ASSEMBLEA COSTITUENTE
LIV.
SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 7 MARZO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
indi
DEL VICEPRESIDENTE TUPINI
INDICE
Congedi:
Presidente
Comunicazioni del Presidente:
Presidente
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:
Zuccarini
Lussu
Capua
La seduta comincia alle 16.
AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.
(È approvato).
Congedi.
PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Pignedoli, Macrelli e Caristia.
(Sono concessi).
Comunicazioni del Presidente.
PRESIDENTE; L’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri ha trasmesso i decreti legislativi luogotenenziali n. 545 e n. 546 del 7 settembre 1945, relativi all’ordinamento amministrativo della Valle d’Aosta e alle agevolazioni economiche e tributarie a favore della Valle stessa, perché – a norma, rispettivamente, degli articoli 23 e 6 dei decreti medesimi, siano sottoposti all’Assemblea.
Ritengo che sui due provvedimenti possa riferire la Commissione per la Costituzione. Se non vi sono osservazioni in contrario, così rimarrà stabilito.
(Così resta stabilito).
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
È iscritto a parlare l’onorevole Zuccarini. Ne ha facoltà.
ZUCCARINI. Prospetterò, onorevoli colleghi, alcune esigenze della democrazia e mi riferirò a qualche esperienza. Spero di non ripetere cose già dette. Non mi soffermerò su questioni di principio.
Noi repubblicani non abbiamo mai considerato la Repubblica come pura forma, ma ci siamo sempre preoccupati che la Repubblica fosse anzitutto sostanza. È in tale senso che mi propongo di intervenire in questa discussione.
Incomincerò coll’osservare come sia spiacevole che la partecipazione del pubblico a questo dibattito sembri molto scarsa. La stampa in genere non si occupa del nostro progetto, e quella che se ne occupa lo fa spesso con la preoccupazione di svalutarlo e di criticarlo.
Sappiamo benissimo a che mirano tali svalutazioni e dobbiamo preoccuparcene. Dobbiamo perciò dare, almeno qua dentro, l’impressione di un grande spirito democratico ed anche di una grande volontà di realizzazione. È augurabile che la partecipazione degli onorevoli colleghi a queste discussioni sia in avvenire molto pili numerosa. Bisogna riguadagnare il tempo perduto, e richiamare sulle nostre discussioni, con una più viva e seria partecipazione, l’attenzione e l’interessamento del Paese. Se questa discussione si fosse fatta 7 mesi addietro, forse noi saremmo molto più avanti nel nostro lavoro ed avremmo assolto meglio la nostra funzione. Non lo abbiamo fatto e recriminare è perfettamente inutile. Siamo di fronte ad un progetto completo ed ad esso dobbiamo ora fermare la nostra attenzione, con l’intento di migliorarlo, di adeguarlo alle nuove necessità e, soprattutto ai bisogni di democrazia del popolo italiano.
Si è detto che questo è un progetto di compromesso. Può anche essere vero. Compromesso a parte, non è ciò che mi preoccupa, quanto invece il fatto che alla formazione del progetto stesso hanno contribuito due concezioni, due diverse preoccupazioni: quella della libertà e quella dell’autorità. Ebbene, bisogna che il principio di libertà sovrasti al principio di autorità, perché se un pericolo c’è, è solo nella possibilità che il principio di autorità prevalga sul principio di libertà.
E dico anche il perché. Non siamo ancora completamente usciti dal sistema fascista. Sono ancora vive le correnti autoritarie e le volontà totalitarie. Tutto l’apparato, il vecchio apparato fascista, è in piedi. Le critiche stesse che si volgono alla Repubblica, non sono critiche che investano anche il vecchio sistema. Anzi, mirano a rivalutarlo e a giustificarlo e sono adoperate contro il sistema che noi vogliamo instaurare in Italia. (Applausi a sinistra). Bisogna preoccuparsene. E bisogna intanto preoccuparsi di realizzare veramente quella democrazia, per la quale qua dentro manifestiamo tutti le stesse buone intenzioni.
Purtroppo è mancata e manca in questo progetto una chiara delimitazione dei compiti e delle funzioni dello Stato. Ci siamo fermati alla forma, al meccanismo esteriore, e non ci siamo preoccupati a sufficienza dell’organizzazione interna, delle sue strutture, del modo in cui il nuovo organismo repubblicano dovrà essere formato.
Questa nuova Costituzione potrà inserirsi sul vecchio sistema?
Usciamo dal fascismo e dobbiamo preoccuparcene, anzi doveva essere questa la sola preoccupazione, prima di addentrarci nel lavoro di preparazione del nuovo sistema di libertà: di sapere come e perché eravamo caduti nel fascismo. E saperlo, non tanto per noi che abbiamo assistito al suo sorgere ed affermarsi, quanto per gli altri molti che oggi partecipano ai nostri lavori e che non hanno preso parte alle vicende del passato. Occorreva soprattutto sapere che cosa dei vecchi sistemi, parlamentare e fascista, avesse male funzionato e perché avesse male funzionato. Quando due anni addietro il Ministero per la Costituente creò una speciale Commissione con compiti inizialmente non ben precisati, e volle escluso dai compiti di tale Commissione quello puramente politico (mentre il suo compito avrebbe dovuto essere proprio quello di preparare progetti costituzionali dal momento che la Costituente era cosa ormai decisa, ed evidentemente si parlava di Costituente, appunto perché il vecchio regime, anche quello parlamentare, non aveva funzionato bene), io dissi in una delle prime riunioni di quella Commissione che, dal momento che le si volevano assegnare compiti solamente di inchiesta, essa avrebbe potuto giovare ugualmente al lavoro dei costituenti di domani, ricercando come e perché quei vecchi istituti parlamentari avessero male corrisposto e ci avessero invece condotti al fascismo. In questo modo si sarebbe reso un grande servizio ai costituenti, perché fossero bene avvertiti di non cadere, nella loro opera costruttiva, nei vecchi errori e verso gli stessi risultati.
Bisogna vedere come e perché il nostro vecchio sistema parlamentare è caduto ed è precipitato nel fascismo.
La crisi che ha portato al fascismo non è stata nemmeno una crisi particolare all’Italia. È avvenuta prima in Italia, ma si è successivamente determinata nella maggior parte degli Stati di Europa. È necessario, quindi, anche estendere l’indagine.
Ci siamo decisi per il sistema parlamentare. Essendo mancate le discussioni preliminari, è naturale che ci siamo volti istintivamente verso la vecchia costruzione. Ma il sistema parlamentare è un sistema vecchio: vecchio di due secoli. L’onorevole Cevolotto ieri metteva in dubbio che fosse il miglior sistema e che debba considerarsi il sistema unico e definitivo. Probabilmente le necessità democratiche di domani esigeranno altra soluzione e altro sistema. Tuttavia lo abbiamo adottato e ci dobbiamo preoccupare che risponda alle necessità per le quali lo abbiamo creato. Ora, questo vecchio abito dell’Ottocento è oggi evidentemente un abito troppo piccolo per un organismo che, come lo Stato, è diventato frattanto troppo grosso. Questo è il suo difetto fondamentale. Bisogna, quindi, vedere di adattarlo e magari di allargarlo, ma se vogliamo fare la democrazia allargarlo non basterà: dovremo anche sottoporre il corpo dello Stato ad una energica cura di dimagrimento!
Il sistema parlamentare, prima ancora di precipitare nel fascismo, era già oggetto di molte critiche ed erano critiche in senso democratico. La necessità di una sua sostanziale riforma e anche di nuovi ordinamenti, d’una diversa organizzazione dello Stato, fu ampiamente dibattuta nel periodo dal 1914 al 1915 e successivamente all’altra guerra. Si era allora parlato di democrazia diretta, di rappresentanza degli interessi; specialmente si era lamentata la insufficienza del sistema a rappresentare bene, completamente, la volontà popolare. Si osservava come, attraverso il sistema di elezioni, la sovranità dei cittadini si riducesse alla sovranità di pochi minuti, all’atto cioè della deposizione del voto, e che, poi, tutto passasse senza una loro effettiva partecipazione alla vita dello Stato. Più che un esercizio, era una abdicazione di poteri. Gaetano Mosca, 60 anni addietro, lo aveva già notato, ed era giunto alla constatazione che, in fondo, la vita politica risultava governata da pochi gruppi, che erano sempre quelli. Di qui la sua nota teoria della classe politica. Nel nostro sistema parlamentare, non era questo il solo difetto, ve n’erano altri, e il difetto sostanziale era nel suo ordinamento accentrato, nel fatto che tutti i poteri vi partivano dall’alto per scendere verso il basso. Quel sistema, che inizialmente, finché i compiti dello Stato erano molto ridotti, rispondeva sufficientemente, non rispose più, man mano che i compiti dello Stato si vennero estendendo, quando lo Stato dalle sue funzioni puramente politiche passò anche a compiti economici e sociali. Il fatto che questi istituti parlamentari partissero proprio da una concessione sovrana, stabilendo un sistema di poteri per cui dall’alto si scendeva verso il basso e l’alto controllava e faceva funzionare la macchina, anche quella elettorale, aveva portato lo Stato ad un sistema di dittature, alla formazione nello Stato di gruppi oligarchici. La dittatura era, cioè, già in atto in una infinità di funzioni dello Stato.
Nonostante l’estendersi del suffragio, la sovranità del cittadino si riduceva ogni giorno di più; appunto perché il centralismo si faceva più rigido, i compiti dello Stato diventavano sempre più complessi ed invadenti, e la burocrazia, che è lo Stato nello Stato, si ingrandiva maggiormente ogni giorno. Proprio per questo il sistema parlamentare determinò il sorgere e lo svilupparsi di formazioni con volontà dittatoriali. Molto spesso, anzi quasi sempre, avvenne – giacché l’organizzazione dei partiti si modella istintivamente sulla organizzazione dello Stato, cioè dell’organo sul quale essi devono esercitarsi – che i partiti assumessero caratteri quasi dittatoriali. È un fenomeno questo che si verificò non solamente in Italia, ma in tutti gli stati centralisti dell’Europa. Il Michels fin dal 1915 fece un’acuta diagnosi di tale fenomeno, e scoprì fin da allora che si andava verso il Duce, che anzi il Duce era già formato, implicito nell’organizzazione sindacale e in quella dei partiti. Egli aveva particolarmente visto il fenomeno in Germania, però con molti riferimenti – egli viveva allora tra noi – all’Italia.
E se siamo precipitati nel fascismo è appunto perché, tale era lo sviluppo logico del sistema. Non restava infatti che l’assalto al potere. Quando tutti i poteri si assommano nello Stato, il colpo di mano sullo Stato è quasi inevitabile.
Dopo la guerra 1914-1918, ci fu, come adesso dopo questa guerra per tutti gli Stati, proprio in relazione alle idee, ai principî di democrazia per i quali la guerra fu combattuta e vinta, il sorgere di nuove Costituzioni in molti degli Stati d’Europa, nuove Costituzioni ispirate a principî democratici, in alcuni casi con finalità molto larghe e socialmente molto avanzate. Vedremo quale fu la loro sorte perché formi oggetto di riflessione.
L’Italia fu la prima in cui il parlamentarismo sboccò nella dittatura. Venne poi la Spagna, e vennero altri Stati. Quello che però è sintomatico e di cui ci dobbiamo preoccupare in questo momento, perché la situazione è, su per giù, la stessa, è che pure queste nuove Costituzioni parlamentari, formate in base a nuovi principî, dettate da un nuovo spirito, aperte anche alle esigenze sociali, anche queste, dico, ad una ad una precipitarono nella dittatura. Per quali motivi? Il principale, se non unico, motivo fu che le nuove Costituzioni si innestarono sulla vecchia organizzazione dello Stato, e prima di iniziarsi non provvidero a smantellare tutto il vecchio apparato. Così stiamo per fare ora noi. Facciamo la Costituzione, senza esserci preparati ad evitare l’inserimento della nuova Costituzione democratica nell’organismo dello Stato, che è rimasto quello che era: conservatore, autoritario e burocratico. È questa la nostra preoccupazione maggiore.
Valgano gli esempi. Fra gli Stati che ebbero una buona Costituzione c’è stata anche la Germania; ed è l’esempio che ha avuto l’epilogo più disastroso.
È accaduto spesso che durante le nostre discussioni di Commissione fosse citata ad esempio la Costituzione di Weimar. Anche l’onorevole Mortati ebbe a dire che si tratta di una bella Costituzione. Ed era forse una Costituzione più avanzata, di quella di cui stiamo discutendo il progetto, nel campo sociale.
Ebbene anche quella Costituzione, la quale ebbe a presidio non forze reazionarie, ma, inizialmente, forze socialiste, operaie, forze che si erano educate per lungo tempo alla dottrina del marxismo (vero è che durante la guerra non avevano saputo dimostrare la loro efficienza!) anche quella Costituzione è fallita, come tutte le altre. Ha portato anzi con la sua caduta all’esperimento peggiore, il più dannoso che ci sia mai stato, per tutta l’umanità. Perché questo? Non vi sembri strano che io insista su questo punto, anche a costo di poter sembrare noioso. Perché dunque quella Costituzione è fallita? Non vi sono dubbi. Appunto perché non provvide a demolire la vecchia struttura burocratica e autoritaria dello Stato. Si fece una Costituzione in cui erano sancite tutte le libertà, in cui si erano affermate persino quelle autonomie comunali che non si sono volute inserire nella nostra. C’era già il precedente degli stati federali che diventavano stati regionali e che, quindi, godevano di una relativa autonomia. Ebbene, che cosa ferì la Costituzione? Non solamente il centralismo, cioè la vecchia organizzazione burocratica dello Stato rimasta in piedi, ma anche il fatto (e qui il riferimento deve farci meditare su una parte della nostra Costituzione, una parte che mi sta particolarmente a cuore, cioè quella della Regione per la quale si è contemplato qualche cosa di simile) che pure in Germania, come si pensa da noi nelle autonomie delle regioni, che vennero accompagnate con la creazione di uno speciale Presidente, si inserì, e non a lato con lo stesso grado, con la stessa autorità, come si pensa di fare in Italia, ma in sottordine, un rappresentante del Governo centrale e, accanto a questo, altri funzionari ad esso subordinati. Avvenne così, che per quanto, in certo modo, il rappresentante dello Stato fosse un subordinato di fronte al Presidente della Regione, praticamente la parte del rappresentante dello Stato diventò determinante e finì coll’uccidere di fatto le autonomie locali.
Ma ci furono altri motivi che dovete tenere presenti. Lo dico per i molti che si preoccupano che venga intaccato il centralismo, confondendo il centralismo, cioè l’unità di partenza di tutti i poteri, con l’unità nazionale. Uno dei motivi fu che si provvide nel 1919 all’applicazione di un nuovo sistema finanziario unitario per tutto il Reich, e si crearono anche gli speciali funzionarî per l’applicazione di tale sistema. Avvenne così (è una considerazione che forse avrei potuto risparmiarmi, ma che è tuttavia utile sia richiamata fin da ora) che si diede vita nelle regioni e nei comuni a due specie di amministrazione: una autonoma, che era quella del comune e della regione, ed un’altra subordinata, dello Stato, che inevitabilmente interferiva nell’amministrazione autonoma.
Vi furono anche altri motivi: uno tra i principali l’estensione che fu data alla legislazione sociale, ed anche lì con criteri centralisti. E siccome la legislazione era molto ampia, anche essa contribuì a determinare l’asservimento, anzi l’annullamento di tutte le autorità locali e il concentramento di poteri sempre più assoluto e rigido da parte delle autorità centrali. Con tale organizzazione dello Stato, come avviene sempre per tutte le organizzazioni che vogliono operare nello Stato – ecco la questione dei partiti! – anche i partiti si organizzarono allo stesso modo; era infatti l’unico modo in cui essi potessero organizzarsi per influire sullo Stato, e si organizzarono infatti dittatorialmente e con l’intenzione di conquistare lo Stato. I partiti erano molti, finché il partito più audace, quello che era riuscito ad acquistare più forza, un bel giorno diede l’assalto alla «centrale» dello Stato, confiscando tutte le «centrali» degli altri partiti: e si ebbe il partito unico, la dittatura.
Passo subito all’altro esperimento del dopoguerra relativo al sistema parlamentare, che ci può insegnare qualche cosa, e aiutare ad orientarci in fatto di democrazia.
Sono crollate molte delle istituzioni parlamentari, e sono crollate quasi tutte quelle che si sono istituite in un sistema centralistico dello Stato, cioè nell’unità dei poteri, nell’unità dei comandi, nell’unità dell’amministrazione, che ha voluto dire centralismo e burocrazia. La burocrazia in Italia si è sviluppata troppo largamente, perché di essa, del suo sviluppo, del suo funzionamento non ci si debba specialmente preoccupare. È questa, infatti, la parte più importante dell’organizzazione interna dello Stato che abbiamo trascurata completamente, mentre, secondo me, doveva essere studiata contemporaneamente alla formulazione del nostro progetto di Costituzione.
Ora, mentre crollarono tutti quei sistemi parlamentari più o meno democratici, che ebbero il torto di innestarsi sulle vecchie strutture dello Stato e di mantenere allo Stato tutte le vecchie attribuzioni e tutti i vecchi impiegati – e noi in Italia non abbiamo fatto una buona epurazione, né sappiamo ancora quanta parte della nostra burocrazia sia fedele alla Repubblica e possa servirla! – mentre caddero tutti quei sistemi, ci furono tuttavia – ed ecco l’altro lato della questione che dobbiamo tener presente per ispirarci nelle modifiche da apportare alla nostra Costituzione – vi furono altri Stati che invece si salvarono, che resistettero alla dittatura, mantennero, sia pure attraverso molte difficoltà, la libertà dei cittadini, la democrazia insomma, se è vero che la libertà del cittadino è democrazia. Ebbene, esaminateli questi Stati, vedete come sono organizzati, come si sono sviluppati. Non mi riferisco all’esempio di oltre Atlantico, agli Stati Uniti, che potrebbe sembrare lontano per quanto sia probativo; mi riferisco agli esempi europei. L’Inghilterra ha un parlamento che è sorto, si è sviluppato attraverso le autonomie locali e che si mostra capace di tutti gli esperimenti anche sociali, ma in cui le autonomie sono sempre state la base della sovranità, in cui la sovranità ha per base la dignità del cittadino, il senso di responsabilità del cittadino, la volontà cioè dei cittadini di essere liberi. In democrazia occorre anche una volontà del cittadino! Ma c’è anche il Belgio, che ha un sistema di autonomie comunali. Non vi parlerò della Svizzera – che, essendo repubblica, per qualcuno di voi potrebbe essere argomento di ironici commenti – unico angolo di vera durevole libertà rimasto in Europa; non della Svizzera dunque, ma dell’Olanda, della Danimarca, degli Stati scandinavi. Ebbene, tutti questi, Stati pure non avendo raggiunta la perfezione repubblicana ed essendo democrazie ancora spurie, sono tuttavia fondati su un sistema di autonomie locali e di autonomie regionali, e in tali autonomie hanno trovato una valida garanzia per la continuità del loro sistema parlamentare. E quelle autonomie non hanno affatto indebolito e tanto meno distrutto la loro unità nazionale! Anzi, ha permesso ai loro popoli di resistere più dignitosamente e unitariamente alle dittature anche nei periodi più tragici di questa guerra. Mentre la Francia, già minata nel suo parlamentarismo, cadde subito, ed il Parlamento rinunciò ai suoi poteri proprio nel giorno della disfatta, quando avrebbe dovuto dimostrare la propria volontà di autonomia, tutti gli Stati che ho citato, invece, anche dopo essere stati invasi e soggiogati, hanno saputo mantenere la loro dignità e il loro senso di autonomia, e hanno offerto all’invasore una resistenza molto maggiore. Qualcuno è riuscito persino a salvarsi dalla guerra, come la Svezia e la Danimarca; tutti, ad ogni modo, hanno dato una prova di dignità molto superiore in confronto agli altri Stati parlamentari.
Non è una semplice coincidenza questa a cui mi sono ora riferito. Tra i sistemi parlamentari che sono stati travolti e quelli che hanno resistito c’è infatti una notevole differenza di struttura. Si tratta di due sistemi parlamentari, di cui uno, il primo, può definirsi costituzionalmente malato; il secondo si potrebbe invece indicare come costituzionalmente sano. E i parlamenti sani sono proprio quelli fondati sopra una tradizionale e attiva amministrazione autonoma.
È in vista della impostazione che dobbiamo dare alla nostra Costituzione, che io mi sono riferito alle esperienze parlamentari del passato recente. Se vogliamo garantire la libertà, dobbiamo preoccuparci di estendere la sovranità. Il problema della sovranità non si risolve coll’atto elettorale che si ripete una volta ogni tanto; la sovranità si realizza, si perfeziona, diventa consapevolezza, quanto più si esercita e quanto più vasti sono i campi del suo esercizio. Le autonomie locali sono per questo, perché estendono l’esercizio della sovranità del cittadino, presidio della libertà.
Si è detto tante volte che l’ambiente, il costume, le abitudini, formano la dignità, il senso di responsabilità del cittadino. È nel comune, è nel piccolo ambiente della vita locale che i cittadini si educano. Ed allora preoccupiamoci anche di ciò: di formare dei cittadini. E non guardiamo ai pericoli di forme di decentramento che solamente per spirito di conservazione, diremo così, anzi per aspirazione verso il passato, oggi si combattono. È da deplorarsi che nel manifestare diffidenza e ostilità al decentramento – anche nelle forme modeste in cui è stato concepito per l’Italia – partecipino anche quegli amici o colleghi che dovrebbero sentire (e che certamente sentono) vivo il desiderio della democrazia, così come noi lo sentiamo.
Certe prese di posizione sono inconcepibili. Io sono poco entusiasta, per esempio, del progetto di regione che abbiamo inserito nella Costituzione; eppure lo accetto: lo accetto come un acconto per l’avvenire, come un inizio di qualche cosa, di molto più importante, che deve stare alla base della nostra revisione costituzionale: cioè come punto di partenza per una radicale riforma burocratica dello Stato italiano.
Tutti gli attacchi che si fanno alla regione, comunque siano manovrati, sono solo ispirati dalla preoccupazione di mantenere quello che c’è, e di non mutare nulla nelle strutture del passato.
Ebbene, amici della sinistra, preoccupiamoci anche degli scopi reconditi di questa avversione alle autonomie, e non avanzate, proprio voi, pericoli di separatismo, di sbriciolamento dell’unità dello Stato, perché sono preoccupazioni ridicole. Ridicole, mi si permetta di dirlo, non solamente riferendosi ai sistemi regionali, ma riferendosi allo stesso federalismo. Quando si parla, cioè, del federalismo come di un pericolo di disgregazione, si dice una grande sciocchezza. La realtà storica dice precisamente il contrario. La federazione ha sempre realizzato una maggiore e più salda unità.
Non c’è un esempio solo in cui la federazione non abbia creato vincoli di solidarietà e di maggiore saldezza. Datemi un esempio di uno Stato solo che, attraverso il regionalismo o attraverso la federazione, si sia sbrindellato. Le vostre stesse costituzioni, o amici comunisti, consacrano il sistema della federazione. Prendete la Serbia, la Jugoslavia: là ci sono regioni, anzi stati, che sono molto più piccoli anche delle regioni più piccole che si pensa di creare in Italia.
MAFFI. Questi preesistevano alla federazione.
ZUCCARINI. Si dice: qui in Italia si stanno manifestando in questo momento troppi particolarismi, ci sono troppe aspirazioni regionali, troppe richieste di creare nuove regioni.
Ora, lasciatemi dire: non penso che tali manifestazioni, dacché ci sono, non possano anche in ogni caso essere contenute dalla nostra saggezza, dalla nostra previdenza, dal nostro senso di responsabilità. Non credo che tali manifestazioni di particolarismo possano indebolire l’unità d’Italia. Sono manifestazioni – lasciatemelo dire – dell’insopportabilità del sistema burocratico ed accentratone d’Italia; sono rivendicazioni di diritti che sono stati misconosciuti per 60, anzi per 80 anni. E infine ci si deve rendere ragione che tali movimenti hanno, in fondo, questo di buono: che non sono più delle petizioni allo Stato, come ci siamo abituati a vedere per ottenere aiuti, sussidi e concorsi; sono volontà nuove che, bene o male, sorgono in Italia per chiedere di fare da sé e con l’intenzione di fare meglio di quanto i capi non abbiano saputo e probabilmente non sapranno mai fare.
Ad ogni modo, vediamo di intenderci anche su tale questione: la Regione, così come è stata creata, con quelle quattro o cinque legislazioni differenziali a me non fa affatto piacere. Di legislazione io ne avrei voluta, una e di un solo tipo. Fui proprio io a proporre in tal senso un emendamento: che allo Stato appartenesse tutto quello che riguarda lo Stato e tutto il resto passasse alle amministrazioni regionali e alle amministrazioni locali. Quindi, non quattro legislazioni, ma una legislazione: lo Stato che fissa insieme alle materie, il campo della sua competenza per tutto quello che ha carattere unitario nazionale, e lascia poi che gli altri organi provvedano invece agli interessi particolari. Non è stato mai detto, infatti, che un interesse particolare debba sempre diventare un interesse nazionale. Sarà questione, quindi, di fissare i limiti, le linee degli interessi particolari, non già di sopprimerli o di conculcarli.
Ed intendiamoci bene anche su un altro lato della questione: il decentramento.
Si dice: autonomie no; però dobbiamo decentrare, siamo invece disposti al decentramento. Ma cosa intendete per decentramento? Siamo sempre qua: intendete amministrazioni che sorgano dal basso, che vadano verso l’alto e amministrino esse la parte che le riguarda? Oppure pensate ad un decentramento burocratico?
E se pensate ad un decentramento burocratico, allora, lasciatemi osservare che anche il Prefetto di cattiva memoria diventa in tal modo un organo di decentramento, anzi non mi meraviglierei, che con tale decentramento, si arrivasse addirittura al commissario comunale.
Intendiamoci bene, quindi, anche sulla questione del decentramento, tenendo presenti le osservazioni che ho fatto in precedenza.
La sovranità deve partire dal basso e salire verso l’alto. Ecco il carattere differenziale tra i due sistemi parlamentari a cui mi sono riferito, quello che è crollato e l’altro che ha saputo resistere. L’unità che parte dal basso, che si basa sulle autonomie locali ed ha la possibilità di espandersi ancora verso campi più vasti, è una autorità stabile e progressiva. L’unità che parte dal centro per diffondersi verso il basso è invece una unità limitata, che non va verso il più grande, ma verso il più piccolo.
Il problema della regione, il problema delle autonomie, a cui io qui accenno solo in senso generale (la discussione particolare la faremo dopo), si innesta in un altro problema, che è il problema legislativo.
Io avrei voluto che questa Assemblea, nei sette mesi che ha funzionato solo per fare discorsi sulla crisi ministeriale senza grandi risultati, avesse funzionato legislativamente. Allora molti di voi si sarebbero certamente resi conto della impossibilità materiale dell’Assemblea stessa di provvedere, non dico utilmente, ma solo passabilmente all’enorme compito legislativo che le verrebbe affidato, data appunto la complessità dei compiti dello Stato.
Questo è il problema. Volete un’Assemblea che funzioni? Volete un Parlamento, cioè un sistema parlamentare, che legiferi bene sulle cose essenziali della vita nazionale? Allora bisognerà che anche nello Stato si passi all’applicazione del principio della divisione del lavoro. In quanto a competenza, lo Stato, l’Assemblea legislativa cioè, potrà assolvere utilmente a compiti di carattere generale. E ve ne sarà già abbastanza per le sue discussioni e per le sue deliberazioni. Ma tutto il resto?
Adesso andiamo avanti con i decreti-legge e, quindi, della complessità di questa materia non ci rendiamo sufficientemente conto. Ma prendete un momento la Gazzetta Ufficiale e vedrete quante leggi e quanti decreti si trovino tutti i giorni inseriti in quel foglio.
Ditemi onestamente: con tale mole di lavoro legislativo quale Camera potrà assolvere utilmente la sua funzione? Se voi non vi preoccuperete perciò di ridurre i compiti dello Stato a quelli essenziali, per modo che le sue discussioni e le sue deliberazioni siano proficue, non avrete risolto, nel sistema parlamentare, il sistema della organizzazione migliore della vita del Paese.
Questa è la realtà, contro la quale non c’è da dire niente, perché è quella che noi tutti conosciamo e conosceremo di più, se un giorno ritorneremo qui dentro in veste di Deputati.
Occorre una divisione del lavoro, e per arrivarvi occorre snellire, suddividere, snodare la macchina dello Stato. Altrimenti, dal momento che ci proponiamo di affidare allo Stato sempre nuovi e maggiori compiti sociali, il sistema parlamentare non funzionerà più del tutto. Volete che il sistema funzioni? Rendetelo semplice e lo renderete rapido ed anche competente; liberatelo di tutta la legislazione particolare che oggi costituisce i nove decimi della legislazione. Del resto se la Camera una competenza può avere, sarà solo nelle questioni generali. Voi potrete benissimo qua dentro decidere della riforma agraria, fissandone i principî, fissandone le modalità, i metodi. Potrete fare la riforma industriale, potrete dettare le leggi per tutta la vita nazionale. Ma le leggi particolari, tutto il resto, quello che riguarda una regione o l’altra, quello che riguarda una zona o l’altra, non sono di vostra competenza. Se anche vorrete tale competenza non potrete averla, perché se siete uomini politici e quindi infarinati necessariamente di tutto un po’, competenti su questioni particolari e specifiche non lo siete! Anche se fra voi ci fossero dieci o cinquanta competenti su ogni questione, vi sarebbero sempre gli incompetenti tra voi, cioè una stragrande maggioranza d’incompetenti, che dovrebbero risolvere tali questioni.
Non mettiamoci quindi, su una strada sbagliata; non facciamo un Parlamento per metterlo nella impossibilità di funzionare. Semplifichiamo lo Stato, miglioriamo i suoi organismi, pensiamo a nuovi compiti e alle nuove necessità, e soprattutto pensiamo a creare per questi varî compiti gli organi adatti. E siano essi organi rappresentativi!
Ho già detto che la democrazia non consiste nella meccanicità del voto, e che il rimprovero che è stato fatto più spesso al sistema parlamentare è proprio quello che esso non risolve il problema delle competenze.
Quando si è parlato di rappresentanza di interessi, se ne è parlato proprio in tal senso. È giusto che gl’interessi economici trovino gli organi che li rappresentino. Si tratta di vedere come e dove. In sede di Commissione, mi sono dichiarato contrario alla rappresentanza degli interessi, quando si pensava di fare del Senato, della seconda Camera, l’organo di rappresentanza di tali interessi. Io dissi: no. Perché? Perché gli interessi sono i più svariati ed una Camera di rappresentanza di interessi, proprio appunto perché gli interessi non sono gli stessi – e se ciascuno che vi sia interessato conosce benissimo la sua materia non conosce quella degli altri – sarebbe nel suo complesso una Camera d’incompetenti. Vi avverrebbe, cioè, che su ogni interesse sarebbe la maggioranza degli incompetenti a decidere.
Ed allora anche per gl’interessi bisognerà pensare a qualche cosa di diverso, cioè a qualche cosa che corrisponda anche a tale esigenza, perché è pure un’esigenza quella che siano i competenti e gli interessati, a decidere dei loro interessi, e sempre nel campo della loro specifica competenza.
Nel progetto di Costituzione, per esempio, si parla di un Consiglio economico. È una cosa messa là senza una chiara definizione. Non si sa cosa voglia essere, come lo si debba formare, né come funzionerà.
Bisognerà creare non già un Consiglio economico, ma parecchi Consigli economici, e su ogni materia. Vi saranno così i Consigli dell’agricoltura, i Consigli del commercio, quelli dell’industria e del lavoro. E bisognerà che siano organi di rappresentanza destinati a rendersi utili al lavoro legislativo e formati intanto da rappresentanze elettive.
Lo stesso dicasi per i Ministeri. Io cercherò oramai, di riassumere, per non tediarvi troppo. La questione dei Ministeri fu incidentalmente sollevata dall’onorevole Calamandrei, il quale disse: e dei Ministeri cosa ne fate? È un’altra questione molto importante e riguarda tutta l’organizzazione dello Stato. C’è qualche domanda da farsi sempre in relazione agli interessi. Un Ministero politico della giustizia è compatibile intanto con la nuova Costituzione che consacra l’indipendenza della Magistratura? Io dico di no. Ma gli altri Ministeri, i Ministeri propriamente economici, devono restare dei Ministeri politici o diventare invece dei servizi veri e propri, da cui la politica esuli ed in cui gli interessati siano in qualche modo rappresentati? lo ricordo in questo senso un progetto del professore Ghino Valenti, che era un competente in materia di agricoltura e che propendeva pure per la creazione di Consigli economici regionali di agricoltura. Altra questione è quella degli Istituti della previdenza, dell’assistenza, dell’assicurazioni sociali e contro gli infortuni, ecc. Debbono essi restare organismi dello Stato, devono essere amministrati dallo Stato, con patrimoni in mano dello Stato? O invece vogliamo andare incontro alle aspirazioni dei lavoratori e fare amministrare questi organi dagli stessi lavoratori e metterli a servizio della causa del lavoro? Questi sono altri problemi essenziali della nostra Costituzione, problemi attraverso i quali, quali siano i compiti che vorremo affidare allo Stato, possiamo andare verso tutte le mète sociali.
Gli amici di quella parte (Indica l’estrema sinistra) sanno che noi repubblicani ci sentiamo al loro fianco in tutte le rivendicazioni del lavoro, perché crediamo non solo nella santità del lavoro, ma crediamo altresì nel diritto dei lavoratori ad emanciparsi, a diventare padroni di sé stessi, ad essere uomini in mezzo agli uomini, e a non dipendere da nessuno. Noi abbiamo quest’alta concezione del lavoro: che i lavoratori debbano raggiungere la loro emancipazione, attraverso i loro sindacati e le loro libere associazioni. Noi vogliamo che i lavoratori, nella nuova società, siano padroni di qualcosa. Ecco perché avremmo preferito che tra i doveri economici fosse affermato non il principio del lavoro assicurato, ma invece un altro principio, pure rivoluzionario, anzi altamente rivoluzionario, nel senso sociale: il diritto alla proprietà e il compito dello Stato di garantirla e di promuoverla, facendo in modo che ogni lavoratore abbia a disposizione di sé stesso, per il proprio miglioramento, un capitale che gli permetta di muoversi dove vuole e di scegliersi la via che vuole.
Ma questi sono problemi più complessi e più vasti. Noi guardiamo la sostanza, noi guardiamo la realtà che deve uscire dalle nostre deliberazioni, la realtà di una democrazia attiva effettiva e duratura.
Ho finito. Non voglio annoiarvi di più. Ho voluto parlarvi con sincerità. Diamo al popolo italiano una buona Costituzione; garantiamolo, soprattutto, da ogni pericolo presente e futuro. Questo vi chiedo e vi raccomando. Questo chiede ed attende il popolo italiano. Non altro. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Lussu. Ne ha facoltà.
LUSSU. Onorevoli colleghi, dopo il discorso del collega Calamandrei io mi limiterò solamente a toccare alcuni punti puramente politici che riguardano lo Stato come costruzione democratica e poi farò solo qualche breve considerazione in risposta ad obiezioni che sono venute da diverse parti.
Qui ci rendiamo tutti conto che l’edificio costituzionale che stiamo costruendo può essere solido o debole e che la sua consistenza dipende non solo dalle parole più o meno egregiamente scritte nel testo fondamentale, ma anche, e soprattutto, dalla coscienza democratica del Paese, dal costume democratico, dalla vita che saremo in grado di suscitare attorno allo Stato. In altre parole, perché uno Stato democratico sia realmente tale è necessario che la democrazia sia realizzata nello Stato e nella società. Mettendo la democrazia degli Stati Uniti d’America di fronte alle democrazie dei molteplici Paesi dell’America latina, abbiamo un esempio di questa esigenza.
Noi intendiamo costruire uno Stato democratico, uno Stato della democrazia che viva nella democrazia, uno Stato in cui i cittadini tutti, non solo una minoranza fra di essi, vivano nello Stato, in cui tutti i cittadini, nessuna minoranza esclusa, si sentano partecipi, costruttori e difensori dello Stato.
Lo Stato liberale – chiedo scusa ai colleghi di questo partito – non era questo Stato. La nostra generazione ha assistito a parecchi crolli di Stati moderni creati con lo spirito più o meno ardente e rivoluzionario, dalle rivoluzioni del 1848 in poi, e li abbiamo visti crollare, incominciando da noi. in Italia, poi in Spagna, in Portogallo, in Austria, in Germania e infine in Francia. Mi perdonino gli amici francesi, ma anche la Francia ha avuto il suo duce e il suo fascismo, non meno ambiziosi e avventurieri e non meno miserabili dei nostri.
Perché sono crollati tutti questi Stati? Perché allo Stato erano estranee ingenti masse di lavoratori e di popolo minuto, ivi compresa quella modesta e laboriosa piccola borghesia lavoratrice e produttiva e quell’immensa parte del popolo minuto senza tessera e senza occupazione fissa Questa ingente massa politicamente composta di cittadini era effettivamente estranea allo Stato: in Italia, in Spagna, in Portogallo, anche in Austria, benché in modo un po’ differente, in Germania e in Francia; assente ed estranea ed anche ostile e nemica, perché lo Stato non era anche il loro Stato.
Ma lo Stato è di tutti – rispondono i teorici dello Stato liberale.
Lo Stato è di tutti! E che è lo Stato?
Io mi guarderò bene dal definire, con formula filosofica o giuridico-politica, che cosa sia lo Stato, perché non vorrei suscitare dissensi e contrasti da parte dei massimi costituzionalisti e cultori di diritto pubblico, che sono qua dentro, non esclusi i miei amici più vicini. Non voglio definire questo Stato, ma ho il dovere di ricordare come lo definiscono quelle correnti politiche che lo negano.
Io ricordo – e chiedo scusa ai colleghi di scuola puramente marxista, se entro nelle loro biblioteche – ricordo la polemica accesasi quasi un secolo fa attorno a questa questione teorica, in cui intervennero Marx e Bakunin, allora meno noti di oggi.
L’uno e l’altro definivano lo Stato: una organizzazione di oppressione della minoranza sulla maggioranza, uno strumento di dominio di classe; per cui appariva necessario a quei teorici, per arrivare alla vera e finalistica libertà, distruggere lo Stato, ogni forma di Stato, in ogni tempo e in ogni luogo. Poiché lo Stato è sempre questa oppressione, distruggerlo, per creare, attraverso la sua distruzione, una società senza classi, una libera amministrazione di uomini liberi ed uguali.
La polemica allora si imperniò attorno al passaggio fra la società con lo Stato, fra lo Stato distrutto ed il periodo della società senza Stato e quindi la dittatura del proletariato, concepita da Marx come il governo provvisorio, di transizione dallo Stato al non-Stato.
Non mi soffermerò qui ad esprimere i miei consensi o dissensi, consensi sulla parte critica, dissensi sulla parte teorica, costruttiva.
Per chi, in fondo, ha un cervello come il mio, suonerà stranamente difficile la possibilità di arrivare al non-Stato, a una società cioè senza burocrazia, senza un’organizzazione centrale e periferica, e rimarrà la preoccupazione che questo sistema, che vorrebbe essere provvisorio in attesa di questa società senza stato, non divenga permanente.
Non mi soffermerò su questo; e ricordo (e qui chiedo scusa ancora ai colleghi comunisti e un poco anche al collega e grande amico Nenni e al collega Basso) il concetto di Stato e di democrazia, così come sono definiti in modo estremamente chiaro, che non lascia equivoci, nello scritto Stato e Rivoluzione di Lenin, apparso prima della rivoluzione d’ottobre.
Io devo lealmente esprimere in questa Assemblea tutto il mio pensiero e credo che tutti qui dentro siano d’accordo sulla necessità di un’assoluta chiarezza. Mi sforzerò dunque di parlare un linguaggio serio e leale, e mi sforzerò di farlo senza alcuna riserva mentale, senza nessuno di quei prudenti e sapienti artifici, senza nessuno di quei nascondigli psicologici in cui erano assi i padri Molina e Escobar di buona memoria e i loro compagni, che Pascal ha immortalati nella polemica di Port-Royal.
Dirò dunque in modo estremamente chiaro il mio pensiero: lo Stato, la democrazia a cui io tengo non sono quelli illustrati nell’opera Stato e Rivoluzione di Lenin.
Peraltro, e non sono il solo, sono d’accordo con molti altri colleghi qua dentro, compresi parecchi demo-cristiani, nella critica verso e contro il cosiddetto Stato liberale. Lo Stato liberale era lo Stato di una classe, lo Stato creato dalla borghesia in una grande ora della civiltà nazionale dei paesi che entravano nella società moderna; e fu una grande conquista certamente (e certamente rivoluzionaria) in rapporto e in confronto della società feudale e teocratica sulle cui rovine si costruiva.
Ma oggi lo stato liberale sarebbe un anacronismo, sarebbe conservatore e reazionario. Esattamente allo stesso modo, conservatori e anche reazionari sono i liberali d’oggi.
BELLAVISTA. Grazie, onorevole Lussu; lei invece è progressista e oltranzista.
LUSSU. Io chiedo scusa ad un uomo come Benedetto Croce, che spero ci perdoni come noi perdoniamo a lui la sua azione politica. Un uomo della grandezza di Benedetto Croce…
BELLAVISTA. Doccia scozzese!
LUSSU. …può anche commettere degli errori politici e può essere facilmente perdonato. In Inghilterra, Bacone, nonostante fosse un pessimo cancelliere del regno, è sempre ricordato e venerato. Perché Croce rimarrà una delle più grandi personalità della cultura e della civiltà del nostro Paese, e, pur se oggi la sua azione politica è criticabile, molti giovani debbono a lui se, durante questi venti lunghi anni, hanno potuto salvare la loro coscienza, e oggi possono sedere qui nei differenti banchi.
Lo Stato liberale è fallito e indietro non si torna. Lo Stato liberale appartiene al passato. Esso, in teoria, era la casa di tutti: di tutti i cittadini e di tutti i partiti; la casa nella quale poteva a turno pacificamente e legalmente entrare, a volta a volta, un partito dopo l’altro, per poi preparare ancora ai successivi l’alloggio sicuro.
Ma, in realtà, lo Stato liberale era esclusivamente la casa della borghesia: costruita in perfetta buona fede per tutti, la borghesia se l’era riservata per sé, per i suoi figli e per i suoi nipoti.
BELLAVISTA. Perché, lei non è un borghese?
LUSSU. La stessa domanda mi fece l’altro giorno il mio barbiere. (Si ride – Approvazioni a sinistra).
E tutto è andato più o meno bene per circa un secolo. Ma quando quell’ingente massa di cittadini, aventi teoricamente i diritti politici, ha potuto, bene o male, organizzarsi, riunirsi e poi incamminarsi verso questa casa, verso lo stabile del liberalismo, perché anch’essi avevano diritto all’alloggio, allora tutto si è capovolto. Io dico sempre in buona fede, così come in perfetta buona fede agiscono i proprietari di casa che sono anche inquilini i quali, non contentandosi di un solo appartamento che sarebbe per loro sufficiente, li occupano tutti, e non ne escono mai malgrado i decreti del commissariato degli alloggi.
In perfetta buona fede, ma lo Stato liberale è in crisi e crolla appunto quando questa immensa massa che vi era estranea si presenta e reclama il suo posto. Allora questa costruzione austera e gioiosa, stile rinascimento, spara da tutte le porte e da tutte le finestre. Questa è la fine dello Stato liberale e questo è l’atto di nascita del fascismo.
BADINI CONFALONIERI. Per fortuna che non c’è lei come Commissario degli alloggi!
LUSSU. Anche questa è una bellissima interruzione. Io non discuto se tutto quanto è avvenuto sia conseguenza di molti errori – e riconosco che molti se ne sono commessi e di grossi. Non ne discuto, ma tutti siamo obbligati a prendere conoscenza dei fatti compiuti, a prenderne atto e a trarne le conseguenze per la definizione dello Stato nella teoria e nella pratica.
Questo Stato liberale noi non lo vogliamo ricostruire. Non intendiamo affatto partecipare alla sua ricostruzione. Perché abbiamo chiara coscienza che se noi lo ricostruissimo, andremmo incontro agli stessi errori e alle stesse catastrofi del passato. Noi vogliamo costruire uno Stato durevole e non uno Stato effimero; uno Stato per il restante dei nostri giorni, per i nostri figli e per le nostre generazioni che verranno: lo Stato della democrazia. Intendiamo costruire lo Stato della democrazia, e la democrazia, finalmente, in Italia. Vogliamo uno Stato a sovranità popolare, pertanto uno Stato popolare, uno Stato in cui anche il proletariato, estraneo e nemico sempre in questi Paesi a civiltà occidentale, si senta anch’esso partecipe, costruttore di questo Stato, e lo consideri nei momenti più gravi come sua conquista e suo patrimonio da difendere in comune. Uno Stato democratico alla base, democratico al vertice, nelle sue organizzazioni centrali e periferiche, nel metodo, nelle realizzazioni e nelle finalità. Uno Stato della maggioranza e non uno Stato della minoranza; uno Stato che elimini progressivamente ogni oppressione di classe e di residui di classe.
Noi tendiamo – e ci sforziamo lealmente – a costruire uno Stato solido; uno Stato il cui compito non è solamente – come disse avant’ieri il giovane oratore del partito comunista, l’onorevole Laconi – quello di assicurare che si realizzi la volontà della maggioranza; ma il cui compito è anche che si tutelino in modo certo e permanente i diritti delle minoranze, e quindi si difenda perennemente l’individualità di ciascuno, l’individualità politica e l’individualità umana; uno Stato in cui lo spirito liberale non diserti.
BELLAVISTA. È uno spirito duro a morire!
LUSSU. Ciò presuppone certamente all’atto di nascita un compromesso: un compromesso fra le classi. Ogni democrazia, che non sia scaturita direttamente da una rivoluzione vera e propria, presuppone alla sua nascita un compromesso; il compromesso è fissato nella Carta costituzionale elaborata in comune, e che le leggi successive non potranno mai, per quello che è fondamentale, violare. Per essere chiaro, io sono d’accordo con l’onorevole Tapini, quando dico che se domani, per interessi generali, per esigenze collettive, è necessario espropriare la proprietà industriale, o commerciale, o agraria di un cittadino, occorrerà farlo con un equo indennizzo. Io sono perfettamente d’accordo con questo principio, perché, se questo non avvenisse, si estrometterebbero dallo Stato e si porrebbero contro lo Stato una parte di quei cittadini che oggi in comune, insieme a noi, collaborano per costruire la stessa Carta costituzionale che deve servire per tutti i cittadini. Quindi io sono perfettamente d’accordo.
Un concetto analogo, in rapporto ai diritti individuali, ha espresso nel suo intervento l’onorevole Calamandrei, ed io sono rimasto stupito ieri, quando il collega onorevole Saragat, rilevando questa parte del discorso del collega onorevole Calamandrei sia pure molto eufemisticamente e cortesemente, gli ha attribuito una posizione conservatrice. Io mi trovo perfettamente d’accordo con il concetto espresso dall’onorevole Calamandrei.
Certo, nella Costituzione che stiamo elaborando ci sono aspetti conservatori e aspetti progressisti. Quando noi pensiamo a questa Assemblea e ai suoi componenti, i quali, dai comunisti, ai socialisti e così via via fino all’Uomo Qualunque e al partito liberale, si trovano qui insieme l’uno a fianco dell’altro per discutere e per arrivare insieme, attraverso un lavoro comune, alla Costituzione, comprendiamo che questa Costituzione risente della volontà e degli interessi di questi varî settori che esprimono volontà diverse.
Ma ciò avviene in tutta la Costituzione, avviene anche nei nostri rapporti personali tra colleghi. Quando io ho trovato, alcune settimane fa per la prima volta, credo in ascensore, a pochi passi da me l’onorevole Guglielmo Giannini (al quale mi permetto inviare i miei auguri per una rapida guarigione, poiché a un avversario inacidito dai malanni è sempre preferibile un avversario in ottima salute), leader dell’Uomo Qualunque, che non avevo mai salutato fino a quel momento, ed allorché l’onorevole collega Giannini si è avvicinato a me, forse per rispetto ai miei capelli bianchi, ed ha chiesto se poteva presentarsi e stringermi la mano, io, che l’onorevole Giannini non avevo mai avvicinato, ho detto: Ma certo, onorevole Giannini, perché noi viviamo qui in un ambiente di collaborazione obbligatoria.
Noi siamo usciti da una rivoluzione mancata; la rivoluzione del grande movimento partigiano, la rivoluzione del Comitato di liberazione nazionale. Può dispiacere a molti, e ad altri dare invece una estrema gioia. Io stesso dichiaro che per me è stato uno dei dolori più grandi della mia vita. Ma così è e nessuno può fare che non sia così. A noi non rimane che registrare il fatto, accusare il colpo e trarne le conclusioni. Immediatamente, ci veniamo a trovare in una posizione totalmente differente; ci ritroviamo in una necessità di legalità democratica, di esigenza di legalità, senza di che sarebbe follia parlare di democrazia o di Stato democratico.
E ci troviamo perfettamente nella stessa situazione di quei monarchici, leali e fedeli fino al 2 giugno, i quali, dopo l’espressione repubblicana della volontà popolare, l’hanno accolta come volontà democratica nazionale ed hanno lealmente accettato la Repubblica. Ci troviamo nella stessa identica situazione e, in un primo tempo, possiamo guardarci con una certa diffidenza reciproca, gli uni e gli altri; ma poi, rotto il ghiaccio, dobbiamo riconoscere che siamo, insieme, gli stessi servitori della stessa Repubblica.
Riprendendo il filo del discorso, questo tentativo di intromettere tutti i cittadini nello Stato, nella vita dello Stato, noi dobbiamo farlo e questo è il fatto nuovo della rivoluzione nazionale pacifica, è la caratteristica della nuova democrazia. È una rivoluzione che si compie gradatamente e ordinatamente.
Quando noi vediamo il partito comunista, intendo dire una parte rilevante del proletariato italiano, essere al Governo, mandare il Presidente in questa Assemblea, partecipare alla discussione della Costituzione per poi approvare questa Costituzione, ebbene, onorevoli colleghi, questo è un fatto nuovo di una grande importanza. Se voi pensate alla situazione di venti anni fa, o anche di 13-15 anni fa, questo è un fatto di una importanza storica che sarebbe puerile sottovalutare: è di straordinaria importanza per noi, è un fatto storico per la nostra democrazia, è una grande forza popolare che agisce legalmente, democraticamente nel Paese. E necessariamente, aggiungo io – anche se la necessità coincide con la sua volontà – agisce democraticamente, perché è una minoranza di fronte a tutte le altre forze nazionali ed è obbligata a discutere in comune con gli altri partiti, a misurare il suo passo con quello degli altri, e a rimanere pertanto nella democrazia.
A questo punto desidererei, per mia chiarezza e lealtà, aggiungere qualcosa. Ho ascoltato con estrema attenzione ieri il discorso dell’onorevole Basso e devo dire che in gran parte condivido il suo pensiero. Mi attendevo però – e non ero il solo – che egli cogliesse quella occasione per esprimere in modo chiaro e definitivo di fronte a tutti il pensiero che in altri ambienti ha espresso, in sede di partito, in sede di adunanze popolari, sulla violenza, sulla forza, sulla legalità, sulla posizione di fronte allo Stato.
È necessario, perché tutti noi dobbiamo conoscere le nostre posizioni e le nostre intenzioni. Lo Stato della democrazia non si costruisce in comune, se in comune non si esprime una posizione di legalità assoluta.
Che cosa significa violenza, illegalità? Vi sono due vie di fronte allo Stato della democrazia: o si accetta di vivere nella democrazia e nello Stato, e allora si accetta la legalità, che è per tutti; o se ne rimane fuori, e si combatte lo Stato per attaccarlo dal di fuori, e dal di fuori attaccandolo, distruggerlo. Ma non si possono adottare insieme le due vie.
Il partito bolscevico ha negato lo Stato, come Stato di diritto, come organizzazione collettiva che rappresenta la volontà dei cittadini. Lo ha negato e lo ha combattuto quale organizzazione nemica del popolo e non lo ha accettato, e così ha sabotato la Duma, il Pre-parlamento, e la Conferenza di Stato. Ha attaccato lo Stato dal di fuori, lo ha smantellato e lo ha distrutto.
Ma qui non si possono seguire le due vie: o si sceglie l’una o l’altra, altrimenti si corre il rischio di scombussolare la situazione generale, e di creare un caos dannoso senza poi concludere un bel niente. E mi sia permesso di chiedere al collega onorevole Nenni (solo per la grande amicizia e la grande stima che ho per lui) che cosa significhi la formula: «il socialismo va al potere».
Posso supporre di capire anche il suo pensiero, ma dico che al potere non va il socialismo, perché al potere ci sta, permanentemente, la democrazia; ed il socialismo, nei settori dell’organizzazione centrale e periferica, democraticamente realizza se stesso, accetta la realtà democratica e pratica la legalità democratica. Il socialismo entra nella democrazia, non per sabotarla con colpi equivoci, ma perché è la sua casa. Se è vero quello che io sento ed altri sentono con me, che la democrazia moderna è socialista, o non è democrazia, non può accettarsi, caro onorevole Tupini, la sua formula che la democrazia è democristiana, o non lo è.
Una voce al centro. Non democristiana, ma cristiana.
LUSSU. La democrazia moderna o è socialista o non è democrazia, sia essa cattolica, protestante o laica. (Commenti).
TUPIN1. Democrazia cristiana!
LUSSU. Ebbene, riusciremo noi a costruire questo Stato della democrazia? Io credo di sì, malgrado le immense difficoltà. Credo che vi riusciremo e daremo un esempio che rimarrà nella storia della civiltà del nostro Paese. Lo credo anche perché alla democrazia, malgrado le apparenze, qui in Italia, è legata la stessa indipendenza e sovranità della Nazione.
Posti fra due blocchi che sono ancora antagonistici – il blocco anglosassone e il blocco sovietico – noi possiamo ammirare gli uni e gli altri, ma dobbiamo conservarci equidistanti dagli uni e dagli altri. In ciò è la salvezza della nostra democrazia. E questa è anche la salvezza della nostra sovranità e della nostra indipendenza, perché il giorno in cui ci accodassimo ad una di queste potenze noi saremmo finiti e non avremmo più né democrazia, né sovranità, né indipendenza. Io credo che sia nell’interesse di tutti e nella volontà di tutti creare e difendere questa nostra democrazia che è legata a tutta la vita del nostro Paese, perché in fondo è la sola speranza di resurrezione autonoma del popolo italiano.
Ma lo Stato della democrazia e la democrazia non si creano e non si realizzano, se non si attuano quelle grandi trasformazioni sociali che sono annunciate nello schema della Carta costituzionale. Bisogna realizzarle immediatamente, perché, se non si realizzano queste grandi riforme, non avremo lo Stato della democrazia. Noi dobbiamo, attraverso queste realizzazioni, immettere nello Stato tutta la massa, non solo proletaria, lavoratrice, ma tutta la massa misera e sofferente del popolo italiano, sicché nessuna parte si senta estranea allo Stato.
Se non realizziamo queste fondamentali trasformazioni sociali al più presto possibile, non potremo conseguire alcun risultato.
L’onorevole Calamandrei, nel suo intervento, ha parlato di questi articoli sociali proponendo (siccome non sono leggi vere e non corrispondono ad istituti già creati) che siano messi nel preambolo dove avrebbero un posto più opportuno. Io condivido il suo punto di vista. E non capisco perché da varie parti sia stato detto: ma questo è parlare contro la Costituzione, questa è una concezione non progressista.
Io mi meraviglio altamente perché la Costituzione francese, prevalentemente voluta dai tre grandi partiti di massa, così come la nostra, non ha messo questi articoli nel testo della Carta costituzionale, ma li ha messi in riassunto brevissimo ed estremamente suggestivo solo nel preambolo.
Ma, preambolo o testo, l’essenziale è che si realizzino questi postulati che oggi appaiono piuttosto come paternalistici. È possibile questo? Le difficoltà sono enormi. Io devo dichiarare (e mi sia permesso dire queste cose senza alcuna ombra di spirito polemico, perché d’altronde io nella democrazia cristiana ho molti amici, alla cui amicizia per nessuna cosa al mondo vorrei rinunziare) che le maggiori difficoltà io le vedo nella democrazia cristiana.
Ha detto l’onorevole Tupini, nel suo discorso, che la democrazia cristiana è una trincea avanzata. Ma come può quel partito essere trincea avanzata, quando è definito costituzionalmente partito di centro? Se mai, sarà una trincea di seconda o di terza linea: oppure un partito di centro, costituzionalmente e perennemente – come ha detto in modo brillante il collega onorevole Cappi nel suo ottimo discorso di pochi giorni fa – un partito di centro per definizione, per nascita e per vocazione, il quale può essere e con la sinistra e con la destra, e quindi risentire dell’una e dell’altra…
TUPINI. Le trincee stanno anche al centro!
LUSSU. In quest’aula c’è anche la destra, che è monarchica.
Ma ciò preoccupa, e preoccupa soprattutto per il fatto che la democrazia cristiana, nei momenti culminanti di crisi politica, in ogni paese (dico in ogni paese) dal centro sempre si è spostata a destra. Come non preoccuparsi, quando noi sappiamo che, per realizzare questi postulati sociali, si dovranno affrontare difficoltà gigantesche? Se queste difficoltà portassero ad una crisi politica, quale sarebbe l’atteggiamento della democrazia cristiana? E mi sia permesso, a questo punto, di esprimere la mia profonda meraviglia per il discorso che l’onorevole Presidente del Consiglio, leader della democrazia cristiana, ha fatto pochi giorni fa ad un banchetto di giornalisti americani. (Interruzioni – Commenti).
È una questione di interesse generale e nazionale. (Commenti al centro).
In una situazione delicata come la nostra, non si può parlare, in modo che possa apparire equivoco, della Repubblica. È una cosa troppo seria la Repubblica!
Insomma, questo partito della democrazia cristiana, che se non fosse sorto come confessionale, avrebbe giovato non poco alla democrazia, si presenta bifronte: da un lato promette la pace e dall’altro minaccia la guerra. Noi abbiamo bisogno, per la sicurezza delle realizzazioni sociali, di essere maggiormente tranquilli. Fino a che punto la democrazia cristiana si impegnerà per la realizzazione di queste trasformazioni sociali? Dobbiamo credere che il partito comunista ha fatto molto affidamento sulla democrazia cristiana: in compenso, la democrazia cristiana ha chiesto per sé l’inclusione dei Patti del Laterano nella Costituzione. Ma sta di fatto che se noi lo consentissimo, i Patti lateranensi sarebbero immediatamente compresi nella Costituzione, mentre le realizzazioni sociali sarebbero ancora da venire. La democrazia cristiana si prenderebbe fin da oggi e l’uovo e la gallina, mentre le realizzazioni sociali sono solo sulla carta.
Qui tutti abbiamo il ricordo vivo del discorso del collega onorevole Calamandrei, che a molti è apparso come definitivo: non si può aggiungere niente di più. Non mi soffermerò quindi su questo problema che è già esaurito. Ebbene, tutti noi abbiamo egualmente ascoltato, ed io con estrema attenzione, il discorso del collega onorevole Tupini, rappresentante del grande partito democratico cristiano. Non vi è stato in esso nessun cenno di risposta, anzi l’onorevole Tupini ha reso all’onorevole Calamandrei pan per focaccia, e poco c’è mancato che ci recitasse qui per esteso il pater noster, provocando le vivaci reazioni del collega onorevole Tonello, che è protestante. (Ilarità).
Mi sia consentito – e parlo senza desiderio di fare dell’umorismo – di dichiarare che se questo avverrà, cioè se i Patti del Laterano saranno compresi nell’atto costituzionale della democrazia italiana, si entrerà in un vicolo cieco. Le cose stanno già male oggi, starebbero peggio domani. Mi permetto di leggere per intero – poiché è breve – questo avviso dettato agli allievi di una scuola media a Roma, sede del Governo, sede dell’Assemblea Costituente, mentre l’Assemblea Costituente è aperta. Questo avviso è stato dai professori dettato agli allievi perché lo facciano firmare ai loro genitori:
«Sabato 15 marzo, la nostra scuola celebrerà con la solennità consueta il precetto pasquale nella chiesa di S. Ignazio. I genitori e le famiglie sono invitati ad intervenire. Mercoledì 12 marzo, giovedì 13 e venerdì 14 dalle 15 alle 16,30 si terranno gli esercizi spirituali…» (Commenti – Interruzioni).
Voi tutti sapete che io non ho mai fatto dell’anticlericalismo e che non ho avuto mai niente a che fare con la massoneria, e che quello che io dico risponde soltanto alle esigenze di una coscienza democratica che ha il diritto di esprimersi. (Approvazioni a sinistra).
…«esercizi spirituali in preparazione al precetto pasquale, in via del Seminario n. 120. Verrà fatto l’appello nominale e gli assenti dovranno presentare ai professori di lettere, la mattina seguente, una giustificazione dei genitori. (Vivi commenti – Interruzioni).
«Questo non perché la frequenza degli esercizi spirituali sia obbligatoria; essa è del tutto libera, ma perché si stabilisca un controllo sia per le famiglie che per la scuola su quanto i ragazzi faranno in questi tre pomeriggi». (Interruzioni – Commenti).
Una voce al centro. È grave!
PRESIDENTE. Onorevole Lussu, forse lei si allontana troppo dal merito della discussione generale.
LUSSU. Mi dispiace, devo dire che sono nel mio pieno diritto e che per lo meno una volta nella sua carriera lei, onorevole Presidente, non è dalla parte della ragione. (Si ride). Io sono perfettamente in tema. Si tratta della questione dei Patti lateranensi.
PRESIDENTE. Onorevole Lussu, io non rispondo al suo rilievo. Le faccio osservare che in questo momento non si sta discutendo l’articolo 5 del progetto di Costituzione.
Lei può richiamarlo a titolo di esemplificazione; ma, invece, sta anche portando una documentazione, che supera, forse, il limite della nostra discussione. Prosegua!
LUSSU. Mi sia permesso di chiarire un principio, che è costituzionale: di ricordare che io avevo ragione quando sostenevo che le dimissioni da Presidente presentate dall’onorevole Saragat, capo d’un gruppo di minoranza, dovevano essere accettate, perché il presidente deve sempre essere espressione della maggioranza al governo. (Ilarità).
Ad ogni modo, il documento conclude così:
«Per le spese della cerimonia (Commenti) – è questione di coscienza non di borsa – gli alunni dovranno versare liberamente 20 lire» (Interruzioni – Commenti).
Questa è la pace religiosa, onorevole Tupini! (Commenti).
Noi che ci sentiamo, in parte, continuatori della tradizione del Risorgimento nazionale, non accettiamo che il Patto lateranense rientri nella Costituzione. Cosa ne pensano i liberali?
Una voce a destra. Lo diremo al momento opportuno.
LUSSU. A quei banchi non è più presente l’ombra di Camillo Cavour, ma quella di Solaro della Margherita. (Interruzioni).
BELLAVISTA. Questo è colloquio con i morti, onorevole Lussu; parli coi vivi.
LUSSU. Questa preoccupazione ed altre circondano la nostra mente, mentre ci accingiamo a investire della nostra critica, del nostro giudizio, il progetto di Costituzione, che noi desideriamo approvare e per il quale vogliamo collaborare.
L’onorevole Tupini ha detto: «L’onorevole Calamandrei ha fatto un discorso di opposizione alla Costituzione». Ma la Costituzione è in parte accettata, in parte criticata da ciascuno di noi. Non credo ci sia un solo fra di noi che sia, per principio, oppositore della Costituzione.
Vi sono, in questa Costituzione, parti che condividiamo e difendiamo e vogliamo siano approvate e parti che desideriamo siano modificate. Noi, sostenitori di uno Stato democratico, vogliamo dare il nostro contributo.
Io non entro nel merito in nessun punto. Toccheremo le questioni specifiche nei successivi di lavori, con successivi interventi e diremo il nostro pensiero.
Ora, mi limito solo ad esprimere rapidissimamente le mie considerazioni su due punti che mi appaiono come i fondamentali nel progetto di Costituzione: sulla seconda Camera e sulle autonomie.
Una voce a destra. Ci parli del Partito sardo d’azione!
LUSSU. Sulla seconda Camera, ricordo i lavori della seconda Sottocommissione, che l’onorevole Presidente di questa Assemblea diresse amicalmente e saggiamente: egli può far testimonianza del nostro buon volere. Abbiamo lavorato come negri due mesi per questa seconda Camera e ne è uscito un mostro! (Si ride). Bisognerà adoperare i ferri per operarlo e per fargli cambiare i connotati, o addirittura per sopprimerlo.
Ieri l’onorevole Rubilli, in un discorso pieno di facezia, ha distrutto la seconda Camera quale è uscita dai nostri lavori e ha presentato una sua seconda Camera, molto lieta a vedersi, composta di grandi, auguste e pompose personalità che dovrebbero servire ad impressionare l’estero. Crede l’onorevole Rubilli che la sua seconda Camera sia molto più seria di quella che risulta dal progetto costituzionale? (Commenti).
Io personalmente non credo all’utilità della seconda Camera, io non sono per il sistema bicamerale.
RUBILLI. Se non la volete la seconda Camera, fatene a meno!
LUSSU. L’onorevole Tupini, nel suo notevole intervento, ha difeso questa necessità della seconda Camera, non tanto con suoi argomenti, quanto con gli argomenti di un illustre uomo politico francese, Duvergier De Hauranne, ma non ci ha detto chi era Duvergier De Hauranne. Mi permetta dunque che lo dica io: era uno degli allievi più ossequiosi del signor Guizot e debuttò come giornalista nel Globe, un giornale che a quell’epoca era terribilmente rivoluzionario, come il Giornale d’Italia del collega onorevole Bergamini. (Si ride). In economia e in politica era poi seguace di Royer Collard, un caposcuola che può farci ricordare l’onorevole Corbino. (Si ride). Si schierò successivamente per il Ministero di Casimir Périer. Infine, onorevoli colleghi sostenitori della seconda Camera, votò per le leggi eccezionali di Carlo X! E poi, quasi che questo non bastasse, sempre manovrò per entrare in tutti i Ministeri conservatori, e finì, negli ultimi due giorni della dinastia di Luigi Filippo, nel Ministero di Thiers e di Odilon Barrot.
Caduta poi la monarchia, all’Assemblea Costituente il signor Duvergier de Hauranne fece quel discorso così autorevole che l’onorevole Tupini ci ha citato. Vero è che, quando Luigi Bonaparte fece il colpo di Stato, mise Duvergier de Hauranne in galera. Ma è anche vero che, se un secondo ipotetico duce facesse una seconda ipotetica marcia su Roma, metterebbe in galera anche l’onorevole Tupini. (Si ride).
TUPINI. Mi ci ha messo una prima volta, in galera: mi ci metterebbe sicuramente una seconda.
LUSSU. Questi argomenti non bastano dunque a convincerci per la seconda Camera. A me pare preferibile una Camera unica, con quelle limitazioni che possono trovarsi e nei poteri presidenziali, e per l’approvazione nelle leggi e per il tempo della loro entrata in vigore. Si possono trovare parecchi correttivi preferibili alla creazione di questa seconda Camera, che peserebbe sulla prima, come palle di piombo alle caviglie di un uomo libero.
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Il Senato in Francia è stato il massimo difensore della Repubblica.
LUSSU. Il Senato francese può avere avuto degli ammiratori e dei sostenitori democratici altamente degni, quale l’onorevole Sforza. Ma la Repubblica francese ha anche avuto altri democratici, egualmente rispettabili, che di quella democrazia parlamentare liberale erano tutt’altro che contenti, i quali non hanno mai guardato alla terza repubblica come al loro ideale.
I bisogni e le aspirazioni di queste ingenti masse popolari erano rimasti estranei anche allo Stato della terza Repubblica. La terza Repubblica è stata una Repubblica conservatrice: il Senato pertanto difendendola, difendeva la sua Repubblica. Io d’altronde avrò occasione, credo, di intervenire nella questione della seconda Camera.
Parlerò ora due minuti sulle autonomie. Su questo argomento interverremo a suo tempo; dirò quindi ora solo pochissime parole. Avevo pensato anzi di sfiorare appena questo argomento, se da quei banchi (Accenna alla destra) non mi fosse stato gridato: ci parli del Partito sardo d’azione. Ebbene, io ne parlo. Alcuni, e autorevoli, dicono che queste autonomie non sono, in fondo, l’espressione di una democrazia progressista, ma appaiono come tentativi di reazione. Io mi permetto di leggere qui un periodo solo che è contemplato nel manifesto di Pietro Gobetti, nel primo numero di Rivoluzione Liberale e che riguarda il Partito sardo d’azione. Sono uno di coloro che hanno avuto l’onore di crearlo e di rappresentarlo e che ha l’onore di rappresentarlo ancora in questa Assemblea. Dice dunque il Gobetti nel manifesto di Rivoluzione Liberale: «La base della nuova vita italiana deve trovarsi nella Costituzione di due partiti intransigenti di opposizione ai programmi riformisti, rivoluzionari nella loro coerenza: il partito operaio e il partito dei contadini. I nuclei iniziali di queste due tendenze stanno operando nella realtà della nazione, anche se ancora non si esprimono in termini di parlamento, e sono il partito comunista (nonostante la demagogia ridicola dei Bombacci e dei Misiano) e le prime organizzazioni agricole del Sud, sostenute dal Partito sardo, d’azione che si sta estendendo, ad altre regioni, mature per accoglierlo. Queste solo forze si scorgono capaci di accettare l’eredità della piccola borghesia, ormai burocratizzata in tutte le sue manifestazioni».
Io non credo di poter avere la pretesa di imporre il pensiero critico di Piero Gobetti come un testo che fa legge. Peraltro, questo uomo liberale spregiudicato, dal talento straordinariamente critico, ha affermato alcune verità che ci appaiono tali ancora oggi. Come rappresentante di questo partito di masse rurali, di questo partito progressista che già nel primo dopo-guerra si metteva – piccolo ma deciso – all’avanguardia della democrazia repubblicana in Italia, io affermo che il concetto autonomistico è un concetto di libertà e di democrazia. E questo avrò l’onore di sostenere nel mio intervento nella discussione generale sulle autonomie.
E finisco, onorevoli colleghi. Come voi vedete, qui ci troviamo gli uni di fronte agli altri, disposti a collaborare in comune; eppure proveniamo da differenti origini. Ma io credo che a tutti i costi, a costo anche di non essere totalità, ma solo maggioranza, la nostra democrazia non dovrà mai rinunziare ad essere democrazia antifascista. La nostra democrazia ha due origini come fatti positivi di importanza e di scaturigine popolare: il grande movimento democratico, nazionale e rivoluzionario, che è l’epopea di questo secondo Risorgimento, il movimento dei partigiani; e la Repubblica popolare che la sovranità del popolo ci ha data il 2 giugno. Il movimento partigiano e il movimento repubblicano, che ci hanno dado la Repubblica, segnano la nascita della democrazia: ad essa noi saremo fedeli in ogni sua ora. (Applausi a sinistra – Congratulazioni).
(La seduta, sospesa alle 18,15, è ripresa alte 18,30).
Presidenza del Vicepresidente TUPINI
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Capua. Ne ha facoltà.
CAPUA. Io prendo la parola a nome del gruppo qualunquista e di fronte a questa Assemblea non so se cominciare col vecchio motto: «pochi ma buoni», ovvero con l’altro vecchio motto «vox clamans in deserto».
Parlo per esprimere un giudizio su questo progetto di Costituzione che ci viene presentato per la discussione.
Prima di me ha parlato l’onorevole Mastrojanni, il quale ha illustrato con belle e sagge parole quello che è il lato etico e giuridico dei tratti più salienti del progetto, e debbo a questo punto fare una precisazione importante: chiamo a testimoni quelli che erano presenti – ciò che del resto risulta anche dal resoconto stenografico – che egli si è espresso con elevate e nobili parole nei riguardi del lavoro e dei lavoratori.
Ciò tengo a confermare, perché qualche giornale ha inteso travisare le parole dell’onorevole Mastrojanni, e non in buona fede. Io non farò uso del linguaggio giuridico, perché non lo conosco, onorevoli colleghi; parlerò così alla buona, come posso. Io sono un uomo della strada e se sarò a volte impolitico e forse la mia parola potrà suonare, non dico scortese, perché spero di non giungere a tanto, ma sgradita a qualcuno o a qualche idea, sarà pure opportuno che nel momento più importante della nostra vita di costituenti, si faccia, per così dire, un esame di coscienza, si vuoti il sacco, per dirla con frase più modesta, affinché gli altri sappiano ciò che noi vogliamo e noi comprendiamo ciò che essi vogliono.
Questo progetto, onorevoli colleghi, che è pure frutto, indubbiamente, di poderosi cervelli, allorché io l’ho letto, mi ha dato un certo senso di sconforto e di amarezza! È vero che l’artista molte volte è capace di prendere un blocco informe, quasi mostruoso e poi sotto le sue agili mani modellarlo o scolpirlo fino a farne un’opera perfetta; né, senza dubbio, in quest’Aula non mancherebbero artisti capaci di fare altrettanto. Però bisogna tener presente che, allorché l’artista crea, è libero, è sovranamente libero, non ha inceppi di sorta, mentre in questo progetto, onorevoli colleghi, ad ogni piè sospinto si vede spuntar fuori l’ostacolo, il freno della ideologia di parte. Vi sono infatti interi programmi di Partito, tanto che io mi sono chiesto – nel mio intimo – se valeva la pena di disturbare settantacinque giuristi per una fatica simile. Penso che sarebbe stato più economico che i partiti di maggioranza avessero inviato il loro programma per lettera raccomandata all’Uffìcio di Presidenza e successivamente, poi un modesto cervello legale avesse potuto incolonnare i desideri dei varî partiti, fino a dare una veste legale al tutto. Forse sarebbe venuto fuori un costrutto più logico, più consistente, più umano.
Questo progetto, è tripartito: è tripartito come il Governo. Io tocco questo argomento, onorevoli colleghi, perché l’onorevole Tupini, al quale mi permetto rivolgermi, indipendentemente dalla sua funzione di Presidente, nel suo alato discorso, polemizzando con la frase dell’onorevole Calamandrei, che metteva in evidenza i numerosi contrasti fra gli articoli, ha affermato che questi contrasti sono naturali e, direi, quasi necessari, perché rispecchiano il contrasto che c’è nella vita politica.
E ieri l’onorevole Saragat – mi dispiace che sia assente! – ha aggiunto: «Il Paese segue con una certa indifferenza le discussioni che hanno luogo qui dentro attorno a questo documento».
Quanta verità in queste parole! Vogliamo parlarne un po’, onorevoli colleghi?
Questo progetto pare a me, e pare al nostro gruppo, che risenta principalmente di un male che è il male della stessa Assemblea. Queste sono parole che prendo dalla bocca di tanti oratori che hanno prima di me parlato, e non solo da questo settore: rispecchia male, per così dire, quello che è il pensiero del popolo italiano, non solo quale è stato nelle passate elezioni che ci hanno qui inviati, ma anche alla luce di come si è evoluto nelle sue successive manifestazioni politiche. Onorevoli colleghi, non poteva essere diversamente. Anche questa frase non è mia: l’ho presa in prestito da altri oratori che mi hanno preceduto!
Questa Assemblea, così come è costituita, non è stata capace per il passato di esprimere un Governo che dia veramente fiducia al popolo italiano e, quindi, penso che essa – a parer mio – difficilmente possa esprimere una Costituzione definitiva che dia tranquillità, dia serenità a tutti quegli italiani i quali, fuori di questo palazzo, nelle case, nelle strade, nei campi guardano a noi con malcelata ansia, perché sanno di aver consegnato nelle nostre mani un mandato, che – mi si perdoni la parola che può sembrare grossa – è stato già in parte tradito. (Commenti).
Spiegherò meglio: dico tradito, perché già altre volte – e non solo da questo settore, ma anche da altri settori – ho udito parlare di quel famoso equivoco di cui si è fatto qui uno slogan, un luogo comune. Dico tradito, perché nell’ultima tornata, durante le discussioni sulle dichiarazioni del Governo ho visto cose strane: ho visto, ad esempio, i repubblicani fare gli oppositori alla prima macilenta Repubblica! ho visto i socialisti fare da oppositori ad un Governo che dichiara di avere come fondamento un programma sociale. Ho visto insomma uno stato di disagio, di strano disagio che qui dentro si manifesta, e che poi, in fondo, non è altro che il riflesso di quello che è disagio esterno!
Ciò, onorevoli colleghi, avviene indubbiamente, perché molti di noi hanno fatto, a volte, della politica non intesa nel senso elevato della parola, ma intesa nel senso un poco basso, decadente della parola, ed hanno tentato di fiutare il vento e mettersi sulla coda del cavallo che intendono puntare come cavallo vincente.
Mi spiegherò con qualche esempio. I monarchici, in Italia, al responso delle passale elezioni, rigidamente controllate, sono stati 10 milioni, il che significa, con ragionamento matematico che, in quest’aula, vi è per lo meno il 46 per cento di Deputati che hanno avuto un mandato da monarchici.
Orbene, onorevoli colleghi, io, nelle manifestazioni a cui ho assistito in quest’Aula, di deputati monarchici ne ho visti sei o sette e non più; e quel che è più bello, e leale, tutti gli altri non solo sono repubblicani, ma affermano di essere sempre stati dei convinti repubblicani. (Commenti).
Non è, onorevoli colleghi, in questa mia affermazione alcuna concezione legittimista; non intendo fare del legittimismo, intendo soltanto dire che nella stesura di una Costituzione non si possa assolutamente trascurare quella che è la maniera di pensare e quello che è l’indirizzo sociale di dieci milioni di monarchici elettori, che corrispondono al 46 per cento della popolazione.
Ancora un altro esempio, questo forse un poco più pungente, un poco più spinoso. Io, nelle passate elezioni, ho visto, e molti di voi con me hanno visto, che alcuni partiti, fra cui qualcuno molto numeroso, hanno impostato la loro battaglia elettorale principalmente su di un programma: anticomunismo. Per conseguenza i voti che hanno preso, li hanno presi principalmente in funzione di questo slogan. Tutti coloro che hanno una ideologia di sinistra spinta, hanno con pieno diritto dato il loro voto a socialisti e comunisti, i quali hanno apertamente spiegato quelli che sono i loro programmi e principalmente quelle che sono le loro finalità.
Chi, a parer mio, non ha votato per i socialisti e per i comunisti, vuol dire che non mirava agli stessi fini, perché, se agli stessi fini avesse mirato, avrebbe dato il voto direttamente e non per interposta persona.
Ora, se io non sbaglio, dal computo complessivo dei voti che si sono avuti nelle passate elezioni, l’idea social-comunista è stata in minoranza, non in maggioranza. Non so che cosa potrà succedere in futuro, perché dice la vecchia frase: le urne sono di genere femminile e, quindi, sempre infide!
Ma, nella passata elezione è stato così, non diversamente!
Ora, posto così il problema, dopo aver letto questo progetto, mi sono chiesto fra me e me: ma perché viene fuori un orientamento di netta sinistra, di sinistra avanzata? Tanto che io, se potessi, per un momento, spogliarmi della mia veste di uomo di partito, sentirei quasi il bisogno, fuori da questi banchi, di fare le congratulazioni all’abilità manovriera dell’onorevole Togliatti.
Perciò affermo che lo spirito di questo progetto non corrisponde al mandato della maggioranza. Non voglio dire «barattato», perché questa potrebbe sembrare una parola grossa e potrebbe suonar male di fronte ad un’Assemblea così elevata; ma, onorevoli colleghi, indubbiamente qui, ad un certo punto, si è confuso, e si è confuso di grosso; cioè si sono confuse quelle che sono le possibilità attuali, contingenti di Governo, che impongono a determinati partiti di vivere in convivenza, con quelle che sono le aspirazioni naturali del popolo italiano. E le due cose, a parer mio, sono ben diverse, perché mentre la prima è stretta contingenza, la seconda illumina come faro quella via che dovremo percorrere tutti per un vivere felice.
Noi siamo stati inviati qui per trovare una soluzione, non per prospettarla. Noi rappresentanti del popolo italiano, posti oggi fra un liberalismo assoluto, che pare abbia fatto il suo tempo e che dimostra, alla stregua dei tempi che noi abbiamo vissuto, di non soddisfare più; ed un marxismo contrapposto, il quale sta facendo anche il suo tempo e dimostra anch’esso, alla stregua degli esperimenti, di non essere il toccasana, e principalmente ha dimostrato di non essere gradito alla maggioranza del popolo italiano; noi oggi avremmo avuto il dovere di trovare un piano di slittamento comune, una soluzione che fosse intermedia. Liberalismo, ripeto, e marxismo, intesi come gli asindoti di una proposizione in mezzo alla quale oggi c’è una realtà contingente, c’è un materialismo economico, c’è una linea storica; e noi questa linea storica dovevamo trovare e cercare di codificare per la sicurezza di tutti.
Onorevoli colleghi, credete voi che il progetto che andremo a discutere risolva questo angoscioso problema? No, io non lo credo assolutamente. Mi si potrebbe obiettare che questo è un progetto soltanto e che quindi nel corso della discussione ci sarà tempo di vedere, di limare, di correggere; così si sono espressi alcuni oratori.
Ma io ho anche udito e letto che nelle Commissioni sono stati composti già molti dissidi, il che significa che questa stesura, così come noi la vediamo, è il risultato di tesi già concordate. Afferma anzi l’onorevole Tupini che i comunisti e i democristiani hanno collaborato senza eccessive difficoltà nella discussione, esclusa, si capisce, la questione dei rapporti fra Stato e Chiesa. Egli ha affermato che è favorevole al progetto e lo difenderà, perché è la risultante feconda di uno sforzo compiuto da ciascuno di loro per superare le divergenze e trovare un cemento comune. Sono le parole testuali.
Ciò fa prevedere, poiché’ l’onorevole Tupini è uno degli autorevoli rappresentanti del più numeroso partito di questa Assemblea, che poche modifiche la maggioranza è disposta a fare e in ogni caso in questioni di dettaglio e non in questioni di principio.
È profondamente vero che la nuova Costituzione ha l’obbligo di risolvere un problema, il problema sociale, di modo che in essa vi sia, accanto a quelli che furono i sacramentali diritti vecchi, questo diritto.
E non sarà certo, onorevoli colleghi, l’affermazione dei diritti sociali che farà tremare qualcuno in quest’Aula o lo farà essere oppositore, perché già dalle discussioni dei 75, che poi, in fondo, sono espressione numerica di questa Assemblea, voi avrete notato che siamo stati tutti d’accordo sulla base del problema; tanto che io oggi mi permetterei di dire, con una frase traslata, che noi siamo tutti socialitari, se socialitario viene dalla comprensione del problema sociale, se tale origine ha avuto! Ma se il problema sociale, onorevoli colleghi, è parte importante della nuova Costituzione, non è tutto, e non può, esasperato, soppiantare o minare quelli che sono i diritti fondamentali preesistenti.
Qui io vi chiedo scusa se per poco scivolo nel campo astratto.
Dirò che le leggi di Cristo, che forse sarebbero state la migliore delle costituzioni, se fossero state codificate su questa terra, se avessero avuto sanzioni civili, consigliano l’uomo ad essere saggio, giusto ed altruista.
Ora, se l’uomo può diventare saggio, specie quando ha perduto i denti, giusto e altruista è difficile che diventi. Non ci diventa perché è profondamente egoista, onorevoli colleghi; e su questo egoismo, che è parte integrante della sua anima, io dirò che la religione stessa ha dovuto transigere ammettendo il concetto dell’individualismo. L’individuo, l’io innanzi tutto, tanto che, come voi ben sapete, la religione ha affermato agli uomini che già furono prima trattati come massa e come numero, che essi erano fatti a somiglianza della divinità. Ed è perciò che la religione di Cristo si regge da 2 mila anni sempre più forte.
Ho udito in quest’Aula, onorevoli colleghi, parlare di Costituzione imperniata sul rispetto della personalità umana, di diritti del cittadino, di Costituzione fondata sui cardini della libertà e della giustizia e coerente col cristianesimo. Queste sono parole prese a volo dall’alato discorso dell’onorevole Tupini.
Ora, tutto ciò significa salvare l’individuo, questo individuo che, pur limitando alcune delle sue libertà per le necessità del vivere consociato, altre intende che non siano mai toccate. Tutto ciò, onorevoli colleghi, significa fare dell’individualismo.
Ora, se voi impiantate o permettete che si impianti il problema sociale su quelli che sono i concetti ed i bisogni di massa, come assolutamente predominanti, ciò potrete fare solamente a danno dell’individuo, cioè andando contro la natura stessa dell’uomo! Voi farete del collettivismo di cui tanto oggi si parla e di cui alcuni esperimenti sono stati fatti. Ma questi esperimenti stessi ci dimostrano che anche in quei – chiamiamoli fortunati – paesi dove ciò è avvenuto, ad un certo punto si è dovuto transigere con l’individualismo, allorché si è affermato in maniera categorica che chi più merita più avrà beni di consumo. E si sono ricostituite delle classi di privilegiati! E la formula collettiva si è salvata solamente nell’ambito dei beni di produzione. Vedremo quanto durerà. Staremo a guardare, e se non noi, staranno a guardare i nostri figli.
Voi mi potreste obiettare – e questo dico specialmente ai partiti di centro – che nessuno intende fare del collettivismo, perché non è nel vostro animo e non è nel vostro desiderio. Ma, onorevoli colleghi, io mi permetterò di rispondervi che quando si afferma, o si permette che altri affermino, così, direi quasi un pochino alla leggera, che la base dello Stato è il lavoro, che il lavoro è condizione essenziale per i diritti politici, che lo Stato ha l’obbligo di garantire il lavoro ai suoi cittadini, che ogni attività economica deve tendere a provvedere il benessere collettivo, che la legge determina le norme perché queste attività possano essere coordinate ai fini sociali, che la legge può trasferire allo Stato, o a comunità di lavoratori, imprese o categorie di imprese che si riferiscano, oltre che a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia, a situazioni di monopolio, mi permetto di rispondere, onorevoli colleghi, che abbiamo tutti gli elementi sufficienti e necessari per l’affermazione di una formula collettivista, di un’etica statale nuova che si aggiunge all’etica e alla mistica di felice memoria.
Ciò che distingue, dal punto di vista filosofico, la norma giuridica dalla norma etica e religiosa, è la convinzione della necessità dell’osservanza della prima e non della seconda. Nel campo positivo ciò che distingue la norma giuridica da quella morale è il fatto che alla prima si accompagna la possibilità di una coazione che non c’è per la seconda.
Ora, onorevoli colleghi, in questo progetto si afferma con norma giuridica e quindi con possibilità di coazione.
E vi dimostrerò, se mi seguirete nel ragionamento, che non sbaglio riportando intanto le parole dell’onorevole Togliatti tolte dalla discussione generale. Egli dice – e parte di queste parole sono state ripetute da oratori che mi hanno preceduto – quanto segue: «La Costituzione sovietica, dopo aver affermato un diritto può nel capoverso fissare un complesso di condizioni di fatto che permettono di realizzarlo perché queste condizioni di fatto esistono. In Italia queste condizioni di fatto si debbono creare, perciò si debbono affermare determinati diritti e sancire determinate norme che applicate serviranno a garantirle. Il diritto al lavoro verrà garantito soltanto quando si avrà un’organizzazione economica del Paese diversa dall’attuale, per cui coloro che sono capaci di lavorare abbiano la possibilità di esplicare la loro forza di lavoro».
Così egli obietta a coloro i quali volevano che la dizione del diritto al lavoro fosse relegata nel preambolo, affermando ancora che, mentre nel preambolo non ha nessun significato, essendo esso soltanto generico, messa nel complesso degli articoli stabilisce obblighi precisi per il futuro legislatore.
E, come vedete, la dizione è stata posta negli articoli e non nel preambolo.
Qualcuno ha qui dentro affermato che si è ricorso all’espediente del compromesso politico, nel quale prevale la formula elastica, con la speranza che poi si vedrà chi tirerà di più e, dice l’onorevole Calamandrei: questi sono articoli vaghi, sono sermoni, non sono norme giuridiche. Corregge tempestivamente con lapidaria chiarezza l’onorevole Laconi, se ho ben capito il costrutto delle sue parole: questo non è un compromesso, ma è un impegno preciso a rendere effettivo questo principio. Questi impegni sono stati presi e quindi non si tratta di discuterli, ma soltanto di sottoscriverli.
Non valgono, onorevoli colleghi, le argomentazioni che alcuni di voi hanno opposto all’onorevole Togliatti, cioè che la sola affermazione del diritto al lavoro, anche in un articolo, non è sufficiente se non c’è la garanzia precisa che tale affermazione abbia applicazione. Non valgono!
Vale, a parere mio, il principio che una futura Camera legislativa di sinistra, o di prevalenza sinistra, può applicare; e noi potremo in mezz’ora soltanto scivolare in pieno nella formula collettivista, perché la Corte stessa costituzionale nulla avrà da farci.
Gli onorevoli colleghi di sinistra potrebbero fare una obiezione, e cioè dire: noi abbiamo affermato in maniera netta un principio preciso, per cui se l’opinione pubblica si evolverà nella maggioranza per la formula collettiva, questa stessa Costituzione avrà tutti gli elementi sufficienti e necessari per permetterla. È giusto!
Ma, ammesso anche che i nostri avversari divengano la maggioranza, noi, nel fare questa Costituzione in Italia, siamo partiti dal principio basilare che devono essere rispettati i diritti di tutti e la libertà di tutti. Allora, ciò posto, sapete dirmi come armonizzate nella formula collettiva i diritti delle minoranze?
A questo ha risposto l’onorevole Laconi, affermando che: anima del Governo democratico non è di garantire la libertà dei pochi, ma di permettere che si affermi l’indirizzo della maggioranza.
Già! Non c’è che un solo metodo; e proprio quello che temiamo: ridurre questa minoranza a minoranza sempre più esigua, fino a giungere a quel famoso plebiscito col 99.9 per cento di «sì!».
Ma questo è un sistema che già è stato usato altre volte in Italia e non pare che, alla stregua dei fatti, abbia dato risultati duraturi e lodevoli.
Onorevoli colleghi, allorché si afferma che la Repubblica ha per fondamento il lavoro e della dizione di «lavoratore» non di «cittadino» si fa una condizione essenziale per i diritti politici, o si fa della demagogia, o – scusate l’espressione – si scopre l’America.
Perché, se ci atteniamo alla organizzazione sociale vigente in Italia, credo sia difficile trovare chi non concorra allo sviluppo materiale e spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità ed alla propria scelta. È questa l’espressione che voi usate negli articoli per definire il lavoratore.
Così stando le cose, credo che non si dovrebbe riuscire ad escludere dai diritti politici neppure il più tipico dei rentiers, colui che vive di rendita, perché se egli afferma che, amministrando le sue rendite, compie un lavoro od una funzione sociale, poiché sull’amministrazione delle rendite ci vive tanta gente (in banca, in borsa), egli avrà ragione. E se gli si obietta che egli amministra male, può rispondere che, così facendo, il suo patrimonio passerà ad altri; ed anche questa è funzione sociale.
Ho sentito, sempre dall’onorevole Laconi, al quale chiedo scusa di chiamarlo spesso in argomento…
PRESIDENTE. Credo che l’onorevole Laconi ne sia contento.
CAPUA. …che bisogna aprire le porte al popolo, perché esso possa permeare – della sua linfa vitale – questa frase l’ho aggiunta io, perché è bella – tutti i posti direttivi dello Stato.
Onorevole Laconi, su questo c’è l’accordo più completo; però, l’accordo non è solo di adesso, ma del 1848 in poi; e vi spiegherò perché.
Noi, in Italia, dal 1848 in poi, non abbiamo mai avuto un sistema sociale che presuma caste chiuse o privilegi di classe. (Interruzioni – Commenti). Se mi usate la cortesia di ascoltarmi fino in fondo, vi convincerete che nelle mie parole c’è un fondamento di verità, un po’ amaro, ma c’è.
Anche col vecchio ed ancora presente Statuto albertino vi era la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori, intesi come singoli, non come massa, alla organizzazione economica, politica e direi anche sociale del Paese. (Commenti).
Una voce. Non potevamo neppure votare.
CAPUA. In Italia anche questa è acquisizione di molti anni fa!
Noi stessi ed i nostri padri abbiamo visto umili figli delle classi più modeste giungere ai più alti posti direttivi, nell’agricoltura, nella banca, nell’industria, nello Stato. Mi permetterò di ricordare qui le meravigliose parole di Emanuele Gianturco, parole che ricordo perché scolpite in una lapide che si trovava di fronte alla finestra della mia cameretta di studente in Napoli: «Umili ebbi i natali e avversa la fortuna, e questa vinsi e quelli nobilitai, con la sola perseverante virtù del lavoro».
Da molti anni in qua nessun privilegio di classe era in Italia. (Proteste – Rumori a sinistra).
Il fatto stesso che l’onorevole Di Vittorio si risente dimostra che ho colpito nel segno.
Noi abbiamo visto giorno per giorno questa linfa vitale del popolo salire attraverso un duro lavoro e concretarsi in quella classe direttrice che solo per necessità polemica voi chiamate con dispregio borghesia, ma che è popolo evoluto, come voi siete popolo evoluto, e quindi anche voi borghesi in questo senso; sinché non avrete dimostrato che esiste una definizione della parola borghese che permette di includerci dentro soltanto noi e non voi! (Commenti).
Se poi volete, come delle frasi che qui ho udite, aprire le porte del Governo esclusivamente ai rappresentanti di una determinata categoria di popolo, vi risponderò democraticamente: se sarete maggioranza, ebbene sia!
Staremo a vedere se sarete maggioranza. In ogni caso io sento il bisogno di affermare qui dentro che anche lì dove la formula da voi difesa si è affermata e il capitale è stato trasferito allo Stato, la critica storica deve ancora dimostrare se veramente si è raggiunta la giustizia sociale e se – cosa questa più importante – risultati simili ed anche migliori non si sarebbero potuti raggiungere in regime libero.
Ed allora, stando le cose così, se l’affermazione che noi facciamo è pura affermazione dottrinaria noi, per dirla con una nota frase, portiamo vasi a Samo e nottole ad Atene.
Se noi invece intendiamo fare affermazioni specifiche che diano indirizzo al legislatore futuro, io vedo in ciò un’idea non espressa, un pensiero nascosto, un’ipoteca che si vuol fare sulla legge costituzionale. Allorché si afferma che l’adempimento del lavoro è condizione per l’esercizio dei diritti politici, io ho il diritto di chiedermi: chi deve giudicare della qualifica di lavoratore? Perché, indubbiamente, è inutile una qualifica amplissima da cui nessuno sia escluso. Ad un certo punto si avrà il diritto, in base a quella Costituzione, di giudicare chi è lavoratore e chi non lo è.
E chi dovrà giudicare?
Non potrà giudicare altro che il potere politico, il quale avrebbe ad un certo punto il diritto, in base ad una nuova etica, di affermare che soltanto certe categorie di lavoratori possono usufruire dei diritti politici ed altre no, perché solo alcune concorrono allo sviluppo materiale e spirituale della società!
Cosa significa concorrere allo sviluppo materiale o spirituale della società? Quali sono gli elementi etici fondamentali di questa affermazione e quali i limiti?
È qui il problema!
Questo è uno di quegli argomenti che l’Assemblea ha il dovere di discutere e cercare di sviscerare fino in fondo, perché, se questa affermazione è di indole generica, nel senso che intende includere chiunque nello Stato eserciti una qualsiasi attività, allora è pleonastica la precedente affermazione che soltanto chi lavora ha i diritti politici. Ognuno infatti, uomo o donna che sia, così nel grande come nel piccolo, esercita una funzione sociale e quindi lavora.
Se questa, onorevoli colleghi, è invece un’affermazione che ha l’intendimento di dare al legislatore il diritto di limitare a determinate categorie di cittadini l’esercizio dei diritti politici, noi dobbiamo chiedere che se ne indichino anticipatamente e specificatamente i limiti.
Onorevoli colleghi, la Costituzione è la legge fondamentale secondo la quale ognuno conosce i suoi diritti e i suoi doveri.
Io, in base a quanto ho letto in questo progetto, conoscerò i miei doveri, anzi potrò soltanto sospettare la entità dei doveri che mi si vogliono imporre; ma non conoscerò i miei diritti, compreso quello fondamentale ed importante della libertà personale. E spiego il perché. Nell’articolo settimo, si afferma che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza degli individui.
Ma che cosa intendete per uguaglianza? Si è uguali di fronte alla legge e di fronte a Dio; ma voi qui non avete specificato, il che mi fa supporre che intendiate un altro tipo di uguaglianza.
Che cosa intendete poi per ostacoli? Io, per esempio, potrei ad un certo momento essere un ostacolo di ordine sociale, perché potrei non essere disposto ad accettare un tipo di uguaglianza che non condivido. E allora, in questo caso, la Repubblica avrebbe il dovere e il diritto di rimuovermi; ma rimuovere un uomo significa metterlo sotto chiave, o sopprimerlo! (Rumori a sinistra).
Come vedete, noi navighiamo nel pieno equivoco. In questo progetto le correnti opposte, trovatesi di fronte, invece di darsi battaglia subito, o per elidersi o per amalgamarsi, hanno preso soltanto posizione da battaglia futura nella quale le impostazioni social-comuniste cercano di precostituirsi un vantaggio.
E, come potete notare in questa prima fase, la tesi comunista è uscita nettamente avvantaggiata, poiché noi abbiamo qui tutti gli elementi costituzionali perché i comunisti possano imporre la loro ideologia al completo.
Dall’incontrarsi insomma di queste tendenze diverse non è venuto fuori un incrocio, un qualche cosa che avesse amalgamato questi contrasti, sia pure un ibrido; ma è venuta fuori una specie di bestia strana, favolosa, che mi ricorda la mitica chimera, che aveva la testa del leone, la coda del drago e il corpo della capra. (Rumori). E per la sua struttura stessa, ci fa vedere delle cose strane, che a volte potrebbero suscitare il riso e a volte il pianto: il riso se si pensa alla mentalità del legislatore (absit iniuria verbis); il pianto, se si pensa alle conseguenze che queste cose possono avere.
Tutti i lavoratori hanno il diritto di sciopero! Dal punto di vista etico, questa affermazione è pleonastica, perché se noi abbiamo sancito prima il principio della libertà, delle libertà che non si possono in nessuna maniera violare, il lavoratore ha diritto di manifestare questa sua libertà di scioperare.
Ma qui però il concetto è diverso: si intende affermare la non incriminabilità dello sciopero! E, scusate, le conseguenze civili inerenti alla violazione del patto di lavoro, le avete considerate o no? Perché, chi esercita un suo diritto, non può subire sanzioni di sorta. A parte le amenità di veder scioperare certa gente, come per esempio i medici, le ostetriche; e perché no! anche il Consiglio dei ministri…
DI VITTORIO. Tutte cose che non sono mai avvenute.
CAPUA. Noi dobbiamo pensare a tutto quello che può avvenire, onorevole Di Vittorio.
DI VITTORIO. Lei fa delle ipotesi che non si sono mai verificate.
CAPUA. Ma proprio a questo noi dobbiamo pensare: a quello che può avvenire.
Io voglio dirvi una cosa, onorevole Di Vittorio; se noi fossimo animati qui tutti dalla buona fede, non ci sarebbe stato bisogno di una Costituzione; sarebbe bastato darci la mano. Noi dobbiamo fare la Costituzione, perché dobbiamo presumere la malafede. (Commenti – Rumori). È la verità!
A parte, ripeto, queste amenità, qui s’intende dare un’arma molto appuntita a certe categorie di italiani; arma della quale esse intendono servirsi, perché si è già tolto agli antagonisti la possibilità di difesa, cioè il diritto di serrata. (Interruzioni).
Onorevoli colleghi, io potrei accettare, anzi senz’altro accetto, l’idea dello sciopero, perché molte volte il lavoratore fa bene a servirsene: è necessario; ma portare un principio simile in Costituzione significa ammettere che certe categorie di persone hanno sempre ragione, devono sempre aver ragione. E questo, perdonatemi, non è una norma di buona convivenza, e quindi non può essere neppure una buona norma costituzionale.
Dulcis in fundo, anzi, per dir meglio, in cauda venenum: l’articolo 50. (Commenti).
L’articolo 50, dove è sancito il diritto alla violenza, dove si aprono costituzionalmente le porte alla rivoluzione e alla guerra civile… (Interruzioni) …allorché si afferma che è diritto e dovere dei cittadini resistere all’oppressione, quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali e i diritti sanciti nella Costituzione. (Interruzioni – Rumori).
Voi ne avete data una spiegazione; io mi permetterò di darne un’altra. Voi mostrate la faccia della medaglia; io, con bontà vostra, ne mostrerò il rovescio: è questo il mio compito.
Questo articolo può significare che nell’eventualità che si affermi il principio del diritto al lavoro – cosa che lo Stato non potrà mantenere, se non impadronendosi dei mezzi di produzione o imponendo assunzioni obbligatorie di lavoratori, e quindi in ogni caso violando le libertà di altri – se lo Stato non lo farà subito, alcune categorie di italiani saranno autorizzate a scendere in piazza e usare la violenza. Questo significa l’articolo 50!
Una voce a sinistra. Avete paura!
CAPUA. In altri termini, onorevoli colleghi, socializzazioni, collettivizzazioni diventano principî costituzionali, ed alcune categorie di lavoratori potrebbero usare la violenza per farli affermare. Parliamoci chiaro, onorevoli colleghi, è così.
Io vedo un giuoco strano fra due forze, di cui una è decisa e l’altra lo è un po’ meno. Dice questa: io ti concedo questi diritti senza sanzioni, perché riconosco i tuoi principî come principî fondamentali; però, di là da venire, proiettati nel futuro.
Risponde l’altra, la più decisa (abbassando oggi il velo che di abitudine le copre il volto): no, scusa, cara, guarda che ti sbagli, sta’ attenta, perché io questi diritti li ho posti negli articoli come un impegno preciso ed immediato, come una cambiale da pagare subito.
È questo il crudo significato delle polemiche che si odono qui dentro, sia pure velate, tra centro e sinistra!
Girate questo problema e troverete il volto politico.
Ricorderete le parole pronunciate altre volte in questa Assemblea dall’onorevole Togliatti. Io ve le ripeto, invertendone la dizione: Governo di centro può significare Governo Facta; Governo di centro può significare Governo Kerensky. Meditateci su, onorevoli colleghi del centro! Intelligenti pauca! (Commenti – Interruzioni a sinistra).
Una voce. Ma non può accadere!
CAPUA. Il mondo non è altro che un succedersi di evenienze strane, nelle quali chi non è stato attento è stato sempre accoppato. (Commenti – Interruzioni a sinistra).
E finisco su questo argomento!
Vedo anche in questo progetto un grave pericolo per l’unità della famiglia. L’unità della famiglia, sia pure dal punto di vista morale e da quello giuridico, è l’effetto del rapporto di matrimonio, reso indissolubile dalla legge ed inteso come tale dai coniugi, per la sua forza spirituale e sacramentale.
In funzione di ciò, l’articolo 24 sancisce la indissolubilità del matrimonio.
Ma se una famiglia, fondata sul puro rapporto naturale e fisiologico di filiazione, è ormai destinata per legge a produrre gli stessi effetti che conseguono ad una famiglia fondata sul matrimonio, io oso pensare che saranno ben pochi coloro che (a meno che non abbiano una superiore coscienza morale e un alto spirito religioso) accederanno a giuste nozze.
Perché, in fondo, sarebbero sciocchi ad affrontare la indissolubilità del vincolo quando dall’altra parte si possono avere tutti i vantaggi del matrimonio. Questo riporta la famiglia ad un mero prodotto naturale, al suo momento primordiale.
Non è ammissibile, a parer nostro, che un vincolo, contratto dinanzi alla legge e a Dio, nella consuetudine di un rito che esprime il sentimento etico e religioso di un popolo, abbia lo stesso valore e gli stessi effetti che può avere una unione la quale spesso sorge nel peccato, e nella riprovazione pubblica.
Io vedo in ciò un divisamento: allorché si vuole scardinare lo Stato si comincia sempre con lo scardinare la famiglia. Forse sbaglierò; anzi, mi auguro di sbagliare, ma ho questo sospetto.
L’onorevole Tupini, democristiano, questa questione non l’ha toccata e vi ha sorvolato elegantemente, ripetendo il gesto di Ponzio Pilato!
Nei riguardi dell’indipendenza della Magistratura e del suo auto-governo e nei riguardi della Corte costituzionale, emerge qui dal progetto lo sforzo convergente per determinare, sia nell’una che nell’altra, ingerenze politiche, e non poche. Alcuni colleghi della estrema sinistra ben ricordano quanto sia stata esiziale e riprovevole l’ingerenza della influenza politica sulla Magistratura e, alla luce di quella esperienza, essi oggi avrebbero dovuto essere fra i più intransigenti sostenitori della indipendenza assoluta della Magistratura. Ma, indubbiamente, poiché oggi presumono o sperano di poter diventare una maggioranza, ora optano per l’ingerenza politica. Tanto è vero che – accettino questo come uno scherzo e non come una provocazione – al dicastero della giustizia loro, repubblicani, hanno ripetuto una frase monarchica: «Ci siamo e ci resteremo!».
Nella Corte costituzionale i giudici sono nominati per tre quarti dall’Assemblea nazionale. Ma, onorevoli colleghi, l’Assemblea ha un colore politico e quindi, anche di riflesso, i giudici potranno avere un colore politico. Questa Corte, secondo la nostra concezione, avrebbe dovuto essere una specie di tempio, nel quale uomini anziani, profondamente saggi, liberi da ogni influenza e da ogni bisogno, avrebbero dovuto, alla maniera delle antiche vestali, essere i custodi del libro della Costituzione. Si sarebbe dovuto accedere a tale tempio per diritto automaticamente acquisito, attraverso una vita intera di prove, direi, lontano dalla politica. Solo così avremmo visto in quei giudici una superiore garanzia, un’ancora di salvezza contro ogni tempesta e solo così forse sarebbe tornata fra noi la fiducia, perché oggi, forse, il fondamentale, il primo di ogni male è che voi diffidate di noi e noi diffidiamo di voi, perché nella legge non c’è nessuna garanzia reciproca.
Si è anche parlato qui di partiti; considerato che essi ormai costituiscono una parte viva della nazione, è necessario inquadrarli e considerarli nella Carta costituzionale.
Il principio, o meglio, l’idea può essere utile; però in un senso preciso e positivo, perché i partiti possono anche scomparire, come qualche esempio ne abbiamo visto, ed altri sorgere. Quello che conta sono i fini ed i metodi che i partiti perseguono.
Questa discussione di dettaglio sarebbe molto importante, perché avremmo così la maniera di chiarire sia positivamente sia negativamente il significato esatto attuale di alcune parole: fascismo, antifascismo, democrazia, antidemocrazia, popolo, classe sfruttatrice, tutte parole che io sento aleggiare in quest’Aula come fantasmi, direi quasi; fantasmi inutili e a volte dannosi.
Onorevoli colleghi, io mi sono chiesto come è possibile che certe affermazioni siano passate nei lavori delle Sottocommissioni: affermazioni che, prese singolarmente, hanno un po’ l’aspetto di retorica innocua, e sono come i tasselli di un mosaico che presi isolatamente possono non significare nulla, ma quando si uniscono, ne balza fuori il disegno; e così, onorevoli colleghi, quando si riuniscono gli articoli in un documento unico, balza fuori quello che è il divisamento, quella che è la idea base, la quale ha l’aspetto di un estremismo, per me, troppo spinto.
Io, nel pensare alle possibili spiegazioni di questo fatto, ho immaginato ad un certo momento che molti dei colleghi, forse occupati nei particolari, non si siano preoccupati della questione generale. Ho immaginato, anche, che forse in alcune discussioni molti dei colleghi saranno stati assenti, mentre erano presenti con disciplina esemplare, al loro posto, quelli che avevano interesse che questa ideologia si affermasse.
L’onorevole Lucifero, l’altro giorno, in quest’Aula, ad un certo punto, ha parlato di commercio, al che l’onorevole Tupini si è ribellato, dicendo che si trattava soltanto di buona volontà d’intendersi. Se l’onorevole Tupini mi perdonerà anticipatamente lo scherzo, mi permetterò di far notare che il commercio è l’espressione più pratica della buona volontà di intendersi! (Si ride).
Ma, onorevoli colleghi, se io dovessi essere realmente convinto che una maggioranza ha votato coscientemente questa impostazione della Costituzione, dovrei ritornare al concetto precedentemente espresso e che ha sorpreso qualcuno, cioè che non si sia stati aderenti al mandato e che nel nostro Paese, se si dovesse avverare questa jattura, per certe categorie di gente non ci sarà altro che da chiedere un passaporto… se ce lo daranno! (Commenti).
Io vi dico, che nel 1922 una Camera intera irrise a chi, come me, lanciava lo stesso allarme! Cose che succedono!
Nello scorrere gli articoli di questo progetto, viene fuori a ogni piè sospinto la Repubblica, la quale intende assumere tanti impegni che spesso fanno a pugni con quelli che sono i principî fondamentali della libertà. Ciò io ricordo, perché in quest’Aula ho udito dalla voce di uno dei suoi più autorevoli rappresentanti che questa Repubblica doveva avere un volto umano, profondamente umano, ma se, indubbiamente, il problema sociale è uno dei lati del volto umano, non lo diventa più quando lo si voglia artatamente esasperare per portarlo alle estreme conseguenze. Io non credo che si faccia così opera salutare per questa Repubblica, alla quale anche noi ci inchiniamo (Commenti) e che possiamo affermare si sia finora retta più sulla lealtà dei monarchici che sulla saggezza dei repubblicani. (Applausi a destra – Commenti a sinistra).
Il 25 luglio gli italiani fecero giustizia del mito dell’uomo infallibile. Io vorrei che noi, dopo questi dibattiti, escludessimo anche un presunto possibile principio della nostra infallibilità. (Commenti).
Per quanto sia auspicabile, e direi certo, che 500 e più cervelli siano in condizioni di sbagliare meno di un cervello solo, bisogna però tener presente che l’unione fa la forza quando le singole energie convergono, non quando divergono. È perciò che su noi incombe in maniera imprescindibile l’obbligo di alleggerirsi di responsabilità, chiamando a giudice del nostro operato il popolo italiano.
Se egli vorrà, ebbene sia! «Ça ira», ha gridato un giorno in quest’Aula l’onorevole Molè, ripetendo il glorioso motto dei Sanculotti! «Ça ira», ripeto io in tono minore, se il popolo italiano lo vorrà!
Ma io sono fortemente dubbioso che ciò possa succedere, perché, se ciò fosse, sarebbe un errore ed in politica gli errori (come diceva Fouché, che è contemporaneo del «ça ira») sono peggiori dei delitti!
Se ben ricordo, Fouché fu colui che a Lione tagliò la testa come rivoluzionario a circa 5-6 mila borghesi; poi, come tutti i rivoluzionari, appena trovò il filo buono, si fece monarchico, imperialista, divenne marchese e principe, e visse di rendita!
Onorevoli colleghi, lo scopo che mi ha spinto a parlare è quello di denunciare in quest’Aula i pericoli che io vedo insiti in questo progetto di Costituzione. Non è ai colleghi di estrema sinistra che io mi devo rivolgere: essi conoscono bene questa Costituzione, ne sono stati i principali artefici e poi, in ogni caso, hanno difeso una ideologia ben nota e ben chiara che hanno sempre propugnata per le strade d’Italia. È piuttosto ai colleghi del centro che io sento il bisogno di rivolgermi e chiederò: siete voi convinti di essere stati strettamente aderenti al mandato imperativo e categorico che avete ricevuto?
Voci dal centro. Sì!
CAPUA. A questa domanda risponderete in silenzio, nell’intimo stesso vostro, così come noi rispondiamo a noi stessi. Però ciò significa, onorevoli colleghi, che noi abbiamo il dovere di portare questo progetto al giudizio del popolo, perché se noi siamo con la coscienza perfettamente a posto non c’è nessun motivo perché si abbia a temere del giudizio del popolo italiano, e se noi cerchiamo di svicolare, vuol dire che c’è nell’animo nostro una piccola incrinatura, una piccola pecca, sia anche minima, un qualche cosa che non ci fa dormire tranquilli.
Sentite, io negli ambulacri di questo palazzo ho parlato con coloro che sono amici ed ho udito parlare altri che sono semplicemente conoscenti, e ne ho ricavato l’impressione che, presi singolarmente, molti elementi sono convinti della necessità di un referendum. Ora, se ciò non si dovesse avverare, significherebbe che la tecnica di partito ha oppresso anche in quest’Aula l’individualità nostra, la nostra libera maniera di pensare; e se così fosse, la conclusione che dovremmo trarne per ultimo è ancora più amara.
Colleghi, alcuni oratori, per dar maggior forza alla parte terminale del loro discorso, hanno evocato i loro morti ed il sangue versato. Io non condivido questo principio, perché i morti, specialmente i morti gloriosi, bisognerebbe lasciarli in pace nell’empireo dove sono: essi, per il loro stesso meraviglioso sacrificio, trascendono dall’idea di parte e sono patrimonio nazionale.
Ma, giacché evocati da qualcuno, aleggiano in quest’Aula come spiriti inquieti, io mi permetterò di rivolgermi a loro e di apostrofarli, in relazione a quanto ho detto prima con le parole divine del Poeta: «Oh! degli eroi esercito gentile, triste novella io recherò fra voi: la Patria nostra è vile!». (Commenti – Applausi a destra – Congratulazioni).
PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 15.
La seduta termina alle 19.40.
Ordine del giorno per la seduta di domani.
Alle ore 15:
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.