ai suoi eredi tutto il patrimonio che egli in mobili, in immobili e in preziosi possedeva è vero, ma solo nella sua fantasia; o come quel tale che nel fare testamento congegnò le cose in modo, e così complesso e caotico, da far litigare tutti i discendenti, che l’un contro l’altro armato si esaurirono in una lotta sterile ed esiziale.

Sui rapporti politici, onorevoli colleghi, non mi soffermo che sopra un punto, sul quale – se ben ricordo – i miei rilievi, già ho espressi in seno alla Commissione. Parlo del diritto di voto di cui è cenno nell’articolo 45.

PRESIDENTE. Onorevole Mastrojanni, mi perdoni; ma se lei esamina così particolarmente tante parti della Costituzione, forse posso sbagliarmi, ma credo che usciamo dal quadro di questa nostra discussione introduttiva. C’è un vantaggio: che si anticipano affermazioni che non verranno più fatte successivamente. Ma si confondono le parti successive della discussione…

Comunque, io mi rimetto a lei.

MASTROJANNI. Prendo atto delle sue esatte osservazioni. Ma, se mi consente, io vorrei identificare la Costituzione attraverso caratteristiche salienti individuate qua e là.

Comunque, obbedisco all’esortazione del Presidente e prometto che, dopo questo articolo, non farò menzione di nessun altro articolo e che, anzi, andrò rapidamente alla mia conclusione. Non voglio approfittare della benevola attenzione con la quale questa democratica e libera Assemblea Costituente fin’ora mi ha onorato.

In tema di voto, rilevo solamente che l’articolo 45 parla di voto personale, uguale, libero e segreto; il che dovrebbe soddisfare completamente le esigenze e le aspettative di tutti. Ma, come sempre – ripeto – la mia diffidenza mi porta oltre a quello che forse è stato il pensiero logicamente concreto dei redattori della Costituzione con i quali anch’io ho collaborato.

Io mi domando: perché insieme col «libero» e col «segreto» e col «personale» non si è messo anche l’inciso «diretto»?

Il voto può essere libero, può essere personale, ma, se non è «diretto», noi, o voi, attraverso quelle famose formazioni sociali e attraverso quelle famose comunità naturali, potremo rendere il cittadino, soggetto dei diritto di voto, partecipe dell’esercizio di tale diritto di voto, ma limitatamente in determinate organizzazioni, le quali, attraverso i loro rappresentanti, i grandi elettori, diverrebbero quelli che, in definitiva, completerebbero, col loro voto e solamente col loro voto, la vicenda politica del congegno elettorale. Senza l’inciso «diretto» non tutti potranno partecipare in modo «diretto» a tutte o ad alcune elezioni.

Prego gli onorevoli colleghi perché vogliano tenere nella dovuta considerazione questa realtà democratica, per non violare la democrazia stessa nella sua concezione liberale ed eguale per tutti.

Per quanto tratta la seconda parte della Costituzione, mi riservo di parlarne quando si discuterà dei singoli titoli e salto quindi tutto quanto riguarda la struttura e la funzione dello Stato e dei suoi organi, attenendomi a semplici e brevi considerazioni su quanto riguarda la elezione del Capo dello Stato. A mio avviso, meglio sarebbe, se, per la sua alta funzione di supremo regolatore, di più alto magistrato della Repubblica, e come quegli che deve conciliare le diverse tendenze dei partiti, esercitando il suo autorevole ascendente, e come quegli che rappresenta l’unità materiale e spirituale dello Stato, potesse rafforzare la sua coscienza e la forza intima della sua eccelsa funzione, attraverso il suffragio ed il conforto della diretta partecipazione alla sua nomina di tutto il popolo, attraverso il suffragio universale.

Credo che sia questione anche di carattere psicologico e per il cittadino, che nella elezione del primo cittadino dello Stato si vede direttamente partecipe della gestione della cosa pubblica, e per il Capo dello Stato, che si vede assunto a questo altissimo ministero dal voto unanime del popolo italiano, che egli tutto rappresenta, a qualunque ideologia appartenga e a qualunque partito politico possa essere inscritto.

Un’ultima osservazione ed ho finito: referendum circa la Costituzione.

Già parecchi mesi or sono espressi pubblicamente la mia opinione sull’argomento.

Da un punto di vista squisitamente giuridico, di opportunità politica e di carattere costituzionale, io penso che noi abbiamo ricevuto dal popolo un mandato specifico e determinato, quello, cioè, di formare una Costituzione, ma non abbiamo avuto il mandato di imporre o di applicare questa Costituzione. Noi, mandatari, non possiamo esorbitare dal mandato ricevuto. Il mandante ha il diritto di chiedere conto della esecuzione del mandato: abbiamo fatto bene e non abbiamo fatto bene? Sarà il popolo a giudicare.

Questo in sintesi è un accenno alla questione di diritto.

Ma, per quanto tratta la questione psicologica, sentimentale, democratica e liberale, io credo che se l’Assemblea Costituente ha la coscienza di avere bene operato e di avere esattamente interpretato la volontà del popolo, non deve temere che il popolo possa ripudiare questa Costituzione. È un atto di lealtà che io ritengo debba questa Assemblea Costituente, in regime democratico e liberale, compiere, perché, così facendo, avrà nobilmente esaudito il suo compito.

E concludo con l’auspicare che questa Costituzione, che sarà elargita al popolo italiano, possa, dopo i suoi emendamenti costruttivi, rappresentare veramente il punto di partenza perché questa umanità che tanto ha sofferto possa ritrovare nella giusta via, il suo benessere spirituale ed economico, in una migliore giustizia sociale e nell’assoluta garanzia dei diritti essenziali e delle supreme libertà individuali e collettive. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Laconi. Ne ha facoltà.

LACONI. Signor Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, io ho seguito con attenzione e con ammirazione, così come credo abbiate fatto anche voi, i discorsi degli oratori che mi hanno preceduto ed ho, come voi, sommamente ammirato la mostra di dottrina, di abilità, di acutezza, che ci è stata data; ma, nel fondo dell’animo, mi è rimasta l’impressione che qualcosa sia mancato. Ho notato che, nel corso di questi discorsi, vi è stata soprattutto una deficienza: si è avuta cioè l’impressione di un certo disorientamento diffuso sul giudizio che deve essere dato su questo progetto.

Taluni hanno confrontato il progetto a certi loro schemi astratti, a certi loro «ideali giuridici»; altri lo hanno misurato da un punto di vista di partito o da un punto di vista particolare ideologico o filosofico; altri ancora hanno comparato il progetto a Costituzioni di altri Paesi, che rispondono a situazioni lontane e diverse dalla nostra. Certo, se anche noi dovessimo usare questo metro, se ci ponessimo dal punto di vista della parte più avanzata del popolo italiano, di quella parte che ha condotto con prospettive più avanzate e più progressive la guerra di liberazione ed è stata all’avanguardia del movimento per la Costituente e per la Repubblica, certo, se anche noi ci ponessimo da un punto di vista ristretto di classe o di partito, penso che anche il nostro giudizio sul progetto di Costituzione potrebbe essere negativo.

Ma quale valore avrebbe siffatto tipo di giudizio? Io penso che non avrebbe alcun valore, perché si fonderebbe su concezioni astratte o su situazioni diverse da quella del nostro Paese. Per poter dare invece un giudizio giusto, noi dobbiamo partire da istanze concrete, da esigenze che sorgono dalla realtà italiana, e dobbiamo vedere come il progetto traduca queste esigenze.

Quali sono le istanze cui noi dobbiamo riferire questo progetto di Costituzione? Noi tutti lo sappiamo: sono le istanze che sorgono dalla lotta che tutto il nostro popolo ha condotto contro il fascismo; sono le istanze che sorgono dalla somma di sacrifici, di pene, di dolori, che si è abbattuta, e non per sua colpa, sopra il popolo italiano.

Ma se noi ci eleviamo ad una consapevolezza più alta dei nostri compiti, io penso che dobbiamo tener conto di altre istanze, e delle più remote, e di quelle che sorgono dalle lontane e fatali giornate in cui ebbe i suoi albori il nostro primo Risorgimento, dalle giornate di Milano, di Genova, di Torino, di Roma repubblicana. Dovremo tener conto delle istanze che ci vengono dalle generazioni sacrificate durante il Risorgimento, dalla serie di intelligenze pensose, di animi operosi, che hanno creato, edificato lentamente l’unità italiana, ed hanno visto sempre i loro ideali e le loro aspirazioni negati e delusi dal prevalere delle forze ritardatici che operavano nella vita politica del Paese.

Questa corrente di idee, di propositi, di aspirazioni ha trovato nell’Italia unificata una sua continuità nei movimenti politici popolari, nelle grandi forze unitarie che si sono richiamate agli ideali repubblicani, ai principî ispiratori della dottrina cattolica, ai nuovi principî del socialismo. Tutto un secolo di lotte contro lo stesso nemico noi abbiamo alle nostre spalle: di lotte contro i gruppi che hanno monopolizzato in Italia il potere economico e che se ne sono fatto uno strumento di dominio politico; di lotte contro la monarchia e contro la classe dirigente politica, che hanno sempre e costantemente soffocato le aspirazioni del nostro popolo ad un rinnovamento intimo e profondo della struttura economica, politica e sociale del Paese.

Ma certo, è in questo ultimo volgere di lustri che si è aperta la più grave e decisiva contradizione nel corpo vivo e nella struttura della nostra società nazionale, quando i gruppi dirigenti, quelli che si erano fatti portatori delle idee liberali, assertori della libertà economica e politica; quando questi gruppi dirigenti sono stati costretti dalla forza degli eventi, dalla paura degli eventi, a negare i principî stessi e i fondamenti del loro regime; a negare quegli ideali per i quali si erano battuti e per i quali avevano condotto a battersi gran parte del popolo italiano. Nella contradizione estrema del regime liberale il popolo italiano ha purtroppo esperimentato la sua stessa rovina. Ha compreso questa esperienza il popolo italiano? Io credo di sì; io credo che l’abbia compresa.

Leggevo ieri un articolo di Benedetto Croce, nel quale si ricorda che un poeta del Risorgimento italiano affermava in certi suoi versi che i tempi volgevano in meglio, visto che per ogni brigante che moriva nasceva un liberale. Croce constata che i tempi sono radicalmente mutati da allora: i liberali si estinguono e nasce gente nuova e diversa. Io non credo che sia offensivo per noi – per noi che nasciamo, amici dei grandi partiti di massa – l’esser chiamati briganti. È un prezzo; è il prezzo con cui si paga talvolta nella storia il privilegio di essere in molti e di rappresentare l’avvenire. E anche i liberali, ai loro tempi, a quei tempi, venivano chiamati briganti dai conservatori di allora. Sta di fatto che il popolo italiano ha compreso, e ben compreso, le cause profonde della rovina del nostro Paese, della sconfitta e della servitù.

Oggi, uscito da queste terribili prove, che cosa vuole il popolo italiano? Che cosa chiede a noi?

Il popolo italiano oggi vuole due cose: vuole ricostruire la propria Patria e vuole attuare nella democrazia i proprî ideali di giustizia.

Questo è quanto oggi il popolo italiano vuole; e ha dimostrato di volerlo, quando il 2 giugno, chiamato alle urne, con espressione diretta della sua volontà, ha instaurato la Repubblica in Italia. È il primo passo sulla strada del rinnovamento; su questa strada noi oggi dobbiamo camminare.

La Repubblica, giustamente diceva ieri l’onorevole Calamandrei, è una forma definitiva di regime. La decisione sulla forma repubblicana è sottratta alla nostra competenza di costituenti, perché il popolo stesso si è espresso su questo punto e ha dichiarato la sua volontà.

A noi, altro spetta. A noi spetta fare in modo che questo regime sia un regime democratico conseguente, sia un regime, cioè, progressivo, orientato verso forme nuove, deciso ad elevare il popolo dalle sue miserie, un regime pacifico che si inserisca nella comunità dei popoli liberi con volontà di pace e di collaborazione. E per poter essere quello che noi vogliamo, questo regime deve essere fondato su due principî fondamentali: sulla sovranità popolare e sulla posizione preminente del lavoro.

Deve essere un regime orientato: non l’ho affermato a caso, onorevole Lucifero. Ieri lei diceva che dobbiamo creare un regime afascista. Io credo che questo non sia l’orientamento che il popolo italiano ci indica. Per chi pensa che il regime fascista sia stato soltanto una specie di crisi di crescenza, una malattia infantile o giovanile del popolo italiano, per questi il fascismo potrà essere qualche cosa di facilmente dimenticabile.

Per chi nel fascismo vede l’espressione di una contradizione finale di tutto un regime, che ha almeno un secolo di storia in Italia, per chi nel fascismo ha visto e vede la rovina del nostro Paese, io credo non si possa parlare di Costituzione afascista, si deve parlare di Costituzione antifascista. In questo senso, tenendo conto di queste istanze, noi dobbiamo quindi giudicare il progetto che ci è offerto.

Risponde esso alla volontà del popolo? Traduce queste esigenze storiche ed in quale misura le traduce?

Queste sono le domande cui dobbiamo dare una risposta, e io credo che, in questo senso, noi possiamo salutare con soddisfazione l’affermazione solenne dei diritti civili e politici del cittadino, che troviamo in testa a questo progetto: l’affermazione della libertà personale, della inviolabilità del domicilio, della inviolabilità di corrispondenza, della libertà di riunione e di associazione, della libertà di stampa, di azione in giudizio. Libertà tutte che importa riaffermare soltanto in quanto sono state negate, soltanto in quanto noi siamo chiamati a fare una Costituzione dopo il fascismo, dopo la tirannide, soltanto in quanto noi ci troviamo a dovere polemizzare con tutto un regime e con tutto un sistema. In questo senso l’affermazione di queste libertà ha oggi un valore ed un significato.

Ma io credo che a nulla servirebbe questa condanna del passato. Questa affermazione di diritti e di libertà credo si ridurrebbe a qualcosa di dottrinario e di vuoto se noi non ci proponessimo, attraverso la Costituzione, di distruggere le condizioni attraverso le quali il fascismo si è affermato ed ha potuto negare le libertà dei cittadini; se noi non ci proponessimo di consolidare nel nostro Paese uno schieramento di forze che sia interessato alla democrazia, se noi non ci proponessimo, cioè, da un lato di abbattere i nemici della democrazia, di restringere il potere dei gruppi privilegiati che vogliono sacrificare e distruggere le nostre libertà, e dall’altro di rafforzare il blocco popolare, di dare al popolo la strada aperta verso l’avvenire. Se non facessimo questo, io penso che inutilmente le tavole della Costituzione potrebbero riaffermare le libertà dei cittadini ed i principî fondamentali della democrazia. Noi siamo chiamati quindi ad un compito nuovo, che consiste nell’introdurre principî e diritti nuovi nella Costituzione italiana, e nel prevedere le forme e i metodi attraverso i quali il legislatore di domani potrà dare pratica attuazione a questi principî, potrà concretare questi diritti.

In questo senso, all’articolo 7 della Costituzione va affermato che è ufficio della Repubblica «rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e la eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana». In questo senso è affermato, cioè, che lo Stato non deve limitarsi ad un riconoscimento formale delle libertà e dei diritti del cittadino, ma deve intervenire nella vita sociale, economica e politica per rendere effettivo il godimento di questi diritti. Così lo Stato interverrà a tutelare la famiglia, ad assicurarle le condizioni minime di esistenza; così lo Stato interverrà ad assicurare ad ogni cittadino, che abbia capacità e merito, l’insegnamento scolastico.

Ma vi è una parte più importante e più discussa fra questi diritti nuovi che noi dobbiamo affermare nella nuova Costituzione, ed è quella che concerne il diritto del lavoro; il diritto al lavoro appunto, il diritto ad una retribuzione adeguata, il diritto al riposo, all’assistenza, all’assicurazione; diritti che per la prima volta si trovano affermati in un documento costituzionale italiano, e non soltanto italiano.

La libertà delle organizzazioni sindacali, il riconoscimento della loro personalità giuridica la validità dei contratti collettivi, il diritto di sciopero: questo è il contenuto della parte che concerne i diritti dei cittadini in ordine ai rapporti economici.

Che valore hanno queste affermazioni? Molti hanno osservato che affermazioni di questo genere, nella situazione presente del nostro Paese, non possono avere altro che un vago valore programmatico.

Taluno ha obiettato che da molte parti e da uomini che hanno avuto esperienza di Costituzioni moderne si è osservato che le Costituzioni non sono programmi e che non conviene quindi introdurre nelle Costituzioni elementi programmatici che le facciano deviare dalla loro natura e dalla loro funzione normale. Ma io penso, onorevole Bozzi e onorevole Calamandrei, che non si tratti di elementi puramente ideali e vagamente programmatici che noi inseriamo nella nuova Costituzione italiana. Io credo che non siano dei principî e delle affermazioni che si possano affidare ad un preambolo, onorevole Mastrojanni, per rinviarle ad una lontana attuazione, quando «le condizioni del nostro Paese saranno mature».

Credo che non si tratti di questo, ma che si tratti di ben altro. L’affermazione di questi diritti oggi nella Carta Costituzionale italiana, ha, per le masse lavoratrici d’Italia, un valore preciso. Nel corpo della Costituzione italiana questa parte oggi costituisce un documento a sé: la Carta dei lavoratori italiani, onorevoli colleghi.

Io so che qualcuno potrà ironizzare sul fatto che io non usi la denominazione «Carta del Lavoro»; qualcuno potrà ironizzare su questo, ma io non ho alcuna esitazione ad usare un termine mistificato dal fascismo, ed usarlo nel suo significato vero e nella sua reale portata, oggi che la democrazia italiana si trova in grado di affermare la libertà dei lavoratori e di riconoscere i diritti del lavoro in una Carta costituzionale.

Quale valore ha questa Carta, che significato, che portata può avere oggi nel corpo della Costituzione italiana introdurre una Carta che riguardi i lavoratori, che concerna i loro diritti? Molti hanno parlato di compromesso, ed hanno detto che si tratta soltanto di tendenze diverse tra diversi partiti che son dovuti giungere ad un punto medio, ad una soluzione che riscuotesse il consenso di una maggioranza. Questo è vero, ma non è un fatto negativo; è un fatto altamente positivo.

Se oggi questi principî, queste affermazioni hanno un valore ed hanno un significato nella nostra Carta costituzionale, è in quanto dietro di essi vi è un patto fra forze sociali e politiche che si impegnano, nel corso della vita del nostro Paese, a realizzare questi principî, a rendere effettivi questi diritti.

In questo senso è possibile l’affermazione di diritti e di principîi che non possono trovare immediata garanzia, nel senso che non si tratta soltanto di speranze – come l’onorevole Tupini ha voluto benevolmente dire – ma di impegni, di impegni che sono stati assunti dai grandi partiti di massa, allorquando si sono presentati alle masse elettorali, allorquando hanno detto alle masse lavoratrici: «Noi siamo il vostro partito». Allora, onorevoli colleghi, questi impegni sono stati presi, non più tra il popolo da un lato ed il sovrano assoluto dall’altro, per riuscire a strappare determinate concessioni e determinate garanzie, ma fra gruppi e gruppi sociali, fra partiti e partiti. Questi impegni sono stati presi e, inserendoli nel quadro della nuova Costituzione italiana, noi diamo una garanzia al popolo che essi non sono cosa vana, che non sono state parole sparse al vento in un momento di eccitazione o per scopi di propaganda elettorale, ma propositi sinceri che noi abbiamo ferma intenzione di tradurre in atto.

Io penso, quindi, che sia del tutto assurdo pensare ad uno spostamento di questa parte verso il preambolo. Penso che essa debba rimanere, nel luogo che attualmente ha, e debba anzi acquistare un distacco ed un rilievo maggiori di quello che oggi non abbia.

Si è osservato che, comunque, anche se questa parte rimarrà al suo luogo, anche se l’affermazione di questi principî e di questi diritti verrà fatta nella Costituzione italiana, con tutto ciò mancano garanzie, mancano sanzioni. Domani, qualcuno diceva, quando i lavoratori italiani fiduciosi e creduli si presenteranno a chiedere che vengano attuati, che vengano tradotti in pratica i diritti affermati sulla Carta, essi rimarranno delusi perché lo Stato non potrà garantire nulla.

Questo è vero. Noi non siamo in grado oggi di stabilire delle garanzie e delle sanzioni per la realizzazione e la concretizzazione di questi diritti; ma qualcosa possiamo fare: noi possiamo fissare i principî, possiamo stabilire le direttive entro le quali dovrà orientarsi il legislatore di domani, possiamo aprire la strada a questo legislatore, togliere alcuni limiti alla sua azione. In questo senso possiamo introdurre alcuni elementi di una economia nuova, possiamo predisporre l’intervento dello Stato nella vita economica, possiamo prevedere la necessità e la facoltà per lo Stato di attuare determinati piani generali che possano coordinare le diverse attività economiche secondo un’unica direttiva e rivolgere l’attività produttiva del Paese verso gli interessi delle grandi masse lavoratrici. Noi possiamo introdurre nel corpo della Costituzione la facoltà per lo Stato di nazionalizzare le grandi imprese che rivestono ormai il carattere di monopolio di fatto o che interessano servizi essenziali per la collettività; noi possiamo introdurre la possibilità per il legislatore futuro di stabilire determinati limiti alla grande proprietà terriera, di abolire il latifondo. Ma non solo possiamo fare questo; possiamo – e già ve ne è cenno nel progetto di Costituzione – prevedere gli organi attraverso i quali lo Stato potrà concretare queste riforme e potrà attuare questi piani. È in questo senso che, nel progetto di Costituzione, si parla di Consigli di gestione, in questo senso si parla di cooperative, in questo senso, da parte del Relatore della terza Sottocommissione, onorevole Di Vittorio, fu presentata la proposta d’introdurre nell’ordinamento del nostro Stato un Consiglio del lavoro, in cui le diverse categorie che partecipano al ciclo produttivo intervengano in proporzione della loro rilevanza numerica, in proporzione del loro peso effettivo nella vita della Nazione.

CAPUA. Torniamo alle Corporazioni! (Commenti).

LACONI. Ella non ha ragione di parlare di questioni corporative. Gli amici della sua parte hanno sostenuto tale indirizzo nel corso della discussione e lo hanno costantemente affermato. Il principio corporativo è legato ad altro. È legato intanto alla pariteticità delle rappresentanze, che in questo momento io escludevo, se ella è stato attento alle mie parole; è legato anche ad un criterio non democratico, come lei sa, perché la rappresentanza non era elettiva; ed è legato soprattutto alle funzioni che a questi organi si dànno. Quando noi parliamo di un Consiglio del lavoro, noi non vogliamo privare la rappresentanza politica della sua funzione e dei suoi poteri; noi vogliamo soltanto affiancare il legislatore con organi che gli portino la voce viva degli interessi delle grandi masse e gli facciano sapere quali sono le istanze e le esigenze che egli deve soddisfare. In questo senso noi abbiamo proposto un Consiglio del lavoro come organo di collaborazione col Governo e di controllo da parte dei lavoratori dell’opera e dell’attività del Governo e delle Assemblee legislative. Sono questi indubbiamente elementi nuovi, elementi di una nuova economia che si trovano fatalmente in contradizione con la vecchia. Indubbiamente ha ragione l’onorevole Calamandrei quando, leggendo passo per passo, comma per comma, un medesimo articolo, vi trova insieme principî che si riferiscono a concezioni diverse e che egli ha trovato in dottrine economiche diverse. Ma questa contradizione è nella vita e nella realtà italiana di oggi. Il problema è questo, onorevole Calamandrei: vi è oggi in Italia la possibilità di introdurre determinati elementi di una economia pianificata, coordinata in modo da poter venire incontro alle necessità delle grandi masse lavoratrici, rispettando i metodi della democrazia, rispettando la libertà?

Se questo non è possibile, ci troveremmo nella situazione che diceva l’onorevole Bozzi, dispersi fra due mondi senza avere possibilità di soluzione, senza trovare una via di uscita? Noi pensiamo di no. Noi pensiamo che non vi sia una assoluta opposizione tra questi due mondi; che non siano necessari fatalmente l’urto, lo scontro, il caos. Pensiamo che si possa attuare una rivoluzione sociale ed economica attraverso metodi pacifici e democratici. In questa fiducia confortateci, non scoraggiateci.

Ma certo, onorevoli colleghi, la garanzia suprema, la garanzia decisiva che questi principî, queste direttive verranno attuati, che questi diritti verranno tradotti in realtà, non sta in quei pochi elementi di economia nuova che vengono immessi nel corpo della Costituzione; ma sta in qualche altra cosa. La garanzia suprema e decisiva che il nostro Paese si orienterà realmente sulla strada di un rinnovamento sociale sta nella democraticità assoluta dell’ordinamento dello Stato, sta nella partecipazione effettiva di tutti i lavoratori – come è detto nel primo articolo – alla vita sociale, economica, politica del Paese; sta nel fatto che tutto l’ordinamento dello Stato poggi sul principio della sovranità popolare.

Appunto per sottolineare questo carattere, il carattere di una democrazia progressiva che pone a suo fondamento il lavoro, abbiamo proposto che la Repubblica italiana venisse definita Repubblica democratica di lavoratori.

Ho letto nella relazione dell’onorevole Ruini che molti della Commissione avrebbero consentito a chiamare l’Italia «repubblica di lavoratori» se queste parole non servissero in altre Costituzioni a designare forme di economia che non corrispondono alla realtà italiana. Non so quali siano queste altre Costituzioni.

RUINI, Presidente della Commissione: Quella jugoslava, per esempio.

LACONI. A me non consta che nella Costituzione jugoslava ci sia una denominazione di questo genere, sebbene l’abbia letta attentamente. Certo questa denominazione non può riferirsi in nessun caso alla realtà economica sovietica. È noto che nella discussione che ebbe luogo per l’approvazione del progetto della Costituzione sovietica, lo stesso Relatore, Stalin, propose che venisse respinto l’emendamento col quale si definiva la Repubblica sovietica come Repubblica di lavoratori, in quanto la realtà sovietica è andata più in là, perché lo Stato sovietico si basa ormai su categorie definite, armonizzate in uno Stato senza classi. Per questi motivi l’emendamento fu respinto.

Quando noi abbiamo proposto che la Repubblica italiana venisse definita Repubblica di lavoratori, ben sapevamo che la genericità del vocabolo ci consentiva di non riferirci ad alcuna struttura classista, in quanto una struttura di questo genere non corrisponde alla realtà italiana. Abbiamo usato il termine lavoratori in quanto più comprensivo, in quanto in esso si può ritrovare chiunque partecipi col braccio o col pensiero, con attività manuali o spirituali, teoretiche o pratiche, alla vita, al progresso, alla ricchezza della Nazione. E chi è assente da questo, e chi vuol essere alieno da questo progresso, chi può dire di non collaborare a questo processo produttivo?

L’onorevole Mastrojanni ha fatto un tale giro di parole, ha mascherato talmente il suo pensiero, che io non sono riuscito a comprendere di quali gruppi egli si faccia difensore; ma indubbiamente, da una definizione di questo genere, sarebbero esclusi unicamente quei gruppi che senza partecipare in maniera alcuna, con la propria opera, col proprio lavoro, alla vita della Nazione, si accontentano soltanto di sfruttare il lavoro altrui è di vivere parassitariamente, senza partecipare in nessun modo alla vita della Nazione. Se ella vuol farsi difensore di questi ristrettissimi gruppi, ella è buon giudice. Per quanto riguarda noi, noi pensiamo che una denominazione di questo genere, la più comprensiva ma anche la più significativa, corrisponda al carattere attuale della democrazia italiana, a quello che noi vogliamo diventi, noi tutti, noi uomini delle grandi formazioni di massa, noi uomini del popolo, a ciò che vogliamo diventi la democrazia italiana.

Per questo noi abbiamo sostenuto, durante il corso del dibattito nelle Sottocommissioni e nella Commissione dei settantacinque, un tipo di organizzazione e di ordinamento dello Stato che avesse i caratteri di una assoluta democrazia, e che fosse contemporaneamente uno strumento efficace della volontà popolare; abbiamo cioè sostenuto, da un lato, che ogni organo e ogni potere deve avere il suo fondamento, la sua origine nel popolo o deve essere controllato dal popolo o da quegli organi che nel popolo trovano la loro radice.

D’altro lato, abbiamo sostenuto sempre forme di regime che siano capaci di venire incontro con decisione alle esigenze che sorgono dalle masse.

Noi abbiamo sostenuto un tipo di regime democratico non per quel piccolo calcolo politico che l’onorevole Calamandrei, mi duole ancora dirgli, ha voluto attribuirci, non perché contiamo sopra una maggioranza e solo in vista di questa maggioranza siamo fedeli assertori delle idee democratiche, ma perché noi siamo invece mossi dalla fede e dalla fiducia che abbiamo nelle istituzioni democratiche; per questo abbiamo sostenuto, in ogni momento e ad ogni passo, il regime democratico più avanzato, il più lucido, quello che traducesse in un modo più semplice e schietto la volontà popolare.

Uno sforzo considerevole in questo senso è stato fatto e trapela dalle pagine di questo progetto. È innegabile che la Costituzione della Regione, come organo di decentramento amministrativo dello Stato, consente di avvicinare tutta la macchina dello Stato al popolo e di sottoporla ad un suo più diretto ed immediato controllo. È indubbio che l’abolizione dei prefetti, e degli organi burocratici che governano oggi la vita delle nostre provincie, è un passo avanti, è un radicale passo avanti in questo senso. È anche indubbio che il potere legislativo, integralmente rimesso ad istanze di pressoché diretta origine popolare, è un altro passo avanti che noi facciamo verso la democrazia. Il riconoscimento, l’ammissione nel corpo della nostra Costituzione della iniziativa popolare e del referendum sono altri passi che noi facciamo su questa strada. Il fatto che il Capo dello Stato sia eletto dall’Assemblea Nazionale e il fatto che il Governo debba riscuotere la fiducia espressa del Parlamento, e cioè dell’istanza democratica più alta del Paese, sono elementi indubbiamente positivi e così anche il fatto che nella Carta costituzionale sia stato introdotto il principio che al Governo della Magistratura partecipa una rappresentanza del Parlamento, ed è ancora più positivo il fatto che l’Alta Corte sia anch’essa designata dal Parlamento.

Ma se tutto ciò tende ad aprire la strada al popolo, tende a consentire l’immissione della volontà popolare nelle strutture, nei congegni del nuovo ordinamento democratico e tende ad estendere il controllo dell’organo rappresentativo su tutti i settori, su tutti i gangli dell’apparato, è indubbio che nel progetto è rimasta traccia anche di un’altra tendenza, di una vecchia tendenza che si ricollega ad una dottrina di nobili ed antiche origini: la tendenza a limitare, a correggere, a bilanciare l’azione popolare, tendenza che suona sfiducia nel popolo e nei suoi organi rappresentativi, la tendenza a limitare l’azione delle istanze democratiche, a frenarla, a disperderla nel tempo, ad impedire cioè che la democrazia diventi qualche cosa di efficiente, qualche cosa di decisivo nella vita del Paese, a togliere cioè allo Stato democratico la capacità di tradurre in atto la volontà popolare.

Questa tendenza rimane nel progetto, la si vede la si sente. Si sente, da un lato, attraverso quel congegno complicato di Consigli, di Camere che si controllano l’una con l’altra, quell’ordinamento così complesso di Regioni che condividono con le Camere determinati poteri e secondo determinate forme e in limiti particolari. Si sente attraverso la lentezza prevista per il funzionamento degli organi legislativi.

Io penso che uno sforzo più in là si possa fare in questo senso e che noi dobbiamo fare questo sforzo. Dobbiamo tentare di realizzare una democrazia più conseguente, nel delineare l’ordinamento della Repubblica, e dobbiamo d’altro lato cercare di dare una vitalità maggiore, una forza maggiore allo Stato democratico che stiamo creando.

Questa tendenza si manifesta in tutte le diverse parti dell’ordinamento costituzionale previste nel progetto; è quella tendenza cui si richiamava ieri l’onorevole Lucifero, dicendo di crederci. «Io sono un credente – diceva – negli antagonismi costituzionali». Io credo che avesse un senso dichiararsi un credente nella teoria della divisione, dell’equilibrio dei poteri, nel sistema dei contrappesi, quando si dava come condizione pregiudiziale – e purtroppo ineliminabile – il fatto che uno di questi poteri avesse un’origine non popolare, quando si era nella condizione di dover bilanciare questo potere assoluto non derivato dal popolo: il potere della corona.

Ma che senso ha oggi il voler bilanciare e frenare i poteri del popolo, il voler stabilire un limite alla sovranità popolare? Questo io chiedo.

LUCIFERO. Io ho detto il contrario, onorevole Laconi.

LACONI. Può darsi che io abbia male udito; e me ne scuso, in questo caso.

Certo, limiti in questo senso non mancano. Noi vedremmo con estremo favore l’istituzione nel nostro Paese di nuove istanze democratiche che corrispondano alla Regione così come è individuata e figurata tradizionalmente, in quanto – come dicevo poco fa – il decentramento amministrativo avvicina il popolo al Governo e rende più facili i controlli del popolo sull’amministrazione.

Ma è indubbio che quando alle Regioni si attribuiscono poteri che esorbitano da quelli della semplice amministrazione, che giungono, come in questa parte del progetto, ad una potestà legislativa esclusiva, a cui segue una potestà legislativa concorrente, e a cui segue ancora una potestà legislativa di integrazione e di attuazione delle leggi dello Stato, quasi per meglio specificare e caratterizzare quel carattere pieno e primario, che ha il primo tipo di legislazione; è indubbio che in questo caso non possiamo più essere favorevoli.

Pensiamo che non si tratti più di avvicinare il popolo alle istanze della vita democratica e di sottoporre al controllo del popolo i rami e i settori della vita del Paese; pensiamo che ormai si tratti di qualcosa di più, che si giunga al frazionamento del potere legislativo, al disgregamento dell’unità organica del nostro Paese. È indubbio che domani, se vedessimo approvata questa parte del progetto, ci troveremmo ad avere in Italia, ancora una volta, a ritroso dei secoli, una miriade di staterelli, ciascuno per sé esercitante potestà legislativa, ciascuno capace di attuare, nell’ambito del proprio territorio, chissà quali riforme, differenti da quelle della vicina o lontana Regione.

Credo che in questo modo verremmo a stabilire nel corpo della democrazia italiana una serie di compartimenti stagni, che servirebbe unicamente a frenare, a ritardare, a rallentare quanto più possibile la circolazione delle idee e del progresso, la circolazione delle leggi del nostro Paese, ad impedire un’azione conseguente decisa dallo Stato democratico.

PIEMONTE. Manca la fiducia del popolo in loco.

LACONI. Questo è uno degli sbarramenti che vengono frapposti all’azione dello Stato.

Ma quante precauzioni non si sono prese, per potere rendere inoperante il potere legislativo, già con l’istituzione d’una seconda Camera accanto alla prima? Ognuno sa quale battaglia ci sia stata intorno a questa seconda Camera legislativa, che dovrebbe concorrere all’opera della prima e perfezionare l’opera della prima, ma insieme dovrebbe limitare la prima Camera, la quale, data la sua derivazione popolare, è ritenuta, per sua natura, avventata e temeraria.

Ma tutte le volte che si discuteva su questa parte, i sostenitori d’una seconda Camera non democratica si dicevano mossi dall’intenzione di porre un limite, di porre un freno all’azione della prima Camera, per ottenere una riflessione maggiore nella formazione delle leggi, quasi dimenticando che la prima Camera rappresenta nel nostro Paese, attraverso l’elezione diretta; attraverso il suffragio universale, la volontà di tutto quanto il popolo, alla quale non v’è ragione alcuna di porre dei freni e dei limiti.

Ma non soltanto in questo modo sono stati predisposti dei limiti all’attività del legislatore. Altri limiti e freni sono stati previsti nella procedura, la quale è d’una tale lentezza, onorevoli colleghi, che io vorrei, per provocare la vostra meraviglia e per stimolare lo scrupolo di coloro stessi che hanno partecipato alla stesura di questo progetto, vorrei, dico, farvi la storia, l’itinerario d’un disegno di legge, il quale partirà dal Governo un determinato giorno e giungerà un determinato giorno alla prima Camera; questa dovrà sottoporlo ad una sua Commissione e poi dovrà esaminarlo, discuterlo, approvarlo in Assemblea plenaria, e quindi dovrà rimetterlo all’altra Camera, che, a sua volta, ripercorrerà tutti i gradi della procedura, sicché entro un mese, dalla pronunzia della seconda Camera, la legge potrà finalmente essere pubblicata e venti giorni dopo entrerà in vigore, a meno che non intervenga un conflitto.

Se infatti l’altra Camera si pronunciasse in senso contrario o tacesse, si aprirebbe in tal caso tutta una procedura nuova.

Avremmo allora l’intervento del Presidente della Repubblica; ed eventualmente il referendum. E se anche non vi sia il parere sfavorevole della seconda Camera, ma la legge venga approvata con meno di due terzi dei voti, essa è sospesa quando ve ne sia richiesta di 50.000 elettori o di 3 Consigli regionali, ed entro due mesi cinquecentomila elettori o sette consigli regionali debbono pronunziarsi; soltanto dopo tale pronunzia, può mettersi in moto la macchina lenta e complessa del referendum. Io penso che tutta questa parte solleverà indubbiamente le critiche di coloro stessi che l’hanno sostenuta e ne hanno promosso l’inserimento nella Costituzione.

Ma quello che interessa è di vedere l’animo, l’intenzione con cui tutta questa parte è stata introdotta; almeno l’onorevole Fabbri, ricordo, lo diceva sinceramente: voglio che la Camera non legiferi, o faccia meno leggi che sia possibile. Ma altri non lo diceva con eguale sincerità; eppure si comportava come lei, onorevole Fabbri. Ed è per questo che sono state inserite tante more, che sono state previste tante lentezze nella procedura legislativa, che il legislatore di domani dovrà essere forzatamente inoperante, incapace di venire incontro alle esigenze che possano prospettarglisi.

Quando poi sorga un motivo di conflitto in questo faticoso congegno, sarà il Capo dello Stato ad intervenire. Io non riesco a comprendere come, essendosi concepito il potere legislativo in una sua unità, sia pure distinto in due Camere egualmente concorrenti al perfezionamento della legge; io non riesco a comprendere come debba poi intervenire un elemento estraneo per comporre il dissidio. Non abbiamo noi previsto, nell’Assemblea nazionale, l’organismo collegiale che aduna le due Camere in una e che costituisce l’organo legislativo supremo del Paese? Per quale ragione, se non per accrescere le possibilità di conflitto, noi dobbiamo fare intervenire un elemento estraneo nei conflitti delle due Camere? Ma anche questa volta si è detto che era necessario mettere dei freni a che il potere legislativo non esorbitasse dalle sue funzioni, a che noi non dovessimo cadere in una situazione in cui il Parlamento, attraverso le sue crisi e i suoi dissensi, dovesse portare ad un progressivo svilimento dell’istituto democratico. Ma ancora agli altri poteri sono stati stabiliti, nel complesso di questo progetto, limiti, condizioni, strumenti di rallentamento e di freno. Così accade per il Governo che dovrebbe patire, secondo l’attuale progetto, almeno il controllo di un Consiglio di Stato, di una Corte dei conti, il cui modo di composizione è completamente sottratto alla competenza del costituente e rinviato al legislatore ordinario.

Ora, io penso che domani, quando il Governo dovrà trovarsi a concretare, secondo lo spirito delle leggi che verranno emanate dal legislatore futuro, i principî che noi stabiliamo in questo momento nella Costituzione, esso dovrà agire e dovrà muoversi nell’ambito di una sfera di discrezionalità tale che l’organo che dovrà domani controllare i suoi atti non potrà limitarsi a controllare la pura legittimità; dovrà fatalmente sconfinare nel merito. E noi possiamo rimettere un controllo di tale portata ad un organo di cui oggi non possiamo prevedere quale sarà la composizione, quale sarà la natura? Io penso che ciò non sia possibile. Ma questo intervento di un’istanza giurisdizionale, di un corpo tecnico giudicante, nella vita e nello svolgimento dell’attività di un Governo e nell’attività legislativa del nostro Paese risponde ad un criterio, ad una tendenza che ha trovato i suoi assertori nelle Commissioni e che ha lasciato traccia – come dicevo – in tutto, il progetto di Costituzione: ed è la tendenza a inserire il giudice, il tecnico, il possessore dei criteri interpretativi della legge, come giudice e arbitro tra i poteri, come discriminatore dei loro conflitti, come il meglio adatto ad interpretare la volontà del legislatore ed a correggere l’indirizzo dell’esecutore o del legislatore stesso, quando si tratti dell’interpretazione e dell’applicazione dei principî di questa Carta.

In questo senso e rispondendo a questi principî, a questo punto di vista, si è svolta nelle Commissioni una grande battaglia per affermare l’autonomia della Magistratura. Oh! Io non polemizzerò su questo argomento; non ricorderò il caso Pilotti, che è stato già ricordato. Non è certo stata questa la ragione per cui noi ci siamo opposti ad una autonomia assoluta della Magistratura: non davamo una tale importanza al caso Pilotti, per quanto una sua importanza l’abbia; non fosse altro come sintomo. Non è stata questa però la ragione per cui noi abbiamo ritenuto che la Magistratura non debba costituire un corpo a sé, un ordine a sé, autogovernantesi in forma assoluta, indipendente e senza alcun controllo di altre istanze o di altri organi. Non è stata questa la ragione. Se fosse stata questa, e se noi dovessimo scendere su questo terreno, io ripeterei quello che dicevo ieri, interrompendolo, all’onorevole Calamandrei: se noi entriamo su questo terreno polemico e ci poniamo a considerare se la Magistratura fra cinque, dieci, fra cinquant’anni potrà diventare una Magistratura nuova, antifascista e democratica, se noi ci poniamo su questa prospettiva del domani, ebbene rimandiamo al preambolo questo principio; al preambolo in cui, secondo lei, onorevole Calamandrei, dovrebbero inserirsi quei principî che non possono trovare un’attuazione immediata. Qui sì vi sarebbe motivo, perché l’attuazione di questo principio non da noi dipende, ma dalla Magistrature stessa, dagli uomini, dalla posizione che essi assumeranno nello schieramento democratico e dall’atteggiamento che prenderanno rispetto alla realtà viva, repubblicana, del nostro Paese. Non da noi. E poiché la cosa non dipende da noi, io sarei favorevole a che la si affermasse nel preambolo.

Ma non è questo, ripeto, il motivo per cui noi ci siamo manifestati in questo senso per quanto riguarda la Magistratura. È un altro, ed è che nello Stato italiano non possono esservi poteri che siano completamente sottratti al controllo delle istanze democratiche, delle rappresentanze popolari. Noi non possiamo ammettere che i giudici, corpo qualificato, alto e selezionato quanto si voglia, possano però immettersi nel corpo della democrazia italiana, inserirsi come organo giudicante tra il legislativo e l’esecutivo, controllare la legittimità di determinati atti di Governa o la costituzionalità di determinate leggi, senza che abbiano dietro di essi una volontà popolare, che suffraghi la loro interpretazione, senza che abbiano una qualsiasi investitura che li ponga in condizione di poter interpretare la volontà del legislatore, di poter interpretare la volontà del costituente.

Per queste ragioni, noi siamo stati sostenitori del principio che la Magistratura deve essere governata e controllata da organi in seno ai quali i diversi poteri, e particolarmente il potere legislativo e le rappresentanze popolari, abbiano una loro specifica rappresentanza.

La traccia, però, dell’opinione contraria è rimasta. È rimasta in quanto si esclude la partecipazione in questi organi del rappresentante più diretto e più qualificato dell’esecutivo, del Ministro della giustizia, ed è rimasta in quanto in nessuna parte di questo progetto si prevede la eleggibilità del giudice, si prevedono dei giudici elettivi.

Noi siamo sempre pronti, o meglio talune frazioni di questa Assemblea e taluni gruppi della Commissione, erano sempre pronti a celebrare altre Costituzioni, in altri momenti e per altre ragioni; nessuno però celebrava la parte positiva delle altre Costituzioni, nessuno ha ricordato che in altre Costituzioni il principio della elettività dei giudici, almeno nei primi gradi, è ammesso e riconosciuto come uno dei fondamenti del regime.

Questa è indubbiamente una deficienza che è rimasta nella stesura del nostro progetto e che corrisponde a tutta una tendenza contro la quale noi abbiamo dovuto lottare, tendenza diretta a sottrarre al popolo e al controllo diretto del popolo, quanto fosse più possibile, i poteri dello Stato.

Un’ultima questione, che è sorta in questo ordine, è quella che concerne la Corte costituzionale. Anche della Corte costituzionale si è tentato di fare un organo avulso dalla vita della nazione e dalla volontà del popolo. Questo tentativo è caduto. La Corte costituzionale, per quanto eletta secondo particolari criteri e con particolari modalità che non sono completamente soddisfacenti, sarà sempre un organismo investito della sua autorità dal Parlamento, e noi pensiamo che soltanto il Parlamento, il quale sia pure con maggioranza qualificata può modificare la Costituzione, soltanto il Parlamento, il quale unico nella vita della democrazia italiana, è investito della facoltà di rappresentare tutto il popolo nel suo complesso, possa eleggere, sia pure entro determinate categorie, i giudici che dovranno interpretare la volontà nostra e comparare le norme legislative emanate dal legislatore ordinario alle norme emanate da noi, potere costituente. Tutti questi limiti naturalmente non sono stati introdotti senza pretesto. Si è detto e si è ripetuto che si voleva ovviare a quelli che vengono definiti i difetti del regime parlamentare. Quando si è attribuito il potere legislativo alle Regioni, si è detto che si voleva lottare contro il centralismo, contro lo Stato centralizzatore, contro il Parlamento che monopolizzerebbe la potestà legislativa e sottrarrebbe alle distanze inferiori qualsiasi possibilità di regolare secondo esigenze particolari i loro particolari problemi.

Quando si è costituita la seconda Camera con eguali poteri e si è determinata una procedura lenta e laboriosa, si è detto che si introducevano queste cautele contro le avventatezze della prima Camera; quando si è stabilito l’intervento del Capo dello Stato e quando si è attribuita al Capo dello Stato la facoltà di sciogliere le due Camere, si è detto che questo era necessario per introdurre un elemento estraneo che potesse comporre i dissidi; quando si è creato il Consiglio di Stato e si è riconosciuta la necessità di mantenere la Corte dei Conti, si è detto che questo era ancora necessario perché l’esecutivo patisse un controllo esterno ed indipendente da esso; quando si è costituita la Corte costituzionale si volevano garanzie perché la Costituzione fosse realmente osservata.

Ma se noi osserviamo quale significato e quale valore abbiano nella nostra Carta costituzionale tutte queste garanzie che io ho elencato, noi scopriremmo che la giustificazione si fonda sopra una essenziale ingenuità: si cercano le garanzie nei congegni, in particolari strutture, in particolari forme organizzative che dovrebbero impedire, che dovrebbero eliminare tutti i difetti del regime parlamentare. Si vuole risolvere con particolari congegni, con particolari strutture quello che è un problema eminentemente politico e soltanto politico. Io comprendo che impedire, frenare, limitare, trattenere hanno un significato ed hanno un valore politico in quanto frenare e trattenere vuol dire conservare, e risponde quindi all’indirizzo di una politica eminentemente conservatrice il frapporre ostacoli all’attività dello Stato, o il mettere in uno stato di crisi permanente i diversi poteri; o il predeterminare congegni di una particolare lentezza. Io comprendo che tutto ciò ha un significato politico, che significa conservare quello che vi è, impedire che le forze nuove che sono la espressione del popolo manifestino la loro volontà, esprimano la volontà di rinnovamento che pervade tutta la democrazia italiana. Ma noi dobbiamo svelare che cosa si cela dietro questo tentativo. Dietro questo tentativo e dietro questa tendenza si cela unicamente e soltanto una fondamentale paura del popolo, un timore della volontà popolare, una paura del popolo e dei partiti in cui il popolo si organizza, dai quali invece deve partire, sui quali deve fondarsi ed a cui deve tendere tutta l’organizzazione dello Stato.

L’onorevole Lombardi, se non erro, in altra discussione constatava che ormai la sostanza del potere politico è fuori di questa Assemblea, e lamentava questo fatto ricordando come in altri tempi il Parlamento era realmente centro del dibattito e della lotta politica del Paese. Ma io credo che questo accada oggi fatalmente perché il potere politico è nel popolo, e deve essere fatalmente nel popolo quando noi poniamo a fondamento della nostra Costituzione la sovranità popolare.

Non noi, non questa Assemblea è sovrana, ma il popolo che sta fuori di questa Assemblea e di cui noi siamo i genuini e legittimi rappresentanti. Nel popolo, quindi, e nei partiti in cui il popolo si organizza, risiede la sostanza del potere politico. Da chi vogliamo garantirci noi? Da questo potere politico? Dai partiti, dal popolo? Vogliamo quindi misconoscere la sovranità popolare, menomarla, limitarla quanto più è possibile? Io credo che tutti i difetti del parlamentarismo scompaiano man mano che i partiti avanzano, man mano che i partiti si consolidano e penetrano nella coscienza dei cittadini, man mano che diventano forme di organizzazione popolari e raggruppano quanto più è possibile intorno a movimenti ideali e ad indirizzi pratici le più grandi masse.

Io credo che questa forza dei partiti tenda ad eliminare i difetti del parlamentarismo. La sovranità è nel popolo, non è nel Parlamento, e noi qui contiamo unicamente per quel che rappresentiamo. È per questo che tutto ciò che è stato previsto per la difesa delle minoranze ha un valore, ma un valore limitato, nelle forme attuali in cui si sviluppa e si orienta la nuova democrazia italiana.

Lo scopo fondamentale del regime democratico non è soltanto garantire la libertà dei pochi, ma è permettere l’attuazione di quelle idee e di quei principî che sono ormai penetrati nella coscienza dei più, che sono diventati anima di grandi movimenti popolari, che ormai raccolgono il suffragio ed il consenso della più gran parte della nazione.

In questo senso, onorevoli colleghi, io credo che la Costituzione debba orientarsi e che noi dobbiamo orientarci nel giudicare la Costituzione. In questo senso moveranno le nostre critiche a questo progetto che noi accettiamo come base di discussione, come utile base di discussione.

Noi non temiamo quello che dalla Costituzione rimane escluso, quello che rimane indefinito. Noi non temiamo il popolo che sta dietro a questa Costituzione e che sarà domani al di là dell’ordinamento democratico, come presupposto dell’ordinamento democratico dello Stato. Noi non pensiamo che i congegni, che i meccanismi costituzionali che possiamo predeterminare possano essere così efficienti da poter escludere qualunque pericolo.

Io vorrei che fosse così; vorrei che la semplice istituzione di una Carta costituzionale potesse garantirci per sempre dal pericolo della tirannide; vorrei che la forza e la solennità di queste parole impresse sulla carta o sulle tavole costituzionali avessero tal peso da poter impedire domani qualsiasi tentativo contro la democrazia.

Ma non ho questa speranza, non ho questa illusione. So che la garanzia maggiore dell’orientamento democratico del nostro Paese non è in questa Carta. È, onorevoli colleghi, unicamente nel popolo; è soltanto il popolo che può garantire che i principî che noi immettiamo nella Costituzione si tradurranno domani in realtà, che può garantire che i congegni che noi predeterminiamo agiranno domani nel senso che noi oggi ci auguriamo. È soltanto nel popolo che noi possiamo trovare la nuova garanzia del domani. Ed è per questa ragione che noi ci sforzeremo in tutti i modi, nel criticare questo progetto di Costituzione, di far sì che l’ordinamento dello Stato di domani sia il più democratico possibile, che non vi siano vicoli ciechi, che non vi siano budelli, vasi ostruiti, che la volontà popolare possa penetrare tutto il congegno e giungere in ogni lato, fin nelle più remote parti, nei più remoti settori dell’ingranaggio. È per questo che noi ci sforzeremo di fare in modo che l’ordinamento dello Stato sia quanto più democratico possibile, in modo che le forze delle grandi correnti democratiche del nostro Paese possano immettervi domani quello spirito unitario, quella volontà unitaria che manca oggi forse in questi congegni così predeterminati, l’uno distinto dall’altro, l’uno all’altro contrapposto. In questa volontà unitaria dei partiti e delle grandi masse popolari noi troviamo la maggiore garanzia che l’unità politica materiale e morale del nostro Paese non verrà spezzata. Nella forza dei grandi partiti di massa noi troviamo la garanzia che domani i principî che noi immettiamo nella Costituzione verranno tradotti in realtà. In questa circolazione, in questo respiro nuovo, noi vediamo la garanzia dell’orientamento interno e internazionale del nostro Paese, onorevoli colleghi, la garanzia suprema che l’Italia di domani sarà realmente una Repubblica democratica rispettosa della libertà, avviata sulla strada del progresso, decisa ad entrare come una forza attiva e pacifica nella comunità dei popoli liberi (Vivissimi applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle ore 16. Domattina vi sarà anche seduta alle ore 10.

La seduta termina alle ore 20,5.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro Michele Parise, per il reato di vilipendio dell’Assemblea Costituente (Doc. I, n. 3).
  3. – Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Colombi, per il reato di diffamazione a mezzo della stampa (Doc. I, n. 4).
  4. Discussione del disegno di legge:

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni. (2).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

MARTEDÌ 4 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XLIX.

SEDUTA DI MARTEDÌ 4 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Commemorazione:

Marchesi                                                                                                          

Presidente                                                                                                        

Gasparotto, Ministro della difesa                                                                     

Discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Presidente                                                                                                        

Lucifero                                                                                                           

Bozzi                                                                                                                 

Calamandrei                                                                                                   

La seduta comincia alle 15.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli Spano, Vigorelli, Facchinetti.

(Sono concessi).

Commemorazione.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Marchesi. Ne ha facoltà.

MARCHESI. Onorevoli colleghi, è triste ufficio commemorare quei grandi che il destino ha fermato lungo la via delle più nobili fatiche ed ha strappato alle più legittime speranze. Altri in questa Aula, con autorità e conoscenza che io non ho, potrebbero ricordare Federico Nitti, facendone sentire più acuto ed angoscioso il desiderio; potrebbero ricordare il cittadino e lo scienziato grande: il cittadino che seppe lottare per la libertà della Patria e del mondo e, nell’ora del pericolo supremo, seppe dall’aula del laboratorio passare all’ombra e alla gloria dell’azione clandestina e liberatrice, nelle file di un partito di avanguardia; lo scienziato che contese l’umanità al mistero che l’avvolge e alle insidie e ai pericoli che da ogni parte la colpiscono nella perpetuità delle generazioni. Ma già, certi uomini pare non appartengano a nessuna particolare scienza: essi appartengono a tutta la scienza, e la loro indagine e il loro studio penetrano addentro in quel fluire e rifluire perenne della materia su cui poggia l’unità stessa della vita. Fra questi uomini rari, poté presto eccellere Federico Nitti.

Onorevoli colleghi, sui banchi di questa Assemblea non siedono soltanto i delegati del popolo né i testimoni delle varie fedi politiche. Qui siedono anche – e lo dico ad onore di questa prima Assemblea dell’Italia libera – i rappresentanti della sofferenza e del sacrificio. E da questi banchi, e da quest’Aula, è naturale che si levi commossa la voce di rimpianto e di riconoscenza a Federico Nitti, allo scienziato grande, di fama universale, che ai dolori dell’umanità prestò la luce del suo intelletto, il ristoro del proprio sapere e l’opera preziosa della sua troppo breve giornata.

Onorevoli colleghi, ho finito. Massimo vanto dell’uomo è non esser passato invano su questa terra: Federico Nitti ebbe altissimo e imperituro questo vanto. Possa questa certezza battere confortatrice alla porta della casa sua desolata. (Applausi).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, le parole di accorato cordoglio e di nobile celebrazione or ora udite, per un italiano che ha esaltato con l’opera sua – pacifica e combattente – il nome della nostra Nazione nel mondo non paiono sufficienti, pur nel loro decoro e nel loro profondo afflato, a soddisfare l’anelito nostro, in cui il dolore si mescola al vanto. Quanti di noi vorrebbero ora rinnovare l’omaggio riverente, rammentare i meriti, segnalare le doti di quello che piangiamo! Chi lo ebbe compagno di studi, chi lo conobbe nelle dure traversie del confino, chi fruì del dono prezioso della sua amicizia; chi lo vide – curvo sulle miserie dei nostri lavoratori emigrati – prodigare loro cure fraterne ed affettuose, chi ha sentito gli stranieri parlare di lui con ammirazione invida del popolo che lo annoverava fra i propri figli.

Desidero esprimere con le mie parole i sentimenti di tutti i componenti dell’Assemblea, forse incapace a rifletterne ogni vibrazione e tremore, ma certamente compenetrato di tutta la loro angoscia.

A nome dell’Assemblea Costituente saluto nello scomparso l’uomo forte e generoso, dall’animo buono di fanciullo; lo studioso severo; il cittadino legato alla Patria da vincoli infrangibili di amore e di fedeltà; e m’inchino dinanzi alla sua memoria che resta per tutti gli italiani maestra di virtù civili, morali e intellettuali. (Segni di assenso).

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Il Governo si associa alle nobili parole pronunciate in memoria di Federico Nitti ed esprime i sentimenti della sua solidarietà al padre, illustre nostro collega.

Discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. (Segni di vivissima attenzione). Onorevoli colleghi, stiamo dunque per dare inizio all’opera fondamentale cui il popolo italiano, nelle sue elezioni del 2 giugno, ci ha delegati. Sono spiacevolmente sorpreso dei tanti vuoti che constato in ogni settore e debbo rammaricare vivamente che la nostra discussione non si inizi alla presenza di tutti, o almeno della maggior parte dei membri della Costituente. (Applausi). Ma non vanamente sono trascorsi i primi otto mesi di vita di questa Assemblea, ché essi ci hanno permesso dall’una parte di accumulare un materiale imponente per la costruzione; dall’altra di sgombrare il terreno, sul quale questa deve sorgere, da un certo numero di impedimenti e di ostacoli. Senza questa fatica, se non silenziosa certamente poco nota, noi non potremmo quest’oggi incominciare finalmente l’esame attento e responsabile del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

In quale modo regoleremo lo svolgimento di questo. nostro lavoro? Fin dall’inizio della sua esistenza questa Assemblea ha dichiarato di fare proprio il regolamento della vecchia Camera dei Deputati. E, quando noi prendemmo questa decisione, già sapevamo che ad un certo momento ci si sarebbe proposta l’opera specificamente costituzionale. Noi abbiamo, quindi, fin d’allora pensato che quel regolamento fosse valido non soltanto per gli altri momenti del lavoro di quest’Assemblea – per quelli, ad esempio, sostanziati da discussioni più squisitamente politiche come i giudizi dell’opera governativa, ovvero più particolarmente giuridiche come l’esame dei progetti di legge che questa Assemblea ha avocati a sé –; ma anche per l’appunto per questa maggiore e possiamo ben dire storica discussione del testo costituzionale. Credo, pertanto, di poter affermare che non era necessario escogitare e redigere un nuovo speciale regolamento per la discussione imminente; ma che, anche per questa, resta valido e sufficiente strumento il regolamento adottato fin da otto mesi fa, salvo un intelligente adeguamento di alcune sue disposizioni.

È partendo da questa considerazione che la Presidenza dell’Assemblea ha delineato alcuni criteri direttivi ai quali essa intende attenersi nell’intento di portare a buon fine la discussione. Criteri direttivi, e cioè non norme rigide; ma che amerei i membri dell’Assemblea volessero tenere presenti sempre nelle settimane venienti, considerando che li ho pensati solo per facilitare il compito arduo che dobbiamo assolvere.

Così, per la discussione generale con la quale apriremo questi nostri lavori costituenti, mi è parso conveniente invitare i Gruppi ad una certa limitazione degli oratori; e, accolto l’invito, le iscrizioni sono salite al numero di 22, cioè approssimativamente a 2 deputati per ogni Gruppo.

È stato detto fuori di quest’Aula che con ciò si soffoca la discussione, e proprio su quella materia che più la pretenderebbe ampia ed esauriente. È chiaro che chi così ha parlato ignora che la discussione generale non esaurisce l’esame di un progetto di legge, sia questo il più importante od il più modesto; ma che essa non ne costituisce se non l’atto introduttivo.

Ma voglio aggiungere qualcosa. A stretto rigore di regolamento, il dibattito cui ci apprestiamo non comporterebbe una discussione generale, se una discussione generale deve concludersi, ed ognuno sa che così vuole il regolamento, con un voto per il passaggio agli articoli. Ma noi non avremo, è evidente, un simile voto: a nessuno potrebbe infatti mai venire in mente che l’Assemblea possa comunque rinunciare all’esame dell’articolazione nella quale il progetto costituzionale si concreta. Ciò non di meno noi la faremo la discussione generale; e ciò proprio per soddisfare alle esigenze imperiose che tutti avvertiamo di non trascurare mezzo che ci conduca alla più intima e piena comprensione della materia costituzionale.

Ma se questa discussione generale può apparire non troppo in armonia con la parola del regolamento, essa deve giustificarsi in punta di logica. E sarà giustificata se si intesserà dei temi e dei motivi che le sono propri e connaturati. Perché ciò si realizzi occorre che essa dall’una parte sfugga dalle semplici astrattezze – che sarebbero un impiego dissipato del tempo non più abbondante che abbiamo a disposizione –; dall’altra che non anticipi le argomentazioni che più naturalmente appartengono a quella fase del dibattito nella quale verranno esaminate le disposizioni specifiche di ogni singolo articolo.

Questa discussione generale, in definitiva, deve essere tale da meritarsi piuttosto la qualificazione di preliminare o di pregiudiziale che non quella stessa di generale. Poiché sarà dalla soluzione che riceveranno i quesiti in essa affrontati che sarà dettata la struttura d’assieme della Costituzione, il coordinamento delle sue parti, la successione e la formulazione delle sue norme. Preambolo o non preambolo? Rigidità o flessibilità? Norme giuridiche di più o meno immediata efficacia o affermazioni programmatiche e finalistiche? Così a titolo di esemplificazione i temi che, mi pare, dovrebbero nutrire questo preambolo del dibattito; temi che sotto al loro apparente tecnicismo offrono in realtà l’adito al vasto campo delle considerazioni d’ordine storico e sociale, alla cui luce il testo costituzionale cessa di essere un documento di pura perizia giuridica per divenire un atto di vita del nostro popolo.

Da questa scelta e specificazione di materia e dalla limitazione degli oratori, designati da tutti i gruppi fra i propri membri più autorevoli, il dibattito iniziale riceverà un carattere di particolare elevatezza, quasi un appello al popolo italiano, ed un aiuto offertogli, perché non disperda la sua attenzione nei particolari, pur importanti, del grande edificio in costruzione della sua nuova legalità democratica e repubblicana; ma ne miri innanzi tutto, e ne saggi i pilastri che garantiscono la solidità e la coesione del tutto.

Alla fine di questa discussione generale-preliminare potranno anche aversi delle votazioni – ad esempio sull’opportunità o meno di un preambolo, sulla forma finalistica di certe disposizioni, ecc. – il cui risultato si farà avvertire poi nel destino che avranno di fronte al giudizio dell’Assemblea certi articoli o certi emendamenti.

Così, sgombro il cammino da ogni questione sistematica pregiudiziale, potremo passare all’esame di merito delle norme concrete costituzionali, e lo compiremo titolo per titolo, procedendo per ciascuno di questi ad una discussione particolare che abbraccerà tutta la loro specifica materia.

Potrebbe qualcuno obiettare che, così procedendo, noi sovvertiremo il criterio, ispiratore dell’articolo 86 del regolamento, il quale propone la discussione generale di un progetto o la sua discussione per titoli come una alternativa. Ma l’importanza eccezionale di questo progetto che abbiamo oggi dinanzi a noi ci autorizza a trasformare l’alternativa in complementarietà. Non solo, ma giungendosi, a questo punto, al vivo della materia – i diritti dei cittadini, le forme istituzionali, le funzioni correlative – ogni limite alla discussione, come numero di oratori e come tempo di parola, sarebbe inammissibile. Tuttavia, onorevoli colleghi, non dobbiamo dimenticare, nel fervido contrastare delle opposte tesi, che dibattiti approfonditi e ben nutriti di dottrina e di scienza già si svolsero attorno ad ognuno di quegli argomenti in seno alla Commissione dei 75 e più in seno alle sue Sottocommissioni. E la lettura dei voluminosi resoconti sommari, facendone testimonianza, ammonisce insieme che sarebbe inutile rinnovare ancora certe discussioni di principio nelle quali fu già ottimamente detto tutto quanto poteva essere detto per la chiarezza dei concetti e per la confusione dei contradittori. Lasceremo, comunque, qui libero giuoco allo spontaneo senso della misura che auspico sia vivo ed operante in ognuno di noi dell’Assemblea.

Alla discussione sulla particolare materia di ogni titolo seguirà naturalmente l’esame dei rispettivi articoli. Ma non resterà più molto a dirsi, suppongo, giunti che saremo a questo punto, poiché le norme specifiche di ogni singolo articolo, specialmente nelle parti dedicate alla struttura dello Stato, acquistando valore ed efficienza solo in connessione con quelle di tutti gli altri articoli, la discussione del titolo non potrà non avere già esaurito in massima parte la discussione propria degli articoli stessi. L’esame degli articoli si risolverà dunque nell’esame degli emendamenti. Avranno perciò la parola in questa fase finale della discussione soltanto i presentatori degli emendamenti, ed ancora per un limite di tempo proporzionato all’importanza, certo non trascurabile ma – in confronto al già fatto – marginale, del loro assunto: tempo che indicherei in dieci minuti.

Chiedo fin d’ora, al proposito, agli onorevoli colleghi di presentarmi per iscritto i loro emendamenti almeno 48 ore prima del giorno nel quale presumibilmente questi dovranno essere discussi, salvo bene inteso gli emendamenti agli emendamenti, che a norma di regolamento potranno essere presentati nel corso stesso della discussione, purché sottoscritti da almeno 10 deputati.

Credo che la disposizione del quinto comma dell’articolo 90 del Regolamento, a tenore del quale un articolo aggiuntivo o un emendamento proposto nell’aula possono essere rinviati per la discussione quando lo richieda o la Commissione o un gruppo di 10 deputati, troverà più di una volta applicazione nelle prossime settimane; così come potrà alcune volte apparire necessario valersi della disposizione dell’articolo 96, se avvenga che una decisione che si sta per prendere o che è stata ad un certo momento presa appaia o sia in contradizione con votazioni antecedenti.

Se ora aggiungo che agli oratori della discussione generale introduttiva risponderà il Presidente della Commissione dei 75; a quelli delle discussioni generali per titoli i relatori della rispettiva materia in seno alle Sottocommissioni; e che, sugli emendamenti, si pronunceranno i Presidenti delle stesse Sottocommissioni, credo di avere completato il quadro della tecnica della nostra discussione costituzionale.

Ma è certo che la perfezione tecnica del metodo non sarà sufficiente a sodisfare le attese ansiose che circonderanno il nostro lavoro. E neanche le placheranno l’abbondanza di erudizione, lo splendore della dottrina, il dominio del ragionamento, l’abilità polemica, la ricercatezza del linguaggio di cui la nostra tornata parlamentare sarà ricca e generosa.

La imminente discussione, onorevoli colleghi, deve assolvere – oltre che quello costituzionale – un altro compito, che non dirò gli sovrasta, ma certo gli sta a paro. Essa deve dare conforto a tutti coloro – e sono incommensurabilmente i più, fra il popolo italiano – che nell’istituto parlamentare vedono la garanzia maggiore di ogni reggimento democratico; a tutti coloro che, soffrendo in sé – nel proprio spirito – di ogni offesa ed ingiuria che venga portata contro il principio rappresentativo e gli istituti nei quali esso storicamente oggi s’incarna, voglion però a buon diritto, e si attendono, che questi non vengano meno al proprio dovere: che non è solo quello di elaborare testi legislativi e costituzionali, ma anche di essere in tutti i propri membri esempio al Paese di intransigenza morale, di modestia di costumi, di onestà intellettuale, di civica severità; ed ancora – me lo si permetta – di reciproco rispetto, di responsabile ponderatezza negli atti e nelle espressioni, di autocontrollo spirituale ed anche fisico, di sdegnosa rinuncia ad ogni ricerca di facili popolarità pagate a prezzo del decoro e della dignità dell’Assemblea.

È certo difficile, dopo tanta immensità di umiliazione nazionale, ritrovare d’un tratto quell’incrollabile equilibrio interiore senza il quale non può darsi alcuna consapevole e conseguente attività politica, e cioè attività in servizio del bene pubblico. Ma ciò che per tanti, più prostrati dalla miseria e meno ferrati nel sapere, può ancora essere una meta da raggiungere, per noi – che abbiamo osato accogliere l’offerta di farci guida del popolo – per noi ciò deve essere, o dovrebbe essere, certamente una meta già conquistata. Io amo, dunque, pensare, onorevoli colleghi, che l’alta impresa cui oggi moveremo i primi passi, impegnandovi ogni nostra forza d’ingegno, ogni nostro moto di passione, ogni nostro fervore di fede, riuscirà a dare prova ai nostri ed ai cittadini di tutti i Paesi del mondo che l’Assemblea Costituente italiana è pari alla sua missione, e degnamente rappresenta il popolo che l’ha eletta, un popolo probo, eroico, incorrotto. (Vivissimi, prolungati, generali applausi).

Il primo oratore iscritto è l’onorevole Lucifero. Ha facoltà di parlare.

LUCIFERO. Onorevoli colleghi, anzi, per essere più esatti oggi, signori costituenti, perché in tale qualifica è la solennità particolare di questa nostra riunione in cui oltre al mandato che gli elettori ci hanno dato comanda l’imperativo della nostra coscienza.

Le nobili parole del Presidente hanno già indicato, nella sua tecnica e nel suo spirito, la via che deve seguire questa discussione; questa discussione che dell’Assemblea Costituente italiana – della prima Assemblea Costituente nazionale italiana – segna il vero principio ed anche, in un certo senso, la fine.

È stata un po’ scialba la vita della nostra Assemblea in questi suoi mesi di esistenza. Speravamo di più, speravamo di poter seguire più assiduamente l’opera legislativa e l’opera politica del Governo. Questo è mancato e non per colpa dell’Assemblea. Io mi auguro che accada di noi e della nostra Assemblea quello che accade di certe faci le quali non danno molta luce, producono molto fumo, ma nel momento di spengersi, hanno una fiammata vivissima che tutto illumina.

La combinazione vuole, e forse non soltanto la combinazione, che in questa prima seduta dell’Assemblea che deve dare corpo e sostanza alla Repubblica italiana, prenda per primo la parola chi ha condotto senza riserve, senza reticenze, con piena lealtà, una grande battaglia e credo di poter dire una bella battaglia. E forse è opportuno che sia così perché è ora che monarchici e repubblicani si ritrovino sulla strada comune della Patria, e che conflitti e scissioni cessino dove non sono cessati.

In quest’aula si sono sentite ancora parole grosse, contumelie e ingiurie inutili e nocive: inutili perché non alteravano la realtà dei fatti, nocive perché ferivano i sentimenti di molti italiani. Oggi è ora che queste parole cessino e che tutti gli italiani si trovino uniti: coloro che, come me, credettero e ancora credono che potesse essere nell’interesse del Paese la permanenza della Monarchia e coloro che avevano opinione contraria. La Patria, o la costruiamo tutti uniti o non la costruiremo mai; e quanto più avremo il senso di responsabilità di questa nostra azione, tanto più, proprio dal risultato del nostro lavoro, risulterà se avremo potuto dare una risposta a questo primo interrogativo: Monarchia o Repubblica? Solo la Repubblica, cioè le leggi e la costituzione della Repubblica, e il modo con cui esse verranno applicate potranno risolvere la questione istituzionale. Lo dissi già nel mio primo intervento all’Assemblea e lo disse molto autorevolmente anche l’onorevole De Gasperi in una recente intervista. Noi vogliamo chiudere tutto quello che possa dividere il Paese e siamo qui per cercare di fare leggi tali da poter rimarginare le nostre piaghe e sopire tutti i risentimenti. Noi non vogliamo fare altro che creare l’Italia e fare sì che essa – repubblicana o monarchica – divenga una cosa sola.

La vera crisi che ha travagliato l’Italia in questi anni è stata non una crisi istituzionale, ma è stata una crisi costituzionale; perché il processo che si è fatto al passato del nostro Paese è stato un processo di natura costituzionale, tanto che si è detto che, se lo Statuto fosse stato applicato esattamente, molte cose non sarebbero successe.

Ciò si è detto da alcuni, non da lei onorevole Conti, è anche da autorevoli miei amici… (Interruzione).

Potrebbe stupire che, essendosi detto questo, invece di tornare a quello Statuto che avrebbe potuto dare delle garanzie, se bene applicato, invece di costringerlo ad essere bene applicato, si sia pensato ad una costituzione nuova. Ma l’importante è che ci sia una Costituzione che finalmente ci garantisca il bene supremo: la libertà; e una libertà che sia garanzia di sicura giustizia.

Oggi ci troviamo senza legge, oppure con una para-legge che effettivamente è molto strana, se pensiamo che contraddice ugualmente alla Costituzione cessata ed al progetto della nuova.

Non ritorno sull’abituale argomento, abituale perché vero, fondato sulla retroattività di certe disposizioni; non ritorno sulla questione più grave, che è stata segnalata più di una volta, della mancanza di gravame che certe sentenze comportano in questa legislazione provvisoria dello Stato provvisorio.

Ma mi voglio fermare un momento sulla questione non meno grave della carenza del Giudice che è stata tipica, ed è tipica, nel momento che attraversiamo. Oggi il Giudice è stato sostituito dal membro di commissione.

Una quantità di questioni che involgono non solo problemi di principio, ma anche interessi di grande importanza, sono state sottratte al Giudice per essere affidate a Commissioni ed a Commissari. I Commissari, con i compiti più disparati, sono stati creati, e non soltanto alla periferia, con l’unico criterio non solo della sopraffazione di un partito sull’altro, ma della lotta campanilistica di una persona sull’altra, di un gruppo sull’altro, di un particolare interesse sull’altro. Nei piccoli centri, se Tizio è comunista Caio deve essere liberale, e se Tizio per avventura vuole essere lui liberale, Caio deve essere comunista, perché così vuole la tradizione della lotta di paese: Tizio e Caio sono infatti i due capi-partito locali.

Questa carenza del Giudice deve finire: e dalla Costituzione soprattutto questo ci attendiamo: la garanzia che la Giustizia sia affidata a chi può e sa amministrarla e che questo carnevale di incompetenti spesso, e di faziosi qualche volta, cessi di sgovernare tutto l’ordinamento del nostro Paese.

Si pone in questa sede la crisi fondamentale del fascismo e dell’antifascismo. L’antifascismo ha avuto una nobilissima missione finché c’era il fascismo, perché era la negazione del fascismo ed era la lotta contro di esso. Ma se l’antifascismo volesse continuare a sopravvivere al fascismo, diventerebbe semplicemente un fascismo alla rovescia.

E molte delle cose che ho accennate – e le ho accennate con intenzione – erano proprio cose fasciste applicate da antifascisti. E badate bene, la colpa non è tutta degli antifascisti – fra i quali del resto sono anch’io – ma degli Alleati. Gli Alleati vennero in Italia non comprendendo nulla delle cose italiane, e credettero di debellare il fascismo facendo la lotta ad uomini e ad istituti; ma la lotta al metodo ed alla concezione fascista non l’hanno fatta mai. Anzi sono stati loro i primi a proseguire nei metodi fascisti.

Bisogna dunque debellare ogni sopravvivenza fascista, bisogna chiudere il periodo del metodo fascista perché il fascismo va definitivamente eliminato.

Quindi la Costituzione dovrà essere e deve essere non antifascista soltanto ma qualche cosa di più: dovrà essere afascista. Il fascismo non ci deve più entrare né in forma positiva né in forma negativa. Il fascismo deve essere cancellato, non deve più esistere, nemmeno come numero negativo.

Oggi la Costituzione deve condurci all’afascismo, verso quella concezione che resta liberale perché è la concezione di uno Stato di uomini liberi, la cui libertà è negazione del fascismo.

E solo afascista può essere lo Stato democratico perché la democrazia (mi perdoni l’onorevole Togliatti) non ammette aggettivazioni. La democrazia è una, la democrazia è un piano sul quale ciascuno di noi combatte la propria battaglia e nel quale ciascuno di noi trova le sue garanzie. La democrazia non può essere né nostra, né vostra, né loro; la democrazia è di tutti, come la libertà, che, se non è di tutti, non è di nessuno.

Nel preparare questa Costituzione, in quei lunghi e faticosi ed intensi lavori preparatori ai quali anch’io ho avuto l’onore di partecipare, sia pure molto spesso, se non quasi sempre, come lo spirito che nega (io ero «der Geist der stehts Verneint»), ho ripetutamente affermato questo principio.

Il secolo scorso, con la sua rivoluzione ci diede la libertà, e fu grande conquista. Tutto lo sforzo degli uomini e tutto lo sforzo dei costituenti di allora, che ebbero la fortuna di essere pochi, e quindi di poter seguire un concetto più univoco, fu quello di assicurare questa libertà e di darsela come loro la intendevano. Ma, risolto il problema della libertà, è successo quello che succede sempre quando un problema è risolto: che se ne affaccia un altro e con particolare urgenza. E sorse così il problema della sicurezza, intesa come sicurezza economica e come sicurezza di vita dei cittadini; e questa fu una grande battaglia che ha mirabilmente condotto il socialismo in quasi un secolo di combattimento.

È accaduto però quello che sempre accade: che ad un certo punto il conflitto per la sicurezza è diventato conflitto contro la libertà.

Così la libertà e la sicurezza sono state l’una contro l’altra, poiché l’esigenza della libertà non si sentiva perché c’era, e l’esigenza della sicurezza era profonda e se ne sentiva profondamente il bisogno. Ed oggi siamo ancora in questa fase, oggi ancora si contrappone spesso la sicurezza alla libertà, e gli stessi Stati totalitari sono stati un tentativo di risolvere unilateralmente il problema della sicurezza – non so con quale risultato – però non hanno saputo risolverlo che a scapito della libertà. Il problema che oggi ci si pone è il problema della sicurezza nella libertà e della libertà nella sicurezza; un problema che noi ormai sappiamo definire ma di cui ancora non abbiamo visto la strada della soluzione. Siamo tuttora in questo campo, in un periodo di ricerca e di lotta.

La stessa dottrina non ha ancora trovato la sua strada e non sa darci delle indicazioni precise. Anche Röpke, che ha fatto una diagnosi tanto interessante dei problemi economici, quando è andato alla ricerca della terza strada è caduto un po’ nella prima, un po’ nella seconda, e la terza strada non l’ha trovata; perché questa si troverà soltanto il giorno in cui potremo stabilire un parallelismo fra l’una e l’altra, cioè il giorno in cui la sicurezza e la libertà non potranno più interferire l’una contro l’altra ma sapranno camminare parallelamente alla vita degli uomini e gli uomini potranno camminare sull’una e sull’altra via, come se fossero una strada sola. Questo fa sì che le Costituzioni che sono nate o che nascono in questo periodo assumono un carattere strano, carattere strano che ha ben definito l’onorevole Ruini nella sua relazione:

«In esse non si sa ancora, (o meglio si sa, ma non si vuol sapere), quanto resti del vecchio e quali siano i lineamenti del nuovo».

È quello che succede ogni qualvolta una Costituzione non possa rappresentare il risultato di un momento storico politico e morale chiaramente definito; la conclusione, insieme, di un periodo storico ed il principio di un altro.

Allora, le Costituzioni non possono fotografare questo, cioè non possono effettivamente dire: «Queste sono le conquiste raggiunte; le consacriamo per marciare verso le conquiste avvenire»; quando le Costituzioni non possono fare tale affermazione esse sono Costituzioni interlocutorie.

E questa nostra Costituzione, nelle sue incertezze, nelle sue contradizioni, assume un carattere di interlocutorietà che può essere nei tempi e nel risultato dei tempi; ma che dobbiamo cercare di ridurre al minimo, perché la Costituzione deve essere per tutti noi un punto fermo e non un argomento continuo di interpretazioni e di discussioni.

In fondo, le Costituzioni sono fatte dal loro spirito; e io sollevai – i miei colleghi della prima Sottocommissione se ne ricorderanno – questo problema nella prima riunione nostra. Dissi: «Che Costituzione vogliamo fare? Quale deve essere lo spirito di questa Costituzione che sorge in un tempo in cui non ci si contenta più delle sole affermazioni giuridiche, delle sole garanzie di libertà, delle varie libertà; ma si cerca la soluzione di problemi nuovi, economici e sociali, e molto spesso la si cerca in formulazioni semplicistiche e vaghe che sono più l’espressione di un desiderio che la manifestazione precisa di una volontà che si vuole seguire; che sono più l’ombra di un sogno che una realtà normativa»?

Questo spirito della costituzione non c’è e forse per questo la costituzione manca di quello che, in fondo, è un fatto essenziale delle costituzioni; manca di un Preambolo.

Si è molto parlato di questo Preambolo; ne abbiamo discusso. Molti argomenti furono addirittura rinviati al Preambolo. Si è detto: «Va bene; questo lo abbiamo stabilito: troverà il suo collocamento nel Preambolo».

Nel Preambolo, poi, questo collocamento non l’hanno trovato, perché il Preambolo è proprio quella tale essenza, quel sunto dello spirito della costituzione che deve servire come guida alla sua interpretazione, alla sua comprensione e che non siamo riusciti a fare e che io ritengo sia necessario di fare.

Ritengo che sia necessario di farlo, perché l’esperienza ci ha insegnato – noi lo vediamo, ad esempio, in America, quando sorgono dei conflitti sull’interpretazione della Costituzione – come proprio dal Preambolo si tragga luce per poter interpretare giustamente quello che può essere il contenuto del testo della legge costituzionale.

Questa è la ragione per la quale io ho presentato al banco della Presidenza un emendamento aggiuntivo che contiene un brevissimo Preambolo da far precedere alla Costituzione; perché vorrei che questo spirito comune che ci anima tutti potesse trovare espressione in una volontà nuova, anche se non abbiamo trovato la parola; e almeno di quello che è lo spirito informatore rimanga qualche cosa, che ci possa guidare e possa guidare chi successivamente dovrà applicare la nuova Costituzione.

È tutto quello che rimane, di un intero progetto: perché a un certo momento, di fronte a certi contrasti di opinioni, profondi, che io avevo sentito – e come me altri amici che collaboravano alla commissione – avevo cominciato con alcuni colleghi più competenti di me in materia a preparare proprio direi quasi un controprogetto; ma poi è prevalso il concetto che era più utile cercare di perfezionare il progetto presentato piuttosto che presentarne uno nuovo e confondere le idee, e forse anche gli spiriti.

Ma il Preambolo è rimasto ed io l’ho proposto, e suona così:

«Il popolo italiano, invocando l’assistenza di Dio, nel libero esercizio della propria sovranità, si è data la presente legge fondamentale, mediante la quale si costituisce e si ordina in Stato.

«La legge costituzionale dichiara con valore normativo assoluto i diritti inalienabili e imprescrittibili della persona umana come presupposto e limite legale permanente all’esercizio di ogni pubblico potere; stabilisce i poteri e gli organi della sovranità; determina i modi e le forme necessari al sorgere d’una volontà legale dello Stato.

«Il popolo italiano, consapevole che ogni associazione umana si realizza nell’esercizio della cooperazione e della solidarietà, intende che l’opera dello Stato sia diretta, nelle forme e nei limiti della presente Costituzione, a rendere possibili e attive l’una e l’altra, per la sempre più felice e giusta convivenza civile».

Sono tre periodi: uno politico, uno giuridico, uno sociale.

E vi prego di notare che sarebbe l’unico punto della nostra Costituzione in cui Dio è invocato ad assisterci e ad aiutarci; quel Dio che non è di questa o di quella Religione, ma di tutti gli uomini; quel Dio ente supremo, spirito superiore, che anima l’umanità, e che da noi latini, nella nostra terra, che ha dato tanto fervore e tanto cuore alla Religione nostra attuale ed a quelle che l’hanno preceduta, non può essere dimenticato nella legge fondamentale che deve regolare la vita del nostro Paese. (Applausi a destra e al centro).

Qual è la posizione di noi liberali di fronte a questa Costituzione?

È necessariamente una posizione apartitica. Come in questo momento, in questa aula, è vuoto il banco del Governo e gli uomini del Governo hanno cessato di essere tali, così anche noi liberali di fronte alla Costituzione ci troviamo in una posizione particolare.

La Costituzione potrà essere la nostra, soltanto se sarà anche quella degli altri. Noi pensiamo, cioè, che la Costituzione sarà veramente una buona Costituzione, se qualunque pensiero democratico potrà in essa trovare il suo libero e sicuro svolgimento; se lascerà ad ogni pensiero democratico la possibilità di svilupparsi, ma non costringerà nessuna corrente di pensiero democratico a dovere assumere un atteggiamento contrario alla legge, alla Costituzione, per potere attuare quello che è il suo programma.

Vi sono cioè due posizioni, che si rivelarono proprio in una controversia – se così si può chiamare – fra l’onorevole Togliatti e me, nelle due relazioni che presentammo alla prima Sottocommissione sui problemi economici e sociali; perché i problemi economici e sociali, entrano appunto in quel quid vago, di cui andiamo cercando le soluzioni, ma di cui di una soluzione chiara e precisa ancora non siamo riusciti a trovare la traccia definitiva; quel quid dava luogo alla presa di quelle due posizioni.

Si trattava di dire qualche cosa di nuovo. Certi vecchi principî cardinali che riguardano la libertà, i diritti del cittadino, e così via, ci erano stati già tramandati. La loro accezione poteva essere da noi completata, ma una base l’avevamo. Qui no. Ed una delle differenze sostanziali delle due articolazioni era proprio questa; io, nei miei articoli, arrivavo addirittura alla socializzazione, per quanto a me non piaccia, giacché non vorrei che, così come l’Inghilterra, ora che ha un regime socialista, è rimasta senza carbone, domani l’Italia, avendo un regime socialista, restasse senza sole. Ma, ad ogni modo, se domani i socialisti raggiungessero la maggioranza, avrebbero il diritto e il dovere di fare il loro esperimento. Non posso quindi fare, io liberale, una Costituzione che ponga il divieto delle socializzazioni. Soltanto dico che questa Costituzione deve recare che si possa, ma non che si debba socializzare. Io non posso infatti ammettere che nella Costituzione si debba mettere un imperativo di socializzazione, se domani la maggioranza non fosse di questo avviso. Non vogliamo cioè una Costituzione programmatica.

L’onorevole Togliatti pensava invece che alcune norme vincolative, in un determinato senso, si dovessero mettere e lo sostenne con la sincerità e l’affettuosità che c’è stata in tutte le nostre discussioni in quella Commissione. Però, nella seduta del 13 novembre 1946, in una animata discussione con dei colleghi di opinione diversa, non di questo settore, l’onorevole Togliatti uscì in questa frase che io segnai, dicendogli che oggi glie l’avrei ricordata: «Vogliamo che questa Costituzione sia quella di tutte le possibili ideologie». Io, in quel momento, ho sentito quanto profonda sia l’esigenza della libertà e come essa sia assorbente di tutto. Io non avrei saputo dire meglio e aggiungo, perché ero presente, che non avrei saputo dire con maggior convinzione di quella con cui l’onorevole Togliatti ha fatto questa affermazione. Questa affermazione, onorevole Togliatti, che le fa onore, è bellissima, ma – mi perdoni tanto – è la più schietta affermazione liberale che un uomo possa fare.

Una voce. Ma era sincera?

LUCIFERO. Fino a prova contraria, io penso sempre che chi dice una cosa abbia intenzione di mantenerla. Ciò ho detto per chiarire sotto qual luce noi guardiamo questa Costituzione.

Vorrei ora fare alcune osservazioni sul testo della Costituzione stessa. Io non entro, badate bene, in alcuna questione particolare, perché ciò sarà riserbato a chi, con maggior competenza di me, sosterrà le varie tesi in sede opportuna. Voglio soltanto, per ora, mettere in luce alcuni caratteri. Questa Costituzione è sorta da una serie di compromessi, fra tendenze e opinioni diverse, nelle quali si è – perdonate il termine – commerciato un po’. Si è detto: Io cedo su questo punto e tu mi dai su quell’altro, io non sarò presente su quel tal voto e tu, ecc. Ciò si è svolto anche sotto i nostri occhi.

E visto che l’onorevole Tupini mi fa segno di «no», gli ricordo che una volta io chiesi in Sottocommissione la parola a seguito di una di queste discussioni avvenuta in pubblica seduta fra due Deputati di diverso partito, per esprimere il mio profondo imbarazzo di avere assistito a questo piccolo commercio e per chiedere che queste operazioni si facessero prima della seduta e non durante.

TUPINI. Non era un commercio; era lo sforzo di intenderci e comprenderci.

LUCIFERO. Io ho detto, onorevole Tupini, che usavo il termine non perché in esso nulla suonasse offesa, ma semplicemente per dare un’idea plastica di quella che era l’impressione di chi assisteva a questa ricerca di compromesso. (Interruzioni). Infatti, onorevole Tupini, io sto parlando di questa serie di compromessi, i quali hanno creato in tutta la Costituzione un andamento a «montagne russe», perché si sente perfettamente quando ha ceduto l’uno e quando ha ceduto l’altro; e fra le varie cessioni esistono delle sproporzioni. Ad ogni modo, sarò lietissimo, non se la sua affermazione, ma se l’applicazione pratica mi darà torto, perché una cosa sola io desidero: che noi possiamo avere una Costituzione da non toccare più almeno per un secolo, come la precedente. Quando una Costituzione dura ottant’anni, allora è buona; quando dopo dieci anni succede qualche cosa, allora la Costituzione non va.

Una delle manifestazioni tipiche del momento storico in cui questa Costituzione è stata fatta, è tutta una serie di affermazioni ideologiche e, mi si perdoni, certe volte anche di affermazioni demagogiche. Per esempio, io leggo nell’articolo 28 – lo porto a mo’ di citazione – «la scuola è aperta al popolo», scusatemi, che cosa significa? La scuola, soprattutto quella di Stato, è del popolo. (Approvazioni a sinistra). Bellissima era la frase dell’onorevole Marchesi, per la quale io stesso mi battetti tanto quando ad un certo momento si voleva sopprimerla, cioè: «Libere saranno l’arte e la scienza, e libero il loro insegnamento». Quella frase diceva qualche cosa; ma «la scuola è aperta al popolo» è una di quelle affermazioni che non dicono niente. «L’arte e la scienza sono libere» ha un suo significato, perché non ci dobbiamo dimenticare che in regime fascista e più ancora in regime nazista, anche l’arte era stata messa sotto disciplina e ammaestrata a servire a determinati scopi. Quindi l’osservazione dell’onorevole Marchesi aveva il suo significato.

Una voce a sinistra. Le manifestazioni, non l’arte!

LUCIFERO. Ad ogni modo vedetevela voi con il professor Marchesi, che ne è stato l’ideatore; lo avete vicino. Io non sono stato altro che un entusiastico assertore della sua affermazione.

Per esempio, è demagogico l’uso che spesse volte si fa nella Costituzione della parola «lavoratori». Badate che nella Costituzione stessa – se voi guardate l’ultimo capoverso dell’articolo 31 – il termine «lavoratori» ha due significati; perché quando noi entriamo in una fase della Costituzione, allora il lavoratore corrisponde in un certo senso al cittadino; invece in altra sede il lavoratore rappresenta determinate categorie di cittadini, cioè determinate categorie di lavoratori in uno Stato in cui tutti sono lavoratori. Ora, questo non può andare in una Costituzione, la cui dizione deve essere chiara. Di fronte alla Costituzione i cittadini sono cittadini; i lavoratori sono lavoratori in quello che riguarda questa loro particolare attività nella vita sociale, che deve essere tutelata, difesa, protetta, generalizzata; ma però, quando vanno a votare, anche i lavoratori vanno ad esercitare una funzione di cittadini, non di lavoratori.

Oppure, se noi vogliamo identificare il termine, dobbiamo modificarlo in quelle sedi in cui, come nell’articolo 31, noi contrapponiamo i lavoratori ad altre categorie di cittadini. Intendiamoci bene, con questo termine di lavoratori – siamo tutti lavoratori – noi per poter infilare questa affermazione – scusate ancora una volta l’accenno demagogico – nella Costituzione, siamo arrivati al punto di dover qualificare lavoratori, ai fini dei diritti politici, le monache di clausura, perché il giorno in cui abbiamo affermato che determinati diritti erano riservati soltanto (i diritti più importanti sono i diritti politici) a coloro che ottemperavano a quel tale obbligo del lavoro, abbiamo dovuto stabilire che fra i lavoratori vi erano anche le monache di clausura. Ho il massimo rispetto verso di esse e credo utilissima la loro opera di elevazione verso il Signore, ma qualificarle lavoratrici, ai fini giuridici e costituzionali, non mi pare esatto. (Commenti).

Una voce al centro. Lavorano sempre, lavorano più degli altri!

LUCIFERO. Vi sono quelle destinate alla vita contemplativa. (Commenti).

Per i miei peccati ci vogliono molte monache, ma questa non è la sede competente!

C’è un altro punto sul quale richiamo la vostra attenzione, sempre nel campo demagogico. Non discuto l’articolo, sarà discusso a suo tempo, ma sempre per chiarire alcuni punti che hanno determinato la mia perplessità, devo rilevare che noi qui stiamo costruendo una Costituzione democratica e nello stesso tempo creiamo dei privilegi. Vi faccio notare che anticamente vi erano delle classi, quali le classi padronali, che avevano certi privilegi. Oggi noi ritorniamo al Medioevo, perché quando affermiamo che tutti i lavoratori hanno diritto allo sciopero, i casi sono due: o noi rientriamo nella accezione a), (prima parte della Costituzione) che tutti i cittadini sono lavoratori, ed allora la serrata diventerebbe lo sciopero dei lavoratori che danno il lavoro; oppure noi entriamo nella accezione b) della parola, quella cioè per cui come lavoratori si definisce una determinata categoria di cittadini, ed allora stabiliamo un privilegio a favore di questa categoria di cittadini. Questo si chiama rovesciare il Medio Evo!

Ora, badate, queste possono sembrare osservazioni di quel bieco reazionario che sono io, ma sono osservazioni che vanno più in là, di significato, di senso, di dizione nella Costituzione. Cerchiamo di sfrondarla da queste affermazioni, perché prima di tutto non possono sembrare serie; e poi quando si arriverà alla fase dell’applicazione della Costituzione, ad un certo punto non sapremo più la parola lavoratori che cosa significhi, se nel senso a) o nel senso b) della Costituzione.

Dobbiamo stabilire un vocabolario che sia sempre lo stesso per qualificare il termine di lavoratore.

C’è un altro punto sul quale vorrei richiamare la vostra attenzione ed è la questione della sovranità;

Tengo a dichiarare che non è che non conosca certe moderne teorie, quali quella del Jellinek e C., secondo le quali la sovranità è dello Stato; ma io dico che uno Stato democratico dove ristabilire il principio che la sovranità è dei cittadini e quindi del popolo. Ed allora è necessario dirlo chiaramente nella Costituzione.

Due volte ho già proposto in sede di Sottocommissione e di Commissione che l’articolo primo fosse modificato, laddove si dice che la sovranità emana dal popolo.

Anche l’onorevole Conti una sera disse che gli sapeva di profumo questa emanazione di sovranità. A me sa anche di qualche altra cosa. Io temo questa sovranità che emana. Emanare ha un senso di moto; poi l’emanazione non torna più indietro, e sappiamo dove si va a finire con queste sovranità delegate.

Signori miei, io non l’ho voluta, voi l’avete voluta, ed ormai c’è questa Repubblica. La caratteristica fondamentale che distingue la Repubblica dalla Monarchia è che mentre nella Monarchia la sovranità risiede nel Sovrano, nella Repubblica la sovranità risiede nel popolo. Visto che si sta facendo la Repubblica, facciamola repubblicana!

Io riproporrò l’emendamento; ma diciamolo chiaramente che la sovranità risiede nel popolo.

Altra osservazione che devo fare (mi mantengo sempre sulle linee generali) è che mezzo Codice civile e mezzo Codice penale sono andati a finire nella Costituzione. E non solo i codici, ma anche i Codici di procedura. Signori miei, io ultimamente rivedendo alcuni vecchi testi di diritto costituzionale in cui erano proposte le più strane norme, ne ho trovata una interessantissima: «Le mamme hanno l’obbligo di allattare i figliuoli». C’è un vecchio testo costituzionale che sostiene questa roba!

Ora, quando noi diciamo che l’«obbligo della educazione spetta alla famiglia», e andiamo a mettere ciò in Costituzione, io non voglio dire la parola che mi viene sulle labbra, ma siamo certamente degli ingenui. Cerchiamo di sfrondare questa Costituzione da tutte queste piccole note stonate le quali non hanno ragione di essere lì; e che vengono da questa fissazione, che qualcuno ci vuol mettere qualche cosa delle sue ideologie, forse per andare a dir fuori: questo l’ho messo io. Le Costituzioni sono cose troppo gravi e troppo serie perché certe debolezze umane, singole o collettive, possano entrare in esse ed inquinarle di norme che non sono costituzionali.

La verità è che per molti, forse senza che lo sapessero, per la passione che è nei tempi in cui viviamo, per le lotte dalle quali usciamo, per un vecchio atavismo di faziosità, per il calore stesso che viene fuori da queste discussioni, molti hanno guardato alla Costituzione, non come a uno strumento che regoli la vita di tutti, ma come a uno strumento di lotta. Certe lotte, certi conflitti che questa fase tragica della vita del nostro Paese ha trasportato dal Parlamento, loro sede naturale, in seno al Governo (governi che non riescono a governare) oggi si minaccia di portarli in seno alla Costituzione.

La Costituzione è piena di proposizioni che guardate da un uomo non dimentico dello ieri e preoccupato del domani, danno la precisa sensazione che sono delle posizioni avanzate per determinate battaglie che della Costituzione non sono e non debbono essere.

Ora, quando io leggo che la Repubblica (art. 7) «rimuove gli ostacoli», ecc. ecc., a me sembra che una norma di questa vaghezza e di questa ampiezza sia un pericolo enorme, perché io vorrei sapere cosa succederebbe se un giorno dovessero applicarla, ad esempio, i due poli costituiti da me e dall’onorevole Togliatti. Io non so, ma probabilmente io rimuoverci l’onorevole Togliatti e l’onorevole Togliatti rinnoverebbe me, perché tutte e due siamo un ostacolo, secondo la nostra concezione, a che una determinata ideologia si compia.

Ora, quale deve essere la funzione della Costituzione? La funzione della Costituzione deve essere di far sì che se io arrivassi ad avere la maggioranza, non potessi rimuovere l’onorevole Togliatti e che se l’onorevole Togliatti arrivasse ad avere la maggioranza non potesse rimuovere me; ed ognuno di noi possa continuare liberamente a sostenere il proprio pensiero. Giacché con il tempo l’interpretazione diventa estensiva e questi articoli che possono far sorridere un giurista o un costituzionalista perché privi di contenuto, ad un certo momento il loro contenuto lo trovano; e visto che non ne hanno uno proprio, assumono quel contenuto che in quel determinato momento gli vuole dare chi è più forte.

La Costituzione è fatta per le minoranze e non per le maggioranze, per tutelare i pochi e non i molti. I molti non hanno bisogno di Costituzione; hanno la forza.

E che ci sia questa preoccupazione di precostituire delle posizioni, di postare delle artiglierie, di poter avere lo zampino da per tutto – la Costituzione è stata fatta da politici e non da giuristi – lo vediamo anche nella composizione del Consiglio Supremo della Magistratura. Questi cittadini eletti da un organo politico, i quali diventano coarbitri di quella che è l’amministrazione della Giustizia, (pensateci un po’) rappresentano un fatto che lascia molto perplessi, perché saranno nominati con criterio politico e con una funzione politica. Quando noi infiliamo la politica nella Magistratura, rimane solo la politica e scompare la Magistratura.

Vi è un altro punto sul quale brevemente richiamo la vostra attenzione, in questa seduta: è la questione delle Regioni. Anche noi siamo favorevoli ad una dislocazione dello Stato in amministrazioni e autonomie regionali che possano dare una maggiore libertà di movimento alla organizzazione statale suddivisa nelle sue parti, ma non vogliamo che ogni regione, dandosi uno statuto, diventi uno Stato. Badate, non parliamo della Sicilia; per la Sicilia non c’è discussione, perché per la Sicilia ci sono ragioni storiche che impongono questa autonomia. E infatti, l’autonomia c’è, è stata data, e su questa parlerò poi. Ma ci sono regioni che non hanno bisogno di autonomia, regioni che voi metterete nell’imbarazzo di inventarsela, questa autonomia.

Ora, dove c’è la necessità, io lo capisco perfettamente; ma, arrivare ad una dislocazione cantonale, anche in zone dove non è necessario, questo mi pare che non vada; come non va il modo con cui certe regioni sono state stabilite, secondo determinati criteri; senza offesa per nessuno per quello che vorrei dire (mi dispiace che non ci sia l’onorevole Nenni), ma quella divisione fra Nennia e Michelia, quella divisione dell’Emilia, un pezzo da una parte e un pezzo dall’altra, per rinnovare i fasti della Secchia Rapita… (Interruzioni degli onorevoli Pertini e Micheli). Io non mi rivolgo a nessuno, caro Pertini, perché le deliberazioni sono collegiali. Quindi, mi rivolgo a tutti. Sono i due maggiori personaggi delle due zone: una zona che scavalca direi l’Appennino e va a chiedere uno sbocco a mare…

UBERTI. Questa è discussione generale.

LUCIFERO. Io non ho toccato una questione particolare. Ho detto molte cose che potevano scottare all’onorevole Togliatti ed ai suoi amici e questi le hanno sentite ed io ho cercato di dirgliele con cortesia, secondo la mia abitudine. Ho detto ora una cosa che dava fastidio a voi e vi siete subito imbizzarriti. Ma, perché avete sempre il fuoco sotto le sedie? (Si ride).

MICHELI. Io ho interrotto perché Nenni non c’entrava.

LUCIFERO. Ad ogni modo, sentite, io ho fatto per tutta Italia molti comizi, trattando argomenti che non sempre erano bene accetti. Ormai ho un’esperienza: quando il pubblico si ribella vuol dire che ho colpito nel segno. Scusatemi tanto, ma questa è esperienza.

MICHELI. Ha colpito male.

LUCIFERO. L’onorevole Ruini nella sua relazione, a pagina 14, dice che la Commissione si è trovala concorde su quello che riguarda le autonomie concesse precedentemente.

Io feci in quella sede una riserva che sciolgo adesso. Io non fui contrario ma feci una espressa riserva che è questa: che anche ammesso – e ripeto che la Sicilia è indiscussa – che determinate autonomie debbano essere date, io protesto ancora in sede politica per il fatto che queste autonomie siano state date senza consultare l’Organo Costituente. Queste cose da noi dovevano passare. Le elezioni in Sicilia si fanno oggi; noi siamo riuniti dal 24 giugno; dal 24 giugno ad oggi avremmo potuto anche votare lo Statuto Siciliano e avremmo potuto dargli quel crisma che oggi non ha. Questo sistema di sottrarre determinati argomenti all’organo competente, tanto caro all’onorevole De Gasperi, deve assolutamente cessare. Speriamo che la Costituzione ne segnerà la fine.

Invece mi pare che la nuova Costituzione non abbia toccato un tema che è stato sfiorato dalla relazione dell’onorevole Ruini, en passant, ma che è fondamentale e che merita una certa meditazione: ed è il decentramento legislativo. Noi abbiamo fatto un decentramento regionale che non è più un decentramento ma che si avvia non voglio dire ad uno stato federativo, perché la parola dà fastidio, ma ad uno stato cantonale e che moltiplica e complica l’apparato legislativo. Non abbiamo pensato ad un altro problema da risolvere: gli organi che fanno le leggi, cioè i parlamenti, negli stati moderni, non possono più fare tutte le leggi, né si possono dare al governo, cioè al potere esecutivo, delle capacità legislative; bisognerà quindi studiare quali possano essere gli organi secondari che possano fare determinate leggi. Le migliaia di leggi che si fanno ogni anno in ogni paese moderno, non possono più passare attraverso i parlamenti, poiché questi non avrebbero il tempo di discuterle e l’attività legislativa e la vita del Paese ne resterebbero paralizzate. Quindi si impone la questione del decentramento legislativo.

Detto ciò, c’è un’altra questione da affacciare, cioè quella del prestigio della Costituzione. La Costituzione uscirà da quest’Aula così come da successive delibazioni e discussioni sarà stata redatta; ma la Costituzione non regge se non ha di fronte al Paese veramente un prestigio proprio. Le leggi costituzionali hanno avuto sempre questo prestigio, un prestigio quasi religioso: dai romani che scolpirono nel bronzo le loro dodici tavole, alla gelosa cura con cui gli inglesi conservano la Magna Charta; posso ricordare che a Pisa per consultare la Littera Fiorentina era necessario vederla tra due ceri, a piedi nudi e a capo scoperto. Eguale solennità circondava le Tavole Melfitane di Federico II.

La Costituzione è veramente una cosa sacra; la Costituzione è per il popolo la legge propria che lo garantisce e lo tutela; è la legge che primieramente esso si dà e che scaturisce dalla sua situazione storica, dalle sue esigenze morali e religiose e da tutto quell’insieme che forma il popolo stesso. Noi dobbiamo dare a questa Costituzione un prestigio di fronte al Paese che la renda veramente sacra. È quindi opportuno ricordare che alcuni partiti, tra cui anche noi, in sede elettorale, si sono solennemente impegnati al referendum sulla Costituzione. (Interruzioni dell’onorevole Malagugini Commenti).

Dulcis in fundo, caro Malagugini, perché quel giorno che veramente un voto popolare avrà consacrato questa Costituzione, la Costituzione non si discuterà più. Se no, ci saranno sempre i ma e i se.

Una voce a sinistra. No, no!

LUCIFERO. Sì, perché questo già si vede nella stampa e qui stesso.

Il referendum per la Costituzione è molto più necessario dei referendum che sono stati già stabiliti nel progetto di Costituzione, anche per i motivi meno importanti, anche per un raffreddore. Non soltanto qualunque partito di massa, ma anche delle piccole organizzazioni, purché dispongano di 500 mila firme, possono paralizzare tutta la vita del Paese, perché su ogni legge si può chiedere il referendum. Il referendum invece deve essere riserbato alle occasioni veramente solenni, e se non è solenne quella della Costituzione da dare al Paese, dalla quale tutte le leggi derivano, non so davvero quali possano essere le occasioni solenni.

La Costituzione dunque deve riscuotere questo rispetto, perché la Costituzione deve guardarsi da sé, non può essere guardata dai carabinieri. E si guarda da sé soltanto il giorno che la maggioranza del Paese l’abbia accettata e l’abbia sancita; così come con i plebisciti fu sancita l’unità d’Italia. Il referendum per la accettazione della Costituzione deve rappresentare l’impegno solenne di tutto il Paese in modo che poi ogni discussione sulla Costituzione debba considerarsi definitivamente chiusa.

Tanto più perché la Costituzione, se non vorrà essere la negazione di tutti gli impegni che abbiamo assunto, dovrà segnare veramente le colonne d’Ercole della libertà, da cui non si possa decampare, da cui non si possa uscire. Ma appunto per questo deve ricevere la consacrazione solenne che noi domandiamo.

Onorevoli colleghi, se non terremo conto delle necessità che vi ho esposte, avremo perso una grande occasione: un’occasione che capita una volta non solo nella vita di qualche uomo, ma anche nella vita di qualche generazione, quella di dare al nostro Paese una buona Costituzione.

Credo che non si debba perdere questa occasione, come io ho perso quella di fare un discorso migliore.

La mia posizione, e forse anche la natura particolare dei miei studi, avrebbero potuto darmi modo di fare un discorso ben diverso. Ma ero troppo commosso, e forse ve ne sarete accorti. È vero che nulla è più freddo di un meridionale quando è freddo. Ma io sento la solennità del momento.

Continuamente il mio sguardo va a quel banco vuoto (accenna al banco del Governo) che rappresenta un ponte sul quale stiamo passando in un modo veramente originale; perché non è un ponte che già sia stato gettato e sul quale ora passiamo, ma è un ponte che si va costruendo via via che noi camminiamo, e noi aggiungiamo ad ogni istante il mattone che dovrà servire a farci compiere il passo successivo. Ed è talmente delicata quest’opera di costruzione, di invenzione di uno Stato, che ha insieme della realtà e del sogno, che perdermi in discussioni tecniche o dottrinarie o in anatemi proprio non me la sento.

Avrei potuto farlo, perché sono convinto di una cosa: che questa Costituzione non è una buona costituzione. E perché sono convinto che questa Costituzione che, secondo me, non è una buona Costituzione, passerà così com’è, più o meno. Però io ho fiducia lo stesso perché credo profondamente, al di là delle nostre capacità e della nostra buona volontà di legislatori, credo profondamente nella civiltà e nel costume del popolo italiano. Il costume del popolo italiano modificherà molte di queste norme e noi avremo il rimorso di avere diminuito il prestigio della legge fondamentale del Paese per avere stabilito delle leggi che sono ineseguibili.

Ad ogni modo, sono arrivato alla fine delle mie osservazioni, e mi succede come nelle processioni: torno al punto di partenza; del resto tutti i movimenti umani sono circolari: ad un certo momento il circolo si chiude ed il circolo chiuso è un modo di finire nella completezza. Torno al principio, dunque, ricordando che gli italiani ancora sono divisi in due grandi categorie. La riconciliazione nazionale, malgrado esperimenti di vario genere e malgrado la buona volontà che spesso è venuta da molte parti, ancora non si è avuta, ed io non voglio nemmeno discutere per colpa di chi. Sarà forse perché si è parlato troppo di cose di cui era inutile parlare e si è parlato troppo poco di cose di cui sarebbe stato invece utile parlare. Io penso che questa Costituzione, con le sue mende, con i suoi difetti, deve diventare l’Arca dell’Alleanza del popolo italiano; deve diventare quella legge fondamentale in cui certi rancori e certi odi finiscano, deve diventare veramente quella tale legge che rappresenti l’atto solenne della riconciliazione nazionale. E noi vogliamo che, proprio attraverso la legge, che è l’unico modo in cui solennemente parla lo Stato, da questa aula parta finalmente una parola che non sia un gemito d’odio, ma una parola di riconciliazione, d’amore e di pace; perché questa Costituzione non deve essere la Costituzione dei monarchici o dei repubblicani, di questo o di quel partito, dei rossi o dei bianchi o dei neri; questa Costituzione deve essere il documento in cui ogni italiano senta vibrare se stesso, in cui noi tutti ed il mondo intero dovremo riconoscere l’Italia nella gloria del suo passato, nel dolore del suo presente, nella certezza del suo avvenire. (Applausi a destra Congratulazioni):

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bozzi. Ne ha facoltà.

BOZZI. Onorevoli colleghi, si è detto molto male di questo progetto che noi siamo chiamati ad esaminare. Io ricordo di avere letto giorni fa su un quotidiano l’articolo di un professore di diritto, il quale si meravigliava altamente che uomini politici eminenti, giuristi, magistrati, avessero potuto dare il loro avallo a questo progetto, che non faceva onore all’Italia, che era stata la madre del diritto.

Si è fatta molta ironia a questo riguardo; anzi, troppa. Taluno ha detto che nel progetto vi è del buono e del nuovo, ma che il buono non è nuovo e il nuovo non è buono.

Ora, io non voglio assumere il ruolo di difensore, volontario o di ufficio, ma nemmeno mi sento propenso a far da pubblico accusatore; e non soltanto perché ciò significherebbe assumere la difesa o l’accusa di se stesso.

L’Assemblea Costituente si trovava inizialmente in una posizione difficile. Essa non aveva un testo sul quale portare la sua attenzione; non vi era un progetto predisposto dal Governo. Altre Costituenti hanno discusso su progetti governativi. Non vi erano nemmeno progetti elaborati da Partiti. Occorreva, adunque, un punto di partenza; e si nominò una Commissione: la Commissione dei «75». Secondo me, questa ha dato una interpretazione estensiva al compito che le aveva affidato l’Assemblea. Secondo il mio punto di vista – che ebbi anche occasione di manifestare – la Commissione dei «75» avrebbe dovuto soltanto delineare l’architettura fondamentale, la struttura essenziale, direi quasi la nervatura del progetto; e portare poi questo elaborato all’esame dell’Assemblea Costituente, che era l’organo al quale il popolo aveva demandato la funzione di costruire la nuova Carta.

Viceversa, la Commissione ha lavorato in estensione e in profondità; ha dilatato la sfera delle sue attribuzioni e ha, perciò, sottratto a voi tutti la possibilità di una indagine diretta più larga. Ma è da soggiungere, per la verità, che questo modo di procedere, se per alcun verso può sembrare un difetto, ha avuto anche i suoi vantaggi. Lo ha accennato il nostro illustre Presidente, onorevole Terracini, quando ha detto che oggi si presenta al nostro esame un testo, che porta in sé già composti, risultato del lavoro fecondo delle Commissioni, alcuni dissidi, elise alcune frizioni; presenta punti di equilibrio e di incontro che in questa sede si sarebbero potuti raggiungere con maggiori difficoltà.

Noi, o colleghi, siamo in una fase storica di trapasso fra un mondo che è tramontato o volge al tramonto e un altro che si affaccia, si delinea all’orizzonte, con luce incerta. Noi disponiamo delle macerie del primo, ma non ancora vediamo nettamente delineati gli schemi del secondo. Siamo in una fase di fermento e di travaglio, non solo nel nostro Paese, ma nell’Europa e nel mondo.

Due concezioni vediamo in contesa sulla scena: una che dirò – per brevità – occidentale, inspirata a una certa visione della vita, al rispetto dei valori dello spirito, a certi postulati filosofici, religiosi, economico-sociali, che danno una fisonomia in largo senso liberale al modo di vita dei singoli e della società; e, per converso, un’altra concezione – che dirò orientale – inspirata a principî affatto diversi, collettivistici in gran parte e deterministici. E i popoli, nella lotta fra queste concezioni, non hanno ancora trovato il loro punto di equilibrio, l’ubi consistam. Si comporranno esse in una sintesi? O l’una prevarrà sull’altra? E quale?

La guerra è stata in gran parte la figlia di questa grande crisi dell’umanità; ma, a sua volta, è la madre di nuovi disorientamenti ed impone l’ansiosa ricerca di nuovi assetti.

Noi siamo dunque nel bel mezzo di un dramma, che direi cosmico; e a queste ragioni di carattere generale si aggiungono difficoltà tutte nostre nazionali. Noi non abbiamo nella nostra storia precedenti, al di fuori della Repubblica romana, di Costituenti popolari; la Francia, nel corso della sua storia, conta numerose Costituzioni, alcune delle quali fondamentali non solo per la vita di quel popolo, che se le dette, ma di tutti i popoli. Noi usciamo dall’incubo profondo della tirannide, che ha durato tanto, e ha lasciato un solco che non agevolmente si può eliminare; usciamo da una disfatta militare e da una crisi istituzionale. Tre eventi formidabili. Non abbiamo, perciò, ancora una classe politica dirigente, che possa esprimere la coscienza popolare e sospingerne, al tempo stesso, il moto.

Siamo, dunque, chiamati a darci la Costituzione in un momento di grande crisi e di grande difficoltà. Che cosa vogliamo? Quale posizione prenderemo nella lotta fra libertà e tirannide? Ci vorremo avviare verso una società socialista; o resteremo fedeli agli schemi liberali?

La funzione di una Costituzione, secondo il mio modesto parere, dovrebbe essere quella di tradurre in formule giuridiche un processo rivoluzionario già compiuto. Così è stato della Costituzione russa, che è venuta nel 1936, dopo circa 20 anni di esperienze rivoluzionarie, che erano entrate nel vivo della coscienza di quel popolo; e quella Costituzione dura; ha superato anche il vaglio della guerra.

Noi, viceversa, dovremmo foggiare una Carta costituzionale quasi strumento per agevolare e indirizzare una rivoluzione che non si è fatta; rivoluzione – intendiamoci – non nel senso tradizionale e un po’ quarantottesco della parola, che ci richiama alle barricate o, per aggiornarci, ai mitra, ma rivoluzione che si attua attraverso le formule della legge. Le rivoluzioni, oggi, si possono fare a tavolino…

Questo è il compito nuovo e, secondo me, in gran parte anomalo, della nostra Costituzione; ed è per ciò che noi, prima nella Commissione, oggi in Assemblea, abbiamo incontrato e incontreremo difficoltà, che dipendono dalla attuale fase storica. Ma questa ambientazione storica deve servire a qualcosa; deve servire a porre dei limiti e delle direttive a noi stessi.

L’onorevole Lucifero, or ora ha parlato di Costituzione interlocutoria – è frase brillante – come di certe sentenze del giudice, che non posson dire subito chi abbia ragione e chi abbia torto e preparano i mezzi per la statuizione definitiva; il che significa che il popolo fra non molto dovrebbe darsi un’altra Costituzione. Io mi auguro che questo non sarà. Ma il dubbio è di molti. Pervasi da un profondo spirito di pessimismo – che è uno dei mali endemici del nostro popolo – molti rievocano la sorte ingloriosa toccata alla Costituzione di Weimar. Si fanno paralleli fra l’ambiente storico, nel quale venne elaborato e foggiato quel documento, apprezzabile come documento di dottrina, e il nostro. Si dice che, come la Costituzione di Weimar non ebbe, non poté avere radici profonde e fu quasi una vernice esterna che non prese corpo con la materia sulla quale era posta, così la nostra Costituzione di oggi non potrà essere l’espressione genuina d’un indirizzo popolare e d’una coscienza collettiva matura, che non esistono.

Io vorrei dire, in sintesi, che la nostra Carta costituzionale dovrebbe, innanzi tutto, formulare e consacrare quei principî che si possono ritenere saldamente acquisiti alla coscienza giuridica, politica e sociale del nostro popolo; ma nello stesso tempo essa dovrebbe dare un indirizzo e un orientamento per l’avvenire.

Noi dobbiamo tracciare anche le vie dell’avvenire, ponendo le mete che oggi vogliamo siano raggiunte domani. In questo senso mi sembra che l’onorevole Togliatti ebbe a dire, in una delle discussioni della Commissione, che la Costituzione doveva anche essere un ponte verso l’avvenire.

Il problema si pone allora come problema di fini e di mezzi; è va affrontato e risolto con chiarezza e lealtà.

Come si è lavorato nella Commissione? Io credo che vi sia stato un difetto di origine. È mancata, inizialmente, una discussione generale. Era stato proposto dal nostro infaticabile e sagace Presidente, l’onorevole Ruini, il tema pregiudiziale: si faccia una discussione generale su quelli che debbano essere le basi di impostazione, i principî direttivi della Costituzione. Non si aderì a questa idea, e la Commissione dei «75» si divise in Sottocommissioni, le quali lavorarono ciascuna un po’ nel suo chiuso; e l’opera di coordinamento venne dopo, ma si dovette esercitare necessariamente su quello che ormai era il frutto del lavoro, qualche volta la faticosa conquista, delle singole Sottocommissioni. Ora, io penso che se, pregiudizialmente, si fosse portata la discussione su alcuni principî fondamentali, molti di quelli che io rileverò come errori sarebbero stati evitati.

Io farò la mia critica serenamente, con obiettività, pervaso dall’ansia di dare un apporto, sia pure il più modesto, per il miglioramento di questo testo.

È mancata, onorevoli colleghi, innanzi tutto, una discussione sul punto se la Costituzione dovesse essere rigida o flessibile. Si dette da tutti per ammesso che dovesse essere rigida. Io non verrò a sostenervi che era meglio configurarla flessibile; vi sono ragioni teoriche e soprattutto pratiche che consigliano il tipo della Costituzione rigida; per quanto questa rigidità – che non è cadaverica, come diceva un mio amico, ironizzando, l’altro giorno – sia, nel progetto, molto relativa, perché il procedimento di revisione, come vedremo in sede opportuna, è di tanto facile esperimento che di poco si differenzia dal procedimento proprio della legislazione ordinaria. Già, la vita, l’efficienza, il prestigio, la durata di una Costituzione non dipendono nemmeno, secondo me, dal fatto che essa sia di tipo rigido o di tipo flessibile, ma piuttosto dal grado di civiltà del popolo, dalla maturità, dal senso di responsabilità degli organi costituzionali che il popolo esprime. Abbiamo due esperienze in senso contrario: quella della Costituzione inglese, che è flessibile, quella della Costituzione americana, che è rigida; ed entrambe durano nel tempo e sono onorate dai cittadini.

L’aver omesso la discussione generale sulla rigidità ha condotto a questo: che non si è fermata l’attenzione su alcuni connotati giuridici che debbono rivestire le norme che si inseriscono in una Costituzione rigida. Il tema fu prospettato, mi pare, dall’onorevole Perassi, in sede di Assemblea dei «75». Una Costituzione rigida presuppone, come postulato, che le norme abbiano una determinata conformazione, abbiano una determinata struttura. Esse debbono essere norme giuridiche precise, debbono presentare l’attitudine ad una immediata applicazione. Non solo: debbono anche essere norme che contengano principî fondamentali; il costituente, in una Costituzione rigida, non deve assolutamente indulgere a tutto ciò che è particolare, a tutto ciò che può essere contingente e che deve essere rimesso al legislatore ordinario, il quale ha il compito di seguire e di esprimere nella legge il moto progressivo della società.

Ora, ripeto, i connotati giuridici che avrebbero dovuto avere le norme non sono stati precisati; ed è questo un difetto di struttura, che si proietta su tutta la Costituzione. Ed è su questo punto che io credo noi dovremo, nel nostro riesame, portare particolarmente la nostra attenzione.

La Costituzione si apre con la dichiarazione dei diritti; dichiarazione che è la parte fondamentale di ogni moderna Costituzione, perché è nella precisazione dei rapporti fra l’individuo e lo Stato e gli altri aggruppamenti che si muovono e vivono nella società organizzata, è in questa determinazione di rapporti che si coglie la fisionomia del tipo di Stato a cui si vuol dar vita. Se noi assegniamo un maggior margine di libertà all’individuo, avremo un sistema improntato a certe caratteristiche; se noi, viceversa, daremo allo Stato una potestà di intervento più efficace e intensa in una serie varia di rapporti, configureremo un diverso tipo di Stato. Il problema degli organi e dei poteri è collegato con il tipo di Stato che da quella determinazione di rapporti vien fuori. Ora, evidentemente, una Costituzione moderna non si poteva limitare all’enunciazione dei classici diritti di libertà. Intendiamoci: questa consacrazione era indispensabile; l’esperienza recente dimostra come questi principî possano essere violati e soppressi. Ma occorreva, accanto ai tradizionali diritti di libertà, che impongono un limite negativo, porre quelli che, con frase non del tutto propria, si dicono «diritti sociali». Sono i principî, che rispondono alla esigenza della giustizia sociale, alla quale nessuno oggi si può sottrarre. Può essere sentita più o meno profondamente dell’altra esigenza della libertà, ma è sempre comune a tutti. Questi diritti sociali si ispirano ad un diverso principio, al principio di eguaglianza, inteso nel senso propulsivo, attivo, direi, dinamico della parola; che è più precisamente il principio della solidarietà.

Nella prima parte della Costituzione noi leggiamo affermazioni le più varie di codesti diritti sociali. Ed è, o colleghi, a questo proposito che si pone un problema di impostazione; che deriva dall’osservazione che i cosiddetti diritti sociali non configurano spesso diritti o interessi legittimi in senso stretto.

Noi abbiamo una nozione tecnico-giuridica del diritto, che è come una medaglia. Ha il suo rovescio, che è il dovere. Il diritto è una posizione giuridica subiettiva, munita di sanzione, che dà a colui che ne è titolare la possibilità di agire innanzi al giudice contro un altro soggetto, privato o pubblico, tenuto a un determinato atteggiamento. Noi abbiamo del pari una nozione tecnico-giuridica dell’interesse legittimo. Vi sono, viceversa, in questa parte della Costituzione enunciazioni di tendenze – che io in questo momento non discuto nel merito – enunciazioni di tendenze, di propositi, di mete alle quali si vuole arrivare domani. Il che, naturalmente, renderà necessaria non solo l’emanazione di apposite norme giuridiche sostanziali, ma la conformazione della struttura economico-sociale, in guisa tale che si renda possibile la traduzione in atto di questi principî. Ciò potrà avvenire, per alcuni principî, domani, per altri, in un domani più lontano; per altri, forse mai. Il diritto al lavoro si è potuto realizzare in Russia, perché questo paese offre il tipo di una società socialista. Da noi, è il voto di una tendenza. Parlarne, oggi, nella Costituzione come diritto può essere, a tacer d’altro, pericoloso, per le amare delusioni cui darebbe luogo di certo! Pensate ai due milioni circa di disoccupati!

Il problema di tecnica giuridica, che io pongo all’Assemblea, è questo: principî di questo genere, programmatici, tendenziali, finalistici, aspirazioni, devono essere collocati accanto a quelle norme che hanno un contenuto squisitamente e meramente legale e normativo, o viceversa essi devono essere più acconciamente sistemati in una sede a sé, che potrebbe essere il Preambolo della Costituzione? Badate, si sono chiamati diritti, ma diritti non sono. Anche la confusione terminologica si traduce spesso in confusione sostanziale. Si è detto che relegarli nel Preambolo significherebbe sminuirne la importanza. Si è considerato da taluni il Preambolo quasi come la soffitta della Costituzione, nella quale si pongono i principî inutili, che servono soltanto a fare bella mostra di sé e che non verranno mai tradotti in pratica.

In una intervista apparsa ieri sulla Voce Repubblicana, l’onorevole Grieco diceva che la Costituzione comincia dall’articolo primo e che tutto ciò che non è nell’articolo primo e negli articoli che seguono, non è Costituzione. Io mi permetto di dissentire. La Costituzione comincia dal Preambolo. Il preambolo ha una sua propria rilevanza giuridica. In che consiste questa rilevanza? Agisce in due direzioni: come indirizzo per il futuro legislatore, il quale dovrà conformare la sua attività in modo tale da dare attuazione a quelle norme di tendenza; come criterio di interpretazione, per il giudice e per l’amministratore, dell’ordinamento giuridico esistente. Dal Preambolo scaturisce una fonte di vita nuova, non solo per il futuro, ma anche per il presente.

Ora io penso che se noi verremo nell’ordine di idee di creare un Preambolo nel quale potranno trovare sistemazione più adeguata questi principî programmatici, queste aspirazioni, noi snelliremo la Costituzione ed eviteremo molte di quelle confusioni che oggi si devono lamentare. Naturalmente, non tutto ciò che non è in senso stretto diritto, si deve mettere nel Preambolo. Una Costituzione non è soltanto un Codice di norme positive; ma non può essere nemmeno una tavola di astrazioni. Qui la questione è di valutazione e di misura. Noi potremo esaminare, ed è naturalmente un’indagine che non si può compiere adesso senza trascendere dai limiti di questa discussione generale, quelle situazioni giuridiche che abbiano una maggiore o minore consistenza normativa, quelle che si possono tradurre domani, in base alla valutazione che oggi si può fare del domani, e quelle viceversa che hanno bisogno di una più profondale e radicale trasformazione delle società, e quindi veramente rappresentano una tendenza verso la quale noi potremo andare, ma che non potrà essere raggiunta se non in un lontano domani.

Un altro punto che io voglio segnalare alla vostra attenzione, e che è sempre di carattere strutturale ed investe tutto il progetto, è questo: delimitazione dei rapporti fra norma costituzionale e norma ordinaria.

Il collega Lucifero ha detto che in questo progetto vi è mezzo Codice civile, mezzo Codice penale e credo anche mezzo Codice di procedura. È esagerato; ma che in realtà in questo progetto vi siano molte disposizioni che, con grande utilità, potrebbero essere trasferite in altra sede, è una verità nella quale tutti dobbiamo convenire.

Qual è il criterio per distinguere la norma costituzionale dalla ordinaria? Un criterio predeterminato non esiste. È un problema affidato alla classe dirigente che è chiamata a fare la Costituzione, e lo risolve, direi di volta in volta, a seconda della valutazione dei fini e degli interessi politici. Comunque, io vorrei suggerire di tener presente un detto di saggezza: «Nel dubbio, astienti». Se abbiamo il dubbio, se una norma sia costituzionale o ordinaria, optiamo per considerarla norma ordinaria. Non poniamo pericolose ipoteche sul futuro; non imbrigliamo oggi quello che dovrà essere il naturale sviluppo della legislazione.

Questo progetto si muove fra due poli: da una parte attinge vette sublimi: ed è l’esaltazione della personalità umana, che è il motivo dominante della prima parte; poi finisce quasi nelle norme regolamentari. Vi è un articolo che parla del trattamento igienico sanitario, qualcun altro accenna al trattamento da farsi ai detenuti. Vi sono poi troppi riferimenti a istituti contingenti. Non intendo scendere ad esemplificazioni particolari. Negli articoli che disciplinano la scuola si richiamano istituti vigenti: la parificazione, l’esame di stato. Cosa significano queste parole? Tutto e nulla. Bisogna vedere quello che si mette dentro a queste frasi. La parificazione può comportare l’adempimento di certe condizioni e può non importare niente al di fuori di un semplice decreto. Vi è un articolo in questa parte del regolamento scolastico in cui si dice che l’istruzione primaria deve essere di almeno otto anni, cosicché se, domani, si vuole ridurre a sette bisogna modificare la Costituzione!

Una voce all’estrema sinistra. Diminuire no, aumentare sì!

BOZZI. Ora io francamente trovo che vi sono principî che devono essere rimandati alla legislazione ordinaria; per esempio i principî sul matrimonio. Vedete, quando si è posta la questione della indissolubilità, voi lo ricordate, io votai per l’indissolubilità del matrimonio; ma restavo fermo alla pregiudiziale, che cioè questa fosse materia non da Costituzione. E così tutta la disciplina dei figli nati fuori dal matrimonio. Ma questa è materia da Codice civile! Io penso con grande trepidazione a quello che avverrà nella legislazione se dovrà aver vigore l’articolo 25 del progetto! Sconvolgeremo il Codice civile.

Presidenza del Vicepresidente CONTI

Vi sono principî che sono ormai saldamente acquisiti, stabilmente radicati nella coscienza giuridica collettiva. Così è di alcuni canoni sulle sentenze, sull’ordinamento dei giudizi; è inutile trasferirli in sede costituzionale. Vi è taluno che possa dubitare che le decisioni del giudice debbono essere motivate? Vi sono invece altri principî che sono più immediatamente legati al corso progressivo dei tempi, allo svolgersi del moto sociale, e questi principî non è bene consacrarli nella Costituzione, perché altrimenti noi esporremo questo documento a troppi mutamenti, a troppe revisioni, che ne farebbero perdere prestigio e autorità.

Un’altra critica è questa: è troppo largo l’uso del rinvio alla legge. Il rinvio alla legge a volte è utile; ma avviene, in taluni articoli del progetto, che il rinvio esaurisca il contenuto della norma. Ed allora, domando: che ragione vi è di fare una norma costituzionale quando il contenuto di questa norma lo dovremo apprendere dal legislatore ordinario? Vi cito un esempio; il Consiglio economico, che è un istituto che potrà avere molta importanza. Nella Costituzione vi è solo l’affermazione che vi sarà un Consiglio economico. Ma come sarà costituito e quali ne saranno le funzioni noi lo apprenderemo dalla legge. E questo è un istituto costituzionalmente disciplinato?

Un’altra critica, che corre sulle labbra di tutti, è quella del compromesso. Facile critica. In una situazione politica come l’attuale, di fronte a forze così eterogenee, il compromesso è inevitabile; direi che è un bene. La questione è il vedere come si adopera l’arte del compromesso. Non dobbiamo creare una Costituzione di maggioranza, la Costituzione di una classe o di un partito o di una tendenza. La mia aspirazione è che si possa dar vita alla Costituzione di tutti gli italiani.

Il compromesso è inevitabile, adunque. Bisogna vedere, dicevo, come questo strumento si adopera. Ora, non sempre è stato adoperato bene. Per esempio, vi sono norme contraddittorie. Mi permetterò di citare un esempio. Vi è un articolo, il 64, dove si dice che ogni membro del Parlamento e quindi anche della Camera dei Senatori, rappresenta l’intera nazione, senza vincolo di mandato. È la ripetizione di un principio tradizionale. Ma ve ne è un altro, il 117, secondo comma, nel quale, a proposito dello scioglimento del Consiglio regionale, si dice che questo scioglimento avverrà su deliberazione della Camera dei Senatori, ma che a questa deliberazione non potranno partecipare i Senatori interessati. Questo principio, evidentemente, contraddice nettamente quell’altro, perché se i Senatori, come ogni membro del Parlamento, rappresentano l’intera nazione e non la regione o il collegio che li ha eletti, non vi è alcun motivo per escluderli dalla partecipazione alla deliberazione sullo scioglimento del Consiglio regionale.

Ma codesti sono rilievi marginali, che possono essere facilmente eliminati.

Vi sono più profonde disarmonie. Guardate l’istituto della famiglia. La famiglia è tutelata dal progetto solennemente, come elemento fondamentale per la salvezza morale e la prosperità della Nazione. Frasi molto nobili ed elevate. Ma, subito dopo, si fa un trattamento ai figli nati fuori del matrimonio uguale a quello dato ai figli nati nel matrimonio. Ed allora la tutela della famiglia legittima è o non è?

Vi è un articolo in tema di rapporti economici che dice che l’iniziativa privata è libera, salvo il rispetto di certi limiti. È il concetto di libertà: cioè ad ogni individuo è attribuita una sfera di autonomia nella quale egli liberamente si muove, salvo certi divieti. Ma vi è un altro articolo in cui il progetto fa obbligo allo Stato di dettare le norme ed i controlli necessari perché le attività economiche possano essere amministrate e coordinate a fini sociali. E allora c’è da domandare: quale dei due principî vige? Il principio improntato ad una concezione liberale, sia pure opportunamente temperata, oppure il principio di intervento statale?

In un altro modo il compromesso si è manifestato; e non bene. Si sono create norme vaghe, indeterminate, a volta confuse, a margini sfumati. È una forma di compromesso, perché quando non si vuole affermare un principio nettamente, lo si diluisce, lo si denicotinizza, direi. Ma questo crea incertezza.

Vi è tutta una serie di principî nei quali sembra che lo Stato debba sempre intervenire e intensamente. In un articolo apparso sul Giornale d’Italia di ieri, don Luigi Sturzo suonava un campanello d’allarme su questa parte del progetto, e diceva: Badate che qui abbiamo una statalizzazione invadente e oppressiva. Forse un esame più approfondito farebbe vedere che questi principî, data la loro vaghezza e la loro elasticità, possono dire molto, ma possono dire anche poco e a volte possono dire anche niente. Si vuol creare forse una disciplina in bianco, in modo che il contenuto ne sarà dato dalla maggioranza che governerà? Qual tipo di incerto statuto è mai questo?

Io vedo in ciò un attentato alla tutela delle minoranze, che è uno dei fini precipui di ogni Costituzione democratica.

Ora io voglio passare rapidamente ad un altro aspetto: alla struttura e all’ordinamento della Repubblica. Qui, vorrei dire, notiamo un più spirabil aere.

Osservo però che non è stata data soddisfazione a quella che io reputo una delle esigenze fondamentali della democrazia moderna. Taluno ha potuto dire che questo è un progetto ottocentesco. Forse non è esatto. Io trovo due grandi assenti in questo progetto: i partiti e le organizzazioni sindacali. Oggi la vita dello Stato poggia su queste forze: sulle forze organizzate del lavoro e sulle forze dei partiti. Bisogna constatare il fenomeno, se anche può dispiacere. I partiti hanno una funzione pubblica nella vita dello Stato moderno, talché alcune Costituzioni li disciplinano giuridicamente. Il problema fondamentale è questo: attuare nell’interno dei partiti il metodo democratico che è indispensabile, perché la democrazia possa, poi, informare tutta la vita dello Stato. Io non vedo, nel progetto, i rapporti tra lo Stato, i partiti e le forze del lavoro. Bisogna evitare che questi due ultimi elementi si possano porre fuori e contro lo Stato. Vi è un articolo, lo so, onorevole Tupini, l’articolo 47, nel quale si parla dei partiti sotto il profilo del principio di libertà; ed è l’unico articolo nel quale, in certo senso, si delinea quella democrazia alla quale la Repubblica si vorrebbe inspirare e che definirò democrazia occidentale.

Un altro punto sul quale io penso che noi dovremo soffermarci e a lungo, è quello del Senato; anzi, dirò meglio, del bicameralismo, che presuppone due Camere, fondate su principî politici diversi, autonome nel loro funzionamento. Vi erano due tendenze opposte nella Commissione; la tendenza che, seguendo un sillogismo apparentemente rigoroso, portava all’affermazione di una sola Camera come unica detentrice della volontà popolare che si manifesta attraverso il suffragio universale; e una tendenza, alla quale ho partecipato anch’io, che riteneva necessaria, invece, accanto alla Camera dei Deputati, un’altra Camera.

Io credo ancora alla teoria degli antagonismi costituzionali; e perciò dico, e non entro nel merito, che, così come è stata creata nel progetto, la Camera dei Senatori non presenta elementi netti di differenziazione con la Camera dei Deputati. Vi è soltanto l’elemento dell’età per l’elettorato attivo e per l’elettorato passivo. È un primo passo, ma un passo che non segna una demarcazione; non vedo, cioè, un principio politico diverso che giustifichi la ragion d’essere del Senato e lo renda atto alla sua fondamentale funzione di equilibrio nella vita dello Stato. Le categorie sono così vaste che, come la pietà divina, comprendono tutto sotto le loro ali; e non segnano perciò nemmeno esse un criterio di differenziazione.

Un terzo punto desidero accennare: l’istituto del Capo dello Stato, del Presidente della Repubblica. Creato un sistema che, sotto l’apparenza bicamerale, è nella sostanza un sistema unicamerale, il Capo dello Stato viene ad esser posto in una posizione di dipendenza dalla Camera. Questo rappresenta veramente un grave pericolo: siamo sul piano inclinato del regime di Assemblea, che è una delle forme dittatoriali più pericolose.

Credo che dovremo rimeditare questo punto per giudicare se non sia preferibile che il Capo dello Stato venga eletto direttamente dal popolo. Si è detto, ed anch’io ho partecipato a questa opinione, che ciò potrebbe presentare un pericolo: l’investitura troppo vasta, troppo popolare, potrebbe dare al Capo dello Stato la sensazione di essere titolare di poteri personali. Pericolo, cioè, di dittatura. Ma credo che questo pericolo non esista. Non esiste se noi, come è e come ritengo debba rimanere, terremo distinte le funzioni di Capo dello Stato da quelle di Capo del Governo, e non faremo del Presidente della Repubblica anche un Cancelliere, secondo lo schema delle repubbliche presidenziali.

Un pericolo di regime personale, dittatoriale, può esistere là dove nell’unica persona del Capo dello Stato si cumuli anche la funzione di Primo Ministro; ma dove c’è distinzione il pericolo non si presenta. Viceversa, si avrebbe il grande vantaggio di dare al Capo dello Stato una posizione di prestigio e di indipendenza, sicché egli potrà essere veramente il titolare di quella che è stata definita una potestà neutra, il grande moderatore dei supremi poteri.

Sotto questo stesso profilo ritengo sia stato un errore non dare al Capo dello Stato la possibilità di partecipare al processo formativo della legge, negandogli la potestà di sanzione. Si dice: il Capo dello Stato non negherà mai la sanzione. Ma questa non è una buona ragione per togliergli la titolarità di un tal potere, che significa tenerlo estraneo dalla funzione più importante nella vita dello Stato: fare le leggi. Il Presidente della Repubblica, secondo il Progetto, si limita a promulgare la legge, si limita ad una funzione esecutiva; egli esprime una volontà, ma è una volontà che si trova su un piano di esecuzione.

Onorevoli colleghi, io vorrei, prima di concludere questa mia breve delineazione panoramica, esprimervi quella che è la più viva apprensione del mio animo di uomo politico e di giurista. Io ho la preoccupazione, ora che il progetto è composto nei suoi vari elementi e lo vedo a distanza, io ho la preoccupazione che questo progetto possa ingenerare una grande incertezza nell’ordinamento giuridico. È questo uno dei mali più funesti che possano affliggere una società civile. Una grande incertezza, dicevo, non solo per le modalità di trapasso, di saldatura, di sutura con l’ordinamento giuridico esistente, ma per la necessità che avremo di fare delle leggi complementari, senza di che la Costituzione non potrà avere esecuzione. Avremo contrasti tra le leggi attuali e le norme della Costituzione, e ci dovremo porre e dovremo risolvere questo quesito: le norme dell’ordinamento giuridico attuale, che siano in contrasto con le norme della Costituzione o anche con quei tali principî soltanto programmatici e tendenziali, dovranno intendersi automaticamente abrogate o dovremo attendere che il legislatore futuro intervenga per compiere questa abrogazione? Tutti problemi formidabili. Ma l’incertezza più grave e permanente scaturisce dalla struttura stessa del sistema proposto. Io mi richiamo alle norme programmatiche, alle norme vaghe, incerte, e a volte, come diceva don Sturzo, nebulose, ideologiche e demagogiche magari. E domando: quando domani si cercherà di tradurle in legge, non sorgerà necessariamente una serie di dubbi, di interpretazioni diverse, di discussioni, di distinzioni, che si risolveranno in quelle famose questioni di costituzionalità per cui è dato a talune persone, particolarmente legittimate, il potere di impugnare la legge dinanzi alla Corte costituzionale.

Più noi inseriremo nel progetto norme vaghe ed incerte, indefinite e nebulose, e più daremo vita a incertezze di interpretazione, che, sul piano positivo, si potranno tradurre in impugnative della norma, così che noi non sapremo più da quali leggi saremo governati; e i rapporti giuridici staranno sempre sotto la spada di Damocle della dissoluzione.

Ora, la Corte costituzionale deve avere una funzione veramente elevata, senza trasformarsi in superparlamento, e deve essere invocata veramente in casi eccezionali.

E c’è anche un’altra considerazione. Noi abbiamo una gerarchia di norme: norme costituzionali, e fra queste ve n’è qualcuna irrevocabile, e quindi supercostituzionale; poi le norme costituzionali in senso proprio (e qui si pone il problema – ed a questo riguardo richiamo l’attenzione dei tecnici del diritto – se per avventura alle leggi a cui fa rinvio la Costituzione, non si debba dare un valore particolare, che direi para-costituzionale); poi leggi ordinarie. È chiaro che ogni gerarchia, importando una subordinazione, può dar luogo a problemi di validità e quindi a possibilità di impugnativa. Ma il peggio si verifica quando dall’ordinamento dello Stato passiamo all’ordinamento della regione; ed esaminiamo i rapporti reciproci.

Io sono stato contrario alla regione concepita nel modo onde è stata concepita nel progetto. Discuteremo in altro momento se non sia vero che essa spezza l’unità politica ed economica dello Stato. Io ammetto la necessità di un ampio decentramento amministrativo, che credo sia la sola esigenza veramente sentita dalla coscienza nazionale, ed ammetto anche un certo decentramento normativo, che si può affidare utilmente alle regioni entro limiti di attuazione e di integrazione della legge statale; e così si realizzerà, onorevole Lucifero, anche quel decentramento legislativo, a cui lei faceva riferimento, e che è una delle condizioni fondamentali perché i Parlamenti possano vivere. Ma se noi accanto alle leggi dello Stato poniamo le leggi della Regione, la quale ha, nel progetto, una competenza vasta e non ben definita, e se teniamo presente che la legge dello Stato potrà essere impugnata dalla Regione e la legge della Regione potrà essere impugnata dallo Stato e potranno esservi conflitti tra Regione e Regione, – sicché io mi domandavo, venendo qui oggi, se, per avventura, non dovremo risolvere anche questioni inerenti allo statuto personale e reale dei cittadini, che son cittadini dello Stato e delle Regioni, soggetti a diversi ordinamenti giuridici – voi vedete come dinanzi a noi si apra un pauroso panorama di incertezze, di possibilità di conflitti, di impugnazione di leggi. Il che, ripeto, è una delle cose più funeste che possano immaginarsi nella vita di uno Stato, che voglia essere uno Stato di diritto.

Onorevoli colleghi, io ho dato uno sguardo panoramico a questo progetto. Ho voluto essere ligio alle istruzioni impartite dal nostro Presidente: esaminare i punti che si proiettano su tutta la struttura del sistema.

Questo progetto credo che non dovrà essere sottoposto ad approvazione. Non dimentichiamo che è un progetto. Vi dico francamente ed obiettivamente: esso è sempre un buon punto di partenza, spesso è anche un buon punto di arrivo. Noi lo dovremo sottoporre a riesame, serenamente: nella forma, perché anche la forma e la tecnica lasciano a desiderare; ma, soprattutto, nella sostanza. Volendo definirla in poche parole, l’opera che dovremmo compiere sarà soprattutto un’opera di deflazione. Ma dobbiamo, attraverso il nostro dibattito, richiamare sul progetto l’attenzione dell’opinione pubblica. Io ho la sensazione che il Paese non senta profondamente ciò che noi stiamo facendo. Non vorrei che la Costituzione possa essere qualche cosa di posticcio, qualche cosa che viene dall’alto, sia pure fatta da noi che veniamo dal basso. Dobbiamo interessare l’opinione pubblica. Sarà solamente questa che darà l’avallo definitivo; e la interesseremo se sapremo condurre un dibattito elevato, sereno e profondo.

Si parla tanto, oggi, della necessità di consolidare la Repubblica. È diventata una sorta di frase di rito: il consolidamento della Repubblica. Si invocano leggi speciali per il consolidamento della Repubblica. Ebbene, io credo sinceramente che il miglior modo per servire la Repubblica è quello di fare delle buone leggi e, soprattutto, una buona Costituzione.

Così soltanto ogni italiano, monarchico o repubblicano, potrà ritrovare in questa legge fondamentale dello Stato il punto per la pacificazione, e potrà riprendere il cammino nel solco del progresso, nella libertà e nel lavoro. (Applausi Congratulazioni).

(La seduta, sospesa alle 17,55, è ripresa alle 18,10).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Calamandrei. Ne ha facoltà.

CALAMANDREI. Onorevoli colleghi, parlare in quest’aula con quei banchi vuoti dà un senso di disagio. Non c’è il Governo; non si può dir male del Governo…

Una voce. È quello che manca.

CALAMANDREI. Pare quindi che ci manchino i temi di conversazione…

Ma, d’altra parte, questo dà anche un certo senso di serenità, e direi quasi di raccoglimento familiare.

D’ora in avanti le invettive, le polemiche, le contumelie saranno riservate alle sedute antimeridiane. Nelle sedute pomeridiane potremo parlare tranquillamente, in una atmosfera in cui non si tratterà di criticare un progetto presentato dal Governo e di votargli contro per arrivare a farlo respingere; ma saremo, invece, qui a fare una specie di esame di coscienza, poiché, in sostanza questo progetto di costituzione, sul quale siamo chiamati a discutere, esce da noi, è creato da noi, non dal Governo. Le critiche che noi rivolgeremo ad esso saranno critiche rivolte a noi stessi; dovranno dunque essere critiche costruttive. È una specie di esame di maturità, che la democrazia deve dare attraverso questa Costituzione. Dobbiamo tutti quanti industriarci a far sì che questo esame, se non con pieni voti e lode, sia almeno approvato con pieni voti legali.

Ora, onorevoli colleghi, se noi leggiamo questo progetto, con quest’animo di critica positiva, di critica costruttiva, di critica accompagnata sempre dalla proposta che tende a suggerire il meglio, dobbiamo, alla prima lettura riconoscere che esso non è un esempio di bello scrivere: manca di stile omogeneo, direi quasi che manca di qualsiasi stile.

Voi ricorderete certamente che nel 1801 Ugo Foscolo, il capitano Ugo Foscolo, fu incaricato dal Ministero della guerra della Repubblica Cisalpina di preparare un progetto di Codice penale militare; e di questo progetto egli fece la relazione introduttiva coi titolo di «Idee generali del lavoro», nella quale egli si proponeva, testualmente, di compilare tutta l’opera «in uno stile rapido, calzante, conciso, che non lasci pretesto all’interpretazione delle parole, osservando che assai giureconsulti grandi anni e assai tomi spesero per commentare leggi confusamente scritte. Si baderà ancora a una religiosa esattezza della lingua italiana».

Ecco: questo progetto di Costituzione si sente che non è stato scritto da Ugo Foscolo…

Ma questa è una questione di secondaria importanza.

Si troverà sempre qui e fuori di qui – e probabilmente il nostro Presidente Ruini ci avrà già pensato – chi riesca a dare una forma più pulita e finita a questo progetto ancora grezzo. Noi abbiamo già nei lavori preparatori della Costituzione esempî di equilibrio e di armonia stilistica. Basti ricordare la bella, equilibrata, armoniosa relazione scritta dal nostro Presidente Ruini; e non bisogna dimenticare – proprio è doveroso in questa prima seduta di discussioni sulla Costituzione – non bisogna dimenticare anche, tra i precedenti di questo progetto, i varî volumi, e specialmente il primo, dei lavori della Commissione di studio costituita dal Ministero della Costituente, che sono veramente un esempio di chiarezza e di compitezza, il cui merito risale principalmente a quel grande giurista, a quel grande maestro di diritto pubblico, a cui mando un saluto in questo momento, che è il professor Ugo Forti, Presidente di quella Commissione. Ma, vedete, questa mancanza di stile, questa eterogeneità di favelle che si ravvisa in molte disposizioni di questo progetto, non è soltanto una questione di forma: è anche una questione di sostanza. Deriva dal modo con cui questo progetto è nato; questo progetto, come voi sapete, non è nato di getto, tutto insieme; non è stato concepito in maniera armonica, unitaria. Il lavoro di questo progetto si è dovuto svolgere necessariamente nell’interno di diverse Sottocommissioni e delle sezioni di esse, e di più ristretti Comitati; in tante piccole officine, in tanti piccoli laboratori, ciascuno dei quali ha preparato uno o più pezzi di questo progetto.

Questi vari pezzi sono stati portati poi al Comitato di coordinamento e lì la macchina è stata rimontata nel suo insieme, soprattutto per le intelligenti cure del Presidente Ruini; e solamente oggi qui per la prima volta la possiamo vedere messa in ordine e valutarla nella sua interezza e coglierne certe disarmonie ed accorgerci che i varî pezzi non hanno tutti lo stesso stile. Ci sono in questi ingranaggi ruote di legno e ruote di ferro, pezzi di veicoli ottocenteschi e congegni di motore da aeroplano. C’è confusione di stili e di tempi: e sta a noi qui, in questa discussione introduttiva e in quelle che continueranno sulle varie parti del progetto, di ridare a questo meccanismo, correggendone i difetti, le contraddizioni e le disformità, quell’armonia che oggi esso sembra non presentare in maniera uniforme.

Le osservazioni che io farò avranno tutte quante carattere generale. Esse cercheranno appunto di contribuire a tale riesame complessivo del meccanismo costituzionale, che oggi si presenta tutto insieme. E se mi avverrà, in questa disamina dei suoi caratteri generali e del metodo con cui esso è stato concepito, di citare qualche articolo, e di ricordare qualche questione concreta, sui quali poi si dovrà tornare nella discussione speciale, ciò avverrà soltanto a scopo di esempio, per illustrare certi caratteri generali del progetto, dei quali cercherò qui di cogliere gli aspetti più tipici e più rilevanti.

Le ragioni fondamentali di questa impressione di eterogeneità che il progetto dà in qualche sua parte derivano, come voi sapete, da due cause storiche, che sono state ripetutamente citate durante le nostre discussioni.

La prima è questa: che questo progetto di Costituzione non è l’epilogo di una rivoluzione già fatta; ma è il preludio, l’introduzione, l’annuncio di una rivoluzione, nel senso giuridico e legalitario, ancora da fare. E la seconda ragione è quest’altra: che sugli scopi, sulle mete, sul ritmo di questa rivoluzione ancora da fare, i componenti di questa Assemblea, i componenti della Commissione dei 75, i componenti delle singole Sottocommissioni, non erano e non sono d’accordo. Vedete, io ho sentito ricordare anche poco fa da un collega di questa Assemblea, col quale conversavo, lo Statuto albertino. Lo Statuto albertino fu fatto in un mese, dal 3 febbraio al 4 marzo 1848. Diceva quel collega: «Guardate come era semplice e sobrio; ed ha servito a governare l’Italia per quasi un secolo. E qui è tra poco un anno che lavoriamo e ancora non siamo riusciti, come appare da questa apparenza ancora confusa e grezza del progetto, a preparare qualche cosa che si avvicini per concisione a quello Statuto». Ma l’esempio non calza; perché lo Statuto albertino fu una carta elargita da un sovrano il quale sapeva fino a che punto voleva arrivare; i suoi collaboratori, coloro che furono incaricati da lui di redigere quello Statuto, sapevano perfettamente quello che il sovrano voleva: non avevano da far altro che tradurre in articoli di legge le istruzioni già dosate da quell’unica volontà di cui lo Statuto doveva essere espressione.

Per questo il paragone non calza; perché invece qui, in questa Assemblea, non c’è una sola volontà, ma centinaia di libere volontà, raggruppate in diecine di tendenze, le quali non sono d’accordo su quello che debba essere in molti punti il contenuto di questa nostra Carta costituzionale; sicché essere riusciti, nonostante questo, a mettere insieme, dopo otto mesi di lavoro assiduo e diligente, questo progetto, è già una grande prova, molto superiore a quella che fu data dai collaboratori di Carlo Alberto, in quel mese di lavoro semplice e tranquillo che essi poterono agevolmente compiere sulla guida data loro dal sovrano al quale obbedivano.

Un altro esempio che si è citato è quello della Costituzione russa, specialmente della Costituzione staliniana del 1936. Si dice: «Vedete come in quella Costituzione tutto è preciso; quei diritti sociali che sono affermati in quella Costituzione, trovano in ogni articolo, in un apposito comma, la specifica indicazione dei mezzi pratici che ogni cittadino può esperimentare per ottenere la soddisfazione concreta di quei diritti».

Ma anche qui il paragone non calza; perché la Costituzione russa del 1936 ha dietro di sé una rivoluzione già fatta. È molto semplice, quando è avvenuto un rinnovamento fondamentale, una rivoluzione, insomma, di carattere sociale, in cui le nuove istituzioni sociali vivono già nella realtà, in cui la nuova classe dirigente è già al suo posto, prendere atto di questa realtà e tradurre in formule giuridiche questa realtà. I giuristi vengono, buoni ultimi, a mettere i loro cartellini, le loro definizioni su una realtà sociale che vive già per suo conto.

È molto facile trovarsi d’accordo nel dare, a cose fatte, queste definizioni e queste formule. Noi invece ci troviamo qui non ad un epilogo, ma ad un inizio. La nostra rivoluzione ha fatto una sola tappa, che è quella della Repubblica; ma il resto è tutto da fare, è tutto nell’avvenire.

Proprio per questo, noi ci siamo trovati ad avere una Costituzione che ha gli stessi caratteri del Governo, quantunque il Governo in questo momento sia assente in quest’aula. È una Costituzione tripartitica, di compromesso, molto aderente alle contingenze politiche dell’oggi e del prossimo domani: e quindi poco lungimirante.

Indubbiamente, nel progetto di Costituzione vi è una parte positiva. Ma è inutile che io vi parli di essa: è inutile che stiamo qui a farci complimenti fra noi, compiacendoci di quella parte buona e proficua di lavoro che abbiamo compiuto.

La parte positiva della nuova Costituzione, voi lo sapete, si chiama Repubblica, si chiama sovranità popolare, si chiama sistema bicamerale, si chiama autonomia regionale, si chiama Corte costituzionale. Tutto questo è chiaro. Sono istituti che potranno essere perfezionati nei particolari, ma insomma, su questi punti, in cui i tre partiti che costituiscono il nucleo di questa Assemblea si sono trovati d’accordo, il lavoro è stato facile ed è stato fecondo. Vi è però la parte negativa, quella in cui i partiti non sono riusciti a trovarsi d’accordo con sincerità nella sostanza: ed è questa la parte che, secondo me, pecca di genericità, di oscurità, di sottintesi. Molte volte si sente che si è cercato di girare le difficoltà, anziché affrontarle, di mascherare il vuoto con frasi messe per figura. Ognuno ha cercato insomma, nella discussione degli articoli, di togliere la paroletta altrui che gli dava noia. Chi ha partecipato alla discussione delle Commissioni sa che molte volte, per una parola, si è discusso intere giornate; e che in questa contesa di correnti diverse, più che cercare di far prevalere la propria tesi, tutti hanno cercato d’impedire che prevalessero le tesi degli avversari.

È un po’ successo, agli articoli di questa Costituzione, quello che si dice avvenisse a quel libertino di mezza età, che aveva capelli grigi ed aveva due amanti, una giovane e una vecchia: la giovane gli strappava i capelli bianchi e la vecchia gli strappava i capelli neri; e lui rimase calvo. Nella Costituzione ci sono purtroppo alcuni articoli che sono rimasti calvi. (Ilarità).

Ora, vedete, colleghi, io credo che in questo nostro lavoro soprattutto ad una meta noi dobbiamo, in questo spirito di familiarità e di collaborazione, cercare di ispirarci e di avvicinarci. Ricordate il famoso motto di Silvio Spaventa, da cui nacquero le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato: «giustizia nell’Amministrazione». Il nostro motto dovrebbe esser questo: «chiarezza nella Costituzione».

Varie parti di questo progetto non hanno quella chiarezza cristallina che dovrebbe riuscire a far capire esattamente che cosa si è voluto dire con questi articoli, quali sono le mete verso le quali si è voluto muovere con quelle disposizioni. Si riaffaccia qui la questione che è stata già sollevata oggi dai due precedenti oratori, e che si può chiamane la questione del preambolo, già sorta davanti alla Commissione dei settantacinque. Voi sapete che nella nostra Costituzione, ad articoli che consacrano veri e propri diritti azionabili, coercibili, accompagnati da sanzioni, articoli che disciplinano e distribuiscono poteri e fondano organi per esercitare questi poteri, si trova commista una quantità di altre disposizioni vaghe, che si annidano specialmente fra l’articolo 23 e l’articolo 44 (rapporti etico-sociali e rapporti economici), le quali non sono vere e proprie norme giuridiche nel senso preciso e pratico della parola, ma sono precetti morali, definizioni, velleità, programmi, propositi, magari manifesti elettorali, magari sermoni: che tutti sono camuffati da norme giuridiche, ma norme giuridiche non sono.

Allora, davanti ai Settantacinque già si sollevò questa questione. E si ricordò allora che in altre costituzioni sorte dopo l’altra guerra, in quella di Weimar, in quella della Repubblica spagnola, furono inseriti accanto ai diritti politici di libertà risalenti alla rivoluzione francese, questi nuovi diritti che si sogliono ormai denominare «diritti sociali», ma ci si accorse poi che essi lasciarono inalterata la realtà sociale, nella quale essi non avevano rispondenza.

L’enunciazione dei cosiddetti «diritti sociali» non ebbe nessun resultato pratico, come la storia di questo ventennio ha dimostrato: sicché parrebbe per noi più prudente, invece di travestire questi desideri e questi programmi in apparenze normative, collocarli tutti quanti in un preambolo nel quale sia detto chiaramente che queste proposizioni non sono ancora, purtroppo, norme obbligatorie, ma sono propositi che la Repubblica pone a sé stessa, per trovare in essi la guida della legislazione futura.

Quando io feci questa infelice proposta (dico infelice perché dei Settantacinque mi pare che ricevesse soltanto il voto dei rappresentanti del Partito d’Azione che, come sapete, non sono molti) (Ilarità), quando io feci questa proposta, mi furono fatte due obiezioni: una di carattere strettamente giuridico, dal collega e amico Mortati, il quale mi disse che anche queste norme di carattere programmatico possono avere il loro significato giuridico, perché rappresentano impegni che il legislatore prende per l’avvenire, direttive e limiti alla legislazione futura; e quindi non si può dire che si tratti di disposizioni giuridicamente irrilevanti, perché anche esse hanno la loro efficacia giuridica.

Questo argomento del collega Mortati non mi convinse molto, almeno per certe disposizioni, troppo vaghe e generiche per costituire un qualsiasi impegno. Ma, allora, chi seppe trovare le vie del mio cuore fu l’onorevole Togliatti, il quale capì che il miglior modo per convincere un fiorentino è quello di citargli qualche verso di Dante. Togliatti mi disse che noi preparatori della Costituzione, dobbiamo fare «come quei che va di notte, – che porta il lume dietro e a sé non giova, – ma dopo sé fa le persone dotte».

Non dobbiamo curarci della attuazione immediata di queste pseudo norme giuridiche contenute in questo progetto: dobbiamo pensare ai posteri, ai nipoti, e consacrare quei principî che saranno oggi soltanto velleità e desideri, ma che tra venti, trenta, cinquanta anni diventeranno leggi. Dobbiamo così illuminare la strada a quelli che verranno.

Ho ripensato molto a questi versi di Dante e mi sono pentito di essermi lasciato troppo sedurre dalla poesia, non solo perché – come mi suggerisce un collega che mi interrompe – anche Stalin, citato dal presidente Ruini nella sua relazione, afferma che le costituzioni non possono essere programmi per il futuro; non solo perché non è stato felice l’esperimento fatto dalla «carta del lavoro» e dalla «carta della scuola» che, anch’esse, non erano leggi, ma direttive per le leggi future – ma soprattutto per un’altra ragione; che è la seguente. Ammettiamo, cioè che in una Costituzione si possano utilmente inserire principî precisi per la legislazione futura, che siano veramente lumi, capaci di rivelare un sentiero verso l’avvenire. Ma se io leggo nel progetto di Costituzione il testo di queste norme che dovrebbero avere una siffatta efficacia illuminante mi accorgo che in molte di esse è assai difficile rendersi conto esattamente della direzione verso la quale esse tendono; è assai difficile che in questi lumi i nostri posteri possano trovare un sicuro orientamento.

Prendo l’articolo 1 che dice questa bellissima cosa: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro». È una bellissima frase; ma io che sono giurista – questa d’altronde è la mia professione ed ognuno di noi bisogna che porti qui la sua esperienza e le sue attitudini, perché è proprio da questa varietà di attitudini e di esperienze che deriva la ricchezza e la pienezza di questa Assemblea – io come giurista mi domando: quando dovrò spiegare ai miei studenti che cosa significa giuridicamente che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro, che cosa potrò dire?

Dovrò forse dire che in Italia la massima parte degli uomini continueranno a lavorare come lavorano ora, che ci saranno coloro che lavorano di più èe coloro che lavorano di meno, coloro che guadagnano di più e coloro che guadagnano di meno, coloro che non lavorano affatto e che guadagnano più di quelli che lavorano? Oppure questo articolo vorrà dire qualche cosa di nuovo, vorrà essere un avviamento che ci porti verso qualche cosa di nuovo? Mi accorgo allora che c’è un altro articolo, il 31, il quale dice che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto. Ma c’è anche un dovere del lavoro, e infatti il capoverso dice che ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività: dunque diritto di lavorare ma anche dovere di lavorare. Debbo pensare che si voglia con ciò imitare quell’articolo della costituzione russa, nel quale è scritto il principio che chi non lavora non mangia? Ma se leggo più attentamente questo capoverso dell’articolo 31, vedo che esso dice precisamente così: «ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività (e fin qui si intende che parla di lavoro) o una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta…». Dunque c’è chi svolge un’attività e c’è chi svolge una funzione. Questa funzione può essere anche una funzione spirituale; sta bene: ammetto che quella dei religiosi sia effettivamente una funzione sociale. Ma io penso a qualche altra cosa; penso agli oziosi, penso a coloro che vivono di rendita, a coloro che vivono sul lavoro altrui. Nella Repubblica italiana, dove c’è il dovere di compiere un’attività o una funzione, coloro che vivono senza lavorare o vivono alle spalle altrui, saranno ammessi come soggetti politici? Ho paura di sì: ho paura che saranno ammessi e che essi diranno che il vivere senza lavorare, il vivere di rendita, non sarà un’attività, ma è certamente una funzione. (Si ride). E siccome ognuno può dedicarsi, dice l’articolo, alla funzione che meglio corrisponde alle proprie possibilità e alla propria scelta, essi hanno preferito la funzione di non lavorare, e quindi hanno pieno diritto di cittadinanza nella Repubblica Italiana… Si noti che in quest’articolo c’è un ultimo capoverso il quale dice che «l’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici»; ora questo è un capoverso che non corrisponde a verità: quale è infatti la sanzione di questo capoverso? Per l’esercizio dei diritti politici non è detto affatto in nessun altro articolo, né in nessuna legge elettorale, che sia condizione l’esercizio di un’attività o di una funzione. Ecco intanto qui una di quelle disposizioni in cui a ben guardare si annida una… (come la devo chiamare?) sì, una bugia; perché non è vero che l’adempimento di questo dovere sia condizione per l’esercizio dei diritti politici.

Ma vi è di più. Quando si va a vedere, in materia economica, quali siano queste direttive le quali dovrebbero servire di guida e di lume per coloro che verranno dopo di noi, si incontrano numerosi articoli in cui sono commiste tendenze diverse e contradittorie.

Se uno che non avesse partecipato ai lavori di questo progetto domandasse: la Costituzione della Repubblica italiana, sotto l’aspetto sociale, quale tendenza ha? È a tendenza conservatrice o a tendenza progressiva? Individualista o socialista? La risposta non sarebbe facile.

Io leggo qui un articolo 37, che dice cose sensatissime: «Ogni attività economica privata o pubblica deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali ed al benessere collettivo». Sagge parole; ma mi domando: come questa disposizione può rappresentare, non dico un articolo di legge, ma semplicemente una indicazione di una qualsiasi tendenza politica o sociale? È una frase innocua, come se si fosse dichiarato, nello stesso articolo 37, che il sole risplende; ma non è una direttiva politica per l’avvenire.

Ci sono poi articoli come il 38, 39, 41, in cui si rintraccia alla superficie questo lavoro di compromesso, che ha portato a costruire queste formule ad intarsio in modo da dar ragione a tutte le tendenze.

Mi immagino, a proposito degli articoli 38 e 41, un dialogo fra un conservatore e un progressista: l’uno e l’altro vi troverà argomenti per sostenere che la Costituzione dà ragione a lui. Il conservatore dirà: «Vedi, la proprietà privata è riconosciuta e garantita». Il progressista risponderà: «Sì, ma i beni possono appartenere allo Stato o ad enti pubblici».

Il conservatore, o liberale che sia, dirà: «L’iniziativa economica privata è libera». Il progressista risponderà: «Sì, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». (Si ride).

E così vi è tutta una quantità di articoli che figurano di andar d’accordo, ma che in realtà si elidono; sicché sarebbe stato meglio non scriverli.

Ce ne sono poi altri anche più gravi; ed è su questo che vorrei richiamare la vostra attenzione, perché ho l’impressione che lasciarveli in quella forma screditerebbe la nostra Costituzione; mentre noi dobbiamo volere che questa Costituzione sia una Costituzione seria, e che sia presa sul serio dagli italiani.

Ora quando io leggo nel progetto un articolo come l’articolo 23 che dice in un suo capoverso: «La Repubblica assicura (dico assicura: verbo assicurare, tempo presente) alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa ed al suo sviluppo con speciale riguardo alle famiglie numerose»; quando leggo all’articolo 26 che «la Repubblica tutela la salute, promuove l’igiene e garantisce le cure gratuite agli indigenti»; quando nell’articolo 28 leggo che «la Repubblica assicura l’esercizio del diritto dell’istruzione con borse di studio, assegni alle famiglie, ed altre provvidenze, da conferirsi per concorso agli alunni di scuole statali e parificate»; quando io leggo questi articoli e penso che in Italia in questo momento, e chi saper quanti anni ancora, negli ospedali – parlo degli ospedali di Firenze – gli ammalati nelle cliniche operatorie muoiono perché mancano i mezzi per riscaldare le sale, e gli operati, guariti dal chirurgo, muoiono di polmonite; quando io penso che in Italia oggi, e chi sa per quanti anni ancora, le Università sono sull’orlo della chiusura per mancanza dei mezzi necessarî per pagare gli insegnanti, quando io penso tutto questo e penso insieme che fra due o tre mesi entrerà in vigore questa Costituzione in cui l’uomo del popolo leggerà che la Repubblica garantisce la felicità alle famiglie, che la Repubblica garantisce salute ed istruzione gratuita a tutti, e questo non è vero, e noi sappiamo che questo non potrà essere vero per molte decine di anni – allora io penso che scrivere articoli con questa forma grammaticale possa costituire, senza che noi lo vogliamo, senza che noi ce ne accorgiamo, una forma di sabotaggio della nostra Costituzione! (Approvazioni).

Guardate, una delle più gravi malattie, una delle più gravi eredità patologiche lasciate dal fascismo all’Italia è stata quella del discredito delle leggi: gli italiani hanno sempre avuto assai scarso, ma lo hanno quasi assolutamente perduto dopo il fascismo, il senso della legalità, quel senso che ogni cittadino dovrebbe avere del suo dovere morale, indipendente dalle sanzioni giuridiche, di rispettare la legge, di prenderla sul serio; e questa perdita del senso della legalità è stata determinata dalla slealtà del legislatore fascista, che faceva leggi fittizie, truccate, meramente figurative, colle quali si industriava di far apparir come vero attraverso l’autorità del legislatore ciò che in realtà tutti sapevano che non era vero e non poteva esserlo.

Vi è un esempio caratteristico nella legislazione fascista, che bisognerebbe mettere in una cornice: voi ricorderete (perché tutti abbiamo fatto questa trista esperienza) come era regolata nell’Italia fascista, quando si temeva che cominciasse la folle guerra che poi cominciò, la difesa antiaerea e la difesa antigas. Ricorderete la faccenda delle maschere antigas; se ne vedeva ogni tanto una per modello, ma in commercio non c’erano, e nessuna autorità ne aveva per distribuirle: orbene, il 27 luglio 1938 fu pubblicato in Italia un decreto che porta il numero 1429, il cui articolo primo diceva così: «Entro i limiti stabiliti dall’articolo 3 del presente decreto (notate che in Italia, lo ripeto, non esistevano maschere) la distribuzione delle maschere al personale della industria, a qualunque ramo esso appartenga, deve essere totalitaria». (Si ride).

Queste sono le leggi, onorevoli colleghi, che distruggono nei cittadini il senso della legalità. Bisogna evitare che nella nostra Costituzione ci siano articoli che abbiano questo stesso suono falso! Fra i ricordi più amari dell’altra guerra, in questa Italia, che accanto alle sue grandi virtù ha avuto sempre tra i suoi difetti quello fondamentale dello scetticismo, del cinismo, della mancanza di fede e di convinzioni profonde, rammento che una volta ero tornato in licenza a Firenze, in quel periodo in cui di mese in mese i nostri soldati riuscivano a strappare qualche centinaio di metri di quelle terre, che purtroppo ora ci sono state ritolte. Non c’erano grandi vittorie: c’era soltanto la consunzione quotidiana di quella battaglia di logoramento che durò quattro anni. Ora, tornando in licenza – io abitavo allora in una piccola strada al centro di Firenze – una sera quando stavo per andare a letto, sentii passare uno strillone che gridava l’ultima edizione di un giornale cittadino. Allora i giornalai avevano l’uso di gridare per le strade le notizie più importanti; quello nel silenzio della strada deserta gridava a voce altissima: «Terza edizione! La grande vittoria degli italiani!…»; ma poi aggiungeva, in tono più basso: «…non è vero nulla…»

Bisogna evitare che nel leggere questa nostra Costituzione gli italiani dicano anch’essi: «Non è vero nulla». (Si ride).

Per questo io ritengo che sia necessario, per debito di lealtà, che queste disposizioni che io vi ho letto, ed altre che via via potranno affiorare nel seguito della discussione, siano collocate in un preambolo, con una dichiarazione esplicita del loro carattere non attuale, ma preparatore del futuro; in modo che anche l’uomo semplice che leggerà, avverta che non si tratta di concessione di diritti attuali, che si tratta di propositi, di programmi e che bisogna tutti duramente lavorare per riuscire a far sì che questi programmi si trasformino in realtà.

Per questo, io depositerò alla fine di questo mio discorso un ordine del giorno che dice così:

«L’Assemblea Costituente, mentre ritiene opportuno che nella nuova Costituzione italiana gli articoli che riconoscono veri e propri diritti o che disciplinano organi e poteri siano preceduti da un preambolo preliminare nel quale possano essere riassunti in forma di propositi programmatici le direttive sociali e politiche alle quali dovrà ispirarsi la futura legislazione della Repubblica italiana, rimanda alla discussione degli articoli lo stabilire caso per caso quali di essi debbano essere trasferiti in una parte preliminare».

Sempre per questa esigenza di chiarezza nella Costituzione, nella quale non devono esistere sottintesi o rinvii, o riserve mentali, vi dirò ora qualche cosa sulle relazioni tra Stato e Chiesa.

PRESIDENTE. Onorevole Calamandrei, penso che lei non vorrà entrare nel merito di questa questione.

CALAMANDREI. So perfettamente quali sono i limiti di questa discussione e parlerò unicamente sotto l’aspetto del metodo, senza entrare nel merito.

Quello che dirò ora, e che specialmente colpisce la sensibilità dei colleghi ed amici della democrazia cristiana, vorrei che fosse ascoltato da loro non soltanto con sopportazione – di questo sono sicuro – ma anche, direi, con cordialità; vorrei insomma che quello che dirò non attirasse necessariamente su di me l’epiteto, grossolano, e pesante di anticlericale.

È un momento questo, in cui delle parole «clericale» e «anticlericale» si fa molesto abuso.

Se avviene che qualcuno, che ha il massimo ossequio della religione (la quale è una cosa seria, anche perché la cosa più seria della vita è la morte) ma che ha anche il massimo ossequio per la libertà, espone onestamente sul tema delle relazioni tra Stato e Chiesa, tra libertà di religione e libertà di pensiero un’opinione che non coincide colla vostra, o amici democristiani, voi non dovete perder per questo, come spesso avviene, la vostra serenità, e guastar per questo l’amicizia…

Se poi, domani, qualche resoconto di giornale che si vorrà occupare di queste modeste cose che dico, vorrà a tutti i costi dire che un deputato ha fatto una tirata anticlericale, bene! non crediate che per questo io morirò di crepacuore. (Ilarità). Ormai siamo abituati a raccogliere sulla stampa avversaria tali epiteti, che questo, di anticlericale sarebbe, in fondo, un fiorellino, una mammoletta…

Per quel che si riferisce, dunque, alle relazioni tra Stato e Chiesa, io ho l’impressione che il metodo adoperato nella formulazione dell’articolo 5 manchi di chiarezza, sia contrario a quella esigenza di chiarezza che, secondo me, è indispensabile perché possa venir fuori dai nostri lavori una Costituzione seria.

Intanto si potrebbe fare qualche osservazione, sempre di metodo, sulla prima parte dell’articolo 5, la quale dice che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Qui viene spontanea al giurista questa domanda: – Ma, insomma, in questa Costituzione chi è che parla? Chi parla in prima persona? È lo Stato italiano?

Questa Costituzione è un monologo o è un dialogo? C’è una persona sola che parla o ci sono due interlocutori? –

Si capisce che l’articolo 5 dica che lo Stato italiano – il soggetto della Costituzione – riconosce, se la vuol riconoscere, la sovranità della Chiesa nel suo ordine.

Ma non si capisce che la Chiesa riconosca la sovranità dello Stato, la quale sovranità è il presupposto di questa Costituzione: se non ci fosse la sovranità, neanche potremmo darci la Costituzione.

Il fatto che venga introdotto qui a riconoscere la sovranità dello Stato, del nostro Stato, un altro, sia pure augusto, personaggio; un altro, sia pure altissimo, ordinamento giuridico, questo per un giurista è una incongruenza.

Questo è un articolo che potrebbe andare bene in un trattato internazionale, non in una Costituzione.

Ma è principalmente contro il secondo comma che si appunta la mia osservazione:

«I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Qualsiasi modificazione dei Patti bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale».

Qui, intanto, si potrà osservare, quando si parlerà dei modi di revisione della Costituzione, che vi sarebbero in essa, se l’articolo restasse così, norme costituzionali che non potrebbero essere più modificate per volontà unilaterale dello Stato che ha fatto questa Costituzione. Vi sarebbero norme modificabili soltanto se vi sarà il consenso di quest’altro contraente che è la Chiesa; ma questa sarebbe una vera e propria rinunzia ad una parte della nostra sovranità.

Ma queste sono questioni che si tratteranno al momento opportuno. Io invece mi domando, qui, che cosa significa questa disposizione: «I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi». Sono inseriti, questi Patti Lateranensi, nella Costituzione? Vengono essi a far parte, per rinvio, della nostra Costituzione? La relazione del Presidente Ruini par che risponda di sì; essa ci dice che, in questo modo, i Patti Lateranensi diventano parti dell’ordinamento della Repubblica, che avranno una speciale posizione di natura costituzionale. Ora, io potrò anche essere d’accordo, quando si tratterà del merito, nel dire che la nostra Costituzione debba ripetere espressamente tutti gli articoli dei Patti Lateranensi; io potrò anche essere d’accordo, per ipotesi, nel lasciare che la Repubblica italiana si proclami apertamente una Repubblica confessionale: ma se questo è, bisogna dirlo chiaramente; questa esigenza di chiarezza impone che non si facciano cose di tanta importanza alla chetichella con un rinvio sibillino, che sarà letto senza intenderne la portata dall’uomo che non si intende di leggi, il quale ignora quale sia con precisione il contenuto di questi patti sottintesi e non sa che molte norme di questi Patti Lateranensi sono in contrasto con altre norme apertamente scritte in questa Costituzione. Un giornale di New York, il New York Times, secondo un comunicato dell’Associated Press (non so se la notizia sia vera) riferiva che il 21 gennaio 1947, mentre il Presidente De Gasperi era in America, i delegati di 25 gruppi religiosi protestanti, rappresentanti di 27 milioni di credenti, andarono a domandargli se fosse vero che il testo dei Patti Lateranensi sarebbe stato inserito nella Costituzione, e il Presidente De Gasperi avrebbe risposto che non credeva che i Patti Lateranensi vi sarebbero stati inseriti. Diceva la verità, perché i Patti Lateranensi non vi sono stati inseriti in maniera espressa; vi sono stati soltanto richiamati per implicito. Ma, attraverso questo richiamo, attraverso questo rinvio, attraverso questo assorbimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione, che lo stesso Presidente Ruini ha ammesso, si arriverà a questa conseguenza: che per potere intendere quale sarà la vera portata della nostra Costituzione bisognerà che il lettore avvertito vi inserisca al punto giusto, come se fossero scritte nella Costituzione stessa, molte disposizioni prese dal Trattato o dal Concordato. Non saranno scritte sulle righe, ma fra le righe; e bisognerà leggerle, diciamo così, per trasparenza. E allora, ad esempio, prendiamo l’articolo 5: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani»: qui, per trasparenza, bisogna aggiungere l’articolo 1° del Trattato, il quale dice: «L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1° dello Statuto del Regno 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato». Questo articolo sarà trasfuso per rinvio nella nostra Costituzione. Sarà bene, sarà male? Io magari, sempre per ipotesi, sarò d’accordo con voi nel dire che sarà bene; ma occorre parlarci chiaro, questo articolo ci sarà.

E poi: «I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza e lingua (questo dice l’articolo 7 del progetto di Costituzione) di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche, sono eguali di fronte alla legge». Ma qui bisognerà aggiungere nel capoverso, per trasparenza, l’articolo 5 del Concordato: «In ogni caso i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potranno essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio od in un impiego, nei quali siano a contatto immediato col pubblico».

E poi c’è l’articolo 27 della Costituzione, il quale dice: «L’arte e la scienza sono libere; e libero è il loro insegnamento». Ma c’è, in trasparenza, l’articolo 36 del Concordato, il quale dice: «L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana, secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica».

E poi c’è l’articolo 94 della Costituzione, il quale dice che «la funzione giurisdizionale, espressione della sovranità della Repubblica, è esercitata in nome del popolo». Ma c’è, per trasparenza, l’articolo 34 del Concordato, il quale dice invece che «le cause concernenti la nullità del matrimonio e la dispensa dal matrimonio rato e non consumato sono riservate alla competenza dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici».

Tutto questo – voglio tenermi nei limiti di questa discussione – sarà bene o sarà male? Quando ne riparleremo, si vedrà. Ma ora, sotto l’aspetto del metodo, io dico che non è in questo modo che si fa una Costituzione chiara. Bisogna intenderci lealmente, mettere sul tavolino le nostre divergenze, non giuocare a mosca cieca.

Ma qui io sento suggerimenti provenienti specialmente di là (accenna a sinistra), che mi dicono: «Ma questo non è un discorso politico; questo è un discorso ingenuo: chiarezza e politica non vanno d’accordo. Anche Napoleone diceva che le Costituzioni è bene siano brevi ed oscure».

Sì, in verità la nostra, molto breve non è; ma in quanto ad oscura, riesce ad esserlo in più di un punto! (Ilarità).

Questi stessi amici aggiungono: «Anche la Costituzione è il risultato di un compromesso politico. La politica è l’arte dei compromessi, delle transazioni. Per ora, formule elastiche: e poi si vedrà chi tirerà di più».

Ora io devo prima di tutto riconoscere (già me l’hanno osservato varie volte gli amici comunisti) che io non sono un politico. A me piace di dire le cose chiare. Questo può essere contrario alla politica, ma d’altra parte ognuno porta il contributo che può in queste discussioni. Io mi permetterei però di domandare a questi amici che mi danno siffatti suggerimenti: «Credete, voi che vi intendete di politica, che sia proprio una buona politica quella consistente, quando si discute una Costituzione, nel presupporre sempre che in avvenire il proprio partito avrà la maggioranza, e nel disinteressarsi, in tale presupposto, della precisione e della chiarezza tecnica dei congegni costituzionali? Voi mi dite che l’essenziale è che vi siano nella costituzione i congegni per far prevalere sempre la volontà del popolo: ma siete proprio sicuri che il popolo, ossia gli elettori, daranno la maggioranza a voi, e che quindi, poiché voi avrete la maggioranza, la Costituzione sarà sempre interpretata a modo vostro?»

Contro questo stato d’animo, che chiamerei calcolo o spirito di maggioranza, io mi sono trovato in amichevoli contrasti in diverse occasioni durante la discussione del progetto, tutte le volte che è venuta in questione l’opportunità di inserire nella Costituzione, come freno e controllo degli organi legislativi, che sono espressione politica della sovranità del popolo, organi imparziali di garanzia, che non derivino immediatamente i loro poteri da una diretta elezione popolare.

L’amico Laconi sorride, forse perché ricorda anche lui le nostre discussioni in tema di giurisdizioni speciali, e sul modo di nomina dei consiglieri di Stato, o dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura o della Corte Costituzionale. Nel discutere di questi argomenti io ho sempre sostenuto che, per preparare il testo di una nuova costituzione democratica sia più opportuno e più prudente muovere dal punto di vista della minoranza (non mi è difficile, dato il partito al quale appartengo!), di quella che potrà essere domani la minoranza, in modo che le garanzie costituzionali siano soprattutto studiate per difendere domani i diritti di questa minoranza. Il carattere essenziale della democrazia consiste non solo nel permettere che prevalga e si trasformi in legge la volontà della maggioranza, ma anche nel difendere i diritti delle minoranze, cioè dell’opposizione che si prepara a diventare legalmente la maggioranza di domani.

Ma queste, mi è stato detto, sono astrattezze da giuristi; e questo voler introdurre negli organi di controllo e di garanzia elementi tecnici invece che politici, è contrario ad una costituzione democratica in cui la politica deve penetrare tutti i congegni. Non sono di questa opinione: io ritengo invece, e avrò occasione di tornar su questo argomento nella discussione speciale, che proprio la salvaguardia di certi diritti contro le inframmettenze politiche sia uno dei requisiti fondamentali di un ordinamento democratico: e che sia quindi necessario in chi prepara questo ordinamento uno spirito, direi, di umiltà minoritaria.

Lo stesso spirito credo che debba esser portato nell’esaminare il problema dell’autogoverno della Magistratura. Io sono stato uno dei sostenitori di questo autogoverno, che il progetto ha accolto soltanto in parte. Il Consiglio Superiore della Magistratura, che secondo il progetto proposto da me, avrebbe dovuto esser composto unicamente da magistrati eletti dalla stessa Magistratura, sarà invece composto, per metà, di elementi politici eletti dagli organi legislativi.

In realtà chi ha impedito all’autogoverno della Magistratura di affermarsi in pieno nel nostro progetto, non sono stati tanto gli argomenti dei colleghi sostenitori della opinione contraria, quanto è stato Sua Eccellenza il Procuratore Generale Pilotti, che proprio nei giorni in cui si stava discutendo nella seconda Sottocommissione il problema dell’autogoverno della Magistratura, ed io mi trovavo a dover sostener la mia tesi contro la tesi contraria, ha fornito agli oppositori un argomento lì per lì inconfutabile. A un certo momento, infatti, essi mi hanno obiettato: «Tu vuoi dare l’autogoverno alla Magistratura? eccoti qui, coll’esempio, quello che accadrebbe: eccoti l’istruttivo episodio avvenuto in questi giorni all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione…» Ed io non ho saputo che cosa rispondere: perché veramente si è trattato di un caso assai grave, intorno al quale questa Assemblea ancora non sa quali provvedimenti il Governo abbia preso e non riesce a convincersi che il Governo possa ancora rimanere in silenzio. In verità, l’atteggiamento del Procuratore Generale Pilotti, offensivo per la Repubblica e per il suo Capo, non è stato una distrazione o una svista, derivante da un momentaneo disorientamento, come quello da cui fu preso, molti anni fa, quel Presidente di Corte di appello, che nell’inaugurazione dell’anno giudiziario si confuse, e dichiarò aperto l’anno giudiziario «in nome di Sua maestà il re Vittorio Emanuele re d’Italia e imperatore delle Indie». (Ilarità). Quello fu un lapsus.

Ma il caso del Procuratore generale Pilotti non è stato un lapsus. Il Pilotti è un magistrato eminente ed assai colto, un letterato, un umanista; ma soprattutto è un uomo abituato alla vita di società, alla diplomazia, al cerimoniale, al galateo. Per aver mancato così apertamente alla buona creanza, egli ha dovuto farlo deliberatamente: nel suo caso la indipendenza alla Magistratura non ha nulla a che vedere, perché essa viene in giuoco quando il magistrato giudica, e non quando nelle relazioni sociali si comporta come un maleducato. (Applausi).

Il caso è grave, ma in sostanza, non deve troppo essere sopravalutato. Lo sgarbo del Procuratore Generale Pilotti è stato fatto non al Presidente della Repubblica, ma proprio alla Magistratura: e la Magistratura deve ringraziar proprio lui, il Procuratore Generale Pilotti, della ostilità con cui è stata accolta nel progetto della Costituzione l’idea dell’autogoverno: proprio lui, col suo gesto, è riuscito a impedire che la Magistratura possa aver fin da ora quella assoluta indipendenza di cui la grandissima maggioranza dei magistrati, esclusi alcuni pochi Pilotti, sono degni.

Ma lasciamo andare il caso Pilotti e ritorniamo al nostro discorso. Secondo me è un errore formulare gli articoli della Costituzione collo sguardo fisso agli eventi vicini, agli eventi appassionanti, alle amarezze, agli urti, alle preoccupazioni elettorali dell’immediato avvenire in mezzo alle quali molti dei componenti di questa Assemblea già vivono. La Costituzione deve essere presbite, deve vedere lontano, non essere miope. Il caso del magistrato Pilotti, anche se il Governo lo lasciasse ancora al posto che egli occupa, tra qualche diecina d’anni (pigliamola lunga, per augurargli lunga vita) sarà liquidato e dimenticato; ma tra qualche diecina d’anni vi sarà ancora la Magistratura, degna dell’Italia rinnovata e degna di quel pieno autogoverno, senza il quale essa non può garantire con imparzialità la vita di una vera democrazia.

Cerchiamo dunque di esaminare i problemi costituzionali con spirito lungimirante: quel senso storico di cui parlano spesso gli amici comunisti, che tanto hanno imparato da Benedetto Croce (si ride), non si deve trasformare in un gretto compromesso di partito, che restringa il nostro campo visivo alle previsioni elettorali dell’immediato domani.

Questo spirito di compromesso, che spesso ha portato i preparatori del progetto a girare i problemi piuttosto che affrontarli, ha d’altra parte dato a molti istituti della nostra Costituzione un certo carattere di approssimazione e di genericità. Su molti problemi vivi, dei quali pareva che si dovesse trovare nella Costituzione una chiara soluzione, si è preferito di chiuder gli occhi. Enumero rapidissimamente alcuni di questi problemi.

C’è quello dei decreti di urgenza. Se ho visto bene, dei decreti di urgenza non vi è accenno nella Costituzione. Il fatto che se ne sia taciuto richiama il ricordo di quelle madri ottocentesche che facevano uscire i figliuoli dal salotto quando la conversazione minacciava di cadere su certi argomenti scabrosi. Nella Costituzione non si deve parlare dei decreti-legge perché questo è un argomento pericoloso. Ma, insomma, potrà avvenire che si verifichi la necessità e l’urgenza, di fronte alla quale il normale procedimento legislativo non sarà sufficiente: il terremoto, l’eruzione di un vulcano. Credete che si possa mettere nella Costituzione un articolo il quale dica che sono vietati i terremoti? Se non si può mettere un articolo di questa natura, bisognerà pure prevedere la possibilità di questi cataclismi e disporre una forma di legislazione di urgenza, che è più provvido disciplinare e limitare piuttosto che ignorarla.

Secondo: il funzionamento dei Ministeri. Recentemente è stata fatta da una rivista una inchiesta, rivolta a vari ex ministri su questo quesito: «Perché i Ministeri non funzionano?». Gli ex ministri sanno i varî perché: ed hanno dato diverse spiegazioni e suggerimenti per cambiare la struttura e l’ordinamento di questi ordigni di Governo, costruiti per servire all’amministrazione degli Stati quali erano cento o centocinquanta anni fa, ma che non possono più rispondere alle moltiplicate esigenze di Stati tanto più complessi e macchinosi, come sono quelli di oggi. Orbene, nella Costituzione il problema di dare una struttura nuova, di snellire, di semplificare il funzionamento dei Ministeri non è stato neanche visto: di esso non è stata fatta neanche una parola.

Terzo: il problema del tripartitismo e dei governi di coalizione. Se dovrà continuare un pezzo, come mi pare di aver sentito dire dall’onorevole Togliatti, il sistema del tripartitismo, credete voi che si possa continuare a governare l’Italia con una struttura di governo parlamentare, come sarà quella proposta dal progetto di costituzione? Il Governo parlamentare come è stato accolto nel progetto, è un vecchio sistema che ha avuto sempre, come presupposto, resistenza di una maggioranza omogenea o la possibilità di formarla, la quale possa costituire il fondamento di un gabinetto, che possa governare stabilmente. Ma se invece si suppone che, per molti anni, forse per decennî non vi potrà essere un partito che riesca a conquistare la maggioranza da ée solo e che per un pezzo si dovrà andare avanti con governi di coalizione, allora bisognerà cercare strumenti costituzionali i quali corrispondano a questo diverso presupposto che è, in luogo della maggioranza, la coalizione. Per questo noi avevamo sostenuto durante la discussione alla Seconda Sottocommissione (in verità però senza insistervi molto, perché ci trovammo subito isolati), qualche cosa che somigliasse ad una repubblica presidenziale o per lo meno a un governo presidenziale, in cui si riuscisse, con appositi espedienti costituzionali, a rendere più stabili e più durature le coalizioni, fondandole sull’approvazione di un programma particolareggiato sul quale possano lealmente accordarsi in anticipo i vari partiti coalizzati. Ma di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del Governo, nel progetto non c’è quasi nulla.

E infine c’è il problema dei partiti, del quale già vi ha parlato il collega Bozzi. Ricordo che nel grande discorso di chiusura della Consulta fatto da Vittorio Emanuele Orlando, non mancò un acutissimo accenno a questo fondamentale carattere delle società contemporanee che è il passaggio di gran parte della vita politica nei partiti ed il loro inserirsi nella vita costituzionale: quando si uscì da quella memorabile seduta, eravamo tutti pieni di ammirazione per il grande maestro, che con sensibilità giovanile aveva subito colto quella che è la novità più profonda della situazione costituzionale italiana: i partiti. Avrebbe dovuto esser vanto della nuova Costituzione italiana riuscire ad inquadrar questa realtà nei congegni giuridici: i partiti, in realtà, come voi sapete, sono le fucine in cui si forma l’opinione politica, e in cui si elaborano le leggi: i programmi dei partiti sono già progetti di legge. I partiti hanno cambiato profondamente la natura degli istituti parlamentari. Vedete: qui, mentre io vi parlo (e vi ringrazio della indulgenza con cui mi ascoltate), so benissimo che anche se arrivassi a convincervi cogli argomenti che vi espongo, essi non varranno, se non corrispondono alle istruzioni del vostro partito, a far sì che, quando si tratterà di votare, voi, pure avendomi benevolmente ascoltato, possiate votare con me. E allora io mi domando: se le discussioni si fanno nell’intento di persuadersi, a che giova continuare qui a perdere il tempo nel parlare e nell’ascoltare, quando le persone qui riunite sono già persuase in anticipo su tutti i punti? Questa è la conseguenza dell’esistenza dei partiti: dei quali non si può dire se sia bene o male che ci siano; ci sono, e questa è la realtà. E allora si sarebbe desiderato che nella nostra Costituzione si fosse cercato di disciplinarli, di regolare la loro vita interna, ai dare ad essi precise funzioni costituzionali. Voi capite che una democrazia non può esser tale se non sono democratici anche i partiti in cui si formano i programmi e in cui si scelgono gli uomini che poi vengono esteriormente eletti coi sistemi democratici.

L’organizzazione democratica dei partiti è un presupposto indispensabile perché si abbia anche fuori di essi vera democrazia. Se è così, non basta dire, come è detto nella Costituzione all’articolo 47, che «tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Non basta. Che cosa vuol dire, infatti, metodo democratico? Quali sono i partiti che rispondono alle esigenze del metodo democratico, e quindi sono degni di esser riconosciuti in un ordinamento democratico?

Era stato suggerito che nel nostro ordinamento la Suprema Corte costituzionale avesse fra gli altri compiti anche il controllo, sui partiti: che essa avesse il potere di giudicare se una associazione a fini politici abbia quei caratteri di metodo democratico alla cui osservanza sembra che la formula dell’articolo 47 voglia condizionare il riconoscimento dei partiti. Ma se non la Corte costituzionale a dar tale giudizio, chi lo darà?

Una voce a sinistra. Pilotti.

CALAMANDREI. Sì, Pilotti; se non vi sarà un altro organo più sereno, fornito di quella sensibilità e di quelle garanzie che Pilotti ha dimostrato di non avere.

C’è nelle disposizioni transitorie, del progetto, un articolo che proibisce «la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del partito fascista».

Non so perché questa disposizione sia stata messa fra le transitorie: evidentemente può essere transitorio il nome «fascismo», ma voi capite che non si troveranno certamente partiti che siano così ingenui da adottare di nuovo pubblicamente il nome fascista per farsi sciogliere dalla polizia. Se questa disposizione deve avere un significato, essa deve esser collocata non tra le disposizioni transitorie, e non deve limitarsi a proibire un nome, ma deve definire che cosa c’è sotto quel nome, quali sono i caratteri che un partito deve avere per non cadere sotto quella denominazione e per corrispondere invece ai requisiti che i partiti devono avere in una Costituzione democratica. Sarà la organizzazione militare o paramilitare; sarà il programma di violenze contrario ai diritti di libertà; sarà il totalitarismo e la negazione dei diritti delle minoranze: questi od altri saranno i caratteri che la nostra Costituzione deve bandire dai partiti, se veramente vuol bandire il fascismo. E per controllare la giusta repressione di questi caratteri, bisognerà creare un organo apposito, fornito di adeguate garanzie giuridiche e politiche; in mancanza di che accadrà che il partito fascista, di fatto se non di nome, sarà vietato o permesso secondo quel che parrà alle autorità politiche locali, sotto l’influsso delle correnti prevalenti; e magari si troveranno autorità politiche che si varranno dell’articolo 47 per impedire la vita di un partito in sé sinceramente democratico. Allora contro il provvedimento il partito ingiustamente soppresso ricorrerà al Consiglio di Stato; ma il Consiglio di Stato vi dirà che questo è un atto compiuto nello esercizio di un potere politico che si sottrae al suo controllo. Quando invece si avesse una sezione della Corte costituzionale per verificare quali sono i partiti che corrispondono, per la loro organizzazione e per i loro metodi, alla definizione data dalla Costituzione, vi sarebbero garanzie molto più sicure per poter impedire ai partiti antidemocratici di risorgere ed ai partiti democratici di non essere soppressi e perseguitati da soprusi ed arbitrî di polizia.

Un’ultima osservazione, e avrò finalmente terminato. Onorevoli colleghi, c’è nella Costituzione un articolo 131 che dice: «La forma repubblicana è definitiva per l’Italia e non può essere oggetto di revisione costituzionale».

Voi sapete che il progetto ha adottato il sistema della Costituzione rigida, cioè della Costituzione che non potrà essere variata se non attraverso speciali procedimenti legislativi, più complicati e più meditati di quelli proprî della legislazione ordinaria: in modo che le leggi si potranno distinguere d’ora in avanti in leggi ordinarie, cioè in leggi che si possono abrogare e modificare con un’altra legge ordinaria, ed in leggi costituzionali, che sono leggi per così dire più resistenti, leggi modificabili soltanto cogli speciali procedimenti di revisione stabiliti dalla Costituzione. Ma con questo articolo 131 par che si introduca una terza categoria di leggi: quelle che non si potranno giuridicamente modificare nemmeno attraverso i metodi più complicati che la Costituzione stessa stabilisce per la revisione.

Dunque, la forma repubblicana non si potrà cambiare: è eterna, è immutabile. Che cosa vuol dire questa che può parere una ingenuità illuministica in urto colle incognite della storia futura? Vuol dire semplicemente questo: che, se domani l’Assemblea nazionale nella sua maggioranza, magari nella sua unanimità, abolisse la forma repubblicana, la Costituzione non sarebbe semplicemente modificata, ma sarebbe distrutta; si ritornerebbe, cioè, allo stato di fatto, allo stato meramente politico in cui le forze politiche sarebbero di nuovo in libertà senza avere più nessuna costrizione di carattere legalitario, e in cui quindi i cittadini, anche se ridotti ad una esigua minoranza di ribelli alle deliberazioni quasi unanimi della Assemblea nazionale, potrebbero valersi di quel diritto di resistenza che l’articolo 30 del progetto riconosce come arma estrema contro le infrazioni alla Costituzione. Senonché io mi domando, e con questa domanda termino questo mio lungo discorso: se si è adottato questo sistema per le norme che riguardano la forma repubblicana, dichiarando queste norme immutabili, non credete che questo sistema si sarebbe dovuto adoperare a fortiori per quelle norme che consacrano i diritti di libertà? Era tradizionale nelle Costituzioni nate alla fine del secolo XVIII che i diritti di libertà, i diritti dell’uomo e del cittadino, venissero affermati come una realtà preesistente alla stessa Costituzione, come esigenze basate sul diritto naturale; diritti, cioè, che nemmeno la Costituzione poteva negare, diritti che nessuna volontà umana, neanche la maggioranza e neanche l’unanimità dei consociati poteva sopprimere, perché si ritenevano derivanti da una ragione profonda che è inerente alla natura spirituale dell’uomo.

Ora, se la nostra Costituzione ha adottato questa misura di immutabilità per la forma repubblicana, credo che dovrà adottare questa stessa misura (e mi riservo a suo tempo di fare proposte in questo senso) anche per le norme relative ai diritti di libertà.

Ho finito così, onorevoli colleghi, le mie osservazioni di carattere generale sulla nuova Costituzione. Vi ringrazio di avermi ascoltato con tanta benevolenza e così a lungo.

Vedete, colleghi, bisogna cercare di considerare questo nostro lavoro non come un lavoro di ordinaria amministrazione, come un lavoro provvisorio del quale ci si possa sbrigare alla meglio. Qui c’è l’impegno di tutto un popolo. Questo è veramente un momento solenne. Sento un certo ritegno, un certo pudore a pronunziare queste grandi parole: si fa presto a scivolare nella retorica. Eppure qui veramente c’è nelle cose questa solennità, e non si può non sentirla; questa solennità che non è fatta di frasi adorne, ma di semplicità, di serietà e di lealtà: soprattutto di lealtà.

Questo che noi facciamo è il lavoro che un popolo di lavoratori ci ha affidato, e bisogna sforzarci di portarlo a compimento meglio che si può, lealmente e seriamente. Non bisogna dire, come da qualcuno ho udito anche qui, che questa è una Costituzione provvisoria che durerà poco e che, di qui a poco, si dovrà rifare. No: questa dev’essere una Costituzione destinata a durare.

Dobbiamo volere che duri; metterci dentro la nostra volontà. In questa democrazia nascente dobbiamo crederci, e salvarla così con la nostra fede e non disperderla in schermaglie di politica spicciola e avvelenata.

Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest’aula, in cui una sciagurata voce irrise e vilipese venticinque anni fa le istituzioni parlamentari, è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l’esilio e la morte.

Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna-Maria Enriquez e di Tina Lorenzoni, nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità.

Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellale il dolore.

Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti.

Non dobbiamo tradirli. (Vivissimi, generali applausi Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 15.30.

La seduta termina alle 19.50.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15.30:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ERRATA CORRIGE

Nel resoconto della seduta di venerdì 7 febbraio 1947 a pagina 1094, seconda colonna, riga 43, invece di «sulla decisione di rinvio» leggasi «sulla opportunità del rinvio».

GIOVEDÌ 27 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XLVIII.

SEDUTA DI GIOVEDÌ 27 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDI

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Sul processo verbale:

Ambrosini                                                                                                         

Commemorazione:

Presidente                                                                                                        

Li Causi                                                                                                            

Musotto                                                                                                           

Castiglia                                                                                                          

Salvatore                                                                                                        

La Malfa                                                                                                          

Villani                                                                                                             

Condorelli                                                                                                      

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio                               

Nomina di una Commissione:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Svolgimento):

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio                               

De Maria                                                                                                          

Preziosi                                                                                                            

Pella, Sottosegretario di Stato per le finanze                                                         

Camangi                                                                                                             

Lupis, Sottosegretario di Stato per gli italiani all’estero                                       

Togni, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale                      

Sullo                                                                                                                

Platone                                                                                                            

Scelba, Ministro dell’interno                                                                             

Mazzoni                                                                                                            

Seguito della discussione di una mozione:

Presidente                                                                                                        

Presentazione di un disegno di legge:

Gullo, Ministro di grazia e giustizia                                                                   

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Si riprende la discussione della mozione:

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

La Malfa                                                                                                          

Li Causi                                                                                                            

De Vita                                                                                                             

Orlando Vittorio Emanuele                                                                          

Lussu                                                                                                                

Basso                                                                                                                

Patricolo                                                                                                         

Taviani                                                                                                             

Cifaldi                                                                                                              

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Scelba, Ministro dell’interno                                                                             

Bellavista                                                                                                       

Gasparotto, Ministro della difesa                                                                     

Cevolotto                                                                                                        

Cingolani                                                                                                         

Fuschini                                                                                                            

Romita, Ministro del lavoro e della previdenza sociale                                        

Riccio                                                                                                               

Bonomi Paolo                                                                                                    

Ferrari, Ministro dei trasporti                                                                           

Cifaldi                                                                                                              

Gullo, Ministro di grazia e giustizia                                                                   

Li Causi                                                                                                            

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Sostituzione di Commissari:

Presidente                                                                                                        

Sull’ordine del giorno:

Presidente                                                                                                        

Rubilli                                                                                                                

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.

AMBROSINI. Chiedo di parlare sul processo verbale, per chiarire il pensiero da me espresso nella seduta precedente.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

AMBROSINI. Dal processo verbale risulta che l’onorevole Codignola ha detto che io avrei lasciato un dubbio sulla sovranità dell’Assemblea Costituente affermando che questa deve tenersi nei limiti del diritto preesistente.

Io non voglio né debbo tornare sul merito della questione, ma ho il dovere di diradare il dubbio, anzi di dire esplicitamente che esso è assolutamente infondato.

Io ho detto semplicemente che l’Assemblea Costituente può modificare il diritto preesistente, ma seguendo i procedimenti che sono fissati dall’ordinamento giuridico. Infatti, dal resoconto risultano queste mie espresse parole: «L’Assemblea è sovrana, ma, nelle sue decisioni, non può sorpassare le norme del suo statuto particolare», cioè del suo Regolamento». Non può quindi modificare o abrogare una legge, come si vorrebbe concretamente nel caso discusso, attraverso alla votazione di una mozione come quella presentata dagli onorevoli Nasi e La Malfa.

L’asserzione dell’onorevole Codignola è quindi infondata.

PRESIDENTE. Nessun altro chiedendo di parlare, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Commemorazione.

PRESIDENTE. (Sorge in piedi e con lui tutta l’Assemblea). Domenica scorsa i contadini siciliani, in fraterna solidarietà con i contadini di tutte le altre Regioni d’Italia, hanno celebrato fra campi e borgate il loro lavoro aspro e fecondo, le loro aspirazioni umane e sociali, le loro conquiste combattute e progressive.

Era fra loro, come sempre da un cinquantennio ad ogni maggiore o minore episodio della loro vita collettiva, l’onorevole Antonio D’Agata, eletto a quest’Assemblea dalla circoscrizione di Catania, e sindaco di Avola. E passando, nel corso di poche ore, dall’uno all’altro Paese del Siracusano, egli aveva ripetuto ai lavoratori le parole serene d’insegnamento con le quali era già riuscito, nel suo più lontano infaticato apostolato, a trarli da una umiliata soggezione quasi servile a dignità di popolo, capaci di volere e capaci di combattere per realizzare la propria volontà. Ultime parole, sgorgate dal suo cuore buono e dettategli da un intelletto che aveva nutrito di ogni scienza che più lo sorreggesse a trovare soluzione ai problemi che diuturnamente la sua regione gli proponeva; nelle sue terre mal possedute, negli agglomerati urbani mal costruiti, nelle sue vie di comunicazioni malamente tracciate, nella sua ricchezza mal distribuita, nei suoi impeti di liberazione mal compresi, e nel suo generoso mai raffrenato slancio verso ogni nobile battaglia, umana e civile. Ultime parole: ché, il giorno appresso la morte è scesa su di lui a sigillargli le labbra, a concluderne l’opera.

Onorevoli colleghi, Antonio D’Agata fino dal 1898 – era nato nel 1882 – aveva scelto a propria impresa la difesa dei lavoratori; ed a questa restò fedele, per mutare di fortune politiche, fino all’ultimo respiro. Da allora a poco a poco il suo coraggio, la sua dirittura morale, la sua capacità di lavoro pratico, la sua dedizione all’opera intrapresa gli acquistarono la fiducia e l’affetto della maggioranza dei suoi concittadini che lo elessero, nel 1914, sindaco di Avola.

Nel 1919 egli fu eletto alla XXV legislatura; ma l’anno restò segnato nella sua vita, forse più che per questa pur alta dignità conferitagli per voto popolare, per la vittoriosa azione da lui ispirata e diretta che assicurò ai contadini della sua zona l’assegnazione di sterili ed estesi feudi, resi poi dal loro lavoro opimi giardini a mandorleto. Il fascismo non lo piegò, ché anzi lo convinse a definire più risolutamente il suo pensiero politico. Ed iscrittosi al Partito comunista, in rappresentanza di questo venne eletto nel marzo 1946 a consigliere comunale e quindi a sindaco di Avola, e nel giugno successivo a Deputato all’Assemblea Costituente.

La sua morte priva noi di un collaboratore prezioso, la sua terra di un degno rappresentante; la Repubblica di un fedelissimo, che ha tenacemente operato perché essa si affermasse nel cuore dei suoi concittadini. (Segni di assenso).

LI CAUSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LI CAUSI. Dopo le parole del nostro Presidente, vorrei dire brevissimamente della nobile vita del deputato Antonino d’Agata, appartenente al Gruppo comunista dei Deputati alla Costituente. Ed anche a nome di tutta la Deputazione siciliana, che ha voluto darmi l’incarico di commemorare il nostro scomparso, rievoco la sua figura.

Quando, qualche giorno fa, in una delle sedute della scorsa settimana, l’abbiamo visto muoversi agilmente, per impedire episodi che avrebbero un po’ agitato la nostra Assemblea, perché la calma non fosse turbata, siamo stati tutti ammirati che quest’uomo sessantacinquenne avesse tanta agilità di spirito da avvertire che la nostra Assemblea conservasse quella calma che Egli per tutta la sua esistenza ha conservato, risolvendo gravissimi problemi.

Il nostro Presidente ci ha detto come giovanissimo egli fu portato a schierarsi accanto ai contadini del Siracusano e come in brevi anni, per la sua instancabile opera, per la concretezza con cui sapeva svolgere e quindi porre i problemi e perciò andare incontro alle esigenze dei lavoratori, fosse eletto sindaco della sua città, uno dei primi comuni socialisti della provincia di Siracusa, e come questa carica tenesse fino al 1923, quando i fascisti costrinsero l’amministrazione da lui presieduta a sciogliersi.

L’atto più importante della sua esistenza, quello che rimane nella sua opera, noi siciliani e quanti non siciliani abbiano percorso il tratto da Noto a Siracusa, ricordiamo. Ricordiamo come le lande pietrose, i feudi del marchese di Cassibile, nel 1920 occupati, sotto la guida di Antonio d’Agata, dai contadini siciliani, ora siano i migliori mandorleti di quella provincia e come ancora oggi egli fosse trepidante perché sta per scadere il termine per la riconsegna dei feudi al proprietario ed egli si preoccupava profondamente che la fatica venticinquennale dei contadini non fosse perduta per essi.

Costretto ad emigrare, per le minacce del fascismo, in Svizzera, si diede ad organizzare e dirigere le cooperative di nostri muratori, specialmente nella Svizzera tedesca, e soleva con noi, suoi vecchi amici, compiacersi di quegli anni in cui egli trovò conforto in terra di esilio all’amarezza della perduta libertà della sua Patria, nell’aver lasciato anche all’estero questa traccia della sua operosità.

Rieletto dopo la caduta del fascismo, regime al quale egli mai aveva aderito, a sindaco di Avola, ogni giorno, parlando con noi, si preoccupava di tutti i problemi riguardanti il suo comune: dalla scuola all’acquedotto, dall’assistenza all’alimentazione. È andato in giro qui a Roma, in cerca di aiuti, in cerca di sostegni perché i suoi contadini continuassero ad avere le sue amorevoli cure.

Alla fine del 1945, egli che fino dal 1898 aveva ininterrottamente militato nel Partito socialista italiano, egli che sentiva profondamente l’unità delle masse lavoratrici, egli che aveva guardato con ammirazione allo sforzo che i lavoratori durante il ventennio del fascismo avevano compiuto per conservare all’Italia la dignità di Paese libero, aveva visto nel Partito comunista quello che maggiormente avrebbe sodisfatto le sue aspirazioni, il suo intimo senso, il suo profondo attaccamento alla causa dei lavoratori.

E così è passato al nostro partito, al quale dava tutto l’entusiasmo della sua vita, e nelle cui file si può dire è morto sulla breccia, se è vero che domenica scorsa, durante la Giornata del contadino, egli spirava, poco dopo aver pronunziato davanti a quei contadini le parole di amore e di assistenza che il suo nobile animo gli ispirava. (Approvazioni).

MUSOTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MUSOTTO. Come siciliano, e come deputato del Partito socialista italiano, a nome del quale parlo, dichiaro di associarmi alle espressioni di cordoglio per la morte immatura ed improvvisa dell’onorevole Antonio D’Agata.

Io non ebbi con lui cordialità di rapporti, non ebbi questa ventura, Egli era nativo di un’altra zona della Sicilia, quella orientale. Ma anche da noi fu sempre viva ed operante la risonanza del suo nome, e lo considerammo erede della dottrina socialista di Nicola Barbato, che creò in Sicilia apostoli e martiri.

È vero quello che ha ricordato il compagno Li Causi; egli, provvisto di beni, può dirsi che tutto abbia speso per l’interesse della classe lavoratrice, e la sorresse in quella particolare lotta per la conquista delle terre dell’ex feudo della marchesa di Cassibile, ne aiutò lo sviluppo in tutto il movimento cooperativo.

Egli lascia a noi eredità di affetti e anche tesoro di esempi e di ammonimenti. Perciò la sua memoria ci resterà cara e particolarmente diletta.

Preghiamo che il Presidente, interprete dei sentimenti unanimi dell’Assemblea Costituente, invii le condoglianze alla famiglia e alla cittadina di Avola che gli diede i natali.

CASTIGLIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CASTIGLIA. A nome del Gruppo qualunquista, mi associo alle espressioni di cordoglio per la perdita immatura del collega D’Agata.

SALVATORE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SALVATORE. Alla memoria dell’onorevole D’Agata giunga l’espressione del cordoglio da parte del Gruppo della Democrazia cristiana siciliana.

Io che ebbi la consolazione di conoscerlo intimamente e che seguii per parecchio tempo l’ansia della sua anima nella rivendicazione dei diritti dei lavoratori della nostra Sicilia, anche se le ideologie ci separarono, ho trovato in lui una di quelle luci che brillano lungo il percorso dell’esistenza e del travaglio dell’umana fatica. (Approvazioni).

LA MALFA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA. Ho conosciuto il collega D’Agata di recente e ricordo che nelle conversazioni con lui, io più giovane di lui, ho avuto modo di ammirare le sue grandi, le sue umane qualità.

In nome anche del Gruppo repubblicano cui appartengo, mando un commosso saluto e le più vive condoglianze alla famiglia.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Villani. Ne ha facoltà.

VILLÀNI. A nome del Gruppo parlamentare del Partito socialista dei lavoratori italiani, mi associo alle nobilissime parole pronunziate dal compagno Li Causi ed a quelle dette dal Presidente a ricordo del compagno Antonino D’Agata, recentemente rapito all’affetto dei lavoratori siciliani, esprimendo il nostro profondo cordoglio.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Condorelli. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. A nome del Partito liberale, mi associo, con animo profondamente angosciato, al cordoglio espresso dai precedenti oratori e, sovrattutto, a quanto così nobilmente, a nome di tutto il Gruppo parlamentare siciliano, ha detto il collega onorevole Li Causi.

D’Agata fu certamente un cavaliere dell’ideale, come ha attestato tutta quanta la sua vita, che fu una sintesi ammirabile di consonanza tra pensiero e azione.

Innanzi a tanta unità e integrità morale noi riverenti ci inchiniamo.

CAPPA, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Il Governo si associa alle nobilissime parole pronunziate dal Presidente e dagli altri nostri colleghi in memoria del collega D’Agata, e si associa alla proposta dell’onorevole Musotto perché la Presidenza della Camera invii le condoglianze alla famiglia.

PRESIDENTE. La Presidenza si farà interprete presso i familiari e presso la città di Avola del cordoglio espresso dall’Assemblea in occasione della morte dell’onorevole D’Agata.

Nomina di una Commissione.

PRESIDENTE. Comunico che, a norma dell’articolo 80-bis del Regolamento, invocato ieri dall’onorevole Parri, ho chiamato a far parte della Commissione incaricata di esaminare il fondamento dell’accusa rivolta nella seduta di ieri dall’onorevole Finocchiaro Aprile all’onorevole Parri gli onorevoli Abozzi, Bruni, Cappi, Cevolotto, Corbi, Della Seta, Lombardo Ivan Matteo, Lucifero, Reale Vito, Schiavetti e Zanardi.

Invito gli onorevoli colleghi predetti a riunirsi domani, venerdì, alle ore 10, per costituire la Presidenza della Commissione e iniziare subito i lavori.

La. Commissione dovrà presentare le sue conclusioni, sempre a norma dell’articolo 80-bis, entro il termine del 15 marzo prossimo venturo.

Presidenza del Vicepresidente CONTI

Svolgimento di interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

Le due prime interrogazioni riflettono lo stesso argomento e saranno quindi svolte insieme.

La prima è degli onorevoli De Maria, Codacci Pisanelli, Franceschini, Trimarchi, Gui, Storchi, Corsanego, Moro, Colombo, Di Fausto, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, «per conoscere quali provvedimenti ha adottato il Governo a favore degli esuli giuliani cui si rivolge in questa ora tragica della nostra storia l’attenzione accorata e fraterna di tutti gli italiani».

La seconda è dell’onorevole Preziosi, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per sapere: a) se e quali provvedimenti sono stati disposti per venire in soccorso – ih maniera concreta – in favore dei profughi istriani ed in special modo di quelli di Pola, abbandonati quasi a se stessi (basti per tutti l’episodio di Roma dell’arrivo di centinaia di profughi senza che nessuno li accogliesse); b) se non è il caso di assegnare ad un ente cooperativo di contadini istriani profughi, che ascendono al numero di 16.000, la tenuta ex reale di Castel Porziano, che, invece, pare si voglia vendere a privati per la somma di 400 milioni; c) se il Governo non reputa necessaria la emanazione di un decreto-legge, di urgenza, che, come per i reduci, contempli l’assunzione obbligatoria di una aliquota di profughi dalle terre irredente (Istria, Venezia Giulia, Briga e Tenda) nei vari uffici governativi o in aziende controllate dallo Stato, dando così un pane, che non abbia soltanto l’aspetto di una umiliante elemosina a tante povere famiglie italiane, degne di ogni considerazione».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Gli onorevoli interroganti si sono fatti eco di una pubblicazione romana che la Presidenza del Consiglio corresse con un suo comunicato.

L’esodo spontaneo degli italiani da Pola si va svolgendo con la regolarità e con il minor disagio degli esuli compatibile con le condizioni generali del Paese, mediante l’applicazione del piano di provvidenze predisposto da un apposito Comitato interministeriale; il quale piano comprende: apprestamento gratuito dei mezzi di trasporto marittimi e terrestri; organizzazione dei turni di partenza; un sussidio di viaggio di 3000 lire per ogni capo di famiglia bisognosa e 1000 per ogni altro componente; rifornimento alimentare durante il viaggio con posti di ristoro assicurati nei luoghi di sbarco e di tappa a cura delle locali autorità, con il concorso della Croce Rossa Italiana, della Pontificia Commissione di assistenza, degli organi dell’Assistenza post-bellica e dei Comitati giuliani; spedizione organizzata delle masserizie e provvisorio immagazzinaggio nei luoghi di sbarco in preparazione del successivo smistamento; preventiva determinazione, per coloro che non abbiano possibilità singole di sistemazione, delle località di destinazione, con predisposizione di alloggi in case private o presso comunità o istituti.

Le notizie quotidianamente pervenute assicurano della sodisfacente attuazione delle dette provvidenze – oltre che da parte degli organi dello Stato – da parte dei benefici enti che vi collaborano ed ai quali mi è propizia l’occasione per esprimere il riconoscimento del fattivo spirito di solidarietà che essi portano nell’opera di conforto e di aiuto ai fratelli istriani.

Senza dire delle accoglienze veramente affettuose di Venezia e di Ancona – punti preordinati di sbarco – è certo che gli esuli, i quali si sono attenuti agli itinerari e alle indicazioni loro forniti, hanno raggiunto le loro destinazioni senza inconvenienti e senza mancare della necessaria assistenza.

Nel caso, a cui l’interrogante onorevole Preziosi fa più specialmente riferimento – dell’arrivo di esuli alla stazione ferroviaria di Roma – gli accertamenti fatti escludono che si sia trattato di insufficienza d’organizzazione in luogo, ma se mai di contrattempi nelle notizie sull’orario d’arrivo. L’episodio per altro fu di breve momento, e tutto fu rapidamente sistemato. Alla Stazione Termini prestano la loro opera la Croce Rossa, l’Organizzazione dell’assistenza post-bellica, l’Opera pontificia e il Comitato giuliano, tutti con mezzi adeguati.

Le ferrovie hanno messo a disposizione sufficienti locali per gli eventuali pernottamenti, che sono stati attrezzati con materiale dell’Ente comunale assistenza di Roma.

Non ha alcun fondamento l’episodio denunciato di polesani che sarebbero stati respinti da Genova a Roma. Da accertamenti fatti è risultato che una trentina di esuli giunti a Genova furono destinati a Rapallo in un albergo appositamente riservato. Essi però, contrariamente alle indicazioni ricevute, vollero proseguire per Roma adducendo vari motivi di carattere personale, cosicché giunsero inaspettati alla Stazione di Termini, e non avendo qui in Roma punti d’appoggio dovettero essere sistemati con mezzi di fortuna in stazione.

Va del resto riconosciuto che i polesani in esodo stanno dando una prova di educazione civile veramente ammirevole rendendosi conto, meglio di taluni facili critici, delle gravi difficoltà che si debbono superare per l’assistenza ed in genere attenendosi con molto ordine e compostezza alle indicazioni e suggerimenti che loro vengono dati.

Alla richiesta di notizie, di cui ai numeri 2 e 3 dell’interrogazione, il Governo risponde che i problemi della sistemazione definitiva degli esuli sono ora in corso di esame e quanto prima si spera di apprestare un piano organico che ripari – entro i più larghi limiti possibili – ai danni patiti dagli esuli.

Non è un mistero la importanza, anche dal punto di vista finanziario, di un tale compito e le improvvisazioni in materia non sono consentite. Ma posso in coscienza assicurare gli interroganti che il Governo, in via di sistemazione dei suoi organi funzionali, ha sommamente a cuore la sorte di tutti i giuliani che l’iniquo Trattato costringe ad abbandonare, esuli, la loro terra natale.

Come provvidenza di immediata attuazione è stato disposto per la corresponsione, già in atto, agli esuli polesani di uno speciale eccezionale sussidio che assicura loro per i primi mesi i mezzi di sostentamento. Ma la finalità che il Governo soprattutto si prefigge è il loro inserimento nell’attività produttiva nazionale.

Per quanto riguarda specificamente la assunzione obbligatoria di aliquote di personale proveniente dalla Venezia Giulia nei pubblici uffici, sono in grado di assicurare l’onorevole interrogante che il Governo da molti mesi ha disposto la riassunzione, anche in soprannumero, di tutti gli impiegati e operai statali e parastatali, provenienti dalla Venezia Giulia a motivo dell’esodo, nei corrispondenti uffici sparsi per l’Italia, cosicché già varie migliaia sono stati sistemati con le loro famiglie, e non hanno mancato di manifestare al Governo la loro piena sodisfazione.

Altro provvedimento è in preparazione per favorire l’assunzione degli esuli nei posti lavorativi in generale.

Oltre a ciò, vengono e saranno promosse e incoraggiate tutte le iniziative atte a dare stabile sistemazione di vita a nuclei di lavoratori e alle loro famiglie.

Vari progetti sono in proposito avviati; e nel quadro di tali provvidenze sarà tenuta presente, per la possibilità che possa offrire, anche la segnalazione relativa alla tenuta di Castel Porziano.

PRESIDENTE. L’onorevole De Maria ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DE MARIA. Non ci riteniamo completamente sodisfatti. Prima di tutto ci preme di prospettare il problema giuliano nella sua giusta luce, come un problema che interessa la totalità del popolo italiano. Oggi in molti individui, anzi dovremo dire in diverse categorie di individui, si ha paura quasi di parlare di Nazione e di nazionalità, come se ciò facesse pensare a delle idee ispiratrici di un passato forse ancora recente e che stiamo scontando; idee che ci hanno portato all’attuazione di principî di imperialismo e di espansioni territoriali, da cui oggi siamo in perfetto antagonismo sia per la realtà concreta dei fatti, sia perché siamo ideologicamente agli antipodi.

Non dobbiamo dimenticare che, finché la democrazia con i suoi principî spirituali e morali ispirerà la vita della nostra Nazione, come dell’Europa e del mondo, i concetti di imperialismo, di violenza, di totalitarismo, saranno banditi dalla vita collettiva dei popoli. Questo però non vuol dire rinnegare quei principî di nazionalità che sono alla base della vita stessa dei popoli e misconoscendo i quali compiremmo delitto di lesa nazione. Non possiamo lasciar passare perciò che la Nazione sia mutilata dei suoi territori, senza estrinsecare questo profondo dolore del nostro animo.

Può sembrare strano che sia proprio io, pugliese, a parlare a favore dei fratelli giuliani; ma mi pare che proprio perché appartengo ad una regione che non è stata molto colpita dalla guerra debba sentire più forte il sentimento della solidarietà, verso quei connazionali che stanno più amaramente scontando la guerra stessa.

Abbiamo voluto commemorare l’ingiusto trattato di pace con 10 minuti di silenzio; ma mi pare che tutto ciò non basti. Dobbiamo dimostrare di essere solidalmente uniti a coloro che soffrono e che piangono, a coloro che stanno scontando tutta la tragicità tremenda di quest’ora.

La sciagura più grande che possa colpire un popolo si è abbattuta sulla Venezia Giulia: essa è stata separata dalla madre patria; ma i giuliani hanno abbandonato la loro terra, le loro case, il loro focolare, gli stessi loro morti, per non rinnegare la loro Patria, per manifestare il loro spirito di attaccamento alla più bella tra le Madri: l’Italia stessa.

L’italianità della Venezia Giulia non può essere posta in dubbio da alcuno; né la potrà cancellare un trattato di pace ingiustamente imposto; l’italianità della Venezia Giulia è dimostrata da mille e mille prove, dalla dominazione romana alla Repubblica veneta, che hanno lasciato tracce indelebili in quelle zone. Parenzo, Capo d’Istria e tutte le altre città della Venezia Giulia sono create, vivificate dallo spirito italiano, né possiamo dimenticare Nazario Sauro, Tommaseo (dalmata) e tanti e tanti Grandi che hanno scritto pagine gloriose di storia italiana. Per questo, ripeto, dinanzi agli esuli giuliani che sono i gloriosi eredi ed i continuatori di questa tradizione italica, noi non possiamo rimanere indifferenti; di fronte alla loro angoscia e al loro dolore dobbiamo cercare concretamente e solidalmente di esprimere loro la nostra fraternità.

Non importa che essi vadano via da una regione dove s’è stabilito questo o quel regime. A noi importa soltanto che essi sono degli italiani, che, per rimaner fedeli alla loro Nazione, devono cercare asilo e rifugio nella loro Madre Patria.

E questo ci impone dei doveri. Io vorrei che da quest’Aula si levasse un grido di appello non soltanto al Governo – che ha già fatto quello che può fare e speriamo che possa e voglia fare anche di più – e che la nostra voce avesse una eco in tutte le città, dovunque vi sono associazioni assistenziali, filantropiche, caritative, qualunque siano i fini che si prefiggono, affinché sentano il dovere di questa solidarietà fraterna, sentano che questo è il momento di mostrarsi veramente un cuore solo, un’anima sola, sentano che la voce della Patria straziata è una cosa che ci tocca nel più intimo del nostro essere, che la Patria è sangue del nostro sangue, anima della nostra anima. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Onorevole De Maria, la prego di concludere.

DE MARIA. Qualcuno, forse, troverà esagerate queste mie parole. Voglio citare le parole di una operaia della Manifattura dei tabacchi di Pola: «Alcuni si meravigliano dell’esodo di questi connazionali; essi farebbero altrettanto. Mai si ama tanto la propria terra come quando essa ci viene rapita».

Concludendo, io chiedo al Governo diversi provvedimenti:

che i profughi della zona B (giuliani e dalmati) siano equiparati ai polesi, perché per i polesi c’è un permesso ufficiale di sgombero e possono portar via anche le loro masserizie; mentre invece i profughi della zona B possono portare soltanto il vestito che hanno indosso (ai polesi si dà un sussidio che agli altri, invece, non è garantito);

che i profughi giuliani e dalmati siano equiparati ai reduci. I reduci tornano nella loro Patria, nel loro ambiente, mentre questi disgraziati vanno in altri luoghi, in altre zone, spesso anche di clima diverso.

Vi è, infine, il problema degli alloggi. Ho qui un articolo di giornale in cui si parla del campo di Rasina di Rassa: qui i vecchi non hanno letto, i bambini piangono perché hanno fame. Manca anche un cappellano.

Le condizioni non sono così rosee come forse potrebbe apparire dalle parole dell’onorevole Sottosegretario di Stato. Nella stessa stazione Termini vi sono profughi polesi che alloggiano sotto le pensiline da diverse notti. Noi vogliamo suggerire al Governo di requisire qualche castello o villa o qualche ex casa della G.I.L. per dare alloggio a questi poveri disgraziati fratelli.

E quando avremo fatto tutto quanto è in nostro potere, avremo reso meno pesante l’esilio ai giuliani in attesa che Dio faccia scoccare nel quadrante della storia l’ora in cui ogni popolo sarà libero nella propria dimora e sarà l’artefice dei propri destini. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Preziosi ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

PREZIOSI. Debbo dichiararmi in gran parte sodisfatto della risposta dell’onorevole Cappa, se non altro perché egli, con le sue dichiarazioni, ci ha detto che il Governo sta per affrontare il problema dei profughi giuliani e delle altre terre irredente con un piano concreto che dovrebbe risolvere molti problemi e sistemare definitivamente questi nostri fratelli.

Ho posto alcuni interrogativi all’onorevole Cappa; primo, se era vero l’episodio della stazione Termini, ed egli mi ha detto che si è trattato di un contrattempo. Ne prendo atto e penso che questo episodio non debba ripetersi in alcun modo, perché l’assistenza deve essere soprattutto tempestiva. Nel secondo interrogativo ho chiesto se fosse vero che la tenuta di Castel Porziano si dovrebbe vendere ad estranei per 400 milioni di lire. L’onorevole Cappa dice che non è vero.

CAPPA, Sottosegretario di Stato per la Presidenza dei Consiglio dei Ministri. Ho detto che non mi consta.

PREZIOSI. Dato però che è vero che esiste una lega di contadini, un consorzio o quanto meno degli enti consorziati fra contadini istriani, forte di 10.000 unità, chiedo al Governo se non sia il caso di affidare questa enorme estensione di terreno (che per altro non è coltivata perché si tratta di una riserva di caccia) a quei lavoratori che potrebbero dissodare la terra, dando non solo incremento all’agricoltura, ma provvedendo anche alle loro necessità.

Il terzo punto della mia interrogazione riguarda l’opportunità di emanare un decreto legislativo che provveda, così come s’è fatto per i reduci, a fare obbligo dell’assunzione dei profughi della Venezia Giulia e di altre terre irredente in quegli uffici in cui vi è bisogno di impiegati. Dice l’onorevole Cappa che anche a questo proposito il Governo sta provvedendo, e noi ce lo auguriamo.

Il problema dei profughi va risolto assolutamente nel più breve tempo possibile. Ciascuno di noi, leggendo la stampa quotidiana, prova un senso di sconforto per quanto riguarda i profughi di Pola e di altre terre; perché, quando qualche giornale ha preso l’iniziativa di invitare i privati a mettere a disposizione di questi nostri fratelli profughi dei posti o comunque del lavoro, ha dovuto registrare, da parte dei lettori, soltanto offerte di posti per donne di servizio. Dobbiamo proprio dare la prova a questi nostri fratelli che per loro non c’è posto nella nostra terra? Non bisogna fare nessuna speculazione ed è necessario che questi nostri fratelli, che reputano impossibile vivere ulteriormente in terre che non sono più italiane e vengono a noi fiduciosi, siano accolti a braccia aperte: facciamo per loro tutto quanto è possibile. È questo, indubbiamente, un nostro preciso dovere, che noi compiremo con tutto il cuore e con tutto il nostro entusiasmo. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Camangi, al Ministro delle finanze e del tesoro, «per sapere se non creda opportuno, in attesa che venga definita la questione dell’esonero dal pagamento dell’imposta generale sull’entrata per i trasferimenti di merci effettuati dalle cooperative di consumo ai soci delle medesime, di disporre perché si sospenda intanto, da parte degli uffici, la esazione del canone di abbonamento delle dette cooperative, esazione che dovrebbe essere effettuata entro la fine del corrente mese».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per le finanze ha facoltà di rispondere.

PELLA, Sottosegretario di Stato per le finanze. La soluzione della questione concernente il trattamento da farsi agli effetti dell’imposizione dell’imposta alle cooperative di consumo è subordinata alla possibilità di emanazione di precise norme da parte del Ministero del lavoro, le quali consentano di individuare, caso per caso, la vera natura giuridica dell’Ente, giacché soltanto se il medesimo assolve una funzione mutualistica, potrà esaminarsi la possibilità di riconoscere che nella fase distributiva dei prodotti ai soci non si renda applicabile l’imposta sull’entrata.

Comunque, allo stato delle vigenti disposizioni che hanno, come è noto, carattere tassativo, nessun provvedimento del genere può essere preso né, tanto meno, è possibile consentire la chiesta sospensione dell’applicazione del tributo, e di questo sono dolente, giacché le cooperative, finché non sarà intervenuta una nuova disciplina, sono da considerarsi, nei riflessi dell’imposta sulla entrata, come veri e propri dettaglianti, soggetti come gli altri a tutti gli obblighi fiscali che fanno carico a questi ultimi.

D’altra parte, l’adozione del chiesto trattamento agevolativo sarebbe poco opportuna, in quanto acuirebbe una situazione di agitazione che già esiste nel ceto commerciale dei dettaglianti, i quali, colpiti già da varî tributi fiscali di notevole pressione, vedono in tale agevolazione un nuovo elemento di ingiusta concorrenza, specialmente ad opera di quelle cooperative che, sotto tale nome, svolgono una vera attività commerciale e speculativa.

Tutto ciò premesso, posso assicurare l’onorevole interrogante che è stato sollecitato il Ministero del lavoro a portare a termine, con la migliore sollecitudine possibile, la nuova legislazione sulle cooperative, nello stesso tempo che il Ministero delle finanze esamina con particolare benevolenza il complesso dei problemi fiscali concernenti le cooperative di consumo.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CAMANGI. Non posso evidentemente dichiararmi sodisfatto. Non avevo voluto entrare nel merito del problema, perché ero stato informato che la questione era allo studio del Ministro del lavoro. Volevo soltanto riferirmi a qualche cosa di più contingente. Molte cooperative, a mio avviso, avrebbero il diritto di essere esonerate da questo pagamento e io chiedevo soltanto che, in attesa della definizione della questione, si prorogasse il termine del pagamento che scade alla fine di questo mese, anche per evitare un insieme di formalità burocratiche che deriverebbero dal dover chiedere poi i rimborsi. D’altra parte, la spiegazione molto dettagliata del Sottosegretario alle finanze, mi fa pensare con molta preoccupazione a quello che sarà l’esito della questione. Non sembra vi siano molte speranze circa tale buon esito ed io mi permetto di richiamare l’attenzione del Sottosegretario alle finanze su questo punto. Ci saranno, è vero, delle cooperative spurie che non meriteranno un trattamento speciale di questo genere, e allora si procederà nei loro confronti; ma ci sono quelle vere, costituite dai lavoratori che, attraverso di esse cercano di ovviare a tanti inconvenienti, specie nel campo alimentare.

D’altra parte mi pare che la questione, nei suoi termini logici e giuridici, sia chiarissima. Si tratta di stabilire se, nel momento in cui le cooperative trasferiscono ai propri soci le merci che hanno acquistate, fanno un’operazione di vendita oppure un’operazione di distribuzione. È evidente che fanno soltanto una distribuzione, ed a questo proposito ricordo che in Inghilterra – dove forse si è più precisi anche nel linguaggio – quelle che da noi vengono chiamate cooperative di consumo sono invece chiamate cooperative di distribuzione, proprio per accentuare questa loro funzione.

Io, quindi, voglio non disperare dell’avvenire, benché dovrei disperare, data l’antifona che ho ascoltato; e mi auguro che la questione sia esaminata con molta attenzione e che si voglia andare incontro alle cooperative non soltanto a parole, ma anche con i fatti. E in questo caso non si tratta di stabilire dei privilegi, ma di dare un’applicazione logica, giusta, razionale, ad una norma di legge. E se anche si dovesse, in questo caso, dare un’applicazione un poco benevola alla legge, sarebbe uno dei tanti modi che si potrebbero usare per dimostrare che veramente, con i fatti, si vuole aiutare la cooperazione.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Sullo, ai Ministri degli affari esteri e del lavoro e previdenza sociale, «per conoscere se non ritengano, di fronte allo stato d’animo messianico diffusosi nel Paese sulla possibilità di emigrare senza limite nel numero e senza ritardo nel tempo in Argentina, intervenire con una immediata dichiarazione chiarificatrice al fine di: 1°) rendere nota, se è possibile, la procedura da seguire per il reclutamento per evitare che il pullulare di iniziative private incontrollate non sia oggetto di delusioni che si riverserebbero non solo sugli eventuali responsabili, ma anche sul Governo; 2°) fornire all’opinione pubblica (se per regolamentare il reclutamento occorre ancora attendere) elementi che diano l’esatta visione delle possibilità emigratorie distinte per categorie e ripartite nel tempo; 3°) vietare per ora, comunque, prenotazioni illegittime che in talune zone sono diventate anche oggetto di private speculazioni. L’interrogante ritiene che solo con una tempestiva precisazione si possa evitare nel Paese il sorgere di correnti di sfiducia e di delusione prodotte da facili entusiasmi».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per gli italiani all’estero ha facoltà di rispondere.

LUPIS, Sottosegretario di Stato per gli italiani all’estero. Il Ministero degli affari esteri concorda pienamente con l’onorevole interrogante circa l’opportunità di far conoscere al più presto le modalità che dovranno essere osservate nel reclutamento dei lavoratori per l’Argentina, in conformità dell’accordo recentemente firmato, nonché l’epoca in cui potranno aver luogo le prime partenze.

È infatti desiderabile che l’opinione pubblica e gli interessati (in parte disorientati da alcune intempestive pubblicazioni di stampa) vengano opportunamente informati, anche ad evitare che profittatori, nei riguardi dei quali dovranno essere adottate con estremo rigore le sanzioni di legge, continuino ad esercitare attorno ai candidati all’espatrio azioni speculative.

La Direzione generale dell’emigrazione del Ministero degli affari esteri ha già promosso per domani 28 febbraio una riunione alla quale parteciperanno i rappresentanti del Ministero del lavoro e della Confederazione generale italiana del lavoro, nella quale verrà concordata una comune linea di condotta per gli ulteriori sviluppi dell’accordo e per tenere opportunamente informato il pubblico circa tali sviluppi.

PRESIDENTE. Il Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale ha facoltà di rispondere a sua volta all’interrogazione dell’onorevole Sullo.

TOGNI, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale. Il Ministero del lavoro e della previdenza sociale aveva già rilevato come la notizia della conclusione delle trattative con la Delegazione argentina per l’avviamento emigratorio di lavoratori italiani avesse suscitato diffuse, eccessive aspettative. Al fine di infrenare la giustificata impazienza ed atti intempestivi, è stato diramato alla stampa quotidiana e diffuso anche attraverso la radio, un comunicato nel quale sono precisati i seguenti punti:

1°) l’inizio dei reclutamenti potrà aver luogo soltanto dopo che la Delegazione argentina, ai sensi del trattato, avrà fatto conoscere il numero delle richieste e le rispettive categorie professionali degli emigranti, con le indicazioni delle condizioni di lavoro;

2°) i reclutamenti saranno effettuati, come del resto tutti gli altri reclutamenti emigratori, dagli Uffici del lavoro, ai quali gli interessati si potranno rivolgere per avere tutte le informazioni utili per giudicare della loro convenienza all’espatrio, ed avere precise notizie sulla procedura da seguire;

3°) sono messi in guardia gli interessati, nei confronti di private speculazioni, che mediante compensi provvedono all’accettazione di domande. E a tal uopo gli interessati sono stati avvertiti che saranno prese in considerazione soltanto le domande presentate agli Uffici del lavoro, direttamente o indirettamente, per mezzo delle organizzazioni sindacali.

Questo Ministero non mancherà di denunciare le speculazioni del genere, perché siano colpiti coloro che raccolgono le domande dei lavoratori con fini di lucro.

È intendimento, infine, di questo Ministero, di intesa con quello degli affari esteri, di concordare al più presto con la Missione argentina, non soltanto le modalità tecniche dell’avviamento dei lavoratori, ma anche una dichiarazione ufficiale che precisi le prime effettive possibilità di emigrazione che, come è noto, sono strettamente legate alla disponibilità dei mezzi di trasporto sia italiani, sia argentini, sia di altre bandiere.

Sia per l’esame di questo punto, sia per determinare la procedura da seguire per il reclutamento dei lavoratori, è già stata indetta per domani 28 febbraio, come avete già sentito un’apposita riunione interministeriale.

PRESIDENTE. L’onorevole Sullo ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

SULLO. Non posso dichiararmi sodisfatto delle risposte degli onorevoli Sottosegretari, non solo perché in realtà dalle loro risposte non è venuta una dichiarazione esplicita sull’indirizzo che è stato seguito nelle trattative, e che si intende seguire nel futuro; ma anche perché, volendo rispondere a quello che avevo detto circa ciò che poteva essere fatto o è stato fatto da privati speculatori, si è affermato che gli Uffici del lavoro sono gli unici autorizzati a ricevere le domande – e fin qui va bene – direttamente dagli interessati – e anche questo va bene – o indirettamente attraverso le organizzazioni sindacali.

Ora è evidente che in questa maniera si va da un eccesso all’altro. Noi non possiamo, nella politica emigratoria che dobbiamo seguire nel futuro, tornare alla emigrazione individuale e lasciare che lo Stato si disinteressi dell’emigrante e non gli dia garanzia, anche se l’emigrante, in un eccesso di entusiasmo, che poi diventerà pessimismo, non se ne preoccupi. Ma, d’altra parte, non possiamo ammettere che le uniche organizzazioni che si devono interessare di questa emigrazione debbano essere le organizzazioni sindacali.

Se il tono della mia interrogazione voleva far sì che il Governo provvedesse al più presto ad eliminare, comunque, le speculazioni dei privati speculatori che incidono gravemente nella fiducia dell’emigrante nel futuro, d’altra parte io non credo di aver chiesto quello che è avvenuto, quello che deve avvenire, quello che il Governo o il Ministero del lavoro vogliono che avvenga, che cioè la Confederazione generale del lavoro assume il monopolio della collaborazione con il Ministero del lavoro.

Vi sono organizzazioni in Italia, a nome delle quali posso parlare…

DI VITTORIO. Quali?

SULLO. …le organizzazioni cattoliche in generale, le quali hanno il diritto di avere una rappresentanza e di dare la loro collaborazione, tanto più che si tratta dell’aiuto che viene dato da nazioni cattoliche di altre parti del mondo. Io credo che queste organizzazioni possano e debbano essere accettate da chi non vuole fare della questione dell’emigrazione monopolio diretto o indiretto che potrebbe anche, senza volontà degli individui, diventare faziosità.

Penso che sia necessario che nella politica emigratoria le organizzazioni sindacali possano e debbano affiancarsi alle organizzazioni cattoliche, e chiedo che il Ministero del lavoro e il Ministero degli esteri tengano presente tutto questo. A questo proposito devo dire che purtroppo il Ministero degli affari esteri e il Ministero del lavoro, in molti momenti, hanno delle sfasature nei loro reciproci rapporti, ed io posso dire per esperienza diretta che in Italia due sono gli organi che non danno affidamento necessario dal punto di vista dell’aiuto e dell’attrezzatura che dallo Stato dovrebbero essere dati, cioè due organi molto delicati: la Direzione generale degli italiani all’estero e la Direzione pensioni del Ministero del tesoro.

Ma, lasciando da parte questa parentesi, mi rendo interprete del pensiero dei cattolici italiani, chiedendo che specialmente il Patronato delle Associazioni cattoliche lavoratori italiani e le altre organizzazioni cattoliche siano chiamate ad una piena collaborazione in quest’opera, che deve servire al rinnovamento ed alla ricostruzione della nostra Italia, la quale si ricostruisce non solo qui, ma anche con le organizzazioni cattoliche all’estero.

Devo, quindi, dichiarare di non essere sodisfatto e spero che quello che ho detto non abbia soltanto un’eco qui, ma anche nei lavori che i Ministeri faranno e nelle decisioni che i Ministri adotteranno.

D’altra parte, devo dichiararmi insodisfatto, perché non si è risposto fondamentalmente sull’indirizzo che si dovrà seguire nel futuro.

Spero che i Ministeri interessati, e specialmente il Ministero del lavoro, terranno in giusto conto quello che ho detto, altrimenti mi riservo di intervenire ancora una volta in questa materia e di chiedere ancora una volta che i Ministri interessati si decidano su questa strada. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Platone, al Ministro delle finanze e del tesoro, «per sapere: 1°) se non ritenga opportuno vietare la riscossione per mezzo delle Esattorie, di contributi associativi di enti diversi, sistema che gli stessi fascisti con legge 12 luglio 1940, n. 1199, vietarono e punirono con la sola eccezione per i contributi volontari corrisposti dai cittadini al partito nazionale fascista; 2°) quali provvedimenti intenda adottare nei confronti della «Coltivatori diretti» di Asti, la quale, senza autorizzazione, passava agli esattori della provincia, per la distribuzione con la bolletta delle tasse, le sue cartelle di pagamento compilate in modo da lasciar supporre trattarsi di contributi obbligatori, le quali cartelle furono consegnate a tutti i proprietari di terreni «iscritti e non iscritti» alla Coltivatori diretti ed il contributo venne fissato in base alla superficie posseduta o al reddito, variando cioè, da contadino a contadino, valendosi all’uopo degli elenchi dell’Ufficio contributi unificati, di cui è direttore lo stesso dirigente della Coltivatori diretti; 3°) se non ritenga opportuno e urgente revocare la successiva autorizzazione concessa in data 7 febbraio corrente dalla Direzione imposte dirette, che si presta ad abusi ed equivoci e menoma gravemente il carattere di assoluta volontarietà che deve essere assicurato ad ogni contributo associativo».

Il Sottosegretario di Stato per le finanze ha facoltà di rispondere.

PELLA, Sottosegretario di Stato per le finanze. Desidero assicurare l’onorevole interrogante, per quanto riguarda il punto primo dell’interrogazione, che il Ministero ha ferma intenzione di far rispettare, soprattutto nel suo spirito informatore, la citata legge 12 luglio 1940. Concessioni sono state accordate per la riscossione di contributi associativi meramente facoltativi; ad esempio, dei contributi associativi della Confederazione generale del commercio, la quale riscossione non ha dato luogo a nessun inconveniente.

Per quanto riflette l’ulteriore parte dell’interrogazione, ed in particolare i commi 2° e 3°, desidero far presente che in data 7 febbraio 1947, il Ministero delle finanze testualmente scriveva all’intendenza di Asti:

«In relazione alla nota sopra distinta, si fa presente che la riscossione dei contributi associativi della Federazione provinciale coltivatori diretti di codesto capoluogo potrà essere affidata agli esattori delle imposte, previ accordi diretti tra Federazione ed esattori. Dovrà però trattarsi di servizio di esazione puro e semplice, a carattere volontario, restando escluso che dette quote possano essere incluse nelle cartelle e negli avvisi di mora, e che per il recupero l’esattore possa procedere coattivamente. Codesta Intendenza deciderà sulla concessione».

Faccio osservare che si era lasciato all’intendente di finanza di decidere definitivamente, non perché io desideri in questo modo scaricare l’Amministrazione centrale di una responsabilità che intendo anzi avocare all’Amministrazione stessa, ma perché il Ministero si è preoccupato di far esaminare in loco se potessero nascere inconvenienti. È stato stamane scritto all’Intendenza di finanza, affinché riferisca in proposito.

Se effettivamente gli inconvenienti lamentati dall’onorevole interrogante dovessero essere confermati, il Ministero ritornerà sul contenuto della lettera citata. Se invece gli inconvenienti non esistessero, non si vedrebbe ragione per tornare sulla concessione.

PRESIDENTE. L’onorevole Platone ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

PLATONE. La risposta dell’onorevole Sottosegretario non può lasciarmi pienamente sodisfatto.

Si tratta di un fatto grave e di una questione di principio molto delicata che deve essere assolutamente risolta.

Il fatto è noto: la Federazione coltivatori diretti di Asti, alla fine di gennaio, pur essendole stata negata l’autorizzazione da parte dell’Intendenza di finanza, ha consegnato agli esattori della provincia, per la distribuzione con le bollette delle tasse, le sue cartelle di pagamento compilate in modo da lasciar supporre trattarsi di contributi obbligatori (comunque sulle stesse non si diceva trattarsi di contributi volontari).

Le cartelle furono consegnate a tutti i proprietari di terreni, iscritti e non iscritti alla Coltivatori diretti, ed il contributo fu fissato in base all’importanza della proprietà o del reddito, variando da contadino a contadino.

La Coltivatori diretti deve essersi servita degli elenchi dell’ufficio contributi unificati, di cui è direttore il dirigente della stessa Coltivatori diretti.

La stampa locale e piemontese si impadroniva della questione e si accendevano vivaci polemiche per cui l’Intendenza di finanza ritenne necessario intervenire con un suo comunicato in data 4 febbraio del tenore seguente:

«Ad evitare possibili dubbi sulla natura e sulla obbligatorietà dei contributi associativi della Federazione provinciale Coltivatori diretti, di cui sta per essere iniziata la riscossione, la locale Intendenza di finanza precisa che: 1°) trattasi di contributi assolutamente volontari, di cui non è ammessa la riscossione per mezzo di ruolo; 2°) l’Intendenza ha negato l’autorizzazione a far riscuotere detti contributi per mezzo degli esattori delle imposte dirette, salvo le determinazioni del superiore Ministero delle finanze, al quale la predetta Federazione ha ora indirizzato la sua richiesta».

Successivamente il Ministero delle finanze, con lettera del 7 febbraio diretta all’Intendenza di Asti, autorizzava la Coltivatori diretti ad affidare all’esattore delle imposte la riscossione dei propri contributi associativi, scrivendo quanto ha riferito l’onorevole Sottosegretario di Stato.

A questo punto è necessario ricordare che la materia è stata regolata dalla legge 12 luglio 1940, n. 1199, che stabilisce:

«Art. 1. – Chiunque, fuori dei casi previsti e regolati da leggi speciali, richiede agli appartenenti ad una determinata categoria di cittadini o a un numero notevole di essi, a titolo di contribuzione volontaria per qualsiasi ente, istituzione od opera anche di pubblico interesse, somme in misura determinata in precedenza e con riferimento a indici che ne commisurano l’ammontare in relazione alle terre possedute o coltivate o al reddito percepito o in relazione comunque alla consistenza patrimoniale mobiliare o immobiliare, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione fino a un anno o con la multa da lire duecento a lire cinquemila.

«Art. 3. – Non sono compresi fra le contribuzioni di cui all’articolo 1 i contributi volontari corrisposti dai cittadini al Partito nazionale fascista e alle sue organizzazioni dipendenti, ecc.».

In questa situazione, chiara appare l’enormità del fatto compiuto dalla Coltivatori diretti, per nulla sanato dal tardivo e compiacente intervento del Ministero delle finanze.

Ma il fatto, che racchiude gli estremi di un preciso reato, avrà forse un seguito in altra sede.

A noi sta soprattutto a cuore che questa faccenda non abbia valore di pericoloso precedente, non rappresenti cioè quello spiraglio attraverso il quale potranno lanciarsi enti, istituzioni, società, partiti per tentare di ottenere, attraverso l’opera dell’esattore, l’esazione di quote e contributi da associati più o meno renitenti.

Vogliamo considerare in vigore la legge del luglio 1940? E allora in tale legge è stabilita una sola eccezione, a favore del partito fascista.

Vuole la Coltivatori diretti godere di questo trattamento di favore? Vuole il Ministero dar vita a questi privilegi o sancire il principio che tutti possono rivolgersi agli esattori?

Basta enunciare la cosa per constatare quanto sia enorme e pericolosa.

È per questo che, mentre ne siamo in tempo, noi diciamo: si lasci agli esattori il loro compito già così gravoso e antipatico. Si chiuda prontamente questa strada che è fonte di equivoco, confusione, abusi e costrizioni.

Non deve essere lecito a nessuno di stabilire delle vere e proprie tassazioni, come ha ritenuto di potere fare la Coltivatori diretti di Asti, stabilendo contributi associativi differenziati e non deve neppure essere ammesso che la volontarietà dei contributi associativi sia menomata ed annullata dall’intervento dell’esattore.

Sia questo sistema uno dei tanti tristi ricordi di un passato che tutti vogliamo dimenticare. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Mazzoni, Piemonte, Montemartino, Rossi Paolo, Ghidini, Canepa, Canevari, Pera, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere se, di fronte a denunzie che sono cadute ieri nel silenzio angosciato e turbato dall’Assemblea, e relative a sistemi adottati dalla polizia in Sicilia, non ritenga necessario promuovere senza indugio una inchiesta per accertare i fatti nella loro oggettività. In caso affermativo, se per rispetto alla pubblica coscienza e per la stessa necessità di prestigio delle Autorità, non ritiene assolutamente necessario che la indipendenza e serenità della inchiesta siano garantite dal suo carattere parlamentare».

L’onorevole Ministro dell’interno ha facoltà di rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. L’interrogazione dell’onorevole Mazzoni è diretta al Presidente del Consiglio dei Ministri, ma i fatti, che ne formano oggetto, ricadono nella specifica competenza del Ministero dell’interno; è per questo che rispondo io, d’accordo anche col Presidente del Consiglio dei Ministri, all’interrogazione dell’onorevole Mazzoni.

I fatti lamentati nell’interrogazione sono stati denunciati, in questa Assemblea, dall’onorevole Gallo. Io non ero presente alle dichiarazioni dell’onorevole Gallo – mi dispiace di non vederlo qui presente – e non ho potuto partecipare quindi all’emozione che l’Assemblea ha provata nel sentir riferire fatti che colpiscono l’onore della polizia italiana e soprattutto dei carabinieri d’Italia.

Ho letto il testo stenografico del discorso pronunciato dall’onorevole Gallo; e da tutto il suo discorso traspare chiara una preoccupazione: di dimostrare, di fronte all’Italia e di fronte alla Sicilia, anzi, di fronte al mondo – perché si appella a tutto il mondo civile – che il Governo d’Italia infierisce nella Sicilia contro il movimento separatista. Ed egli non si vuol riferire evidentemente a fatti passati, ma a fatti presenti.

Ora, i fatti concreti che sono stati denunciati dall’onorevole Gallo si possono riassumere in tre casi: anzitutto, la polizia italiana richiede alle sezioni del M.I.S. (Movimento Indipendentista Siciliano) il numero degli iscritti e i nomi degli iscritti e dei dirigenti del movimento; e ciò a scopo evidente di persecuzione.

Se una persecuzione è questo fatto, la persecuzione involge tutti i partiti politici, perché la polizia italiana – in base ad una disposizione ancora vigente – si accerta normalmente della esistenza dei partiti e dei loro dirigenti. (Commenti a sinistra – Interruzioni).

È stato domandato al Ministro dell’interno se i partiti sono obbligati a fornire questi dati. In regime fascista un obbligo di questo genere era troppo evidente; ed io ho risposto che i partiti non hanno il dovere di rispondere ad inquisizioni di questo genere. (Commenti a sinistra).

Una voce a sinistra. Meno male!

SCELBA, Ministro dell’interno. Seconda questione: gli arrestati del movimento separatista.

Ho fatto una indagine, per sapere quanti sono gli arrestati del movimento separatista in questo momento in Sicilia. Essi sono appena dodici: nove imputati esclusivamente di reati comuni; tre di reati comuni e di reati così detti politici. Fra questi vi è un giovane studente – a cui si è accennato anche nella discussione – ammalato, e che si trova all’infermeria. La sua malattia non è così grave da giustificare l’internamento in una casa di cura.

E veniamo al fatto più grave, che ha commosso l’Assemblea: le sevizie a cui sarebbero sottoposti gli indipendentisti siciliani, i quali, come dico, in questo momento sono dodici, e per reati comuni, non per reati politici. L’accusa che la polizia italiana, e in modo speciale i carabinieri, abbiano commesso delle sevizie contro gli indipendentisti, non è di oggi. Già in una interrogazione dell’onorevole Finocchiaro Aprile, del 19 luglio dello scorso anno, veniva denunciato questo fatto. E io desidero richiamare quello che l’onorevole Finocchiaro Aprile disse allora, perché oggi, nelle parole dell’onorevole Gallo, non si fa che ripetere la stessa accusa, alla quale fu già risposto allora dall’onorevole Presidente del Consiglio. L’onorevole Finocchiaro Aprile accennò soprattutto ad un fatto.

Un maresciallo dei carabinieri, un certo Leone, ricorreva ai più bassi mezzi di tortura: metteva sulla pancia dei ragazzi dei bicchieri entro ai quali vi erano degli scarafaggi. Era questa l’accusa, la quale derivava da un documento che si trova agli atti. Io mi permetterò di leggere questo documento, perché l’onorevole Gallo non ha fatto che riecheggiare il contenuto del documento stesso nel suo discorso. È una lettera di un ragazzo imputato di reati comuni e diretta alla madre, dove descrive che egli è stato costretto a confessare il suo misfatto con i mezzi che sono descritti nella lettera. Eccone un brano che trova conferma nelle parole dell’onorevole Gallo: «Martedì 29 verso le ore 7.30 mi vengono a chiamare e mi fanno salire nella camera di tortura, mi invitano a parlare e alle mie proteste mi danno uno schiaffo e mi fanno spogliare; poscia mi legano ad una cassetta. Così legato, con la testa a penzoloni, incominciano a versare acqua sulla mia faccia. Dopo un po’ sospesero e mi dissero di parlare. Al mio rifiuto ripresero l’operazione tappandomi il naso e la bocca. Poi ripetono la domanda, ma io non so proprio cosa dire e la orribile tortura si ripete». E così continua la lettera.

Il fatto denunciato in questa lettera ed altri reati di sevizie che sarebbero stati compiuti dai carabinieri d’Italia contro gli imputati o arrestati del movimento indipendentista furono oggetto, non dico di una inchiesta da parte della stessa Arma dei carabinieri, a cui fu denunciato il fatto (e ciò conterebbe poco perché giustamente l’onorevole Pertini osservava che i Corpi non hanno interesse di mettere in luce le eventuali magagne che sono anzi portate a nasconderle, ed io posso anche accettare questa spiegazione), ma furono portati a conoscenza dell’autorità giudiziaria penale, la quale ha fatto una regolare istruttoria ed ha chiuso il processo archiviando gli atti e dicendo che non esisteva la più lontana prova che questo fatto fosse stato compiuto dai carabinieri d’Italia. (Commenti – Proteste).

Ora, onorevoli colleghi, se noi vogliamo diffidare di tutti, noi non sappiamo come agire. Comunque, ripeto che non è in discussione la responsabilità del Ministro che parla o del Governo attuale. Si tratta di fatti largamente superati ed io ne posso parlare quindi con estrema obiettività, perché non difendo me, né l’attuale Governo. Dico che questo fatto fu denunziato all’Autorità giudiziaria penale e fu portato a conoscenza anche del Procuratore generale presso la Corte d’appello, oltre che del Procuratore competente presso il Tribunale, affinché la Magistratura superiore potesse compiere, se lo avesse ritenuto, una sua particolare istruttoria, o seguire, comunque, questo processo. Se si vuol dire che il giudizio dell’Autorità giudiziaria penale non vale nulla, dobbiamo dire che anche alla Corte d’appello c’è tutta gente facile all’omertà e a coprire i delitti che vengono compiuti in Italia in questo momento.

E allora, onorevoli colleghi, se il fatto denunciato dall’onorevole Gallo non è nuovo e questo fatto, insieme con, altri, è stato coperto da una pronuncia dell’Autorità giudiziaria penale, non possiamo oggi, come potere politico, tornare a sindacare ciò che è un giudicato di quell’Autorità.

E allora, quale è la ragione della rinnovata accusa? C’è una ragione fondamentale in questa campagna che si ripete è si rinnuova continuamente contro l’Arma dei carabinieri in Sicilia e talvolta anche in altre regioni d’Italia, ed è precisamente questa: i carabinieri d’Italia – in Sicilia sono carabinieri siciliani – hanno combattuto una lotta decisa contro la delinquenza comune mascheratasi da delinquenza politica e contro la delinquenza politica che non rifuggiva dall’allearsi con la delinquenza comune per realizzare i propri interessi di parte. (Applausi al centro).

E c’è anche una seconda ragione: il tentativo politico di screditare in Sicilia le sue istituzioni, i suoi organi, i suoi funzionari. In Sicilia questo serviva al movimento indipendentista perché – l’ha detto l’onorevole Gallo nelle sue dichiarazioni dell’altra volta – «i siciliani si devono convincere e sono convinti che al di là dello Stretto non ci sono esseri che rassomigliano a fratelli», perché, al di là dello Stretto, gli italiani e soprattutto, diciamo, gli italiani dell’epoca post-fascista, gli italiani della democrazia, del nuovo regime d’Italia dovevano essere presentati come lo strumento nemico degli interessi della Sicilia.

È questo il motivo per cui continuamente viene attentato a quella che è l’azione dei carabinieri. Ma non dimentichiamo che quest’azione di denigrazione dell’opera dei carabinieri rimonta al 1945, quando gli assalti contro le caserme dei carabinieri erano all’ordine del giorno. Soltanto lo scorso anno i carabinieri d’Italia, che sono siciliani, hanno avuto ben 50 morti: 50 carabinieri sono caduti in Sicilia vittime della delinquenza siciliana, politica e non politica!

E allora, se questi sono i fatti, se nessun fatto nuovo emerge oggi da questa situazione, perché un’inchiesta parlamentare? Per consentire all’onorevole Gallo, come egli ha dichiarato, di poter presentare documenti, le prove delle sevizie che sono state compiute in Sicilia?

Perché egli dice che soltanto alla Commissione parlamentare presenterà queste prove? Perché?

Se l’onorevole Gallo ha delle prove e non vuole consegnarle ai poteri costituiti esecutivi, le depositi alla Presidenza dell’Assemblea Costituente ed io sarò felicissimo se, attraverso questi documenti, potremo rintracciare la verità. Se responsabilità ci saranno, il Governo agirà come si conviene ad un Governo che ha il dovere di difendere non soltanto le leggi, ma anche il senso di umanità; perché, se queste sevizie sonò vere, esse offendono più che la legge il nostro senso di umanità e di civiltà. (Applausi al centro). O per consentire all’onorevole Gallo…

MAZZONI. Lei ha dimenticato che io non sono l’onorevole Gallo. (Si ride).

SCELBA, Ministro dell’interno. L’onorevole Mazzoni mi consenta e mi scusi, ma la sua interrogazione suona così: «Per conoscere se, di fronte a denunzie che sono cadute ieri nel silenzio angosciato e turbato dell’Assemblea, e relative a sistemi adottati dalla polizia in Sicilia, non ritenga necessario, ecc.». Sono questi i fatti che hanno determinato la giusta interrogazione dell’onorevole Mazzoni e rendo omaggio al suo spirito che tende ad eliminare dalla coscienza popolare anche l’ombra di un sospetto che in Sicilia, o addirittura in tutta l’Italia, si possano commettere gesti che sono condannati dal senso di umanità. Ed allora è necessario, onorevole Mazzoni, che io mi riferisca alle denunce alle quali si riferisce la sua interrogazione e non posso che controbattere e contrastare queste denunce generiche, in quanto nessuna denuncia personale e specifica viene da lei fatta.

Questi dunque sono i fatti. Anche l’onorevole Gallo, nel suo discorso ha chiesto una Commissione d’inchiesta. Egli ha anche detto: non faccio nomi, uno solo ne faccio, il mio, e chiedo di far parte di questa Commissione. Così vi dirò dove si potranno scovare i responsabili.

Ora, onorevoli colleghi, mi pare che l’onorevole Gallo sia la persona meno indicata per poter invocare questo diritto, se è vero, come è vero, che egli ha un fatto personale con i carabinieri e quindi ci sarebbe una legittima suspicione di mancanza di obiettività; se è vero, come è vero, che nei suoi confronti pende un procedimento penale. Io mi auguro per lui, per l’onore dell’Assemblea, per l’onore dei siciliani, che le imputazioni a suo carico risultino inesistenti ed egli possa uscire trionfalmente innocente da questa situazione. Glielo auguro di tutto cuore; ma fino a quando queste imputazioni, per cui esiste una formale istruttoria davanti ai giudici siciliani, rimangono in piedi, mi pare che egli sia la persona meno indicata a reclamare di far parte di una tale Commissione di inchiesta.

Ricordo che l’onorevole Gallo è imputato dei seguenti capi d’accusa. Lasciando stare l’insurrezione armata contro i poteri dello Stato, egli deve rispondere di omicidio dell’appuntato dei carabinieri Cappello Giovanni, di tentato omicidio del sottotenente di fanteria Corcione Giovanni, del vice brigadiere dei carabinieri Maugeri, dei fanti Coralbo Giuseppe e Previtera Giuseppe; di invasione di terre e di edifici privati, di correità in rapina, di sequestro di persone e di tentata estorsione in danno di Scuderi Carlo, di correità in rapina e di tentata estorsione in danno dì Grimaldi Giuseppe, ecc… (Commenti).

Onorevoli colleghi, quando l’onorevole Gallo in questa Assemblea invoca una Commissione parlamentare di inchiesta per accertare le sevizie dei carabinieri e chiede di far parte di questa Commissione, a me pare che egli sia la persona meno indicata e che le accuse provengano da una fonte che appare abbastanza sospetta. Ed allora dico questo, onorevole Mazzoni, che non è stato dato, non dico una prova, ma neppure un indizio di prova delle sevizie compiute in Sicilia.

Vi è solo un documento, ed è una sentenza penale che nega la sussistenza dei fatti; e non possiamo dire che la sentenza del magistrato non vale nulla, perché, se ammettiamo questo principio, tutto crolla in Italia. Se questa è la realtà, una Commissione di inchiesta per che cosa?

Onorevoli colleghi, noi siamo qui da quindici giorni sotto la ipnosi della calunnia, siamo qui da 15 giorni a dover ascoltare una serie di denigrazioni e di accuse che tendono ad investire gli uomini del Governo ed a colpire, in realtà, la democrazia e tutta l’Italia democratica e repubblicana. Da 15 giorni, il Parlamento assiste a questo spettacolo e il Paese ne è disgustato. (Applausi). E allora io dico: non è forse, o signori, giunto il tempo che noi reagiamo contro questo tentativo di coinvolgere tutta la vita italiana, dagli uomini di Governo al Parlamento, dalla burocrazia ai carabinieri, per preparare il terreno fecondo agli uomini che possono asservirci e preparare una nuova dittatura in Italia? Io qui non difendo l’opera di un Ministro o del Governo; ciò non ì riguarda infatti l’azione ministeriale nostra, perché siamo qui da pochi giorni. Questi sono fatti che coinvolgono tutti i ministeri, da quello Parri a quelli De Gasperi. La corruzione c’è in Italia e potranno anche esserci state le violenze da parte della polizia; ma ricordiamo che è l’eredità fascista che pesa su di noi. (Commenti). Ma la democrazia di oggi ha avuto, per la prima, il coraggio di denunziare i responsabili e di colpire gli autori di questi delitti. Questa prova l’abbiamo data; questa prova il Governo la darà e si dovrà agire col massimo rigore.

Non starò a leggervi una circolare che ho fatto inviare dal Capo della polizia a tutti gli organi da lui dipendenti. In essa ho ricordato quali debbano essere le funzioni della polizia in un regime democratico e sono giunto anche a suggerimenti pratici dettati dalla mia vita di antifascista.

In quei tempi, la polizia mandava un biglietto ove era detto semplicemente: «Presentarsi al Commissariato». Ciò costituiva un tormento per le famiglie, perché non si sapeva che potesse significare. Io ho detto pertanto: Abbiate l’amabilità di indicare sempre l’oggetto, in modo che il cittadino sappia, e non abbia a soffrire il timore della polizia, poiché essa non deve essere considerata che come uno strumento di difesa del cittadino.

E allora, onorevole Mazzoni, se i fatti non ci sono, se il Governo democratico vi darà l’assicurazione perentoria che in questo campo sarà fatto tutto quanto si ravviserà necessario perché la vita degli organi della polizia si svolga in un terreno confacente alla vita democratica, se tutte queste calunnie non servono che a screditare la democrazia appena rinata, se tutto quanto si è insinuato non esiste, io dico allora: facciamo credito agli uomini della nuova democrazia, i quali hanno preso l’impegno che questi mezzi che sono stati confacenti alla vita fascista siano banditi dalla vita italiana in regime democratico; si faccia credito al Governo, il quale prende formale impegno che fatti di questo genere, se saranno denunciati, saranno accertati e perseguiti non attraverso gli organi normali della polizia, ma attraverso altri organi che possano dare la miglior garanzia che i procedimenti relativi non siano influenzati dallo spirito di corpo.

Prego quindi l’onorevole Mazzoni di non voler insistere sulla sua proposta di una Commissione d’inchiesta, la quale non avrebbe quella base morale e quella ragione obiettiva che dovrebbero giustificare un provvedimento di tanta importanza.

Ripeto che l’Assemblea è libera di decidere e che non viene investita alcuna responsabilità di Governo. Ma so che in giuoco non è la responsabilità di un uomo o di un Governo: tutto ciò fa parte di un tentativo molto più vasto, forse non materialmente concordato, ma certo spiritualmente concordato, per ottenere che la nuova democrazia antifascista e repubblicana possa essere sommersa o diminuita o svigorita nella sua potenzialità e nella sua efficienza da questo continuo dilagare di ingiurie, di calunnie e di accuse, che non hanno alcuna base nella realtà politica del Paese. (Vivi applausi al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MAZZONI. Signor Ministro, io non sono parte civile in una piccola causa di pretura e dichiaro francamente che i documenti ai quali ella ha accennato riguardano una udienza che non è la nostra. Io sono Deputato in una Assemblea nella quale, latitante il Governo, per un’ora abbiamo sentito, con la tristezza in cuore, un silenzio che era più pesante delle accuse che venivano dagli scanni occupati dagli indipendentisti siciliani.

Ella dice che di certi fatti non si ha il diritto di abusare. È una questione nella quale non posso intervenire. In materia morale tutte le voci sono buone per accusare. (Proteste al centro). Non v’è nessun diritto di rifiutare di ascoltarle. Se io ho dichiarato prima che non sono l’onorevole Gallo, l’ho detto perché ci tengo, in questa Assemblea nella quale, per la incandescenza delle passioni e dello scandalismo, ormai tutto è fatto di relatività e di ombre oscure, a dichiarare che io non ho inteso minimamente di prestarmi ad un’azione contro il Governo.

Le dirò di più. Lei che è giovane nei miei confronti, se si informerà saprà che la vecchia demagogia ferravilliana di dare addosso sempre alla polizia non è mai stata di mio gusto. Tanto più oggi che riconosciamo che la polizia deve nobilmente, spesso tormentosamente, difendere gli interessi del nostro Paese; e quello che essa fa di buono, senza ipocrisie deve essere riconosciuto, ed è riconosciuto da me prima ancora che dal Ministero dell’interno.

Detto questo, perché non si facciano confusioni, riconosco che ella doveva ben rispondere a me, perché l’interrogazione era mia, ma doveva distinguere la motivazione che riguarda l’onorevole Gallo con quella che riguarda me. È una cosa assolutamente diversa.

Detto questo, voglio dirle, signor Ministro, che come Deputato, avendo assistito l’altro giorno con vera pena – dico pena e credo che tutti i Deputati che erano qui avranno sentito la mia stessa impressione – non potevo che chiedere al Governo di fare qualche cosa di concreto. Questi contradittori con gli «imputati», come li chiamate voi (perché si assiste al fatto straordinario che l’accusatore lo portate qui e gli leggete la fedina penale; e vi do per buona questa mostruosità), questi contradittori non risolvono, signor Ministro, la questione.

Avete lamentato, poco fa, che questa Assemblea è trasformata in uno scandalo permanente. Avete ragione, ma quale è il modo elegante, onesto e sereno di portare la questione al di sopra della perfidia individuale e della malizia collettiva? È quello di elevarla al di sopra delle volgarità e delle personalità.

L’altro giorno abbiamo vibrato tutti di una grande commozione di galantuomini e, lasciatemelo dire, di uomini politici, quando finalmente un nostro collega accusato (Indica l’onorevole Parri), e che noi amiamo profondamente per la illibata bellezza del suo passato, ha chiesto una Commissione d’inchiesta. E voi avete sentito che se è toccato l’onore di un uomo, l’Assemblea legislativa può benissimo formare una Commissione parlamentare, perché in un uomo si simboleggia la delicata posizione del Paese in questo momento. (Applausi).

Io non so niente sul merito delle atrocità denunziate. La mia innocenza, innocenza qualificata, intendiamoci bene, in questa materia, è tale che non mi sono occupato di farmi dare informazioni. Non ne so niente, perché non me ne importa niente. Solo questo io so: che avendo vissuto per circa una trentina d’anni in questo Parlamento, di referti di carabinieri e di guardie di pubblica sicurezza che dichiaravano ben ammazzato l’imputato, ne abbiamo sentiti a dozzine, per non dire a centinaia.

Io domando che il colloquio fra voi, che siete il Capo della pubblica sicurezza, e l’accusatore esca dalla piccola orbita. E se voi lo farete uscire, compirete un atto politico, salverete l’Assemblea dagli intrighi, dai pettegolezzi e dalle disgustose espressioni.

Questa, signor Ministro, è la sana invocazione della democrazia. Democrazia è finestre spalancate, non immiserimento. (Applausi). E questo senza preoccupazione dei fatti specifici.

Io mi auguro che non siano veri i fatti. Ricordo che i fatti sono stati già detti altre volte e non sono né due, né tre; ho visto giornali dove ne sono citati a dozzine.

Sono tre mesi e mezzo che ho presentato un’interrogazione. Perché il Ministro non si è mai degnato di frugare in questo sacco uricemico della vanità umana, che si chiama elenco delle interrogazioni, e non ha pescato fuori la mia interrogazione è non ha chiesto di rispondermi? Una volta questo si faceva. Ora queste interrogazioni sono come il compito di Pierino: si scrivono, poi viene un Sottosegretario con la risposta scritta già pronta, anche quando la risposta non è stata chiesta. (Si ride). Ed abbiamo assistito a qualche cosa di ancora più buffo: l’interrogante che risponde con un altro scartafaccio già scritto alla risposta del Sottosegretario. (Si ride).

Orbene, una volta in quest’aula, in una seduta tempestosa, verso le tre del pomeriggio, io avevo presentato una interrogazione, chiedendo la discussione urgente, per sapere da Antonio Salandra come erano stati erogati i fondi del terremoto.

È inutile dire che non aveva punte personali e morali; sanno tutti chi fu quell’uomo di Stato, morto povero come tutti i veri uomini di Stato. (Applausi). Io volevo criticare quello che mi pareva ci fosse di fazioso, nell’erogazione dei fondi; e perciò avevo presentato la mia interrogazione. Poi me ne sono venuto alla Camera tranquillamente pensando che la sera il Ministro avrebbe dichiarato quando doveva rispondere.

Sapete quanto grande era e magnifica la sensibilità di quei tempi?

Mentre io, vicino al mio amico Modigliani, che mi assistette poi nell’infortunio con tutte le astuzie di procedurista principe che egli conosce, aspettavo la dichiarazione del Ministro, Antonio Salandra non aspettò che la mia interrogazioncella facesse il suo turno, come si aspetta adesso con questi voluminosi capitoli di storia, ma saltò al banco del Governo e disse: onorevole Mazzoni, io rispondo immediatamente!

Quelli erano tempi e quelli erano Governi! (Applausi). La morale della favola c’è.

Voglio dire che se il Governo, il quale ha adottato la teoria ufficiale del disprezzo, a seconda della simpatia che esso ha degli oratori che fanno le accuse, avesse guardato nell’elenco delle interrogazioni, avrebbe visto che da tre mesi c’è una interrogazione mia identica a quella che ho presentata adesso.

Se il Governo avesse capito che non si può lasciare in sospeso queste questioni, che non si può soprattutto lasciare che un Deputato presenti interrogazioni su argomenti gravi senza che gli sia risposto, probabilmente la seduta penosa di ieri non ci sarebbe stata e la questione sarebbe stata svuotata fin d’allora. Non l’avete voluto e vi è piombata addosso la seduta di ieri e quella d’oggi.

Non c’è che un modo per trovare le parole di sdegno che voi volete. Ci sto anch’io per le parole di sdegno, ma deve essere lo sdegno che nasce dalla coscienza delle cose. La parola di sdegno è questa: lasciare che in mezzo a queste escandescenze di tutti i giorni si faccia strada una parola serena. Questa Assemblea ha molti torti, lo sappiamo tutti. Si dibatte in contradizioni continue, vorrei dire che si dibatte dal suo atto di nascita, che porta la firma di una Consulta irresponsabile. Ma, se ha molti torti, tuttavia di molti di questi potrebbe purgarsi e c’è un solo modo: stroncare le malignità alla luce del sole.

Per Parri, inchiesta: bene, così si stroncano le malizie umane. Ma quando per un’ora si sente nell’Assemblea atterrita, stomacata disgustata, uno stillicidio di cose che mettono orrore, anche l’ultimo portinaio d’Italia capisce che il colloquio non si esaurisce in questo contradittorio tra me e il Ministro Scelba. Un modo solo avevate di sostenere la democrazia: e non temiate di essere deboli, se accedete ad un’inchiesta parlamentare. Siete deboli quando la sfuggite (Approvazioni a destra), perché sarete inseguiti dalla folla, la quale, a torto o a ragione, dirà che avete paura.

Per queste modeste ragioni e per obbedire al Presidente che mi guarda con occhi corrucciati, quasi per ammonirmi che è passato il tempo consentito dal regolamento, devo dichiarare che sono insodisfatto, scandalosamente insodisfatto; e mi riservo, d’accordo coi nostri amici (ripetendo che non intendiamo – il che sarebbe indegno per la nostra dignità e fierezza – di trarre occasione per dare uno sgambetto al Governo), di presentare formale proposta perché l’inchiesta sui fatti di Sicilia sia fatta e sia di garanzia onesta e chiara per tutti gli italiani. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro dell’interno. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Ho dichiarato all’onorevole Mazzoni che spetta all’Assemblea di decidere sull’opportunità o meno di nominare una Commissione d’inchiesta. Ho dichiarato che il Governo non si oppone, per quel che lo riguarda, a questa richiesta. Mi sono soltanto limitato a dire che non si può, come sistema democratico, stabilire e decidere una Commissione d’inchiesta per ogni e qualsiasi fatto che venga denunziato in questa Assemblea quando questi fatti o non hanno alcuna base di prova, o siano stati smentiti da accertamenti del magistrato.

Ciò ho detto e ripeto, che noi non possiamo dare al Paese la sensazione che qualcosa ci sia (e questa sensazione è sempre data quando si nomina una Commissione d’inchiesta) mentre nel caso specifico non c’è nessuna prova, e anzi risulta documentato che i fatti sono inesistenti. Ma, chiarito questo, l’Assemblea è libera, e come Ministro dell’interno sarò felicissimo, se la Commissione sarà decisa e accerterà, per l’onore dei carabinieri d’Italia, che i fatti denunziati in questa Assemblea, fatti che considero denunziati soltanto a scopo tendenzioso e politico, risulteranno assolutamente inesistenti. (Vivi applausi al centro).

Seguito della discussione di una mozione.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sulla mozione dell’onorevole Nasi, firmata anche dagli onorevoli La Malfa, Di Giovanni, Lombardi Riccardo, Canevari, Veroni, Cevolotto, Silone, Rossi Paolo, Preziosi, Corsi, Bocconi, Costantini, Lombardo Ivan Matteo:

«L’Assemblea, ritenuto che per la realizzazione organica dello Statuto siciliano, ad evitare eventuali conflitti di carattere costituzionale dopo la sua applicazione, occorre che lo Statuto sia coordinato colla Costituzione della Repubblica, come del resto è previsto dallo Statuto stesso; ritenuto, altresì, che i lavori della Commissione paritetica per lo Statuto siciliano non sono ancora conclusi, ciò che pregiudica la migliore realizzazione dell’autonomia; considerato che le elezioni per l’Assemblea siciliana, indette per il 20 aprile, non sono, allo stato, conciliabili con le premesse esigenze; invita il Governo a disporre le elezioni in Sicilia alla data più vicina possibile, dopo l’avvenuto coordinamento costituzionale in sede di Assemblea».

Voci. Chiusura! Chiusura!

PRESIDENTE: Domando se la chiusura sia appoggiata.

(È appoggiata).

Nessuno chiedendo di parlare, la metto ai voti.

(È approvata).

(La seduta, sospesa alle 18.5, è ripresa alle 18.30).

Presentazione di un disegno di legge.

GULLO. Ministro di grazia e giustizia. Mi onoro di presentare all’Assemblea il seguente disegno di legge: Riforma del Codice di procedura civile.

PRESIDENTE. Do atto all’onorevole Ministro di grazia e giustizia della presentazione di questo disegno di legge.

Sarà trasmesso alla Commissione competente.

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che gli onorevoli D’Onofrio, Secchia e La Rocca sono stati chiamati a far parte, rispettivamente, della Commissione per la Costituzione, della seconda Commissione permanente per l’esame dei disegni di legge, e della Giunta delle elezioni.

Si riprende la discussione della mozione.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione sulla mozione La Malfa e altri.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Onorevoli colleghi, credo che il Governo possa limitarsi a brevi e riassuntive dichiarazioni, dopo il diffuso dibattito, che ha chiarito la situazione giuridica e politica delle elezioni siciliane.

Sta di fatto – e nessuno l’ha potuto contestare – che il Governo era obbligato, per legge, a indire le elezioni regionali in Sicilia.

La data di queste elezioni è stata stabilita dal Consiglio dei Ministri, in seguito alle unanimi insistenze dei deputati siciliani di tutti i partiti; insistenze confermate da una riunione di rappresentanti di partiti a Palermo, presieduta dall’Alto Commissario, il quale ce ne rimetteva il verbale. Da questo risultava che all’unanimità si richiedeva l’urgente convocazione dei comizi elettorali; alcuni la richiedevano addirittura per gennaio; poi la maggioranza si è accordata per il prossimo aprile.

Il Consiglio dei Ministri ha tenuto conto di questi desideri ed ha stabilito la data del 20 aprile.

Non nego che alcune preoccupazioni, di carattere giuridico e di carattere politico, espresse dagli interpellanti, sovrattutto dall’onorevole La Malfa, abbiamo fondamento.

Innegabilmente, c’era da prevedere e c’era ragione di sperare che l’Assemblea, nel frattempo, avrebbe fatto l’opera di coordinamento prevista dallo Statuto siciliano.

Vi devo ricordare che il Governo ha sottoposto all’Assemblea già dal 2 agosto il testo del provvedimento per l’autonomia siciliana. E quindi l’Assemblea avrebbe avuto possibilità di affrontare questo problema di coordinamento, benché, comprendo, per la necessità di seguire una certa linea logica nel costruire il testo della Costituzione, e soprattutto nel fissare le norme generiche per le autonomie regionali, abbia preferito attendere che questa prima parte fosse definita, per passare poi agli Statuti particolari delle Regioni, Statuti che sono previsti per le Isole e per la Venezia Tridentina.

Ma il fatto è che non era previsto che in tutto questo periodo questa opera di coordinamento non si fosse iniziata ed eventualmente non fosse maturata, fino al punto da potere prevedere con certezza quali fossero le parti di eventuale frizione con i termini della legge esistente.

Comunque, se questo è vero, è anche vero che, prima che l’Assemblea regionale siciliana sia convocata, vi sono ancora parecchie settimane, e che l’Assemblea Costituente, in base al testo che fissa alcune norme anche per le autonomie regionali, potrà avere la possibilità di fare l’opera di coordinamento prevista, in modo che, quando l’Assemblea regionale si sarà convocata, si troverà dinanzi, se non ad un formale deliberato finale, certo ad una maturazione dei punti di vista dell’Assemblea Costituente, in modo che eventuali conflitti, con buona volontà delle due parti, possano essere eliminati.

Certo, vi sono delle contradizioni in questa soluzione del problema; innegabilmente non tutto procede come in un apparato di orologeria. Ma bisogna ricordare le origini dello Statuto siciliano e contemporaneamente il lento progredire del testo della Costituzione.

La stessa cosa si potrebbe dire anche per lo Statuto della Val d’Aosta; d’altra parte difficoltà vi sono e sorgeranno anche per gli impegni presi riguardo alla Venezia Tridentina. In realtà, se dovessimo affidarci solo alla formalità giuridica, al testo degli Statuti, ben difficilmente si potrebbe procedere nel modo che sì è preceduto. Dobbiamo però convenire che si tratta di problemi politici che si risolvono a mano a mano che la loro urgenza si manifesta e si impone, e che presuppongono un certo senso unitario di cooperazione fra quella che sarà la Regione – che è sempre una parte della Patria unitaria – e quella che sarà la rappresentanza di questa unità nazionale. Abbiamo noi ragione dì dubitare che la rappresentanza siciliana non sia nella sua quasi totalità – o totalità senz’altro – animata da uno spirito diverso da quello di costruire le fortune generali della Patria, inserendovi una situazione particolare per la Sicilia? Non lo credo. Passata la burrasca, passata l’ebbrezza di un momento – forse derivate da ispirazione del di fuori – io credo che possiamo contare sul patriottismo e sul senso unitario della Sicilia. (Applausi al centro).

E quindi, i pericoli che teoricamente si possono immaginare, praticamente non sussisteranno. Comunque, come ho prima accennato, la Costituente ha ancora il tempo di contribuire a questa pacifica soluzione, intervenendo prima che l’Assemblea siciliana sia costituita. Non trovo quindi nessuna ragione impellente per rinviare le elezioni; ma ne trovo molte per non accettare il rinvio una volta che le elezioni siano fissate. Se vi fosse una ragione di opportunità, se si trattasse di quindici giorni prima o quindici giorni dopo, per ragioni locali, o, comunque, per ragioni di congruenza con altre attività nazionali, la proposta potrebbe essere messa in discussione, e risolta da un punto di vista meramente tecnico di opportunità. Ma disgraziatamente gli stessi proponenti l’hanno legata al contenuto dell’autonomia siciliana. Intendiamoci: non che io dubiti del loro sentimento autonomistico, ma in realtà, volendo motivare le ragioni del rinvio, hanno dovuto mettere in forse la misura, per lo meno, e la qualità dell’autonomia siciliana.

Ed ecco dove diventa pericoloso l’accettare un rinvio che, altrimenti, potrebbe essere discutibile. Diventa pericoloso per il fatto che si possa dare, con qualche fondamento, l’impressione che si mette in dubbio quella che i siciliani considerano una conquista, e che si voglia tornare indietro.

Ora, debbo aggiungere che questo sarebbe un cattivo esempio; anche per le particolari autonomie a cui si accenna nel testo della Costituzione. Siamo accusati in altre parti (mi riferisco all’Alto Adige ed all’Austria) di venire meno alla nostra parola perché, per un debito e ragionevole riguardo alla preparazione della Costituente, e, d’altro canto, poiché il Trattato stesso ci concede un anno di tempo per l’applicazione dell’Accordo italo-austriaco, abbiamo dovuto andare a rilento nella elaborazione dello Statuto per la Venezia Tridentina e rispettivamente per l’Alto Adige; ma abbiamo sempre dichiarato con assoluta lealtà che ci riconoscevamo impegnati, prima che dal Trattato, da dichiarazioni di autonomia fatte da noi stessi sul terreno della nostra sovranità, a concedere le forme autonomistiche desiderate.

Da parte avversaria, specie nelle polemiche estere, soprattutto in confronto dell’Austria, si va ripetendo che l’Italia da lunga pezza usa questo sistema: di promettere e poi nel fatto di non mantenere. Lo so. Ora è piena intenzione di tutti, di coloro che hanno parlato pro e contro la mozione, invece, di mantenere. Però noi dobbiamo evitare le impressioni che questa accusa possa avere qualche ombra di fondamento.

Ecco perché, alle ragioni specifiche siciliane, io aggiungo una ragione generica, che riguarda tutte le tendenze autonomistiche e tutti gli impegni presi di fronte a particolari situazioni. Per tutte queste ragioni il Governo non può accettare la mozione La Malfa. Prego l’Assemblea di respingerla, pur riaffermando che sarebbe opera patriottica e di grande preveggenza che l’Assemblea in questo periodo (tenendo conto anche delle obiezioni fatte da parte dei promotori della mozione) affrontasse il problema del coordinamento e conducesse le cose fino al punto che, quando le decisioni saranno prese, sia certo e sicuro l’orientamento della legislazione italiana. (Vivi applausi al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole La Malfa. Ne ha facoltà.

LA MALFA. Sono grato all’onorevole Presidente del Consiglio di quello che ha detto, e dal fatto di condividere le preoccupazioni dei firmatari stessi della mozione. Mi pare di rilevate, dalle sue dichiarazioni, che esiste una responsabilità dell’Assemblea, non più del Governo, nei riguardi dello Statuto dell’autonomia siciliana.

L’onorevole Presidente del Consiglio ha dichiarato infatti di avere inviato, a nome del Governo, il progetto all’Assemblea Costituente fin dal 2 agosto; e mi pare che abbia invitato l’Assemblea a non lasciar trascorrere altro tempo o ad intraprendere l’esame dello Statuto prima che il Governo regionale entri in funzione. Con ciò l’onorevole Presidente del Consiglio ha rimesso completamente all’Assemblea la decisione circa l’esame dello Statuto.

Da parte mia, né le dichiarazioni del collega ed amico Ambrosini, né le dichiarazioni dell’onorevole Bellavista mi hanno sodisfatto dal punto di vista, non direi soltanto giuridico, ma costituzionale. Le preoccupazioni che ho rivelate sono preoccupazioni di ordine costituzionale, ma al fondo di esse vi è una preoccupazione di carattere politico.

. Non ho messo in. dubbio – e non potevo mettere in dubbio – la validità del decreto legislativo che approva lo Statuto siciliano; volevo sapere e conoscere dall’Assemblea che cosa pensasse della coesistenza di questo Statuto con la costituzione generale del Paese e con quell’articolo della Costituzione, nel quale si prevedono leggi speciali in materia di statuti regionali.

Mi dispiace dire che su questo punto la discussione non mi ha dato sodisfazione alcuna. D’altra parte, non mi è chiara la ragione per la quale è necessario discutere lo Statuto – se non si riesce a discuterlo prima dell’entrata in funzione del Governo regionale – nel momento stesso in cui il Governo regionale entra in funzione. Noi avremmo una situazione per lo meno delicata, di una discussione in sede di questa Assemblea, quando un Governo, in base ad uno Statuto regionale, comincia ad esercitare le sue funzioni in Sicilia.

Avevo avanzato l’idea che una proroga di un mese o di un mese e mezzo potesse sanare questa situazione. Credo con ciò di aver fatto tutto il mio dovere di siciliano e di Deputato alla Costituente. L’Assemblea non è soltanto un organo politico, ma un organo costituzionale. Essa non può guardare soltanto al rapporto di forze politiche attuale, ma deve decidere problemi fondamentali del Paese per un lungo periodo di tempo. Mi pare che ci sia una diversità tra le funzioni prettamente politiche dell’Assemblea e le funzioni costituzionali: la funzione costituzionale si riferisce ad un grande numero di anni e l’Assemblea Costituente deve creare una Costituzione in cui il problema della coesistenza dei vari istituti sia risolto, a prescindere dal rapporto delle forze politiche che noi attualmente possiamo accertare.

Sono costretto a chiedere – per scrupolo di coscienza – che la mozione sia votata, pur rendendomi conto che il rapporto delle forze politiche oggi esistente non consente che il mio punto di vista sia accolto.

PRESIDENTE. Dobbiamo ora procedere alla votazione della mozione.

Ha chiesto di parlare, per dichiarazione di voto, l’onorevole Li Causi. Ne ha facoltà.

LI CAUSI. Il Gruppo comunista alla Costituente dichiara di votare contro la mozione dell’onorevole La Malfa, appuntò perché nella sua motivazione presenta un problema di fondo che, in sostanza, verrebbe a sospendere l’attuazione dell’autonomia.

Ieri abbiamo inteso, nel sereno dibattito su questo argomento, le ragioni giuridiche e pubblicistiche che sono state espresse pro e contro.

Io desidero invece richiamare l’attenzione dell’Assemblea – giustificando la nostra posizione – sullo sfondo politico del problema. Già nelle discussioni avvenute ieri ed oggi, quasi anticipandosi le discussioni politiche sulle elezioni siciliane, la situazione siciliana è stata illuminata, attraverso bagliori, nei suoi aspetti contradittori per le forze politiche che si agitano, e soprattutto per la mancata chiarificazione politica circa l’azione passata di tutte le forze in Sicilia.

Ora le situazioni politiche, se non si chiariscono, se rimangono torbide, se cioè in questa Assemblea, sul terreno nazionale, non mostrano la limpidezza della loro azione passata, che ha le sue ripercussioni ancor oggi è evidente che i bagliori improvvisi turbano, impressionano e dànno l’idea che qualcosa debba ancora chiarirsi. Di fatti molti problemi acutissimi esistono in Sicilia, il cui fondo è costituito dalle contradizioni economiche dell’Isola. Vi sono i problemi della terra, delle zolfare, dell’attività mineraria, delle esportazioni, problemi che interessano l’estero e l’interno; il problema della valuta, per non parlare di tutti gli altri problemi di contingenza che si pongono in Sicilia con particolare acutezza. Pensate alle miniere; se il Governo non interviene vi sono cinquantamila persone (le famiglie di 10-12 mila minatori) che sono minacciate dalla fame e che vivono alla giornata. Vi sono contrasti che riguardano i vagoni ferroviari per l’esportazione degli agrumi; il problema di chi deve disporre della valuta, come questa valuta viene impiegata, cioè quanta di questa valuta va agli esportatori siciliani per i loro bisogni in Sicilia e quanta viene impiegata per il resto del Paese; v’è, in prima linea, il problema della terra che rende acuta la situazione e che può soltanto chiarificarsi se andremo incontro con fiducia al popolo siciliano e se permetteremo che in Sicilia, attraverso questi problemi, avvenga la chiarificazione.

Ed a questo proposito, se qui si è assistito a qualche cosa che ha impressionato giustamente l’Assemblea Costituente, è perché situazioni passate (ciò che è avvenuto dal 1943 ad oggi) ancora sussistono. Vi sono forze che avrebbero dovuto essere profondamente colpite per la loro azione passata e sono state lasciate invece indisturbate, e vi sono responsabili nei corpi di polizia e negli altri poteri dello Stato che sono compromessi in determinate situazioni del passato, indipendentemente dal fatto che si tratti di repubblicani o di monarchici, per la particolare azione svolta in favore della monarchia per intrighi monarchici.

Ieri c’è stato uno scambio di invettive fra i protagonisti della tragedia di allora ed è stato fatto il nome di qualche generale. Ebbene il Governo, la polizia e gli uomini politici siciliani, tutte queste cose le sanno, e ancora non si è provveduto a porre in rilievo l’azione delittuosa di questi elementi, perché tutta la coscienza nazionale e la coscienza siciliana potessero essere chiarificate e soprattutto tranquillizzate. Ove infatti rimanesse questa atmosfera torbida, creata da tutto ciò che ha costituito un compromesso nel passato, permarrà in Sicilia una situazione che potrà essere chiarita soltanto dalle elezioni, attraverso il palpito della regione. Tutte le cose che sono state dette in questa Assemblea dovranno essere approfondite e chiarite durante il processo di queste elezioni, e, soprattutto, dovranno essere posti tutti questi problemi nell’Assemblea regionale, giacché è difficile che essi siano posti in questa Assemblea nazionale.

PRESIDENTE. La prego di concludere, onorevole Li Causi.

LI CAUSI. Ho finito. Per fare in modo che questa situazione non incancrenisca, ma possa invece essere affrontata, auspichiamo le elezioni per il 20 aprile, applichiamo cioè la autonomia regionale che abbiamo approvata.

DE VITA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE VITA. L’onorevole La Malfa, svolgendo ieri la mozione da lui presentata, ha fatto presente che il gruppo parlamentare repubblicano non condivideva la tesi da lui sostenuta. In tema di dichiarazione di voto, a nome del gruppo parlamentare repubblicano, dichiaro che voteremo contro la mozione presentata dall’onorevole La Malfa. (Applausi al centro).

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. (Applausi). Sono state sollevate, in questa discussione, una questione costituzionale ed una questione politica. Io non sono d’accordo con l’onorevole La Malfa quando egli definisce il carattere dell’Assemblea, in quanto Costituente, come non politico: in ogni caso, un’Assemblea come questa, eletta dal popolo, è per eccellenza politica, soprattutto politica. Le questioni, però, possono considerarsi sotto i due diversi angoli visuali. La natura costituzionale di un argomento si può concepire come un limite qualsiasi a quella competenza, istituzionalmente spettante a questa Assemblea, di provvedere intorno a tutto quanto tocca ordinamento dello Stato? Certamente no. Io direi che il porre la questione è già pericoloso, perché ciò supporrebbe che vi sia un limite: e chi lo giudicherebbe? Dall’altro lato, come distingueremo noi, a priori, una legge, se sia costituzionale oppur no? Se qualcuno qui mi dà il criterio di una distinzione obiettiva tra legge costituzionale e legge Ordinaria: cioè, non quello dell’importanza che ognuno può, secondo il suo gusto, attribuire alle leggi, ma quello che si basa sulla intrinseca natura di esse; se qualcuno, ripeto, mi offre un tale criterio, mi farà compiere un vero progresso nella scienza, che pure per tanti anni ho coltivata. E non c’è da meravigliarsene, se è vero che Bonaventura Zumbini, il quale fu un grande letterato, ultra ottantenne – e quindi, da questo lato, collega mio – ad un amico, che gli domandava che cosa stesse studiando rispose: la grammatica italiana. Dunque, si è sempre in tempo per apprendere.

Questa distinzione io non la conosco. Il passato Parlamento, in rapporto allo Statuto albertino, non avrebbe potuto modificare la eleggibilità del deputato, perché lo Statuto prevedeva l’età; eppure, quel medesimo Parlamento poté riconoscere nello Stato un altro sovrano, con l’approvazione della legge delle guarentigie. Io vi pregherei di dirmi se possa darsi una legge più costituzionale di quella delle guarentigie, che istituì un sovrano e lo dichiarò inviolabile, cioè a dire irresponsabile. E questo fece un’Assemblea fornita, di poteri legislativi ordinari.

Ma, anche in rapporto all’attuale progetto di Costituzione, vi sono leggi vigenti che non perdono il loro vigore, per il fatto che – secondo le notizie che si hanno, anzi ormai questo progetto è stato distribuito – esse sono rimesse in questione dalla futura Costituzione. La quale, fra l’altro, si occupa del divorzio, senza che per questo cessino d’aver vigore oggidì le norme del Codice civile sul matrimonio; ed altrettanto si dica dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa.

Il che, dunque, cosa significa? Significa che questa nostra attività costituente non impedisce la continuazione ritmica della legislazione ordinaria; né si può dire che vi sia una distinzione obiettiva di competenza, perché effettivamente questa non esiste. La legge che approva lo Statuto siciliano è una legge dello Stato, che disciplina questa forma di reggimento e di amministrazione autonoma. È legge, come sono leggi le norme del Codice civile, che disciplinano i rapporti tra i figli legittimi e gli illegittimi: argomento, sul quale si ha, nel progetto della Costituzione, una disposizione che sovverte tutto. Eppure, presentemente, quelle disposizioni del Codice si applicano; ed allora perché non si dovrebbe applicare la legge sull’autonomia siciliana?

Voi non contestate l’esistenza di questa legge. Se la contestaste, ne discuteremmo. Ma voi – ripeto – non la contestate: la legge c’è. Voi dite solo che è bene non applicarla.

In ogni modo, io rispetto l’opinione dell’amico La Malfa, che è un uomo acutissimo; e con ciò ammetto che si tratti di una questione discutibile. Ma una pregiudiziale che si opponga non c’è: quindi, al mio senso costituzionale non si impone come un imperativo categorico che l’applicazione di una legge esistente debba necessariamente venire rinviata o sospesa.

Comunque, io sorpasso la questione costituzionale.

Resta la questione politica; la quale dovrebbe indurre il Governo, e soltanto il Governo, e non so che cosa c’entri la responsabilità dell’Assemblea – le Assemblee non hanno mai responsabilità, perché la responsabilità è sempre dei Governi per ciò che fanno e per ciò che non fanno – a decidere se sia opportuno, oppur no, il rinvio. Il Governo può, nella sua responsabilità, ritenere opportuno il rinvio, come può, sempre nella sua responsabilità, ritenerlo non opportuno: e ciò, indipendentemente da ogni questione di costituzionalità, che qui non si pone.

Ora, signori, del punto di vista politico, io crederei un grave errore l’intervenire nel senso sospensivo: e tanto peggio, con una motivazione, la quale non si riferisce ad una questione di carattere temporaneo circa accordi da prendere, ma collega l’entrata in vigore di questa legge con il coordinamento. Ma, per coordinare, bisogna ordinare, e noi non potremmo, quindi, esaurire l’argomento se non dopo di avere discusso ed approvati gli articoli sulle Costituzioni delle Regioni.

Io auguro all’Assemblea di poter far ciò in poche settimane. Mi si è riferito – non so se sia vero – che probabilmente occorrerà una disposizione transitoria, la quale, per la prima attuazione del nuovo Statuto, proporrebbe una maniera di costituzione della seconda Camera, di cui il terzo dovrà essere votato dai rappresentanti delle Regioni, e si aggiunge che occorreranno due anni per poter costituire questo corpo elettorale.

Voi vedete che questo coordinamento potrebbe rinviare la cosa sine die, e l’impressione delle nostre popolazioni sarebbe pessima.

Io non voglio dire che sia questa una caratteristica esclusiva di noi siciliani. Mi duole un po’ – lo dirò francamente, come un vecchio papà – mi duole un po’ che di questa mia Sicilia si incominci a parlare un po’ troppo (Applausi), e che abbia l’aria di una regione diventata un fenomeno vivente, come la donna barbuta delle fiere. (Ilarità). Ma, insomma, noi abbiamo i nostri dolori e questi li hanno un po’ tutte le regioni consorelle. Affratelliamoci, mettendo fraternamente insieme i nostri dolori e i nostri bisogni. (Applausi).

Ad ogni modo, io non riaprirò una discussione penosa, penosissima direi. Vi dico soltanto: «Pensate, una guerra, una tale guerra, ed il periodo tremendo che la precedette!». Io mi dolgo che circa il fascismo si sia verificato il fenomeno degli alberi, che hanno impedito di vedere la foresta. Noi ci siamo troppo occupati delle colpe degli individui, ed abbiamo perduto di vista quello che è stato il regime per se stesso, indipendentemente da tutti i torti che gli si possono imputare. (Approvazioni a destra). Ora, di fronte a quel regime la Sicilia fu sempre all’opposizione; virtualmente, la Sicilia per 20 anni si separò. Condussi io una battaglia elettorale a Palermo nell’agosto del 1925, dopo tre anni dalla marcia su Roma, dopo l’assassinio, già avvenuto da oltre un anno, del nostro caro Matteotti. Ebbene, allora noi potemmo a Palermo combattere la battaglia per le strade. Restammo noi padroni delle strade, e, negli scontri che avvennero, all’ospedale noi abbiamo mandato i fascisti, non ci siamo andati noi! (Applausi).

La Sicilia per vénti anni fu separata, non diede alcun contributo al fascismo. I nostri segretari federali, i Commissari ai comuni e tutti i gerarchi dello Stato corporativo venivano dal Continente, perché in Sicilia non si trovava il personale adatto.

Così la Sicilia visse quelle giornate, così traversò quel periodo. Sopravvenne poi la guerra: questa scossa formidabile, paragonabile a quei terremoti nostri, calabro-siculi, che hanno potuto scuotere i monumenti più saldi; ed un periodo di smarrimento si poté verificare. Questo io so: liberata Roma nei primi di giugno, sorse un’atmosfera di preoccupazione. Diciamolo pure. La Sicilia è perduta, la Sicilia è separatista: era questa la grave e diffusa separazione.

Orbene, io andai poco dopo a Palermo con il mio aereo («mio» per modo di dire; un aereo, che è sempre un comodissimo mezzo di viaggiare) (Si ride). Là parlai nella sede della Società di Storia Patria, rigurgitante di gente, che si riversava nelle piazze, dove erano gli altoparlanti; e dissi: «Non è concepibile un’Italia senza la Sicilia, né una Sicilia senza l’Italia!». (Vivissimi, prolungati, generali applausi).

Questo io lo dissi nei primi di luglio del 1944, e il popolo, tutto il popolo, comprese.

Un altro episodio ricordo: Sopravvenne, due o tre mesi dopo, la chiamata di una classe di leva. Era quello – come ho detto – un periodo turbato da fenomeni di grave smarrimento, e quindi si iniziò una propaganda perché le reclute non si presentassero. Questa propaganda aveva radici nelle università.

Mi recai nell’Università, in mezzo agli studenti, e chiesi loro: «Ma da quando in qua il Siciliano ha l’aria di volersi sottrarre ad un pericolo?».

È il lato da cui bisogna pigliare i miei conterranei.

Ed essi mi risposero: «Ma, professore, come vuole che noi ci battiamo (si parlava allora delle spedizioni in Giappone) con gli Alleati, che ci contestano Trieste?».

Ed era questo l’animo separatista! Il motivo determinante era, evidentemente, patriottico e nazionalista. (Vivi applausi).

Una voce all’estrema sinistra. Non nazionalista, ma nazionale! (Rumori).

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Ebbene, signori, questa Sicilia è fedelissima, e fedelissima rimarrà. Ma voi le avete detto: Avrete l’autonomia. Questa è un’idea politica, che poi si è diffusa. A che cosa potrà servire, sarebbe lungo spiegare, troppo lungo; e non è questo il momento. Ma una cosa è certa: questo impegno è stato preso. Il mantenerlo è questione di onore. E voterò contro la mozione. (Vivissimi applausi).

LUSSU. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. L’Assemblea mi consenta di parlare, non a nome del gruppo parlamentare a cui appartengo, ma come rappresentante degli autonomisti d’Italia.

Quelli che hanno controllato da vicino lo svolgimento della vita politica nel Mezzogiorno e nelle Isole, sanno che in Sardegna prese consistenza e forza, fin dall’altro dopoguerra, un movimento autonomistico intorno al quale si strinsero le forze più democratiche che combatterono contro il fascismo prima e dopo le leggi eccezionali; movimento che diventò ancora più forte dopo la liberazione, comunicando a tutti i Partiti locali la sua aspirazione autonomistica.

E se questo movimento in Sardegna non ha preso le forme drammatiche che ha per la Sicilia, lo si deve al fatto che in Sardegna c’è stata una differente formazione e maturazione politica dei dirigenti.

Credo che, principalmente per non creare difficoltà al Governo democratico prima e difficoltà alla Repubblica dopo, il movimento estesosi a tutta l’Isola è stato contenuto. Come facente parte del movimento autonomistico sardo, io devo dichiarare che mi trovo nella necessità di non condividere né l’una opinione né l’altra, perciò sono costretto ad astenermi nella votazione della mozione presentata dall’onorevole La Malfa, perché, il modo di vedere su queste elezioni non è totalmente condiviso dai rappresentanti siciliani. Lo stesso collega La Malfa che è siciliano, presenta una mozione per il rinvio.

Devo dire che la questione che interessa noi principalmente e che interessa questa Assemblea è il problema della riforma della struttura dello Stato.

Io credo che non ci sia nessuno in questa Assemblea che non renda omaggio alla coscienza e alla serietà politica dell’onorevole La Malfa. Egli si è espresso in termini altamente politici dal punto di vista del potere costituzionale dell’Assemblea.

Ma il punto fondamentale per noi è questo: lo Statuto per la Sicilia potrà essere domani modificato in modo notevole, oppure no?

Ecco la questione fondamentale che ci interessa; la questione delle elezioni, secondo me, interessa poco.

A mio parere – e lo stesso onorevole La Malfa nelle sue dichiarazioni ha precisato che non intende intaccare il contenuto dello Statuto siciliano – a mio parere lo Statuto siciliano potrà essere messo in rapporto, coordinato ai principî fondamentali in materia autonomistica, che usciranno da questa Assemblea Costituente, ma non potrà essere sostanzialmente modificato.

Se venisse modificato, si creerebbe un atto politico estremamente pericoloso, di cui a nessuno qua dentro sfugge la portata.

Noi, autonomisti sardi, ci sentiamo strettamente legati a quella che è oramai una conquista politica e costituzionale dei rappresentanti della Sicilia.

Devo ricordare – me lo consenta il Presidente – che nel maggio scorso noi ottenemmo, e dal Governo – era Presidente lo stesso onorevole De Gasperi – e dalla Consulta, attraverso la Giunta eletta per esaminare il progetto dello Statuto siciliano, che, in attesa d’una maggiore elaborazione, per cui vi era tutto il tempo necessario, lo Statuto siciliano fosse provvisoriamente esteso anche alla Sardegna.

I rappresentanti della Consulta sarda ritennero fosse più opportuno elaborare lo Statuto per la Sardegna, autonomamente, indipendentemente da quello siciliano.

Comunque, lo Statuto siciliano rappresenta ormai un diritto acquisito, e non può essere modificato in nessun modo, se mai solo leggermente modificato, e solo in rapporto ai principî fondamentali fissati nella Costituzione.

In quanto alle elezioni, gli autonomisti sardi sono perfettamente indifferenti che si facciano in aprile, in maggio o a giugno. L’essenziale della riforma è lo Statuto. Pertanto, siccome nella questione delle elezioni gli stessi deputati siciliani si sono divisi, io mi astengo.

BASSO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BASSO. A nome del gruppo parlamentare del Partito socialista italiano, di fronte ai due aspetti che la discussione ha assunto, aspetto politico ed aspetto costituzionale, devo dichiarare che ci asterremo dal voto.

Non possiamo votare contro la mozione La Malfa, perché riteniamo che le asserzioni contenute nella mozione circa la incostituzionalità del provvedimento, col quale si è addivenuto alla convocazione dei comizi elettorali, siano fondate. Nonostante l’affermazione contraria fatta testé dall’onorevole Orlando, io credo che, se è vero che i confini fra la materia costituzionale e la materia comune sono difficili a tracciarsi, in questo caso è la stessa legge 15 maggio 1946, che ha approvato lo Statuto, che contiene in se stessa, nell’articolo unico, la dichiarazione della sua natura costituzionale, proprio per il rinvio che l’articolo fa al coordinamento con la Costituzione. Ed essendo quindi indiscutibile la natura costituzionale di questa legge, non vi è dubbio che il Governo che l’ha emanata non aveva il potere di emanarla perché, per il disposto dell’articolo 1 della legge approvata dal Governo di Salerno, che convocava la Costituente, la materia costituzionale era già allora devoluta alla futura Assemblea Costituente, di cui la legge costitutiva era stata emanata nel marzo 1946; cioè anteriormente alla legge che ha approvato lo Statuto siciliano.

L’incostituzionalità della legge fu del resto rilevata già dalla stessa Corte dei Conti, la quale rifiutò di registrare la legge del 15 maggio 1946 – ossia la registrò con riserva – mandando alla Presidenza dell’Assemblea Costituente, in data 29 giugno 1946 la sua decisione di registrazione con riserva, perché l’Assemblea Costituente, investita di poteri costituzionali, risolvesse il dissidio fra Governo e Corte dei Conti.

Credo quindi che non possa sussistere dubbio sulla incostituzionalità della legge. Ma se vi fosse dubbio per questa legge, non ve ne può essere per il decreto legislativo successivo, con cui il Governo ha convocato i comizi elettorali. La legge che convoca i comizi elettorali dice che questi comizi sono convocati in applicazione dell’articolo 42 dello Statuto siciliano. Orbene, l’articolo 42 prescrive tassativamente che i comizi elettorali debbano essere convocati in virtù di una emananda legge elettorale. E, nonostante le spiegazioni date ieri dal collega professor Ambrosini, è certo che quando si scrive «emananda», si deve intendere emananda e non emanata. E quando una legge del maggio 1946 si riferisce ad una legge che deve ancora essere emanata, ad una disposizione futura, non c’è dubbio che non si possano convocare dei comizi elettorali in base a questa legge che a tutt’oggi non è ancora emanata. Non si può quindi negare che sul piano costituzionale siamo in presenza di una grave leggerezza con cui tutta questa materia è stata trattata.

E non è soltanto l’aspetto giuridico che ci preoccupa, quanto quello che vi sta dietro, proprio perché siamo preoccupati che questa autonomia siciliana, questo Parlamento siciliano abbiano delle solide fondamenta. Noi riteniamo che sia stato un errore affidarne la convocazione a delle leggi la cui validità è stata messa in dubbio dalla Corte dei Conti, la cui validità potrà domani essere contestata. Noi corriamo il rischio di convocare un Parlamento siciliano che non abbia i poteri che gli riconosce la legge; noi corriamo il rischio, con la convocazione dei comizi elettorali per il 20 aprile, di chiamare gli elettori ad eleggere un’Assemblea che in virtù dello Statuto approvato dovrebbe avere determinati poteri, ma che probabilmente si troverà ad avere, in sede di applicazione della futura Costituzione, dei poteri diversi. Non so se la Costituzione dello Stato accetterà integralmente lo Statuto siciliano o lo modificherà. Certo è assurdo che il 20 aprile gli elettori siciliani siano chiamati ad eleggere un Parlamento, cui sono conferiti determinati poteri, mentre questo Parlamento, magari subito dopo eletto, per effetto di un voto di questa Assemblea Costruente, potrebbe trovarsi ridotto a poteri minori. Allora veramente il popolo siciliano potrebbe dolersi della leggerezza con cui è stato chiamato a questi comizi elettorali, potrebbe supporre di essere stato ingannato. La nostra preoccupazione politica, il nostro desiderio più forte è di dare a questa grande manifestazione del popolo siciliano una base di serietà, che riteniamo non sia nelle disposizioni della legge. D’altra parte in questo atteggiamento noi siamo coerenti con le riserve che l’onorevole Nenni ha fatte in sede di discussione di questa legge in Consiglio dei Ministri. Ma c’è d’altra parte in questa discussione anche un aspetto politico; si è data a questo dibattito un’ampiezza che è andata alquanto al di là dei limiti puramente costituzionali; si è voluto vedere nell’atteggiamento assunto dai diversi parlamentari che hanno parlato pro e contro la mozione presentata dall’onorevole La Malfa, un atteggiamento pro e contro l’autonomia, un atteggiamento pro e contro le elezioni siciliane.

Ora noi non vogliamo su questo terreno che l’atteggiamento del Partito socialista si presti ad equivoci; noi, riservandoci di discutere in sede di Costituzione i limiti e l’estensione dell’autonomia, affermiamo che siamo favorevoli al principio dell’autonomia, e non potremmo non essere favorevoli a questo principio, in quanto ritentiamo che la democrazia si realizza soltanto nella misura in cui le masse possano effettivamente partecipare alla direzione della vita pubblica. E non c’è dubbio che l’autonomia, in quanto avvicina le masse a determinati problemi politici, rappresenti un potente strumento di educazione all’autogoverno. Noi siamo quindi favorevoli all’autonomia e non abbiamo niente in contrario a che le elezioni siciliane siano fatte al più presto, e perciò non possiamo votare favorevolmente alla mozione La Malfa, perché non possiamo assumere un atteggiamento che potrebbe prestarsi ad altre interpretazioni.

Per questi motivi, nel conflitto fra i due aspetti che il problema ha assunto, noi ci asteniamo dal voto, dando alla nostra astensione il significato di un invito all’Assemblea Costituente di accelerare l’approvazione dello Statuto siciliano per dare finalmente al popolo siciliano quello strumento di legalità che esso giustamente attende. (Applausi a sinistra).

PATRICOLO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PATRICOLO. A nome del Gruppo parlamentare dell’Uomo Qualunque, dichiaro che noi voteremo contro la mozione La Malfa, per varie ragioni di cui dirò brevemente. Anzitutto la mozione, come è stata presentata a questa Assemblea, non diceva chiaramente quali fossero le argomentazioni che poi furono presentate a noi dall’onorevole La Malfa.

La mozione presentava due quesiti: l’uno di carattere costituzionale ed il secondo di carattere tecnico-pratico; ma la verità sulla presentazione della mozione ci è stata detta dall’onorevole La Malfa ieri, e questa verità egli l’aveva già anticipata in un articolo che abbiamo letto in un giornale, sul Momento Sera, due giorni fa.

Per la questione costituzionale non penso di dover prendere la parola, dato che tanti illustri giuristi hanno dato il loro parere. Debbo però soffermarmi su quello che l’onorevole La Malfa chiama il punto di vista politico, sulla questione cioè politica, e questo non solo in rappresentanza del Gruppo qualunquista, ma anche come deputato siciliano e come sindaco della città di Palermo. L’onorevole La Malfa ieri ha detto esplicitamente di avere delle preoccupazioni di carattere politico, in quanto in Sicilia ci sono oggi delle correnti politiche che hanno preso buona padronanza della massa del popolo: abbiamo avuto le recenti elezioni che hanno dato molti e molti voti al partito dell’Uomo Qualunque, al partito monarchico, e questo impressiona l’onorevole La Malfa, e penso che impressioni altri deputati di altri settori.

Ebbene, l’onorevole La Malfa, dopo avere parlato del nostro successo autentico, non solo in Sicilia, ma che si è esteso anche a tutta l’Italia meridionale, compresa Roma, ha quasi fatto vedere il timore che questi partiti prendano il sopravvento nella vita politica meridionale ed ha parlato di democrazia, quasi che la democrazia in Italia si trovi in pericolo per il fatto che l’Uomo Qualunque oggi amministra le principali città dell’Italia meridionale. Si rassicuri l’onorevole La Malfa, si rassicurino anche gli altri deputati che come lui la pensano, che in Sicilia, dove esistono delle amministrazioni qualunquiste, a Palermo, Catania, Messina, la democrazia è rispettata in pieno. Non c’è nessuna minaccia per i vostri principî democratici, che sono anche i nostri.

Da pochi mesi noi abbiamo delle amministrazioni comunali ed abbiamo dato sempre esempio di vera e sana democrazia e me ne appello a qualche deputato qui presente, che fa parte dei nostri consigli stando all’opposizione. Le nostre amministrazioni in Sicilia – non dico che insegnino la democrazia ad altri – ma hanno dato esempio di piena democrazia. Quindi, non vedo perché debba tanto preoccupare questa situazione politica.

E, d’altra parte, onorevole La Malfa, noi non possiamo dimenticare quello che è stata la Sicilia ieri e, direi, negli anni passati: la Sicilia, voi tutti sapete, nel 1860 si è unita plebiscitariamente all’Italia, sotto il segno della monarchia sabauda, come attesta l’iscrizione che abbiamo in quest’Aula. Il 2 giugno ha riconfermato la sua fede monarchica; però, quando la Repubblica ha inviato in Sicilia un Alto Commissario, nella persona dell’avvocato Selvaggi, che, se non sbaglio, è iscritto al Partito storico repubblicano, la Sicilia tutta ha collaborato con quest’uomo, senza distinzione di classi, di partiti e di ideologie politiche.

Questo dimostra come sia matura la Sicilia a collaborare con d’Italia repubblicana, senza essere presa da quella febbre, diciamo, di partigianeria politica. E questo, che torna ad onore del popolo siciliano, io desidero richiamare a voi.

D’altra parte, la Sicilia, come è stato riconosciuto qui dai deputati dei vari settori, da vari partiti e da Ministri al Governo, è stata maltrattata, bistrattata, dimenticata dai passati Governi, ed è venuto il momento in cui lo Stato italiano, oggi repubblicano, deve renderle giustizia; ma io vi domando se si può continuare a rendere giustizia alla Sicilia con il sistema dei commissari e degli alti commissari, di consoli e di proconsoli, come nell’antica Roma.

Credo che questo sistema non sia democratico e, se noi vogliamo fare della vera democrazia in Sicilia, dobbiamo abbandonare il sistema dei commissariati. È vero che l’avvocato Selvaggi gode della stima dei siciliani, perché è un uomo probo, di buon senso, equilibrato; ma non vorrei ricordarvi – per fare dell’ironia – che una volta in Sicilia, Roma repubblicana mandò Marco Tullio Cicerone, un grande giurista, ma dopo di lui venne Verre.

Ebbene, io non credo che sia il caso di rischiare questa avventura; ma noi abbiamo temuto, in questi mesi, quando si è parlato della elezione di Selvaggi a sindaco di Roma, perché avremmo visto allontanare un uomo veramente equilibrato che per la Repubblica è stato un buon ambasciatore presso la Sicilia monarchica.

Quindi, vi dico, torniamo alla democrazia e non abbiate paura se in Sicilia il Partito liberale o dell’Uomo Qualunque o monarchico potranno avere più larghi consensi che non nelle elezioni passate.

La democrazia, signori, non è soltanto dove esiste un’amministrazione o socialista o comunista o repubblicana o democristiana: la democrazia è là dove il popolo può liberamente eleggere i suoi rappresentanti.

Perù, dopo questa premessa, dichiaro di accettare le assicurazioni del Presidente De Gasperi fino ad un certo punto, in quanto l’onorevole De Gasperi ha detto qualcosa che ci lascia perplessi. Egli dice: lasciamo che si facciano oggi le elezioni; poi, in tema di coordinamento, potremo vedere se e quanto potrà essere accettato di questo Statuto. Vorrei pertanto da parte del Governo l’assicurazione formale che, per quanto lo riguarda, lo Statuto della autonomia siciliana non verrà toccato.

PRESIDENTE. Non c’entra il Governo, onorevole Patricolo. È questione che riguarda la sovranità dell’Assemblea.

PATRICOLO. Debbo osservare un’altra cosa che è stata detta qui, credo, dal precedente oratore, cioè che il coordinamento potrebbe involgere anche la struttura e l’essenza dello Statuto dell’autonomia regionale. Io questo non lo ritengo giuridicamente ammissibile, perché le norme di coordinamento per me sono quelle che stabiliscono la possibilità di attuare integralmente lo Statuto dell’autonomia nel quadro della Costituzione; ma se queste norme non dovessero rispettare l’autonomia regionale nella sua pienezza di sostanza e di forma, allora non sarebbero più norme di coordinamento, ma di modificazione. E noi questo concetto non possiamo accettarlo. Questo almeno è il parere del partito che rappresento.

Quindi, per queste ragioni, ripeto che il Gruppo parlamentare dell’Uomo Qualunque voterà contro la mozione dell’onorevole La Malfa.

TAVIANl. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIÀNI. Conformemente alle dichiarazioni degli amici onorevoli Ambrosini, Caronia e Vigo dichiaro che il Gruppo parlamentare democristiano voterà contro la mozione La Malfa.

CIFALDI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIFALDI. A nome del Gruppo parlamentare liberale dichiaro che voteremo contro la mozione La Malfa, non tanto per le questioni di carattere giuridico esposte dall’onorevole Orlando, quanto per ragioni politiche. È necessario mantenere gli impegni assunti dal Governo, mostrare che questi impegni vengono rispettati e giungere quindi ad una chiarificazione che riteniamo indispensabile per tranquillizzare gli animi dei siciliani.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la mozione La Malfa.

(Dopo prova e controprova, e tenuto conto degli astenuti, la mozione non è approvata).

Presidenza del Presidente TERRACINI

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. L’onorevole Bellavista ha presentato, chiedendo risposta d’urgenza, la seguente interrogazione:

«Ai Ministri dell’interno e dei lavori pubblici per conoscere le più precise notizie circa le conseguenze dell’attuale eruzione dell’Etna e conoscere le provvidenze adottate per venire incontro alle popolazioni della zona, minacciate da sì grave pericolo».

L’onorevole Ministro dell’interno desidera rispondere subito a questa interrogazione. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. L’interrogazione ha carattere di estrema urgenza. Desidero informare l’Assemblea sulla situazione determinatasi in Sicilia in seguito all’eruzione dell’Etna. Le ultime informazioni pervenute al Ministero lasciano prevedere che, in poco tempo, potrà essere investito da parte delle lave anche qualche centro abitato. Dalle autorità locali non sono stati chiesti, fino a questo momento, soccorsi di qualsiasi natura; il Ministero anzi, per suo conto, si è premurato di richiedere notizie, che vengono fornite di ora in ora, ed ha chiesto al Prefetto se ha bisogno di qualche cosa.

Fino a questo momento, ripeto, nessuna richiesta è pervenuta al Governo. Assicuro l’Assemblea che, anche come siciliano e come cittadino della provincia di Catania, seguo con la massima attenzione l’eruzione dell’Etna, col proposito di fare intervenire il Governo nel modo più largo, qualora si presentassero improvvise necessità.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

BELLAVISTA. Mi dichiaro sodisfatto.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Fuschini, Scoca, De Palma, Mastino Gesumino, Martinelli, Adonnino hanno presentato la seguente interrogazione, chiedendo risposta d’urgenza.

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri della difesa e di grazia e giustizia, per conoscere quanto ci sia di vero su quanto ha pubblicato un giornale di oggi circa la denuncia presentata al Procuratore della Repubblica contro due ex Ministri dell’aeronautica».

GASPAROTTO. Ministro della difesa. Chiedo di rispondere subito a questa interrogazione.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO. Ministro della difesa. Ho appreso in questo momento la notizia della pubblicazione apparsa sul Giornale d’Italia e ciò mi sorprende, in quanto dei fatti di cui parla la denuncia che si asserisce presentata all’autorità giudiziaria si è già discusso in questa Assemblea, e largamente, da parte degli onorevoli Cevolotto e Cingolani.

D’altronde, intorno a questi fatti è stata presentata da tempo un’interpellanza dell’onorevole Finocchiaro Aprile. I miei uffici da molti giorni mi hanno apprestato largo materiale per la risposta. Credo che non sia il caso di leggere tutto il relativo cospicuo fascicolo. Rilevo soltanto, per fissare un punto che credo decisivo nella questione in parola e che ha già appassionato l’Assemblea, che con decreto del 16 agosto 1946 del Ministro dell’aeronautica fu istituita una Commissione incaricata di esaminare comparativamente i vari progetti presentati al Ministero dell’aeronautica per l’istituzione dei servizi di trasporto aereo e di determinare il piano organico per l’attuazione dei servizi stessi; per modo che l’assegnazione alle varie società concorrenti – e sono dieci – delle diverse linee aeree che dovranno essere percorse sul territorio nazionale dalle ali italiane è stata deliberata da una Commissione così composta: presidente il Ministro dell’aeronautica; membri: il professore Ambrosini, presidente della Facoltà di ingegneria aeronautica all’Università di Roma; l’ingegnere Ancis Aldo, tenente colonnello del Genio aeronautico, capo divisione della Direzione generale dell’aviazione civile e traffico aereo; il dottor Cacopardo Salvatore, reggente la Direzione generale della aviazione civile e traffico aereo; il dottor Chinigò Moses, condirettore dell’Istituto per la ricostruzione industriale; l’ingegnere Mele Mario, maggiore generale del Genio aeronautico; il colonnello Remondino Aldo, sottocapo di Stato Maggiore dell’aeronautica militare; il dottor Salvo Salvatore, direttore capo divisione della Direzione generale dell’aviazione civile e traffico aereo; segretario: il dottor Squitieri Michele, primo segretario della Direzione generale dell’aviazione civile e traffico aereo.

Pertanto, la deliberazione presa circa la distribuzione delle linee aeree è opera non personale del Ministro, ma di questa Commissione nominata con decreto del 16 agosto 1946.

Queste assegnazioni, inevitabilmente, hanno formato oggetto di discussione. Tuttavia, ho il piacere di preannunciare che proprio in questi giorni, in seguito a contatti intervenuti fra il Ministero ed i rappresentanti delle varie linee aeree, siamo in via di risoluzione conciliativa ed equitativa, sicché c’è da sperare che la navigazione aerea civile possa senz’altro diventare un fatto compiuto e venga a far parte dell’Amministrazione militare, in quanto che è risaputo che gli aerei che fanno servizio civile attualmente sono tutti alla dipendenza dell’aviazione militare.

Devo dichiarare – e non sarei altrimenti sincero – che la pubblicazione mi ha molto sorpreso, perché basterebbe aver seguito le discussioni intervenute nei giorni scorsi in questa Assemblea per giudicarla inopportuna.

CEVOLOTTO. Chiedo la parola.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Quando in condizioni di armistizio rigorosissime io ho sostenuto, per la prima volta, che il capitale americano si impegnasse in Italia, quando ho ottenuto questo, ho creduto di aver fatto bene nell’interesse del Paese e di essermi acquistato un po’ di merito.

Non avrei mai supposto che un qualche pazzo potesse trasformare questo, che doveva essere un successo, in una denuncia al Procuratore della Repubblica.

Ad ogni modo, dirò che dell’accusa che mi si fa e che sarebbe quella di aver danneggiato l’erario ottenendo il concorso di minoranza del capitale straniero nelle nostre società di navigazione aerea, io non so vedere il profilo giuridico ed il reato. Siccome però in quella denuncia si parla di reato – e dai giornali ho appreso che vi sarebbe anche la firma di un nostro collega, la firma dell’onorevole Finocchiaro Aprile (Commenti prolungati) desidero che la questione sia portata qui, per poter chiedere immediatamente una inchiesta parlamentare, che altrimenti non ho mezzo di domandare. Comunque, poiché il Presidente mi ha fatto l’onore di nominarmi membro della Commissione d’indagine sulla questione Finocchiaro Aprile-Parri, dico subito che do le dimissioni da quella Commissione, alla quale non devo più appartenere.

D’altra parte, nella denuncia (della quale mi sfugge il profilo giuridico, perché non so come si possa derivare una responsabilità penale dal fato di aver compiuto un atto ministeriale che potrebbe essere criticabile in questa sede sotto l’aspetto politico, ma che non può costituire reato) vi è un punto che voglio mettere in luce. Ad un certo momento si dice: L’onorevole Cevolotto ha aderito alle suggestioni di un generale. Questo generale viene accusato, niente di meno, che di aver cercato di ottenere dagli Alleati che essi sequestrassero come preda bellica le proprietà dell’Ala Littoria, ora Ala Italiana.

Io ho motivo di ritenere e ritengo che anche l’accusa contro quel generale sia una bassa calunnia (Approvazioni), perché non ammetto neanche lontanamente che un generale italiano non abbia difeso, come poteva e come sapeva ma con tutti i mezzi, quella che era proprietà nostra, importa poco se di una società o di un’altra.

So che il Ministero ha agito con tutti i mezzi, anche con qualche trucco (e non me ne pento) per cercare di togliere alla preda bellica alleata tutto quello che era possibile salvare.

Nella denuncia in un altro punto si dice: l’onorevole Cevolotto, seguendo le suggestioni di quel generale, si era intanto procacciato la presidenza della futura L.A.I. alla quale poi avrebbe rinunciato.

Io non ho rinunciato a niente, perché niente mi è stato offerto.

Ma dico anche questo: che in tempo non sospetto, parlando con molte persone che possono essere testimoni quando si voglia (è per questo che esigo l’inchiesta parlamentare) io ho dichiarato che quando avessi lasciato il posto di Ministro, seguendo il buon costume antico, avrei ripreso la mia libera professione e non avrei accettato incarichi di nessuna specie.

Io ho il diritto di proclamare calunniose queste volgari diffamazioni che si fanno a scopo scandalistico, e non so come vi sia una stampa che cerca di fomentare un tale scandalismo fuori di posto. (Applausi).

Ma ho il diritto anche di chiedere in questa sede che mi si dia modo, attraverso un’inchiesta parlamentare, di smascherare i volgari calunniatori. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Cingolani. Ne ha facoltà.

CINGOLANI. Onorevoli colleghi, per quanto mi riguarda, mi limito a ricordare alla Camera che io il giorno 24 scorso ho pronunciato un modesto ma appassionato discorso per l’aeronautica. Ad un certo momento ho nominato l’Ala Littoria, oggi Ala Italiana, e ho detto precisamente così: «Per parlare dell’Ala Italiana dovrei troppo soffermarmi e occupare l’attenzione degli onorevoli colleghi. Ma siccome è stata da tempo presentata un’interpellanza in proposito dall’onorevole Finocchiaro Aprile, prego la cortesia dell’onorevole Finocchiaro Aprile di farsi parte diligente per far porre all’ordine del giorno della prossima discussione la sua interpellanza.

Si alzò a parlare l’onorevole Finocchiaro Aprile promettendo che si sarebbe fatto appunto parte diligente.

Che cosa è accaduto a tre giorni di distanza? L’onorevole Finocchiaro Aprile già da due mesi aveva presentato un’interpellanza, senza farsi mai parte diligente per farla fissare all’ordine del giorno. L’aveva però sbandierata in pubblici comizi a scopo di sobillamento di alcune masse non organizzate della Federazione della gente dell’aria, la quale invece è stata sempre lealmente a contatto con tutti i Ministri. L’attuale segretario generale ingegnere Simonetti si è dichiarato estraneo completamente a questo movimento.

Ebbene, a Roma questo movimento non organizzato ebbe la sua espressione in un certo comizio tenuto il 26 gennaio di questo anno al cinema Moderno, e nel quale fu votato un ordine del giorno che dice fra l’altro:

«Vista l’interpellanza presentata all’Assemblea Costituente dall’onorevole Finocchiaro Aprile che rispecchia fedelmente, ecc., delibera, ecc.».

Sicché è dimostrata una collusione tra l’onorevole Finocchiaro Aprile e gli agitatori di questo gruppo di agitati e sobillati, al di fuori della organizzazione della gente dell’aria, che per le vie normali e con contatti diretti ha sempre difeso strenuamente la causa dei piloti civili e comunque della «gente dell’aria» rimasta disoccupata a causa degli eventi bellici.

Io ero pronto da tempo a rispondere. Oggi se l’interpellanza venisse presentata toccherà all’attuale Ministro della difesa di mettere le cose a posto. Ma io voglio denunziare qui il malcostume di far formulare dalla stampa queste vaghe calunniose accuse, in spregio alla funzione e responsabilità parlamentare.

Qui, nell’Aula, c’era tutta la possibilità di parlare a fondo di questa società con capitale statale di 90.000.000, che è costata allo Stato fior di milioni, che è stata regolarmente messa in liquidazione perché costava all’erario nella attuale posizione di completa inattività circa 100 milioni l’anno di perdita e che consente, a conti fatti, fino al marzo 1947, a liquidazione compiuta, una previsione di spesa di oltre 546 milioni.

E non si tratta di migliaia di disoccupati.

Questi erano 934 tra dirigenti, naviganti, impiegati, operai, di cui 377 all’estero. Tutti sarebbero stati assorbiti. Dovevano seguire la disciplina della organizzazione nazionale che hanno seguito le maestranze specializzate della Federazione nazionale della gente dell’aria, le cui trattative con le società civili avvengono in continuazione per formare la graduatoria ispirata alle capacità e ai bisogni dei civili rimasti disoccupati. Questa è la via maestra da seguire.

Se è vero che è stata presentata una denunzia al Procuratore della Repubblica, io ne sarò lietissimo, perché anche fuori di qui sento di poter difendere tutto quello che ho fatto con rettitudine di coscienza, e difendere anche la purezza di intenzioni di tutti coloro che hanno seduto al seggio di Ministri per l’aeronautica.

Chiedo alla Presidenza della Camera che se venisse da parte del Procuratore della Repubblica la domanda di autorizzazione a procedere, ne fosse accelerato l’accoglimento. Sono il primo a chiederlo, e vedremo, qui e fuori di qui, come risplenderà l’onore altissimo dell’ala italiana. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Fuschini ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

FUSCHINI. Sono lieto di aver provocato le dichiarazioni del Ministro della difesa e sono lieto che l’Assemblea abbia sentito le difese di due egregi galantuomini che siedono nella nostra Assemblea e che le danno prestigio.

Ormai vogliamo dire alto e franco a tutti gli italiani che noi che siamo qui dentro non abbiamo paura né di denunzie, né di inchieste parlamentari, perché possiamo tener alta la testa, perché agiamo per la difesa e per gli interessi del Paese e non nell’interesse di alcuna parte o di alcuna persona. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Stefano Riccio ha presentato, unitamente alla onorevole Guidi Angela, la seguente interrogazione:

«Al Governo, per conoscere se, oltre le Camere di lavoro, può ogni libera associazione raccogliere domande di emigrazione e trasmetterle direttamente all’Ufficio del lavoro; e se è soltanto l’Ufficio del lavoro che decide sulle domande con esame comparativo».

Sullo stesso argomento, l’onorevole Bonomi Paolo ha presentato la seguente interrogazione:

«Al Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per sapere le ragioni in base alle quali e stata concessa agli Uffici provinciali del lavoro e alle Camere del lavoro l’esclusiva per la raccolta delle domande di coloro che desiderano emigrare in Argentina.

«Se è vero che lo Stato ha il diritto e il dovere di vigilare e intervenire contro gli speculatori privati, non può negare agli Enti e alle Associazioni che diano garanzia di serietà e capacità di raccogliere le iscrizioni di quanti vogliono emigrare per trasmetterle agli Uffici provinciali del lavoro.

«Rilevo ad esempio che non può negarsi il diritto di reclutare gli emigranti tra le categorie agricole alla Confederazione nazionale coltivatori diretti».

Sulle due interrogazioni è stato chiesto lo svolgimento d’urgenza.

Chiedo al Governo se intende rispondere.

ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. La circolare a mia firma, che è stata chiamata in causa, mi pareva e mi pare non dovesse dar luogo a preoccupazioni.

Io pensavo e penso che gli Uffici di collocamento, gli Uffici provinciali del lavoro fossero gli organi più sicuri e più adatti per garantire che l’emigrazione avverrà nell’interesse di tutti, al disopra dei partiti, al disopra di ogni interesse di parte.

Io mi ero preoccupato di stroncare immediatamente certe iniziative private, che avevano scopo speculativo e che potevano disturbare gli accordi presi colla Delegazione argentina.

Ma pareva e mi pare che, pur estendendo l’incarico alle Camere del lavoro, che devono fare capo agli Uffici del lavoro, i quali sono organi dello Stato, non creavo nessun privilegio. Le Camere del lavoro rappresentano tutto il movimento sindacale italiano ed i Partiti, ed in particolare i tre Partiti; io perciò credevo e credo che ci diano sufficiente garanzia di agire nell’interesse dei lavoratori emigranti.

Ad ogni modo, siccome ho il dovere di preoccuparmi anche di eventuali divergenze, ho il dovere di tranquillizzare tutti che, finché sarò al Ministero del lavoro, sarò al disopra dei partiti, e nel caso specifico curando soltanto l’interesse del buon nome italiano, attuando una oculata e saggia scelta di correnti emigratorie.

Io sono pronto a discutere cogli onorevoli interroganti in seno ad una Commissione che formerò con loro, con i rappresentanti della Camera del lavoro e con gli Uffici del lavoro per avere la garanzia che all’estero andranno emigranti che terranno alto l’onore italiano. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Riccio ha facolta di dichiarare se sia sodisfatto.

RICCIO. Non posso dichiararmi sodisfatto delle dichiarazioni del Ministro per ragioni di ordine giuridico e di ordine pratico.

La ragione di ordine giuridico ha due aspetti.

Primo aspetto: siamo ancora e speriamo di continuare ad esserlo, in regime di libertà sindacale. La unità sindacale, realizzata nella Confederazione del lavoro non ha annullata la libertà di associazione. Oltre le Camere del lavoro esistono altre associazioni di lavoratori che pure hanno organi di assistenza. (Approvazioni al centro e a destra – Commenti – Rumori).

DI VITTORIO. Quali sono?

RICCIO. Sono l’Associazione cattolica lavoratori italiani (A.C.L.I.) e la Gioventù italiana operaia cattolica (G.I.O.C.). Sono due organizzazioni che esistono ed hanno il diritto a veder tutelata la loro libertà e possono e devono assistere i loro associati. I diritti di queste associazioni non possono essere conculcati. Come per le Camere del lavoro, così per queste organizzazioni, come anche per la Confederazione dei coltivatori diretti (Interruzioni), vanno riconosciute uguali facoltà per la tutela e l’assistenza dei loro organizzati.

Secondo argomento: l’emigrazione non è materia sindacale, assolutamente. (Interruzioni a sinistra).

Per quest’altra via, credo non si debba e non si possa sostenere il monopolio delle Camere del lavoro. (Interruzioni a sinistra). In molti paesi non vi sono le Camere di lavoro…

DI VITTORIO. Non è vero.

RICCIO. …ma vi sono delle libere associazioni di lavoratori. E queste libere associazioni di lavoratori hanno il diritto di inoltrare agli Uffici di lavoro delle domande e di vederle esaminate con gli stessi criteri, con cui sono esaminate quelle inoltrate dalle Camere del lavoro.

Sono d’accordo col Ministro che deve essere l’Ufficio del lavoro a decidere, perché esso rappresenta lo Stato; e lo Stato può e deve intervenire per garantire la realizzazione del diritto al lavoro, anche quando il cittadino è costretto ad andare fuori. Ma non posso essere d’accordo col Ministro, quando si dà il monopolio alle Camere del lavoro di inoltrare queste domande. Chiedo quindi che il Ministro rettifichi subito il comunicato che ha fatto e che sia dichiarato espressamente che anche le A.C.L.I., la G.I.O.C. ed i Coltivatori diretti possono inoltrare le domande stesse. (Applausi al centro e a destra – Rumori a sinistra).

PRESIDENTE: L’onorevole Bonomi Paolo ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

BONOMI PAOLO. Prendo atto delle precise dichiarazioni del Ministro del lavoro, e lo ringrazio per la promessa che ha fatto di chiamare anche le altre organizzazioni per stabilire e studiare il modo migliore per avviare l’emigrazione.

DI VITTORIO. Tutti i lavoratori fanno capo alla Confederazione generale del lavoro, che è unitaria.

PRESIDENTE. Onorevole Di Vittorio, almeno in fine di seduta, la prego di non interrompere.

BONOMI PAOLO. Credo che tutti abbiamo il dovere di stroncare la speculazione che ne possono fare i privati, ma credo altrettanto che tutti noi dobbiamo essere convinti di una cosa: che se la libertà c’è, deve essere una libertà per tutti. Io mi rivolgo agli amici sindacalisti della Confederazione del lavoro e della Confederterra, per chiedere loro: È vero che dei piccoli affittuari, è vero che dei piccoli proprietari, in special modo delle nostre montagne, che oggi non vivono, perché in quelle valli c’è la fame, chiedono di emigrare? Ma non è altrettanto vero, amici e compagni della Confederterra, che questi piccoli proprietari militano e nelle nostre file e nelle file dei Coltivatori diretti? Conseguenza logica è che noi, come organizzatori sindacali, non solo abbiamo il diritto, ma il dovere di aiutarli, di assecondarli nel fare le pratiche, per potere domani mandar fuori della gente specializzata anche nel lavoro dei campi, che faccia onore e mandi ricchezza alla madre Patria. (Applausi al centro e a destra).

PRESIDENTE. È stata presentata, con richiesta di svolgimento d’urgenza, dagli onorevoli Cifaldi e Lucifero la seguente interrogazione:

«Chiedono d’interrogare gli onorevoli Ministri dell’interno e dei trasporti, per conoscere che cosa ci sia di vero sui fatti pubblicati da qualche giornale circa il trasporto di ordigni di guerra e di materiale esplosivo fatto da privati su strada rotabile e per ferrovia e per conoscere quali provvedimenti intendano nel caso adottare per identificare e punire i colpevoli e prevenire l’eventuale ripetersi di fatti simili».

Chiedo all’onorevole Ministro dell’interno se intende rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Nei giorni scorsi i giornali hanno pubblicato che sulla rotabile Ancona-Rimini sono stati fermati dei carri che trasportavano ordigni di guerra. Dalle indagini, prontamente esperite in materia, è risultato che si trattava di rottami bellici, di carri armati senza motore o senza ruote venduti dall’A.R.A.R. ad una ditta che aveva un permesso regolamentare rilasciato. Non si trattava quindi di ordigni di guerra. Il carro era stato fermato perché l’autorizzazione non era in possesso dell’autista. A Bologna, dove le indagini furono esperite, risultò, perché poté essere presentato, che vi era il regolare permesso. Quindi la notizia, per quanto riguarda almeno il fermo esperito sulla rotabile, non ha nessuna consistenza. Per quanto si riferisce a trasporti su ferrovie, non sono in grado di dare nessuna precisazione, poiché questo riguarda il Ministro dei trasporti.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro dei trasporti. Ne ha facoltà.

FERRARI, Ministro dei trasporti. Non posso rispondere in questo momento, perché manco dei dati necessari. Potrò rispondere domani.

PRESIDENTE. L’onorevole Cifaldi ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CIFALDI. Non posso dichiararmi sodisfatto di quanto ha detto il Ministro dell’interno circa la seconda parte dell’interrogazione. Per quanto si riferisce al trasporto degli ordigni bellici e carri armati nel tratto Ancora-Rimini mi dichiaro sodisfatto delle precisazioni che lo stesso onorevole Ministro ha voluto favorire all’Assemblea; ma per il secondo episodio io credo che egli poteva e doveva essere in condizione di dare maggiori chiarimenti.

Infatti, il trasporto di dieci quintali di esplosivo, come ha riportato la stampa quotidiana, non riguarda soltanto il Ministro dei trasporti, come l’onorevole Ministro dell’interno ha dichiarato di ritenere, ma riguarda principalmente e precipuamente il Ministro dell’interno. E siccome questo è un fatto accaduto da qualche giorno, sarebbe stato possibile sperare che al Ministro dell’interno, per quello che riflette la tranquillità e la sicurezza pubblica, l’episodio fosse conosciuto.

Comunque, prego l’onorevole Ministro dell’interno di voler dare domani, insieme all’onorevole Ministro dei trasporti, delle spiegazioni, riservandomi di interloquire ancora sull’argomento.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Montalbano e Li Causi hanno presentato, chiedendo lo svolgimento d’urgenza, la seguente interrogazione:

«Ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per conoscere quali provvedimenti intendano adottare contro il Capo dell’Ispettorato di pubblica sicurezza della Sicilia, dottor Messana, colpevole di non avere osservato per l’assassinio del ragioniere Miraglia da Sciacca, l’articolo 219 del Codice di procedura penale, il quale gli faceva obbligo di «assicurarne le prove, ricercare i colpevoli e raccogliere quant’altro potesse servire all’applicazione della legge penale».

«Invero l’ispettore Messana condusse in quella occasione indagini deliberatamente molto affrettate, allo scopo di rendere impossibile la scoperta della verità e l’attuazione della giustizia».

L’onorevole Ministro dell’interno ha chiesto di rispondere. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Per quanto mi risulta, sono stati arrestati i responsabili dell’assassinio del segretario della Camera confederale del lavoro di Sciacca. Ritengo che con questo l’autorità di pubblica sicurezza abbia compiuto il proprio dovere. Sulle prove della responsabilità degli arrestati, non ho dati ed elementi da poter fornire immediatamente agli onorevoli interroganti; quindi mi riservo di richiedere precisazioni e di fornirle in una successiva seduta.

TOGLIATTI. È un reato o no, uccidere un comunista?

SCELBA, Ministro dell’interno. Certamente, sì.

TOGLIATTI. E allora perché li avete rilasciati? (Rumori – Commenti).

SCELBA, Ministro dell’interno. Apprendo in questo momento che gli arrestati per l’assassinio del segretario della Camera confederale sono stati rilasciati. Evidentemente, non è stata la polizia a rilasciare gli imputati, perché, essendo stati questi deferiti all’Autorità giudiziaria, ad essa sola spettava di decidere in materia. Questa non può quindi essere materia di competenza del Ministero dell’interno. (Applausi al centro – Rumori a sinistra).

Una voce a sinistra. Questo è vergognoso!

Una voce al centro. Domandatelo a Gullo! (Commenti – Rumori).

SCELBA, Ministro dell’interno. Ho risposto per la parte che riguarda il Ministero dell’interno. Ripeto che io non posso entrare in una materia che è di competenza di altri Ministri.

Spetterà al collega Gullo, Ministro della giustizia, di fornire le delucidazioni che vengono chieste in merito al rilascio degli imputati.

PRESIDENTE. L’interrogazione è stata rivolta anche al Ministro della giustizia, il quale, se crede, ha facoltà di rispondere.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Non posso in questo momento fornire alcun chiarimento, perché ho chiesto gli elementi e, appena questi mi perverranno, sarò in condizione di rispondere agli onorevoli interroganti.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole interrogante se sia sodisfatto.

LI CAUSI. Mi permetto di richiamare l’attenzione di questa Assemblea su questo scandaloso fatto che abbiamo denunziato.

Il Miraglia è stato assassinato; ebbene, l’ispettore generale di pubblica sicurezza, dottor Messana, anziché prendere tutte le precauzioni perché gli indiziati fossero arrestati, ha proceduto in modo che fossero presi coloro che era certo, certissimo –come la Commissione nostra d’inchiesta ha potuto constatare – che dopo qualche giorno sarebbero stati messi fuori.

Si tratta di una cosa seria! C’è un morto e si sa, in Sicilia, chi sono coloro che l’hanno ucciso. Ebbene, è stato detto al commendatore Messana: «Badi che il raggio d’azione non è qui soltanto. Il raggio di azione si estende». Ora, se c’è a volte qualche indizio che delitti sono commessi da disgraziati, da lavoratori, da quelli che si chiamano banditi, e sono banditi sul serio, allora li trovate i mezzi per acciuffarli, allora fate le retate. Ma quando si tratta di «galantuomini», di grandi proprietari, allora «bisognaandar, cauti».

Debbo qui dire una cosa che ha molta importanza. Quando una notte, in provincia di Agrigento, si diffuse la voce dell’assassinio del Miraglia, i contadini sui camions erano disposti a fare una «jacquerie» contro i proprietari, e siamo stati noi ad impedirlo. (Applausi al centro). No, (Accenna al centro), non applaudite. Tanto sangue di operai e di organizzatori in Sicilia è stato versato, e i delitti rimangono impuniti, ed impunito è rimasto l’assassinio del segretario della Camera del lavoro di Baucina, compagno nostro. Era indiziato l’avvocato Varisco, di cui tutti conoscono i precedenti penali: ebbene, perché lo si arrestasse, è dovuta intervenire l’autorità di Palermo, perché il maresciallo del luogo non ne voleva sapere niente. Eppure tanti del posto avevano tutte le indicazioni. Naturalmente anche egli à stato assolto in istruttoria.

È un metodo che non può continuare, credetelo. C’è chi se ne lava le mani, dicendo: La polizia ha denunziato alla magistratura, la magistratura ha assolto, dunque tutto va per il meglio. E gli assassini dei nostri compagni rimangono impuniti.

Questa volta, per nostra volontà, per il nostro senso di responsabilità è stata impedita una «jacquerie». Siete voi disposti ad avallare questo stato di cose tremendo, che mai nessun assassino di nostri compagni venga preso dalla polizia? Ve lo dico con quel senso di profonda amarezza e di umanità che è in me e per la responsabilità che sento, essendo io un po’ il dirigente dei lavoratori in Sicilia. Badate, qui si fa presto, in un momento di retorica, a dire: la nostra Sicilia. Attenti! Prego di considerare la questione, anche perché gli attuali dirigenti della magistratura, della polizia, dei carabinieri, che sanno tutto del passato, di quello che è avvenuto dal 1943 ad oggi, conoscono i misfatti di tutti, compresi gli uomini politici. Ma come volete che si muovano in quell’ambiente in cui si esercitano le pressioni, dove l’autorità stenta a farsi strada, in quanto da mille parti si impedisce che questa gente possa seguire l’impulso della propria coscienza? E le autorità qui al centro sono informate, perché esse ricevono i rapporti dei carabinieri, dei questori, dello stesso Ispettorato di pubblica sicurezza, e sanno di questi intrighi, complicità, compromissioni che legano le mani anche a coloro che dovrebbero fare il loro dovere.

Prego dunque ancora una volta il Ministro Gullo che appuri il modo come è avvenuta questa scarcerazione, ed il Ministro dell’interno perché dall’ispettore Messana si faccia dare tutti gli elementi attraverso cui ha proceduto alla individuazione ed all’arresto di questi indiziati. I lavoratori siciliani hanno detto il loro «basta» contro questi sistemi, e se la magistratura, la polizia, il Governo, non vengono incontro a questi legittimi desideri dei siciliani, noi, un’altra volta, non potremo trattenerli e si avrà quello che vorremmo evitare. (Vivi applausi a sinistra – Commenti).

PRESIDENTE. L’onorevole Candela ha presentato la seguente interrogazione:

«Al Ministro dell’interno e all’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per conoscere perché da cinque mesi (1° ottobre 1946) i dispensari antitracomatosi pubblici e scolastici della provincia di Messina sono chiusi; se non ritiene opportuno farli riaprire con ogni sollecitudine, dato il carattere endemico ed anche epidemico del tracoma in quella provincia».

Di essa viene chiesta la discussione di urgenza.

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Risponderò nella prossima seduta.

PRESIDENTE. È pervenuta, da parte dell’onorevole Volpe, con richiesta di svolgimento urgente, la seguente interrogazione:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere i motivi dell’esclusione degli insegnanti orfani di Caduti nella prima guerra mondiale dal beneficio di preferenza nelle supplenze di cui usufruiscono gli insegnanti orfani dell’ultima guerra; e per chiedere provvedimenti di riparazione a questo stato di stridente ingiustizia».

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà nella prossima seduta.

Sostituzione di Commissari.

PRESIDENTE. Comunico che gli onorevoli Cevolotto e Lucifero hanno chiesto di essere sostituiti nella Commissione per il caso Parri-Finocchiaro Aprile.

Ho chiamato, pertanto, a far parte della Commissione, in loro vece, gli onorevoli Bassano e Crispo.

Sull’ordine del giorno.

PRESIDENTE. Bisognerebbe passare all’esame della questione relativa ai poteri e ai compiti della Commissione nominata dalla Presidenza in base alla risoluzione Natoli approvata dall’Assemblea. Stante l’ora tarda, e di intesa con il Presidente della Commissione, ritengo opportuno di rinviare alla prossima seduta le decisioni sull’argomento. Io penso che la questione si potrà trattare nella prossima seduta mattutina.

RUBILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Data l’ora tarda e data l’importanza della questione, ad evitare che si ripeta ciò che di già avvenne altra volta quando, con una approvazione affrettata della proposta Natoli si determinò una situazione per cui sono sorti da ogni parte seri e numerosi dubbi d’interpretazione, penso anch’io sia bene rinviare.

PRESIDENTE. Le sedute si riprenderanno martedì 4 marzo alle 15, per dare inizio all’esame del progetto di Costituzione. Poiché è mio desiderio che, da allora, tutte le sedute pomeridiane siano dedicate integralmente all’esame del progetto di Costituzione, fisseremo, per ogni altro lavoro, delle sedute mattutine. Pertanto, sia l’esame della questione alla quale abbiamo fatto cenno, sia lo svolgimento delle interrogazioni delle quali i Ministri hanno chiesto il rinvio, avranno luogo nella prossima seduta mattutina, che avrà luogo presumibilmente mercoledì 5 marzo.

RUBILLI. Vorrei pregare se fosse possibile fissare la seduta mattutina a giovedì prossimo 6 marzo.

PRESIDENTE. Onorevole Rubilli, se la Commissione farà una richiesta in tal senso – e dovrà concertarsi al riguardo – penso che non vi sarà nulla da opporre. Se questa richiesta non vi sarà, resta inteso che l’argomento sarà affrontato nella prima seduta mattutina, che sarà tenuta quasi certamente mercoledì prossimo.

RUBILLI. Mi riservo di formulare una proposta dopo avere interpellato la Commissione.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle altre interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge.

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro guardasigilli, per conoscere per quale ragione non è stata avocata all’autorità giudiziaria l’istruzione del procedimento penale per il rinvenimento di armi al Verano di Roma, mentre le indagini, come dalla stampa quotidiana, sono, ancora oggi, affidate all’Arma dei carabinieri.

«Cifaldi, Lucifero».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se non ritenga opportuno trattenere, anche in qualità di giornalieri, fino a quando non verrà loro liquidata la pensione quei sottufficiali che all’età di 55 anni vengono collocati a riposo.

«Ciò per risparmiare a questi benemeriti servitori dello Stato, e alle loro famiglie, la miseria che nella lunga attesa li attanaglia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lucifero».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se non ritenga opportuno provvedere alla istituzione di un’altra coppia di treni diretti fra Reggio Calabria e Roma, evitando così l’eccessivo e pericoloso affollamento, che si verifica sui treni, già in funzione, e che non riescono a smaltire l’intenso traffico dei viaggiatori del Mezzogiorno e della Sicilia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Priolo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per ovviare allo stato di preoccupazione e di agitazione, che già si delinea, in rapporto all’applicazione rigorosa della legge 1936, che determina le zone di rispetto a favore delle tonnare, nei confronti della pesca con fonti luminose (lampare). Data la contiguità delle tonnare, determinatasi in seguito all’aumento degli impianti, in alcuni tratti della costa, l’osservanza rigorosa della suddetta norma equivarrebbe alla completa cessazione della pesca con fonti luminose durante tutti i mesi di attività delle tonnare stesse, con conseguenze gravissime per l’economia è l’alimentazione nazionale, e con conseguente disoccupazione di migliaia di pescatori e di maestranze delle industrie sussidiarie, specialmente nella stagione in cui i pescatori traggono i loro mezzi di vita per tutta l’annata. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Borsellino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per sapere se – attuando le promesse più volte ripetute – intenda di abrogare la ingiusta disposizione che, nella liquidazione degli stipendi arretrati, preclude ai reduci dalla prigionia quegli aumenti successivi al 1944, che sono stati invece riconosciuti a quanti sono rimasti in territorio nazionale, anche se hanno appartenuto alle forze armate della repubblica sociale o sono stati assoggettati a giudizio di epurazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Vigorelli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se non intende:

1°) rinnovare almeno per il successivo triennio le concessioni di tabacco di minore entità (18-20 ettari) nella Regione Salentina, improvvisamente e con poco criterio d’opportunità revocate dalla Direzione generale del monopolio, con il solo risultato di impoverire l’unica industria ivi fiorente e privare del lavoro una numerosa categoria di lavoratori;

2°) revocare il provvedimento di soppressione dell’Istituto sperimentale di tabacchicoltura di Lecce e Scafati, quando essi comuni sono le sedi naturali di un tale Ente, all’incremento del quale i soli agricoltori della provincia di Lecce contribuiscono con somme di gran lunga maggiori;

3°) sollecitare l’invio alle provincie della Regione Salentina dei concimi atti al miglioramento dei terreni adibiti alla coltivazione del tabacco. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cicerone».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quali provvedimenti intenda prendere nei confronti dell’Istituto bacologico calabrese, ritenendosi utile la sua permanenza ed il suo rafforzamento, per il potenziamento della produzione serica in Calabria ed in Italia meridionale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Capua».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere quale esito abbia avuto l’esposto presentato al Presidente del Consiglio, in data 28 dicembre 1946, da parte di 60 famiglie di detenuti politici della Venezia Giulia, i quali, oltre a non aver usufruito dell’amnistia che non è stata estesa alla zona A, trovansi nelle carceri di Pola, e altrove, uniti a reclusi per incidenti politici verificatisi negli ultimi mesi, in completo abbandono, e per lo più a disposizione delle Autorità slave subentrate.

«Poiché risulta che alcuni prelievi siano già avvenuti per sottoporre gli imputati a procedimento giudiziario secondo le leggi jugoslave, si richiede con urgenza un provvedimento che riaffermi la piena giurisdizione delle autorità italiane su tali detenuti, e predisponga l’immediata traduzione di quanti cittadini italiani si trovino ora per qualsiasi motivo associati a carceri, rimaste in territorio non più appartenente alla Madre Patria. (Gl’interroganti chiedono la risposta scritta).

«Rodinò Mario, Cicerone, Ruoti, Coppa Ezio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali urgenti provvedimenti intenda prendere per salvaguardare l’incolumità fisica degli agrari dei comuni di Quistello, Magnacavallo e Moglia (provincia di Mantova), continuamente sottoposti a vessazioni, imposizioni e rappresaglie da parte delle locali Federterra e Camera del lavoro, con mezzi e misure di violenza contrari ad ogni norma di diritto e libertà democratica e nella maggior parte dei casi assolutamente arbitrari e avversi alle disposizioni emanate dagli organi centrali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Maffioli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere perché non siasi ancora provveduto al nuovo ordinamento dell’Amministrazione forestale previsto dal decreto legislativo 6 dicembre 1943, n. 16-B, quando la continua disorganizzazione dei servizi forestali ha recato gravissimi danni alla conservazione e alla tutela dei boschi, alla ricostituzione della montagna italiana, e prodotto inoltre dissensi e ripercussioni nella compagine disciplinare del personale.

«In attesa dell’emanazione del provvedimento legislativo per la riorganizzazione del Corpo, si chiede pertanto che venga provveduto con urgenza:

1°) alla nomina del Capo del Corpo forestale, scelto fra gli ufficiali in servizio permanente effettivo del Corpo stesso, o tra persone particolarmente versate nei problemi della selvicoltura e dell’economia montana, in luogo delle due attuali discordi direzioni;

2°) alla preposizione all’Ufficio di capo della V divisione di elemento coscienzioso e capace di risolvere con opportunità e criterio gli inconvenienti esistenti;

3°) ad effettuare infine le promozioni, come in tutte le altre Amministrazioni civili o militari dello Stato, che vennero sospese fin dal 1943 a causa della mancata emanazione del suddetto provvedimento, e per le quali un ulteriore ritardo non sarebbe giustificato esistendo nel ruolo numerose vacanze che, per legge, devono essere coperte dal personale in servizio permanente effettivo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Capua».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei trasporti e delle finanze e tesoro, per sapere se non intendano al più presto presentare al Consiglio dei Ministri un decreto che estenda agli ex agenti delle Ferrovie dello Stato, esonerati in data anteriore all’avvento del fascismo, i beneficî previsti dal regio decreto-legge 6 gennaio 1944, n. 9. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lozza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della pubblica istruzione e delle finanze e tesoro, per sapere quali urgenti provvedimenti intendano prendere a favore degli insegnanti medi, di ruolo e non di ruolo, che hanno testé presentato, attraverso il Sindacato scuole, una serie di giuste rivendicazioni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lozza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei trasporti e di grazia e giustizia, per conoscere se e quali responsabilità sono emerse in riferimento al luttuoso incidente ferroviario verificatosi sul tratto Roma-Napoli e nel quale ebbe anche a verificarsi la morte dell’onorevole Battisti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cifaldi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per sapere – considerato che all’Unione provinciale contadini di Trento aderiscono come soci molti piccoli proprietari fittavoli e mezzadri, che non possono vivere del reddito dell’azienda agricola; considerato che tale situazione induce molti dei suddetti contadini ad emigrare – se non creda conveniente che la suddetta Unione possa collaborare coll’Ufficio del lavoro per regolare una razionale emigrazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Carbonari».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.40.

Ordine del giorno per la seduta di martedì, 4 marzo.

Alle ore 15:

Esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

MERCOLEDÌ 26 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XLVII.

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 26 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Sul processo verbale:

Parri                                                                                                                 

Finocchiaro Aprile                                                                                         

Aldisio, Ministro della marina mercantile                                                           

Gallo                                                                                                               

Caporali                                                                                                           

Taviani                                                                                                             

Condorelli                                                                                                      

Carboni                                                                                                            

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Svolgimento):

Carpano Maglioli, Sottosegretario di Stato per l’interno                                   

Bellavista                                                                                                       

Massini                                                                                                             

Mozione (Svolgimento):

La Malfa                                                                                                          

Ambrosini                                                                                                         

Bellavista                                                                                                       

Caronia                                                                                                            

Codignola                                                                                                        

Vigo                                                                                                                  

Finocchiaro Aprile                                                                                         

Musotto                                                                                                           

Presidente                                                                                                        

Sui poteri di una Commissione:

Rubilli                                                                                                              

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Romita, Ministro del lavoro e della previdenza sociale                                        

Pella, Sottosegretario di Stato per le finanze                                                       

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.30.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.

PARRI. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PARRI. Prego la Camera di volere scusare se sono obbligato a prendere la parola per fatto personale: ne sono mortificatissimo, come tutti siamo umiliati che, in un momento così serio per il Paese, si debba perdere il tempo per simili questioni. Ma l’offesa che mi è stata recata è troppo grave, perché io non debba chiedere il giudizio della Camera su di essa e non debba chiedere una riparazione.

Le ingiurie che mi sono state rivolte ieri, e non per la prima volta, da parte del signor Finocchiaro Aprile, che mi rincresce non sia ora presente, derivano da un provvedimento, che presi quando ero Capo del Governo, relativamente al suo invio al confino di Ponza. Fornisco i precedenti perché la Camera possa giudicare.

Il movimento separatista siciliano, del quale l’onorevole Finocchiaro Aprile è a capo, dopo varî atteggiamenti anteriori, aveva sviluppato nel 1945 un’azione internazionale intesa ad ottenere l’appoggio delle grandi Potenze per raggiungere la separazione della Sicilia dallo Stato. E già, a questo scopo, nel marzo, il movimento separatista aveva inviato un memorandum in tal senso alla Conferenza di San Francisco. È vero che i rapporti che tale movimento vantava con le potenze alleate si sono rivelati poi una vendita di fumo; ciò non toglie però che essi fossero preoccupanti, per ragioni ovvie, sulle quali non ho bisogno di insistere, data la situazione del 1945, con la occupazione alleata e con un armistizio pesante che, a parte le cortesie formali e gli aiuti materiali, veniva soprattutto interpretato con senso fiscale dagli Alleati stessi, almeno negli aspetti maggiori. Quando andò a Londra l’allora Ministro degli esteri, onorevole De Gasperi, il movimento separatista siciliano inviò alla Conferenza di Londra un altro memorandum con il quale chiedeva l’appoggio delle potenze alleate per ottenere l’erezione della Sicilia in stato sovrano ed indipendente. Sono parole loro, parole sottoscritte dal Finocchiaro e da molti altri elementi, alle quali evidentemente si poteva dare maggiore o minore intrinseca importanza, ma che, in quel momento, costituivano per il Governo un grave imbarazzo ed una ragione di preoccupazione.

Evidentemente, il punto di vista del Governo italiano di fronte a questa situazione non poteva essere quello del Capo del separatismo siciliano: il Governo italiano considerava la Sicilia come parte integrante dello Stato italiano. Dall’altra parte, in quei documenti si diceva invece che i separatisti siciliani non avrebbero esitato, occorrendo, ad impugnare le armi contro l’Italia.

Qui tralascio una infinità di particolari per non farmi richiamare dall’onorevole Presidente alla necessaria brevità; particolari sulla intollerabile truculenza provocatoria usata da questa gente nei riguardi del Governo italiano e dei suoi organi locali. Parimenti intollerabile era il complottar sotterraneo con alcuni elementi alleati.

Ad aggravare la situazione si era verificato il ritorno ad una fase insurrezionale armata, nel senso che, da parte di elementi legati visibilmente a quella gente, si tornava ad occuparsi di organizzazione di squadre armate.

A colmare la misura intervenne, infine, una campagna di propaganda del movimento separatista, intesa a far credere che la causa della indipendenza siciliana avrebbe potuto ottenere l’appoggio degli alleati occupanti. Questa propaganda approfittava di alcune apparenze, e tra l’altro della presenza di molti siculo-americani nei comandi e negli uffici alleati di allora in Sicilia. Si trattava ancora una volta di vendita di fumo, tanto che devo dire per la verità che non trovai alcuna difficoltà ad ottenere dalle autorità alleate il trasferimento di un alto ufficiale che si era alquanto incautamente compromesso. Ciononostante, la situazione che questa campagna di propaganda veniva a creare era veramente grave e poteva diventar pericolosa, dato lo stato d’animo di allora nella opinione pubblica siciliana, facilmente suggestionabile, che poteva essere tratta a fare il raffronto fra l’Italia povera e impotente e la ricca America.

Io domando a voi, rappresentanti del popolo italiano qui presenti, se poteva essere permesso, in un momento così delicato, in cui primo dovere della Nazione era quello di tutelare la propria indipendenza, da riguadagnare a passo a passo; in cui il primo bene da difendere era la dignità del Paese; domando se poteva essere tollerato impunemente che l’opinione pubblica italiana fosse indotta a credere seriamente che si lasciasse via libera a presunti intrighi alleati per la separazione della Sicilia dalla Patria.

Io non lo potevo tollerare e mi decisi allora, sia pur riluttante, a prendere provvedimenti definitivi: riluttante, perché, basandomi su altre apparenze ed indicazioni, avevo sperato che questo movimento indipendentista potesse evolversi verso una forma legale, potesse rientrare nella legalità della libera propaganda.

Gli esperti legali ai quali mi ero rivolto avevano riscontrato, negli atti del movimento separatista firmati da Finocchiaro Aprile e da altri, più che gli estremi configurati dal Codice penale vigente per il reato di alto tradimento. Avrei, quindi, potuto denunciare il signor Finocchiaro Aprile ed i suoi compagni in sede penale. Devo anzi dire che ricevetti molti consigli di agire in tal senso, perché la situazione sarebbe forse stata più netta, ed io meno esposto a censure.

Non volli farlo. Non me ne attendo gratitudine da coloro che allora furono risparmiati. Non volli farlo per un senso di misura, per un senso di proporzione e per un senso di giustizia. E mi pareva, e mi pare anche adesso, che sarebbe stato un provvedimento eccessivo, che non volli prendere.

Ed allora non mi rimaneva che l’altro provvedimento, spiacevole, ma necessario. Feci mandare al confino l’onorevole Finocchiaro Aprile insieme ad altri due. Una parte delle ingiurie che egli mi rivolge, e mi ha rivolto, si riferisce all’uso di una legge fascista per l’invio al confino. Io non avevo altro mezzo. E le ingiurie che allora mi furono rivolte mi lasciano perfettamente tranquillo e perfettamente sereno.

Io stesso fui vittima di una simile legge fascista, poiché due volte mandato al confino dalla polizia fascista, come due volte andai al tribunale speciale e quattro in galera. Ma so che ben diversa è la stessa legge usata da un regime fascista e da un regime democratico. In regime di dittatura e di oppressione il confino è un’arma di oppressione. In un regime nel quale si può fare propaganda di idee e vi è libertà di organizzazione per tale propaganda, il confino può essere una misura di difesa, io credo, necessaria ed inevitabile nei periodi di transizione da un regime all’altro, quando non si può pretendere che vi sia un capovolgimento completo della psicologia del Paese, in cui occorre per forza tutelare questa situazione transitoria con mezzi di difesa deplorevoli, ma necessari.

Naturalmente, i dirigenti politici devono assumere la responsabilità piena di questi atti, come io la assumo, responsabilità che dà la misura del senso del limite e della coscienza di governo di questi uomini. Né è detto che democratico debba essere obbligatoriamente sinonimo di minchione.

Mi permetta l’onorevole Aldisio, allora Alto Commissario per la Sicilia e che adesso vedo al banco del Governo, di rivelare che non è vero quello che Finocchiaro Aprile sostenne altra volta, almeno secondo quello che riportarono i resoconti dei giornali, non è vero, dicevo, che io sono stato una specie di stupida vittima di Aldisio, perché invece Aldisio in quei frangenti ed in quel momento, di fronte a quella situazione difficile, mi aveva consigliato di procedere gradualmente. Egli mi aveva proposto di procedere ad una preventiva diffida; e fui io che ritenni che si doveva tagliare e troncare netto.

E di questo assumo, come dico, la piena e personale responsabilità. So che ho fatto bene, so che nelle stesse circostanze farei la stessa cosa. So che ha fatto male il Governo successivo liberando troppo presto l’onorevole Finocchiaro Aprile e rinviandolo in Sicilia. (Applausi – Commenti).

E naturalmente comprendo anche quali possono essere i sentimenti di Finocchiaro Aprile nei miei riguardi dopo questa avventura; comprendo il suo naturale rancore. Ed è per questa ragione che, insultato altra volta da lui, non volli rilevare questa provocazione, anche per rispetto della dignità dell’Assemblea. L’Assemblea comprende che se oggi reagisco la responsabilità non è mia, perché ora le offese sono arrivate all’eccesso.

Non raccolgo le ingiurie sue, le quali fanno torto a lui e, venendo da quell’ingiuriatore, fanno onore a me.

Ma egli ha creduto di aggiungere all’ingiuria un oltraggio pubblico, e come è stato pubblico l’oltraggio, pubblica occorre che sia la riparazione.

Egli mi ha dichiarato «venduto alla Banca Commerciale e all’Edison».

Qui devo premettere che io stesso ho sbagliato nel senso che, nell’eccitazione della ritorsione, gli ho rivolto una frase come «venduto agli americani» o qualcosa del genere. Devo dire che nella mia intenzione di ieri, e di oggi, nella parola «venduto» non c’è nessun senso mercantile. Ho inteso dire «venduto» soltanto nel senso politico.

Ma esser venduto ad enti finanziari e industriali ha invece un significato specifico. Significa che io sono stato o sono pagato dalla Banca Commerciale e dalla Edison. E allora sorge netto un dilemma: o il signor Finocchiaro fa dinanzi a voi ritrattazione formale del suo oltraggio, o deve rispondere a me e all’Assemblea di diffamazione.

Se egli è in grado di dare le prove, o semplicemente gli indizi, che io possa esser pagato e legato per stipendio in qualunque forma a due enti commerciali qualunque, io rassegno immediatamente le dimissioni da Deputato.

Bisogna che la situazione sia chiarita e riservo a me libertà d’azione secondo quelle che saranno le spiegazioni che potrà fare il signor Finocchiaro Aprile, lasciando poi l’Assemblea a risolvere il problema che le rimane aperto: se cioè la libertà di parola debba essere anche libertà di vilipendio. (Vivissimi prolungati applausi).

FINOCCHIARO APRILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FINOCCHIARO APRILE. Sono arrivato un po’ tardi e non ho potuto ascoltare le prime parole del signor Parri. Ma ho capito che egli ha mirato a giustificare il provvedimento dell’internamento a Ponza preso contro di me e contro gli indipendentisti siciliani Varvaro e Restuccia.

Questo provvedimento, comunque considerato, è un provvedimento arbitrario e illegittimo. È tale, in quanto si applicò a noi una legge fascista che nemmeno Mussolini aveva avuto il coraggio di applicare mai. (Viva ilarità – Commenti).

Vi prego di ascoltare. Mussolini, all’inizio della guerra, era annoiato di dover rinviare gli antifascisti e gli avversari che non voleva mantenere in circolazione alle commissioni per le assegnazioni al confino, le quali agivano con una qualche apparenza di legittimità. Pensò, così, di passare sopra alle norme e alle disposizioni della legge di pubblica sicurezza in materia di confino di polizia ed istituì l’internamento, cioè il provvedimento per cui il Ministro dell’interno, per la durata della guerra, senza la necessità di alcuna procedura, ed al di fuori dell’intervento di alcuna commissione, poteva procedere con suo semplice decreto e senza veruna possibilità di gravame, alla privazione della libertà delle persone, mediante internamento.

Una voce. Ve n’erano mille a Ventatene.

FINOCCHIARO APRILE. Sì, ma tutti v’erano stati mandati con il normale procedimento dell’assegnazione al confino, previa decisione delle apposite commissioni.

Dunque, il provvedimento dell’internamento era tanto grave, che fu applicato soltanto a sudditi nemici che erano in Italia, e più numerosi i serbi, i croati e i montenegrini. Non fu internato nessun italiano. (Interruzioni – Rumori).

Altro era, dunque, il confino, altro l’internamento: erano due cose diverse sia dal punto di vista procedurale, sia da quello del trattamento, più duro per gli internati. (Interruzione dell’onorevole Lussu – Commenti).

PRESIDENTE. Lascino che l’onorevole Finocchiaro Aprile parli del fascismo così come lo ha conosciuto. (Applausi).

FINOCCHIARO APRILE. Ad ogni modo, il provvedimento del signor Parri fu emesso in applicazione d’una vera legge fascista, abrogata implicitamente con la caduta del fascismo e con l’avvento della democrazia.

Contro quel provvedimento io ed i miei amici ricorremmo al Consiglio di Stato, convinti che il provvedimento fosse da considerarsi, come fu da tutti i giuristi unanimemente considerato, arbitrario. (Interruzione dell’onorevole Lussu – Commenti).

PRESIDENTE. La prego, onorevole Lussu, faccia silenzio; ella non è incaricato del contradittorio.

PREZIOSI. Faceste male; se eravate tutti democratici, non dovevate applicare la legge fascista. (Commenti).

FINOCCHIARO APRILE. Quando il ricorso stava per essere portato in discussione, alla IV Sezione del Consiglio di Stato si manifestarono aperte tendenze a dichiarare l’illegittimità del provvedimento, balzante ictu oculi, e fu convinzione generale che il ricorso sarebbe stato accolto con grave smacco del Governo.

Allora, in pubblica udienza, il rappresentante dell’Avvocatura generale dello Stato, persuaso di non poter sostenere in verun modo la legittimità del provvedimento, chiese il rinvio e propose al Ministero dell’interno, onorevole Romita, e al Governo la revoca dell’ingiusto provvedimento; e ciò avvenne.

Non è, quindi, per generosità di alcuno che io e gli altri due indipendendisti internati fummo lasciati in libertà per volontà del Consiglio di Stato, sia pure senza una formale deliberazione. Ciò onora quell’alto consesso.

Questa è la parte, dirò così, giuridica e giurisdizionale.

Veniamo alla ragione politica che determinò l’illegale, iniquo e fascista provvedimento.

Ho detto altre volte all’Assemblea che noi indipendentisti, sin dal primo momento, sin dal 23 luglio 1943, dichiarammo nel nostro memoriale al generale Alexander essere nostro intendimento che si addivenisse ad una confederazione di Stati italiani. Noi non parlammo mai di distaccare la Sicilia dall’Italia ma… (Rumori).

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Stati mediterranei, non italiani.

FINOCCHIARO APRILE. Lasciatemi dire. La verità è questa che il signor Aldisio fu il primo a spargere la notizia che noi volevamo il distacco della Sicilia dall’Italia e lo volle fare a puro scopo di speculazione elettoralistica. (Rumori – Commenti).

Allo stesso modo, il signor Aldisio proseguì la sua campagna e riuscì a persuadere l’ignaro e credulone signor Parri che noi fossimo dei separatisti.

Dal 23 luglio 1943 in poi, in ogni occasione, in ogni documento internazionale e interno, noi non abbiamo fatto altro che auspicare una grande confederazione di Stati italiani ed eventualmente mediterranei ed europei. (Rumori).

Ora per chiunque abbia coscienza morale e rettitudine politica l’affermare la necessità di una confederazione di Stati italiani, destinata a cementare, a rafforzare l’unità dei popoli di lingua italiana, non può rappresentare un delitto, come lo hanno considerato il signor Aldisio e il signor Parri.

Queste cose, ripeto, le ho sempre dette e continuerò a ripeterle anche in quest’aula. Io le ho dette ripetutamente anche alla seconda Sottocommissione per la Costituzione, come l’onorevole Terracini e altri colleghi possono testimoniare, e non cesserò di dirle, dappertutto, in ogni occasione, perché sono profondamente convinto che il solo modo di salvare veramente il nostro Paese è l’introduzione nel nostro ordinamento costituzionale del sistema della confederazione dei liberi Stati italiani. Se persisterete nell’affermare la necessità del mantenimento del sistema unitario del 1860, voi porterete l’Italia alla rovina.

Ora, per avere, signor Parri, sostenuto queste idee, lei mandò tre galantuomini all’internamento di Ponza, facendoli trattare nel più incivile dei modi. (Rumori – Interruzioni dell’onorevole Parri).

Il provvedimento non fu tale da potere essere giustificato in verun modo. Fu un provvedimento che offese e mortificò gravemente la libertà e la democrazia.

Io non mi sarei mai aspettato che, proprio con l’avvento della democrazia, sarebbe stato impedito a liberi cittadini di esprimere il loro pensiero sull’ordinamento del proprio paese. (Commenti – Interruzioni – Rumori).

MAZZA. Mi pare che lei esageri adesso!

Una voce a sinistra. Perché non ha fatto il separatismo con Mussolini?

FINOCCHIARO APRILE. E perché lei non ha fatto la democrazia con Mussolini? (Commenti).

Quindi non vi è giustificazione di sorta nell’opera del signor Parri. Per carità di patria e per non mortificare l’Assemblea, io mi fermo su questo punto. (Interruzioni – Rumori).

La verità è questa, che l’arresto mio, di Varvaro e di Restuccia doveva servire a lasciare la via libera al signor Aldisio e ai suoi compagni, perché noi davamo loro molta noia. Questa è la sola ragione: una indecente speculazione elettoralistica.

Vengo ai risentimenti dell’onorevole Parri. Egli ieri disse, rivolto a me: «Venduto agli americani».

Io auguro all’onorevole Parri di poter lasciare ai suoi figli il nome onorato che io lascerò ai miei. (Commenti).

Ma è evidente che le parole ingiuriose, che egli ha oggi ritrattate e ritirate, non rispondevano al suo pensiero, perché egli sa chi sono io, come io so bene chi è lui. (Commenti).

Io dissi, per ritorsione, all’onorevole Parri: «Venduto alla Banca Commerciale e alla Edison». Le mie parole andarono oltre il mio pensiero, così come le sue parole sono andate oltre il suo pensiero. (Commenti).

Però noi sappiamo che cosa sia costata alla Banca Commerciale l’elezione dell’onorevole Parri: parecchie diecine di milioni di lire; ed erano denari dello Stato. (Vivi commenti – Rumori).

Signori, io non ho altro da aggiungere.

Tante cose, onorevole Parri! (Commenti).

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Desidero confermare quello che poco fa ha detto l’onorevole Parri. Ma desidero portare altri elementi, anche per chiarire i motivi che mi indussero a sostenere nei confronti del Governo centrale la tesi del non arresto dell’onorevole Finocchiaro Aprile.

L’onorevole Finocchiaro Aprile, checché oggi venga a dire, sostenne costantemente, fin dal primo giorno dello sbarco delle truppe alleate in Sicilia, il distacco della Sicilia dal territorio italiano.

FINOCCHIARO APRILE. Falso! Falso!

GALLO. Ha fatto lei il primo discorso. (Rumori).

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Lo vedremo; lo proveremo. Io spero che i documenti che il signor Finocchiaro Aprile ha firmato e diffuso nell’isola non siano del tutto scomparsi; sono acquisiti alla cronaca, e quindi alla storia; e non c’è diniego dell’onorevole Finocchiaro Aprile che potrà distruggere questi documenti. (Approvazioni al centro – Interruzione dell’onorevole Finocchiaro Aprile).

PRESIDENTE. Non interrompa, onorevole Finocchiaro Aprile!

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. L’onorevole Finocchiaro Aprile, a parte i proclami che fece trovare a Palermo in occasione dell’entrata delle truppe alleate, mandò due documenti, dei quali ha fatto cenno l’onorevole Parri: uno a San Francisco; si può dire che è stata vendita di fumo, che i documenti non furono nemmeno inviati.

FINOCCHIARO APRILE. Conservo anche le ricevute.

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Comunque, in Sicilia, fu fatta larghissima diffusione di questi documenti; e l’onorevole Finocchiaro Aprile giurava quotidianamente ai giovani, che egli ingannava, di aver inviato questo documento – che non era stato recapitato – e che perfino fu oggetto di discussione, tanto è vero, che si disse perfino quanti erano stati i voti a favore e i voti contro dei partecipanti alla discussione di San Francisco.

FINOCCHIARO APRILE. Non è vero! (Interruzioni – Rumori).

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. È vero; e la stampa dell’epoca lo ha riportato. In quel documento l’onorevole Finocchiaro Aprile diffamò l’Italia e il Governo italiano…

FINOCCHIARO APRILE. Il Governo! Soltanto il Governo! Ho sempre onorato l’Italia! (Rumori – Interruzioni).

ALDISIO, Ministro della marina mercantile . …domandando perfino la rioccupazione militare della Sicilia da parte degli Alleati.

FINOCCHIARO APRILE. Per liberarci da voi! (Rumori – Interruzioni).

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, la prego vivamente di non interrompere. Attenda la fine dell’esposizione dell’onorevole Aldisio ed eventualmente chieda la parola.

FINOCCHIARO APRILE. Senz’altro.

PRESIDENTE. Sta bene; ne prendo atto, ma con questo non si ritenga autorizzato ad interrompere.

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. E aggiungo che fu chiesto in quella circostanza il non riconoscimento della cobelligeranza da parte dell’Italia. Nel successivo documento inviato a Londra fu detta la stessa cosa, ma v’è un documento ancora più grave che l’onorevole Finocchiaro Aprile presentò ai rappresentanti alleati alla vigilia della consegna della Sicilia al Governo italiano, e fu una intimazione, nella quale era detto che la Sicilia non doveva essere consegnata al Governo italiano. Questi sono documenti che non possono essere distrutti da chicchessia.

FINOCCHIARO APRILE. Chiedemmo che non fosse consegnata alla monarchia dei Savoia. (Interruzioni – Commenti).

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Ma c’è di più: l’onorevole Finocchiaro Aprile dice di non avere mai sostenuto il distacco della Sicilia dall’Italia. Quando egli ha parlato di Confederazione degli Stati, ha parlato di Confederazione di Stati mediterranei…

FINOCCHIARO APRILE. Di Stati italiani, ed eventualmente mediterranei ed europei.

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. ..e soltanto in un ultimo tempo di Stati italiani. Ad ogni modo ho qui un ordine del giorno votato dal cosiddetto Comitato nazionale per l’indipendenza della Sicilia, del 1° settembre 1944, nel quale tra l’altro è detto: «Delibera di intensificare la sua propaganda per la realizzazione dell’aspirazione dell’indipendenza del popolo siciliano deciso a rompere ogni rapporto con lo Stato italiano». (Interruzioni dell’onorevole Finocchiaro Aprile – Rumori – Commenti).

E c’è un altro documento dello stesso tenore, un ordine del giorno dello stesso Comitato, riunito il 15 gennaio 1945, nel quale si delibera di fare appello agli Alleati «perché cessi in Sicilia uno stato di cose assolutamente intollerabile, che, continuando, potrebbe determinare una generale insurrezione…».

GALLO. Si trattava della soppressione delle pubbliche libertà!

ALDISIO, Ministro della marina mercantile «…e di chiedere agli alleati la consegna del governo dell’Isola, essendo il Comitato nazionale l’unico e vero rappresentante del popolo siciliano, o quanto meno la rioccupazione dell’Isola da parte degli alleati medesimi. (Vivi commenti); e di dare incarico al Comitato esecutivo di predisporre tutto il necessario sia per l’attuazione della presente deliberazione, sia soprattutto per affrettare la realizzazione dell’indipendenza, secolare, santa aspirazione del popolo siciliano».

Dopo di questo dirà l’onorevole Finocchiaro Aprile se è ancora disposto a sostenere di non avere mai sostenuto il distacco dall’Italia.

FINOCCHIARO APRILE. Mai! Mai! (Commenti).

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Ma c’è ancora un ultimo documento del 20 luglio 1944, nel quale è detto: «Il Comitato Nazionale in questa occasione, di fronte all’abisso che il Governo ha creato fra la Sicilia e l’Italia, conferma il proprio indefettibile proposito di continuare la sua lotta per il distacco delle due Nazioni, conformemente alle supreme necessità morali, politiche, economiche del popolo siciliano, e rinnova l’esortazione che questo sia chiamato ad un plebiscito sotto il controllo internazionale, non avendo noi alcuna fiducia nel Governo italiano e dichiara di volersi governare da sé in uno Stato sovrano ed indipendente». (Rumori – Interruzioni – Commenti).

Questi i precedenti della situazione.

Ma, come diceva l’onorevole Parri, purtroppo noi eravamo in Sicilia ancora in istato di armistizio e gli Alleati dicevano l’ultima parola, anche nei processi intentati contro cittadini italiani. E quando l’onorevole Finocchiaro Aprile fu denunziato ai tribunali dell’Isola, furono gli Alleati ad intervenire, e l’onorevole Finocchiaro Aprile se ne è sempre fatto un vanto…

FINOCCHIARO APRILE. Certamente!

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. …per sostenere che questa materia, momentaneamente, i tribunali dell’Isola non dovevano trattarla. Per questo si cercò, da parte dei responsabili, di mettere i punti sugli i. Purtroppo, per ragioni di forza maggiore, l’onorevole Finocchiaro Aprile si giovò di una situazione che non fu del tutto spontanea, ma sollecitata, indubbiamente.

Ora, in queste condizioni politiche, venne il momento in cui l’onorevole Parri decise il fermo e l’invio all’isola di Ponza dell’onorevole Finocchiaro Aprile e compagni. Io, che stavo in Sicilia in quel momento, sapevo che l’onorevole Finocchiaro Aprile era in uno stato di vera difficoltà, perché aveva annunziato a tutti i siciliani che erano già arrivati dall’America 15.000 italo-americani in borghese, i quali erano stati inviati per assistere alle operazioni del plebiscito dell’isola. (Si ride). I 15.000 americani erano, more solito, nella fantasia dell’onorevole Finocchiaro Aprile. Egli aveva promesso a data fissa l’attuazione del plebiscito (Commenti – Interruzione dell’onorevole Finocchiaro Aprile) e non potendo mantenere sarebbe caduto nel ridicolo. Poi, con una sua radio trasmittente, andava annunziando ai siciliani fuori dell’Isola, anche a quelli che erano impiegati sotto il Governo italiano, di rientrare, sotto pena di processo da farsi da un tribunale straordinario. (Commenti – Si ride). Queste fantasiose promesse avrebbero messo in difficoltà e in estremo imbarazzo l’onorevole Finocchiaro Aprile. Comunque…

FINOCCHIARO APRILE. Era lei ad essere nell’imbarazzo; io non vi fui mai, perché dissi sempre la verità.

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. …tutta questa roba era a cognizione del Governo, abbiamo i documenti e non li distruggeremo. Io sostenni pertanto che era opportuno mettere un punto alla situazione. Dissi che era necessario dichiarare illegale il movimento indipendentista siciliano, far seguire alla dichiarazione di illegalità la diffida, e, nel caso che si fosse continuato nella propaganda indipendentista, denunziare tutti gli aderenti al movimento separatista, perché in quel momento non volevo dare la facile palma del martirio a Finocchiaro Aprile, che l’ha sfruttata largamente poi, in Sicilia, specie durante le elezioni del 2 giugno.

Questi i motivi della mia condotta che è bene che l’Assemblea conosca, perché nei 18 mesi di Alto Commissariato da me tenuto ho la coscienza serena e tranquilla di aver servito il Paese…

FINOCCHIARO APRILE. …e gli intrallazzatori siciliani. (Rumori).

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. …e di averlo difeso contro tutte le mene dell’onorevole Finocchiaro Aprile e contro tutte le organizzazioni che egli ha creato in Sicilia e che hanno portato e disseminato lutti numerosi e gravi in tutta l’Isola. (Vivi commenti).

FINOCCHIARO APRILE. Li ha lei sulla coscienza i nostri morti.

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Un’ultima cosa debbo ricordare e termino. L’onorevole Finocchiaro Aprile, e più che lui, tutto il suo movimento, solidalmente, è responsabile di tutte le uccisioni avvenute nel dicembre 1945 dei carabinieri sorpresi nelle stazioni di campagna e di tutti quei moti che culminarono nella farsa famosa (che purtroppo non fu poi veramente farsa) del campo di Santo Mauro. (Interruzione dell’onorevole Gallo).

Fu allora che si seppe che tra il movimento separatista siciliano ed elementi e gruppi responsabili di Roma – leggi monarchia – c’era stata completa collusione.

NATOLI. E con il comandante del corpo di armata di Palermo, generale Berardi.

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Ed il qui presente onorevole Gallo, quando fu catturato con le armi in pugno dai carabinieri e dalle Forze armate di Sicilia non mancò di dichiarare tutto il suo stupore per l’azione militare che si esercitava contro quel campo, perché, secondo le trattative e l’accordo raggiunto a Roma, era stato violato il patto, in quanto era stato stabilito che l’azione del campo di Santo Mauro doveva essere semplicemente dimostrativa e che le Forze armate dello Stato non avrebbero dovuto mai attaccare, trattandosi di una manovra per cercare di impressionare il Governo del tempo onde, per via di transazioni, tornare a consegnare, se non allo stato indipendente siciliano, agli uomini della reazione siciliana tutti i gangli della vita politica dell’isola e tutte le chiavi principali di dominio e di Governo dell’Isola stessa.

LI CAUSI. Generale Berardi! (Commenti).

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Sissignore, generale Berardi. Io non debbo continuare oltre, perché ho detto abbastanza ed ho già anticipato su quello che a suo tempo sarà chiarito; ma colgo la occasione per dire al Governo, del quale faccio parte, che sarebbe opportuno anticipare il processo contro l’onorevole Gallo (Vivi applausi al centro), dal quale processo finalmente dovrà uscire la verità e dovranno essere conosciuti tutti i sottintesi che questo movimento ha cercato di stabilire con ogni genere di persone, in quanto alla base del movimento c’è sempre stato l’inganno e la sorpresa. (Vivi applausi – Commenti).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Parri. Ne ha facoltà.

PARRI (Vivissimi ripetuti applausi – L’Assemblea ed i membri del Governo sorgono in piedi). Ringrazio l’Assemblea per questa manifestazione. Comprendo come possa dispiacere al nostro Presidente riprender la discussione sui fatti di Sicilia, che rischiano di portar fuori di carreggiata i dibattiti parlamentari. Rinuncio a parlare ancora sulle vicende siciliane, appunto per non allungare la discussione. Mi limito ad indicare quello che è il provvedimento che, se crede, l’Assemblea potrebbe prendere a conclusione di questa discussione: procedere cioè alla nomina di una Commissione di inchiesta, anziché continuare a discutere in sede di approvazione del processo verbale. L’inchiesta potrebbe risultare più ampia e conclusiva di quello che non possa essere il processo all’onorevole Gallo.

Domando scusa se sono costretto a riproporre il mio caso personale. L’Assemblea mi ha voluto rivolgere un’attestazione di stima della quale sono, credetemi, lusingatissimo e sensibilissimo. Tuttavia, di fronte ad accuse precise come quelle che sono state formulate, io non posso passarle sotto silenzio, e chiedo allora formalmente all’onorevole Presidente se non creda, applicando l’articolo, mi pare, 80-bis del Regolamento della Camera, di nominare una piccola Commissione che raccolga quegli elementi di prova, quelle testimonianze, quegli indizî, che potranno comunque attestare se, come ha detto l’onorevole Finocchiaro Aprile, io sono stato eletto a spese della Banca Commerciale, nel qual caso io sarei indegno di stare qui come libero deputato. Ho bisogno che questo sia chiarito. Chiedo che il termine che verrà assegnato a questa Commissione, se l’onorevole Presidente accoglierà la mia richiesta formale, sia breve, tale da potermi permettere il più presto possibile di trarre le mie conclusioni, per le quali mi riserbo piena libertà d’azione. Per ora le mie conclusioni sono queste, che qui l’onorevole Finocchiaro Aprile si comporta da cialtrone. (Vivi applausi – Commenti).

PRESIDENTE. L’onorevole Parri mi ha rivolto una richiesta formale in base all’articolo 80-bis del Regolamento, il quale prevede che «quando nel corso di una discussione un deputato sia accusato di fatti che ledano la sua onorabilità, egli può chiedere al Presidente di nominare una Commissione che giudichi il fondamento dell’accusa. Alla Commissione può essere assegnato un termine per riferire». L’onorevole Parri, valendosi dell’ultima parte di questo articolo, chiede che il termine per riferire sia, per quanto possibile, breve.

Dichiaro all’onorevole Parri che accetto la sua richiesta e mi riserbo di procedere alla nomina della Commissione. Acconsento anche alla sua richiesta che la Commissione espleti il suo lavoro nel più ristretto tempo possibile.

GALLO. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GALLO. Vorrei rispondere brevissimamente alle parole dell’onorevole Aldisio, sorvolando su quanto egli ha detto circa il processo a mio carico: processo che io stesso ho chiesto che si faccia e presto. Sono dieci mesi che si parla di questo processo, e non si è fatto. Intendo soffermarmi su un solo punto, cioè sulle accuse fatte dall’onorevole Aldisio che noi giovani siciliani siamo andati sulle montagne per proteggere i monarchici e solo a servizio dei monarchici.

Preciso che fui chiamato a Palermo, dieci o dodici giorni prima dei fatti di San Mauro. Mi fu comunicato in quella occasione che l’onorevole Aldisio aveva, d’accordo con il generale Berardi, avuto disposizioni dal Governo di porre fine alle persecuzioni contro gli indipendentisti siciliani per addivenire ad una distensione degli animi. Mi si raccomandava quindi la calma. Non avevo mai avuto sollecitazioni in questo senso prima del 29 dicembre, giorno in cui i giovani dell’Evis furono attaccati da 5 mila uomini armati con cannone, carri armati, mortai, mitragliatrici! Domandate conferma di queste mie dichiarazioni al generale Fiumara, che comandava queste forze. Quando, a nome dell’onorevole Aldisio e del generale Berardi, mi furono rivolte le parole cui ho accennato, io dissi che nessuna cosa noi avevamo fatto fino a quel momento contro le forze dell’ordine e che nessuna cosa avremmo fatto.

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Chi glie le rivolse quelle parole?

GALLO. Lo dirò quando si farà il processo. (Proteste – Rumori). Non sono così ingenuo da far sapere prima a lei quello che dovrò dire io per lei.

Preciso qualche cosa di più. Arrestato, o meglio fatto prigioniero subito dopo le elezioni del 2 giugno, vennero a trovarmi nelle carceri di Palermo tre persone – e potrei fare i nomi nel processo – a dirmi che avrei potuto essere immediatamente liberato solo che io avessi accettato di riprendere il comando dell’Evis e di tutte le forze della gioventù siciliana, per un colpo di Stato in favore di Umberto di Savoia. (Commenti).

BENEDETTINI. Non è vero niente questo! Non racconti storie! (Commenti – Rumori).

GALLO. Lo giuro sul mio onore di uomo! (Commenti –Vivi rumori).

PRESIDENTE. Invito l’Assemblea ad un senso di compostezza.

GALLO. La gioventù siciliana non si è mai battuta per interessi di parte o di uomini; essa è andata sulle montagne per difendere il     diritto alla libertà di parola e di pensiero. Risposi che non mi sarei mai imbrattato, mai avrei venduto il mio onore. Questo, onorevole Aldisio, io risposi: e avrei potuto essere liberato all’indomani.

FINOCCHIARO APRILE. Aldisio era amico del generale Berardi.

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Questo poi no! (Rumori – Commenti).

PRESIDENTE. Considero chiuso l’incidente relativo alle dichiarazioni fatte ieri dall’onorevole Parri e dall’onorevole Finocchiaro Aprile.

Ha chiesto la parola sul processo verbale anche l’onorevole Caporali. Prego di precisare le ragioni della sua richiesta.

CAPORALI. Devo dichiarare che se fossi stato presente ieri alla votazione, avrei votato contro l’ordine del giorno di fiducia al Governo.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Taviani. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Dichiaro che se fossi stato presente ieri avrei votato la fiducia ai Governo.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare sul processo verbale l’onorevole Condorelli. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Dopo questo dibattito, sembrerà un’inezia la ragione per cui ho chiesto di parlare; ma, ancora ieri, l’onorevole Martino Enrico, parlando sul verbale del giorno precedente, mi ha attribuito delle inesattezze; e, questa volta, ha potuto anche soggiungere che tali inesattezze dipendessero dal fatto che non lo avessi capito.

Voglio assicurare l’onorevole Martino che io l’avevo capito perfettamente e che peraltro sono anche abbastanza informato personalmente, per esperienza fatta, studiando le leggi, della composizione, del funzionamento e della competenza delle Commissioni di epurazione, anche per quanto riguarda gli ufficiali. E proprio per questo deploravo che non si fosse trovato il modo di risparmiare ai nostri ufficiali combattenti ed ai nostri ufficiali reduci, la tortura di un inutile e superfluo giudizio di epurazione, che non doveva certamente raggiungere persone che tanto avevano sofferto per il loro Paese.

Aggiungo che sono perfettamente al corrente della competenza, della composizione e delle procedure delle Commissioni che devono giudicare gli alti ufficiali dell’esercito italiano, dai comandanti d’armata ai comandanti di corpo d’armata, ed in base alla recente legge Facchinetti, anche i generali di divisione, di brigata ed i colonnelli.

E proprio perché ne sono a conoscenza, deploravo che gli alti ufficiali dovessero essere giudicati, anche per quanto attiene alla loro competenza, da una Commissione in cui elementi politici ed incompetenti prevalgono sugli ufficiali.

Non ho altro da aggiungere. Voglio domandare all’avvocato onorevole Martino se si è trovato perfettamente a suo agio quando ha dovuto giudicare gli alti ufficiali dell’esercito italiano, e se egli, di fronte ai suoi giudicabili, non abbia sentito l’impulso di mettersi sull’attenti. (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Carboni. Ne ha facoltà.

CARBONI. Secondo il resoconto sommario di ieri io non avrei partecipato alla votazione per appello nominale. Tengo a dichiarare invece che ero presente e che votai contro l’ordine del giorno Andreotti.

PRESIDENTE. Non essendovi altre osservazioni il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Andreotti, Tosi e Giordani.

(Sono concessi).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: svolgimento di interrogazioni. La prima è quella degli onorevoli Bellavista, Galioto, Fabbri, Covelli, al Ministro dell’interno, «per sapere quali provvedimenti siano stati presi, e quali istruzioni riceveranno i prefetti ed i questori della Repubblica, per la tutela delle libertà politiche dei cittadini e dei partiti o gruppi politici di opposizione, in relazione alla selvaggia e vandalica distruzione ad Enna, in occasione della «Giornata del contadino» e ad opera di elementi social-comunisti, della sede del Partito nazionale monarchico, con violenze fisiche e tentativi di linciaggio contro cittadini colpevoli soltanto di aver fede politica diversa».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Nella mattinata del giorno 23 si è svolta a Enna la manifestazione per la «Giornata del contadino» con la partecipazione di circa tremila rurali convenuti dalla provincia.

Terminati i vari discorsi di occasione si formò un corteo che percorse le vie della città. Giunto all’altezza della sede del Partito monarchico, dove era esposta la bandiera, il corteo sostò e numerosi partecipanti riuscirono a penetrare nella sede distruggendo la bandiera e varie suppellettili, nonostante la ferma resistenza opposta dalla forza pubblica che, peraltro, non fece uso delle armi, tanto che nelle colluttazioni seguitene due agenti rimasero feriti con lesioni guaribili oltre gli otto giorni.

Sono in corso gli opportuni accertamenti per l’identificazione dei responsabili della devastazione della sede del Partito monarchico e del ferimento degli agenti, e disposizioni sono state impartite perché al riguardo si proceda con decisione e tempestività.

Il Governo prende occasione da questo fatto per riaffermare il suo proposito di garantire in ogni caso le libertà politiche dei cittadini e dei partiti o dei gruppi politici di qualsiasi tendenza, e di reprimere le manifestazioni contrarie, colpendo decisamente i violatori di tale libertà.

PRESIDENTE. L’onorevole Bellavista ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

BELLAVISTA. Devo dichiararmi sodisfatto delle comunicazioni del Sottosegretario all’interno.

Io ho fiducia che il Governo della Repubblica, se vorrà essere grande, saprà far rispettare la legge contro tutto e tutti e contro tutte le tendenze squadristiche, sia di destra, sia di sinistra.

Ad Enna la forza pubblica si è comportata bene. Solo che, se fosse stata usata in numero maggiore, quegli atti di vandalismo si sarebbero potuti evitare. Atti di vandalismo che hanno avuto strascichi anche nel vicino paese di Leonforte, dove la bandiera strappata dai locali dell’Unione monarchica italiana è stata trascinata per le strade del paese e fatta a brandelli. Le assicurazioni del Governo, comunque, calmano le preoccupazioni di quanti sono solleciti della vera garanzia della libertà, che è una ed indivisibile, e che appartiene, perciò, a tutti i partiti. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Massini e Minio, al Ministro dell’interno, «per conoscere i motivi per cui, in occasione del loro congresso provinciale, si è ostacolato, in vari comuni della provincia, l’arrivo a Roma dei contadini che avrebbero dovuto partecipare alla pubblica manifestazione di chiusura del congresso stesso; manifestazione i cui limiti erano già stati, il giorno avanti, concordati con il responsabile dell’organizzazione sindacale, il Ministro dell’interno e il questore di Roma».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Nessuna disposizione è stata impartita per ostacolare l’arrivo a Roma dai comuni della provincia dei partecipanti al congresso provinciale della Federterra in occasione della «Giornata del contadino» indetta per il 24 corrente.

L’azione della polizia si è limitata soltanto ad una opportuna vigilanza sulla disciplina del traffico e all’accertamento che fra i partecipanti non si fossero infiltrati elementi male intenzionati ed armati.

Risulta, al contrario, che nonostante fosse stato accertato da parte di agenti che numerosi mezzi adibiti al trasporto dei congressisti non fossero in regola agli effetti della circolazione, la questura dette espresse disposizioni affinché l’afflusso dei partecipanti non venisse in alcun modo ostacolato.

Occorre aggiungere che fino alla tarda mattina del 23 le autorità non erano state debitamente informate del programma delle manifestazioni esterne del congresso, ed in particolare di un progettato comizio e corteo cui avrebbero dovuto partecipare circa 30.000 persone.

Tuttavia, ricevutane notizia, le autorità stesse presero contatto con gli esponenti della Federterra e concordarono con essi, in rapporto all’entità del raduno, il programma delle manifestazioni che si sono svolte regolarmente.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MASSINI. Mi spiace di non potermi dichiarare sodisfatto delle dichiarazioni dell’onorevole Sottosegretario. Innanzi tutto, il Congresso provinciale della Federterra era stato preannunziato al commissario politico della questura.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il congresso, non il corteo.

MASSINI. Non era stato avvertito del corteo, perché è stato deliberato in pieno congresso. Ma, d’altra parte, anche per il corteo sono state svolte trattative tutta la giornata della domenica, tanto con il signor questore, quanto con il Ministro dell’interno, e furono stabilite tutte le modalità, compreso il percorso. È a mia disposizione il documento ufficiale della questura di Roma. Quindi non c’era bisogno, dopo questi accordi, di dare disposizioni restrittive. Che queste disposizioni restrittive vi siano state è documentato anche dal questore di Roma, il quale ha detto che non ha dato l’ordine di vietare le partenze, ma di determinati controlli in una forma tale che, manco a farlo apposta, circa 10 Comuni della Provincia di Roma l’hanno interpretato come un ordine di non partenza, allegando tutte le scuse immaginabili.

Così è avvenuto a Genzano, Montecompatri, Frascati, Albano, Castel Gandolfo, Velletri, il cui commissario, fra le altre cose, diceva che la manifestazione era stata rimandata.

Si è fatta la questione se i camions potessero partire o no. Neanche questo è esatto, perché anche a quelli che dovevano partire con i treni, con i vagoni messi a disposizione precedentemente, d’accordo con il Ministero dei trasporti, è stato fatto il divieto e con tutto l’ostruzionismo possibile sono stati fatti scendere, per quanto ci fosse l’autorizzazione del viaggio a pagamento forfetario.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Non è esatto; dovevano pagare!

MASSINI. È esattissimo. Questo è avvenuto a Civitavecchia, dove i contadini, che erano già sui vagoni, sono stati fatti scendere e con la scusa di far fare il biglietto, più della metà è rimasta a terra.

Così è avvenuto a Cecchina; e ciò giustamente ha esasperato i contadini, i quali naturalmente sapevano di dover fare a Roma una manifestazione pacifica, come poi in realtà si è svolta, e volevano semplicemente confermare con la loro presenza talune rivendicazioni immediate agitate al congresso e contenute in memoriali già più volte presentati al Governo e a tutte le altre autorità.

Si possono anche accennare, sia pure fugacemente, queste rivendicazioni.

Si è persino andati a vedere se questi contadini venivano a Roma armati, come se alla Camera del lavoro, invece di manifestazioni pacifiche, qualche volta si fossero svolte manifestazioni con le mitragliatrici.

Ebbene, questi contadini venivano a sollecitare l’applicazione del lodo De Gasperi, a sollecitare la distribuzione di terre – si ricordi che dei 60.000 ettari richiesti e occupabili ne sono stati distribuiti soltanto 10 mila – venivano a sollecitare il blocco dei fitti dei terreni, la concessione immediata di quanto occorre per le colture primaverili, la concessione degli assegni familiari; insomma tutte le rivendicazioni di carattere sindacale sempre richieste e mai ottenute. Quindi nessuna intenzione, signor Sottosegretario, di minacciare nessuno, né enti, né persone.

Si trattava è si tratta ancora semplicemente di ricordare ai partiti, che hanno la maggiore responsabilità di Governo, che i contadini, come tutti gli altri lavoratori, desiderano di vedere realizzate al più presto le promesse loro fatte durante le elezioni.

Hanno avuto torto certi giornali di minimizzare e criticare queste manifestazioni pacifiche, anche se imponenti, dei contadini.

Malgrado tutti gli ostacoli frapposti alla loro venuta da molto lontano, si sono radunati a Roma, davanti alla Camera del lavoro, circa 10 mila lavoratori della terra, di tutte le categorie. Senza quegli ostacoli avrebbero potuto essere il doppio.

I contadini hanno attraversato mezza Roma, come era stato convenuto con le autorità, senza creare incidenti, come del resto è nell’abitudine dei lavoratori di Roma e della Provincia.

Ho l’orgoglio di dire che le adunate avvenute a Piazza del Popolo, di 100 o 120 mila persone, non hanno mai dato luogo al più piccolo incidente. Abbiamo il diritto di dichiarare che le masse organizzate sono disciplinate e conoscono il proprio dovere di cittadini.

L’apparato di polizia è stato dunque veramente sproporzionato alla circostanza. Il corteo stesso fu scortato a doppi cordoni; gli sbarramenti di strade furono fatti con intere compagnie, specialmente al Corso. Sembrava che Roma fosse in stato d’assedio! Troppe forze per dei pacifici lavoratori che chiedevano soltanto la realizzazione di loro rivendicazioni, da troppo tempo promessa e mai conseguita. Viene voglia di domandarsi se la Repubblica non abbia da difendersi con tutte queste forze da qualche altra parte.

Il Ministro dell’interno e il Governo democratico non devono temere questi assembramenti di lavoratori, tanto della campagna quanto della città; lavoratori di tutte le categorie che, mentre lottano per migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro, sono e vogliono essere i più tenaci difensori della Repubblica e della democrazia. Sarebbe bene non dimenticarlo. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Sono così esaurite le interrogazioni inscritte all’ordine del giorno.

Svolgimento di una mozione.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca lo svolgimento della seguente mozione presentata dall’onorevole Nasi, unitamente agli onorevoli: La Malfa, Di Giovanni, Lombardi Riccardo, Canevari, Veroni, Cevolotto, Silone, Rossi Paolo, Preziosi, Corsi, Bocconi, Costantini, Lombardo Ivan Matteo.

«L’Assemblea, ritenuto che per la realizzazione organica dello Statuto siciliano, ad evitare eventuali conflitti di carattere costituzionale dopo la sua applicazione, occorre che lo Statuto sia coordinato colla Costituzione della Repubblica, come del resto è previsto dallo Statuto stesso; ritenuto, altresì, che i lavori della Commissione paritetica per lo Statuto siciliano non sono ancora conclusi, ciò che pregiudica la migliore realizzazione dell’autonomia; considerato che le elezioni per l’Assemblea siciliana, indette per il 20 aprile, non sono, allo stato, conciliabili con le premesse esigenze; invita il Governo a disporre le elezioni in Sicilia alla data più vicina possibile, dopo l’avvenuto coordinamento costituzionale in sede di Assemblea».

L’onorevole Nasi, primo firmatario della mozione, ha giustificato la sua assenza per malattia. L’onorevole La Malfa, secondo firmatario, ha chiesto di svolgerla. Ne ha facoltà.

LA MALFA. Onorevoli colleghi, sono dolente che questa giornata non sia propizia ad una calma discussione del problema siciliano.

La Sicilia vi è apparsa, in questi giorni e soprattutto oggi, attraverso manifestazioni un po’ clamorose, se non addirittura esorbitanti, delle sue passioni e dei suoi contrasti politici. E come siciliano, se pure come siciliano costretto nei venti anni di regime fascista a girare fuori del territorio dell’isola, debbo manifestare il mio vivo rincrescimento che attorno ad un grave problema di vita politica nazionale si sia creata questa atmosfera.

Giorni fa, l’onorevole Russo Perez mi ha contestato, bandendo una sorta di nuovo catechismo politico, il diritto di interloquire nella questione siciliana. In verità, io stesso sentivo, data la mia lunga lontananza dall’Isola, di dover essere molto prudente, molto cauto nella considerazione dei problemi isolani. Tuttavia l’atmosfera creatasi negli ultimi giorni mi ha incoraggiato a parlarvene.

Della Sicilia, del resto, ci si è occupati frequentemente nei corridoi e negli angoli stessi della Camera. Il tema del rinvio o meno delle elezioni è stata la ragione occasionale di una preoccupazione e di una discussione più ampia, e sarebbe stolto ignorarne il significato. Né risponde a verità quanto è stato riferito dalla stampa, che cioè la mozione sul rinvio delle elezioni in Sicilia abbia avuto l’adesione dei partiti di sinistra contro i partiti di destra o viceversa.

Nella discussione non ufficiale svoltasi in questi giorni non vi è mai stato uno schieramento del genere. Io ho sentito vecchi parlamentari che non appartengono a frazioni di sinistra, uomini di parte moderata e della stessa Democrazia cristiana, parlare con preoccupazione della situazione siciliana, delle elezioni, dei prevedibili futuri orientamenti politici dell’Isola.

È stata questa, onorevoli colleghi, l’introduzione, il preambolo alla discussione ufficiale del problema siciliano. Mi rincresce che quando si è trattato di firmare una mozione, un esercito, che pareva numeroso, si sia ridotto ad una scarsa pattuglia. La mozione ha avuto la firma dell’onorevole Nasi, del sottoscritto e dell’onorevole Di Giovanni. L’onorevole Nasi è ammalato – ed io, anche a nome vostro, gli mando i miei auguri – l’onorevole Di Giovanni non è presente; sono rimasto quindi – come siciliano che naviga tra il Continente e l’Isola – solo a difendere la mozione. Mi trovo anche in una situazione particolarmente delicata, militando in un partito che sul problema delle autonomie ha una posizione dottrinaria ben radicata e definita, quando non abbia addirittura, attraverso una particolare corrente, un pensiero federalista. Devo perciò ringraziare il partito che su un problema che ha costituito per me un vero e proprio caso di coscienza, mi ha lasciato completamente libero di manifestare il mio pensiero, salvo a riservarsi un giudizio definitivo sul fondo della questione.

E vengo a questa. I colleghi del gruppo parlamentare siciliano ricorderanno che fin dalla prima riunione del gruppo stesso, al tempo in cui si è discusso del problema dell’autonomia, ho fatto un’eccezione di principio. Ho detto che trovavo assai difficile rendere compatibile lo Statuto, non come sostanza di autonomia, ma come manifestazione formale, con quelli che io considero i diritti ed i doveri della Costituente. Per me c’era un problema fondamentale, che era il problema del rapporto fra Statuti autonomistici e competenza e funzioni dell’Assemblea Costituente in tema di costituzione dello Stato, che doveva essere risolto prima di ogni altra questione.

Qual era per me il significato di questa eccezione? Non puramente formale – e i colleghi me ne vorranno dare atto – ma di ordine esclusivamente politico.

In Sicilia la contrapposizione delle forze politiche è molto più accentuata e grave che altrove. Direi che in Sicilia, per quanto operino i grandi partiti nazionali, le questioni politiche hanno preso un carattere particolare e si sono adattate all’ambiente, alle passioni, alle situazioni e alle aspirazioni locali. Io non mi riferisco soltanto alla posizione della corrente indipendentista, che mi pare anzi la più chiara possibile, precisa e ferma nelle sue rivendicazioni, una posizione cioè che non dà luogo a dubbi di sorta; mi riferisco a quei gruppi, quelle organizzazioni, quelle formazioni politiche che possono qualche volta appellarsi a nomi e orientamenti nazionali, ma che in definitiva si richiamano a interessi e aspirazioni prettamente locali.

Non creda l’Assemblea, come ha sospettato qualcuno, che nel dir questo io od altri si sia mossi da preoccupazioni elettorali. Considero la situazione in Sicilia talmente delicata e difficile dal punto di vista di uno sviluppo democratico da non venirmi affatto in mente che il rinvio delle elezioni di uno o due mesi possa servire a spostare la situazione, a dare tranquillità sul terreno, dirò così, di una politica nazionale. Non credo cioè che rinviando di qualche mese le elezioni si venga a creare in Sicilia un rapporto di forze politiche diverso da quello che oggi si prospetta. Occorre una lunga politica di democrazia, e un intervento costante nella soluzione dei problemi fondamentali dell’Isola, perché un risultato utile si possa raggiungere dopo un certo numero di anni.

Il problema che voglio sottoporre all’Assemblea è un fondamentale problema costituzionale, che ha importanti riflessi politici. Non vedo finora definito il rapporto tra Statuto autonomistico siciliano e Costituzione generale del Paese. E siccome ritengo improbabile realizzare in Sicilia quell’equilibrio di forze politiche che in sede nazionale oggi garantisce la permanenza della democrazia in Italia – e che molti di noi sintetizzano nell’esistente rapporto di collaborazione fra Democrazia cristiana e Comunismo, fra l’onorevole De Gasperi e l’onorevole Togliatti – riserva fatta per il sistema di doccia scozzese che quest’ultimo applica all’onorevole Presidente del Consiglio – sorge per me, e spero per altri, il problema se la situazione politica della Sicilia si possa ritenere, fin da ora, racchiusa in un quadro costituzionale ben fermo.

Spiegherò ancor meglio questo concetto. Ritengo che con l’applicazione dell’autonomia nelle diverse Regioni d’Italia noi dobbiamo scontare la possibilità che in una Regione vi sia un Governo di un certo orientamento politico e in altra Regione un assai diverso governo; che in Sicilia, ad esempio, ci sia un Governo regionale monarchico, o qualunquista o fascista, e in Emilia, ad esempio, un governo comunista… (Interruzioni – Commenti).

Prego gli onorevoli colleghi di ascoltare: non sto dicendo nulla che esorbiti dal tema. Voglio dire che con l’attuazione delle autonomie regionali, alla quantità di problemi che oggi angustiano la vita nazionale, e che sono problemi di difesa contro i fattori di disgregazione e di dissolvimento ereditati dal fascismo e dalla guerra, si aggiungerà anche questo problema, di equilibri politici diversi da una Regione

all’altra.

Poiché abbiamo tutti optato per le autonomie, dobbiamo affrontare coraggiosamente la situazione che ne deriva.

Ma quale è la garanzia che, attraverso questa articolazione autonomistica, l’Italia continui a rimanere unita? Non è certo quella di non fare le elezioni o di rinviare sine die attuazioni di Statuti regionali. Noi non possiamo cioè, in regime di democrazia, ritenere che, creandosi rapporti e situazioni politiche particolari nel campo autonomistico, si possa risolvere il problema rinviando le elezioni o rinunciando alle autonomie.

La garanzia è anzitutto di ordine costituzionale. È necessario che noi ci garantiamo che qualunque situazione politica si crei in Sicilia, come altrove, sul terreno regionale, questa sia ancorata a un fondamento costituzionale ben chiaro ed esplicito, che in nulla diverga dal quadro costituzionale di ordine nazionale.

Questo è il problema. Ed io non credo che noi l’abbiamo finora concretamente e seriamente affrontato.

So – e me ne rammarico – che si è scatenata in Sicilia una campagna contro i cosiddetti sabotatori dell’autonomia; ma io dichiaro contro questi falsificatori di ogni verità, che non intendo combattere la sostanza dell’autonomia (sono disposto a farla mia, con tutti i colleghi del gruppo parlamentare siciliano) ma accertare il fondamento costituzionale attraverso cui quella sostanza è attuata. È necessario stabilire solennemente che lo Statuto autonomistico è emanazione della Costituente e parte della Costituzione generale dello Stato, poiché, altrimenti, noi combatteremmo il separatismo con le sue stesse armi, cioè creeremmo, in Sicilia, una fonte di potere politico autonomo, che potrebbe portare a pericolose avventure.

A questo punto la discussione non può più essere generale, ma diviene specifica. Ed io mi riferisco, per chiarirla meglio agli onorevoli colleghi, ad alcuni documenti legislativi ed in primo luogo alla relazione stessa con cui, in sede di Consulta, venne accompagnato il progetto di legge sullo Statuto autonomistico.

Rileverete dalla relazione che in materia di cosiddetto coordinamento tra Statuto autonomistico e Costituzione generale si sono affacciate da varî organi e parti tre possibilità.

Da parte del Comitato siciliano di azione – come si legge nella relazione della Consulta – si proponeva questa formula: «Lo Statuto della Regione siciliana, per ogni effetto, ha carattere e valore di legge costituzionale e formerà appendice della Carta costituzionale dello Stato italiano e ne farà parte integrante». Questa la formula di partenza che, a mio giudizio, tendeva a considerare lo Statuto siciliano come una emanazione costituzionale autonoma rispetto alla Costituzione generale: «formerà appendice della Carta costituzionale», ma non è inquadrato nella Carta costituzionale.

Il Governo, nel suo progetto, non fece sua questa formulazione e presentò alla Consulta un diverso testo: «Il presente Statuto sarà approvato con decreto legislativo… e sarà in seguito sottoposto alla approvazione dell’Assemblea Costituente». Debbo dichiarare che questa seconda formulazione era la più corretta, ed io l’avrei senz’altro accettata.

La Commissione della Consulta, invece, che ha dovuto tener evidentemente conto di certe necessità e di certe pressioni politiche, fra il primo testo ed il secondo ha scelto una terza via, che è quella che è stata poi adottata nel decreto legislativo. La formulazione della Commissione suona così: «…esso (lo Statuto) sarà sottoposto all’Assemblea Costituente per essere coordinato con la nuova Costituzione dello Stato».

Credo che questa terza soluzione abbia ricreato l’equivoco sulle fonti costituzionali dello Statuto autonomo siciliano. Perché, domando, onorevoli colleghi, che cosa significa coordinare uno Statuto con la Costituzione dello Stato? Non sono un cultore di scienze costituzionali; e ci sono qui insigni maestri che possono eliminare i miei dubbi; ma ho l’impressione che coordinare uno Statuto con la Costituzione dello Stato significhi in certo senso ammettere l’esistenza di due formazioni costituzionali autonome, ammissione che io considero sommamente pericolosa. Se ora andiamo ad esaminare il progetto di Costituzione generale esso ci dice all’articolo 108: «Le Regioni sono costituite in enti autonomi con proprî poteri e funzioni secondo i principî fissati nella Costituzione. Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige ed alla Val d’Aosta sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia con Statuti speciali adottati con leggi costituzionali».

Da questa dizione risulta che la Commissione dei 75, nel preparare il progetto di Costituzione generale, si è preoccupata, e giustamente, del problema che sia posto: anzi mi consterebbe che proprio in questo campo un onorevole collega, fra i più competenti, ha sollevato ben precise questioni.

A tenore della disposizione su citata, gli Statuti autonomistici particolari, per essere costituzionalmente validi, devono essere incorporati in leggi costituzionali speciali, adottate dall’Assemblea Costituente. Non possono essi considerarsi fuori della Costituzione generale, ma devono, per così dire, inquadrarsi nella Costituzioni stessa, senza di che, evidentemente, noi avremo creato il disordine costituzionale nel nostro Paese. In altri termini l’articolo 108 ci dice che l’Assemblea Costituente approverà la Costituzione generale, le autonomie regionali e, con sovranità propria, emanerà le leggi costituzionali speciali contenenti alcuni statuti autonomistici particolari. La Costituente, cioè, è il solo potere costitutivo esistente oggi in Italia. Badate, che e diverso dire come dice l’articolo 108 del progetto di Costituzione: «alla Sicilia, ecc., sono attribuite forme e condizioni di autonomia adottate con legge costituzionale», è diverso parlare di coordinamento. Vi è cioè una contradizione tra la dichiarazione dell’articolo 108 e la dichiarazione dello Statuto autonomistico che parla di coordinamento. Può parere una quisquilia questa, ma il rilievo attiene alla sostanza della questione: coordinamento non ha lo stesso valore che deliberazione e adozione di una legge costituzionale. La facoltà riconosciuta all’Assemblea Costituente dal decreto legislativo non è diritto, ma un dovere che l’Assemblea ha verso se stessa.

Trasportate la questione sul terreno politico e ne vedrete l’importanza. Io non voglio affatto negare – come ho ripetutamente affermato – la sostanza dell’autonomia, ma desidero solo che tale autonomia non possa essere giammai considerata emanazione di una fonte costituzionale autonoma, al di fuori e al disopra dell’Assemblea Costituente che il popolo italiano ha liberamente eletto.

Presidenza del Vicepresidente TARGETTI

Guardiamo anche questo problema dal punto di vista delle conseguenze del cosiddetto rinvio delle elezioni. Ho letto, come tutti voi avrete letto, un interessante articolo di Luigi Sturzo su questo tema. L’illustre corregionario afferma, in sostanza, che se il problema dell’autonomia si porta all’Assemblea Costituente, il popolo siciliano avrà l’impressione di essere defraudato di un suo diritto. Io rispondo che noi possiamo fare ben nostre le esigenze autonomiste della Sicilia. Non comprendo perché l’Assemblea debba rifiutarsi a ciò e non intendo perché intorno all’Assemblea si debba creare un’atmosfera di sfiducia.

La politica del fatto compiuto può offrire qualche vantaggio, ma offre anche molti svantaggi. Le elezioni, se fatte il 20 aprile, verrebbero fatte su di un equivoco di ordine costituzionale: equivoco del quale – non voglio assolutamente gettare il sospetto su nessuna forza politica – dobbiamo tener conto. Il 20 aprile nasce il Governo regionale, ed esso entrerà in funzione il 10 maggio. Voi capite che non più tardi della fine di maggio l’Assemblea Costituente (che si scioglierà in giugno) dovrà aver discusso il problema delle autonomie regionali. Nel momento stesso in cui il Governo regionale siciliano entra in funzione, l’Assemblea Costituente inizia la discussione sullo Statuto. La situazione sarebbe molto più chiara se le elezioni regionali in Sicilia avessero luogo dopo che l’Assemblea Costituente ha discusso lo Statuto. Non solo la nazione avrebbe una maggior garanzia, ma i siciliani stessi troverebbero una tutela e una garanzia superiori nelle loro aspirazioni autonomistiche.

Se venisse fissata, come data non più dilazionabile per queste elezioni, il 10 giugno – data che del resto è suggerita da molte parti – potremmo discutere con più tranquillità lo Statuto siciliano.

Questo per quanto riguarda l’aspetto costituzionale. Dal punto di vista politico, e della sostanza stessa dello Statuto, considero che una discussione in seno all’Assemblea sia utilissima per tutti. Come ho detto, sono disposto a sottoscrivere pienamente la sostanza dello Statuto autonomistico. Però credo che sia necessario uscire dalla semi-clandestinità con cui problemi del genere sono stati finora trattati.

L’autonomia risolve indubbiamente problemi di autogoverno locale; però – lasciatemelo dire – diversa sarebbe stato il valore dell’autonomia, introdotta nel sistema dello Stato unitario del 1860, diversa è l’autonomia del 1947. L’autonomia creerà nel popolo siciliano una coscienza dei propri problemi, una coscienza di autogoverno delle cose locali. Però, può cristallizzare la situazione di sperequazione, di diverso sviluppo economico fra Nord e Sud, che si è creata dal 1860 in poi. Ora, anche questo aspetto del problema, secondo me, va pubblicamente discusso e dibattuto in sede di Assemblea. Bisogna dare la sensazione ai siciliani – combattendo alcuni pregiudizi diffusi dal movimento separatista – che l’autonomia non è un toccasana, non è la panacea.

L’autonomia è un mezzo per risolvere alcuni problemi; ma l’autonomia ha essa stessa dei limiti. Dando vita all’autonomia, come mezzo di sviluppo di energie locali, credo che si sarà risolta solo una parte del grande problema economico e sociale che starà di fronte all’Italia, nei prossimi decenni: il problema del Mezzogiorno. Vi sono aspetti di questo problema che sono uguali sia che si pongano a Palermo, a Cagliari o a Napoli. Sono questi aspetti che devono richiamare l’attenzione dell’Assemblea Costituente e impegnare la nazione. Sono questi aspetti che devono essere considerati in un tutto, al di fuori dello spirito particolaristico, e costituire motivo di interesse e di grande politica nazionale.

Una somma di considerazioni quindi, di ordine costituzionale e di ordine politico, la coscienza stessa del modo come si pone oggi il problema del Mezzogiorno, mi fa propendere per l’idea di ritardare le elezioni per quel tanto che permetta, nei mesi venturi, di discutere ampiamente tali problemi.

In linea subordinata, se l’Assemblea non accettasse il rinvio, consiglierei di fare espressa riserva sui diritti dell’Assemblea stessa, di inserire, nel quadro costituzionale del nuovo Stato, lo Statuto autonomistico siciliano.

Se l’Assemblea non intendesse nemmeno affermare questo suo potere sovrano, potrebbe parere stranamente insensibile a uno dei suoi compiti e doveri fondamentali, ciò che sarebbe di grande rammarico per noi. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ambrosini. Ne ha facoltà.

AMBROSINI. Onorevoli colleghi. Le osservazioni del collega onorevole La Malfa porterebbero l’Assemblea ad affrontare uno dei problemi centrali che verranno in discussione quando si tratterà del progetto di Costituzione. Ma siccome dobbiamo ora limitarci al tema della mozione, io ritengo che non sia necessario e forse nemmeno opportuno andare a toccare quegli argomenti generali ai quali, per altro, il collega onorevole La Malfa ha fatto un accenno fugace. Mi riferisco specialmente alla dizione di quell’articolo 108 del progetto di Costituzione, nel quale si delinea la figura giuridica che andranno ad assumere le Regioni. Effettivamente, siccome ha detto l’onorevole La Malfa, ci fu una lunga discussione sul termine dell’ultimo capoverso – «adottato» o «approvato» – ma sia la seconda Sottocommissione che la Commissione dei 75 e il Comitato di redazione, che si occuparono ampiamente del problema, finirono per concludere che, sostanzialmente, i termini si equivalevano in quanto non poteva restare alcun dubbio che la fonte di emanazione degli Statuti regionali non fosse e non potesse essere altro che lo Stato nell’esplicazione del suo potere sovrano.

Detto questo, occorre affrontare subito l’asserzione fondamentale del collega onorevole La Malfa; asserzione che sembrami vada oltre a quanto è richiesto nella mozione; giacché, mentre nella mozione si chiede al Governo di disporre il rinvio delle elezioni a dopo avvenuto il coordinamento dello Statuto siciliano con la Costituzione, nella motivazione della richiesta si inficia l’essenza stessa del decreto legislativo del 15 maggio 1946, col quale venne approvato lo Statuto siciliano.

Per esaminare la mozione nel merito, io credo che noi dobbiamo partire da un presupposto, da un punto fermo. Premetto che è fuori questione il potere dell’Assemblea che è sovrana. Ma il problema è un altro. Qui ci troviamo di fronte ad una disposizione di diritto positivo, della quale, finché esiste, non possiamo arrestare l’efficacia.

Con una coerenza, della quale tutti dobbiamo dargli atto, l’onorevole La Malfa si dichiara disposto ad approvare lo Statuto siciliano quando verrà in discussione davanti all’Assemblea, ma non ammette che fino a quel momento si riconosca ad esso valore, ed all’uopo chiede con la sua mozione che venga revocato il provvedimento col quale il Governo ha indetto le elezioni per l’Assemblea regionale siciliana. La sua richiesta non appare però fondata, perché contrasta col diritto positivo, il quale deve venire eseguito come ha fatto il Governo indicendo le elezioni. Non si può arrestarne l’efficacia se non abrogandolo; ma per chiedere di abrogarlo non basta la presentazione di una mozione, come quella che ora discutiamo.

La nostra Assemblea è indubbiamente sovrana; però nel procedere nelle sue decisioni deve seguire l’ordinamento che si è data, cioè non può sorpassare le norme del suo regolamento. Perciò, in considerazione specialmente del presupposto e del fine a cui tende, la mozione non potrebbe essere approvata, per una ragione quasi pregiudiziale, dall’Assemblea.

Onorevoli colleghi, in sostanza, la mozione dell’onorevole La Malfa, per quanto dice espressamente e più ancora per le esplicazioni lucidissime e coerenti che egli ha dato, in sostanza tende ad arrestare e mettere nel nulla un testo di diritto positivo (Commenti), cioè il decreto legislativo 15 maggio 1946 (Commenti).

Esiste questa norma di diritto positivo? È questa la prima domanda che noi dobbiamo farci. Non mi attardo in una dimostrazione. Se qualcuno la chiedesse, sarei disposto a farla. Devo dire, come presupposto, che la risposta è affermativa. Ed allora, se questa legge esiste, l’Assemblea non potrebbe farla cadere nel nulla se non abrogandola, e non attraverso la votazione di una mozione, che tende ad arrestarne l’efficacia con la richiesta della sospensione di un provvedimento che il Governo ha emanato, che doveva emanare per eseguire la legge.

Egregio collega La Malfa, io aggiungo che l’impostazione del problema andrebbe capovolta. Si sarebbe dovuto muovere lagnanza ed appunto al Governo se non avesse dato esecuzione alla legge. Noi dobbiamo difendere il sistema della legalità. Fino a quando una legge esiste, tutti i poteri dello Stato e lo stesso potere legislativo, non devono mettere remore alla sua esecuzione. Se una legge non si ritiene giusta, se non si ritiene più compatibile con le nuove esigenze, il potere legislativo la modifichi o la abroghi; ma fino a quando c’è una legge, questa deve essere eseguita.

Ebbene, giacché il decreto legislativo 15 maggio 1946 è diritto positivo, il Governo non poteva sottrarsi alla esecuzione di esso, e non poteva quindi non indire le elezioni, tanto più che in tale diritto c’è una norma esplicita che gliene dava tassativamente il compito, e quindi indubbiamente l’obbligo. L’articolo 42 dice che la prima elezione dell’Assemblea regionale avrà luogo a cura del Governo dello Stato entro tre mesi dall’approvazione del presente Statuto. Sento che qualcuno si preoccupa di questa parola «statuto», quasi si tratti di un ordinamento giuridico extra statuale. No. Chiariamo, si chiama Statuto, ma è una legge dello Stato. Lo Statuto non proviene da una fonte diversa dallo Stato. È lo Stato che lo ha deliberato attraverso l’organo che nel momento della sua emanazione aveva costituzionalmente i poteri sufficienti. Eliminiamo qualsiasi equivoco, in proposito, perché è bene che anche qui ci sia la chiarezza assoluta. Non è la Regione siciliana che, in modo autonomo, con potere autonomo ed originario – siccome pare ritenga l’onorevole La Malfa – ha emanato lo Statuto in questione.

La Regione siciliana, attraverso l’organo competente, cioè la Consulta regionale, propose al potere legislativo dello Stato uno schema di Statuto; e il potere legislativo dello Stato lo ha adottato.

Quindi è lo Stato che ha emanato lo Statuto della Regione siciliana; e il Governo ora non può sottrarsi alla sua esecuzione, perché ciò importerebbe non eseguire una legge.

Bene. Ci si potrebbe domandare: ma come mai il Governo non fece le elezioni infra i tre mesi stabiliti dall’articolo 42 di questa legge? La colpa è un poco della infelice dizione della legge. Anche Omero qualche volta dormiva. Anche il legislatore può sbagliarsi. In questo articolo appunto è capitata una svista che ha portato a qualche incertezza. Il testo dell’articolo 42 dice che la prima elezione dell’Assemblea regionale avrà luogo a cura del Governo, entro tre mesi dall’approvazione dello Statuto «in base alla emananda legge elettorale politica dello Stato». Tutta l’incertezza è provenuta dalla parola «emananda».

A fugare la incertezza è valsa la corretta interpretazione del testo, in base a tutto il congegno della riforma ed alle condizioni in cui fu deliberata.

Ecco i termini della questione. La Consulta siciliana, dopo una discussione nella quale tutti i pareri furono manifestati e alla quale la popolazione siciliana, caro La Malfa, partecipò con ansia ed interesse seguendo le varie opinioni, approvò, in data 23 dicembre 1945, la proposta dello schema di Statuto, nel quale si fece riferimento anche alle elezioni ed alla legge elettorale che le avrebbe regolate. Non esistendo alcuna legge elettorale, i redattori del progetto e poi la Consulta regionale si riferirono «alla emananda legge elettorale», alla legge elettorale cioè che sarebbe stata emanata per l’elezione della Costituente. Ciò fu deliberato nel dicembre 1945. Quando il progetto di Statuto fu approvato dal Governo col decreto legislativo del 15 maggio 1946, quella che dalla Consulta siciliana era stata indicata come legge elettorale «emananda» era stata di poi già emanata; quindi il legislatore avrebbe dovuto cambiare nell’articolo 42 la parola «emananda» con quella «emanata».

Ci fu una svista. Per l’incertezza derivatane il Governo ritardò ad adottare il provvedimento per indire le elezioni. Al fine, chiarita la situazione, il Governo ha provveduto ad eseguire la legge.

Ma è bene subito chiarire ancora nel merito: il legislatore – perché dobbiamo precisamente parlare di legislatore – il legislatore del 15 maggio 1945 che cosa poteva fare? Prevedere le elezioni per dopo il «coordinamento» del quale ha parlato La Malfa? Indubbiamente no. L’interpretazione dell’articolo 42 è evidente, e l’ha data quell’autore così illustre, Don Sturzo, al quale ha accennato il collega la Malfa (Interruzioni dell’onorevole Musotto).

Io porto argomenti che lei può benissimo controbattere.

Io ritengo di essere su terreno assolutamente obiettivo e di non forzare assolutamente i testi di legge.

Non l’ho mai fatto; meno che mai lo farei di fronte a questa illustre Assemblea. (Approvazioni).

Adunque, perché il legislatore escluse la possibilità, alla quale ha accennato l’onorevole La Malfa ed alla quale accenna l’onorevole Musotto, dell’indizione cioè delle elezioni dopo il «coordinamento»?

Perché questo provvedimento legislativo di approvazione dello Statuto siciliano – teniamo presenti le date – venne emanato, quando già esisteva il provvedimento legislativo che è venuto a costituire quasi un sistema di Costituzione provvisoria, il decreto legislativo cioè del 16 marzo 1946, nel quale si stabilisce la convocazione della Costituente e si fissa il termine della sua durata: cioè 8 mesi, prorogabili a 12. Riguardiamo le varie disposizioni legislative nel loro complesso.

Prego gli onorevoli colleghi di prestare un momento di benevola attenzione.

L’articolo 2 del provvedimento legislativo del 15 maggio 1946, che approva lo Statuto della Regione siciliana, dice:

«Lo Statuto predetto sarà sottoposto all’Assemblea Costituente, per essere coordinato con la nuova Costituzione dello Stato».

L’articolo 42 dello Statuto parla di elezioni che dovranno aver luogo entro tre mesi dalla sua approvazione.

Ora, salvo a pensare che il legislatore del 15 maggio 1946 avesse potuto credere che l’Assemblea Costituente potesse arrivare infra i tre mesi previsti dall’articolo 42 suddetto, cioè in concreto entro i primi di settembre del 1946, ad approvare la Costituzione, e a procedere ed ultimare il coordinamento di cui all’articolo 2 – il che, in base allo svolgimento normale delle cose, doveva anche allora apparire assolutamente impossibile – salvo questa ipotesi assurda ed impossibile, è evidente che nel pensiero del legislatore non vi era né poteva esservi connessione fra le elezioni ed il coordinamento. Le elezioni dovevano svolgersi necessariamente prima del coordinamento. Significa forse ciò diminuire i poteri della Costituente? No di certo.

Chi nega i poteri dell’Assemblea?

L’Assemblea procederà al coordinamento. Non solo; ma (l’abbiamo varie volte pubblicato e proclamato nelle riunioni di gruppo ed in questa Assemblea), siccome noi desideriamo, nell’interesse del Paese, che si vada al più presto alle elezioni generali, faremo di tutto, per quanto sta in noi, perché si arrivi al più presto all’approvazione della Costituzione e al «coordinamento» in questione.

Perché questo è indispensabile, egregio onorevole La Malfa. Per coordinare un testo che esiste con un altro che deve essere elaborato ed approvato, occorre che quest’altro testo sia completo ed in vigore. Si tenga presente che quest’altro testo è il principale, il fondamentale, al quale quello esistente, il particolare, cioè lo Statuto in questione, deve venire coordinato.

Quindi, prima sono da fare le norme della Costituzione, che costituiranno, come importanza come punto di riferimento, il prius di fronte allo Statuto regionale da coordinare con esse. È per ciò che solo dopo l’approvazione della Costituzione da parte di questa Assemblea, si deve procedere al «coordinamento». (Interruzioni). Il prius è la Costituzione! (Commenti). Quale coordinamento? (Commenti). E che cosa – perdonate, onorevoli colleghi – che cosa io dico di diverso? Noi abbiamo bisogno prima delle norme della Costituzione…

Una voce. No!

AMBROSINI. …di questo prius, come ho detto, e dopo procederemo al «coordinamento»; perché, lo ripeto, la Costituzione è il documento fondamentale col quale lo Statuto speciale siciliano va coordinato.

Ora, noi auspichiamo che l’Assemblea Costituente possa al più presto (e pare che il titolo che si riferisce all’ordinamento regionale verrà in discussione dopo le libertà civili) approvare queste norme della Costituzione; dopo di che si potrà procedere al coordinamento. Dal punto di vista mio personale dico, che per procedere al «coordinamento» non occorre nemmeno che l’Assemblea abbia approvato prima tutta la Costituzione, giacché basta che siano state approvate le norme fondamentali riguardanti l’ordinamento regionale, perché è a queste norme che dovremo riferirci per fare il «coordinamento».

Adunque, stabilito che c’è questa possibilità e che il procedersi alle elezioni non esclude che la Costituente – prima ancora del 20 aprile, o, comunque, prima che l’Assemblea regionale eligenda vada a funzionare – possa procedere a questo coordinamento, nessuno degli inconvenienti ai quali ha accennato l’onorevole La Malfa verrebbe a verificarsi: non l’inconveniente del quale si parla della mozione, cioè la possibilità di contrasti costituzionali fra Regione e Stato; e nemmeno gli altri inconvenienti relativi all’applicazione della legge, né tanto meno quello riferentesi alla preclusione dell’esercizio dei poteri della Costituente. Noi siamo ben lieti che l’amico La Malfa abbia portato la discussione non sul terreno del calcolo elettorale, ma su quello dei principî. Ma, stando in questo campo alto dei principî, noi diciamo: giacché c’è un testo di diritto positivo, giacché questo testo di diritto positivo promana dallo Stato secondo le norme costituzionali vigenti al momento della sua emanazione, giacché il Governo ha, non solo la facoltà, ma il dovere di eseguire la legge, fino a quando questa esiste, è evidente che non si può arrestarne o sospenderne l’efficacia, e che si debba quindi respingere la mozione La Malfa, che concretamente importerebbe tale risultato, chiedendo che il Governo sospenda quel provvedimento che ha emanato per eseguire la legge del 15 maggio 1946.

Egregi colleghi, io non vorrei nemmeno accennare a quello che è il gioco delle forze politiche in rapporto alle elezioni. C’è una pregiudiziale, che per essere di indole giuridica non è meno importante e meno decisiva per indurre a prendere posizione contraria alla mozione. Si tratta del rispetto e dell’esecuzione della legge. A questo proposito, prima di concludere, non sarà inopportuno ripetere (giacché mi pare di notare in proposito qualche dubbio) e chiarire che non c’è stato nulla nell’adozione dello Statuto siciliano che possa ritenersi contrario al sistema allora vigente di emanazione dei provvedimenti legislativi o che possa, nella sostanza, considerarsi lesivo della sovranità dello Stato. Basterà all’uopo fare un cenno all’origine di questo Statuto regionale. Il 18 marzo 1944, da parte del Ministero di Salerno – al quale apparteneva l’onorevole Corbino – fu istituito l’Alto Commissariato per la Sicilia, accanto al quale venne creata contemporaneamente una Giunta consultiva. Con un provvedimento legislativo del 28 dicembre successivo, che porta la firma dell’onorevole Bonomi e degli altri suoi colleghi al Governo di quel tempo, si apportarono innovazioni al precedente provvedimento, e fra le altre una riguardante la trasformazione della Giunta in Consulta regionale, alla quale venne attribuito anche il compito di «formulare proposte per l’ordinamento regionale».

Fu proprio in virtù di questo potere, ed anzi, di questo dovere della Consulta, che essa procedette all’elaborazione di quel progetto di Statuto che il Governo fece poi proprio e che approvò col decreto legislativo del 15 maggio 1946, dopo aver avuto il parere favorevole della Consulta Nazionale. Non sarà superfluo ricordare che la Consulta regionale siciliana elaborò tale progetto ispirandosi al criterio dell’interesse generale della Patria secondo l’incitamento del messaggio che il Presidente del Consiglio del tempo, onorevole Bonomi, aveva inviato alla Consulta e che fu letto al momento dell’insediamento di questa. Parlando dell’esperimento che la Consulta si apprestava fare, l’onorevole Bonomi diceva fra l’altro:

«Solo l’esperimento che voi vi preparate a fare, solo le voci che ci farete udire, potranno dirci come dovrà essere congegnata quell’autonomia regionale che da più parti si invoca. Io attendo da voi, dalla vostra opera, dai vostri suggerimenti, una guida ed un lume per la soluzione di un problema che è fra i problemi massimi della nuova democrazia italiana. La Sicilia è in particolari condizioni per assolvere il suo compito di precorritrice e di esempio».

A conclusione di questo messaggio, l’onorevole Bonomi diceva: «Io confido che la Consulta siciliana indicherà all’Italia quali vie deve battere per costituire un ordinamento interno in cui il centro e la periferia possano collaborare insieme con mutua comprensione. Auguro che i vostri lavori siano tali quali l’Italia ha il diritto di attendersi dalla vostra fervida e antica devozione al Paese».

Onorevoli colleghi, ho finito. Sì, fervida e antica devozione e dedizione della Sicilia alla Madre Italia. Nessuno può dubitarne. Rammento che, quando due anni addietro apparvero le prime minacce alla Venezia Giulia e ad altri territori che l’ingiusto Trattato di pace ci sta strappando, fu a Palermo, da parte degli studenti di quell’Ateneo, che si levò il primo grido di protesta, di angoscia e di dolore. (Applausi al centro e a destra). Noi siciliani sentiamo, non per calcolo, ma per istinto, la devozione completa alla Patria, così nella buona come nella cattiva fortuna. È con questo animo, onorevoli colleghi, malgrado tante delusioni, che noi abbiamo sempre lavorato, che lavoriamo e che continueremo a lavorare, sentendoci parte inscindibile di tutto il Paese, per la ricostruzione di esso e per la rinascita e la gloria d’Italia. (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Bellavista. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. Onorevoli colleghi, non abuserò della vostra pazienza: sarò brevissimo.

Sono contrario alla mozione Nasi-La Malfa, perché la credo fondata su un doppio equivoco giuridico e politico. E non mi soffermo su quello giuridico, perché l’ha già fatto con abilità e ricchezza di dottrina quel maestro che è Gaspare Ambrosini. Devo soltanto sottolineare, a rassicurazione della buona fede costituzionalistica che anima il collega La Malfa, che i pericoli di quel caos costituzionale, che egli intravede e crea, non esistono affatto nella realtà giuridica e politica.

Non esistono; e ne converrà l’onorevole La Malfa, sol che consideri quale è l’esatto contenuto, quale è l’esatta sostanza giuridica dello Statuto di autonomia, che, lungi dall’essere potere originario – che non trova limiti altro che in se stesso, quale è quello statuale – è invece un potere derivato, sottoordinato, che lo Stato concede – come vassallo a valvassore – e che può togliere in qualsiasi momento. Quindi, pericoli non esistono e non è il caso di inventarli, perché le preoccupazioni politiche agitate da La Malfa esistono, ma in senso perfettamente opposto e contrario.

Debbo anzitutto respingere quell’aura di diffidenza che, con bel garbo, La Malfa ha agitato a proposito delle prossime elezioni regionali. Credo che in democrazia si abbia il diritto e il dovere di credere alla libera scelta dei popoli che vanno alle urne. Io credo che non si abbia il diritto di sospettare degli orientamenti della politica popolare, perché, delle due una: o del popolo si ha fiducia e bisogna riconoscerne il verdetto, nulla facendo per evitarlo, o non si ha, e questo non può esser detto o sostenuto all’Assemblea Costituente italiana.

Non meno che le giuridiche, dunque, queste preoccupazioni politiche non esistono. La Malfa ha detto che ha paura che la vita politica siciliana, in un momento così delicato, si cristallizzi in forme destinate ad essere superate.

Io ho il sospetto – mi consenta il collega ed amico La Malfa – che egli non abbia «funditus» esplorato lo Statuto dell’autonomia siciliana. Su proposta dell’onorevole Li Causi, fu discusso alla Consulta di Sicilia e approvato all’unanimità da tutti i Partiti un articolo – se egli ha inteso alludere a quel progresso sociale che è ansia di tutti – nel quale testualmente si statuisce che la legislazione particolare siciliana, destinata alla esclusiva competenza dell’Assemblea regionale, non può discostarsi da tutte le conquiste sociali che nel campo del lavoro venissero effettuate nella legislazione statuale.

Nemmeno questa preoccupazione può sussistere perché i partiti, tutti i partiti, hanno preteso e concesso questa legittima e santa garanzia, che è arra di progresso civile e sociale.

L’unica preoccupazione politica che ha ragione di esistere è quella opposta e contraria: dobbiamo dire le cose come stanno, e dire pane al pane e vino al vino. Io faccio appello all’onorevole Natoli, invocandone la testimonianza, per dire che fin dal tempo della mia prigionia in America scrissi un articolo coraggioso contro l’antistoricità del separatismo siciliano; debbo però riconoscere che in tutta questa tragica, sanguinosa, deplorevole vicenda c’è una causa che non deve essere dimenticata o sottovalutata, ed è l’esasperazione regionalistica che da 80 anni abbiamo in Sicilia, e che è stata placata non dagli esilii di Ponza, ma soltanto dall’autonomia. È stato soltanto allora che il separatismo si è rivolto a forme più attenuate. Questa è la verità e noi non dobbiamo prestarci a che il passato risorga, non dobbiamo farlo se abbiamo sentimenti italiani… (Commenti). Perdonatemi se l’ansia interna ed il pericolo che scorgo esaltano un poco il tono della mia voce.

Ma la realtà è questa, la verità è che noi incoraggeremmo un risorgere di quel fenomeno e delle conseguenze di quel fenomeno, del quale non è il caso di parlare. Abbiamo il dovere di far sì che il popolo di Sicilia, che per una strana congiura di circostanze, dopo l’emanazione della legge dello Stato, ha visto ritardare le elezioni per quei motivi di miopia legislativa cui alludeva così bene l’onorevole Ambrosini, non abbia oggi a fortificarsi nel sospetto che le promesse di Roma siano destinate a non essere mantenute. Noi dobbiamo dare la certezza al popolo siciliano che Roma mantiene le sue promesse, che Roma lo reputa democraticamente capace di autogovernarsi, non solo, ma nell’orientamento verso lo Stato regionale, quale si profila nel progetto di Costituzione, restituisce anche alla Sicilia quel privilegio di grandi iniziative che le fu attribuito da Garibaldi. La Sicilia è il primo grande esperimento dell’autonomia regionale; grande esperimento, perché qui si è taciuto, e non ne capisco il perché, l’esperimento della Val d’Aosta.

Date, onorevole colleghi, questa fiducia ai siciliani che guardano all’Assemblea Costituente del popolo italiano; essi saranno degni di questa fiducia che accorderete loro, essi, che furono quelli di Cascino «la valanga che sale» dal Carso verso la Bainsizza, daranno prova di costruire un’autonoma regionale, veramente degna del tempo democratico nel quale viviamo (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Caronia. Ne ha facoltà.

CARONIA. Onorevoli colleghi, non intendo entrare in merito alla parte giuridica dell’argomento in discussione; mi pare che in proposito siano state esaurienti la parola dell’onorevole Ambrosini e quella dell’onorevole Bellavista, e non sono certo le obiezioni dell’onorevole La Malfa che possono sminuirne il valore.

Guarderò la quistione soltanto da un punto di vista politico e umano.

La storia dell’autonomia siciliana è ormai nota in tutti i suoi particolari. Si sa attraverso quali vicende si è pervenuti alla sua prossima realizzazione, che si tenta oggi sabotare.

Per renderci conto dell’importanza dell’autonomia siciliana, dobbiamo risalire al primo momento della formazione della tanto sospirata unità italiana, al 1860, quando la Sicilia per prima insorse aprendo le sue braccia al liberatore, a Giuseppe Garibaldi, con la precisa condizione che alla Regione fosse dato un proprio governo autonomo nell’ambito dello Stato italiano in via di formazione.

Ricordo, in proposito, il classico progetto di autonomia elaborato da Michele Amari e poi dimenticato per il prevalere dell’unitarismo accentratore, che eluse l’aspirazione dei siciliani.

Ma tale aspirazione sopita e non spenta, dopo varî conati violentemente soffocati, è rinata vivace durante la guerra infausta, sino a degenerare in movimento addirittura separatista, trasformatosi poi nel movimento federalista.

Non bisogna dimenticare quello che avvenne in Sicilia al momento dell’occupazione anglo-americana, in assenza di tutti i poteri dello Stato. Dinanzi ai grandi disagi della guerra, dinanzi alla carenza di ogni potere, dinanzi al crollo dello Stato, molti siciliani eccitati dall’entusiasmo di pochi elementi ben decisi, pensarono seriamente alla possibilità di formare non una Regione, ma uno Stato autonomo e certamente non sarebbero valse le forze dell’Italia in sfacelo ad impedirlo.

Ma sulle velleità separatiste prevalse il sentimento unitario del popolo siciliano, il sentimento nazionale di quel popolo che per primo invocò l’unità d’Italia, e il movimento separatista dovette segnare il passo.

Dovette segnare il passo perché – soprattutto per l’azione della risorgente democrazia cristiana, non dimentica del primitivo programma del 1919, circa il decentramento regionale – sorse a contrapporsi alle esuberanze del separatismo il movimento autonomista.

Dissero i siciliani: «Noi vogliamo sì provvedere alle cose nostre, noi vogliamo risolvere i nostri problemi, che i varî governi d’Italia succedutisi da Cavour a Mussolini mai sono stati buoni a risolvere, ma non vogliamo intaccare l’unità italiana, non vogliamo distaccarci dai nostri fratelli d’Italia».

Anche stavolta la Sicilia diede prova del suo incrollabile spirito nazionale. Chi va cianciando di antitalianità non conosce lo spirito dei siciliani, chi mette avanti lo spauracchio del pericolo dell’infrangersi dell’unità italiana sotto la spinta delle autonomie, mostra di non conoscere né gli italiani di Sicilia, né quelli delle altre Regioni; non si rende conto che una vera prova del fuoco è stata superata per il sopravvivere e prevalere dello spirito nazionale, nonostante i grandi disagi, non ostante la lunga occupazione straniera, non ostante la suggestione di un’attiva propaganda separatista.

I governi democratici, che si son succeduti dalla caduta del fascismo ad oggi, della saldezza dello spirito unitario dei siciliani non hanno dubitato e non hanno avuto paura d’istituire l’Alto Commissariato e la Consulta siciliana, che rappresentano una prima forma, per quanto embrionale, di autonomia.

È venuto poi il progetto di Statuto di autonomia elaborato dalla Consulta siciliana, che la Consulta nazionale ha approvato e che il Governo De Gasperi ha fatto legge, come quella del referendum e della Costituente; legge quindi, come queste, perfettamente costituzionale, perché costituzionale era il potere da cui emanava.

Lo Statuto della Regione siciliana, emanato il 15 maggio 1945, fu per la Sicilia come un pegno di pacificazione; il movimento separatista attenuò il suo ardore, lo stesso onorevole De Gasperi, nella sua visita a Palermo e a Catania verso la fine di maggio, poté constatare, attraverso le festose accoglienze, quale fosse lo spirito dei siciliani e quale la loro viva attesa per l’attuazione dello Statuto, che la legge stabiliva per il 15 agosto 1946, e che per una serie di circostanze inspiegabili soltanto ora comincia ad avere attuazione.

Nello scorso settembre, e precisamente il 18 settembre 1946, dinanzi alla mancata attuazione dello Statuto, sotto il pretesto che era vacante la sede dell’Alto Commissario, i miei colleghi siciliani al completo, senza distinzione di partiti, fecero formale richiesta al Governo di procedere all’immediata nomina dell’Alto Commissario, alla nomina della Commissione paritetica prevista dallo Statuto, alla convocazione dei comizi elettorali.

Leggo il documento con tutte le firme:

«Il Gruppo Parlamentare Siciliano chiede

1°) L’immediata nomina dell’Alto Commissario.

2°) La nomina della Commissione paritetica a norma dell’articolo 43 dello Statuto della Regione siciliana.

3°) Conseguentemente la convocazione dei comizi per l’elezione dell’Assemblea regionale secondo gli articoli 3 e 43 dello Statuto della Regione siciliana.

«Firmati: La Pira, Caronia, Volpe, Galioto, Gullo, Cannizzo, Varvaro, Mastrojanni, Adonnino, De Vita, Guerrieri, Mattarella, Martino, Basile, Nicotra, Vigo, Nasi, Cartia, Condorelli, D’Amico, Di Giovanni, Salvatore, Bonino, La Malfa, Borsellino, Musotto, Candela, Paratore, Castrogiovanni, Corbino, Orando Vittorio Emanuele, Gallo, Tumminelli, Trimarchi, Salvatore, Romano, Ambrosini, Russo-Perez, Natoli, Penna, Castiglia, Patricolo, Bellavista, Montalbano, Li Causi, Orlando Camillo, Medi, Finocchiaro-Aprile».

Il Governo, dopo qualche tergiversazione, aderì, e fu nominato l’Alto Commissario, fu formata la Commissione che ultimerà il lavoro entro il 20 marzo, furono fissati i termini per la convocazione dei comizi. Debbo, anzi in proposito, ricordare che, mentre i comizi avrebbero dovuto aver luogo tra la fine di dicembre e i primi di gennaio, per desiderio espresso di tutti i sunnominati colleghi, furono ritardati sino al 20 aprile.

Le condizioni stagionali furono argomento valido per il ritardo e alcune zone dell’opinione pubblica siciliana, che mal vedevano i continui rinvii, accettarono per buono l’argomento e si rassegnarono.

Ora si ripropone altro rinvio e, in violazione della legge, in violazione di un diritto acquisito, si vuole addirittura rimandare l’attuazione dello Statuto siciliano alla fine dei lavori della Costituente.

Ma chi questo desidera (e purtroppo fra di essi vi sono, in patente contrasto con se stessi, alcuni dei firmatari della richiesta presentata al Governo lo scorso settembre) si rende conto delle ripercussioni che un nuovo arbitrario rinvio avrebbe sulle popolazioni siciliane? Un ritorno indietro, una violazione della legge, una mancanza alla parola data, un vero atto di malafede nazionale! Quale argomento per la propaganda separatista, quale delusione ed irritazione per le popolazioni siciliane!

Onorevoli colleghi, vogliate guardare in faccia la realtà politica e vogliate soprattutto fare appello alla vostra coscienza democratica.

Agli amici di Sicilia che hanno firmato la mozione, venendo meno agli impegni precedentemente assunti, io dico: «Volete davvero calpestare la volontà della grandissima maggioranza del popolo siciliano? Credete sul serio al pericolo di una restaurazione monarchica che parta dalla Sicilia? O non sono invece altre le preoccupazioni che v’inducono a mancare all’impegno?».

Agli amici del continente che hanno compiacentemente sottoscritto la mozione io dico: «Conoscete voi la Sicilia? Vi rendete veramente conto dei problemi che vi si agitano? Non temete di acuire quei contrasti tra Nord e Sud, che noi tentiamo in tutti i modi di eliminare?».

A tutti poi debbo ricordare quanto recentemente ha scritto uno dei nostri più illuminati e grandi statisti, Luigi Sturzo:

«Là dove non ci sono elezioni – ed aggiungo, là dove non vi è rispetto delle leggi da parte del legislatore – vi sono il disordine e l’insurrezione».

Volete voi assumere questa tremenda responsabilità, opponendovi per di più ad un esperimento che di tanta utilità può essere alla nostra opera di ricostituzione democratica del Paese?

Abbiamo già un’autonomia in atto, quella della Val d’Aosta. In che cosa essa ha nociuto al Paese? In che modo ha incrinato l’unità della Patria? Non vediamo sinora che vantaggi e nessun danno: un insano movimento irredentista è spento, la tranquillità è tornata tra le popolazioni.

Nulla l’Italia ha da temere dalle autonomie. Contrariamente a quanto da taluno si vocifera, le autonomie non indeboliscono, ma rafforzano l’unità della nazione, perché eliminano contrasti altrimenti irriducibili e danno ai popoli una maggiore coscienza di se stessi, una migliore educazione politica democratica e soprattutto rendono più difficile l’avvento delle dittature.

In nome della Sicilia, in nome della democrazia, in nome della legge, io vi prego, onorevoli colleghi, di non volere accogliere la mozione, che sotto il pretesto di un semplice rinvio di elezioni, mira a colpire l’autonomia siciliana e con essa tutte le autonomie regionali. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Codignola. Ne ha facoltà.

CODIGNOLA. Mi pare che l’onorevole La Malfa abbia con grande esattezza ed acutezza indicato la sostanza del problema costituzionale che ci sta di fronte. Egli ha osservato che l’attività costituzionale dell’Assemblea Costituente non può essere subordinata ad una realtà costituzionale preesistente, e che l’autonomia siciliana deve fondarsi sopra una realtà costituzionale la più solida possibile.

Mi sembra invece che l’onorevole Ambrosini, pur dichiarando ripetutamente che egli non metteva in dubbio la sovranità di questa Assemblea, abbia in realtà lasciato sussistere molti dubbi su questa effettiva sovranità, perché egli ha dichiarato che è vero, sì, che l’Assemblea Costituente ha potere di deliberare in piena libertà sulla materia costituzionale, ma deve pure rispettare il diritto positivo esistente.

Ora a me pare che se questa Assemblea ha pieni poteri nel determinare nuove norme costituzionali, cioè nel dettare la nuova Costituzione dello Stato, a fortiori essa ha i poteri per rivedere quelle norme di carattere provvisorio che sono state emanate in periodo di vacanza costituzionale.

Il problema, quindi, mi pare che si sposti su un piano più importante di quello puramente locale, dove qualcuno ha cercato di restringerlo.

In realtà, il problema della autonomia siciliana è legato strettamente al problema dell’autonomia in generale, e, discutendo di questo, non si può non toccare del modo come esso è accennato negli articoli della nuova Costituzione, che noi siamo chiamati ad approvare.

L’onorevole La Malfa ha parlato dell’articolo 108 del progetto, ma osservo che vi sono altri articoli del progetto che presentano molto interesse al riguardo. Vi è l’articolo 114, comma 2°, che dichiara che una legge della Repubblica stabilisce il numero dei membri del Consiglio regionale ed il sistema elettorale, che deve essere conforme a quello della formazione della Camera dei Deputati. Vi è inoltre l’articolo 124 che dice che lo statuto di ogni Regione è stabilito in armonia alle norme costituzionali.

Ora mi pare evidente che noi, nel caso concreto, possiamo trovarci di fronte ad una situazione siciliana assai delicata, poiché può darsi che le norme contenute nello statuto provvisorio per l’autonomia siciliana siano per essere in contrasto, almeno parzialmente, con le norme sulla autonomia in generale, che saranno deliberate da questa Assemblea.

Se l’articolo 114 stabilisce addirittura che il sistema elettorale dovrà essere conforme a quello deliberato per la formazione della Camera dei Deputati, si pone anche il problema della legge elettorale, che oggi potrebbe essere diversa dalla legge elettorale che sarà stabilita domani da questa Assemblea, si pone cioè il problema della validità sostanziale delle elezioni che si stanno facendo in Sicilia. Si potrebbero domani mettere in discussione i risultati di queste elezioni, perché fondate su uno Statuto che è in contrasto con la legge fondamentale dello Stato, e questo proprio nel momento in cui si sta per discutere all’Assemblea Costituente intorno agli articoli di questa legge fondamentale.

In generale, penso che le deliberazioni prese a suo tempo dal Governo provvisorio in materia di autonomia della Sicilia e di altre Regioni italiane prestino il fianco all’osservazione che il problema dell’autonomia non può essere considerato semplicemente dal punto di vista dei diretti interessati, sebbene codesto punto di vista sia importante e legittimo.

Comprendo che gli onorevoli colleghi siciliani si preoccupino particolarmente del problema che stiamo discutendo, ma essi consentiranno che il problema riguarda egualmente tutti i membri di questa Assemblea, poiché il problema dell’autonomia regionale investe la struttura dello Stato ed egualmente tanto la Sicilia, come le altre Regioni italiane.

Credo che in sede di legislazione provvisoria si siano fatti dei passi troppo affrettati in questa materia. Evidentemente, quanto diceva La Malfa, che cioè non si può pensare ad un semplice coordinamento delle norme stabilite dallo Statuto provvisorio della Sicilia con le norme deliberate da questa Assemblea, è esattissimo, poiché questo coordinamento presuppone, per dire così, la coesistenza di due ordinamenti giuridici, presuppone, in certo senso, che lo Statuto siciliano sia portato sullo stesso piano dello Statuto della Repubblica, poiché quando si parla di coordinamento, si presuppone evidentemente che si sia di fronte a due norme giuridiche parallele. Ecco perché, da un punto di vista generale, il problema deve essere affrontato con grande attenzione da questa Assemblea.

Evidentemente vi sono dei riflessi politici. Tutti noi siamo informati della situazione molto preoccupante che si sta manifestando in Sicilia, ma giustamente osservava l’onorevole La Malfa che qui non si pone il problema del rinvio per un tempo indeterminato.

Si pone il problema pregiudiziale, se cioè le elezioni che sono indette in Sicilia siano tali da rafforzare l’autonomia regionale ovvero da indebolire questa autonomia, in quanto si fondano su disposizioni non riconosciute da questa Assemblea.

Il problema della scadenza verrà successivamente. Mi pare che non appena questa Assemblea abbia preso le sue deliberazioni in merito alle autonomie regionali si potranno anche prendere le deliberazioni relative all’autonomia siciliana. Non vedo perché l’Assemblea, come ha asserito l’onorevole Ambrosini, non potrebbe sospendere l’applicazione della legge in atto. Questa Assemblea non ha alcun bisogno di ripudiare la legge esistente, fintantoché essa non venga assorbita dalle norme generali in materia: ma, in attesa che entrino in vigore tali norme generali, si potrebbe intanto sospendere l’applicazione della legge, per permettere all’autonomia regionale siciliana di rientrare nel quadro generale delle autonomie, che a noi sta molto a cuore, in quanto rappresenta un aspetto generale della riforma strutturale dello Stato. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Vigo. Ne ha facoltà.

VIGO. Avrei rinunziato alla parola anche perché, dopo quello che ha detto l’onorevole Ambrosini, credevo che non ci potesse essere più nulla da obiettare contro la mozione e in favore di questa esigenza siciliana.

Ma poiché l’onorevole collega Codignola in questa seconda ripresa pare abbia spostato i termini della questione, ritengo necessario intervenire.

Qui non si vuole da parte dei siciliani fare il colpo e procedere alle elezioni per far trovare la Sicilia con le elezioni già fatte quando si dovrà discutere della struttura generale dello Stato. Noi non vogliamo, attraverso questa richiesta di elezioni, forzare la Costituente quando dovrà trattare delle autonomie.

Voi non considerate la situazione particolare e psicologica della Sicilia in questo momento. Essa è già preparata per l’autonomia; ha avuto il suo Alto Commissariato, provvede con organi autonomi alla sua costituzione e aspetta da tempo la possibilità di realizzare il suo autogoverno.

Non abbiamo proceduto all’organizzazione dell’ente regionale in forma clandestina, come ha detto l’onorevole La Malfa, ma in seguito ad invito formale solenne del Governo e dello Stato e dopo che la Consulta ha elaborato in diverse giornate, veramente storiche, nel dicembre 1945, quello Statuto che dopo essere stato oggetto di lunghissime e appassionate discussioni, è stato tradotto il 15 maggio del 1946 in una legge dello Stato, nella quale è inserito anche l’obbligo di indire entro tre mesi le elezioni regionali.

Una mozione portata qui nel momento in cui l’Assemblea ha un senso di stanchezza dopo la discussione durata una ventina di giorni sulle dichiarazioni del Governo, non credo che possa, nella forma più legittima, richiedere che si venga meno alla legge.

Esiste l’iniziativa parlamentare per cui si può chiedere l’abrogazione di questa legge, che è legge fondamentale dello Stato, con altra legge; ma attraverso una mozione non credo che si possa, né legittimamente né costituzionalmente, chiedere la sospensione della esecuzione della legge stessa.

Ritengo che l’onorevole La Malfa non abbia considerato anche un’altra situazione. Va bene che nel coordinamento occorrono due termini, ma coordinamento significa costituire quasi il testo unico di due leggi emanate in sedi o in tempi diversi.

Questa legge fondamentale dovrà essere coordinata; e se, per caso, la Costituente troverà nello Statuto siciliano norme eventualmente in conflitto con quello che sarà il sistema generale dello Stato, essa sarà sovranamente capace di modificarle.

Ma non si può in questo momento alla Sicilia, che è così preparata e protesa verso il suo autogoverno, dire che si rinvia, con lo specioso motivo di dover coordinare, quando tutti noi siamo disciplinatamente pronti ad accettare il coordinamento, che domani la Costituente detterà. Noi vorremmo, in conclusione, sodisfare le aspettative, le esigenze ed i bisogni della nostra popolazione. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Finocchiaro Aprile. Ne ha facoltà.

FINOCCHIARO APRILE. Brevissime dichiarazioni.

Noi indipendentisti siciliani siamo contrari alla mozione presentata dall’onorevole La Malfa e da altri colleghi, per due ordini di considerazioni: per considerazioni di ordine giuridico e per considerazioni di ordine politico.

Per le considerazioni di ordine giuridico, io mi riferisco a quelle esposte dall’onorevole Ambrosini. Sono perfettamente d’accordo con lui – non vi meravigliate che io sia d’accordo con un democristiano – per questo: effettivamente il Governo nove mesi fa – lasciamo stare le ragioni della fretta di allora del Governo, che ebbe manifesto carattere elettoralistico – emanò un cosiddetto Statuto della regione siciliana. Questo Statuto, che è una legge costituzionale, ha atteso sinora la sua attuazione, che parecchie volte noi in questa Assemblea abbiamo sollecitato.

Il Governo ha fatto sempre orecchio da mercante.

Soltanto poco tempo fa fu convocata la Commissione paritetica, prevista dallo Statuto medesimo, per studiare le modalità dell’attuazione.

Ora, lo Statuto è, ripeto, una legge vera e propria dello Stato. Nessuna obiezione è da farsi al potere sovrano dell’Assemblea Costituente. Ma siamo di fronte ad una legge dello Stato, che poteva essere emanata prima della convocazione dell’Assemblea Costituente e che fu emanata legittimamente.

Questa legge dello Stato può essere revocata dall’Assemblea Costituente, innegabilmente; ma finché è legge dello Stato, essa deve essere attuata. Se non fosse attuata, si commetterebbe un abuso di potere. Questo è il concetto espresso dall’onorevole Ambrosini.

Non credo che, dal punto di vista giuridico, si possa accennare a motivi e criteri diversi da quelli enunciati dall’onorevole Ambrosini. Quindi, necessita l’attuazione dello Statuto, senza ulteriori indugi.

Sul terreno politico noi indipendentisti siciliani abbiamo da fare riserve e censure all’azione del Governo. Vi è una legge dello Stato che, dopo nove mesi, non ha avuto ancora attuazione senza alcuna plausibile ragione: vi è l’impegno contenuto nella legge, che, dopo tre mesi, avrebbero dovuto aver luogo le elezioni dei deputati al Parlamento siciliano. Queste elezioni non sono avvenute, e ne è derivata una delusione ed una irritazione nelle popolazioni dell’Isola. In altri tempi ciò avrebbe provocato una crisi: oggi, invece, il Ministero ha avuto un grande voto di maggioranza e rimane al suo posto. Noi siamo dell’opinione che, sul terreno dell’autonomia, il Governo avrebbe dovuto comportarsi in modo completamente diverso. Il mio pensiero e quello dell’onorevole Gallo e degli altri indipendentisti – ed il vostro pensiero non può essere diverso – è che una legge dello Stato esiste e che questa legge deve essere, senza meno, attuata.

Presidenza del Presidente TERRACINI

Mi pare, però, che noi ci siamo messi un po’ fuori strada, perché non era questa l’occasione di fare una discussione così larga, come si è fatta, a proposito dell’autonomia siciliana. Noi ne discuteremo a tempo opportuno, quando ci occuperemo della nuova Costituzione e del coordinamento con essa dello Statuto siciliano. Qui siamo in presenza di una mozione, con la quale si chiede il rinvio delle elezioni. Da un punto di vista costituzionale, vorrei dire che noi invadiamo il potere del Governo. Si tratta, infatti, di materia che rientra nell’esercizio del potere esecutivo e il Governo deve conoscere da sé i suoi doveri e deve esercitarli senza bisogno di sollecitazioni da parte dell’Assemblea, se sa adempiere al suo compito.

Oggi noi avremmo dovuto limitarci all’argomento della mozione: all’invito, cioè, fatto dai proponenti al Governo di rinviare le elezioni siciliane. A questo proposito gli indipendentisti siciliani vi dicono essere loro avviso che le elezioni si debbano fare alla data stabilita. Però, siccome noi dobbiamo renderci conto delle varie esigenze politiche esistenti, noi consideriamo che i nostri amici socialisti, per esempio, in seguito alla scissione, non hanno avuto la possibilità di organizzarsi sul piano elettorale. Se quindi si venisse da loro a chiedere all’Assemblea: «Dateci il tempo congruo per prepararci», noi indipendentisti non avremmo nessuna difficoltà di consentire alla loro richiesta, anche per un dovere di cortesia e di cavalleria.

Ma non credo che sia questo quello che si voglia. Ripeto che, se ci si chiedesse un breve rinvio, noi saremmo molto lieti di consentire ad esso. Ma non questo si vuole; si vuole un rinvio a tempo indeterminato; si vuole un rinvio a quando lo Statuto siciliano sarà coordinato con la Costituzione. Ciò significa, parliamoci chiaro, aspettare da questo coordinamento un rifacimento dello Statuto in senso più restrittivo; significa mandare all’aria l’autonomia siciliana; significa un rinvio delle elezioni sine die.

LA MALFA. Entro maggio.

FINOCCHIARO APRILE. Non ci si arriverebbe. Ora, indipendentemente dalla situazione giuridica, che è quella che è, c’è una legge che bisogna osservare. Ma, a parte ciò, io insisto nella mia impressione che, attraverso il rinvio, si voglia attentare a quella che è l’essenza dello Statuto siciliano. Perché – è inutile dissimularlo – molti qui dentro parlano di autonomia, perché non possono farne a meno, ma, nel loro intimo, sono contrari all’autonomia. E perché sono contrari all’autonomia? Perché vedono in essa un principio di disgregazione del sistema unitario italiano. Io ho ripetuto varie volte che noi indipendentisti non consideriamo questo Statuto dell’autonomia siciliana come qualche cosa, non dico di perfetto, ma di giuridicamente passabile: è una misera cosa. Ma noi accettiamo lo Statuto siciliano non come fine a se stesso, ma come mezzo al fine, come mezzo per arrivare all’indipendenza della patria siciliana.

È evidente che un rinvio, dopo che per nove mesi il Governo non ha dato attuazione alla legge, avrebbe, sul terreno politico, una interpretazione molto penosa in Sicilia.

La Sicilia è scottata da questi indugi e da queste perplessità. È un pezzo che si dice: avrete l’autonomia, avrete il Parlamento siciliano, vi governerete da voi; ma non si vede nulla ancora.

Onorevoli colleghi, pensate che il rinvio delle elezioni a tempo indeterminato sarebbe considerato come un’offesa al popolo siciliano. È necessario che tale rinvio non avvenga.

Questi sono gli intendimenti e i consigli degli indipendentisti siciliani.

MUSOTTO. Ringraziamo l’onorevole Finocchiaro Aprile per la gentilezza avuta nei riguardi del Partito Socialista, ma il Partito Socialista è pronto a combattere tutte le battaglie.

PRESIDENTE. Il seguito della discussione sulla mozione è rinviato a domani alle ore 16. Vi sono ancora sette iscritti a parlare.

Voci. Chiusura! Chiusura!

PRESIDENTE. La discussione è già stata rinviata a domani. All’inizio di seduta, domani si presenti la proposta di chiusura, ed io la porrò in votazione.

Sui poteri di una Commissione.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Rubilli. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Come Presidente della Commissione nominata su proposta Natoli, ho inviato all’onorevole Presidente dell’Assemblea questa mattina, a nome della Commissione stessa, un ordine del giorno votato all’unanimità, col quale si domandano chiarimenti circa i limiti ed i poteri che sono consentiti a questa Commissione. Chiedo all’onorevole Presidente quali provvedimenti intende adottare al riguardo, facendo rilevare che sarebbe opportuno provvedere d’urgenza, perché la Commissione intende iniziare al più presto possibile i suoi lavori ed espletarli in un breve termine, specialmente per la dignità dell’Assemblea. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Confermo che il Presidente della Commissione nominata in seguito alla proposta dell’onorevole Natoli, onorevole Rubilli, mi ha trasmesso stamane, con una lettera di breve commento, un ordine del giorno approvato all’unanimità dalla Commissione. Questo ordine del giorno pone il problema dei limiti e dei poteri della Commissione stessa, cioè della materia nei cui confronti essa è chiamata a pronunciare il suo giudizio e delle facoltà che le competono, allo scopo di giungere alle necessarie chiarificazioni.

Il problema è di competenza dell’Assemblea, ed io quindi lo porrò, nella seduta di domani, all’Assemblea stessa, dando comunicazione dell’ordine del giorno votato dalla Commissione e della lettera di breve commento con cui il Presidente della Commissione stessa me l’ha trasmesso.

L’Assemblea è investita del potere di interpretare la propria decisione in quanto non ritengo – allo stato dei fatti – di poter io stesso dare questa interpretazione.

RUBILLI. Data l’opportunità che la questione sia esaminata e decisa al più presto possibile, mi permetto pregarla, signor Presidente, perché voglia anche valutare la possibilità di portarla dinanzi all’Assemblea nella seduta di domani, prima di ogni altro argomento.

Vedrà lei se vi sia questa possibilità: è soltanto una preghiera da tener presente in giusti limiti.

PRESIDENTE. La questione sarà portata in discussione e conclusa nella seduta di domani indipendentemente dal numero d’ordine che le sarà dato.

Comunque, nella giornata di domani deve essere decisa, perché concordo pienamente con le considerazioni dell’onorevole Rubilli che non convenga frapporre alcun indugio a che la Commissione possa decidere e completare i suoi lavori.

RUBILLI. Ringrazio, anche a nome della Commissione.

Interrogazioni d’urgenza.

PRESIDENTE. È stata presentata, con richiesta d’urgenza, la seguente interrogazione dall’onorevole Sullo:

«Ai Ministri degli affari esteri e del lavoro e previdenza sociale, per conoscere se non ritengano, di fronte allo stato d’animo messianico diffusosi nel Paese sulla possibilità di emigrare senza limite nel numero e senza ritardo nel tempo in Argentina, intervenire con una immediata dichiarazione chiarificatrice al fine di:

1°) rendere nota, se è possibile, la procedura da seguire per il reclutamento, per evitare che il pullulare di iniziative private incontrollate non sia oggetto di delusioni che si riverserebbero non solo sugli eventuali responsabili, ma anche sul Governo;

2°) fornire all’opinione pubblica (se per regolamentare il reclutamento occorre ancora attendere) elementi che diano l’esatta visione delle possibilità emigratorie distinte per categorie e ripartite nel tempo;

3°) vietare per ora, comunque, prenotazioni illegittime che in talune zone diventano anche oggetto di private speculazioni.

«L’interrogante ritiene che solo con una tempestiva precisazione si possa evitare nel Paese il sorgere di correnti di sfiducia e di delusione prodotte da facili entusiasmi».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

ROMITA. Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Risponderò domani.

PRESIDENTE. È stata presentata, con richiesta di risposta urgente, un’altra interrogazione dell’onorevole Sullo, firmata anche dall’onorevole Monticelli, così formulata:

«Ai Ministri delle finanze e tesoro e della difesa, per conoscere se intendano venire incontro al più presto alle giuste lagnanze che si elevano da molte parti dalle famiglie dei militari dispersi in Russia (ed altre categorie assimilate), alle quali, in attesa della liquidazione della pensione, viene sospeso il sussidio corrisposto per il passato.

«Sembra opportuno agli interroganti che non si debbano, nelle more tra la cassazione del sussidio e la concessione delle pensioni, per un intervallo di tempo che è accresciuto dalla poca sveltezza degli uffici interessati, porre in tanta difficoltà le famiglie duramente provate dalla guerra».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

PELLA, Sottosegretario di Stato per le finanze. Il Sottosegretario di Stato per il tesoro comunicherà domani quando potrà rispondere.

PRESIDENTE. È stata presentata la seguente interrogazione, con richiesta di risposta urgente, dall’onorevole Platone:

«Al Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere:

1°) se non ritenga opportuno vietare la riscossione, a mezzo delle Esattorie, di contributi associativi di Enti diversi, sistema che gli stessi fascisti con legge 12 luglio 1940, n 1199, vietarono e punirono con la sola eccezione per i contributi volontari corrisposti dai cittadini al partito nazionale fascista;

2°) quali provvedimenti intenda adottare nei confronti della Associazione coltivatori diretti di Asti, la quale, senza autorizzazione, passava agli esattori della provincia per la distribuzione con la bolletta delle tasse, le sue cartelle di pagamento compilate in modo da lasciar supporre trattarsi di contributi obbligatori, le quali cartelle furono consegnate a tutti i proprietari di terreni iscritti e non iscritti alla Coltivatori diretti ed il contributo venne fissato in base alla superficie posseduta o al reddito, variando cioè, da contadino a contadino, valendosi all’uopo degli elenchi dell’Ufficio contributi unificati, di cui è direttore lo stesso dirigente della Coltivatori diretti;

3°) se non ritenga opportuno o urgente revocare la successiva autorizzazione concessa in data 7 febbraio 1947 dalla Direzione imposte dirette, che si presta ad abusi ed equivoci e menoma gravemente il carattere di assoluta volontarietà che deve essere assicurato ad ogni contributo associativo;

4°) dato il vivo fermento e la confusione provocati in provincia di Asti dalla iniziativa denunciata, la presente interrogazione ha carattere di urgenza».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

PELLA, Sottosegretario di Stato per le finanze. In assenza del Sottosegretario di Stato per il tesoro, dichiaro che il Governo risponderà domani.

Sciogliendo poi la riserva fatta dall’onorevole Petrilli, circa l’interrogazione dell’onorevole Camangi, dichiaro che il Governo risponderà domani anche a questa.

PRESIDENTE. È stata presentata la seguente interrogazione urgente dall’onorevole Angelucci:

«Ai Ministri dei lavori pubblici e delle finanze e tesoro, per sapere quali siano le ragioni per le quali è stata sospesa, presso gli uffici del Genio civile del Lazio e presso il Provveditorato delle opere pubbliche, ogni attività tendente a predisporre i lavori pubblici già in programma ed il relativo finanziamento; e per conoscere quali siano i provvedimenti urgenti che i due Ministri ritengono di dover prendere per superare la suddetta situazione, che determina disoccupazione e grave malumore tra le amministrazioni comunali e le popolazioni, specialmente per il raffronto che esse fanno con i dispendiosi lavori di movimento di terra che si eseguono nella città di Roma con una spesa di centinaia di milioni al mese».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

PELLA, Sottosegretario di Stato per le finanze. Il Sottosegretario di Stato per il tesoro comunicherà domani quando potrà rispondere.

PRESIDENTE. Infine è stata presentata, con richiesta di risposta urgente, la seguente interrogazione dell’onorevole Mazzoni, firmata anche dagli onorevoli Piemonte, Montemartini, Rossi Paolo, Ghidini, Canepa, Canevari e Pera:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se, di fronte a denunzie che sono cadute ieri nel silenzio angosciato e turbato dell’Assemblea e relative a sistemi adottati dalla polizia in Sicilia, non ritenga necessario promuovere senza indugio una inchiesta per accertare i fatti nella loro soggettività. In caso affermativo, se, per rispetto alla pubblica coscienza e per la stessa necessità di prestigio alle Autorità, non ritiene assolutamente necessario che la indipendenza e serenità della inchiesta siano garantite dal suo carattere parlamentare».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Ministro dell’interno risponderà domani.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge.

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro per sapere quali direttive intenda adottare nei confronti dell’Istituto nazionale delle assicurazioni per ottenere:

1°) che l’Istituto delle assicurazioni provveda quanto meno alla ricostruzione di case di sua proprietà assicurando così lavoro ai disoccupati e lenendo la grave crisi delle abitazioni.

«Risulta per vero che in Torino immobili di proprietà di tale Istituto sono nello stato di abbandono e sinistramento tali e quali erano successivamente alle incursioni aeree;

2°) che l’Istituto stesso provveda ad erogazioni o anticipi a favore nei confronti dei propri assicurati necessitanti di fondi per ricostruzioni di immobili e provveda alla ricostruzione di case specie popolari.

«Né può essere dimenticata la situazione di particolare disagio nella quale si trovano gli assicurati, che dopo avere per anni, e con sacrifici, pagato i ratei assicurativi in moneta pregiata, si trovano ora, per lo svilimento della moneta, ad esigere le rendite o liquidazioni in cifre irrisorie.

«Ciò mentre l’istituto ebbe ad investire, od avrebbe dovuto investire le quote degli assicurati, in notevole parte, in beni reali, creandosi così, nei confronti degli assicurati, una posizione di privilegio».

«Bovetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere se creda opportuno far seguire alla circolare 15 maggio 1946, n. 4, sull’imposta di famiglia altri chiarimenti per l’applicazione degli articoli 112, 113, 117 del testo unico sulla Finanza locale, approvato con decreto 14 settembre 1934, tenuto presente quanto segue:

  1. a) che la circolare ministeriale sopra ricordata si è limitata a parafrasare il dettato dell’articolo 117 del testo unico, senza eliminarne la grave tautologia, con la quale si indicano, per la determinazione dell’«agiatezza» da colpire, due categorie di elementi, una delle quali è costituita dagli indici dell’«agiatezza», definita con questa denominazione: tautologia accoppiata a confusione fra l’oggetto dell’imposta e la sua fonte;
  2. b) che, secondo gli articoli 112 e 113, il marito e la moglie, il genitore e i figli, anche minorenni, debbono essere tassati come famiglie distinte quando abbiamo patrimoni distinti, anziché patrimonio unico e indiviso, la quale ultima circostanza quasi mai si verifica, mentre la prima porterebbe a tassazioni distinte, con illogico vantaggio di aliquota.

«Costa».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se sia legittimo e normale far gravare sul bilancio di un piccolo comune (Montubeccaria) l’onere dell’indennità dovuta, per il periodo in cui fu sottoposto a procedimento di epurazione, ad un segretario comunale, trasferito d’ufficio da poche settimane e non più tornato a Montubeccaria.

«Montemartini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere quando e come si intenda provvedere alla liquidazione del controvalore della carta monetata francese, versata alla Banca d’Italia dai militari del nostro Esercito al loro rimpatrio dalla prigionia. L’interrogante fa presente: a) che alle truppe operanti in Tunisia veniva corrisposto nel 1943 lo stipendio in valuta francese e che al momento della cattura il Comando occupante ordinò la consegna dei fogli monetati, che furono custoditi nei fascicoli personali di ciascun prigioniero; b) che allorquando la Francia annunciò il cambio della moneta non mancarono da parte dei Comandi di campo italiani pressanti sollecitazioni verso le Autorità militari francesi, perché venisse provveduto in conformità; c) che tali risparmi, invece, furono restituiti al rientro dei prigionieri in Patria, allorquando la prescrizione era già avvenuta. Poiché per ordine delle Autorità italiane i biglietti prescritti furono fatti versare alla Banca d’Italia, in attesa di superiori istruzioni, l’interrogante chiede che la numerosa schiera degli aventi diritto abbia ad essere messa sollecitamente nella condizione di poter incassare il controvalore dei biglietti versati.

«Cimenti».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere quali provvedimenti intende adottare a favore dei professori che, vergognoso a dirsi, percepiscono al grado iniziale, la somma di lire 8717 mensili.

«Detti provvedimenti si presentano ancor più urgenti quando si consideri che il Sindacato professori ha minacciato per il 3 marzo prossimo lo sciopero generale, qualora entro tale termine non si sodisfino le loro giustissime richieste. Tanto più che gli interessati non ritengono risolto il problema concedendo loro l’indennità di presenza che apporterebbe il beneficio di sole mille lire circa al mese.

«Monterisi, De Maria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere quante automotrici sono in servizio in Italia, e su quali linee; e per sapere, inoltre, se, per elementare giustizia distributiva, non possano essere utilizzate alternativamente anche su linee importanti che ne sono state sempre sfornite. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Reale Vito».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare i Ministri dell’agricoltura e foreste e delle finanze e tesoro, per sapere a quale punto si trova la liquidazione del patrimonio della defunta Confederazione fascista degli agricoltori e a quali enti è stata o sarà destinata l’eredità della suddetta Confederazione. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Scotti Alessandro, Carbonari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non creda doveroso portare dinanzi al Consiglio dei Ministri la questione dei presidi e dei professori anziani, affinché la legge De Vecchi, che, con aperta violazione del contratto di impiego, ridusse il limite di età a 65 anni, sia abrogata, e rimessa in vigore la legge sotto il cui impero sono stati assunti detti presidi e professori o che almeno siano tenuti in servizio fino a che non sia provveduto, col nuovo ordinamento, a pensioni adeguate alle necessità del momento.

«Con questo atto di giustizia sarà evitato:

  1. a) che un ulteriore notevole gruppo di insegnanti, che hanno dato la miglior parte della loro esistenza alla scuola, siano, per le attuali penose condizioni di vita, esposti, con le rispettive famiglie, alla fame;
  2. b) che molti insegnanti siano collocati a riposo prima di raggiungere i 40 anni di servizio e conseguentemente perdano il diritto al massimo della pensione;
  3. c) che perduri lo stridente contrasto tra le disposizioni che consentono ai supplenti di insegnare fino a 70 anni (circolare 5877 del 1° agosto 1945) e quelle che fissano per i professori di ruolo il limite di età a 65;
  4. d) che rimanga in vigore una ingiusta legge fascista mentre molte altre sono state abrogate;
  5. e) che i professori trattenuti in servizio oltre il 65° anno, su domanda degli stessi di anno in anno, come richiede il Ministero, «mancando il riconoscimento legale della proroga», abbiano al momento del collocamento a riposo, «il danno enorme» di vedersi liquidata la pensione sullo stipendio percepito nell’anno in cui compivano i 65 anni e non sull’ultimo stipendio goduto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bruni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere se creda opportuno provvedere a che la tariffa della imposta sui cani, stabilita dall’articolo unico della legge 22 gennaio 1942, n. 35, ed aumentata con l’articolo 21 del decreto legislativo 8 marzo 1945, n. 62, sia ulteriormente aumentata in misura congrua, quanto meno per i cani di la categoria e 2a. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Costa».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Governo, per rilevare che durante il periodo della lotta di liberazione, varî impiegati dei comuni e di altri enti locali, partecipanti al movimento cospirativo, senza tuttavia prender parte diretta alla lotta come partigiani, furono costretti ad assentarsi dal servizio così per sottrarsi alla cattura, come per continuare l’attività clandestina, e per sapere se non si ritenga equo di riconoscere ad essi il diritto al pagamento degli assegni, per il periodo di forzata assenza, da parte degli enti di appartenenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Gortani».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze e tesoro e dei lavori pubblici, per conoscere quali risoluzioni definitive intendano prendere per porre fine alla giusta agitazione degli inquilini dell’I.N.C.I.S. determinata dall’enorme ed illegittimo aumento dei canoni, la cui sospensione è prossima a scadere. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se, di fronte alle rinascenti voci di propositi relativi al trasferimento nell’Italia centrale dell’Accademia aeronautica, voci che hanno avuto anche un’eco di deprecazione nello svolgimento da parte dell’onorevole Cingolani, già Ministro dell’aeronautica, di un recente ordine del giorno all’Assemblea Costituente, ritenga opportuno assicurare le popolazioni dell’Italia meridionale che tale trasferimento non avverrà. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere la ragione per cui si ritarda ancora la sistemazione di quei direttori didattici che ebbero a sostenere e superare le prove scritte del concorso ispettivo del 1941. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Fabriani».

«I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se non ritenga opportuno che i giornali, già appartenenti al partito fascista e passati in proprietà dello Stato, debbano essere affidati, con tutte le debite cautele, a organizzazioni cooperative, impedendo così che cadano nelle mani di speculatori e di reazionari.

«In particolare, se non creda opportuno affidare La Gazzetta di Parma, già ceduta temporaneamente in affitto a una locale cooperativa tipografi dal Ministero delle finanze, con piena garanzia di indirizzo democratico, alla stessa cooperativa, nelle forme che si riterranno più consone agli interessi dello Stato e della democrazia.

«Canevari, Gorreri».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno, qualora il Ministro interessato non vi si opponga nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 20.15.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16.

  1. – Interrogazioni.
  2. – Seguito della discussione sulla seguente mozione:

«L’Assemblea, ritenuto che per la realizzazione organica dello Statuto siciliano, ad evitare eventuali conflitti di carattere costituzionale dopo la sua applicazione, occorre che lo Statuto sia coordinato colla Costituzione della Repubblica, come del resto è previsto dallo Statuto stesso; ritenuto, altresì, che i lavori della Commissione paritetica per lo Statuto siciliano non sono ancora conclusi, ciò che pregiudica la migliore realizzazione dell’autonomia; considerato che le elezioni per l’Assemblea siciliana, indette per il 20 aprile, non sono, allo stato, conciliabili con le premesse esigenze; invita il Governo a disporre le elezioni in Sicilia alla data più vicina possibile, dopo l’avvenuto coordinamento costituzionale in sede di Assemblea.

«Nasi, La Malfa, Di Giovanni, Lombardi Riccardo, Canevari, Veroni, Cevolotto, Silone, Rossi Paolo, Preziosi, Corsi, Bocconi, Costantini, Lombardo Ivan Matteo».

MARTEDÌ 25 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUZIONALE

XLVI.

SEDUTA DI MARTEDÌ 25 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Caronia                                                                                                            

Martino Enrico                                                                                               

Presidente                                                                                                        

Condorelli                                                                                                      

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Presidente                                                                                                        

Gallo                                                                                                               

Villani                                                                                                             

Treves                                                                                                              

Gronchi                                                                                                            

Pallastrelli                                                                                                    

Caronia                                                                                                            

Uberti                                                                                                               

Mastino Pietro                                                                                                

Tonetti                                                                                                             

Parri                                                                                                                 

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Perassi                                                                                                              

Orlando Vittorio Emanuele                                                                         

Cianca                                                                                                              

Vigorelli                                                                                                          

Lucifero                                                                                                           

Sardiello                                                                                                         

Selvaggi                                                                                                           

Finocchiaro Aprile                                                                                         

Nitti                                                                                                                  

Cevolotto                                                                                                        

Cingolani                                                                                                         

Togliatti                                                                                                          

Bellavista                                                                                                       

Andreotti                                                                                                        

Mazzoni                                                                                                            

Cotellessa                                                                                                       

Risultato della votazione nominale:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni e interpellanza d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste                                                    

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri             

Mannironi                                                                                                        

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare sul processo verbale l’onorevole Caronia. Prego l’onorevole Caronia di precisare le ragioni della sua richiesta:

CARONIA. La mia richiesta è motivata dal fatto che l’onorevole Colonnetti ha chiamato in causa il Rettore dell’Università di Roma, perché avrebbe preso un provvedimento anti-sociale.

PRESIDENTE. Mi permetta, onorevole Caronia: lei ha presentato un ordine del giorno che svolgerà nella seduta di oggi e che si riferisce per l’appunto a problemi connessi agli studi. Io le vorrei soltanto chiedere se non ritiene possibile includere le sue dichiarazioni nel contesto dello svolgimento dell’ordine del giorno.

CARONIA. Ritengo opportuno di fare alcune brevi considerazioni in merito al processo verbale, per chiarire un episodio di carattere esclusivamente locale riguardante l’Università di Roma.

Se l’onorevole Presidente permette, svolgerò brevemente le mie osservazioni.

PRESIDENTE. La pregherei però di voler soltanto chiarire ciò che l’onorevole Colonnetti ha detto in merito all’episodio specifico dell’Università di Roma.

CARONIA. Mi occuperò semplicemente di questo. Il professore Colonnetti ha criticato il Rettorato dello Studium Urbis, perché ha applicato un aumento di tasse, anzi, dice precisamente, perché ha triplicato le tasse a carico degli studenti, ed ha aggiunto che questo provvedimento è un provvedimento di carattere antisociale.

In realtà anche noi, d’accordo con l’onorevole Presidente del Consiglio delle ricerche, vorremmo che lo Stato onnipotente potesse provvedere a tutti i bisogni del cittadino, dalla culla alla bara, assicurandogli l’assistenza materiale, spirituale e morale; ma purtroppo lo Stato italiano non è così ricco, e sono pochi quegli Stati così ricchi da potersi permettere simile lusso e, quindi, il cittadino deve intervenire con il suo sacrificio personale nell’interesse della collettività.

Il Rettore dell’università di Roma, nella mia persona, il Consiglio di amministrazione ed il Senato accademico della stessa Università, alieni da ogni sogno demagogico, ma consci della realtà della situazione, richiesta l’approvazione regolare al Ministero della pubblica istruzione, hanno creduto opportuno, per evitare di chiudere le porte degli Istituti e per continuare a dare agli studenti quel minimo di assistenza che vogliamo dar loro, di applicare un piccolo aumento di tasse, non una triplicazione, come ha detto l’onorevole Colonnetti.

Questo provvedimento, ripeto, è stato preso con lo scopo di non arrivare a quegli estremi a cui sono arrivate altre Università, con applicazione di tasse molto più onerose, oppure con la chiusura addirittura di Istituti.

Io voglio leggere, perché gli onorevoli colleghi si rendano conto di questo fatto, il famoso manifesto che ho indirizzato agli studenti e che riguarda il provvedimento preso dall’Università di Roma:

«Cari studenti, dai direttori degli istituti, dalle vostre organizzazioni, dai reduci dalla Camera del lavoro, da tutte le parti si chiede di adeguare il «servizio» didattico e scientifico della nostra Università ai reali odierni bisogni ed all’accresciuto numero degli iscritti.

«Aumentare la capienza delle aule, aprire le biblioteche e le segreterie anche nel pomeriggio per gli studenti impiegati, sdoppiare per incarico alcune cattedre, aumentare il numero degli assistenti e dei tecnici per dividervi in molti gruppi durante le esercitazioni, aiutare realmente i più diligenti e bisognosi con la concessione di sussidi e di libri, migliorare ed aumentare il numero dei pasti gratuiti… e molte altre analoghe provvidenze si impongono in modo assoluto ed urgente, se non vogliamo che l’insegnamento sia per voi, in troppi casi, soltanto una finzione.

«Tutti questi problemi, però, non si possono in modo alcuno risolvere senza considerevoli mezzi economici; ed invece il bilancio universitario è oberato di debiti, mentre le autorità ministeriali – per ragioni che non mi è dato valutare – non aumentano le tasse, né le dotazioni e nemmeno riescono ancora a rimborsarci le fortissime spese da noi anticipate per ordine degli stessi Ministeri.

«Valga qualche cifra ad illustrare le attuali condizioni del nostro bilancio: nel primo anno dell’autonomia universitaria (1924-25) lo Stato ci concesse un contributo ordinario annuo di circa cinque milioni, pari, cioè, al 50 per cento delle entrate effettive del bilancio; oggi tale contributo è stato quintuplicato, ma il suo importo corrisponde ad appena il 3 per cento delle entrate effettive.

«Un altro esempio: poco prima della guerra si spendevano lire 1.500.000 l’anno per il riscaldamento di tutti i locali dell’Università, del Policlinico e degli altri Istituti; oggi per riscaldare, in modo ridottissimo, soltanto le cliniche e le camere operatorie, si spendono oltre 24 milioni, cioè l’intera dotazione annua ministeriale.

«La Facoltà d’ingegneria ha richiesto 40 assistenti per poter compiere le esercitazioni; l’istituto di anatomia con 2400 studenti ha solo 3 assistenti; mancano i banchi; i tavoli da disegno, i microscopi ed altri apparecchi, scientifici indispensabili… Ma l’elenco delle urgenti necessità sarebbe troppo lungo; e rispondere per tutti in modo negativo equivarrebbe a spegnere la vita di molti Istituti.

«In queste condizioni, fra tradire il compito per cui l’Università vive ed opera, e chiedere un modesto sacrificio economico, il Senato accademico (adunanza del 1° febbraio 1947), il Consiglio di amministrazione (adunanza del 4 febbraio 1947), sono stati costretti a seguire, pur con vivo rincrescimento, l’unica via che rimane aperta per non ingannarci reciprocamente con un incompleto infecondo insegnamento: l’imposizione di un contributo per le biblioteche, per le esercitazioni e per l’aumento di personale, approvato con lettera ministeriale del 20 gennaio 1947, n. 332.

«La somma stabilita per quest’anno – ivi compreso il contributo di lire 100 per le attività sportive – è di lire 4000 (pari a lire 333 mensili) da pagarsi in 4 rate da lire 1000 ciascuna, di cui la 1a e la 2a dovrebbero essere pagate entro il 31 marzo e le altre due prima o assieme alla domanda di esami per la sessione estiva.

«Da tale contributo verranno esonerati, in tutto o in parte, quei giovani che abbiano superato con la media di 27-30 o di 24-30 tutti gli esami obbligatori dell’anno scolastico 1945-46.

«Questo contributo – che in varie Università è già applicato per cifre altissime e che suonerà invito al Governo per meglio corrispondere alle nostre vitali ed elementari necessità – sono certo che verrà sopportato dalla classe studentesca come un sacrificio indispensabile, perché la classe stessa non venga ingannata da un insufficiente insegnamento». (Commenti).

Questo manifesto ha avuto la miglior risposta dagli studenti, i quali in un recente congresso interuniversitario hanno presentato al Ministro della pubblica istruzione, tra l’altro, le richieste di un aumento non eccessivo e la perequazione del livello delle tasse… (Interruzioni a sinistra – Rumori).

Finisco rilevando che trovo naturale che lo studente che possa pagare paghi per chi non può. Noi nelle nostre decisioni abbiamo chiaramente detto che intendiamo escludere dalle tasse gli studenti benemeriti, cioè coloro i quali mostrano maggiori attitudini allo studio, anche se abbienti. Per i bisognosi e meritevoli si è cercato di fare di più con l’aiuto ed il sacrificio dei loro colleghi più fortunati, del Rettorato e dell’amministrazione universitaria, apprestando, nei limiti del possibile, alloggio, vitto, libri, assistenza sanitaria.

Il piccolo aumento di tasse che noi abbiamo applicato serve esclusivamente per gli studenti e non già per una costosa gestione presidenziale o per dare sussidi ai professori: serve solo per aiutare gli studenti, per assicurare loro il necessario pane dello spirito, e, quando è possibile, quello del corpo.

Questa è la realtà, il resto è utopia o demagogia.

MARTINO ENRICO. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Indichi il motivo.

MARTINO ENRICO. Ieri, sono stato chiamato in causa dagli onorevoli Longo e Condorelli; desidero precisare alcuni punti al riguardo.

PRESIDENTE. Onorevole Martino, se ella fosse stato presente alla seduta di ieri avrebbe avuto la facoltà di chiedere di parlare immediatamente, come hanno fatto altri onorevoli colleghi. Sostanzialmente la sua richiesta si riferisce alla seduta dell’altro ieri. Non è possibile trascinare così da una seduta all’altra le rettifiche sul processo verbale.

MARTINO ENRICO. Sono dolentissimo, onorevole Presidente, di non aver potuto esser presente alla seduta di ieri; osservo però che ieri, in sede di processo verbale, gli onorevoli Longo e Condorelli hanno parlato d’un mio discorso precedente al quale essi pure non erano stati presenti.

PRESIDENTE. Ma sempre però in sede di processo verbale; il processo verbale rappresenta, direi, una parte prorogata della seduta precedente. Io non voglio adesso impedirle di parlale, ma faccio appello al senso che i nostri colleghi hanno del modo migliore di impiegare il tempo che abbiamo a disposizione. La prego quindi, onorevole Martino, di parlare veramente pochissimi minuti.

MARTINO ENRICO. Sono spiacentissimo di entrare in polemica con l’onorevole Longo su una questione così importante, che sta a cuore a tutti noi, qual è quella dei partigiani. Ma l’onorevole Longo ha detto che il Ministro della guerra e l’onorevole Martino non si sarebbero resi conto della realtà. Gli faccio presente che le leggi sui partigiani sono legate al nome del Ministro Facchinetti, mentre i partiti che sono stati al Governo per due anni non hanno fatto approvare quelle leggi. Faccio presente all’onorevole Longo – ed egli può credere ai suoi compagni Boldrini e Moscatelli cui potrà domandarne – che io mi sono attivamente battuto per fare approvare quelle leggi. Boldrini, se non mi hanno mal riferito, ha sottolineato al Congresso del Partito a Firenze, il mio interessamento per questa questione. Debbo far rilevare all’onorevole Longo che non sono io ad aver suscitato questa polemica; siccome è stato detto che non sono stati inseriti i partigiani nell’esercito, io mi sono limitato ad osservare che questi inserimenti vengono fatti in seguito alle proposte trasmesse dalla Commissione presieduta dall’onorevole Longo. Ora, io posso dire che, di queste proposte, è pervenuto al Ministero un primo blocco in numero di cinque, alla data del 4 dicembre, e un secondo blocco, in numero di 32, è pervenuto il 23 dicembre. Un terzo ed un quarto elenco sono poi giunti successivamente, quando già era stata aperta la crisi.

Siccome la legge stabilisce che queste domande devono essere esaminate dall’apposita Commissione esistente presso il Ministero della guerra, è evidente che in così poco tempo non era possibile fare di più.

Questi sono dati presi dal Ministero; ed io desidero che dall’altra parte, invece di continuare a fare delle asserzioni, si diano date e nomi precisi.

Per quanto riguarda la immissione di partigiani nell’esercito, le relative proposte, nelle quali occorre precisare il grado con il quale il partigiano entrerà nell’esercito, sono fatte da una Commissione, mentre il riconoscimento viene fatto dal Ministro. Nessuna segnalazione è a tutt’oggi pervenuta al Ministero da parte della Commissione.

LONGO. Dipende dalle modalità emanate dal Ministero della guerra.

MARTINO ENRICO. Questo non mi riguarda.

Quanto all’onorevole Condorelli, evidentemente egli non era presente quando io parlai, o non ha capito quello che io ho detto. Egli si è lamentato per il fatto che una Commissione mista di civili e di militari esaminerebbe le posizioni degli ufficiali reduci dalla prigionia. Devo fare presente che per tutto quello che si riferisce alle capacità tecnico-professionali ed al comportamento degli ufficiali esistono soltanto commissioni composte di ufficiali superiori, con esclusione dei civili. Esisteva invece, come per tutti i cittadini italiani, una Commissione di epurazione, che non esamina l’attività militare, ma la eventuale compromissione con il regime fascista o l’eventuale collaborazione con i tedeschi. E questa Commissione dava sufficienti garanzie, perché composta di un magistrato, di un generale e di un rappresentante nominato dalla Presidenza del Consiglio.

PRESIDENTE. Onorevole Martino, la prego di scusarmi: non si tratta di un fatto personale. Ella non è responsabile dell’operato di queste Commissioni.

MARTINO ENRICO. L’onorevole Condorelli ha smentito quanto io ho dichiarato nel mio discorso; e di fronte ad una smentita credo di avere il diritto di fare una contro-smentita.

PRESIDENTE. No, ella può fare personalmente la contro-smentita all’onorevole Condorelli, oppure pubblicamente a mezzo della stampa. Si ha un fatto personale quando la persona specifica dell’onorevole deputato è chiamata in causa. Lei non risponde delle Commissioni di epurazione dell’esercito. Lei è stato un ottimo Sottosegretario per la guerra e sarebbe strano che per ogni atto del suo Ministero lei dovesse render conto qui. La prego di concludere.

MARTINO ENRICO. Ieri l’onorevole Condorelli ha detto che noi abbiamo smentito che esiste una Commissione mista per l’esame dei generali. Non ho mai negato questo. Ho detto anzi che la Commissione esiste: ma non nei termini indicati dall’onorevole Condorelli.

L’onorevole Condorelli ha aggiunto: «Vi è stato poi lo sfollamento dei quadri, sovvertendo tutte le regole della disciplina, poiché si sono posti i generali alla mercé di politici nettamente avversi ad ogni idea di militarismo. Sarebbe bastato invece affidare questo compito al Ministro ed al Sottosegretario in carica, per evitare dei sovvertimenti».

Mi permetta il Presidente dell’Assemblea di precisare che questi politici nettamente avversi ad ogni idea di militarismo sarebbero tutti i Ministri e tutti i Sottosegretari alla guerra che sono stati in carica.

Ora, ho il diritto e il dovere di difendere tutte queste persone. Dice l’onorevole Condorelli che sarebbe stato sufficiente che il Ministro esaminasse lui le pratiche. La legge, infatti, glielo concedeva, ed è stato il Ministro che ha voluto, per maggiore garanzia, che fossero esaminate da una Commissione mista, con i precedenti Ministri. Precedenti Ministri che sono: il Presidente Parri, l’onorevole Jacini, l’onorevole Casati che non ha accettato, l’onorevole Brosio, e l’onorevole Facchinetti e tutti i Sottosegretari, fra cui i due Sottosegretari comunisti Colajanni e Palermo. Ora, io ho la sensazione che dalla parte destra si facciano troppe critiche perché sono stati inclusi questi due Sottosegretari, il che sarebbe assolutamente ingiusto, perché questi due Sottosegretari sono stati nel passato due ufficiali brillantissimi, attaccati all’onore militare dell’esercito e che insieme a tutti gli altri hanno solo questo grande desiderio: che i futuri quadri dell’esercito dovranno essere ben selezionati, perché non dovranno essere attaccati da nessuna parte, né da questa Assemblea né dalla stampa.

(Applausi).

CONDORELLI. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, il processo verbale non è sede per polemiche fra gli onorevoli deputati. Ritengo opportuno richiamare l’articolo 80 del Regolamento: «È fatto personale l’essere intaccato nella propria condotta, o il sentirsi attribuire opinione contrarie alle espresse. In questo caso, chi chiede la parola deve indicare in che consiste il fatto personale; il Presidente decide; se il deputato insiste, decide la Camera senza discussione per alzata e seduta».

Desidero avvertire che d’ora innanzi darò la parola sul processo verbale per fatto personale soltanto quando, dietro mio invito, gli onorevoli colleghi mi avranno precisato in che cosa sono stati intaccati, in relazione alla loro condotta, o se si sono sentiti attribuire opinioni contrarie a quelle espresse. In questo limite, non da me stabilito, ma dal Regolamento, d’ora innanzi si potrà parlare sul processo verbale.

CONDORELLI. Chiedo la parola perché mi sono state attribuite opinioni contrarie alle espresse.

PRESIDENTE. Lei chiederà la parola, se mai, sul processo verbale della prossima seduta.

CONDORELLI. Mi riservo di chiedere di parlare sul processo verbale nella prossima seduta.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo gli onorevoli deputati Pignataro, Lussu e Tambroni Armaroli.

(Sono concessi).

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

L’onorevole Gallo ha presentato il seguente ordine del giorno, firmato anche dagli onorevoli Finocchiaro Aprile e Castrogiovanni:

«L’Assemblea Costituente,

constatato che, ripetutamente, sono stati denunziati al Paese i sistemi di tortura e di sevizie adottati dagli organi della polizia per strappare dichiarazioni e confessioni ai prevenuti, sistemi seguiti sempre in Sicilia e che si continua ancora oggi a seguire, anche sulle persone degli indipendentisti tratti in arresto, e ciò con deplorevole ritorno al medioevo e con dispregio delle leggi della civiltà e dell’umanità,

invita il Governo a far cessare tanto obrobrio e a punire esemplarmente i responsabili di tali delitti e si riserva di procedere alla nomina di una Commissione d’inchiesta, a norma del vigente regolamento».

L’onorevole Gallo ha facoltà di svolgerlo.

GALLO. Onorevoli colleghi, il mio ordine del giorno è collegato alla mia interrogazione del 20 corrente, trasformata poi in interpellanza, che il signor Ministro dell’interno non ha ritenuto avesse carattere di urgenza.

Dall’ordine del giorno che io svolgerò voi giudicherete se parlare di certi fatti sia urgente o no. Dal giugno 1946 ad oggi, in quest’aula, già altri colleghi – che hanno avuto la sensibilità di sentire quanto profonde e quanto pericolose fossero le dichiarazioni fatte per primo dall’onorevole Finocchiaro Aprile circa i mezzi inumani usati dalla polizia, specie in Sicilia – hanno chiesto ripetutamente che il Governo provvedesse alla nomina di una Commissione di inchiesta parlamentare per accertare fatti. Questi colleghi, ai quali desidero rivolgere il mio plauso, rispondono ai nomi degnissimi degli onorevoli Mazzoni, Perrone Capano e Pertini. Un atto di accusa vero e proprio circa 8 mesi addietro è stato pubblicato da un giornale edito a Roma. Dopo questa pubblicazione ci fu anche una lettera dell’allora Ministro degli interni, onorevole Romita, una risposta a un giornalista, al quale lo stesso onorevole Romita aveva chiesto un memoriale.

In questa lettera è detto testualmente: «In relazione al memoriale da lei rimessomi con lettera del 18 giugno 1946, le confermo che i fatti segnalati formeranno oggetto di una rigorosa inchiesta da parte di un ispettore generale di pubblica sicurezza, al quale ho dato disposizioni di partire immediatamente per la Sicilia, anche per studiare e riferire sul problema siciliano; la notizia, beninteso, è riservata e lei vorrà, per comprensibili ragioni, mantenerla tale». Sono passati nove mesi, ma nulla è venuto fuori da allora. Il funzionario di pubblica sicurezza, da qui ad arrivare in Sicilia – il viaggio è lungo – si è perduto per strada.

Da parte del Governo nulla è stato fatto. Il popolo siciliano ha ragione di ritenere che, se i funzionari di polizia si sono permessi di commettere gli atti inumani che io illustrerò a questa Assemblea – e non semplici funzionari o semplici agenti, ma alti ufficiali dei carabinieri reali; insisto: reali, ed alti funzionari di polizia hanno presenziato a queste sevizie – da parte del Governo ci sia per lo meno una tacita autorizzazione.

In questi giorni va in giro una circolare, sembra, della Legione dei carabinieri di Messina, con la quale si invitano tutti i Commissariati a segnalare: 1°) i nomi dei componenti dei comitati delle varie sezioni M.I.S., il numero degli iscritti, nonché l’elenco nominativo di essi. Io chiedo a voi tutti, di tutti i partiti, se questa è libertà e se le autorità di pubblica sicurezza sono autorizzate dal Governo a far ciò.

Sono autorizzate a chiedere il numero ed il nome degli iscritti? (Commenti).

Ah! Sono autorizzati?

PAJETTA GIANCARLO. Sono autorizzati in base ad una legge fascista. (Commenti).

GALLO. La ringrazio; era quello che volevo confermato: in base ad una legge fascista!

Ma c’è di meglio! In questi giorni, e da gran tempo, si sente in Italia parlare di processi contro criminali di guerra. Io chiederò a voi, colleghi, dopo che avrò descritto quelle che sono le torture e le sevizie che ancora oggi – nel 1947 – le autorità di polizia fanno, se intendete o no fare il processo ai criminali di pace!

Le autorità di polizia in Sicilia, al fine di ottenere dai prevenuti delle confessioni, si servono di questi mezzi di tortura: percosse, fustigazioni, tortura dell’unghia, cassetta, bicicletta, arresto dei congiunti, specialmente donne.

Che cos’è la fustigazione? Le percosse, lo sappiamo e quindi non mi soffermerò. La fustigazione consiste in ciò: gli indiziati vengono legati su una panca, ai loro piedi viene avvolto uno straccio bagnato di acqua salmastra per circa venti minuti, mezz’ora. Si toglie poi questo straccio e, con una sottile verga, si comincia la fustigazione. Questa dura venti minuti, mezz’ora. Poi, bontà loro, è concesso un riposo, quindi si ricomincia. Questa è la fustigazione. Non avveniva solamente nel medio evo, avviene oggi, mentre io vi parlo, in Sicilia: queste torture sono state inflitte anche ai giovani indipendentisti.

Io ho tutta la documentazione, tutte le testimonianze, ed alla Commissione d’inchiesta, e solamente alla Commissione d’inchiesta, io consegnerò queste documentazioni, queste testimonianze, queste dichiarazioni.

Ho dichiarazioni firmate, pur anco da funzionarî di polizia, da carabinieri. Ripeto, le consegnerò solo alla Commissione d’inchiesta, e non un nome farò qui, chiederò solamente che in questa Commissione d’inchiesta, se voi lo credete, si possa includere anche me, perché saprei dove mettere le mani, e laddove si fosse cercato di togliere prove saprei dove andarle a ritrovare. Sono diventato pratico, dopo quello che ho subito e dopo quello che ho vissuto!

Tortura dell’unghia: si lega l’individuo su una panca o su un tavolo, poi, con una lunga pinza, si cominciano a tirare le unghie; si sospende per dieci minuti, poi si prendono dei piccoli e ben appuntiti pezzetti di legno, delle piccole stecche e si infilzano sotto l’unghia. Si lascia stare così a soffrire quel povero disgraziato per dieci minuti o un quarto d’ora e con la stessa pinza si estirpa l’unghia. (Commenti).

Abbiamo delle prove e delle documentazioni, e ho da mostrare alla Commissione di inchiesta individui che ciò hanno subito.

La cassetta: è la tortura più in uso oggi.

Si tratta di due comuni cassette militari, che tutti conosciamo, sovrapposte l’una sull’altra.

L’individuo viene denudato, fustigato per bene, schiaffeggiato, preso a calci e buttato sul pavimento più o meno bagnato. Poi lo si prende e lo si lega su queste cassette. Lo si lega in maniera che il busto sia completamente fuori delle cassette. Le caviglie vengono assicurate saldamente con una corda, e poi legate con la maniglia della cassetta inferiore.

Un carabiniere o un agente si mette a cavalcioni sull’addome. Un’altra corda lega le braccia e i polsi dietro la schiena. La corda, lunga questa volta, viene fatta passare in maniera da scorrere dentro una maniglia, e due carabinieri cominciano a tirare, tirare al punto che l’individuo è costretto a mettersi supino, e dunque a far ponte con la schiena. Si continua a tirare al punto da far alzare le braccia fino a provocare la slogatura delle braccia stesse, e non è molto bello sentire il rumore delle ossa, onorevoli colleghi. (Commenti).

Ma non finisce qui la tortura della cassetta. Un secchio, capace di contenere 20-30 litri d’acqua, viene posto sotto la testa del paziente (chiamiamolo paziente!). Altro agente lo prende per i capelli e lo costringe a stare con la testa rivolta in alto. Un altro con un recipiente più o meno sporco prende dal secchio della luridissima acqua e la versa sulla bocca e sul naso, in modo che il paziente è costretto ad aprire la bocca per non soffocare e ad ingoiare questa luridissima acqua. L’operazione, continua per venti minuti, per mezz’ora, fino a quando l’addome si gonfia per il quantitativo d’acqua ingoiato. Ebbene, colleghi, l’agente che sta a cavalcioni sull’addome, aiutato, occorrendo, da un altro, preme fortemente sull’addome stesso fino a provocare la fuoruscita dell’acqua che va a cadere nella secchia. (Commenti).

L’operazione si riprende. Pugni di sale vengono messi nella bocca del povero paziente, teste di acciughe salate vengono infilate nelle narici e l’operazione continua.

Giacche questo nome è stato già fatto dai giornali, dirò che al dottore Rigo La Manna, giovane indipendentista, arrestato e imputato di… indipendentismo, questa operazione è stata fatta, per quattro giorni, quattro volte al giorno.

Quando l’individuo ha perduto completamente i sensi, lo si slega e lo si getta sul pavimento che nel frattempo è diventato una pozzanghera; quindi nudo, lo si butta nella cella. Si fa passare un’ora o due e lo si interroga per vedere se è disposto a dire quello che si pretende che dica.

Quando risponde no, lo si riporta alla tortura della cassetta.

Questo, onorevoli colleghi, nel 1947, si fa in Sicilia, mentre io vi parlo. (Commenti).

Io non intendo qui parlare in prima persona. Non ho mai parlato in prima persona, perché l’idea di libertà e di civiltà per la quale combatto non vede persone, e tanto meno la vita. Ma ad una Commissione di inchiesta sarà facile, facilissimo constatare cosa si è fatto in Sicilia ed anche con giovani idealisti, cosa si fa, tutt’ora.

Ancora oggi, nelle carceri, in Sicilia giacciono due giovani studenti, uno dei quali ha appena 18 anni, ed è quasi tisico; ed un altro giovane, imputato di essere rimasto al mio fianco disarmato durante il combattimento di San Mauro, che tutti conoscete, e che mai mi abbandonò. Da un anno è in galera, non si riesce a metterlo fuori, neppure con l’amnistia. Questi giovani si trovano nelle carceri…

FINOCCHIARO APRILE. …e buttano sangue.

GALLO. …e buttano sangue; ma sono lì. C’è un processo, il processo dell’Evis; è il mio processo; sono orgoglioso di dire che è il mio processo; ma non si farà – state tranquilli! – non si farà!

Io chiedo solennemente in quest’aula che questo processo si faccia, perché io lo voglio, perché da questo processo l’Italia o, meglio, il popolo italiano dovrà dire chi sono coloro che imbrattano la bandiera della libertà e coloro che per la libertà sanno sacrificare la vita. Nulla i siciliani ebbero ed hanno mai avuto dal popolo italiano, dagli italiani; ma i siciliani sono stati, sono e saranno sempre contro i governi d’Italia, che hanno fatto quello che ho denunciato, che hanno oppresso il popolo siciliano, contro i Governi d’Italia che così pensano di creare quello spirito di fratellanza, che condusse i siciliani sul Carso e sul Piave, quei siciliani che hanno benedetto le terre d’Italia col loro sangue, quei siciliani che oggi, alla luce di 87 anni di storia, hanno il diritto di dire: «Noi nulla vediamo che ci dica che al di là dello stretto ci siano fratelli».

Questo i Governi d’Italia hanno fatto.

Il popolo, siciliano ha chiesto comprensione, riconoscimento dei diritti; questo i governi d’Italia non l’hanno saputo fare, non lo fanno.

Ed io accuso i Governi d’Italia di fronte al popolo italiano, di fronte a tutti i popoli civili del mondo. E giudicate voi, rappresentanti del popolo, se io ho ragione di sostenere e di combattere per la causa, per la quale ho combattuto e combatto; dite voi, rappresentanti della democrazia, se è vero che questa non è democrazia, ma barbarie. Questo io chiedo.

Quando contro il popolo siciliano si sono scritte tutte le parole, che qui non ripeto, perché, quale rappresentante della nuova democrazia italiana, non voglio offendervi; quando ci si è divertiti a scrivere contro quest’uomo (Indica l’onorevole Finocchiaro Aprile), contro la mia persona, contro questo misero uomo, questo bandito, quello che si è scritto – voi avrete anche, spero, notato che mai una mia parola di risposta c’è stata – ebbene, io sono orgoglioso di essere stato giudicato un bandito. Sì, bandito da quel consorzio umano che ruba sul sangue del popolo con l’autorizzazione della legge; da quel consorzio io sono stato bandito; ma se bandito io sono, se tale mi avete giudicato, lasciate che i giudici mi giudichino. Perché il Governo non fa questo processo?

Io chiedo che questo processo si faccia, perché dovrà dimostrare che cosa è stato commesso dalle forze dell’ordine, come io abbia rubato: sì, a mio figlio; ho rubato a mio figlio, perché ho distrutto il mio patrimonio. Ma oggi sono orgoglioso di essere un nullatenente, sono fiero della mia miseria, perché a questo sono arrivato per la difesa dei diritti di libertà di un popolo, che è il popolo più sano, più morale, più civile del mondo.

E io qui, prima che mi si dica che la nostra Patria è l’Italia, io ripeto e vi invito a considerare che disposto sono io a dire «Viva l’Italia», quando in questo consesso di uomini liberi si riconoscerà che è giusto, per il sangue versato insieme, che si dica «Viva la Sicilia!».

FINOCCHIARO APRILE. Viva l’indipendenza della Sicilia! (Interruzioni – Rumori).

Una voce. Viva l’Italia!

GALLO. Viva l’Italia libera! Ma l’Italia libera non come la crearono nel 1860, ma un’Italia confederale, dove tutti gli uomini, dove tutte le genti vivano in civile libertà. (Rumori – Interruzioni – Commenti).

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Cairo e firmato anche dagli onorevoli Villani, Canevari, Morini, Carboni:

«L’Assemblea Costituente, richiamandosi all’ordine del giorno Canevari ed altri, svolto nella seduta del 25 luglio 1946 e nella seduta stessa accettato, come raccomandazione, dal Presidente del Consiglio, invita nuovamente il Governo ad emanare d’urgenza il provvedimento richiesto nel predetto ordine del giorno ed inteso a riparare il grave danno subito dagli Enti cooperativi, mutualistici ed istituti similari a seguito delle violenze fasciste».

Non essendo presente l’onorevole Cairo, ha facoltà di svolgerlo l’onorevole Villani.

VILLANI. Non si tratta, onorevoli colleghi, di svolgere l’ordine del giorno presentato; si tratta molto più semplicemente di ricordare al Governo attuale che la questione che già fu qui discussa e l’ordine del giorno che già fu qui svolto dal compagno Canevari, mentre trovò nella persona del Presidente del Consiglio un’accoglienza di massima, non ha avuto nei sette mesi decorsi dalla seduta del 26 luglio, nessun seguito.

Ora noi abbiamo voluto ripresentare la questione, perché riteniamo che, se il Governo precedente non ha avuto la possibilità di risolvere o di affrontare questo problema, il Governo attuale debba sentire l’urgenza di assolvere il compito che già fin d’allora noi abbiamo voluto affidargli.

Noi non ci nascondiamo le difficoltà, anche di carattere tecnico-giuridico, che la risoluzione di questo problema comporta.

D’altra parte, però, ritengo che in un Paese come il nostro, dove il popolo soffre di molte cose, ma soprattutto soffre della mancanza di giustizia, della sensazione che manchi la giustizia, sia cosa veramente indispensabile di dare, specie in questo campo – dove il fascismo è stato feroce, ed anche inutilmente feroce – la sensazione di capire questo bisogno di giustizia e di sodisfarlo

Poiché non è mia intenzione di svolgere l’ordine del giorno, mi limito semplicemente a formulare questa speranza: che il Governo trovi la volontà di risolvere un problema che per i lavoratori del nostro Paese, per i lavoratori italiani, non è uno degli ultimi, ma è anzi uno dei più importanti problemi; ed anche perché, così facendo, darà una dimostrazione pratica di essere cosciente dei compiti che esso ha verso i lavoratori, verso i cooperatori italiani e, nello stesso tempo, potrà dare finalmente la netta impressione che si vuole procedere, dove è possibile, con giustizia nel nostro Paese.

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Rossi Paolo, firmato anche dagli onorevoli Cairo, Pera, Treves, Vigorelli, Ruggiero, Persico, Binni, Tremelloni, D’Aragona, Longhena, Bianchi Bianca, Lami Starnuti, Canevari, Simonini.

«L’Assemblea Costituente,

ritenuta l’urgenza che la prima Costituzione repubblicana, con le leggi costituzionali indispensabili per la Sua entrata in vigore, diventi realtà,

considerato lo stringere del tempo, l’imponente mole e la gravità del lavoro da compiere,

mentre si dichiara pronta a riunirsi normalmente in due sedute quotidiane, antimeridiana e pomeridiana,

invita il Governo a presentare entro il più breve termine possibile i progetti delle leggi elettorali politiche e amministrative».

Poiché l’onorevole Rossi, primo firmatario dell’ordine del giorno, è assente, chiedo se qualcuno dei firmatari intende svolgerlo.

TREVES. Lo mantengo, rinunciando a svolgerlo.

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Gronchi:

«Il popolo italiano vive oggi, con profonda delusione, il dramma della sua pace, che dalle solenni premesse di giustizia dei «Grandi» si è isterilita in soluzioni, le quali rispecchiano un transitorio faticoso regolamento di interessi dei vincitori, e ritardano – se pur non negano – il ritorno ad una pacifica e solidale convivenza dei popoli.

La situazione, che ci viene fatta, nei suoi aspetti giuridici, nelle sue conseguenze economiche, nei suoi riflessi morali, non trova alcuna giustificazione storica; il popolo italiano, pur cosciente delle responsabilità derivanti da un orientamento politico e da un regime di Governo, i quali peraltro avevano raccolto molteplici consensi, anche presso i suoi attuali giudici, ha la certezza di essersi riconquistato, con il sacrificio dei suoi figli migliori nelle Forze armate e nelle formazioni Partigiane e colla immensa rovina del suo territorio, il diritto di porre fin da oggi il problema della revisione delle imposte condizioni di pace: problema che è già nella coscienza delle Nazioni amanti della pace.

E l’Assemblea Costituente, sicura interprete dell’Italia intera, rivolge un appello ai Parlamenti delle Nazioni Unite, affinché le condizioni più dure possano essere fino da ora alleviate, e particolarmente affinché:

1°) non siano mantenute mutilazioni territoriali intollerabili al sentimento nazionale;

2°) venga evitata ogni ingiusta umiliazione all’Esercito e alla Marina, che, fedeli alle loro tradizioni di ardimento e di devozione alla Patria, hanno dato così valido contributo alla lotta comune;

3°) non siano imposti oneri economici e finanziari, che determinerebbero condizioni insostenibili per il nostro progresso e per la nostra vita stessa».

L’onorevole Gronchi ha facoltà di svolgerlo.

GRONCHI. Rinunzio a svolgerlo, pregando il Governo di prenderlo in considerazione, e l’Assemblea di votarlo, come espressione unanime del sentimento del popolo italiano.

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Pallastrelli:

«L’Assemblea, udite le dichiarazioni del Governo in materia di politica agraria, afferma la urgente necessità di provvedere a quelle soluzioni che valgano a far cessare l’incertezza oggi predominante nei ceti agricoli, incertezza che ha per effetto di ritardare la ripresa della produzione e di pregiudicare quelle riforme che, inspirate alle esigenze della tecnica e dirette da un Ministero opportunamente riordinato nei suoi organismi centrali e periferici e fornito di mezzi adeguati, potranno veramente sodisfare anche alle esigenze di una maggiore giustizia sociale e prepararci a superare le difficoltà determinate dal futuro mercato mondiale».

L’onorevole Pallastrelli ha facoltà di svolgerlo.

PALLASTRELLI. Onorevoli colleghi, mi duole di non vedere al banco del Governo l’amico Segni, perché, in modo speciale, e con intenzione di cortese collaborazione, io desideravo rivolgermi a lui. Spero che fra poco ritorni e, intanto, farò alcune premesse, dirò precisamente che oggi io in questa aula parlo, dopo molti anni di assenza, per portare – sia pure attraverso la mia modesta persona – soprattutto la voce del tecnico: la voce del tecnico che ha ascoltato per molto tempo quanto, in fatto di politica agraria, si è detto; del tecnico che, i problemi importanti dell’agricoltura sa essere poliedrici ed esamina tutti i loro lati e a ciascun lato vuole, e credo sappia, dare il giusto valore.

È la voce di chi nelle campagne, senza aver da difendere interessi particolari, ha sempre, come professore di cattedra ambulante, propugnato il progresso dell’agricoltura; che oggi vorrebbe, negli ambienti rurali scoraggiati, riportare la fiducia e che, avendo vissuto in mezzo ai contadini nella sua Emilia, ha collaborato insieme ad uomini illustri, purtroppo scomparsi, quali Cardillo Prampolini, Nullo Baldini, il professor Benassi e il qui presente amico Nino Mazzoni, per difendere particolarmente i contadini, per diffondere quelle forme di conduzione cooperative e collettive che oggi si proclamano di attualità, ma che, in tempi lontani, potevano sembrare audaci. Noi (i democratici cristiani e i socialisti) abbiamo condotto a termine esperimenti che, ben guidati e assistiti, diedero ottimi risultati, sia dal punto di vista sociale che da quello tecnico, nelle terre dell’Emilia, ed io anche nell’Agro Romano; e in Sicilia ne fu pioniere Luigi Sturzo.

Ma i pionieri di parte politica che ho nominati, fra i quali, ripeto, va ricordato Don Sturzo per l’opera svolta a vantaggio di utili iniziative sociali, non furono mai inspirati da quella idiota demagogia che imperversava nelle campagne d’Italia quando Mussolini e i suoi satelliti, senza alcuna competenza, pontificavano in mezzo alle masse rurali per servirsene e non per servirle. Era tanta la malafede di quei demagoghi che, cambiata casacca e uccisa la democrazia con la dittatura, fecero bastonare e punire con l’olio di ricino i poveri braccianti.

Una premessa allo svolgimento del mio ordine del giorno: onorevole Segni, sono lieto che ora ella sia presente, perché, ripeto, desidero parlare cori lei come amico che ha grande stima di lei e che vuole collaborare per lo stesso ideale che ci unisce: il bene del nostro Paese. Molte cose le si chiedono e io comprendo, per avere avuto parte, prima del fascismo, al Ministero di agricoltura, quanto sia difficile il suo compito. Le farà piacere che io dica, con un po’ di esperienza che credo di avere in materia, che prima di tutto al Ministero di agricoltura bisogna dare i mezzi necessari.

Ma procediamo con ordine.

Perché l’agricoltura italiana possa avviarsi a riprendere un ritmo più sodisfacente, è indispensabile far cessare nelle campagne lo stato di incertezza, che agisce negativamente in tutti i settori. Incertezza, preoccupazione, irrequietezza, che a mio avviso richiedono si provveda adeguatamente in linea di rapporti sociali, in linea tecnica e in linea di politica generale. Dirò, dopo una breve parentesi, qualche cosa su questi argomenti. E, in parentesi, mi preme prima di tutto ricordare, come ho già detto, che al Ministero di agricoltura bisogna dare mezzi adeguati, ma bisogna pure decidersi a riorganizzare molto ampiamente gli organi centrali e periferici. Al centro provvedere adeguatamente perché i vari servizi siano efficienti, specialmente dal punto di vista tecnico, e tali da corrispondere a tutti i compiti, anche più ampi di quelli attuali, ai quali essi dovranno dedicarsi, particolarmente in base alle nuove esigenze tecniche e sociali.

In molti suoi uffici il Ministero dell’agricoltura è deficiente.

C’è da riorganizzare qualche direzione, generale, che dovrà avere compiti moltò più vasti di quelli che ha oggi, se vogliamo sul serio provvedere all’interesse delle campagne; vi sono direzioni generali che hanno bisogno di mezzi finanziari e di tecnici. Occorre far funzionare anche nuovi uffici, se vogliamo che il Ministero dell’agricoltura possa veramente rispondere a quegli scopi sociali che tutti reclamano; esso dovrebbe avere a sua disposizione – non per burocratizzare – gli uffici necessari e i mezzi finanziari per aiutare la cooperazione, le bonifiche, la sperimentazione; per tutto ciò insomma che le esigenze tecniche della produzione e sociali oggi attendono, e soprattutto a vantaggio delle classi lavoratrici. Scusate se insisto su questo.

Per quanto riguarda gli organi periferici, debbo insistere che è assolutamente indispensabile che a ciascuna provincia si ridia la cattedra ambulante di agricoltura. La quale non deve più essere, come gli Ispettorati, un organo dello Stato, ma bensì provinciale, e deve avere mezzi anche dallo Stato, ma non devono mancare, anzi devono essere in prevalenza, i contributi degli enti locali, e perciò occorre una amministrazione autonoma. Così, sia pure con altro nome se volete, si ridarà a ciascuna provincia quella istituzione che fece fiorire l’agricoltura italiana, e i tecnici che vi avranno parte ritorneranno ad essere amici delle popolazioni rurali (dirigenti e contadini) e potranno essere – badate bene, è l’esperienza di tempi lontani ed agitati che me lo insegna – veramente di prezioso e decisivo aiuto per portare nelle campagne pace, fiducia, lavoro e giustizia.

Chi non ha vissuto la vita delle cattedre ambulanti di agricoltura non può comprendere tutta la importanza che esse avevano in ogni campo, e si illude che gli Ispettorati agrari servano anche ai fini cui ho accennato. Gli ispettori non hanno più tempo per esercitare la loro vera funzione tecnica, sono costretti a diventare dei burocrati contro la loro volontà, e la popolazione rurale tali li considera, non concede loro più la sua fiducia e su di essa questi funzionari non hanno più ascendente. Nelle campagne non c’è più il benemerito professore che tutti assiste, che consiglia e che, per la stima che gode, sa risolvere tante difficili situazioni e pacificare gli animi. Le cattedre, con le loro sezioni sparse nei centri più importanti di ogni provincia, furono e saranno, se ritornate alle loro funzioni, le istituzioni base anche per preparare quella coscienza cooperativistica e dare quella istruzione tecnica che è necessaria per ogni seria riforma che possa essere duratura; quell’istruzione che, oggi, lei, onorevole Segni, e il professore Casalini con tanto lodevole intento cercano di dare a mezzo del Centro di istruzione professionale.

Organi periferici considero pure i Consorzi agrari. Essi hanno servito egregiamente lo Stato in periodi di emergenza, e purtroppo per queste funzioni statali hanno perduto la fiducia degli agricoltori. Occorre che essi ritornino, come semplici cooperative, ad essere quello che erano, e così la loro Federazione. Oggi la politica si è impossessata di queste organizzazioni che io ho viste nascere nella mia provincia; lo Stato si è almeno finora dimostrato restìo alla completa loro libertà. Politica e burocrazia svisano i Consorzi, che devono essere, sì, organi democratici, ma estranei alle mire dei partiti politici. Grande contributo i Consorzi e la loro Federazione (quest’ultima anche nel campo internazionale) potranno dare alla agricoltura e perciò occorre che si ridia quella libertà della quale il fascismo li aveva privati. Mi consta che il commissario professore. Albertario sta bene provvedendo, e gliene va data lode. Bisognerà che egli pensi anche a trovare i mezzi finanziari; spero che utilmente si potrà usufruire del fondo lire U.N.R.R.A. e per questo richiamo l’attenzione del Ministro Segni su di un progetto studiato da me con altri e che ho motivo di pensare possa essere gradito negli ambienti dell’U.N.R.R.A. Ciò che bisogna far finire sono le troppe strutture fasciste tuttora sopravviventi e che ostacolano l’attività degli agricoltori. Ma ritorniamo al tema.

Una voce a sinistra. Una ragione della incertezza è la mancata approvazione del lodo De Gasperi. (Commenti – Rumori).

PALLASTRELLI. Verremo anche al lodo De Gasperi. Facile ne è stata la critica di chi considera il problema interessatamente e da un solo punto di vista. I tecnici possono dissentire da ciò che si è fatto, ma sanno anche valutare equamente i motivi politici contingenti che lo ispirarono e, nel suggerirne le modificazioni, intendono non fare una critica sterile ma di utile collaborazione, come vedremo più avanti. Mi permetterò di dire sommessamente pure quello che penso sulla difesa che è stata fatta, l’altro giorno, dal mio buon amico onorevole Bosi, dei grossi affittuari dell’Emilia e della Lombardia, che egli dipingeva come gente quasi al fallimento. Credo che il quadro non sia stato perfettamente rispondente alla verità e che questi affittuari siano invece veramente benemeriti del razionale progresso dell’agricoltura padana, ma non in stato fallimentare. (Si ride). Essi vanno aiutati, bisogna schiarire quell’orizzonte che per loro si presenta assai oscuro…

In linea di rapporti sociali:

1°) Occorre definire il problema della mezzadria e cioè:

  1. a) applicazione del così detto giudizio De Gasperi; limiti e zone;
  2. b) limiti della trasformazione dei patti esistenti, da attuarsi con criteri essenzialmente pratici e tenendo presente quanto la Commissione per il contratto di mezzadria ha riferito al Ministro Segni, in modo da portare in questo campo provvedimenti concreti e adeguati, senza correre il pericolo di distruggere la mezzadria che, anche non avendo, come io non ho, feticismi per questo sistema di conduzione, è pur sempre un sistema utile per molte località, ma che va aggiornato perché nulla può essere statico.

Molte chiacchiere si sono fatte sulla mezzadria, ma vi è un problema, complesso e perciò di difficile soluzione, che non è stato ancora risolto: non quello fatto presente dall’amico Bosi, il quale vorrebbe che la mezzadria fosse considerata come un contratto di società (se mai, è contratto associativo), ma quello, principale, di vedere quale sia il valore del lavoro del mezzadro (lavoro che ha caratteristiche speciali sulle quali non mi fermo per brevità) e di conseguenza di correggere gli errori che derivano in gran parte dalla ignoranza che si ha di questo problema (Applausi) con opportuni adeguamenti;

2°) Bisogna studiare e risolvere il problema della definizione dei rapporti salariali con l’applicazione della scala mobile.

3°) Bisogna rivedere le vigenti disposizioni sui fitti. So bene che si tratta di materia molto delicata e dove non si possono fare contenti tutti. Bisognerà, come diceva Luzzatti, distribuire equamente il malcontento avendo di mira che non ne scapiti la produzione e considerando i pro e i contro, data la delicata situazione attuale.

In linea di massima sarebbe opportuno ridare la libertà, perché di libertà c’è bisogno in agricoltura, ma almeno,

а) dare libertà completa nei fitti ad imprenditori capitalisti (non lavoratori);

  1. b) e almeno con la trasformazione, che credo sia anche nelle intenzioni del Ministro Segni, in generi contrattati dei canoni dei fitti ai coltivatori diretti, valutandoli secondo i prezzi dei prodotti al tempo in cui i fitti furono stipulati, o secondo i prezzi 1939-40 e revisionandoli sulle attuali quotazioni ufficiali. Bisogna vedere se la proroga, salve comprovate deficienze di conduzione, convenga e se convenga si limiti ad un anno o a più (tre) per evitare i danni inevitabili quando l’affittuario si trovi sempre ad agire sul podere di anno in anno, come di regola agisce a detrimento della efficienza produttiva, quando è alla fine della locazione.

4°) Mettere fine alle disordinate occupazioni delle terre. Per ciò revisionare gli attuali decreti, in modo da assicurare il conseguente sviluppo tecnico della coltura delle terre occupate e l’impiego del lavoro dei contadini a condizioni di maggiore sodisfazione economica.

5°) Precisare il contenuto e i limiti di una eventuale «riforma agraria». È necessario che a questo si provveda, perché è principalmente per il fatto che ogni giorno si parla di «riforma agraria» che si ha la incertezza, e con questa la stasi di quanto dovrebbe servire alla ripresa della produzione agricola. L’onorevole Nenni ha detto che il 1947 dovrà essere l’anno della riforma agraria; se ne diano dunque le linee generali, ma non secondo il suo motto: politique d’abord, bensì col motto technique d’abord. L’onorevole Nenni, in un breve amichevole colloquio, ha approvato questa idea. Tale approvazione, il riconoscimento fatto dall’onorevole Bosi, della importanza che, nella nostra agricoltura, ha la classe dei grandi veri agricoltori, ossia della iniziativa privata in armonia con i fini sociali, l’attenzione benevola in questo momento della estrema sinistra, anzi di tutta l’Assemblea alle mie considerazioni, i discorsi pronunciati in vari congressi dall’onorevole Gullo, quando era Ministro di agricoltura, in risposta ai miei, tutto questo dimostra che siamo per fortuna usciti dalle enunciazioni vaghe, dal periodo delle frasi fatte a sensazione, dalla demagogia e che perciò si possa sperare che si voglia sul serio provvedere al risorgimento della nostra agricoltura. Soprattutto si definisca il principio dell’indennizzo per le cessioni di terre, corrispondente al reddito in relazione allo stato normalizzato della economia agraria. Più avanti illustrerò più ampiamente questi concetti; qui mi preme affermare subito che non si può lasciare il peso di questa incognita sull’agricoltura italiana, e dire che la riforma sarà compito della futura Camera, ma fino da oggi bisogna chiarire, sia pure in linea di massima, e dire quali dovranno esser certe direttive generali di questa riforma, che non può essere uguale per tutta l’Italia.

Purtroppo vi sono altre e non meno gravi incognite che giustificano la incertezza e da ciò la inazione. Fra queste incognite la principale è quella che dipende da problemi di carattere internazionale; quindi, almeno per quel tanto che si può, occorre essere precisi fin da ora. A me e ai tecnici, più che le formule vaghe, piacciono i programmi concreti: non ci preoccupano le proposte audaci; le studieremo e vedremo se e come convenga attuarle. In linea tecnica:

1°) Occorre assicurare le materie prime a prezzi relativamente stabili, o per lo meno adeguati ai prezzi dei prodotti agricoli.

È da fare in modo, per quanto è possibile, che le nostre fabbriche di fertilizzanti possano lavorare e lavorare tempestivamente. Oggi vi sono molte fabbriche quasi inattive, e potrebbe accadere che la deficienza di fertilizzanti facesse scendere di molto le produzioni unitarie di quanto è indispensabile per l’alimentazione.

2°) È da mantenere l’equilibrio dei prezzi dei prodotti razionati al livello medio, o almeno minimo dei prodotti liberi.

In linea politica generale:

1°) Occorre raggiungere l’assestamento monetario.

2°) È da studiare il problema fiscale agricolo, soprattutto tenendo presente che gli oneri non siano tali da produrre, come conseguenza inevitabile, il rialzo dei generi alimentari. Sarebbe perciò bene definire l’imposta sul patrimonio; precisare il gravame delle imposte; mettere limiti ben precisi agli interventi delle autorità comunali e provinciali circa gli oneri imposti agli agricoltori per la disoccupazione che si risolverà certamente con opere di bonifica e per l’assistenza (da regolare meglio, con piani sistematici fissati per legge); fare in modo che l’azione fiscale nei riguardi dell’agricoltura abbia un indirizzo unico organico.

Parlerò anche di questo problema più dettagliatamente: qui mi basta affermare che il problema fiscale io lo prendo particolarmente in considerazione per quella influenza che esso ha sulla soluzione dei problemi sociali dipendenti dall’agricoltura e particolarmente sul carovita.

3°) Da ultimo, occorre che nelle campagne siano assicurati il rispetto della libertà e delle leggi e la tutela di chi è adibito alla gestione delle aziende agricole; che cessi l’arbitrio e che i prefetti siano maggiormente compresi della necessità di non abusare del troppo spesso da loro invocato articolo 19.

Scusate se io approfitto della vostra cortese pazienza, ma è pure necessario, anzi doveroso, da parte mia che vi intrattenga più dettagliatamente su alcuni punti.

E vengo alla applicazione del lodo De Gasperi.

È ben noto come il lodo De Gasperi – certo contrariamente al pensiero di chi lo suggerì per la soluzione di problemi sorti nelle zone mezzadrili italiane, in seguito ai danni determinati dalla guerra ed ai disagi ad essa conseguenti – sia accusato di aver dato luogo, non alla auspicata pacificazione nelle campagne, ma, anzi, ad una ripresa di agitazioni e discussioni. Vi è chi lo accusa anche di aver fatto sorgere una agitazione viva in zone dove, si dice, regnava la massima tranquillità, e dove non erano affatto sensibili i danni di guerra.

Si deve pure lamentare, almeno da parte mia, che il nome del Presidente del Consiglio sia stato incautamente coinvolto in tale questione; e che spesso si attribuiscano a lui gli inconvenienti determinati dalla applicazione del lodo. Bisogna invece rendere omaggio alla buona intenzione del Presidente che, malgrado sia preoccupato da problemi interni ed internazionali, che non gli lasciano tempo, ha dato prova di essere animato dal desiderio di occuparsi anche di questa controversia. A questo riguardo io proporrei che i futuri provvedimenti che occorresse prendere, vadano sotto altra dizione; ad esempio quella di «Norme per la risoluzione delle controversie mezzadrili», o altra simile: dizione che parmi più appropriata al fine che si vuole raggiungere, ossia di emanare un provvedimento che, con opportune modifiche, in modo complesso e organico e tenendo conto delle varie situazioni, regoli questa delicata materia.

Le vicende del lodo sono note. Sorto dapprima come proposta di un premio ai coloni che maggiormente avessero sopportato danni per cause belliche, e che avessero effettuato (o contribuito ad effettuare) il salvataggio di scorte morte, di bestiame o di raccolti, contro le asportazioni e le razzie nemiche, si lamenta che si sia poi esteso a tutti i coloni, in ogni zona, e che lo si sia anche portato ad un limite finanziario che costituisce talora un esborso di peso grandissimo per molti proprietari, non assenteisti, né misoneisti o latifondisti inattivi, suscitando reazioni di varia natura, specie quando esso si è dimostrato, per una sua troppo ampia applicazione, una non dovuta concessione a gente che non aveva subìto danni di sorta e che nulla aveva fatto per salvare cose e raccolti. (Commenti).

Le accuse, in definitiva, che oggi in generale si muovono al lodo sono le seguenti:

  1. a) Esso non distingue le varie situazioni, e va quindi a vantaggio sia dei coloni danneggiati o che hanno salvato bestiame e macchine, sia di quelli che nulla hanno fatto. Anzi, essendo la misura del premio commisurata alla produzione lorda vendibile, si viene ad assicurare una somma maggiore a coloro che non hanno sofferto danni (e che perciò hanno avuto una maggiore produzione) e così i contadini non bisognosi, sia pure per ragioni contingenti, sono premiati più dei poveri.
  2. b) Si sottraggono ingenti somme – che potevano essere utilizzate per la ricostruzione – per darle alla categoria rurale che, forse, salve le debite eccezioni, ha oggi in Italia le minori necessità.
  3. c) Si dà modo alle organizzazioni dei lavoratori (e specie alla Federterra) di prelevare contributi notevoli (ad esempio cinque per cento a Grosseto, due settimi a Modena) delle somme realizzate col lodo, affermando che è stata la loro azione a determinare la concessione del premio ai coloni. (Commenti).
  4. d) L’applicazione del lodo è pretesto per intervento di commissioni di azienda extralegali, che spesso estromettono il proprietario e gestiscono per conto loro l’azienda, a tutto scapito del buon andamento dell’azienda e quindi della produzione.

Le proposte che si fanno sono le seguenti:

1°) Si crede, per quelle zone ove vi furono danni di guerra, innanzi tutto conveniente – per uscire dal presente stato di incertezza e di agitazione e per eliminare ogni possibile prolungamento della questione che ormai minaccia di divenire cronica e pericolosa per la produzione agraria di molti territori – che il lodo sia emanato sotto forma di legge. Ma è opportuno che tale legge sia congegnata in modo da rimediare, almeno, ai più gravi inconvenienti cui ha dato luogo l’applicazione del lodo.

2°) In relazione al progetto di legge, che è stato recentemente compilato, per l’applicazione del lodo, si osserva che quel progetto può essere notevolmente migliorato, dettando norme di condotta alle commissioni provinciali e regionali che il progetto presuppone, le quali norme diano a tali Commissioni possibilità di applicazione elastica.

Perciò, più che parlare di adattamenti «strettamente necessari» del lodo, che le Commissioni possono fare, sarà meglio dire semplicemente di adattamenti «necessari» o di adattamenti «opportuni» (art. 2 del progetto).

3°) Sarà opportuno che gli accordi liberamente intervenuti, su base individuale o su base collettiva, siano riconosciuti; e ciò allo scopo di non ritornare su accordi già fatti e di non far nascere artificiosamente l’agitazione dove essa non esiste. L’articolo 5 del progetto dà questa possibilità.

4°) Il progetto presuppone che le Commissioni stipulino accordi di carattere collettivo per provincia e per zone. Questo può essere pericoloso, in quanto impedisce alle Commissioni di prendere in esame le varie situazioni singole, che sono sempre assai diverse tra loro. Ed inoltre presuppone che le organizzazioni sindacali, rappresentate in dette Commissioni, abbiano la rappresentanza giuridica di tutti gli organizzati, il che oggi non è, in regime di libere organizzazioni.

D’altra parte, l’esame dei casi singoli, uno per uno, porterebbe ad una eccessiva lentezza di procedura, che solo in parte sarebbe ridotta dalle rilevate possibilità di accordi individuali. Si pensa, in definitiva, che la forma di giudizio individuale potrebbe essere la preferibile, ma che le Commissioni potrebbero operare, zona per zona, stabilendo alcune formule di soluzioni e di applicazione del lodo per casi tipici, salvo poi far rientrare i vari casi individuali in uno o nell’altro dei vari schemi di soluzioni.

I criteri cui dovrebbero attenersi le Commissioni per precisare questi casi tipici potrebbero essere: a) distinzione in base alla entità dei danni di guerra; b) distinzione in base all’azione svolta dai mezzadri per salvare il patrimonio zootecnico, le scorte o i raccolti; c) distinzione in base alle possibilità economiche dei proprietari e diverso trattamento dei grandi e dei piccoli.

A titolo di raccomandazione si penserebbe, infine, di invitare le organizzazioni degli agricoltori a studiare un sistema di conguaglio, tra coloro che hanno avuto danni e coloro che non li hanno avuti, in modo da ripartire anche il peso del lodo in misura diversa, tra concedenti che hanno subito i danni (e quindi, oltre questi, debbono pagare un premio più elevato al colono) e coloro che non hanno avuto danni, e che quindi dovrebbero poco sborsare, qualora fossero adottati i criteri detti sopra.

Il problema della assegnazione delle terre.

Onorevoli colleghi, i precedenti della questione sono noti nelle loro linee generali. Il decreto Segni a questa materia ha dato maggiore elasticità di applicazione, in confronto al precedente decreto Gullo. Quest’ultimo decreto era assai preciso nella elencazione delle norme, secondo le quali era possibile identificare in modo obbiettivo le circostanze che giustificavano l’assegnazione delle terre. Il decreto Segni, invece, nell’intento di favorire il più possibile la diffusione del sistema e di rendere più efficaci le disposizioni, dà più largo posto a valutazioni di carattere soggettivo che – male interpretate da organi non tecnici o non preparati – possono anche essere fonti di squilibri o di peggioramenti delle condizioni della produzione: il che certamente non è nello spirito del decreto e nella volontà del proponente.

I casi di erronea o dannosa interpretazione del decreto sono assai numerosi. Essi fanno seriamente pensare alla necessità di prendere ulteriori provvedimenti e di dare chiare direttive, non allo scopo di annullare l’efficacia e le disposizioni di detto decreto – che, opportunamente interpretato, può essere utile strumento di progresso agricolo e sociale – ma di eliminare i danni di una applicazione erronea, o troppo ispirata a preoccupazioni di carattere locale, o a pressioni delle organizzazioni interessate. Spero che l’onorevole Segni accetterà questa mia raccomandazione.

Si segnalano, ad esempio, casi di assegnazione a contadini (riuniti in associazioni improvvisate, di scarsa o talora anche nessuna consistenza)…

Una voce a sinistra. Questa è la conseguenza della manìa della piccola proprietà artificiale.

PALLASTRELLI. Onorevole collega, la piccola proprietà è economicamente utile e può essere socialmente necessaria dove c’è l’ambiente di elezione economica per essa. Dove è il luogo economico per la grande azienda a carattere industriale, non è la piccola proprietà che può risolvere problemi: ma le affittanze collettive possono trovarvi luogo. (Approvazioni).

Si segnalano, ripeto, casi di assegnazione di terre ottimamente coltivate e condotte secondo sistemi corrispondenti alle necessità economiche della zona. Si sono rilevati casi di assegnazioni di terreni regolarmente appoderati (Grosseto), il che ha necessariamente suscitato la reazione degli stessi coloni. Si sono rilevati casi di assurdi interventi dei prefetti (in base all’articolo 19) con assegnazione di terreni ottimamente coltivati. Si sono dati casi, assai frequenti, di cooperative di contadini che hanno ceduto in affitto a terzi le terre avute in concessione; esattamente come avrebbe fatto lo stesso proprietario. Questo non costituisce altro, in sostanza, che una funzione di intermediazione perfettamente inutile, ed un sistema che dà un vantaggio economico di speculazione, senza che si influisca in nessun modo sulla produzione agraria e senza che si provveda alla soluzione del problema sociale. (Commenti).

Occorre in questo campo sostanzialmente:

  1. a) precisare bene (mediante norme chiaramente espresse, che valgano ad interpretare i decreti nello spirito e ad impedire le arbitrarie applicazioni) quali sono caratteri delle terre che possono essere sottoposte a concessione ai contadini;
  2. b) stroncare con una attenta sorveglianza della gestione dei contadini, ogni movimento o tendenza alla speculazione (azioni di mera intermediazione; subaffitti; sfruttamenti del terreno);
  3. c) controllare tecnicamente la gestione, con applicazione severa delle norme che determinano la decadenza dai diritto di sfruttamento delle terre, qualora non siano assolti gli obblighi che il decreto presuppone;
  4. d) istituire un secondo giudizio di appello (circoscrizione regionale), contro i deliberati delle Commissioni provinciali e contro eventuali interpretazioni troppo estensive date dai prefetti alle disposizioni del decreto;
  5. e) compiere una rapida inchiesta nelle varie zone agrarie dove il decreto ha avuto applicazione, al fine di rilevarne, sia gli inconvenienti, sia le ripercussioni utili che esso abbia determinate.

A proposito di questo decreto, mi pare opportuno ricordare che, per i fini che esso vorrebbe proporre, non solo di carattere contingente, bisogna evitare da una parte che si instaurino sistemi che saranno domani di ostacolo a quei provvedimenti che si dovranno emanare per una vera riforma agraria, e dall’altra che si crei la convinzione che bastino questi provvedimenti senza tutto quel complesso di altre cose che si rendono necessarie (credito, cooperazione, ecc.) perché si ottengano fini sociali duraturi ed efficaci.

Qui verrebbe a giusto punto di parlare di qualche cosa d’altro, cioè delle conduzioni a compartecipazione, della mezzadria, delle affittanze collettive, e poi delle bonifiche del piano, del monte, della piccola proprietà, dell’azione dello Stato; ma sorvolo, già al riguardo ho detto in più occasioni il mio pensiero, e anche in un mio volumetto di recente pubblicazione.

Mi sia consentito di ripetere che occorre ugualmente riorganizzare il Ministero di agricoltura nei suoi organi centrali e periferici, e che al Ministero di agricoltura bisogna dare mezzi finanziari adeguati perché esso possa provvedere direttamente, oppure con il credito, a risolvere tutti i grandiosi problemi che potranno veramente far risorgere l’agricoltura e da cui dipendono le riforme sociali che si invocano. La terra deve certamente contribuire a provvedere alla sistemazione finanziaria dello Stato, ma alla terra devono pure convergere quegli aiuti che servono a mettere sempre più in efficienza questo grande complesso produttivo, avendo di mira che la distribuzione dia la sua giusta parte al lavoro, e che si vadano via via attuando quelle trasformazioni dei sistemi di conduzione che i nuovi tempi esigono.

Desidero anche, poiché sto parlando particolarmente di alcuni fra i più interessanti argomenti agricoli, fare un accenno alla situazione del mercato fondiario italiano.

La situazione del mercato fondiario italiano merita di essere attentamente considerata, anche perché molti movimenti sono ora al loro inizio, e potranno domani sfociare in una situazione di grave crisi e perturbamento, che potrebbe essere assai pericolosa per la produzione agraria nazionale.

Si ricorda che, dopo il periodo di rapida ascesa dei valori fondiari (che cominciò durante la guerra e toccò il culmine dopo la fine di essa), si manifestò un forte movimento al ribasso, determinato dalle agitazioni politiche e dalla situazione di scarsa sicurezza delle campagne. Tale ribasso ebbe le sue maggiori manifestazioni in Emilia ed in Romagna. Seguì un movimento di ripresa, ed ora si assiste ad una nuova tendenza alle svendite e ai ribassi, che si estende anche a zone mezzadrili che prima erano rimaste più tranquille.

Le preoccupazioni che si nutrono circa la portata e il contenuto della «riforma agraria»; le agitazioni coloniche; le incognite del nuovo patto di mezzadria; il peso degli imponibili di mano d’opera; la crescente pressione fiscale, ecc., determinano una situazione di agitazione del mercato fondiario, caratterizzato qua e là da tendenza alla rapida vendita. Tutto finora fa prevedere che, nel futuro, essa si possa accentuare notevolmente, e che quindi sia opportuno, sino da oggi, seguire la situazione e non lasciarsi poi sorprendere da essa quando gli eventi possono aver raggiunto una intensità che non permette di regolarli. (Approvazioni).

In molte zone italiane (Emilia, Toscana, Umbria, Veneto, Piemonte, particolarmente) si notano tendenze al passaggio rapido della terra nelle mani di contadini; all’investimento di capitali in imprese agrarie estere e anche transatlantiche (tendenza assai diffusa in Piemonte, Emilia, Veneto, ecc.) ed anche ad acquisti in zone dell’Italia meridionale. Si nota, anche, una tendenza a dividere i beni fondiari tra i vari componenti le famiglie, allo scopo di evitare o ridurre i pericoli di possibili riforme. Nessuna o poca attività è invece volta alle opere di miglioramento o di potenziamento produttivo delle aziende, anche in anni di relativa prosperità, come sono gli attuali. Questo, esclusivamente, per i dubbi che si hanno circa la sicurezza dell’impiego dei capitali.

È inoltre incipiente, e già visibile qua e là, una grande azione di speculazione sui beni fondiari. Si costituiscono gruppi privati o società, che hanno lo scopo di acquistare terre e di rivenderle a lotti a contadini. La speculazione può essere pericolosa, e determinare (alimentandosi ad agitazioni locali) passaggi di terra a categorie non selezionate o preparate; divisione della terra in spezzoni privi di organicità; quindi depressione della produzione in molte zone. Tutto questo contrasta con un sano indirizzo verso una riforma agraria, che, per la parte che dovrà determinare l’ascesa alla proprietà di categorie contadine, non dovrà certo far questo a tramite di azioni di speculazione privata e senza l’adozione di intelligenti criteri di scelta dei coloni. Si ricordano, del resto, dopo l’altra guerra, le gravi ripercussioni determinate dall’azione di gruppi speculatori (le «bande nere» della Toscana e dell’Emilia) e le analoghe, e ancor più gravi speculazioni scandalose, che ebbero luogo in molti paesi della Europa medio-orientale, con l’esecuzione di riforme agrarie frettolose e a sfondo demagogico. (Approvazioni).

Si ritiene che una «riforma agraria» in Italia debba avere applicazione. Ma è opportuno che essa segua le reali linee della nostra economia agraria, e che non sia avventatamente applicata. Soprattutto si chiede che siano escluse, e decisamente combattute, tutte le possibilità di speculazione in questo campo. Si è anche di avviso che, in parte del territorio italiano, la riforma dovrà portare ad un maggiore graduale sviluppo della piccola proprietà coltivatrice; ma che non è questa la sola strada che si può battere: in altri ambienti saranno convenienti altre diverse soluzioni e specialmente le affittanze collettive ben organizzate e ben assistite.

È qui necessaria una tempestiva azione statale, non volta ad impedire un movimento che è nella natura stessa delle cose e che costituisce l’aspirazione di gran parte delle masse rurali italiane, ma a regolare tale movimento ed impedirgli di prendere indirizzi erronei e estremamente pericolosi per la produzione agricola. Occorra, sovrattutto, evitare soluzioni drastiche generali, ed invece studiarle per ogni zona; in quanto le soluzioni di tali problemi dovranno necessariamente essere diverse da zona a zona e basarsi su tipi di impresa agraria del pari diversi, mantenendo anche i tipi esistenti, dove essi dimostrino di essere il migliore sistema di conduzione e quello che più si concilia con il pregresso agrario è con i fini sociali. (Vivi applausi).

Vari sono i mezzi che il Governo può mettere in atto per ottenere lo scopo detto.

Innanzi tutto, ripeto, è necessario che si arrivi presto, se non a formulare una legge vera e propria (che – come è stato detto – sarà compito della futura legislazione del regolare Parlamento), almeno a dare alcune linee direttive di quella che sarà la riforma agraria. Gli indugi e le eccessive – e spesso chimeriche – preoccupazioni, scoraggiano i buoni agricoltori, impediscono loro di migliorare le terre, di darsi ad opere di bonifica, di ricostruire la nostra agricoltura. Già è stato affermato dal Ministro responsabile che i bonificatori saranno esenti da provvedimenti di riforma agraria: ma si vorrebbe che tali dichiarazioni assumessero una forma più impegnativa e sicura. Si pensi, sempre, che grandi forze latenti sono inutilizzate per la attuale situazione di insicurezza e di panico che esiste nelle campagne.

Così dicasi per tanti altri provvedimenti di legge, rimasti sospesi e che determinano pure uno stato di incertezza e impediscono iniziative.

Per quel che riguarda le svendite di terra, un progetto di una certa efficacia potrebbe essere quello, già ventilato, di costituzione di un ente di carattere privato, ma con l’intervento finanziario ed il controllo statale, volto a regolare il mercato terriero e ad impedire le dannose sue depressioni di carattere psicologico. Il progetto contemplava l’istituzione di un ente apposito, costituito per circa il 40 per cento del suo capitale dall’intervento statale (I.R.I.) e per il 60 per cento da agricoltori proprietari, eventualmente sorretti dalle loro organizzazioni. L’ente dovrebbe avere l’esenzione dalle imposte per trapassi fondiari, costituirsi il suo patrimonio terriero con vendite da parte di agricoltori partecipanti, ratizzate in forme da stabilire, e procedere alla emissione di obbligazioni. Esso sarebbe vincolato per un periodo di 5 o 10 anni nella destinazione della terra. Potrebbe poi procedere a successiva cessione graduale della terra alle categorie più adatte: contadini, medi proprietari e eventualmente, cooperative di contadini. Dovrebbe sovrattutto curare di evitare gli errori della speculazioni privata, cedendo terra in forme organiche ed adatte ai tipi di impresa che si vogliono sviluppare, e non in base ad esclusivi criteri speculativi. Nel caso che il trapasso abbisognasse di opere di adattamento o trasformazione, esso potrebbe fruire dei vantaggi della legge sulla bonifica. L’Ente potrebbe anche provvedere alla costituzione preliminare di organizzazioni cooperative, sia per la trasformazione che per la vendita dei prodotti del suolo, sia, anche, per l’impiego cooperativo di mezzi di produzione (macchine, trattrici, ecc.); questo eliminerebbe gli aspetti negativi della piccola proprietà coltivatrice e – determinando forte remora ai fenomeni di speculazione – avvierebbe l’opera di riforma agraria sopra una strada che può essere la più feconda. Inoltre farebbe cessare i fenomeni di panico terriero e le svendite precipitose e, quindi, pericolose.

E veniamo a meglio precisare gli accenni fatti sulla politica tributaria in relazione alla agricoltura, e specialmente in confronto della piccola proprietà che si vorrebbe, non solo difendere, ma diffondere, e che corre il rischio, a causa del fisco, di essere distrutta e in confronto anche di quei sistemi di conduzione a carattere collettivo cooperativo che sono le più adatte, se ben preparate, per le grandi aziende a colture industrializzate.

Il quesito preliminare che si può porre, trattando della politica tributaria nei particolari riflessi dell’agricoltura, è quello di accertare se, fin qui, essa abbia corrisposto al sano indirizzo di salvaguardare l’avvenire della produzione e dei miglioramenti fondiari, quando è ben noto che sull’una e sugli altri si fondano le maggiori speranze per la ripresa economica e sociale del Paese.

Purtroppo al quesito non è lecito dare una risposta affermativa. Anzi, il susseguirsi di provvedimenti tributari non coordinati al fine esposto e prevalentemente ispirati da particolari ideologie politiche, hanno determinato una situazione che merita tutta l’attenzione del Governo.

Mi sembra necessario porre in rilievo che, di fronte all’unicità dei redditi dell’agricoltura, si siano costituite duplicità di tassazioni, come ne dà l’esempio più palese lo sganciamento della complementare dall’imposta di famiglia; quest’ultima accertata dai Comuni assai spesso con eccesso nei confronti dei portatori dei redditi fondiari, e particolarmente dei piccoli agricoltori.

Più in generale, di fronte alla difficoltà di raggiungere i redditi di altre attività che meno di quella agricola sono catalogate e note al fisco, e di colpire, soprattutto, le attività extra-legali, l’azione fiscale, si osserva da molti – si è esplicata più energicamente nei confronti della proprietà e redditi terrieri. Tanto che oggi si può affermare che già soltanto con i provvedimenti in atto, in questo settore, si ha un carico di imposta percentualmente superiore a quello di anteguerra. In effetto, il carico medio di imposta sul reddito effettivo attuale è del 26 per cento, contro il 21 per cento dell’anteguerra. Questa incidenza si esaspera tuttavia nella zona cerealicola, ove l’incidenza tributaria sul reddito effettivo supera talvolta il 40 per cento.

Si dovrebbe perciò seriamente riflettere sull’opportunità e i modi di gravare ulteriormente tali redditi. Senonché, oltre all’enorme incremento dei contributi unificati in agricoltura (che dai miliardi 2,5 nel 1945 e dai miliardi 6,8 del 1946, raggiungeranno in quest’anno almeno16 miliardi) si annunziano due altri provvedimenti. L’uno inteso ad una ulteriore maggiorazione degli estimi su cui incidono l’imposta e le sovraimposte fondiarie, l’altro che si intitola a provvidenze a favore delle Provincie e dei Comuni, provvidenze che in definitiva comportano inasprimenti di tributi locali per un complesso di 28 miliardi, dei quali circa 24 a carico della proprietà, impresa e consumo agricoli.

Se tali provvedimenti dovessero avere corso, il maggior gravame a carico dell’agricoltura, rispetto al 1946, è stato calcolato intorno ai 55 miliardi.

Quali le conseguenze?

Ve ne è una che giudico preminente ed essenziale in questo momento, in cui gli sforzi dei Governo debbono tendere a contenere il costo della vita, elemento fondamentale della pace sociale. (Applausi).

Sarebbe puerile nascondersi che il maggior carico tributario non si trasferisca automaticamente sul costo dei prodotti agricoli, tanto quelli che resteranno bloccati a prezzi che non potranno distanziarsi da quelli economici, quanto, e maggiormente, sui prezzi dei prodotti liberi.

I provvedimenti che si volessero escogitare per contenere i prezzi non farebbero, come la dura esperienza insegna, che deviare i prodotti verso il mercato nero.

Bisogna perciò assolutamente evitare questa politica anti-alimentare, quando oggi la massima preoccupazione di tutti gli italiani è proprio quella di nutrirsi, e con questo non si intende affatto di cercare, di trovare un motivo per la difesa, contro il fisco, della terra che pure deve contribuire a rimettere in sesto la finanza statale. (Approvazioni).

Altra conseguenza, ma meno grave, può dedursi riflettendo che la nostra politica agricola deve rivolgersi ad incrementare la produzione, per contribuire a sanare il deficit della bilancia commerciale, da un lato, e indirizzarsi dall’altro a rendere attuabili quelle trasformazioni fondiarie che si rendono indispensabili per adeguarci ai riflessi dell’apertura degli scambi internazionali e per redimere poi ancora zone estese del nostro territorio.

Con quali mezzi fronteggiare questi compiti, se la pressione fiscale assorbirà i necessari margini di risparmio?

Non posso tacere, a questo riguardo, l’inqualificabile sistema di applicazione agricola della legge sui profitti di guerra. Vi è una agitazione fra gli agricoltori di molte provincie, per il modo di applicazione indiscriminata, per cui si vuol tassare anche l’illecito, creando tabelle di fantastiche rese unitarie di ogni prodotto, soggetto o non soggetto all’ammasso, e considerando profitto eccezionale di speculazione quello che non è altro che l’apparente espressione di una diversa misura monetaria, falsando così le finalità e l’intendimento del legislatore e tentando di mettere in essere il più palese arbitrio giuridico e morale.

Se fossero assorbiti in tal modo i margini di risparmio che si erano contenuti quando la pressione fiscale non era ancora adeguata alla nuova realtà economica, impossibili a costituirsi nuovi risparmi dai carichi incombenti, il programma delle opere indispensabili al nostro avvenire agricolo si presenterebbe quanto mai incerto.

Sarà perciò nella saggezza del Governo di rivedere, con indirizzo unitario e lungimirante, la posizione contributiva del settore agricolo, ed orientarla in guisa da ridare fiducia nell’ambiente rurale, che dovrà anche, fra breve, fronteggiare l’onere dell’imposta patrimoniale, per la quale mi auguro si abbandoneranno i fini espropriativi che erano alla base dello schema predisposto. (Approvazioni).

Si tenga anche conto dei difficili periodi a cui andremo incontro per i nuovi orientamenti che all’agricoltura italiana dovranno darsi, in base, come già accennato, alle esigenze degli scambi mondiali. Insomma, con quanto ho esposto non si vuole affatto favorire una categoria di contribuenti, perché tutti vanno colpiti; ma l’onere deve essere tale da non isterilire la fonte, e tale ancora, si ripete, da non determinare una probabile stasi nei miglioramenti che richiedono forti investimenti stabili di risparmio. (Applausi).

Ed ora, prima di chiudere, mi si consenta di dire brevi parole su quanto ha annunciato il Capo del Governo, circa alcune iniziative per la irrigazione. Non mi fraintendano i colleghi delle province direttamente interessate.

Parlo, non per ostacolare queste iniziative, ma perché tali iniziative non diano origine a illusioni alle quali non tarderebbero a seguire delusioni gravissime e sperpero di denaro senza alcun risultato.

Io ho una esperienza in materia di irrigazione, perché la mia provincia ha condotto a termine opere grandiose. Già esistevano in quella provincia organismi riguardanti la utilizzazione delle acque, consorzi di derivazione di acque dai principali torrenti, pozzi per il sollevamento delle acque del sottosuolo, piccoli serbatoi a corona nella zona collinare. Da ultimo si costrussero due grandi serbatoi, quello della Val Tidone e quello della Val d’Arda. Ma quanti studi preliminari durati lunghi anni! quale cura nel progettare, in base a profonde ricerche geologiche! quanta cura nel vedere se questi serbatoi avrebbero potuto correre il pericolo di interramenti! quanta attenzione nel vedere che vi potessero essere salti adatti a produrre energia elettrica! Ma di tutto questo basta un accenno. Vi dirò invece che queste opere avevano già pronto – cosa che non si improvvisa – tutto un vasto territorio preparato a ricevere e ad utilizzare quest’acqua, e una esperienza di tecnica irrigatoria che solo col tempo si può ottenere.

Scusate questi brevi accenni ed eccomi ai casi particolari.

L’irrigazione in Puglia ha un duplice aspetto tecnico: una irrigazione oasistica, mediante acqua del sottosuolo, ed una grande irrigazione, anche mediante serbatoi progettati finora con progetti di massima. Ma la visione tecnica va integrata, necessariamente, con altri due concetti, dei quali comunemente si parla troppo poco: in primo luogo, se si tratti di terre agronomicamente e agricolamente preparate o no ad essere irrigate: in secondo luogo, il costo delle acque irrigue. Infatti l’irrigazione generalmente rappresenta il coronamento di un progresso agricolo, e non è lecito sperare che questo progresso, diremo, preparatorio si possa realizzare in ogni caso in poco tempo. D’altra parte il costo, a cui l’acqua irrigua può essere ceduta alle aziende agrarie, influisce decisamente sull’uso agrario di essa, ed anzi coltivazioni diverse consentono costi-limite diversi in ambienti agrari diversi.

Mentre naturalmente non si perdono di vista le grandi irrigazioni, e mentre deve spronarsi il progresso che deve portare molte terre ad essere preparate per la irrigazione, sembra pratico dare sviluppo, il più possibile immediato, alle piccole irrigazioni, per le quali in Puglia vi hanno notoriamente plaghe provviste di acque del sottosuolo e (come lungo il litorale) plaghe provviste di piccole sorgenti. Di queste piccole o oasistiche irrigazioni vi hanno già in Puglia esempi egregi.

Quanto alle grandi irrigazioni mercé bacini, non da oggi ma da assai tempo è stato rilevato che i progetti sono puramente di massima, e perciò richiedono di essere studiati ulteriormente per poter divenire progetti esecutivi. Perché deve anche e specialmente essere assodato con certezza lo studio geologico, per esser sicuri da un lato della costruzione delle dighe, e da altro lato di evitare un interramento eccessivo. In particolare è stato elevato il dubbio che, data la costituzione geologica e agraria, per esempio, del bacino del Fortore, possa essere facile un eccessivo interramento del serbatoio che ivi si costruisse; e ciò porta all’opportunità di uno studio specifico, allorché si debba passare al progetto definitivo.

Chiarito che comunque non si tratta di progettazioni in genere che non abbiano bisogno di ulteriori studi, si vede come è illusorio contare – oggi – su consimili opere per i loro effetti utili per la occupazione operaia, e quindi contro la disoccupazione che funesta la Puglia. Queste opere, una volta giunte alla loro esecuzione, hanno un costo in cui molto contano i materiali e relativamente poco la mano d’opera; la quale più precisamente vi è richiesta per notevole parte specializzata e per modesta parte non qualificata, come è in genere quella a cui occorre venire incontro in fatto di disoccupazione. Insomma non è sotto il profilo della disoccupazione che in prevalente e immediato modo queste opere debbano essere considerate; né il loro stato tecnico di progettazione è tale che da un momento all’altro, appena provveduto ai finanziamenti, esse possano essere poste in esecuzione.

Ciò che il Ministero di agricoltura (che ha un consesso tecnico consultivo a ciò specializzato) deve fare utilmente al più presto, si è di fare il piano, graduato tecnicamente, delle opere di irrigazione in Puglia e Lucania, tenendo anche presenti le condizioni tecniche dell’agricoltura nei vari luoghi irrigandi e i costi dell’irrigazione in essi. È un delicato compito, che esso saprà bene assolvere, e che porrà in grado di giudicare al disopra di tendenze localistiche o di interessi privatistici. Naturalmente il piano deve essere di piccola e di grande irrigazione, sotto ogni profilo tecnicamente possibile; ma la duplice coordinazione con lo stato agricolo delle varie zone e con i costi delle acque, renderà questo piano serio ed efficace. I dissensi locali, che si sanno complessi e agitati, si dovranno comporre di fronte a motivate considerazioni tecniche di utilità generale.

La Commissione legislativa della Costituente ha da poco approvato uno schema di decreto per l’istituzione dell’ente per la irrigazione in Puglia e Lucania. Anche su ciò localmente vi fu divergenza di idee.

Tecnicamente, va appena ricordato che la irrigazione non è che una forma di trasformazione fondiaria. Ora, per la legge generale, i comprensori di bonifica e trasformazione fondiaria hanno già i loro consorzi in Puglia; e la legge stessa prevede, allorché si tratti di coordinare l’opera di più consorzi, il consorzio «di secondo grado». Certo, in confronto a questo, un ente speciale è più costoso; ma ha anche il difetto di essere più lontano dagli agricoltori interessati alla trasformazione.

Nello schema, l’ente appare una cosa grandiosa; ma logicamente, in confronto alla legislazione generale, l’articolo 2 lo svuota di assai, stabilendo che nei comprensori di bonifica, ove esistano i consorzi, questi provvedono allo studio e all’esecuzione delle opere: ciò era indispensabile per l’unità del piano di bonifica, se no consorzi ed ente, potevano andare per strade diverse: ma prova la parziale superfluità dell’ente, ove, come in Puglia, già funzioni l’organizzazione consortile.

Comunque, nella ipotesi che il detto ente si costituisca secondo il modo previsto nello schema, bisogna almeno che esso funzioni per un primo periodo non breve, soprattutto come ente di studio e di ricerca per la irrigazione nelle due Regioni: cioè deve dar luogo allo studio definitivo ed esecutivo, contemporaneamente, di progetti immediati di piccole irrigazioni e di grandi progetti che non possono non richiedere lunghi tempi per loro definitivo allestimento: deve in specie regolarsi in quanto tali grandi progetti insistano su terre più o meno pronte all’irrigazione, ed invece su terre che richiedono lunghi o lunghissimi periodi di progresso dell’agricoltura, prima di richiedere l’irrigazione (non deve accadere come nel Tirso, dove il grandissimo serbatoio, oltre alla azienda bonificata d’Alborea, irriga solo qualche decina di ettari, e l’acqua che ha servito alla produzione di energia elettrica defluisce pur inutilmente a mare!): deve provvedere alla sperimentazione pratica dei modi più razionali di irrigazione (già aveva cominciato a sperimentare un Ufficio speciale dell’Acquedotto pugliese) ed anche alla necessaria sperimentazione tecnico-scientifica ed economica: deve provvedere alla formazione di maestranze specializzate per l’irrigazione e via dicendo. Questi sono i primi e fondamentali compiti, pei quali sarebbe inutile una organizzazione burocratica più o meno rigonfia, ed occorrono ottimi tecnici specialisti. (Applausi).

Ma intanto che tutto ciò si prepara, non si perda tempo a dare incremento alla irrigazione oasistica, che è senza incertezze dove la terra è pronta a riceverla, e che è di immediato rendimento per l’economia pubblica e merita perciò la precedenza. (Approvazioni).

PASTORE RAFFAELE; Sì, sì, per evitare che, mentre il medico studia, l’ammalato muoia.

PALLASTRELLI. Ciò che ho detto per la Puglia, potrebbe ripetersi, come ho accennato, per la Sardegna e anche per la Calabria e per tutte le regioni, specialmente per quelle più in arretrato.

L’amico Segni e i colleghi sardi sanno meglio di me quanto sia meravigliosa la opera costituente il serbatoio del Tirso; ma sanno anche, ripeto, che oggi ancora scorre molta acqua di quel bacino inutilizzata per l’agricoltura; e certo meglio di me sanno che le nuove opere irrigue, che si intendono fare dovrebbero avere di pari passo preparati, sia materialmente che tecnicamente, i terreni da irrigare. Ma questi terreni non possono essere quelli di certe zone destinati ai pastori; devono essere terreni dove le acque captate, disciplinate e convogliate su di essi, razionalmente sistemati e coltivati, potranno apportare un vero utile alla produzione.

Si agisca quindi in questo campo, ma si agisca con tecnicismo, perché tutto non si riduca a sperperi di danaro e a creare grandiose organizzazioni di una inutile burocrazia.

Una voce. Ha ragione, bisogna non sperperare i fondi; bisogna, oltre all’irrigazione, provvedere a che i contadini possano vivere nelle campagne.

PALLASTRELLI. Ho finito. Scusate se ho abusato della vostra pazienza, e anche se mi sono limitato ad esporre il mio pensiero, su argomenti tanto importanti, in modo incompleto. Ben altro avrei dovuto dire per trattare tutto esaurientemente.

Unico scopo che mi ha guidato è quello di collaborare al risorgimento agricolo del nostro Paese; unico desiderio quello di incrementare la produzione, di avviare ad una razionale soluzione i problemi sociali e perciò di giovare in modo particolare ai lavoratori della terra, in mezzo ai quali ho vissuto e operato conquistandomi la loro fiducia. Come spero, per il disturbo che vi ho arrecato, di avere il vostro perdono e particolarmente quello del Presidente De Gasperi e dell’amico Segni, che vedranno se in quanto ho esposto vi sia qualche cosa di utile da tener presente per la loro difficile azione di Governo. (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Caronia.

«L’Assemblea Costituente,

sentite le dichiarazioni del Governo nei riguardi della scuola,

considerato che il problema dell’alta cultura, il quale si identifica con il problema universitario, rientra tra i più urgenti e vitali per la ripresa non solo morale, ma anche materiale della Nazione,

fa voti perché siano presi gli opportuni provvedimenti per potenziare in modo adeguato e sollecito gli istituti universitari».

L’onorevole Caronia ha facoltà di svolgerlo.

CARONIA. Onorevoli colleghi, il mio ordine del giorno non ha bisogno di lunghe illustrazioni. Altri già in quest’aula ha ripetutamente ed opportunamente trattato dell’argomento. Lo stesso Presidente del Consiglio ha dedicato alla questione parole acconce ed ha dimostrato di avere a cuore la sua soluzione. A completamento di quanto è stato detto mi limito ad alcuni rilievi.

Contrariamente all’opinione pubblica, che sotto l’assillo di pressanti necessità materiali lo ha relegato in seconda fila, il problema dell’alta cultura è di primissima importanza, senza con questo volere esagerare. Quando un ciclone ha tutto travolto e distrutto, la prima preoccupazione è quella di vivere, è quella cioè del pane e del ricovero. Questo si è fatto anche da noi, uomini di studio, che non ultimi siamo stati al pronto soccorso, cercando nello stesso tempo di salvare quanto era salvabile dell’edificio della nostra cultura.

Ma, passato il vero momento di emergenza, diventa primo dovere quello di preoccuparsi della cultura, che rappresenta il mezzo più importante per la ricostruzione materiale e morale del Paese. Non si rimproveri quindi a noi, uomini di scienza, di non avere agitato prima il problema, o meglio, di non averlo agitato con eccessivo calore. È stato il nostro senso di pietà per le miserie della Patria che per un momento ci ha fatto trascurare la scuola per correre dove maggiore era il bisogno. Ora che l’avviamento verso la ripresa è evidente, la nostra voce si farà sentire alta e forte e la ricostituzione dei nostri valori culturali ci avrà difensori e lavoratori infaticabili.

Se l’ingiustizia degli uomini e la fatalità degli eventi infiniti danni hanno apportato all’Italia, non hanno potuto toglierle le sue naturali bellezze, il suo patrimonio spirituale, l’intelligenza dei suoi figli. Su questi elementi bisogna ricostruire. Occorre quindi sostituire una coscienza universitaria alla passione militarista, il senso universale della scienza ai sogni imperiali, occorre insomma sostituire alle caserme le scuole, al fragore delle armi la serena armonia degli studi.

Purtroppo non siamo ancora su questa via, come ci dimostra il linguaggio arido delle cifre dei bilanci dei nostri massimi istituti culturali. Esemplifico con quelli della Università di Roma, che pur passa per essere tra le più ricche e che è certo la più popolosa.

Nel bilancio del 1924-25, su circa 9 milioni di entrate, io Stato contribuiva per circa 4 milioni, cioè per il 47 per cento. Nel bilancio 1938-39, su di una entrata di 33 milioni, lo Stato figura per circa 5 milioni, con una percentuale di circa il 10 per cento. Nel bilancio 1946-47, su di un’entrata complessiva prevista di circa 720 milioni, lo Stato contribuisce con circa 24 milioni, cioè con poco più del 3 per cento!

Di fronte a questo bilancio delle entrate, ecco quanto si è verificato nelle uscite. Le spese sono aumentate di 60 volte e più, specialmente per quanto riguarda il materiale scientifico (apparecchi, prodotti chimici, pubblicazioni, ecc; un microscopio che costava circa lire 3.000 oggi costa dalle 80.000 alle 120.000 lire). Le spese generali sono enormemente aumentate ed alcuni servizi si son dovuti sopprimere. Per esempio, si è speso per il riscaldamento di tutti gli edifici nel 1938-39 la somma di lire 1.850.000; oggi non si parla più di riscaldamento e soltanto per riscaldare un numero limitato di locali delle cliniche si sono spesi 24.000.000! Nel campo del personale la sproporzione è ancora più grande.

Nel 1939, con una popolazione scolastica di circa 18.000 studenti, si disponeva di 356 assistenti e 96 tecnici, di una unità cioè per circa 40 studenti; oggi, con una popolazione di circa 40.000 studenti, si dispone dello stesso numero di assistenti e tecnici, cioè di una unità per ogni 90 studenti. La stessa sproporzione esiste tra le varie categorie del personale e la popolazione studentesca.

Conseguenza di tutto questo è il languire della ricerca scientifica, che, se non è del tutto spenta, lo si deve all’intelligenza ed alla tenacia dei nostri studiosi.

Si son fatti sforzi considerevoli per la ricostruzione degli istituti danneggiati da azioni belliche, che sono oggi quasi del tutto ricostruiti, ma poco si è potuto fare sinora per l’attrezzatura scientifica. Qualche tempo fa il Ministero ha avuto dal Tesoro 500 milioni per tutte le Università, ma se si pensa che la sola Università di Roma a tutto il dicembre scorso aveva 360 milioni di crediti verso lo Stato, i 500 milioni rappresentano una goccia d’acqua nel deserto.

Il Ministro Gonella, che, ad onor del vero, molto ha fatto e si ripromette di fare mostrando tutta la sua comprensione per i bisogni dell’alta cultura, ha comunicato di aver richiesto oggi 3 miliardi per la ricerca scientifica. Sono pochi, ma se saranno concessi e devoluti alla ricerca scientifica, e non già ad estinguere i debiti, qualche cosa si potrà fare.

Ci auguriamo che il Ministro del tesoro non deluda le speranze delle Università ed accolga la modesta richiesta del nostro Ministro Gonella.

Potremo così ancora tenere accesa la maggiore gloria nostra che è quella di artisti, di ricercatori, di maestri del sapere.

L’Italia, nell’oscurità del medio-evo, illuminò il mondo con le sue Università; le Università ridaranno all’Italia la sua vera gloria e nuova luce agli uomini accecati dall’odio e dalla disperazione.

Mi dispiace ora dover dire cosa sgradita a qualcuno, ma non vi è dubbio che la ricerca scientifica in Italia – per tradizione e forse anche per la nostra scarsezza di mezzi – si compie e si può compiere solo nelle Università. I risultati del Consiglio delle ricerche non sono che ben poca cosa. L’esserci orientati verso criteri adottati da Paesi di diversa tradizione e con dovizia di mezzi ha ben poco giovato alla ricerca.

Questa dura verità è meglio dirla, se non vogliamo deludere l’aspettativa della Nazione. Il Consiglio delle ricerche – soprattutto dopo l’ultimo decreto del 1° marzo 1945 – si è rivelato non un potenziatore dello nostre capacità scientifiche, ma un elemento di dispersione.

Meglio sarebbe che il Consiglio delle ricerche rientrasse nel suo naturale alveo, nell’ambito cioè del Ministero della pubblica istruzione, per il necessario controllo e la opportuna coordinazione con gli Istituti superiori di cultura. Adempirebbe sicuramente meglio le sue funzioni di stimolo e aiuto alla ricerca, senza dispersione di mezzi, di cui purtroppo non abbonda il nostro Paese.

Vorrei ora accennare alle fonti di aiuto che dovrebbero affluire agli Istituti di alta cultura da parte di Enti e Società produttrici. Oggi molti Enti industriali hanno propri laboratori di ricerca bene attrezzati e attirano, per il miglior trattamento, i nostri migliori studiosi. Se invece questi Enti riversassero gli aiuti ai nostri centri di studio, utilizzandone l’opera, grande aiuto verrebbe ai nostri studiosi e grande vantaggio all’industria privata. Ma per brevità sorvolo su quest’argomento che meriterebbe più attento esame.

In attesa di una migliore coordinazione di quanto esiste, in attesa che una vera coscienza universitaria si formi nel Paese, gli aiuti principali noi oggi dobbiamo attenderli dal Governo. Le parole dell’onorevole De Gasperi in proposito ci confortano e ci fanno bene sperare, l’amore della cultura del Ministro Gonella ci danno sicura garanzia che sarà fatto tutto quanto, fra le difficoltà del momento, sarà possibile fare per le nostre Università. Ogni contributo ad esse dato potrà essere ricuperato con alto interesse per il potenziamento dell’industria e dell’agricoltura, per il miglioramento delle capacità produttive del singolo individuo, meglio assistito ed istruito.

Ripeto, fra tante distruzioni, una sola vera ricchezza resta all’Italia, il suo patrimonio spirituale. Un grande pensatore, il Mauriac, di recente, dinanzi allo spettacolo del nostro Paese prostrato, ma non domo, così si esprimeva:

«L’Italia imperiale non è più. Resta all’Italia di ricordare quello che essa fu e che ridiventerà: la prima educatrice d’Europa, il luogo del mondo dove di generazione in generazione i più alti spiriti e le anime più sante si son ritemprate e si ritempreranno». (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Uberti:

«L’Assemblea Costituente,

considerate le difficoltà di realizzazione del piano predisposto per la ricostruzione e per la lotta contro la disoccupazione,

considerato il pericolo che nel bilancio straordinario – istituito in contrasto col principio dell’unicità del bilancio – si inseriscano spese continuative non afferenti alla ricostruzione,

considerata l’insidia di oneri che derivano allo Stato da enti che sfuggono al controllo parlamentare,

ritenuto che l’equilibrio fra mezzi realmente disponibili (tributari e creditizi) e programma di spesa è indispensabile così ai fini della stabilità della moneta, che a quelli di una organica ricostruzione,

confida che il Governo vorrà al più presto informare l’Assemblea con una documentata esposizione finanziaria, che permetta una esatta valutazione della situazione».

L’onorevole Uberti ha facoltà di svolgerlo.

UBERTI. Rinunzio a svolgere l’ordine del giorno; ma lo mantengo, perché mi sembra che, a due anni e oltre dalla liberazione, una esposizione finanziaria documentata sia ormai improrogabile per avere dati di giudizio oggettivi, di fronte alla delicatezza della situazione e alle contrastanti soggettive opinioni che rendono assolutamente incerta l’Assemblea nel giudizio sulle decisioni possibili da prendere.

Pertanto confido che il Governo vorrà al più presto fare davanti all’Assemblea una esposizione completa di tutta la situazione finanziaria.

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Mastino Pietro, firmato anche dagli onorevoli Lussu, Corsi, Mastino Gesumino, Falchi, Chieffi, Abozzi, Mannironi, Murgia:

«L’Assemblea Costituente, convinta che solo una politica d’assoluta giustizia fra le varie Regioni giovi all’unità della Nazione, invita il Governo ad inspirarsi a tale principio anche nei confronti della Sardegna».

L’onorevole Mastino Pietro ha facoltà di svolgerlo.

MASTINO PIETRO. Onorevoli colleghi, io credo che l’invito rivolto col mio ordine del giorno al Governo per una politica di giustizia fra le varie Regioni, come base per l’unità nazionale, debba essere accolto con piacere da tutti i rappresentanti di questa Assemblea, ma soprattutto da quanti espressero delle preoccupazioni per la possibilità che i movimenti autonomistici non giovino all’unità nazionale.

Noi sardi veniamo spesso qualificati queruli, ma ritengo che la protesta cui procedo in questo momento, nell’interesse della mia Regione, sia una protesta fondata su ragioni di giustizia e che non dipenda affatto da tale nostra pretesa caratteristica.

Già davanti a questa Assemblea, giorni or sono, nel discutere una interrogazione sui provvedimenti che il Governo intende adottare per combattere a Roma il mercato nero, ho svolto un ordine di idee diretto soprattutto a ristabilire, anche in questo campo, un criterio di giustizia fra le Regioni, e rammentai allora come ciò che pubblicamente in Roma si verifica e si consuma, in Sardegna rappresenti un reato, e chi, ad esempio, nell’isola deve applicare la legge, cioè il Magistrato, qui in Roma si può sentire, eventualmente, autorizzato a trasgredirla. Nel parlare della politica del Governo nei confronti della Sardegna, io devo rilevare un sistematico trattamento di ingiustizia. Questo non è il luogo né il tempo per parlare di dazi doganali, né dei lavori dati a regìa (sistema sconosciuto nella nostra Regione, ma per i quali il denaro è dato anche dai nostri contribuenti), ma mi riferisco a provvedimenti concreti che nei confronti della mia Regione vengono adottati con difficoltà, mentre sono stati di già adottati nei confronti di altri centri.

Intendo come sarebbe ingiusto e addirittura inopportuno indicare le Regioni che hanno già avuto, onorevoli colleghi, provvidenze a base di centinaia di milioni e, recentemente, anche di molti miliardi, ma domando: perché, nei confronti dell’isola, il progetto che già è stato preparato dall’onorevole Segni (progetto che ripete le linee direttive contenute in quello analogo già approvato per le Puglie), e secondo il quale si dovrebbe procedere allo stanziamento di somme opportune e necessarie per opere pubbliche di bonifiche, per sistemazioni idrauliche, per sussidi ad opere private di miglioramento fondiario, trova difficoltà ad essere approvato?

A un certo punto parve che una nuova era sorgesse per l’isola, cioè un periodo di maggiore giustizia. Nel dicembre del 1944 fu emanato il decreto istitutivo dell’Alto Commissariato, ed in quel decreto fu previsto lo stanziamento di un miliardo per opere pubbliche in Sardegna. Pareva allora che quel miliardo dovesse rappresentare una somma non troppo sproporzionata alle necessità ed alle esigenze dell’isola, ma in pratica la cifra si dimostrò di troppo inferiore ai bisogni. D’altra parte troppe altre città, per ragioni di disoccupazione, o per altri motivi rappresentati dalla ritenuta necessità di interventi e di concorsi straordinari, hanno avuto delle provvidenze concrete e finanziariamente ingenti, mentre la Sardegna finora non ha avuto quasi nulla.

Avrei voluto presentarvi un quadro dimostrativo delle verità che sto affermando basato soprattutto su cifre, e per questo sono stato al Ministero dei lavori pubblici, ma vanamente ho tentato di avere dei dati; la mia fatica è stata inutile. Perché in questo campo che, a mio avviso, dovrebbe essere un campo di possibile doveroso esame e controllo da parte di ciascuno di noi; in questo campo, cioè in quello dei lavori pubblici, in cui, in certo senso, si concretano i sacrifizî finanziari nei riguardi delle varie Regioni ed in cui, quindi, dovrebbero essere possibili le libere critiche e le approvazioni, tutto è, invece, mantenuto gelosamente segreto e mi sono sentito rispondere che non è possibile avere le notizie che richiedevo. Ho dovuto, quindi, ricorrere all’esame del bilancio dello Stato, ed in base all’esame dei dati di questo bilancio, constatare l’insufficienza e l’ingiustizia di trattamento che nei confronti delle altre Regioni italiane viene fatto all’isola di Sardegna.

Dirò a questo proposito che noi abbiamo, sì, un provveditorato alle opere pubbliche, ma che manca dei fondi necessari. Ultimamente il Ministro Romita aveva comunicato che per la Sardegna sarebbero stati predisposti fondi sufficienti, ma come fosse necessario che enti, Comuni, autorità intervenissero e provvedessero alla tempestiva preparazione dei progetti.

L’Alto Commissario ed il Provveditore alle opere pubbliche visitarono le tre province, con l’intendimento di spronare gli enti alla preparazione dei progetti. Già da allora io temevo si potesse verificare un’amarissima delusione, e di fatti, a quelle prime adunanze, altre ne succedettero, dirette non più a sollecitare gli enti alla preparazione dei progetti, ma a significare, fra le righe, come i progetti già preparati non potessero più avere attuazione per mancanza di fondi. Si arrivò allora alla decisione che sarebbero state eseguite le opere che avessero presentato carattere di maggior urgenza. Sovente però le opere che presentano questo carattere figurano nell’elenco delle opere che devono assolutamente eseguirsi, ma l’esecuzione rimane sulla carta, poiché, soprattutto i Comuni minori, sono nell’impossibilità di sostenere convenientemente e vittoriosamente la gara con i maggiori. Tutto ciò non dovrebbe verificarsi. Il provveditore alle Opere pubbliche dovrebbe, a mio avviso, dipendere meno da Roma, dal Ministero dei lavori pubblici, ed essere invece più legato agli enti locali. Non dico con ciò che esso, nella propria attività, debba sottrarsi ai principî direttivi, dati dal Ministero, che anzi deve ricevere da esso l’indirizzo generale; ma che tutto quanto riguarda la sistemazione pratica, l’adattamento all’ambiente, deve rientrare nell’opera che il Provveditore alle opere pubbliche per la Sardegna, d’accordo, con la Consulta regionale, deve svolgere in modo autonomo. Sarebbe anche bene venisse largamente applicata una disposizione, già contenuta in una legge, secondo la quale, l’esecuzione dei lavori pubblici locali debba essere condotta dagli enti locali, sotto l’alta vigilanza del Provveditorato.

Onorevoli colleghi, credo di avere, in modo sintetico, accennato alle ragioni che hanno condotto me e gli altri colleghi della Sardegna, a nome dei quali anche vi parlo, a protestare contro un trattamento che non è di giustizia nei confronti della Sardegna. Ho messo in evidenza, soprattutto, quell’insieme di rilievi che si riferisce alle provvidenze poste in essere dallo Stato verso l’Isola; ma v’è anche un’altra parte della questione che deve essere esaminata. Io penso che, quando si parla di ricchezza e di povertà, questa affermazione e questo riferimento non debbano farsi soltanto nei confronti delle persone, ma anche nei confronti delle Regioni. E credo di essere nel vero, quando affermo che la Sardegna sia senza dubbio da porre fra le Regioni povere. Essa non ha subìto, è vero, per effetto della guerra, danni così gravi come altre Regioni d’Italia. Delle città quella maggiormente bombardata e semidistrutta è Cagliari, che, però, risorge dalle macerie, pulsa già nuovamente di vita febbrile per commerci e per industrie che tentano di riprendere il passo nell’interesse dell’isola e della economia nazionale.

Tutto questo la città di Cagliari ha potuto fare non per aiuti forniti dal Governo, sempre incerto sulla linea da adottare in materia di risarcimento dei danni di guerra, bensì per l’attività veramente lodevole e per lo spirito di iniziativa veramente encomiabile dei propri abitanti.

La Sardegna, dicevo, non ha avuto grandissimi danni di guerra; ma le perdite non devono essere vedute soltanto nelle distruzioni per bombardamenti ed in quella che può essere stata azione diretta di guerra. L’economia dell’Isola dovette provvedere durante l’ultimo periodo della guerra all’alimentazione ed al sostentamento di molti eserciti che vi si accampavano, ed il formaggio fu, allora, ceduto a 12 lire il chilogrammo. Le merci di produzione locale furono asportate a prezzi di imperio; i manufatti, gli arnesi e gli strumenti agricoli importati dal continente italiano furono e sono pagati a prezzi impossibili. Questo dà diritto ad una speciale considerazione dei bisogni dell’Isola, oggi che si preparano provvedimenti d’indole fiscale.

Ripeto, si deve fare una discriminazione tra Regioni povere e Regioni ricche. Non si deve ripetere l’ingiustizia lamentata quando fu istituito il Fondo di solidarietà nazionale, per il quale vennero tassate le poco fertili terre di Sardegna nella stessa misura di quelle della Valle Padana. È vero che un successivo decreto, in accoglimento delle proteste dell’Isola, ha in parte diminuito questa ingiustizia, ma non l’ha ancora eliminata del tutto.

La Sardegna non ha avuto arricchimenti o lucri di contingenza, non industrie di guerra, non ha avuto e non ha industrie manifatturiere. Tutto questo dev’essere ricordato e tenuto presente alla vigilia dei provvedimenti fiscali. La legge eguale per tutti, quando le condizioni e le situazioni sono diverse, è il massimo dell’ingiustizia.

Sbaglierebbe chi interpretasse il mio ordine del giorno come dovuto a considerazioni solo regionalistiche. Esso invoca giustizia fra le Regioni come base per l’unità nazionale; ed è appunto perché crediamo che la Sardegna possa avere possibilità di vita piena nel quadro di una economia nazionale e di una giustizia per tutti, che io ho parlato. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Tonetti ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

constatato che elementi del fascismo e della reazione anti-democratica, responsabili della rovina della Nazione, si sono riorganizzati e svolgono attività contraria alla Repubblica ed alla democrazia, clandestinamente, perpetrando assassinî ed attentati terroristici e, apertamente, mascherati sotto varie denominazioni, pubblicando giornali, che fanno esplicitamente apologia del fascismo;

considerato che la libertà di associazione e di stampa non deve oltrepassare limiti precisi, oltre ai quali vengono posti in pericolo l’esistenza e la sicurezza della Repubblica e della democrazia;

che ogni regime deve poter contare sicuramente sugli organi dell’apparato statale per la sua difesa;

che dopo 8 mesi dalla proclamazione della Repubblica il funzionamento e la composizione degli organi statali non è tale da garantire l’espletamento di questo loro compito specifico;

invita il Governo a riformarli e ad emanare provvedimenti adeguati alla difesa ed al consolidamento delle istituzioni repubblicane e democratiche».

L’onorevole Tonetti ha facoltà di svolgerlo.

TONETTI. Dopo le ampie discussioni sulle dichiarazioni dell’onorevole Presidente del Consiglio, mi limito a poche considerazioni, a sostegno dell’ordine del giorno che ho presentato.

Sarebbe vano negare che oggi il sentimento predominante della maggioranza del popolo italiano, specialmente nella classe lavoratrice, è la delusione. Infatti, durante il periodo della lotta contro i nazi-fascisti, i combattenti per la libertà e tutti i cittadini amanti della libertà speravano che dopo la liberazione la mala pianta del fascismo fosse distrutta ed il nuovo regime che doveva sorgere dalle rovine del fascismo e della monarchia, oltre ad ampie riforme d’ordine economico e sociale, avrebbe dovuto attuare anche un profondo rinnovamento nell’apparato statale.

Oggi possiamo constatare che questo non è avvenuto. A tutt’oggi le organizzazioni fasciste possono pubblicare impunemente giornali nei quali si fa l’apologia del fascismo, possono organizzare attentati, assassini, mentre negli organi dell’apparato statale – burocrazia, magistratura, forze di polizia e forze armate – vi sono ancora troppi elementi arnesi del passato regime, i quali, dopo un periodo di incertezze e di perplessità, agiscono contrariamente agli interessi della democrazia e della Repubblica.

Per quanto riguarda la burocrazia, si deve riconoscere il merito di molti dipendenti statali, i quali, mal pagati, mal trattati, si conservano onesti e fanno il loro dovere. Ma chi ha rapporti con i Ministeri, per questioni di pubblico interesse, sa quali resistenze trova in certi ambienti dell’alta burocrazia ministeriale. Fatte sempre le debite eccezioni, ci sono dei funzionari i quali sembra che credano di non dover far altro se non di ostacolare e di ritardare le pratiche, con grave danno dell’Amministrazione pubblica. E viene fatto di domandarci talvolta se non si tratti di ostruzionismo.

Per quanto riguarda la magistratura, l’onorevole Targetti, da par suo, ne ha denunciato gli inconvenienti e i difetti. Certo che le quotidiane assoluzioni di gerarchi, di profittatori e perfino di criminali fascisti suscitano l’indignazione in tutti coloro che hanno sofferto per causa del fascismo. Circa due settimane or sono un colonnello della guardia repubblicana, noto seviziatore e rastrellatore, certo Bassi di Venezia, condannato a morte dalla Corte d’Assise speciale fu assolto in sede di revisione del processo. Ora, quando una magistratura, senza che emergano circostanze di fatto inoppugnabili, trasforma una sentenza di morte addirittura in una assoluzione, si copre di discredito.

Altro esempio: alcuni mesi or sono, sono stati celebrati due processi di collaborazionismo, uno contro un certo Angelini, direttore generale per l’Italia delle costruzioni navali tedesche, l’altro contro certo Mazzolini e compagni, i quali dopo l’8 settembre abbandonarono la loro professione per impiantare con capitale tedesco i cantieri del Levante. Questo risulta dagli atti processuali. Naturalmente furono assolti, non solo, ma, nella celebrazione del secondo processo, furono fatte insinuazioni oltraggiose a carico di un avvocato che, designato a suo tempo dal Comitato di liberazione a esercitare la funzione di pubblico ministero, aveva istruito il processo ed aveva rinviato a giudizio i prevenuti. A questo punto arriva la sfrontatezza dei collaborazionisti per la colpevole indulgenza della magistratura.

Anche il funzionamento delle forze di polizia non è sodisfacente. Nelle Questure, accanto a funzionari corrotti e fascisti, vi sono dei funzionari onesti, sinceramente democratici i quali vorrebbero fare il loro dovere, vorrebbero agire energicamente contro le formazioni sammiste e neo-fasciste, ma non osano farlo, perché, a torto o a ragione, hanno l’impressione che questa loro attività non sia gradita agli organi centrali.

Citerò un esempio edificante: alcuni mesi prima che fossero arrestati Padre Zucca e Parini mandai una persona di mia fiducia dal Questore di Milano ad avvertirlo che nel convento di Via Moscova si ordivano complotti fascisti ed erano rifugiati alcuni gerarchi latitanti. Il Questore stabilì di fare una perquisizione, ma quando il mio incaricato si presentò il giorno fissato si sentì rispondere che l’operazione era sospesa. Mandai la persona di mia fiducia a Roma alla Direzione di polizia a ripetere la denuncia: non fu presa in considerazione.

Ora io ho sentito giorni or sono l’onorevole Presidente del Consiglio manifestare in quest’aula un giudizio favorevole alla Direzione di pubblica sicurezza. Fatti come quelli che ho denunciato ed altri ancora che non riferisco per non far perdere tempo all’Assemblea mi autorizzano a dissentire dal suo giudizio e credo che non sia troppo pretendere chiedendo che il capo della polizia, Ferrari, ed il capo del personale, Pianese, siano sostituiti con due funzionari di provata fede repubblicana e democratica.

Analoga situazione vi è nell’Arma dei carabinieri. Il comando è affidato al generale Brunetti, che nessuna persona in buona fede vorrà qualificare campione della Repubblica e della democrazia, autore di quelle circolari segrete contro i partiti di sinistra che sono state pubblicate anche dal giornale L’Unità. Le conseguenze di quelle direttive sono le spedizioni intimidatorie, del genere di quella di Nemi, che non è il solo caso, e la condotta di certi brigadieri e di certi marescialli dei carabinieri che, disponendo di una grande autorità nei confronti della libertà personale dei cittadini, specialmente nei piccoli paesi, esercitano in modo fazioso il loro ufficio contro i lavoratori e i militanti dei partiti di sinistra.

Vi sono degli ufficiali e dei sottufficiali dei carabinieri che dopo l’8 settembre, piuttosto che giurare fede alla repubblichetta di Salò, si diedero alla latitanza. Alcuni hanno anche combattuto valorosamente nelle formazioni partigiane. Ebbene, costoro sonò sottoposti ad una vera persecuzione, legalissima, a base di disposizioni regolamentari, mediante trasferimenti, e sabotando le loro promozioni.

Analoga situazione si registra anche nelle Forze armate, soprattutto nella Marina, sebbene si debba riconoscere che recentemente la situazione è alquanto migliorata. Comunque, ufficiali e sottufficiali, individuati quali repubblicani e democratici, sono vessati in base ai regolamenti medioevali, ancora in uso nelle Forze armate.

Per quanto riguarda l’Aeronautica, mi auguro che l’esposizione, fatta ieri dall’onorevole Cingolani, corrisponda a verità, sebbene qualche notizia apparsa sui giornali e qualche notizia che ho avuto io e che non ho avuto ancora il mezzo di controllare, mi faccia pensare che egli sia stato troppo ottimista.

Insomma, ci troviamo in questa situazione paradossale che, dopo otto mesi dalla proclamazione della Repubblica, i fascisti possono svolgere la loro attività senza essere eccessivamente disturbati e nelle file dei dipendenti statali vi sono elementi che sono avversari, quando non sono nemici, della democrazia e della Repubblica.

Ora il popolo italiano, il 2 giugno, col suo voto ha istituito la Repubblica e la democrazia ed il Governo ha il dovere di rimediare a questo stato di cose, perché un regime non ha garanzia di resistenza se non sa difendersi e se non può contare sugli organi dell’apparato statale.

Non ho intenzione di esagerare, anzi condivido l’opinione di coloro che non credono alla possibilità di un ritorno al passato, perché sono certo che se debolezze di Governo inducessero i responsabili della catastrofe nazionale a tentare di restaurare un regime antidemocratico, liberticida, un regime di tipo fascista, i combattenti per la libertà, il popolo lavoratore, che non hanno avuto paura di lottare contro il terrore nazi-fascista, saprebbero stroncare questi conati. Ma, carità di Patria c’impone d’impedire qualsiasi possibilità di avventure che ritarderebbero l’urgente opera della ricostruzione nazionale.

Del resto non occorrono provvedimenti straordinari.

Ieri il Presidente del Consiglio ha detto che presenterà una legge sulla stampa. Venga presto e sia tale da eliminare lo sconcio dei giornali libellistici, scandalisti, diffamatori ed, aggiungo, fascisti. Sarebbero opportuni ordini tassativi agli organi di polizia perché agissero contro le formazioni fasciste, e sarebbe opportuno sospendere temporaneamente, per un breve periodo, lo stato giuridico dei dipendenti dello Stato dei primi quattro gradi in modo da poter licenziare in tronco quelli che non servissero fedelmente la Repubblica.

Speciale attenzione bisogna rivolgere alla formazione delle Commissioni per lo sfollamento delle Forze armate per evitare il tentativo di… sfollarle dai repubblicani.

L’onorevole Presidente del Consiglio ha ripetuto, nelle sue dichiarazioni, la volontà di difendere e consolidare la Repubblica. Io non mi permetto – e non ho nessun motivo per farlo – di mettere in dubbio la sincerità di queste dichiarazioni, ma si deve affermare chiaramente che s’impone una politica, una azione di governo più energica, più severa. I fatti devono seguire alle parole, affinché tutti si convincano che il Governo è deciso a reprimere qualsiasi attività contro l’esistenza della Repubblica e della democrazia. (Vivi applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Parri:

«L’Assemblea Costituente,

in ordine all’assetto dato ai servizi ed istituti relativi alla assistenza ai combattenti reduci e partigiani, invita il Governo:

ad adottare provvedimenti che assicurino l’effettiva continuità dell’attività di assistenza, concedendo anche i mezzi finanziari necessari a tenere in vita provvidenziali istituzioni assistenziali e che valgano a permettere un coordinamento efficace dei varî servizi;

a provvedere a che l’Opera nazionale combattenti, passata alle dipendenze del Ministero dell’agricoltura, abbia riforme legislative, assistenza di credito e soprattutto autonomia di azione, che valgano a svilupparne l’attività, evitarne l’insabbiamento burocratico, ed ogni deviazione dai fini sociali che le sono istituzionali».

L’onorevole Parri ha facoltà di svolgerlo.

PARRI. Io ero iscritto a parlare ieri sulle comunicazioni generali del Governo, ma l’intervento del collega Pastore Raffaele del Partito comunista ha risparmiato all’Assemblea un nuovo discorso di indole generale.

Mi limito in questa sede a toccare soltanto alcuni punti particolari richiamati nel mio ordine del giorno.

Il primo di questi punti riguarda la soppressione del Ministero dell’assistenza post-bellica, che è già stata oggetto di censure e di discussioni da parte di altri oratori.

Io dichiaro che a questa censura e a questi dissensi devo associarmi, nel senso che se l’attività del Ministero della post-bellica poteva presentare errori e deficienze, non credo che la cura migliore fosse questa, che è negativa e controperante.

Lo smembramento del Ministero è un errore psicologico. Le assicurazioni date dal Governo che gli impegni per l’assistenza ai reduci, ai partigiani ed ai combattenti non sarebbero stati per nulla interrotti sono contradette dalla realtà attuale. Tutti gli impegni sono stati finora sospesi.

La sospensione degli impegni si traduce in questo: bambini che non hanno possibilità di ricovero; convalescenziari che si chiudono; scuole che non si aprono; gruppi di lavoratori che cessano di lavorare, aumentando l’esercito dei disoccupati.

A nome degli interessati io chiedo al Governo assicurazioni precise in proposito.

Lo smembramento di questo Ministero è stato anche un errore tecnico, in quanto esso non era un coacervo di attività eterogenee; ammetto che potessero operarsi delle sfrondature, ma vi era un nucleo centrale di attività, le quali esigevano una certa unità di direzione ed esigono ancora una certa unità di visione del problema, unità che, evidentemente, si perde con la ripartizione dei servizi fra i vari Ministeri.

Meglio, a mio parere, sarebbe stato mantenere un Sottosegretariato omogeneo, alle dipendenze, invece che della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero del lavoro, più affine, per sua natura, alle specifiche funzioni del cessato Ministero.

Ricordo, in proposito, l’esperienza della Francia, la quale, disfatto il suo Ministero per l’assistenza post-bellica, è stata poi costretta dagli eventi a ricostituirlo. Sarebbe doloroso se anche in Italia si dovesse ripetere questa esperienza negativa.

Devo chiedere al Governo queste assicurazioni formali, perché sopra il Governo esiste ed opera una specie di cripto-governo, tanto più preoccupante, qualche volta, in quanto non è responsabile.

Il Presidente De Gasperi sa che intendo alludere alla Ragioneria generale dello Stato, organo certo pieno di ottime intenzioni per la difesa del bilancio dello Stato. Quando può, appena può, ritarda od annulla tutti gli impegni; e qualche volta, forse, procede bene e utilmente e costituisce un’effettiva difesa del bilancio. Ma altre volte, no; quest’azione per ritardare, bloccare, annullare impegni e spese urgenti svolta spesso dalla Ragioneria generale dello Stato si traduce in danno del prestigio, del credito del Governo e dello Stato, causa malumori, causa delusioni; ed in ogni modo non è certo al Corpo degli ispettori generali del Tesoro che si può riconoscere una competenza per l’esame di merito, che compete agli organi centrali del Governo.

Ora, quando il Governo sopprime, smembra il Ministero dell’assistenza post-bellica, la Ragioneria generale dello Stato ritiene che non si devono spendere più soldi per l’assistenza post-bellica ed evita che si spendano soldi per questo cessato Ministero. E per questo credo sia necessario un intervento preciso da parte del. Presidente del Consiglio.

Vi è un altro problema: quello della cosiddetta riqualificazione professionale dei disoccupati, problema veramente urgente, di primo piano, del quale abbiamo la sensazione immediata, più acuta, più parlante, specie noi che siamo più a contatto con questa massa di gente che è da cinque, sei, sette anni senza lavoro, senza professione ed è quindi in uno stato di degradazione professionale preoccupante. Il nostro materiale umano è andato deteriorandosi terribilmente, non solo per queste categorie, poiché dappertutto si è verificato un deterioramento del materiale umano, fisico, intellettuale, professionale e anche morale, rappresentando per noi un pericolo tremendo.

Quando si dice che la Nazione ha perduto un terzo della sua capacità di reddito, si deve aggiungere che ha perso un terzo, o anche di più, della capacità di lavoro dei suoi figli. E allora voi intendete come quest’opera di ripristino di questa energia umana perduta, abbia un valore importante, superiore a molti altri problemi di pura politica. Questi sono veramente gli investimenti produttivi: quando ridiamo la capacità di lavoro, quando il manovale ritorna ad essere un operaio qualificato; o quando salviamo i bambini di oggi dal diventare tubercolotici domani, allora sì che compiamo veramente l’opera più produttiva per la Nazione.

E qui vorrei dire ai miei amici onorevoli Lombardo e Tremelloni, che hanno con tanta eloquenza – ed anche concreta eloquenza – spiegate le ragioni che rendono necessario per un Paese come il nostro, nella nostra situazione, d’inquadrare i problemi della produzione in un piano organico e coordinato, che un piano organico e coordinato occorre non soltanto per le opere economiche, ma anche per questa opera sociale; opera sociale che non si può scaglionare nel tempo, ma deve avere inizio subito. E non un inizio disordinato, ma un inizio ordinato che tenga conto non solo degli istituti, non solo dalle Amministrazioni statali, ma di tutte le altre forze e iniziative libere che occorre coordinare, che occorre convogliare, assegnando ad ognuna il compito più efficiente.

Mi rincresce un po’ di non aver potuto parlare ieri, in quanto su questo piano economico, delineato dagli onorevoli Tremelloni e Lombardo, avrei avuto da esporre qualche considerazione circa l’utilità di definire più chiaramente le posizioni relative.

Vorrei accennare a questo proposito soprattutto a questo, che quando voi parlate di piani dovete considerare due momenti diversi: il momento attuale, che è momento di contingenza, di mercato chiuso, di non circolazione dei beni, ecc., che esige evidentemente un piano di emergenza, per il quale devono essere adottati provvedimenti di emergenza; il successivo momento, che si può chiamare di stabilizzazione, per il quale dovremo invece predisporre un piano normale di ricostruzione da attuare quando la riacquistata normalità del mercato internazionale, e quindi la normalità della circolazione dei beni, dei capitali, dei servizi, potrà permetterci una politica economica normale.

In questo periodo di emergenza il Governo si trova sollecitato da due tendenze: una tendenza socialista, che lo spinge inevitabilmente verso soluzioni collettive o collettivizzanti, e la tendenza propria della Democrazia cristiana ancorata a diverse esigenze. Queste traspaiono chiare dagli ostacoli che incontra una politica di limitazione della proprietà e del possesso agrario, poiché il programma del Ministro Segni (il quale peraltro ha tutta la nostra stima) resta nei limiti d’un programma tecnico. Ma questa incertezza e contradittorietà si è rivelata anche nella politica economica generale, non soltanto agraria propriamente detta, e non si è giunti a risolvere l’esperienza passata ed il programma nuovo del Governo in una organica conciliazione di tendenze.

E sul piano normale, che l’onorevole Lombardo ha disegnato con abbondanza di particolari come un piano articolato, organico, particolareggiato, le riserve che possono venire da noi sono sostanzialmente queste: che noi, tenendo conto della fase storica nella quale viviamo, e delle necessità obiettive della situazione italiana, dobbiamo limitare al massimo le leve di controllo che possono assicurare questa pianificazione, che anche noi del resto vogliamo come egli la vuole.

L’Italia è in una posizione economica e storica, della quale bisogna prendere chiara e precisa coscienza, che non ci permette di seguire tanto l’esempio russo, il quale è quello di una nazione, di una economia ridotta a zero, la quale può permettersi il lusso di una grande esperienza rinnovatrice; quanto l’esempio inglese, che è quello d’una nazione a reddito medio individuale elevato e consolidato, che non teme di essere scardinato dalla politica di nazionalizzazione.

Noi ci troviamo in una posizione intermedia, con una capacità di reddito insufficiente, e questi esperimenti per noi possono essere molto pericolosi; non ce li possiamo permettere, credo, perché non li pagherebbero i ricchi, ma in definitiva i poveri.

Questa è l’osservazione che sentivo la necessità di fare agli onorevoli Togliatti e Nenni, dopo i loro discorsi.

Voi postulate, voi chiedete trasformazioni sociali, chiedete audaci iniziative, chiedete prestiti, ma chi pagherà? Voi dite: pagheranno gli abbienti, i ricchi. Ma avete fatto i conti? Se i ricchi non potranno dare denari sufficienti, questo significherà che quella certa ricostruzione che l’amico Tremelloni desiderava compiuta nel 1950 lo sarà nel 1960. E questo che cosa vorrà dire? Vorrà dire perpetuazione di un basso tenore di vita, vorrà dire che pagherà il proletariato.

Quale è, su questo punto, la nostra posizione? Evidentemente la nostra conclusione non è negativa. La conclusione è questa: che la vostra politica, che è anche nostra, cioè la politica intesa a ridistribuire ai poveri il massimo di ricchezza possibile, è realizzabile soltanto ad una condizione, che voi accompagniate la vostra politica con una contropartita, con una politica che permetta effettivamente di accrescere il reddito.

Ora questa politica non si può limitare ad affermazioni generiche; voi, quando parlate, mettete l’accento sulle necessità sociali e non dico che neghiate le necessità economiche. Ma le ignorate o le scavalcate; mentre esse hanno un senso preciso e vogliono una precisa politica economica che il vostro Governo – o i partiti di Governo – non ha realizzato e che non credo possa realizzare risolvendo le contradizioni che ho indicate.

Quando ascoltavo il discorso dell’onorevole Nenni, quando sentivo nel suo discorso e nella sua perorazione – calda perorazione – risuonare certe fanfare, non potevo non riandare col pensiero a quella che è stata la storia cinquantennale del Partito socialista come strumento di ascensione e di elevazione delle classi proletarie. Non è stato merito della pratica, e tanto meno della predicazione della violenza e dell’illegalismo, non sono stati gli assalti garibaldini, ma è stata l’opera quotidiana, silenziosa, metodica della propaganda e della organizzazione che ha fatto grande il Partito socialista e che gli acquisisce grandi meriti nella storia sociale italiana, e che ha permesso che le numerose conquiste graduali fossero consolidate e diventassero sostanziali.

Io non mi faccio illusioni; gli amici di sinistra mi consentano queste osservazioni che faccio unicamente perché siano definite le posizioni fra un settore e l’altro.

Torno all’oggetto del mio ordine del giorno, il quale si racchiude nella necessità di un piano organico, per queste opere di assistenza sociale che sono di così diretto interesse per le categorie delle quali mi occupo.

Avevo accennato alla necessità di dare uno sviluppo rapido e ampio a quest’opera di addestramento tecnico professionale; è evidente la necessità per l’Italia di esportare piuttosto un operaio qualificato od un cameriere finito invece di un manovale o di uno sguattero. È lo stesso come esportare macchine invece di materie prime.

Ora noi, la esperienza di questo addestramento, di questa qualificazione professionale l’avevamo già impostata con serietà, con larghezza di criteri e con ottimi risultati. Il Governo veda in questo una ragione dell’urgenza del mio intervento.

Sono state interrotte, dallo smembramento del Ministero dell’assistenza post-bellica, sia questa, come altre attività, anche queste minacciate di esaurimento e di morte, come l’attività sociale dell’Opera nazionale combattenti, largamente sperimentata già in vari campi, e soprattutto in quello della organizzazione del lavoro. Così, anche per una rete di collegi, di orfanotrofi, di convalescenziarî, per l’infanzia abbandonata e per gli orfani dei partigiani e dei reduci: tutte iniziative sacrosante per le quali io chiedo al Governo che si provveda con l’iscrizione delle somme occorrenti nei relativi capitoli di bilancio. Quelli esauriti del Ministero dell’assistenza post-bellica siano rinsanguati, nei limiti, s’intende, delle possibilità generali dei bilancio.

E mi permetta ancora l’onorevole De Gasperi su questo una parola. Il Ministero dell’assistenza post-bellica, quando è stato costituito, insieme con l’Alto Commissariato dell’alimentazione, diede origine a critiche di bassa lega, come se ci fossero state all’origine soltanto ragioni di alchimia ministeriale.

Le intenzioni nostre corrispondevano invece a un altro disegno, che è bene che l’Assemblea abbia presente: corrispondevano cioè al disegno di modernizzare la macchina del Governo, secondo una maggiore aderenza alle mutevoli necessità, al progresso dei tempi, all’estensione dei compiti dello Stato. Vi ricorderò, al riguardo, che la Russia ha sessanta Ministri, dei quali la massima parte – almeno una cinquantina–  tecnici; la Francia e l’Inghilterra hanno esse pure un numero di Ministri assai maggiore che non l’Italia. Non è dunque evidentemente l’ideale un Ministero di pochi Ministri; il problema è un altro, è un problema di efficienza di Governo. Non è necessario quindi che i Ministri siano pochi, ma è necessario che siano tanti quanti devono essere. Si tratta soprattutto di un problema di stabilità e di competenza.

Queste amministrazioni centrali, ben lontane dall’essere delle macchine burocratiche mastodontiche, devono tuttavia assicurare il coordinamento al centro e la divisione del lavoro delle attività e delle iniziative periferiche. In questo senso aveva una ragione d’essere anche il Ministero dell’assistenza post-bellica, che avrebbe però dovuto svolgere la sua attività per mezzo di organi di decentramento, non come un grande organismo burocratico centrale.

Lo stesso dicasi per alcuni organi dei quali il Presidente De Gasperi ci ha annunciato la creazione, e che io credo segneranno un passo in avanti. Alludo al Commissariato per l’emigrazione e al Commissariato per il turismo: iniziative lodevoli; ma questi organi devono, a mio avviso, essere autonomi, sia pure sotto il controllo dello Stato, ma indipendenti dallo Stato medesimo. Credo che l’esperienza del passato sia istruttiva.

Un altro di questi grandi organi autonomi, richiamato nell’ordine del giorno, è l’Opera nazionale combattenti, a proposito della quale vorrei esporre al Governo alcune preoccupazioni sulle quali gradirei avere delle assicurazioni.

L’Opera nazionale combattenti dovrebbe venire inserita nella economia del Paese. Nata dopo l’altra guerra, per merito dell’onorevole Nitti, essa sviluppo una notevole attività nel campo agrario ed in quello sociale. Essa si è fatta una attrezzatura tecnica sua propria, che è preziosa, e che può rendere utili servizi al Governo. Di tale attrezzatura si servì anche il fascismo, per le sue bonifiche di prestigio.

L’Opera nazionale combattenti è oggi passata alle dipendenze del Ministero dell’agricoltura, mentre sarebbe stato meglio porla sotto quelle della Presidenza del Consiglio, oppure del Ministero del lavoro e della previdenza, sociale, il quale ultimo è più vicino ai fini istituzionali di questo ente. L’Opera nazionale combattenti può svolgere ancora una proficua funzione sociale, perché possa godere della necessaria autonomia.

E se potrà avere dei mezzi, e sarà riformato il suo regolamento, che il Ministro Segni conosce bene, l’Opera nazionale combattenti potrà essere di prezioso aiuto per il progresso dell’economia agraria. Ma ultima iattura sarebbe che l’Opera nazionale combattenti diventasse una specie di direzione generale del Ministero dell’agricoltura. E faccia posto, il Ministro Segni, in questo istituto ai rappresentanti delle categorie dei reduci, dei combattenti e partigiani, che sono troppo interessati all’istituto stesso.

Ho poche altre cose da dire. Una di queste è che la necessità di finanziamento per l’assistenza sociale deve essere inquadrata chiaramente nel programma finanziario del Governo, a proposito del quale attendiamo le stesse informazioni che ha chiesto ora l’onorevole Uberti, informazioni evidentemente fondamentali.

Il Governo si renda conto che il Paese è stanco dell’incertezza in cui si trova, di fronte all’ignoranza su quella che è la reale situazione economica e finanziaria e su quelle che sono le effettive possibilità di azione.

Non possiamo più accontentarci di affidamenti generici. Abbiamo bisogno di numeri, abbiamo bisogno di numeri sul bilancio dello Stato, sul bilancio di cassa, sulla bilancia internazionale dei pagamenti, numeri per quanto riguarda i mezzi che il Governo potrà mettere a disposizione delle grandi necessità presenti: disoccupazione, lavori pubblici e, infine, opere di assistenza sociale.

Noi abbiamo bisogno di queste informazioni generali dal Governo, perché una delle ragioni evidenti del disagio della Camera, oltre alla situazione morale nella quale l’ha messa la recente ondata scandalistica, è la sensazione di assenza, questa sensazione di essere tagliata dalla possibilità di intervento e controllo sull’azione del Governo. Questa Assemblea non è la Camera legislativa normale, è la Costituente, legata ai suoi compiti specifici. Ma il Paese, che vede in noi i suoi rappresentanti, accusa questa Assemblea di inerzia e di abbandono.

Sono stati perduti mesi preziosi, e non dobbiamo nasconderci che è crescente nel Paese una ostilità contro i suoi rappresentanti. Se il Parlamento non riuscirà a diventare uno strumento di lavoro e di Governo, le prospettive che possiamo formulare per il nostro avvenire democratico non possono non essere veramente preoccupanti. Il Governo, se darà, nel modo che crederà più opportuno, concrete e precise informazioni all’Assemblea e al Paese, agirà nel modo più utile e più efficace per diminuire questo disagio.

Oltre a questo, noi, per la parte nostra, non possiamo chiedere molto al Governo. Né attendiamo molto dal Governo, verso il quale la nostra sfiducia non vuole essere, e non è, una scortese diffidenza pregiudiziale, ma si riporta a quelle considerazioni obiettive che dicevo prima, relative alla struttura del Governo in confronto con l’esperienza del passato.

Abbiamo avuto la riprova di ciò in questo stesso dibattito dinanzi all’Assemblea, che è stato dominato dal duetto Togliatti-Democrazia cristiana. Io intendo le ragioni per le quali l’onorevole Togliatti ha impostato, con la massima chiarezza, ed insieme con la massima longanimità, il suo tema, anche se egli sapeva già in anticipo qual era la risposta, perché la risposta era già implicita nell’atteggiamento della Democrazia cristiana quale era stato indicato a suo tempo dal suo segretario politico, onorevole Piccioni, il quale aveva fissato la posizione della Democrazia cristiana come una posizione di centro (centro in senso proprio, in senso stretto) ma centro, come dire, bivalente verso la destra e verso la sinistra: ciò che non era una posizione di inerzia, una posizione di imbarazzo, ma era invece una posizione imposta dalla necessità vitale del Partito, il quale non voleva respingere a destra, ma ancorare al centro, forze che stimava essenziali alla sua consistenza ed al suo avvenire.

Voi sapete che la risposta che l’onorevole Cappi ha dato all’onorevole Togliatti è stata interpretata come un «ni», sul quale hanno influito certamente quegli elementi relativi ai rapporti con la Chiesa che l’onorevole Togliatti ha introdotti nel suo «vieni meco», che è stato indirizzato oltre la Democrazia cristiana, per giungere fino al Vaticano. Dentro questo «ni» non ci può essere posto per un organico programma sociale di Governo; ci può esser posto tuttavia per una modesta ma seria opera amministrativa, per la quale formula gli auguri più cordiali.

PRESIDENTE. Onorevole Parri, mi permetta, le faccio osservare che ha parlato già tre volte il tempo che le sarebbe regolarmente concesso. La prego di avviarsi verso la conclusione.

PARRI. La mia conclusione è questa. Non credo che la situazione permetta al Governo grandi opere, e consenta di farsi illusioni su di esse. Suo compito principale deve essere la progressiva normalizzazione economica, che si risolverà anche in una graduale normalizzazione della situazione politica. Il Governo opererà bene se saprà intendere e sodisfare le necessità elementari e fondamentali del Paese, poiché la strategia politica migliore è sempre quella che viene diretta dai grandi interessi del Paese. La necessità primordiale del Paese è quella di essere amministrato; la seconda è quella della pace, che non è una frase retorica, ma deve essere la costruzione attiva e quotidiana d’una politica consapevole e determinata, la terza è quella della miseria, miseria della gente che non mangia, secondo la sua fame, miseria secolare di plebi abbrutite, miseria fisica che finisce per essere anche morale, che richiede giorno per giorno la vostra sollecitudine.

Questo è l’appello che dovete sentire nella vostra opera. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Dopo la chiusura della discussione generale, sono stati presentati alcuni ordini del giorno che non possono, a norma del Regolamento, essere svolti.

Invito l’onorevole Segretario a darne lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«L’Assemblea Costituente,

afferma che la Repubblica, ancor prima di concepire i suoi nuovi ordinamenti costituzionali, deve affrontare, in una rinnovata severità di costumi, problemi vitali inacerbiti dal fascismo e dalla guerra;

considera, tra gli altri, problemi non dilazionabili:

  1. a) la restaurazione dell’autorità e della moralità dello Stato, il riordinamento delle pubbliche amministrazioni e l’effettivo disarmo di tutti i cittadini;
  2. b) il riordinamento dei tributi statali e comunali, con particolare riguardo a quelli diretti e indiretti che incidono su consumi voluttuari;
  3. c) la stabilizzazione monetaria, condizione e premessa per il risanamento dei bilanci dello Stato e degli enti locali e per la ripresa economica;
  4. d) una moderna legislazione agraria, che tenendo conto della diversità delle esigenze regionali, sia diretta all’incremento della produzione ed a porre le basi per un radicale rinnovamento delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori della terra;
  5. e) un piano di lavori pubblici produttivi, che dia risolutivo contributo alla ricostruzione, iniziandola dalle case per il popolo, ed alla rioccupazione dei lavoratori e dei reduci;
  6. f) una disciplina degli approvvigionamenti e una politica dei prezzi che assicurino a tutti i lavoratori un livello vitale e meno sperequato di esistenza;
  7. g) l’unificazione e il coordinamento dell’assistenza sociale, intesa non come carità, ma come dovere della collettività verso i bisognosi e i diseredati e affidati a specifici organi centrali e periferici; ed un miglioramento immediato delle condizioni economiche dei pensionati;
  8. h) l’allacciamento dei rapporti con l’estero, per inserire l’economia italiana nell’economia internazionale con la maggiore, possibile mobilità di uomini, merci e capitali; per regolare l’emigrazione dei lavoratori italiani con la tutela dei loro diritti e della loro dignità; per preordinare le condizioni e i congegni destinati alla ripresa del turismo e della marina mercantile;
  9. i) la restaurazione del prestigio e dell’indipendenza della giustizia, affidata a magistrati e a funzionari non più assillati da preoccupazioni economiche;
  10. l) il rinnovamento educativo della scuola – da sottrarre alle influenze confessionali e di parte – e degli istituti di riqualificazione professionale per i reduci e i disoccupati da avviare a nuove attività produttive;

constata che la mancanza di tempestivi ed efficienti provvedimenti sui problemi sopraccennati ha determinato nel Paese un senso di disinteressamento e di sfiducia, non solo verso il Governo, ma anche verso la Costituente, che non è stata consultata neppure nelle ore più tragiche della vita nazionale, come in occasione dell’iniquo trattato di pace;

osserva che tale sfiducia è anche aggravata dall’ambiguità e dal doppio giuoco nei rapporti fra i partiti che sono al Governo, e ne accettano il programma, ma contro il Governo conducono una campagna d’opposizione nel Paese;

ritiene incapace l’attuale Governo, non solo di predisporre quel piano organico che è necessaria premessa della rinascita, ma neppure di adempiere le funzioni relative ai provvedimenti di emergenza;

non ne approva le dichiarazioni e passa all’ordine del giorno».

Vigorelli, Canevari, Lami Starnuti, Chiaramello, Treves, Bianca Bianchi, Pera, Carboni, Grilli, Cairo, Zagari, Villani, Fietta, Bocconi, Calosso, Persico, Di Gloria, Ghidini, Longhena, Zanardi, Montemartini, Salerno.

«L’Assemblea Costituente, riservando il suo giudizio sul Trattato di pace in sede di ratifica del Trattato stesso, rivolge alla Camera dei Comuni del Regno Unito, al Parlamento Francese, al Senato Americano, al Soviet Supremo della Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche l’invito a voler considerare la situazione creata alla Repubblica Italiana con una pace che urta e lede la coscienza nazionale del popolo italiano; domanda il riconoscimento del principio della procedura democratica della revisione da realizzarsi attraverso pacifici accordi bilaterali fra i paesi interessati e nell’ambito dell’O.N.U.».

Nenni.

«L’Assemblea Costituente, udite le dichiarazioni del Governo, le approva e passa all’ordine del giorno».

Andreotti, Minio, De Micheli.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Onorevoli colleghi, ho fatto le dichiarazioni programmatiche a nome del nuovo Governo sabato 8 febbraio; oggi 25, dovrei rispondere, reagire o associarmi a 53 oratori: compito troppo analitico per la vostra pazienza e poco adatto ad offrirvi una sintesi che sia base del vostro giudizio e quindi del vostro voto. Mi scusino quindi i colleghi se non li prenderò a partito uno ad uno e cercherò di riassumere i loro discorsi, quando è possibile, nell’anonima considerazione degli argomenti.

Anche questa volta però giova fare una osservazione preliminare. Io venni qui a farvi delle dichiarazioni a nome del Gabinetto: certo la concezione e lo stile delle dichiarazioni portavano la mia impronta personale, ma il contenuto del discorso rifletteva il programma approvato da tutti i membri di questo Governo di coalizione, ed era una risultante degli accordi elaborati durante la formazione del Ministero e sanciti dal Consiglio dei Ministri.

È strano che si debba fare una constatazione tanto ovvia; eppure, dopo settimane di discorsi, dei quali molti per comodità polemica tentarono di isolarmi da ogni corresponsabilità che altri avessero assunto nel passato o nel presente, inchiodandomi solo sul banco degli imputati, è forse necessario avvertire ch’io nella replica intendo mantenermi fedele al principio della solidarietà ministeriale, senza di cui nessun sistema di coalizione, tripartito o no, potrà mai resistere nella nostra vita politica. Non risponderò quindi né come persona, né come uomo di parte, ma come portatore di una responsabilità collettiva nel passato e nel presente.

Questi limiti reprimono la mia vena oratoria e mi privano di quell’illuminazione che sembra sopravvenire sui miei ex colleghi, quando da questo banco passano nei liberi settori dell’anfiteatro. (Si ride).

Tre colleghi, già miei colleghi di Governo, hanno parlato del cambio della moneta; io non ne tratterò, perché è materia riservata all’esposizione del Ministro del tesoro, ma poiché nel dibattito qui svoltosi s’è fatta questione soprattutto della decisione del Consiglio dei Ministri dell’11 gennaio 1946, decisione presa dal primo Gabinetto da me presieduto, conviene non lasciare correre delle relazioni romanzate.

È già stato detto che la storia del cambio risale al giugno 1944, e che la prima fase, durata un anno intero, si chiuse nel giugno 1945, col disimpegno degli alleati dal proposito di stampare i nuovi titoli in America. Quando la questione venne sottoposta a noi, la Banca d’Italia, utilizzando le nostre risorse interne ancora esistenti, era riuscita a stampare una quantità notevole di biglietti, ma in una diffusa memoria presentata al Consiglio fissava alcune condizioni indispensabili, a parere della sua commissione tecnica, per poter effettuare il cambio nella primavera del 1946. Le principali di tali condizioni erano:

che si stampasse un documento di identificazione per ogni capo famiglia;

che si attuasse la stampa di circa 100 milioni di moduli di diverso tipo;

che si mettessero a disposizione della Banca 700 autocarri e 36 automobili;

che fossero attuate particolari misure di sicurezza per le quali era necessario il concorso di parecchie decine di migliaia di uomini;

che si ottenessero dagli alleati garanzie per il cambio nelle terre occupate (Dodecanneso, Colonie, Venezia Giulia);

e che gli alleati stessi rinunciassero alla richiesta, ripetutamente fatta, di avere, per riguardo ai loro pagamenti, una comunicazione del piano di cambio due mesi prima della sua entrata in vigore.

Alla fine del lungo rapporto la Banca esprimeva per suo conto parecchi dubbi circa la possibilità di compiere l’operazione entro il termine desiderato.

La discussione del Consiglio dei Ministri, che era stata preparata da una riunione dei Ministri tecnici, cercò di evitare la decisione di merito, essendo ormai noto che la maggioranza era per il cambio, mentre il Ministro del tesoro non credeva alla sua utilità.

Il dibattito quindi si svolse intorno al quesito se i mezzi tecnici e i provvedimenti di pubblica sicurezza ritenuti necessari si potessero garantire anche durante il periodo nel quale coincidevano le elezioni amministrative e soprattutto i macchinosi preparativi per il referendum e le elezioni politiche; e finì con la votazione di un ordine del giorno Togliatti del seguente tenore: «Il Consiglio dei Ministri deplora che non sia possibile procedere, prima dell’inizio delle consultazioni popolari, al cambio dei segni monetari cartacei, operazione che avrebbe consentito allo Stato di procedere più rapidamente al risanamento delle finanze e di conseguenza al miglioramento della situazione economica generale».

Questa è la storia documentata nei verbali del Consiglio dei Ministri, ed io la cito non tanto per la cosa in sé, quanto per provare un’altra volta che, guardando le cose dal di fuori o all’indietro, riesce difficile di farsi un’idea dello stato di necessità nel quale si trova chi deve prendere una decisione, che troppo spesso equivale alla scelta del male minore.

L’incalzare e l’incrociarsi degli avvenimenti spiegano l’ineluttabile realtà, di cui, quando la pressione è cessata, si tentano spiegazioni che attribuiscono ai protagonisti maggiore libertà di azione di quella che hanno avuto.

Il ritmo del tempo è stato in questo immediato dopoguerra travolgente e non è umiliante l’ammettere che esso ha superato e supera ancora gli uomini e le loro capacità di sopportazione e di ricostruzione. Ciò vale per tutto il mondo; non è disonorevole ammettere che la società italiana non costituisce una eccezione.

Avevo rinunziato a diffondermi sulle origini della crisi, pensando che un’analisi mia difficilmente sarebbe stata accolta come una conclusione oggettiva, e che ad ogni modo, nell’interesse del paese, conveniva affrontare l’avvenire, invece che indugiarsi sulla situazione critica del passato. Ma parecchi oratori, e, più autorevolmente degli altri, l’onorevole Togliatti, non furono del mio parere.

Secondo me, della crisi bastano le cause accidentali per spiegarla: le dimissioni del Ministro degli esteri, proprio alla vigilia della firma del trattato; la secessione di una parte del partito socialista che modificava, almeno in dimensione, la coalizione ministeriale, il voto del congresso repubblicano che parlava di una nuova politica e di un nuovo Governo. Tutto ciò infirmava il prestigio e là consistenza della compagine governativa. Un rimpasto, sostituendo singoli ministri, avrebbe dato all’operazione un carattere antipaticamente personalistico. D’altro canto i ripetuti attacchi sulla stampa, anche in occasione del mio viaggio in America, non mettevano in causa anche la persona del Presidente dei Consiglio? Era più schietto, più logico, più democratico che egli stesso affrontasse la questione in toto. È anche vero che in tale circostanza ritornai al pensiero dell’allargamento della base governativa, in verità non per calcoli di partito, ma perché dinanzi alle responsabilità che si sarebbero dovute assurgere nella politica estera ed in quella economico-finanziaria due cose parevano necessarie per il bene del Paese: maggiore efficienza ed unità di condotta, un consenso e una corresponsabilità più larga che fosse possibile.

Diedi così modo al Capo dello Stato di consultare i parlamentari più autorevoli, i quali nelle consultazioni designarono ad unanimità la mia persona. Avevo dato le dimissioni con estrema rapidità, perché il 10 febbraio, con la sua angosciosa alternativa, non era più lontano e speravo di poter rapidamente concludere. È superfluo chiedersi perché la crisi divenne anche questa volta un serpe strisciante fra esitazioni di gruppi e difficoltà personali.

Se mai c’era necessità di una giustificazione postuma della crisi, questa si trova nelle pieghe del suo svolgimento e nella presa di posizione dei partiti durante e dopo la soluzione.

L’onorevole Saragat ha pronunciato qui un discorso fine ed elegante; a molte sue affermazioni fondamentali, quale quella ove egli si dichiara contrario alla dittatura anche provvisoria, aderisco cordialmente ed aderirei a molte altre, se egli, coi suoi amici, non volesse ad ogni costo assumere la funzione dei veri oppositori.

Come avrebbe potuto precisare questa sua opposizione il nuovo gruppo socialista, se, in mancanza della crisi totale, avesse mantenuto i suoi rappresentanti nel Ministero?

Sarebbero stati anche questi ministri «oppositori veri» o il gruppo avrebbe assunto una posizione indefinibile? Il chiarimento della crisi era dunque, presto o tardi, inevitabile.

E che dire del discorso dell’onorevole Pacciardi che mette in causa tutto il Ministero passato, nel quale i suoi amici avevano una parte notevole?

In verità, fra gli oppositori veri, i sostenitori condizionati e gli oppositori ministeriali, ci troveremmo come l’asino di Buridano, a non saper scegliere la pastura.

Ma, gli imprescindibili interessi del Paese, i bisogni del popolo italiano, l’ora decisiva per il consolidamento della Repubblica reclamano da noi un nuovo sforzo collettivo, e noi ci proponiamo di compierlo, fondandoci sul senso di solidarietà reclamato dal nostro destino ed espresso dal nostro programma al quale i partiti della maggioranza hanno aderito e al quale confidiamo che anche altri colleghi daranno il loro appoggio.

Senonché, l’onorevole Togliatti stesso ci dice che la crisi è dovuta anche ad un certo disagio sopravvenuto fra i Partiti governativi e in particolare fra il Partito democratico cristiano e il Partito comunista. L’onorevole Cappi ha risposto per quanto riguarda il mio partito; io, come Presidente dei passato Gabinetto, mi limiterò ad osservare che la diagnosi del male fatta dall’onorevole Togliatti non mi pare completa.

Secondo l’onorevole Togliatti, la causa vera sarebbe la mancata attuazione del programma precedente dovuta al fatto che i Ministri democratici cristiani sarebbero venuti meno agli impegni presi innanzi agli elettori. Egli non ha fatto esatto riferimento di quali impegni intenda parlare. Riforma fondiaria, riforma industriale? No, perché nel programma governativo non si è mai preso impegno di attuarle nelle presenti condizioni. Si è detto anzi espressamente che bisogna prepararle, per quando i gravissimi problemi di emergenza, quali la ripresa della produzione e la stabilizzazione finanziaria, avranno creato per tali soluzioni le premesse indispensabili; ed è ciò che riguardo all’agricoltura è in corso, coi provvedimenti di bonifica e di miglioramento del Ministro Segni. Si riferisce forse alla riforma fiscale ed alla imposta patrimoniale straordinaria? No certo, perché su tale materia e sul termine della possibile applicazione non è mai nato, fra i membri comunisti del Governo e gli altri, tale dissidio da rendere inevitabile la separazione della propria responsabilità, dimettendosi dal Gabinetto.

Nel Gabinetto abbiamo sempre trovato modo di comporre tutte le differenze, ma le difficoltà ci vennero dal di fuori.

Il Consiglio dei Ministri dovette spesso occuparsi per spegnere incendi, per fortuna soltanto simbolici, scoppiati nella stampa e nella propaganda, od a causa di operazioni politico-elettorali, tentate o compiute al di fuori della responsabilità governativa.

È un fatto invece che la solidarietà ministeriale, nonostante qualche temporanea incrinatura, sempre contenuta, non ebbe l’integrativa, indispensabile logica conseguenza della solidarietà fra i partiti della coalizione.

Nel Consiglio, superando difficoltà oggettive in faticose discussioni, si prendevano decisioni unanimi circa i provvedimenti possibili contro la carestia e la disoccupazione, ma nelle piazze mi si impiccava in effigie come affamatore del popolo, o nei manifesti mi si denunciava come traditore della Patria, sia che tornassi da Parigi o partissi per l’America. Mi pare accertato che i simbolici impiccatori ed i manifesti non provenissero dall’apparato democratico cristiano. (Si ride) Non voglio dedurre che nelle polemiche, negli atteggiamenti si possa sempre tagliar netto fra il torto e la ragione, fra l’attacco e la difesa.

Comunque, guardando l’avvenire, accetto l’augurio dell’onorevole Togliatti per una migliore collaborazione e soprattutto che ci sia possibile fare ancora insieme un lungo cammino nell’interesse delle classi popolari; ma non mi stancherò di affermare che il segreto della riuscita sta nel distinguere nettamente il settore dei propri impegni da quello della libertà dei propri movimenti. L’onorevole Togliatti ha ricordato a tal proposito una mia intervista. Fu, se non erro, alle Azzorre che a certi intervistatori americani, i quali mi avevano posta l’insidiosa domanda «come mai voi, cristiani, collaborate coi comunisti?», ho risposto che la collaborazione impegnava le due parti solo per un programma concreto di Governo lasciando impregiudicate e al libero dibattito questioni di dottrina, di ideologia, di sistema politico ed economico.

Non è onesto affermare, ed attuare nella pratica, questa distinzione, la quale non vale solamente in confronto del vostro partito, ma che nel nostro caso è più doverosa, appunto perché, se fra voi e noi nel campo della giustizia sociale ci sono molte affinità, tra voi e noi però c’è tutta una storia di dottrine insegnate e di regimi applicati che formano appunto le caratteristiche del comunismo storico, quale in diversi aspetti si è cristallizzato in tutti i Paesi?

L’onorevole Togliatti ha cercato di gettare un ponte anche in materia costituente. Mi auguro che si riesca, ma se il ponte è necessario, è appunto perché si tratta di creare una comunicazione tra due sponde lontane che hanno assunto spesso, nel corso degli avvenimenti politici degli ultimi decenni, forme e carattere di trincee più che di fossati.

Se non ho male compreso, il segretario generale del Partito comunista crede, altresì, che la collaborazione sarebbe più agevole se il Presidente del Governo democratico fosse semplicemente «democratico» e non anche «cristiano».

Su questo punto egli prende abbaglio.

 In Italia, culla della civiltà cristiana, il mezzo di sollevare le minori obiezioni possibili contro una collaborazione sul terreno economico, politico e contingente, è quello di dimostrare anche visibilmente che essa non è inconciliabile con una coscienza fedele ai principî ed alle esigenze della tradizione cristiana. (Vivissimi applausi al centro).

Se l’onorevole Togliatti intende installarsi nel tripartito col corteo di altri minori satelliti, l’onorevole Nenni, invece, il quale non rifiuta il compromesso presente, respinge però il connubio ed intende preparare l’avvento di un Governo di lavoratori; il che evidentemente – poiché nemmeno il travaglio di questi ultimi anni rende meritevoli noi di questo onorifico titolo (Applausi al centro è a destra) significa Governo a prevalenza ed a direzione social-comunista. È sempre la formula «dal Governo al potere» ma espressa più cautamente.

In fondo, parafrasando una frase di Prampolini, egli dichiara di votare per l’attuale Governo, per far dispetto all’onorevole Giannini. (Si ride).

Questa specie di suffragio indiretto, anzi di suffragio-carambola (Si ride) non è molto lusinghevole (Applausi al centro e a destra); ma forse potremo consolarci con la speranza che sarà vero anche il contrario; cioè che quando all’onorevole Nenni capitasse di scrivere o di parlare contro di noi, sarà per far un piacere all’onorevole Giannini o a qualche altro, non per sostanziale antitesi contro di noi. (Applausi al centro).

Fuori scherzo, pero, nella concezione fondamentale sono pienamente d’accordo con l’onorevole Nenni: questo è un Governo di emergenza che ha per compito di provvedere alla soluzione dei problemi economici più urgenti; di consolidare il regime repubblicano e di preparare il terreno per le riforme più importanti. Per il resto, fare le elezioni il più presto possibile e rendere arbitro il Paese della direttiva politica ed economica dell’indomani. Dipende dalla buona volontà di tutti che l’impostazione per la battaglia di domani non ci renda impossibile la collaborazione efficace per risolvere il grave compito di oggi. (Approvazioni)

Il discorso più aderente alla realtà quotidiana è stato quello del collega Tremelloni che ha conservato sui banchi dell’opposizione quelle qualità di Governo che abbiamo apprezzate accanto a noi.

Le condizioni attuali della vita economica, egli ha detto, limitano le nostre esigenze.

Bisogna condizionare il fine ai mezzi, creare una gerarchia dell’urgenza, fra il fondamentale e l’accessorio. Noi ci esasperiamo mutualmente dando schiaffi al vento; i partiti possono ricorrere a degli slogan, ma il Governo cammina per strade obbligate; ecco il suo veridico linguaggio. Sono pienamente l’accordo quando egli, ricordando le celebri inchieste parlamentari del passato, preconizza una collaborazione dei tecnici coi politici; credo meno all’efficacia di un superministero degli affari economici, benché non neghi che ad un certo punto della nostra evoluzione si possa tornare a quello che fu il Ministero dell’economia nazionale. Né mi spavento della pianificazione e dei controlli, purché si rispetti l’iniziativa privata e la parola d’ordine sia quella che anche un nostro cultore di filosofia sociale ha invocato: «solidarismo».

Meno obiettivo m’è parso il discorso dell’onorevole Di Vittorio, il quale ha affermato che l’azione sociale del passato Governo è stata nulla. Strana constatazione per un rappresentante di quella Confederazione che nei momenti più difficili abbiamo sempre consultato e che, avendo assistito a molte trattative su problemi del lavoro o dell’impiego, ha più degli altri cognizione delle difficoltà oggettive che impediscono o hanno ritardato certe riforme; noi abbiamo fatto fiducia alla Segreteria della Confederazione e dobbiamo riconoscere che talvolta essa è intervenuta ad evitare disordini ed illegalità. Ma altre volte essa non ha potuto attuare l’auto-disciplina nelle categorie del lavoro. (Interruzione dell’onorevole Di Vittorio – Commenti).

Vecchio sindacalista, sono convinto che una forte ed efficace organizzazione sindacale è lo strumento necessario per promuovere la democrazia e la giustizia sociale, purché essa sia al di sopra dei partiti e riconosca e faccia riconoscere la legalità repubblicana. (Vivi applausi al centro).

Prego i miei amici di non applaudirmi, altrimenti potrebbe sembrare che quelli che non applaudono non siano d’accordo, mentre sono evidentemente d’accordo anch’essi. (Si ride – Applausi al centro).

Qualche oratore ci accusa di marcare il passo, specie per quanto riguarda provvedimenti speciali contro il fascismo e contro il movimento monarchico.

In quanto al fascismo abbiamo applicato parecchie volte provvedimenti di polizia e vi proporremo di richiamare in vigore il decreto legislativo del1945, che in armonia colla politica smobilitatrice, iniziata con l’amnistia, avevamo lasciato cadere. E in quanto al movimento pretendentista, sarete chiamati a decidere su progetti concreti che ho già indicato. Ma a ragione l’onorevole Nenni ha avvertito che non bisogna contare troppo su misure di polizia, ed io aggiungo che la psicologia dell’ex-perseguitato e carcerato politico mi ha fatto sempre esitante a dettare provvedimenti che assomigliassero, sia pure con intenzioni più legittime, a quelle leggi eccezionali contro le quali abbiamo combattuto e sotto le quali abbiamo sofferto! (Vivi applausi al centro).

Tuttavia è innegabile che, in seguito al modo e alla misura imprevista con cui l’amnistia fu applicata e all’impudenza o all’incoscienza di taluni amnistiati più responsabili del disastro nazionale, si impone la necessità di provvedere non tanto contro la loro pericolosità, quanto con riguardo alla legittima reazione di chi ha sofferto e resistito alla dittatura. (Vivissimi applausi a sinistra e al centro).

In quanto alla monarchia, prima del 2 giugno ognuno aveva il diritto di considerarla dal punto di vista dei legami storici o dei vincoli del giuramento, ma oggi, dopo il referendum, nessuno ha il diritto di rifiutarsi all’applicazione leale e onesta della decisione popolare. Noi, Governo, abbiamo l’obbligo di fare ogni sforzo affinché le istituzioni repubblicane siano difese e consolidate in un clima di libertà, ma nessuno ha il diritto di richiamarsi alla libertà per negare i risultati vincolativi del referendum che stanno alla base del regime democratico. (Vivissimi applausi a sinistra e al centro).

E qui devo dire qualche cosa anche all’amico onorevole Pacciardi. Egli ritiene che noi siamo in un periodo di salute pubblica e immagina che il Governo possa agire al di fuori delle norme giuridiche dello Stato liberale che hanno creato delle guarentigie per i funzionari e specie per la magistratura. Abbiamo compiuto, egli ragiona, una rivoluzione: questo è un Governo provvisorio ed è assurdo innestare un regime provvisorio sopra una sopravvivente legalità. Ora, lasciamo stare che questa tesi della mancata continuità giuridica è fondamentalmente e storicamente inesatta, ma, politicamente parlando, non rinunceremo noi, accettandola, all’argomentò più forte che abbiamo contro il pretendente e i suoi sostenitori e contro tutti coloro che preferirebbero tornare al regime monarchico? Verremmo ad ammettere che l’atto legale del plebiscito popolare celebrato da 23 milioni di italiani non è stato un atto libero di rinnovamento, ma un colpo di forza, rinunziando all’immenso vantaggio che abbiamo nella storia del mondo d’aver compiuto il passaggio nelle libere e consapevoli forme della democrazia. (Vivi applausi).

Perché non esaltare quest’atto solenne, legittimo, definitivo del popolo italiano e dar troppa importanza a inconvenienti formali, che vanno eliminandosi, e di cui domani non si parlerà più?

Quando il Commissario della Repubblica sostituì il Ministro della real casa trovò giacente presso l’ex Segreteria reale molti diplomi di onorificenza concessi nei primi quattro mesi del 1946: di questi, numerosi erano quelli intestati ad ufficiali delle Forze armate alleate.

Il Commissario si limitò ad archiviare detti diplomi, provvedendo alla consegna solo nei casi in cui gli interessati ne facessero richiesta. Si trattava, infatti, di documenti ormai di pertinenza di terzi che il Commissario non poteva né sopprimere né rifiutarsi di consegnare, tanto più che, come si è fatto per l’ordine militare di Savoia, divenuto ordine militare d’Italia, si è parlato nella stampa della possibilità di convertire tali ordini, quando siano stati dati per ragioni obiettive, in equivalenti ordini repubblicani.

L’onorevole Pacciardi sembra pieno di diffidenza verso il Consigliere di Stato Baratono, Commissario al Quirinale. Il curriculum vitae di costui dimostra in lui una concezione rettilinea dei suoi doveri di funzionario, al servizio non di un Partito, ma del Paese.

L’onorevole Pacciardi non può avere l’impressione, che avemmo noi dopo il colpo di Stato del 25 luglio, quando vedevamo il Baratono Sottosegretario alla Presidenza di Badoglio preparare per il Consiglio dei Ministri i primi decreti per l’abolizione del partito nazionale fascista e di tutti gli organi dipendenti, il decreto relativo agli arricchimenti dei gerarchi e quello dell’epurazione, che fu poi approvato dal Consiglio dei Ministri, ma non pubblicato per il sopraggiungere dell’8 settembre. Baratono fu l’ultimo ad abbandonare il suo posto, finché il suo successore, il famigerato Barracu, non diede l’ordine di trovarlo vivo o morto e lo costrinse a fare la vita del sottosuolo. Ho visto anche il suo curriculum vitae, come egli intervenne contro otto funzionari di polizia di Milano, che, colla complicità e la protezione del federale della città, costituivano un centro di corruzione, sì che avevano persino imposto il monopolio della fornitura dello champagne nelle case di prostituzione; come affrontò a Torino il federale Gazzotti e il podestà Sartirana, liquidando l’uno e l’altro, provandone le scorrettezze e denunziando il potente segretario federale per malversazioni nella gestione dei fondi dell’Ente opere assistenziali, sulla cui cassa si era fatta persino gravare la spesa per l’acquisto dei purisangue donati a Starace. Non credo, onorevole Pacciardi, che possiamo impunemente rinunziare a questi uomini, anche se provengono dal periodo monarchico, perché abbiamo tutto il diritto di credere che, monarchia o Repubblica, essi si sentono intimamente vincolati dalla loro coscienza alle leggi scritte e non scritte della lealtà e dell’onestà. (Vivi applausi).

In quanto al Senato, esso è stato abolito con decreto del 24 giugno 1946, n. 48; ci siamo solamente rimessi alla Costituente perché decida sulle poche prerogative personali di cui fruiscono i cento Senatori non epurati.

L’onorevole Pacciardi ha parlato anche delle Forze armate; ne ha parlato più concretamente l’onorevole Cingolani svolgendo il suo ordine del giorno.

Circa l’unificazione dei Ministeri intendo rispondere anche alle obiezioni degli onorevoli Lombardi, Nobile e Bencivenga colle seguenti osservazioni che mi paiono conclusive:

1°) Il trattato di pace e la situazione finanziaria comportano solo Forze armate ridotte con bilancio ridotto.

Per tre piccole Forze armate e con una politica militare difensiva il Ministero unico può essere sicuramente adeguato e sufficiente. A mano a mano che l’unità verrà attuata, essa consentirà anche sensibili economie di bilancio.

2°) La fusione permetterà anche di eliminare gradualmente le sperequazioni nel trattamento del personale e di realizzare una maggiore omogeneità di armamento e di equipaggiamento e una semplificazione dei servizi di rifornimento.

3°) Se le maggiori potenze mondiali, con una politica militare espansionistica, si sono decise per l’unificazione, come mai la si potrà ritenere inopportuna e inattuabile in un caso come il nostro di inevitabile contrazione delle Forze armate?

Sappiamo che vi sono molte difficoltà e che bisogna procedere per gradi. Arriveremo subito all’unificazione di direzione; esamineremo poi l’opportunità e la misura dell’unificazione amministrativa, in materia di servizi, equipaggiamento, mezzi di trasportò a terra.

L’unificazione amministrativa non potrà essere perfezionata che in un secondo tempo con la collaborazione del nuovo Parlamento, ma intanto conveniva ottenere l’unità di direzione.

Vi faccio notare, onorevoli colleghi, che ad ogni crisi la questione si è presentata e si è finito col dire: «Non siamo pronti, aspettiamo; creiamo intanto un comitato». Abbiamo dovuto, però, concludere che finché vi sono tre Ministri, il comitato non lavora e che bisogna creare un fatto compiuto per arrivare, gradualmente, alla unificazione.

Non vi è dubbio che il Ministro Gasparotto, il quale conosce il problema ed ha già ottenuto la collaborazione dei tre Ministri uscenti, Marina, Guerra, Aeronautica, con il concorso dei tre Capi di stato Maggiore, terrà conto delle preoccupazioni manifestate anche in questa Assemblea e procederà, con fermezza, ma con prudenza, verso la meta dell’unità che è ormai una delle riforme risolutive della democrazia moderna.

Assicuro infine l’onorevole Bencivenga che dall’attuale Ministero non sono da temere né disparità di trattamento né persecuzioni e che tolleranza e giustizia verranno usate verso tutti coloro che se ne renderanno degni per lealtà e nobiltà dì condotta.

L’onorevole Benedettini fa grave torto alla lealtà degli ufficiali che nella quasi totalità hanno giurato alla Repubblica ed a quella dei funzionari che faranno analogo giuramento.

Nessuno è forzato, nessuno è coartato, né tali saranno e sono le sanzioni regolamentari, da imporre una qualsiasi pressione maggiore di quella legge suprema dell’onore che vale in tutti i regimi ed in tutte le età.

Ed ora alcune osservazioni circa particolari oggetti del dibattito.

Pensioni di guerra. Abbiamo avuto, in un primo tempo, l’idea di affidare ad apposito Sottosegretario il disbrigo delle pensioni: ma, riservando ad altro termine una decisione in proposito, quel che importa è di superare l’intasamento degli attuali servizi, causato da difficoltà di locali e da scarsezza di personale.

Nel 1923 la Direzione generale disponeva di milleduecento esperti impiegati; oggi, dopo un ciclo di altre guerre, gli addetti alle pensioni di guerra non sono più di 816. Abbiamo disposto che si adibissero alle pensioni alcune centinaia di impiegati resisi liberi in altri Dicasteri, ma la questione dei locali, che è la più grave, dovrà essere risolta fra breve.

Ci sono ancora 401.154 pratiche di pensioni inevase; arrivano 25.000 domande al mese e i servizi, nonostante ogni impegno, riescono a definirne, in progetti completi di pensione, soltanto 12.000.

Circa l’ordine del giorno degli onorevoli Nobile, Uberti, Li Causi ed altri, il Ministro della difesa ha già accolto in via di massima il voto dell’Associazione nazionale mutilati di iscrivere i grandi mutilati affetti di invalidità totale in un albo d’onore con adeguato trattamento economico.

Specie dopo il discorso del collega Parri, sento il dovere di rinnovare l’assicurazione che la nuova ripartizione dei servizi dell’assistenza post-bellica non recherà danno all’assistenza stessa. Le difficoltà non dipendono dallo svolgimento dei servizi, ma dalla scarsezza dei fondi che è una triste realtà, sia che i servizi siano concentrati in un solo Dicastero o affidati alle due Amministrazioni dell’interno e del lavoro.

Già il Ministero della post-bellica aveva insistito perché si erogassero nuovi fondi, giacche gli insufficienti stanziamenti concessi dal Tesoro per l’anno finanziario 1° luglio 1946-30 giugno 1947 andavano già, in gennaio, esaurendosi. Bisognerà quindi fare nuovi sacrifizi perché gli aiuti indispensabili a tante benemerite categorie non vengano meno.

Dichiaro, per altro, che non ho nessuna obiezione di principio alla creazione di un miglior organismo unificato per l’assistenza in genere. Ho ritenuto, però, che non sarebbe stato possibile creare un organismo di carattere permanente, innestandolo sopra un organismo che, per quanto necessario, aveva una durata limitata e uno scopo specifico di guerra.

A questo riguardo dichiaro all’onorevole Parri che sono completamente d’accordo che si debba arrivare ad organi autonomi, nel senso che siano sottoposti al controllo dello Stato, ma si basino essenzialmente sul consenso e sulla cooperazione delle parti interessate, sia per il turismo che per l’emigrazione e, in quanto possibile, anche per l’assistenza.

Naturalmente, finché tutto si attende dallo Stato ed è difficile che l’iniziativa privata contribuisca in misura notevole, dobbiamo riconoscere che questa è una meta a cui dobbiamo tendere, ma che non è di facile attuazione entro i prossimi mesi.

Parecchie osservazioni sono state fatte sulla legislazione agraria.

Confermo che il progetto per il ritorno alla normalità elettiva dei Consorzi agrari è già stato approvato dal C.I.R. e dovrebbe passare prossimamente al Consiglio dei Ministri.

La legge sulla concessione delle terre ha avuto una discreta applicazione: dal 1° settembre 1946 sono stati concessi 108.000 ettari, dei quali 46.000 in Sicilia.

La proroga degli affitti sta nell’immediato programma del Governo, come l’estensione del lodo, estensione che non dovrà avvenire meccanicamente, ma permettere una applicazione elastica, secondo la diversa coltura e le diverse esigenze regionali.

La legislazione di miglioramento agrario e sulla bonifica sta sommamente a cuore al Governo, che farà ogni sforzo possibile per lo sviluppo dell’agricoltura e l’equa ripartizione del suo rendimento.

Conveniamo anche nell’opportunità di ricostituire le amministrazioni normali dei vari enti di previdenza, volgendo particolare attenzione alle prestazioni assistenziali in agricoltura. Ma tali progressi dipendono dalla pace sociale nelle campagne che bisogna ristabilire con criteri di legalità.

All’onorevole Lombardo, che in un notevole discorso ha parlato anche del futuro indirizzo della produzione agricola, e all’onorevole Quintieri che esprime nel suo ordine del giorno la stessa preoccupazione, do assicurazione che se il Governo deve tendere per ora ad accrescere la produzione di derrate, che importiamo, non perde però di vista i nuovi indirizzi necessari per incoraggiare la esportazione di alcune produzioni ora in difficoltà, come la seta e gli agrumi.

Convengo con l’onorevole Bulloni, che ha richiamato l’attenzione del Governo sul problema essenziale dell’ordine pubblico. Si sono fatti dei progressi, ne faremo degli altri. Bisogna arrivare al disarmo. Se tutti i partiti ci aiutassero a reperire le armi, rimaste un po’ ovunque (Applausi al centro) come triste eredità del conflitto, libereremo l’opinione pubblica da un incubo che suscita fantasmi di guerra civile. Sono fantasmi, ma danneggiano all’interno e all’estero.

Il Governo ha la ferma volontà di riuscire.

Scuola. Coloro che hanno accusato il Ministro Gonella di favorire la scuola privata in confronto della scuola statale sono male informati.

L’onorevole Gonella ha anzi posto un freno alle troppo facili parificazioni: durante la sua amministrazione ha riconosciuto soltanto sedici scuole private, di cui cinque rette da religiosi ed undici da insegnanti laici, cifra assai esigua se la si confronti a quella dei Ministri precedenti (Arangio-Ruiz 140, Molè 355). Di fronte a queste, furono istituite 7.000 nuove scuole elementari dello Stato, sia fondando nuove classi, sia sdoppiando le classi numerose.

Il nuovo tipo di scuola popolare associata al sussidio di disoccupazione, che si inaugura in questi giorni a Roma e che occuperà mille maestri e professori, sarà diffuso, se non mancheranno i mezzi, a tutte le Regioni.

TEGA. Bisogna aumentare le pensioni ai maestri!

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Va detto all’onorevole Colonnetti, che ha svolto speciale ordine del giorno, che il Governo si è preoccupato e si preoccupa dell’alta cultura universitaria. I contributi del Ministero a favore delle Università si sono quintuplicati: è ancora pochissimo e si sono dovuti chiedere altri stanziamenti, che dipendono naturalmente dalle possibilità di bilancio.

Si è fatta molta critica, non solo in questo dibattito, alla cosiddetta legislazione commissariale. Sarà bene ricordare come è nata e come si è svolta.

La legislazione commissariale si inizia ancora pel 1943 con un decreto Badoglio, sulla nomina di Commissari per enti pubblici, allo scopo di eliminare dirigenti fascisti; si applica poi, in via di fatto, dal Governo militare alleato e dai Comitati di liberazione nazionale e forma infine oggetto di altri particolari decreti dell’anno 1944. Quello del 12 settembre si riferisce alle aziende di credito, quello del 19 ottobre alle imprese private concessionarie di pubblici servizi, quello del 2 novembre agli enti parastatali di assicurazione e di assistenza, quello del 23 novembre alle organizzazioni sindacali fasciste. L’esecuzione di ognuno di questi decreti, e quindi la nomina dei Commissari, era affidata al Ministero competente per materia.

I Commissari potevano venir nominati nei casi ove l’azienda non potesse altrimenti funzionare: quando occorresse comunque, nell’interesse pubblico, rimettere in attività una azienda sospesa, e finalmente quando i precedenti fascisti o di illecita speculazione politica dei titolari non dessero garanzia di servire ai compiti della ricostruzione.

Le gestioni commissariali avrebbero dovuto cessare sei mesi dopo la cessazione dello stato di guerra, ma per la mancata ricostituzione delle amministrazioni ordinarie si dovette prorogare il termine fino al 31 marzo 1947, fatta eccezione degli enti parasindacali che sono stati prorogati fino al 30 giugno.

Secondo uno specchietto statistico inviatomi oggi, e purtroppo ancora incompleto, il numero totale dei Commissari nominati dai vari Ministeri dal 1944 ad oggi fui di 203 e quelli ancora in carica a tutt’oggi sono 133; devo però avvertire che mancano ancora le cifre esatte dei Commissari nominati dal Ministero del tesoro e delle finanze, per quanto riguarda il periodo precedente alle elezioni.

Di questi Commissari, i Deputati sono una ventina.

Non intendo qui interferire su altri incarichi nelle amministrazioni normali; sulla loro compatibilità morale statuirà, come crede l’Assemblea, ma, ricordando le cifre, ho voluto prospettare le proporzioni del settore sul quale è vertita la polemica.

Ed ora vengo alla questione delle Borse.

TEGA. Pilotti?

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Ho ricevuto ieri un documento che mi riservo di sottoporre al Ministro della giustizia e per questo mi astengo dal fare in questo momento delle dichiarazioni.

Vengo, dunque, alla questione delle Borse. Come è stato documentato da dichiarazioni rese pubbliche dei Ministri Morandi e Sforza, del direttore generale del Tesoro e da un verbale del Direttore generale Antonucci, l’onorevole Campilli ignorava l’invio dei telegrammi diramati dalla Direzione Generale del Tesoro alle Borse.

Ne fu occasionalmente informato nelle circostanze a tutti note, ventiquattro ore dopo, quando era già avvenuta la ripercussione in Borsa.

Non conosceva e quindi non poteva informare.

Esclusa così ogni responsabilità personale del Ministro Campilli, esaminiamo ora oggettivamente il fatto in sé per stabilirne la natura e ridurlo alle sue vere proporzioni.

Il primo telegramma spedito dalla Direzione Generale del Tesoro alle Borse in data martedì 11, ore 13,30, chiedeva che fosse comunicato l’ammontare complessivo dei depositi relativi al 25 per cento effettuati nel mese di gennaio.

Questo e non altro. Era quindi una semplice richiesta di rilevazione globale di dati statistici relativi allo scorso mese.

Il telegramma non poteva provocare, come non provocò, alcuna reazione ai ribasso tanto che le Borse nei giorni 12 e 13 continuarono il loro movimento al rialzo.

Il secondo telegramma è stato spedito il giorno seguente e cioè mercoledì 12 alle ore 20,20. La disposizione che ripristinava l’obbligo della denuncia mensile dei riporti effettuati su titoli azionari era diretta a conoscere l’ammontare globale – e non nominativo – dei riporti effettuati mensilmente dagli agenti di cambio, banche e banchieri.

Anche questa disposizione tendeva, pertanto, ad un accertamento statistico. La disposizione, conosciuta dopo la chiusura di borsa di giovedì 13, determinò una flessione dei titoli nel dopo borsa del giovedì e nelle prime ore della seduta di venerdì.

Il turbamento fu originato non dalla diposizione in se stessa, ma – come dimostrerò – da arbitrarie interpretazioni, non condivise peraltro dalla generalità degli operatori, le quali vollero vedere nella disposizione stessa l’indice di un indirizzo generale governativo interventista in borsa, o, come taluno riteneva, un accertamento di dati utili per l’istituenda imposta sul patrimonio.

Che si trattasse di un’impulsiva ed inconsistente interpretazione lo dimostra il fatto che il ribasso fu di limitata importanza e durò poche ore.

Le quotazioni di chiusura di venerdì segnano già una ripresa e quelle del successivo sabato riguadagnano per intero le quotazioni precedenti la pubblicazione del telegramma. La borsa continuò anzi nei rialzo nei giorni successivi e ciò nonostante che le disposizioni – contrariamente a quanto si è falsamente affermato – non siano mai state revocate e siano tuttora in vigore.

Le disposizioni non erano dunque di tal natura da provocare un rimarchevole movimento di ribasso. Vediamo ora, sulla base d’inoppugnabili dati statistici, se l’hanno provocato di fatto.

Il numero indice del corso delle azioni pubblicato sul giornale Il Sole a cura della Giunta tecnica della Edison passa da punti 1.298 del giorno 13 a punti 1252 del giorno 14 con una diminuzione percentuale del 3,6. Siffatta diminuzione rientra nei limiti della normalità, come è facile rilevare dagli stessi numeri indici, pubblicati da Il Sole, che per i mesi di dicembre e gennaio segnano varie altre volte ribassi della stessa importanza e cioè: il 13 dicembre 3,6; il 27 dicembre 3,5; il 31 dicembre 3,3; il 7 gennaio, 3,1; l’8 gennaio 3,4; il 13 gennaio 3,5; il 14 gennaio 3,8.

Si faccia attenzione alle date e si noti che: nei giorni 12 e 13 dicembre e nei giorni 13 e 14 gennaio si è avuto un ribasso assai più sensibile di quello registrato il 13 e 14 febbraio, dopo cioè la pubblicazione della disposizione in questione, e questo perché una flessione dei corsi delle azioni a metà del mese si verifica sempre per ragioni ben note ai tecnici, nei periodi in cui il mercato è orientato al rialzo.

Si è poi parlato di ingenti volumi di titoli trattati: anche su questo punto valgano le cifre a smentire fantasiose affermazioni. Basta esaminare i listini di borsa per accertare che il movimento è normale e che anzi nei giorni 14 e 15 le trattazioni hanno avuto una portata inferiore a quella dei giorni precedenti.

Posso concludere così, sulla base di elementi oggettivi, che le disposizioni non potevano di per se stesse essere causa di turbativa del mercato e che di fatto non lo sono state.

Oltre i commenti di giornali finanziari e gli articoli di esperti di riconosciuta competenza, ciò è stato esplicitamente riconosciuto dalle organizzazioni rappresentative delle banche e degli agenti di cambio.

L’Associazione Bancaria Italiana, a firma del suo presidente, Stefano Siglienti, dichiara tra l’altro che il provvedimento può ritenersi in sé di limitata portata sotto il profilo tecnico e pertanto non poteva dar luogo a preoccupazioni per i singoli contraenti, ma esso «è stato interpretato come un indice di ulteriori interventi governativi nei mercati finanziari; si è cioè avuta la sensazione che esso non fosse che il primo atto di una politica intesa ad imbrigliare l’attività borsistica».

L’Associazione Italiana Agenti di Cambio, a firma del suo presidente, dichiara che «dopo gli opportuni chiarimenti ed i dati forniti dai singoli Comitati direttivi delle borse valori italiane, ritiene di poter affermare che le note disposizioni diramate dalla Direzione Generale del Tesoro non avrebbero dovuto, di per se stesse, determinare un serio turbamento del mercato, e che soltanto arbitrarie interpretazioni potevano far ritenere che esse fossero l’inizio di successivi provvedimenti.

«Comunque nei giorni di giovedì 13 e venerdì 14 corrente l’andamento del mercato ufficiale fu regolare, mentre le flessioni di prezzi si verificano soltanto nel breve periodo del dopo borsa di giovedì 13 e nella prima parte della riunione ufficiale di venerdì 14. Ciò esclude anche, per i normali quantitativi di titoli trattati, la possibilità che si siano sviluppate rilevanti operazioni speculative».

È dimostrato, quindi: 1°) che il Ministro non ha conosciuto preventivamente le disposizioni emanate dalla Direzione del Tesoro; e poteva non conoscerle in quanto si trattava di competenza della Divisione del Tesoro; 2°) che le disposizioni non erano, per la loro portata, tali da creare uri rovesciamento dell’andamento del mercato; 3°) che questo rovesciamento non c’è stato. La flessione verificatasi è stata di breve durata, di modesta ampiezza e contenuta entro limiti minori di altre, verificatesi nei mesi di dicembre e di gennaio, e il mercato ha subito ripreso la sua tendenza al rialzo nonostante che le disposizioni siano state mantenute.

Egregi, colleghi, ho voluto, diffondermi in dettaglio su questo argomento, non perché le prove già addotte durante la passata polemica non bastino a pienamente chiarire la posizione del Ministro Campilli, ma perché non si poteva tollerare che nemmeno la più piccola ombra cadesse sul Ministro del tesoro, il quale, anche nella missione recente, ha ottenuto un personale successo ch’egli dovrà utilizzare in prossimi negoziati (Applausi al centro) e che all’interno è chiamato a promuovere, nel Consiglio dei Ministri e innanzi a questa Assemblea, dei provvedimenti finanziari straordinari che non potrebbero essere portati a fondo senza il concorso di una generale fiducia.

Ed ora qualche parola di politica estera, della quale la trattazione fu scarsa da parte dell’Assemblea.  .

Ringrazio l’onorevole Saragat per il suo amichevole atteggiamento in armonia coll’opera preziosa che egli volle concedermi durante l’elaborazione dei Trattato. Una tale cooperazione in difesa degli interessi del Paese ci lascia nell’animo dei vincoli di cameratismo che non vengono annullati dai dissensi politici. Lo si sentì anche nei discorsi degli onorevoli Corbino e Nenni.

Mi è dispiaciuto solo che l’ex-Presidente dell’Assemblea abbia potuto ritenere, a proposito della firma, ch’io volessi trascurare i diritti dell’Assemblea stessa. Essa avrebbe potuto, egli dice, inviare almeno un appello agli altri Parlamenti.

Non so se egli abbia saputo che una analoga proposta ho fatto io stesso nella riunione dei capi gruppo, ma che non fu considerata come fattibile senza ingaggiare ad un tempo una discussione dell’Assemblea che l’avrebbe impegnata sul merito del Trattato.

Devo ripetere qui, nel modo più formale, anche in confronto di altri che hanno sollevato tale dubbio, che la firma è stata data solo con riserva della ratifica dell’Assemblea e ciò risulta già dallo stesso testo delle credenziali dell’Ambasciatore Di Soragna. Ma, poiché i giuristi di qualche Potenza volevano far valere una interpretazione contraria, cioè che l’Assemblea fosse già vincolata con la firma, fu presentata, prima della firma stessa, una dichiarazione possibilmente ancora più esplicita la quale avvertiva che il plenipotenziario italiano era autorizzato ad apporre la sua firma, subordinandola però, come la legge prevede, alla decisione sovrana dell’Assemblea. E di tale dichiarazione il Segretario Generale a Parigi prese atto prima della cerimonia e dopo aver, come pensiamo, consultato le Cancellerie competenti.

Lupi di Soragna aveva l’ordine di rifiutare la firma, qualora non fosse ben chiaro che essa sarebbe condizionata all’approvazione di questa Assemblea.

Siamo ancora in tempo, dunque, di fare l’appello che è formulato in un ordine del giorno che il Governo, naturalmente, per quanto gli spetta, non può che approvare.

Del mio viaggio in America ho inserito nella mia relazione solo alcuni rapidi cenni.

Ne avrei potuto menar vanto, perché, senza dubbio esso fu un successo politico che portò anche alcuni notevoli vantaggi economici, ed altri ne assicurò per l’immediato avvenire. Ma gli avvenimenti incalzavano e, potendosi prevedere una discussione circa il nostro atteggiamento di fronte alla pace, ho voluto evitare che si potesse parlare del viaggio in tale connessione. Ma, poiché l’onorevole Valiani mi ha rimproverato di non aver risposto al brindisi di Byrnes, che i giornali del resto non riferirono esattamente, devo ricordargli che ho evitato di obiettare immediatamente al primo Segretario di Stato americano, di cui ero ospite, ma gli dissi subito che gli avrei risposto pubblicamente a Cleveland. E lo feci con maggiore solennità, in quel discorso che fu trasmesso per radio in tutta l’America, quando, citando il messaggio di un Presidente americano, rilevai che un popolo perde l’onore se aderisce in spirito ad un trattato che non può considerare giusto.

Anzi, a Washington stessa, il giorno seguente a quello del banchetto, nella conferenza stampa all’Ambasciata, smentii recisamente d’aver discussa e contrattata la firma verso concessioni economiche.

Di questa pubblica dichiarazione m’ero dimenticato io stesso; ci pensò un’agenzia fotografica a provarlo, cogliendomi col suo obiettivo nel momento, come l’agenzia stessa attesta, che facevo ai giornalisti la dichiarazione in argomento.

Onorevoli colleghi, l’onorevole Togliatti ha citato il Presidente del Congresso americano Martin; ciò risveglia in me un ricordo personale.

Quando entrai nell’Aula del Congresso americano nella quale erano radunati i Rappresentanti ed i Senatori, mi colpì il fatto che nella tribuna della Presidenza sedevano, l’uno accosto all’altro, i due Presidenti, Martin per i Rappresentanti e Vandenberg per i Senatori. Quando il Presidente democratico della Repubblica fece il suo ingresso, si alzarono democratici e repubblicani applaudendo; quando entrò il Gabinetto democratico si levarono in piedi, fra applausi, tanto i democratici che i repubblicani. Questo senso della continuità e della permanenza dell’istituzione al di sopra del mutare dei Governi e del prevalere dei Partiti, è lo spirito veramente repubblicano, uno spirito cioè universale di tutta la comunità che non conosce parti, ma dà vita all’unità della Nazione. (Vivi applausi al centro e a destra).

Esiste un partito di maggioranza che tiene temporaneamente l’Amministrazione, ma non esiste uno Stato-Partito: ciò avviene perché la comunità non è assorbita e ristretta dal Governo centrale, ma nel decentramento vi ha come una ossatura che protegge i nervi vitali dalla soffocazione e permette il fiorire delle libertà locali e delle libertà associative.

Nell’Ohio i nostri emigrati, che hanno fatto carriera e sono entrati nei Governi dei Comuni o dello Stato, mi dicevano di non saper più capire i violenti conflitti personali che inquinano la vita politica europea. «Qui ci si batte, anche con mezzi spettacolari, durante la campagna elettorale: ma cessata la campagna, torniamo al tavolo comune e la discussione assume veramente un carattere impersonalistico». (Commenti).

Onorevoli colleghi, voi voterete secondo coscienza; ma, comunque voterete, sperò che la mia presenza qui per la terza volta, non attribuirete ad altra ragione che al senso di responsabilità che a me, socio fondatore, per dir così, di questa Repubblica, ha imposto di non disertare, nel momento storico in cui l’Assemblea è chiamata a darle un regime solido, liberò e giusto. (Vivissimi applausi).

Il tempo corre ed i problemi incalzano: ma il primo problema rimane quello di dare alla Repubblica una base solida nei suoi istituti rappresentativi, i quali, superando partiti ed interessi, costituiscano l’espressione politica definitiva della nostra millenaria civiltà.

Seguirà il compito, altrettanto innovatore, di creare una burocrazia imparziale che obbedisca solo alla legge; una magistratura, leale, ma indipendente; Forze armate fedeli al giuramento ed al culto delle virtù militari; Università degne e libere custodi delle nostre tradizioni scientifiche; sindacati che esprimano liberamente, ma disciplinatamente, le aspirazioni e gli impulsi delle forze del lavoro.

Quanto più libero è lo spirito che si respirerà in queste istituzioni autonome, tanto più largo sarà il settore della nostra comunanza, tanto più sicura quella parte di vitalità comune che si svolge al di fuori della lotta quotidiana ed ha carattere superiore e permanente, perché sugge dal terreno della nostra civiltà ed è perciò stesso la res publica che svolge la sua vita sopra di noi e la continua dopo di noi. (Vivissimi applausi).

È negli organi del Lavoro, onorevoli colleghi, sotto questi presidî istituzionali di libertà e di solidarietà, che il popolo italiano, nei Comuni, nelle Regioni, nelle Camere potrà attuare senza scosse eversive o lotte cruente quella riforma economica che è reclamata dalla giustizia sociale. (Vivissimi, prolungati, reiterati applausi).

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Presidente del Consiglio di voler esprimere il suo avviso sui vari ordini del giorno presentati.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. L’ordine del giorno Martino Gaetano sulla ripresa edilizia, sul patrimonio zootecnico, sulla vita degli Istituti di cultura superiore contiene dei postulati che accettiamo come meta e, comunque, come raccomandazione per il nostro lavoro.

Nello stesso senso, non ho difficoltà ad accettare l’ordine del giorno Quintieri Quinto, per una sana politica finanziaria.

Accetto come raccomandazione, che riguarda soprattutto il Ministro della difesa, l’ordine del giorno Cingolani.

Non ho obiezioni Contro l’ordine del giorno Perassi.

Circa il trattamento degli ufficiali invalidi mi sono espresso durante le dichiarazioni, quindi accetto l’ordine del giorno Nobile.

L’ordine del giorno Damiani sul censimento, come postulato generico, lo posso accettare, nel senso che, presto o tardi, il censimento bisognerà attuarlo; però debbo fare i conti con il Ministro del tesoro, in quanto si tratta di un’operazione molto costosa.

L’ordine del giorno Marinaro lo accetto in generale come tendenza, ma non posso accettare il testo così come è formulato.

Ho già dichiarato, per quanto riguarda gli ordini del giorno Colonnetti e Caronia, che il Governo farà tutto il possibile per venire in-contro alle necessità della scuola e dell’alta cultura. Lo stesso si può dire per quanto riguarda la scuola media ed il relativo ordine del giorno presentato dall’onorevole Rescigno.

Farò il possibile per tener presenti i problemi prospettati dall’ordine del giorno Uberti.

Sono convinto della necessità di difendere, ricostituire e far rifiorire l’organizzazione del turismo che è una delle fonti della nostra ripresa economica. Accetto, quindi, l’ordine del giorno Canepa.

Non posso accettare invece l’ordine del giorno Gallo ed altri.

Accetto quello riguardante la cooperazione presentato dall’onorevole Cairo, e altri.

In merito all’ordine del giorno degli onorevoli Rossi Paolo ed altri, spero di presentare entro poche settimane, forse entro pochi giorni, la legge elettorale politica. Non so se potrò mantenere eguale promessa per quella amministrativa: dipenderà dai lavori della Costituente.

Accetto l’ordine del giorno Pallastrelli.

Per quanto riguarda la Sardegna, devo osservare che l’ordine del giorno Mastino Pietro, che ne tratta, riguarda problemi che hanno già preoccupato il Governo e per cui ci sono numerosi progetti concreti. Accetto quindi l’ordine del giorno come raccomandazione.

Circa l’ordine del giorno Tonetti, non vi sarebbero osservazioni da fare, ma l’ispirazione ed il modo con cui è stato svolto gli danno un sapore che non può essere gradito ai membri del Governo.

Accetto, nel senso che ho prima espresso, l’ordine del giorno Parri. Non sono molto informato circa l’Opera nazionale combattenti; mi pare di aver capito, dal discorso dell’onorevole Parri, come egli sia contrario a sottoporre l’Opera a qualsiasi controllo dell’agricoltura; piuttosto preferisce la Presidenza del Consiglio.

PARRI. Il massimo di autonomia.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il massimo di autonomia: su questo siamo d’accordo.

Mi pare che gli ordini del giorno Nenni e Gronchi in materia di politica estera riguardino l’Assemblea e non siano di competenza del Governo. Posso dire la mia opinione come membro dell’Assemblea: affermo che sono accettabili tutti e due; preferirei che si trovasse una formula più adatta ai singoli destinatarî, quando se ne darà concreta espressione attraverso la Presidenza dell’Assemblea.

Non accetto l’ordine del giorno Vigorelli che è di sfiducia.

Accetto l’ordine del giorno a firma Andreotti, Minio e De Michelis e prego che su di esso l’Assemblea esprima il proprio voto.

PRESIDENTE. L’onorevole Presidente del Consiglio ha dichiarato di accettare l’ordine del giorno a firma Andreotti, Minio e De Michelis ed ha chiesto che su di esso si svolga la votazione. Questo ordine del giorno, in quanto pone il problema nella forma più generale, ha la precedenza. Ritengo tuttavia che, per la gravità delle materie che affrontano, per la solennità dell’atto che essi propongono all’Assemblea, sia opportuno – e credo di interpretare l’attesa dei colleghi – porre prima in votazione gli ordini del giorno che si riferiscono ai problemi di carattere internazionale, a quei problemi che hanno rapporto col trattato di pace e con l’atto con cui il Governo ha già proceduto, come è noto all’Assemblea, alla firma, subordinatamente all’approvazione o meno che l’Assemblea concederà.

Due ordini del giorno sono stati presentati dagli onorevoli Nenni e Gronchi, i quali, per la materia e per i motivi cui si richiamano, si integrano a vicenda. Essi propongono all’Assemblea di rivolgersi, con atto i solenne, ai Parlamenti delle Nazioni Unite e, in particolare, di quelle che hanno una influenza decisiva nella soluzione dei problemi internazionali, per far presente quale sia il sentimento e l’animo con cui l’Assemblea Costituente italiana considera e giudica il Trattato di pace.

Proprio per questo, io penso che l’Assemblea debba, per prima cosa, prendere posizione nei confronti degli ordini del giorno dell’onorevole Perassi, che il Presidente del Consiglio ha dichiarato di accettare e di quelli degli onorevoli Nenni e Gronchi, che il Presidente del Consiglio ha riconosciuto essere di competenza dell’Assemblea, indipendentemente dall’opinione del Governo stesso.

Se, pertanto, questa opinione è condivisa dall’Assemblea, pongo a partito per primo l’ordine del giorno a firma Parassi ed altri, del quale faccio dare ancora lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«L’Assemblea Costituente, preso atto delle comunicazioni del Governo sulle condizioni nelle quali è stato firmato il Trattato di pace, afferma che il deposito della ratifica italiana, per la quale è costituzionalmente richiesta l’autorizzazione dell’Assemblea Costituente, costituisce – in conformità alle regole del diritto internazionale – un requisito essenziale per la perfezione e l’entrata in vigore del Trattato».

Perassi, Facchinetti, Conti, Parri, Pacciardi, Bellusci, Martino Enrico, Azzi, La Malfa, Natoli, Della Seta, Sardiello, Camangi, De Mercurio, Santi, Mazzei, De Vita, Bernabei, Dominedò.

PERASSI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERASSI. Onorevoli colleghi, io non avevo alcun dubbio che l’onorevole Presidente del Consiglio avrebbe dichiarato di non opporsi, anzi di aderire, a che l’Assemblea Costituente votasse l’ordine del giorno che abbiamo presentato. Mi auguro che l’Assemblea Costituente consacri, con l’autorità di un voto unanime, l’affermazione giuridica che è formulata in questo ordine del giorno. (L’Assemblea sorge in piedi – Vivissimi, generali, reiterati applausi – Il pubblico delle tribune si associa alla manifestazione dell’Assemblea – Si grida: Viva l’Italia!).

Di fronte a questa significativa manifestazione dell’Assemblea, che risponde al mio augurio, rinunzio alla parola.

PRESIDENTE: Prendo atto con compiacimento di questa manifestazione. Pongo ai voti l’ordine del giorno. (Vivissimi, generali, prolungati applausi).

L’ordine del giorno è approvato per acclamazione all’unanimità.

Porrò ora in votazione gli ordini del giorno dell’onorevole Gronchi e dell’onorevole Nenni. Propongo che l’Assemblea esprima il proprio voto con un solo atto sui due documenti, dato che, come ho già sottolineato, essi si integrano vicendevolmente.

(L’Assemblea approva).

Se ne dia di nuovo lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il popolo italiano vive oggi, con profonda delusione, il dramma della sua pace, che dalle solenni premesse di giustizia dei «Grandi» si è isterilita in soluzioni, le quali rispecchiano un transitorio faticoso regolamento di interessi dei vincitori, e ritardano – se pur non negano – il ritorno ad una pacifica e solidale convivenza dei popoli.

«La situazione, che ci viene fatta, nei suoi aspetti giuridici, nelle sue conseguenze economiche, nei suoi riflessi morali, non trova alcuna giustificazione storica; il popolo italiano, pur cosciente delle responsabilità derivanti da un orientamento politico e da un regime di Governo, i quali peraltro avevano raccolto molteplici consensi, anche presso i suoi attuali giudici, ha la certezza di essersi riconquistato, con il sacrificio dei suoi figli migliori nelle Forze armate e nelle formazioni partigiane e colla immensa rovina del suo territorio, il diritto di porre fin dai oggi il problema della revisione delle imposte condizioni di pace: problema che è già nella coscienza delle Nazioni amanti della pace.

«E l’Assemblea Costituente, sicura interprete dell’Italia intera, rivolge un appello ai Parlamenti delle Nazioni Unite, affinché le condizioni più dure possano essere fino da ora alleviate, e particolarmente affinché:

1°) non siano mantenute mutilazioni territoriali intollerabili al sentimento nazionale;

2°) venga evitata ogni ingiusta umiliazione all’Esercito e alla Marina che, fedeli alle loro tradizioni di ardimento e di devozione alla Patria, hanno dato così valido contributo alla lotta comune;

3°) non siano imposti oneri economici e finanziari, che determinerebbero condizioni insostenibili per il nostro progresso e per la nostra vita stessa».

Gronchi.

«L’Assemblea Costituente, riservando il suo giudizio sul Trattato di pace in sede di ratifica del Trattato stesso, rivolge alla Camera dei Comuni del Regno Unito, al Parlamento Francese, al Senato Americano, al Soviet Supremo della Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche l’invito a voler considerare la situazione creata alla Repubblica Italiana con una pace che urta e lede la coscienza nazionale del popolo italiano; domanda il riconoscimento del principio della procedura democratica della revisione da realizzarsi attraverso pacifici accordi bilaterali fra i paesi interessati e nell’ambito dell’O.N.U.».

Nenni.

PRESIDENTE. Li pongo ai voti.

(L’Assemblea sorge in piedi – Vivissimi, generali, reiterati applausi, cui si associa il pubblico delle tribune).

Constato che anche questi ordini del giorno sono stati approvati per acclamazione, all’unanimità.

La Presidenza eseguirà senza indugio la volontà dell’Assemblea trasmettendo alle Assemblee rappresentative delle Nazioni Unite l’espressione del sentimento manifestato dalla Costituente italiana con la sua votazione. (Vivissimi generali applausi).

Pongo in votazione l’ordine del giorno di fiducia presentato dagli onorevoli Andreotti, Minio e De Michelis, accettato dal Governo:

«L’Assemblea Costituente, udite le dichiarazioni del Governo, le approva e passa all’ordine del giorno».

Avverto che su quest’ordine del giorno è stata chiesta la votazione per appello nominale dai seguenti deputati: Andreotti, Sullo, Cappi, Raimondi, Giacchero, Carbonari, Pat, Salvatore, Perlingieri, Burato, Froggio, De Martino Carmine, D’Amico Diego, Valenti, Guerrieri Emanuele, Colombo, Moro, Corsanego, De Maria, Scoca, Canevari, Lami Starnuti, Paris, Mazzoni, Montemartini, Treves, Persico, Villani, Bianchi Bianca, Tremelloni, Ruggiero, Bennani, Piemonte, Carboni, Canepa, Longhena, Gronchi, Cingolani, Balduzzi, Casati, Volpe, Roselli, Salizzoni, Ermini, Guerrieri Filippo, Proia, Titomanlio Vittoria, Gotelli Angela, Jervolino Maria, Bianchini Laura, Federici Maria, Belotti, Ferrario Celestino.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Confesso di trovarmi imbarazzato, quasi per un senso di commettere un’indiscrezione, perché debbo ripetere una dichiarazione di voto che fa riscontro ad un’altra fatta a proposito di un altro voto di fiducia. Dissi allora di rappresentare un gruppo che si riassumeva in me stesso: oggi mi trovo nulla stessa condizione. Ora non v’ha dubbio che questa condizione crei necessità particolari. Il deputato che è iscritto ad un partito ha la giustificazione del suo voto nel fatto che aderisce al pensiero e alle direttive dei suoi capi; coloro, invece, che non sono iscritti a nessun partito, in un certo senso sono obbligati a motivare sempre il loro voto, perché occorre dargli una spiegazione specifica, caso per caso: e ciò, bisogna riconoscerlo, può riescire – come dire? – alquanto ingombrante.

Io non so se la futura Costituzione, se ed in quanto riprodurrà il tripartitismo, non debba negare la funzione di Deputato a chi non sia iscritto ad un partito: sarebbe nella logica pura del nuovo stato di cose. Poiché, ad ogni modo, questa anomalia per ora c’è, vi prego, onorevoli colleghi, di essermi indulgenti: del resto, se vi annoiassi, non risparmiatemi le interruzioni che mi affretterei a capire.

Nel precedente voto cui ho accennato, e che è del 25 luglio 1946, si pose una questione di fiducia di partito nei riguardi della pace, che allora si sperava fosse giusta, e nei riguardi della politica interna; e, per questo, si chiese la votazione per divisione sui due punti, politica internazionale e interna, dell’ordine del giorno di fiducia. Io dichiarai che avrei votato a favore del Governo, sull’uno e sull’altro argomento, perché ritenevo – punto di vista personale, punto di vista del mio gruppo, punto di vista del partito di me stesso – che in quel momento l’Assemblea si dovesse affermare, in maniera assolutamente unitaria, solidale col Governo, in quanto il Governo doveva difendere le ragioni della Patria, mentre ancora poteva sperarsi in un miglioramento delle condizioni del Trattato.

E votai a favore anche sulla politica interna, verso la quale – siccome mi considero, in un certo senso, completamente sorpassato – provo una certa indifferenza, un agnosticismo prudente, rassegnato, modesto. Io non so, ad esempio, che cosa è il tripartitismo. So soltanto che è la forma di Governo di cui usiamo, ma ignoro se sarà pure nella Costituzione futura. Comunque, non è questo il problema che più mi interessa e verso il quale, ripeto, ho una relativa indifferenza.

Sento, invece, profondamente l’altra questione: cioè se l’Italia riconquista, integralmente o no, la sua indipendenza. Ora la questione non si presenta più nei termini del 25 luglio 1946, perché il Trattato, che allora era in formazione, oggi ci è arrivato ed anzi ci è imposto; e quell’unità, che io auspicavo e volevo fosse affermata al di sopra di tutti i partiti, oggi si trova di fronte a un fatto compiuto.

Orbene, in questa Assemblea è avvenuto un fatto curioso: che la discussione sulle dichiarazioni del Governo si è dilungata – e se la parola può sembrare poco rispettosa per gli oratori, dirò si è diffusa – sopra moltissimi argomenti, ma è stata assai limitata sulla politica estera. Si è detto che vi sia stato un accordo di silenzio fra i partiti. Non so se la voce sia esatta; certo, però, la discussione non è stata proporzionata alla formidabile gravità dell’argomento.

Noi abbiamo or ora votato, ed io con un calore, con un entusiasmo non superato da quello di nessun altro, tre ordini del giorno, di cui uno importa un appello dell’Assemblea Costituente italiana alle Assemblee di popoli che si affermano liberi e dicono di voler tutelare la giustizia nei rapporti internazionali. Questo appello ha un alto contenuto; tuttavia, non ho compreso, e me ne scusi l’onorevole Presidente del Consiglio (anche qui, sono un sorpassato) perché il Governo ritenga che la cosa appartiene esclusivamente all’Assemblea, come se il Governo dall’Assemblea si fosse estraniato.

Qui sorgerebbe il problema – che non è stato neppure sfiorato nella discussione – dell’organo sovrano competente per sottoscrivere questa pace. Vige ancora lo Statuto albertino, secondo il quale per i trattati, che importassero cessioni di territorio, si impegnava sempre il Capo dello Stato, salvo la ratifica del Parlamento; o il nostro è, invece, un momento storicamente di rivoluzione e quindi di assoluta vacatio statutaria?

E l’Assemblea, questa Assemblea Costituente, che non può certo confondersi col vecchio Parlamento – non so del futuro – è essa stessa l’organo immediato e sovrano, così da far pensare, onorevole Togliatti, al Commissario del popolo; e in tal caso avrebbe dovuto l’Assemblea nominare, essa, un suo rappresentante cui affidare le credenziali occorrenti alla firma?

Badate, è una questione che mi limito ad accennare. È stato l’atteggiamento del Governo a richiamarla alla mia mente; perché, se esso crede che, come Governo, questa competenza non lo riguardi, e riguardi, invece, l’Assemblea, allora ciò significherebbe che l’Assemblea ha un suo potere diretto ed esclusivo nei rapporti di carattere internazionale. E in questo caso, non avrei niente in contrario che si creasse Commissario del popolo anche lo stesso onorevole De Gasperi o l’onorevole Sforza…

Ma io mi accorgo di oltrepassare i limiti di una motivazione di voto e, da antico Presidente dell’Assemblea, mi auto-richiamo all’ordine. In sostanza, volevo solo dire che, come nel precedente voto, anche oggi io subordino tutto alla questione di politica estera; ma se questa volta dessi un voto favorevole, pregiudicherei il giudizio futuro, visto che discussione non c’è stata. Per la stessa ragione, tuttavia, non ho neanche motivo di disapprovare; e allora non v’è che la via di uscita dell’astensione, se pure questo voto abbia l’inconveniente di richiamare il motto del marchese Colombo, di restare, cioè, fra il sì ed il no, del parere contrario.

Spero, in ogni modo, che le dichiarazioni fatte ne abbiano resa chiara la ragione. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare, per dichiarazione di voto, l’onorevole Cianca. Ne ha facoltà.

CIANCA. L’onorevole De Gasperi ha giustamente posto in rilievo che il dibattito è stato lungo; tuttavia, noi dobbiamo confessare che, anche attraverso questo lungo dibattito, non sono state sufficientemente chiarite le ragioni profonde – non le ragioni accidentali – che hanno determinato, all’infuori di ogni intervento della nostra Assemblea, la crisi governativa, per effetto della quale alla vecchia compagine si è sostituita una nuova formazione, la cui caratteristica essenziale è di accentuare la preminenza della Democrazia cristiana nella direzione della cosa pubblica.

È stato d’altronde dimostrato, dai nostri e dagli altri oratori, come il programma del Governo, la cui attuazione urterà contro il giuoco meccanico dei contrasti interni della coalizione, appaia troppo generico nella sua parte economica e sociale e non privo di ambiguità nella sua parte politica.

In verità, l’onorevole De Gasperi ha esaltato la conquista repubblicana; ma egli mi permetterà di dirgli che nessun atto politico è stato finora compiuto da questo Governo per la difesa della Repubblica. E mi domando quale documento dell’ultima ora potrà giustificare la scandalosa permanenza del Procuratore generale Pilotti al vertice dell’ordine giudiziario. (Applausi a sinistra – Commenti).

E, per quanto riguarda il campo economico sociale, noi ci domandiamo con legittimo timore se i soli provvedimenti governativi, che indicano delle tendenze innovatrici… (Rumori – Segni di impazienza al centro). (Mi Stupisco di certe impazienze, che non rivelano del resto se non una insufficiente profondità di convinzioni) …quelli sui consigli di gestione e per la riforma agraria, non appaiano fin d’ora condannati ad essere svigoriti o rinviati.

Trovandoci così di fronte ad una situazione che non muta, se non in senso peggiorativo la situazione del Governo precedente, ragioni di coerenza non soltanto formale ci impongono di assumere oggi, come allora, atteggiamento di opposizione: opposizione democratica dettata da motivi e volta a fini antitetici a quelli cui si ispira l’opposizione delle destre.

Aggiungiamo che tra i fattori di questo nostro atteggiamento entrano anche le preoccupazioni suscitate in noi dalle accuse che in quest’aula sono state sollevate nel campo morale.

Siamo avversi allo scandalismo quando sia strumento di passione partigiana, ma affermiamo che supremo interesse e dovere primo della democrazia repubblicana è di salvaguardare la dignità e il prestigio delle istituzioni rappresentative.

L’onorevole De Gasperi ci consenta di dirgli, col più profondo rispetto, che su questo punto avremmo desiderato da lui dichiarazioni più complete e tranquillanti.

Convinto che solo un Governo omogeneo delle sinistre democratiche potrà difendere la Repubblica e attuare quelle forme di struttura che la situazione economica e sociale del Paese rende nello stesso tempo possibili e inderogabili, il gruppo autonomista, nel cui nome ho l’onore di parlare, voterà contro l’ordine del giorno accettato dal Governo.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Vigorelli. Ne ha facoltà.

VIGORELLI. Il Gruppo parlamentare del Partito Socialista dei lavoratori italiani voterà contro la fiducia al Governo. E per la. prima volta accomunerà così il proprio voto col voto degli altri partiti della sinistra. (Commenti).

Voce al centro: E della destra si è dimenticato? (Commenti – Si ride).

VIGORELLI. Nessuno vorrà sorprendersi per l’atteggiamento del nostro partito, che è sorto col fermo proposito di chiarire la situazione politica, di uscire fuori dalle convenzioni e dai compromessi, di negare l’abilità dei doppi giochi e delle ambiguità sulle quali nessuno può durevolmente costruire.

Il Partito Socialista dei lavoratori italiani vuol ricondurre il Paese, i lavoratori italiani che sono del Paese la sola forza viva, sulle vie maestre del socialismo, cioè della democrazia e della dignità umana che conducono al socialismo.

Questa – in cui, per ora viviamo – democrazia, illusoria e convenzionale ci dà, sì, una successione di Governi sostanzialmente uniformi e sempre più staccati e lontani dalla vita del Paese, ma non è ancora la democrazia vera e durevole. Ben oltre la volontà degli uomini, che in buona fede vi si adoperano, essa può prepararci delusioni e amarezze per l’avvenire!

Per questo, soltanto chi fosse deliberato a non vedere l’evidenza potrebbe confondere la nostra opposizione con quella che al Governo viene dai banchi delle destre.

Tutte le volte che saremo chiamati a votare qui dentro le più severe misure per il consolidamento della Repubblica, o i provvedimenti più decisamente progressivi a favore della classe lavoratrice; tutte le volte che qui dentro, o fuori di qui, noi potremo ricomporre nell’azione quella unità dei lavoratori, nella quale riconosciamo il mezzo più efficace per combattere e debellare le nostalgiche speranze dei monarchici e dei reazionari, ebbene, tutte quelle volte, i nostri compagni degli altri partiti che seggono con noi sui questi stessi banchi della estrema sinistra sanno che i nostri voti si confonderanno con i loro. (Commenti a destra).

Non però, per puntellare un Governo predestinato all’impotenza; e non soltanto all’impotenza quanto ai piani della ricostruzione nazionale (che pure – dopo due anni dalla liberazione gli italiani avrebbero avuto il diritto di conoscere), e quanto all’attuazione di quelle provvidenze urgenti ed improrogabili, senza le quali il Paese ha la legittima impressione di essere abbandonato a se stesso, sicché ogni giorno più, dà segni di sfiducia e di diffidenza verso gli uomini di Governo.

Quali siano questi provvedimenti di urgenza, abbiamo riassunto nell’ordine del giorno dai noi presentato: sonò molti e gravi…

PRESIDENTE. Onorevole Vigorelli, la prego di esporre in modo succinto i motivi del suo voto.

VIGORELLI …tant’è che la semplice loro elencazione, ha suscitato la vostra impazienza. Pure molti sono i Ministri e i Sottosegretari, e molti i Dicasteri e gli uffici, che debbono dedicarsi – secondo le competenze rispettive – all’esame ed alla soluzione di ciascuno di quei problemi.

Per parte nostra, non ne disconosciamo l’imponenza – né disconosciamo lo sforzo di dedizione e di sacrificio che essi impongono. Ma pensiamo che simili problemi non potranno trovare soluzione ad opera di un Governo che nasce senza neppure il credito dei partiti che lo compongono, e che sarà, quindi, costretto a trascinarsi tra espedienti e compromessi, finché all’onorevole De Gasperi non piaccia di provocarne, una volta ancora, la fine!

Questi i motivi dei voto contrario, che noi daremo non senza amarezza: perché, nell’ora tragica che volge – al di sopra di tutte le divisioni ideologiche, molto al di sopra di tutte le ambizioni e di tutti gli interessi di parte – noi siamo sensibili soprattutto ai bisogni e alle sofferenze del popolo italiano: e quei bisogni vorremmo che fossero appagati, e quelle sofferenze lenite.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Lucifero. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Onorevoli colleghi, io parlo dal banco degli appestati; da quella tale destra con la quale voi non volete confondervi, ma che pure vi ha preceduto in una posizione di opposizione, e che oggi le circostanze vi impongono di seguire, perché, ad un certo momento, l’amor di Patria e la preoccupazione per la Patria vanno al di là delle posizioni tipografiche dell’emiciclo parlamentare.

Ad ogni modo, per me una dichiarazione di voto non è un atto polemico; è semplicemente un giudizio che si formula sopra una situazione e sopra un programma.

Noi fummo contrari al precedente Governo; è logico, pertanto, che siamo contrari a questo, che ne è una continuazione assottigliata.

L’onorevole De Gasperi ha parlato di due cose: ha parlato di allargamento del Governo, nelle sue intenzioni, che è diventato restringimento (chiedo scusa del termine clinico) nei fatti. Ha parlato di maggiore efficienza del Governo.

Io ho dei buoni motivi per ritenere – e l’onorevole De Gasperi sa a cosa mi riferisco – che maggiore efficienza non ci sia. Mi auguro che venga ed in quel caso sarò il primo a darne atto.

Come programma è quello di prima. Confesso che come programma avrei preferito l’ordine del giorno Vigorelli; è un po’ più lungo, ma però più esplicito e sodisfacente. La verità è che programma non c’è. La verità è che anche in questa discussione sono venuti fuori elementi che non possono non destare preoccupazioni. Non mi riferisco alle questioni di indole morale che sono state qui sollevate e che riguardano, per me, soprattutto le singole coscienze delle persone che possono essere state giustamente o ingiustamente accusate. Questo ognuno se lo regola da sé per quello che è fatto personale; ma per il Governo indubbiamente, finché tutto non sarà chiarito, vi è un’ombra; che noi siamo convinti sarà chiarita, così come è nostro desiderio di deputati, di colleghi di questi Ministri, e soprattutto di democratici d’Italia.

Però vi sono alcune dichiarazioni che hanno pienamente giustificata la non voluta partecipazione liberale a questo Governo. L’onorevole Togliatti vi ha fatto cenno, e anche altri. Sì, onorevole Togliatti, noi non abbiamo ritenuto di poter partecipare ad un Governo che non desse quelle garanzie di omogeneità che consideriamo in un modo diverso da lei. Lei vede una specie di omogeneità numerica scaturita da certe indicazioni di cifre del corpo elettorale. Questa è una omogeneità parlamentare; ma per noi l’omogeneità governativa è di altro genere: è l’omogeneità di intenzioni, di programmi e di metodi. Fra noi e voi questa omogeneità non ci poteva essere. L’unico atto di collaborazione che noi potevamo fare con l’onorevole De Gasperi era quello di non creargli una maggiore confusione in seno alla compagine ministeriale. Ma appunto per queste ragioni noi non possiamo avere fiducia in un Governo che per l’ennesima volta trasporta nel suo seno quella dialettica che dovrebbe essere prestigio e peculiare proprietà del Parlamento, e per cui certe volte nel Governo si combattono quelle battaglie che si dovrebbero combattere qui; e forse per questo tante battaglie fin qui non arrivano.

Né gli accenni alle limitazioni della libertà di stampa, alle leggi sul confino e a simili provvedimenti possono a noi liberali dare affidamento per l’avvenire.

E finalmente, sia detto senza offesa, con dolore e con pieno senso di responsabilità, noi – pure avendo votato l’ordine del giorno Perassi, pur avendo apprezzato i motivi addotti dal Presidente dei Consiglio – non ci sentiamo – noi che se fossimo stati al Governo, avremmo assunto ben diverse responsabilità – di dare il nostro voto al Governo che ha firmato il Trattato di Parigi. (Approvazioni a destra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Sardiello. Ne ha facoltà.

S RDIELLO. Il Gruppo parlamentare repubblicano dichiara di votare contro la politica del Governo. Non deve parere un paradosso, se affermiamo che il movente di questa decisione è lo stesso di quello che ci ha indotti a partecipare al precedente Governo. L’una e l’altra determinazione sono state ispirate per noi dal desiderio e dal dovere di collaborare al consolidamento e alla difesa delle istituzioni repubblicane, che sono oggi il consolidamente e la difesa della vita nazionale. E abbiamo a questo fine presentato precise richieste, concreti programmi; abbiamo additato precisi problemi. Su questi abbiamo avuto delle promesse, ed i nostri uomini sono andati per questo al Governo.

Noi non facciamo, illustre Presidente del Consiglio, recriminazioni contro i nostri uomini. Noi, forti di quelle promesse, e della fede che la Repubblica avrebbe avuto il suo potenziamento e la sua difesa, abbiamo dato i nostri uomini. Ma abbiamo dovuto constatare che mancava nella compagine ministeriale quello spirito saldo ed unitario che è elemento essenziale per affrontare i gravi problemi che rispondono alle supreme esigenze nazionali. Così, il Partito Repubblicano ha lasciato i suoi posti nel Governo.

Ora, nel discorso dell’onorevole Presidente del Consiglio sulle comunicazioni del Governo abbiamo dovuto constatare il silenzio assoluto su quei problemi. Pareva oggi che il silenzio stesse per rompersi, ma l’onorevole De Gasperi, nel suo discorso odierno, si appagò soltanto di vestirlo di un paludamento sentimentale.

Noi dobbiamo dunque in questa situazione di cose votare contro la politica interna del Governo. È chiaro però che toglierò all’onorevole Lucifero la sodisfazione di poter pensare che abbia preceduto anche i repubblicani: tanto diverso dal suo è il motivo della nostra opposizione. È chiaro che, muovendo da questi presupposti programmatici e di idee, la nostra opposizione non si confonde con altre diversamente ispirate o – più ancora – che sono fine a se stesse. Dirò anzi, che il nostro voto contrario è accompagnato dall’augurio sincero, profondo e sentito, che da questi banchi ci sia ancora possibile collaborare col Governo se questo, valutando le necessità nazionali con maggiore aderenza alla realtà, con più profonda sensibilità, affronterà i più urgenti problemi politici, economici, finanziari e sociali, dai quali dipendono la ricostruzione ed il rinnovamento morale della vita nazionale. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Selvaggi. Ne ha facoltà.

SELVAGGI. Onorevoli colleghi, sarò brevissimo, perché per dire che si vota contro il Governo bastano pochissime parole.

Tuttavia nel giustificare per sommi capi questa posizione del mio gruppo, dirò che il Governo precedente non ha saputo svolgere e realizzare quel programma che si era prefisso, e noi abbiamo ben ragione di ritenere che anche il nuovo Governo De Gasperi non riuscirà a realizzare il programma prefisso.

Oltre a tutto noi siamo molto sensibili al problema della politica estera e non riteniamo che la politica estera sia stata svolta e sviluppata con quella sensibilità e quella energia che avrebbe dovuto richiedere. Soprattutto noi temiamo che manchi a questo Governo ogni solidarietà, la quale in un certo senso è sinonimo di omogeneità, e qui, perdonatemi la frase, vediamo di nuovo insieme il diavolo e l’acqua santa. (Commenti). Tuttavia noi, onestamente e lealmente, formuliamo l’augurio che l’onorevole De Gasperi riesca a porre almeno le basi della ricostruzione morale e materiale del nostro Paese ed in questo ci troverà sempre consenzienti e favorevoli. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Finocchiaro Aprile. Ne ha facoltà.

FINOCCHIARO APRILE. Nel mio discorso di alcuni giorni fa, signori deputati, voi avete ascoltato l’esposizione delle ragioni per le quali noi indipendentisti siciliani siamo contro il Governo presieduto dall’onorevole De Gasperi. Noi esprimemmo varie ragioni in materia di politica estera, di politica interna, di politica economica. Oggi, nell’immediatezza del voto politico, desideriamo aggiungere due altre ragioni del nostro profondo ed irriducibile dissenso: la prima è una ragione di ordine particolare, la seconda di ordine generale.

La prima è questa: il Capo del Governo non si è degnato di dire una sola parola per la nostra amata terra di Sicilia. (Commenti).

Non l’ha detta mai il Capo del Governo questa parola: l’altra volta promise molto vagamente che si sarebbe occupato della Sicilia; oggi noi siamo nelle stesse condizioni di prima.

Ma il Capo del Governo, evidentemente, non conosce le condizioni della Sicilia, condizioni veramente preoccupanti, condizioni di disagio, di miseria, di fame.

In Sicilia abbiamo un uomo degnissimo, l’Alto Commissario Selvaggi. Io lo ricordo a particolare titolo di onore, perché si è dedicato con vera passione ai problemi siciliani con il proposito di avviarli a soluzione. Tutti in Sicilia lo amano e lo stimano. Io, poi, ho un particolare motivo di gratitudine, perché Giovanni Selvaggi assunse la mia difesa dinanzi al Consiglio di Stato, quando un piccolo visir da operetta fu mandato da voi su quei banchi… (Interruzioni dell’onorevole Parri – Scambio di vivaci apostrofi fra gli onorevoli Finocchiaro Aprile e Parri – Richiami del Presidente).

L’Alto Commissario ha informato parecchie volte il Governo sulla situazione siciliana: egli non può andare avanti.

La disoccupazione è spaventosa nell’Isola. Voi avete stanziati molti fondi: avete stanziato 30 e più miliardi di lire per l’elettrificazione, 8 miliardi di lire per lavori pubblici, ma in Sicilia non arriva un soldo e ancora non si dà un colpo di piccose.

Questo è molto spiacevole, onorevole Presidente del Consiglio. Badate che il popolo siciliano è arrivato ad un punto tale di esasperazione, per cui potrebbe venire a decisioni molto gravi! (Vive proteste – Interruzioni dell’onorevole Parri – Invettive dell’onorevole Finocchiaro Aprile contro l’onorevole Parri).

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, quando io la interrompo, la prego di sospendere il suo discorso. Ella ha adoperato una espressione verso un suo collega che è assolutamente inammissibile! (Vivissimi applausi). Io la richiamo all’ordine.

FINOCCHIARO APRILE. Mi ha internato per sette mesi a Ponza, applicando una legge fascista. (Interruzioni – Vive protesse).

PARRI. Venduto agli americani! (Rumori vivissimi – Commenti).

FINOCCHIARO APRILE. È lei venduto alla Banca commerciale e alla Edison! (Vivissimi rumori – Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Parri, mi permetto farle osservare che lei si sottrae alla disciplina dell’Assemblea. Mi pare che proprio per tutelare lei ho richiamato formalmente l’onorevole Finocchiaro Aprile.

La prego, quindi, di sedere e permettere all’onorevole Finocchiaro Aprile di parlare, salvo che l’onorevole Finocchiaro Aprile per una terza volta non adoperi un eloquio del genere di quello che abbiamo ascoltato.

FINOCCHIARO APRILE. L’altra ragione della nostra decisa opposizione al Governo dell’onorevole De Gasperi è, come dicevo, una ragione di ordine generale. Qualche giorno fa sono state sollevate in quest’Aule accuse molto gravi riguardanti alcuni membri democratici cristiani dell’Assemblea e riguardanti, soprattutto, qualche membro del Governo. E, giustamente, poco fa è stato rilevato che da parte del Capo del Governo non si è accennato a questa questione morale che investe tutto il Gabinetto. Dichiarai che il Ministro Vanoni nella sua attività…

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, mi permetto ricordarle che ella sta facendo una dichiarazione di voto, nel corso della quale ella non ha il diritto di entrare nel merito della discussione.

FINOCCHIARO APRILE. Il Capo del Governo non si è occupato di questo argomento e io ho il diritto di rimproverargli ciò.

PRESIDENTE. Non le è consentito entrare nel merito.

FINOCCHIARO APRILE. Però il Capo del Governo aveva il dovere di venire dinanzi all’Assemblea e dimostrare che il Ministro Vanoni sta degnamente al suo posto. Noi questo non lo crediamo; il Ministro Vanoni è sotto inchiesta da parte della Commissione che esaminerà la sua attività. (Commenti). Ora questa attività non è soltanto quella che ho denunciata, ma riguarda tutta la sua gestione scandalosa della Banca d’agricoltura.

Per quanto riguarda il Ministro Campilli, l’onorevole Presidente del Consiglio ci è venuto a recitare una dichiarazione preparata dal Ministro stesso. Ora, io confermo pienamente quello che dissi in quest’Aula: il direttore generale Ventura…

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, se ha da dire qualche cosa sa che esiste una Commissione nominata dall’Assemblea a questo scopo. Mi permetto di osservare che l’onorevole Presidente del Consiglio ha dimostrato, se mai, deferenza verso l’Assemblea che ha nominato una Commissione, non anticipando giudizi che sono deferiti alla Commissione stessa. La prego di comportarsi nello stesso modo. (Vivissimi applausi).

FINOCCHIARO APRILE. Dico soltanto, ed ho finito, che delle due l’una: o il Ministro Campilli è un disonesto ed egli non può rimanere a quel posto, o il Ministro Campilli e un inetto e non può rimanere ugualmente a quel posto. (Interruzioni – Rumori).

Dichiaro che il nostro voto sarà contro il Ministero De Gasperi, perché esso non risponde a quei requisiti di moralità che sono necessari per governare il Paese. (Commenti – Rumori al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare, per dichiarazione di voto, l’onorevole Nitti. Ne ha facoltà.

NITTI. Stimo inutile dichiarare che nessuno dei miei amici crede che io voterò la fiducia al Governo. I motivi della mia diffidenza non sono diminuiti: sono aumentati. L’onorevole De Gasperi, di cui riconosco volentieri il fervore e la buona volontà, ha oggi cercato di dissipare le incertezze del nostro animo: non le ha dissipate. Il suo discorso, se mi permette, le ha anzi aumentate, perché egli non ha pronunciato una sola parola rassicuratrice. Dobbiamo temere danni immediati: abbiamo dinanzi le ansie di pericoli gravissimi, le ansie di pericoli che si prospetteranno fra uno o due anni e che possono solo essere evitati o mitigati da una saggia opera di Governo. L’onorevole De Gasperi non ha detto nulla.

Avremo domani stesso, o fra quindici giorni, una situazione monetaria che bisogna considerare da ora ed affrontare. L’onorevole De Gasperi non ne ha parlato; avrebbe forse dovuto parlarne il Ministro del tesoro, ma nessuna parola rassicuratrice ci è venuta invece nemmeno da lui. Abbiamo ansie di ogni natura e grave è la situazione economica. Siamo inquieti sulla situazione industriale. Si lavora in Italia sempre con difficoltà; non è solo la disoccupazione che aumenta, è il costo del lavoro. Ormai l’Italia non è più un Paese che produce a buon mercato; è un Paese per cui ogni esportazione diventerà, se non impossibile, molto difficile. Che cosa ci ha detto il Governo? Noi dobbiamo dunque attendere dal Governo non parole vaghe, ma un’opera e un’azione che diano al pubblico la fiducia. Io sono contrario a tutto ciò che è violenza; io non credo che si possano imporre, con la legge e con atti di Governo, cose che non sono nella realtà. Noi dobbiamo vivere nella realtà.

Non desideriamo che dinanzi al dramma della realtà si rimanga nel vuoto di promesse e affidamenti internazionali. Quale è il programma? Quali sono i propositi dell’onorevole De Gasperi per il prossimo avvenire? Un programma non basta: ogni uomo può fare programmi; bisogna dire quali mezzi e quali procedure si intendono seguire. Ora per tutti questi problemi immediati angosciosi per il nostro avvenire, nessuna parola rassicuratrice abbiamo avuto. Nessuna passione politica mi fa velo; dichiaro che non so nulla dei partiti né dei Governi che qui si uniscono, si fanno e si disfanno spesso come neve al sole. Io ho paura delle crisi; non ho spinto mai a votare per provocare una crisi; una triste esperienza da quando sono qua mi dice che una crisi conduce sempre a un Governo peggiore del precedente, a un Governo più numeroso, meno tecnico e meno forte, a un Governo soprattutto non capace di soluzioni vere. Non desidero quindi le crisi, fin quando le fonti del potere sono le stesse: partiti politici che vivono e si paralizzano a vicenda in ogni opera di costituzione.

Se voto contro questo Governo, è perché non l’ho trovato migliore del precedente, contro cui già votai, e forse l’ho trovato peggiore e meno efficiente. Nel mio pensiero non vi è il desiderio di crisi, ma quello di richiamare alla realtà e di invitare le forze politiche del Paese ad andare verso situazioni che ci rendano la vita possibile.

L’onorevole Togliatti ha fatto un interessante discorso di politica costituzionale presente e avvenire, parlandoci del tripartitismo come di una necessità presente ed avvenire e della democrazia progressiva. Io non ho ben capito e non so come si possa formare una democrazia progressiva in queste condizioni. Ma l’onorevole Togliatti è un uomo di intelligenza talmente fine che ci darà il modo, nelle prossime sedute, di discutere questi che sono problemi vitali anche dal punto di vista politico.

L’onorevole De Gasperi, in uno dei suoi ultimi discorsi, ha detto con bontà verso di me di avere accolto tutte le cose che io avevo detto e che parevano malignità o motti di spirito. Io avevo detto all’onorevole De Gasperi di dare egli stesso l’esempio di sani propositi rinunziando a tutte le cariche non necessarie, compresa quella della direzione del suo partito, e di non pensare che alla coordinazione delle forze per dare al Governo efficienza. L’onorevole De Gasperi mi ha usato la bontà di dire che egli aveva accolto questi suggerimenti. Ed io ne lo ringrazio. Ma purtroppo molti di questi suggerimenti sono stati accolti troppo tardi, e non si è potuto avere dalla sua rinunzia quella efficienza di Governo che era necessaria.

Ora io chiedo all’onorevole De Gasperi che dia la sensazione di una qualche efficienza del suo Governo. Tutti questi suoi discorsi, ed anche quello di oggi, hanno qualche cosa di triste. (Commenti). Vi è come l’impressione, nell’Assemblea, che egli non abbia affrontato con volontà la situazione. Io non ho compreso ancora che cosa il Governo vuole fare, né nella politica finanziaria, né in quella economica, né nella politica interna: neppure nella politica interna, perché questa democrazia progressiva che si basa su due partiti e che è una democrazia di una natura particolare – l’onorevole Togliatti l’ha prospettata non solo come cosa del momento attuale, ma anche come cosa che deve illuminare l’avvenire – non ha offerto, così come esposta, la possibilità di essere compresa. L’onorevole Togliatti discuterà con noi questi problemi. Sono questi problemi che si discutono nelle assemblee, anche se determinano contrasti e se producono frizioni. Queste discussioni sono soprattutto necessarie di fronte al pubblico, al quale noi dobbiamo presentarci come una Assemblea cosciente e come un Governo efficiente. Ed il giudizio del pubblico non mi pare sia oggi favorevole a noi. Non ci illudiamo: alcune manifestazioni chiare ci dicono che l’opinione pubblica non è favorevole al Governo, e anche non è favorevole all’Assemblea nostra. Tutto l’edifizio che ci ospita e in cui viviamo è minacciato. Non vi è certezza in alcuna cosa né nell’ordine pubblico, né nella moneta, né nel credito, né nella produzione. Noi dobbiamo sapere dove andiamo, su quali forze possiamo contare, quale è il programma che ci deve guidare, con quali metodi e con quali forze possiamo attuarlo. Il Governo rimane in un ottimismo indeterminato.

Noi dobbiamo riconquistare la fiducia del pubblico. È una volontà d’azione che vogliamo. Io non ho desiderio, io non ho volontà, di togliere il posto a nessuno. (Commenti). Nessuno può rimproverare a me di aver partecipato una volta sola, in alcun modo, a combinazioni di Governo o a movimenti di partito. Queste cose mi sono state sempre indifferenti. L’onorevole De Gasperi, mi dispiace il dirlo, non ha dato la sensazione di volontà né di energia per riconquistare la fiducia della pubblica opinione al Governo ed all’Assemblea; non ha dato una sola manifestazione di forza in quest’ora in cui tutto sembra si sgretoli, ora che è più necessario mantenere il nostro prestigio, e quindi avere efficacia nell’azione, come saldezza e fierezza nei propositi. Io auguro che l’onorevole De Gasperi possa dire domani ciò che non ha detto oggi, ma oggi nulla mi autorizza ad aver fiducia e tanto meno a dichiararla. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Cevolotto. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Il Gruppo democratico del lavoro voterà contro il Governo, perché le dichiarazioni del Presidente del Consiglio non hanno potuto modificare la nostra posizione, la quale posizione è quella degli altri partiti della sinistra democratica. Io sono lieto che quella unione di partiti della sinistra democratica, che hanno auspicato l’onorevole Molè e l’onorevole Pacciardi, trovi la sua conferma spontanea nei fatti e nella situazione politica e parlamentare. Noi però ci auguriamo che il Governo attuale riesca a superare le due correnti, le due anime che lo dividono, riesca ad unificarsi e possa, non dico attuare, ma avviare il Paese, verso quelle grandi riforme democratiche e sociali che sono necessarie e urgenti. In questo caso non ci troverà più oppositori. (Approvazioni).

Voci. Ai voti! Ai voti!

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Cingolani. Ne ha facoltà.

CINGOLANI. Cari colleghi siate pazienti, perché ho da esercitare il mio diritto e compiere il mio dovere. Farò una brevissima dichiarazione. Devo dire che noi voteremo a favore del Governo. Voteremo a favore del Governo per lo spirito del quale il Governo è informato e per il programma e per il dettaglio del programma che è stato esposto, nel suo discorso, dal Presidente del Consiglio. Voteremo a favore soprattutto per la rispondenza del Governo ad una maggioranza parlamentare qualificata che, piaccia o non piaccia, risponde allo stato politico attuale dell’Italia, ad una maggioranza che esiste nel Paese. (Commenti). Non possiamo aver fatto finta di non avere compreso le dichiarazioni fatte dai rappresentanti dei tre Partiti democratici di opposizione, auspicanti la formazione di un Governo espressione delle sinistre democratiche.

In Italia ci siamo ancora noi come forze vive e democratiche rispondenti alle aspirazioni del Paese, oggi, e ci auguriamo anche nel domani; e senza di noi non si potranno fare governi nel nostro Paese.

Dico soltanto all’onorevole Finocchiaro Aprile, che, come al solito, rimastica…

PRESIDENTE. Onorevole Cingolani, nelle dichiarazioni di voto non si risponde.

CINGOLANI. Allora non vi è che da attendere l’opera del Comitato parlamentare per le incompatibilità. Ma non posso non sottolineare, concludendo, che è assurdo parlare di una questione morale per il nostro Governo. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Si proceda alla votazione per appello nominale.

Estraggo il nome del deputato dal quale avrà inizio la votazione. Il deputato è l’onorevole Novella. Si faccia la chiama.

RICCIO, Segretario, fa la chiama:

Rispondono sì:

Adonnino – Alberganti – Alberti – Aldisio – Allegato – Ambrosini – Andreotti – Angelucci – Arcaini – Arcangelo – Assennato.

Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Basso – Bastianetto – Bazoli – Bei Adele – Bellato – Belotti – Benvenuti – Bernamonti – Bernini Ferdinando –Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni –Bianchi Bruno – Bianchi Costantino – Bianchini Laura – Bibolotti – Bitossi – Bonomi Ivanoe – Braschi – Brusasca – Bubbio – Bucci – Bulloni Pietro – Burato.

Cacciatore – Caccuri – Caiati – Caldera – Campilli – Camposarcuno – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappuggi – Caprani – Carbonari – Carignani – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Caronia – Carpano Maglioli – Carratelli – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Chatrian – Chieffi – Ciccolungo – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonnetti – Conci Elisabetta – Corbi – Corsanego – Costa – Costantini – Cotellessa – Cremaschi Carlo.

Damiani – D’Amico Diego – D’Amico Michele – De Caro Gerardo – De Gasperi – Del Curto – De Maria – De Martino – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Di Vittorio – Dominedò – Dugoni.

Ermini.

Fabriani – Faccio – Falchi – Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fiorentino – Fioritto – Firrao – Flecchia – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschini – Froggio – Fuschini.

Gabrieli – Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gasparotto – Gatta – Gavina – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Giacchèro – Giacometti – Giordani – Gonella – Gorreri – Gortani – Gotelli Angela – Grieco – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Fausto.

Iotti Leonilde.

Jacini – Jervolino.

Landi – La Pira – La Rocca – Leone Francesco – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier – Lombardi Carlo – Lombardo Ivan Matteo – Lopardi – Lozza – Lupis.

Maffi – Magnani – Malagugini – Maltagliati – Mannironi – Manzini – Marazza – Marchesi – Martinelli – Marzarotto – Massini – Massola – Mastino Gesumino – Mattarella – Mattei Teresa –Matteotti Carlo – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merighi – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Micheli – Minio – Molinelli – Montagnana Rita – Monterisi – Monticelli – Montini – Morandi – Moranino – Moro – Mortati – Motolese – Mùrdaca – Murgia – Musotto.

Nenni – Nobile Umberto – Nobili Oro – Notarianni – Novella – Numeroso.

Orlando Camillo.

Pajetta Gian Carlo – Pallastrelli – Paratore – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pat – Pecorari – Pella – Perlingieri – Pertini Sandro – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Pignedoli – Platone – Pollastrini Elettra – Ponti – Priolo – Proia – Pucci.

Quarello.

Raimondi – Ravagnan – Reale Eugenio – Recca – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Romano – Romita – Roselli – Rossi Giuseppe – Ruggeri Luigi – Ruini – Rumor.

Saccenti – Saggin – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sansone – Scalfaro – Scarpa – Scelba – Schiratti – Scoca – Secchia – Segni – Sereni – Sforza – Silipo – Spano – Stampacchia – Storchi – Sullo Fiorentino.

Targetti – Tega – Terranova – Tessitori – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tonello – Tonetti – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valmarana – Vanoni – Viale – Vicentini – Vigna – Vinciguerra – Volpe.

Zaccagnini – Zappetti – Zotta.

Rispondono no:

Abozzi – Azzi.

Basile – Bassano – Bellavista – Bencivenga – Benedetti – Benedettini – Bennani – Bergamini – Bernabei – Bianchi Bianca – Binni – Bocconi – Bonino – Bozzi – Buonocore.

Calosso – Camangi – Canepa – Canevari – Capua – Cevolotto – Chiaramello – Chiostergi – Cianca – Cicerone – Cifaldi – Codignola – Colonna di Paliano – Condorelli – Conti – Coppa Ezio – Corbino – Corsi – Cortese – Covelli – Crispo.

D’Aragona – Della Seta – De Mercurio – De Vita.

Fabbri – Facchinetti – Fietta – Filippini – Finocchiaro Aprile – Foa.

Galioto – Gallo – Ghidini – Grassi – Grilli.

La Malfa – Longhena – Lucifero.

Marina Mario – Marinaro – Martino Enrico – Mastino Pietro – Mastrojanni – Mazza – Mazzoni – Miccolis – Molè – Montemartini.

Nitti.

Paolucci – Paris – Parri – Patricolo – Pera – Perassi – Persico – Perugi –Piemonte – Preti – Preziosi – Puoti.

Reale Vito – Rodi – Rodinò Mario – Rognoni – Rossi Paolo – Rubilli – Ruggiero Carlo.       .

Salerno – Santi – Saragat – Sardiello – Schiavetti – Selvaggi – Silone – Spallicci.

Tieri Vincenzo – Tremelloni – Treves – Tumminelli.

Valiani – Vallone – Venditti – Veroni – Vigorelli – Villani.

Zagari – Zanardi – Zuccarini.

Si è astenuto:

Orlando Vittorio Emanuele.PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione e invito gli onorevoli Segretari a procedere al computo dei voti.

(Gli onorevoli Segretari procedono al compiuto dei voti).

Passiamo intanto all’esame degli altri ordini del giorno presentati.

L’onorevole Presidente del Consiglio ha dichiarato di accettare come raccomandazione, come incitamento o come indicazione gli ordini del giorno degli onorevoli Martino Gaetano, Quintieri Quinto, Cingolani, Nobile, Damiani, Marinaro, Uberti, Colonnetti, Caronia, Rescigno, Canepa, Cairo, Rossi Paolo, Pallastrelli, Mastino Pietro, Parri.

Penso che gli onorevoli colleghi che li hanno presentati non vorranno insistere per mantenerli.

(Gli ordini del giorno sono ritirati).

L’onorevole Presidente del Consiglio, ha dichiarato di non accettare gli ordini del giorno degli onorevoli Gallo, Tonetti e Vigorelli.

Chiedo ai presentatori di questi tre ordini del giorno se intendano mantenerli.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Gallo. Ne ha facoltà.

GALLO. Devo dichiarare che, non avendo il Governo accettato il mio ordine del giorno col quale si chiede la nomina di una Commissione di inchiesta, io non posso se non pensare che il Governo sottoscrive tutto quello che ho denunciato, cioè il Governo, accetta che continuino le sevizie.

Comunque, mantengo il mio ordine del giorno.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’ordine del giorno presentato dagli onorevoli Gallo, Finocchiaro Aprile, Castrogiovanni e non accettato dal Governo:

«L’Assemblea Costituente,

constatato che, ripetutamente, sono stati denunziati al Paese i sistemi di tortura e di sevizie adottati dagli organi della polizia per strappare dichiarazioni e confessioni ai prevenuti, sistemi seguiti sempre in Sicilia e che si continua ancora oggi a seguire, anche sulle persone degli indipendentisti tratti in arresto, e ciò con deplorevole ritorno al medioevo e con dispregio delle leggi della civiltà e dell’umanità,

invita il Governo a far cessare tanto obbrobrio e a punire esemplarmente i responsabili di tali delitti, e si riserva di procedere alla nomina di una Commissione di inchiesta, a norma del vigente regolamento».

TOGLIATTI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Desidero dichiarare che, di fronte alla gravità dei fatti denunziati, non possiamo respingere un ordine del giorno, il quale si limita a chiedere una Commissione d’inchiesta.

PRESIDENTE. Osservo che l’ordine del giorno non chiede senz’altro la nomina di una Commissione d’inchiesta. L’ordine del giorno dice che l’Assemblea Costituente, constatate alcune premesse, invita il Governo a far cessare tale obbrobrio e a punire esemplarmente i responsabili di tali delitti e si riserva di procedere alla nomina di una Commissione d’inchiesta, a norma dei vigente regolamento.

La riserva potrà essere sciolta in qualunque momento.

BELLAVISTA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. Condivido pienamente gli apprezzamenti e la relazione sulle torture che certa polizia giudiziaria usa infliggere agli inquisiti, non soltanto in Sicilia, ma purtroppo in tutta Italia. (Approvazioni). Debbo associarmi a quanto ha dichiarato l’onorevole Gallo, sottolineando che questa procedura la polizia non ha usato soltanto nei confronti degli indipendentisti siciliani, ma suole usare verso tutte le categorie degli inquisiti. Ritengo che la proposta di invitare l’Assemblea a nominare una Commissione d’inchiesta non possa essere respinta, investendo una questione di alta giustizia nell’interesse di tutto il Paese.

(Segue la votazione per alzata di mano).

ANDREOTTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ANDREOTTI. Osservo innanzi tutto che quelle che il Presidente ha chiamato premesse dell’ordine del giorno in questione rappresentano una vera e propria accettazione dell’esposizione di fatto dell’onorevole Gallo quando ha svolto il suo ordine del giorno, in quanto i sistemi di tortura e di sevizie avrebbero una certa base di realtà.

Chiedo comunque che sia fatta la constatazione del numero legale.

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Mi richiamo al Regolamento. Mi permetto di far notare che siamo in votazione e quindi non possiamo entrare in discussione sul merito.

PRESIDENTE. Poiché vari deputati hanno preso la parola, ho pensato che per questo vi fosse una tacita intesa di prescindere dal Regolamento. Ma se l’onorevole Lucifero vi fa un richiamo espresso, non posso che accedervi.

LUCIFERO. Vi faccio richiamo espresso, perché ritengo che dobbiamo stabilire il principio che le procedure che abbiamo ritenuto di dover stabilire non possono essere omesse. Se noi istituissimo la prassi per cui possiamo modificare la procedura, non so se l’Assemblea, di fronte alle discussioni gravi che la attendono, potrà funzionare regolarmente.

PRESIDENTE. Di fronte al richiamo al Regolamento fatto dall’onorevole Lucifero, dobbiamo proseguire la votazione, la quale fu interrotta per l’impossibilità di procedere al computo.

Avverto, comunque, che la domanda di verifica del numero legale da parte dell’onorevole Andreotti è giunta troppo tardi perché la votazione era già incominciata. (Commenti).

MAZZONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MAZZONI. Mi rendo conto delle ragioni di forma che il Presidente ha esposte; ma vi sono anche delle ragioni di sostanza che non possiamo dimenticare, e che militano a favore di quelli che, come me. avevano chiesto la parola. Ognuno di noi ha qualche cosa da dire. Dissento dall’onorevole Lucifero circa la violazione del Regolamento. Comunque, se pur fosse vero che ci siano inoltrati in una violazione delle forme, non è consentito ritrarsene aggiungendo alla violazione di forma la violazione di sostanza. Non è lecito ammettere che qualcuno possa aver parlato e agli altri sia tappata la bocca. Insisto nel fare brevissime dichiarazioni, non più di tre minuti.

PRESIDENTE. Non è questione di tempo, il problema è quello dell’osservanza del Regolamento.

Siamo in sede di votazione di ordini del giorno presentati a conclusione d’una discussione sulle dichiarazioni del Governo. Secondo il Regolamento può parlare il solo presentatore.

COTELLESSA. Chiedo la constatazione del numero legale.

PRESIDENTE. Onorevole Cotellessa, ho già fatto presente che la richiesta del numero legale è stata fatta tardivamente, in quanto deve precedere l’inizio della votazione. Orala vot azione era già cominciata, e non è stato possibile concluderla col computo dei voti.

Pongo, dunque, di nuovo ai voti l’ordine del giorno dell’onorevole Gallo.

(Dopo prova e controprova, non è approvato).

Non essendo presenti gli onorevoli Tonetti e Vigorelli, si intende che abbiano rinunziato ai rispettivi ordini del giorno.

Risultato della votazione nominale.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione per appello nominale sull’ordine del giorno Andreotti:

Presenti e votanti       400

Maggioranza             201

Hanno risposto        292

Hanno risposto no     107

Astenuto                       1

L’Assemblea approva l’ordine del giorno Andreotti, Minio, De Michelis. (Applausi).

Interrogazioni e interpellanza d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che dagli onorevoli Bellavista, Galioto, Covelli e Fabbri è stata presentata la seguente interrogazione, chiedendone lo svolgimento d’urgenza:

«Al Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti siano stati presi, e quali istruzioni riceveranno i Prefetti ed i Questori della Repubblica, per la tutela delle libertà politiche dei cittadini e dei partiti o gruppi politici di opposizione, in relazione alla selvaggia e vandalica distruzione ad Enna, in occasione della Giornata del contadino e ad opera di elementi social-comunisti, della sede del Partito nazionale monarchico, con violenze fisiche e tentativi di linciaggio contro cittadini colpevoli soltanto di aver fede politica diversa».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Il Governo risponderà nella seduta di domani.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Massini e Minio hanno presentato la seguente interrogazione, chiedendone lo svolgimento di urgenza:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere i motivi per cui, in occasione del loro Congresso provinciale, si è ostacolato, in varî comuni della provincia, l’arrivo a Roma dei contadini, che avrebbero dovuto partecipare alla pubblica manifestazione di chiusura del Congresso stesso; manifestazione i cui limiti erano già stati, il giorno avanti, concordati con il responsabile dell’organizzazione sindacale, il Ministro dell’interno e il Questore di Roma».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Il Governo risponderà domani anche a questa interrogazione.

PRESIDENTE. Gli onorevoli De Maria, Codacci Pisanelli, Franceschini, Trimarchi, Gui, Storchi, Corsanego, Moro, Colombo, Di Fausto hanno presentato la seguente interrogazione, chiedendone lo svolgimento d’urgenza:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti ha adottato il Governo a favore degli esuli giuliani, cui si rivolge in questa ora tragica della nostra storia l’attenzione accorata e fraterna di tutti gli italiani».

L’onorevole Preziosi, ha presentato anch’egli la seguente interrogazione, analoga alla precedente, per la quale chiede lo svolgimento d’urgenza:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri,

  1. a) per sapere se e quali provvedimenti sono stati disposti per venire in soccorso – in maniera concreta – in favore dei profughi istriani ed in special modo di quelli di Pola, abbandonati quasi a se stessi (basti per tutti l’episodio di Roma dell’arrivo di centinaia di profughi senza che nessuno li accogliesse);
  2. b) per sapere se non è il caso di assegnare ad un ente cooperativo di contadini istriani, profughi, che ascendono al numero di 16.000, la tenuta ex reale di Castel Porziano, che invece pare si voglia vendere a privati per la somma di 400 milioni;
  3. c) per sapere altresì se il Governo non reputa necessaria la emanazione di un decreto-legge, di urgenza, che, come per i reduci, contempli l’assunzione obbligatoria di un’aliquota di profughi dalle terre irredente (Istria, Venezia Giulia, Briga e Tenda) nei vari uffici governativi o in aziende controllate dallo Stato, dando così un pane, che non abbia soltanto l’aspetto di una umiliante elemosina, a tante povere famiglie italiane, degne di ogni considerazione».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Il Governo risponderà ad entrambe le interrogazioni nella seduta di dopodomani, giovedì.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Vigna, Canevari e Piemonte hanno presentato la seguente interrogazione, chiedendone la discussione d’urgenza:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e all’Alto Commissario dell’alimentazione, per avere esatte notizie sui fatti esposti nell’articolo «Il blocco del pesce conservato e le relative conseguenze» apparso sul giornale Il Sole del 12 novembre, n. 37, e per conoscere quali provvedimenti ha adottato per assicurare un servizio più razionale di importazione del pesce conservato, e per una più onesta difesa del consumatore».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Governo non ne riconosce l’urgenza.

PRESIDENTE. L’onorevole Volpe ha presentato la seguente interpellanza chiedendone lo svolgimento d’urgenza:

«Ai Ministri delle finanze e tesoro, dell’industria e commercio e del lavoro e previdenza sociale, per sapere quali provvedimenti s’intendono adottare in vista della minacciata sospensione del lavoro nelle miniere siciliane di zolfo, a decorrere dal 28 febbraio, con conseguente disoccupazione di circa 14 mila operai, non essendo stato garantito dal Governo il prezzo minimo dello zolfo».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Governo si riserva di fissare la data dello svolgimento.

MANNIRONI. Chiedo quando possa essere svolta l’interrogazione da me a da altri già presentata circa il mancato piano organico di bonifica in Sardegna, e per la quale richiese la discussione d’urgenza.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Il Governo potrà rispondere nella settimana ventura.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, perché – in attesa che i beni della disciolta G.I.L., ora amministrati dalla G.I., ritornino ai loro legittimi proprietari (comuni, Consorzi intercomunali, provincie, ecc.), come da più parti si è reclamato nei Convegni dei rappresentanti degli Enti interessati – vengano date agli uffici competenti della provincia di Torino le necessarie disposizioni, affinché sia messo a disposizione dell’Opera San Luigi di Torino la ex-colonia «3 Gennaio», che si presterebbe magnificamente per risolvere il problema di un sanatorio di mezza quota, indispensabile per tanti ammalati della provincia di Torino. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bonfantini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per avere conferma di un provvedimento preso dall’Ufficio Alto Commissariale della Sicilia (Corriere di Sicilia, n. 45, del 22 febbraio 1947) nell’assenza del titolare, col quale si vieta l’esportazione dall’Isola dei rottami metallici, e sulla ragione che lo ha determinato.

«Se non creda necessario che vengano esclusi nell’ordinamento regionale simili facoltà, che ridurrebbero l’Italia in tanti compartimenti stagni, mentre l’esperienza passata (cotone, formaggi, ecc.) ha dimostrato che simili provvedimenti servono solo all’indebito arricchimento di chi ottiene i permessi di esportazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«D’Agata».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere come mai, essendo stati eseguiti in Sora, alla contrada «Campovarigno» i lavori di rilievo dalla fine di maggio a tutto agosto del 1946 ed il relativo progetto, dal settembre al 3 dicembre dello scorso anno, per la bonifica di detta contrada, non ancora tale progetto è stato inviato ai competenti e superiori uffici ministeriali per la necessaria ed urgente approvazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Andreotti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere i motivi che hanno determinato il Governo ad escludere dal recente aumento delle pensioni i militari di truppa (tabellari) che godono di pensione privilegiata ordinaria.

«Del predetto aumento hanno beneficiato tutti i pensionati per mutilazione o invalidità contratta per causa di guerra, nonché i sottufficiali e gli ufficiali pensionati per mutilazione o invalidità contratta per causa di servizio ordinario.

«La diversità di trattamento porta una differenza per il militare di truppa pensionato di guerra di prima categoria (lire 18.000 circa mensili) ed un tabellario ordinario di prima categoria (solamente lire 1.948) che non è comprensibile né giustificabile, se si considera che, sia l’uno che l’altro, sono egualmente incapaci alle fatiche del lavoro, per identica minorazione fisica.

«Poiché fra i pensionati ordinari si è ritenuto di escluder dall’aumento solo i tabellari, si fanno voti perché il Governo provveda ad eliminare al più presto l’incongruente d sparità di trattamento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mastrojanni»

 

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei lavori pubblici e della pubblica istruzione, per conoscere se non ritengano opportuno sollecitare l’Ufficio del Genio civile di Frosinone perché sia restituito alla sua funzione l’edificio scolastico di Ceprano.

«Tale edificio fu occupato, all’inizio dello scorso gennaio, per dare provvisorio ricovero ad alcune persone, rimaste prive di alloggio a seguito del crollo di un fabbricato.

«Viceversa, le autorità competenti ancora non hanno provveduto a sistemare in alloggi più convenienti i senza tetto, e questa loro inerzia minaccia di far divenire definitiva la provvisoria occupazione dell’edificio scolastico, con danno rilevante della scolaresca, la quale da due mesi è stata costretta a sospendere le lezioni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Palma».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere:

se è vero che il 30 gennaio 1947 il maresciallo comandante la Stazione dei carabinieri di Casacalenda (Campobasso) fermò otto agenti di pubblica sicurezza (squadra celere Divisione di pubblica sicurezza di Napoli) al comando di un maresciallo, che, acquistati al mercato clandestino circa 50 quintali di grano, tentavano di asportarlo su di un camion con rimorchio del Corpo di pubblica sicurezza; e che, alla intimazione del maresciallo operante, gli agenti, che erano in divisa e armati di mitra, tentarono giustificarsi esibendo un documento di autorizzazione sottoscritto da un alto funzionario di cui si tiene celato il nome;

se è vero che il carico fu portato a Campobasso e versato al locale Consorzio agrario;

e per conoscere quali provvedimenti furono adottati in merito. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Canevari».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Ministro della difesa, per segnalare gli inconvenienti determinati dal regio decreto legislativo 14 maggio 1946, n. 384. Questo decreto presenta, infatti, una grave lacuna in quanto, mentre sono stati fissati provvedimenti economici di favore nei riguardi degli ufficiali in servizio permanente effettivo che lasciano il servizio perché collocati nella riserva, ai sensi del citato regio decreto, e di cui beneficiano gli ufficiali mutilati ed invalidi delle guerre precedenti «riassunti in servizio» (compresi i minorati della guerra di Spagna), e perfino quegli ufficiali che, pur essendo stati discriminati, hanno avuto inflitte sanzioni disciplinari per il loro comportamento tenuto dopo l’8 settembre, è stata, invece, omessa tutta la categoria degli ufficiali mutilati ed invalidi di questa guerra (compreso il periodo di liberazione), ai quali prima di ogni altro bisognava estendere il trattamento di favore previsto dalla legge, migliorandolo addirittura per tali benemeriti.

«Ciò premesso, e premesso altresì, che il Ministero della guerra, riconosciuta la disparità del trattamento esistente tra gli ufficiali mutilati ed invalidi delle guerre precedenti e quelli della guerra attuale e ritenuto giusto sanare questa omissione, ha preso a cuore la segnalazione inoltrata dalla Associazione mutilati ed invalidi di guerra di estendere a favore di quest’ultimi ufficiali le previdenze economiche accordate con il citato regio decreto legislativo.

«L’interpellante chiede se è stato già provveduto nel senso invocato dalla detta Associazione ed in caso negativo sollecita la urgente favorevole definizione per por fine ad una grave ed incresciosa omissione che, oltre a ripercuotersi sul morale già tanto depresso, incide tragicamente sulla situazione economica in cui si trovano moltissimi ufficiali in servizio permanente effettivo mutilati della guerra attuale i quali oggi vivono nella più squallida miseria.

«È inoltre necessario che, analogamente a quanto è stato praticato per gli ufficiali che dovranno lasciare il servizio ai sensi del citato decreto, gli ufficiali mutilati invalidi, in attesa dei provvedimenti in loro favore, vengano messi in licenza straordinaria con assegni, sospendendo in pari tempo il loro collocamento nella riserva previsto dall’articolo 122 della legge sullo stato degli ufficiali.

«Cingolani».

PRESIDENTE. Le interrogazioni teste lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno, qualora il Ministro interessato non vi si opponga nel termine regolamentare.

La seduta è rinviata a domani alle 16,30.

La seduta termina alle 23.10.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16,30.

  1. – Svolgimento delle seguenti interrogazioni:

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti siano stati presi, e quali istruzioni riceveranno i Prefetti ed i Questori della Repubblica, per la tutela delle libertà politiche dei cittadini e dei partiti o gruppi politici di opposizione, in relazione alla selvaggia e vandalica distruzione ad Enna, in occasione della Giornata del Contadino e ad opera di elementi social-comunisti, della sede del Partito nazionale monarchico, con violenze fisiche e tentativi di linciaggio contro cittadini colpevoli soltanto di aver fede politica diversa.

«Bellavista, Galioto, Fabbri, Covelli»

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere i motivi per cui, in occasione del loro Congresso provinciale, si è ostacolato, in vari comuni della provincia, l’arrivo a Roma dei contadini che avrebbero dovuto partecipare alla pubblica manifestazione di chiusura del Congresso stesso; manifestazione i cui limiti erano già stati, il giorno avanti, concordati con il responsabile dell’organizzazione sindacale, il Ministro dell’interno e il Questore di Roma.

«Massini, Minio»

  1. – Svolgimento della seguente mozione:

«L’Assemblea, ritenuto che per la realizzazione organica dello Statuto siciliano, ad evitare eventuali conflitti di carattere costituzionale dopo la sua applicazione, occorre che lo Statuto sia coordinato colla Costituzione della Repubblica, come del resto è previsto dallo Statuto stesso; ritenuto, altresì, che i lavori della Commissione paritetica per lo Statuto siciliano non sono ancora conclusi, ciò che pregiudica la migliore realizzazione dell’autonomia; considerato che le elezioni per l’Assemblea siciliana, indette per il 20 aprile, non sono, allo stato, conciliabili con le premesse esigenze; invita il Governo a disporre le elezioni in Sicilia alla data più vicina possibile, dopo l’avvenuto coordinamento costituzionale in sede di Assemblea.

«Nasi, La Malfa, Di Giovanni, Lombardi Riccardo, Canevari, Veroni, Cevolotto, Silone, Rossi Paolo, Preziosi, Corsi, Bocconi, Costantini, Lombardo Ivan Matteo».

LUNEDÌ 24 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XLV.

SEDUTA DI LUNEDÌ 24 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TUPINI

INDICE

Sul processo verbale:

Longo                                                                                                               

Condorelli                                                                                                      

Gasparotto, Ministro della difesa                                                                     

Presidente                                                                                                        

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Lombardo Ivan Matteo                                                                                  

Pastore Raffaele                                                                                            

Presidente                                                                                                        

Colonnetti                                                                                                       

Cingolani                                                                                                         

Marinaro                                                                                                         

Interpellanza (Svolgimento):

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Grilli                                                                                                                

D’onofrio                                                                                                         

Si riprende la discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Quintieri Quinto                                                                                             

Rescigno                                                                                                           

Canepa                                                                                                              

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.

LONGO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LONGO. L’onorevole Enrico Martino, nel discorso pronunciato il 22 febbraio in questa Assemblea e di cui è riferito nel processo verbale, ha affermato che, se i partigiani non sono stati inseriti nell’esercito, ciò è dovuto al fatto che la Commissione centrale – riferiscono i giornali – presieduta dall’onorevole Longo, soltanto ora ha incominciato ad inviare le relative proposte e per i soli ufficiali: non ancora, quindi, per i soldati. Mi sorprende che l’onorevole Martino abbia ripetuto simili affermazioni dopo la polemica di stampa avvenuta tra me e lui, in cui gli avevo fornito tutti i dati necessari per metterlo sulla strada della verità. Dopo quella polemica, mi attendevo che l’onorevole ex Sottosegretario alle guerra venisse a dire alla Camera quante delle ricevute proposte di promozione e di avanzamento per merito partigiano erano state accolte dal suo Ministro. Su questo punto, invece, l’onorevole Martino non ha detto parola, ma ha detto solo che le proposte incominciano ad arrivare; e ha detto una inesattezza, perché non cominciano, ma continuano ad arrivare.

Il silenzio mantenuto su questo punto non può avere che questo significato: che nessuna delle proposte finora trasmesse è stata accolta dal Ministro. Basta questo fatto per giustificare in pieno le doglianze espresse al riguardo dall’onorevole Togliatti, nel suo discorso alla Camera. D’altra parte, il discorso dell’onorevole Martino, pur lodevole ed apprezzabile sotto molti rispetti, nel punto che riguarda i partigiani denota che egli non conosce i termini in cui la questiono si pone. Rendendo responsabile la Commissione centrale dei lamentati ritardi, l’onorevole Martino dimostra di ignorare parecchie cose. Dimostra di ignorare che il decreto che autorizzava la Commissione da me presieduta a fare le proposte di promozione e di avanzamento per meriti partigiani fu pubblicato solo il 18 settembre 1946, cioè 17 mesi dopo l’insurrezione; dimostra di ignorare che la Commissione di secondo grado, da me presieduta, trasmise le prime proposte al Ministero della guerra il 4 ottobre successivo, cioè appena sedici giorni dopo la pubblicazione del decreto stesso; dimostra di ignorare che le proposte inoltrate dalla Commissione attendono ancora, e da cinque mesi, che il Ministro della guerra decida in merito.

Ma l’onorevole Martino ha creduto di poter muovere ancora un altro appunto alla Commissione di secondo grado. Egli ha rilevato che le proposte che arrivano al Ministero della guerra si riferiscono ai soli ufficiali e non ancora ai soldati. Anche qui appare che l’onorevole Martino ignora i termini della questione: ignora che il decreto che regola il riconoscimento dei gradi partigiani è stato pubblicato solo il 20 novembre 1946, cioè diciannove mesi dopo l’insurrezione; ignora che tutte le operazioni previste dal citato decreto, compreso il parere che deve dare la Commissione di secondo grado, non possono nemmeno avere inizio, perché non sono state ancora emanate, a tutt’oggi, le modalità preliminari ad ogni altra operazione, previste da quel decreto, modalità che devono essere stabilite dai Ministeri delle Forze armate.

Noi non imputiamo all’onorevole Martino e all’ex Ministro una ostilità preconcetta nei riguardi del movimento partigiano. Quando l’onorevole Togliatti lamentò, nel suo discorso, il mancato inserimento dei partigiani nell’esercito, mirava più in là del Ministro e del Sottosegretario; mirava agli uffici dei loro Ministero, al personale, ai dirigenti dello Stato Maggiore che fanno il bello e cattivo tempo al Ministero della guerra e nei quali è evidente la volontà di dare l’ostracismo più assoluto ad ogni merito partigiano.

Se un addebito può essere fatto, e deve essere fatto al passato Ministro della guerra ed al suo Sottosegretario, questo addebito è di non aver saputo liberare il Ministero della guerra dalle influenze conservatrici ed antidemocratiche delle cricche militari che vi pullulano.

Da parte di certa stampa si parla spesso e volentieri di cricche politiche. Non so se le cricche che oggi imperano nelle Forze armate sono cricche politiche o militari, o se sono le due cose insieme. Ma una cosa è certa: esse sono le peggiori cricche che si possano immaginare, sia dal punto di vista intellettuale, che da quello morale.

Sono le stesse cricche, che avendo ricevuto, dopo l’altra guerra, un esercito che non sfigurava nei confronti degli altri eserciti d’Europa, l’hanno portato, poi, alla vergogna e al disastro delle guerre fasciste.

Lo so: queste cricche, a propria discolpa, dicono: è norma e divisa del militare obbedire al potere civile e politico, qualunque esso sia. Ma se questo vale per il grosso dei soldati e degli ufficiali, non vale per i capi, i quali hanno il compito ed il dovere di preparare l’esercito per la guerra e la vittoria e non per la sconfitta.

Se questi capi sapevano che il fascismo li mandava al disastro, dovevano almeno scindere le proprie responsabilità, dovevano denunciare al Paese il pericolo che lo minacciava.

Non si scherza sulla vita della Nazione, sulla vita di milioni di combattenti! Ma, proprio i maggiori responsabili militari delle guerre fasciste e della disfatta, proprio coloro che non han saputo e non hanno voluto resistere all’azione fascista di corruzione e di disorganizzazione dell’esercito, proprio costoro, nello Stato Maggiore, nel Ministero della guerra e nelle sue Commissioni accampano, ora, il diritto di resistere all’azione delle forze democratiche, all’azione delle forze che hanno combattuto e vinto la guerra di liberazione nazionale e che, oggi, vogliono ricostituire e rinnovare il nostro esercito, perché esso non abbia mai più a subire la vergogna fascista e la disfatta militare.

Si dice che noi comunisti, noi partigiani, noi combattenti della guerra di liberazione nazionale, siamo contro l’esercito. È una menzogna e una calunnia. Noi siamo contro i responsabili di averlo portato, non alla guerra, ma al massacro, di averlo portato ad una guerra ingiusta e antinazionale, di cui oggi scontiamo le terribili conseguenze.

Siamo di tutto cuore con i soldati e gli ufficiali che hanno combattuto e sofferto, enormemente sofferto, sui campi di battaglia e in quelli di prigionia, e sofferto soprattutto per l’insipienza e spesso per l’incoscienza dei loro capi.

Siamo, in primo luogo, con quei soldati e quegli ufficiali che hanno detto basta alla guerra fascista, basta a quello che non era più un combattimento, ma un massacro a esclusivo vantaggio del tedesco. Siamo con tutti coloro, ufficiali o soldati, che non sono scappati con la monarchia, quando si trattava di rivolgere le armi contro il fascismo e il tedesco, ma sono rimasti a combattere e a vincere la nostra guerra di liberazione nazionale. Sono questi valorosi che hanno salvato, con il loro coraggio e il loro operato, l’onore delle armi italiane, e quanto ancora si poteva salvare delle sorti della Patria, terribilmente compromessa dalle avventure monarchiche e fasciste.

Le sofferenze e l’esempio di questi soldati e di questi ufficiali si elevano, come una permanente condanna, contro i responsabili militari dei disastri della patria.

È perciò che questi responsabili hanno decretato il più assoluto ostracismo a quanti osano parlare in nome di quelle sofferenze e di quegli esempi.

Dagli uffici del Ministero della guerra e dello Stato Maggiore, le vecchie cricche militari non solo cercano e, finora, purtroppo, con successo, di sbarrare la strada all’afflusso nell’esercito di forze nuove e democratiche, ma fanno di tutto per demoralizzare, respingere, cacciare dal servizio attivo gli ufficiali repubblicani e democratici, gli ufficiali che si sono battuti nelle file partigiane, non facendo in ciò nessuna distinzione politica, ma accomunando nella loro avversione ufficiali repubblicani e persino ufficiali monarchici. Per i responsabili della disfatta italiana la più grave colpa non è quella di essere stati fascisti, di essere scappati con la monarchia, ma di essere stati partigiani.

Questa è la realtà, la triste realtà, denunciata, del resto, con appassionate parole dall’amico Pacciardi.

C’è solo da lamentare che i suoi compagni di partito, il passato Ministro della guerra e il suo Sottosegretario, non abbiano compresa questa realtà, o, se l’hanno compresa, non l’abbiano saputa modificare. Mi auguro che il nuovo Ministro della difesa e i suoi numerosi Sottosegretari sappiano vedere meglio come stanno le cose e porvi rimedio.

Il Trattato di pace riduce in limiti ristretti le nostre possibilità di difesa; ma proprio perciò dobbiamo dedicare tutte le nostre cure, tutto il nostro studio, tutto il nostro amore, affinché quel poco che ci è permesso di conservare nel campo delle Forze armate sia quanto di più ordinato, di più sano ed efficiente vi possa essere. Il nostro nuovo esercito sarà ordinato, sano ed efficiente, non in quanto si staccherà dal popolo, non in quanto si accamperà sul nostro suolo, quasi fosse un esercito mercenario e straniero, ma in quanto sarà parte del popolo stesso, in quanto si saprà legare strettamente al popolo, e fare di tutti i quadri – intellettuali, tecnici, professionali, organizzativi – della vita politica ed economica del Paese i quadri militari della Nazione, a servigio della Nazione.

Gli uomini che hanno voluto, capito, diretto la guerra partigiana; gli uomini che, tra difficoltà inimmaginabili dai burocrati degli abituali uffici militari, hanno saputo sollevare, organizzare e portare alla guerra e alla vittoria centinaia di migliaia di combattenti, sono gli uomini più indicati e più competenti per condurre a buon esito il rinnovamento e la riorganizzazione delle Forze armate della nuova Italia democratica e repubblicana. (Commenti).

Ponendo la questione dell’entrata e dell’avanzamento dei partigiani nelle file dell’esercito, non poniamo semplicemente il problema di compensare i servizi di uomini che molto hanno meritato. Poniamo una questione molto più grande: la questione dell’avvenire del nostro Paese e del nostro esercito, che vogliamo forte, popolare e democratico, tre aggettivi di cui ciascuno non è che il corrispettivo degli altri due, tre aggettivi con i quali marcia sempre la vittoria. Non dimentichiamolo. Non lo dimentichi chi ha veramente a cuore le sorti delle nostre Forze armate e del Paese. Non lo dimentichi il Governo. Soprattutto non lo dimentichi il nuovo Ministro della difesa, cui incombe, oggi, il compito della riorganizzazione e della unificazione delle Forze armate italiane, che devono essere e saranno il baluardo delle sorti della democrazia, della Repubblica e della Patria. (Approvazioni a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare, per fatto personale, l’onorevole Condorelli. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. L’onorevole Enrico Martino, occupandosi nel suo discorso di sabato del mio, del giorno precedente, crede di potermi attribuire una serie enorme di inesattezze, dice lui, in materia di epurazione, di sfollamento, di discriminazione di ufficiali.

Sebbene da alcuni anni a questa parte, quello delle Forze armate sia divenuto il campo di competenza specifica degli avvocati, tuttavia non mi meraviglierei se io, avvocato, e perciò competente per definizione in materia militare, avessi detto qualche inesattezza. Ma, per quanto abbia letto e riletto il discorso dell’onorevole Martino, non sono riuscito a convincermene.

La prima inesattezza sarebbe stata che io avrei affermato che i nostri ufficiali, reduci dopo due, tre, quattro anni di prigionia, si sono trovati di fronte a Commissioni civili, ossia a gente che era rimasta qui e che loro domandava conto della condotta tenuta nei G.U.F. E questa mi sembrava una tremenda irrisione.

L’onorevole Martino dice che questi giudizi di civili in rapporto ai militari reduci dalla prigionia non ci sono stati, ed allora io mi domando come hanno funzionato le Commissioni di epurazione. Che io sappia, le Commissioni di epurazione per gli ufficiali non sono state diverse da quelle per i dipendenti degli altri rami delle Amministrazioni dello Stato: un magistrato presidente, un rappresentante dell’Alto Commissario per l’epurazione, membro, ed un altro membro appartenente all’amministrazione.

È dunque profondamente vero quello che io dicevo, che cioè questi giovani, dopo aver dato il loro sangue, dopo aver passato lunghi periodi della loro giovinezza anche nelle lontane Indie, sono tornati in Italia e sottoposti a questi giudizi.

Sono possibili discussioni su questo punto? A mio avviso quelli che avevano così altamente testimoniato la loro devozione allo Stato, facendo cioè la suprema delle testimonianze, si potevano anche dispensare dai giudizi di epurazione.

Nell’altra guerra, i combattenti furono amnistiati perfino del reato di diserzione, e anche quelli che non erano stati combattenti ebbero condonata la pena, alcune volte dell’ergastolo, per diserzione.

A questi figliuoli, tornati dall’india o dall’Africa, non si è potuto condonare neanche un giudizio disciplinare, qual è il giudizio di epurazione. Altra cosa sarebbero stati i processi per reati militari, per tradimento, per passaggio al nemico, per aver portato le armi contro la Patria. Per questi reati non si chiedeva nessuna indulgenza, ma per i giudizi di epurazione, equamente, se non si fosse messa di mezzo la faziosità politica, si doveva fin da principio pronunziare una parola di pacificazione per i nostri soldati. (Approvazioni a destra).

L’altra inesattezza, e qui proprio non riesco a capire in che cosa consista, sarebbe stata l’aver deplorato che per gli altissimi gradi del nostro esercito, si siano costituite Commissioni miste, composte soltanto da tre generali, stemperati nel largo numero costituito dalla serie, non sempre illustre, dei Ministri e dei Sottosegretari di Stato alla guerra, cioè di sei civili contro tre militari.

Affermo che ciò è vero, e non vedo come non possa non esser vero, poiché tale legge è passata per la Commissione legislativa alla quale io appartengo. E poi, Ministro Facchinetti, la competenza di questa Commissione è stata allargata, senza ragione di sorta, ai generali di divisione e di brigata ed ai colonnelli.

Si dice: ma in fondo il Ministero poteva collocare a riposo questi ufficiali, sfollare i quadri in base ad un decreto. Sta bene. Ma se si sentiva il bisogno di una commissione, bisognava che fosse costituita in modo competente.

Comunque non capisco in che cosa possa consistere la inesattezza che io avrei detto. Potrà darsi che l’onorevole Martino pensi che i Ministri della guerra e gli ex-Ministri e i Sottosegretari alla guerra, e gli ex-Sottosegretari, tutti avvocati, fossero competenti a giudicare la capacità professionale di questi altissimi ufficiali. Lascio a lui la responsabilità di queste opinioni.

E se egli ritiene opportuno che fra questi giudici vi fossero Sottosegretari provenienti da partiti che pensano possa essere un titolo di benemerenza verso la Patria l’aver combattuto contro quegli ufficiali, io lascio a lui nuovamente la responsabilità di tale opinione. Ma non riesco a comprendere come si possa sostenere che io abbia detto delle inesattezze, perché la penso diversamente da lui. (Commenti a sinistra).

Poi egli mi attribuisce un tono pietoso verso gli ufficiali. Contro questo io protesto altissimamente, perché nei riguardi degli ufficiali d’Italia non ho che rispetto, alto e profondo rispetto: la pietà l’ho soltanto per gli italiani immemori. Dico pietà, perché il mio animo non sa concepire lo sdegno! (Applausi a destra).

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Sebbene io non intenda preannunziare in questa sede il programma del Governo circa il nuovo ordinamento delle Forze armate, posso accennare che gli studi sono già in uno stadio relativamente avanzato, e che in essi si potrà tener conto dei precedenti veramente ragguardevoli di quanto è stato fatto in Inghilterra e in America, dove da tempo l’unificazione è già un fatto compiuto.

Volontario dell’altra guerra, sento tutto il rispetto e l’affetto, direi, per i partigiani, e, figlio di garibaldino, non posso non ricordare il precedente storico italiano, cioè la immissione degli ufficiali meridionali garibaldini nell’Esercito nazionale dopo il 1860.

La questione sarà studiata senza nessuna prevenzione ostile, anzi con tutto l’amore.

Quanto ai sentimenti verso l’esercito, tutti coloro che hanno servito la Patria obbedendo alle leggi del tempo, meritano il più alto rispetto, e soprattutto un rispetto maggiore meritano quelli che hanno maggiormente sofferto. In questi sentimenti L’Assemblea non può che essere concorde. (Applausi).

PRESIDENTE. Desidero ricordare agli onorevoli colleghi l’opportunità che in sede di processo verbale si cerchi di restare nei limiti di tempo indicati dal regolamento. È bene tornare alla buona consuetudine per cui la parola sul processo verbale si limiti a questioni specifiche, anche se di carattere personale, altrimenti alle questioni più importanti messe all’ordine del giorno, è sottratto il tempo necessario per un’ampia discussione e buona parte della seduta viene invece impiegata a scopi che non sono quelli stabiliti.

Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo l’onorevole Malvestiti.

(È concesso).

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

È iscritto a parlare l’onorevole Lombardo Ivan Matteo. Ne ha facoltà.

LOMBARDO IVAN MATTEO. L’annuncio fattoci dall’onorevole De Gasperi circa la formulazione di «un piano di ricostruzione e di sviluppo per l’anno in corso» e dell’estensione di tale piano ad un periodo pluriennale, non può non trovarci consenzienti.

Vorremmo però ci si chiarisse che non ci s’intende riferire ad una specie di parte straordinaria. Riteniamo che anche la parte, dirò così ordinaria, della nostra economia giornaliera, sarà coordinata e guidata.

Il curioso aspetto della nostra vita economica di questo dopoguerra, è dato dal fatto che essa è costituita in un esperimento di liberismo disordinato, cui si è aggiunto – a maggiore confusione – un saltuario intervenzionismo statale.

La colpa è un po’ di tutti, nel Governo e nel Paese. Potremmo anche dilettarci a fare del liberismo puro, come se il nostro orologio si fosse fermato al 1914, ma le condizioni del Paese non lo consentono, pena la catastrofe.

L’Italia è allogata su questo pianeta.

Orbene, in questo mondo la maggior parte dei Paesi, e soprattutto quelli che hanno vinto la guerra e si sforzano di non perdere la pace, non fanno del liberismo: si va dalla minuziosa pianificazione dell’U.R.S.S. al più blando piano francese, al «Pean de Gobierno» Argentino; dalla programmazione laburista all’intervenzionismo statale riaffermato da Truman per gli Stati Uniti; dalle regolamentazioni dettate dagli occupanti nei Paesi d’Europa e d’Asia, alle funzioni di guida, da parte dello Stato, in altri Paesi Europei ed extra Europei.

Il nostro Paese non può sfuggire alla ferrea legge dell’interdipendenza economica delle nazioni.

Demolire la bardatura di guerra? Ma da noi queste hanno da tempo ceduto sotto la spinta della formidabile esplosione degli egoismi individualistici.

Se per nostra fortuna ciò non fosse accaduto, se avessimo potuto smantellarle ragionatamente, sostituendole con quelle indispensabili – più o meno transitorie – bardature di pace, oggi non osserveremmo con tanto palpitante preoccupazione la sorte della lira ed avremmo beneficiato più largamente della ripresa dei traffici internazionali.

So che vi è chi, come l’onorevole Corbino, non ama quelle diavolerie di uffici internazionali o «boards» che dir si voglia.

Ma è solo in virtù della loro esistenza che noi, ed altri Paesi poveri come il nostro, riusciamo ad avere una parte di quel prodotto che altrimenti, date le nostre condizioni non potremmo ottenere. Cereali, grassi, combustibili, materie prime fondamentali, vengono assegnate da quei «boards»; le magre risorse che da essi otteniamo, noi dovremmo centellinarle con parsimonia ed intelligenza.

Come possiamo fare del liberismo in queste condizioni?

Come potremmo svolgere una politica produttivistica non regolata, quando dipendiamo dagli altri Paesi, ove la realtà contingente in vigore è la pianificazione o la programmazione?

Mentre la nostra anemica economia è alimentata parcamente nel quadro di programmi o limitazioni internazionali, noi a tutt’oggi ci siamo comportati nella maniera più paradossale che si possa immaginare: sperperiamo beni preziosi in mezzo alla miseria generale del nostro Paese; lasciamo che l’estremismo degli interessi individuali si disfreni a suo piacimento; non siamo ancora riusciti ad organizzare una vita meno indecentemente sperequata tra i componenti di una stessa comunità.

Pertanto, non è solo la «ricostruzione e l’ulteriore sviluppo», ma è tutta la nostra attività economica nazionale che deve essere coordinata ed armonicamente guidata in tutti i settori.

Né le poche risorse nazionali, né la psicologia del nostro popolo, consentirebbero minuziose pianificazioni.

Ma di un piano che imposti la nostra politica produttivistica, che armonizzi tutta la materia economica, che ne coordini tutte le attività, che sia guida salvaguardia e pungolo per chiunque partecipi al processo produttivo noi abbiamo bisogno come un generale sul campo di battaglia ha bisogno di carte topografiche.

Contro i sostenitori della necessità di una regolamentazione insorgeranno magari coloro che della libertà si avvalgono esclusivamente per i propri interessi nazionali, salvo a chiedere l’intervento dello Stato, quando della libertà si debba pagare lo scotto: tra i casi tipici ricorderò quelli dei filandieri di seta e dei coltivatori di canapa.

Nessun produttore serio contesta la necessità di un piano.

Infatti che altro è se non della pianificazione, l’azione direttiva che un industriale esercita nei riguardi della propria azienda?

Per un’industria, sono in fondo, schietta pianificazione: gli acquisti predisposti in base ai mezzi finanziari; il rapporto tra produzione e possibilità di smaltimento dei prodotti; gli aumenti di capitale ed i prestiti bancari; la valutazione delle qualità e quantità di merci da acquistare, delle scorte da accumulare, delle attrezzature da aggiornare; la fissazione dei prezzi di vendita, l’investimento degli utili, lo studio dei mercati di sbocco per i manufatti prodotti.

Se questo fanno i singoli, come può lo Stato rifuggire dalla responsabilità di coordinare l’attività complessiva della collettività cui esso è preposto?

Vi è chi paventa danni per l’iniziativa privata, ma si dimentica che questa, che sa compiere mirabilia, obbedisce ovviamente alle direttive di un suo proprio esclusivo interesse, che non sempre corrisponde all’interesse della collettività.

Vi sono due tipi di iniziativa privata: quella sana che produce, che si propone obiettivi di successo, che persegue con tenacia ed intelligenza. Ed essa ha bisogno di tranquillità e di ordine: valutario, finanziario, monetario, economico e sociale.

Ma vi è anche quell’altra iniziativa privata, che definirò spuria, che trae vantaggi solo dal disordine e dall’inquietudine, e che è quella che di solito si agita istericamente.

Senonché, è proprio essa che rende irraggiungibile l’ideale di quella sana. Infatti, violazione di regole, operazioni disordinate, giochi di borsa, speculazioni su merci accaparrate od imboscate od esportate clandestinamente, avido sfruttamento del mercato, scuotono le fondamenta sociali, creando uno stato di profondo disagio e di miseria che, a loro volta, generano insofferenza.

La prima vive e prospera onestamente del proprio lavoro; la seconda, incapace di vita autonoma, usa alle possibilità dei colpi di mano, avvezza ai privilegi, abituata agli aiuti ed alle sovvenzioni, è quella che minaccia sempre d’assalto la diligenza statale.

Ne sa qualcosa il Tesoro che geme sotto la richiesta di interventi appoggiati talvolta con tecnica furbesca, persino con il peso delle proprie maestranze organizzate, ricattate con lo spauracchio della disoccupazione.

L’impossibilità di accogliere le pretese, assurde anche nelle questioni più modeste, viene sempre denunciata come attentato alla privata iniziativa.

Si chiede, ad esempio, di sopprimere le licenze di circolazione automobilistica, esigendo la libertà assoluta, il che non può essere concesso perché importiamo solo il 60 per cento del carburante necessario.

Viene ribadito: limitate la circolazione solo con la carta dei carburanti.

È chiaro che così facendo si apre un vasto campo ad iniziativa privata che farà il traffico nero delle carte stesse e sottrarrà – in virtù dell’alto prezzo che può pagare – benzina ai trasporti, all’agricoltura, alle macchine militari.

Ci si lagna che non sia concesso all’iniziativa privata di risolvere essa la crisi del carbone, concedendole le licenze di importazione. Si risolverebbe solo la crisi del riscaldamento di chi è in grado di spendere, perché il combustibile così importato, andrebbe solo a questo impiego, il più redditizio in fatto di lucro.

Ma il «plafond» massimo concessoci dall’E.C.O. è di 690.000 tonnellate il mese, e qualsiasi licenza di importazione viene scalata da quel quantitativo.

Accadrebbe in tal caso che le fondamentali esigenze delle ferrovie dello Stato, degli ospedali, delle officine gas, delle industrie, verrebbero menomate a causa di un uso del combustibile che è ultimo nella scala delle priorità. Per tale ragione le superiori esigenze della vita collettiva debbono imporsi agli interessi privati.

Solamente una disciplina intelligente può consentire l’uso razionale del poco che possediamo o che ci possiamo procurare.

Abbiamo una grandissima deficienza di fonti di energia (elettricità, combustibili, solidi, carburanti). Possiamo noi sperperarli, rinunciando ad assicurare quel minimo di servizi e produzione che condizionano la vita di tutto un popolo? Certamente no!

Altrettanto dicasi delle materie prime, dei semilavorati, di buon numero di prodotti.

Questa premurosa preoccupazione è anche l’unica salvaguardia dell’attività della sana iniziativa privata.

Essa del resto è prospera soprattutto in quei Paesi ove, in questo dopoguerra, è ancora in piedi l’intelaiatura che inquadra ed armonizza il processo produttivo, che non è stato scompaginato da un disordine anarchico.

Abbiamo citato il carbone che riceviamo in misura del 50 per cento del nostro fabbisogno. È ammissibile che l’assegnazione che viene fatta ad un’industria siderurgica che produce lamiera, possa consentire ad essa di destinare il proprio prodotto alle carrozzerie di auto fuori serie per il mercato interno, anziché fornire la lamiera alla ricostruzione del materiale ferroviario o del naviglio mercantile?

Disponendo di un limitalo quantitativo di combustibile per il settore vetrario, preferiremo assegnarne ad una soffieria di flaconi da profumo, o non piuttosto ad una fabbrica di vetro in lastre?

Ma una programmazione non può far riferimento solo alle assegnazioni di energia o di merci. Dovrà prendere in esame anche il problema del riordinamento di interi settori della nostra economia; dovrà orientare l’agricoltura e spingere il nostro apparato industriale ad una razionale riconversione.

Sino ad oggi poco o nulla è stato fatto, anche perché, sino alla presentazione del Trattato, si poteva temere che ci venissero imposte limitazioni e determinate produzioni. Per fortuna, almeno questo ci è stato evitato!

Ciò non significa però che, come in sede politica il nostro sforzo sembra sfociare nella ricostruzione dell’Italia prefascista, si possa in sede economica indulgere a restaurare l’Italia fascista. Vi sono ancora in giro troppe nostalgie autarchiche e corporative!

Dobbiamo avere il coraggio di approfittare dello stato di non ancora avvenuta normalizzazione della nostra economia, per sopprimere senza pietà ciò che vi è di pletorico, di parassitario, di innaturale nel nostro apparato produttivo. Industrie passive che vivono alle spalle dello Stato, o che possano prosperare solo in virtù di privilegi, sono un peso morto da perdere per strada.

Per il Tesoro dovrebbe essere problema più angoscioso l’esser costretto a sperperare somme enormi per tenere in piedi costosi e dannosi baracconi, che non il provvedere ad assistere con adeguati sussidi i nuclei di lavoratori che potrebbero rimanere temporaneamente disoccupati.

Bene ha fatto il Governo in questi ultimi tempi ad impostare il problema della necessità che, quale corrispettivo di finanziamenti concessi dallo Stato, a questo venga almeno assicurata adeguata partecipazione nelle aziende soccorse.

Anche per la nostra agricoltura dovremo indirizzare l’attenzione verso gli sviluppi mediati e lontani.

All’estero, in Paesi capitalistici, si stanno elaborando piani quinquiennali e decennali, per adeguare la produzione al prevedibile consumo, per impostare una politica di prezzi stabili, allo scopo di evitare aspetti di crisi ricorrenti.

Vi è un orientamento a pianificare su basi mondiali, la produzione di prodotti chiave: cereali, grassi, carni.

Nel Canadà, ad esempio, già a far tempo da quest’anno, si sono impartite disposizioni per la riduzione della superficie coltivata a grano. Si pensa lassù che si passerà rapidamente dalla carestia all’eccedenza di produzione.

Noi ci dobbiamo preoccupare fin da ora della nostra produzione agricola nel quadro di un mondo in completa trasformazione, studiandone l’inserimento nell’economia mondiale. Oggi i nostri prezzi sono eccessivamente elevati; domani, per la nostra economia agraria potremmo subire la conseguenza di un processo opposto che potrebbe essere catastrofico, se non antiveduto a tempo.

Per alcune nostre produzioni caratteristiche, si preannunciano tempi difficili: i nostri agrumi sul mercato inglese si scontrano non solamente con le produzioni spagnole e palestinesi, ma persino con quelle giapponesi e californiane.

Per la seta, nonostante la riduzione della produzione giapponese, vi è da temere fortemente la trionfale, ed io ritengo anche duratura, affermazione del nylon.

I nostri prodotti ortofrutticoli avevano un mercato di primo ordine nel centro di questa Europa impoverita. Legumi e frutta significavano per noi carbone.

Vi sono zone agricole sovraffollate di mano d’opera che difficilmente potrà essere riassorbita in una totale occupazione.

Non vi è da contare, a parer mio, sulle migrazioni interne, né sulla possibilità di dare a queste masse, razionale e non aleatorio lavoro in loco.

È la paura della fame che induce le risaiole a manifestazioni di «luddismo» contro le macchine trapiantatrici di riso! È la paura della fame che suggerisce in certe zone di stipulare contratti agricoli che impongono l’uso del falcetto anziché della falce fienaia. Sarà una cosa enorme da un punto di vista di razionalità, di progresso tecnico, di economia di costi, ma è una difesa umana contro la fame che è disumana!

Occorrerà perciò incoraggiare anche la emigrazione volontaria, ma soprattutto organizzare l’espatrio, specialmente verso quei Paesi che possono saziare la fame di terra dei nostri contadini.

Occorre pensare in tempo all’influenza che piani e accordi internazionali potrebbero avere su certe nostre zone ove sono state forzate colture anti-economiche nell’ultimo ventennio! Bisognerà indicare l’utilità di altre colture, redditizie per l’economia nazionale e per il coltivatore.

Si tratta di problemi strettamente concatenati che non possono venir lasciati al caso o abbandonati alle empiriche iniziative dei singoli, senza il conforto di un tempestivo indirizzo e di una oculata guida.

Né, di fronte alla complessità dei problemi ed all’influenza che su di essi hanno i riflessi internazionali, possiamo cavarcela, decidendo di chiuderci nel nostro guscio!

Nonostante che in taluno sopravviva ancora la mentalità che tenderebbe a chiudere la porta di uscita a merci ed uomini, e quella di entrata a merci e capitali, l’Italia non può isolarsi, anzi deve tendere a moltiplicare i propri traffici con il resto del mondo.

Se esaminiamo le cifre dei nostri traffici, paragonando tra loro le medie semestrali, per esempio del biennio 1937-38 con quelle del primo semestre 1946, ci rendiamo subito conto di profondi mutamenti, alcuni dei quali sono indubbiamente transitori, mentre altri sembrano avere un aspetto duraturo.

Per le nostre importazioni vi è il gran vuoto dell’Europa continentale. Qualche miglioramento segnano per quella settentrionale.

Dall’Europa balcanica e nord-orientale, che ci fornivano complessivamente il 9 per cento delle nostre importazioni (cadute ora a meno del ½per cento), per un certo tempo potremo probabilmente ricevere solo quelle materie prime che dovremo lavorare per conto o per produrre quanto dobbiamo fornire a titolo di riparazione.

Le esigenze della ricostruzione di quei Paesi devastati dalla guerra e la tendenza all’industrializzazione in alcuni di essi, assorbiranno larghissima parte delle materie prime disponibili.

Dagli Stati Uniti abbiamo importato il 67 per cento contro la media pre-bellica del 12 per cento. Fattori contingenti hanno favorito il fenomeno; tuttavia io ritengo che per alcuni anni avvenire, non fosse altro per prodotti alimentari, per il cotone ed il carbone, le cifre dei nostri acquisti negli Stati Uniti saranno superiori alle medie prebelliche.

Dobbiamo perciò cercare altre fonti di approvvigionamento, tenendo presente che i mezzi di pagamento sono dipendenti dalla esportazione, il cui quadro è quanto mai fosco. Le cifre certamente non ci confortano: 345 milioni di dollari di media semestrale nel 1937-38; 82 milioni di dollari nel primo semestre 1946.

Dobbiamo tener conto che le Colonie assorbivano quasi un quarto delle nostre esportazioni; che quelle che dirigevamo verso l’Europa Nord-orientale e Balcanica, che erano in totale l’8 per cento, saranno sì di maggior mole, ma praticamente costituite da forniture in conto riparazioni e da lavorazioni per conto; che per il mercato statunitense le nostre esportazioni si stabilizzeranno probabilmente attorno al livello prebellico.

Dobbiamo perciò cercare sfoghi alla nostra produzione, avendo presente che dobbiamo vincere due gravissime difficoltà: l’impoverimento generale dell’Europa ed i rapidi progressi di industrializzazione in zone che erano un tempo nostri mercati tradizionali.

Questo esame non mi sembra inutile per richiamare l’attenzione del Governo su tre ordini di esigenze fondamentali:

1°) una politica estera di amicizia con tutti i Paesi, non fosse altro perché dobbiamo allacciare rapporti di scambio con tutti.

Il Ministro degli esteri dovrà svolgere un’attività sostanzialmente economica volta a procurarci ottime intese commerciali; ed in proposito vorrei richiamare la sua attenzione sulla qualità di alcuni nostri addetti commerciali che non mi sembrano essere all’altezza della situazione;

2°) la necessità di attrezzarci rapidamente per produrre il massimo possibile, svolgendo nel contempo una politica di compressione dei nostri prezzi. La congiuntura favorevole per noi sui mercati mondiali sta tramontando; già vi si avverte la tendenza alla normalizzazione;

3°) l’inderogabile necessità di moltiplicare energie e sforzi per raggiungere prestissimo una meta fondamentale che, del resto condiziona le altre: ottenere che le «allocations» di carbone e le quote che potessero venirci concesse «extra allocation», ci consentano di poter importare almeno 900.000 tonnellate-mese, e possibilmente di miglior qualità e con minor gravame di nolo.

Consentitemi di aggiungere di sfuggita che approvo in pieno l’esigenza accennata dall’onorevole Tremelloni: se in altri Paesi vi è un Ministero dei combustibili perché noi, che siamo tra i più poveri in fatto di fonti di energia, non dovremmo coordinare tutta questa materia che condiziona la vita di tutto il Paese, in un organismo unico che possa svolgere azione armonica?

Attualmente tutta la materia che riguarda l’energia elettrica, i combustibili solidi e quelli liquidi è frazionata in un miriade di Ministeri, Enti, Comitati.

Ritornando ad esaminare la nostra posizione di Paese che non può essere avulso dal resto del mondo, vi è da osservare che la sola analisi della nostra bilancia commerciale, detta al Governo essenziali linee di politica ed al Paese maggior sensazione del pericolo incombente e perciò maggior senso di responsabilità.

Si prendano in considerazione il nostro fabbisogno e le previsioni per il 1947.

Di queste a me sembra più attendibile quella che, partendo dal presupposto di assicurare un minimo di 2000 calorie per il nutrimento ed uno stadio di ripresa industriale all’85-90 per cento, fissa le nostre importazioni sui 1500 milioni di dollari (di cui 450 per gli alimentari ed i prodotti agricoli, 980 per le materie prime per le industrie ed i trasporti, 100 per materiali vari).

Lo scoperto è pauroso.

Le nostre esportazioni si prevedono al massimo in 500 milioni di dollari; si prevede che noli, turismo e rimesse degli emigranti produrranno attorno ai 240 milioni.

Quest’anno, tra residui delle forniture U.N.R.R.A., accrediti in dollari sulla paga truppe, prestito dell’Export-Import Bank potremo coprire circa 320 milioni.

Rimane uno sbilancio di circa 500 milioni di dollari.

Come colmarlo? Non certo rinunciando a parte delle importazioni, perché ciò si potrebbe ripercuotere gravemente sulla situazione alimentare, sull’occupazione operaia, sulla ripresa industriale; per di più aprirebbe un altro vuoto, riducendo le nostre esportazioni! Questa situazione dovrebbe far riflettere tutti coloro che decretano l’ostracismo contro gli investimenti di capitale straniero; i quali non ci possono allarmare quando ci si garantisca della nostra indipendenza economica, con opportune cautele!

Non credo ci sia lecito farci soverchie illusioni su prestiti da Stato a Stato; sono assai più probabili gli investimenti di carattere privato.

L’esame della situazione ora fatta dimostra che il Governo, e per esso i partiti che vi sono rappresentati, debbono impostare una politica che tenga conto della realtà obiettiva. Solo da questa si deducono le linee direttive da seguire per l’elaborazione del piano pluriennale. I problemi monetari e quello delle valute, quello della stabilizzazione dei prezzi, del potenziamento delle esportazioni, dello sviluppo mediante acquisti e nuove costruzioni del naviglio mercantile, della necessità di incoraggiare l’emigrazione, di agevolare il turismo e via dicendo, sono tutti strettamente dipendenti da quella situazione.

Le nostre difficoltà si curano soprattutto producendo di più e meglio ed a più buon mercato. Per far ciò occorre elevare al massimo i nostri rendimenti, ridurre al minimo i profitti, comprimere drasticamente i consumi non indispensabili.

Solo operando in questo senso, possiamo influire non solo tecnicamente, ma anche psicologicamente, sui prezzi e sulla moneta.

Il rendimento è troppo basso, anche perché vi è troppa gente che non lavora o che traffica solamente o che è impegnata in processi scarsamente produttivi.

Il basso rendimento è causato assai spesso da ragioni fisiologiche di insufficiente nutrizione, ma è frutto anche di motivi psicologici proprî di ogni dopoguerra. Occorre reagire fortemente contro questo andazzo.

Nel presente stato dell’economia italiana, chi ci rimette è solo la collettività, cioè ciascuno di noi, cioè anche colui che lavora meno di quanto potrebbe e dovrebbe fare.

Di grande importanza è l’assicurare il clima di interessamento e cooperazione ai problemi della produzione, da parte dei lavoratori.

Il Governo ci ha assicurato che verrà discusso il progetto Morandi sui Consigli di gestione. Speriamo che questa sia la volta buona!

Speriamolo nell’interesse della produzione che ha tutto da guadagnare dalla partecipazione attiva dei lavoratori all’indirizzo dell’impresa, dal contributo di esperienza che essi possono portare, dal senso di responsabilità che a loro può derivare quando acquisiscano una nozione diretta delle difficoltà dei problemi della produzione.

Io conosco l’esperienza di fatto di due Consigli di gestione esistenti da circa un anno e mezzo in un fortissimo gruppo tessile con 7 stabilimenti e 10.000 operai, ed in un grande gruppo metalmeccanico che ha 5 stabilimenti, di cui uno con ben 15.000 operai e gli altri con 5.000 unità.

Si tratta di un’esperienza altamente sodisfacente, a detta degli stessi proprietari e rappresentanti del capitale, e vi assicuro che non si tratta di «rossi»!

I due esperimenti dimostrano che è possibile creare un clima di mutua fiducia, di buona volontà, di sempre maggiore efficienza tecnica.

Là dove il datore di lavoro ha l’intelligenza che soverchia il gretto spirito tradizionalista e conservatore, là un nuovo clima si forma favorevole alla collaborazione e, perciò, all’incremento ed al perfezionamento della produzione.

Come sorrideremmo di un industriale che non sostituisse il macchinario solo perché ereditato, quando si dimostrasse sorpassato, così possiamo sorridere di coloro che vogliono conservare schemi di rapporti sociali vecchi e sorpassati.

Il progetto Morandi deve essere finalmente varato.

Sono peraltro scettico circa l’opportunità propugnata da altro oratore, che vorrebbe che ai Consigli di gestione venisse devoluta la materia della fissazione dei prezzi. Sono indotto a temere che il consumatore, lungi dal trarne beneficio, finirebbe col rimetterci. Dovendo limitare i consumi al minimo indispensabile e deprimere tenacemente quelli di lusso, per destinare tutto l’esportabile all’esportazione, si propone il problema della convenienza o meno del tesseramento generale da estendere alle calzature ed ai prodotti tessili. Non credo che questa proposta si concili con la nostra situazione.

Per consentire a tutta la popolazione italiana il consumo prebellico medio di due chilogrammi di cotonate, uno e mezzo di prodotti lanieri e mezzo paio di scarpe a testa, dovremmo importare – per destinarlo al solo consumo interno – novanta milioni di chilogrammi di cotone, sessanta di lana, venticinque di pelli. In più, naturalmente, le importazioni di prodotti sussidiari.

D’altra parte vi è il problema del fabbisogno delle classi meno abbienti, ma a questo si può e si deve provvedere con il programma dell’U.N.R.R.A. tessile.

Al Ministro dell’industria raccomandiamo vivamente di accelerare la produzione, per poter sollecitare l’assegnazione e la distribuzione di quei manufatti. Ho notato che queste hanno avuto inizio per le cotonate, ma temo ritardi con la produzione laniera. Se vi sono ritardi non imputabili a ragioni obiettive, bensì dovuti a riluttanza di industriali ad impegnarsi in lavorazioni che non consentono profitti speculativi, intervenga il Governo, applicando quegli «incisivi provvedimenti» che l’onorevole De Gasperi nelle sue dichiarazioni in occasione del suo secondo Ministero, assicurò avrebbe adoperato verso i riottosi.

D’altronde gli industriali dovrebbero avere il senso realistico di considerare che essi non possono sfuggire a questa necessità, che questo programma deve, giocoforza, essere inflessibilmente realizzato, perciò più presto si cavano questo dente meglio è!

Per l’anno in corso non vedo altra possibilità all’infuori di queste distribuzioni, parte gratuite e parte a prezzi di vero buon mercato, che tuttavia consentono di assegnare a 25 milioni di persone 5-6 metri di cotonate ed un taglio di tessuto laniero a testa, e di assegnare calzature a 6 milioni di persone.

Il sottrarre all’esportazione gli altri prodotti tessili, che ne costituiscono la principale voce attiva, sarebbe un enorme errore.

Né vale l’argomento degli attuali profitti, di quest’industria, che ben a ragione si possono definire enormi, perché sarebbe ingenuo da parte nostra rinunciare al vantaggio offerto, per poco tempo ancora, dal consumatore straniero alla nostra industria.

Tanto meglio per il fisco che, potenziato ed affinato nei suoi strumenti di accertamento e riscossione, come ce l’ha descritto l’onorevole Scoccimarro, consentirà al Ministro delle finanze di impinguare le Casse del tesoro.

È tanto grande il bisogno dello Stato, che vi è da augurarsi che i contribuenti siano numerosissimi e doviziosissimi.

Il nuovo Ministero che, dopo l’esposizione del Ministro delle finanze uscente, sembrava desolato che non gli restasse alcuna benemerenza da acquisire, stia pur tranquillo! Egli ha ancora, e largamente, la possibilità di rendersi benemerito del Paese. Dagli accidenti che gli scaraventeranno i contribuenti, si giudicherà dall’efficacia della sua azione fiscale!

D’altronde gli stessi contribuenti – che come tali sono relativamente… disoccupati da parecchi anni – pur strillando a perdifiato, sanno in cuor loro che la loro torchiatura significa la salvezza della moneta.

Da una inflazione rovinosa che sconvolgerebbe il Paese, solo i ceti capitalistici riuscirebbero a non essere travolti, mentre i lavoratori e la piccola e media borghesia ne sarebbero le infelici vittime.

Al nuovo Ministro chiediamo di non perdere di vista certi profitti dell’attuale congiuntura. Tien conto il Ministero delle finanze di sopraprofitti che derivano, per esempio, da situazioni come quella della importazione di cinque milioni di chilogrammi di lana a valere sull’accordo commerciale italo-belga?

Vi è un sopraprofitto potenziale di due miliardi di lire che scaturisce dalla differenza tra le quotazioni del prodotto belga, convertito in lire, e la quotazione sul mercato interno della lana d’altra origine.

Il Ministro dovrebbe incaricare il suo più intelligente funzionario (anche se non il più illustre) di partecipare alle riunioni per le trattative commerciali, a quelle che hanno luogo al Ministero del commercio estero ed al Commissariato dell’alimentazione per la ripartizione dei contingenti d’importazione.

Occorre evitare che il minor costo dei prodotti, se non dia garanzia di ripercuotersi in riduzione di prezzi sul mercato interno, costituisca un illegittimo e non sudato beneficio di ristretti gruppi o di interessi individuali. È meglio che ne tragga beneficio lo Stato!

Ma il meccanismo che si dovesse escogitare per assolvere a questa esigenza non sia pesante, elefantiaco, burocratico, insomma, perché ne otterrebbe effetto opposto.

Non si ripeta, per esempio, il caso del rame «wire-bars» importato che, in virtù di uno «sfioramento» del Tesoro, veniva a costare di più di quello disponibile all’interno, talché gli assegnatari non lo ritirarono per parecchio tempo!

Consenta il Ministro di ricordargli che quanto più accelererà l’accertamento e la tassazione dei profitti di regime, di guerra e di congiuntura, tanto maggiori saranno i benefici effetti, anche psicologici, che se ne otterranno.

Occorre togliere di mezzo al più presto possibile questo motivo di giustificata lagnanza da parte dei lavoratori!

Ed a proposito di profitti di guerra e di congiuntura, chiediamo al nuovo Ministro di chiarire (quando avrà occasione di fare un’esposizione sulla situazione del suo Dicastero) se nell’accertamento di quei profitti si tenga conto di certe enormi locupletazioni che si sono rese possibili in seguito alle disposizioni contenute in una circolare del 3 ottobre 1943 del Commissario alla produzione bellica e di un’altra circolare dell’8 settembre 1943 dell’Ispettorato delle dogane. Si tratta di moltissimi miliardi che costituiscono ingiustificabili sopraprofitti.

Contiamo che venga presentata in breve tempo l’imposta straordinaria sul patrimonio, e risolta la vexata quaestio del cambio della moneta.

È bene che ambedue le questioni abbiano una sollecita soluzione, giustificata del resto dal fatto che se ne continua a parlare, solo a parlare, con i conseguenti effetti dannosi per l’economia e che così facendo, o meglio non facendo, ci siamo lasciati alle spalle il periodo più favorevole al successo di queste due operazioni.

Nel quadro della difesa della lira e della stabilizzazione della moneta, ci sembra che debba essere riveduta tutta l’impostazione della materia che ha dato origine al provvedimento che consente l’utilizzo del 50 per cento della valuta a beneficio dell’esportatore.

Dopo un’impostazione di sapore liberistico, quale quella dell’adeguamento della lira al dollaro in ragione del 125 per cento di aumento, siamo passati ad un esperimento intervenzionistico, giustificato da alcune sfasature dei nostri prezzi interni, ma promosso soprattutto in seguito alla pressione degli interessi di alcuni gruppi.

Non è questa la sede per ripetere, ampliandole, le critiche che sono state mosse a tempo contro le due impostazioni. Ambedue i provvedimenti contribuirono all’inflazionamento dei prezzi interni, anche se in alcuni settori incrementarono le nostre esportazioni.

Ma il secondo provvedimento (anche se da parte del Ministero del commercio con l’estero si è tentato di limitare i danni che causava) ha già avuto tutte le spaventate spiacevoli conseguenze per l’economia del Paese. Vi è stato dapprima l’allineamento di tutti i prezzi verso un massimo denominatore; si è avuto spesso un drenaggio economicamente assurdo di merci; i realizzi di prezzo arbitrari imposti alle merci importate con la valuta a disposizione, hanno avuto ampio effetto inflazionistico; speculazioni e frodi di ogni genere sono fiorite e continuano alla più bella, consentendo evasioni di capitali ingentissimi.

Ma il risultato odierno è che i prezzi sono enormemente inflazionati e per molti prodotti vi è chi accenna già alla necessità di elevare la percentuale a disposizione degli esportatori, ma, soprattutto, si debbono constatarne le nefaste ripercussioni sugli accordi commerciali col regime del «clearing», accordi commerciali che stanno tutti saltando.

Recentissimo il caso dell’accordo italo-francese stipulato da poco e che non funziona proprio a causa di questa situazione!

Si era elevato il dollaro a 225 lire per non dover incappare nel sistema dei cambi multipli. Con la cessione del 50 per cento di valuta si sono avuti tutti gli svantaggi e nessuno dei vantaggi dei cambi multipli!

Preghiamo il Ministro del tesoro e delle finanze di chiarirci – quando ci farà le sue comunicazioni – quale impiego si faccia dei fondi U.N.R.R.A. Se non vado errato, dovrebbero assommare a 70 miliardi, anche se tuttora se ne sono incassati – mi pare – solo 30, che sarebbero destinati ad opere sociali a beneficio del popolo italiano.

Cosa è stato fatto sinora? Quali somme sono già state impiegate? Quanto si prevede di spendere e per quali opere? Non si ritiene opportuno di coordinare anche questa materia nella programmazione generale?

Ora che il Presidente del Consiglio ha la possibilità di dedicare ampio tempo al coordinamento dell’attività dei vari Dicasteri, ci auguriamo una maggiore organicità della nostra vita economica. Occorre soprattutto evitare che l’azione di ogni Ministero si esplichi in compartimenti stagni, quasi ciascuno fosse terribilmente geloso delle proprie competenze. Occorre evitare che le varie Amministrazioni dello Stato possano essere in disaccordo fra di loro.

Non si può, per esempio, pensare di ripartire i prodotti nazionali, seguendo il criterio della Commissione e delle Sottocommissioni dipendenti dal Ministero dell’industria, mentre il Dicastero del commercio estero vorrebbe ripartire i prodotti d’importazione seguendo i criteri delle Camere di commercio.

I prodotti caduti sotto la competenza del Commissariato all’alimentazione e che debbono essere trasformati industrialmente, debbono essere ripartiti secondo direttive del Ministero industria e commercio.

Invochiamo inoltre una larghissima pubblicità alle ripartizioni ed assegnazioni fatte da qualsiasi Dicastero od Ente dipendente dallo Stato.

Si pubblichino tali notizie, come faceva il C.I.A.I. di Milano, su apposito notiziario dandogli ampia diffusione. La pubblicità di questi dati, oltre a consentire la correzione di eventuali errori, servirà a moralizzare molte operazioni, a sfatare leggende sulla corruttibilità di certi ambienti, impedirà casi di corruzione là dove veramente avvengono; contribuirà a sgomberare finalmente gli ambulacri ministeriali dai venditori di fumo, procacciatori, sollecitatori e scocciatori d’ogni risma.

Maggior copia di informazioni verranno date al Paese e più facile sarà ottenere il concorso ed il consenso di tutti.

Anch’io debbo insistere perché non solamente i dati del Tesoro vengano forniti tempestivamente, ma anche quelli della produzione e dei nostri scambi con l’estero.

Raccomandiamo anche noi di potenziare l’Ufficio centrale di statistica. Verrà pure il momento nel quale ci dovremo decidere a fare un inventario dei nostri beni strumentali, delle nostre scorte, della nostra produzione; il censimento della nostra popolazione ed un’analisi della composizione della nostra mano d’opera; un censimento della nostra ricchezza. Non si fanno piani senza inventario!

E quando dalla nebulosa enunciazione di indirizzi e di politica, non basati su dati di fatto consistenti, si scende finalmente all’esame delle cifre aride, semplici ma incontrovertibili, occorre arrendersi all’evidenza.

La pianificazione esclude qualsiasi demagogia!

Dal Governo non possiamo attenderci miracoli, ma ci attendiamo che i problemi della vita del popolo italiano vengano tutti affrontati, quali per essere risolti subito, se ciò è possibile, quali per studiarne d’urgenza le soluzioni, quali per venire impostati nel quadro dell’annunciata pianificazione pluriennale.

Vi è ad esempio il problema della casa, angoscioso, tragico problema. Bisogna ricostruire 5 milioni di vani distrutti o semi distrutti. So anch’io che non è un problema che si risolve con facili enunciazioni! Cinque milioni di vani, che ai costi odierni significano 800-900 miliardi, non si costruiscono riferendosi al po’ di calce, alle pietre là dove ve ne sono, ed ai disoccupati genericamente citati.

Esperti potranno indicare quali provvidenze escogitare e come finanziare la ricostruzione, perché non è un piano finanziario dire che si prendono i soldi dove ci sono; ci diranno i tecnici su quanta mano d’opera di muratori si possa contare, e su quanti materiali. Su quella traccia e con quei dati va impostata la soluzione del problema, che è urgentissimo.

Oltre ai 5 milioni di vani da ricostruire, vi è il problema dei 6 milioni di vani che mancano all’indispensabile fabbisogno italiano. Ai prezzi d’oggi 2.000 miliardi!

È chiaro che la proprietà edilizia non ha incentivo per mettersi a costruire, anche perché l’attuale basso tenore di vita della massima parte del popolo italiano non riuscirebbe a pagare i canoni di affitto che ne deriverebbero. Ma, ammesso per un istante che vi fosse la possibilità finanziaria, sarebbe necessario procurarsi i materiali e la relativa mano d’opera specializzata.

È evidente che tutto ciò non potrebbe avvenire in uno stesso periodo; i costruttori si contenderebbero tra loro, e contenderebbero gli altri settori della ricostruzione, i muratori, i carpentieri, gli specializzati; la calce, il cemento, i laterizi, il tondino di ferro, il legname… I prezzi salirebbero alla stratosfera!

Ma è necessario subito studiare il problema e ravvisare le soluzioni che si prospettano, anche perché la materia del blocco dei fitti, degli eventuali svincoli graduali e della loro entità non può prescindere dalla povertà del reddito individuale della massima parte degli italiani, dagli sviluppi e dai tempi della ricostruzione, dalla politica degli investimenti.

Ecco un altro campo che esige di essere strettamente coordinato e programmato, anche per esser di guida all’iniziativa privata.

Nell’ambito della disponibilità dei mezzi di tesoreria, delle materie prime e dei trasporti disponibili, si inquadreranno le attività dei lavori pubblici.

Sappiamo ormai per esperienza che con questa attività non potremo curare che una parte del fenomeno della disoccupazione. Un’occupazione totale della mano d’opera disoccupata, basata esclusivamente sui lavori pubblici, è un progetto irreale che rimane sulla carta.

Qualche cosa si può fare subito. A mio parere, bisogna:

1°) accertare il reale numero dei veri disoccupati, censendoli in modo da accertare esattamente le categorie di appartenenza;

2°) iniziare subito e sviluppare rapidamente uno sforzo grandioso di portata nazionale di creazione di scuole di educazione professionale, corsi di qualificazione e riqualificazione. Ho detto «iniziare subito», perché si ha l’impressione che questa essenziale opera di valorizzazione della nostra mano d’opera proceda con il rallentatore. È vero che da circa due mesi non è ancora stata decisa la competenza del Dicastero che se ne dovrebbe occupare? L’onorevole Presidente del Consiglio dovrà intervenire affinché, qualunque sia il Dicastero, quello del lavoro o quello della pubblica istruzione, non si perda un giorno di tempo.

Agli inizi si dovrà provvedere ad istruire professionalmente ed a riqualificare la nostra mano d’opera in quelle due o tre specializzazioni delle quali si avverte sin d’ora una preoccupante carenza. Poi tutto il problema dovrà essere affrontato, inquadrandolo nelle esigenze del piano pluriennale per evitare che si creino scompensi troppo gravi.

La creazione di corsi e la rieducazione professionale potrebbero aver luogo anche presso arsenali ed officine militari attualmente inattivi in tutto o in parte. Ho la convinzione che alcune grandi aziende, che sono particolarmente interessate a crearsi della mano d’opera altamente qualificata, potrebbero collaborare efficacemente con il Ministero preposto a quest’opera di estremo interesse nazionale;

3°) elevare il sussidio giornaliero a beneficio degli autentici disoccupati e di coloro che frequenteranno con assiduità i corsi;

4°) non perdere alcuna occasione favorevole d’emigrazione individuale e collettiva. Bisogna agevolarla con tutti i mezzi. Dopo tutto, oltre a dare prospettive più rosee a molti connazionali, l’emigrazione alleggerisce il Tesoro dalle erogazioni per sussidi, fa ricadere su economie di altri paesi il mantenimento dei nostri espatriati, crea la possibilità di incremento nel flusso delle rimesse.

Per il resto occorre contare soprattutto sulla ripresa economica per l’assorbimento di una parte della mano d’opera disoccupata e su quei verosimili e fattibili piani di lavori pubblici, che non siano impostati su premesse miracolistiche e inattuabili, e che siano concepiti con criteri non ostici all’economia, cioè possano produrre ricchezze e non sperperarne senza beneficio per la collettività.

Il problema degli alimenti, fondamentale esigenza della vita fisica delle masse, e quello dei prezzi, che è così strettamente concatenato, specialmente oggi in cui il costo della alimentazione, che nell’anteguerra assorbiva il 55 per cento del reddito nazionale, pare ne assorba il 90 per cento, sono senza dubbio le due più gravi preoccupazioni.

Soluzioni integrali ed ottime, da applicare con decreti toccasana, non ve ne sono.

Vi è un’azione a largo raggio, connessa con tutto il risanamento della nostra economia, e che rientra nel quadro più vasto del coordinamento della programmazione generale. Vi è anche necessità di maggior austerità di vita da parte delle classi abbienti ed uno sforzo di autodisciplina e di comprensione da parte di tutti.

Il venditore di «zigrinate» all’angolo della strada non può pretendere di svolgere impunemente il proprio commercio ed esigere nello stesso tempo che si provveda ad impedire lo sconcio della borsa nera per il pane, che il suo dirimpettaio vende, bianco, all’altro angolo della strada!

Una disciplina di prezzi, specie nel campo alimentare, se potesse essere instaurata, non potrebbe limitarsi a poche voci; dovrebbe necessariamente essere totale.

Nell’eventualità che si decidesse per la disciplina, o si farà una politica dei prezzi, dal grano al prezzemolo, o non si caverà un ragno dal buco. L’affrettata smobilitazione della disciplina nel settore zootecnico è un incontrovertibile esempio; essa da sola ha sconvolto tutto il resto: il suino venduto a peso vivo a lire 400 il chilogrammo significa che il granoturco vale lire 6.000 il quintale!

Se di contro al prezzo del grano di lire 2.250 il quintale la crusca va a lire 7.500, è ovvio che si sentano da parte degli agricoltori doglianze contro il basso prezzo del cereale; ma nessuno di essi è interessato a fare la constatazione che è il sottoprodotto che vale troppo, il che è dato dall’alto prezzo che egli ricava dalle carni. Il raffronto che egli fa tra il vantaggio che ricava dal coltivare il grano e quello che ricava dai prodotti zootecnici, lo induce a ridurre la coltura cerealicola a beneficio di quella foraggiera.

Non si accorge l’agricoltore che egli è vittima di una illusione ottica, che sconta però quando deve acquistare i prodotti dell’industria.

Il mungitore che in brevissimo tempo riempie un secchio di latte per il valore di 1000 lire, sente di aver diritto di partecipare un pochino alla bazza del datore di lavoro e chiede un aumento di salario. Anch’egli ha un’illusione ottica che è seguita da rapida delusione.

Non si può fare una politica pendolare: o lo Stato impone una politica di disciplina logica ed integrale alla quale tutti debbono scrupolosamente attenersi (e senza mugolare!), oppure deve lasciare che gli assestamenti avvengano per automatismo economico.

Perché, in definitiva, mentre aumenta la produzione e l’offerta tende ad avvicinarsi alla domanda, se si è deciso per la seconda via, i vincoli e le discipline limitate e saltuarie, «sfasando» i rapporti di interdipendenza tra settore e settore, peggiorano la situazione.

Non occorre essere studiosi di curiosità storiche per sapere quanto inutili siano le grida e superflui, anzi dannosi, i calmieri.

Ogni tanto gli esseri umani si riprovano a subire le stesse delusioni. O si creano gli strumenti per un’ordinata vita economica, o si subiscono le conseguenze del disordine.

Quando fattori psicologici e speculativi (che sono poi la stessa cosa), determinati da apprezzamenti di situazioni ed elementi contingenti di vario genere, dettero l’impressione di un ulteriore rinvilimento della moneta, in Alta Italia, ad esempio, i frigoriferi funzionarono da forzieri ed assicuratori, accogliendo tutto il burro ed i prodotti caseari che vi potevano essere allogati.

Al 1° gennaio il latte all’ingrosso valeva lire 60 il litro (100 volte l’anteguerra!) e perciò una vacca da latte costava lire 300.000, ed il burro stava sulle lire 1100-1200 il chilogrammo.

Ma, essendosi modificata quell’impressione, attenuatosi il divario tra la merce offerta e quella domandata, ecco che – secondo i dati di 10 giorni or sono – il latte essendo disceso a 40-45 lire il litro, la vacca da latte vale tra le 180-200 mila lire, il burro all’ingrosso costa lire 700-750 ed accusa una certa abbondanza, i formaggi molli diminuiscono di lire 150 il chilogrammo, il formaggio grana di lire 200.

Può far più effetto sul mercato, per disimboscare merce, la notizia dell’imminente arrivo dei 14.000 quintali di burro argentino e del lardo nord-americano che non il plotone d’esecuzione.

Per queste considerazioni ritengo debba esser cura degli organi di Governo, svolgere, specialmente negli agglomerati di popolazione urbana, interventi efficaci mediante volani di merci.

Non importa di qual derrata si tratti! Nella nostra situazione attuale la possibilità per il consumatore di acquistare una qualsiasi derrata alimentare, influisce sulle disponibilità e sul prezzo delle altre.

Questa manovra esige sveltezza di organismi che non debbono essere impacciosamente burocratici. Occorre diffondere, potenziare, sviluppare, ma soprattutto rifornire di prodotti, che non rientrino nel novero di quelli attualmente tesserati, gli Enti di approvvigionamento e consumo, sorvegliando che essi a lor volta non degenerino, acquisendo una mentalità da commercianti qualsiasi. Incoraggiarli affinché si consorzino fra loro per evitare che si facciano a vicenda la concorrenza. Rifornirli, rifornirli di qualsiasi genere alimentare che ci si possa procurare all’estero o si possa manovrare all’interno.

Se viene importato dello stoccafisso in conto compensazioni, non si può consentire a speculatori privati di distribuirlo! Cosa si attende a far affluire sul mercato le 2000 tonnellate di tonno sott’olio spagnolo arrivato a Genova?

Sarebbe stato conveniente trasformare in cioccolato – alimento energetico non trascurabile – i 40.000 quintali di semi di cacao importati dall’U.N.R.R.A., anziché lasciare che un funzionario insistesse nella balorda idea di destinarne la massima parte alla spremitura.

Non conveniva accettare sin dall’agosto l’offerta fattaci negli Stati Uniti di ritirare un milione di quintali di patate che avrebbero potuto costare attorno alle lire 12, rese a Genova?

Non si debellerà la crisi dei condimenti sino a quando le 170.000 tonnellate di «allocation» fattaci dall’Ufficio internazionale, e trasformate in grassi, non faranno sentire il loro benefico effetto su ogni desco ed in ogni borsellino di massaia.

Non si ritiene opportuno e possibile acquistare scatolame, carni congelate e quant’altro possa essere disponibile sui mercati internazionali, effettuando l’approvvigionamento soprattutto degli agglomerati urbani, che sono quelli che risentono maggiormente della situazione di disagio alimentare?

Per concludere, sappiamo di non poter chiedere miracoli al Governo. Né gli amici democristiani, né i compagni comunisti, né noi socialisti (e neppure i rappresentanti che siedono nei banchi di destra se fossero al Governo) sapremmo come moltiplicare i pani ed i pesci.

Vi è però uno sforzo intelligente e concorde che può, anzi deve, essere fatto da tutti. Allorché si sia convenuta una linea di condotta, sia quella, e tutti, con alto senso di responsabilità, cooperino a trasformarla sollecitamente in azione organica ed efficace. E questo senso di responsabilità sia presente in tutto il Paese. Il popolo italiano è ad un bivio: o uno sforzo collettivo per rinascere, o il disastro. Bisogna che tutti siano persuasi di una verità sostanziale: non esiste incantesimo o bacchetta magica che possan cambiare le cose dall’oggi al domani. È lo sforzo di ciascuno di noi, è il sacrificio di tutti, a cominciare da coloro che hanno la possibilità di sacrificare una parte almeno della loro agiatezza!

Cosa possiamo chiedere d’altro ai diseredati, che del lavoro? Ma a coloro che posseggono beni di fortuna s’impone il dovere di dare, oltre al lavoro, anche spirito di rinuncia, sacrificio di godimenti, concorso di ricchezza.

Un popolo di 45 milioni non può morire, ma potrebbe languire in una miseria esasperante ed esasperata.

Per contro può salvarsi, risorgere e prosperare, solo a patto che, dimenticando i gretti avidi interessi individualistici, tutti compiano un magnifico sforzo solidaristico nell’interesse della collettività nazionale. (Vivissimi generali applausi).

PASTORE RAFFAELE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PASTORE RAFFAELE. Propongo la chiusura della discussione.

PRESIDENTE. È stata chiesta la chiusura della discussione. Domando se è appoggiata.

(È appoggiata).

Essendo appoggiata, la pongo ai voti.

(È approvata).

Rammento agli onorevoli colleghi che, con la chiusura della discussione, decadono dal diritto di parlare i Deputati ancora iscritti. È riservata la parola, per non più di venti minuti, ai presentatori degli ordini del giorno per svolgerli.

L’onorevole Colonnetti ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

considerato il mortificante stato di indigenza degli istituti scientifici universitari, nei quali è divenuto praticamente impossibile ogni proficuo insegnamento sperimentale ed è paralizzata ogni attività di ricerca scientifica,

chiede al Governo che provveda con urgenza ed in misura adeguata al finanziamento della ricerca e potenzi con ogni impegno quelle forze scientifiche sulle quali la rinascita del Paese deve poter contare».

Ha facoltà di svolgerlo.

COLONNETTI. Onorevoli colleghi, trattando lunedì scorso della ricerca scientifica, delle esigenze della sua organizzazione, delle difficoltà che il Consiglio nazionale delle ricerche incontra per il suo finanziamento e delle possibilità di provvedere a questo finanziamento, senza ulteriori aggravi per il bilancio statale, attraverso possibili economie nei bilanci militari, io sono stato, quasi incidentalmente e solo a scopo esemplificativo, tratto ad istituire un parallelo tra i mezzi che il Ministero della marina mette a disposizione dell’Accademia navale di Livorno e quelli di cui dispone la Scuola normale superiore di Pisa.

Il paragone parve al Ministro Gonella un misconoscimento di quanto il Ministero della pubblica istruzione fa per le università e gli istituti superiori, e taluno potrebbe aver provata l’impressione di un mio esagerato pessimismo in materia.

Perciò, non posso – come era mia intenzione – limitarmi a presentarvi oggi l’ordine del giorno in cui chiede al Governo che provveda con urgenza e in misura adeguata al finanziamento della ricerca e potenzi con ogni impegno quelle forze scientifiche sulle quali la rinascita del Paese deve poter contare; ma debbo, questo ordine del giorno, sia pure brevemente, illustrarlo.

E lo farò non più elencando cifre, le quali non possono che riferirsi a casi particolari e, a seconda del caso preso in esame, si prestano a differenti valutazioni e commenti, ma cercando di darvi un’idea della situazione che si è venuta a creare nel nostro mondo universitario, dello stato d’animo di quelli che ne sono i protagonisti e gli animatori, della necessità assoluta ed urgente di cercare la soluzione dei relativi problemi su di un piano che non è più quello dell’ordinaria amministrazione, ma implica e suppone un vero e proprio rivolgimento delle situazioni esistenti.

Ciò dipende da due diversi ordini di motivi: il primo di natura economico-finanziaria, l’altro di natura sociale.

Il motivo di natura economico-finanziaria ci è imposto dallo squilibrio ormai troppo grande tra la disponibilità dei bilanci delle nostre istituzioni scientifiche e le loro necessità funzionali.

Credo che pochi si rendano conto del fatto che, forse in nessun altro settore, questo squilibrio ha assunto proporzioni così paurose come in quello dell’alta cultura. Gli è che qui, al fenomeno della svalutazione della moneta, un altro fenomeno si è sovrapposto che da tempo andava maturando, ma che la guerra ha esasperato; ed è il profondo mutamento dei caratteri e delle modalità della ricerca scientifica, la quale non è più, come un tempo, attività personale dei singoli scienziati, ma frutto della collaborazione preordinata di molti scienziati; non è più il risultato di una intuizione o di una indagine isolata, ma sintesi di lavori lunghi e pazienti e costosi, svolti, secondo piani accuratamente predisposti, da operatori specializzati.

Il che richiede una organizzazione capace di utilizzare uomini ed istituti coordinandone l’opera e i risultati; richiede mezzi urgenti e libertà di disporne per l’attuazione di un piano d’azione organico e continuativo.

Alla base di questo piano c’è la preparazione degli uomini, dei ricercatori, che bisogna trovare, selezionare severamente, educare ed allenare ad un lavoro paziente, delicato e sapiente; che bisogna incitare ed incoraggiare se si vuole che dedichino alla ricerca tutto il loro ingegno, tutta la loro attività, tutto il loro entusiasmo.

E qui, onorevoli colleghi, subentra e prende rilievo l’altro ordine di motivi a cui dianzi accennavo: quello di natura sociale. Perché gli uomini dotati di tutte le qualità necessarie per diventare dei buoni ricercatori, per diventare degli scienziati e dei maestri, sono pochi; spiriti eletti, cui natura diede doti speciali di ingegno e capacità di valorizzarle, e volontà di porle tutte ed esclusivamente al servizio di un ideale: la ricerca disinteressata della verità.

E questi uomini bisogna perciò andarli a cercare ovunque, in tutti i ceti, in tutte le classi sociali, perché nessun popolo, per fecondo che sia di ingegni, può permettersi il lusso di far getto di questa che è la suprema tra le ricchezze dei popoli. (Applausi).

Occorre pertanto che l’Università, dove la prima rivelazione delle intelligenze si compie, e dove le intelligenze che si rivelano possono venire educate alle superiori attività dello spirito, sia aperta a tutti e sia ordinata in modo che la necessaria opera di selezione si attui con esclusivo riguardo al merito, ed indipendentemente da fattori estranei di ordine economico o sociale.

Ora voi non avete che da guardarvi attorno per vedere le nostre Università nell’assoluta impossibilità di compiere una così delicata funzione: prive di mezzi, di libri, di documenti, di strumenti di osservazione e di ricerca; sovraffollate di giovani che di una cosa sola si preoccupano, della conquista di un titolo ai fini immediatamente utilitari, e che nella loro fugace e disordinata corsa al diploma spesso non giungono neppure ad intuire 1’esistenza di quel tesoro di vita spirituale che il tempio, mortificato, nasconde.

Ed i maestri, che di quel tesoro sono i depositari, distratti dalle preoccupazioni ed oppressi dalle necessità della vita che urge alle porte del tempio, spesso non arrivano a identificare nella folla dei giovani chi sia degno e disposto ad accogliere il grande dono del sapere e, se lo scorgono, difficilmente riescono a fermare la sua attenzione e, seppure la fermano, ben raramente possono offrire quelle condizioni che varrebbero a far preferire alle più facili e profittevoli vie della professione l’erto e misconosciuto sentiero della dedizione e del sacrificio.

Questa, onorevoli colleghi, è la quotidiana tragedia della nostra vita universitaria; e tocca l’avvenire stesso della Nazione, in quanto minaccia di inaridire le fonti della sua grandezza spirituale e della sua stessa prosperità materiale.

Se continueremo ancora per alcuni anni nelle condizioni attuali, i maestri non avranno più allievi cui trasmettere la fiaccola del sapere, o li vedranno andar cercando in altri Paesi quel minimo di mezzi materiali che basti ad alimentarne la fiamma.

In realtà, l’esodo degli ingegni è in atto. Se io non temessi di abusare del vostro tempo e se non fossi fermamente deciso a non scendere per nessuna ragione a casi particolari, potrei citarvi nomi di eminenti studiosi nostri che hanno ricevuto esplicito invito di trasferirsi in Università americane, o che comunque sanno che là troverebbero favorevole accoglienza e larghezza insperata di mezzi di studio. E potrei aggiungere che alcuni tra essi sarebbero per il nostro Paese perduti per sempre, se dovessero convincersi che gli sforzi che io vado compiendo per il finanziamento della ricerca e per il rinnovamento dell’Università sono destinati a restar vani.

Del resto, non è soltanto l’esodo dei maestri che incombe come una minaccia sulle nostre Università, ma anche l’esodo dei giovani, dei migliori fra i giovani, di quelli che sono ancora soltanto delle promesse e che a cercare di aprirsi altrove la loro strada sono spinti dalla constatazione delle difficoltà che si frappongono qui alla carriera scientifica, dal misconoscimento della sua dignità e del suo prestigio, dalla visione dello stato di vera e propria indigenza cui sono ridotti quegli stessi che l’hanno percorsa con onore. Sottrarre questi giovani alla tentazione di andarsene, assicurare al nostro Paese i frutti del loro ingegno e della loro attività, costituire con essi i quadri della società di domani, questo è indiscutibilmente il più grande e delicato compito di chi presiede alle sorti dell’alta cultura.

Ma nessuno, per valente che sia, riuscirà ad assolvere questo compito se non sarà prima riuscito a far rifiorire i grandi cenacoli del pensiero, se non sarà riuscito a popolarli, in ragionevole misura, di maestri e di allievi, se agli uni e agli altri non avrà potuto fornire i mezzi indispensabili con generosa larghezza, ed assicurare quella tranquillità di spirito che è il presupposto di ogni attività di pensiero.

Per raggiungere il qual risultato, senza intollerabili aggravi del bilancio statale, non c’è che una via, ma c’è: ed è quella di porre termine allo scandaloso squilibrio tuttora esistente fra le spese militari e le spese che si fanno per l’alta cultura. Nelle condizioni che all’Italia sono state create dalla dittatura, dalla sconfitta e dal Trattato che l’ha sanzionata, quei mezzi che in passato erano rivolti a forgiare armi e ad approntare armati e che ancora oggi sono a disposizione dei Dicasteri militari, devono venir destinati alle opere della civiltà e della pace, attraverso la mobilitazione delle intelligenze.

Per l’Università, perché chi vi insegna sia messo in grado di assolvere alla sua altissima missione, perché chi la frequenta possa trovare il necessario alimento alle ancora latenti potenze del suo spirito, nessun sacrificio può essere considerato troppo grande.

Ma se ragioni di necessità ci impongono di non aggravare ulteriormente le già gravi condizioni del bilancio, bisogna che, nella valutazione delle diverse necessità e delle maggiori o minori urgenze, una nuova scala dei valori sia adottata, in capo alla quale non possono non figurare ì valori dello spirito. (Applausi).

Del resto, onorevoli colleghi, mi sembra che quel che accade nelle nostre Università contrasti non solo con quella che è la mia valutazione della preminente importanza delle attività scientifiche, ma anche con quelli che sono i propositi espliciti ed il programma dichiarato del Governo.

Eccovene una piccola prova, che ha, se non altro, il pregio dell’attualità.

Nel suo programma di Governo il Presidente del Consiglio dei Ministri, con la sua caratteristica sensibilità ai veri problemi ed alle superiori esigenze nazionali, auspicava che «l’esiguità delle tasse scolastiche permettesse a tutti i figli del popolo di percorrere ogni grado di studio».

Ebbene, proprio in questi stessi giorni faceva la sua comparsa nell’Albo dello Studium Urbis un piccolo manifesto in cui gli uomini egregi che ne reggono l’amministrazione, seguendo l’esempio di altri Atenei, si dichiarano con dispiacere costretti ad imporre agli studenti un contributo straordinario che equivale a triplicare le tasse; e premessa la speranza, lievemente ingenua, che ciò valga come un invito al Governo perché meglio corrisponda alle vitali ed elementari necessità dell’Università, presentano il nuovo gravame come «un sacrificio indispensabile perché la classe studentesca non venga ingannata da un insufficiente insegnamento, da un insegnamento che è, in troppi casi, una finzione».

Ora, il mettersi sulla via di provvedere al finanziamento delle Università con l’aumento delle tasse, considerandolo, come dicono nel loro manifesto gli amministratori dell’università di Roma, «l’unica via che rimane aperta per non ingannarci reciprocamente con un incompleto e infecondo insegnamento», rappresenta – oltre che una ben grave ed umiliante confessione di impotenza dello Stato in quello che amiamo definire uno dei suoi compiti essenziali – rappresenta, dico, un grave ed a parer mio deplorevolissimo errore sociale.

Perché tale provvedimento avrà una reale efficacia risanatrice dei bilanci universitari solo a condizione che si perpetui la situazione attuale nella quale gli studi superiori sono di regola un privilegio dei ricchi, mentre i poveri possono adirvi solo in piccolo numero, attraverso un piccolo numero di esenzioni e di borse di studio.

Contro questo privilegio bisogna reagire con tutte le forze, perché esso è ad un tempo offesa grave alla giustizia e non men grave disconoscimento dell’interesse stesso della collettività.

E giustizia ed interesse collettivo saranno salvaguardati soltanto quando la collettività avrà il coraggio di assumere su di sé, anche a costo dei più gravi sacrifici, tutto l’onere degli studi e della cultura, avocando a sé il diritto di far studiare i migliori, e di sfollare le Università liberandole dagli inetti, anche se disposti a pagare.

Ecco perché, nel sottoporre oggi all’Assemblea Costituente il mio ordine del giorno, io oso fare appello all’alto senso di comprensione dell’onorevole Presidente del Consiglio perché, agli studiosi che attendono con ansia una parola del Governo, dia – accettandolo – quel minimo di affidamento che valga a rasserenare i loro animi turbati e confortarli nella loro nobilissima diuturna fatica (Vivi applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Cingolani, anche a nome dell’onorevole Jacini, ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, preso atto della fusione, in un unico Ministero della difesa dei tre Ministeri delle forze armate, si augura che detta fusione sia preceduta da un opportuno coordinamento dei servizi tecnico-militari ed amministrativi, nel quadro delle tradizioni e delle caratteristiche delle singole armi».

L’onorevole Cingolani ha facoltà di svolgerlo.

CINGOLANI. Il mio ordine del giorno vuole esprimere lo stato d’animo di molti fra noi, di fronte alla costituzione del Ministero della difesa nazionale. Da tutti i settori della Camera si sono alzate voci, direi, di riservato consenso alla fusione dei Dicasteri militari, fusione, finora, compiuta nella persona del nuovo Ministro. Certo, persona più indicata non poteva essere scelta, né io me la sento di far mie le lugubri profezie di alcuni onorevoli colleghi, per i quali l’onorevole Gasparotto dovrebbe assumere il ruolo di un personaggio da tragedia greca, con le infule sacrificali già strette intorno alle tempie, spinto dall’ineluttabile fato alla morte politica se non addirittura a quella fisica (non ho ben compreso dalle parole dell’onorevole Lussu, se per esaurimento di forze o per il ferro di un qualche Aristogitone in ritardo). Comunque, rimanendo su di un terreno più ottimistico e realistico, possiamo dai primi passi mossi dall’onorevole Gasparotto su questo terreno – più che infido, inesplorato – arguire che prudenza, e decisione insieme, presiederanno all’opera sua. Del resto, egli, già due volte Ministro della guerra, e poi Ministro dell’aeronautica, e come uomo che ha alto il senso dell’onore, certamente pieno di comprensione per il dramma spirituale della Marina, è in grado di adempiere bene al suo compito guardando con accorta attenzione dove porre il piede nel suo cammino.

Non so se le tarme avranno risparmiato la scolorita giubba del combattente del Carso e del Piave. Ma certo, facendo le sue valigie per Roma, ella, onorevole Gasparotto, sarà stato tentato di canticchiare la vecchia canzone di trincea: «Povero fante, n’hai fatte tante!» E farà bene, onorevole Gasparotto, anche questa, la fusione delle Forze armate. Può essere certamente sicuro che coloro che avrà al suo fianco come modesti ma fedeli collaboratori e coordinatori dell’opera sua, cercheranno di gareggiare con lei nella dedizione agli interessi supremi del Paese, che vuole che l’unificazione delle Forze armate non sia un accorgimento amministrativo, ma crei uno strumento bene forgiato e intelligentemente articolato, unitaria forza viva democratica e repubblicana, tale da sostituire le distrutte difese materiali del Paese, e tale da essere scuola alle giovani generazioni di spirito di sacrificio, di senso di responsabilità, e di un cameratismo che, oltre le differenziazioni di funzioni, insegni ad esse che non c’è maggior libertà di spirito e più alta dignità di vita di quella che si riassume nell’adempimento di un alto dovere perché la Patria viva la sua rinnovata vita di pace tutelata e di realizzata giustizia sociale. Le vie da battere, per giungere a questa nuova concezione e organizzazione delle Forze armate della Repubblica italiana possono anche essere indicate da quel che finora si è fatto in altri paesi, sia come studio che come esperimento, naturalmente in funzione della politica che ogni Stato persegue.

Negli Stati Uniti, ad esempio, dopo 14 mesi di studi e di discussioni, è stata decisa la creazione di un Ministero della difesa con tre Sottosegretari e con la creazione di una organizzazione centrale aeronautica simile a quelle già esistenti per l’esercito e per la marina. Il Capo di Stato Maggiore dipende dal Presidente della Confederazione e dal Ministro della difesa, ed è l’effettivo Capo militare delle tre forze armate. Già unificati sono stati il servizio informazioni, il reclutamento, le scuole di carattere comune.

In Inghilterra, il Ministero della difesa è incaricato di applicare la divisione delle risorse tra le Forze armate, il coordinamento dello studio dei problemi e dei servizi comuni delle tre Forze armate: così pure sono comuni le produzioni, gli studi, le ricerche e gli sviluppi scientifici; un comitato dei capi di Stato Maggiore sopraintende alla preparazione dei piani difensivi. L’istituzione più interessante è quella del Comitato di difesa, che è più largo del nostro, con poteri esecutivi e composto di politici assistiti da militari.

È da rilevare che i tre Ministri militari continuano ad essere responsabili verso il Parlamento. La marina conserva una certa autonomia, soprattutto nei rifornimenti. Strettissima invece è la cooperazione fra militari e scienziati. C’è una tendenza verso un bilancio unico della difesa nazionale, comprendente le necessità delle tre Forze armate.

In Francia, a datare dalla liberazione, si è sviluppata una forte tendenza alla unificazione dei Ministeri militari, passando successivamente dai tre Ministeri autonomi ad un Ministero delle Forze armate, con un Ministero della produzione di guerra e poi a un Ministero della difesa, quasi superministero sui tre Ministeri delle Forze armate. Le scuole di guerra sono unificate.

Nell’Unione Sovietica, dopo la trasformazione dei Commissariati del Popolo in Ministeri, è stato costituito un unico Ministero delle Forze armate, dal quale dipendono sei organismi equivalenti a Sottosegretariati, ma retti da sei Viceministri. Il primo Viceministro può anche sostituire il Ministro delle Forze armate ed ha una competenza estesa a tutte le questioni militari. Il secondo Viceministro è, per diritto, il Capo di Stato Maggiore generale dell’esercito, il terzo Viceministro è comandante in capo di diritto dell’esercito; il quarto Viceministro è comandante in capo della marina; il quinto Viceministro è comandante in capo dell’aeronautica, il sesto Viceministro è il capo di tutti i servizi delle Forze armate.

Non parlo delle Nazioni minori che, più o meno, seguono gli schemi delle Nazioni più potenti; ma certo ha una grande importanza per noi, nelle condizioni nelle quali ci troviamo per le nostre possibilità e per le clausole del Trattato di pace, il fatto che Nazioni illuminate dall’alone della vittoria e in piena efficienza guerriera, si sono poste il problema della unificazione delle Forze armate, e se lo son posto e lo stanno risolvendo con estrema delicatezza, e rispetto insieme e delle necessità e della tradizione.

Chi ha avuto l’onore e la fortuna di ascoltare il discorso dell’onorevole Gasparotto nel prender le consegne dai tre Ministri uscenti, ha potuto constatare con quale decisione ed insieme con quale visione delle difficoltà l’onorevole Gasparotto ha manifestato un animo pari al grande compito. La genialità del Ministro saprà certo tener conto di tante brillanti tradizioni nel quadro della difesa degli interessi del Paese e della democratizzazione delle Forze armate.

Modesto ma serio servitore del mio Paese, posso seguitare qui per parte mia le consegne che ho fatto al Ministro. Egli avrà nell’aeronautica un organismo onusto delle glorie dei caduti nell’adempimento del dovere, un organismo vivo, e purificato dal sangue dei propri caduti nelle Fosse Ardeatine e nei cieli di Balcania e d’Italia.

Non 50 generali egli avrà a sua disposizione, ma solo 21. Non dovrà iniziare lo sfollamento, perché troverà già sfollati 1 quadri da 404 ufficiali generali e superiori. La Commissione di epurazione per ufficiali e sottufficiali aveva già esaminato 1882 casi con 375 dispense dal servizio. Per lo sfollamento da effettuarsi fra gli ufficiali inferiori e i sottufficiali, ancora non c’è nulla di concreto, ma mi auguro che lo stesso trattamento della marina sia usato a questo personale.

Per gli ufficiali superiori criteri molto rigidi sono stati seguiti; ecco i motivi della parola «di massima» introdotta nel decreto di sfollamento nei riguardi di coloro che possono essere ammessi nelle file delle Forze armate. Per gli ufficiali superiori il decreto di sfollamento sarà rigidamente applicato.

Comunque, io desidero riproporre al Ministro il mio piano di costituzione di una Commissione di personalità civili, magistrati e deputati, che avevo già preparato per poter fiancheggiare l’opera delle Commissioni di sfollamento.

Nella breve mia intervista, che fu già letta dall’onorevole Nobile in questa Camera, fu forse omesso, spero per dimenticanza, il periodo che dimostrava il mio impegno per ottenere il controllo extra ambiente dello Stato Maggiore e dell’ambiente militare.

Questo mi porta anche a toccare un argomento che potrebbe essere scottante: c’è un’atmosfera repubblicana? Ci sarà. Il fronte repubblicano ed il suo giornale lo assicurano. Non c’era come totalità; ma il «fronte repubblicano» del Ministero ha compiuto un’opera sagace e prudente. Il senso dell’onore e l’amore per la Patria sono stati posti da tutti al disopra dell’attaccamento tradizionale al regime tramontato. Oggi, salvo casi sporadici, c’è una coscienza repubblicana consapevole che servirà a mettere l’aeronautica in condizioni di servire la Repubblica italiana con lo stesso impegno e la stessa lealtà con cui è stata servita la monarchia.

L’intesa fra il personale civile e quello militare gioverà a rinsaldare la coscienza repubblicana.

Nell’ultimo congresso del Sindacato fra il personale civile furono presentate richieste che furono poi, nelle parti essenziali, accettate. La più importante è l’indennità di aeroporto, che venne estesa a tutti coloro che vivono negli aeroporti, e degli aeroporti, tanto militari quanto civili, fino al personale salariato, operaio ed avventizio. In principio c’è stata un po’ di frizione, ma è stata superata con un po’ di buona volontà. L’unione delle forze civili e militari non potrà che giovare all’interesse del Paese, e varrà meglio a superare il trapasso dal vecchio al nuovo assetto.

Per il Trattato di pace gli effettivi debbono essere ridotti da 42.000 a 25.000. Sono quindi 17.000 unità che debbono rimanere fuori dei quadri!

Eppure l’aviazione italiana ha dato alla causa alleata il più largo e incondizionato appoggio, in tutte le forme possibili, da quelle di guerra guerreggiata a quelle tecniche e logistiche.

Mi permetto di leggere soltanto alcune cifre:

Attività bellica della nostra aviazione: compiute 4155 azioni, con 11196 velivoli, che hanno volato per 24199 ore di volo di combattimento, sparando mezzo milione di colpi e lanciando per un milione e mezzo di chilogrammi di bombe, e trasportando materiale di guerra per un milione e ottocentomila chili; ha abbattuto ottantasette velivoli nemici, ne ha perduti settantadue, ha perduto centododici piloti e ha avuto numerosi feriti e mutilati; ha danneggiato e distrutto mille e novecento unità nemiche tra piroscafi, velieri, convogli, ecc., ed ha compiuto trentacinque salvataggi in mare.

E trascuro l’attività non bellica dello stesso periodo, citando soltanto il numero dei voli, in oltre 33000, per trasportare trentamila persone e oltre due milioni e mezzo di materiale da guerra, con oltre ventisette mila ore di volo effettivo, perdendo settantasette apparecchi.

Fin dall’inizio del 1944 il maresciallo dell’aria Cunningham, dichiarò di apprezzare gli sforzi fatti dai nostri gruppi in collaborazione con le Nazioni alleate. Sempre nel gennaio 1944 il Comando caccia fu ringraziato per il magnifico aiuto fornito nel corso dei combattimenti che si erano protratti per 50 giorni da Podgorice a Kolasini.

Nel marzo 1944 il vicemaresciallo dell’aria Forster dichiarò di aver riscontrato sempre un’efficace collaborazione da parte di tutto il personale dell’aviazione italiana, estendendo l’elogio alle varie compagnie lavoratori e alle squadre recupero.

Il 24 maggio 1944, nel suo discorso ai Comuni, il Primo Ministro Churchill affermò: «La leale aviazione italiana ha combattuto così bene, che sto facendo sforzi speciali per equipaggiarla con apparecchi perfezionati di fabbricazione britannica». Infatti questo riconoscimento si concretò con l’assegnazione di velivoli americani ed inglesi da caccia e da bombardamento. Questi velivoli, che entrarono in linea nell’autunno 1944, rappresentarono il premio di un anno di sacrificio, durante il quale i nostri reparti avevano impiegato esclusivamente apparecchi italiani, logori e antiquati.

Per l’attività svolta dai gruppi di trasporto nei Balcani durante il maggio 1944, il Comandante supremo del Mediterraneo, generale Wilson, espresse la sua sodisfazione.

Nel mese di agosto 1944 il vicemaresciallo Buscarlet disse testualmente: «L’aviazione italiana ha al suo attivo risultati considerevoli, e non si dovrebbe mai dimenticare il grande contributo da essa dato allo sforzo di guerra alleato. Le forze aeree italiane hanno utilizzato tutte le loro risorse, ed hanno dimostrato notevole ingegnosità e grande coraggio nell’impiegare ogni tipo di apparecchio».

I      magnifici risultati conseguiti dai reparti caccia nel novembre 1944, durante gli arditi e decisivi attacchi alle colonne nemiche nella zona di Elbassan, effettuati in pessime condizioni atmosferiche, riscossero un caldo elogio del vicemaresciallo Elliot comandante della B.A.F.

Per la stessa attività il generale Eaker, comandante delle forze aeree del Mediterraneo, disse: «Voi stessi, forse, non vi rendete conto dell’importanza di quanto state compiendo. Dagli Stati Uniti, dove sono stato recentemente, si segue con grande interesse la vostra attività e quella della B.A.F. Io seguo attentamente il vostro lavoro e non vi lascerò mai mancare il mio aiuto. Negli Stati Uniti migliaia di italiani guardano a voi e sono certi che le nostre due nazioni saranno per l’avvenire strettamente amiche, così come lo sono state per il passato».

Il 19 dicembre 1944 il Comando R.A.F. comunicò un marconigramma di congratulazioni del Maresciallo Tito a tutti i piloti che avevano preso parte all’azione del giorno precedente.

Alla fine del 1944 anche Truman, allora Vicepresidente degli Stati Uniti, dichiarò: «Gli aviatori italiani sono oggetto di meritata lode per le loro brillanti operazioni contro i tedeschi in Italia e nei Balcani.

Infine l’8 giugno 1945, il vicemaresciallo dell’aria Mills della B.A.F. volle ringraziare i reparti italiani per l’ottimo lavoro da essi compiuto, che aveva contribuito non poco al successo delle operazioni nei Balcani, meritandosi l’ammirazione delle unità della R.A.F. In particolare volle ricordare le missioni eseguite dai reparti da caccia, le azioni dei bombardieri che ebbero una parte importante nella distruzione delle linee di comunicazioni avversarie e i voli dei reparti di trasporto effettuati con qualsiasi condizione atmosferica.

E finendo questa gloriosa cronaca, sottolineo l’ordine del giorno del luglio 1945 del maresciallo dell’aria Mister Garrod, in occasione dello scioglimento della Balkan Air Force. Dopo aver elogiati gli aviatori britannici, americani, russi, polacchi, greci, jugoslavi e italiani per il compimento della grande impresa, così, concludeva: «Il vostro compito è assolto e assolto bene. Ma al di sopra del grande contributo che avete dato alla vittoria finale in Europa avete dimostrato che mediante il tatto e la dovuta comprensione uomini di Paesi diversi possono lavorare come fratelli per sconfiggere un nemico comune.

«Su questo spirito di fratellanza fra nazioni poggiano le nostre speranze per una pace durevole».

È proprio quello che noi italiani ci auguriamo, per una più alta cristiana convivenza di popoli civili. Ma questo era il linguaggio alleato durante la guerra. Le condizioni che il Trattato di pace fa all’aviazione italiana con gli articoli 64, 65 e 66 le conoscete: 200 apparecchi da combattimento e da ricognizione e 150 da trasporto, salvataggio in mare, istruzione e collegamento.

Ma le limitazioni imposte alla efficienza dei velivoli concessi tolgono in pratica ad essi ogni valore difensivo, tenuto conto che l’Italia, per la sua situazione geopolitica e gli 8500 chilometri delle sue coste, non può garantire la propria integrità e quindi l’eventuale efficace uso delle proprie basi aeree e navali, se non mediante l’impiego di forze aeree e di superficie, adeguate alle prevedibili entità delle possibili aggressioni.

Ma quello di cui più dobbiamo dolerci è la riduzione del servizio di assistenza e soccorso in mare.

Con l’intensificarsi del traffici aerei e marittimi, non vi è paese civile e progredito che non debba essere in grado di prestarsi tempestivamente in opera di soccorso in mare.

La configurazione e la posizione geografica dell’Italia e delle sue isole sono tali, da attribuirle implicitamente questi compiti su ampie distese di mare, e le impongono, quindi, una consistenza ed uno schieramento di aerei marittimi corrispondenti a quelli delle stazioni radio elettriche di segnalazione ed assistenza, ed in ogni modo urgente ed esteso. Del resto, questo servizio, esplicato fin dal settembre 1943 a vantaggio delle aviazioni e marine alleate, è tuttora in atto: e anche recentemente ha valso a salvare aviatori francesi caduti in mare e gli equipaggi di due zatteroni travolti dalla tempesta.

Comunque, le condizioni di efficienza numerica e qualitativa del materiale di volo, attualmente in servizio, sono molto precarie. Il trapasso dal materiale vecchio al materiale nuovo è già stato in parte facilitato dalla cessione di alcuni materiali delle Nazioni Unite. E con tutto questo è magnifica l’efficienza di quest’ultimo anno di attività. Leggo solo le cifre complessive dell’attività dell’aviazione militare dal 1° luglio 1946 al 31 gennaio di quest’anno: voli compiuti 18.406; ore di volo 16.294; passeggeri trasportati 36.741; materiale trasportato 785 mila chilogrammi. Per le perdite subite, soprattutto dovute alle scuole, abbiamo fuori uso 20 velivoli; danneggiati 29 velivoli; danni a persone: decedute 14, ferite una.

Nella grande massa del complesso di questa attività aviatoria, possiamo veramente dire che le perdite, tanto in materiale quanto in uomini, sono da ascriversi a quella minima percentuale di incidenti che capitano ovunque v’è un’attività umana in lotta contro gli elementi e contro gli imprevisti.

Noi ci auguriamo che le industrie aeronautiche, notevolmente ridotte rispetto a quelle preesistenti, potranno essere riattivate rapidamente e senza eccessive difficoltà, per limitati programmi di produzione per costruzioni originali e su licenza, specie nel campo dei motori, degli strumenti e degli accessori vari.

La nostra aspirazione sarebbe, pur nei limiti delle cifre consentiteci dal Trattato, di mantenere i reparti militari aerei che si sono uniti alle forze alleate all’atto dell’armistizio.

Ovvie ragioni morali confortano questo desiderio. Si tratta di tre stormi da caccia con 198 velivoli, 3 stormi da esplorazione strategica e bombardamento leggero con 96 velivoli, e due stormi idro-soccorso con 64 velivoli. Ma oltre naturalmente agli apparecchi scuola! Come formare la nuova generazione?

I nostri Accademisti non raggiungono certo il numero imponente del passato: sono appena cinquanta divisi in tre corsi, e il numero progrediente degli iscritti ai corsi è consolante. Al primo corso aperto quest’anno, sono iscritti venti accademisti, al secondo tredici, al terzo 10 e al corso suppletivo 7. Vi è poi un corso di 14 sottufficiali per addestramento. Sono tutti giovani i quali non sono sboccati nella carriera di piloti unicamente perché non trovavano dove battere la testa; sono tutti provenienti dalla licenza liceale, benissimo licenziati, con punti altissimi: molti provengono già dall’iniziata scuola di ingegneria. Essi rappresentano, dunque, non lo scarto di altre professioni, ma una vera scelta di giovani, consapevoli della vita dura che dovranno condurre. Ora sono confinati a Nisida, nell’antico penitenziario. Ma la loro aspirazione è di tornare in una parte almeno dell’immenso edificio dell’antica reggia di Caserta. Questa, del resto, è anche l’aspirazione delle popolazioni di Napoli e di Caserta, già insorte, quando nell’estate scorsa era stata ventilata l’idea di un trasporto dell’Accademia a Firenze. E giacché ho toccato questo argomento, debbo dire che per giustificare un nuovo tentativo di trasporto dell’Accademia a Firenze, si parla di un grande istituto agrario da fondare a Caserta, appunto nella reggia. Ma c’è l’Istituto agrario universitario di Portici, di fama mondiale, e suscettibile di grandi sviluppi, che è più che sufficiente per qualunque anche più ampia scientifica e pratica funzione. Non turbiamo dunque le suscettibilità e gli interessi meridionali, acquetati dopo una esauriente conferenza stampa tenuta in Prefettura a Napoli nell’estate scorsa, ed una visita rassicuratrice alla popolazione di Caserta, convocata in grande adunata da quella Camera del lavoro.

Questi giovani, dunque, daranno un’anima nuova all’aviazione militare, pur nella luce delle glorie effettive del passato e saluteranno gli anziani avviati ormai all’estero ed in Italia verso l’aviazione civile.

La «Federazione della gente dell’aria», giustamente tutrice degli interessi degli antichi aviatori, è in rapporto con le società di trasporto di persone e di cose, perché l’assunzione della gente dell’aria sia fatta in modo da tener conto dell’abilità ed anche del bisogno di tanti, desiderosi di tornare alla ardita occupazione dell’ante-guerra.

Soprattutto su due gruppi di personale civile mi permetto di attirare l’attenzione del Ministro: su quelli provenienti dalla L.A.T.I. e dall’Ala italiana, già Littoria.

La L.A.T.I. è ormai innestata nella Società Italo Inglese A.L.I.I., che eserciterà, valendosi degli antichi equipaggi, la linea Italia-Brasile. Sarebbe bene che si potesse conservare la struttura autonoma della L.A.T.I., per altre linee transoceaniche, per le quali era particolarmente attrezzata ed apprezzata.

Per l’Ala Italiana ne ripareremo quando sarà svolta l’interpellanza dell’onorevole Finocchiaro Aprile. Lo prego anzi di volersi fare parte diligente per iscriverla all’ordine del giorno.

Per la preparazione di elementi giovani per l’aviazione civile, preparazione scientifica e di ardimento, gioverebbe il volo a vela ed il volo turistico; ma il primo ci è inibito, il secondo, che sarebbe compito speciale degli Aeroclub di sviluppare, ci è consentito in scala talmente ridotta, da essere praticamente nullo.

Ci auguriamo comunque che presto i 61 aeroporti d’Italia siano in piena efficienza per ospitare gli apparecchi delle nostre dieci società esercenti le 50 linee interne concesse.

Quando saremo ammessi all’Organizzazione internazionale per l’aviazione civile, dove ora siamo semplici osservatori, applicheremo, nel traffico interno ed internazionale, le decisioni della Conferenza di Chicago del 1944, e precisamente:

1°) riconoscimento della sovranità piena ed esclusiva sullo spazio aereo, sovrastante il proprio territorio;

2°) libertà di passaggio inoffensivo con o senza scalo, agli aeromobili di uno Stato contraente sul territorio degli altri Stati;

3°) l’impianto delle linee di navigazione aerea subordinato al consenso degli Stati da attraversare;

4°) accordo, detto delle due libertà, in base al quale gli Stati aderenti riconoscono agli aeromobili degli altri Stati il diritto di sorvolo senza scalo sul proprio territorio, e di scalo sul proprio territorio per scopi non commerciali;

5°) un accordo fra i trasporti aerei internazionali, detto, con le due succennate «libertà», delle «cinque libertà», per il diritto di sbarco e imbarco internazionali di persone e merci.

Una politica ispirata a tali principî risulterebbe, d’altra parte, rispondente a quella finora seguita in occasione delle richieste pervenute, da parte di numerosi Stati esteri, per l’impianto di servizi aerei sul territorio italiano. D’intesa col Ministero degli affari esteri, a tali richieste si è costantemente risposto concedendo un’adesione di massima, con la riserva però di stipulare a suo tempo regolari accordi bilaterali, atti a sodisfare la nostra aspettativa di concessioni in reciprocità. Rapporti del genere sono ormai stabiliti con gli Stati Uniti d’America, l’Inghilterra, la Francia, l’Olanda, la Svezia, la Norvegia. Altri Paesi, quali la Spagna e l’Eire, hanno inviato schemi di convenzioni aeronautiche, che sono allo studio. Come in altra occasione ho detto, abbiamo intessuto ottimi rapporti di reciprocità con gli Stati del Centro e Sud America. Con la Russia, le conversazioni continuano.

La nostra adesione alla convenzione generale di Chicago ed a quella delle «5 libertà. effettuata appena ciò sarà possibile, determinerà la condizione necessaria per sciogliere la riserva contenuta nelle varie concessioni provvisorie, e per addivenire alla conclusione dei cennati accordi bilaterali con quegli Stati, nei cui confronti ciò si riveli opportuno.

PRESIDENTE. Onorevole Cingolani, la prego di concludere.

CINGOLANI. Avviandomi alla fine e ricongiungendomi alle ragioni del mio ordine del giorno, credo utile citare, come esempio di fusione già praticamente avvenuta tra i servizi dei tre Ministeri delle Forze armate, quello del servizio delle telecomunicazioni. Si è potuto così autorevolmente partecipare alle conferenze internazionali di Londra, Washington e di Montreal per la ripresa dei servizi di telecomunicazione a carattere internazionale.

Mi piace ricordare qui alcuni servizi particolari in questo campo compiuti in Italia: centrali radio-comunicanti costituite a Milano, Bologna, Elmas e Venezia; entrata in funzione per il servizio soccorso di 14 motoscafi di alto mare, debitamente attrezzati; lavori sul Monte Cimone per il Ponte Radiofonico Roma-Milano. È terminato anche il montaggio della centrale telefonica automatica per i collegamenti telegrafonici.

Per il servizio metereologico, abbiamo preso parte a 4 riunioni per servizi speciali internazionali, tenute a Parigi a cura della organizzazione metereologica. Abbiamo preso parte ai lavori per una convenzione meteorologica mondiale, ed è completo il progetto di trasformare il servizio metereologico della Aeronautica in Servizio metereologico nazionale, innestato nel Consiglio nazionale delle ricerche.

E tralascio il resto. Oso soltanto dire che in questo campo siamo ormai stimati gente di prim’ordine nell’attenta osservazione dei tecnici, non soltanto d’Italia, ma di tutto il mondo.

La studiata demilitarizzazione dei servizi di telecomunicazioni di metereologia potrà, per ragioni evidenti, rendere meno pesante l’applicazione del Trattato di pace.

Onorevoli colleghi, ho finito. Ma l’ultima parola che voglio oggi rivolgere a voi ed al Ministro vuol essere una parola che suoni paterno, affettuoso saluto agli orfani degli aviatori.

Gli orfani degli aviatori sono 1054 alla data di oggi. Vi aggiungiamo con cuore dolorante i tre bimbi rimasti orfani per il disastro di Terracina.

Prima dell’8 settembre 1943 erano 504: quasi la metà, dunque, di questi bimbi sono rimasti orfani durante la guerra di liberazione.

Oggi gli assistiti raccolti in istituti sono 293; per gli altri orfani rimasti in famiglia, in numero di 766, l’Opera degli Orfani corrisponde contributi mensili di assistenza variabili a seconda degli studi da lire 500 mensili per le scuole elementari a 14.000 lire annue per gli universitari. Si aggiungono premi annuali per i migliori.

Quando verrà approvato il nuovo statuto, l’assistenza predetta si estenderà anche ad altre categorie di orfani, ora escluse, quali gli orfani di osservatori di aeroplani e di personale militare e civile non avente obbligo di volo, ma deceduto in servizio di volo o per causa di servizio aeronautico; e potranno essere accolti negli istituti dell’Opera anche i figli di tutto il personale dell’unica famiglia aeronautica.

Affretti, l’onorevole Ministro, l’approvazione del nuovo statuto, studi il modo di irrobustire finanziariamente l’Opera, contribuendo così a dare maggiore serenità a quanti vivono in consapevole ardimento la vita dell’aeronautica.

Onorevoli colleghi, ho avuto la fortuna di essere stato Ministro dell’aeronautica del primo Governo della Repubblica.

Il giorno della Madonna di Loreto, festa dell’Arma, nel salutare tutti gli appartenenti alla grande famiglia, ricordai a tutti che la fede certa nella resurrezione della Patria e nella rinnovata funzione civilizzatrice dell’Italia nel mondo, doveva avere la sua base nel rafforzamento del giovane istituto repubblicano, e concludevo con queste parole, con le quali amo chiudere questo mio breve discorso:

«L’aeronautica della Repubblica italiana, intrecciando poesia e realtà, leggenda e storia, tradizione e concretezza moderna di vita, sente oggi di poter, con mano degna, cogliere i lauri intorno alla Casa che vide la fanciullezza pura del Divino operaio di Nazareth: coglierli con la mano innocente degli orfani dei propri figli migliori, con le mani gentili delle vedove viventi di un consapevole, rassegnato dolore, con la mano ferma di coloro che hanno lasciato brandelli di carne, ma non di animo, nella guerra guerreggiata, o contro gli avversi elementi. Questo alloro, incoronante la fronte di tutti i Caduti per l’onore, per il dovere, per la giustizia, per la libertà, questo alloro che rinverdisce, si può dire ogni giorno, nella fervida vita di rischio quotidiano, di ardimento consapevole, di severe acquisizioni dei nuovi dati per la scienza, per la conquista sempre più sicura dei cieli, è il dono che gli azzurri oggi porgono alla Repubblica italiana». (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Marinaro ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

ritenuto che le comunicazioni del Presidente del Consiglio in materia economico-finanziaria non offrono elementi concreti per un giudizio su quella che potrà essere l’azione che il Governo svolgerà per far fronte alla situazione in cui il paese si trova,

invita il Governo stesso a formulare e ad attuare un organico programma; atto ad avviare la finanza dello Stato al risanamento della situazione di tesoreria ed alla stabilità monetaria».

PRESIDENTE. L’onorevole Marinaro ha facoltà di svolgerlo.

MARINARO. Onorevoli colleghi, come è stato più volte rilevato, durante questa discussione, le dichiarazioni del Presidente del Consiglio, in materia economico-finanziaria, non ci hanno offerto elementi concreti per un giudizio su quella che potrà essere l’azione che il Governo svolgerà per fronteggiare la situazione in cui il Paese si trova.

Per farsi un’idea precisa di questa situazione è necessario avere presente la situazione di tesoreria, la quale risulta gravata da circa 450 miliardi di debiti a brevissima scadenza, da oltre 170 miliardi di residui passivi e da un disavanzo di bilancio veramente impressionante. Secondo le previsioni rettificate alla data del 31 dicembre 1946, il bilancio dell’esercizio finanziario in corso registra spese per 806 miliardi ed entrate per 264 miliardi, con un disavanzo, quindi, di 542 miliardi. Ma è da tener conto che questa valutazione è basata esclusivamente sui dati già acquisiti e sui provvedimenti finora definiti e che, data la forte tendenza all’espansione delle spese, è prevedibile che l’indicato disavanzo di 542 miliardi debba salire notevolmente. Infatti, in luglio si è avuto un deficit di 31 miliardi, in agosto di 29, in settembre di 58, in ottobre di 65; sul metro di ottobre, applicato ai successivi otto mesi, il disavanzo finale sarebbe di 700 miliardi. E dato che si avranno circa 300 miliardi di entrate, il volume della spesa si aggirerà sui 1000 miliardi: il doppio cioè dell’esercizio 1945-46 e circa il 40 per cento del reddito nazionale.

Come si propone il Governo di fronteggiare questa situazione?

Non certo con il ricavato del cosiddetto prestito della ricostruzione, del quale, nel quasi generale silenzio, non mi sembra inopportuno dire una parola franca, senza infingimenti di sorta.

Come è stato osservato, il prestito avrebbe dovuto avere lo scopo essenziale di avviare la finanza dello Stato al risanamento della situazione di tesoreria ed alla stabilità monetaria. A tal fine era indispensabile predisporre l’operazione con la più grande cura, mettere a profitto la tecnica dei veri competenti della materia, e non quella degli improvvisati banchieri, la saggezza dei finanzieri consumati nella pratica quotidiana degli affari e non quella dei teorici; ma prima di tutto era indispensabile creare l’ambiente adatto allo svolgimento dell’eccezionale operazione: occorreva, in una parola, creare l’ambiente di completa, assoluta fiducia. Invece, certi discorsi e certe interviste, se non hanno creato la sfiducia, hanno determinato dubbi ed incertezze. Molti elementi manifestavano indecisione, improvvisazione, incompetenza e inesperienza della materia finanziaria; nessuna sensibilità della psicologia del risparmio; difetto di ponderazione e di studio esauriente; scarso senso di responsabilità per una operazione di tanta importanza.

Il decreto di emissione parla – e poteva trovarsi agevole modo di evitarlo in quella sede – della sovrastampa da farsi di «redimibile 3,50 per cento» sui titoli già stampati con l’indicazione «Consolidato 5 per cento», ciò che dice della incertezza perfino sul tipo e tasso di operazione, che pure era allo studio da tempo, e del mutamento all’ultim’ora, dopo la stampa dei titoli già fatta per centinaia di miliardi.

Una settimana prima del discorso di Milano, l’onorevole Bertone dichiarava all’A.N.S.A. che si era pensato ad un prestito a premi, ma si era poi scartato questo tipo e s’era preferito un prestito senza premi. Si era persino esclusa la conservazione dei premi accordata ai buoni poliennali versati in sottoscrizione per le estrazioni successive «perché sarebbe occorso individuare nominativi, ciò che è in contrasto con i privilegi fiscali»!

Nel discorso di Milano l’onorevole Bertone dichiarò che nulla ormai poteva mutarsi nelle caratteristiche del prestito, il cui decreto era per pubblicarsi. Ma il 7 dicembre – la sottoscrizione si chiudeva il 10 – il Consiglio dei Ministri approvava un decreto per la creazione dei premi prima scartati. L’agenzia economico-finanziaria, sempre bene informata, pubblicò che il nuovo titolo sarebbe stato accettato in pagamento dell’imposta sul patrimonio al prezzo di emissione. Una settimana dopo, l’onorevole Bertone, a Milano, riferendosi alla notizia, escluse assolutamente tale agevolezza, che «stabiliva un circuito che annullava insieme l’efficacia del prestito e della patrimoniale». Quasi che non fossero entrambi in funzione del risanamento finanziario e non fine a sé, ma mezzi al fine. Ognuno vede quale formidabile elemento di successo questa clausola avrebbe portato e quanto avrebbe valorizzato il titolo, agevolando e favorendo la riscossione della patrimoniale.

Manifeste sono, quindi, le cause essenziali dell’insuccesso: la inopinata diminuzione del tasso di interesse, che avrebbe potuto trovare spiegazione soltanto in una revisione generale della politica dei tassi, e che si ripercuote nelle operazioni di anticipazioni contro pegno, in quanto che contro un interesse attivo del 3,50 il cedente di titoli in anticipazione dovrà pagare il 4,60; la mancata accettazione del titolo in pagamento della istituenda imposta sul patrimonio al prezzo di emissione; l’artificiosa distinzione fra imposta reale e personale relativamente ai titoli pubblici, distinzione che non depone a favore della buona fede e della lealtà di un Governo, perché dove la legge non distingue non è ad altri lecito distinguere; le dichiarazioni inopportune fatte da talune personalità responsabili circa il probabile prezzo del titolo a chiusura della sottoscrizione; l’effetto assolutamente controproducente di una propaganda inconsueta, pesante, opprimente, costosissima, male concepita e peggio attuata.

In conclusione, il Governo ha sciupato un predicato magnifico, «della Ricostruzione», per raccogliere la stessa cifra di denaro fresco raccolta dal prestito Soleri, che fu considerato come il prestito «ponte» fra la liberazione e la ricostruzione del Paese.

Se, dunque, questa è stata la sorte del prestito ed il suo modesto ricavato è stato consumato prima della riscossione, è lecito oggi pensare alla emissione di nuovi prestiti, a breve scadenza da quello della ricostruzione?

È lecito sperare nell’afflusso di fondi, per sottoscrizione di buoni ordinari ed attraverso conti correnti, in proporzioni tali da colmare l’ingente disavanzo? È, comunque, sarebbe saggio continuare una politica finanziaria di semplice cassa, basata sull’indebitamento illimitatamente progressivo, anche a prescindere da cause che, per la fluidità delle situazioni, potrebbero chiudere i canali d’afflusso del risparmio?

A queste domande, secondo me, non si può che dare una risposta negativa.

Ed io credo che questa sia anche la opinione dell’onorevole Corbino, che pure ha dovuto fare una politica di cassa.

Egli, infatti, sul «Tempo» del 9 ottobre 1945, dico del lontano ottobre 1945, quando non era ancora Ministro, scriveva queste testuali parole:

«…ci si dirà che alla Cassa bisogna pur pensare; ma fino a quando si potrà fare assegnamento su risorse che sono fatalmente destinate ad estinguersi? Se nel frattempo non saremo riusciti ad afferrarci ad un equilibrio più duraturo, dove andremo a finire? Si potrà vivere in eterno di logorio del patrimonio?

«Ecco il quesito che – privati ed enti pubblici– dobbiamo proporci per salvarci, perché salvarsi è ancora possibile, anche con tutti gli errori finora commessi. Occorre che tutti cooperino a riportare la finanza pubblica a non essere soltanto e soprattutto un problema di cassa, ma un problema del riparto migliore del reddito nazionale fra bisogni pubblici e bisogni privati; ma decorre far presto».

E nel discorso tenuto ai banchieri il 9 febbraio 1946, dopo la sua nomina a Ministro del tesoro, lo stesso onorevole Corbino ebbe a dire, fra l’altro, che «per poco tempo ancora i mezzi liquidi disponibili del Paese dovevano essere convogliati al Tesoro», poiché egli mirava a raggiungere una situazione nella quale, al contrario dell’assurdo congegno per cui lo Stato assorbe i risparmi raccolti dalle banche per investirli, distribuendoli alle industrie, le aziende possono ricorrere direttamente alle banche per il finanziamento. Ed aggiungeva che una volta invertito il fenomeno, si sarebbe iniziata una fase nella quale il Tesoro avrebbe dovuto porsi il problema di restituire alle banche i fondi che queste gli avevano versato.

Non disse come il Tesoro avrebbe potuto fare ciò. Evidentemente, abbandonando quella politica di tesoreria, che egli aveva deprecato col suo articolo del 9 ottobre sul Tempo.

Circostanze di varia natura, sulle quali sarebbe ozioso indugiarsi, non hanno consentito all’onorevole Corbino di attuare il programma che aveva divisato.

Ma oggi, non è assolutamente possibile continuare a considerare la finanza pubblica principalmente, se non esclusivamente, come un problema di cassa.

Essa, invece, deve essere considerata, come appunto pensava nell’ottobre 1945 l’onorevole Corbino, come il problema del migliore riparto del reddito nazionale fra bisogni pubblici e bisogni privati.

Ed allora un’altra domanda viene spontanea. Possono le entrare ordinarie e straordinarie d’ordine fiscale far fronte alla continua espansione delle spese?

Io non so che cosa il Ministro delle finanze e del tesoro si riprometta dalla prossima imposta straordinaria sul patrimonio. Ma ritengo che egli sarebbe ben felice se potesse ricavarne, non dico i 400 miliardi auspicati dall’onorevole Scoccimarro, ma 300, od al massimo 350 miliardi, non riscuotibili, naturalmente, in un solo anno, ma in quattro o cinque anni.

Di più non sarebbe possibile sperare, a meno che non la si voglia concepire – come appunto affermava ieri l’altro l’onorevole Scoca – una vera e propria falcidia sul capitale. E allora dovremmo cominciare con l’usare termini più appropriati: non si tratterebbe più di un’imposta – sia pure straordinaria – ma di una espropriazione.

L’onorevole Scoca sa meglio di me che ogni sana politica tributaria si astiene dal colpire la fonte della ricchezza, ed agisce sempre sul reddito, anche per garantire la continuità del tributo.

Con la falcidia del capitale, di quel capitale, peraltro, che noi sappiamo essere insufficiente alla nostra economia, si rischia di compromettere la stessa possibilità della produzione, la quale, se un bisogno ha in questo momento, è proprio di capitale, tanto che siamo costretti a far ricorso ai prestiti esteri.

D’altra parte, lo stesso onorevole Scoca non ha potuto, nella sua lealtà e competenza, fare a meno di accennare ai turbamenti che una siffatta politica fiscale potrebbe determinare. Turbamenti e squilibri inevitabili, specialmente nella vita delle aziende, dove la diminuzione del capitale incide pericolosamente su tutto il complesso aziendale.

Ora, se questi turbamenti sono previsti, perché dovremmo provocarli, quando già nella nostra economia operano tante altre cause di squilibrio e di incertezza?

Comunque, quali che siano i criteri di applicazione della imposta patrimoniale, le relative entrate potranno colmare soltanto una piccola parte del deficit di un solo esercizio: deficit, purtroppo, destinato a riprodursi negli esercizi successivi, essendo evidente che le spese straordinarie non si saranno esaurite nell’esercizio 1946-47.

Si pensa da molti che alle esigenze del bilancio si debba far fronte inasprendo sempre più la pressione fiscale sulle così dette classi abbienti. Anche in questa discussione, un esponente della Democrazia Cristiana, mi sembra l’onorevole Cappi, ha accennato a questo concetto.

La mia coscienza mi impone di dire al Governo che sarebbe una grave jattura per il nostro Paese se si lasciasse allettare da queste visioni più o meno miracolistiche, perché il risanamento definitivo della nostra situazione dipende, ormai, dopo tutte le distruzioni e le rovine che si sono accumulate sul corpo della Patria, unicamente da quello che è rimasto ancora in piedi della nostra attrezzatura agricola, industriale e commerciale. È necessario che le forze economiche ancora vive e vitali siano lasciate in condizione di rifarsi completamente le ossa, di ricostruire muscoli e nervi, di riprendere una circolazione capace di assicurare un più ampio respiro per portare sul mercato nazionale e su quello internazionale la maggiore possibile quantità di prodotti, di beni di consumo, di beni strumentali. Una saggia politica fiscale non deve inaridire le fonti del gettito, ma colpire solo il reddito. In caso contrario acquista finalità non di carattere tributario ma di ripartizione della ricchezza. Solamente così la vita del Paese potrà avviarsi verso la normalizzazione e ridare al Popolo un minimo di prosperità.

Queste sono verità acquisite alla coscienza comune di tutti gli onesti e di tutti coloro che sono veramente pensosi delle sorti della Patria, cioè del popolo italiano.

Ed allora quale può essere per il Ministro delle finanze e del tesoro una via di uscita per corrispondere alle aspettative della Nazione?

L’onorevole Scoca, ritenendo che la macchina tributaria non funzioni a pieno rendimento, è dell’avviso che una pressione fiscale identica a quella del 1938 possa assicurare 500 miliardi di entrate, che si devono considerare strettamente necessarie.

Ma evidentemente l’amico Scoca non tiene conto che profondamente diversa è l’attuale situazione produttiva rispetto a quella anteguerra. Basta tener presente che per il solo settore industriale la produzione attuale è appena il 50 per cento di quella del 1938. Né purtroppo si possono prevedere immediati miglioramenti di entità tale da raggiungere quel livello rapidamente.

Io dico che la pressione fiscale deve essere portata fino al limite estremo di sopportabilità; ma quando le entrate fiscali, insieme con i debiti, non sono sufficienti a coprire un disavanzo di portata così vasta, come quello di cui ho fatto cenno, allora debbo affermare che i fondamentali principî di onestà politica ed amministrativa esigono che quel disavanzo vada ridotto con taglio inesorabile delle spese.

Si devono sottoporre a revisione le spese pubbliche, eliminando inesorabilmente quelle superflue; si deve riorganizzare la sovrabbondante macchina burocratica che assorbe quasi i quattro quinti delle entrate; si devono riorganizzare, con criteri rigidamente economici, le aziende statali a carattere industriale; si devono rivedere i sistemi di forniture e di appalti; si devono eliminare tutte le sovrastrutture fasciste e di guerra e sopprimere tutte le mangiatoie improduttive.

Intanto, il Ministro del tesoro faccia un’analisi assai rigorosa delle singole voci del bilancio delle spese, come capita spesso a noi componenti della Commissione di finanza e tesoro, e tagli senza riguardo tutto quello che c’è da tagliare ed abbia il coraggio di resistere e reagire, secondo un imprescindibile obbligo di coscienza ed un reale senso di responsabilità, alle richieste di nuovi stanziamenti che tanto facilmente gli pervengono dai suoi colleghi di Gabinetto.

Ed il Governo ed i partiti, indistintamente, abbiano la forza morale di far comprendere agli italiani che quando la Patria, prostrata e dissanguata, non è in grado di dare ai propri figli più di quanto può dare, è vano illudersi che questo di più possa essere ottenuto con agitazioni, con occupazioni di terre, con salari improduttivi, con scioperi a ripetizione, con lavoro a regìa, ed in genere con opere pubbliche finanziate con emissione di carta moneta.

Bisogna richiamare gli italiani, senza paura della impopolarità e senza preoccupazioni elettoralistiche, a quella che è la cruda e dolorosa realtà, perché a poco a poco si vada formando nelle masse il convincimento che bisogna sopportare i sacrifici di questa eccezionale situazione, se si vuole avere davanti la speranza di un avvenire migliore più o meno prossimo.

È necessario, però, che questa politica di imposizioni tributarie e di economie sia svolta in modo unitario e con indirizzo preciso e con precise direttive.

Secondo l’ordinamento tributario dello Stato, soltanto l’Amministrazione finanziaria ha la competenza di prelevare, per i pubblici bisogni, una parte della ricchezza dei cittadini.

Perché questo ordinamento possa funzionare e raggiungere i suoi scopi è indispensabile che il contribuente – il quale rimane sempre lo stesso con la sua capacità contributiva – non sia sottoposto ad un accavallarsi di imposizioni da parte di organi diversi da quello finanziario, che solo può avere una visione il più approssimativamente esatta della situazione economica del paese, e solo può essere in grado di conoscere le capacità di contribuzione che il paese stesso possiede. Se già è un difetto gravissimo, da tutti lamentato e deprecato, quello dell’accumularsi di forme diverse di imposizioni da parte della stessa Amministrazione finanziaria, il difetto viene portato alla esasperazione quando a prelevare dalla ricchezza del medesimo contribuente si aggiungono organi diversi da quello finanziario, creando sovrapposizioni e interferenze, con l’evidente risultato di sconvolgere il sistema e di mettere il contribuente in una posizione di tenace resistenza contro l’azione impositoria costituzionalmente regolare.

Tutto ciò non è l’ultima causa che ha determinato l’accentuarsi del fenomeno delle evasioni fiscali, e non deve, quindi, meravigliare se l’Amministrazione finanziaria non riesca ad adeguare l’imposizione all’effettiva entità della materia imponibile.

Il rimedio delle aliquote sempre crescenti ha fatto fallimento. Ha fatto fallimento il rimedio delle sanzioni sempre più inasprite. Se si vuole finalmente tornare ad un sano sistema di imposizione è necessario che l’attuale ordinamento sia semplificato, che le aliquote siano ridotte e che soprattutto si cessi una buona volta di tormentare il contribuente con imposizioni più o meno improvvisate da parte di organi diversi da quello finanziario.

Mettiamoci bene in mente che la capacità contributiva è quella che è, e che quando al contribuente è stata portata via una certa quota della sua ricchezza da parte di una diversa amministrazione, qualunque possa essere lo strumento del prelievo, egli vorrà rifarsi e si rifarà di sicuro in sede di ordinaria imposizione.

Non parliamo, poi, di talune imposizioni anormali, il cui provento è tenuto fuori di bilancio dello Stato per essere speso in modo più o meno incontrollato ed incontrollabile.

Intendo accennare al provvedimento Morandi sulla imposizione di un diritto fisso del 0,25 per cento su tutti i prodotti e materie prime di importazione e di produzione nazionale, il cui ricavato è destinato al funzionamento di Commissioni e Sottocommissioni.

Intendo accennare al provvedimento Mentasti sull’obbligo del pagamento di lire 300 o 400 il chilogrammo sulle giacenze di formaggio, il cui ricavato è destinato al funzionamento di Comitati e Sottocomitati, alla creazione di un Istituto di ricerca e di sperimentazione, all’assistenza a favore delle provincie produttrici; soltanto all’ultimo momento lo Stato è riuscito ad assicurarsi la partecipazione ad un centinaio di milioni, ben misera cosa, se è vero che sinora il gettito ha superato 700 milioni.

Se i Ministri han bisogno di finanziare Commissioni e Sottocommissioni, Comitati e Sottocomitati per le esigenze dei servizi di interesse pubblico, si provveda con appositi stanziamenti di bilancio; se lo Stato ritiene di creare istituti scientifici e di ricerca tecnico-economica, provveda mediante appositi stanziamenti di bilancio; se lo Stato sente il dovere di assistere popolazioni bisognose di assistenza, provveda mediante appositi stanziamenti e l’assistenza sia distribuita alle popolazioni di tutte le provincie, anche e specialmente a quelle che non avendo una ricca produzione di formaggi, possono trovarsi – per la povertà della loro economia – in condizioni di maggior bisogno. I mezzi occorrenti siano acquisiti attraverso l’imposizione affidata alla amministrazione finanziaria.

E non si emanino provvedimenti – sia pure legislativi – che portino ad una patente violazione della norma contenuta nell’articolo 1° del decreto-legge 7 agosto 1936, n. 1639, che tassativamente prescrive non potersi stabilire alcun tributo, sotto qualsiasi forma, senza il preventivo assenso del Ministro delle finanze. Ed il Ministro delle finanze si ricordi che è suo inderogabile dovere opporsi decisamente a qualsiasi forma di imposizione che non sia nelle linee di una sana e regolare amministrazione finanziaria.

Una caratteristica della politica economico-finanziaria di questi tempi è stata l’incertezza.

Provvedimenti annunziati, rimandati, riannunziati ancora ed ancora una volta rimandati; oppure disposizioni adottate e dopo poco tempo modificate. Quante volte non si è parlato del cambio della moneta? Provvedimento, questo, che si presta, indubbiamente, a discussioni; ma che, comunque, per dare i risultati sperati avrebbe dovuto essere adottato tempestivamente e rapidamente attuato. Non nascondo che nei Paesi presso i quali è stato adottato i risultati sono stati inferiori a quelli previsti. Ma il caso nostro era un po’ diverso.

Fino alla liberazione del territorio nazionale emettevano moneta, senza precisi controlli:

1°) il Governo del sud;

2°) il Governo del nord;

3°) gli Alleati (am-lire).

A queste tre sorgenti di carta-moneta si aggiunsero rilevanti masse di carta affluite in Italia:

  1. a) dall’estero, ove erano rimaste bloccate per effetto di una legge che ne vietava il rientro nel territorio dello Stato;
  2. b) dall’Abissinia e dalle colonie, dopo la perdita di quei territori.

Nacque così il nostro marasma monetario, accresciutosi progressivamente fino a un anno fa: il torchio, infatti, seguitò a funzionare tanto in mano italiana quanto in mano alleata.

Il Governo avrebbe dovuto, innanzi tutto, censire questa ingente massa cartacea, perché senza inventariare, senza misurare il volume della circolazione nessuna seria politica finanziaria è possibile. Ciò non fu fatto, ed oggi quando ci riferiamo alla quantità della nostra circolazione, entriamo nel campo delle previsioni più o meno fondate.

Il cambio della moneta, fatto tempestivamente, di sorpresa, avrebbe dato buoni risultati; l’accertamento della entità della circolazione sarebbe stato assicurato e si sarebbe risolto in un vantaggio per la politica finanziaria.

Ma non basta: ad un certo momento avremmo avuto una precisa situazione – si potrebbe dire situazione fotografica – della distribuzione del denaro; e poiché la proprietà immobiliare è cognita allo Stato, avremmo avuto la possibilità, attraverso il cambio della moneta, di conoscere una volta tanto la vera distribuzione della ricchezza individuale. E così nessun cittadino avrebbe potuto sfuggire ai bisogni della ricostruzione.

Il mancato cambio della moneta ha danneggiato l’economia italiana, soprattutto perché da due anni se ne parla e non si fa mai. Questa notizia è ricorrente: ogni volta i capitali, per occultarsi, fuggono in cerca di investimenti; poi, passato il panico, tentano di ritornare alla luce. È logico che i capitali, così divenuti paurosamente nomadi, turbano l’equilibrio dei prezzi, falsano la domanda dei beni, come falsano l’offerta, incrementano la speculazione per l’accaparramento.

In breve: il mercato già turbato da cause politiche ed economiche diviene ancor più confuso e infido in dipendenza di fatti di origine fiscale.

Ne consegue uno stato d’animo d’incertezza, di timore, di apatia; ed anche questo lato psicologico produce dannosi effetti sul ciclo produttivo.

Comunque, il cambio non si è fatto; e dopo alterne vicende da romanzo giallo, come le ha definite l’onorevole Scoccimarro, dopo che il lancio del prestito fu basato sul cambio della moneta, siamo al punto in cui eravamo due anni fa.

Il Presidente del Consiglio ci ha fatto sapere che quanto prima il Governo prenderà una decisione definitiva.

Ora il cambio ha perduto quella importanza che avrebbe potuto avere se fosse stato tempestivamente adottato e rapidamente attuato.

Non giuoca più l’elemento sorpresa; ed i due principali obiettivi dell’operazione sono stati superati. Infatti, non è più il caso di parlare di blocco di biglietti italiani all’estero, essendo ormai rientrati tutti in Italia; e non è nemmeno il caso di parlare ancora – per lo meno come se ne parlava sino ad un anno fa – di sboscamento di biglietti nascosti – che sono biglietti che gravano sulla circolazione, ma che non circolano – in quanto è noto che una grandissima parte di quei biglietti è stata messa in circolazione dai ceti agricoli (che li avevano nascosti) per acquisti di attrezzi e bestiame.

Non resterebbe che il carico fiscale con cui la moneta dovrebbe essere colpita. Ma a parte le difficoltà per una giusta distribuzione di tale carico mediante il cambio, io penso che non debba essere impossibile escogitare un qualsiasi strumento tributario idoneo a ristabilire la giustizia fiscale, facendo sì che la moneta non dichiarata agli effetti della imposta straordinaria sul patrimonio abbia anch’essa a subire la debita imposizione.

E comunque, si tratterebbe di poca cosa di fronte al sicuro turbamento del mercato ed alla possibilità, di un ulteriore slittamento della lira.

Tutto ciò, però, non impedisce che al di fuori ed al di là di quella che è stata una convinta e leale opposizione dell’onorevole Corbino, si debbano accertare responsabilità di istituti, organi ed uomini che il cambio della moneta abbiano osteggiato, ritardato, impedito o comunque reso impossibile. Ed io mi riservo di sollevare in altro momento la questione.

Mi sembra, infine, opportuno rilevare, che, se il cambio dovesse essere deciso, non potrebbe che essere collegato all’imposta patrimoniale, e dovrebbe essere fatto col sistema di sostituire nuovi biglietti a quelli in circolazione per acquisire i nominativi dei portatori di circolante e l’importo del circolante da ciascuno posseduto e da comprendere nel patrimonio tassabile a suo carico, salvo il prelievo immediato di una certa percentuale in conto dell’onere dell’imposta stessa.

Se poi il cambio dovesse essere definitivamente abbandonato – come è augurabile – e non fosse escogitato un altro mezzo tributario per colpire la moneta, bisognerebbe, necessariamente, per evidenti ragioni di giustizia, esentare dall’imposta patrimoniale i depositi bancari ed i titoli di Stato, non essendo ammissibile che siano colpiti proprio coloro che invece di tenere il denaro nel cassetto lo hanno affidato alle banche per impieghi produttivi o allo Stato per i bisogni del Tesoro.

In quest’ultimo caso s’impone una sollecita decisione: si dica subito chiaramente e definitivamente che il cambio non si farà, e si dia la prova che si è rinunciato al cambio, mettendo in circolazione i nuovi biglietti.

L’onorevole Di Vittorio ha fatto colpa al Governo di non avere adottato una politica atta ad impedire l’ascesa dei prezzi che è causa di maggior disagio per le classi lavoratrici.

Non c’è dubbio che questo problema, sfuggito dalle mani del Governo sin dal primo momento, non è stato poi mai ripreso e decisamente affrontato.

Ma io penso che la grave situazione che si è venuta a creare sia in gran parte il risultato del sistema che si è seguito di legare i prezzi ai salari, in modo che questi si adeguino costantemente a quelli.

Ed in verità, specialmente nell’anno scorso, ad ogni variazione dei prezzi si è voluta far corrispondere una variazione, pressoché uguale, dei salari.

Questo sistema, evidentemente pericoloso, ha aggravato la situazione alimentare, ha inasprito i prezzi, ha reso più inadeguati i salari ed ha esercitato i suoi perniciosi effetti sull’inflazione.

È un giro vizioso; l’aumento del salario accresce il costo del prodotto; il maggior prezzo di vendita di questo esige l’ascesa del salario e così via.

L’onorevole Scoccimarro su questo grave problema si è limitato ad affermare che, «di fronte all’aumento dei prezzi, il Governo ha sempre una leva da manovrare: quella dell’aumento della produzione».

Ma a parte la considerazione che non sembra che tale leva abbia mai funzionato, tanto vero che i prezzi son sempre saliti, è da tener conto che un aumento della produzione è possibile quando tale aumento possa contare su uno sbocco nel mercato internazionale.

Ora, invece, è noto che la nostra affermazione sui mercati esteri è ostacolata dai prezzi interni, troppo elevati, che rendono difficoltosa la nostra esportazione soprattutto nei riguardi di quei Paesi nei quali si sta verificando una forte tendenza al ribasso. Le condizioni per l’incremento della produttività nazionale sono costituite dalla stabilità dei prezzi interni, cui invece ostano le continue alternative salariali. Tali inconvenienti vengono lamentati soprattutto dai negoziatori esteri, i quali, mentre offrono produzione a prezzi stabilizzati, ricevono controfferte a prezzi variabili, di cui soprattutto notevoli le variazioni intervenute per i recenti accordi salariali e quelle che si prevedono per il notevole aumento della indennità di contingenza.

Caposaldo di una positiva azione governativa deve essere la stabilizzazione dei prezzi, come si viene facendo in altri Paesi e specialmente in Francia e negli Stati Uniti.

In Francia si sono avute diminuzioni di prezzi in una con gli aumenti delle ore settimanali lavorative; negli Stati Uniti è stata abbandonata tutta la bardatura governativa costituita dalla così detta O.P.A. (Organizzazione controllo prezzi).

Ma, bisogna riconoscere, che aumento della produzione, stabilizzazione dei prezzi, sbocco dei nostri prodotti nel mercato internazionale, benessere dei singoli e della collettività sono tutte cose magnifiche che si possono realizzare soltanto in un regime di cordiale collaborazione fra capitale e lavoro.

Qui dentro è stato detto: «colpire l’iniquità capitalista, fonte di sciagure del nostro Paese».

Frasi vecchie, onorevole Nenni, che hanno fatto il loro tempo e sono state abbandonate dallo stesso stile della più licenziosa demagogia. Oggi, nella realtà della vita democratica non v’è che una sola parola che riassume le supreme esigenze della convivenza sociale.

Questa parola è collaborazione: fra tutte le classi, fra tutti i ceti, fra tutti gli individui. Noi la invochiamo, questa collaborazione, con fede sicura nella rinascita dell’economia del Paese e nella pace e nel benessere sociali. (Applausi).

Svolgimento di una interpellanza.

PRESIDENTE. L’onorevole Presidente del Consiglio ha dichiarato di essere pronto a rispondere alla seguente interpellanza presentata in una delle precedenti sedute dall’onorevole Grilli:

«Interpello il Presidente del Consiglio sui risultati della inchiesta già promessa in risposta alla interrogazione urgente svolta nella seduta del 10 corrente, a proposito dell’accusa di corruzione ad un Ministro contenuta nel settimanale L’Europeo del 9 corrente, tanto più che un altro giornale si è permesso di precisare l’accusa suddetta gettando discredito sopra un membro del Governo».

L’onorevole Grilli rinuncia a svolgere la sua interpellanza, riservandosi di replicare dopo le dichiarazioni del Presidente del Consiglio.

L’onorevole Presidente del Consiglio ha facoltà di parlare.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il settimanale L’Europeo del 9 corrente ha pubblicato un articolo a firma di Luigi Barzini Junior, nel quale si raccontava di un parrucchiere che alcuni giorni prima gli aveva narrato di un grande industriale dell’alimentazione che, in procinto di avere un’assegnazione di materia prima, si sarebbe sentito chiedere dal Ministro personalmente 40 milioni. L’industriale – scrive il Barzini – fatti i conti, aveva rifiutato, e l’assegnazione sarebbe andata ad un’industria concorrente.

Nell’articolo non è precisato il nome del Ministro, né sono dati altri particolari che possano servire per individuare il fatto denunciato.

In seguito alla presentazione dell’interpellanza dell’onorevole Grilli, il Barzini si affrettava a pubblicare nel Globo del 12 corrente un corsivo che, col pretesto di una interpretazione esatta dell’articolo, lo ritrattava. Ciononostante il Barzini fu formalmente invitato dal Questore a fornire nomi e precisazioni; ma egli si limitò, nonostante le insistenze fattegli dal funzionario, a far mettere a verbale la seguente dichiarazione: «L’aneddoto da me raccontato nell’articolo sull’Europeo è realmente avvenuto. Della sua veridicità o meno, non è questione». Dal contesto risulta anche che l’autore ne dubita. Ma l’autore, davanti all’enormità di questo «sentito dire», ha voluto segnalarlo, per dare la sensazione alle autorità e al Governo fin dove arriva il pubblico clamore circa uno stato di fatto ampiamente descritto anche dall’onorevole Conti nella seduta del giorno 10 alla Costituente.

In sostanza, continua il verbale di Barzini, «io volevo dire che l’Italia è piena di queste voci di corruzione e di continue interferenze sugli affari, e di fronte a questo dilagare di voci, giornalisti e cittadini ci sentiamo impotenti a portare una chiarificazione, per il fatto che gli industriali ed i commercianti trovano più comodo perpetuare questo stato di fatto, anziché denunciarlo, per evitare di essere incriminati insieme con le persone che avevano speculato.

«L’articolo, quindi, è inteso a segnalare sia l’enormità delle voci, sia l’impossibilità di provarle, quanto l’esistenza di uno stato di fatto, certamente non così grave come l’ampiezza delle voci tenderebbero a farlo credere.

«Non credo opportuno di fare precisazioni individuali, né di cose che potrebbero risalire alle persone, in quanto io ho inteso soltanto di raccogliere una voce e di gettare l’allarme su questo fenomeno, ma, non essendo sicuro del fatto, ritengo superfluo ogni dettaglio».

Ora io non posso non deplorare pregiudizialmente la leggerezza con la quale si lanciano accuse di una tale gravità. La stampa ha il diritto e il dovere di denunciare all’opinione pubblica e al Governo fatti di corruzioni ed altre manchevolezze dell’Amministrazione pubblica, ma deve adempiere a tale sua funzione assumendo la responsabilità di ciò che denuncia, dando modo agli organi competenti ed agli incolpati di accertare i fatti. Il Barzini, invece, dopo avere denunciato un caso di corruzione di un Ministro, invitato a precisare, si è ritirato sulla più cauta e più comoda linea della denuncia di voci di corruzioni.

L’unico dato concreto, però, che risale all’ambiente Barzini, ha già consentito alle nostre indagini di escludere perentoriamente che un Ministro abbia personalmente trattato operazioni di assegnazioni del genere, le quali vengono discusse ed elaborate in Comitati costituiti di funzionari delle amministrazioni ed uffici interessati, nonché di rappresentanti industriali e commerciali.

Tuttavia, per la tutela del buon nome dei funzionari e di quanti a tali operazioni comunque partecipino, intendo allargare le indagini al di là della responsabilità personale dei Ministri, e mi riservo di presentare, ad inchiesta finita, un rapporto completo all’Assemblea. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole interpellante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

GRILLI. Se dicessi che riprendo volentieri la parola sulla materia della mia precedente interrogazione, direi una cosa non vera. Lo faccio, perché mi sento costretto a rimescolare questo fango. Quando il Presidente del Consiglio promise che avrebbe fatto una severa e rapida inchiesta, io risposi augurando che questa inchiesta si facesse sul serio ed il Presidente del Consiglio replicò che in questa materia ha sempre fatto sul serio.

Oggi ci ha detto che cosa ha fatto per questa inchiesta, e quali sono stati i risultati; ma io francamente non sono sodisfatto, non tanto per me, quanto per il Ministro accusato, che voi non dovete lasciar assolvere per insufficienza di prove.

Voci al centro. Chi è?

GRILLI. Io avrei aspettato questa risposta dal Presidente del Consiglio, fiducioso nella sua probità; avrei atteso ancora, se non fosse venuta in questo frattempo altra stampa a raccogliere la diceria dei 40 milioni e, badate, non più a riferire le chiacchiere di un barbiere, ma a formulare un’accusa precisa, indicando il nome del Ministro. È a questo punto che io mi preoccupo, come cittadino e come deputato; e dico: qui bisogna andare in fondo. Perché io proposi questo dilemma l’altra volta, e lo ripeto anche oggi: noi abbiamo bisogno di sapere se c’è un Ministro corrotto o una stampa calunniatrice.

Non bisogna aver paura dello scandalo: lo scandalo è un po’ come l’intervento chirurgico, fa male quando il ferro tocca la piaga, ma poi finisce sempre col sanare. Pericoloso è invece il silenzio che può essere scambiato per omertà.

Non possiamo assumere l’atteggiamento del superuomo, scrollare le spalle e tirare innanzi; questo si può fare quando si tratta di accuse di carattere politico, anche se ferocissime, o quando si tratta di semplici ingiurie, le quali offendono soltanto quando scendono dall’alto e non quando salgono dal basso.

Ma quando si tratta di accuse che investono l’onore, con fatti precisi e determinati, bisogna avere la pazienza di soffermarsi a raccoglierle e a discuterle, altrimenti la gente può dire: «Dunque è vero».

Io non credo alla verità dell’accusa; ma ho bisogno di una parola precisa su questo punto, non per me, ma per il popolo italiano. Quando, parecchi anni fa il Ministro Depretis fu accusato di sguazzare nel fango fino al collo, egli bonariamente corresse e disse: «No, no fin qui» indicando – racconta il Carducci – il labbro inferiore dal quale calava la barba veneranda. Ma si trattava di fango politico. Quando invece si tratta di fango morale, anche se tocca appena il piede bisogna liberarsene e subito.

Ad ogni modo, io avevo posto il dilemma: o un Ministro corrotto, o una stampa calunniatrice. Non tocco il primo punto, perché, se, Dio ne guardi, questa accusa fosse vera, siamo tutti d’accordo su quelle che potrebbero essere le conseguenze. Ma mi occupo del secondo corno del dilemma, che si tratti cioè di accusa falsa e infondata, e domando al Governo che cosa vuole fare di questa stampa disonesta che, forse per fini politici, attacca le persone dei Ministri per attaccare il Governo.

Mi preoccupo non tanto per quello che è avvenuto ieri, quanto per quello che potrà avvenire domani, perché badate: non è difficile che dell’avvenire, specialmente in questo fervore di lotta politica, ve ne attacchino altri dei vostri Ministri, per screditare il Governo. E sapete perché? Perché colle sanzioni che esistono oggi, per la stampa disonesta (e parlo soltanto della stampa disonesta, perché alla stampa onesta invio il mio reverente saluto di cittadino e di deputato) per la stampa disonesta campagne di questo genere, signori, sono sempre ottimi affari.

Mi spiego con un esempio. Prendete un giornaletto qualunque, nato da poco, magari da genitori illegittimi; un giornaletto che abbia bisogno di farsi la réclame, che abbia bisogno di lettori. Ma, sapete che non c’è niente di meglio e di più adatto che campagne di questo genere? Perché, da un lato, sodisfano la curiosità sana e malsana della gente, dall’altro circonfondono il giornale di una aureola di coraggio civile. Questo è l’attivo.

Ed ora vediamo il passivo.

Se questi giornali disonesti trovano un Ministro che scrolla le spalle e tira avanti, allora la réclame è gratuita; non solo, ma, siccome l’impunità accredita l’accusa, si formano un capitaletto che possono mettere da parte per la prossima occasione.

Supponiamo invece che si trovi un Ministro il quale ricorre al giudice. Cosa può fare? Non può fare altro che una querela per diffamazione. Se il giornalista che ha scritto l’articolo inviasse per posta espressamente al Ministro copia del giornale, si potrebbe entrare nell’oltraggio, altrimenti non c’è che la querela per diffamazione. Ora, voi sapete che cosa sono questi processi nei quali, in definitiva, il vero imputato è il povero querelante, contro il quale si aguzzano gli sguardi della difesa, mentre l’imputato siede al suo banco con la posa dell’eroe e del martire politico, assistito da quella parte di pubblico (ed il pubblico è sempre un personaggio importante nel dramma giudiziario) che desidera la sconfitta del querelante. Ed intanto il giornale continua a farsi la réclame. Si viene poi alla condanna. Si può trovare un giudice il quale sceglie fra le due specie di pene stabilite dall’articolo 595 del Codice penale, la reclusione o la multa, e sceglie la multa che ha un minimo di 5 mila lire, somma questa che poteva fare impressione quando fu fatto il Codice, ma che oggi qualunque borsaro nero porta nella tasca dei pantaloni. Se con qualche diecina di migliaia di lire l’imputato se la cava, il giornale ha realizzato un magnifico affare, perché, se si fosse fatto la réclame con cartelli pubblicitari e commessi viaggiatori avrebbe speso molto di più.

Si può trovare invece un giudice che sceglie la pena detentiva, la reclusione che va da sei mesi a tre anni. Voi sapete come, specialmente la prima volta, il magistrato, si stacchi poco dal minimo e non neghi quasi mai una condanna condizionale; ma supposto anche che l’imputato possa prendersi più di un anno, il gerente responsabile condannato, che il più delle volte è – perdonatemi la frase volgare – un Pinco Pallino qualsiasi, va in carcere con l’aureola del martirio e non c’è niente di strano che trovi poi un partito politico che lo porti candidato, al Parlamento. Ed intanto il giornale continua a farsi la réclame!

Bisogna provvedere. Ho visto un progetto di legge inteso a portare questi processi al tribunale per «direttissima». Non serve a niente, non basta: la «direttissima» è una parola che fa impressione, ma noi pratici di queste cose, sappiamo quel che accade. Anzitutto c’è un articolo del Codice di procedura penale che dà diritto all’imputato di domandare un rinvio, ed intanto il giudizio direttissimo diventa diretto; poi, in processi di questo genere, nei quali la difesa ha diritto alla prova dei fatti, c’è sempre bisogno o di testimoni o di documenti che non si possono trovare subito, e nessun giudice negherebbe un altro rinvio per modo che anche il diretto diventa un… omnibus che si ferma in tutte le stazioni!

Non basta questo, signori del Governo: occorre – e mi rivolgo ai legislatori che preparano la nuova legge sulla stampa – aggravare le sanzioni non tanto coll’aumentare la multa od il carcere, quanto col colpire il giornale. Perché no? Io non parlo contro la libertà di stampa; parlo contro la libertà di abusare della stampa per commettere reati (Approvazioni). Ora che si è ristabilita la facoltà di prova che il Codice Rocco aveva abolita, la stampa è chiamata a collaborare per la moralizzazione della vita pubblica. Ma appunto perché non si confonda la stampa onesta con quella disonesta, la quale, con la scusa della moralizzazione, offende gli uomini per offendere poi le istituzioni, occorre mettere questa stampa disonesta in condizioni di non nuocere. Bisognerebbe poter concedere per lo meno al magistrato la facoltà, nei casi di evidente malafede, nei casi cioè in cui l’imputato non sia in grado di fornire la prova, quando insomma il querelante risulti innocente, bisognerebbe, dico, concedere al magistrato la facoltà di sospendere e, nei casi di recidiva, di sopprimere anche il giornale. Non si abbia a male la stampa onesta di questo, ma ne sia anzi lieta: siccome la stampa ha una altissima funzione, bisogna anche che abbia una altissima responsabilità. E intesa in questo senso, soltanto in questo senso, la libertà di stampa rimane uno dei più nobili e sacri diritti della nostra civiltà. (Applausi).

D’ONOFRIO. È vero, onorevole De Gasperi, che esiste una dichiarazione di Luigi Barzini, il quale si vanta di aver fatto la spia a favore del nazismo? (Commenti).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Può essere che ci sia: ma non la conosco, non ne ho notizia.

PRESIDENTE. L’onorevole Presidente del Consiglio ha chiesto di replicare. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Io ho chiesto, in fondo, un supplemento delle indagini; ho chiesto del tempo per potervi fare un rapporto completo. Non basta, infatti, che noi riusciamo ad escludere la responsabilità personale dei Ministri; bisogna che cogliamo questa occasione per vedere se è possibile togliere ogni fondamento a queste voci che continuano ad inquinare la nostra vita pubblica e a gettare un’ombra, un sospetto, sulla nostra amministrazione, che spero, e credo, non meriti.

Se il Barzini avesse detto chiaramente di che si tratta, di che materia e di quali persone, questa occasione poteva essere fortunata e decisiva. Non l’ha detto, non l’ha voluto dire, per quanto io l’abbia fatto citare dal Questore; il quale, essendo il Barzini ammalato, si è dovuto personalmente disturbare ad andarlo a visitare. Il Barzini, dunque, non ha voluto assumere questa responsabilità, cosa assai deplorevole. Tuttavia, dagli ambienti del Barzini, è uscita una voce che ci ha dato un certo filo da seguire; e le indagini che ho iniziate e fatto iniziare riguardano precisamente quelle operazioni che possono essere indicate dalla materia nominata.

Io ho intenzione e fermo proposito di riferire alla Camera, in dettaglio, su tutte queste cose; ma, poiché vorrei, oltreché giungere al risultato, di cui non ho dubbio, che i Ministri rimangano completamente illesi da questa accusa, arrivare anche a dire altrettanto di tutta l’amministrazione e dei funzionarî, l’Assemblea comprenderà che debbo chiedere un differimento, senza entrare ora in particolari che evidentemente incepperebbero l’inchiesta che intendo di fare col concorso dei Ministri.

Ecco perché ho preso questo atteggiamento.

L’interrogante ha fatto accenno ad un altro giornale. Egregi colleghi, vi sono giornali che escono adesso, libellistici, tanto da una parte che dall’altra, dei quali veramente non si può occuparsi, a meno che non riportino esattamente fatti e prove. Ho visto uno di questi giornali, che non è quello a cui l’onorevole Grilli si riferiva ieri, che riportava un articolo: «De Gasperi eguale a traditore», per tre colonne, in cui dimostrava che io avevo tradito in America l’Italia, vendendola all’America, e che lo avevo fatto per profitto, per ordine del Vaticano. (Proteste – Commenti).

Volete che un uomo, il quale viene toccato nel più intimo del suo dovere, dopo aver servito la Patria per tanto tempo, si curi di questo fango che viene dalla strada? (Vivissimi generali applausi). Vi sono giornali che escono a Roma ed in altre città, che hanno perduto ogni pudore ed ogni diritto di venir presi sul serio.

GRILLI. Colpiteli.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Li colpiremo naturalmente. Ci aiuterete a colpirli con una buona legge sulla stampa. Su questo sono d’accordo. Stiamo per presentarvi una legge sulla stampa, che vi prego di eventualmente inasprire, ma non attenuare, con richiami alle dichiarazioni generiche sulla libertà di stampa, che già avete fatto nel testo della Costituzione. Comunque, aderisco già in anticipo a quelle misure che possono salvare i galantuomini e le istituzioni che meritano tutto il rispetto, e specialmente la massima istituzione politica nostra: la Repubblica.

Però, devo aggiungere che l’accenno fatto a quell’altro giornale non merita molto rilievo, anche perché quest’altro giornale, che non nomino, parla di tutt’altri fatti, attribuendoli allo stesso Ministro. Parla dei 40 milioni, ma dice: «un ricatto pulito ed elegante da progressivo evoluto», perché l’attacco è tutto diretto contro la categoria a cui appartiene il Ministro. L’industriale aveva bisogno di una concessione per esportare qualcosa all’estero. L’accusa del Barzini è diversa: si tratta di assegnazione di materie prime importate. Poi, qui viene descritta la storia in modo innominabile e inqualificabile. Il Ministro ha fatto sapere che la concessione era pronta, firmata e messa a posto; però, doveva dare 40 milioni. Domando se un galantuomo come il Ministro di cui si parla, un galantuomo che ha lavorato in tutta la vita con senso di onestà e rappresentando gli interessi dei meno abbienti, deve proprio esporsi alla calunnia di fronte ad un giornale di questo genere e con questi dati. (Approvazioni).

Egli mi ha chiesto ancora ieri, appena ha visto questo giornale, il permesso di dare querela. Io ho detto di no. Voi stessi sapete quali sono le conseguenze per una querela in questo senso. Egli ha insistito ed ho risposto: «Mi richiamo ai colleghi nel Consiglio dei Ministri. Ne riparleremo».

Ma dico che avrei assunto la responsabilità di dire di no, perché bisogna avere il coraggio di dire che quando si tratta di galantuomini, e si crede che siano galantuomini, (e per essere proprio al sicuro di ogni malalingua, si va a dimostrare) si trova che ciò era impossibile materialmente:

1°) perché il fatto di cui si tratta non è nemmeno avvenuto, non essendo stata fatta né all’uno né all’altro l’assegnazione, che è ancora in sospeso;

2°) perché queste assegnazioni avvengono dopo una elaborazione, in comitati, dei quali fanno parte vari rappresentanti dei Ministeri e delle categorie interessate.

Ciò vale tanto riguardo al Ministero dell’industria, che riguardo al Ministero del commercio estero. Ora, quando si hanno queste garanzie, mi pare che si possa tranquillamente parlare di una calunnia. Perciò, si tratta nel primo caso di una insinuazione calunniosa, che non aveva dato nemmeno elementi tali da poter fare una seria inchiesta, se, aggiungendo altre ipotesi, non avessimo seguito una certa traccia su cui localizzare l’indagine. Infatti, quando si parla di un’assegnazione generica, essendo centinaia le assegnazioni, diventa impossibile ricercare in ogni singolo caso se vi sia stata frode.

Comunque, accetto di collaborare, con tutto lo spirito che esige la difesa dell’onore, ad una legge sulla stampa, che sarà portata fra poco dinanzi a voi. È necessario che questa legge renda impossibile la vita a certi giornali i quali vivono solo di questi scandali (Applausi), e che abbia un certo stile, da impedire a coloro che lanciano la freccia di nascondere la mano. (Applausi generali).

PRESIDENTE. L’onorevole Grilli ha chiesto di parlare. Ne ha facoltà.

GRILLI. Il Presidente del Consiglio afferma dunque di aver raggiunto la convinzione assoluta dell’innocenza del Ministro. Io ne sono felicissimo ed accetto questa sua dichiarazione.

Egli ha aggiunto, però, che continua l’inchiesta, la quale dovrebbe continuare per colpire la stampa calunniatrice. Siamo d’accordo anche su questo.

Ebbene, l’Europeo di ieri annuncia che farà pure un’inchiesta per suo conto.

Io mi auguro, come Deputato, di non dovere, fra qualche tempo, dichiararmi più sodisfatto dell’inchiesta dell’europeo che di quella del Presidente del Consiglio. (Commenti).

Presidenza del Vicepresidente TUPINI

Si riprende la discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri. L’onorevole Quintieri Quinto ha facoltà di svolgere il seguente ordine del giorno, firmato anche dagli onorevoli Lucifero, Cortese, Morelli Renato, Badini Confalonieri, Bonino, Martino Gaetano, Condorelli:

«L’Assemblea Costituente ravvisa nella difesa della moneta nazionale il primo scopo della politica economica del Governo, perché senza stabilità della lira, cioè senza costanza del potere di acquisto dell’unità monetaria, non ci sarà tutela per il risparmio, specialmente per il risparmio delle classi meno abbienti, né possibilità di proficuo lavoro e di organizzazione del lavoro, ma solo disordine e speculazione;

ritiene che gli inevitabili sacrifici, ai quali dovrà essere a tale scopo chiamata ogni classe di cittadini, nella misura delle proprie forze, debbano essere al più presto precisati per togliere il Paese da uno stato di incertezza pernicioso per la produzione;

raccomanda che delle risorse finanziarie così ottenute venga fatto l’uso più oculato e palese attraverso la pubblicità dei bilanci, al fine di dare agli italiani la certezza che il loro sforzo non resterà sterile, ma varrà, con la stabilità del valore della monda, ad allontanare effettivamente le incognite che pesano sul loro avvenire».

QUINTIERI QUINTO. Poche parole, per due motivi: perché l’ordine del giorno è abbastanza chiaro e la discussione è durata a lungo, e perché sulle comunicazioni finanziarie del Governo è stato detto presso a poco tutto quello che si poteva dire e molte delle osservazioni, che dovrebbero oggi appoggiare l’ordine del giorno presentato da me, sono state fatte anche da altri settori della Camera.

Non posso non rilevare che proprio oggi, dal settore a me di fronte, l’onorevole Lombardo ha espresso delle idee che, in una larga percentuale, vorrei dire per 1’80 per cento, potrei accettare, e, probabilmente, potrebbero accettare anche i miei colleghi di gruppo.

Anche dall’onorevole Marinaro sono state fatte delle osservazioni giuste. Non starò dunque a riprendere ed a svolgere, in una forma completa e organica, l’ordine del giorno, per non ripetere cose già dette. Farò soltanto talune osservazioni.

Noi deprechiamo, quanto gli altri, che al lavoro serio, onesto, produttivo, siano subentrati, in molti campi, la speculazione, il giuoco e ogni specie di manovra più o meno fraudolenta. Il deprecarlo, lo stigmatizzarlo, come è stato fatto, mi sembra però che non basti, perché bisogna precisare come e perché questo lavoro concreto, così caratteristico nei nostri ceti industriali, agrari e commerciali, sia stato sostituito invece dalla sterile speculazione e dal giuoco disonesto. Ora è evidente che la svalutazione monetaria, che è stata una delle più gravi conseguenze del disastro economico del nostro Paese, ha influito ed è alla base della speculazione e del giuoco.

Porterò alcuni esempi: come volete che oggi l’industriale pensi all’avvenire, pensi ad organizzare, con sforzi penosi e lunghi un lavoro redditizio in una industria, quando gli è assai più semplice incettare, fare acquisti di un determinato quantitativo di prodotti ed aspettare che tranquillamente, lentamente, senza fatica da parte sua, la svalutazione della moneta porti nelle sue tasche quello che ha tolto alle tasche di altre categorie di persone?

Ecco una delle cause essenziali per le quali non possiamo creare delle condizioni normali di lavoro, sia nell’industria che nel commercio, oggi che la svalutazione del denaro falsa una quantità di aspetti della vita economica italiana.

Ho detto prima che non avrei svolto in una forma organica il mio ordine del giorno, per non ripetere cose note o già dette ed avrei semplicemente accennato ad alcune situazioni caratteristiche della nostra attività produttiva. Vengo per esempio all’agricoltura. La svalutazione del denaro ha tolto l’agricoltura italiana da quelle difficoltà, da quello stato di penoso disagio, nel quale il quinquennio 1930-35 l’aveva fatta piombare. Per cinque o sei anni gli agricoltori non sono riusciti a fare le spese di esercizio e a pagare le tasse.

Poi, nel decennio seguente, una lenta, continua e, da ultimo, vertiginosa ascesa dei prezzi, non accompagnata dall’adattamento ad essi delle tasse, ha dato la sensazione che dalla terra potesse scaturire una sorgente perpetua di ricchezza e quindi ha fatto sorgere il desiderio, logico e umano, di meglio distribuirla. Questa è una apparenza del tutto fallace, dovuta anche al fatto che gli agricoltori hanno prodotto a determinati prezzi ed hanno venduto a prezzi costantemente crescenti; dovuta al fatto che il gravame tributario non ha tempestivamente seguito la celere e progressiva svalutazione della lira; oltreché alla scarsezza dei viveri, per la quale i generi alimentari sono stati venduti, in un certo senso, all’incanto e non a prezzi proporzionati a quelli di costo. Quando le ordinarie imposizioni che gravano sulla terra, quando i costi delle varie colture si saranno messi in armonia con quanto si ricava dalla vendita dei raccolti, si vedrà subito come l’agricoltura in Italia non sia una miniera d’oro e che la pretesa sperequazione della ricchezza terriera è fenomeno soprattutto contingente e non ha base nella realtà dei fatti.

Ho citato l’agricoltura perché di essa si parla molto in relazione con la possibilità di una migliore ripartizione di questa forma di ricchezza, e non si vede quale sforzo di lavoro e di capitali l’agricoltura richiederà, quando quelle condizioni del tutto fugaci di questi ultimi anni saranno venute a cessare.

Ma oltre a questi settori ce ne sono altri, in cui la svalutazione del denaro ha profondamente alterato la reale consistenza delle situazioni patrimoniali. L’iniquità di questa variazione della capacità d’acquisto della moneta ed il danno che ne viene a determinate categorie sociali è dimostrato da alcune cifre.

Voi sapete che avevamo, alla fine del 1939, circa 95 miliardi di depositi nelle banche e nelle Casse di risparmio postali. In queste ultime i depositi erano 35 miliardi, oggi sono 150. Il coefficiente di moltiplicazione è di appena 4 volte, mentre il denaro si è svalutato da 25 a 28 volte. Il valore reale dei crediti dei depositanti nelle Casse di risparmio postali ha dunque subito la maggiore contrazione. Viceversa, i depositi bancari sono saliti da 61 a 670 miliardi, il che prova come per questa categoria di risparmiatori la formazione di nuovo risparmio sia stata molto più rapida.

La svalutazione del denaro ha quindi soprattutto ridotto l’ammontare del risparmio delle classi meno abbienti, fra le quali più lenta è stata la formazione di nuovo capitale.

Fra i tanti motivi che abbiamo di frenare lo slittamento della moneta c’è appunto quello della necessità di stimolare al massimo il risparmio di queste categorie meno abbienti.

Ma che cosa è possibile fare in questo momento per arrestare il processo di svalutatone? Due sono gli ordini di provvedimenti possibili: il primo è l’aumento della produzione, superando tutte le difficoltà che tale aumento comporta; l’altro è lo spostamento, in misura maggiore che non in passato, da alcune categorie di cittadini allo Stato, dei beni prodotti, o più esattamente dell’equivalente monetario di tali beni.

L’aumento della produzione nazionale si ricollega con un complesso di difficoltà enormi che bisogna superare.

L’osservazione che ci viene suggerita dalle cifre è che abbiamo, per sistemare la nostra mano d’opera, per vincere le difficoltà d’impiego di tutte le forze del lavoro, per così dire, diluito l’attività delle diverse aziende che sono alla base del nostro sistema produttivo; quindi i margini di utile netto di un gran numero di aziende si sono andati riducendo sempre più in questi anni.

Citerò a questo proposito la situazione bancaria. I tre Istituti di interesse nazionale, che rappresentano la parte più viva del nostro organismo bancario, e che nel 1945 hanno avuto 4 miliardi di spese, hanno guadagnato soltanto 23 milioni: cioè il mezzo per cento dell’ammontare delle spese. La riduzione degli utili potrebbe avere una giustificazione, se ad essa corrispondesse la bontà del servizio per i risparmiatori. Ma l’interesse è basso per chi deposita il denaro, mentre coloro che ricorrono alle banche per ottenere finanziamenti pagano un interesse altissimo: e questo è un grave inconveniente.

La situazione patrimoniale delle banche non è quindi rafforzata da margini di utile sufficienti e tali da consentire la ricostituzione graduale del capitale decurtato dalla svalutazione del denaro.

Ciò è dovuto in parte alla esuberanza di personale, che diventa difficile utilizzare in pieno. La stessa esuberanza di personale esiste in tutte le aziende che fanno capo allo Stato, ed anche in molte aziende private. Un complesso di pressioni e di azioni coercitive ha cercato di fare assorbire al massimo la mano d’opera, sia in agricoltura che nell’industria.

Se non facciamo uno sforzo, perché questa manodopera, invece di venire coattivamente assorbita da determinate aziende che non possono impiegarla utilmente, venga avviata a lavori veramente produttivi, ci troveremo costantemente di fronte ad imprese, le quali assorbono completamente tutto quello che producono e non danno nessun margine di utile netto, su cui lo Stato possa fare affidamento per i suoi bisogni.

Concludendo, dall’attuale complesso delle attività della Nazione, che lavorano con margini di utili relativamente modesti, non credo si possano trarre quegli 800 o 900 miliardi richiesti per il nostro bilancio, i quali corrispondono ad oltre un terzo, o forse al 40 per cento, del reddito nazionale.

Solo una parte di una cifra simile potrebbe veramente essere tolta al reddito del Paese, se non si vuole alterare profondamente tutta l’organizzazione della nostra produzione inaridendone le fonti.

Se cercheremo davvero di prendere per le spese dello Stato una parte così forte del reddito della collettività, non ci resterà che l’artificio monetario, al quale, prima o dopo, saremo costretti ricorrere.

Mi sembra che buona regola dovrebbe essere non di proporzionare le spese ai desideri ed ai bisogni, ma alle effettive entrate. Si tenga conto che una esagerata pressione fiscale finisce col ridurre rapidamente le entrate e fa sì che parte notevole dell’attività dei cittadini si svolga esclusivamente attraverso degli artifici ed in evasione alla legge, e che, mentre l’attività economica che resta nel campo legale finisce col lavorare press’a poco senza utile, la parte più proficua è quella che si svolge in contrasto con la legge ed al di fuori di essa.

Penso che il nostro bilancio per il prossimo esercizio dovrebbe essere contenuto nel limite massimo di 500-600 miliardi, perché potrebbe diventare profondamente pericoloso per la moneta superare questo limite.

Dobbiamo riflettere che, in qualunque modo lo Stato prenda questo denaro, sia con le tasse, sia con i prestiti, sia attraverso qualsiasi altro artificio, sia pure l’artificio monetario, si tratterà sempre di assorbire un’aliquota della produzione che dovrà conservare un rapporto ragionevole con la massa totale dei beni prodotti nel Paese. Ma l’aumento di questa produzione di beni nell’attuale momento è d’una difficoltà enorme, perché il lavoro all’interno è in funzione anche dei nostri scambî coll’estero e questi dipendono solo parzialmente da noi. È chiaro che la massa di beni offerta non può essere, in ogni caso, che gradualmente aumentata; occorre dunque che la proporzione con quanto deve assorbire lo Stato attraverso le disposizioni di carattere fiscale, ordinario e straordinario, di cui si è sentito parlare, venga contenuta nei limiti del possibile.

È stato parlato in questi giorni di quattro o cinque forme diverse di imposta patrimoniale: si è citata l’imposta ordinaria sul patrimonio, che si potrebbe riscattare. C’è poi in incubazione l’altra imposta sul patrimonio, quella straordinaria, una specie di Moloch per i nostri contribuenti, che aleggia da circa due anni col suo spettro minaccioso; è stata invocata l’imposta straordinaria sui profitti di regime; si è ricordata quella sui profitti di guerra; l’altra sui profitti di congiuntura; ecco quattro altre imposte straordinarie, di cui una parte finirebbe col trasformarsi in vere imposte sul capitale. Si è anche proposta una tassa del 25 per cento sulla differenza di valore messa in evidenza da una rivalutazione obbligatoria degli impianti industriali per conguaglio monetario. Questa rappresenta praticamente un’altra imposta sul patrimonio; sopra un patrimonio quale è quello costituito dagli impianti industriali; cioè un patrimonio che ha oggi bisogno di essere integrato da una notevole scorta di capitale circolante universalmente deficiente.

Ci sarebbe poi una quinta specie di imposta sul patrimonio; a questa tutti siamo abituati e tutti, credo, la riteniamo la più giusta: l’imposta di successione. Anche questa è un’imposta patrimoniale, se pure ripartita nel tempo.

Ora, questo insieme così complesso, e direi anche così confuso, di imposte patrimoniali, che dovrebbe ricadere su di un’economia depauperata qual è l’economia italiana, non potrà non avere effetti gravi, immediati e probabilmente perniciosi. Penso che bisognerebbe, nei limiti del possibile, fare leva soprattutto sulle imposte alle quali già siamo abituati, perché, anche per le imposte, il tempo e la consuetudine attutiscono le resistenze dei singoli e spesso mitigano gli effetti. L’imposta di successione dunque, con la progressività delle aliquote e con la diversità delle sue modalità di applicazione, rappresenta già una ottima tassa patrimoniale, anche perché è scaglionata nel tempo. Abbiamo l’imposta globale sul reddito – che è la base di tutta la tassazione diretta inglese ed americana – e che bisogna aggiornare al più presto per evitare che le sperequazioni dei redditi, dovute in gran parte alla svalutazione della moneta, portino a quella cattiva distribuzione dei beni di consumo ed a quel cattivo uso dei redditi stessi – direi, a quello sguaiato uso del denaro da parte di pochi – che vediamo tutti i giorni e che urta il senso generale di giustizia.

Queste due ultime imposte sono quelle che dovrebbero rappresentare la base della nostra tassazione diretta. Aumentare la pressione tributaria con imposizioni di carattere eccezionale non può che inaridire le fonti dei proventi, perché dovrà aggirarsi sempre sulle stesse cifre, cioè sull’insieme della produzione annua della Nazione. Non avremmo nessun reale miglioramento per il bilancio. Ciò che è realmente di somma importanza, consiste nell’utilizzare tutti i redditi che superano lo stretto minimo di cui ciascun cittadino italiano ha bisogno per la propria esistenza, ad uno scopo produttivo: migliorare l’attrezzatura del Paese, perché l’economia italiana risente profondamente del logorìo degli impianti industriali, della scarsezza dei mezzi meccanici di lavoro, di quanto c’è d’antiquato nei sistemi di produzione agricola, e così via.

Se fosse possibile incanalare ogni supero di questi minimi di reddito verso il perfezionamento e l’estensione dell’attrezzatura produttiva, noi potremmo effettivamente agire sulla seconda leva per la difesa della moneta: quella della produzione, la quale è purtroppo la più difficile a muovere in modo da ottenere effettivamente dei risultati concreti.

E con questo ho finito; credo di non avere oltrepassato i venti minuti regolamentari; se ho maltrattato qualche cosa, è stato forse un po’ la organicità delle idee che non sono state né completamente né ordinatamente sviluppate. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Rescigno:

«L’Assemblea Costituente,

udite le dichiarazioni del Governo relative alla scuola primaria e secondaria;

ritenuto che la serietà della medesima si ristabilisce precipuamente con la elevazione morale ed economica degli insegnanti, finora sempre trascurata;

invita il Governo ad adottare sollecitamente i seguenti provvedimenti:

1°) espletamento dei concorsi per insegnanti, direttori didattici e capi d’istituto di ruolo;

2°) promulgazione di norme ben definite per il tempestivo, giusto ed irrevocabile conferimento annuale degli incarichi e delle supplenze;

3°) adeguamento del trattamento morale ed economico degl’insegnanti governativi a quello degli altri dipendenti statali;

4°) trattamento agl’insegnanti delle scuole parificate, da parte degli enti e dei privati che le amministrano, non inferiore a quello minimo che lo Stato fa agl’insegnanti governativi;

5°) rigorosa osservanza, da parte delle Provincie e dei Comuni, degli obblighi loro derivanti dalle leggi in materia di pubblica istruzione e soprattutto, in concorso cogli Uffici del Genio civile, di edilizia scolastica».

L’onorevole Rescigno ha facoltà di svolgerlo.

RESCIGNO. Io dico seguitando, onorevoli colleghi, perché l’altro giorno ho già toccato, con una mia interrogazione di urgenza, qualche punto ed aspetto del mio ordine del giorno, il quale riguarda un problema che, a differenza del problema finanziario, non è stato in questa Assemblea trattato quasi da nessuno: il problema della scuola primaria e secondaria.

Non intendo col mio ordine del giorno di porre a fuoco il problema integrale della scuola italiana, primaria e secondaria; comprendo che quella riforma scolastica che, dopo tanti esperimenti in corpore vili, contradittorî, il Paese attende ancora, non potrà essere opera né di questo Governo provvisorio né dell’Assemblea Costituente.

Vi sono però delle esigenze che hanno una indiscutibile urgenza, dei provvedimenti che non possono essere ulteriormente differiti, se si vuole puntellare quel tale franamento di cui parlava il Ministro, e far sì che esso non diventi un crollo completo e perfetto.

Primo provvedimento: i concorsi. I concorsi non solamente vanno fatti subito, ma vanno estesi dai maestri e dai professori, per i quali nelle sue dichiarazioni il Presidente del Consiglio li prometteva espressamente, ai direttori didattici, ai capi di Istituti, al personale di segreteria e subalterno.

Perché una delle esigenze più gravi della scuola, in questo momento, è appunto la deficienza delle direzioni didattiche e degli Istituti secondari. Occorre che i direttori didattici, affinché siano veramente i vigili custodi delle scuole elementari, tornino ad avere giurisdizione su circoscrizioni comunali.

Circa i capi di Istituti secondari, onorevoli colleghi, forse nessuno di voi sa che la maggior parte di tali Istituti, cioè la quasi totalità delle scuole medie italiane, è retta da presidi incaricati e che questi incarichi durano da sette anni, cioè da tanti anni quanti ne ha di vita la scuola media; che alcuni di questi presidi sono stati anche sospesi, perché incaricati nel periodo fascista, e la sospensione è stata accompagnata dal regolare pagamento dello stipendio, onde la epurazione si è risolta in una vacanza accompagnata dallo stipendio, e poi, in seguito a discriminazione, sono stati riammessi nell’insegnamento ed hanno avuto restituito anche l’incarico della presidenza.

Ora: o tutta questa gente, questi bravi funzionari sono degni del loro ufficio, e si sistemino definitivamente; o non ne sono degni e si restituiscano all’insegnamento; ma si renda alle scuole quello che è il loro fulcro, quella che è la loro anima, cioè il capo, il preside, il quale, rivestendo un ufficio non transeunte, ma stabile, abbia un impulso più vigoroso alla propria attività e goda presso gli alunni e gli insegnanti di maggiore prestigio e di maggiore autorità.

Nell’espletare poi i concorsi, occorre fare un’opera di giustizia verso alcune categorie di insegnanti. Vi sono, infatti, insegnanti, i quali sono idonei, hanno conseguito la idoneità in concorsi passati, insegnano da 10, da 15, qualcuno da 20 anni, e sono sfiduciati, sono moralmente depressi, perché costretti a fare eternamente i supplenti. Si trovi il modo di sistemare in ruolo – sia pure attraverso un rapporto informativo o ispettivo – questi professori che hanno già dato prova della loro capacità. Vi sono insegnanti i quali hanno prestato lungo servizio negli ex-territori annessi all’Italia ed ai quali lo Stato italiano – sia pure lo Stato fascista – aveva fatto delle promesse precise. Essi hanno servito in quei territori non lo Stato fascista, ma la Patria italiana, ed è giusto oggi che quelle promesse siano mantenute.

Ho presentato in proposito all’onorevole Ministro per la pubblica istruzione una interrogazione e, nella risposta scritta, il Ministro accenna, tra l’altro, a comprensibili ragioni di ordine internazionale che vieterebbero il mantenimento di quelle promesse.

Non comprendo quali ragioni di ordine internazionale ci possano essere per la sistemazione di questi insegnanti; non comprendo come il trattato, il diktat – il quale ci ha tolto i nostri territori, anche i territori che non erano il frutto della conquista e dell’imperialismo fascista, ma erano il frutto dei nostri sacrifici e del nostro lavoro – debba, o possa anche infliggere punizioni ad umili lavoratori della mente che in quei territori hanno portato il soffio della nostra civiltà.

ì concorsi ridurranno, ma non elimineranno quella che è la vera piaga della scuola. E la vera piaga della scuola è il supplentato.

Signori del Governo, il supplentato va eliminato con la promulgazione di disposizioni certe, di norme precise, e con l’applicazione tempestiva e giusta di queste disposizioni. Perché (non so se anche questo lo ignoriate) si sono avuti, dalla liberazione in poi, diversi Ministri della pubblica istruzione, 5 mi pare. Ma, in tutti i modi, in tre anni, dal 1944 al 1946, si sono avuti tre sistemi diversi di conferimento degli incarichi e delle supplenze. Nel 1944: devoluzione della facoltà delle graduatorie e delle nomine ai provveditori; nel 1945: devoluzione di queste stesse facoltà ai presidi singoli; nel 1946, ai presidi riuniti in assemblea. Criteri di valutazione, quindi, quanto mai contradittorî, per cui qualche professore, che nell’anno scorso era stato classificato con 12 o 13 punti, quest’anno si è visto classificato con 10, con 9 punti, ed ha dovuto fare l’amara constatazione di aver fatto un progresso a rovescio.

Non dirò niente dell’applicazione di queste norme: direttori didattici e ispettori che interferiscono nell’operato dei provveditori; provveditori che interferiscono nell’operato del Ministero circa i famosi comandi; insegnanti che, raggiunta la sede loro assegnata, la trovano già occupata; scuole che, nel mese di febbraio, fino a pochi giorni fa, non avevano ancora i loro insegnanti.

È mettendo un poco di ordine in tutta questa Babele, in tutto questo caos, che si risolverà immediatamente il problema della scuola, e non con il giusto rigore che si invoca ogni momento contro i nostri giovani studenti. Anche quello è necessario, ma è opera di polizia scolastica. Il problema della scuola invece si risolve con l’interesse, e non con l’indifferenza, con l’amore per le istituzioni che devono dei nostri figli fare i cittadini retti ed operosi di domani.

E vi è un altro problema scolastico, che riguarda le condizioni morali ed economiche degli insegnanti. I professori sono i soli funzionari dello Stato che si trovino in una condizione strana: un professore di scuola media deve morire al grado VIII e, se vuol morire invece al grado VII, deve, in età avanzata, sottoporsi a novelli concorsi, e scendere in lizza con giovani appena usciti dalle università. Se c’è una categoria di funzionari ai quali bisogna fare appello per quanto riguarda questo trattamento di carriera ed economico, è quella dei magistrati. Con piacere ho letto stamane su un giornale che l’onorevole Umberto Merlin, in una riunione di magistrati, ha fatto promesse concrete, specifiche, che il problema dei magistrati sarà risolto in maniera efficace.

Ora, i professori sono come i magistrati, perché se il magistrato è il giudice del suo concittadino, del suo simile, nei riguardi della sua attività morale, il professore è il giudice del suo simile per quanto riguarda la sua capacità intellettuale e spirituale. Adempiono entrambi alla stessa nobile ed alta funzione. Se per i magistrati si è trovato modo di istituire una indennità di toga, non vi è ragione per cui non si debba istituire, anche per i professori, una indennità di studio. E non mi vengano il Ministro del tesoro o il Sottosegretario al tesoro ad eccepire le difficoltà del Tesoro medesimo; perché, se si vuole una Scuola che sia degna di questo nome, bisogna spendere.

L’onorevole Colonnetti ci ha parlato dei bisogni dell’istruzione superiore; per le ricerche scientifiche, negli Stati Uniti, si spende dieci volte quello che si spende per la difesa nazionale. Quando io penso a questo e vedo che, per una scuola media della mia città, la quale ha avuto dalla guerra tutto distrutto, il Ministero largisce una diecina di migliaia di lire l’anno per materiale didattico, con le quali non si compera neanche una carta geografica murale, io sono preso, signori del Governo, da un senso di sconforto, da un senso di amarezza; e mi spiego allora anche come enti locali – i Comuni e le Provincie – sull’esempio dello Stato, mostrino per l’istruzione pubblica una suprema indifferenza e un supremo disinteresse.

L’altro giorno, il professor Mancini lamentava lo stato miserevole dell’edilizia scolastica nella sua Calabria; e che dovremmo dire noi del Salernitano, che dovremmo dire noi anche del Napoletano? In Napoli, gli alunni vanno a scuola ancora per turni di giorni, un giorno sì e un altro no; da noi, a Salerno, per turni di ore; da noi, le aule scolastiche hanno ancora le stalattiti di cemento che pendono dai soffitti; le finestre delle nostre scuole sono ancora prive di vetri. Questo è lo stato della pubblica istruzione nella nostra regione, ed io mi sorprendo, mi meraviglio, come da qualche onorevole collega si sia potuto parlare in maniera così vivace contro le scuole parificate, contro le scuole private. Quale sarebbe lo stato delle cose, se non ci fossero state le scuole affidate all’iniziativa degli enti e all’iniziativa dei privati? Per me, il problema della scuola parificata non è quello prospettato dall’onorevole Giua; non è nel pericolo che l’istruzione e l’educazione dei nostri figli vadano a finire nelle mani degli istituti religiosi. Oh, se ciò accadesse, sia pur certo l’onorevole Giua, che sarebbe un bene e non un male per l’Italia! (Applausi al centro).

Di fronte a istituti come il «Massimo», come quello di Montecassino prima della distruzione, come l’Abbazia di Cava, istituti veramente modelli, anche molti assertori della scuola laica sono felici, tranquilli, di affidare ad essi i loro figliuoli, perché sanno che, da quegli istituti, usciranno dei cittadini virtuosi, amanti del bene e consapevoli dei loro doveri, anche verso la Nazione e verso la Patria.

Il problema della scuola parificata è un altro problema: è il problema della scuola parificata non tenuta da religiosi, ma da persone che si dicono educatori e sono invece degli speculatori. E badate che, nel periodo fascista, con queste scuole a base commerciale, si è abusato nel dare concessioni e riconoscimenti, molte volte non meritati. Questi riconoscimenti e queste con cessioni vanno riveduti.

Il Ministro Gonella in parte lo ha fatto, ma deve farlo ancora meglio, e deve soprattutto imporre – questo ho chiesto nell’ordine del giorno – che queste scuole parificate facciano ai loro insegnanti un trattamento più decoroso dal punto di vista morale ed economico, non inferiore, almeno, al minimo del trattamento che lo Stato fa ai propri insegnanti. Solamente così questi poveri insegnanti delle scuole parificate, che hanno stipendi di fame, potranno liberarsi dalle preoccupazioni e dai compromessi colla propria coscienza.

Così si purifica la scuola italiana, così si potrà portare a termine la risoluzione del problema scolastico.

Dobbiamo convincerci, onorevoli colleghi, che la scuola, come disse il Tommaseo, «o è un tempio o è una tana». Se vogliamo che sia un tempio, dobbiamo coltivarla, dobbiamo rispettarla ed amarla come un tempio. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Canepa ha presentato il seguente ordine del giorno, firmato anche dagli onorevoli Pera, Rossi Paolo, Momigliano:

«L’Assemblea Costituente,

i richiamandosi al riconoscimento del Presidente del Consiglio nelle sue dichiarazioni: «è giunto il momento di preparare la ripresa del turismo»;

considerando che tale ripresa è urgente per molti motivi morali, politici ed economici;

per il sollievo che il turismo apporterà a tutta la Nazione e segnatamente alle regioni climatiche, e sovrattutto perché senza turismo non può stabilirsi la bilancia commerciale, indispensabile alla salvezza della lira;

constatando che finora nulla è stato fatto a tale fine, anzi la requisizione per altre destinazioni di molti alberghi, la mancata riparazione di altri molti danneggiati dalla guerra, le difficoltà burocratiche con cui i Consoli all’estero e la Polizia all’interno ostacolano l’afflusso dei forestieri, impediscono la ripresa del turismo;

invita il Governo a costituire l’Alto Commissariato del turismo, dandogli facoltà e mandato di compiere sollecitamente quanto occorre per la ripresa, sulla più larga scala possibile, del turismo».

L’onorevole Canepa ha facoltà di svolgerlo.

CANEPA. Dirò brevi parole, non solo perché l’ora è tarda, ma anche perché il Presidente del Consiglio, nelle sue dichiarazioni, ha esplicitamente riconosciuto la necessità della ripresa del turismo. E come non riconoscerla? Tutti sanno che la differenza fra l’importazione e l’esportazione si suppliva con tre entrate, così dette invisibili: le rimesse degli emigranti, i noli marittimi ed i proventi dei forestieri che venivano in Italia. Allora il turismo si chiamava l’industria dei forestieri.

Purtroppo, dei moli marittimi non è neanche il caso di parlare, date le condizioni attuali della marina mercantile.

L’emigrazione incomincia ora, ma, purtroppo, passerà molta acqua sotto i ponti prima che arrivino in Italia le rimesse degli emigranti.

Resta il turismo, il quale contribuiva all’importazione delle valute pregiate niente di meno che per il 41 per cento, cioè più ancora della importazione dei prodotti ortofrutticoli. Era dunque di una suprema importanza per la nostra Italia. Purtroppo, oggi, è ridotto, come sappiamo, a niente, e proprio quando in tutto il mondo ricomincia a svilupparsi. E, notate, che mentre un tempo era privilegio delle classi ricche, oggi l’uso dei viaggi, l’uso delle vacanze all’estero si viene praticando anche dalle classi lavoratrici, almeno nelle nazioni socialmente più progredite. C’è ne dà un esempio luminoso la Svezia. Ebbene è in questo momento che noi dovremmo dare la nostra opera, per richiamare i forestieri nel nostro Paese, purtroppo privo di tante materie prime, ma ricco di sole, ricco di un clima invidiabile, ricco di acque termali, e che dalle Alpi Dolomitiche, dall’Alto Adige fino a Capri, fino a Taormina, offre ospitalità gradita a tutto il mondo.

Che cosa si è fatto a questo riguardo finora? Non solo non si è fatto niente, ma (mi dispiace di dirlo) si è fatto qualcosa in senso contrario.

Alcuni mesi fa presentai una interrogazione chiedendo che si facoltizzassero i Comuni dove sono alberghi i cui proprietari non si curano di riparare i danni prodotti dai bombardamenti della guerra, a ripararli, rivalendosi poi coi fitti delle spese fatte. Mi fu risposto negativamente, dicendomi che il Governo avrebbe provveduto in altro modo.

Ha provveduto, con un decreto che dava un sussidio così tenue, così irrisorio, che quegli alberghi sono ancora inabitabili. Inoltre taluni alberghi vengono requisiti ed occupati per destinazione tutta diversa dalla loro propria. Anche per questi ho detto: Lasciateli liberi; perché possano essere occupati e adibiti alla loro funzione, lasciateli liberi perché vi sono delle caserme vuote che possono essere occupate, e che non servono più all’uso militare. Ma quelle caserme continuano ad essere vuote e a deteriorarsi, mentre gli alberghi sono chiusi.

Ma vi è qualcosa ancora di più grave: ho comunicato all’onorevole Ministro Sforza alcune lettere di famiglie del nord d’Europa che, prima della guerra, erano solite venire nella nostra riviera ligure a trascorrere l’inverno. E scrivono: Ora noi torneremmo ben volentieri, ma ci siamo rivolti ai vostri consoli domandando il passaporto, e abbiamo trovato tale una accoglienza che ci ha veramente scoraggiati, tali e tante lungaggini burocratiche che abbiamo dovuto abbandonare il campo e ci siamo rivolti ai consoli francesi che ci hanno accolti a braccia aperte, e ci hanno dato immediatamente i passaporti. Quindi con nostro rincrescimento, invece di venire fra voi, ce ne andiamo a Cannes, a Nizza, sulla Costa Azzurra della Francia. L’onorevole Ministro Sforza, che ringrazio vivamente, mi ha gentilmente risposto con una lettera che chiedo il permesso di leggere all’Assemblea, perché molto interessante: «A proposito della sua, desidero assicurarla che le nostre Rappresentanze all’estero hanno già avuto precise istruzioni per facilitare al massimo il ripristino delle correnti turistiche in Italia; ma, come facilmente intuitivo, il problema è complesso ed ha riflessi nel campo valutario e dell’ordine pubblico. Solo ora, infatti, le competenti autorità italiane stanno cercando, attraverso il censimento, di regolare e controllare la permanenza degli stranieri in Italia. Ma le assicuro, e le sarò grato, se vorrà informarne anche gli altri colleghi liguri, che farò il possibile affinché la questione possa essere al più presto definita e risolta nel senso da lei auspicato».

Sono sicuro che queste assicurazioni dell’onorevole Ministro saranno seguite dai fatti, ma da questa lettera già appare dove è il male. Il male sta piuttosto, anziché nella politica estera, nella politica interna; sta nelle disposizioni emanate dalla polizia italiana, la quale accorda a tutti i forestieri, senza discriminazione, un breve periodo di tempo (30 giorni), dopo il quale, senza distinzione fra stranieri più o meno desiderabili – salvo il diritto di asilo che tutte le nazioni praticano – rinvia tutti gli stranieri al loro Paese.

Questo è avvenuto in Liguria alcune settimane fa; pare incredibile, ma è vero.

Ora, quando pensiamo alle condizioni del nostro erario, quando pensiamo, come dicevo prima, alla nostra bilancia commerciale, e dobbiamo riconoscere che il turismo, se si sviluppasse, potrebbe incrementare le industrie, specialmente quelle dei trasporti, le alberghiere, quelle dei pubblici esercizi, l’artigianato, e contribuire all’attivo del bilancio, non possiamo non deplorare un tale contegno.

Uno studioso serio, il Mariotti, che ha pubblicato un saggio molto ponderato su questa materia, calcola che, in pieno sviluppo, il turismo può apportare all’Italia da 40 a 50 miliardi. Questa è l’entrata che possiamo avere, e non so da quale altra fonte tanto bene ci potrebbe venire. Pertanto, dovremmo rivolgere al turismo tutte le nostre cure, dovremmo rivolgervi ansiosamente tutte le attenzioni per riattivarlo. Il che è possibile, purché facciamo quello che fanno tutte le altre nazioni in condizioni, a questo riguardo, molto meno favorite di noi, perché basta aprire un giornale o una rivista di nazioni estere, per vedere dalla pubblicità che cosa fanno e che cosa spendono gli altri Stati per favorire il turismo.

E, anche senza cercare riviste o giornali, basta andare a pochi passi di qui, sul Corso, di fronte al caffè Aragno e vedere come e con quale lusso di manifesti sia attrezzata la sede della propaganda turistica svizzera. Tutto un piano è organizzato per attirare l’attenzione della gente. Questo noi dovremmo fare e questo purtroppo finora non si è fatto. Ed è pensando che è tempo di farlo, che nel nostro ordine del giorno abbiamo chiesto che si crei un Alto Commissariato del turismo. Un amico mi ha detto: guardate che la espressione Alto Commissariato può ingenerare un equivoco. Si può credere che vogliate creare una specie di Sottosegretariato di Stato con direttori generali e una serqua di funzionari da non finir più. Dio me ne guardi! (Si ride). Se questo pericolo c’è, elimino, sacrifico subito l’aggettivo Alto e mi contento del sostantivo Commissariato.

È necessario un istituto che sia snello, semplice, che deve avere per compito, d’accordo con l’E.N.I.T., nato nel 1919, e che è un istituto autonomo, e d’accordo con gli altri enti periferici, di fare tutto quanto è necessario per lo sviluppo del turismo. Naturalmente coi mezzi che lo Stato deve accordargli.

Un tempo il Commissariato esisteva. Disgraziatamente, nel 1934 o 1935, è stato annesso al Sottosegretariato stampa e propaganda. Basta dirvi questo perché ognuno intenda dove sono andati a finire i fondi che ad esso erano destinati. (Si ride).

Il fascismo era contrario al turismo perché, sognando la restaurazione dell’Impero romano, diceva: noi non dobbiamo fare i cuochi e i camerieri, come se fare i cuochi e i camerieri fosse un mestiere meno rispettabile che gli altri, e soprattutto come se fosse un mestiere meno ricercabile che non esser disoccupato. A proposito di disoccupazione, dallo stesso studio ricordato poc’anzi, risulta che, direttamente o indirettamente, ai tempi in cui il turismo fioriva, erano circa 700 mila le persone che da esso ricavavano lavoro.

Pertanto concludo (poiché ho promesso di esser breve e perciò sacrifico molte altre osservazioni che si potrebbero fare) che di tempo ne abbiamo perduto anche troppo, e prego il Governo di volerlo riguadagnare creando questo organismo che deve agire d’accordo con quelli dell’industria privata che sono già stati formati e che procedono abbastanza bene: procedere d’accordo con essi per suggerire al legislatore e al Governo tutto quello che è necessario per lo scopo di cui ho lumeggiato l’importanza, per creare gli adatti tecnici e per incrementare sotto tutti i punti di vista questa industria che sarà salutare per l’Italia: salutare dal punto di vista economico che nel momento attuale deve essere alla cima del nostro pensiero; salutare anche dal punto di vista morale e politico, perché anche il turismo è uno degli elementi per cui si possono abbassare i muri, divisori fra le nazioni e affratellare i popoli. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Comunico che è stata presentata, con richiesta di risposta urgente, la seguente interrogazione dell’onorevole Camangi:

«Al Ministro delle finanze, per sapere se non creda opportuno, in attesa che venga definita la questione dell’esonero dal pagamento dell’imposta generale sull’entrata per i trasferimenti di merci effettuati dalle cooperative di consumo ai soci delle medesime, di disporre perché si sospenda intanto, da parte degli uffici, l’esazione del canone di abbonamento delle dette cooperative, esazione che dovrebbe essere effettuata entro la fine del corrente mese».

Domando al Governo quando intende rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Domani il Ministro farà sapere se e quando intenda rispondere.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle altre interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono d’interrogare l’Alto Commissario per l’alimentazione, per conoscere i motivi che lo hanno indotto a disporre la maggiorazione del prezzo dello zucchero assegnato all’industria e al commercio, esigendone il pagamento con effetto retroattivo a decorrere dal mese di agosto ultimo scorso; provvedimento che reca gravissimo danno agli interessati specialmente in Sicilia, dove pagano già una maggiorazione del 20 per cento per fondo di solidarietà siciliana, e che ne chiedono l’immediata revoca.

«Finocchiaro Aprile, Gallo, Castrogiovanni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se non ritenga di dover esentare dalla imposta prevista dall’articolo 6 del decreto legislativo presidenziale 21 ottobre 1946, n. 236, il marsala, il vermouth, i vini liquorosi e gli aperitivi a base di vino fabbricati in Sicilia con vini naturali ad alta gradazione alcoolica e quindi senza aggiunta di alcool.

«De Vita».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per sapere se e quali provvedimenti siano stati presi o intenda prendere per un conveniente e proficuo servizio di assistenza alle molte migliaia di minatori italiani avviati nel Belgio, i quali si trovano spesso nella dolorosa situazione di non sapere a chi rivolgersi nelle loro molteplici necessità e, particolarmente, nei casi di infortuni, malattia, espatrio dei familiari, decesso, trasferimento di valuta, ecc.

«Pat».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dei trasporti e delle comunicazioni’, per conoscere i motivi per i quali, a tutt’oggi, non si sia provveduto ad istituire sulla linea Roma-Genova-Torino, in analogia a quanto già è stato attuato per altre regioni, un servizio giornaliero con treni rapidi, e ciò malgrado le ripetute assicurazioni verbali da tempo fornite dai competenti uffici tecnici delle Ferrovie dello Stato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Negarville, Colonnetti, Fornara, Grilli, Canepa, Giacchero, Bertone, Luisetti, Villabruna, Chiaramello, Giua, Carmagnola, Pat, Viale, Maffi, Pertini, Cairo, De Michelis Paolo, Canevari, Bonino, Lami Starnuti, Gotelli, Angela, Leone Francesco, Roveda, Pera, Bovetti, Rossi Paolo, Scotti Francesco».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, sulla opportunità di un provvedimento legislativo inteso a vietare ai magistrati, che abbiano per lungo periodo di anni servito nell’Ufficio del pubblico ministero, il passaggio dalla Magistratura requirente alla giudicante.

«Il provvedimento invocato è giustificato dalla constatazione che il lungo esercizio professionale nell’organo di accusa costituisce, presso i magistrati della requirente, passati alla giudicante, una caratteristica forma mentis, nella quale sono carenti quei requisiti di imparzialità caratteristici del giudice, ed è presente per contro l’habitus mentale caratteristico della parte pubblica, con evidente pregiudizio per la finalità e gli scopi dello stesso processo penale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bellavista».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se è stato applicato il decreto legislativo 7 settembre 1945, n. 125, nei riguardi dei professori insegnanti nelle scuole medie, che ebbero posti esclusivamente per meriti fascisti.

«Nell’affermativa, si chiede se essi hanno diritto ad essere reintegrati e percepire gli arretrati in seguito alla recente amnistia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«D’Agata».

 

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della pubblica istruzione e delle finanze e tesoro, per conoscere i motivi per i quali – con manifesta noncuranza delle difficili condizioni economiche in cui versano gli insegnanti e con disparità di trattamento rispetto ad altre categorie di funzionari statali – non si è ancora provveduto alla liquidazione in loro favore della indennità di presenza: rendendo – con tale indugio – pressoché irrisorio il beneficio che dal suddetto provvedimento gli insegnanti si sarebbero potuti attendere. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Villabruna».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro della pubblica istruzione, per sapere: 1°) se ritengano opportuno adottare adeguate provvidenze per un razionale, completo e rapido programma di ricerche e di scavi, poiché da quelli recentemente iniziati, vengono in luce, in molte zone della provincia di Salerno (a Positano, a Minori, a Pontecagnano, a Montecorvino, ad Arenosola presso Battipaglia, a Fratte presso Salerno e soprattutto a Paestum), tesori di arte e di archeologia di epoche remote che risalgono sino al VI secolo avanti Cristo. Particolarmente degno del massimo interesse, presso Paestum, è il famoso Santuario di Hera Argiva, e interessanti rilievi figurati della metà del VI secolo avanti Cristo, i quali costituiscono il complesso artistico arcaico più importante del mondo greco: ed inoltre, mentre in una necropoli lucana sono stati rinvenuti due edifici che, per il tipo particolare di costruzione, si riconnettono ad analoghi edifici dell’Asia Minore, e per l’epoca cui appartengono, cioè al III secolo avanti Cristo, costituiscono un nuovo documento di un periodo della storia della Città, è stata altresì da poco scoperta una vastissima necropoli, che non trova riscontro con altre coeve dell’Italia e delle Isole e che rimonta all’età eneolitica, cioè al principio dell’età dei metalli. In essa sono stati rinvenuti manufatti magnificamente conservati e che risalgono al 2000 avanti Cristo; 2°) se, trattandosi di tesori archeologici unici al mondo, che aprono le più vaste prospettive di studio, col conseguente richiamo di scienziati e di turisti da ogni parte, ritengano necessario, se non addirittura indispensabile, finanziare convenientemente i predetti lavori di scavi, integrandoli anche con la costruzione nella zona pestana di un museo archeologico. Tutto ciò sarebbe facilitato dalla numerosa mano d’opera disponibile in quelle zone ed assicurerebbe soprattutto un imponente afflusso di forestieri, specialmente anglo-americani che, già per ragioni sentimentali, sono indotti a visitare quelle località ove essi combatterono e dove sorgono vasti Cimiteri di guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Martino»

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, in merito alla annunciata legge che dovrà regolare il regime degli affitti, la quale, sulle tracce della precedente, considererebbe gli «studi per artisti» (pittori, scultori ed architetti) alla stregua di negozi, cinematografi od aziende di commercio in genere. In seguito alla citata legge del 1945, gli studi furono così gravati di aumenti dall’80 al 140 per cento. Tenendo presente che, nella quasi totalità, questi studi sono adibiti anche ad abitazione degli artisti, la cui attività è da anni in gravissima crisi, e tenuto presente, pure, che quasi sempre questi ambienti sono ricavati in relitti di terrazze, di cortili e di tetti, l’interrogante chiede che – in considerazione della suprema necessità di assicurare la continuazione della gloriosa tradizione artistica italiana – sia scongiurato, con precisa disposizione di legge, il pericolo di un ulteriore aggravarsi delle già disagiatissime condizioni degli artisti e che, comunque, gli studi siano, nella peggiore delle ipotesi, equiparati a quei locali per i quali la nuova legge consentirà aliquote minime di aumento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Fausto».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.45.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

  1. – Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
  2. – Esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.