Come nasce la Costituzione

MERCOLEDÌ 5 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

L.

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 5 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica Italiana:

Presidente                                                                                                        

Tupini                                                                                                                

Della Seta                                                                                                       

Lucifero                                                                                                           

Mastrojanni                                                                                                    

Laconi                                                                                                              

La seduta comincia alle 15.30.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Mazzoni.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendendo la discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana, desidero rivolgere l’invito ai colleghi componenti dell’ufficio di Presidenza della Commissione per la Costituzione e ai membri del Comitato di redazione a prendere posto ai banchi normalmente occupati dai membri del Governo.

Questo invito è giustificato da due ragioni: la prima, di carattere molto modesto e banale, riguarda la comodità stessa della discussione, poiché, specialmente dal momento in cui comincerà la discussione più specifica, è evidente che sono i membri della Presidenza della Commissione e i membri del Comitato di redazione che dovranno rispondere a tutte le obiezioni, a tutte le sollecitazioni, accogliere o no le proposte; ed è più che naturale che essi si trovino di fronte, non dirò a quelli che saranno i loro contradittori – ché forse saranno invece i loro collaboratori e sostenitori – in una posizione più comoda per poter discutere. La seconda è una ragione di carattere sostanziale, a mio giudizio. È stato notato ieri, ed oggi su tutti gli organi di stampa è stato largamente sottolineato, il fatto che i banchi del Governo sono vuoti; ciò che è un’affermazione della sovranità dell’Assemblea nel corso di questo suo specifico lavoro costituente. Orbene, io credo che, se a questo aspetto negativo della nostra apparenza esteriore si aggiunge anche l’aspetto positivo, cioè se questi banchi non resteranno orfani di ogni ospite, ma accoglieranno invece coloro che rappresentano il momento iniziale di impulso di questi nostri lavori, il concetto che l’Assemblea Costituente risolve in sé in questo momento tutta la sovranità popolare, riceverà una maggiore evidenza.

D’altra parte, i membri della Presidenza della Commissione e i membri del Comitato di redazione sono andati un po’ all’avanscoperta per tutti noi in questo terreno nuovo e inesplorato dei problemi costituzionali; ed è naturale che essi, anche per i banchi che li accolgono ricevano un segno del merito particolare che hanno acquistato dinanzi a noi e in definitiva, quindi, anche dinanzi ai risultati del nostro lavoro.

La nostra Assemblea non è un complesso inarticolato; ma nel suo interno ha un sistema di rapporti non soltanto fra gruppo e gruppo politico, ma anche fra gruppo e gruppo in relazione ai lavori che svolge. Ritengo che nell’articolazione la Presidenza della Commissione e il Comitato di redazione debbano rappresentare come il ganglio nervoso centrale del nostro lavoro, ciò che credo sarà ancora una volta sottolineato se i loro membri accettano il mio invito – e credo sia l’invito dell’Assemblea nel suo complesso – a prendere posto in quei banchi, in cui possano svolgere più liberamente il loro lavoro. (Applausi).

(I membri della Presidenza della Commissione ed i membri del Comitato di redazione prendono posto al banco del Governo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Tupini. Ne ha facoltà.

TUPINI. Onorevoli colleghi, il nostro Presidente ci ha indicato ieri la via della discussione, non tanto per gli elementi tecnici che dovranno guidarla, quanto per il tono e lo stile che dovranno animarla, e che non potranno non essere, come del resto già lo sono stati, alti e sereni come il Paese attende la dignità del nostro consesso richiede.

Gli accenti risuonati ieri in quest’aula, anche se qua e là discordi da quello che vi dirò, si sono mantenuti a simile auspicata altezza e sono sicuro che vi si manterranno nella presente e nelle prossime sedute e fino all’esaurimento del nostro mandato, che non esito a definire storico, non per vana e abusata jattanza di parola, ma per un profondo senso di trepida preoccupazione.

Protagonisti d’una grande pagina di storia, spetta a noi, onorevoli colleghi, di aprire un varco alle nuove fortune della Repubblica fra le macerie del passato e di porre le premesse e le garanzie di un avvenire di libertà e di giustizia. L’Assemblea Costituente saprà scrivere degnamente questa pagina, interprete consapevole e fedele delle aspirazioni e della nobiltà del popolo che qui ci ha mandato.

Cade opportuno un richiamo al passato: è un monito ed un incitamento di Giovanni Bovio: «È fiorente un popolo che è solcato da grandi idee e quando ha partiti convinti e discussioni libere. È cadente un popolo quando i partiti si corrompono in sette e la discussione si fa muta o pettegola».

Gli onorevoli colleghi che hanno ieri parlato – Lucifero, Bozzi e Calamandrei – hanno pronunziato tre discorsi che oserei giudicare, se pure da punti di vista diversi e con avverse motivazioni, di opposizione talvolta generale e, in alcuni tratti, specifica al progetto che ora è sottoposto al nostro esame.

L’onorevole Calamandrei l’ha giudicato calvo, mentre altri, nella stampa o in giudizi pubblici o privati, lo qualifica perfino troppo zazzeruto. (Ilarità).

La verità, onorevoli colleghi, sta sempre nel mezzo ed io vorrò esaminare il progetto proprio da questo punto di vista, annunciandovi senz’altro che mi pronunzierò in via di massima favorevole ad esso e che, per quanto mi sarà possibile, lo difenderò.

Critiche non sono mancate e certo non mancheranno, ed io stesso avanzerò qualche riserva; ma poiché, insieme a valorosi e non dimenticati colleghi della Commissione per la Costituzione, vi ho lavorato su con una discreta assiduità, sento di doverlo difendere nel suo assieme e di dovere fare onore ai voti espressi nel corso della sua elaborazione.

Intanto, un’osservazione preliminare va fatta. Il progetto è la risultante feconda degli sforzi dei componenti delle varie Sottocommissioni che hanno sempre cercato, come dissi ieri interrompendo cortesemente l’amico e collega onorevole Lucifero, di intendersi, di comprendersi ed hanno coltivato il proposito di giungere, quando potevano, all’accordo e all’intesa.

I contrasti, quando si sono delineati, non sono stati mai messi in sordina e la stampa li ha, volta a volta, sottolineati e resi noti alla pubblica opinione. Ogni deputato ha voluto tener fede alla concezione che rappresentava. L’ha esposta, l’ha puntualizzata in formulazione di articoli, ma non sono mai venute meno la volontà di conciliazione e la convinzione responsabile che la Carta fondamentale di un popolo non può riflettere l’intransigente pensiero del minimo numero possibile di cittadini, uniti da una medesima fede, sibbene il pensiero del maggior numero di essi, consenzienti su una sostanza comune di pensiero e di vita. Ciò dimostra come sia ingiusto affermare che il nostro è un progetto o comunque sarà uno statuto di compromesso. A me sembra invece che se un rilievo va fatto al riguardo esso deve unicamente riferirsi allo sforzo durato da ciascuno di noi per superare molte delle troppe divisioni che separano i cittadini e i partiti, per trovare, al di là e al di sopra dei motivi contingenti di attrito e di divergenze, un minimo comune denominatore, un cemento comune alla gran parte del popolo italiano.

Se questo spirito di consapevole conciliazione informerà anche la discussione dell’Assemblea, il progetto della Costituzione sarà, sì, perfezionato e migliorato, ma non potrà mutarne i tratti caratteristici e i motivi ispiratori fondamentali.

Tra questi ve n’è uno che differenzia da ogni altro il progetto di nostra Costituzione e ne annuncia la nota caratteristica e dominante: è il senso umano che intimamente e profondamente lo pervade. È stato, questo, onorevoli colleghi, il punto d’incontro, faticosamente cercato e trovato, dei programmi diversi di cui i colleghi delle Sottocommissioni erano portatori; punto d’incontro felice e provvidenziale nella confusione delle idee e nella varietà dei partiti. L’uomo, dico l’uomo, ha agito da criterio uniformatore e da principio coordinatore.

Se ci fosse consentito di indagare al di là della storia i motivi che la determinano, noi dovremmo domandarci per quale fortunato disegno si siano trovate d’accordo concezioni che hanno sempre posto l’uomo al centro di ogni ordinamento sociale e concezioni che tali preoccupazioni hanno mostrato o mostrano di non avere. Come mai, ad esempio, la concezione cristiana della vita si sia trovata vicina a concezioni che tali non sono o come tali non si pongono.

La ragione è che nella memoria di tutto il popolo italiano è ancora viva una storia recente, che deve essere una volta tanto, almeno, maestra di vita: è la storia della dittatura del fascismo, con le note conseguenze di guerra e di disfatta che hanno colpito al cuore l’uomo nelle sue libertà personali, nella sua famiglia, in tutta la sua vita.

Se ogni Costituzione è il prodotto e l’interprete delle situazioni di fatto e delle aspirazioni prevalenti di una nazione nel momento in cui si attua il processo costituente, il nostro progetto non poteva non tener conto della profonda avversione determinata da quel passato nell’animo del popolo italiano verso ogni forma statale e verso ogni regime politico che minacci di vulnerare di nuovo la sfera dei naturali diritti della persona umana.

Per questo, e per l’apporto che talune concezioni, basate sull’uomo, hanno dato alla elaborazione del progetto, esso è tutto intriso di una visione umana della vita, e se un nome dovrà ricordare la futura Costituzione, io mi auguro che sia questo: «La Carta dell’Uomo». (Approvazioni).

La Democrazia cristiana ha impresso un po’ il crisma della sua ampia e costruttiva collaborazione al progetto di Costituzione. Quanti hanno dato il 2 giugno la loro fiducia alla Democrazia cristiana non devono ritenersi ingannati. Essa aveva promesso di garantire al Paese una Costituzione imperniata sui cardini fondamentali della libertà e della giustizia ed ispirata al Cristianesimo. Questa promessa è stata e, per quanto dipende da noi, sarà mantenuta. L’impegno assunto verso più di otto milioni di cittadini non è stato e non sarà tradito. Naturalmente non tutto il programma spirituale, morale, politico, civile, non tutta la Weltanschauung della Democrazia cristiana ha trovato in questo progetto il suo adeguato riflesso. Ciò non poteva essere per le ragioni che ho detto da principio. Possiamo però con tranquilla coscienza affermare che non uno dei postulati essenziali della nostra concezione democratica è stato da noi e non sarà da noi, nel corso di questa discussione, abbandonato.

La Democrazia cristiana si è preoccupata subito di impostare e di incentrare l’intelaiatura del nuovo edificio costituzionale sulla persona umana. Questo dovrà essere, a nostro avviso, il termine di riferimento di tutta la Costituzione. Occorre salvare l’uomo dalla morsa in cui gli Stati totalitari lo afferrano, dalle ruote in cui le dittature lo macinano. Si trattava e si tratta soprattutto di avere e di concretare nel progetto una visione integrale dell’uomo. Integrale, ho detto, perché le passate e le presenti Carte costituzionali hanno anch’esse una visione dell’uomo, ma parziale e unilaterale. Era stata a lungo la preoccupazione della libertà dell’uomo il criterio ispiratore delle Carte del XVIII e del XIX secolo; poi l’èra del liberalismo e della democrazia individualistica è andata man mano cedendo alle istanze dei nuovi processi produttivi ed ai rapporti sociali che ne derivano.

Le dichiarazioni dei diritti e lo spirito delle Carte hanno cominciato a scorgere nella trama dei rapporti tra cittadini e cittadini e tra i cittadini e lo Stato un vincolo sempre più stretto di solidarietà; ma la sintesi di libertà e di solidarietà sociale, di libertà e di giustizia sociale, non è stata quasi mai raggiunta e dall’eccesso di autonomia si è passati presto, in alcune Carte, all’eccesso delle costrizioni statali e del collettivismo gregario.

Fare la sintesi: ecco, onorevoli colleghi, il compito che la Democrazia cristiana si è assunto in questa Costituente; attuare cioè una visione integrale della persona umana, superando la contesa che è al fondo del dramma del nostro tempo tra libertà e giustizia sociale, tra autonomia dell’uomo e autorità dello Stato. In fondo è proprio qui il problema della democrazia contemporanea. Esso non può essere risolto in un senso ad esclusione dell’altro. Integrale dovrà essere la sua soluzione o non sarà.

La Democrazia cristiana si è impegnata a fondo per questa soluzione, perché, cioè, la Costituzione ponga tra i suoi fini il presidio e il potenziamento della persona e degli enti sociali nei quali essa si integra e progressivamente si espande. C’è stato e forse ci sarà ancora qualche contrasto su questo punto e sull’attuazione dei principî direttivi della Costituzione. Noi crediamo infatti che non basti, onorevole Togliatti, non basti definire la democrazia, come ella ha fatto in questa Assemblea, un regime in cui le istituzioni politiche e sociali devono avere per scopo il miglioramento sociale, morale, intellettuale e fisico della classe più numerosa e più povera della Nazione, cioè dei lavoratori; noi riconosciamo anche questo. Per noi democrazia vuol dire anche questo. Toniolo dava una definizione della Democrazia cristiana molto simile alla sua, onorevole Togliatti; ma la democrazia vuol dire per noi anche difesa e attuazione della libertà in tutti gli istituti politici sociali e familiari dell’uomo. Democrazia significa, sì, miglioramento della classe più numerosa e più povera, ma, occorre aggiungere, con l’esclusione di ogni regime totalitario. Significa, sì, liberazione completa dell’uomo e del lavoratore dall’oppressione economica e politica insieme, ma all’infuori di ogni dittatura paternalistica e tutoria. (Applausi Commenti).

Il Cristianesimo, cui guarda con speranza rinnovata l’attesa di milioni di uomini, può veramente offrire il punto d’incontro, la base per questo sforzo fecondo. Noi abbiamo ferma fede nell’affermazione di Ozanam, che acquista oggi sapore di profezia: la democrazia o sarà cristiana o non sarà. (Approvazioni al centro Commenti all’estrema sinistra).

L’esame particolareggiato del progetto dà conferma del profondo e integrale senso umano che ne costituisce la caratteristica distintiva in confronto delle altre Costituzioni anche più recenti; ma di fronte ad esso un’altra particolarità deve essere sottolineata: la nuova Costituzione non è, né sarà frutto di arbitrio o del colpo violento di una ondata rivoluzionaria che spazzi via indiscriminatamente il vecchio ordine e indiscriminatamente fondi il nuovo.

La futura Carta fondamentale sarà, come io mi auguro, come noi tutti ci auguriamo, il risultato di un atto consapevole e libero di un popolo che democraticamente si dà i propri ordinamenti. Ad essa spetterà anche di innestare su una tradizione giuridica e costituzionale la nuova realtà repubblicana scaturita dal referendum popolare.

Nelle disposizioni generali del progetto che ne costituiscono la introduzione solenne è racchiuso lo spirito informatore della Costituzione: Repubblica democratica, l’Italia ha per suo fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dello Stato, il quale si fonda, dunque, sull’uomo socialmente attivo, sul cittadino che ha nel lavoro lo strumento della sua fatica e della sua redenzione.

In omaggio a questa concezione umana della vita, che fa contrasto con superate «mistiche» basate sullo spirito di imperialismo e di oppressione, l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa e consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli in condizioni di reciprocità e di eguaglianza. E Dio voglia che questa non sia soltanto una generosa utopia del nostro popolo, ma una aspirazione comune a tutta l’umanità, dopo la tremenda lezione dell’ultimo conflitto.

Pace fra i popoli, ma anche pace fra il popolo italiano.

Se i Patti Lateranensi saranno inseriti nella nuova Costituzione repubblicana, un nuovo e definitivo passo potrà essere compiuto verso il consolidamento della pace religiosa nel nostro Paese. Sarà questo un atto opportuno e giusto, perché riconsacrerà nel piano democratico la fine del dannoso divorzio tra la coscienza cattolica e la coscienza nazionale del nostro popolo, che nella sua quasi totalità rimane fedele alla religione dei Padri. (Approvazioni al Centro e su vari banchi).

È appunto l’appartenenza della grande maggioranza dell’Italia alla religione cattolica che giustifica appieno la nuova posizione di natura costituzionale che si dovrebbe fare e che, io spero, si farà ai Patti del Laterano.

L’onorevole Togliatti ha detto in un suo recente discorso all’Assemblea che i comunisti e i democratici cristiani hanno collaborato senza eccessiva difficoltà nelle varie Commissioni per la Costituzione, fino a che non si venne alla discussione di un grave problema, quello dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, cioè dei Patti lateranensi.

Questo modo di porre la questione già delinea, onorevoli colleghi, in modo sufficientemente chiaro la diversità di posizioni fra i vari gruppi. Vi era infatti e vi è tutt’ora la tendenza da parte di taluni a passare oltre questi rapporti, senza affrontarli. La Democrazia Cristiana invece ha creduto e crede di doverli affrontare ed ha portato e porterà nella discussione in proposito il peso di questo suo atteggiamento.

Per altri questo era ed è un problema che non interessa o che si preferisce evitare. Per noi involge la libertà spirituale dei cattolici italiani. Nessuna meraviglia, onorevoli colleghi: non per nulla sono diverse le dottrine che individuano, sul piano ideologico, i vari partiti e che sono alla base della dinamica delle competizioni democratiche. Io non trovo di meglio per raffigurare questa diversità di dottrine che appellarmi a quanto scriveva qualche mese fa il giornale dell’onorevole Nenni: «La differenza fra noi socialisti ed i democristiani (scriveva press’a poco l’articolista) è questa: noi, cioè il socialismo, accompagniamo l’uomo dalla culla alla bara; loro, cioè i democristiani, lo accompagnano pure come noi dalla culla alla tomba, ma non lo lasciano senza speranza oltre la tomba».

Esatto, onorevoli colleghi; per questo, altri si disinteressano dei Patti Lateranensi o li avversano, e per questo noi li difendiamo. Il segretario generale del Partito comunista ha auspicato che alla firma… (Interruzioni a sinistra Commenti).

Mi spiace di non poter sentire le vostre interruzioni, perché altrimenti risponderei volentieri.

TONELLO. Il Patto lateranense è però di questa terra.

TUPINI. Mira però a finalità superiori e tutt’altro che materialistiche, come pensa l’onorevole Tonello. (Approvazioni al centro). Dicevo, dunque, al momento in cui sono stato interrotto, che il segretario generale del Partito comunista ha auspicato che alla firma del fascismo, che è in calce ai Patti, si sostituisca la firma della Repubblica italiana.

Noi non desideriamo altro, onorevoli colleghi. I Patti firmati dal fascismo non sono nati come funghi sotto la pioggia della dittatura, ma furono preparati nell’attesa ansiosa di tutto il popolo italiano e dall’opera lenta e lungimirante di statisti egregi, tra i quali vedo ancora con soddisfazione in mezzo a noi gli onorevoli Nitti e Orlando, che con la loro presenza conferiscono prestigio e decoro alla nostra Assemblea. Inserendoli nella Costituzione, la Repubblica vi apporrà la sua firma solenne, che sarà la firma di una nazione credente, che vede nella pace religiosa la premessa e la garanzia della sua unità politica e della sua ricostruzione democratica. Non bisogna vedere in essi tutto nero, come avete fatto voi, onorevole Calamandrei, attraverso le lenti affumicate del vostro, non dirò bizzarro, ma arguto spirito fiorentino. (Ilarità).

Questi Patti hanno segnato la fine di un dissidio tra la coscienza cattolica e quella nazionale del Paese. Hanno cancellato – bisogna ricordarlo – una ipoteca, prima di essi sempre accesa, sull’unità del nostro territorio; e poiché sono due, Trattato e Concordato, di cui uno condiziona l’altro, non credo che debba essere così pesante, anche per uomini come voi, che vi mostrate contrari ad uno solo o a qualche parte di uno di essi, quella che chiamate – e vorrei che non fosse – la «sopportazione dell’ospitalità di entrambi nella Carta costituzionale». (Approvazioni).

D’altra parte, onorevoli colleghi, essi non costituiranno mai alcuna anchilosi o cristallizzazione di posizioni. Lo abbiamo detto molte volte in sede di discussione alla prima Sottocommissione: la Chiesa cattolica è sempre talmente saggia che, intransigente nella difesa del suo patrimonio spirituale e religioso, mostra, come ha sempre dimostrato, di tenere esatto conto della varietà successiva o progressiva delle condizioni storiche dei vari Paesi, con uno spirito di adeguamento che desta sorpresa e meraviglia nei profani e, comunque, negli estranei alla dinamica della sua perenne vitalità.

Se ciò dovrà verificarsi a proposito dei Patti lateranensi. nessuna difficoltà di ordine costituzionale potrà opporvisi, in quanto l’articolo 5 del nostro progetto prevede che qualunque eventuale modificazione dei Patti bilateralmente negoziata ed accettata, esclude il procedimento di revisione costituzionale.

Né essi contraddicono, onorevole Calamandrei, alla libertà religiosa degli altri culti e delle altre confessioni, che avete ieri ricordato a proposito dell’incontro tra l’onorevole De Gasperi e i gruppi protestanti di America, perché i loro diritti sono ampiamente assicurati dall’articolo 16 del progetto, mentre, secondo l’articolo 5, viene anche ad esse data la possibilità di trattare con lo Stato italiano e di stabilire i reciproci rapporti in apposite intese. Si attua così sul terreno costituzionale quello che Jacques Maritain ha definito un pluralismo anche nel campo religioso.

Ma torniamo, onorevoli colleghi, al motivo dominante del mio discorso e cioè alla persona. Noi abbiamo voluto che di essa fossero affermate e garantite le caratteristiche peculiari: la libertà e la dignità. È vero che in una Costituzione non possono esservi solo delle norme da cui scaturiscono diritti azionabili. Dal secolo XVIII in poi hanno finito per avere la supremazia le dichiarazioni dei diritti. Ma è noto che quelle platoniche dichiarazioni hanno ben scarso valore, quando da esse non si facciano derivare istituti concreti e diritti azionabili.

Non potevamo, dunque, accontentarci – in ordine a ciò che attiene alla persona umana, e ai valori di cui essa è portatrice – di generiche dichiarazioni, come quella che da opposte e pur discordanti parti vorrebbero i sostenitori del preambolo. Se questo, onorevole Lucifero, dovesse unicamente servire per invocare sulla nostra Costituzione il nome e la protezione della divinità, ben più solenne sarà il sostegno di questa, se sapremo indicare in termini positivi l’avviamento alla realizzazione della volontà divina, che associa l’avvento del suo regno all’assicurazione del pane quotidiano, al perdono, al bene che vince il male, secondo la divina e umana e sempre perenne poesia del Pater noster. (Applausi al centro).

TONELLO. Ma questo è Catechismo. (Rumori).

TUPINI. È vero, onorevole Tonello, questo è Catechismo, ma il Catechismo è sempre il libro insuperato e insuperabile della più alta sapienza dei secoli. (Applausi al centro e in altri settori).

Ecco perché noi preferiamo istituti concreti e diritti azionabili, come quelli previsti dal nostro progetto.

Cito, tra gli altri, gli articoli in cui si assicurano libertà fisica, libertà di corrispondenza e di circolazione, di riunione e di associazione, e, sovratutto quello in cui, sulle orme della gloriosa scuola penale italiana, si afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e l’altro ancora, per il quale sono addirittura vietate le pratiche sanitarie lesive della dignità umana,

Ma due norme vogliono essere qui sottolineate, anche se per motivi diversi. La prima è quella che riconosce espressamente il diritto e il dovere della resistenza alla oppressione; norma, che può essere variamente apprezzata, ma che è opportuna, che è cristiana, perché furono i primi martiri e poi i nostri pensatori ad affermare, attestare e a testimoniare colla vita il diritto e il dovere di resistenza all’ordine contrario alla legge naturale e alla legge di Dio.

Nessuna apprensione, però, nessun allarme per questa disposizione.

Il pericolo che il cittadino abusi di quest’arma, che la Costituzione gli pone nelle mani, in Italia non vi sarà; perché, in ultima istanza, sarà sempre il giudice a decidere se il singolo ha fatto buon uso del suo potere ed ogni ordinamento giuridico trova la sua messa a punto nell’opera costante della giurisprudenza.

L’altra norma, sulla quale mi preme richiamare l’attenzione dei colleghi dell’Assemblea, è quella che prevede l’abolizione della pena di morte, idea che è vanto del nostro pensiero e della nostra storia e che, per noi italiani, ha un nome immortale ed universale: Beccaria; idea che è cristiana, perché non l’uomo ha diritti sull’uomo; idea che l’Italia aveva dovuto accantonare e non già dimenticare per volontà di una tirannide ventennale, idea che chi vi parla sentì di dover affermare mediante apposito decreto legislativo come uno dei primi atti del primo Governo libero e democratico formatosi all’indomani della liberazione di Roma.

Esaminata così la posizione che il progetto fa alla persona umana nell’ambito che trascende la materia e i confini stessi dello Stato, consideriamola ora in se stessa e in quella delle minori comunità naturali. La Repubblica italiana prenderà cura della salute e dell’igiene del popolo, della sua educazione e della cura degli indigenti. Speriamo, onorevole Calamandrei, che la situazione economica italiana si liberi presto dalle stretture che oggi la comprimono; noi ci proiettiamo nel futuro e dobbiamo adoperarci perché le attuali condizioni di miseria siano superate e il futuro legislatore possa fare onore all’impegno che la nuova Costituzione si prepara ad assumere. Lasciamo, dunque, libero il passo ai non possidenti e proclamiamo in termini chiari e precisi la volontà di redimerli dal male fisico, che spesso è anche causa di quello morale e spirituale. Il nostro progetto li ha voluti sempre presenti, anche se non li nomina, e predispone gli ordinamenti degli istituti politici e giuridici in vista della loro redenzione. Per essi si delineano attività e funzioni capaci di condizionare il progresso della società umana; per essi la legge stabilisce degli obblighi e dei vincoli alla proprietà terriera e limita il latifondo. Non dunque per la porta di servizio, né per un gesto di degnazione, i proletari entrano nella Costituzione d’Italia. Ma la libertà e la dignità dell’uomo non saranno mai sicure se non si darà al lavoro la preminenza su ogni altro valore economico e se il lavoro non sarà il fondamento stesso della Repubblica. Né qui si deve intendere il solo lavoro manuale, alla stregua di una concezione piatta e materialistica della vita: l’articolo primo, infatti, si integra con l’articolo 31, in cui il lavoro è considerato come condizione dei diritti politici e in cui si precisa che ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività e una funzione che non è quella onorevole Calamandrei, del dolce far niente, ma di concorrere allo sviluppo materiale e spirituale della Società. È lavoratore, dunque, per una espressa norma statutaria, non solo l’operaio manuale, l’artigiano, ma anche il maestro, ma anche il sacerdote, ma anche il missionario: chiunque concorra alla potenza della tecnica e della cultura, della civiltà e della morale italiana, comprese anche, onorevole Lucifero, le cosiddette suore di clausura che, secondo la legge divina della compensazione, pregano e con le loro preghiere ristabiliscono l’equilibrio turbato dai nostri e dai vostri peccati. (Applausi al centro Interruzioni a destra Commenti a sinistra).

Una volta che la civiltà del lavoro fa il suo ingresso trionfale nella Costituzione è logico che la proprietà debba esservi da un lato riconosciuta e dall’altro limitata. Riconosciuta innanzitutto: perché se è titolo di nobiltà il lavoro, bisogna pur difendere l’onesto frutto della fatica del lavoratore…

TONELLO. E il disonesto?

TUPINI. Il disonesto sarà perseguito e condannato. Non è d’accordo con me, onorevole Tonello, che bisogna difendere l’onesto frutto della fatica del lavoratore? TONELLO. Sì.

TUPINI. E allora, perché mi contraddice? Pretende forse al monopolio socialista di questi principî? (Approvazioni al centro Rumori a sinistra).

TONELLO. Parlo del frutto del lavoro dogli altri…

PRESIDENTE. Onorevole Tonello, per favore, non interrompa.

TUPINI. …tutelandone il risparmio, nonché la piccola e media proprietà che rappresentano la proiezione e l’integrazione della stessa sua personalità. Ma oltre ciò non è lecito andare, onorevoli colleghi. Il latifondo, la proprietà che giace sterile, che non serve al bene comune, non può trovare diritto di cittadinanza in una cristiana Repubblica, ove il cittadino non vive isolato ed ha invece vincoli di solidarietà con i propri simili.

Così, per il bene comune, deve essere possibile e lecito espropriare e trasferire allo Stato, agli enti pubblici o a comunità di lavoratori e di utenti, determinate imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni monopolistiche di preminente interesse generale. Ciò, naturalmente, previo il giusto indennizzo. Secondo il nostro pensiero – che è il pensiero della scuola sociale cristiana – l’espropriazione è un atto necessario quando serve al bene della comunità, quando rappresenta un vantaggio economico superiore a quello prodotto dall’iniziativa privata; ma non può mai avvenire senza adeguato indennizzo della proprietà espropriata. (Approvazioni).

Sono altresì raccomandate e previste nel nostro progetto la cooperazione e la partecipazione dei lavoratori alla vita delle aziende. Questo punto di vista noi difenderemo, poiché esso rappresenta il riconoscimento e l’attuazione di una civiltà, di un ordinamento giuridico e sociale in cui il lavoratore è posto al centro e sottratto alla speculazione, alla miseria, alle cause insomma che feriscono la sua libertà e la sua dignità.

Quale pilastro naturale della società è concepita da noi anche la famiglia, e come tale riconosciuta e tutelata nella sua indissolubilità, nella sua saldezza e nella sua missione. La donna vi trova eguaglianza e parità di fronte all’uomo, che pur dovrà sempre essere – ricordatelo, onorevoli colleghi – il primus inter pares. La prole legittima vi è educata, nutrita, istruita, mentre i figli nati da colpa, senza loro colpa, dovranno anche essi avere un trattamento di giustizia, ma che non si risolva a detrimento dell’unità e dell’integrità della famiglia legittima. I termini del progetto a questo riguardo non si presentano abbastanza chiari e dovranno essere perciò, nel corso della discussione, approfonditi e chiariti.

E, accanto alla famiglia, il Comune, che è tanta parte della storia d’Italia, e fra il comune e lo Stato, intermediaria, la regione.

Bisogna dire che questo è un postulato tipicamente e prevalentemente nostro, anche se sostenuto con forza, con energia e con efficienza da esponenti di altre correnti politiche che siedono su questi banchi. Essa è tale, la regione, che garantisce un effettivo «self-government», senza frammentare lo Stato stesso.

Peraltro, la sua attività, anche quando è di competenza esclusiva, primaria, anche quando è di natura legislativa, resta infrenata nel rispetto dei limiti costituzionali con opportuni eventuali interventi della Corte Costituzionale.

Si è da taluno accennato, a questo riguardo, al pericolo di salti nel buio, di ritorni al feudalesimo ed al campanilismo, e, addirittura, di nuovi indugi che si frapporrebbero alla soluzione degli stessi gravi e cogenti problemi meridionali.

Il pessimismo, onorevoli colleghi, non ha mai creato e non crea nulla di concreto. E questa volta la prova del suo torto è nel fatto che il regionalismo, così come noi lo concepiamo e che ci auspichiamo venga realizzato nel nostro statuto, è qualche cosa di ben lontano e diverso dal federalismo, mentre è proprio dal Mezzogiorno che ci giungono istanze di maggiori autonomie.

Anche il problema del Mezzogiorno va impostato e risolto in termini di libertà. L’accentramento si paga sempre in moneta di libertà. Il decentramento è ragione e fonte di autonomia. La difficoltà di trovare il punto in cui l’autonomia si concilii con l’unità e la saldezza dello Stato mi pare di vederla felicemente superata in quelle norme del progetto, in cui si dispone che, sotto il controllo della Corte Costituzionale, la regione non può essere avulsa dalla compagine economico-sociale del tutto, in quelle in cui si vietano dazi d’importazione e di esportazione regionale e in quelle ancora in cui, riconoscendosi la potestà legislativa della regione, si stabilisce che quella attività non può essere mai discordante con la Costituzione e gli interessi dello Stato e delle altre regioni. La regione sarà così il tramite per avvicinare, non per allontanare, la periferia e il cittadino al centro; la regione non sarà considerata causa di discrasia e di lacerazione, ma costituirà il più grande baluardo contro la suggestione e l’avvento delle dittature. E se taluno pensasse che, allontanato il pericolo di una dittatura nazionale, si favorisce, con la regione, quello di dittature locali, l’articolo 118, prevedendo in loco un commissario del Governo e l’articolo 117 lo scioglimento della regione per gravi violazioni di legge, fugano ogni timore al riguardo.

Onorevoli colleghi, l’ordinamento della Repubblica, previsto dal progetto, è lo strumento di attuazione di principî che ho avuto l’onore di richiamare nel corso del mio intervento in questa discussione. Qui si passa dal piano teorico a quello concreto dell’articolazione della organizzazione costituzionale, delle garanzie e dei limiti di libertà.

Punto centrale e fulcro di tutto l’ordinamento è il Parlamento. Noi auspichiamo che il Parlamento possa, in avvenire, rappresentare per il nostro popolo come il palladio delle sue libertà e l’istituto senza del quale la democrazia è nome vano e artificioso. Anche il regime fascista parlava di democrazia, ma il Parlamento era ridotto a una smorfia ed a una contraffazione di se stesso. E così, ovunque il Parlamento non sia espressione di libero voto ed autore di libere determinazioni, la democrazia è la maschera e non il volto di un regime democratico. (Approvazioni).

A chi spetterà, onorevoli colleghi, il compito di rendere vitale ed efficace il nostro sistema parlamentare? Soprattutto, e direi esclusivamente – non si scandalizzi nessuno – ai partiti. Contro di essi si appuntano e si appunteranno molte critiche, in parte anche giustificate; ma è illusione o ipocrisia affermare o anche pensare che un regime democratico possa oggi funzionare senza partiti, senza i partiti politici. Non è il sistema dei partiti che va criticato, ma sono le colpe specifiche, sono le concezioni eterodosse dal punto di vista democratico di alcuni partiti che vanno combattute; altrimenti si combatte la stessa democrazia che non può funzionare al di fuori di essi e della loro realtà.

Il giorno in cui i partiti cessassero di esistere e al loro posto subentrasse il partito unico, sarebbe, signori, l’atto di morte della democrazia e sulle sue rovine insorgerebbe prepotente e tirannica una nuova dittatura.

Naturalmente altri sono i partiti ed altri i gruppi e i gruppetti che esprimono piuttosto aspirazioni e ambizioni di singoli che vaste esigenze di collettività. Noi vogliamo parlare delle formazioni politiche basate su una fede, unite da un comune sentimento, sollecitate da legittimi interessi, espressioni di idee più che di uomini singoli. In questo senso i partiti sono necessari e salutari alla democrazia. Quando manca un partito, ammoniva il Minghetti, si resta a discrezione dei gruppi, ed aggiungeva: non è possibile un Gabinetto forte, autorevole, parlamentare, senza indicazioni di voti, compagini di idee, base di partiti. Se le vecchie Camere italiane hanno avuto i loro torti, questi ebbero causa, in modo preminente, nell’assenza di grandi partiti, che fece decadere il Parlamento nel parlamentarismo. I partiti saranno invece di grande aiuto alla giovane democrazia italiana, a condizione però:

1°) che attuino sinceramente il metodo democratico, a cominciare dal loro interno, e che si propongano di attuarlo nel Paese;

2°) che non si ingeriscano indebitamente nella pubblica Amministrazione;

3°) che svolgano fra il popolo una vasta funzione educatrice di libertà, suscitatrice di civili competizioni politiche.

Noi crediamo che la democrazia potrà realizzarsi in Italia nella misura in cui potrà realizzarsi l’educazione popolare e potrà essere contenuta la demagogia, nemica irriducibile di ogni educazione. Ripetendo esattamente le parole di Mazzini, noi potremmo dire: l’educazione è la grande parola che racchiude tutta quanta la nostra dottrina.

Il progetto prevede, onorevoli colleghi, che il Parlamento sarà composto della Camera dei Deputati e della Camera dei Senatori. La Democrazia cristiana, come sapete, si è battuta e si batterà a favore del bicameralismo. Perché? Per motivi attinenti al perfezionamento tecnico dell’ordinamento statale e per profondi motivi politico-giuridici che si riassumono nell’alta opportunità politica di costituire saldi presidi alle libertà costituzionali.

Le accuse fatte alla seconda Camera non sono, a mio avviso, esatte e spesso scambiano l’istituto con qualche tipo storicamente determinato di Camera alta. Ma è facile dimostrare che la seconda Camera prende significati e funzioni diverse a seconda del suo modo di composizione e delle forze politico-sociali che essa rappresenta. Se vi sono, e vi sono stati, precedenti tipi di Senati rappresentativi di forze politico-sociali privilegiate, vi sono, negli ordinamenti contemporanei di alcuni Stati, delle seconde Camere che rappresentano invece forze popolari espresse attraverso il metodo elettivo e che integrano la rappresentatività dell’altro ramo del Parlamento.

Non dunque, onorevoli colleghi, per spirito «reazionario», come è stato detto da alcuni, noi abbiamo difeso e difendiamo il bicameralismo, ma proprio per l’opposta concezione di integrare e rendere più sicura la democrazia. Se reazione vuol dire antilibertà, noi, invece, sosteniamo la Camera dei Senatori come garanzia di libertà ed insieme elemento di progresso sociale.

Attraverso la elezione a base regionale che, secondo me, dovrà essere meglio approfondita in sede di discussione generale, essa potrà infatti radunare e rappresentare ceti e forze che non troverebbero altrimenti il loro riflesso nello Stato. La Camera dei Senatori contribuirà al perfezionamento tecnico della funzione legislativa ed al consolidamento del nuovo ordine repubblicano.

Un’altra obiezione è stata fatta: cioè che la seconda Camera sia la sopravvivenza di una tradizione monarchica incompatibile con la Repubblica. Io rispondo con le stesse parole con cui Duverger de Hauranne rispondeva alla medesima obiezione della Costituente francese del 1848: «Quanto a me, egli diceva, sono di avviso completamente opposto. Credo che bisogna parlare di tradizioni delle repubbliche ben più che delle monarchie. Ed ecco perché le Costituzioni, se non sbaglio, hanno per scopo quello di introdurre nelle diverse forme di Governo le qualità che loro mancano e di preservarle da vizi che potrebbero prendere. Quale è il vizio delle monarchie? «La routine» e l’immobilità. Qual è il vizio delle repubbliche? La mobilità e la precipitazione. Io concludo che se noi facessimo una Costituzione monarchica dovremmo premunirci contro la «routine» e l’immobilità; ma quando noi facciamo una Costituzione repubblicana è, soprattutto contro la precipitazione e la mobilità che noi dobbiamo metterci sempre in guardia». Sono parole ancora attuali, onorevoli colleghi, e sulle quali dobbiamo tutti meditare. Guai, io dico, se gli ordinamenti che stiamo per dare non dovessero dimostrarsi stabili e sicuri. Il popolo, abituato alla stabilità secolare del vecchio statuto, perderebbe la fiducia nel nuovo Stato che deve, invece, sorgere forte e al riparo da ogni insidia.

Onorevoli colleghi, ho l’impressione, per finire, che questo progetto costituisca, anche se imperfetto, una prova della capacità del nostro popolo ad elevarsi a più alte concezioni di vita, verso nuove e umane istituzioni giuridiche e sociali. Ho la convinzione che il mio partito abbia degnamente assolto finora al suo compito, a presidio dei valori eterni dell’uomo. La Democrazia Cristiana vuole essere la trincea avanzata ove si combattono le buone battaglie contro la disumanizzazione della vita e l’asservimento dell’uomo all’uomo. Difendendo la persona umana nelle sue aspirazioni secolari e nelle sue necessità vitali, sappiamo per ciò stesso di difendere la libertà, la democrazia e i valori eterni della civiltà cristiana.

L’Italia ha subito una disfatta fra le più grandi della sua storia; ha visto distrutte parte delle sue città, dei suoi comuni, delle sue navi, dei suoi cantieri, delle sue strade; tuttavia l’Italia dimostra di essere sempre viva e operante nel campo del pensiero, della civiltà e del diritto. Questo progetto, quando attraverso le nostre discussioni sarà stato completato nelle sue parti manchevoli, depurato delle sue imperfezioni, raffinato nella sua struttura, dovrà esserne la prova evidente.

L’applicazione della pena come mezzo di rieducazione, l’abolizione della pena di morte, la sollecitazione verso una comunità internazionale valida ed effettiva, la proclamazione della civiltà del lavoro, la libertà conciliata con l’autorità, auspice la legge che ne è il punto vitale d’incontro e di compenetrazione, il regionalismo temperato e ancorato alle esigenze dell’unità nazionale, il presidio parlamentare della democrazia, la indipendenza delle funzioni giudiziarie, garantita su basi di sicurezza economica della Magistratura e su una ben congegnata autonomia di poteri: ecco, onorevoli colleghi, in sintesi, i pilastri fondamentali di questo progetto, che trae gran parte della sua ispirazione dalle istanze sempre vive dell’umanesimo cristiano. Ma noi sentiamo che questa è anche la vera voce d’Italia, voce che di continuo si leva dalla tradizione del nostro popolo, e alla quale seguitano a fare eco le voci sorelle di tutte le nazioni ove, al di là delle lingue particolari, si parla il comune grande linguaggio del Cristianesimo. Quella voce è il filo antico e nuovo che ci collega al nucleo vitale della comunità civile, europea e mondiale. Rafforzare quel filo e annodarvi saldamente la nuova democrazia italiana, questo è il compito storico che l’Assemblea Costituente dovrà assolvere. (Vivissimi, prolungati applausi al centro e in altri settori Molte congratulazioni).

TONELLO. Richiamandomi al Regolamento, desidero osservare che i discorsi non dovrebbero essere letti.

PRESIDENTE. Onorevole Tonello, penso che lei sia ben sicuro che io, approssimativamente, conosco il Regolamento. Pertanto, se avessi avvertito l’esigenza di fare questa osservazione, l’avrei fatta. Ma io credo che nell’occasione di questa discussione speciale, nella quale ritengo ed auguro che non si dicano cose non troppo bene meditate, si possa anche largheggiare nell’interpretazione delle disposizioni regolamentari. (Applausi al centro).

È ora iscritto a parlare l’onorevole Della Seta. Ne ha facoltà.

DELLA SETA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, conforme alla topografia ideologica o alla ideologia topografica di questa Assemblea, dovrei cominciare col dichiarare che io parlo a nome del Gruppo parlamentare repubblicano.

Ma, nell’ora storica nella quale questa Assemblea si accinge ad espletare il compito per cui è stata espressamente convocata, nell’ora storica nella quale per la prima volta la Costituente italiana è chiamata a discutere una Costituzione repubblicana, mi si permetta di dire che la parola «gruppo» mal risponde alla solennità del momento. Preferisco dire che per la mia modesta parola il gruppo parla a nome non di un partito, ma di una scuola, di quella scuola repubblicana italiana la quale, attraverso una lotta secolare, col pensiero e con l’azione, affermò il principio della sovranità del popolo, della sovranità nazionale, di quella scuola che, con la voce di Giuseppe Mazzini, costantemente, ardentemente, lanciò il grido: «Costituente e patto nazionale».

Oggi quanto i Padri sognarono si è in parte realizzato.

Il primo momento è stato segnato dal referendum, cioè dall’esercitato diritto del popolo per dare a se stesso il proprio civile ordinamento; il secondo momento è stato segnato dalla prescelta forma repubblicana; il terzo momento, il più solenne, è questo nel quale noi ora siamo qui raccolti per discutere la Costituzione, per fissare i principî basilari del nuovo ordinamento repubblicano.

Parole di colore oscuro sono state pronunciate ieri in quest’aula. L’onorevole Lucifero si è doluto ieri di non avere potuto portare in questa discussione il contributo dei propri studi. Certo deve essere un appassionato cultore di archeologia. L’onorevole Lucifero ha detto che questa Costituzione ha un carattere provvisorio, interlocutorio; che questa Costituzione è l’ombra di un sogno, che la Nazione non la sente, che c’è un vuoto e su questo vuoto non c’è un ponte, ed ha aggiunto che l’ideale della Costituzione dovrebbe essere una Costituzione, sintesi – d’accordo in questo con l’onorevole Togliatti – di tutte le ideologie.

La Costituzione dovrebbe quindi essere da un lato un amalgama ibrido di tutte le tendenze politiche; e dall’altro, anche se repubblicana, una Costituzione solo in difesa della minoranza monarchica.

L’onorevole Calamandrei ieri ha anche tenuto a rilevare che, se in questa Costituzione ci sono dei difetti, è che questa Costituzione non è un epilogo, ma è un prologo, non segna il risultato di una rivoluzione, ma l’inizio di un lungo cammino che ancora è da percorrere. Ora, onorevole Calamandrei, quello che lei ha detto, in parte è vero; ma mi lasci rispondere all’onorevole Lucifero che se oggi siamo qui a discutere una Costituzione repubblicana, una tale Costituzione non è il risultato esclusivo di date contingenze, di contingenze che possono riassumersi nelle colpe di una monarchia complice del fascismo; ma per noi questa Costituzione è il risultato di tutto un processo storico, in piena rispondenza con la evoluzione della coscienza morale. Il problema che noi oggi poniamo, il patto che noi oggi discutiamo, non costituiscono un fatto semplicemente politico, economico o sociale; è un fatto anzitutto per noi di ordine morale. C’è nella Costituzione un titolo che parla dei poteri del Presidente. Orbene, questa Costituzione repubblicana sta a significare che noi riteniamo che alla sommità dello Stato non si può, non si deve più ormai ascendere per il diritto ereditario, feudale, di nascita, ma ci si deve ascendere per la dignità della mente coronata dalla virtù. Questo non si vuole intendere; e questo invece è il punto che bisogna mettere in particolare rilievo.

Ora, non rileverò quelli che sono i pregi di questa Costituzione. Non siamo qui per fare l’apologia o il panegirico del testo. Riconosciamo le sue innegabili benemerenze; e ampia lode va data ai membri delle Sottocommissioni.

Le libertà fondamentali sono riconosciute; la sovranità del popolo è affermata; consacrato il diritto di referendum e di petizione; la responsabilità dei pubblici poteri è sancita; le autonomie locali sono riconosciute; i nuovi rapporti economici e sociali, i diritti di gestione, le organizzazioni sindacali, la eventuale socializzazione di dati complessi industriali sono ammesse; la indipendenza della magistratura è stata riaffermata; la pena di morte è stata abolita e tante e tante altre norme e tanti e tanti altri istituti che innegabilmente imprimono all’attuale progetto il carattere di una Costituzione essenzialmente democratica.

Il merito principale di questa Costituzione è questo: in essa non si parla semplicemente di diritti, ma anche di doveri. In questa Costituzione troviamo la sintesi tra il principio individuale e il principio collettivo. In questa Costituzione, inspirata al sentimento della solidarietà sociale, è giustamente riconosciuta la preminenza del fine collettivo sul fine individuale, pur affermando in pieno il valore della personalità umana.

Ma io non posso soffermarmi su questo. Devo fare delle considerazioni di ordine generale. Non intendo fare ciò che qualche collega ha già fatto, cioè una sintesi di tutto il progetto, né tanto meno intendo soffermarmi su questo o su quel problema particolare; perché allora questa non sarebbe più una discussione generale. Io debbo attenermi alla norma che il nostro Presidente ci ha ricordato. Mi limiterò a valutare il progetto di Costituzione nelle sue linee generali, riferendomi ad un qualche articolo, ad una qualche norma solo per avvalorare il problema generale che è in discussione.

Sarò aridamente schematico; sarò scandalosamente breve.

Primo punto. Sono lieto che l’onorevole Calamandrei abbia cominciato il suo discorso proprio con una osservazione che, parecchi giorni or sono, in data 20 febbraio, feci in una intervista che fu pubblicata dalla Voce Repubblicana, col titolo: «Estetica della Costituzione».

Una Costituzione è una Costituzione. Non è questo che enuncio un giudizio tautologico. Esso significa che una Costituzione non è una legge qualsiasi, né tanto meno è un Codice. Una Costituzione è un documento storico, solenne, nel quale, con i diritti e con i doveri del cittadino, è disciplinato, nei principî basilari, tutto l’ordinamento dello Stato. Orbene, non è esagerato il pensare che in rispondenza con questa storicità, in rispondenza con questa solennità, una Costituzione debba avere uno stile, tanto più quando si voglia fare una distinzione fra una Costituzione che è semplicemente elargita, fra una Costituzione che è data dal potere già costituito – quali i famosi statuti del nostro Risorgimento – e una Costituzione che è dettata dal potere costituente, cioè dal popolo nel pieno esercizio della sua sovranità.

Una tale Costituzione deve, ripeto, deve avere uno stile; uno stile incisivo, lapidario; uno stile nel quale veramente, virilmente, si esprima il sentimento repubblicano di tutto un popolo, quel sentimento che non è semplice lealismo, è fede civile costante e profonda.

Vi potrei dire: leggete, ad esempio, la Costituzione repubblicana della Roma del 1849; preferisco dirvi: seguite l’esempio di Roma antica, di quella Roma che, in uno stile veramente lapidario, scolpì la sapienza delle sue leggi, ond’essa nei secoli è rimasta, e rimarrà, immortale.

Secondo. Più volte ho letto, nei resoconti delle sedute delle Commissioni, che una Costituzione ha anche un valore pedagogico. Giustissimo. Una Costituzione politica ha un valore pedagogico, in quanto addita una norma, in quanto segna un orientamento alla coscienza morale e civile del cittadino. Quindi, perché questa Costituzione possa possedere, veramente, questo valore pedagogico bisogna anzitutto che sia chiara. Chiara non solo nella dizione, onde essa sia facilmente accessibile anche alle comuni intelligenze, ma chiara anche nel senso che non contenga una qualche espressione equivoca, onde poi non dia luogo ad esercizi di ermeneutica legale e non si debba discutere se una norma legislativa sia o no incostituzionale.

Diamo un esempio, senza troppo addentrarci nei problemi particolari.

L’articolo 5 del progetto dice che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Giusto. Ma perché nel progetto non si è inserito quanto troviamo nella relazione dell’onorevole Ruini? Ordine interno ovvero ordine esterno? Bisogna ben chiarire se questa indipendenza, se questa sovranità concernano, semplicemente, l’ordine interno dello Stato e l’ordine interno della Chiesa ovvero concernano per ciascuno anche l’ordine esterno; il che porterebbe uno di questi poteri ad invadere illegittimamente la sfera dell’altro.

Bisogna precisare dunque che la Chiesa e lo Stato sono indipendenti, ciascuno, nel proprio ordine interno.

Altro esempio: all’articolo 28 è detto che i capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti dell’insegnamento.

Noi ben comprendiamo cosa con questo si è voluto dire. È sancita una giusta norma democratica cui non possiamo non consentire incondizionatamente; però l’espressione è equivoca. Sembra che gli incapaci e gli immeritevoli, se non privi di mezzi, abbiano il diritto di raggiungere i gradi più alti dell’insegnamento. Sarebbe più chiaro dire che solo i capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, ecc….

Terzo: una Costituzione è la espressione sintetica, non la espressione analitica del pensiero giuridico.

Più sobrio nelle sue norme è un articolo, minore è il numero degli articoli e la Costituzione avrà una maggiore efficacia esplicativa e persuasiva.

Il progetto pecca alquanto di prolissità. L’articolo 28, ad esempio, dice: «La scuola è aperta al popolo».

Ma è inutile dirlo; è pleonastico.

Basta dire, come poi è detto: «L’insegnamento inferiore, impartito per almeno otto anni, è obbligatorio e gratuito».

Occorre, per un qualche articolo o per taluni articoli, compiere quest’opera di raggruppamento, di sintesi; per conferire al testo una maggiore snellezza bisogna sfrondarlo del troppo e del vano.

Ma, in rapporto a questa esigenza di una maggiore sobrietà, dobbiamo soprattutto osservare che il progetto pecca, come già scrissi, di elefantiasi costituzionale. Si è voluto travasare nella Costituzione tutto il travasabile, quasi usurpando il campo dell’attività legislativa.

Si trovano, così, ad esempio, nel progetto, delle norme che riguardano il matrimonio e i figli naturali e la scuola privata e il diritto al riposo e le ferie retribuite: tutte norme che potranno essere diversamente apprezzate, ma che certo, anziché in una Costituzione, trovano il loro riconoscimento in un Codice civile e nella legislazione scolastica e sociale.

Voler conferire a certe norme il carattere della costituzionalità potrebbe anche nascondere l’insidia di voler fare della Costituzione un impedimento a previste riforme legislative che non si vogliono accettare.

Quinto: importante, in una Costituzione, è la sistematica; non è indifferente, in una Costituzione, la logica distribuzione delle parti; non è indifferente che una norma sia precedente o susseguente ad un’altra. Per esempio, nella parte prima i rapporti politici (titolo quarto) seguono i rapporti economici (titolo terzo). Io invertirei. Prima i politici, dopo gli economici. Non certo per disconoscere i valori di questi. Ma solo perché è attraverso un sano ordinamento politico che noi potremo attuare una vera democrazia del lavoro, una vera democrazia sociale.

Si è parlato molto, a proposito di sistematica, del famoso preambolo. L’onorevole Lucifero ed anche l’onorevole Tupini vogliono anzi un preambolo al preambolo, vogliono l’invocazione all’assistenza di Dio. Noi non abbiamo nulla in contrario a questo; noi comprendiamo tutta la grande importanza che, tra i problemi dello spirito, ha il problema religioso. Non poco della mia vita ho dedicato e dedico, filosoficamente parlando, allo studio del problema religioso. Ma non potremmo non domandarci: di quale Dio si deve parlare? Noi della scuola repubblicana abbiamo ereditato da Mazzini la formula «Dio e Popolo», non la formula panteistica «Dio è popolo». Il grande problema non è se Dio sia con noi, come tanti pazzi criminali affermarono, ma se noi siamo con Dio, cioè se sappiamo ascendere, individualmente e collettivamente, nella condotta individuale, nelle leggi e nelle istituzioni, a quel senso di spiritualità, a quell’anelito al bene, al giusto, all’onesto, senza di cui le repubbliche non si fondano, le repubbliche non si reggono. (Applausi). Noi respingiamo quel Dio che, pur consacrato in una Costituzione, pure untuosamente invocato, viene poi ateisticamente bestemmiato, facendolo complice necessario di ogni insania e di ogni delitto; facendolo talvolta anche sacrilego strumento di speculazione elettorale.

L’onorevole Lucifero vuole che nel preambolo ci sia una parola nuova: ma niente è nuovo sotto il sole; neppure il sentir dire che l’Italia oggi non ha bisogno di una nuova Costituzione, perché non la sente, e perché tutto si potrebbe ridurre a qualche ritocco dello Statuto albertino. Io comprendo il ritocco nel ritratto; comprendo, senza approvarla, l’arte del ritocco sul volto non bello di certe signore; ma, in fatto di Costituzione certi ritocchi non si ammettono, non si possono ammettere. Bisogna, gradualmente, rinnovare, con ben altri orientamenti, dalle fondamenta.

L’onorevole Lucifero, monarchico, parla dei diritti inalienabili e imperscrittibili del popolo; e quale diritto più inalienabile e più imperscrittibile di quello per cui un popolo non vuole abdicare la propria sovranità nelle mani di un monarca, cioè del privilegio ereditario dinastico?

L’onorevole Calamandrei vorrebbe che nel preambolo fossero inserite non delle vere e proprie norme giuridiche, ma delle norme etiche, che rappresentino un indirizzo, un orientamento, proiettate verso il futuro. Ora, io mi permetto di osservare che la Costituzione è quella che è; la Costituzione è una Costituzione; la Costituzione – la parola lo dice – è uno status. Le norme, anche se etiche, non possono essere norme vaghe, proiettate come un ideale verso il futuro. Una Costituzione, se non vuole ridursi ad un catechismo morale, se non vuole peccare di antistoricità, deve contenere norme precise, rispondenti, in una data ora, al reale stato delle coscienze.

Nel preambolo – se un preambolo ci deve essere – io scolpirei quei principî che scolpiscono, per così dire, lo spirito di tutta la Costituzione; nonché quei principii che oggi, non in quanto riconosciuti dallo Stato, ma in quanto, pur se conquista morale di tutto un processo storico, sono di diritto naturale, fanno parte del patrimonio spirituale dell’uomo e del cittadino e costituiscono, nell’ordinamento dello Stato, l’essenza della vera democrazia.

E quale principio più democratico, quale quello che riconosce la eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, che non disconosce, in rapporto a date funzioni, date prerogative, ma nega ogni privilegio, soprattutto il privilegio dinastico, il privilegio razziale, il privilegio teologale?

Tornando alla sistematica, per continuare negli esempi, io riporterei l’articolo 27, che riconosce la libertà dell’insegnamento lì dove si parla delle pubbliche libertà. Raggrupperei tutti gli articoli che concernono il referendum. Il conferimento della grazia e della commutazione di pena da parte del Capo dello Stato, come l’amnistia e l’indulto da parte dell’Assemblea, tutto questo lo riporterei là dove, nella parte seconda, si parla della magistratura. Al modo stesso che, come parte ultima della Costituzione, raggrupperei tutte quelle norme che hanno aderenza con l’ordinamento internazionale.

Ma c’è un’altra esigenza, un’esigenza logica, che non si limita alla razionale distribuzione delle parti, ma bensì esige quella logicità interiore che non permette in una Costituzione la contradittorietà. Comprendo una Costituzione retrograda; non comprendo una Costituzione contradittoria. La contraddittorietà, disautorandole, toglie valore morale alle norme stesse. La contraddittorietà, nella legge, specie in una Carta costituzionale, si può esplicare, non legittimare.

Ci si consentano taluni esempi. Non per entrare nel merito, ma per avvalorare il principio.

Noi troviamo, nella Costituzione, all’articolo 7, solennemente sancito il principio della eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, senza distinzione di opinioni religiose. E troviamo, all’articolo 48, non meno esplicitamente, sancita la eguaglianza dei cittadini nell’accedere ai pubblici uffici.

Molto giuste, giustissime, ad esempio, tutte quelle disposizioni che, nella Costituzione, sottraggono la donna a quelle condizioni di inferiorità morale, giuridica, politica ed economica nelle quali è vissuta da secoli.

Ma, sia lecito il domandare, come armonizzare il suddetto conclamato principio dell’eguaglianza sancito nella Costituzione con quanto è stabilito nei Patti Lateranensi inseriti nella Costituzione e con quanto si trova in altri Codici, in altre leggi, come logica esplicazione dei Patti stessi?

Primo esempio: l’articolo 5 del Concordato dice che un ecclesiastico, se irretito da censura, se apostata e quindi non più appartenente alla Chiesa e quindi tornato ad essere un cittadino italiano qualsiasi, non può concorrere a pubblici impieghi nei quali sia messo a contatto col pubblico, non può concorrere ad una cattedra, non può aspirare al pubblico insegnamento, anche se fosse un’arca di scienza, ponendolo così al bando dal mondo civile, condannandolo alla miseria, infliggendogli la pena della interdizione perpetua dai pubblici uffici, quella pena che il Codice penale contempla come appendice alla pena dell’ergastolo, per i più gravi reati infamanti.

Una tale disposizione, in una tale Costituzione che si vuol chiamare umana e cristiana, non solo contradice col principio dell’eguaglianza, ma è in contradizione anche con l’articolo 27 che nella Costituzione stessa sancisce la libertà dell’insegnamento.

Secondo esempio: l’articolo 36 del Concordato. Dice questo articolo che anche nella scuola pubblica tutto l’insegnamento – non solo l’insegnamento religioso – deve avere per fondamento e per coronamento la dottrina cristiana secondo la prassi cattolica.

Quindi delle due, l’una: il cittadino non cattolico, o dovrà rinunziare, pure avendone le attitudini, a concorrere al pubblico impiego come insegnante, oppure dovrà essere reticente, dovrà insegnare contro la sua coscienza; e parimenti un alunno non cattolico o dovrà rinunziare a frequentare la scuola pubblica, oppure contro coscienza dovrà subire un insegnamento conforme alla prassi cattolica. Anche questo non è eguaglianza.

V’è di più. Vi sono alcune disposizioni nel Codice penale che sono il risultato logico dei Patti Lateranensi, del carattere della confessionalità dello Stato. Tali disposizioni vogliono punire, e giustamente, il delitto di offesa al sentimento religioso. Giusto, perché chi offende il sentimento religioso è un cittadino che mostra di non essere un cittadino, in quanto manca degli elementi primi della educazione civile.

Ma che cosa si deve punire? Il fatto immorale per se stesso dell’offesa al sentimento religioso, ovvero deve esservi nel Codice penale una discriminazione confessionale per cui, se il maleducato offende il sentimento religioso di un appartenente alla religione della maggioranza, la pena sarà tanto, cioè più grave, mentre se offende un cittadino appartenente alla minoranza religiosa, allora la pena sarà minore?

Voglio lusingarmi che molti cattolici, molti demo-cristiani sentano la incongruenza, sentano la non moralità, la non giuridicità di tali disposizioni. Ciò che si deve punire è il fatto immorale dell’offesa per se stessa, non può essere un criterio di giudizio il contenuto teologale della religione dell’offeso.

Nelle leggi, in tutte le leggi, e specialmente nel Codice penale, non vi possono, non vi debbono essere discriminazioni di carattere confessionale. Se queste discriminazioni vi sono, non parliamo più di eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.

È proprio un democristiano, l’onorevole Cappi, che, prendendo la parola sulle comunicazioni del Governo e rivolgendosi all’onorevole Togliatti, ebbe giorni or sono, a dire: quando ci troviamo dinanzi ai grandi problemi dello spirito, quando è in giuoco il grande problema della giustizia, allora queste distinzioni, in nome della democrazia, fra maggioranza e minoranza non contano, non valgono, perché altri sono i criteri, cioè i criteri morali con i quali tali problemi debbono essere posti e risoluti.

Quindi, concludo: a proposito di questa logicità interiore che deve animare una Costituzione, vi sono ancora in questo progetto delle incongruenze, delle illogicità, per cui, se si vuole realmente affermato il principio dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, bisogna togliere alcune disposizioni che si trovano nel Concordato e nel Codice penale, tuttora vigente.

Un’ultima osservazione: una Costituzione non deve essere reticente, deve dire esplicitamente quello che afferma.

Noi potremmo distinguere le Costituzioni pavide dalle Costituzioni coraggiose. Parlo come se fossi un cattolico fervente. Non qui è questione di problemi religiosi. All’articolo 5 del progetto si dice che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono disciplinati dai Patti Lateranensi. Io conosco tanti, anche fra gli onorevoli colleghi, ed anche fra gli uomini di legge, che sono venuti a dirmi: hai letto i Patti Lateranensi? Io non li conosco.

Orbene, mettete questa Costituzione nelle mani di un cittadino qualsiasi, il quale ha pure il dovere di conoscere la legge fondamentale dello Stato. Cosa potrà apprendere e comprendere nel leggere che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono disciplinati dai Patti Lateranensi? Nulla, assolutamente nulla.

Bisogna distinguere (parlo, ripeto, come se fossi un convinto e fervente cattolico) bisogna distinguere, in questi Patti, quelle norme che disciplinano dati rapporti particolari, da quelle, più generali, che scolpiscono, per così dire, la stessa fisionomia dello Stato, quelle che ci dicono se lo Stato ha o non ha una sua religione, se è o non è confessionale. Si comprende che, in una Costituzione, la norma, cioè il principio basilare, si riferisca alla legge posteriore che, nei particolari, avrà il compito di esplicarla e di disciplinarla; non si comprende che in una Costituzione, un principio basilare, taciuto, si riporti, per la conoscenza, ad una legge, ad una convenzione anteriore, di cui si ignori, all’istante, il contenuto.

Se dunque si vuole che il nuovo Stato abbia il carattere confessionale, se si vuole che esso abbia una sua propria religione, se si vuole che questa religione sia la cattolica apostolica e romana, ebbene, si abbia il coraggio di consacrare tutto questo in un esplicito articolo della Costituzione.

Una Costituzione reticente non è una Costituzione convincente.

Bisogna che il cittadino, senza riferimenti sibillini, possa conoscere immediatamente i principî basilari cui s’informa la costituzione.

Bisogna che una costituzione, sin dal suo primo articolo, riveli, lealmente, quale sia il suo reale volto, la sua propria fisionomia.

Bisogna che una Costituzione – come espressione della educazione civile e politica di tutto un popolo – possa esporsi al libero giudizio delle nazioni.

Lo spirito, purtroppo, che pervade questa Costituzione – lo avete udito già tante volte e lo udrete ancora – è, per quanto si cerchi di negarlo, lo spirito del compromesso. Nessuna meraviglia: esso è la risultante logica, non dirò del modo col quale è stata composta la Commissione, ma della situazione politica che ha portato a tale composizione.

Il compromesso è nei partiti, è nel Governo, è nella Commissione, è nella Costituzione. Si è voluto tra le due forze divergenti, evitare quel contrasto che avrebbe portato ineluttabilmente a due soluzioni, a due progetti: uno di maggioranza ed uno di minoranza. Ma il contrasto è rimasto indiscutibile ed irriducibile.

Si ha in questo progetto una Costituzione bifronte; è progressiva e retriva. Da una parte, per la costituzione repubblicana, per le fondamentali libertà, per le autonomie regionali, per le norme economico-sociali essa va oltre il liberalismo, va verso la democrazia; dall’altra, per lo Stato confessionale, pel ritorno allo Statuto albertino, cioè, su questo punto, allo Stato fascista (Rumori al centro); dall’altro, nelle menomazioni morali e giuridiche delle minoranze religiose, essa assume posizioni anacronistiche ormai superate dalla coscienza moderna, perché più non rispondenti alla ragione storica dei nuovi tempi.

Sarà superato questo dualismo? Auguriamocelo. Noi non dubitiamo che, attraverso un’ampia, libera e degna discussione, molte dissonanze potranno essere eliminate. Ma, qualunque sia per essere il risultato, noi della scuola repubblicana rimaniamo imperturbabilmente sereni. Noi ci affidiamo alla legge morale che non può mai essere violata impunemente; noi ci affidiamo alla legge della storia, il cui cammino, senza tragiche esperienze, non può mai essere ripercorso a ritroso.

Sul terreno morale noi educheremo i cittadini a rispettare la Costituzione, che è pur stata sempre una grande conquista della libertà, a prezzo di tante lagrime e di tanto sangue; ma li educheremo anche al senso della storia che porterà i futuri cittadini, i futuri legislatori, a ricorrere a quel diritto di revisione che sta a ricordare che – ferma restando la forma repubblicana – le stesse istituzioni democratiche sono suscettibili, nel tempo, di essere corrette e perfezionate. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Lucifero per fatto personale. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Ho chiesto di parlare per rispondere ad una domanda rivoltami dall’onorevole Della Seta al principio del suo discorso. L’onorevole Della Seta ha detto, circa il mio discorso di ieri, alcune cose alle quali non rispondo perché non le ho dette. C’è il resoconto stenografico a sua disposizione, come di qualunque altro, per poterlo constatare.

L’onorevole Della Seta mi ha domandato a quale Dio io mi riferivo nel mio preambolo. Rispondo all’onorevole Della Seta che quando si parla di Dio, ognuno di noi si riferisce a quel Dio nel quale crede. Per me, Dio è uno solo. Ma vi è un Dio che vive anche in coloro che in Dio non credono, che vive attraverso gli impulsi e i richiami della loro coscienza, cioè quel Dio che è la parte migliore dell’uomo; anche a quel Dio io mi riferivo. (Commenti).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mastrojanni. Ne ha facoltà.

MASTROJANNI. Onorevoli colleghi, ritenevo, in vero che a me spettasse di parlare domani. L’assenza di alcuni colleghi mi impone, invece, di prendere la parola innanzi tempo. Vi chiedo quindi venia preventivamente se, mancandomi le cartelle indicatrici dell’ordine del discorso, seguirò involontariamente un ordine non ortodossamente predisposto. Le critiche e le osservazioni che mi propongo di svolgere al progetto di Costituzione saranno serene ed obiettive e spero che non vorranno essere considerate come l’opera nefasta che la mitologia attribuisce a Saturno. Dico questo perché, avendo fatto parte della prima Sottocommissione per il progetto di Costituzione, mi devo ritenere in qualche modo coautore della Costituzione stessa. Ma se gli onorevoli colleghi avranno seguito i resoconti dei lavori della Sottocommissione, attraverso il resoconto a stampa che tempestivamente è stato distribuito, dovranno darmi atto che il mio dissenso non è di oggi, ma è stato contestuale alla discussione e all’approvazione dei diversi articoli.

Io non dirò che la Costituzione sia da respingersi, ma dirò anzi che essa è stata profondamente meditata ed elaborata, ed anzi fin troppo meditata, se essa ci viene presentata, nella complessità spesso eufemistica delle sue formule, le quali sono sapientemente congegnate ed organicamente distribuite, talché in esse io vedo uno stile coerente, al contrario di quanto ieri l’onorevole Calamandrei ha rilevato in ordine allo stile stesso.

Mi riferisco logicamente non allo stile soggettivo, ma allo stile obiettivo, quello che è insito cioè, secondo la definizione di Buffon, nella cosa stessa, e che rileva, in questo progetto una sapiente organica struttura, coerente dal suo esordio, contenuto nelle disposizioni generali, fino al suo epilogo. Si nota, infatti, attraverso tutto lo svolgimento, una elaborazione logica, rispondente ai principî informatori della stessa Costituzione, nella quale è possibile individuare una caratteristica particolare che non sfugge al controllo di un esame approfondito. Se apparentemente il progetta rappresenta l’ideale delle Costituzioni, in quanto sembra, ma solo apparentemente, che i sacri, inalienabili e imprescrittibili diritti dell’uomo siano stati esaltati fino all’esasperazione, sostanzialmente – come mi propongo di dimostrarvi – le incrinature, le vulnerazioni proprio dei diritti sacri della persona umana sono di sostanziale contenuto.

Onorevoli colleghi. La prima domanda che logicamente ed elementarmente vien fatto di rivolgere a se stessi, allorché si esamina l’organico congegno della Costituzione, è quella che si riferisce al miracolo raggiunto ed esaurito in pochi mesi, durante i quali le antitesi più inconciliabili ed i contrasti ideologici e programmatici dei diversi partiti, hanno trovato soluzioni apparentemente soddisfacenti per tutti, talché sembra impossibile che si sia potuto, attraverso i compromessi, storicamente affermare il presente e politicamente impegnare l’avvenire.

Se questa realtà storica è evidente, se queste antitesi inconciliabili esistono e permangono, se i diversi partiti che hanno concorso alla formazione di questa Costituzione devono prossimamente render conto, ai propri elettori, delle conquiste consacrate per il presente e di quelle proiettate nel futuro, io mi domando come potranno questi partiti di massa, egualmente servirsi delle stesse formule consacrate nella Costituzione, per potere soddisfare le opposte ideologie che costituiscono il fondamento della fortuna politica dei diversi partiti di massa. La ragione deve esserci: i colleghi che mi hanno preceduto, hanno dimostrato ed hanno esaltato questo spirito conciliativo, ed anzi da questo spirito conciliativo, consacrato nelle formule della Costituzione, hanno tratto auspicî per la possibilità di una pacifica collaborazione nell’avvenire.

Io penso invece che non a compromessi debba attribuirsi questo miracolismo conciliativo, ma debba invece ritrovarsi nella perspicacia e nella speculazione filosofica e politica dei diversi esponenti dei partiti che hanno concorso alla formazione del progetto di Costituzione. Se le stesse formule consentono ai partiti di massa di esaudire egualmente i loro programmi e di soddisfare le loro ideologie, ciò deve dipendere dai metodi diversi, dei quali nella Costituzione non vi ha traccia, ma che egualmente consentono di pervenire ai rispettivi obbiettivi. Ed è qui il punto basilare, ma non è qui il segreto del successo; al contrario, è nella reticenza dei diversi coautori della Costituzione, i quali hanno avuto per fermo il risultato finale, l’epilogo conciliativo delle tendenze, ma non si sono curati di domandarsi, vicendevolmente, attraverso quali metodi e quali sistemi hanno o avevano, intenzione di perseguire le stesse finalità.

Onorevoli colleghi, io voglio sommariamente esaminare le caratteristiche di questa Costituzione: altri, dopo di noi, interverranno per intrattenersi più profondamente in ordine ad ogni istituto, per rilevarne i difetti ed evitare le incongruenze, per proporre emendamenti, per far sì, insomma, che da questo lavoro grezzo possa uscirne qualche cosa di organico e di completo, nell’interesse di tutti o di alcuni partiti; ma è ovvio che per poter ritrarre dalla Costituzione quelli che sono i caratteri somatici, le caratteristiche salienti e decisive, io debba soffermarmi brevissimamente sui diversi istituti, dai quali ritrarrò esclusivamente le parti essenziali che dimostreranno e la organicità della Costituzione, e la finalità particolaristica che è in essa impressa in modo indelebile ed in modo perfettamente identificabile nello spirito informatore di tutta la Costituzione.

I partiti, però, non hanno tenuto conto – e questo è un errore gravissimo di ordine storico e di sensibilità psicologica e politica, non hanno tenuto conto, dico, che la Costituzione è carta fondamentale che deve garantire, non in situazioni contingenti, ma attraverso il tempo (collaudatore perfetto della bontà dei principî espressi) – e deve rappresentare in ogni tempo, la garanzia per tutti i partiti, per tutte le tendenze, per tutte le ideologie e programmi politici, deve garantire quelli che sono i diritti della libertà essenziali di tutti e specie quelli delle minoranze.

La Commissione non ha tenuto conto che l’equilibrio e lo schieramento dei partiti politici non è statico, ma mutevole e che i mutamenti delle organizzazioni politiche, subiscono fenomeni imprevisti ed imprevedibili, talché quella che oggi sembra la corrente predominante e prevalente, domani potrebbe essere una minoranza e, al contrario, quelli che oggi sembra, od è, una sparuta minoranza può, attraverso le incontrastate vie della libertà democratica, affermare e propagandare i suoi principî, estenderli in ogni settore, sicché può essa divenire maggioranza prevalente e la maggioranza di oggi divenire minoranza. Se ciò è vero, onorevoli colleghi, perché imprimere ad una Costituzione i crismi e le caratteristiche fondamentali ed inscindibili di un determinato orientamento politico, attraverso forme eufemistiche ed apparentemente conciliabili, che possono domani non rispondere all’orientamento politico prevalente ed alla coscienza collettiva del popolo italiano?

Le Costituzioni servono per riconsacrare e riaffermare nel tempo e per l’infinito, quelle che sono le prerogative fondamentali della personalità umana, le quali, preesistendo, con l’uomo, ad ogni forma statuale, costituiscono, nella loro origine, gli attributi che sono inalienabili, imprescrittibili, sacri ed inviolabili e che nessun consociato ha il diritto di incrinare, per imporre un determinato orientamento politico.

Questi sono i principî sui quali non è possibile discutere né oggi né mai, ed è attraverso la inviolabilità di questi principî, che dovrebbe imperniarsi l’orientamento della Carta costituzionale, ma con schemi rigidi e non flessibili, perché non sia consentito di fare esperimenti radicali sui diritti e sulle libertà essenziali della persona umana.

Gli esperimenti attuabili attraverso l’evoluzione lenta e naturale degli uomini e delle cose e quando la coscienza collettiva è matura, per potere affrontare e risolvere determinate questioni sociali, devono sempre essere subordinati ai diritti essenziali ed alle libertà fondamentali della persona umana.

Onorevoli colleghi, passando alle caratteristiche della Carta costituzionale, io penso che noi le troviamo condensate in modo inequivoco e preciso nelle disposizioni generali talché, se noi attentamente esaminiamo queste disposizioni generali, ci accorgiamo che il resto della Costituzione è strettamente, intimamente, inscindibilmente connesso con quanto, in modo solenne e categorico, è stato espresso in esse disposizioni generali. La interpretazione della Carta costituzionale, la quale consentirebbe una critica larga e severa anche dal punto di vista etico e da quello giuridico e costituzionale, trova un limite, una strettoia, una rete insuperabile nelle affermazioni limitatrici che sono consacrate nella parte generale della Costituzione.

Infatti: l’articolo primo parla della Repubblica italiana, che «ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo articolo primo rappresenta la soddisfazione parziale di una proposta specificamente espressa dal partito comunista.

L’onorevole Togliatti propose, che venisse definita l’Italia come una Repubblica democratica di lavoratori; io stesso in sede di discussione davanti la prima Sottocommissione feci garbatamente rilevare che la Repubblica rappresenta lo Stato e la Nazione, rappresenta tutti i suoi consociati, rappresenta le creature di Dio, fatte a sua immagine e somiglianza, le quali, per lo stesso fatto naturale di essere stati immessi nella società umana, hanno diritto di asilo e di rispetto da parte di tutti i consociati.

Definire una Repubblica, definire uno Stato, attraverso una caratteristica, che rappresenta, sì, la più nobile delle manifestazioni della vita umana, il lavoro, ma escludere coloro che non possono essere identificati in questa nobilissima categoria (che noi esaltiamo e nella quale noi riconosciamo gli attributi più elevati dell’umanità); definire una Repubblica, attraverso la circoscritta denominazione dei lavoratori, sembrava a noi, così come sembra, escludere dal consorzio umano coloro che, per ipotesi, non avessero la possibilità di essere annoverati fra i lavoratori.

Si desistette da questa caratteristica particolaristica, ma, scendendo nella subordinata, si volle affermare il principio in modo generico nell’articolo 1, ma in modo preciso e ben definito nell’articolo 31; talché, quanto noi avevamo osservato come non opportuno nell’articolo 1, trova la sua sede nell’articolo 31, il quale recita:

«Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività con una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta.

L’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici».

Onorevoli colleghi, come vedete, se è vero che l’Italia è definita Repubblica democratica, è innegabile che in essa hanno diritto di asilo solamente coloro che sono lavoratori, ed essendo lavoratori hanno l’obbligo dell’adempimento di determinati doveri, per potere partecipare alla gestione della cosa pubblica.

Ed allora, o signori, torto aveva Aristotele che definì l’uomo animale politico; torto quando egli pensò che l’uomo, per sua stessa natura politico, avesse diritto di partecipare nell’umano consorzio e nell’umana politica società, se noi ci arroghiamo il diritto di escludere dal consorzio umano il consociato, che per sua stessa natura, individuo politico non è identificato come lavoratore.

È vero che la formula di Stalin è: «Chi non lavora non ha diritto di mangiare», formula che, sotto un certo aspetto, si attribuiva anche a San Paolo, il quale, peraltro, pur esaltando il lavoro, affermava il principio, per cui omnis auctoritas omnis potestas a Deo, quasi per significare che l’autorità, qualunque ne sia l’investitura trova fondamento nella divinità.

Di conseguenza: anche se questa autorità personifichi una dittatura. Se il concetto di lavoro è connesso con quello di dittatura, perché con la dittatura sola può il lavoro realizzare i suoi diritti economici e morali, noi dissentiamo e decisamente da queste formulazioni particolaristiche, le quali incrinano e vulnerano quelli che sono i diritti essenziali, sacri, inalienabili, imprescrittibili, della persona umana. Contro questi diritti e libertà consacrati solennemente e che l’uomo arroga a sé, indipendentemente dal riconoscimento che altri uomini possano farne, non è consentito ad alcuno di porre limitazioni; noi vediamo in limitazioni siffatte il primo ed il più sacrilego attentato alle libertà della persona umana. Ma non basta, onorevoli colleghi; le libertà umane sono state concepite, in questo progetto di Costituzione, attraverso teoriche filosofiche, assai seducenti da un punto di vista scientifico ed estetico; ma i ragionamenti filosofici posti a base dell’efficienza della personalità umana noi, da questo settore, con naturale diffidenza, lo confesso, li vediamo rappresentati ed esasperati, perché tali libertà sono in funzione esclusiva del perseguimento di finalità sociali ed economiche, che non potrebbero essere realizzate se non attraverso questa particolaristica concezione della libertà umana. Spiego: abbiamo detto che l’uomo porta in sé, inscindibilmente, connesse, le caratteristiche della sua personalità, gli attributi dei suoi diritti fin dalla nascita, ipso iure, anzi: ipsa natura; ma si è detto che l’uomo da sé non può perfezionare ed integrare la sua personalità, se non attraverso le comunità naturali e attraverso le formazioni sociali, talché, la stessa Costituzione, in un articolo, mette sullo stesso piede di uguaglianza e i diritti dell’uomo e i diritti delle comunità, e i diritti delle fondazioni sociali, nelle quali, l’uomo deve necessariamente essere inserito perché possa perfezionare ed integrare la sua personalità.

La teorica filosofica è seducente, ma, considerata da un punto di vista squisitamente politico, non vi ha chi non veda il pericolo di questa concezione, la quale dà la sensazione di un super-riconoscimento della personalità umana ed anzi dà l’impressione di un volontario intervento dello Stato per perfezionare questa personalità umana. Ma quando noi, in una Costituzione, facciamo siffatta affermazione, quando noi, con un imperativo categorico, mettendo sullo stesso piede di uguaglianza l’uomo e le comunità naturali e le formazioni sociali, contemporaneamente eccitiamo lo Stato perché provveda alla efficienza di questi organismi, noi abbiamo già affermato un principio per il quale lo Stato diventa non lo strumento dell’uomo, ma diventa il particolaristico Stato totalitario, invadente e prepotente, che si inserisce nella vita dell’uomo, che inserisce l’uomo in determinati organismi, e che tutela questi organismi. Per tutelarli deve limitare le libertà umane! È chiaro pertanto che in piena legalità costituzionale si possa scendere in regime totalitario, cioè in quel regime deletario e nefasto, di cui le conseguenze non vi è alcuno di noi che oggi non senta e non veda per le gigantesche proporzioni delle sciagure di cui è stato macabro dispensatore. Noi dissentiamo dalle concezioni liberalistiche, così come sono state congegnate, per le ragioni che sommariamente vi ho espresso; noi dissentiamo da questa organizzazione capillare, che si insinua in tutti i settori della vita umana e si inserisce persino nella famiglia, di cui la concezione non risponde alle nostre ideologie ed alle nostre convinzioni etico-giuridiche.

Un duplice orientamento si appalesa: lo Stato si preoccupa eccessivamente della famiglia; lo Stato si sostituisce ai genitori. La Costituzione definisce la famiglia in senso che per noi è ambiguo. Identifica la famiglia in «società naturale», e quindi la considera una situazione di fatto e non di diritto, talché – e conferma questo concetto successivamente – allorché parla dei figli naturali e dei figli legittimi, accomuna gli uni e gli altri; e neppure tiene conto dei figli adulterini e incestuosi, e questo ibrido consesso di gente che deriva da diverse fonti, anche peccaminose e – dal punto di vista biologico – anche dannose, dovrebbe poter convivere sotto lo stesso tetto. Se distinzione non si è voluta fare in ordine alla diversa origine dei diversi figli, noi abbiamo ragione di ritenere che la concezione della famiglia, esclusivamente come società naturale, non risponda alla coscienza collettiva del popolo italiano, e abbiamo ragione di ritenere altresì che, avendosi riguardo alla spontanea unione societaria dell’uomo e della donna, senza preventivo crisma legale o religioso, sia da prevedere l’incapacità dei nuovi nuclei naturali ad esercitare la loro missione nella vita, e pertanto provvede lo Stato col suo intervento a colmare le lacune. Non solo, ma la incapacità morale od economica dei genitori consente allo Stato di sostituirsi ai genitori; non solo, lo Stato interviene per la protezione dell’infanzia e della maternità.

Ciò altamente onora lo Stato e siamo tutti perfettamente d’accordo; ma quando lo Stato, oltre alla protezione alla maternità e all’infanzia, s’ingerisce anche nell’educazione e nella protezione della gioventù, attraverso gli organismi che lo Stato a tal uopo crea o favorisce, esorbita dalle sue funzioni, per modellare sulle sue concezioni politiche particolaristiche la gioventù che a tale dominio ha diritto di non essere assoggettata.

Ma che cosa significa tutto ciò in una Carta costituzionale? Perché si è voluto in modo inequivoco, in modo categorico, impegnare lo Stato a creare persino gli organismi dove la gioventù trova la sua protezione?

Onorevoli colleghi, noi siamo preoccupati da queste affermazioni le quali, ripeto, possono essere determinate da fini nobilissimi, da un concetto etico della vita, da una religiosità e da una spiritualità che può anche commuovere, ma non dimentichiamo che noi non scriviamo un libro di filosofia o di morale, scriviamo la Costituzione, la quale impegna il legislatore futuro. Il legislatore futuro deve uniformarsi agli imperativi categorici della Costituzione e gli imperativi categorici rappresentano la legge fondamentale alla quale deve essere orientata tutta la futura legislazione e se, per ipotesi, onorevoli colleghi, domani un partito politico prevalente, che ha determinati orientamenti, determinati programmi filosofici, materialistici, economici o idealistici, intenderà di perseguire quelle finalità che la Costituzione gli consente, ed attua praticamente quanto la Costituzione afferma, noi potremmo trovarci di fronte ad uno Stato totalitario ed invadente, che vigila l’essere umano dalla sua nascita, vigila la famiglia per stabilire se adempie e soddisfa quelle esigenze sociali, economiche e morali che impone in coerenza a quegli orientamenti politici prevalenti. La stessa persona poi lo Stato controlla nella sua ascesa e nella sua formazione, la inserisce nelle comunità naturali, e poi nelle formazioni sociali che lo Stato protegge e sorveglia, e di poi gli appresta i mezzi materiali per formare la famiglia. La vicenda si ripete, di modo che questo essere vivente non ha più gli attributi della libertà, non sente le responsabilità del proprio io, non assurge alla dignità della sua persona, non sente il pungolo del bisogno, non si adopera per superare gli ostacoli, ma si adagia supinamente nella rete di provvidenze, che da un punto di vista sociale, possono soddisfare gli interessi economici dell’uomo, gli interessi materialistici dell’uomo, ma sopprimono in lui la libertà, la coscienza, la individualità, l’iniziativa e lo rendono una macchina priva di quella divina scintilla dell’intelligenza, che sola può farlo assurgere alle più alte dignità umane e consentirgli di portare il contributo della sua opera e della sua saggezza, attinta nella emulazione e nello sforzo individuale con spirito di iniziativa, che non deve essere soffocato e soddisfatto da esigenze di carattere esclusivamente materialistico. (Applausi a destra).

Onorevoli colleghi, queste le considerazioni, per quanto tratta la nostra concezione della personalità umana, che noi vogliamo vedere assolutamente garantita nei suoi diritti essenziali, ma con formule chiare, precise, apodittiche, che non consentano di filosofeggiare, né permettono interpretazioni particolaristiche, ma rispondano alla coscienza collettiva del popolo, non in un determinato periodo storico, ma nella eternità dei secoli, come eterno è l’uomo che, ricevendo da Dio il suo crisma, ha il diritto di conservarlo anche per diritto divino.

Onorevoli colleghi; fra i diritti e i doveri dei cittadini nulla rilevo di saliente che non abbia già rilevato contestualmente, attraverso l’esame del preambolo della Costituzione. Io vedo nelle disposizioni generali il preambolo, quel preambolo di cui tanto si è discusso e nel quale si era inteso di inserire quelle parti della Costituzione che, nobilissime nelle loro finalità di solidarietà umana e sociale, non potevano trovare in sede di Costituzione, la norma, diremo, giuridica per una concreta realizzazione.

Sui rapporti civili vi è una considerazione da fare, ed è quella che riguarda il diritto di asilo dello straniero in Italia, che nel suo Stato non gode di quelle garanzie costituzionali che la Repubblica italiana concede. Noi siamo consenzienti a questa nobilissima affermazione di solidarietà umana, specie quando l’uomo trova persecuzione alle libere sue finalità spirituali, ideologiche e politiche. Ma noi un’osservazione avevamo ritenuto di fare, in sede di elaborazione del progetto, ed era questa che, pur riconoscendo allo straniero il diritto del più largo asilo nello Stato italiano, si pretendesse che lo straniero si uniformasse agli ordinamenti dello Stato italiano.

Ciò non avrebbe menomamente diminuito la larghezza della nostra incondizionata ospitalità, ma ci avrebbe consentito di garantirci da interferenze o da situazioni che potrebbero risolversi in dannose conseguenze per la compagine della comunità italiana.

Passando ai rapporti etico-sociali, nulla di caratteristico per ora da rilevare in sede generale.

Due parole sui rapporti fra Chiesa e Stato. Non ne avrei parlato, se tutti indistintamente i colleghi che mi hanno preceduto, non avessero fermato la loro attenzione su questa enunciazione, che noi riteniamo felice, inserita nella Costituzione.

Per la storia, si era originariamente proposta in sede di discussione davanti alla prima Sottocommissione, una formula che, apprezzabilissima nella sua alta concezione, fu da me, come sempre, garbatamente non avversata, ma criticata sotto alcuni riflessi che, a mio avviso, meritavano considerazione. Si era proposto, cioè, che lo Stato italiano e la Chiesa, riconoscendosi parte della comunità internazionale, egualmente esercitavano i loro diritti di sovranità. Dimostravo allora che, con tale formula, noi Stato italiano per primi ci saremmo definiti in senso negativo, nel senso cioè di riconoscerci parte della comunità internazionale.

Premetto che, secondo le ideologie che il mio partito persegue, vi è quella, utopistica forse oggi, ma realizzabile domani, degli Stati Uniti di Europa. Considerate, pertanto, con quale entusiasmo noi avremmo aderito a quella formula per le finalità particolaristiche nostre! Ma il nostro dovere innanzitutto è quello di essere italiani, fedelissimi, fanaticamente devoti alla Patria italiana, e considerato, pertanto, che la coesistenza nello stesso territorio di due Stati, i quali derivano la loro sovranità dalla originarietà dei loro diversi ordinamenti, avrebbe potuto portare a conseguenze complesse di carattere internazionale, meglio sarebbe stato trovare una formula meno complessa. Si addivenne così a quella formula che noi pienamente approvammo ed accettammo. Siamo lieti che nella Costituzione abbia trovato posto questa solenne affermazione e siamo lieti che riconoscendo, nel suo ordinamento, la sovranità della Chiesa, il popolo italiano abbia voluto nella Costituzione darle l’onore che le compete.

Già ho pubblicamente espresse le ragioni per le quali dissentivo dalle critiche che dimostravano la opportunità di non fare menzione in Costituzione dei rapporti fra Stato e Chiesa. Anche il professor Jemolo, luminare in tema di diritto ecclesiastico, assumeva che, essendosi il Trattato ed il Concordato stipulati da un Governo detestato oggi dalla coscienza collettiva, sembrava incongruente che questo atto di nascita venisse oggi riconosciuto.

Obbiettavo che non è alla forma alla quale bisogna avere esclusivo riguardo, ma alla sostanza, e che sarebbe grave errore attribuire al Governo fascista tanta grandiosa concezione negli eventi storici e nella comprensione dello spirito nazionale. Era un fatto che doveva quel Governo registrare; una situazione matura che era impellente nella coscienza collettiva del popolo italiano, il quale da tempo si dibatteva, tra l’agnosticismo dello Stato per la questione religiosa e l’intimo desiderio e la convinta necessità della manifestazione, anche esteriore e formale, di questo sentimento. Il cittadino cattolico, il credente, specie se di elevata cultura, specie se investito di pubblici poteri, si trovava costantemente di fronte al dilemma fra l’esaudimento di quello che era l’imperativo categorico della sua coscienza, per manifestare anche pubblicamente la sua fede religiosa, e gli ordinamenti agnostici e legalitari dello Stato che impedivano queste manifestazioni; impedivano, preciso, non legalmente, ma impedivano in una ipocrita consuetudine protocollare e formale.

Se, malauguratamente, un Governo, che oggi logicamente detestiamo, ebbe la ventura di registrare un evento storico-spirituale, noi dobbiamo attribuire la paternità di quello evento, come conquista della pace religiosa, al popolo italiano, che giustamente aspira di vedere riconosciuto nella sua Costituzione l’esistenza del patto fondamentale fra Chiesa e Stato italiano.

Onorevoli colleghi, ho seguito con attenzione le osservazioni dell’onorevole professor Calamandrei sulle contradizioni esistenti in tema di riferimenti ai Trattati Lateranensi; se noi, esaminando quei trattati, dobbiamo riferirci allo Statuto Albertino e, in sede di coordinamento, a situazioni che oggi non sono coerenti colle libertà individuali e politiche, l’amico e collega onorevole Tupini, poco dianzi ha anch’egli, su questo argomento, diradate le nebbie affermando che la Chiesa Cattolica, come sempre saggia e previdente, non disdegna di adeguarsi e adattarsi, per quanto può, nella sfera delle sue competenze, alle necessità storiche e ambientali. Fu detto anche in sede di discussione davanti alla prima Sottocommissione che se alcuna incongruenza esiste che possa preoccupare la coscienza di alcuno, dobbiamo essere certi che rapidamente sarà eliminata, di modo che l’inserzione dell’esistenza di questa pace religiosa tra il popolo italiano e la Chiesa Cattolica Apostolica Romana, rappresenta una conquista spirituale del nostro popolo che non adombra in modo assoluto alcuna coscienza, né desta in alcuno preoccupazioni di sorta.

Rapporti economici: Sui rapporti economici, onorevoli colleghi, io rilevo e dichiaro che sarei col mio partito felicissimo se finalmente in questo mondo, fatto di uomini, si potesse raggiungere la perfezione di questo Stato ideale che a me sembra di identificare nella «Città del Sole»; è il regno della felicità per tutti; quivi felicemente si nasce e senza alcuna preoccupazione ci si avvia lentamente e giocondamente a percorrere la parabola della vita senza assilli e senza preoccupazioni, procul negotiis. Ma ci siamo domandati: quando il cittadino italiano leggerà questa Carta costituzionale e porterà decisamente la sua attenzione nel settore che più intimamente lo attrae e lo interessa e i con speculazione di indagine si soffermerà sui diritti economici e sociali e, specie se ingenuo, specie se non addestrato alle speculazioni ragionative e sofistiche di retori, di giuristi e di filosofi, egli credesse di aver conquistato finalmente quanto solo nei suoi sogni e nelle sue speranze costituiva possibilità reale, e se questo cittadino, esasperato da questi diritti in modo tanto solenne qui affermati, domani venisse da noi Costituenti, o andasse da coloro che nell’esercizio dei loro poteri hanno autorità ed ascendente, a domandar conto dell’esecuzione di questi impegni d’onore che lo Stato ha preso verso i suoi cittadini, e se eccitasse la sua diligenza per l’adempimento almeno parziale di questi impegni contratti solennemente, e si sentisse rispondere che lo Stato è nell’impossibilità di soddisfare queste esigenze, io mi chiedo quale potrebbe essere la reazione di questo cittadino e più ancora quale potrebbe essere la reazione di una collettività esasperata, la quale, ritenendosi beffata nella santità della sua miseria, eccedesse, e scendesse in piazza, onorevoli colleghi?

Mi sovviene in questo momento, quanto Gino Capponi, descrivendo il tumulto dei Ciompi nella rivoluzione di Firenze, disse a proposito di coloro che «assillati dal bisogno scendono in piazza». Disse egli: «Quando tu chiami la forza del popolo a far impeto nelle vie, il vero popolo non risponde, ma vedi uscire una turba, cui si pertiene diverso nome che non puoi né dirigere né contenere, e che travalica ogni tuo disegno».

Meditiamo pertanto, onorevoli colleghi, su quella che è la psicologia della massa, verso la quale il senso della nostra solidarietà è acuto e profondo e noi per primi auspichiamo ardentemente che questa umana solidarietà possa essere, ogni giorno vieppiù, cementata e possa ogni giorno divenire più attuale e concreta. Ma nel contempo misuriamo le nostre forze e le nostre possibilità, e cerchiamo, nella serietà contenuta delle nostre possibilità presenti e future, di fare il bilancio di quanto è possibile realizzare su quello che con tanta leggerezza si afferma essere già un diritto del popolo.

Noi abbiamo affermato in Costituzione il diritto, ed altresì il dovere, del lavoro. Mi sono domandato e domando, onorevoli colleghi, qual è la ragione per far presumere che si vuol quasi coartare l’umana personalità per l’esercizio di una attività lavorativa concreta che deve rispondere a finalità determinate, quando, da che mondo è mondo, il popolo italiano si è differenziato e si differenzia, fra tutti i popoli del mondo, per la sua parsimonia, per la sua laboriosità, per la sua inventiva, per la sua intelligenza spontanea, per la sua ansia nella ricerca di un lavoro qualsiasi. Perché, domando, di fronte ad un popolo così meravigliosamente caratterizzato, che ha tradizioni politiche, storiche, etniche e culturali, per cui non è a dubitare della sua laboriosità, per quale ragione, ripeto, noi abbiamo voluto imporre in una Costituzione il dovere al lavoro, quando noi sappiamo per il presente e per il futuro che finché i ristretti confini della nostra Patria non ci consentono purtroppo di dare a tutti lavoro proficuo, noi dobbiamo ricorrere all’unica valvola di sicurezza, che è quella dell’emigrazione. Essa d’altra parte, considerata sotto determinati riflessi, costituisce anch’essa ragione di onore per l’Italia e il lavoratore italiano, perché attraverso l’emigrazione, le spiccate qualità morali e di intelligenza dei nostri lavoratori, espandiamo per il mondo (come fino ad oggi abbiamo fatto) la civiltà italiana, la civiltà latina.

Onorevoli colleghi, il dovere al lavoro a noi sembra un pleonasmo ed un pericolo: è un pericolo perché se domani, per dannata ipotesi, dovesse prevalere un orientamento politico, basato sopra una ideologia economica od una teoria materialistica, e dovesse il legislatore, nella indagine interpretativa di questa Costituzione, identificare il concetto di lavoratore, pure non contrastando quanto in Costituzione è detto, nel senso che per lavoro si intende non lo sforzo materiale dei muscoli solamente, ma anche qualunque attività spirituale, tuttavia, fra le attività spirituali potrebbe anche esistere una gamma di proporzioni e di successioni, talché quegli che oggi – filosofo meditativo o sacerdote contemplativo – può rappresentare una attività lavorativa socialmente apprezzabile e socialmente utile, potrebbe essere domani non più annoverato fra i lavoratori, perché non economicamente valutabile, non socialmente utile.

Il sacerdote contemplativo, che oggi può essere annoverato fra i lavoratori che hanno diritto di partecipare alla gestione della cosa pubblica, potrebbe domani essere considerato soltanto da chi ha particolare sensibilità e adeguata preparazione spirituale, ma non da chi, concependo la vita attraverso il materialismo economico, deve necessariamente ripudiare tutto quanto non risulta economicamente valutabile. I diritti sacri, individuali, imprescrittibili e inalienabili sarebbero quindi facilmente, ma costituzionalmente, violentati e soppressi.

Ricordo quanto ieri ha detto l’onorevole Calamandrei, che per sensibilità ai versi di Dante, a lui dall’onorevole Togliatti ricordati, fu indotto a convenire che quanto risulta congegnato nel progetto di Costituzione, lo è non solo per affermare una realtà storica di cui siamo spettatori, testimoni e protagonisti, ma per proiettare nel futuro un orientamento ai nostri figli e ai nostri nipoti che, perseguendo la strada luminosa che nella concezione sublime dell’umana società noi qui tracciamo, devono condurre, in prosieguo di tempo, questa umanità versò realizzazioni migliori.

Onorevoli colleghi, a me sembra che se questo è il concetto che noi vogliamo consacrare in Costituzione, tale concetto deve essere trasportato in sede di preambolo, come auspicio per le future generazioni, ma non come impegno per il legislatore di domani, in quanto che, per le ragioni dianzi dette e che non starò a ripetere, l’equilibrio politico e lo schieramento di forze politiche sono mutevoli e può mutare l’orientamento ed il programma economico e sociale al quale, ripeto, è stata subordinata tutta la parte relativa alla concezione delle libertà umane.

Ho avuto l’impressione che, attraverso queste enunciazioni, noi avessimo fatto come quel tale, che, dopo essersi goduta l’esistenza, fece testamento lasciando ai suoi eredi tutto il patrimonio che egli in mobili, in immobili e in preziosi possedeva è vero, ma solo nella sua fantasia; o come quel tale che nel fare testamento congegnò le cose in modo, e così complesso e caotico, da far litigare tutti i discendenti, che l’un contro l’altro armato si esaurirono in una lotta sterile ed esiziale.

Sui rapporti politici, onorevoli colleghi, non mi soffermo che sopra un punto, sul quale – se ben ricordo – i miei rilievi, già ho espressi in seno alla Commissione. Parlo del diritto di voto di cui è cenno nell’articolo 45.

PRESIDENTE. Onorevole Mastrojanni, mi perdoni; ma se lei esamina così particolarmente tante parti della Costituzione, forse posso sbagliarmi, ma credo che usciamo dal quadro di questa nostra discussione introduttiva. C’è un vantaggio: che si anticipano affermazioni che non verranno più fatte successivamente. Ma si confondono le parti successive della discussione…

Comunque, io mi rimetto a lei.

MASTROJANNI. Prendo atto delle sue esatte osservazioni. Ma, se mi consente, io vorrei identificare la Costituzione attraverso caratteristiche salienti individuate qua e là.

Comunque, obbedisco all’esortazione del Presidente e prometto che, dopo questo articolo, non farò menzione di nessun altro articolo e che, anzi, andrò rapidamente alla mia conclusione. Non voglio approfittare della benevola attenzione con la quale questa democratica e libera Assemblea Costituente fin’ora mi ha onorato.

In tema di voto, rilevo solamente che l’articolo 45 parla di voto personale, uguale, libero e segreto; il che dovrebbe soddisfare completamente le esigenze e le aspettative di tutti. Ma, come sempre – ripeto – la mia diffidenza mi porta oltre a quello che forse è stato il pensiero logicamente concreto dei redattori della Costituzione con i quali anch’io ho collaborato.

Io mi domando: perché insieme col «libero» e col «segreto» e col «personale» non si è messo anche l’inciso «diretto»?

Il voto può essere libero, può essere personale, ma, se non è «diretto», noi, o voi, attraverso quelle famose formazioni sociali e attraverso quelle famose comunità naturali, potremo rendere il cittadino, soggetto dei diritto di voto, partecipe dell’esercizio di tale diritto di voto, ma limitatamente in determinate organizzazioni, le quali, attraverso i loro rappresentanti, i grandi elettori, diverrebbero quelli che, in definitiva, completerebbero, col loro voto e solamente col loro voto, la vicenda politica del congegno elettorale. Senza l’inciso «diretto» non tutti potranno partecipare in modo «diretto» a tutte o ad alcune elezioni.

Prego gli onorevoli colleghi perché vogliano tenere nella dovuta considerazione questa realtà democratica, per non violare la democrazia stessa nella sua concezione liberale ed eguale per tutti.

Per quanto tratta la seconda parte della Costituzione, mi riservo di parlarne quando si discuterà dei singoli titoli e salto quindi tutto quanto riguarda la struttura e la funzione dello Stato e dei suoi organi, attenendomi a semplici e brevi considerazioni su quanto riguarda la elezione del Capo dello Stato. A mio avviso, meglio sarebbe, se, per la sua alta funzione di supremo regolatore, di più alto magistrato della Repubblica, e come quegli che deve conciliare le diverse tendenze dei partiti, esercitando il suo autorevole ascendente, e come quegli che rappresenta l’unità materiale e spirituale dello Stato, potesse rafforzare la sua coscienza e la forza intima della sua eccelsa funzione, attraverso il suffragio ed il conforto della diretta partecipazione alla sua nomina di tutto il popolo, attraverso il suffragio universale.

Credo che sia questione anche di carattere psicologico e per il cittadino, che nella elezione del primo cittadino dello Stato si vede direttamente partecipe della gestione della cosa pubblica, e per il Capo dello Stato, che si vede assunto a questo altissimo ministero dal voto unanime del popolo italiano, che egli tutto rappresenta, a qualunque ideologia appartenga e a qualunque partito politico possa essere inscritto.

Un’ultima osservazione ed ho finito: referendum circa la Costituzione.

Già parecchi mesi or sono espressi pubblicamente la mia opinione sull’argomento.

Da un punto di vista squisitamente giuridico, di opportunità politica e di carattere costituzionale, io penso che noi abbiamo ricevuto dal popolo un mandato specifico e determinato, quello, cioè, di formare una Costituzione, ma non abbiamo avuto il mandato di imporre o di applicare questa Costituzione. Noi, mandatari, non possiamo esorbitare dal mandato ricevuto. Il mandante ha il diritto di chiedere conto della esecuzione del mandato: abbiamo fatto bene e non abbiamo fatto bene? Sarà il popolo a giudicare.

Questo in sintesi è un accenno alla questione di diritto.

Ma, per quanto tratta la questione psicologica, sentimentale, democratica e liberale, io credo che se l’Assemblea Costituente ha la coscienza di avere bene operato e di avere esattamente interpretato la volontà del popolo, non deve temere che il popolo possa ripudiare questa Costituzione. È un atto di lealtà che io ritengo debba questa Assemblea Costituente, in regime democratico e liberale, compiere, perché, così facendo, avrà nobilmente esaudito il suo compito.

E concludo con l’auspicare che questa Costituzione, che sarà elargita al popolo italiano, possa, dopo i suoi emendamenti costruttivi, rappresentare veramente il punto di partenza perché questa umanità che tanto ha sofferto possa ritrovare nella giusta via, il suo benessere spirituale ed economico, in una migliore giustizia sociale e nell’assoluta garanzia dei diritti essenziali e delle supreme libertà individuali e collettive. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Laconi. Ne ha facoltà.

LACONI. Signor Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, io ho seguito con attenzione e con ammirazione, così come credo abbiate fatto anche voi, i discorsi degli oratori che mi hanno preceduto ed ho, come voi, sommamente ammirato la mostra di dottrina, di abilità, di acutezza, che ci è stata data; ma, nel fondo dell’animo, mi è rimasta l’impressione che qualcosa sia mancato. Ho notato che, nel corso di questi discorsi, vi è stata soprattutto una deficienza: si è avuta cioè l’impressione di un certo disorientamento diffuso sul giudizio che deve essere dato su questo progetto.

Taluni hanno confrontato il progetto a certi loro schemi astratti, a certi loro «ideali giuridici»; altri lo hanno misurato da un punto di vista di partito o da un punto di vista particolare ideologico o filosofico; altri ancora hanno comparato il progetto a Costituzioni di altri Paesi, che rispondono a situazioni lontane e diverse dalla nostra. Certo, se anche noi dovessimo usare questo metro, se ci ponessimo dal punto di vista della parte più avanzata del popolo italiano, di quella parte che ha condotto con prospettive più avanzate e più progressive la guerra di liberazione ed è stata all’avanguardia del movimento per la Costituente e per la Repubblica, certo, se anche noi ci ponessimo da un punto di vista ristretto di classe o di partito, penso che anche il nostro giudizio sul progetto di Costituzione potrebbe essere negativo.

Ma quale valore avrebbe siffatto tipo di giudizio? Io penso che non avrebbe alcun valore, perché si fonderebbe su concezioni astratte o su situazioni diverse da quella del nostro Paese. Per poter dare invece un giudizio giusto, noi dobbiamo partire da istanze concrete, da esigenze che sorgono dalla realtà italiana, e dobbiamo vedere come il progetto traduca queste esigenze.

Quali sono le istanze cui noi dobbiamo riferire questo progetto di Costituzione? Noi tutti lo sappiamo: sono le istanze che sorgono dalla lotta che tutto il nostro popolo ha condotto contro il fascismo; sono le istanze che sorgono dalla somma di sacrifici, di pene, di dolori, che si è abbattuta, e non per sua colpa, sopra il popolo italiano.

Ma se noi ci eleviamo ad una consapevolezza più alta dei nostri compiti, io penso che dobbiamo tener conto di altre istanze, e delle più remote, e di quelle che sorgono dalle lontane e fatali giornate in cui ebbe i suoi albori il nostro primo Risorgimento, dalle giornate di Milano, di Genova, di Torino, di Roma repubblicana. Dovremo tener conto delle istanze che ci vengono dalle generazioni sacrificate durante il Risorgimento, dalla serie di intelligenze pensose, di animi operosi, che hanno creato, edificato lentamente l’unità italiana, ed hanno visto sempre i loro ideali e le loro aspirazioni negati e delusi dal prevalere delle forze ritardatici che operavano nella vita politica del Paese.

Questa corrente di idee, di propositi, di aspirazioni ha trovato nell’Italia unificata una sua continuità nei movimenti politici popolari, nelle grandi forze unitarie che si sono richiamate agli ideali repubblicani, ai principî ispiratori della dottrina cattolica, ai nuovi principî del socialismo. Tutto un secolo di lotte contro lo stesso nemico noi abbiamo alle nostre spalle: di lotte contro i gruppi che hanno monopolizzato in Italia il potere economico e che se ne sono fatto uno strumento di dominio politico; di lotte contro la monarchia e contro la classe dirigente politica, che hanno sempre e costantemente soffocato le aspirazioni del nostro popolo ad un rinnovamento intimo e profondo della struttura economica, politica e sociale del Paese.

Ma certo, è in questo ultimo volgere di lustri che si è aperta la più grave e decisiva contradizione nel corpo vivo e nella struttura della nostra società nazionale, quando i gruppi dirigenti, quelli che si erano fatti portatori delle idee liberali, assertori della libertà economica e politica; quando questi gruppi dirigenti sono stati costretti dalla forza degli eventi, dalla paura degli eventi, a negare i principî stessi e i fondamenti del loro regime; a negare quegli ideali per i quali si erano battuti e per i quali avevano condotto a battersi gran parte del popolo italiano. Nella contradizione estrema del regime liberale il popolo italiano ha purtroppo esperimentato la sua stessa rovina. Ha compreso questa esperienza il popolo italiano? Io credo di sì; io credo che l’abbia compresa.

Leggevo ieri un articolo di Benedetto Croce, nel quale si ricorda che un poeta del Risorgimento italiano affermava in certi suoi versi che i tempi volgevano in meglio, visto che per ogni brigante che moriva nasceva un liberale. Croce constata che i tempi sono radicalmente mutati da allora: i liberali si estinguono e nasce gente nuova e diversa. Io non credo che sia offensivo per noi – per noi che nasciamo, amici dei grandi partiti di massa – l’esser chiamati briganti. È un prezzo; è il prezzo con cui si paga talvolta nella storia il privilegio di essere in molti e di rappresentare l’avvenire. E anche i liberali, ai loro tempi, a quei tempi, venivano chiamati briganti dai conservatori di allora. Sta di fatto che il popolo italiano ha compreso, e ben compreso, le cause profonde della rovina del nostro Paese, della sconfitta e della servitù.

Oggi, uscito da queste terribili prove, che cosa vuole il popolo italiano? Che cosa chiede a noi?

Il popolo italiano oggi vuole due cose: vuole ricostruire la propria Patria e vuole attuare nella democrazia i proprî ideali di giustizia.

Questo è quanto oggi il popolo italiano vuole; e ha dimostrato di volerlo, quando il 2 giugno, chiamato alle urne, con espressione diretta della sua volontà, ha instaurato la Repubblica in Italia. È il primo passo sulla strada del rinnovamento; su questa strada noi oggi dobbiamo camminare.

La Repubblica, giustamente diceva ieri l’onorevole Calamandrei, è una forma definitiva di regime. La decisione sulla forma repubblicana è sottratta alla nostra competenza di costituenti, perché il popolo stesso si è espresso su questo punto e ha dichiarato la sua volontà.

A noi, altro spetta. A noi spetta fare in modo che questo regime sia un regime democratico conseguente, sia un regime, cioè, progressivo, orientato verso forme nuove, deciso ad elevare il popolo dalle sue miserie, un regime pacifico che si inserisca nella comunità dei popoli liberi con volontà di pace e di collaborazione. E per poter essere quello che noi vogliamo, questo regime deve essere fondato su due principî fondamentali: sulla sovranità popolare e sulla posizione preminente del lavoro.

Deve essere un regime orientato: non l’ho affermato a caso, onorevole Lucifero. Ieri lei diceva che dobbiamo creare un regime afascista. Io credo che questo non sia l’orientamento che il popolo italiano ci indica. Per chi pensa che il regime fascista sia stato soltanto una specie di crisi di crescenza, una malattia infantile o giovanile del popolo italiano, per questi il fascismo potrà essere qualche cosa di facilmente dimenticabile.

Per chi nel fascismo vede l’espressione di una contradizione finale di tutto un regime, che ha almeno un secolo di storia in Italia, per chi nel fascismo ha visto e vede la rovina del nostro Paese, io credo non si possa parlare di Costituzione afascista, si deve parlare di Costituzione antifascista. In questo senso, tenendo conto di queste istanze, noi dobbiamo quindi giudicare il progetto che ci è offerto.

Risponde esso alla volontà del popolo? Traduce queste esigenze storiche ed in quale misura le traduce?

Queste sono le domande cui dobbiamo dare una risposta, e io credo che, in questo senso, noi possiamo salutare con soddisfazione l’affermazione solenne dei diritti civili e politici del cittadino, che troviamo in testa a questo progetto: l’affermazione della libertà personale, della inviolabilità del domicilio, della inviolabilità di corrispondenza, della libertà di riunione e di associazione, della libertà di stampa, di azione in giudizio. Libertà tutte che importa riaffermare soltanto in quanto sono state negate, soltanto in quanto noi siamo chiamati a fare una Costituzione dopo il fascismo, dopo la tirannide, soltanto in quanto noi ci troviamo a dovere polemizzare con tutto un regime e con tutto un sistema. In questo senso l’affermazione di queste libertà ha oggi un valore ed un significato.

Ma io credo che a nulla servirebbe questa condanna del passato. Questa affermazione di diritti e di libertà credo si ridurrebbe a qualcosa di dottrinario e di vuoto se noi non ci proponessimo, attraverso la Costituzione, di distruggere le condizioni attraverso le quali il fascismo si è affermato ed ha potuto negare le libertà dei cittadini; se noi non ci proponessimo di consolidare nel nostro Paese uno schieramento di forze che sia interessato alla democrazia, se noi non ci proponessimo, cioè, da un lato di abbattere i nemici della democrazia, di restringere il potere dei gruppi privilegiati che vogliono sacrificare e distruggere le nostre libertà, e dall’altro di rafforzare il blocco popolare, di dare al popolo la strada aperta verso l’avvenire. Se non facessimo questo, io penso che inutilmente le tavole della Costituzione potrebbero riaffermare le libertà dei cittadini ed i principî fondamentali della democrazia. Noi siamo chiamati quindi ad un compito nuovo, che consiste nell’introdurre principî e diritti nuovi nella Costituzione italiana, e nel prevedere le forme e i metodi attraverso i quali il legislatore di domani potrà dare pratica attuazione a questi principî, potrà concretare questi diritti.

In questo senso, all’articolo 7 della Costituzione va affermato che è ufficio della Repubblica «rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e la eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana». In questo senso è affermato, cioè, che lo Stato non deve limitarsi ad un riconoscimento formale delle libertà e dei diritti del cittadino, ma deve intervenire nella vita sociale, economica e politica per rendere effettivo il godimento di questi diritti. Così lo Stato interverrà a tutelare la famiglia, ad assicurarle le condizioni minime di esistenza; così lo Stato interverrà ad assicurare ad ogni cittadino, che abbia capacità e merito, l’insegnamento scolastico.

Ma vi è una parte più importante e più discussa fra questi diritti nuovi che noi dobbiamo affermare nella nuova Costituzione, ed è quella che concerne il diritto del lavoro; il diritto al lavoro appunto, il diritto ad una retribuzione adeguata, il diritto al riposo, all’assistenza, all’assicurazione; diritti che per la prima volta si trovano affermati in un documento costituzionale italiano, e non soltanto italiano.

La libertà delle organizzazioni sindacali, il riconoscimento della loro personalità giuridica la validità dei contratti collettivi, il diritto di sciopero: questo è il contenuto della parte che concerne i diritti dei cittadini in ordine ai rapporti economici.

Che valore hanno queste affermazioni? Molti hanno osservato che affermazioni di questo genere, nella situazione presente del nostro Paese, non possono avere altro che un vago valore programmatico.

Taluno ha obiettato che da molte parti e da uomini che hanno avuto esperienza di Costituzioni moderne si è osservato che le Costituzioni non sono programmi e che non conviene quindi introdurre nelle Costituzioni elementi programmatici che le facciano deviare dalla loro natura e dalla loro funzione normale. Ma io penso, onorevole Bozzi e onorevole Calamandrei, che non si tratti di elementi puramente ideali e vagamente programmatici che noi inseriamo nella nuova Costituzione italiana. Io credo che non siano dei principî e delle affermazioni che si possano affidare ad un preambolo, onorevole Mastrojanni, per rinviarle ad una lontana attuazione, quando «le condizioni del nostro Paese saranno mature».

Credo che non si tratti di questo, ma che si tratti di ben altro. L’affermazione di questi diritti oggi nella Carta Costituzionale italiana, ha, per le masse lavoratrici d’Italia, un valore preciso. Nel corpo della Costituzione italiana questa parte oggi costituisce un documento a sé: la Carta dei lavoratori italiani, onorevoli colleghi.

Io so che qualcuno potrà ironizzare sul fatto che io non usi la denominazione «Carta del Lavoro»; qualcuno potrà ironizzare su questo, ma io non ho alcuna esitazione ad usare un termine mistificato dal fascismo, ed usarlo nel suo significato vero e nella sua reale portata, oggi che la democrazia italiana si trova in grado di affermare la libertà dei lavoratori e di riconoscere i diritti del lavoro in una Carta costituzionale.

Quale valore ha questa Carta, che significato, che portata può avere oggi nel corpo della Costituzione italiana introdurre una Carta che riguardi i lavoratori, che concerna i loro diritti? Molti hanno parlato di compromesso, ed hanno detto che si tratta soltanto di tendenze diverse tra diversi partiti che son dovuti giungere ad un punto medio, ad una soluzione che riscuotesse il consenso di una maggioranza. Questo è vero, ma non è un fatto negativo; è un fatto altamente positivo.

Se oggi questi principî, queste affermazioni hanno un valore ed hanno un significato nella nostra Carta costituzionale, è in quanto dietro di essi vi è un patto fra forze sociali e politiche che si impegnano, nel corso della vita del nostro Paese, a realizzare questi principî, a rendere effettivi questi diritti.

In questo senso è possibile l’affermazione di diritti e di principîi che non possono trovare immediata garanzia, nel senso che non si tratta soltanto di speranze – come l’onorevole Tupini ha voluto benevolmente dire – ma di impegni, di impegni che sono stati assunti dai grandi partiti di massa, allorquando si sono presentati alle masse elettorali, allorquando hanno detto alle masse lavoratrici: «Noi siamo il vostro partito». Allora, onorevoli colleghi, questi impegni sono stati presi, non più tra il popolo da un lato ed il sovrano assoluto dall’altro, per riuscire a strappare determinate concessioni e determinate garanzie, ma fra gruppi e gruppi sociali, fra partiti e partiti. Questi impegni sono stati presi e, inserendoli nel quadro della nuova Costituzione italiana, noi diamo una garanzia al popolo che essi non sono cosa vana, che non sono state parole sparse al vento in un momento di eccitazione o per scopi di propaganda elettorale, ma propositi sinceri che noi abbiamo ferma intenzione di tradurre in atto.

Io penso, quindi, che sia del tutto assurdo pensare ad uno spostamento di questa parte verso il preambolo. Penso che essa debba rimanere, nel luogo che attualmente ha, e debba anzi acquistare un distacco ed un rilievo maggiori di quello che oggi non abbia.

Si è osservato che, comunque, anche se questa parte rimarrà al suo luogo, anche se l’affermazione di questi principî e di questi diritti verrà fatta nella Costituzione italiana, con tutto ciò mancano garanzie, mancano sanzioni. Domani, qualcuno diceva, quando i lavoratori italiani fiduciosi e creduli si presenteranno a chiedere che vengano attuati, che vengano tradotti in pratica i diritti affermati sulla Carta, essi rimarranno delusi perché lo Stato non potrà garantire nulla.

Questo è vero. Noi non siamo in grado oggi di stabilire delle garanzie e delle sanzioni per la realizzazione e la concretizzazione di questi diritti; ma qualcosa possiamo fare: noi possiamo fissare i principî, possiamo stabilire le direttive entro le quali dovrà orientarsi il legislatore di domani, possiamo aprire la strada a questo legislatore, togliere alcuni limiti alla sua azione. In questo senso possiamo introdurre alcuni elementi di una economia nuova, possiamo predisporre l’intervento dello Stato nella vita economica, possiamo prevedere la necessità e la facoltà per lo Stato di attuare determinati piani generali che possano coordinare le diverse attività economiche secondo un’unica direttiva e rivolgere l’attività produttiva del Paese verso gli interessi delle grandi masse lavoratrici. Noi possiamo introdurre nel corpo della Costituzione la facoltà per lo Stato di nazionalizzare le grandi imprese che rivestono ormai il carattere di monopolio di fatto o che interessano servizi essenziali per la collettività; noi possiamo introdurre la possibilità per il legislatore futuro di stabilire determinati limiti alla grande proprietà terriera, di abolire il latifondo. Ma non solo possiamo fare questo; possiamo – e già ve ne è cenno nel progetto di Costituzione – prevedere gli organi attraverso i quali lo Stato potrà concretare queste riforme e potrà attuare questi piani. È in questo senso che, nel progetto di Costituzione, si parla di Consigli di gestione, in questo senso si parla di cooperative, in questo senso, da parte del Relatore della terza Sottocommissione, onorevole Di Vittorio, fu presentata la proposta d’introdurre nell’ordinamento del nostro Stato un Consiglio del lavoro, in cui le diverse categorie che partecipano al ciclo produttivo intervengano in proporzione della loro rilevanza numerica, in proporzione del loro peso effettivo nella vita della Nazione.

CAPUA. Torniamo alle Corporazioni! (Commenti).

LACONI. Ella non ha ragione di parlare di questioni corporative. Gli amici della sua parte hanno sostenuto tale indirizzo nel corso della discussione e lo hanno costantemente affermato. Il principio corporativo è legato ad altro. È legato intanto alla pariteticità delle rappresentanze, che in questo momento io escludevo, se ella è stato attento alle mie parole; è legato anche ad un criterio non democratico, come lei sa, perché la rappresentanza non era elettiva; ed è legato soprattutto alle funzioni che a questi organi si dànno. Quando noi parliamo di un Consiglio del lavoro, noi non vogliamo privare la rappresentanza politica della sua funzione e dei suoi poteri; noi vogliamo soltanto affiancare il legislatore con organi che gli portino la voce viva degli interessi delle grandi masse e gli facciano sapere quali sono le istanze e le esigenze che egli deve soddisfare. In questo senso noi abbiamo proposto un Consiglio del lavoro come organo di collaborazione col Governo e di controllo da parte dei lavoratori dell’opera e dell’attività del Governo e delle Assemblee legislative. Sono questi indubbiamente elementi nuovi, elementi di una nuova economia che si trovano fatalmente in contradizione con la vecchia. Indubbiamente ha ragione l’onorevole Calamandrei quando, leggendo passo per passo, comma per comma, un medesimo articolo, vi trova insieme principî che si riferiscono a concezioni diverse e che egli ha trovato in dottrine economiche diverse. Ma questa contradizione è nella vita e nella realtà italiana di oggi. Il problema è questo, onorevole Calamandrei: vi è oggi in Italia la possibilità di introdurre determinati elementi di una economia pianificata, coordinata in modo da poter venire incontro alle necessità delle grandi masse lavoratrici, rispettando i metodi della democrazia, rispettando la libertà?

Se questo non è possibile, ci troveremmo nella situazione che diceva l’onorevole Bozzi, dispersi fra due mondi senza avere possibilità di soluzione, senza trovare una via di uscita? Noi pensiamo di no. Noi pensiamo che non vi sia una assoluta opposizione tra questi due mondi; che non siano necessari fatalmente l’urto, lo scontro, il caos. Pensiamo che si possa attuare una rivoluzione sociale ed economica attraverso metodi pacifici e democratici. In questa fiducia confortateci, non scoraggiateci.

Ma certo, onorevoli colleghi, la garanzia suprema, la garanzia decisiva che questi principî, queste direttive verranno attuati, che questi diritti verranno tradotti in realtà, non sta in quei pochi elementi di economia nuova che vengono immessi nel corpo della Costituzione; ma sta in qualche altra cosa. La garanzia suprema e decisiva che il nostro Paese si orienterà realmente sulla strada di un rinnovamento sociale sta nella democraticità assoluta dell’ordinamento dello Stato, sta nella partecipazione effettiva di tutti i lavoratori – come è detto nel primo articolo – alla vita sociale, economica, politica del Paese; sta nel fatto che tutto l’ordinamento dello Stato poggi sul principio della sovranità popolare.

Appunto per sottolineare questo carattere, il carattere di una democrazia progressiva che pone a suo fondamento il lavoro, abbiamo proposto che la Repubblica italiana venisse definita Repubblica democratica di lavoratori.

Ho letto nella relazione dell’onorevole Ruini che molti della Commissione avrebbero consentito a chiamare l’Italia «repubblica di lavoratori» se queste parole non servissero in altre Costituzioni a designare forme di economia che non corrispondono alla realtà italiana. Non so quali siano queste altre Costituzioni.

RUINI, Presidente della Commissione: Quella jugoslava, per esempio.

LACONI. A me non consta che nella Costituzione jugoslava ci sia una denominazione di questo genere, sebbene l’abbia letta attentamente. Certo questa denominazione non può riferirsi in nessun caso alla realtà economica sovietica. È noto che nella discussione che ebbe luogo per l’approvazione del progetto della Costituzione sovietica, lo stesso Relatore, Stalin, propose che venisse respinto l’emendamento col quale si definiva la Repubblica sovietica come Repubblica di lavoratori, in quanto la realtà sovietica è andata più in là, perché lo Stato sovietico si basa ormai su categorie definite, armonizzate in uno Stato senza classi. Per questi motivi l’emendamento fu respinto.

Quando noi abbiamo proposto che la Repubblica italiana venisse definita Repubblica di lavoratori, ben sapevamo che la genericità del vocabolo ci consentiva di non riferirci ad alcuna struttura classista, in quanto una struttura di questo genere non corrisponde alla realtà italiana. Abbiamo usato il termine lavoratori in quanto più comprensivo, in quanto in esso si può ritrovare chiunque partecipi col braccio o col pensiero, con attività manuali o spirituali, teoretiche o pratiche, alla vita, al progresso, alla ricchezza della Nazione. E chi è assente da questo, e chi vuol essere alieno da questo progresso, chi può dire di non collaborare a questo processo produttivo?

L’onorevole Mastrojanni ha fatto un tale giro di parole, ha mascherato talmente il suo pensiero, che io non sono riuscito a comprendere di quali gruppi egli si faccia difensore; ma indubbiamente, da una definizione di questo genere, sarebbero esclusi unicamente quei gruppi che senza partecipare in maniera alcuna, con la propria opera, col proprio lavoro, alla vita della Nazione, si accontentano soltanto di sfruttare il lavoro altrui è di vivere parassitariamente, senza partecipare in nessun modo alla vita della Nazione. Se ella vuol farsi difensore di questi ristrettissimi gruppi, ella è buon giudice. Per quanto riguarda noi, noi pensiamo che una denominazione di questo genere, la più comprensiva ma anche la più significativa, corrisponda al carattere attuale della democrazia italiana, a quello che noi vogliamo diventi, noi tutti, noi uomini delle grandi formazioni di massa, noi uomini del popolo, a ciò che vogliamo diventi la democrazia italiana.

Per questo noi abbiamo sostenuto, durante il corso del dibattito nelle Sottocommissioni e nella Commissione dei settantacinque, un tipo di organizzazione e di ordinamento dello Stato che avesse i caratteri di una assoluta democrazia, e che fosse contemporaneamente uno strumento efficace della volontà popolare; abbiamo cioè sostenuto, da un lato, che ogni organo e ogni potere deve avere il suo fondamento, la sua origine nel popolo o deve essere controllato dal popolo o da quegli organi che nel popolo trovano la loro radice.

D’altro lato, abbiamo sostenuto sempre forme di regime che siano capaci di venire incontro con decisione alle esigenze che sorgono dalle masse.

Noi abbiamo sostenuto un tipo di regime democratico non per quel piccolo calcolo politico che l’onorevole Calamandrei, mi duole ancora dirgli, ha voluto attribuirci, non perché contiamo sopra una maggioranza e solo in vista di questa maggioranza siamo fedeli assertori delle idee democratiche, ma perché noi siamo invece mossi dalla fede e dalla fiducia che abbiamo nelle istituzioni democratiche; per questo abbiamo sostenuto, in ogni momento e ad ogni passo, il regime democratico più avanzato, il più lucido, quello che traducesse in un modo più semplice e schietto la volontà popolare.

Uno sforzo considerevole in questo senso è stato fatto e trapela dalle pagine di questo progetto. È innegabile che la Costituzione della Regione, come organo di decentramento amministrativo dello Stato, consente di avvicinare tutta la macchina dello Stato al popolo e di sottoporla ad un suo più diretto ed immediato controllo. È indubbio che l’abolizione dei prefetti, e degli organi burocratici che governano oggi la vita delle nostre provincie, è un passo avanti, è un radicale passo avanti in questo senso. È anche indubbio che il potere legislativo, integralmente rimesso ad istanze di pressoché diretta origine popolare, è un altro passo avanti che noi facciamo verso la democrazia. Il riconoscimento, l’ammissione nel corpo della nostra Costituzione della iniziativa popolare e del referendum sono altri passi che noi facciamo su questa strada. Il fatto che il Capo dello Stato sia eletto dall’Assemblea Nazionale e il fatto che il Governo debba riscuotere la fiducia espressa del Parlamento, e cioè dell’istanza democratica più alta del Paese, sono elementi indubbiamente positivi e così anche il fatto che nella Carta costituzionale sia stato introdotto il principio che al Governo della Magistratura partecipa una rappresentanza del Parlamento, ed è ancora più positivo il fatto che l’Alta Corte sia anch’essa designata dal Parlamento.

Ma se tutto ciò tende ad aprire la strada al popolo, tende a consentire l’immissione della volontà popolare nelle strutture, nei congegni del nuovo ordinamento democratico e tende ad estendere il controllo dell’organo rappresentativo su tutti i settori, su tutti i gangli dell’apparato, è indubbio che nel progetto è rimasta traccia anche di un’altra tendenza, di una vecchia tendenza che si ricollega ad una dottrina di nobili ed antiche origini: la tendenza a limitare, a correggere, a bilanciare l’azione popolare, tendenza che suona sfiducia nel popolo e nei suoi organi rappresentativi, la tendenza a limitare l’azione delle istanze democratiche, a frenarla, a disperderla nel tempo, ad impedire cioè che la democrazia diventi qualche cosa di efficiente, qualche cosa di decisivo nella vita del Paese, a togliere cioè allo Stato democratico la capacità di tradurre in atto la volontà popolare.

Questa tendenza rimane nel progetto, la si vede la si sente. Si sente, da un lato, attraverso quel congegno complicato di Consigli, di Camere che si controllano l’una con l’altra, quell’ordinamento così complesso di Regioni che condividono con le Camere determinati poteri e secondo determinate forme e in limiti particolari. Si sente attraverso la lentezza prevista per il funzionamento degli organi legislativi.

Io penso che uno sforzo più in là si possa fare in questo senso e che noi dobbiamo fare questo sforzo. Dobbiamo tentare di realizzare una democrazia più conseguente, nel delineare l’ordinamento della Repubblica, e dobbiamo d’altro lato cercare di dare una vitalità maggiore, una forza maggiore allo Stato democratico che stiamo creando.

Questa tendenza si manifesta in tutte le diverse parti dell’ordinamento costituzionale previste nel progetto; è quella tendenza cui si richiamava ieri l’onorevole Lucifero, dicendo di crederci. «Io sono un credente – diceva – negli antagonismi costituzionali». Io credo che avesse un senso dichiararsi un credente nella teoria della divisione, dell’equilibrio dei poteri, nel sistema dei contrappesi, quando si dava come condizione pregiudiziale – e purtroppo ineliminabile – il fatto che uno di questi poteri avesse un’origine non popolare, quando si era nella condizione di dover bilanciare questo potere assoluto non derivato dal popolo: il potere della corona.

Ma che senso ha oggi il voler bilanciare e frenare i poteri del popolo, il voler stabilire un limite alla sovranità popolare? Questo io chiedo.

LUCIFERO. Io ho detto il contrario, onorevole Laconi.

LACONI. Può darsi che io abbia male udito; e me ne scuso, in questo caso.

Certo, limiti in questo senso non mancano. Noi vedremmo con estremo favore l’istituzione nel nostro Paese di nuove istanze democratiche che corrispondano alla Regione così come è individuata e figurata tradizionalmente, in quanto – come dicevo poco fa – il decentramento amministrativo avvicina il popolo al Governo e rende più facili i controlli del popolo sull’amministrazione.

Ma è indubbio che quando alle Regioni si attribuiscono poteri che esorbitano da quelli della semplice amministrazione, che giungono, come in questa parte del progetto, ad una potestà legislativa esclusiva, a cui segue una potestà legislativa concorrente, e a cui segue ancora una potestà legislativa di integrazione e di attuazione delle leggi dello Stato, quasi per meglio specificare e caratterizzare quel carattere pieno e primario, che ha il primo tipo di legislazione; è indubbio che in questo caso non possiamo più essere favorevoli.

Pensiamo che non si tratti più di avvicinare il popolo alle istanze della vita democratica e di sottoporre al controllo del popolo i rami e i settori della vita del Paese; pensiamo che ormai si tratti di qualcosa di più, che si giunga al frazionamento del potere legislativo, al disgregamento dell’unità organica del nostro Paese. È indubbio che domani, se vedessimo approvata questa parte del progetto, ci troveremmo ad avere in Italia, ancora una volta, a ritroso dei secoli, una miriade di staterelli, ciascuno per sé esercitante potestà legislativa, ciascuno capace di attuare, nell’ambito del proprio territorio, chissà quali riforme, differenti da quelle della vicina o lontana Regione.

Credo che in questo modo verremmo a stabilire nel corpo della democrazia italiana una serie di compartimenti stagni, che servirebbe unicamente a frenare, a ritardare, a rallentare quanto più possibile la circolazione delle idee e del progresso, la circolazione delle leggi del nostro Paese, ad impedire un’azione conseguente decisa dallo Stato democratico.

PIEMONTE. Manca la fiducia del popolo in loco.

LACONI. Questo è uno degli sbarramenti che vengono frapposti all’azione dello Stato.

Ma quante precauzioni non si sono prese, per potere rendere inoperante il potere legislativo, già con l’istituzione d’una seconda Camera accanto alla prima? Ognuno sa quale battaglia ci sia stata intorno a questa seconda Camera legislativa, che dovrebbe concorrere all’opera della prima e perfezionare l’opera della prima, ma insieme dovrebbe limitare la prima Camera, la quale, data la sua derivazione popolare, è ritenuta, per sua natura, avventata e temeraria.

Ma tutte le volte che si discuteva su questa parte, i sostenitori d’una seconda Camera non democratica si dicevano mossi dall’intenzione di porre un limite, di porre un freno all’azione della prima Camera, per ottenere una riflessione maggiore nella formazione delle leggi, quasi dimenticando che la prima Camera rappresenta nel nostro Paese, attraverso l’elezione diretta; attraverso il suffragio universale, la volontà di tutto quanto il popolo, alla quale non v’è ragione alcuna di porre dei freni e dei limiti.

Ma non soltanto in questo modo sono stati predisposti dei limiti all’attività del legislatore. Altri limiti e freni sono stati previsti nella procedura, la quale è d’una tale lentezza, onorevoli colleghi, che io vorrei, per provocare la vostra meraviglia e per stimolare lo scrupolo di coloro stessi che hanno partecipato alla stesura di questo progetto, vorrei, dico, farvi la storia, l’itinerario d’un disegno di legge, il quale partirà dal Governo un determinato giorno e giungerà un determinato giorno alla prima Camera; questa dovrà sottoporlo ad una sua Commissione e poi dovrà esaminarlo, discuterlo, approvarlo in Assemblea plenaria, e quindi dovrà rimetterlo all’altra Camera, che, a sua volta, ripercorrerà tutti i gradi della procedura, sicché entro un mese, dalla pronunzia della seconda Camera, la legge potrà finalmente essere pubblicata e venti giorni dopo entrerà in vigore, a meno che non intervenga un conflitto.

Se infatti l’altra Camera si pronunciasse in senso contrario o tacesse, si aprirebbe in tal caso tutta una procedura nuova.

Avremmo allora l’intervento del Presidente della Repubblica; ed eventualmente il referendum. E se anche non vi sia il parere sfavorevole della seconda Camera, ma la legge venga approvata con meno di due terzi dei voti, essa è sospesa quando ve ne sia richiesta di 50.000 elettori o di 3 Consigli regionali, ed entro due mesi cinquecentomila elettori o sette consigli regionali debbono pronunziarsi; soltanto dopo tale pronunzia, può mettersi in moto la macchina lenta e complessa del referendum. Io penso che tutta questa parte solleverà indubbiamente le critiche di coloro stessi che l’hanno sostenuta e ne hanno promosso l’inserimento nella Costituzione.

Ma quello che interessa è di vedere l’animo, l’intenzione con cui tutta questa parte è stata introdotta; almeno l’onorevole Fabbri, ricordo, lo diceva sinceramente: voglio che la Camera non legiferi, o faccia meno leggi che sia possibile. Ma altri non lo diceva con eguale sincerità; eppure si comportava come lei, onorevole Fabbri. Ed è per questo che sono state inserite tante more, che sono state previste tante lentezze nella procedura legislativa, che il legislatore di domani dovrà essere forzatamente inoperante, incapace di venire incontro alle esigenze che possano prospettarglisi.

Quando poi sorga un motivo di conflitto in questo faticoso congegno, sarà il Capo dello Stato ad intervenire. Io non riesco a comprendere come, essendosi concepito il potere legislativo in una sua unità, sia pure distinto in due Camere egualmente concorrenti al perfezionamento della legge; io non riesco a comprendere come debba poi intervenire un elemento estraneo per comporre il dissidio. Non abbiamo noi previsto, nell’Assemblea nazionale, l’organismo collegiale che aduna le due Camere in una e che costituisce l’organo legislativo supremo del Paese? Per quale ragione, se non per accrescere le possibilità di conflitto, noi dobbiamo fare intervenire un elemento estraneo nei conflitti delle due Camere? Ma anche questa volta si è detto che era necessario mettere dei freni a che il potere legislativo non esorbitasse dalle sue funzioni, a che noi non dovessimo cadere in una situazione in cui il Parlamento, attraverso le sue crisi e i suoi dissensi, dovesse portare ad un progressivo svilimento dell’istituto democratico. Ma ancora agli altri poteri sono stati stabiliti, nel complesso di questo progetto, limiti, condizioni, strumenti di rallentamento e di freno. Così accade per il Governo che dovrebbe patire, secondo l’attuale progetto, almeno il controllo di un Consiglio di Stato, di una Corte dei conti, il cui modo di composizione è completamente sottratto alla competenza del costituente e rinviato al legislatore ordinario.

Ora, io penso che domani, quando il Governo dovrà trovarsi a concretare, secondo lo spirito delle leggi che verranno emanate dal legislatore futuro, i principî che noi stabiliamo in questo momento nella Costituzione, esso dovrà agire e dovrà muoversi nell’ambito di una sfera di discrezionalità tale che l’organo che dovrà domani controllare i suoi atti non potrà limitarsi a controllare la pura legittimità; dovrà fatalmente sconfinare nel merito. E noi possiamo rimettere un controllo di tale portata ad un organo di cui oggi non possiamo prevedere quale sarà la composizione, quale sarà la natura? Io penso che ciò non sia possibile. Ma questo intervento di un’istanza giurisdizionale, di un corpo tecnico giudicante, nella vita e nello svolgimento dell’attività di un Governo e nell’attività legislativa del nostro Paese risponde ad un criterio, ad una tendenza che ha trovato i suoi assertori nelle Commissioni e che ha lasciato traccia – come dicevo – in tutto, il progetto di Costituzione: ed è la tendenza a inserire il giudice, il tecnico, il possessore dei criteri interpretativi della legge, come giudice e arbitro tra i poteri, come discriminatore dei loro conflitti, come il meglio adatto ad interpretare la volontà del legislatore ed a correggere l’indirizzo dell’esecutore o del legislatore stesso, quando si tratti dell’interpretazione e dell’applicazione dei principî di questa Carta.

In questo senso e rispondendo a questi principî, a questo punto di vista, si è svolta nelle Commissioni una grande battaglia per affermare l’autonomia della Magistratura. Oh! Io non polemizzerò su questo argomento; non ricorderò il caso Pilotti, che è stato già ricordato. Non è certo stata questa la ragione per cui noi ci siamo opposti ad una autonomia assoluta della Magistratura: non davamo una tale importanza al caso Pilotti, per quanto una sua importanza l’abbia; non fosse altro come sintomo. Non è stata questa però la ragione per cui noi abbiamo ritenuto che la Magistratura non debba costituire un corpo a sé, un ordine a sé, autogovernantesi in forma assoluta, indipendente e senza alcun controllo di altre istanze o di altri organi. Non è stata questa la ragione. Se fosse stata questa, e se noi dovessimo scendere su questo terreno, io ripeterei quello che dicevo ieri, interrompendolo, all’onorevole Calamandrei: se noi entriamo su questo terreno polemico e ci poniamo a considerare se la Magistratura fra cinque, dieci, fra cinquant’anni potrà diventare una Magistratura nuova, antifascista e democratica, se noi ci poniamo su questa prospettiva del domani, ebbene rimandiamo al preambolo questo principio; al preambolo in cui, secondo lei, onorevole Calamandrei, dovrebbero inserirsi quei principî che non possono trovare un’attuazione immediata. Qui sì vi sarebbe motivo, perché l’attuazione di questo principio non da noi dipende, ma dalla Magistrature stessa, dagli uomini, dalla posizione che essi assumeranno nello schieramento democratico e dall’atteggiamento che prenderanno rispetto alla realtà viva, repubblicana, del nostro Paese. Non da noi. E poiché la cosa non dipende da noi, io sarei favorevole a che la si affermasse nel preambolo.

Ma non è questo, ripeto, il motivo per cui noi ci siamo manifestati in questo senso per quanto riguarda la Magistratura. È un altro, ed è che nello Stato italiano non possono esservi poteri che siano completamente sottratti al controllo delle istanze democratiche, delle rappresentanze popolari. Noi non possiamo ammettere che i giudici, corpo qualificato, alto e selezionato quanto si voglia, possano però immettersi nel corpo della democrazia italiana, inserirsi come organo giudicante tra il legislativo e l’esecutivo, controllare la legittimità di determinati atti di Governa o la costituzionalità di determinate leggi, senza che abbiano dietro di essi una volontà popolare, che suffraghi la loro interpretazione, senza che abbiano una qualsiasi investitura che li ponga in condizione di poter interpretare la volontà del legislatore, di poter interpretare la volontà del costituente.

Per queste ragioni, noi siamo stati sostenitori del principio che la Magistratura deve essere governata e controllata da organi in seno ai quali i diversi poteri, e particolarmente il potere legislativo e le rappresentanze popolari, abbiano una loro specifica rappresentanza.

La traccia, però, dell’opinione contraria è rimasta. È rimasta in quanto si esclude la partecipazione in questi organi del rappresentante più diretto e più qualificato dell’esecutivo, del Ministro della giustizia, ed è rimasta in quanto in nessuna parte di questo progetto si prevede la eleggibilità del giudice, si prevedono dei giudici elettivi.

Noi siamo sempre pronti, o meglio talune frazioni di questa Assemblea e taluni gruppi della Commissione, erano sempre pronti a celebrare altre Costituzioni, in altri momenti e per altre ragioni; nessuno però celebrava la parte positiva delle altre Costituzioni, nessuno ha ricordato che in altre Costituzioni il principio della elettività dei giudici, almeno nei primi gradi, è ammesso e riconosciuto come uno dei fondamenti del regime.

Questa è indubbiamente una deficienza che è rimasta nella stesura del nostro progetto e che corrisponde a tutta una tendenza contro la quale noi abbiamo dovuto lottare, tendenza diretta a sottrarre al popolo e al controllo diretto del popolo, quanto fosse più possibile, i poteri dello Stato.

Un’ultima questione, che è sorta in questo ordine, è quella che concerne la Corte costituzionale. Anche della Corte costituzionale si è tentato di fare un organo avulso dalla vita della nazione e dalla volontà del popolo. Questo tentativo è caduto. La Corte costituzionale, per quanto eletta secondo particolari criteri e con particolari modalità che non sono completamente soddisfacenti, sarà sempre un organismo investito della sua autorità dal Parlamento, e noi pensiamo che soltanto il Parlamento, il quale sia pure con maggioranza qualificata può modificare la Costituzione, soltanto il Parlamento, il quale unico nella vita della democrazia italiana, è investito della facoltà di rappresentare tutto il popolo nel suo complesso, possa eleggere, sia pure entro determinate categorie, i giudici che dovranno interpretare la volontà nostra e comparare le norme legislative emanate dal legislatore ordinario alle norme emanate da noi, potere costituente. Tutti questi limiti naturalmente non sono stati introdotti senza pretesto. Si è detto e si è ripetuto che si voleva ovviare a quelli che vengono definiti i difetti del regime parlamentare. Quando si è attribuito il potere legislativo alle Regioni, si è detto che si voleva lottare contro il centralismo, contro lo Stato centralizzatore, contro il Parlamento che monopolizzerebbe la potestà legislativa e sottrarrebbe alle distanze inferiori qualsiasi possibilità di regolare secondo esigenze particolari i loro particolari problemi.

Quando si è costituita la seconda Camera con eguali poteri e si è determinata una procedura lenta e laboriosa, si è detto che si introducevano queste cautele contro le avventatezze della prima Camera; quando si è stabilito l’intervento del Capo dello Stato e quando si è attribuita al Capo dello Stato la facoltà di sciogliere le due Camere, si è detto che questo era necessario per introdurre un elemento estraneo che potesse comporre i dissidi; quando si è creato il Consiglio di Stato e si è riconosciuta la necessità di mantenere la Corte dei Conti, si è detto che questo era ancora necessario perché l’esecutivo patisse un controllo esterno ed indipendente da esso; quando si è costituita la Corte costituzionale si volevano garanzie perché la Costituzione fosse realmente osservata.

Ma se noi osserviamo quale significato e quale valore abbiano nella nostra Carta costituzionale tutte queste garanzie che io ho elencato, noi scopriremmo che la giustificazione si fonda sopra una essenziale ingenuità: si cercano le garanzie nei congegni, in particolari strutture, in particolari forme organizzative che dovrebbero impedire, che dovrebbero eliminare tutti i difetti del regime parlamentare. Si vuole risolvere con particolari congegni, con particolari strutture quello che è un problema eminentemente politico e soltanto politico. Io comprendo che impedire, frenare, limitare, trattenere hanno un significato ed hanno un valore politico in quanto frenare e trattenere vuol dire conservare, e risponde quindi all’indirizzo di una politica eminentemente conservatrice il frapporre ostacoli all’attività dello Stato, o il mettere in uno stato di crisi permanente i diversi poteri; o il predeterminare congegni di una particolare lentezza. Io comprendo che tutto ciò ha un significato politico, che significa conservare quello che vi è, impedire che le forze nuove che sono la espressione del popolo manifestino la loro volontà, esprimano la volontà di rinnovamento che pervade tutta la democrazia italiana. Ma noi dobbiamo svelare che cosa si cela dietro questo tentativo. Dietro questo tentativo e dietro questa tendenza si cela unicamente e soltanto una fondamentale paura del popolo, un timore della volontà popolare, una paura del popolo e dei partiti in cui il popolo si organizza, dai quali invece deve partire, sui quali deve fondarsi ed a cui deve tendere tutta l’organizzazione dello Stato.

L’onorevole Lombardi, se non erro, in altra discussione constatava che ormai la sostanza del potere politico è fuori di questa Assemblea, e lamentava questo fatto ricordando come in altri tempi il Parlamento era realmente centro del dibattito e della lotta politica del Paese. Ma io credo che questo accada oggi fatalmente perché il potere politico è nel popolo, e deve essere fatalmente nel popolo quando noi poniamo a fondamento della nostra Costituzione la sovranità popolare.

Non noi, non questa Assemblea è sovrana, ma il popolo che sta fuori di questa Assemblea e di cui noi siamo i genuini e legittimi rappresentanti. Nel popolo, quindi, e nei partiti in cui il popolo si organizza, risiede la sostanza del potere politico. Da chi vogliamo garantirci noi? Da questo potere politico? Dai partiti, dal popolo? Vogliamo quindi misconoscere la sovranità popolare, menomarla, limitarla quanto più è possibile? Io credo che tutti i difetti del parlamentarismo scompaiano man mano che i partiti avanzano, man mano che i partiti si consolidano e penetrano nella coscienza dei cittadini, man mano che diventano forme di organizzazione popolari e raggruppano quanto più è possibile intorno a movimenti ideali e ad indirizzi pratici le più grandi masse.

Io credo che questa forza dei partiti tenda ad eliminare i difetti del parlamentarismo. La sovranità è nel popolo, non è nel Parlamento, e noi qui contiamo unicamente per quel che rappresentiamo. È per questo che tutto ciò che è stato previsto per la difesa delle minoranze ha un valore, ma un valore limitato, nelle forme attuali in cui si sviluppa e si orienta la nuova democrazia italiana.

Lo scopo fondamentale del regime democratico non è soltanto garantire la libertà dei pochi, ma è permettere l’attuazione di quelle idee e di quei principî che sono ormai penetrati nella coscienza dei più, che sono diventati anima di grandi movimenti popolari, che ormai raccolgono il suffragio ed il consenso della più gran parte della nazione.

In questo senso, onorevoli colleghi, io credo che la Costituzione debba orientarsi e che noi dobbiamo orientarci nel giudicare la Costituzione. In questo senso moveranno le nostre critiche a questo progetto che noi accettiamo come base di discussione, come utile base di discussione.

Noi non temiamo quello che dalla Costituzione rimane escluso, quello che rimane indefinito. Noi non temiamo il popolo che sta dietro a questa Costituzione e che sarà domani al di là dell’ordinamento democratico, come presupposto dell’ordinamento democratico dello Stato. Noi non pensiamo che i congegni, che i meccanismi costituzionali che possiamo predeterminare possano essere così efficienti da poter escludere qualunque pericolo.

Io vorrei che fosse così; vorrei che la semplice istituzione di una Carta costituzionale potesse garantirci per sempre dal pericolo della tirannide; vorrei che la forza e la solennità di queste parole impresse sulla carta o sulle tavole costituzionali avessero tal peso da poter impedire domani qualsiasi tentativo contro la democrazia.

Ma non ho questa speranza, non ho questa illusione. So che la garanzia maggiore dell’orientamento democratico del nostro Paese non è in questa Carta. È, onorevoli colleghi, unicamente nel popolo; è soltanto il popolo che può garantire che i principî che noi immettiamo nella Costituzione si tradurranno domani in realtà, che può garantire che i congegni che noi predeterminiamo agiranno domani nel senso che noi oggi ci auguriamo. È soltanto nel popolo che noi possiamo trovare la nuova garanzia del domani. Ed è per questa ragione che noi ci sforzeremo in tutti i modi, nel criticare questo progetto di Costituzione, di far sì che l’ordinamento dello Stato di domani sia il più democratico possibile, che non vi siano vicoli ciechi, che non vi siano budelli, vasi ostruiti, che la volontà popolare possa penetrare tutto il congegno e giungere in ogni lato, fin nelle più remote parti, nei più remoti settori dell’ingranaggio. È per questo che noi ci sforzeremo di fare in modo che l’ordinamento dello Stato sia quanto più democratico possibile, in modo che le forze delle grandi correnti democratiche del nostro Paese possano immettervi domani quello spirito unitario, quella volontà unitaria che manca oggi forse in questi congegni così predeterminati, l’uno distinto dall’altro, l’uno all’altro contrapposto. In questa volontà unitaria dei partiti e delle grandi masse popolari noi troviamo la maggiore garanzia che l’unità politica materiale e morale del nostro Paese non verrà spezzata. Nella forza dei grandi partiti di massa noi troviamo la garanzia che domani i principî che noi immettiamo nella Costituzione verranno tradotti in realtà. In questa circolazione, in questo respiro nuovo, noi vediamo la garanzia dell’orientamento interno e internazionale del nostro Paese, onorevoli colleghi, la garanzia suprema che l’Italia di domani sarà realmente una Repubblica democratica rispettosa della libertà, avviata sulla strada del progresso, decisa ad entrare come una forza attiva e pacifica nella comunità dei popoli liberi (Vivissimi applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle ore 16. Domattina vi sarà anche seduta alle ore 10.

La seduta termina alle ore 20,5.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro Michele Parise, per il reato di vilipendio dell’Assemblea Costituente (Doc. I, n. 3).
  3. – Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Colombi, per il reato di diffamazione a mezzo della stampa (Doc. I, n. 4).
  4. Discussione del disegno di legge:

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni. (2).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.