Come nasce la Costituzione

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LUNEDÌ 24 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XLV.

SEDUTA DI LUNEDÌ 24 FEBBRAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TUPINI

INDICE

Sul processo verbale:

Longo                                                                                                               

Condorelli                                                                                                      

Gasparotto, Ministro della difesa                                                                     

Presidente                                                                                                        

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Lombardo Ivan Matteo                                                                                  

Pastore Raffaele                                                                                            

Presidente                                                                                                        

Colonnetti                                                                                                       

Cingolani                                                                                                         

Marinaro                                                                                                         

Interpellanza (Svolgimento):

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Grilli                                                                                                                

D’onofrio                                                                                                         

Si riprende la discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Quintieri Quinto                                                                                             

Rescigno                                                                                                           

Canepa                                                                                                              

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.

LONGO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LONGO. L’onorevole Enrico Martino, nel discorso pronunciato il 22 febbraio in questa Assemblea e di cui è riferito nel processo verbale, ha affermato che, se i partigiani non sono stati inseriti nell’esercito, ciò è dovuto al fatto che la Commissione centrale – riferiscono i giornali – presieduta dall’onorevole Longo, soltanto ora ha incominciato ad inviare le relative proposte e per i soli ufficiali: non ancora, quindi, per i soldati. Mi sorprende che l’onorevole Martino abbia ripetuto simili affermazioni dopo la polemica di stampa avvenuta tra me e lui, in cui gli avevo fornito tutti i dati necessari per metterlo sulla strada della verità. Dopo quella polemica, mi attendevo che l’onorevole ex Sottosegretario alle guerra venisse a dire alla Camera quante delle ricevute proposte di promozione e di avanzamento per merito partigiano erano state accolte dal suo Ministro. Su questo punto, invece, l’onorevole Martino non ha detto parola, ma ha detto solo che le proposte incominciano ad arrivare; e ha detto una inesattezza, perché non cominciano, ma continuano ad arrivare.

Il silenzio mantenuto su questo punto non può avere che questo significato: che nessuna delle proposte finora trasmesse è stata accolta dal Ministro. Basta questo fatto per giustificare in pieno le doglianze espresse al riguardo dall’onorevole Togliatti, nel suo discorso alla Camera. D’altra parte, il discorso dell’onorevole Martino, pur lodevole ed apprezzabile sotto molti rispetti, nel punto che riguarda i partigiani denota che egli non conosce i termini in cui la questiono si pone. Rendendo responsabile la Commissione centrale dei lamentati ritardi, l’onorevole Martino dimostra di ignorare parecchie cose. Dimostra di ignorare che il decreto che autorizzava la Commissione da me presieduta a fare le proposte di promozione e di avanzamento per meriti partigiani fu pubblicato solo il 18 settembre 1946, cioè 17 mesi dopo l’insurrezione; dimostra di ignorare che la Commissione di secondo grado, da me presieduta, trasmise le prime proposte al Ministero della guerra il 4 ottobre successivo, cioè appena sedici giorni dopo la pubblicazione del decreto stesso; dimostra di ignorare che le proposte inoltrate dalla Commissione attendono ancora, e da cinque mesi, che il Ministro della guerra decida in merito.

Ma l’onorevole Martino ha creduto di poter muovere ancora un altro appunto alla Commissione di secondo grado. Egli ha rilevato che le proposte che arrivano al Ministero della guerra si riferiscono ai soli ufficiali e non ancora ai soldati. Anche qui appare che l’onorevole Martino ignora i termini della questione: ignora che il decreto che regola il riconoscimento dei gradi partigiani è stato pubblicato solo il 20 novembre 1946, cioè diciannove mesi dopo l’insurrezione; ignora che tutte le operazioni previste dal citato decreto, compreso il parere che deve dare la Commissione di secondo grado, non possono nemmeno avere inizio, perché non sono state ancora emanate, a tutt’oggi, le modalità preliminari ad ogni altra operazione, previste da quel decreto, modalità che devono essere stabilite dai Ministeri delle Forze armate.

Noi non imputiamo all’onorevole Martino e all’ex Ministro una ostilità preconcetta nei riguardi del movimento partigiano. Quando l’onorevole Togliatti lamentò, nel suo discorso, il mancato inserimento dei partigiani nell’esercito, mirava più in là del Ministro e del Sottosegretario; mirava agli uffici dei loro Ministero, al personale, ai dirigenti dello Stato Maggiore che fanno il bello e cattivo tempo al Ministero della guerra e nei quali è evidente la volontà di dare l’ostracismo più assoluto ad ogni merito partigiano.

Se un addebito può essere fatto, e deve essere fatto al passato Ministro della guerra ed al suo Sottosegretario, questo addebito è di non aver saputo liberare il Ministero della guerra dalle influenze conservatrici ed antidemocratiche delle cricche militari che vi pullulano.

Da parte di certa stampa si parla spesso e volentieri di cricche politiche. Non so se le cricche che oggi imperano nelle Forze armate sono cricche politiche o militari, o se sono le due cose insieme. Ma una cosa è certa: esse sono le peggiori cricche che si possano immaginare, sia dal punto di vista intellettuale, che da quello morale.

Sono le stesse cricche, che avendo ricevuto, dopo l’altra guerra, un esercito che non sfigurava nei confronti degli altri eserciti d’Europa, l’hanno portato, poi, alla vergogna e al disastro delle guerre fasciste.

Lo so: queste cricche, a propria discolpa, dicono: è norma e divisa del militare obbedire al potere civile e politico, qualunque esso sia. Ma se questo vale per il grosso dei soldati e degli ufficiali, non vale per i capi, i quali hanno il compito ed il dovere di preparare l’esercito per la guerra e la vittoria e non per la sconfitta.

Se questi capi sapevano che il fascismo li mandava al disastro, dovevano almeno scindere le proprie responsabilità, dovevano denunciare al Paese il pericolo che lo minacciava.

Non si scherza sulla vita della Nazione, sulla vita di milioni di combattenti! Ma, proprio i maggiori responsabili militari delle guerre fasciste e della disfatta, proprio coloro che non han saputo e non hanno voluto resistere all’azione fascista di corruzione e di disorganizzazione dell’esercito, proprio costoro, nello Stato Maggiore, nel Ministero della guerra e nelle sue Commissioni accampano, ora, il diritto di resistere all’azione delle forze democratiche, all’azione delle forze che hanno combattuto e vinto la guerra di liberazione nazionale e che, oggi, vogliono ricostituire e rinnovare il nostro esercito, perché esso non abbia mai più a subire la vergogna fascista e la disfatta militare.

Si dice che noi comunisti, noi partigiani, noi combattenti della guerra di liberazione nazionale, siamo contro l’esercito. È una menzogna e una calunnia. Noi siamo contro i responsabili di averlo portato, non alla guerra, ma al massacro, di averlo portato ad una guerra ingiusta e antinazionale, di cui oggi scontiamo le terribili conseguenze.

Siamo di tutto cuore con i soldati e gli ufficiali che hanno combattuto e sofferto, enormemente sofferto, sui campi di battaglia e in quelli di prigionia, e sofferto soprattutto per l’insipienza e spesso per l’incoscienza dei loro capi.

Siamo, in primo luogo, con quei soldati e quegli ufficiali che hanno detto basta alla guerra fascista, basta a quello che non era più un combattimento, ma un massacro a esclusivo vantaggio del tedesco. Siamo con tutti coloro, ufficiali o soldati, che non sono scappati con la monarchia, quando si trattava di rivolgere le armi contro il fascismo e il tedesco, ma sono rimasti a combattere e a vincere la nostra guerra di liberazione nazionale. Sono questi valorosi che hanno salvato, con il loro coraggio e il loro operato, l’onore delle armi italiane, e quanto ancora si poteva salvare delle sorti della Patria, terribilmente compromessa dalle avventure monarchiche e fasciste.

Le sofferenze e l’esempio di questi soldati e di questi ufficiali si elevano, come una permanente condanna, contro i responsabili militari dei disastri della patria.

È perciò che questi responsabili hanno decretato il più assoluto ostracismo a quanti osano parlare in nome di quelle sofferenze e di quegli esempi.

Dagli uffici del Ministero della guerra e dello Stato Maggiore, le vecchie cricche militari non solo cercano e, finora, purtroppo, con successo, di sbarrare la strada all’afflusso nell’esercito di forze nuove e democratiche, ma fanno di tutto per demoralizzare, respingere, cacciare dal servizio attivo gli ufficiali repubblicani e democratici, gli ufficiali che si sono battuti nelle file partigiane, non facendo in ciò nessuna distinzione politica, ma accomunando nella loro avversione ufficiali repubblicani e persino ufficiali monarchici. Per i responsabili della disfatta italiana la più grave colpa non è quella di essere stati fascisti, di essere scappati con la monarchia, ma di essere stati partigiani.

Questa è la realtà, la triste realtà, denunciata, del resto, con appassionate parole dall’amico Pacciardi.

C’è solo da lamentare che i suoi compagni di partito, il passato Ministro della guerra e il suo Sottosegretario, non abbiano compresa questa realtà, o, se l’hanno compresa, non l’abbiano saputa modificare. Mi auguro che il nuovo Ministro della difesa e i suoi numerosi Sottosegretari sappiano vedere meglio come stanno le cose e porvi rimedio.

Il Trattato di pace riduce in limiti ristretti le nostre possibilità di difesa; ma proprio perciò dobbiamo dedicare tutte le nostre cure, tutto il nostro studio, tutto il nostro amore, affinché quel poco che ci è permesso di conservare nel campo delle Forze armate sia quanto di più ordinato, di più sano ed efficiente vi possa essere. Il nostro nuovo esercito sarà ordinato, sano ed efficiente, non in quanto si staccherà dal popolo, non in quanto si accamperà sul nostro suolo, quasi fosse un esercito mercenario e straniero, ma in quanto sarà parte del popolo stesso, in quanto si saprà legare strettamente al popolo, e fare di tutti i quadri – intellettuali, tecnici, professionali, organizzativi – della vita politica ed economica del Paese i quadri militari della Nazione, a servigio della Nazione.

Gli uomini che hanno voluto, capito, diretto la guerra partigiana; gli uomini che, tra difficoltà inimmaginabili dai burocrati degli abituali uffici militari, hanno saputo sollevare, organizzare e portare alla guerra e alla vittoria centinaia di migliaia di combattenti, sono gli uomini più indicati e più competenti per condurre a buon esito il rinnovamento e la riorganizzazione delle Forze armate della nuova Italia democratica e repubblicana. (Commenti).

Ponendo la questione dell’entrata e dell’avanzamento dei partigiani nelle file dell’esercito, non poniamo semplicemente il problema di compensare i servizi di uomini che molto hanno meritato. Poniamo una questione molto più grande: la questione dell’avvenire del nostro Paese e del nostro esercito, che vogliamo forte, popolare e democratico, tre aggettivi di cui ciascuno non è che il corrispettivo degli altri due, tre aggettivi con i quali marcia sempre la vittoria. Non dimentichiamolo. Non lo dimentichi chi ha veramente a cuore le sorti delle nostre Forze armate e del Paese. Non lo dimentichi il Governo. Soprattutto non lo dimentichi il nuovo Ministro della difesa, cui incombe, oggi, il compito della riorganizzazione e della unificazione delle Forze armate italiane, che devono essere e saranno il baluardo delle sorti della democrazia, della Repubblica e della Patria. (Approvazioni a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare, per fatto personale, l’onorevole Condorelli. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. L’onorevole Enrico Martino, occupandosi nel suo discorso di sabato del mio, del giorno precedente, crede di potermi attribuire una serie enorme di inesattezze, dice lui, in materia di epurazione, di sfollamento, di discriminazione di ufficiali.

Sebbene da alcuni anni a questa parte, quello delle Forze armate sia divenuto il campo di competenza specifica degli avvocati, tuttavia non mi meraviglierei se io, avvocato, e perciò competente per definizione in materia militare, avessi detto qualche inesattezza. Ma, per quanto abbia letto e riletto il discorso dell’onorevole Martino, non sono riuscito a convincermene.

La prima inesattezza sarebbe stata che io avrei affermato che i nostri ufficiali, reduci dopo due, tre, quattro anni di prigionia, si sono trovati di fronte a Commissioni civili, ossia a gente che era rimasta qui e che loro domandava conto della condotta tenuta nei G.U.F. E questa mi sembrava una tremenda irrisione.

L’onorevole Martino dice che questi giudizi di civili in rapporto ai militari reduci dalla prigionia non ci sono stati, ed allora io mi domando come hanno funzionato le Commissioni di epurazione. Che io sappia, le Commissioni di epurazione per gli ufficiali non sono state diverse da quelle per i dipendenti degli altri rami delle Amministrazioni dello Stato: un magistrato presidente, un rappresentante dell’Alto Commissario per l’epurazione, membro, ed un altro membro appartenente all’amministrazione.

È dunque profondamente vero quello che io dicevo, che cioè questi giovani, dopo aver dato il loro sangue, dopo aver passato lunghi periodi della loro giovinezza anche nelle lontane Indie, sono tornati in Italia e sottoposti a questi giudizi.

Sono possibili discussioni su questo punto? A mio avviso quelli che avevano così altamente testimoniato la loro devozione allo Stato, facendo cioè la suprema delle testimonianze, si potevano anche dispensare dai giudizi di epurazione.

Nell’altra guerra, i combattenti furono amnistiati perfino del reato di diserzione, e anche quelli che non erano stati combattenti ebbero condonata la pena, alcune volte dell’ergastolo, per diserzione.

A questi figliuoli, tornati dall’india o dall’Africa, non si è potuto condonare neanche un giudizio disciplinare, qual è il giudizio di epurazione. Altra cosa sarebbero stati i processi per reati militari, per tradimento, per passaggio al nemico, per aver portato le armi contro la Patria. Per questi reati non si chiedeva nessuna indulgenza, ma per i giudizi di epurazione, equamente, se non si fosse messa di mezzo la faziosità politica, si doveva fin da principio pronunziare una parola di pacificazione per i nostri soldati. (Approvazioni a destra).

L’altra inesattezza, e qui proprio non riesco a capire in che cosa consista, sarebbe stata l’aver deplorato che per gli altissimi gradi del nostro esercito, si siano costituite Commissioni miste, composte soltanto da tre generali, stemperati nel largo numero costituito dalla serie, non sempre illustre, dei Ministri e dei Sottosegretari di Stato alla guerra, cioè di sei civili contro tre militari.

Affermo che ciò è vero, e non vedo come non possa non esser vero, poiché tale legge è passata per la Commissione legislativa alla quale io appartengo. E poi, Ministro Facchinetti, la competenza di questa Commissione è stata allargata, senza ragione di sorta, ai generali di divisione e di brigata ed ai colonnelli.

Si dice: ma in fondo il Ministero poteva collocare a riposo questi ufficiali, sfollare i quadri in base ad un decreto. Sta bene. Ma se si sentiva il bisogno di una commissione, bisognava che fosse costituita in modo competente.

Comunque non capisco in che cosa possa consistere la inesattezza che io avrei detto. Potrà darsi che l’onorevole Martino pensi che i Ministri della guerra e gli ex-Ministri e i Sottosegretari alla guerra, e gli ex-Sottosegretari, tutti avvocati, fossero competenti a giudicare la capacità professionale di questi altissimi ufficiali. Lascio a lui la responsabilità di queste opinioni.

E se egli ritiene opportuno che fra questi giudici vi fossero Sottosegretari provenienti da partiti che pensano possa essere un titolo di benemerenza verso la Patria l’aver combattuto contro quegli ufficiali, io lascio a lui nuovamente la responsabilità di tale opinione. Ma non riesco a comprendere come si possa sostenere che io abbia detto delle inesattezze, perché la penso diversamente da lui. (Commenti a sinistra).

Poi egli mi attribuisce un tono pietoso verso gli ufficiali. Contro questo io protesto altissimamente, perché nei riguardi degli ufficiali d’Italia non ho che rispetto, alto e profondo rispetto: la pietà l’ho soltanto per gli italiani immemori. Dico pietà, perché il mio animo non sa concepire lo sdegno! (Applausi a destra).

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Sebbene io non intenda preannunziare in questa sede il programma del Governo circa il nuovo ordinamento delle Forze armate, posso accennare che gli studi sono già in uno stadio relativamente avanzato, e che in essi si potrà tener conto dei precedenti veramente ragguardevoli di quanto è stato fatto in Inghilterra e in America, dove da tempo l’unificazione è già un fatto compiuto.

Volontario dell’altra guerra, sento tutto il rispetto e l’affetto, direi, per i partigiani, e, figlio di garibaldino, non posso non ricordare il precedente storico italiano, cioè la immissione degli ufficiali meridionali garibaldini nell’Esercito nazionale dopo il 1860.

La questione sarà studiata senza nessuna prevenzione ostile, anzi con tutto l’amore.

Quanto ai sentimenti verso l’esercito, tutti coloro che hanno servito la Patria obbedendo alle leggi del tempo, meritano il più alto rispetto, e soprattutto un rispetto maggiore meritano quelli che hanno maggiormente sofferto. In questi sentimenti L’Assemblea non può che essere concorde. (Applausi).

PRESIDENTE. Desidero ricordare agli onorevoli colleghi l’opportunità che in sede di processo verbale si cerchi di restare nei limiti di tempo indicati dal regolamento. È bene tornare alla buona consuetudine per cui la parola sul processo verbale si limiti a questioni specifiche, anche se di carattere personale, altrimenti alle questioni più importanti messe all’ordine del giorno, è sottratto il tempo necessario per un’ampia discussione e buona parte della seduta viene invece impiegata a scopi che non sono quelli stabiliti.

Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo l’onorevole Malvestiti.

(È concesso).

Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

È iscritto a parlare l’onorevole Lombardo Ivan Matteo. Ne ha facoltà.

LOMBARDO IVAN MATTEO. L’annuncio fattoci dall’onorevole De Gasperi circa la formulazione di «un piano di ricostruzione e di sviluppo per l’anno in corso» e dell’estensione di tale piano ad un periodo pluriennale, non può non trovarci consenzienti.

Vorremmo però ci si chiarisse che non ci s’intende riferire ad una specie di parte straordinaria. Riteniamo che anche la parte, dirò così ordinaria, della nostra economia giornaliera, sarà coordinata e guidata.

Il curioso aspetto della nostra vita economica di questo dopoguerra, è dato dal fatto che essa è costituita in un esperimento di liberismo disordinato, cui si è aggiunto – a maggiore confusione – un saltuario intervenzionismo statale.

La colpa è un po’ di tutti, nel Governo e nel Paese. Potremmo anche dilettarci a fare del liberismo puro, come se il nostro orologio si fosse fermato al 1914, ma le condizioni del Paese non lo consentono, pena la catastrofe.

L’Italia è allogata su questo pianeta.

Orbene, in questo mondo la maggior parte dei Paesi, e soprattutto quelli che hanno vinto la guerra e si sforzano di non perdere la pace, non fanno del liberismo: si va dalla minuziosa pianificazione dell’U.R.S.S. al più blando piano francese, al «Pean de Gobierno» Argentino; dalla programmazione laburista all’intervenzionismo statale riaffermato da Truman per gli Stati Uniti; dalle regolamentazioni dettate dagli occupanti nei Paesi d’Europa e d’Asia, alle funzioni di guida, da parte dello Stato, in altri Paesi Europei ed extra Europei.

Il nostro Paese non può sfuggire alla ferrea legge dell’interdipendenza economica delle nazioni.

Demolire la bardatura di guerra? Ma da noi queste hanno da tempo ceduto sotto la spinta della formidabile esplosione degli egoismi individualistici.

Se per nostra fortuna ciò non fosse accaduto, se avessimo potuto smantellarle ragionatamente, sostituendole con quelle indispensabili – più o meno transitorie – bardature di pace, oggi non osserveremmo con tanto palpitante preoccupazione la sorte della lira ed avremmo beneficiato più largamente della ripresa dei traffici internazionali.

So che vi è chi, come l’onorevole Corbino, non ama quelle diavolerie di uffici internazionali o «boards» che dir si voglia.

Ma è solo in virtù della loro esistenza che noi, ed altri Paesi poveri come il nostro, riusciamo ad avere una parte di quel prodotto che altrimenti, date le nostre condizioni non potremmo ottenere. Cereali, grassi, combustibili, materie prime fondamentali, vengono assegnate da quei «boards»; le magre risorse che da essi otteniamo, noi dovremmo centellinarle con parsimonia ed intelligenza.

Come possiamo fare del liberismo in queste condizioni?

Come potremmo svolgere una politica produttivistica non regolata, quando dipendiamo dagli altri Paesi, ove la realtà contingente in vigore è la pianificazione o la programmazione?

Mentre la nostra anemica economia è alimentata parcamente nel quadro di programmi o limitazioni internazionali, noi a tutt’oggi ci siamo comportati nella maniera più paradossale che si possa immaginare: sperperiamo beni preziosi in mezzo alla miseria generale del nostro Paese; lasciamo che l’estremismo degli interessi individuali si disfreni a suo piacimento; non siamo ancora riusciti ad organizzare una vita meno indecentemente sperequata tra i componenti di una stessa comunità.

Pertanto, non è solo la «ricostruzione e l’ulteriore sviluppo», ma è tutta la nostra attività economica nazionale che deve essere coordinata ed armonicamente guidata in tutti i settori.

Né le poche risorse nazionali, né la psicologia del nostro popolo, consentirebbero minuziose pianificazioni.

Ma di un piano che imposti la nostra politica produttivistica, che armonizzi tutta la materia economica, che ne coordini tutte le attività, che sia guida salvaguardia e pungolo per chiunque partecipi al processo produttivo noi abbiamo bisogno come un generale sul campo di battaglia ha bisogno di carte topografiche.

Contro i sostenitori della necessità di una regolamentazione insorgeranno magari coloro che della libertà si avvalgono esclusivamente per i propri interessi nazionali, salvo a chiedere l’intervento dello Stato, quando della libertà si debba pagare lo scotto: tra i casi tipici ricorderò quelli dei filandieri di seta e dei coltivatori di canapa.

Nessun produttore serio contesta la necessità di un piano.

Infatti che altro è se non della pianificazione, l’azione direttiva che un industriale esercita nei riguardi della propria azienda?

Per un’industria, sono in fondo, schietta pianificazione: gli acquisti predisposti in base ai mezzi finanziari; il rapporto tra produzione e possibilità di smaltimento dei prodotti; gli aumenti di capitale ed i prestiti bancari; la valutazione delle qualità e quantità di merci da acquistare, delle scorte da accumulare, delle attrezzature da aggiornare; la fissazione dei prezzi di vendita, l’investimento degli utili, lo studio dei mercati di sbocco per i manufatti prodotti.

Se questo fanno i singoli, come può lo Stato rifuggire dalla responsabilità di coordinare l’attività complessiva della collettività cui esso è preposto?

Vi è chi paventa danni per l’iniziativa privata, ma si dimentica che questa, che sa compiere mirabilia, obbedisce ovviamente alle direttive di un suo proprio esclusivo interesse, che non sempre corrisponde all’interesse della collettività.

Vi sono due tipi di iniziativa privata: quella sana che produce, che si propone obiettivi di successo, che persegue con tenacia ed intelligenza. Ed essa ha bisogno di tranquillità e di ordine: valutario, finanziario, monetario, economico e sociale.

Ma vi è anche quell’altra iniziativa privata, che definirò spuria, che trae vantaggi solo dal disordine e dall’inquietudine, e che è quella che di solito si agita istericamente.

Senonché, è proprio essa che rende irraggiungibile l’ideale di quella sana. Infatti, violazione di regole, operazioni disordinate, giochi di borsa, speculazioni su merci accaparrate od imboscate od esportate clandestinamente, avido sfruttamento del mercato, scuotono le fondamenta sociali, creando uno stato di profondo disagio e di miseria che, a loro volta, generano insofferenza.

La prima vive e prospera onestamente del proprio lavoro; la seconda, incapace di vita autonoma, usa alle possibilità dei colpi di mano, avvezza ai privilegi, abituata agli aiuti ed alle sovvenzioni, è quella che minaccia sempre d’assalto la diligenza statale.

Ne sa qualcosa il Tesoro che geme sotto la richiesta di interventi appoggiati talvolta con tecnica furbesca, persino con il peso delle proprie maestranze organizzate, ricattate con lo spauracchio della disoccupazione.

L’impossibilità di accogliere le pretese, assurde anche nelle questioni più modeste, viene sempre denunciata come attentato alla privata iniziativa.

Si chiede, ad esempio, di sopprimere le licenze di circolazione automobilistica, esigendo la libertà assoluta, il che non può essere concesso perché importiamo solo il 60 per cento del carburante necessario.

Viene ribadito: limitate la circolazione solo con la carta dei carburanti.

È chiaro che così facendo si apre un vasto campo ad iniziativa privata che farà il traffico nero delle carte stesse e sottrarrà – in virtù dell’alto prezzo che può pagare – benzina ai trasporti, all’agricoltura, alle macchine militari.

Ci si lagna che non sia concesso all’iniziativa privata di risolvere essa la crisi del carbone, concedendole le licenze di importazione. Si risolverebbe solo la crisi del riscaldamento di chi è in grado di spendere, perché il combustibile così importato, andrebbe solo a questo impiego, il più redditizio in fatto di lucro.

Ma il «plafond» massimo concessoci dall’E.C.O. è di 690.000 tonnellate il mese, e qualsiasi licenza di importazione viene scalata da quel quantitativo.

Accadrebbe in tal caso che le fondamentali esigenze delle ferrovie dello Stato, degli ospedali, delle officine gas, delle industrie, verrebbero menomate a causa di un uso del combustibile che è ultimo nella scala delle priorità. Per tale ragione le superiori esigenze della vita collettiva debbono imporsi agli interessi privati.

Solamente una disciplina intelligente può consentire l’uso razionale del poco che possediamo o che ci possiamo procurare.

Abbiamo una grandissima deficienza di fonti di energia (elettricità, combustibili, solidi, carburanti). Possiamo noi sperperarli, rinunciando ad assicurare quel minimo di servizi e produzione che condizionano la vita di tutto un popolo? Certamente no!

Altrettanto dicasi delle materie prime, dei semilavorati, di buon numero di prodotti.

Questa premurosa preoccupazione è anche l’unica salvaguardia dell’attività della sana iniziativa privata.

Essa del resto è prospera soprattutto in quei Paesi ove, in questo dopoguerra, è ancora in piedi l’intelaiatura che inquadra ed armonizza il processo produttivo, che non è stato scompaginato da un disordine anarchico.

Abbiamo citato il carbone che riceviamo in misura del 50 per cento del nostro fabbisogno. È ammissibile che l’assegnazione che viene fatta ad un’industria siderurgica che produce lamiera, possa consentire ad essa di destinare il proprio prodotto alle carrozzerie di auto fuori serie per il mercato interno, anziché fornire la lamiera alla ricostruzione del materiale ferroviario o del naviglio mercantile?

Disponendo di un limitalo quantitativo di combustibile per il settore vetrario, preferiremo assegnarne ad una soffieria di flaconi da profumo, o non piuttosto ad una fabbrica di vetro in lastre?

Ma una programmazione non può far riferimento solo alle assegnazioni di energia o di merci. Dovrà prendere in esame anche il problema del riordinamento di interi settori della nostra economia; dovrà orientare l’agricoltura e spingere il nostro apparato industriale ad una razionale riconversione.

Sino ad oggi poco o nulla è stato fatto, anche perché, sino alla presentazione del Trattato, si poteva temere che ci venissero imposte limitazioni e determinate produzioni. Per fortuna, almeno questo ci è stato evitato!

Ciò non significa però che, come in sede politica il nostro sforzo sembra sfociare nella ricostruzione dell’Italia prefascista, si possa in sede economica indulgere a restaurare l’Italia fascista. Vi sono ancora in giro troppe nostalgie autarchiche e corporative!

Dobbiamo avere il coraggio di approfittare dello stato di non ancora avvenuta normalizzazione della nostra economia, per sopprimere senza pietà ciò che vi è di pletorico, di parassitario, di innaturale nel nostro apparato produttivo. Industrie passive che vivono alle spalle dello Stato, o che possano prosperare solo in virtù di privilegi, sono un peso morto da perdere per strada.

Per il Tesoro dovrebbe essere problema più angoscioso l’esser costretto a sperperare somme enormi per tenere in piedi costosi e dannosi baracconi, che non il provvedere ad assistere con adeguati sussidi i nuclei di lavoratori che potrebbero rimanere temporaneamente disoccupati.

Bene ha fatto il Governo in questi ultimi tempi ad impostare il problema della necessità che, quale corrispettivo di finanziamenti concessi dallo Stato, a questo venga almeno assicurata adeguata partecipazione nelle aziende soccorse.

Anche per la nostra agricoltura dovremo indirizzare l’attenzione verso gli sviluppi mediati e lontani.

All’estero, in Paesi capitalistici, si stanno elaborando piani quinquiennali e decennali, per adeguare la produzione al prevedibile consumo, per impostare una politica di prezzi stabili, allo scopo di evitare aspetti di crisi ricorrenti.

Vi è un orientamento a pianificare su basi mondiali, la produzione di prodotti chiave: cereali, grassi, carni.

Nel Canadà, ad esempio, già a far tempo da quest’anno, si sono impartite disposizioni per la riduzione della superficie coltivata a grano. Si pensa lassù che si passerà rapidamente dalla carestia all’eccedenza di produzione.

Noi ci dobbiamo preoccupare fin da ora della nostra produzione agricola nel quadro di un mondo in completa trasformazione, studiandone l’inserimento nell’economia mondiale. Oggi i nostri prezzi sono eccessivamente elevati; domani, per la nostra economia agraria potremmo subire la conseguenza di un processo opposto che potrebbe essere catastrofico, se non antiveduto a tempo.

Per alcune nostre produzioni caratteristiche, si preannunciano tempi difficili: i nostri agrumi sul mercato inglese si scontrano non solamente con le produzioni spagnole e palestinesi, ma persino con quelle giapponesi e californiane.

Per la seta, nonostante la riduzione della produzione giapponese, vi è da temere fortemente la trionfale, ed io ritengo anche duratura, affermazione del nylon.

I nostri prodotti ortofrutticoli avevano un mercato di primo ordine nel centro di questa Europa impoverita. Legumi e frutta significavano per noi carbone.

Vi sono zone agricole sovraffollate di mano d’opera che difficilmente potrà essere riassorbita in una totale occupazione.

Non vi è da contare, a parer mio, sulle migrazioni interne, né sulla possibilità di dare a queste masse, razionale e non aleatorio lavoro in loco.

È la paura della fame che induce le risaiole a manifestazioni di «luddismo» contro le macchine trapiantatrici di riso! È la paura della fame che suggerisce in certe zone di stipulare contratti agricoli che impongono l’uso del falcetto anziché della falce fienaia. Sarà una cosa enorme da un punto di vista di razionalità, di progresso tecnico, di economia di costi, ma è una difesa umana contro la fame che è disumana!

Occorrerà perciò incoraggiare anche la emigrazione volontaria, ma soprattutto organizzare l’espatrio, specialmente verso quei Paesi che possono saziare la fame di terra dei nostri contadini.

Occorre pensare in tempo all’influenza che piani e accordi internazionali potrebbero avere su certe nostre zone ove sono state forzate colture anti-economiche nell’ultimo ventennio! Bisognerà indicare l’utilità di altre colture, redditizie per l’economia nazionale e per il coltivatore.

Si tratta di problemi strettamente concatenati che non possono venir lasciati al caso o abbandonati alle empiriche iniziative dei singoli, senza il conforto di un tempestivo indirizzo e di una oculata guida.

Né, di fronte alla complessità dei problemi ed all’influenza che su di essi hanno i riflessi internazionali, possiamo cavarcela, decidendo di chiuderci nel nostro guscio!

Nonostante che in taluno sopravviva ancora la mentalità che tenderebbe a chiudere la porta di uscita a merci ed uomini, e quella di entrata a merci e capitali, l’Italia non può isolarsi, anzi deve tendere a moltiplicare i propri traffici con il resto del mondo.

Se esaminiamo le cifre dei nostri traffici, paragonando tra loro le medie semestrali, per esempio del biennio 1937-38 con quelle del primo semestre 1946, ci rendiamo subito conto di profondi mutamenti, alcuni dei quali sono indubbiamente transitori, mentre altri sembrano avere un aspetto duraturo.

Per le nostre importazioni vi è il gran vuoto dell’Europa continentale. Qualche miglioramento segnano per quella settentrionale.

Dall’Europa balcanica e nord-orientale, che ci fornivano complessivamente il 9 per cento delle nostre importazioni (cadute ora a meno del ½per cento), per un certo tempo potremo probabilmente ricevere solo quelle materie prime che dovremo lavorare per conto o per produrre quanto dobbiamo fornire a titolo di riparazione.

Le esigenze della ricostruzione di quei Paesi devastati dalla guerra e la tendenza all’industrializzazione in alcuni di essi, assorbiranno larghissima parte delle materie prime disponibili.

Dagli Stati Uniti abbiamo importato il 67 per cento contro la media pre-bellica del 12 per cento. Fattori contingenti hanno favorito il fenomeno; tuttavia io ritengo che per alcuni anni avvenire, non fosse altro per prodotti alimentari, per il cotone ed il carbone, le cifre dei nostri acquisti negli Stati Uniti saranno superiori alle medie prebelliche.

Dobbiamo perciò cercare altre fonti di approvvigionamento, tenendo presente che i mezzi di pagamento sono dipendenti dalla esportazione, il cui quadro è quanto mai fosco. Le cifre certamente non ci confortano: 345 milioni di dollari di media semestrale nel 1937-38; 82 milioni di dollari nel primo semestre 1946.

Dobbiamo tener conto che le Colonie assorbivano quasi un quarto delle nostre esportazioni; che quelle che dirigevamo verso l’Europa Nord-orientale e Balcanica, che erano in totale l’8 per cento, saranno sì di maggior mole, ma praticamente costituite da forniture in conto riparazioni e da lavorazioni per conto; che per il mercato statunitense le nostre esportazioni si stabilizzeranno probabilmente attorno al livello prebellico.

Dobbiamo perciò cercare sfoghi alla nostra produzione, avendo presente che dobbiamo vincere due gravissime difficoltà: l’impoverimento generale dell’Europa ed i rapidi progressi di industrializzazione in zone che erano un tempo nostri mercati tradizionali.

Questo esame non mi sembra inutile per richiamare l’attenzione del Governo su tre ordini di esigenze fondamentali:

1°) una politica estera di amicizia con tutti i Paesi, non fosse altro perché dobbiamo allacciare rapporti di scambio con tutti.

Il Ministro degli esteri dovrà svolgere un’attività sostanzialmente economica volta a procurarci ottime intese commerciali; ed in proposito vorrei richiamare la sua attenzione sulla qualità di alcuni nostri addetti commerciali che non mi sembrano essere all’altezza della situazione;

2°) la necessità di attrezzarci rapidamente per produrre il massimo possibile, svolgendo nel contempo una politica di compressione dei nostri prezzi. La congiuntura favorevole per noi sui mercati mondiali sta tramontando; già vi si avverte la tendenza alla normalizzazione;

3°) l’inderogabile necessità di moltiplicare energie e sforzi per raggiungere prestissimo una meta fondamentale che, del resto condiziona le altre: ottenere che le «allocations» di carbone e le quote che potessero venirci concesse «extra allocation», ci consentano di poter importare almeno 900.000 tonnellate-mese, e possibilmente di miglior qualità e con minor gravame di nolo.

Consentitemi di aggiungere di sfuggita che approvo in pieno l’esigenza accennata dall’onorevole Tremelloni: se in altri Paesi vi è un Ministero dei combustibili perché noi, che siamo tra i più poveri in fatto di fonti di energia, non dovremmo coordinare tutta questa materia che condiziona la vita di tutto il Paese, in un organismo unico che possa svolgere azione armonica?

Attualmente tutta la materia che riguarda l’energia elettrica, i combustibili solidi e quelli liquidi è frazionata in un miriade di Ministeri, Enti, Comitati.

Ritornando ad esaminare la nostra posizione di Paese che non può essere avulso dal resto del mondo, vi è da osservare che la sola analisi della nostra bilancia commerciale, detta al Governo essenziali linee di politica ed al Paese maggior sensazione del pericolo incombente e perciò maggior senso di responsabilità.

Si prendano in considerazione il nostro fabbisogno e le previsioni per il 1947.

Di queste a me sembra più attendibile quella che, partendo dal presupposto di assicurare un minimo di 2000 calorie per il nutrimento ed uno stadio di ripresa industriale all’85-90 per cento, fissa le nostre importazioni sui 1500 milioni di dollari (di cui 450 per gli alimentari ed i prodotti agricoli, 980 per le materie prime per le industrie ed i trasporti, 100 per materiali vari).

Lo scoperto è pauroso.

Le nostre esportazioni si prevedono al massimo in 500 milioni di dollari; si prevede che noli, turismo e rimesse degli emigranti produrranno attorno ai 240 milioni.

Quest’anno, tra residui delle forniture U.N.R.R.A., accrediti in dollari sulla paga truppe, prestito dell’Export-Import Bank potremo coprire circa 320 milioni.

Rimane uno sbilancio di circa 500 milioni di dollari.

Come colmarlo? Non certo rinunciando a parte delle importazioni, perché ciò si potrebbe ripercuotere gravemente sulla situazione alimentare, sull’occupazione operaia, sulla ripresa industriale; per di più aprirebbe un altro vuoto, riducendo le nostre esportazioni! Questa situazione dovrebbe far riflettere tutti coloro che decretano l’ostracismo contro gli investimenti di capitale straniero; i quali non ci possono allarmare quando ci si garantisca della nostra indipendenza economica, con opportune cautele!

Non credo ci sia lecito farci soverchie illusioni su prestiti da Stato a Stato; sono assai più probabili gli investimenti di carattere privato.

L’esame della situazione ora fatta dimostra che il Governo, e per esso i partiti che vi sono rappresentati, debbono impostare una politica che tenga conto della realtà obiettiva. Solo da questa si deducono le linee direttive da seguire per l’elaborazione del piano pluriennale. I problemi monetari e quello delle valute, quello della stabilizzazione dei prezzi, del potenziamento delle esportazioni, dello sviluppo mediante acquisti e nuove costruzioni del naviglio mercantile, della necessità di incoraggiare l’emigrazione, di agevolare il turismo e via dicendo, sono tutti strettamente dipendenti da quella situazione.

Le nostre difficoltà si curano soprattutto producendo di più e meglio ed a più buon mercato. Per far ciò occorre elevare al massimo i nostri rendimenti, ridurre al minimo i profitti, comprimere drasticamente i consumi non indispensabili.

Solo operando in questo senso, possiamo influire non solo tecnicamente, ma anche psicologicamente, sui prezzi e sulla moneta.

Il rendimento è troppo basso, anche perché vi è troppa gente che non lavora o che traffica solamente o che è impegnata in processi scarsamente produttivi.

Il basso rendimento è causato assai spesso da ragioni fisiologiche di insufficiente nutrizione, ma è frutto anche di motivi psicologici proprî di ogni dopoguerra. Occorre reagire fortemente contro questo andazzo.

Nel presente stato dell’economia italiana, chi ci rimette è solo la collettività, cioè ciascuno di noi, cioè anche colui che lavora meno di quanto potrebbe e dovrebbe fare.

Di grande importanza è l’assicurare il clima di interessamento e cooperazione ai problemi della produzione, da parte dei lavoratori.

Il Governo ci ha assicurato che verrà discusso il progetto Morandi sui Consigli di gestione. Speriamo che questa sia la volta buona!

Speriamolo nell’interesse della produzione che ha tutto da guadagnare dalla partecipazione attiva dei lavoratori all’indirizzo dell’impresa, dal contributo di esperienza che essi possono portare, dal senso di responsabilità che a loro può derivare quando acquisiscano una nozione diretta delle difficoltà dei problemi della produzione.

Io conosco l’esperienza di fatto di due Consigli di gestione esistenti da circa un anno e mezzo in un fortissimo gruppo tessile con 7 stabilimenti e 10.000 operai, ed in un grande gruppo metalmeccanico che ha 5 stabilimenti, di cui uno con ben 15.000 operai e gli altri con 5.000 unità.

Si tratta di un’esperienza altamente sodisfacente, a detta degli stessi proprietari e rappresentanti del capitale, e vi assicuro che non si tratta di «rossi»!

I due esperimenti dimostrano che è possibile creare un clima di mutua fiducia, di buona volontà, di sempre maggiore efficienza tecnica.

Là dove il datore di lavoro ha l’intelligenza che soverchia il gretto spirito tradizionalista e conservatore, là un nuovo clima si forma favorevole alla collaborazione e, perciò, all’incremento ed al perfezionamento della produzione.

Come sorrideremmo di un industriale che non sostituisse il macchinario solo perché ereditato, quando si dimostrasse sorpassato, così possiamo sorridere di coloro che vogliono conservare schemi di rapporti sociali vecchi e sorpassati.

Il progetto Morandi deve essere finalmente varato.

Sono peraltro scettico circa l’opportunità propugnata da altro oratore, che vorrebbe che ai Consigli di gestione venisse devoluta la materia della fissazione dei prezzi. Sono indotto a temere che il consumatore, lungi dal trarne beneficio, finirebbe col rimetterci. Dovendo limitare i consumi al minimo indispensabile e deprimere tenacemente quelli di lusso, per destinare tutto l’esportabile all’esportazione, si propone il problema della convenienza o meno del tesseramento generale da estendere alle calzature ed ai prodotti tessili. Non credo che questa proposta si concili con la nostra situazione.

Per consentire a tutta la popolazione italiana il consumo prebellico medio di due chilogrammi di cotonate, uno e mezzo di prodotti lanieri e mezzo paio di scarpe a testa, dovremmo importare – per destinarlo al solo consumo interno – novanta milioni di chilogrammi di cotone, sessanta di lana, venticinque di pelli. In più, naturalmente, le importazioni di prodotti sussidiari.

D’altra parte vi è il problema del fabbisogno delle classi meno abbienti, ma a questo si può e si deve provvedere con il programma dell’U.N.R.R.A. tessile.

Al Ministro dell’industria raccomandiamo vivamente di accelerare la produzione, per poter sollecitare l’assegnazione e la distribuzione di quei manufatti. Ho notato che queste hanno avuto inizio per le cotonate, ma temo ritardi con la produzione laniera. Se vi sono ritardi non imputabili a ragioni obiettive, bensì dovuti a riluttanza di industriali ad impegnarsi in lavorazioni che non consentono profitti speculativi, intervenga il Governo, applicando quegli «incisivi provvedimenti» che l’onorevole De Gasperi nelle sue dichiarazioni in occasione del suo secondo Ministero, assicurò avrebbe adoperato verso i riottosi.

D’altronde gli industriali dovrebbero avere il senso realistico di considerare che essi non possono sfuggire a questa necessità, che questo programma deve, giocoforza, essere inflessibilmente realizzato, perciò più presto si cavano questo dente meglio è!

Per l’anno in corso non vedo altra possibilità all’infuori di queste distribuzioni, parte gratuite e parte a prezzi di vero buon mercato, che tuttavia consentono di assegnare a 25 milioni di persone 5-6 metri di cotonate ed un taglio di tessuto laniero a testa, e di assegnare calzature a 6 milioni di persone.

Il sottrarre all’esportazione gli altri prodotti tessili, che ne costituiscono la principale voce attiva, sarebbe un enorme errore.

Né vale l’argomento degli attuali profitti, di quest’industria, che ben a ragione si possono definire enormi, perché sarebbe ingenuo da parte nostra rinunciare al vantaggio offerto, per poco tempo ancora, dal consumatore straniero alla nostra industria.

Tanto meglio per il fisco che, potenziato ed affinato nei suoi strumenti di accertamento e riscossione, come ce l’ha descritto l’onorevole Scoccimarro, consentirà al Ministro delle finanze di impinguare le Casse del tesoro.

È tanto grande il bisogno dello Stato, che vi è da augurarsi che i contribuenti siano numerosissimi e doviziosissimi.

Il nuovo Ministero che, dopo l’esposizione del Ministro delle finanze uscente, sembrava desolato che non gli restasse alcuna benemerenza da acquisire, stia pur tranquillo! Egli ha ancora, e largamente, la possibilità di rendersi benemerito del Paese. Dagli accidenti che gli scaraventeranno i contribuenti, si giudicherà dall’efficacia della sua azione fiscale!

D’altronde gli stessi contribuenti – che come tali sono relativamente… disoccupati da parecchi anni – pur strillando a perdifiato, sanno in cuor loro che la loro torchiatura significa la salvezza della moneta.

Da una inflazione rovinosa che sconvolgerebbe il Paese, solo i ceti capitalistici riuscirebbero a non essere travolti, mentre i lavoratori e la piccola e media borghesia ne sarebbero le infelici vittime.

Al nuovo Ministro chiediamo di non perdere di vista certi profitti dell’attuale congiuntura. Tien conto il Ministero delle finanze di sopraprofitti che derivano, per esempio, da situazioni come quella della importazione di cinque milioni di chilogrammi di lana a valere sull’accordo commerciale italo-belga?

Vi è un sopraprofitto potenziale di due miliardi di lire che scaturisce dalla differenza tra le quotazioni del prodotto belga, convertito in lire, e la quotazione sul mercato interno della lana d’altra origine.

Il Ministro dovrebbe incaricare il suo più intelligente funzionario (anche se non il più illustre) di partecipare alle riunioni per le trattative commerciali, a quelle che hanno luogo al Ministero del commercio estero ed al Commissariato dell’alimentazione per la ripartizione dei contingenti d’importazione.

Occorre evitare che il minor costo dei prodotti, se non dia garanzia di ripercuotersi in riduzione di prezzi sul mercato interno, costituisca un illegittimo e non sudato beneficio di ristretti gruppi o di interessi individuali. È meglio che ne tragga beneficio lo Stato!

Ma il meccanismo che si dovesse escogitare per assolvere a questa esigenza non sia pesante, elefantiaco, burocratico, insomma, perché ne otterrebbe effetto opposto.

Non si ripeta, per esempio, il caso del rame «wire-bars» importato che, in virtù di uno «sfioramento» del Tesoro, veniva a costare di più di quello disponibile all’interno, talché gli assegnatari non lo ritirarono per parecchio tempo!

Consenta il Ministro di ricordargli che quanto più accelererà l’accertamento e la tassazione dei profitti di regime, di guerra e di congiuntura, tanto maggiori saranno i benefici effetti, anche psicologici, che se ne otterranno.

Occorre togliere di mezzo al più presto possibile questo motivo di giustificata lagnanza da parte dei lavoratori!

Ed a proposito di profitti di guerra e di congiuntura, chiediamo al nuovo Ministro di chiarire (quando avrà occasione di fare un’esposizione sulla situazione del suo Dicastero) se nell’accertamento di quei profitti si tenga conto di certe enormi locupletazioni che si sono rese possibili in seguito alle disposizioni contenute in una circolare del 3 ottobre 1943 del Commissario alla produzione bellica e di un’altra circolare dell’8 settembre 1943 dell’Ispettorato delle dogane. Si tratta di moltissimi miliardi che costituiscono ingiustificabili sopraprofitti.

Contiamo che venga presentata in breve tempo l’imposta straordinaria sul patrimonio, e risolta la vexata quaestio del cambio della moneta.

È bene che ambedue le questioni abbiano una sollecita soluzione, giustificata del resto dal fatto che se ne continua a parlare, solo a parlare, con i conseguenti effetti dannosi per l’economia e che così facendo, o meglio non facendo, ci siamo lasciati alle spalle il periodo più favorevole al successo di queste due operazioni.

Nel quadro della difesa della lira e della stabilizzazione della moneta, ci sembra che debba essere riveduta tutta l’impostazione della materia che ha dato origine al provvedimento che consente l’utilizzo del 50 per cento della valuta a beneficio dell’esportatore.

Dopo un’impostazione di sapore liberistico, quale quella dell’adeguamento della lira al dollaro in ragione del 125 per cento di aumento, siamo passati ad un esperimento intervenzionistico, giustificato da alcune sfasature dei nostri prezzi interni, ma promosso soprattutto in seguito alla pressione degli interessi di alcuni gruppi.

Non è questa la sede per ripetere, ampliandole, le critiche che sono state mosse a tempo contro le due impostazioni. Ambedue i provvedimenti contribuirono all’inflazionamento dei prezzi interni, anche se in alcuni settori incrementarono le nostre esportazioni.

Ma il secondo provvedimento (anche se da parte del Ministero del commercio con l’estero si è tentato di limitare i danni che causava) ha già avuto tutte le spaventate spiacevoli conseguenze per l’economia del Paese. Vi è stato dapprima l’allineamento di tutti i prezzi verso un massimo denominatore; si è avuto spesso un drenaggio economicamente assurdo di merci; i realizzi di prezzo arbitrari imposti alle merci importate con la valuta a disposizione, hanno avuto ampio effetto inflazionistico; speculazioni e frodi di ogni genere sono fiorite e continuano alla più bella, consentendo evasioni di capitali ingentissimi.

Ma il risultato odierno è che i prezzi sono enormemente inflazionati e per molti prodotti vi è chi accenna già alla necessità di elevare la percentuale a disposizione degli esportatori, ma, soprattutto, si debbono constatarne le nefaste ripercussioni sugli accordi commerciali col regime del «clearing», accordi commerciali che stanno tutti saltando.

Recentissimo il caso dell’accordo italo-francese stipulato da poco e che non funziona proprio a causa di questa situazione!

Si era elevato il dollaro a 225 lire per non dover incappare nel sistema dei cambi multipli. Con la cessione del 50 per cento di valuta si sono avuti tutti gli svantaggi e nessuno dei vantaggi dei cambi multipli!

Preghiamo il Ministro del tesoro e delle finanze di chiarirci – quando ci farà le sue comunicazioni – quale impiego si faccia dei fondi U.N.R.R.A. Se non vado errato, dovrebbero assommare a 70 miliardi, anche se tuttora se ne sono incassati – mi pare – solo 30, che sarebbero destinati ad opere sociali a beneficio del popolo italiano.

Cosa è stato fatto sinora? Quali somme sono già state impiegate? Quanto si prevede di spendere e per quali opere? Non si ritiene opportuno di coordinare anche questa materia nella programmazione generale?

Ora che il Presidente del Consiglio ha la possibilità di dedicare ampio tempo al coordinamento dell’attività dei vari Dicasteri, ci auguriamo una maggiore organicità della nostra vita economica. Occorre soprattutto evitare che l’azione di ogni Ministero si esplichi in compartimenti stagni, quasi ciascuno fosse terribilmente geloso delle proprie competenze. Occorre evitare che le varie Amministrazioni dello Stato possano essere in disaccordo fra di loro.

Non si può, per esempio, pensare di ripartire i prodotti nazionali, seguendo il criterio della Commissione e delle Sottocommissioni dipendenti dal Ministero dell’industria, mentre il Dicastero del commercio estero vorrebbe ripartire i prodotti d’importazione seguendo i criteri delle Camere di commercio.

I prodotti caduti sotto la competenza del Commissariato all’alimentazione e che debbono essere trasformati industrialmente, debbono essere ripartiti secondo direttive del Ministero industria e commercio.

Invochiamo inoltre una larghissima pubblicità alle ripartizioni ed assegnazioni fatte da qualsiasi Dicastero od Ente dipendente dallo Stato.

Si pubblichino tali notizie, come faceva il C.I.A.I. di Milano, su apposito notiziario dandogli ampia diffusione. La pubblicità di questi dati, oltre a consentire la correzione di eventuali errori, servirà a moralizzare molte operazioni, a sfatare leggende sulla corruttibilità di certi ambienti, impedirà casi di corruzione là dove veramente avvengono; contribuirà a sgomberare finalmente gli ambulacri ministeriali dai venditori di fumo, procacciatori, sollecitatori e scocciatori d’ogni risma.

Maggior copia di informazioni verranno date al Paese e più facile sarà ottenere il concorso ed il consenso di tutti.

Anch’io debbo insistere perché non solamente i dati del Tesoro vengano forniti tempestivamente, ma anche quelli della produzione e dei nostri scambi con l’estero.

Raccomandiamo anche noi di potenziare l’Ufficio centrale di statistica. Verrà pure il momento nel quale ci dovremo decidere a fare un inventario dei nostri beni strumentali, delle nostre scorte, della nostra produzione; il censimento della nostra popolazione ed un’analisi della composizione della nostra mano d’opera; un censimento della nostra ricchezza. Non si fanno piani senza inventario!

E quando dalla nebulosa enunciazione di indirizzi e di politica, non basati su dati di fatto consistenti, si scende finalmente all’esame delle cifre aride, semplici ma incontrovertibili, occorre arrendersi all’evidenza.

La pianificazione esclude qualsiasi demagogia!

Dal Governo non possiamo attenderci miracoli, ma ci attendiamo che i problemi della vita del popolo italiano vengano tutti affrontati, quali per essere risolti subito, se ciò è possibile, quali per studiarne d’urgenza le soluzioni, quali per venire impostati nel quadro dell’annunciata pianificazione pluriennale.

Vi è ad esempio il problema della casa, angoscioso, tragico problema. Bisogna ricostruire 5 milioni di vani distrutti o semi distrutti. So anch’io che non è un problema che si risolve con facili enunciazioni! Cinque milioni di vani, che ai costi odierni significano 800-900 miliardi, non si costruiscono riferendosi al po’ di calce, alle pietre là dove ve ne sono, ed ai disoccupati genericamente citati.

Esperti potranno indicare quali provvidenze escogitare e come finanziare la ricostruzione, perché non è un piano finanziario dire che si prendono i soldi dove ci sono; ci diranno i tecnici su quanta mano d’opera di muratori si possa contare, e su quanti materiali. Su quella traccia e con quei dati va impostata la soluzione del problema, che è urgentissimo.

Oltre ai 5 milioni di vani da ricostruire, vi è il problema dei 6 milioni di vani che mancano all’indispensabile fabbisogno italiano. Ai prezzi d’oggi 2.000 miliardi!

È chiaro che la proprietà edilizia non ha incentivo per mettersi a costruire, anche perché l’attuale basso tenore di vita della massima parte del popolo italiano non riuscirebbe a pagare i canoni di affitto che ne deriverebbero. Ma, ammesso per un istante che vi fosse la possibilità finanziaria, sarebbe necessario procurarsi i materiali e la relativa mano d’opera specializzata.

È evidente che tutto ciò non potrebbe avvenire in uno stesso periodo; i costruttori si contenderebbero tra loro, e contenderebbero gli altri settori della ricostruzione, i muratori, i carpentieri, gli specializzati; la calce, il cemento, i laterizi, il tondino di ferro, il legname… I prezzi salirebbero alla stratosfera!

Ma è necessario subito studiare il problema e ravvisare le soluzioni che si prospettano, anche perché la materia del blocco dei fitti, degli eventuali svincoli graduali e della loro entità non può prescindere dalla povertà del reddito individuale della massima parte degli italiani, dagli sviluppi e dai tempi della ricostruzione, dalla politica degli investimenti.

Ecco un altro campo che esige di essere strettamente coordinato e programmato, anche per esser di guida all’iniziativa privata.

Nell’ambito della disponibilità dei mezzi di tesoreria, delle materie prime e dei trasporti disponibili, si inquadreranno le attività dei lavori pubblici.

Sappiamo ormai per esperienza che con questa attività non potremo curare che una parte del fenomeno della disoccupazione. Un’occupazione totale della mano d’opera disoccupata, basata esclusivamente sui lavori pubblici, è un progetto irreale che rimane sulla carta.

Qualche cosa si può fare subito. A mio parere, bisogna:

1°) accertare il reale numero dei veri disoccupati, censendoli in modo da accertare esattamente le categorie di appartenenza;

2°) iniziare subito e sviluppare rapidamente uno sforzo grandioso di portata nazionale di creazione di scuole di educazione professionale, corsi di qualificazione e riqualificazione. Ho detto «iniziare subito», perché si ha l’impressione che questa essenziale opera di valorizzazione della nostra mano d’opera proceda con il rallentatore. È vero che da circa due mesi non è ancora stata decisa la competenza del Dicastero che se ne dovrebbe occupare? L’onorevole Presidente del Consiglio dovrà intervenire affinché, qualunque sia il Dicastero, quello del lavoro o quello della pubblica istruzione, non si perda un giorno di tempo.

Agli inizi si dovrà provvedere ad istruire professionalmente ed a riqualificare la nostra mano d’opera in quelle due o tre specializzazioni delle quali si avverte sin d’ora una preoccupante carenza. Poi tutto il problema dovrà essere affrontato, inquadrandolo nelle esigenze del piano pluriennale per evitare che si creino scompensi troppo gravi.

La creazione di corsi e la rieducazione professionale potrebbero aver luogo anche presso arsenali ed officine militari attualmente inattivi in tutto o in parte. Ho la convinzione che alcune grandi aziende, che sono particolarmente interessate a crearsi della mano d’opera altamente qualificata, potrebbero collaborare efficacemente con il Ministero preposto a quest’opera di estremo interesse nazionale;

3°) elevare il sussidio giornaliero a beneficio degli autentici disoccupati e di coloro che frequenteranno con assiduità i corsi;

4°) non perdere alcuna occasione favorevole d’emigrazione individuale e collettiva. Bisogna agevolarla con tutti i mezzi. Dopo tutto, oltre a dare prospettive più rosee a molti connazionali, l’emigrazione alleggerisce il Tesoro dalle erogazioni per sussidi, fa ricadere su economie di altri paesi il mantenimento dei nostri espatriati, crea la possibilità di incremento nel flusso delle rimesse.

Per il resto occorre contare soprattutto sulla ripresa economica per l’assorbimento di una parte della mano d’opera disoccupata e su quei verosimili e fattibili piani di lavori pubblici, che non siano impostati su premesse miracolistiche e inattuabili, e che siano concepiti con criteri non ostici all’economia, cioè possano produrre ricchezze e non sperperarne senza beneficio per la collettività.

Il problema degli alimenti, fondamentale esigenza della vita fisica delle masse, e quello dei prezzi, che è così strettamente concatenato, specialmente oggi in cui il costo della alimentazione, che nell’anteguerra assorbiva il 55 per cento del reddito nazionale, pare ne assorba il 90 per cento, sono senza dubbio le due più gravi preoccupazioni.

Soluzioni integrali ed ottime, da applicare con decreti toccasana, non ve ne sono.

Vi è un’azione a largo raggio, connessa con tutto il risanamento della nostra economia, e che rientra nel quadro più vasto del coordinamento della programmazione generale. Vi è anche necessità di maggior austerità di vita da parte delle classi abbienti ed uno sforzo di autodisciplina e di comprensione da parte di tutti.

Il venditore di «zigrinate» all’angolo della strada non può pretendere di svolgere impunemente il proprio commercio ed esigere nello stesso tempo che si provveda ad impedire lo sconcio della borsa nera per il pane, che il suo dirimpettaio vende, bianco, all’altro angolo della strada!

Una disciplina di prezzi, specie nel campo alimentare, se potesse essere instaurata, non potrebbe limitarsi a poche voci; dovrebbe necessariamente essere totale.

Nell’eventualità che si decidesse per la disciplina, o si farà una politica dei prezzi, dal grano al prezzemolo, o non si caverà un ragno dal buco. L’affrettata smobilitazione della disciplina nel settore zootecnico è un incontrovertibile esempio; essa da sola ha sconvolto tutto il resto: il suino venduto a peso vivo a lire 400 il chilogrammo significa che il granoturco vale lire 6.000 il quintale!

Se di contro al prezzo del grano di lire 2.250 il quintale la crusca va a lire 7.500, è ovvio che si sentano da parte degli agricoltori doglianze contro il basso prezzo del cereale; ma nessuno di essi è interessato a fare la constatazione che è il sottoprodotto che vale troppo, il che è dato dall’alto prezzo che egli ricava dalle carni. Il raffronto che egli fa tra il vantaggio che ricava dal coltivare il grano e quello che ricava dai prodotti zootecnici, lo induce a ridurre la coltura cerealicola a beneficio di quella foraggiera.

Non si accorge l’agricoltore che egli è vittima di una illusione ottica, che sconta però quando deve acquistare i prodotti dell’industria.

Il mungitore che in brevissimo tempo riempie un secchio di latte per il valore di 1000 lire, sente di aver diritto di partecipare un pochino alla bazza del datore di lavoro e chiede un aumento di salario. Anch’egli ha un’illusione ottica che è seguita da rapida delusione.

Non si può fare una politica pendolare: o lo Stato impone una politica di disciplina logica ed integrale alla quale tutti debbono scrupolosamente attenersi (e senza mugolare!), oppure deve lasciare che gli assestamenti avvengano per automatismo economico.

Perché, in definitiva, mentre aumenta la produzione e l’offerta tende ad avvicinarsi alla domanda, se si è deciso per la seconda via, i vincoli e le discipline limitate e saltuarie, «sfasando» i rapporti di interdipendenza tra settore e settore, peggiorano la situazione.

Non occorre essere studiosi di curiosità storiche per sapere quanto inutili siano le grida e superflui, anzi dannosi, i calmieri.

Ogni tanto gli esseri umani si riprovano a subire le stesse delusioni. O si creano gli strumenti per un’ordinata vita economica, o si subiscono le conseguenze del disordine.

Quando fattori psicologici e speculativi (che sono poi la stessa cosa), determinati da apprezzamenti di situazioni ed elementi contingenti di vario genere, dettero l’impressione di un ulteriore rinvilimento della moneta, in Alta Italia, ad esempio, i frigoriferi funzionarono da forzieri ed assicuratori, accogliendo tutto il burro ed i prodotti caseari che vi potevano essere allogati.

Al 1° gennaio il latte all’ingrosso valeva lire 60 il litro (100 volte l’anteguerra!) e perciò una vacca da latte costava lire 300.000, ed il burro stava sulle lire 1100-1200 il chilogrammo.

Ma, essendosi modificata quell’impressione, attenuatosi il divario tra la merce offerta e quella domandata, ecco che – secondo i dati di 10 giorni or sono – il latte essendo disceso a 40-45 lire il litro, la vacca da latte vale tra le 180-200 mila lire, il burro all’ingrosso costa lire 700-750 ed accusa una certa abbondanza, i formaggi molli diminuiscono di lire 150 il chilogrammo, il formaggio grana di lire 200.

Può far più effetto sul mercato, per disimboscare merce, la notizia dell’imminente arrivo dei 14.000 quintali di burro argentino e del lardo nord-americano che non il plotone d’esecuzione.

Per queste considerazioni ritengo debba esser cura degli organi di Governo, svolgere, specialmente negli agglomerati di popolazione urbana, interventi efficaci mediante volani di merci.

Non importa di qual derrata si tratti! Nella nostra situazione attuale la possibilità per il consumatore di acquistare una qualsiasi derrata alimentare, influisce sulle disponibilità e sul prezzo delle altre.

Questa manovra esige sveltezza di organismi che non debbono essere impacciosamente burocratici. Occorre diffondere, potenziare, sviluppare, ma soprattutto rifornire di prodotti, che non rientrino nel novero di quelli attualmente tesserati, gli Enti di approvvigionamento e consumo, sorvegliando che essi a lor volta non degenerino, acquisendo una mentalità da commercianti qualsiasi. Incoraggiarli affinché si consorzino fra loro per evitare che si facciano a vicenda la concorrenza. Rifornirli, rifornirli di qualsiasi genere alimentare che ci si possa procurare all’estero o si possa manovrare all’interno.

Se viene importato dello stoccafisso in conto compensazioni, non si può consentire a speculatori privati di distribuirlo! Cosa si attende a far affluire sul mercato le 2000 tonnellate di tonno sott’olio spagnolo arrivato a Genova?

Sarebbe stato conveniente trasformare in cioccolato – alimento energetico non trascurabile – i 40.000 quintali di semi di cacao importati dall’U.N.R.R.A., anziché lasciare che un funzionario insistesse nella balorda idea di destinarne la massima parte alla spremitura.

Non conveniva accettare sin dall’agosto l’offerta fattaci negli Stati Uniti di ritirare un milione di quintali di patate che avrebbero potuto costare attorno alle lire 12, rese a Genova?

Non si debellerà la crisi dei condimenti sino a quando le 170.000 tonnellate di «allocation» fattaci dall’Ufficio internazionale, e trasformate in grassi, non faranno sentire il loro benefico effetto su ogni desco ed in ogni borsellino di massaia.

Non si ritiene opportuno e possibile acquistare scatolame, carni congelate e quant’altro possa essere disponibile sui mercati internazionali, effettuando l’approvvigionamento soprattutto degli agglomerati urbani, che sono quelli che risentono maggiormente della situazione di disagio alimentare?

Per concludere, sappiamo di non poter chiedere miracoli al Governo. Né gli amici democristiani, né i compagni comunisti, né noi socialisti (e neppure i rappresentanti che siedono nei banchi di destra se fossero al Governo) sapremmo come moltiplicare i pani ed i pesci.

Vi è però uno sforzo intelligente e concorde che può, anzi deve, essere fatto da tutti. Allorché si sia convenuta una linea di condotta, sia quella, e tutti, con alto senso di responsabilità, cooperino a trasformarla sollecitamente in azione organica ed efficace. E questo senso di responsabilità sia presente in tutto il Paese. Il popolo italiano è ad un bivio: o uno sforzo collettivo per rinascere, o il disastro. Bisogna che tutti siano persuasi di una verità sostanziale: non esiste incantesimo o bacchetta magica che possan cambiare le cose dall’oggi al domani. È lo sforzo di ciascuno di noi, è il sacrificio di tutti, a cominciare da coloro che hanno la possibilità di sacrificare una parte almeno della loro agiatezza!

Cosa possiamo chiedere d’altro ai diseredati, che del lavoro? Ma a coloro che posseggono beni di fortuna s’impone il dovere di dare, oltre al lavoro, anche spirito di rinuncia, sacrificio di godimenti, concorso di ricchezza.

Un popolo di 45 milioni non può morire, ma potrebbe languire in una miseria esasperante ed esasperata.

Per contro può salvarsi, risorgere e prosperare, solo a patto che, dimenticando i gretti avidi interessi individualistici, tutti compiano un magnifico sforzo solidaristico nell’interesse della collettività nazionale. (Vivissimi generali applausi).

PASTORE RAFFAELE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PASTORE RAFFAELE. Propongo la chiusura della discussione.

PRESIDENTE. È stata chiesta la chiusura della discussione. Domando se è appoggiata.

(È appoggiata).

Essendo appoggiata, la pongo ai voti.

(È approvata).

Rammento agli onorevoli colleghi che, con la chiusura della discussione, decadono dal diritto di parlare i Deputati ancora iscritti. È riservata la parola, per non più di venti minuti, ai presentatori degli ordini del giorno per svolgerli.

L’onorevole Colonnetti ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

considerato il mortificante stato di indigenza degli istituti scientifici universitari, nei quali è divenuto praticamente impossibile ogni proficuo insegnamento sperimentale ed è paralizzata ogni attività di ricerca scientifica,

chiede al Governo che provveda con urgenza ed in misura adeguata al finanziamento della ricerca e potenzi con ogni impegno quelle forze scientifiche sulle quali la rinascita del Paese deve poter contare».

Ha facoltà di svolgerlo.

COLONNETTI. Onorevoli colleghi, trattando lunedì scorso della ricerca scientifica, delle esigenze della sua organizzazione, delle difficoltà che il Consiglio nazionale delle ricerche incontra per il suo finanziamento e delle possibilità di provvedere a questo finanziamento, senza ulteriori aggravi per il bilancio statale, attraverso possibili economie nei bilanci militari, io sono stato, quasi incidentalmente e solo a scopo esemplificativo, tratto ad istituire un parallelo tra i mezzi che il Ministero della marina mette a disposizione dell’Accademia navale di Livorno e quelli di cui dispone la Scuola normale superiore di Pisa.

Il paragone parve al Ministro Gonella un misconoscimento di quanto il Ministero della pubblica istruzione fa per le università e gli istituti superiori, e taluno potrebbe aver provata l’impressione di un mio esagerato pessimismo in materia.

Perciò, non posso – come era mia intenzione – limitarmi a presentarvi oggi l’ordine del giorno in cui chiede al Governo che provveda con urgenza e in misura adeguata al finanziamento della ricerca e potenzi con ogni impegno quelle forze scientifiche sulle quali la rinascita del Paese deve poter contare; ma debbo, questo ordine del giorno, sia pure brevemente, illustrarlo.

E lo farò non più elencando cifre, le quali non possono che riferirsi a casi particolari e, a seconda del caso preso in esame, si prestano a differenti valutazioni e commenti, ma cercando di darvi un’idea della situazione che si è venuta a creare nel nostro mondo universitario, dello stato d’animo di quelli che ne sono i protagonisti e gli animatori, della necessità assoluta ed urgente di cercare la soluzione dei relativi problemi su di un piano che non è più quello dell’ordinaria amministrazione, ma implica e suppone un vero e proprio rivolgimento delle situazioni esistenti.

Ciò dipende da due diversi ordini di motivi: il primo di natura economico-finanziaria, l’altro di natura sociale.

Il motivo di natura economico-finanziaria ci è imposto dallo squilibrio ormai troppo grande tra la disponibilità dei bilanci delle nostre istituzioni scientifiche e le loro necessità funzionali.

Credo che pochi si rendano conto del fatto che, forse in nessun altro settore, questo squilibrio ha assunto proporzioni così paurose come in quello dell’alta cultura. Gli è che qui, al fenomeno della svalutazione della moneta, un altro fenomeno si è sovrapposto che da tempo andava maturando, ma che la guerra ha esasperato; ed è il profondo mutamento dei caratteri e delle modalità della ricerca scientifica, la quale non è più, come un tempo, attività personale dei singoli scienziati, ma frutto della collaborazione preordinata di molti scienziati; non è più il risultato di una intuizione o di una indagine isolata, ma sintesi di lavori lunghi e pazienti e costosi, svolti, secondo piani accuratamente predisposti, da operatori specializzati.

Il che richiede una organizzazione capace di utilizzare uomini ed istituti coordinandone l’opera e i risultati; richiede mezzi urgenti e libertà di disporne per l’attuazione di un piano d’azione organico e continuativo.

Alla base di questo piano c’è la preparazione degli uomini, dei ricercatori, che bisogna trovare, selezionare severamente, educare ed allenare ad un lavoro paziente, delicato e sapiente; che bisogna incitare ed incoraggiare se si vuole che dedichino alla ricerca tutto il loro ingegno, tutta la loro attività, tutto il loro entusiasmo.

E qui, onorevoli colleghi, subentra e prende rilievo l’altro ordine di motivi a cui dianzi accennavo: quello di natura sociale. Perché gli uomini dotati di tutte le qualità necessarie per diventare dei buoni ricercatori, per diventare degli scienziati e dei maestri, sono pochi; spiriti eletti, cui natura diede doti speciali di ingegno e capacità di valorizzarle, e volontà di porle tutte ed esclusivamente al servizio di un ideale: la ricerca disinteressata della verità.

E questi uomini bisogna perciò andarli a cercare ovunque, in tutti i ceti, in tutte le classi sociali, perché nessun popolo, per fecondo che sia di ingegni, può permettersi il lusso di far getto di questa che è la suprema tra le ricchezze dei popoli. (Applausi).

Occorre pertanto che l’Università, dove la prima rivelazione delle intelligenze si compie, e dove le intelligenze che si rivelano possono venire educate alle superiori attività dello spirito, sia aperta a tutti e sia ordinata in modo che la necessaria opera di selezione si attui con esclusivo riguardo al merito, ed indipendentemente da fattori estranei di ordine economico o sociale.

Ora voi non avete che da guardarvi attorno per vedere le nostre Università nell’assoluta impossibilità di compiere una così delicata funzione: prive di mezzi, di libri, di documenti, di strumenti di osservazione e di ricerca; sovraffollate di giovani che di una cosa sola si preoccupano, della conquista di un titolo ai fini immediatamente utilitari, e che nella loro fugace e disordinata corsa al diploma spesso non giungono neppure ad intuire 1’esistenza di quel tesoro di vita spirituale che il tempio, mortificato, nasconde.

Ed i maestri, che di quel tesoro sono i depositari, distratti dalle preoccupazioni ed oppressi dalle necessità della vita che urge alle porte del tempio, spesso non arrivano a identificare nella folla dei giovani chi sia degno e disposto ad accogliere il grande dono del sapere e, se lo scorgono, difficilmente riescono a fermare la sua attenzione e, seppure la fermano, ben raramente possono offrire quelle condizioni che varrebbero a far preferire alle più facili e profittevoli vie della professione l’erto e misconosciuto sentiero della dedizione e del sacrificio.

Questa, onorevoli colleghi, è la quotidiana tragedia della nostra vita universitaria; e tocca l’avvenire stesso della Nazione, in quanto minaccia di inaridire le fonti della sua grandezza spirituale e della sua stessa prosperità materiale.

Se continueremo ancora per alcuni anni nelle condizioni attuali, i maestri non avranno più allievi cui trasmettere la fiaccola del sapere, o li vedranno andar cercando in altri Paesi quel minimo di mezzi materiali che basti ad alimentarne la fiamma.

In realtà, l’esodo degli ingegni è in atto. Se io non temessi di abusare del vostro tempo e se non fossi fermamente deciso a non scendere per nessuna ragione a casi particolari, potrei citarvi nomi di eminenti studiosi nostri che hanno ricevuto esplicito invito di trasferirsi in Università americane, o che comunque sanno che là troverebbero favorevole accoglienza e larghezza insperata di mezzi di studio. E potrei aggiungere che alcuni tra essi sarebbero per il nostro Paese perduti per sempre, se dovessero convincersi che gli sforzi che io vado compiendo per il finanziamento della ricerca e per il rinnovamento dell’Università sono destinati a restar vani.

Del resto, non è soltanto l’esodo dei maestri che incombe come una minaccia sulle nostre Università, ma anche l’esodo dei giovani, dei migliori fra i giovani, di quelli che sono ancora soltanto delle promesse e che a cercare di aprirsi altrove la loro strada sono spinti dalla constatazione delle difficoltà che si frappongono qui alla carriera scientifica, dal misconoscimento della sua dignità e del suo prestigio, dalla visione dello stato di vera e propria indigenza cui sono ridotti quegli stessi che l’hanno percorsa con onore. Sottrarre questi giovani alla tentazione di andarsene, assicurare al nostro Paese i frutti del loro ingegno e della loro attività, costituire con essi i quadri della società di domani, questo è indiscutibilmente il più grande e delicato compito di chi presiede alle sorti dell’alta cultura.

Ma nessuno, per valente che sia, riuscirà ad assolvere questo compito se non sarà prima riuscito a far rifiorire i grandi cenacoli del pensiero, se non sarà riuscito a popolarli, in ragionevole misura, di maestri e di allievi, se agli uni e agli altri non avrà potuto fornire i mezzi indispensabili con generosa larghezza, ed assicurare quella tranquillità di spirito che è il presupposto di ogni attività di pensiero.

Per raggiungere il qual risultato, senza intollerabili aggravi del bilancio statale, non c’è che una via, ma c’è: ed è quella di porre termine allo scandaloso squilibrio tuttora esistente fra le spese militari e le spese che si fanno per l’alta cultura. Nelle condizioni che all’Italia sono state create dalla dittatura, dalla sconfitta e dal Trattato che l’ha sanzionata, quei mezzi che in passato erano rivolti a forgiare armi e ad approntare armati e che ancora oggi sono a disposizione dei Dicasteri militari, devono venir destinati alle opere della civiltà e della pace, attraverso la mobilitazione delle intelligenze.

Per l’Università, perché chi vi insegna sia messo in grado di assolvere alla sua altissima missione, perché chi la frequenta possa trovare il necessario alimento alle ancora latenti potenze del suo spirito, nessun sacrificio può essere considerato troppo grande.

Ma se ragioni di necessità ci impongono di non aggravare ulteriormente le già gravi condizioni del bilancio, bisogna che, nella valutazione delle diverse necessità e delle maggiori o minori urgenze, una nuova scala dei valori sia adottata, in capo alla quale non possono non figurare ì valori dello spirito. (Applausi).

Del resto, onorevoli colleghi, mi sembra che quel che accade nelle nostre Università contrasti non solo con quella che è la mia valutazione della preminente importanza delle attività scientifiche, ma anche con quelli che sono i propositi espliciti ed il programma dichiarato del Governo.

Eccovene una piccola prova, che ha, se non altro, il pregio dell’attualità.

Nel suo programma di Governo il Presidente del Consiglio dei Ministri, con la sua caratteristica sensibilità ai veri problemi ed alle superiori esigenze nazionali, auspicava che «l’esiguità delle tasse scolastiche permettesse a tutti i figli del popolo di percorrere ogni grado di studio».

Ebbene, proprio in questi stessi giorni faceva la sua comparsa nell’Albo dello Studium Urbis un piccolo manifesto in cui gli uomini egregi che ne reggono l’amministrazione, seguendo l’esempio di altri Atenei, si dichiarano con dispiacere costretti ad imporre agli studenti un contributo straordinario che equivale a triplicare le tasse; e premessa la speranza, lievemente ingenua, che ciò valga come un invito al Governo perché meglio corrisponda alle vitali ed elementari necessità dell’Università, presentano il nuovo gravame come «un sacrificio indispensabile perché la classe studentesca non venga ingannata da un insufficiente insegnamento, da un insegnamento che è, in troppi casi, una finzione».

Ora, il mettersi sulla via di provvedere al finanziamento delle Università con l’aumento delle tasse, considerandolo, come dicono nel loro manifesto gli amministratori dell’università di Roma, «l’unica via che rimane aperta per non ingannarci reciprocamente con un incompleto e infecondo insegnamento», rappresenta – oltre che una ben grave ed umiliante confessione di impotenza dello Stato in quello che amiamo definire uno dei suoi compiti essenziali – rappresenta, dico, un grave ed a parer mio deplorevolissimo errore sociale.

Perché tale provvedimento avrà una reale efficacia risanatrice dei bilanci universitari solo a condizione che si perpetui la situazione attuale nella quale gli studi superiori sono di regola un privilegio dei ricchi, mentre i poveri possono adirvi solo in piccolo numero, attraverso un piccolo numero di esenzioni e di borse di studio.

Contro questo privilegio bisogna reagire con tutte le forze, perché esso è ad un tempo offesa grave alla giustizia e non men grave disconoscimento dell’interesse stesso della collettività.

E giustizia ed interesse collettivo saranno salvaguardati soltanto quando la collettività avrà il coraggio di assumere su di sé, anche a costo dei più gravi sacrifici, tutto l’onere degli studi e della cultura, avocando a sé il diritto di far studiare i migliori, e di sfollare le Università liberandole dagli inetti, anche se disposti a pagare.

Ecco perché, nel sottoporre oggi all’Assemblea Costituente il mio ordine del giorno, io oso fare appello all’alto senso di comprensione dell’onorevole Presidente del Consiglio perché, agli studiosi che attendono con ansia una parola del Governo, dia – accettandolo – quel minimo di affidamento che valga a rasserenare i loro animi turbati e confortarli nella loro nobilissima diuturna fatica (Vivi applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Cingolani, anche a nome dell’onorevole Jacini, ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, preso atto della fusione, in un unico Ministero della difesa dei tre Ministeri delle forze armate, si augura che detta fusione sia preceduta da un opportuno coordinamento dei servizi tecnico-militari ed amministrativi, nel quadro delle tradizioni e delle caratteristiche delle singole armi».

L’onorevole Cingolani ha facoltà di svolgerlo.

CINGOLANI. Il mio ordine del giorno vuole esprimere lo stato d’animo di molti fra noi, di fronte alla costituzione del Ministero della difesa nazionale. Da tutti i settori della Camera si sono alzate voci, direi, di riservato consenso alla fusione dei Dicasteri militari, fusione, finora, compiuta nella persona del nuovo Ministro. Certo, persona più indicata non poteva essere scelta, né io me la sento di far mie le lugubri profezie di alcuni onorevoli colleghi, per i quali l’onorevole Gasparotto dovrebbe assumere il ruolo di un personaggio da tragedia greca, con le infule sacrificali già strette intorno alle tempie, spinto dall’ineluttabile fato alla morte politica se non addirittura a quella fisica (non ho ben compreso dalle parole dell’onorevole Lussu, se per esaurimento di forze o per il ferro di un qualche Aristogitone in ritardo). Comunque, rimanendo su di un terreno più ottimistico e realistico, possiamo dai primi passi mossi dall’onorevole Gasparotto su questo terreno – più che infido, inesplorato – arguire che prudenza, e decisione insieme, presiederanno all’opera sua. Del resto, egli, già due volte Ministro della guerra, e poi Ministro dell’aeronautica, e come uomo che ha alto il senso dell’onore, certamente pieno di comprensione per il dramma spirituale della Marina, è in grado di adempiere bene al suo compito guardando con accorta attenzione dove porre il piede nel suo cammino.

Non so se le tarme avranno risparmiato la scolorita giubba del combattente del Carso e del Piave. Ma certo, facendo le sue valigie per Roma, ella, onorevole Gasparotto, sarà stato tentato di canticchiare la vecchia canzone di trincea: «Povero fante, n’hai fatte tante!» E farà bene, onorevole Gasparotto, anche questa, la fusione delle Forze armate. Può essere certamente sicuro che coloro che avrà al suo fianco come modesti ma fedeli collaboratori e coordinatori dell’opera sua, cercheranno di gareggiare con lei nella dedizione agli interessi supremi del Paese, che vuole che l’unificazione delle Forze armate non sia un accorgimento amministrativo, ma crei uno strumento bene forgiato e intelligentemente articolato, unitaria forza viva democratica e repubblicana, tale da sostituire le distrutte difese materiali del Paese, e tale da essere scuola alle giovani generazioni di spirito di sacrificio, di senso di responsabilità, e di un cameratismo che, oltre le differenziazioni di funzioni, insegni ad esse che non c’è maggior libertà di spirito e più alta dignità di vita di quella che si riassume nell’adempimento di un alto dovere perché la Patria viva la sua rinnovata vita di pace tutelata e di realizzata giustizia sociale. Le vie da battere, per giungere a questa nuova concezione e organizzazione delle Forze armate della Repubblica italiana possono anche essere indicate da quel che finora si è fatto in altri paesi, sia come studio che come esperimento, naturalmente in funzione della politica che ogni Stato persegue.

Negli Stati Uniti, ad esempio, dopo 14 mesi di studi e di discussioni, è stata decisa la creazione di un Ministero della difesa con tre Sottosegretari e con la creazione di una organizzazione centrale aeronautica simile a quelle già esistenti per l’esercito e per la marina. Il Capo di Stato Maggiore dipende dal Presidente della Confederazione e dal Ministro della difesa, ed è l’effettivo Capo militare delle tre forze armate. Già unificati sono stati il servizio informazioni, il reclutamento, le scuole di carattere comune.

In Inghilterra, il Ministero della difesa è incaricato di applicare la divisione delle risorse tra le Forze armate, il coordinamento dello studio dei problemi e dei servizi comuni delle tre Forze armate: così pure sono comuni le produzioni, gli studi, le ricerche e gli sviluppi scientifici; un comitato dei capi di Stato Maggiore sopraintende alla preparazione dei piani difensivi. L’istituzione più interessante è quella del Comitato di difesa, che è più largo del nostro, con poteri esecutivi e composto di politici assistiti da militari.

È da rilevare che i tre Ministri militari continuano ad essere responsabili verso il Parlamento. La marina conserva una certa autonomia, soprattutto nei rifornimenti. Strettissima invece è la cooperazione fra militari e scienziati. C’è una tendenza verso un bilancio unico della difesa nazionale, comprendente le necessità delle tre Forze armate.

In Francia, a datare dalla liberazione, si è sviluppata una forte tendenza alla unificazione dei Ministeri militari, passando successivamente dai tre Ministeri autonomi ad un Ministero delle Forze armate, con un Ministero della produzione di guerra e poi a un Ministero della difesa, quasi superministero sui tre Ministeri delle Forze armate. Le scuole di guerra sono unificate.

Nell’Unione Sovietica, dopo la trasformazione dei Commissariati del Popolo in Ministeri, è stato costituito un unico Ministero delle Forze armate, dal quale dipendono sei organismi equivalenti a Sottosegretariati, ma retti da sei Viceministri. Il primo Viceministro può anche sostituire il Ministro delle Forze armate ed ha una competenza estesa a tutte le questioni militari. Il secondo Viceministro è, per diritto, il Capo di Stato Maggiore generale dell’esercito, il terzo Viceministro è comandante in capo di diritto dell’esercito; il quarto Viceministro è comandante in capo della marina; il quinto Viceministro è comandante in capo dell’aeronautica, il sesto Viceministro è il capo di tutti i servizi delle Forze armate.

Non parlo delle Nazioni minori che, più o meno, seguono gli schemi delle Nazioni più potenti; ma certo ha una grande importanza per noi, nelle condizioni nelle quali ci troviamo per le nostre possibilità e per le clausole del Trattato di pace, il fatto che Nazioni illuminate dall’alone della vittoria e in piena efficienza guerriera, si sono poste il problema della unificazione delle Forze armate, e se lo son posto e lo stanno risolvendo con estrema delicatezza, e rispetto insieme e delle necessità e della tradizione.

Chi ha avuto l’onore e la fortuna di ascoltare il discorso dell’onorevole Gasparotto nel prender le consegne dai tre Ministri uscenti, ha potuto constatare con quale decisione ed insieme con quale visione delle difficoltà l’onorevole Gasparotto ha manifestato un animo pari al grande compito. La genialità del Ministro saprà certo tener conto di tante brillanti tradizioni nel quadro della difesa degli interessi del Paese e della democratizzazione delle Forze armate.

Modesto ma serio servitore del mio Paese, posso seguitare qui per parte mia le consegne che ho fatto al Ministro. Egli avrà nell’aeronautica un organismo onusto delle glorie dei caduti nell’adempimento del dovere, un organismo vivo, e purificato dal sangue dei propri caduti nelle Fosse Ardeatine e nei cieli di Balcania e d’Italia.

Non 50 generali egli avrà a sua disposizione, ma solo 21. Non dovrà iniziare lo sfollamento, perché troverà già sfollati 1 quadri da 404 ufficiali generali e superiori. La Commissione di epurazione per ufficiali e sottufficiali aveva già esaminato 1882 casi con 375 dispense dal servizio. Per lo sfollamento da effettuarsi fra gli ufficiali inferiori e i sottufficiali, ancora non c’è nulla di concreto, ma mi auguro che lo stesso trattamento della marina sia usato a questo personale.

Per gli ufficiali superiori criteri molto rigidi sono stati seguiti; ecco i motivi della parola «di massima» introdotta nel decreto di sfollamento nei riguardi di coloro che possono essere ammessi nelle file delle Forze armate. Per gli ufficiali superiori il decreto di sfollamento sarà rigidamente applicato.

Comunque, io desidero riproporre al Ministro il mio piano di costituzione di una Commissione di personalità civili, magistrati e deputati, che avevo già preparato per poter fiancheggiare l’opera delle Commissioni di sfollamento.

Nella breve mia intervista, che fu già letta dall’onorevole Nobile in questa Camera, fu forse omesso, spero per dimenticanza, il periodo che dimostrava il mio impegno per ottenere il controllo extra ambiente dello Stato Maggiore e dell’ambiente militare.

Questo mi porta anche a toccare un argomento che potrebbe essere scottante: c’è un’atmosfera repubblicana? Ci sarà. Il fronte repubblicano ed il suo giornale lo assicurano. Non c’era come totalità; ma il «fronte repubblicano» del Ministero ha compiuto un’opera sagace e prudente. Il senso dell’onore e l’amore per la Patria sono stati posti da tutti al disopra dell’attaccamento tradizionale al regime tramontato. Oggi, salvo casi sporadici, c’è una coscienza repubblicana consapevole che servirà a mettere l’aeronautica in condizioni di servire la Repubblica italiana con lo stesso impegno e la stessa lealtà con cui è stata servita la monarchia.

L’intesa fra il personale civile e quello militare gioverà a rinsaldare la coscienza repubblicana.

Nell’ultimo congresso del Sindacato fra il personale civile furono presentate richieste che furono poi, nelle parti essenziali, accettate. La più importante è l’indennità di aeroporto, che venne estesa a tutti coloro che vivono negli aeroporti, e degli aeroporti, tanto militari quanto civili, fino al personale salariato, operaio ed avventizio. In principio c’è stata un po’ di frizione, ma è stata superata con un po’ di buona volontà. L’unione delle forze civili e militari non potrà che giovare all’interesse del Paese, e varrà meglio a superare il trapasso dal vecchio al nuovo assetto.

Per il Trattato di pace gli effettivi debbono essere ridotti da 42.000 a 25.000. Sono quindi 17.000 unità che debbono rimanere fuori dei quadri!

Eppure l’aviazione italiana ha dato alla causa alleata il più largo e incondizionato appoggio, in tutte le forme possibili, da quelle di guerra guerreggiata a quelle tecniche e logistiche.

Mi permetto di leggere soltanto alcune cifre:

Attività bellica della nostra aviazione: compiute 4155 azioni, con 11196 velivoli, che hanno volato per 24199 ore di volo di combattimento, sparando mezzo milione di colpi e lanciando per un milione e mezzo di chilogrammi di bombe, e trasportando materiale di guerra per un milione e ottocentomila chili; ha abbattuto ottantasette velivoli nemici, ne ha perduti settantadue, ha perduto centododici piloti e ha avuto numerosi feriti e mutilati; ha danneggiato e distrutto mille e novecento unità nemiche tra piroscafi, velieri, convogli, ecc., ed ha compiuto trentacinque salvataggi in mare.

E trascuro l’attività non bellica dello stesso periodo, citando soltanto il numero dei voli, in oltre 33000, per trasportare trentamila persone e oltre due milioni e mezzo di materiale da guerra, con oltre ventisette mila ore di volo effettivo, perdendo settantasette apparecchi.

Fin dall’inizio del 1944 il maresciallo dell’aria Cunningham, dichiarò di apprezzare gli sforzi fatti dai nostri gruppi in collaborazione con le Nazioni alleate. Sempre nel gennaio 1944 il Comando caccia fu ringraziato per il magnifico aiuto fornito nel corso dei combattimenti che si erano protratti per 50 giorni da Podgorice a Kolasini.

Nel marzo 1944 il vicemaresciallo dell’aria Forster dichiarò di aver riscontrato sempre un’efficace collaborazione da parte di tutto il personale dell’aviazione italiana, estendendo l’elogio alle varie compagnie lavoratori e alle squadre recupero.

Il 24 maggio 1944, nel suo discorso ai Comuni, il Primo Ministro Churchill affermò: «La leale aviazione italiana ha combattuto così bene, che sto facendo sforzi speciali per equipaggiarla con apparecchi perfezionati di fabbricazione britannica». Infatti questo riconoscimento si concretò con l’assegnazione di velivoli americani ed inglesi da caccia e da bombardamento. Questi velivoli, che entrarono in linea nell’autunno 1944, rappresentarono il premio di un anno di sacrificio, durante il quale i nostri reparti avevano impiegato esclusivamente apparecchi italiani, logori e antiquati.

Per l’attività svolta dai gruppi di trasporto nei Balcani durante il maggio 1944, il Comandante supremo del Mediterraneo, generale Wilson, espresse la sua sodisfazione.

Nel mese di agosto 1944 il vicemaresciallo Buscarlet disse testualmente: «L’aviazione italiana ha al suo attivo risultati considerevoli, e non si dovrebbe mai dimenticare il grande contributo da essa dato allo sforzo di guerra alleato. Le forze aeree italiane hanno utilizzato tutte le loro risorse, ed hanno dimostrato notevole ingegnosità e grande coraggio nell’impiegare ogni tipo di apparecchio».

I      magnifici risultati conseguiti dai reparti caccia nel novembre 1944, durante gli arditi e decisivi attacchi alle colonne nemiche nella zona di Elbassan, effettuati in pessime condizioni atmosferiche, riscossero un caldo elogio del vicemaresciallo Elliot comandante della B.A.F.

Per la stessa attività il generale Eaker, comandante delle forze aeree del Mediterraneo, disse: «Voi stessi, forse, non vi rendete conto dell’importanza di quanto state compiendo. Dagli Stati Uniti, dove sono stato recentemente, si segue con grande interesse la vostra attività e quella della B.A.F. Io seguo attentamente il vostro lavoro e non vi lascerò mai mancare il mio aiuto. Negli Stati Uniti migliaia di italiani guardano a voi e sono certi che le nostre due nazioni saranno per l’avvenire strettamente amiche, così come lo sono state per il passato».

Il 19 dicembre 1944 il Comando R.A.F. comunicò un marconigramma di congratulazioni del Maresciallo Tito a tutti i piloti che avevano preso parte all’azione del giorno precedente.

Alla fine del 1944 anche Truman, allora Vicepresidente degli Stati Uniti, dichiarò: «Gli aviatori italiani sono oggetto di meritata lode per le loro brillanti operazioni contro i tedeschi in Italia e nei Balcani.

Infine l’8 giugno 1945, il vicemaresciallo dell’aria Mills della B.A.F. volle ringraziare i reparti italiani per l’ottimo lavoro da essi compiuto, che aveva contribuito non poco al successo delle operazioni nei Balcani, meritandosi l’ammirazione delle unità della R.A.F. In particolare volle ricordare le missioni eseguite dai reparti da caccia, le azioni dei bombardieri che ebbero una parte importante nella distruzione delle linee di comunicazioni avversarie e i voli dei reparti di trasporto effettuati con qualsiasi condizione atmosferica.

E finendo questa gloriosa cronaca, sottolineo l’ordine del giorno del luglio 1945 del maresciallo dell’aria Mister Garrod, in occasione dello scioglimento della Balkan Air Force. Dopo aver elogiati gli aviatori britannici, americani, russi, polacchi, greci, jugoslavi e italiani per il compimento della grande impresa, così, concludeva: «Il vostro compito è assolto e assolto bene. Ma al di sopra del grande contributo che avete dato alla vittoria finale in Europa avete dimostrato che mediante il tatto e la dovuta comprensione uomini di Paesi diversi possono lavorare come fratelli per sconfiggere un nemico comune.

«Su questo spirito di fratellanza fra nazioni poggiano le nostre speranze per una pace durevole».

È proprio quello che noi italiani ci auguriamo, per una più alta cristiana convivenza di popoli civili. Ma questo era il linguaggio alleato durante la guerra. Le condizioni che il Trattato di pace fa all’aviazione italiana con gli articoli 64, 65 e 66 le conoscete: 200 apparecchi da combattimento e da ricognizione e 150 da trasporto, salvataggio in mare, istruzione e collegamento.

Ma le limitazioni imposte alla efficienza dei velivoli concessi tolgono in pratica ad essi ogni valore difensivo, tenuto conto che l’Italia, per la sua situazione geopolitica e gli 8500 chilometri delle sue coste, non può garantire la propria integrità e quindi l’eventuale efficace uso delle proprie basi aeree e navali, se non mediante l’impiego di forze aeree e di superficie, adeguate alle prevedibili entità delle possibili aggressioni.

Ma quello di cui più dobbiamo dolerci è la riduzione del servizio di assistenza e soccorso in mare.

Con l’intensificarsi del traffici aerei e marittimi, non vi è paese civile e progredito che non debba essere in grado di prestarsi tempestivamente in opera di soccorso in mare.

La configurazione e la posizione geografica dell’Italia e delle sue isole sono tali, da attribuirle implicitamente questi compiti su ampie distese di mare, e le impongono, quindi, una consistenza ed uno schieramento di aerei marittimi corrispondenti a quelli delle stazioni radio elettriche di segnalazione ed assistenza, ed in ogni modo urgente ed esteso. Del resto, questo servizio, esplicato fin dal settembre 1943 a vantaggio delle aviazioni e marine alleate, è tuttora in atto: e anche recentemente ha valso a salvare aviatori francesi caduti in mare e gli equipaggi di due zatteroni travolti dalla tempesta.

Comunque, le condizioni di efficienza numerica e qualitativa del materiale di volo, attualmente in servizio, sono molto precarie. Il trapasso dal materiale vecchio al materiale nuovo è già stato in parte facilitato dalla cessione di alcuni materiali delle Nazioni Unite. E con tutto questo è magnifica l’efficienza di quest’ultimo anno di attività. Leggo solo le cifre complessive dell’attività dell’aviazione militare dal 1° luglio 1946 al 31 gennaio di quest’anno: voli compiuti 18.406; ore di volo 16.294; passeggeri trasportati 36.741; materiale trasportato 785 mila chilogrammi. Per le perdite subite, soprattutto dovute alle scuole, abbiamo fuori uso 20 velivoli; danneggiati 29 velivoli; danni a persone: decedute 14, ferite una.

Nella grande massa del complesso di questa attività aviatoria, possiamo veramente dire che le perdite, tanto in materiale quanto in uomini, sono da ascriversi a quella minima percentuale di incidenti che capitano ovunque v’è un’attività umana in lotta contro gli elementi e contro gli imprevisti.

Noi ci auguriamo che le industrie aeronautiche, notevolmente ridotte rispetto a quelle preesistenti, potranno essere riattivate rapidamente e senza eccessive difficoltà, per limitati programmi di produzione per costruzioni originali e su licenza, specie nel campo dei motori, degli strumenti e degli accessori vari.

La nostra aspirazione sarebbe, pur nei limiti delle cifre consentiteci dal Trattato, di mantenere i reparti militari aerei che si sono uniti alle forze alleate all’atto dell’armistizio.

Ovvie ragioni morali confortano questo desiderio. Si tratta di tre stormi da caccia con 198 velivoli, 3 stormi da esplorazione strategica e bombardamento leggero con 96 velivoli, e due stormi idro-soccorso con 64 velivoli. Ma oltre naturalmente agli apparecchi scuola! Come formare la nuova generazione?

I nostri Accademisti non raggiungono certo il numero imponente del passato: sono appena cinquanta divisi in tre corsi, e il numero progrediente degli iscritti ai corsi è consolante. Al primo corso aperto quest’anno, sono iscritti venti accademisti, al secondo tredici, al terzo 10 e al corso suppletivo 7. Vi è poi un corso di 14 sottufficiali per addestramento. Sono tutti giovani i quali non sono sboccati nella carriera di piloti unicamente perché non trovavano dove battere la testa; sono tutti provenienti dalla licenza liceale, benissimo licenziati, con punti altissimi: molti provengono già dall’iniziata scuola di ingegneria. Essi rappresentano, dunque, non lo scarto di altre professioni, ma una vera scelta di giovani, consapevoli della vita dura che dovranno condurre. Ora sono confinati a Nisida, nell’antico penitenziario. Ma la loro aspirazione è di tornare in una parte almeno dell’immenso edificio dell’antica reggia di Caserta. Questa, del resto, è anche l’aspirazione delle popolazioni di Napoli e di Caserta, già insorte, quando nell’estate scorsa era stata ventilata l’idea di un trasporto dell’Accademia a Firenze. E giacché ho toccato questo argomento, debbo dire che per giustificare un nuovo tentativo di trasporto dell’Accademia a Firenze, si parla di un grande istituto agrario da fondare a Caserta, appunto nella reggia. Ma c’è l’Istituto agrario universitario di Portici, di fama mondiale, e suscettibile di grandi sviluppi, che è più che sufficiente per qualunque anche più ampia scientifica e pratica funzione. Non turbiamo dunque le suscettibilità e gli interessi meridionali, acquetati dopo una esauriente conferenza stampa tenuta in Prefettura a Napoli nell’estate scorsa, ed una visita rassicuratrice alla popolazione di Caserta, convocata in grande adunata da quella Camera del lavoro.

Questi giovani, dunque, daranno un’anima nuova all’aviazione militare, pur nella luce delle glorie effettive del passato e saluteranno gli anziani avviati ormai all’estero ed in Italia verso l’aviazione civile.

La «Federazione della gente dell’aria», giustamente tutrice degli interessi degli antichi aviatori, è in rapporto con le società di trasporto di persone e di cose, perché l’assunzione della gente dell’aria sia fatta in modo da tener conto dell’abilità ed anche del bisogno di tanti, desiderosi di tornare alla ardita occupazione dell’ante-guerra.

Soprattutto su due gruppi di personale civile mi permetto di attirare l’attenzione del Ministro: su quelli provenienti dalla L.A.T.I. e dall’Ala italiana, già Littoria.

La L.A.T.I. è ormai innestata nella Società Italo Inglese A.L.I.I., che eserciterà, valendosi degli antichi equipaggi, la linea Italia-Brasile. Sarebbe bene che si potesse conservare la struttura autonoma della L.A.T.I., per altre linee transoceaniche, per le quali era particolarmente attrezzata ed apprezzata.

Per l’Ala Italiana ne ripareremo quando sarà svolta l’interpellanza dell’onorevole Finocchiaro Aprile. Lo prego anzi di volersi fare parte diligente per iscriverla all’ordine del giorno.

Per la preparazione di elementi giovani per l’aviazione civile, preparazione scientifica e di ardimento, gioverebbe il volo a vela ed il volo turistico; ma il primo ci è inibito, il secondo, che sarebbe compito speciale degli Aeroclub di sviluppare, ci è consentito in scala talmente ridotta, da essere praticamente nullo.

Ci auguriamo comunque che presto i 61 aeroporti d’Italia siano in piena efficienza per ospitare gli apparecchi delle nostre dieci società esercenti le 50 linee interne concesse.

Quando saremo ammessi all’Organizzazione internazionale per l’aviazione civile, dove ora siamo semplici osservatori, applicheremo, nel traffico interno ed internazionale, le decisioni della Conferenza di Chicago del 1944, e precisamente:

1°) riconoscimento della sovranità piena ed esclusiva sullo spazio aereo, sovrastante il proprio territorio;

2°) libertà di passaggio inoffensivo con o senza scalo, agli aeromobili di uno Stato contraente sul territorio degli altri Stati;

3°) l’impianto delle linee di navigazione aerea subordinato al consenso degli Stati da attraversare;

4°) accordo, detto delle due libertà, in base al quale gli Stati aderenti riconoscono agli aeromobili degli altri Stati il diritto di sorvolo senza scalo sul proprio territorio, e di scalo sul proprio territorio per scopi non commerciali;

5°) un accordo fra i trasporti aerei internazionali, detto, con le due succennate «libertà», delle «cinque libertà», per il diritto di sbarco e imbarco internazionali di persone e merci.

Una politica ispirata a tali principî risulterebbe, d’altra parte, rispondente a quella finora seguita in occasione delle richieste pervenute, da parte di numerosi Stati esteri, per l’impianto di servizi aerei sul territorio italiano. D’intesa col Ministero degli affari esteri, a tali richieste si è costantemente risposto concedendo un’adesione di massima, con la riserva però di stipulare a suo tempo regolari accordi bilaterali, atti a sodisfare la nostra aspettativa di concessioni in reciprocità. Rapporti del genere sono ormai stabiliti con gli Stati Uniti d’America, l’Inghilterra, la Francia, l’Olanda, la Svezia, la Norvegia. Altri Paesi, quali la Spagna e l’Eire, hanno inviato schemi di convenzioni aeronautiche, che sono allo studio. Come in altra occasione ho detto, abbiamo intessuto ottimi rapporti di reciprocità con gli Stati del Centro e Sud America. Con la Russia, le conversazioni continuano.

La nostra adesione alla convenzione generale di Chicago ed a quella delle «5 libertà. effettuata appena ciò sarà possibile, determinerà la condizione necessaria per sciogliere la riserva contenuta nelle varie concessioni provvisorie, e per addivenire alla conclusione dei cennati accordi bilaterali con quegli Stati, nei cui confronti ciò si riveli opportuno.

PRESIDENTE. Onorevole Cingolani, la prego di concludere.

CINGOLANI. Avviandomi alla fine e ricongiungendomi alle ragioni del mio ordine del giorno, credo utile citare, come esempio di fusione già praticamente avvenuta tra i servizi dei tre Ministeri delle Forze armate, quello del servizio delle telecomunicazioni. Si è potuto così autorevolmente partecipare alle conferenze internazionali di Londra, Washington e di Montreal per la ripresa dei servizi di telecomunicazione a carattere internazionale.

Mi piace ricordare qui alcuni servizi particolari in questo campo compiuti in Italia: centrali radio-comunicanti costituite a Milano, Bologna, Elmas e Venezia; entrata in funzione per il servizio soccorso di 14 motoscafi di alto mare, debitamente attrezzati; lavori sul Monte Cimone per il Ponte Radiofonico Roma-Milano. È terminato anche il montaggio della centrale telefonica automatica per i collegamenti telegrafonici.

Per il servizio metereologico, abbiamo preso parte a 4 riunioni per servizi speciali internazionali, tenute a Parigi a cura della organizzazione metereologica. Abbiamo preso parte ai lavori per una convenzione meteorologica mondiale, ed è completo il progetto di trasformare il servizio metereologico della Aeronautica in Servizio metereologico nazionale, innestato nel Consiglio nazionale delle ricerche.

E tralascio il resto. Oso soltanto dire che in questo campo siamo ormai stimati gente di prim’ordine nell’attenta osservazione dei tecnici, non soltanto d’Italia, ma di tutto il mondo.

La studiata demilitarizzazione dei servizi di telecomunicazioni di metereologia potrà, per ragioni evidenti, rendere meno pesante l’applicazione del Trattato di pace.

Onorevoli colleghi, ho finito. Ma l’ultima parola che voglio oggi rivolgere a voi ed al Ministro vuol essere una parola che suoni paterno, affettuoso saluto agli orfani degli aviatori.

Gli orfani degli aviatori sono 1054 alla data di oggi. Vi aggiungiamo con cuore dolorante i tre bimbi rimasti orfani per il disastro di Terracina.

Prima dell’8 settembre 1943 erano 504: quasi la metà, dunque, di questi bimbi sono rimasti orfani durante la guerra di liberazione.

Oggi gli assistiti raccolti in istituti sono 293; per gli altri orfani rimasti in famiglia, in numero di 766, l’Opera degli Orfani corrisponde contributi mensili di assistenza variabili a seconda degli studi da lire 500 mensili per le scuole elementari a 14.000 lire annue per gli universitari. Si aggiungono premi annuali per i migliori.

Quando verrà approvato il nuovo statuto, l’assistenza predetta si estenderà anche ad altre categorie di orfani, ora escluse, quali gli orfani di osservatori di aeroplani e di personale militare e civile non avente obbligo di volo, ma deceduto in servizio di volo o per causa di servizio aeronautico; e potranno essere accolti negli istituti dell’Opera anche i figli di tutto il personale dell’unica famiglia aeronautica.

Affretti, l’onorevole Ministro, l’approvazione del nuovo statuto, studi il modo di irrobustire finanziariamente l’Opera, contribuendo così a dare maggiore serenità a quanti vivono in consapevole ardimento la vita dell’aeronautica.

Onorevoli colleghi, ho avuto la fortuna di essere stato Ministro dell’aeronautica del primo Governo della Repubblica.

Il giorno della Madonna di Loreto, festa dell’Arma, nel salutare tutti gli appartenenti alla grande famiglia, ricordai a tutti che la fede certa nella resurrezione della Patria e nella rinnovata funzione civilizzatrice dell’Italia nel mondo, doveva avere la sua base nel rafforzamento del giovane istituto repubblicano, e concludevo con queste parole, con le quali amo chiudere questo mio breve discorso:

«L’aeronautica della Repubblica italiana, intrecciando poesia e realtà, leggenda e storia, tradizione e concretezza moderna di vita, sente oggi di poter, con mano degna, cogliere i lauri intorno alla Casa che vide la fanciullezza pura del Divino operaio di Nazareth: coglierli con la mano innocente degli orfani dei propri figli migliori, con le mani gentili delle vedove viventi di un consapevole, rassegnato dolore, con la mano ferma di coloro che hanno lasciato brandelli di carne, ma non di animo, nella guerra guerreggiata, o contro gli avversi elementi. Questo alloro, incoronante la fronte di tutti i Caduti per l’onore, per il dovere, per la giustizia, per la libertà, questo alloro che rinverdisce, si può dire ogni giorno, nella fervida vita di rischio quotidiano, di ardimento consapevole, di severe acquisizioni dei nuovi dati per la scienza, per la conquista sempre più sicura dei cieli, è il dono che gli azzurri oggi porgono alla Repubblica italiana». (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Marinaro ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

ritenuto che le comunicazioni del Presidente del Consiglio in materia economico-finanziaria non offrono elementi concreti per un giudizio su quella che potrà essere l’azione che il Governo svolgerà per far fronte alla situazione in cui il paese si trova,

invita il Governo stesso a formulare e ad attuare un organico programma; atto ad avviare la finanza dello Stato al risanamento della situazione di tesoreria ed alla stabilità monetaria».

PRESIDENTE. L’onorevole Marinaro ha facoltà di svolgerlo.

MARINARO. Onorevoli colleghi, come è stato più volte rilevato, durante questa discussione, le dichiarazioni del Presidente del Consiglio, in materia economico-finanziaria, non ci hanno offerto elementi concreti per un giudizio su quella che potrà essere l’azione che il Governo svolgerà per fronteggiare la situazione in cui il Paese si trova.

Per farsi un’idea precisa di questa situazione è necessario avere presente la situazione di tesoreria, la quale risulta gravata da circa 450 miliardi di debiti a brevissima scadenza, da oltre 170 miliardi di residui passivi e da un disavanzo di bilancio veramente impressionante. Secondo le previsioni rettificate alla data del 31 dicembre 1946, il bilancio dell’esercizio finanziario in corso registra spese per 806 miliardi ed entrate per 264 miliardi, con un disavanzo, quindi, di 542 miliardi. Ma è da tener conto che questa valutazione è basata esclusivamente sui dati già acquisiti e sui provvedimenti finora definiti e che, data la forte tendenza all’espansione delle spese, è prevedibile che l’indicato disavanzo di 542 miliardi debba salire notevolmente. Infatti, in luglio si è avuto un deficit di 31 miliardi, in agosto di 29, in settembre di 58, in ottobre di 65; sul metro di ottobre, applicato ai successivi otto mesi, il disavanzo finale sarebbe di 700 miliardi. E dato che si avranno circa 300 miliardi di entrate, il volume della spesa si aggirerà sui 1000 miliardi: il doppio cioè dell’esercizio 1945-46 e circa il 40 per cento del reddito nazionale.

Come si propone il Governo di fronteggiare questa situazione?

Non certo con il ricavato del cosiddetto prestito della ricostruzione, del quale, nel quasi generale silenzio, non mi sembra inopportuno dire una parola franca, senza infingimenti di sorta.

Come è stato osservato, il prestito avrebbe dovuto avere lo scopo essenziale di avviare la finanza dello Stato al risanamento della situazione di tesoreria ed alla stabilità monetaria. A tal fine era indispensabile predisporre l’operazione con la più grande cura, mettere a profitto la tecnica dei veri competenti della materia, e non quella degli improvvisati banchieri, la saggezza dei finanzieri consumati nella pratica quotidiana degli affari e non quella dei teorici; ma prima di tutto era indispensabile creare l’ambiente adatto allo svolgimento dell’eccezionale operazione: occorreva, in una parola, creare l’ambiente di completa, assoluta fiducia. Invece, certi discorsi e certe interviste, se non hanno creato la sfiducia, hanno determinato dubbi ed incertezze. Molti elementi manifestavano indecisione, improvvisazione, incompetenza e inesperienza della materia finanziaria; nessuna sensibilità della psicologia del risparmio; difetto di ponderazione e di studio esauriente; scarso senso di responsabilità per una operazione di tanta importanza.

Il decreto di emissione parla – e poteva trovarsi agevole modo di evitarlo in quella sede – della sovrastampa da farsi di «redimibile 3,50 per cento» sui titoli già stampati con l’indicazione «Consolidato 5 per cento», ciò che dice della incertezza perfino sul tipo e tasso di operazione, che pure era allo studio da tempo, e del mutamento all’ultim’ora, dopo la stampa dei titoli già fatta per centinaia di miliardi.

Una settimana prima del discorso di Milano, l’onorevole Bertone dichiarava all’A.N.S.A. che si era pensato ad un prestito a premi, ma si era poi scartato questo tipo e s’era preferito un prestito senza premi. Si era persino esclusa la conservazione dei premi accordata ai buoni poliennali versati in sottoscrizione per le estrazioni successive «perché sarebbe occorso individuare nominativi, ciò che è in contrasto con i privilegi fiscali»!

Nel discorso di Milano l’onorevole Bertone dichiarò che nulla ormai poteva mutarsi nelle caratteristiche del prestito, il cui decreto era per pubblicarsi. Ma il 7 dicembre – la sottoscrizione si chiudeva il 10 – il Consiglio dei Ministri approvava un decreto per la creazione dei premi prima scartati. L’agenzia economico-finanziaria, sempre bene informata, pubblicò che il nuovo titolo sarebbe stato accettato in pagamento dell’imposta sul patrimonio al prezzo di emissione. Una settimana dopo, l’onorevole Bertone, a Milano, riferendosi alla notizia, escluse assolutamente tale agevolezza, che «stabiliva un circuito che annullava insieme l’efficacia del prestito e della patrimoniale». Quasi che non fossero entrambi in funzione del risanamento finanziario e non fine a sé, ma mezzi al fine. Ognuno vede quale formidabile elemento di successo questa clausola avrebbe portato e quanto avrebbe valorizzato il titolo, agevolando e favorendo la riscossione della patrimoniale.

Manifeste sono, quindi, le cause essenziali dell’insuccesso: la inopinata diminuzione del tasso di interesse, che avrebbe potuto trovare spiegazione soltanto in una revisione generale della politica dei tassi, e che si ripercuote nelle operazioni di anticipazioni contro pegno, in quanto che contro un interesse attivo del 3,50 il cedente di titoli in anticipazione dovrà pagare il 4,60; la mancata accettazione del titolo in pagamento della istituenda imposta sul patrimonio al prezzo di emissione; l’artificiosa distinzione fra imposta reale e personale relativamente ai titoli pubblici, distinzione che non depone a favore della buona fede e della lealtà di un Governo, perché dove la legge non distingue non è ad altri lecito distinguere; le dichiarazioni inopportune fatte da talune personalità responsabili circa il probabile prezzo del titolo a chiusura della sottoscrizione; l’effetto assolutamente controproducente di una propaganda inconsueta, pesante, opprimente, costosissima, male concepita e peggio attuata.

In conclusione, il Governo ha sciupato un predicato magnifico, «della Ricostruzione», per raccogliere la stessa cifra di denaro fresco raccolta dal prestito Soleri, che fu considerato come il prestito «ponte» fra la liberazione e la ricostruzione del Paese.

Se, dunque, questa è stata la sorte del prestito ed il suo modesto ricavato è stato consumato prima della riscossione, è lecito oggi pensare alla emissione di nuovi prestiti, a breve scadenza da quello della ricostruzione?

È lecito sperare nell’afflusso di fondi, per sottoscrizione di buoni ordinari ed attraverso conti correnti, in proporzioni tali da colmare l’ingente disavanzo? È, comunque, sarebbe saggio continuare una politica finanziaria di semplice cassa, basata sull’indebitamento illimitatamente progressivo, anche a prescindere da cause che, per la fluidità delle situazioni, potrebbero chiudere i canali d’afflusso del risparmio?

A queste domande, secondo me, non si può che dare una risposta negativa.

Ed io credo che questa sia anche la opinione dell’onorevole Corbino, che pure ha dovuto fare una politica di cassa.

Egli, infatti, sul «Tempo» del 9 ottobre 1945, dico del lontano ottobre 1945, quando non era ancora Ministro, scriveva queste testuali parole:

«…ci si dirà che alla Cassa bisogna pur pensare; ma fino a quando si potrà fare assegnamento su risorse che sono fatalmente destinate ad estinguersi? Se nel frattempo non saremo riusciti ad afferrarci ad un equilibrio più duraturo, dove andremo a finire? Si potrà vivere in eterno di logorio del patrimonio?

«Ecco il quesito che – privati ed enti pubblici– dobbiamo proporci per salvarci, perché salvarsi è ancora possibile, anche con tutti gli errori finora commessi. Occorre che tutti cooperino a riportare la finanza pubblica a non essere soltanto e soprattutto un problema di cassa, ma un problema del riparto migliore del reddito nazionale fra bisogni pubblici e bisogni privati; ma decorre far presto».

E nel discorso tenuto ai banchieri il 9 febbraio 1946, dopo la sua nomina a Ministro del tesoro, lo stesso onorevole Corbino ebbe a dire, fra l’altro, che «per poco tempo ancora i mezzi liquidi disponibili del Paese dovevano essere convogliati al Tesoro», poiché egli mirava a raggiungere una situazione nella quale, al contrario dell’assurdo congegno per cui lo Stato assorbe i risparmi raccolti dalle banche per investirli, distribuendoli alle industrie, le aziende possono ricorrere direttamente alle banche per il finanziamento. Ed aggiungeva che una volta invertito il fenomeno, si sarebbe iniziata una fase nella quale il Tesoro avrebbe dovuto porsi il problema di restituire alle banche i fondi che queste gli avevano versato.

Non disse come il Tesoro avrebbe potuto fare ciò. Evidentemente, abbandonando quella politica di tesoreria, che egli aveva deprecato col suo articolo del 9 ottobre sul Tempo.

Circostanze di varia natura, sulle quali sarebbe ozioso indugiarsi, non hanno consentito all’onorevole Corbino di attuare il programma che aveva divisato.

Ma oggi, non è assolutamente possibile continuare a considerare la finanza pubblica principalmente, se non esclusivamente, come un problema di cassa.

Essa, invece, deve essere considerata, come appunto pensava nell’ottobre 1945 l’onorevole Corbino, come il problema del migliore riparto del reddito nazionale fra bisogni pubblici e bisogni privati.

Ed allora un’altra domanda viene spontanea. Possono le entrare ordinarie e straordinarie d’ordine fiscale far fronte alla continua espansione delle spese?

Io non so che cosa il Ministro delle finanze e del tesoro si riprometta dalla prossima imposta straordinaria sul patrimonio. Ma ritengo che egli sarebbe ben felice se potesse ricavarne, non dico i 400 miliardi auspicati dall’onorevole Scoccimarro, ma 300, od al massimo 350 miliardi, non riscuotibili, naturalmente, in un solo anno, ma in quattro o cinque anni.

Di più non sarebbe possibile sperare, a meno che non la si voglia concepire – come appunto affermava ieri l’altro l’onorevole Scoca – una vera e propria falcidia sul capitale. E allora dovremmo cominciare con l’usare termini più appropriati: non si tratterebbe più di un’imposta – sia pure straordinaria – ma di una espropriazione.

L’onorevole Scoca sa meglio di me che ogni sana politica tributaria si astiene dal colpire la fonte della ricchezza, ed agisce sempre sul reddito, anche per garantire la continuità del tributo.

Con la falcidia del capitale, di quel capitale, peraltro, che noi sappiamo essere insufficiente alla nostra economia, si rischia di compromettere la stessa possibilità della produzione, la quale, se un bisogno ha in questo momento, è proprio di capitale, tanto che siamo costretti a far ricorso ai prestiti esteri.

D’altra parte, lo stesso onorevole Scoca non ha potuto, nella sua lealtà e competenza, fare a meno di accennare ai turbamenti che una siffatta politica fiscale potrebbe determinare. Turbamenti e squilibri inevitabili, specialmente nella vita delle aziende, dove la diminuzione del capitale incide pericolosamente su tutto il complesso aziendale.

Ora, se questi turbamenti sono previsti, perché dovremmo provocarli, quando già nella nostra economia operano tante altre cause di squilibrio e di incertezza?

Comunque, quali che siano i criteri di applicazione della imposta patrimoniale, le relative entrate potranno colmare soltanto una piccola parte del deficit di un solo esercizio: deficit, purtroppo, destinato a riprodursi negli esercizi successivi, essendo evidente che le spese straordinarie non si saranno esaurite nell’esercizio 1946-47.

Si pensa da molti che alle esigenze del bilancio si debba far fronte inasprendo sempre più la pressione fiscale sulle così dette classi abbienti. Anche in questa discussione, un esponente della Democrazia Cristiana, mi sembra l’onorevole Cappi, ha accennato a questo concetto.

La mia coscienza mi impone di dire al Governo che sarebbe una grave jattura per il nostro Paese se si lasciasse allettare da queste visioni più o meno miracolistiche, perché il risanamento definitivo della nostra situazione dipende, ormai, dopo tutte le distruzioni e le rovine che si sono accumulate sul corpo della Patria, unicamente da quello che è rimasto ancora in piedi della nostra attrezzatura agricola, industriale e commerciale. È necessario che le forze economiche ancora vive e vitali siano lasciate in condizione di rifarsi completamente le ossa, di ricostruire muscoli e nervi, di riprendere una circolazione capace di assicurare un più ampio respiro per portare sul mercato nazionale e su quello internazionale la maggiore possibile quantità di prodotti, di beni di consumo, di beni strumentali. Una saggia politica fiscale non deve inaridire le fonti del gettito, ma colpire solo il reddito. In caso contrario acquista finalità non di carattere tributario ma di ripartizione della ricchezza. Solamente così la vita del Paese potrà avviarsi verso la normalizzazione e ridare al Popolo un minimo di prosperità.

Queste sono verità acquisite alla coscienza comune di tutti gli onesti e di tutti coloro che sono veramente pensosi delle sorti della Patria, cioè del popolo italiano.

Ed allora quale può essere per il Ministro delle finanze e del tesoro una via di uscita per corrispondere alle aspettative della Nazione?

L’onorevole Scoca, ritenendo che la macchina tributaria non funzioni a pieno rendimento, è dell’avviso che una pressione fiscale identica a quella del 1938 possa assicurare 500 miliardi di entrate, che si devono considerare strettamente necessarie.

Ma evidentemente l’amico Scoca non tiene conto che profondamente diversa è l’attuale situazione produttiva rispetto a quella anteguerra. Basta tener presente che per il solo settore industriale la produzione attuale è appena il 50 per cento di quella del 1938. Né purtroppo si possono prevedere immediati miglioramenti di entità tale da raggiungere quel livello rapidamente.

Io dico che la pressione fiscale deve essere portata fino al limite estremo di sopportabilità; ma quando le entrate fiscali, insieme con i debiti, non sono sufficienti a coprire un disavanzo di portata così vasta, come quello di cui ho fatto cenno, allora debbo affermare che i fondamentali principî di onestà politica ed amministrativa esigono che quel disavanzo vada ridotto con taglio inesorabile delle spese.

Si devono sottoporre a revisione le spese pubbliche, eliminando inesorabilmente quelle superflue; si deve riorganizzare la sovrabbondante macchina burocratica che assorbe quasi i quattro quinti delle entrate; si devono riorganizzare, con criteri rigidamente economici, le aziende statali a carattere industriale; si devono rivedere i sistemi di forniture e di appalti; si devono eliminare tutte le sovrastrutture fasciste e di guerra e sopprimere tutte le mangiatoie improduttive.

Intanto, il Ministro del tesoro faccia un’analisi assai rigorosa delle singole voci del bilancio delle spese, come capita spesso a noi componenti della Commissione di finanza e tesoro, e tagli senza riguardo tutto quello che c’è da tagliare ed abbia il coraggio di resistere e reagire, secondo un imprescindibile obbligo di coscienza ed un reale senso di responsabilità, alle richieste di nuovi stanziamenti che tanto facilmente gli pervengono dai suoi colleghi di Gabinetto.

Ed il Governo ed i partiti, indistintamente, abbiano la forza morale di far comprendere agli italiani che quando la Patria, prostrata e dissanguata, non è in grado di dare ai propri figli più di quanto può dare, è vano illudersi che questo di più possa essere ottenuto con agitazioni, con occupazioni di terre, con salari improduttivi, con scioperi a ripetizione, con lavoro a regìa, ed in genere con opere pubbliche finanziate con emissione di carta moneta.

Bisogna richiamare gli italiani, senza paura della impopolarità e senza preoccupazioni elettoralistiche, a quella che è la cruda e dolorosa realtà, perché a poco a poco si vada formando nelle masse il convincimento che bisogna sopportare i sacrifici di questa eccezionale situazione, se si vuole avere davanti la speranza di un avvenire migliore più o meno prossimo.

È necessario, però, che questa politica di imposizioni tributarie e di economie sia svolta in modo unitario e con indirizzo preciso e con precise direttive.

Secondo l’ordinamento tributario dello Stato, soltanto l’Amministrazione finanziaria ha la competenza di prelevare, per i pubblici bisogni, una parte della ricchezza dei cittadini.

Perché questo ordinamento possa funzionare e raggiungere i suoi scopi è indispensabile che il contribuente – il quale rimane sempre lo stesso con la sua capacità contributiva – non sia sottoposto ad un accavallarsi di imposizioni da parte di organi diversi da quello finanziario, che solo può avere una visione il più approssimativamente esatta della situazione economica del paese, e solo può essere in grado di conoscere le capacità di contribuzione che il paese stesso possiede. Se già è un difetto gravissimo, da tutti lamentato e deprecato, quello dell’accumularsi di forme diverse di imposizioni da parte della stessa Amministrazione finanziaria, il difetto viene portato alla esasperazione quando a prelevare dalla ricchezza del medesimo contribuente si aggiungono organi diversi da quello finanziario, creando sovrapposizioni e interferenze, con l’evidente risultato di sconvolgere il sistema e di mettere il contribuente in una posizione di tenace resistenza contro l’azione impositoria costituzionalmente regolare.

Tutto ciò non è l’ultima causa che ha determinato l’accentuarsi del fenomeno delle evasioni fiscali, e non deve, quindi, meravigliare se l’Amministrazione finanziaria non riesca ad adeguare l’imposizione all’effettiva entità della materia imponibile.

Il rimedio delle aliquote sempre crescenti ha fatto fallimento. Ha fatto fallimento il rimedio delle sanzioni sempre più inasprite. Se si vuole finalmente tornare ad un sano sistema di imposizione è necessario che l’attuale ordinamento sia semplificato, che le aliquote siano ridotte e che soprattutto si cessi una buona volta di tormentare il contribuente con imposizioni più o meno improvvisate da parte di organi diversi da quello finanziario.

Mettiamoci bene in mente che la capacità contributiva è quella che è, e che quando al contribuente è stata portata via una certa quota della sua ricchezza da parte di una diversa amministrazione, qualunque possa essere lo strumento del prelievo, egli vorrà rifarsi e si rifarà di sicuro in sede di ordinaria imposizione.

Non parliamo, poi, di talune imposizioni anormali, il cui provento è tenuto fuori di bilancio dello Stato per essere speso in modo più o meno incontrollato ed incontrollabile.

Intendo accennare al provvedimento Morandi sulla imposizione di un diritto fisso del 0,25 per cento su tutti i prodotti e materie prime di importazione e di produzione nazionale, il cui ricavato è destinato al funzionamento di Commissioni e Sottocommissioni.

Intendo accennare al provvedimento Mentasti sull’obbligo del pagamento di lire 300 o 400 il chilogrammo sulle giacenze di formaggio, il cui ricavato è destinato al funzionamento di Comitati e Sottocomitati, alla creazione di un Istituto di ricerca e di sperimentazione, all’assistenza a favore delle provincie produttrici; soltanto all’ultimo momento lo Stato è riuscito ad assicurarsi la partecipazione ad un centinaio di milioni, ben misera cosa, se è vero che sinora il gettito ha superato 700 milioni.

Se i Ministri han bisogno di finanziare Commissioni e Sottocommissioni, Comitati e Sottocomitati per le esigenze dei servizi di interesse pubblico, si provveda con appositi stanziamenti di bilancio; se lo Stato ritiene di creare istituti scientifici e di ricerca tecnico-economica, provveda mediante appositi stanziamenti di bilancio; se lo Stato sente il dovere di assistere popolazioni bisognose di assistenza, provveda mediante appositi stanziamenti e l’assistenza sia distribuita alle popolazioni di tutte le provincie, anche e specialmente a quelle che non avendo una ricca produzione di formaggi, possono trovarsi – per la povertà della loro economia – in condizioni di maggior bisogno. I mezzi occorrenti siano acquisiti attraverso l’imposizione affidata alla amministrazione finanziaria.

E non si emanino provvedimenti – sia pure legislativi – che portino ad una patente violazione della norma contenuta nell’articolo 1° del decreto-legge 7 agosto 1936, n. 1639, che tassativamente prescrive non potersi stabilire alcun tributo, sotto qualsiasi forma, senza il preventivo assenso del Ministro delle finanze. Ed il Ministro delle finanze si ricordi che è suo inderogabile dovere opporsi decisamente a qualsiasi forma di imposizione che non sia nelle linee di una sana e regolare amministrazione finanziaria.

Una caratteristica della politica economico-finanziaria di questi tempi è stata l’incertezza.

Provvedimenti annunziati, rimandati, riannunziati ancora ed ancora una volta rimandati; oppure disposizioni adottate e dopo poco tempo modificate. Quante volte non si è parlato del cambio della moneta? Provvedimento, questo, che si presta, indubbiamente, a discussioni; ma che, comunque, per dare i risultati sperati avrebbe dovuto essere adottato tempestivamente e rapidamente attuato. Non nascondo che nei Paesi presso i quali è stato adottato i risultati sono stati inferiori a quelli previsti. Ma il caso nostro era un po’ diverso.

Fino alla liberazione del territorio nazionale emettevano moneta, senza precisi controlli:

1°) il Governo del sud;

2°) il Governo del nord;

3°) gli Alleati (am-lire).

A queste tre sorgenti di carta-moneta si aggiunsero rilevanti masse di carta affluite in Italia:

  1. a) dall’estero, ove erano rimaste bloccate per effetto di una legge che ne vietava il rientro nel territorio dello Stato;
  2. b) dall’Abissinia e dalle colonie, dopo la perdita di quei territori.

Nacque così il nostro marasma monetario, accresciutosi progressivamente fino a un anno fa: il torchio, infatti, seguitò a funzionare tanto in mano italiana quanto in mano alleata.

Il Governo avrebbe dovuto, innanzi tutto, censire questa ingente massa cartacea, perché senza inventariare, senza misurare il volume della circolazione nessuna seria politica finanziaria è possibile. Ciò non fu fatto, ed oggi quando ci riferiamo alla quantità della nostra circolazione, entriamo nel campo delle previsioni più o meno fondate.

Il cambio della moneta, fatto tempestivamente, di sorpresa, avrebbe dato buoni risultati; l’accertamento della entità della circolazione sarebbe stato assicurato e si sarebbe risolto in un vantaggio per la politica finanziaria.

Ma non basta: ad un certo momento avremmo avuto una precisa situazione – si potrebbe dire situazione fotografica – della distribuzione del denaro; e poiché la proprietà immobiliare è cognita allo Stato, avremmo avuto la possibilità, attraverso il cambio della moneta, di conoscere una volta tanto la vera distribuzione della ricchezza individuale. E così nessun cittadino avrebbe potuto sfuggire ai bisogni della ricostruzione.

Il mancato cambio della moneta ha danneggiato l’economia italiana, soprattutto perché da due anni se ne parla e non si fa mai. Questa notizia è ricorrente: ogni volta i capitali, per occultarsi, fuggono in cerca di investimenti; poi, passato il panico, tentano di ritornare alla luce. È logico che i capitali, così divenuti paurosamente nomadi, turbano l’equilibrio dei prezzi, falsano la domanda dei beni, come falsano l’offerta, incrementano la speculazione per l’accaparramento.

In breve: il mercato già turbato da cause politiche ed economiche diviene ancor più confuso e infido in dipendenza di fatti di origine fiscale.

Ne consegue uno stato d’animo d’incertezza, di timore, di apatia; ed anche questo lato psicologico produce dannosi effetti sul ciclo produttivo.

Comunque, il cambio non si è fatto; e dopo alterne vicende da romanzo giallo, come le ha definite l’onorevole Scoccimarro, dopo che il lancio del prestito fu basato sul cambio della moneta, siamo al punto in cui eravamo due anni fa.

Il Presidente del Consiglio ci ha fatto sapere che quanto prima il Governo prenderà una decisione definitiva.

Ora il cambio ha perduto quella importanza che avrebbe potuto avere se fosse stato tempestivamente adottato e rapidamente attuato.

Non giuoca più l’elemento sorpresa; ed i due principali obiettivi dell’operazione sono stati superati. Infatti, non è più il caso di parlare di blocco di biglietti italiani all’estero, essendo ormai rientrati tutti in Italia; e non è nemmeno il caso di parlare ancora – per lo meno come se ne parlava sino ad un anno fa – di sboscamento di biglietti nascosti – che sono biglietti che gravano sulla circolazione, ma che non circolano – in quanto è noto che una grandissima parte di quei biglietti è stata messa in circolazione dai ceti agricoli (che li avevano nascosti) per acquisti di attrezzi e bestiame.

Non resterebbe che il carico fiscale con cui la moneta dovrebbe essere colpita. Ma a parte le difficoltà per una giusta distribuzione di tale carico mediante il cambio, io penso che non debba essere impossibile escogitare un qualsiasi strumento tributario idoneo a ristabilire la giustizia fiscale, facendo sì che la moneta non dichiarata agli effetti della imposta straordinaria sul patrimonio abbia anch’essa a subire la debita imposizione.

E comunque, si tratterebbe di poca cosa di fronte al sicuro turbamento del mercato ed alla possibilità, di un ulteriore slittamento della lira.

Tutto ciò, però, non impedisce che al di fuori ed al di là di quella che è stata una convinta e leale opposizione dell’onorevole Corbino, si debbano accertare responsabilità di istituti, organi ed uomini che il cambio della moneta abbiano osteggiato, ritardato, impedito o comunque reso impossibile. Ed io mi riservo di sollevare in altro momento la questione.

Mi sembra, infine, opportuno rilevare, che, se il cambio dovesse essere deciso, non potrebbe che essere collegato all’imposta patrimoniale, e dovrebbe essere fatto col sistema di sostituire nuovi biglietti a quelli in circolazione per acquisire i nominativi dei portatori di circolante e l’importo del circolante da ciascuno posseduto e da comprendere nel patrimonio tassabile a suo carico, salvo il prelievo immediato di una certa percentuale in conto dell’onere dell’imposta stessa.

Se poi il cambio dovesse essere definitivamente abbandonato – come è augurabile – e non fosse escogitato un altro mezzo tributario per colpire la moneta, bisognerebbe, necessariamente, per evidenti ragioni di giustizia, esentare dall’imposta patrimoniale i depositi bancari ed i titoli di Stato, non essendo ammissibile che siano colpiti proprio coloro che invece di tenere il denaro nel cassetto lo hanno affidato alle banche per impieghi produttivi o allo Stato per i bisogni del Tesoro.

In quest’ultimo caso s’impone una sollecita decisione: si dica subito chiaramente e definitivamente che il cambio non si farà, e si dia la prova che si è rinunciato al cambio, mettendo in circolazione i nuovi biglietti.

L’onorevole Di Vittorio ha fatto colpa al Governo di non avere adottato una politica atta ad impedire l’ascesa dei prezzi che è causa di maggior disagio per le classi lavoratrici.

Non c’è dubbio che questo problema, sfuggito dalle mani del Governo sin dal primo momento, non è stato poi mai ripreso e decisamente affrontato.

Ma io penso che la grave situazione che si è venuta a creare sia in gran parte il risultato del sistema che si è seguito di legare i prezzi ai salari, in modo che questi si adeguino costantemente a quelli.

Ed in verità, specialmente nell’anno scorso, ad ogni variazione dei prezzi si è voluta far corrispondere una variazione, pressoché uguale, dei salari.

Questo sistema, evidentemente pericoloso, ha aggravato la situazione alimentare, ha inasprito i prezzi, ha reso più inadeguati i salari ed ha esercitato i suoi perniciosi effetti sull’inflazione.

È un giro vizioso; l’aumento del salario accresce il costo del prodotto; il maggior prezzo di vendita di questo esige l’ascesa del salario e così via.

L’onorevole Scoccimarro su questo grave problema si è limitato ad affermare che, «di fronte all’aumento dei prezzi, il Governo ha sempre una leva da manovrare: quella dell’aumento della produzione».

Ma a parte la considerazione che non sembra che tale leva abbia mai funzionato, tanto vero che i prezzi son sempre saliti, è da tener conto che un aumento della produzione è possibile quando tale aumento possa contare su uno sbocco nel mercato internazionale.

Ora, invece, è noto che la nostra affermazione sui mercati esteri è ostacolata dai prezzi interni, troppo elevati, che rendono difficoltosa la nostra esportazione soprattutto nei riguardi di quei Paesi nei quali si sta verificando una forte tendenza al ribasso. Le condizioni per l’incremento della produttività nazionale sono costituite dalla stabilità dei prezzi interni, cui invece ostano le continue alternative salariali. Tali inconvenienti vengono lamentati soprattutto dai negoziatori esteri, i quali, mentre offrono produzione a prezzi stabilizzati, ricevono controfferte a prezzi variabili, di cui soprattutto notevoli le variazioni intervenute per i recenti accordi salariali e quelle che si prevedono per il notevole aumento della indennità di contingenza.

Caposaldo di una positiva azione governativa deve essere la stabilizzazione dei prezzi, come si viene facendo in altri Paesi e specialmente in Francia e negli Stati Uniti.

In Francia si sono avute diminuzioni di prezzi in una con gli aumenti delle ore settimanali lavorative; negli Stati Uniti è stata abbandonata tutta la bardatura governativa costituita dalla così detta O.P.A. (Organizzazione controllo prezzi).

Ma, bisogna riconoscere, che aumento della produzione, stabilizzazione dei prezzi, sbocco dei nostri prodotti nel mercato internazionale, benessere dei singoli e della collettività sono tutte cose magnifiche che si possono realizzare soltanto in un regime di cordiale collaborazione fra capitale e lavoro.

Qui dentro è stato detto: «colpire l’iniquità capitalista, fonte di sciagure del nostro Paese».

Frasi vecchie, onorevole Nenni, che hanno fatto il loro tempo e sono state abbandonate dallo stesso stile della più licenziosa demagogia. Oggi, nella realtà della vita democratica non v’è che una sola parola che riassume le supreme esigenze della convivenza sociale.

Questa parola è collaborazione: fra tutte le classi, fra tutti i ceti, fra tutti gli individui. Noi la invochiamo, questa collaborazione, con fede sicura nella rinascita dell’economia del Paese e nella pace e nel benessere sociali. (Applausi).

Svolgimento di una interpellanza.

PRESIDENTE. L’onorevole Presidente del Consiglio ha dichiarato di essere pronto a rispondere alla seguente interpellanza presentata in una delle precedenti sedute dall’onorevole Grilli:

«Interpello il Presidente del Consiglio sui risultati della inchiesta già promessa in risposta alla interrogazione urgente svolta nella seduta del 10 corrente, a proposito dell’accusa di corruzione ad un Ministro contenuta nel settimanale L’Europeo del 9 corrente, tanto più che un altro giornale si è permesso di precisare l’accusa suddetta gettando discredito sopra un membro del Governo».

L’onorevole Grilli rinuncia a svolgere la sua interpellanza, riservandosi di replicare dopo le dichiarazioni del Presidente del Consiglio.

L’onorevole Presidente del Consiglio ha facoltà di parlare.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il settimanale L’Europeo del 9 corrente ha pubblicato un articolo a firma di Luigi Barzini Junior, nel quale si raccontava di un parrucchiere che alcuni giorni prima gli aveva narrato di un grande industriale dell’alimentazione che, in procinto di avere un’assegnazione di materia prima, si sarebbe sentito chiedere dal Ministro personalmente 40 milioni. L’industriale – scrive il Barzini – fatti i conti, aveva rifiutato, e l’assegnazione sarebbe andata ad un’industria concorrente.

Nell’articolo non è precisato il nome del Ministro, né sono dati altri particolari che possano servire per individuare il fatto denunciato.

In seguito alla presentazione dell’interpellanza dell’onorevole Grilli, il Barzini si affrettava a pubblicare nel Globo del 12 corrente un corsivo che, col pretesto di una interpretazione esatta dell’articolo, lo ritrattava. Ciononostante il Barzini fu formalmente invitato dal Questore a fornire nomi e precisazioni; ma egli si limitò, nonostante le insistenze fattegli dal funzionario, a far mettere a verbale la seguente dichiarazione: «L’aneddoto da me raccontato nell’articolo sull’Europeo è realmente avvenuto. Della sua veridicità o meno, non è questione». Dal contesto risulta anche che l’autore ne dubita. Ma l’autore, davanti all’enormità di questo «sentito dire», ha voluto segnalarlo, per dare la sensazione alle autorità e al Governo fin dove arriva il pubblico clamore circa uno stato di fatto ampiamente descritto anche dall’onorevole Conti nella seduta del giorno 10 alla Costituente.

In sostanza, continua il verbale di Barzini, «io volevo dire che l’Italia è piena di queste voci di corruzione e di continue interferenze sugli affari, e di fronte a questo dilagare di voci, giornalisti e cittadini ci sentiamo impotenti a portare una chiarificazione, per il fatto che gli industriali ed i commercianti trovano più comodo perpetuare questo stato di fatto, anziché denunciarlo, per evitare di essere incriminati insieme con le persone che avevano speculato.

«L’articolo, quindi, è inteso a segnalare sia l’enormità delle voci, sia l’impossibilità di provarle, quanto l’esistenza di uno stato di fatto, certamente non così grave come l’ampiezza delle voci tenderebbero a farlo credere.

«Non credo opportuno di fare precisazioni individuali, né di cose che potrebbero risalire alle persone, in quanto io ho inteso soltanto di raccogliere una voce e di gettare l’allarme su questo fenomeno, ma, non essendo sicuro del fatto, ritengo superfluo ogni dettaglio».

Ora io non posso non deplorare pregiudizialmente la leggerezza con la quale si lanciano accuse di una tale gravità. La stampa ha il diritto e il dovere di denunciare all’opinione pubblica e al Governo fatti di corruzioni ed altre manchevolezze dell’Amministrazione pubblica, ma deve adempiere a tale sua funzione assumendo la responsabilità di ciò che denuncia, dando modo agli organi competenti ed agli incolpati di accertare i fatti. Il Barzini, invece, dopo avere denunciato un caso di corruzione di un Ministro, invitato a precisare, si è ritirato sulla più cauta e più comoda linea della denuncia di voci di corruzioni.

L’unico dato concreto, però, che risale all’ambiente Barzini, ha già consentito alle nostre indagini di escludere perentoriamente che un Ministro abbia personalmente trattato operazioni di assegnazioni del genere, le quali vengono discusse ed elaborate in Comitati costituiti di funzionari delle amministrazioni ed uffici interessati, nonché di rappresentanti industriali e commerciali.

Tuttavia, per la tutela del buon nome dei funzionari e di quanti a tali operazioni comunque partecipino, intendo allargare le indagini al di là della responsabilità personale dei Ministri, e mi riservo di presentare, ad inchiesta finita, un rapporto completo all’Assemblea. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole interpellante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

GRILLI. Se dicessi che riprendo volentieri la parola sulla materia della mia precedente interrogazione, direi una cosa non vera. Lo faccio, perché mi sento costretto a rimescolare questo fango. Quando il Presidente del Consiglio promise che avrebbe fatto una severa e rapida inchiesta, io risposi augurando che questa inchiesta si facesse sul serio ed il Presidente del Consiglio replicò che in questa materia ha sempre fatto sul serio.

Oggi ci ha detto che cosa ha fatto per questa inchiesta, e quali sono stati i risultati; ma io francamente non sono sodisfatto, non tanto per me, quanto per il Ministro accusato, che voi non dovete lasciar assolvere per insufficienza di prove.

Voci al centro. Chi è?

GRILLI. Io avrei aspettato questa risposta dal Presidente del Consiglio, fiducioso nella sua probità; avrei atteso ancora, se non fosse venuta in questo frattempo altra stampa a raccogliere la diceria dei 40 milioni e, badate, non più a riferire le chiacchiere di un barbiere, ma a formulare un’accusa precisa, indicando il nome del Ministro. È a questo punto che io mi preoccupo, come cittadino e come deputato; e dico: qui bisogna andare in fondo. Perché io proposi questo dilemma l’altra volta, e lo ripeto anche oggi: noi abbiamo bisogno di sapere se c’è un Ministro corrotto o una stampa calunniatrice.

Non bisogna aver paura dello scandalo: lo scandalo è un po’ come l’intervento chirurgico, fa male quando il ferro tocca la piaga, ma poi finisce sempre col sanare. Pericoloso è invece il silenzio che può essere scambiato per omertà.

Non possiamo assumere l’atteggiamento del superuomo, scrollare le spalle e tirare innanzi; questo si può fare quando si tratta di accuse di carattere politico, anche se ferocissime, o quando si tratta di semplici ingiurie, le quali offendono soltanto quando scendono dall’alto e non quando salgono dal basso.

Ma quando si tratta di accuse che investono l’onore, con fatti precisi e determinati, bisogna avere la pazienza di soffermarsi a raccoglierle e a discuterle, altrimenti la gente può dire: «Dunque è vero».

Io non credo alla verità dell’accusa; ma ho bisogno di una parola precisa su questo punto, non per me, ma per il popolo italiano. Quando, parecchi anni fa il Ministro Depretis fu accusato di sguazzare nel fango fino al collo, egli bonariamente corresse e disse: «No, no fin qui» indicando – racconta il Carducci – il labbro inferiore dal quale calava la barba veneranda. Ma si trattava di fango politico. Quando invece si tratta di fango morale, anche se tocca appena il piede bisogna liberarsene e subito.

Ad ogni modo, io avevo posto il dilemma: o un Ministro corrotto, o una stampa calunniatrice. Non tocco il primo punto, perché, se, Dio ne guardi, questa accusa fosse vera, siamo tutti d’accordo su quelle che potrebbero essere le conseguenze. Ma mi occupo del secondo corno del dilemma, che si tratti cioè di accusa falsa e infondata, e domando al Governo che cosa vuole fare di questa stampa disonesta che, forse per fini politici, attacca le persone dei Ministri per attaccare il Governo.

Mi preoccupo non tanto per quello che è avvenuto ieri, quanto per quello che potrà avvenire domani, perché badate: non è difficile che dell’avvenire, specialmente in questo fervore di lotta politica, ve ne attacchino altri dei vostri Ministri, per screditare il Governo. E sapete perché? Perché colle sanzioni che esistono oggi, per la stampa disonesta (e parlo soltanto della stampa disonesta, perché alla stampa onesta invio il mio reverente saluto di cittadino e di deputato) per la stampa disonesta campagne di questo genere, signori, sono sempre ottimi affari.

Mi spiego con un esempio. Prendete un giornaletto qualunque, nato da poco, magari da genitori illegittimi; un giornaletto che abbia bisogno di farsi la réclame, che abbia bisogno di lettori. Ma, sapete che non c’è niente di meglio e di più adatto che campagne di questo genere? Perché, da un lato, sodisfano la curiosità sana e malsana della gente, dall’altro circonfondono il giornale di una aureola di coraggio civile. Questo è l’attivo.

Ed ora vediamo il passivo.

Se questi giornali disonesti trovano un Ministro che scrolla le spalle e tira avanti, allora la réclame è gratuita; non solo, ma, siccome l’impunità accredita l’accusa, si formano un capitaletto che possono mettere da parte per la prossima occasione.

Supponiamo invece che si trovi un Ministro il quale ricorre al giudice. Cosa può fare? Non può fare altro che una querela per diffamazione. Se il giornalista che ha scritto l’articolo inviasse per posta espressamente al Ministro copia del giornale, si potrebbe entrare nell’oltraggio, altrimenti non c’è che la querela per diffamazione. Ora, voi sapete che cosa sono questi processi nei quali, in definitiva, il vero imputato è il povero querelante, contro il quale si aguzzano gli sguardi della difesa, mentre l’imputato siede al suo banco con la posa dell’eroe e del martire politico, assistito da quella parte di pubblico (ed il pubblico è sempre un personaggio importante nel dramma giudiziario) che desidera la sconfitta del querelante. Ed intanto il giornale continua a farsi la réclame. Si viene poi alla condanna. Si può trovare un giudice il quale sceglie fra le due specie di pene stabilite dall’articolo 595 del Codice penale, la reclusione o la multa, e sceglie la multa che ha un minimo di 5 mila lire, somma questa che poteva fare impressione quando fu fatto il Codice, ma che oggi qualunque borsaro nero porta nella tasca dei pantaloni. Se con qualche diecina di migliaia di lire l’imputato se la cava, il giornale ha realizzato un magnifico affare, perché, se si fosse fatto la réclame con cartelli pubblicitari e commessi viaggiatori avrebbe speso molto di più.

Si può trovare invece un giudice che sceglie la pena detentiva, la reclusione che va da sei mesi a tre anni. Voi sapete come, specialmente la prima volta, il magistrato, si stacchi poco dal minimo e non neghi quasi mai una condanna condizionale; ma supposto anche che l’imputato possa prendersi più di un anno, il gerente responsabile condannato, che il più delle volte è – perdonatemi la frase volgare – un Pinco Pallino qualsiasi, va in carcere con l’aureola del martirio e non c’è niente di strano che trovi poi un partito politico che lo porti candidato, al Parlamento. Ed intanto il giornale continua a farsi la réclame!

Bisogna provvedere. Ho visto un progetto di legge inteso a portare questi processi al tribunale per «direttissima». Non serve a niente, non basta: la «direttissima» è una parola che fa impressione, ma noi pratici di queste cose, sappiamo quel che accade. Anzitutto c’è un articolo del Codice di procedura penale che dà diritto all’imputato di domandare un rinvio, ed intanto il giudizio direttissimo diventa diretto; poi, in processi di questo genere, nei quali la difesa ha diritto alla prova dei fatti, c’è sempre bisogno o di testimoni o di documenti che non si possono trovare subito, e nessun giudice negherebbe un altro rinvio per modo che anche il diretto diventa un… omnibus che si ferma in tutte le stazioni!

Non basta questo, signori del Governo: occorre – e mi rivolgo ai legislatori che preparano la nuova legge sulla stampa – aggravare le sanzioni non tanto coll’aumentare la multa od il carcere, quanto col colpire il giornale. Perché no? Io non parlo contro la libertà di stampa; parlo contro la libertà di abusare della stampa per commettere reati (Approvazioni). Ora che si è ristabilita la facoltà di prova che il Codice Rocco aveva abolita, la stampa è chiamata a collaborare per la moralizzazione della vita pubblica. Ma appunto perché non si confonda la stampa onesta con quella disonesta, la quale, con la scusa della moralizzazione, offende gli uomini per offendere poi le istituzioni, occorre mettere questa stampa disonesta in condizioni di non nuocere. Bisognerebbe poter concedere per lo meno al magistrato la facoltà, nei casi di evidente malafede, nei casi cioè in cui l’imputato non sia in grado di fornire la prova, quando insomma il querelante risulti innocente, bisognerebbe, dico, concedere al magistrato la facoltà di sospendere e, nei casi di recidiva, di sopprimere anche il giornale. Non si abbia a male la stampa onesta di questo, ma ne sia anzi lieta: siccome la stampa ha una altissima funzione, bisogna anche che abbia una altissima responsabilità. E intesa in questo senso, soltanto in questo senso, la libertà di stampa rimane uno dei più nobili e sacri diritti della nostra civiltà. (Applausi).

D’ONOFRIO. È vero, onorevole De Gasperi, che esiste una dichiarazione di Luigi Barzini, il quale si vanta di aver fatto la spia a favore del nazismo? (Commenti).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Può essere che ci sia: ma non la conosco, non ne ho notizia.

PRESIDENTE. L’onorevole Presidente del Consiglio ha chiesto di replicare. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Io ho chiesto, in fondo, un supplemento delle indagini; ho chiesto del tempo per potervi fare un rapporto completo. Non basta, infatti, che noi riusciamo ad escludere la responsabilità personale dei Ministri; bisogna che cogliamo questa occasione per vedere se è possibile togliere ogni fondamento a queste voci che continuano ad inquinare la nostra vita pubblica e a gettare un’ombra, un sospetto, sulla nostra amministrazione, che spero, e credo, non meriti.

Se il Barzini avesse detto chiaramente di che si tratta, di che materia e di quali persone, questa occasione poteva essere fortunata e decisiva. Non l’ha detto, non l’ha voluto dire, per quanto io l’abbia fatto citare dal Questore; il quale, essendo il Barzini ammalato, si è dovuto personalmente disturbare ad andarlo a visitare. Il Barzini, dunque, non ha voluto assumere questa responsabilità, cosa assai deplorevole. Tuttavia, dagli ambienti del Barzini, è uscita una voce che ci ha dato un certo filo da seguire; e le indagini che ho iniziate e fatto iniziare riguardano precisamente quelle operazioni che possono essere indicate dalla materia nominata.

Io ho intenzione e fermo proposito di riferire alla Camera, in dettaglio, su tutte queste cose; ma, poiché vorrei, oltreché giungere al risultato, di cui non ho dubbio, che i Ministri rimangano completamente illesi da questa accusa, arrivare anche a dire altrettanto di tutta l’amministrazione e dei funzionarî, l’Assemblea comprenderà che debbo chiedere un differimento, senza entrare ora in particolari che evidentemente incepperebbero l’inchiesta che intendo di fare col concorso dei Ministri.

Ecco perché ho preso questo atteggiamento.

L’interrogante ha fatto accenno ad un altro giornale. Egregi colleghi, vi sono giornali che escono adesso, libellistici, tanto da una parte che dall’altra, dei quali veramente non si può occuparsi, a meno che non riportino esattamente fatti e prove. Ho visto uno di questi giornali, che non è quello a cui l’onorevole Grilli si riferiva ieri, che riportava un articolo: «De Gasperi eguale a traditore», per tre colonne, in cui dimostrava che io avevo tradito in America l’Italia, vendendola all’America, e che lo avevo fatto per profitto, per ordine del Vaticano. (Proteste – Commenti).

Volete che un uomo, il quale viene toccato nel più intimo del suo dovere, dopo aver servito la Patria per tanto tempo, si curi di questo fango che viene dalla strada? (Vivissimi generali applausi). Vi sono giornali che escono a Roma ed in altre città, che hanno perduto ogni pudore ed ogni diritto di venir presi sul serio.

GRILLI. Colpiteli.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Li colpiremo naturalmente. Ci aiuterete a colpirli con una buona legge sulla stampa. Su questo sono d’accordo. Stiamo per presentarvi una legge sulla stampa, che vi prego di eventualmente inasprire, ma non attenuare, con richiami alle dichiarazioni generiche sulla libertà di stampa, che già avete fatto nel testo della Costituzione. Comunque, aderisco già in anticipo a quelle misure che possono salvare i galantuomini e le istituzioni che meritano tutto il rispetto, e specialmente la massima istituzione politica nostra: la Repubblica.

Però, devo aggiungere che l’accenno fatto a quell’altro giornale non merita molto rilievo, anche perché quest’altro giornale, che non nomino, parla di tutt’altri fatti, attribuendoli allo stesso Ministro. Parla dei 40 milioni, ma dice: «un ricatto pulito ed elegante da progressivo evoluto», perché l’attacco è tutto diretto contro la categoria a cui appartiene il Ministro. L’industriale aveva bisogno di una concessione per esportare qualcosa all’estero. L’accusa del Barzini è diversa: si tratta di assegnazione di materie prime importate. Poi, qui viene descritta la storia in modo innominabile e inqualificabile. Il Ministro ha fatto sapere che la concessione era pronta, firmata e messa a posto; però, doveva dare 40 milioni. Domando se un galantuomo come il Ministro di cui si parla, un galantuomo che ha lavorato in tutta la vita con senso di onestà e rappresentando gli interessi dei meno abbienti, deve proprio esporsi alla calunnia di fronte ad un giornale di questo genere e con questi dati. (Approvazioni).

Egli mi ha chiesto ancora ieri, appena ha visto questo giornale, il permesso di dare querela. Io ho detto di no. Voi stessi sapete quali sono le conseguenze per una querela in questo senso. Egli ha insistito ed ho risposto: «Mi richiamo ai colleghi nel Consiglio dei Ministri. Ne riparleremo».

Ma dico che avrei assunto la responsabilità di dire di no, perché bisogna avere il coraggio di dire che quando si tratta di galantuomini, e si crede che siano galantuomini, (e per essere proprio al sicuro di ogni malalingua, si va a dimostrare) si trova che ciò era impossibile materialmente:

1°) perché il fatto di cui si tratta non è nemmeno avvenuto, non essendo stata fatta né all’uno né all’altro l’assegnazione, che è ancora in sospeso;

2°) perché queste assegnazioni avvengono dopo una elaborazione, in comitati, dei quali fanno parte vari rappresentanti dei Ministeri e delle categorie interessate.

Ciò vale tanto riguardo al Ministero dell’industria, che riguardo al Ministero del commercio estero. Ora, quando si hanno queste garanzie, mi pare che si possa tranquillamente parlare di una calunnia. Perciò, si tratta nel primo caso di una insinuazione calunniosa, che non aveva dato nemmeno elementi tali da poter fare una seria inchiesta, se, aggiungendo altre ipotesi, non avessimo seguito una certa traccia su cui localizzare l’indagine. Infatti, quando si parla di un’assegnazione generica, essendo centinaia le assegnazioni, diventa impossibile ricercare in ogni singolo caso se vi sia stata frode.

Comunque, accetto di collaborare, con tutto lo spirito che esige la difesa dell’onore, ad una legge sulla stampa, che sarà portata fra poco dinanzi a voi. È necessario che questa legge renda impossibile la vita a certi giornali i quali vivono solo di questi scandali (Applausi), e che abbia un certo stile, da impedire a coloro che lanciano la freccia di nascondere la mano. (Applausi generali).

PRESIDENTE. L’onorevole Grilli ha chiesto di parlare. Ne ha facoltà.

GRILLI. Il Presidente del Consiglio afferma dunque di aver raggiunto la convinzione assoluta dell’innocenza del Ministro. Io ne sono felicissimo ed accetto questa sua dichiarazione.

Egli ha aggiunto, però, che continua l’inchiesta, la quale dovrebbe continuare per colpire la stampa calunniatrice. Siamo d’accordo anche su questo.

Ebbene, l’Europeo di ieri annuncia che farà pure un’inchiesta per suo conto.

Io mi auguro, come Deputato, di non dovere, fra qualche tempo, dichiararmi più sodisfatto dell’inchiesta dell’europeo che di quella del Presidente del Consiglio. (Commenti).

Presidenza del Vicepresidente TUPINI

Si riprende la discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri. L’onorevole Quintieri Quinto ha facoltà di svolgere il seguente ordine del giorno, firmato anche dagli onorevoli Lucifero, Cortese, Morelli Renato, Badini Confalonieri, Bonino, Martino Gaetano, Condorelli:

«L’Assemblea Costituente ravvisa nella difesa della moneta nazionale il primo scopo della politica economica del Governo, perché senza stabilità della lira, cioè senza costanza del potere di acquisto dell’unità monetaria, non ci sarà tutela per il risparmio, specialmente per il risparmio delle classi meno abbienti, né possibilità di proficuo lavoro e di organizzazione del lavoro, ma solo disordine e speculazione;

ritiene che gli inevitabili sacrifici, ai quali dovrà essere a tale scopo chiamata ogni classe di cittadini, nella misura delle proprie forze, debbano essere al più presto precisati per togliere il Paese da uno stato di incertezza pernicioso per la produzione;

raccomanda che delle risorse finanziarie così ottenute venga fatto l’uso più oculato e palese attraverso la pubblicità dei bilanci, al fine di dare agli italiani la certezza che il loro sforzo non resterà sterile, ma varrà, con la stabilità del valore della monda, ad allontanare effettivamente le incognite che pesano sul loro avvenire».

QUINTIERI QUINTO. Poche parole, per due motivi: perché l’ordine del giorno è abbastanza chiaro e la discussione è durata a lungo, e perché sulle comunicazioni finanziarie del Governo è stato detto presso a poco tutto quello che si poteva dire e molte delle osservazioni, che dovrebbero oggi appoggiare l’ordine del giorno presentato da me, sono state fatte anche da altri settori della Camera.

Non posso non rilevare che proprio oggi, dal settore a me di fronte, l’onorevole Lombardo ha espresso delle idee che, in una larga percentuale, vorrei dire per 1’80 per cento, potrei accettare, e, probabilmente, potrebbero accettare anche i miei colleghi di gruppo.

Anche dall’onorevole Marinaro sono state fatte delle osservazioni giuste. Non starò dunque a riprendere ed a svolgere, in una forma completa e organica, l’ordine del giorno, per non ripetere cose già dette. Farò soltanto talune osservazioni.

Noi deprechiamo, quanto gli altri, che al lavoro serio, onesto, produttivo, siano subentrati, in molti campi, la speculazione, il giuoco e ogni specie di manovra più o meno fraudolenta. Il deprecarlo, lo stigmatizzarlo, come è stato fatto, mi sembra però che non basti, perché bisogna precisare come e perché questo lavoro concreto, così caratteristico nei nostri ceti industriali, agrari e commerciali, sia stato sostituito invece dalla sterile speculazione e dal giuoco disonesto. Ora è evidente che la svalutazione monetaria, che è stata una delle più gravi conseguenze del disastro economico del nostro Paese, ha influito ed è alla base della speculazione e del giuoco.

Porterò alcuni esempi: come volete che oggi l’industriale pensi all’avvenire, pensi ad organizzare, con sforzi penosi e lunghi un lavoro redditizio in una industria, quando gli è assai più semplice incettare, fare acquisti di un determinato quantitativo di prodotti ed aspettare che tranquillamente, lentamente, senza fatica da parte sua, la svalutazione della moneta porti nelle sue tasche quello che ha tolto alle tasche di altre categorie di persone?

Ecco una delle cause essenziali per le quali non possiamo creare delle condizioni normali di lavoro, sia nell’industria che nel commercio, oggi che la svalutazione del denaro falsa una quantità di aspetti della vita economica italiana.

Ho detto prima che non avrei svolto in una forma organica il mio ordine del giorno, per non ripetere cose note o già dette ed avrei semplicemente accennato ad alcune situazioni caratteristiche della nostra attività produttiva. Vengo per esempio all’agricoltura. La svalutazione del denaro ha tolto l’agricoltura italiana da quelle difficoltà, da quello stato di penoso disagio, nel quale il quinquennio 1930-35 l’aveva fatta piombare. Per cinque o sei anni gli agricoltori non sono riusciti a fare le spese di esercizio e a pagare le tasse.

Poi, nel decennio seguente, una lenta, continua e, da ultimo, vertiginosa ascesa dei prezzi, non accompagnata dall’adattamento ad essi delle tasse, ha dato la sensazione che dalla terra potesse scaturire una sorgente perpetua di ricchezza e quindi ha fatto sorgere il desiderio, logico e umano, di meglio distribuirla. Questa è una apparenza del tutto fallace, dovuta anche al fatto che gli agricoltori hanno prodotto a determinati prezzi ed hanno venduto a prezzi costantemente crescenti; dovuta al fatto che il gravame tributario non ha tempestivamente seguito la celere e progressiva svalutazione della lira; oltreché alla scarsezza dei viveri, per la quale i generi alimentari sono stati venduti, in un certo senso, all’incanto e non a prezzi proporzionati a quelli di costo. Quando le ordinarie imposizioni che gravano sulla terra, quando i costi delle varie colture si saranno messi in armonia con quanto si ricava dalla vendita dei raccolti, si vedrà subito come l’agricoltura in Italia non sia una miniera d’oro e che la pretesa sperequazione della ricchezza terriera è fenomeno soprattutto contingente e non ha base nella realtà dei fatti.

Ho citato l’agricoltura perché di essa si parla molto in relazione con la possibilità di una migliore ripartizione di questa forma di ricchezza, e non si vede quale sforzo di lavoro e di capitali l’agricoltura richiederà, quando quelle condizioni del tutto fugaci di questi ultimi anni saranno venute a cessare.

Ma oltre a questi settori ce ne sono altri, in cui la svalutazione del denaro ha profondamente alterato la reale consistenza delle situazioni patrimoniali. L’iniquità di questa variazione della capacità d’acquisto della moneta ed il danno che ne viene a determinate categorie sociali è dimostrato da alcune cifre.

Voi sapete che avevamo, alla fine del 1939, circa 95 miliardi di depositi nelle banche e nelle Casse di risparmio postali. In queste ultime i depositi erano 35 miliardi, oggi sono 150. Il coefficiente di moltiplicazione è di appena 4 volte, mentre il denaro si è svalutato da 25 a 28 volte. Il valore reale dei crediti dei depositanti nelle Casse di risparmio postali ha dunque subito la maggiore contrazione. Viceversa, i depositi bancari sono saliti da 61 a 670 miliardi, il che prova come per questa categoria di risparmiatori la formazione di nuovo risparmio sia stata molto più rapida.

La svalutazione del denaro ha quindi soprattutto ridotto l’ammontare del risparmio delle classi meno abbienti, fra le quali più lenta è stata la formazione di nuovo capitale.

Fra i tanti motivi che abbiamo di frenare lo slittamento della moneta c’è appunto quello della necessità di stimolare al massimo il risparmio di queste categorie meno abbienti.

Ma che cosa è possibile fare in questo momento per arrestare il processo di svalutatone? Due sono gli ordini di provvedimenti possibili: il primo è l’aumento della produzione, superando tutte le difficoltà che tale aumento comporta; l’altro è lo spostamento, in misura maggiore che non in passato, da alcune categorie di cittadini allo Stato, dei beni prodotti, o più esattamente dell’equivalente monetario di tali beni.

L’aumento della produzione nazionale si ricollega con un complesso di difficoltà enormi che bisogna superare.

L’osservazione che ci viene suggerita dalle cifre è che abbiamo, per sistemare la nostra mano d’opera, per vincere le difficoltà d’impiego di tutte le forze del lavoro, per così dire, diluito l’attività delle diverse aziende che sono alla base del nostro sistema produttivo; quindi i margini di utile netto di un gran numero di aziende si sono andati riducendo sempre più in questi anni.

Citerò a questo proposito la situazione bancaria. I tre Istituti di interesse nazionale, che rappresentano la parte più viva del nostro organismo bancario, e che nel 1945 hanno avuto 4 miliardi di spese, hanno guadagnato soltanto 23 milioni: cioè il mezzo per cento dell’ammontare delle spese. La riduzione degli utili potrebbe avere una giustificazione, se ad essa corrispondesse la bontà del servizio per i risparmiatori. Ma l’interesse è basso per chi deposita il denaro, mentre coloro che ricorrono alle banche per ottenere finanziamenti pagano un interesse altissimo: e questo è un grave inconveniente.

La situazione patrimoniale delle banche non è quindi rafforzata da margini di utile sufficienti e tali da consentire la ricostituzione graduale del capitale decurtato dalla svalutazione del denaro.

Ciò è dovuto in parte alla esuberanza di personale, che diventa difficile utilizzare in pieno. La stessa esuberanza di personale esiste in tutte le aziende che fanno capo allo Stato, ed anche in molte aziende private. Un complesso di pressioni e di azioni coercitive ha cercato di fare assorbire al massimo la mano d’opera, sia in agricoltura che nell’industria.

Se non facciamo uno sforzo, perché questa manodopera, invece di venire coattivamente assorbita da determinate aziende che non possono impiegarla utilmente, venga avviata a lavori veramente produttivi, ci troveremo costantemente di fronte ad imprese, le quali assorbono completamente tutto quello che producono e non danno nessun margine di utile netto, su cui lo Stato possa fare affidamento per i suoi bisogni.

Concludendo, dall’attuale complesso delle attività della Nazione, che lavorano con margini di utili relativamente modesti, non credo si possano trarre quegli 800 o 900 miliardi richiesti per il nostro bilancio, i quali corrispondono ad oltre un terzo, o forse al 40 per cento, del reddito nazionale.

Solo una parte di una cifra simile potrebbe veramente essere tolta al reddito del Paese, se non si vuole alterare profondamente tutta l’organizzazione della nostra produzione inaridendone le fonti.

Se cercheremo davvero di prendere per le spese dello Stato una parte così forte del reddito della collettività, non ci resterà che l’artificio monetario, al quale, prima o dopo, saremo costretti ricorrere.

Mi sembra che buona regola dovrebbe essere non di proporzionare le spese ai desideri ed ai bisogni, ma alle effettive entrate. Si tenga conto che una esagerata pressione fiscale finisce col ridurre rapidamente le entrate e fa sì che parte notevole dell’attività dei cittadini si svolga esclusivamente attraverso degli artifici ed in evasione alla legge, e che, mentre l’attività economica che resta nel campo legale finisce col lavorare press’a poco senza utile, la parte più proficua è quella che si svolge in contrasto con la legge ed al di fuori di essa.

Penso che il nostro bilancio per il prossimo esercizio dovrebbe essere contenuto nel limite massimo di 500-600 miliardi, perché potrebbe diventare profondamente pericoloso per la moneta superare questo limite.

Dobbiamo riflettere che, in qualunque modo lo Stato prenda questo denaro, sia con le tasse, sia con i prestiti, sia attraverso qualsiasi altro artificio, sia pure l’artificio monetario, si tratterà sempre di assorbire un’aliquota della produzione che dovrà conservare un rapporto ragionevole con la massa totale dei beni prodotti nel Paese. Ma l’aumento di questa produzione di beni nell’attuale momento è d’una difficoltà enorme, perché il lavoro all’interno è in funzione anche dei nostri scambî coll’estero e questi dipendono solo parzialmente da noi. È chiaro che la massa di beni offerta non può essere, in ogni caso, che gradualmente aumentata; occorre dunque che la proporzione con quanto deve assorbire lo Stato attraverso le disposizioni di carattere fiscale, ordinario e straordinario, di cui si è sentito parlare, venga contenuta nei limiti del possibile.

È stato parlato in questi giorni di quattro o cinque forme diverse di imposta patrimoniale: si è citata l’imposta ordinaria sul patrimonio, che si potrebbe riscattare. C’è poi in incubazione l’altra imposta sul patrimonio, quella straordinaria, una specie di Moloch per i nostri contribuenti, che aleggia da circa due anni col suo spettro minaccioso; è stata invocata l’imposta straordinaria sui profitti di regime; si è ricordata quella sui profitti di guerra; l’altra sui profitti di congiuntura; ecco quattro altre imposte straordinarie, di cui una parte finirebbe col trasformarsi in vere imposte sul capitale. Si è anche proposta una tassa del 25 per cento sulla differenza di valore messa in evidenza da una rivalutazione obbligatoria degli impianti industriali per conguaglio monetario. Questa rappresenta praticamente un’altra imposta sul patrimonio; sopra un patrimonio quale è quello costituito dagli impianti industriali; cioè un patrimonio che ha oggi bisogno di essere integrato da una notevole scorta di capitale circolante universalmente deficiente.

Ci sarebbe poi una quinta specie di imposta sul patrimonio; a questa tutti siamo abituati e tutti, credo, la riteniamo la più giusta: l’imposta di successione. Anche questa è un’imposta patrimoniale, se pure ripartita nel tempo.

Ora, questo insieme così complesso, e direi anche così confuso, di imposte patrimoniali, che dovrebbe ricadere su di un’economia depauperata qual è l’economia italiana, non potrà non avere effetti gravi, immediati e probabilmente perniciosi. Penso che bisognerebbe, nei limiti del possibile, fare leva soprattutto sulle imposte alle quali già siamo abituati, perché, anche per le imposte, il tempo e la consuetudine attutiscono le resistenze dei singoli e spesso mitigano gli effetti. L’imposta di successione dunque, con la progressività delle aliquote e con la diversità delle sue modalità di applicazione, rappresenta già una ottima tassa patrimoniale, anche perché è scaglionata nel tempo. Abbiamo l’imposta globale sul reddito – che è la base di tutta la tassazione diretta inglese ed americana – e che bisogna aggiornare al più presto per evitare che le sperequazioni dei redditi, dovute in gran parte alla svalutazione della moneta, portino a quella cattiva distribuzione dei beni di consumo ed a quel cattivo uso dei redditi stessi – direi, a quello sguaiato uso del denaro da parte di pochi – che vediamo tutti i giorni e che urta il senso generale di giustizia.

Queste due ultime imposte sono quelle che dovrebbero rappresentare la base della nostra tassazione diretta. Aumentare la pressione tributaria con imposizioni di carattere eccezionale non può che inaridire le fonti dei proventi, perché dovrà aggirarsi sempre sulle stesse cifre, cioè sull’insieme della produzione annua della Nazione. Non avremmo nessun reale miglioramento per il bilancio. Ciò che è realmente di somma importanza, consiste nell’utilizzare tutti i redditi che superano lo stretto minimo di cui ciascun cittadino italiano ha bisogno per la propria esistenza, ad uno scopo produttivo: migliorare l’attrezzatura del Paese, perché l’economia italiana risente profondamente del logorìo degli impianti industriali, della scarsezza dei mezzi meccanici di lavoro, di quanto c’è d’antiquato nei sistemi di produzione agricola, e così via.

Se fosse possibile incanalare ogni supero di questi minimi di reddito verso il perfezionamento e l’estensione dell’attrezzatura produttiva, noi potremmo effettivamente agire sulla seconda leva per la difesa della moneta: quella della produzione, la quale è purtroppo la più difficile a muovere in modo da ottenere effettivamente dei risultati concreti.

E con questo ho finito; credo di non avere oltrepassato i venti minuti regolamentari; se ho maltrattato qualche cosa, è stato forse un po’ la organicità delle idee che non sono state né completamente né ordinatamente sviluppate. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Rescigno:

«L’Assemblea Costituente,

udite le dichiarazioni del Governo relative alla scuola primaria e secondaria;

ritenuto che la serietà della medesima si ristabilisce precipuamente con la elevazione morale ed economica degli insegnanti, finora sempre trascurata;

invita il Governo ad adottare sollecitamente i seguenti provvedimenti:

1°) espletamento dei concorsi per insegnanti, direttori didattici e capi d’istituto di ruolo;

2°) promulgazione di norme ben definite per il tempestivo, giusto ed irrevocabile conferimento annuale degli incarichi e delle supplenze;

3°) adeguamento del trattamento morale ed economico degl’insegnanti governativi a quello degli altri dipendenti statali;

4°) trattamento agl’insegnanti delle scuole parificate, da parte degli enti e dei privati che le amministrano, non inferiore a quello minimo che lo Stato fa agl’insegnanti governativi;

5°) rigorosa osservanza, da parte delle Provincie e dei Comuni, degli obblighi loro derivanti dalle leggi in materia di pubblica istruzione e soprattutto, in concorso cogli Uffici del Genio civile, di edilizia scolastica».

L’onorevole Rescigno ha facoltà di svolgerlo.

RESCIGNO. Io dico seguitando, onorevoli colleghi, perché l’altro giorno ho già toccato, con una mia interrogazione di urgenza, qualche punto ed aspetto del mio ordine del giorno, il quale riguarda un problema che, a differenza del problema finanziario, non è stato in questa Assemblea trattato quasi da nessuno: il problema della scuola primaria e secondaria.

Non intendo col mio ordine del giorno di porre a fuoco il problema integrale della scuola italiana, primaria e secondaria; comprendo che quella riforma scolastica che, dopo tanti esperimenti in corpore vili, contradittorî, il Paese attende ancora, non potrà essere opera né di questo Governo provvisorio né dell’Assemblea Costituente.

Vi sono però delle esigenze che hanno una indiscutibile urgenza, dei provvedimenti che non possono essere ulteriormente differiti, se si vuole puntellare quel tale franamento di cui parlava il Ministro, e far sì che esso non diventi un crollo completo e perfetto.

Primo provvedimento: i concorsi. I concorsi non solamente vanno fatti subito, ma vanno estesi dai maestri e dai professori, per i quali nelle sue dichiarazioni il Presidente del Consiglio li prometteva espressamente, ai direttori didattici, ai capi di Istituti, al personale di segreteria e subalterno.

Perché una delle esigenze più gravi della scuola, in questo momento, è appunto la deficienza delle direzioni didattiche e degli Istituti secondari. Occorre che i direttori didattici, affinché siano veramente i vigili custodi delle scuole elementari, tornino ad avere giurisdizione su circoscrizioni comunali.

Circa i capi di Istituti secondari, onorevoli colleghi, forse nessuno di voi sa che la maggior parte di tali Istituti, cioè la quasi totalità delle scuole medie italiane, è retta da presidi incaricati e che questi incarichi durano da sette anni, cioè da tanti anni quanti ne ha di vita la scuola media; che alcuni di questi presidi sono stati anche sospesi, perché incaricati nel periodo fascista, e la sospensione è stata accompagnata dal regolare pagamento dello stipendio, onde la epurazione si è risolta in una vacanza accompagnata dallo stipendio, e poi, in seguito a discriminazione, sono stati riammessi nell’insegnamento ed hanno avuto restituito anche l’incarico della presidenza.

Ora: o tutta questa gente, questi bravi funzionari sono degni del loro ufficio, e si sistemino definitivamente; o non ne sono degni e si restituiscano all’insegnamento; ma si renda alle scuole quello che è il loro fulcro, quella che è la loro anima, cioè il capo, il preside, il quale, rivestendo un ufficio non transeunte, ma stabile, abbia un impulso più vigoroso alla propria attività e goda presso gli alunni e gli insegnanti di maggiore prestigio e di maggiore autorità.

Nell’espletare poi i concorsi, occorre fare un’opera di giustizia verso alcune categorie di insegnanti. Vi sono, infatti, insegnanti, i quali sono idonei, hanno conseguito la idoneità in concorsi passati, insegnano da 10, da 15, qualcuno da 20 anni, e sono sfiduciati, sono moralmente depressi, perché costretti a fare eternamente i supplenti. Si trovi il modo di sistemare in ruolo – sia pure attraverso un rapporto informativo o ispettivo – questi professori che hanno già dato prova della loro capacità. Vi sono insegnanti i quali hanno prestato lungo servizio negli ex-territori annessi all’Italia ed ai quali lo Stato italiano – sia pure lo Stato fascista – aveva fatto delle promesse precise. Essi hanno servito in quei territori non lo Stato fascista, ma la Patria italiana, ed è giusto oggi che quelle promesse siano mantenute.

Ho presentato in proposito all’onorevole Ministro per la pubblica istruzione una interrogazione e, nella risposta scritta, il Ministro accenna, tra l’altro, a comprensibili ragioni di ordine internazionale che vieterebbero il mantenimento di quelle promesse.

Non comprendo quali ragioni di ordine internazionale ci possano essere per la sistemazione di questi insegnanti; non comprendo come il trattato, il diktat – il quale ci ha tolto i nostri territori, anche i territori che non erano il frutto della conquista e dell’imperialismo fascista, ma erano il frutto dei nostri sacrifici e del nostro lavoro – debba, o possa anche infliggere punizioni ad umili lavoratori della mente che in quei territori hanno portato il soffio della nostra civiltà.

ì concorsi ridurranno, ma non elimineranno quella che è la vera piaga della scuola. E la vera piaga della scuola è il supplentato.

Signori del Governo, il supplentato va eliminato con la promulgazione di disposizioni certe, di norme precise, e con l’applicazione tempestiva e giusta di queste disposizioni. Perché (non so se anche questo lo ignoriate) si sono avuti, dalla liberazione in poi, diversi Ministri della pubblica istruzione, 5 mi pare. Ma, in tutti i modi, in tre anni, dal 1944 al 1946, si sono avuti tre sistemi diversi di conferimento degli incarichi e delle supplenze. Nel 1944: devoluzione della facoltà delle graduatorie e delle nomine ai provveditori; nel 1945: devoluzione di queste stesse facoltà ai presidi singoli; nel 1946, ai presidi riuniti in assemblea. Criteri di valutazione, quindi, quanto mai contradittorî, per cui qualche professore, che nell’anno scorso era stato classificato con 12 o 13 punti, quest’anno si è visto classificato con 10, con 9 punti, ed ha dovuto fare l’amara constatazione di aver fatto un progresso a rovescio.

Non dirò niente dell’applicazione di queste norme: direttori didattici e ispettori che interferiscono nell’operato dei provveditori; provveditori che interferiscono nell’operato del Ministero circa i famosi comandi; insegnanti che, raggiunta la sede loro assegnata, la trovano già occupata; scuole che, nel mese di febbraio, fino a pochi giorni fa, non avevano ancora i loro insegnanti.

È mettendo un poco di ordine in tutta questa Babele, in tutto questo caos, che si risolverà immediatamente il problema della scuola, e non con il giusto rigore che si invoca ogni momento contro i nostri giovani studenti. Anche quello è necessario, ma è opera di polizia scolastica. Il problema della scuola invece si risolve con l’interesse, e non con l’indifferenza, con l’amore per le istituzioni che devono dei nostri figli fare i cittadini retti ed operosi di domani.

E vi è un altro problema scolastico, che riguarda le condizioni morali ed economiche degli insegnanti. I professori sono i soli funzionari dello Stato che si trovino in una condizione strana: un professore di scuola media deve morire al grado VIII e, se vuol morire invece al grado VII, deve, in età avanzata, sottoporsi a novelli concorsi, e scendere in lizza con giovani appena usciti dalle università. Se c’è una categoria di funzionari ai quali bisogna fare appello per quanto riguarda questo trattamento di carriera ed economico, è quella dei magistrati. Con piacere ho letto stamane su un giornale che l’onorevole Umberto Merlin, in una riunione di magistrati, ha fatto promesse concrete, specifiche, che il problema dei magistrati sarà risolto in maniera efficace.

Ora, i professori sono come i magistrati, perché se il magistrato è il giudice del suo concittadino, del suo simile, nei riguardi della sua attività morale, il professore è il giudice del suo simile per quanto riguarda la sua capacità intellettuale e spirituale. Adempiono entrambi alla stessa nobile ed alta funzione. Se per i magistrati si è trovato modo di istituire una indennità di toga, non vi è ragione per cui non si debba istituire, anche per i professori, una indennità di studio. E non mi vengano il Ministro del tesoro o il Sottosegretario al tesoro ad eccepire le difficoltà del Tesoro medesimo; perché, se si vuole una Scuola che sia degna di questo nome, bisogna spendere.

L’onorevole Colonnetti ci ha parlato dei bisogni dell’istruzione superiore; per le ricerche scientifiche, negli Stati Uniti, si spende dieci volte quello che si spende per la difesa nazionale. Quando io penso a questo e vedo che, per una scuola media della mia città, la quale ha avuto dalla guerra tutto distrutto, il Ministero largisce una diecina di migliaia di lire l’anno per materiale didattico, con le quali non si compera neanche una carta geografica murale, io sono preso, signori del Governo, da un senso di sconforto, da un senso di amarezza; e mi spiego allora anche come enti locali – i Comuni e le Provincie – sull’esempio dello Stato, mostrino per l’istruzione pubblica una suprema indifferenza e un supremo disinteresse.

L’altro giorno, il professor Mancini lamentava lo stato miserevole dell’edilizia scolastica nella sua Calabria; e che dovremmo dire noi del Salernitano, che dovremmo dire noi anche del Napoletano? In Napoli, gli alunni vanno a scuola ancora per turni di giorni, un giorno sì e un altro no; da noi, a Salerno, per turni di ore; da noi, le aule scolastiche hanno ancora le stalattiti di cemento che pendono dai soffitti; le finestre delle nostre scuole sono ancora prive di vetri. Questo è lo stato della pubblica istruzione nella nostra regione, ed io mi sorprendo, mi meraviglio, come da qualche onorevole collega si sia potuto parlare in maniera così vivace contro le scuole parificate, contro le scuole private. Quale sarebbe lo stato delle cose, se non ci fossero state le scuole affidate all’iniziativa degli enti e all’iniziativa dei privati? Per me, il problema della scuola parificata non è quello prospettato dall’onorevole Giua; non è nel pericolo che l’istruzione e l’educazione dei nostri figli vadano a finire nelle mani degli istituti religiosi. Oh, se ciò accadesse, sia pur certo l’onorevole Giua, che sarebbe un bene e non un male per l’Italia! (Applausi al centro).

Di fronte a istituti come il «Massimo», come quello di Montecassino prima della distruzione, come l’Abbazia di Cava, istituti veramente modelli, anche molti assertori della scuola laica sono felici, tranquilli, di affidare ad essi i loro figliuoli, perché sanno che, da quegli istituti, usciranno dei cittadini virtuosi, amanti del bene e consapevoli dei loro doveri, anche verso la Nazione e verso la Patria.

Il problema della scuola parificata è un altro problema: è il problema della scuola parificata non tenuta da religiosi, ma da persone che si dicono educatori e sono invece degli speculatori. E badate che, nel periodo fascista, con queste scuole a base commerciale, si è abusato nel dare concessioni e riconoscimenti, molte volte non meritati. Questi riconoscimenti e queste con cessioni vanno riveduti.

Il Ministro Gonella in parte lo ha fatto, ma deve farlo ancora meglio, e deve soprattutto imporre – questo ho chiesto nell’ordine del giorno – che queste scuole parificate facciano ai loro insegnanti un trattamento più decoroso dal punto di vista morale ed economico, non inferiore, almeno, al minimo del trattamento che lo Stato fa ai propri insegnanti. Solamente così questi poveri insegnanti delle scuole parificate, che hanno stipendi di fame, potranno liberarsi dalle preoccupazioni e dai compromessi colla propria coscienza.

Così si purifica la scuola italiana, così si potrà portare a termine la risoluzione del problema scolastico.

Dobbiamo convincerci, onorevoli colleghi, che la scuola, come disse il Tommaseo, «o è un tempio o è una tana». Se vogliamo che sia un tempio, dobbiamo coltivarla, dobbiamo rispettarla ed amarla come un tempio. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Canepa ha presentato il seguente ordine del giorno, firmato anche dagli onorevoli Pera, Rossi Paolo, Momigliano:

«L’Assemblea Costituente,

i richiamandosi al riconoscimento del Presidente del Consiglio nelle sue dichiarazioni: «è giunto il momento di preparare la ripresa del turismo»;

considerando che tale ripresa è urgente per molti motivi morali, politici ed economici;

per il sollievo che il turismo apporterà a tutta la Nazione e segnatamente alle regioni climatiche, e sovrattutto perché senza turismo non può stabilirsi la bilancia commerciale, indispensabile alla salvezza della lira;

constatando che finora nulla è stato fatto a tale fine, anzi la requisizione per altre destinazioni di molti alberghi, la mancata riparazione di altri molti danneggiati dalla guerra, le difficoltà burocratiche con cui i Consoli all’estero e la Polizia all’interno ostacolano l’afflusso dei forestieri, impediscono la ripresa del turismo;

invita il Governo a costituire l’Alto Commissariato del turismo, dandogli facoltà e mandato di compiere sollecitamente quanto occorre per la ripresa, sulla più larga scala possibile, del turismo».

L’onorevole Canepa ha facoltà di svolgerlo.

CANEPA. Dirò brevi parole, non solo perché l’ora è tarda, ma anche perché il Presidente del Consiglio, nelle sue dichiarazioni, ha esplicitamente riconosciuto la necessità della ripresa del turismo. E come non riconoscerla? Tutti sanno che la differenza fra l’importazione e l’esportazione si suppliva con tre entrate, così dette invisibili: le rimesse degli emigranti, i noli marittimi ed i proventi dei forestieri che venivano in Italia. Allora il turismo si chiamava l’industria dei forestieri.

Purtroppo, dei moli marittimi non è neanche il caso di parlare, date le condizioni attuali della marina mercantile.

L’emigrazione incomincia ora, ma, purtroppo, passerà molta acqua sotto i ponti prima che arrivino in Italia le rimesse degli emigranti.

Resta il turismo, il quale contribuiva all’importazione delle valute pregiate niente di meno che per il 41 per cento, cioè più ancora della importazione dei prodotti ortofrutticoli. Era dunque di una suprema importanza per la nostra Italia. Purtroppo, oggi, è ridotto, come sappiamo, a niente, e proprio quando in tutto il mondo ricomincia a svilupparsi. E, notate, che mentre un tempo era privilegio delle classi ricche, oggi l’uso dei viaggi, l’uso delle vacanze all’estero si viene praticando anche dalle classi lavoratrici, almeno nelle nazioni socialmente più progredite. C’è ne dà un esempio luminoso la Svezia. Ebbene è in questo momento che noi dovremmo dare la nostra opera, per richiamare i forestieri nel nostro Paese, purtroppo privo di tante materie prime, ma ricco di sole, ricco di un clima invidiabile, ricco di acque termali, e che dalle Alpi Dolomitiche, dall’Alto Adige fino a Capri, fino a Taormina, offre ospitalità gradita a tutto il mondo.

Che cosa si è fatto a questo riguardo finora? Non solo non si è fatto niente, ma (mi dispiace di dirlo) si è fatto qualcosa in senso contrario.

Alcuni mesi fa presentai una interrogazione chiedendo che si facoltizzassero i Comuni dove sono alberghi i cui proprietari non si curano di riparare i danni prodotti dai bombardamenti della guerra, a ripararli, rivalendosi poi coi fitti delle spese fatte. Mi fu risposto negativamente, dicendomi che il Governo avrebbe provveduto in altro modo.

Ha provveduto, con un decreto che dava un sussidio così tenue, così irrisorio, che quegli alberghi sono ancora inabitabili. Inoltre taluni alberghi vengono requisiti ed occupati per destinazione tutta diversa dalla loro propria. Anche per questi ho detto: Lasciateli liberi; perché possano essere occupati e adibiti alla loro funzione, lasciateli liberi perché vi sono delle caserme vuote che possono essere occupate, e che non servono più all’uso militare. Ma quelle caserme continuano ad essere vuote e a deteriorarsi, mentre gli alberghi sono chiusi.

Ma vi è qualcosa ancora di più grave: ho comunicato all’onorevole Ministro Sforza alcune lettere di famiglie del nord d’Europa che, prima della guerra, erano solite venire nella nostra riviera ligure a trascorrere l’inverno. E scrivono: Ora noi torneremmo ben volentieri, ma ci siamo rivolti ai vostri consoli domandando il passaporto, e abbiamo trovato tale una accoglienza che ci ha veramente scoraggiati, tali e tante lungaggini burocratiche che abbiamo dovuto abbandonare il campo e ci siamo rivolti ai consoli francesi che ci hanno accolti a braccia aperte, e ci hanno dato immediatamente i passaporti. Quindi con nostro rincrescimento, invece di venire fra voi, ce ne andiamo a Cannes, a Nizza, sulla Costa Azzurra della Francia. L’onorevole Ministro Sforza, che ringrazio vivamente, mi ha gentilmente risposto con una lettera che chiedo il permesso di leggere all’Assemblea, perché molto interessante: «A proposito della sua, desidero assicurarla che le nostre Rappresentanze all’estero hanno già avuto precise istruzioni per facilitare al massimo il ripristino delle correnti turistiche in Italia; ma, come facilmente intuitivo, il problema è complesso ed ha riflessi nel campo valutario e dell’ordine pubblico. Solo ora, infatti, le competenti autorità italiane stanno cercando, attraverso il censimento, di regolare e controllare la permanenza degli stranieri in Italia. Ma le assicuro, e le sarò grato, se vorrà informarne anche gli altri colleghi liguri, che farò il possibile affinché la questione possa essere al più presto definita e risolta nel senso da lei auspicato».

Sono sicuro che queste assicurazioni dell’onorevole Ministro saranno seguite dai fatti, ma da questa lettera già appare dove è il male. Il male sta piuttosto, anziché nella politica estera, nella politica interna; sta nelle disposizioni emanate dalla polizia italiana, la quale accorda a tutti i forestieri, senza discriminazione, un breve periodo di tempo (30 giorni), dopo il quale, senza distinzione fra stranieri più o meno desiderabili – salvo il diritto di asilo che tutte le nazioni praticano – rinvia tutti gli stranieri al loro Paese.

Questo è avvenuto in Liguria alcune settimane fa; pare incredibile, ma è vero.

Ora, quando pensiamo alle condizioni del nostro erario, quando pensiamo, come dicevo prima, alla nostra bilancia commerciale, e dobbiamo riconoscere che il turismo, se si sviluppasse, potrebbe incrementare le industrie, specialmente quelle dei trasporti, le alberghiere, quelle dei pubblici esercizi, l’artigianato, e contribuire all’attivo del bilancio, non possiamo non deplorare un tale contegno.

Uno studioso serio, il Mariotti, che ha pubblicato un saggio molto ponderato su questa materia, calcola che, in pieno sviluppo, il turismo può apportare all’Italia da 40 a 50 miliardi. Questa è l’entrata che possiamo avere, e non so da quale altra fonte tanto bene ci potrebbe venire. Pertanto, dovremmo rivolgere al turismo tutte le nostre cure, dovremmo rivolgervi ansiosamente tutte le attenzioni per riattivarlo. Il che è possibile, purché facciamo quello che fanno tutte le altre nazioni in condizioni, a questo riguardo, molto meno favorite di noi, perché basta aprire un giornale o una rivista di nazioni estere, per vedere dalla pubblicità che cosa fanno e che cosa spendono gli altri Stati per favorire il turismo.

E, anche senza cercare riviste o giornali, basta andare a pochi passi di qui, sul Corso, di fronte al caffè Aragno e vedere come e con quale lusso di manifesti sia attrezzata la sede della propaganda turistica svizzera. Tutto un piano è organizzato per attirare l’attenzione della gente. Questo noi dovremmo fare e questo purtroppo finora non si è fatto. Ed è pensando che è tempo di farlo, che nel nostro ordine del giorno abbiamo chiesto che si crei un Alto Commissariato del turismo. Un amico mi ha detto: guardate che la espressione Alto Commissariato può ingenerare un equivoco. Si può credere che vogliate creare una specie di Sottosegretariato di Stato con direttori generali e una serqua di funzionari da non finir più. Dio me ne guardi! (Si ride). Se questo pericolo c’è, elimino, sacrifico subito l’aggettivo Alto e mi contento del sostantivo Commissariato.

È necessario un istituto che sia snello, semplice, che deve avere per compito, d’accordo con l’E.N.I.T., nato nel 1919, e che è un istituto autonomo, e d’accordo con gli altri enti periferici, di fare tutto quanto è necessario per lo sviluppo del turismo. Naturalmente coi mezzi che lo Stato deve accordargli.

Un tempo il Commissariato esisteva. Disgraziatamente, nel 1934 o 1935, è stato annesso al Sottosegretariato stampa e propaganda. Basta dirvi questo perché ognuno intenda dove sono andati a finire i fondi che ad esso erano destinati. (Si ride).

Il fascismo era contrario al turismo perché, sognando la restaurazione dell’Impero romano, diceva: noi non dobbiamo fare i cuochi e i camerieri, come se fare i cuochi e i camerieri fosse un mestiere meno rispettabile che gli altri, e soprattutto come se fosse un mestiere meno ricercabile che non esser disoccupato. A proposito di disoccupazione, dallo stesso studio ricordato poc’anzi, risulta che, direttamente o indirettamente, ai tempi in cui il turismo fioriva, erano circa 700 mila le persone che da esso ricavavano lavoro.

Pertanto concludo (poiché ho promesso di esser breve e perciò sacrifico molte altre osservazioni che si potrebbero fare) che di tempo ne abbiamo perduto anche troppo, e prego il Governo di volerlo riguadagnare creando questo organismo che deve agire d’accordo con quelli dell’industria privata che sono già stati formati e che procedono abbastanza bene: procedere d’accordo con essi per suggerire al legislatore e al Governo tutto quello che è necessario per lo scopo di cui ho lumeggiato l’importanza, per creare gli adatti tecnici e per incrementare sotto tutti i punti di vista questa industria che sarà salutare per l’Italia: salutare dal punto di vista economico che nel momento attuale deve essere alla cima del nostro pensiero; salutare anche dal punto di vista morale e politico, perché anche il turismo è uno degli elementi per cui si possono abbassare i muri, divisori fra le nazioni e affratellare i popoli. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Comunico che è stata presentata, con richiesta di risposta urgente, la seguente interrogazione dell’onorevole Camangi:

«Al Ministro delle finanze, per sapere se non creda opportuno, in attesa che venga definita la questione dell’esonero dal pagamento dell’imposta generale sull’entrata per i trasferimenti di merci effettuati dalle cooperative di consumo ai soci delle medesime, di disporre perché si sospenda intanto, da parte degli uffici, l’esazione del canone di abbonamento delle dette cooperative, esazione che dovrebbe essere effettuata entro la fine del corrente mese».

Domando al Governo quando intende rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Domani il Ministro farà sapere se e quando intenda rispondere.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle altre interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono d’interrogare l’Alto Commissario per l’alimentazione, per conoscere i motivi che lo hanno indotto a disporre la maggiorazione del prezzo dello zucchero assegnato all’industria e al commercio, esigendone il pagamento con effetto retroattivo a decorrere dal mese di agosto ultimo scorso; provvedimento che reca gravissimo danno agli interessati specialmente in Sicilia, dove pagano già una maggiorazione del 20 per cento per fondo di solidarietà siciliana, e che ne chiedono l’immediata revoca.

«Finocchiaro Aprile, Gallo, Castrogiovanni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se non ritenga di dover esentare dalla imposta prevista dall’articolo 6 del decreto legislativo presidenziale 21 ottobre 1946, n. 236, il marsala, il vermouth, i vini liquorosi e gli aperitivi a base di vino fabbricati in Sicilia con vini naturali ad alta gradazione alcoolica e quindi senza aggiunta di alcool.

«De Vita».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per sapere se e quali provvedimenti siano stati presi o intenda prendere per un conveniente e proficuo servizio di assistenza alle molte migliaia di minatori italiani avviati nel Belgio, i quali si trovano spesso nella dolorosa situazione di non sapere a chi rivolgersi nelle loro molteplici necessità e, particolarmente, nei casi di infortuni, malattia, espatrio dei familiari, decesso, trasferimento di valuta, ecc.

«Pat».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dei trasporti e delle comunicazioni’, per conoscere i motivi per i quali, a tutt’oggi, non si sia provveduto ad istituire sulla linea Roma-Genova-Torino, in analogia a quanto già è stato attuato per altre regioni, un servizio giornaliero con treni rapidi, e ciò malgrado le ripetute assicurazioni verbali da tempo fornite dai competenti uffici tecnici delle Ferrovie dello Stato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Negarville, Colonnetti, Fornara, Grilli, Canepa, Giacchero, Bertone, Luisetti, Villabruna, Chiaramello, Giua, Carmagnola, Pat, Viale, Maffi, Pertini, Cairo, De Michelis Paolo, Canevari, Bonino, Lami Starnuti, Gotelli, Angela, Leone Francesco, Roveda, Pera, Bovetti, Rossi Paolo, Scotti Francesco».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, sulla opportunità di un provvedimento legislativo inteso a vietare ai magistrati, che abbiano per lungo periodo di anni servito nell’Ufficio del pubblico ministero, il passaggio dalla Magistratura requirente alla giudicante.

«Il provvedimento invocato è giustificato dalla constatazione che il lungo esercizio professionale nell’organo di accusa costituisce, presso i magistrati della requirente, passati alla giudicante, una caratteristica forma mentis, nella quale sono carenti quei requisiti di imparzialità caratteristici del giudice, ed è presente per contro l’habitus mentale caratteristico della parte pubblica, con evidente pregiudizio per la finalità e gli scopi dello stesso processo penale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bellavista».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se è stato applicato il decreto legislativo 7 settembre 1945, n. 125, nei riguardi dei professori insegnanti nelle scuole medie, che ebbero posti esclusivamente per meriti fascisti.

«Nell’affermativa, si chiede se essi hanno diritto ad essere reintegrati e percepire gli arretrati in seguito alla recente amnistia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«D’Agata».

 

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della pubblica istruzione e delle finanze e tesoro, per conoscere i motivi per i quali – con manifesta noncuranza delle difficili condizioni economiche in cui versano gli insegnanti e con disparità di trattamento rispetto ad altre categorie di funzionari statali – non si è ancora provveduto alla liquidazione in loro favore della indennità di presenza: rendendo – con tale indugio – pressoché irrisorio il beneficio che dal suddetto provvedimento gli insegnanti si sarebbero potuti attendere. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Villabruna».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro della pubblica istruzione, per sapere: 1°) se ritengano opportuno adottare adeguate provvidenze per un razionale, completo e rapido programma di ricerche e di scavi, poiché da quelli recentemente iniziati, vengono in luce, in molte zone della provincia di Salerno (a Positano, a Minori, a Pontecagnano, a Montecorvino, ad Arenosola presso Battipaglia, a Fratte presso Salerno e soprattutto a Paestum), tesori di arte e di archeologia di epoche remote che risalgono sino al VI secolo avanti Cristo. Particolarmente degno del massimo interesse, presso Paestum, è il famoso Santuario di Hera Argiva, e interessanti rilievi figurati della metà del VI secolo avanti Cristo, i quali costituiscono il complesso artistico arcaico più importante del mondo greco: ed inoltre, mentre in una necropoli lucana sono stati rinvenuti due edifici che, per il tipo particolare di costruzione, si riconnettono ad analoghi edifici dell’Asia Minore, e per l’epoca cui appartengono, cioè al III secolo avanti Cristo, costituiscono un nuovo documento di un periodo della storia della Città, è stata altresì da poco scoperta una vastissima necropoli, che non trova riscontro con altre coeve dell’Italia e delle Isole e che rimonta all’età eneolitica, cioè al principio dell’età dei metalli. In essa sono stati rinvenuti manufatti magnificamente conservati e che risalgono al 2000 avanti Cristo; 2°) se, trattandosi di tesori archeologici unici al mondo, che aprono le più vaste prospettive di studio, col conseguente richiamo di scienziati e di turisti da ogni parte, ritengano necessario, se non addirittura indispensabile, finanziare convenientemente i predetti lavori di scavi, integrandoli anche con la costruzione nella zona pestana di un museo archeologico. Tutto ciò sarebbe facilitato dalla numerosa mano d’opera disponibile in quelle zone ed assicurerebbe soprattutto un imponente afflusso di forestieri, specialmente anglo-americani che, già per ragioni sentimentali, sono indotti a visitare quelle località ove essi combatterono e dove sorgono vasti Cimiteri di guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Martino»

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, in merito alla annunciata legge che dovrà regolare il regime degli affitti, la quale, sulle tracce della precedente, considererebbe gli «studi per artisti» (pittori, scultori ed architetti) alla stregua di negozi, cinematografi od aziende di commercio in genere. In seguito alla citata legge del 1945, gli studi furono così gravati di aumenti dall’80 al 140 per cento. Tenendo presente che, nella quasi totalità, questi studi sono adibiti anche ad abitazione degli artisti, la cui attività è da anni in gravissima crisi, e tenuto presente, pure, che quasi sempre questi ambienti sono ricavati in relitti di terrazze, di cortili e di tetti, l’interrogante chiede che – in considerazione della suprema necessità di assicurare la continuazione della gloriosa tradizione artistica italiana – sia scongiurato, con precisa disposizione di legge, il pericolo di un ulteriore aggravarsi delle già disagiatissime condizioni degli artisti e che, comunque, gli studi siano, nella peggiore delle ipotesi, equiparati a quei locali per i quali la nuova legge consentirà aliquote minime di aumento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Fausto».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.45.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

  1. – Seguito della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
  2. – Esame del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.