ASSEMBLEA COSTITUENTE
XLIX.
SEDUTA DI MARTEDÌ 4 MARZO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
indi
DEL VICEPRESIDENTE CONTI
INDICE
Congedi:
Presidente
Commemorazione:
Marchesi
Presidente
Gasparotto, Ministro della difesa
Discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:
Presidente
Lucifero
Bozzi
Calamandrei
La seduta comincia alle 15.
AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.
(È approvato).
Congedi.
PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli Spano, Vigorelli, Facchinetti.
(Sono concessi).
Commemorazione.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Marchesi. Ne ha facoltà.
MARCHESI. Onorevoli colleghi, è triste ufficio commemorare quei grandi che il destino ha fermato lungo la via delle più nobili fatiche ed ha strappato alle più legittime speranze. Altri in questa Aula, con autorità e conoscenza che io non ho, potrebbero ricordare Federico Nitti, facendone sentire più acuto ed angoscioso il desiderio; potrebbero ricordare il cittadino e lo scienziato grande: il cittadino che seppe lottare per la libertà della Patria e del mondo e, nell’ora del pericolo supremo, seppe dall’aula del laboratorio passare all’ombra e alla gloria dell’azione clandestina e liberatrice, nelle file di un partito di avanguardia; lo scienziato che contese l’umanità al mistero che l’avvolge e alle insidie e ai pericoli che da ogni parte la colpiscono nella perpetuità delle generazioni. Ma già, certi uomini pare non appartengano a nessuna particolare scienza: essi appartengono a tutta la scienza, e la loro indagine e il loro studio penetrano addentro in quel fluire e rifluire perenne della materia su cui poggia l’unità stessa della vita. Fra questi uomini rari, poté presto eccellere Federico Nitti.
Onorevoli colleghi, sui banchi di questa Assemblea non siedono soltanto i delegati del popolo né i testimoni delle varie fedi politiche. Qui siedono anche – e lo dico ad onore di questa prima Assemblea dell’Italia libera – i rappresentanti della sofferenza e del sacrificio. E da questi banchi, e da quest’Aula, è naturale che si levi commossa la voce di rimpianto e di riconoscenza a Federico Nitti, allo scienziato grande, di fama universale, che ai dolori dell’umanità prestò la luce del suo intelletto, il ristoro del proprio sapere e l’opera preziosa della sua troppo breve giornata.
Onorevoli colleghi, ho finito. Massimo vanto dell’uomo è non esser passato invano su questa terra: Federico Nitti ebbe altissimo e imperituro questo vanto. Possa questa certezza battere confortatrice alla porta della casa sua desolata. (Applausi).
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, le parole di accorato cordoglio e di nobile celebrazione or ora udite, per un italiano che ha esaltato con l’opera sua – pacifica e combattente – il nome della nostra Nazione nel mondo non paiono sufficienti, pur nel loro decoro e nel loro profondo afflato, a soddisfare l’anelito nostro, in cui il dolore si mescola al vanto. Quanti di noi vorrebbero ora rinnovare l’omaggio riverente, rammentare i meriti, segnalare le doti di quello che piangiamo! Chi lo ebbe compagno di studi, chi lo conobbe nelle dure traversie del confino, chi fruì del dono prezioso della sua amicizia; chi lo vide – curvo sulle miserie dei nostri lavoratori emigrati – prodigare loro cure fraterne ed affettuose, chi ha sentito gli stranieri parlare di lui con ammirazione invida del popolo che lo annoverava fra i propri figli.
Desidero esprimere con le mie parole i sentimenti di tutti i componenti dell’Assemblea, forse incapace a rifletterne ogni vibrazione e tremore, ma certamente compenetrato di tutta la loro angoscia.
A nome dell’Assemblea Costituente saluto nello scomparso l’uomo forte e generoso, dall’animo buono di fanciullo; lo studioso severo; il cittadino legato alla Patria da vincoli infrangibili di amore e di fedeltà; e m’inchino dinanzi alla sua memoria che resta per tutti gli italiani maestra di virtù civili, morali e intellettuali. (Segni di assenso).
GASPAROTTO, Ministro della difesa. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
GASPAROTTO, Ministro della difesa. Il Governo si associa alle nobili parole pronunciate in memoria di Federico Nitti ed esprime i sentimenti della sua solidarietà al padre, illustre nostro collega.
Discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. (Segni di vivissima attenzione). Onorevoli colleghi, stiamo dunque per dare inizio all’opera fondamentale cui il popolo italiano, nelle sue elezioni del 2 giugno, ci ha delegati. Sono spiacevolmente sorpreso dei tanti vuoti che constato in ogni settore e debbo rammaricare vivamente che la nostra discussione non si inizi alla presenza di tutti, o almeno della maggior parte dei membri della Costituente. (Applausi). Ma non vanamente sono trascorsi i primi otto mesi di vita di questa Assemblea, ché essi ci hanno permesso dall’una parte di accumulare un materiale imponente per la costruzione; dall’altra di sgombrare il terreno, sul quale questa deve sorgere, da un certo numero di impedimenti e di ostacoli. Senza questa fatica, se non silenziosa certamente poco nota, noi non potremmo quest’oggi incominciare finalmente l’esame attento e responsabile del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
In quale modo regoleremo lo svolgimento di questo. nostro lavoro? Fin dall’inizio della sua esistenza questa Assemblea ha dichiarato di fare proprio il regolamento della vecchia Camera dei Deputati. E, quando noi prendemmo questa decisione, già sapevamo che ad un certo momento ci si sarebbe proposta l’opera specificamente costituzionale. Noi abbiamo, quindi, fin d’allora pensato che quel regolamento fosse valido non soltanto per gli altri momenti del lavoro di quest’Assemblea – per quelli, ad esempio, sostanziati da discussioni più squisitamente politiche come i giudizi dell’opera governativa, ovvero più particolarmente giuridiche come l’esame dei progetti di legge che questa Assemblea ha avocati a sé –; ma anche per l’appunto per questa maggiore e possiamo ben dire storica discussione del testo costituzionale. Credo, pertanto, di poter affermare che non era necessario escogitare e redigere un nuovo speciale regolamento per la discussione imminente; ma che, anche per questa, resta valido e sufficiente strumento il regolamento adottato fin da otto mesi fa, salvo un intelligente adeguamento di alcune sue disposizioni.
È partendo da questa considerazione che la Presidenza dell’Assemblea ha delineato alcuni criteri direttivi ai quali essa intende attenersi nell’intento di portare a buon fine la discussione. Criteri direttivi, e cioè non norme rigide; ma che amerei i membri dell’Assemblea volessero tenere presenti sempre nelle settimane venienti, considerando che li ho pensati solo per facilitare il compito arduo che dobbiamo assolvere.
Così, per la discussione generale con la quale apriremo questi nostri lavori costituenti, mi è parso conveniente invitare i Gruppi ad una certa limitazione degli oratori; e, accolto l’invito, le iscrizioni sono salite al numero di 22, cioè approssimativamente a 2 deputati per ogni Gruppo.
È stato detto fuori di quest’Aula che con ciò si soffoca la discussione, e proprio su quella materia che più la pretenderebbe ampia ed esauriente. È chiaro che chi così ha parlato ignora che la discussione generale non esaurisce l’esame di un progetto di legge, sia questo il più importante od il più modesto; ma che essa non ne costituisce se non l’atto introduttivo.
Ma voglio aggiungere qualcosa. A stretto rigore di regolamento, il dibattito cui ci apprestiamo non comporterebbe una discussione generale, se una discussione generale deve concludersi, ed ognuno sa che così vuole il regolamento, con un voto per il passaggio agli articoli. Ma noi non avremo, è evidente, un simile voto: a nessuno potrebbe infatti mai venire in mente che l’Assemblea possa comunque rinunciare all’esame dell’articolazione nella quale il progetto costituzionale si concreta. Ciò non di meno noi la faremo la discussione generale; e ciò proprio per soddisfare alle esigenze imperiose che tutti avvertiamo di non trascurare mezzo che ci conduca alla più intima e piena comprensione della materia costituzionale.
Ma se questa discussione generale può apparire non troppo in armonia con la parola del regolamento, essa deve giustificarsi in punta di logica. E sarà giustificata se si intesserà dei temi e dei motivi che le sono propri e connaturati. Perché ciò si realizzi occorre che essa dall’una parte sfugga dalle semplici astrattezze – che sarebbero un impiego dissipato del tempo non più abbondante che abbiamo a disposizione –; dall’altra che non anticipi le argomentazioni che più naturalmente appartengono a quella fase del dibattito nella quale verranno esaminate le disposizioni specifiche di ogni singolo articolo.
Questa discussione generale, in definitiva, deve essere tale da meritarsi piuttosto la qualificazione di preliminare o di pregiudiziale che non quella stessa di generale. Poiché sarà dalla soluzione che riceveranno i quesiti in essa affrontati che sarà dettata la struttura d’assieme della Costituzione, il coordinamento delle sue parti, la successione e la formulazione delle sue norme. Preambolo o non preambolo? Rigidità o flessibilità? Norme giuridiche di più o meno immediata efficacia o affermazioni programmatiche e finalistiche? Così a titolo di esemplificazione i temi che, mi pare, dovrebbero nutrire questo preambolo del dibattito; temi che sotto al loro apparente tecnicismo offrono in realtà l’adito al vasto campo delle considerazioni d’ordine storico e sociale, alla cui luce il testo costituzionale cessa di essere un documento di pura perizia giuridica per divenire un atto di vita del nostro popolo.
Da questa scelta e specificazione di materia e dalla limitazione degli oratori, designati da tutti i gruppi fra i propri membri più autorevoli, il dibattito iniziale riceverà un carattere di particolare elevatezza, quasi un appello al popolo italiano, ed un aiuto offertogli, perché non disperda la sua attenzione nei particolari, pur importanti, del grande edificio in costruzione della sua nuova legalità democratica e repubblicana; ma ne miri innanzi tutto, e ne saggi i pilastri che garantiscono la solidità e la coesione del tutto.
Alla fine di questa discussione generale-preliminare potranno anche aversi delle votazioni – ad esempio sull’opportunità o meno di un preambolo, sulla forma finalistica di certe disposizioni, ecc. – il cui risultato si farà avvertire poi nel destino che avranno di fronte al giudizio dell’Assemblea certi articoli o certi emendamenti.
Così, sgombro il cammino da ogni questione sistematica pregiudiziale, potremo passare all’esame di merito delle norme concrete costituzionali, e lo compiremo titolo per titolo, procedendo per ciascuno di questi ad una discussione particolare che abbraccerà tutta la loro specifica materia.
Potrebbe qualcuno obiettare che, così procedendo, noi sovvertiremo il criterio, ispiratore dell’articolo 86 del regolamento, il quale propone la discussione generale di un progetto o la sua discussione per titoli come una alternativa. Ma l’importanza eccezionale di questo progetto che abbiamo oggi dinanzi a noi ci autorizza a trasformare l’alternativa in complementarietà. Non solo, ma giungendosi, a questo punto, al vivo della materia – i diritti dei cittadini, le forme istituzionali, le funzioni correlative – ogni limite alla discussione, come numero di oratori e come tempo di parola, sarebbe inammissibile. Tuttavia, onorevoli colleghi, non dobbiamo dimenticare, nel fervido contrastare delle opposte tesi, che dibattiti approfonditi e ben nutriti di dottrina e di scienza già si svolsero attorno ad ognuno di quegli argomenti in seno alla Commissione dei 75 e più in seno alle sue Sottocommissioni. E la lettura dei voluminosi resoconti sommari, facendone testimonianza, ammonisce insieme che sarebbe inutile rinnovare ancora certe discussioni di principio nelle quali fu già ottimamente detto tutto quanto poteva essere detto per la chiarezza dei concetti e per la confusione dei contradittori. Lasceremo, comunque, qui libero giuoco allo spontaneo senso della misura che auspico sia vivo ed operante in ognuno di noi dell’Assemblea.
Alla discussione sulla particolare materia di ogni titolo seguirà naturalmente l’esame dei rispettivi articoli. Ma non resterà più molto a dirsi, suppongo, giunti che saremo a questo punto, poiché le norme specifiche di ogni singolo articolo, specialmente nelle parti dedicate alla struttura dello Stato, acquistando valore ed efficienza solo in connessione con quelle di tutti gli altri articoli, la discussione del titolo non potrà non avere già esaurito in massima parte la discussione propria degli articoli stessi. L’esame degli articoli si risolverà dunque nell’esame degli emendamenti. Avranno perciò la parola in questa fase finale della discussione soltanto i presentatori degli emendamenti, ed ancora per un limite di tempo proporzionato all’importanza, certo non trascurabile ma – in confronto al già fatto – marginale, del loro assunto: tempo che indicherei in dieci minuti.
Chiedo fin d’ora, al proposito, agli onorevoli colleghi di presentarmi per iscritto i loro emendamenti almeno 48 ore prima del giorno nel quale presumibilmente questi dovranno essere discussi, salvo bene inteso gli emendamenti agli emendamenti, che a norma di regolamento potranno essere presentati nel corso stesso della discussione, purché sottoscritti da almeno 10 deputati.
Credo che la disposizione del quinto comma dell’articolo 90 del Regolamento, a tenore del quale un articolo aggiuntivo o un emendamento proposto nell’aula possono essere rinviati per la discussione quando lo richieda o la Commissione o un gruppo di 10 deputati, troverà più di una volta applicazione nelle prossime settimane; così come potrà alcune volte apparire necessario valersi della disposizione dell’articolo 96, se avvenga che una decisione che si sta per prendere o che è stata ad un certo momento presa appaia o sia in contradizione con votazioni antecedenti.
Se ora aggiungo che agli oratori della discussione generale introduttiva risponderà il Presidente della Commissione dei 75; a quelli delle discussioni generali per titoli i relatori della rispettiva materia in seno alle Sottocommissioni; e che, sugli emendamenti, si pronunceranno i Presidenti delle stesse Sottocommissioni, credo di avere completato il quadro della tecnica della nostra discussione costituzionale.
Ma è certo che la perfezione tecnica del metodo non sarà sufficiente a sodisfare le attese ansiose che circonderanno il nostro lavoro. E neanche le placheranno l’abbondanza di erudizione, lo splendore della dottrina, il dominio del ragionamento, l’abilità polemica, la ricercatezza del linguaggio di cui la nostra tornata parlamentare sarà ricca e generosa.
La imminente discussione, onorevoli colleghi, deve assolvere – oltre che quello costituzionale – un altro compito, che non dirò gli sovrasta, ma certo gli sta a paro. Essa deve dare conforto a tutti coloro – e sono incommensurabilmente i più, fra il popolo italiano – che nell’istituto parlamentare vedono la garanzia maggiore di ogni reggimento democratico; a tutti coloro che, soffrendo in sé – nel proprio spirito – di ogni offesa ed ingiuria che venga portata contro il principio rappresentativo e gli istituti nei quali esso storicamente oggi s’incarna, voglion però a buon diritto, e si attendono, che questi non vengano meno al proprio dovere: che non è solo quello di elaborare testi legislativi e costituzionali, ma anche di essere in tutti i propri membri esempio al Paese di intransigenza morale, di modestia di costumi, di onestà intellettuale, di civica severità; ed ancora – me lo si permetta – di reciproco rispetto, di responsabile ponderatezza negli atti e nelle espressioni, di autocontrollo spirituale ed anche fisico, di sdegnosa rinuncia ad ogni ricerca di facili popolarità pagate a prezzo del decoro e della dignità dell’Assemblea.
È certo difficile, dopo tanta immensità di umiliazione nazionale, ritrovare d’un tratto quell’incrollabile equilibrio interiore senza il quale non può darsi alcuna consapevole e conseguente attività politica, e cioè attività in servizio del bene pubblico. Ma ciò che per tanti, più prostrati dalla miseria e meno ferrati nel sapere, può ancora essere una meta da raggiungere, per noi – che abbiamo osato accogliere l’offerta di farci guida del popolo – per noi ciò deve essere, o dovrebbe essere, certamente una meta già conquistata. Io amo, dunque, pensare, onorevoli colleghi, che l’alta impresa cui oggi moveremo i primi passi, impegnandovi ogni nostra forza d’ingegno, ogni nostro moto di passione, ogni nostro fervore di fede, riuscirà a dare prova ai nostri ed ai cittadini di tutti i Paesi del mondo che l’Assemblea Costituente italiana è pari alla sua missione, e degnamente rappresenta il popolo che l’ha eletta, un popolo probo, eroico, incorrotto. (Vivissimi, prolungati, generali applausi).
Il primo oratore iscritto è l’onorevole Lucifero. Ha facoltà di parlare.
LUCIFERO. Onorevoli colleghi, anzi, per essere più esatti oggi, signori costituenti, perché in tale qualifica è la solennità particolare di questa nostra riunione in cui oltre al mandato che gli elettori ci hanno dato comanda l’imperativo della nostra coscienza.
Le nobili parole del Presidente hanno già indicato, nella sua tecnica e nel suo spirito, la via che deve seguire questa discussione; questa discussione che dell’Assemblea Costituente italiana – della prima Assemblea Costituente nazionale italiana – segna il vero principio ed anche, in un certo senso, la fine.
È stata un po’ scialba la vita della nostra Assemblea in questi suoi mesi di esistenza. Speravamo di più, speravamo di poter seguire più assiduamente l’opera legislativa e l’opera politica del Governo. Questo è mancato e non per colpa dell’Assemblea. Io mi auguro che accada di noi e della nostra Assemblea quello che accade di certe faci le quali non danno molta luce, producono molto fumo, ma nel momento di spengersi, hanno una fiammata vivissima che tutto illumina.
La combinazione vuole, e forse non soltanto la combinazione, che in questa prima seduta dell’Assemblea che deve dare corpo e sostanza alla Repubblica italiana, prenda per primo la parola chi ha condotto senza riserve, senza reticenze, con piena lealtà, una grande battaglia e credo di poter dire una bella battaglia. E forse è opportuno che sia così perché è ora che monarchici e repubblicani si ritrovino sulla strada comune della Patria, e che conflitti e scissioni cessino dove non sono cessati.
In quest’aula si sono sentite ancora parole grosse, contumelie e ingiurie inutili e nocive: inutili perché non alteravano la realtà dei fatti, nocive perché ferivano i sentimenti di molti italiani. Oggi è ora che queste parole cessino e che tutti gli italiani si trovino uniti: coloro che, come me, credettero e ancora credono che potesse essere nell’interesse del Paese la permanenza della Monarchia e coloro che avevano opinione contraria. La Patria, o la costruiamo tutti uniti o non la costruiremo mai; e quanto più avremo il senso di responsabilità di questa nostra azione, tanto più, proprio dal risultato del nostro lavoro, risulterà se avremo potuto dare una risposta a questo primo interrogativo: Monarchia o Repubblica? Solo la Repubblica, cioè le leggi e la costituzione della Repubblica, e il modo con cui esse verranno applicate potranno risolvere la questione istituzionale. Lo dissi già nel mio primo intervento all’Assemblea e lo disse molto autorevolmente anche l’onorevole De Gasperi in una recente intervista. Noi vogliamo chiudere tutto quello che possa dividere il Paese e siamo qui per cercare di fare leggi tali da poter rimarginare le nostre piaghe e sopire tutti i risentimenti. Noi non vogliamo fare altro che creare l’Italia e fare sì che essa – repubblicana o monarchica – divenga una cosa sola.
La vera crisi che ha travagliato l’Italia in questi anni è stata non una crisi istituzionale, ma è stata una crisi costituzionale; perché il processo che si è fatto al passato del nostro Paese è stato un processo di natura costituzionale, tanto che si è detto che, se lo Statuto fosse stato applicato esattamente, molte cose non sarebbero successe.
Ciò si è detto da alcuni, non da lei onorevole Conti, è anche da autorevoli miei amici… (Interruzione).
Potrebbe stupire che, essendosi detto questo, invece di tornare a quello Statuto che avrebbe potuto dare delle garanzie, se bene applicato, invece di costringerlo ad essere bene applicato, si sia pensato ad una costituzione nuova. Ma l’importante è che ci sia una Costituzione che finalmente ci garantisca il bene supremo: la libertà; e una libertà che sia garanzia di sicura giustizia.
Oggi ci troviamo senza legge, oppure con una para-legge che effettivamente è molto strana, se pensiamo che contraddice ugualmente alla Costituzione cessata ed al progetto della nuova.
Non ritorno sull’abituale argomento, abituale perché vero, fondato sulla retroattività di certe disposizioni; non ritorno sulla questione più grave, che è stata segnalata più di una volta, della mancanza di gravame che certe sentenze comportano in questa legislazione provvisoria dello Stato provvisorio.
Ma mi voglio fermare un momento sulla questione non meno grave della carenza del Giudice che è stata tipica, ed è tipica, nel momento che attraversiamo. Oggi il Giudice è stato sostituito dal membro di commissione.
Una quantità di questioni che involgono non solo problemi di principio, ma anche interessi di grande importanza, sono state sottratte al Giudice per essere affidate a Commissioni ed a Commissari. I Commissari, con i compiti più disparati, sono stati creati, e non soltanto alla periferia, con l’unico criterio non solo della sopraffazione di un partito sull’altro, ma della lotta campanilistica di una persona sull’altra, di un gruppo sull’altro, di un particolare interesse sull’altro. Nei piccoli centri, se Tizio è comunista Caio deve essere liberale, e se Tizio per avventura vuole essere lui liberale, Caio deve essere comunista, perché così vuole la tradizione della lotta di paese: Tizio e Caio sono infatti i due capi-partito locali.
Questa carenza del Giudice deve finire: e dalla Costituzione soprattutto questo ci attendiamo: la garanzia che la Giustizia sia affidata a chi può e sa amministrarla e che questo carnevale di incompetenti spesso, e di faziosi qualche volta, cessi di sgovernare tutto l’ordinamento del nostro Paese.
Si pone in questa sede la crisi fondamentale del fascismo e dell’antifascismo. L’antifascismo ha avuto una nobilissima missione finché c’era il fascismo, perché era la negazione del fascismo ed era la lotta contro di esso. Ma se l’antifascismo volesse continuare a sopravvivere al fascismo, diventerebbe semplicemente un fascismo alla rovescia.
E molte delle cose che ho accennate – e le ho accennate con intenzione – erano proprio cose fasciste applicate da antifascisti. E badate bene, la colpa non è tutta degli antifascisti – fra i quali del resto sono anch’io – ma degli Alleati. Gli Alleati vennero in Italia non comprendendo nulla delle cose italiane, e credettero di debellare il fascismo facendo la lotta ad uomini e ad istituti; ma la lotta al metodo ed alla concezione fascista non l’hanno fatta mai. Anzi sono stati loro i primi a proseguire nei metodi fascisti.
Bisogna dunque debellare ogni sopravvivenza fascista, bisogna chiudere il periodo del metodo fascista perché il fascismo va definitivamente eliminato.
Quindi la Costituzione dovrà essere e deve essere non antifascista soltanto ma qualche cosa di più: dovrà essere afascista. Il fascismo non ci deve più entrare né in forma positiva né in forma negativa. Il fascismo deve essere cancellato, non deve più esistere, nemmeno come numero negativo.
Oggi la Costituzione deve condurci all’afascismo, verso quella concezione che resta liberale perché è la concezione di uno Stato di uomini liberi, la cui libertà è negazione del fascismo.
E solo afascista può essere lo Stato democratico perché la democrazia (mi perdoni l’onorevole Togliatti) non ammette aggettivazioni. La democrazia è una, la democrazia è un piano sul quale ciascuno di noi combatte la propria battaglia e nel quale ciascuno di noi trova le sue garanzie. La democrazia non può essere né nostra, né vostra, né loro; la democrazia è di tutti, come la libertà, che, se non è di tutti, non è di nessuno.
Nel preparare questa Costituzione, in quei lunghi e faticosi ed intensi lavori preparatori ai quali anch’io ho avuto l’onore di partecipare, sia pure molto spesso, se non quasi sempre, come lo spirito che nega (io ero «der Geist der stehts Verneint»), ho ripetutamente affermato questo principio.
Il secolo scorso, con la sua rivoluzione ci diede la libertà, e fu grande conquista. Tutto lo sforzo degli uomini e tutto lo sforzo dei costituenti di allora, che ebbero la fortuna di essere pochi, e quindi di poter seguire un concetto più univoco, fu quello di assicurare questa libertà e di darsela come loro la intendevano. Ma, risolto il problema della libertà, è successo quello che succede sempre quando un problema è risolto: che se ne affaccia un altro e con particolare urgenza. E sorse così il problema della sicurezza, intesa come sicurezza economica e come sicurezza di vita dei cittadini; e questa fu una grande battaglia che ha mirabilmente condotto il socialismo in quasi un secolo di combattimento.
È accaduto però quello che sempre accade: che ad un certo punto il conflitto per la sicurezza è diventato conflitto contro la libertà.
Così la libertà e la sicurezza sono state l’una contro l’altra, poiché l’esigenza della libertà non si sentiva perché c’era, e l’esigenza della sicurezza era profonda e se ne sentiva profondamente il bisogno. Ed oggi siamo ancora in questa fase, oggi ancora si contrappone spesso la sicurezza alla libertà, e gli stessi Stati totalitari sono stati un tentativo di risolvere unilateralmente il problema della sicurezza – non so con quale risultato – però non hanno saputo risolverlo che a scapito della libertà. Il problema che oggi ci si pone è il problema della sicurezza nella libertà e della libertà nella sicurezza; un problema che noi ormai sappiamo definire ma di cui ancora non abbiamo visto la strada della soluzione. Siamo tuttora in questo campo, in un periodo di ricerca e di lotta.
La stessa dottrina non ha ancora trovato la sua strada e non sa darci delle indicazioni precise. Anche Röpke, che ha fatto una diagnosi tanto interessante dei problemi economici, quando è andato alla ricerca della terza strada è caduto un po’ nella prima, un po’ nella seconda, e la terza strada non l’ha trovata; perché questa si troverà soltanto il giorno in cui potremo stabilire un parallelismo fra l’una e l’altra, cioè il giorno in cui la sicurezza e la libertà non potranno più interferire l’una contro l’altra ma sapranno camminare parallelamente alla vita degli uomini e gli uomini potranno camminare sull’una e sull’altra via, come se fossero una strada sola. Questo fa sì che le Costituzioni che sono nate o che nascono in questo periodo assumono un carattere strano, carattere strano che ha ben definito l’onorevole Ruini nella sua relazione:
«In esse non si sa ancora, (o meglio si sa, ma non si vuol sapere), quanto resti del vecchio e quali siano i lineamenti del nuovo».
È quello che succede ogni qualvolta una Costituzione non possa rappresentare il risultato di un momento storico politico e morale chiaramente definito; la conclusione, insieme, di un periodo storico ed il principio di un altro.
Allora, le Costituzioni non possono fotografare questo, cioè non possono effettivamente dire: «Queste sono le conquiste raggiunte; le consacriamo per marciare verso le conquiste avvenire»; quando le Costituzioni non possono fare tale affermazione esse sono Costituzioni interlocutorie.
E questa nostra Costituzione, nelle sue incertezze, nelle sue contradizioni, assume un carattere di interlocutorietà che può essere nei tempi e nel risultato dei tempi; ma che dobbiamo cercare di ridurre al minimo, perché la Costituzione deve essere per tutti noi un punto fermo e non un argomento continuo di interpretazioni e di discussioni.
In fondo, le Costituzioni sono fatte dal loro spirito; e io sollevai – i miei colleghi della prima Sottocommissione se ne ricorderanno – questo problema nella prima riunione nostra. Dissi: «Che Costituzione vogliamo fare? Quale deve essere lo spirito di questa Costituzione che sorge in un tempo in cui non ci si contenta più delle sole affermazioni giuridiche, delle sole garanzie di libertà, delle varie libertà; ma si cerca la soluzione di problemi nuovi, economici e sociali, e molto spesso la si cerca in formulazioni semplicistiche e vaghe che sono più l’espressione di un desiderio che la manifestazione precisa di una volontà che si vuole seguire; che sono più l’ombra di un sogno che una realtà normativa»?
Questo spirito della costituzione non c’è e forse per questo la costituzione manca di quello che, in fondo, è un fatto essenziale delle costituzioni; manca di un Preambolo.
Si è molto parlato di questo Preambolo; ne abbiamo discusso. Molti argomenti furono addirittura rinviati al Preambolo. Si è detto: «Va bene; questo lo abbiamo stabilito: troverà il suo collocamento nel Preambolo».
Nel Preambolo, poi, questo collocamento non l’hanno trovato, perché il Preambolo è proprio quella tale essenza, quel sunto dello spirito della costituzione che deve servire come guida alla sua interpretazione, alla sua comprensione e che non siamo riusciti a fare e che io ritengo sia necessario di fare.
Ritengo che sia necessario di farlo, perché l’esperienza ci ha insegnato – noi lo vediamo, ad esempio, in America, quando sorgono dei conflitti sull’interpretazione della Costituzione – come proprio dal Preambolo si tragga luce per poter interpretare giustamente quello che può essere il contenuto del testo della legge costituzionale.
Questa è la ragione per la quale io ho presentato al banco della Presidenza un emendamento aggiuntivo che contiene un brevissimo Preambolo da far precedere alla Costituzione; perché vorrei che questo spirito comune che ci anima tutti potesse trovare espressione in una volontà nuova, anche se non abbiamo trovato la parola; e almeno di quello che è lo spirito informatore rimanga qualche cosa, che ci possa guidare e possa guidare chi successivamente dovrà applicare la nuova Costituzione.
È tutto quello che rimane, di un intero progetto: perché a un certo momento, di fronte a certi contrasti di opinioni, profondi, che io avevo sentito – e come me altri amici che collaboravano alla commissione – avevo cominciato con alcuni colleghi più competenti di me in materia a preparare proprio direi quasi un controprogetto; ma poi è prevalso il concetto che era più utile cercare di perfezionare il progetto presentato piuttosto che presentarne uno nuovo e confondere le idee, e forse anche gli spiriti.
Ma il Preambolo è rimasto ed io l’ho proposto, e suona così:
«Il popolo italiano, invocando l’assistenza di Dio, nel libero esercizio della propria sovranità, si è data la presente legge fondamentale, mediante la quale si costituisce e si ordina in Stato.
«La legge costituzionale dichiara con valore normativo assoluto i diritti inalienabili e imprescrittibili della persona umana come presupposto e limite legale permanente all’esercizio di ogni pubblico potere; stabilisce i poteri e gli organi della sovranità; determina i modi e le forme necessari al sorgere d’una volontà legale dello Stato.
«Il popolo italiano, consapevole che ogni associazione umana si realizza nell’esercizio della cooperazione e della solidarietà, intende che l’opera dello Stato sia diretta, nelle forme e nei limiti della presente Costituzione, a rendere possibili e attive l’una e l’altra, per la sempre più felice e giusta convivenza civile».
Sono tre periodi: uno politico, uno giuridico, uno sociale.
E vi prego di notare che sarebbe l’unico punto della nostra Costituzione in cui Dio è invocato ad assisterci e ad aiutarci; quel Dio che non è di questa o di quella Religione, ma di tutti gli uomini; quel Dio ente supremo, spirito superiore, che anima l’umanità, e che da noi latini, nella nostra terra, che ha dato tanto fervore e tanto cuore alla Religione nostra attuale ed a quelle che l’hanno preceduta, non può essere dimenticato nella legge fondamentale che deve regolare la vita del nostro Paese. (Applausi a destra e al centro).
Qual è la posizione di noi liberali di fronte a questa Costituzione?
È necessariamente una posizione apartitica. Come in questo momento, in questa aula, è vuoto il banco del Governo e gli uomini del Governo hanno cessato di essere tali, così anche noi liberali di fronte alla Costituzione ci troviamo in una posizione particolare.
La Costituzione potrà essere la nostra, soltanto se sarà anche quella degli altri. Noi pensiamo, cioè, che la Costituzione sarà veramente una buona Costituzione, se qualunque pensiero democratico potrà in essa trovare il suo libero e sicuro svolgimento; se lascerà ad ogni pensiero democratico la possibilità di svilupparsi, ma non costringerà nessuna corrente di pensiero democratico a dovere assumere un atteggiamento contrario alla legge, alla Costituzione, per potere attuare quello che è il suo programma.
Vi sono cioè due posizioni, che si rivelarono proprio in una controversia – se così si può chiamare – fra l’onorevole Togliatti e me, nelle due relazioni che presentammo alla prima Sottocommissione sui problemi economici e sociali; perché i problemi economici e sociali, entrano appunto in quel quid vago, di cui andiamo cercando le soluzioni, ma di cui di una soluzione chiara e precisa ancora non siamo riusciti a trovare la traccia definitiva; quel quid dava luogo alla presa di quelle due posizioni.
Si trattava di dire qualche cosa di nuovo. Certi vecchi principî cardinali che riguardano la libertà, i diritti del cittadino, e così via, ci erano stati già tramandati. La loro accezione poteva essere da noi completata, ma una base l’avevamo. Qui no. Ed una delle differenze sostanziali delle due articolazioni era proprio questa; io, nei miei articoli, arrivavo addirittura alla socializzazione, per quanto a me non piaccia, giacché non vorrei che, così come l’Inghilterra, ora che ha un regime socialista, è rimasta senza carbone, domani l’Italia, avendo un regime socialista, restasse senza sole. Ma, ad ogni modo, se domani i socialisti raggiungessero la maggioranza, avrebbero il diritto e il dovere di fare il loro esperimento. Non posso quindi fare, io liberale, una Costituzione che ponga il divieto delle socializzazioni. Soltanto dico che questa Costituzione deve recare che si possa, ma non che si debba socializzare. Io non posso infatti ammettere che nella Costituzione si debba mettere un imperativo di socializzazione, se domani la maggioranza non fosse di questo avviso. Non vogliamo cioè una Costituzione programmatica.
L’onorevole Togliatti pensava invece che alcune norme vincolative, in un determinato senso, si dovessero mettere e lo sostenne con la sincerità e l’affettuosità che c’è stata in tutte le nostre discussioni in quella Commissione. Però, nella seduta del 13 novembre 1946, in una animata discussione con dei colleghi di opinione diversa, non di questo settore, l’onorevole Togliatti uscì in questa frase che io segnai, dicendogli che oggi glie l’avrei ricordata: «Vogliamo che questa Costituzione sia quella di tutte le possibili ideologie». Io, in quel momento, ho sentito quanto profonda sia l’esigenza della libertà e come essa sia assorbente di tutto. Io non avrei saputo dire meglio e aggiungo, perché ero presente, che non avrei saputo dire con maggior convinzione di quella con cui l’onorevole Togliatti ha fatto questa affermazione. Questa affermazione, onorevole Togliatti, che le fa onore, è bellissima, ma – mi perdoni tanto – è la più schietta affermazione liberale che un uomo possa fare.
Una voce. Ma era sincera?
LUCIFERO. Fino a prova contraria, io penso sempre che chi dice una cosa abbia intenzione di mantenerla. Ciò ho detto per chiarire sotto qual luce noi guardiamo questa Costituzione.
Vorrei ora fare alcune osservazioni sul testo della Costituzione stessa. Io non entro, badate bene, in alcuna questione particolare, perché ciò sarà riserbato a chi, con maggior competenza di me, sosterrà le varie tesi in sede opportuna. Voglio soltanto, per ora, mettere in luce alcuni caratteri. Questa Costituzione è sorta da una serie di compromessi, fra tendenze e opinioni diverse, nelle quali si è – perdonate il termine – commerciato un po’. Si è detto: Io cedo su questo punto e tu mi dai su quell’altro, io non sarò presente su quel tal voto e tu, ecc. Ciò si è svolto anche sotto i nostri occhi.
E visto che l’onorevole Tupini mi fa segno di «no», gli ricordo che una volta io chiesi in Sottocommissione la parola a seguito di una di queste discussioni avvenuta in pubblica seduta fra due Deputati di diverso partito, per esprimere il mio profondo imbarazzo di avere assistito a questo piccolo commercio e per chiedere che queste operazioni si facessero prima della seduta e non durante.
TUPINI. Non era un commercio; era lo sforzo di intenderci e comprenderci.
LUCIFERO. Io ho detto, onorevole Tupini, che usavo il termine non perché in esso nulla suonasse offesa, ma semplicemente per dare un’idea plastica di quella che era l’impressione di chi assisteva a questa ricerca di compromesso. (Interruzioni). Infatti, onorevole Tupini, io sto parlando di questa serie di compromessi, i quali hanno creato in tutta la Costituzione un andamento a «montagne russe», perché si sente perfettamente quando ha ceduto l’uno e quando ha ceduto l’altro; e fra le varie cessioni esistono delle sproporzioni. Ad ogni modo, sarò lietissimo, non se la sua affermazione, ma se l’applicazione pratica mi darà torto, perché una cosa sola io desidero: che noi possiamo avere una Costituzione da non toccare più almeno per un secolo, come la precedente. Quando una Costituzione dura ottant’anni, allora è buona; quando dopo dieci anni succede qualche cosa, allora la Costituzione non va.
Una delle manifestazioni tipiche del momento storico in cui questa Costituzione è stata fatta, è tutta una serie di affermazioni ideologiche e, mi si perdoni, certe volte anche di affermazioni demagogiche. Per esempio, io leggo nell’articolo 28 – lo porto a mo’ di citazione – «la scuola è aperta al popolo», scusatemi, che cosa significa? La scuola, soprattutto quella di Stato, è del popolo. (Approvazioni a sinistra). Bellissima era la frase dell’onorevole Marchesi, per la quale io stesso mi battetti tanto quando ad un certo momento si voleva sopprimerla, cioè: «Libere saranno l’arte e la scienza, e libero il loro insegnamento». Quella frase diceva qualche cosa; ma «la scuola è aperta al popolo» è una di quelle affermazioni che non dicono niente. «L’arte e la scienza sono libere» ha un suo significato, perché non ci dobbiamo dimenticare che in regime fascista e più ancora in regime nazista, anche l’arte era stata messa sotto disciplina e ammaestrata a servire a determinati scopi. Quindi l’osservazione dell’onorevole Marchesi aveva il suo significato.
Una voce a sinistra. Le manifestazioni, non l’arte!
LUCIFERO. Ad ogni modo vedetevela voi con il professor Marchesi, che ne è stato l’ideatore; lo avete vicino. Io non sono stato altro che un entusiastico assertore della sua affermazione.
Per esempio, è demagogico l’uso che spesse volte si fa nella Costituzione della parola «lavoratori». Badate che nella Costituzione stessa – se voi guardate l’ultimo capoverso dell’articolo 31 – il termine «lavoratori» ha due significati; perché quando noi entriamo in una fase della Costituzione, allora il lavoratore corrisponde in un certo senso al cittadino; invece in altra sede il lavoratore rappresenta determinate categorie di cittadini, cioè determinate categorie di lavoratori in uno Stato in cui tutti sono lavoratori. Ora, questo non può andare in una Costituzione, la cui dizione deve essere chiara. Di fronte alla Costituzione i cittadini sono cittadini; i lavoratori sono lavoratori in quello che riguarda questa loro particolare attività nella vita sociale, che deve essere tutelata, difesa, protetta, generalizzata; ma però, quando vanno a votare, anche i lavoratori vanno ad esercitare una funzione di cittadini, non di lavoratori.
Oppure, se noi vogliamo identificare il termine, dobbiamo modificarlo in quelle sedi in cui, come nell’articolo 31, noi contrapponiamo i lavoratori ad altre categorie di cittadini. Intendiamoci bene, con questo termine di lavoratori – siamo tutti lavoratori – noi per poter infilare questa affermazione – scusate ancora una volta l’accenno demagogico – nella Costituzione, siamo arrivati al punto di dover qualificare lavoratori, ai fini dei diritti politici, le monache di clausura, perché il giorno in cui abbiamo affermato che determinati diritti erano riservati soltanto (i diritti più importanti sono i diritti politici) a coloro che ottemperavano a quel tale obbligo del lavoro, abbiamo dovuto stabilire che fra i lavoratori vi erano anche le monache di clausura. Ho il massimo rispetto verso di esse e credo utilissima la loro opera di elevazione verso il Signore, ma qualificarle lavoratrici, ai fini giuridici e costituzionali, non mi pare esatto. (Commenti).
Una voce al centro. Lavorano sempre, lavorano più degli altri!
LUCIFERO. Vi sono quelle destinate alla vita contemplativa. (Commenti).
Per i miei peccati ci vogliono molte monache, ma questa non è la sede competente!
C’è un altro punto sul quale richiamo la vostra attenzione, sempre nel campo demagogico. Non discuto l’articolo, sarà discusso a suo tempo, ma sempre per chiarire alcuni punti che hanno determinato la mia perplessità, devo rilevare che noi qui stiamo costruendo una Costituzione democratica e nello stesso tempo creiamo dei privilegi. Vi faccio notare che anticamente vi erano delle classi, quali le classi padronali, che avevano certi privilegi. Oggi noi ritorniamo al Medioevo, perché quando affermiamo che tutti i lavoratori hanno diritto allo sciopero, i casi sono due: o noi rientriamo nella accezione a), (prima parte della Costituzione) che tutti i cittadini sono lavoratori, ed allora la serrata diventerebbe lo sciopero dei lavoratori che danno il lavoro; oppure noi entriamo nella accezione b) della parola, quella cioè per cui come lavoratori si definisce una determinata categoria di cittadini, ed allora stabiliamo un privilegio a favore di questa categoria di cittadini. Questo si chiama rovesciare il Medio Evo!
Ora, badate, queste possono sembrare osservazioni di quel bieco reazionario che sono io, ma sono osservazioni che vanno più in là, di significato, di senso, di dizione nella Costituzione. Cerchiamo di sfrondarla da queste affermazioni, perché prima di tutto non possono sembrare serie; e poi quando si arriverà alla fase dell’applicazione della Costituzione, ad un certo punto non sapremo più la parola lavoratori che cosa significhi, se nel senso a) o nel senso b) della Costituzione.
Dobbiamo stabilire un vocabolario che sia sempre lo stesso per qualificare il termine di lavoratore.
C’è un altro punto sul quale vorrei richiamare la vostra attenzione ed è la questione della sovranità;
Tengo a dichiarare che non è che non conosca certe moderne teorie, quali quella del Jellinek e C., secondo le quali la sovranità è dello Stato; ma io dico che uno Stato democratico dove ristabilire il principio che la sovranità è dei cittadini e quindi del popolo. Ed allora è necessario dirlo chiaramente nella Costituzione.
Due volte ho già proposto in sede di Sottocommissione e di Commissione che l’articolo primo fosse modificato, laddove si dice che la sovranità emana dal popolo.
Anche l’onorevole Conti una sera disse che gli sapeva di profumo questa emanazione di sovranità. A me sa anche di qualche altra cosa. Io temo questa sovranità che emana. Emanare ha un senso di moto; poi l’emanazione non torna più indietro, e sappiamo dove si va a finire con queste sovranità delegate.
Signori miei, io non l’ho voluta, voi l’avete voluta, ed ormai c’è questa Repubblica. La caratteristica fondamentale che distingue la Repubblica dalla Monarchia è che mentre nella Monarchia la sovranità risiede nel Sovrano, nella Repubblica la sovranità risiede nel popolo. Visto che si sta facendo la Repubblica, facciamola repubblicana!
Io riproporrò l’emendamento; ma diciamolo chiaramente che la sovranità risiede nel popolo.
Altra osservazione che devo fare (mi mantengo sempre sulle linee generali) è che mezzo Codice civile e mezzo Codice penale sono andati a finire nella Costituzione. E non solo i codici, ma anche i Codici di procedura. Signori miei, io ultimamente rivedendo alcuni vecchi testi di diritto costituzionale in cui erano proposte le più strane norme, ne ho trovata una interessantissima: «Le mamme hanno l’obbligo di allattare i figliuoli». C’è un vecchio testo costituzionale che sostiene questa roba!
Ora, quando noi diciamo che l’«obbligo della educazione spetta alla famiglia», e andiamo a mettere ciò in Costituzione, io non voglio dire la parola che mi viene sulle labbra, ma siamo certamente degli ingenui. Cerchiamo di sfrondare questa Costituzione da tutte queste piccole note stonate le quali non hanno ragione di essere lì; e che vengono da questa fissazione, che qualcuno ci vuol mettere qualche cosa delle sue ideologie, forse per andare a dir fuori: questo l’ho messo io. Le Costituzioni sono cose troppo gravi e troppo serie perché certe debolezze umane, singole o collettive, possano entrare in esse ed inquinarle di norme che non sono costituzionali.
La verità è che per molti, forse senza che lo sapessero, per la passione che è nei tempi in cui viviamo, per le lotte dalle quali usciamo, per un vecchio atavismo di faziosità, per il calore stesso che viene fuori da queste discussioni, molti hanno guardato alla Costituzione, non come a uno strumento che regoli la vita di tutti, ma come a uno strumento di lotta. Certe lotte, certi conflitti che questa fase tragica della vita del nostro Paese ha trasportato dal Parlamento, loro sede naturale, in seno al Governo (governi che non riescono a governare) oggi si minaccia di portarli in seno alla Costituzione.
La Costituzione è piena di proposizioni che guardate da un uomo non dimentico dello ieri e preoccupato del domani, danno la precisa sensazione che sono delle posizioni avanzate per determinate battaglie che della Costituzione non sono e non debbono essere.
Ora, quando io leggo che la Repubblica (art. 7) «rimuove gli ostacoli», ecc. ecc., a me sembra che una norma di questa vaghezza e di questa ampiezza sia un pericolo enorme, perché io vorrei sapere cosa succederebbe se un giorno dovessero applicarla, ad esempio, i due poli costituiti da me e dall’onorevole Togliatti. Io non so, ma probabilmente io rimuoverci l’onorevole Togliatti e l’onorevole Togliatti rinnoverebbe me, perché tutte e due siamo un ostacolo, secondo la nostra concezione, a che una determinata ideologia si compia.
Ora, quale deve essere la funzione della Costituzione? La funzione della Costituzione deve essere di far sì che se io arrivassi ad avere la maggioranza, non potessi rimuovere l’onorevole Togliatti e che se l’onorevole Togliatti arrivasse ad avere la maggioranza non potesse rimuovere me; ed ognuno di noi possa continuare liberamente a sostenere il proprio pensiero. Giacché con il tempo l’interpretazione diventa estensiva e questi articoli che possono far sorridere un giurista o un costituzionalista perché privi di contenuto, ad un certo momento il loro contenuto lo trovano; e visto che non ne hanno uno proprio, assumono quel contenuto che in quel determinato momento gli vuole dare chi è più forte.
La Costituzione è fatta per le minoranze e non per le maggioranze, per tutelare i pochi e non i molti. I molti non hanno bisogno di Costituzione; hanno la forza.
E che ci sia questa preoccupazione di precostituire delle posizioni, di postare delle artiglierie, di poter avere lo zampino da per tutto – la Costituzione è stata fatta da politici e non da giuristi – lo vediamo anche nella composizione del Consiglio Supremo della Magistratura. Questi cittadini eletti da un organo politico, i quali diventano coarbitri di quella che è l’amministrazione della Giustizia, (pensateci un po’) rappresentano un fatto che lascia molto perplessi, perché saranno nominati con criterio politico e con una funzione politica. Quando noi infiliamo la politica nella Magistratura, rimane solo la politica e scompare la Magistratura.
Vi è un altro punto sul quale brevemente richiamo la vostra attenzione, in questa seduta: è la questione delle Regioni. Anche noi siamo favorevoli ad una dislocazione dello Stato in amministrazioni e autonomie regionali che possano dare una maggiore libertà di movimento alla organizzazione statale suddivisa nelle sue parti, ma non vogliamo che ogni regione, dandosi uno statuto, diventi uno Stato. Badate, non parliamo della Sicilia; per la Sicilia non c’è discussione, perché per la Sicilia ci sono ragioni storiche che impongono questa autonomia. E infatti, l’autonomia c’è, è stata data, e su questa parlerò poi. Ma ci sono regioni che non hanno bisogno di autonomia, regioni che voi metterete nell’imbarazzo di inventarsela, questa autonomia.
Ora, dove c’è la necessità, io lo capisco perfettamente; ma, arrivare ad una dislocazione cantonale, anche in zone dove non è necessario, questo mi pare che non vada; come non va il modo con cui certe regioni sono state stabilite, secondo determinati criteri; senza offesa per nessuno per quello che vorrei dire (mi dispiace che non ci sia l’onorevole Nenni), ma quella divisione fra Nennia e Michelia, quella divisione dell’Emilia, un pezzo da una parte e un pezzo dall’altra, per rinnovare i fasti della Secchia Rapita… (Interruzioni degli onorevoli Pertini e Micheli). Io non mi rivolgo a nessuno, caro Pertini, perché le deliberazioni sono collegiali. Quindi, mi rivolgo a tutti. Sono i due maggiori personaggi delle due zone: una zona che scavalca direi l’Appennino e va a chiedere uno sbocco a mare…
UBERTI. Questa è discussione generale.
LUCIFERO. Io non ho toccato una questione particolare. Ho detto molte cose che potevano scottare all’onorevole Togliatti ed ai suoi amici e questi le hanno sentite ed io ho cercato di dirgliele con cortesia, secondo la mia abitudine. Ho detto ora una cosa che dava fastidio a voi e vi siete subito imbizzarriti. Ma, perché avete sempre il fuoco sotto le sedie? (Si ride).
MICHELI. Io ho interrotto perché Nenni non c’entrava.
LUCIFERO. Ad ogni modo, sentite, io ho fatto per tutta Italia molti comizi, trattando argomenti che non sempre erano bene accetti. Ormai ho un’esperienza: quando il pubblico si ribella vuol dire che ho colpito nel segno. Scusatemi tanto, ma questa è esperienza.
MICHELI. Ha colpito male.
LUCIFERO. L’onorevole Ruini nella sua relazione, a pagina 14, dice che la Commissione si è trovala concorde su quello che riguarda le autonomie concesse precedentemente.
Io feci in quella sede una riserva che sciolgo adesso. Io non fui contrario ma feci una espressa riserva che è questa: che anche ammesso – e ripeto che la Sicilia è indiscussa – che determinate autonomie debbano essere date, io protesto ancora in sede politica per il fatto che queste autonomie siano state date senza consultare l’Organo Costituente. Queste cose da noi dovevano passare. Le elezioni in Sicilia si fanno oggi; noi siamo riuniti dal 24 giugno; dal 24 giugno ad oggi avremmo potuto anche votare lo Statuto Siciliano e avremmo potuto dargli quel crisma che oggi non ha. Questo sistema di sottrarre determinati argomenti all’organo competente, tanto caro all’onorevole De Gasperi, deve assolutamente cessare. Speriamo che la Costituzione ne segnerà la fine.
Invece mi pare che la nuova Costituzione non abbia toccato un tema che è stato sfiorato dalla relazione dell’onorevole Ruini, en passant, ma che è fondamentale e che merita una certa meditazione: ed è il decentramento legislativo. Noi abbiamo fatto un decentramento regionale che non è più un decentramento ma che si avvia non voglio dire ad uno stato federativo, perché la parola dà fastidio, ma ad uno stato cantonale e che moltiplica e complica l’apparato legislativo. Non abbiamo pensato ad un altro problema da risolvere: gli organi che fanno le leggi, cioè i parlamenti, negli stati moderni, non possono più fare tutte le leggi, né si possono dare al governo, cioè al potere esecutivo, delle capacità legislative; bisognerà quindi studiare quali possano essere gli organi secondari che possano fare determinate leggi. Le migliaia di leggi che si fanno ogni anno in ogni paese moderno, non possono più passare attraverso i parlamenti, poiché questi non avrebbero il tempo di discuterle e l’attività legislativa e la vita del Paese ne resterebbero paralizzate. Quindi si impone la questione del decentramento legislativo.
Detto ciò, c’è un’altra questione da affacciare, cioè quella del prestigio della Costituzione. La Costituzione uscirà da quest’Aula così come da successive delibazioni e discussioni sarà stata redatta; ma la Costituzione non regge se non ha di fronte al Paese veramente un prestigio proprio. Le leggi costituzionali hanno avuto sempre questo prestigio, un prestigio quasi religioso: dai romani che scolpirono nel bronzo le loro dodici tavole, alla gelosa cura con cui gli inglesi conservano la Magna Charta; posso ricordare che a Pisa per consultare la Littera Fiorentina era necessario vederla tra due ceri, a piedi nudi e a capo scoperto. Eguale solennità circondava le Tavole Melfitane di Federico II.
La Costituzione è veramente una cosa sacra; la Costituzione è per il popolo la legge propria che lo garantisce e lo tutela; è la legge che primieramente esso si dà e che scaturisce dalla sua situazione storica, dalle sue esigenze morali e religiose e da tutto quell’insieme che forma il popolo stesso. Noi dobbiamo dare a questa Costituzione un prestigio di fronte al Paese che la renda veramente sacra. È quindi opportuno ricordare che alcuni partiti, tra cui anche noi, in sede elettorale, si sono solennemente impegnati al referendum sulla Costituzione. (Interruzioni dell’onorevole Malagugini – Commenti).
Dulcis in fundo, caro Malagugini, perché quel giorno che veramente un voto popolare avrà consacrato questa Costituzione, la Costituzione non si discuterà più. Se no, ci saranno sempre i ma e i se.
Una voce a sinistra. No, no!
LUCIFERO. Sì, perché questo già si vede nella stampa e qui stesso.
Il referendum per la Costituzione è molto più necessario dei referendum che sono stati già stabiliti nel progetto di Costituzione, anche per i motivi meno importanti, anche per un raffreddore. Non soltanto qualunque partito di massa, ma anche delle piccole organizzazioni, purché dispongano di 500 mila firme, possono paralizzare tutta la vita del Paese, perché su ogni legge si può chiedere il referendum. Il referendum invece deve essere riserbato alle occasioni veramente solenni, e se non è solenne quella della Costituzione da dare al Paese, dalla quale tutte le leggi derivano, non so davvero quali possano essere le occasioni solenni.
La Costituzione dunque deve riscuotere questo rispetto, perché la Costituzione deve guardarsi da sé, non può essere guardata dai carabinieri. E si guarda da sé soltanto il giorno che la maggioranza del Paese l’abbia accettata e l’abbia sancita; così come con i plebisciti fu sancita l’unità d’Italia. Il referendum per la accettazione della Costituzione deve rappresentare l’impegno solenne di tutto il Paese in modo che poi ogni discussione sulla Costituzione debba considerarsi definitivamente chiusa.
Tanto più perché la Costituzione, se non vorrà essere la negazione di tutti gli impegni che abbiamo assunto, dovrà segnare veramente le colonne d’Ercole della libertà, da cui non si possa decampare, da cui non si possa uscire. Ma appunto per questo deve ricevere la consacrazione solenne che noi domandiamo.
Onorevoli colleghi, se non terremo conto delle necessità che vi ho esposte, avremo perso una grande occasione: un’occasione che capita una volta non solo nella vita di qualche uomo, ma anche nella vita di qualche generazione, quella di dare al nostro Paese una buona Costituzione.
Credo che non si debba perdere questa occasione, come io ho perso quella di fare un discorso migliore.
La mia posizione, e forse anche la natura particolare dei miei studi, avrebbero potuto darmi modo di fare un discorso ben diverso. Ma ero troppo commosso, e forse ve ne sarete accorti. È vero che nulla è più freddo di un meridionale quando è freddo. Ma io sento la solennità del momento.
Continuamente il mio sguardo va a quel banco vuoto (accenna al banco del Governo) che rappresenta un ponte sul quale stiamo passando in un modo veramente originale; perché non è un ponte che già sia stato gettato e sul quale ora passiamo, ma è un ponte che si va costruendo via via che noi camminiamo, e noi aggiungiamo ad ogni istante il mattone che dovrà servire a farci compiere il passo successivo. Ed è talmente delicata quest’opera di costruzione, di invenzione di uno Stato, che ha insieme della realtà e del sogno, che perdermi in discussioni tecniche o dottrinarie o in anatemi proprio non me la sento.
Avrei potuto farlo, perché sono convinto di una cosa: che questa Costituzione non è una buona costituzione. E perché sono convinto che questa Costituzione che, secondo me, non è una buona Costituzione, passerà così com’è, più o meno. Però io ho fiducia lo stesso perché credo profondamente, al di là delle nostre capacità e della nostra buona volontà di legislatori, credo profondamente nella civiltà e nel costume del popolo italiano. Il costume del popolo italiano modificherà molte di queste norme e noi avremo il rimorso di avere diminuito il prestigio della legge fondamentale del Paese per avere stabilito delle leggi che sono ineseguibili.
Ad ogni modo, sono arrivato alla fine delle mie osservazioni, e mi succede come nelle processioni: torno al punto di partenza; del resto tutti i movimenti umani sono circolari: ad un certo momento il circolo si chiude ed il circolo chiuso è un modo di finire nella completezza. Torno al principio, dunque, ricordando che gli italiani ancora sono divisi in due grandi categorie. La riconciliazione nazionale, malgrado esperimenti di vario genere e malgrado la buona volontà che spesso è venuta da molte parti, ancora non si è avuta, ed io non voglio nemmeno discutere per colpa di chi. Sarà forse perché si è parlato troppo di cose di cui era inutile parlare e si è parlato troppo poco di cose di cui sarebbe stato invece utile parlare. Io penso che questa Costituzione, con le sue mende, con i suoi difetti, deve diventare l’Arca dell’Alleanza del popolo italiano; deve diventare quella legge fondamentale in cui certi rancori e certi odi finiscano, deve diventare veramente quella tale legge che rappresenti l’atto solenne della riconciliazione nazionale. E noi vogliamo che, proprio attraverso la legge, che è l’unico modo in cui solennemente parla lo Stato, da questa aula parta finalmente una parola che non sia un gemito d’odio, ma una parola di riconciliazione, d’amore e di pace; perché questa Costituzione non deve essere la Costituzione dei monarchici o dei repubblicani, di questo o di quel partito, dei rossi o dei bianchi o dei neri; questa Costituzione deve essere il documento in cui ogni italiano senta vibrare se stesso, in cui noi tutti ed il mondo intero dovremo riconoscere l’Italia nella gloria del suo passato, nel dolore del suo presente, nella certezza del suo avvenire. (Applausi a destra – Congratulazioni):
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bozzi. Ne ha facoltà.
BOZZI. Onorevoli colleghi, si è detto molto male di questo progetto che noi siamo chiamati ad esaminare. Io ricordo di avere letto giorni fa su un quotidiano l’articolo di un professore di diritto, il quale si meravigliava altamente che uomini politici eminenti, giuristi, magistrati, avessero potuto dare il loro avallo a questo progetto, che non faceva onore all’Italia, che era stata la madre del diritto.
Si è fatta molta ironia a questo riguardo; anzi, troppa. Taluno ha detto che nel progetto vi è del buono e del nuovo, ma che il buono non è nuovo e il nuovo non è buono.
Ora, io non voglio assumere il ruolo di difensore, volontario o di ufficio, ma nemmeno mi sento propenso a far da pubblico accusatore; e non soltanto perché ciò significherebbe assumere la difesa o l’accusa di se stesso.
L’Assemblea Costituente si trovava inizialmente in una posizione difficile. Essa non aveva un testo sul quale portare la sua attenzione; non vi era un progetto predisposto dal Governo. Altre Costituenti hanno discusso su progetti governativi. Non vi erano nemmeno progetti elaborati da Partiti. Occorreva, adunque, un punto di partenza; e si nominò una Commissione: la Commissione dei «75». Secondo me, questa ha dato una interpretazione estensiva al compito che le aveva affidato l’Assemblea. Secondo il mio punto di vista – che ebbi anche occasione di manifestare – la Commissione dei «75» avrebbe dovuto soltanto delineare l’architettura fondamentale, la struttura essenziale, direi quasi la nervatura del progetto; e portare poi questo elaborato all’esame dell’Assemblea Costituente, che era l’organo al quale il popolo aveva demandato la funzione di costruire la nuova Carta.
Viceversa, la Commissione ha lavorato in estensione e in profondità; ha dilatato la sfera delle sue attribuzioni e ha, perciò, sottratto a voi tutti la possibilità di una indagine diretta più larga. Ma è da soggiungere, per la verità, che questo modo di procedere, se per alcun verso può sembrare un difetto, ha avuto anche i suoi vantaggi. Lo ha accennato il nostro illustre Presidente, onorevole Terracini, quando ha detto che oggi si presenta al nostro esame un testo, che porta in sé già composti, risultato del lavoro fecondo delle Commissioni, alcuni dissidi, elise alcune frizioni; presenta punti di equilibrio e di incontro che in questa sede si sarebbero potuti raggiungere con maggiori difficoltà.
Noi, o colleghi, siamo in una fase storica di trapasso fra un mondo che è tramontato o volge al tramonto e un altro che si affaccia, si delinea all’orizzonte, con luce incerta. Noi disponiamo delle macerie del primo, ma non ancora vediamo nettamente delineati gli schemi del secondo. Siamo in una fase di fermento e di travaglio, non solo nel nostro Paese, ma nell’Europa e nel mondo.
Due concezioni vediamo in contesa sulla scena: una che dirò – per brevità – occidentale, inspirata a una certa visione della vita, al rispetto dei valori dello spirito, a certi postulati filosofici, religiosi, economico-sociali, che danno una fisonomia in largo senso liberale al modo di vita dei singoli e della società; e, per converso, un’altra concezione – che dirò orientale – inspirata a principî affatto diversi, collettivistici in gran parte e deterministici. E i popoli, nella lotta fra queste concezioni, non hanno ancora trovato il loro punto di equilibrio, l’ubi consistam. Si comporranno esse in una sintesi? O l’una prevarrà sull’altra? E quale?
La guerra è stata in gran parte la figlia di questa grande crisi dell’umanità; ma, a sua volta, è la madre di nuovi disorientamenti ed impone l’ansiosa ricerca di nuovi assetti.
Noi siamo dunque nel bel mezzo di un dramma, che direi cosmico; e a queste ragioni di carattere generale si aggiungono difficoltà tutte nostre nazionali. Noi non abbiamo nella nostra storia precedenti, al di fuori della Repubblica romana, di Costituenti popolari; la Francia, nel corso della sua storia, conta numerose Costituzioni, alcune delle quali fondamentali non solo per la vita di quel popolo, che se le dette, ma di tutti i popoli. Noi usciamo dall’incubo profondo della tirannide, che ha durato tanto, e ha lasciato un solco che non agevolmente si può eliminare; usciamo da una disfatta militare e da una crisi istituzionale. Tre eventi formidabili. Non abbiamo, perciò, ancora una classe politica dirigente, che possa esprimere la coscienza popolare e sospingerne, al tempo stesso, il moto.
Siamo, dunque, chiamati a darci la Costituzione in un momento di grande crisi e di grande difficoltà. Che cosa vogliamo? Quale posizione prenderemo nella lotta fra libertà e tirannide? Ci vorremo avviare verso una società socialista; o resteremo fedeli agli schemi liberali?
La funzione di una Costituzione, secondo il mio modesto parere, dovrebbe essere quella di tradurre in formule giuridiche un processo rivoluzionario già compiuto. Così è stato della Costituzione russa, che è venuta nel 1936, dopo circa 20 anni di esperienze rivoluzionarie, che erano entrate nel vivo della coscienza di quel popolo; e quella Costituzione dura; ha superato anche il vaglio della guerra.
Noi, viceversa, dovremmo foggiare una Carta costituzionale quasi strumento per agevolare e indirizzare una rivoluzione che non si è fatta; rivoluzione – intendiamoci – non nel senso tradizionale e un po’ quarantottesco della parola, che ci richiama alle barricate o, per aggiornarci, ai mitra, ma rivoluzione che si attua attraverso le formule della legge. Le rivoluzioni, oggi, si possono fare a tavolino…
Questo è il compito nuovo e, secondo me, in gran parte anomalo, della nostra Costituzione; ed è per ciò che noi, prima nella Commissione, oggi in Assemblea, abbiamo incontrato e incontreremo difficoltà, che dipendono dalla attuale fase storica. Ma questa ambientazione storica deve servire a qualcosa; deve servire a porre dei limiti e delle direttive a noi stessi.
L’onorevole Lucifero, or ora ha parlato di Costituzione interlocutoria – è frase brillante – come di certe sentenze del giudice, che non posson dire subito chi abbia ragione e chi abbia torto e preparano i mezzi per la statuizione definitiva; il che significa che il popolo fra non molto dovrebbe darsi un’altra Costituzione. Io mi auguro che questo non sarà. Ma il dubbio è di molti. Pervasi da un profondo spirito di pessimismo – che è uno dei mali endemici del nostro popolo – molti rievocano la sorte ingloriosa toccata alla Costituzione di Weimar. Si fanno paralleli fra l’ambiente storico, nel quale venne elaborato e foggiato quel documento, apprezzabile come documento di dottrina, e il nostro. Si dice che, come la Costituzione di Weimar non ebbe, non poté avere radici profonde e fu quasi una vernice esterna che non prese corpo con la materia sulla quale era posta, così la nostra Costituzione di oggi non potrà essere l’espressione genuina d’un indirizzo popolare e d’una coscienza collettiva matura, che non esistono.
Io vorrei dire, in sintesi, che la nostra Carta costituzionale dovrebbe, innanzi tutto, formulare e consacrare quei principî che si possono ritenere saldamente acquisiti alla coscienza giuridica, politica e sociale del nostro popolo; ma nello stesso tempo essa dovrebbe dare un indirizzo e un orientamento per l’avvenire.
Noi dobbiamo tracciare anche le vie dell’avvenire, ponendo le mete che oggi vogliamo siano raggiunte domani. In questo senso mi sembra che l’onorevole Togliatti ebbe a dire, in una delle discussioni della Commissione, che la Costituzione doveva anche essere un ponte verso l’avvenire.
Il problema si pone allora come problema di fini e di mezzi; è va affrontato e risolto con chiarezza e lealtà.
Come si è lavorato nella Commissione? Io credo che vi sia stato un difetto di origine. È mancata, inizialmente, una discussione generale. Era stato proposto dal nostro infaticabile e sagace Presidente, l’onorevole Ruini, il tema pregiudiziale: si faccia una discussione generale su quelli che debbano essere le basi di impostazione, i principî direttivi della Costituzione. Non si aderì a questa idea, e la Commissione dei «75» si divise in Sottocommissioni, le quali lavorarono ciascuna un po’ nel suo chiuso; e l’opera di coordinamento venne dopo, ma si dovette esercitare necessariamente su quello che ormai era il frutto del lavoro, qualche volta la faticosa conquista, delle singole Sottocommissioni. Ora, io penso che se, pregiudizialmente, si fosse portata la discussione su alcuni principî fondamentali, molti di quelli che io rileverò come errori sarebbero stati evitati.
Io farò la mia critica serenamente, con obiettività, pervaso dall’ansia di dare un apporto, sia pure il più modesto, per il miglioramento di questo testo.
È mancata, onorevoli colleghi, innanzi tutto, una discussione sul punto se la Costituzione dovesse essere rigida o flessibile. Si dette da tutti per ammesso che dovesse essere rigida. Io non verrò a sostenervi che era meglio configurarla flessibile; vi sono ragioni teoriche e soprattutto pratiche che consigliano il tipo della Costituzione rigida; per quanto questa rigidità – che non è cadaverica, come diceva un mio amico, ironizzando, l’altro giorno – sia, nel progetto, molto relativa, perché il procedimento di revisione, come vedremo in sede opportuna, è di tanto facile esperimento che di poco si differenzia dal procedimento proprio della legislazione ordinaria. Già, la vita, l’efficienza, il prestigio, la durata di una Costituzione non dipendono nemmeno, secondo me, dal fatto che essa sia di tipo rigido o di tipo flessibile, ma piuttosto dal grado di civiltà del popolo, dalla maturità, dal senso di responsabilità degli organi costituzionali che il popolo esprime. Abbiamo due esperienze in senso contrario: quella della Costituzione inglese, che è flessibile, quella della Costituzione americana, che è rigida; ed entrambe durano nel tempo e sono onorate dai cittadini.
L’aver omesso la discussione generale sulla rigidità ha condotto a questo: che non si è fermata l’attenzione su alcuni connotati giuridici che debbono rivestire le norme che si inseriscono in una Costituzione rigida. Il tema fu prospettato, mi pare, dall’onorevole Perassi, in sede di Assemblea dei «75». Una Costituzione rigida presuppone, come postulato, che le norme abbiano una determinata conformazione, abbiano una determinata struttura. Esse debbono essere norme giuridiche precise, debbono presentare l’attitudine ad una immediata applicazione. Non solo: debbono anche essere norme che contengano principî fondamentali; il costituente, in una Costituzione rigida, non deve assolutamente indulgere a tutto ciò che è particolare, a tutto ciò che può essere contingente e che deve essere rimesso al legislatore ordinario, il quale ha il compito di seguire e di esprimere nella legge il moto progressivo della società.
Ora, ripeto, i connotati giuridici che avrebbero dovuto avere le norme non sono stati precisati; ed è questo un difetto di struttura, che si proietta su tutta la Costituzione. Ed è su questo punto che io credo noi dovremo, nel nostro riesame, portare particolarmente la nostra attenzione.
La Costituzione si apre con la dichiarazione dei diritti; dichiarazione che è la parte fondamentale di ogni moderna Costituzione, perché è nella precisazione dei rapporti fra l’individuo e lo Stato e gli altri aggruppamenti che si muovono e vivono nella società organizzata, è in questa determinazione di rapporti che si coglie la fisionomia del tipo di Stato a cui si vuol dar vita. Se noi assegniamo un maggior margine di libertà all’individuo, avremo un sistema improntato a certe caratteristiche; se noi, viceversa, daremo allo Stato una potestà di intervento più efficace e intensa in una serie varia di rapporti, configureremo un diverso tipo di Stato. Il problema degli organi e dei poteri è collegato con il tipo di Stato che da quella determinazione di rapporti vien fuori. Ora, evidentemente, una Costituzione moderna non si poteva limitare all’enunciazione dei classici diritti di libertà. Intendiamoci: questa consacrazione era indispensabile; l’esperienza recente dimostra come questi principî possano essere violati e soppressi. Ma occorreva, accanto ai tradizionali diritti di libertà, che impongono un limite negativo, porre quelli che, con frase non del tutto propria, si dicono «diritti sociali». Sono i principî, che rispondono alla esigenza della giustizia sociale, alla quale nessuno oggi si può sottrarre. Può essere sentita più o meno profondamente dell’altra esigenza della libertà, ma è sempre comune a tutti. Questi diritti sociali si ispirano ad un diverso principio, al principio di eguaglianza, inteso nel senso propulsivo, attivo, direi, dinamico della parola; che è più precisamente il principio della solidarietà.
Nella prima parte della Costituzione noi leggiamo affermazioni le più varie di codesti diritti sociali. Ed è, o colleghi, a questo proposito che si pone un problema di impostazione; che deriva dall’osservazione che i cosiddetti diritti sociali non configurano spesso diritti o interessi legittimi in senso stretto.
Noi abbiamo una nozione tecnico-giuridica del diritto, che è come una medaglia. Ha il suo rovescio, che è il dovere. Il diritto è una posizione giuridica subiettiva, munita di sanzione, che dà a colui che ne è titolare la possibilità di agire innanzi al giudice contro un altro soggetto, privato o pubblico, tenuto a un determinato atteggiamento. Noi abbiamo del pari una nozione tecnico-giuridica dell’interesse legittimo. Vi sono, viceversa, in questa parte della Costituzione enunciazioni di tendenze – che io in questo momento non discuto nel merito – enunciazioni di tendenze, di propositi, di mete alle quali si vuole arrivare domani. Il che, naturalmente, renderà necessaria non solo l’emanazione di apposite norme giuridiche sostanziali, ma la conformazione della struttura economico-sociale, in guisa tale che si renda possibile la traduzione in atto di questi principî. Ciò potrà avvenire, per alcuni principî, domani, per altri, in un domani più lontano; per altri, forse mai. Il diritto al lavoro si è potuto realizzare in Russia, perché questo paese offre il tipo di una società socialista. Da noi, è il voto di una tendenza. Parlarne, oggi, nella Costituzione come diritto può essere, a tacer d’altro, pericoloso, per le amare delusioni cui darebbe luogo di certo! Pensate ai due milioni circa di disoccupati!
Il problema di tecnica giuridica, che io pongo all’Assemblea, è questo: principî di questo genere, programmatici, tendenziali, finalistici, aspirazioni, devono essere collocati accanto a quelle norme che hanno un contenuto squisitamente e meramente legale e normativo, o viceversa essi devono essere più acconciamente sistemati in una sede a sé, che potrebbe essere il Preambolo della Costituzione? Badate, si sono chiamati diritti, ma diritti non sono. Anche la confusione terminologica si traduce spesso in confusione sostanziale. Si è detto che relegarli nel Preambolo significherebbe sminuirne la importanza. Si è considerato da taluni il Preambolo quasi come la soffitta della Costituzione, nella quale si pongono i principî inutili, che servono soltanto a fare bella mostra di sé e che non verranno mai tradotti in pratica.
In una intervista apparsa ieri sulla Voce Repubblicana, l’onorevole Grieco diceva che la Costituzione comincia dall’articolo primo e che tutto ciò che non è nell’articolo primo e negli articoli che seguono, non è Costituzione. Io mi permetto di dissentire. La Costituzione comincia dal Preambolo. Il preambolo ha una sua propria rilevanza giuridica. In che consiste questa rilevanza? Agisce in due direzioni: come indirizzo per il futuro legislatore, il quale dovrà conformare la sua attività in modo tale da dare attuazione a quelle norme di tendenza; come criterio di interpretazione, per il giudice e per l’amministratore, dell’ordinamento giuridico esistente. Dal Preambolo scaturisce una fonte di vita nuova, non solo per il futuro, ma anche per il presente.
Ora io penso che se noi verremo nell’ordine di idee di creare un Preambolo nel quale potranno trovare sistemazione più adeguata questi principî programmatici, queste aspirazioni, noi snelliremo la Costituzione ed eviteremo molte di quelle confusioni che oggi si devono lamentare. Naturalmente, non tutto ciò che non è in senso stretto diritto, si deve mettere nel Preambolo. Una Costituzione non è soltanto un Codice di norme positive; ma non può essere nemmeno una tavola di astrazioni. Qui la questione è di valutazione e di misura. Noi potremo esaminare, ed è naturalmente un’indagine che non si può compiere adesso senza trascendere dai limiti di questa discussione generale, quelle situazioni giuridiche che abbiano una maggiore o minore consistenza normativa, quelle che si possono tradurre domani, in base alla valutazione che oggi si può fare del domani, e quelle viceversa che hanno bisogno di una più profondale e radicale trasformazione delle società, e quindi veramente rappresentano una tendenza verso la quale noi potremo andare, ma che non potrà essere raggiunta se non in un lontano domani.
Un altro punto che io voglio segnalare alla vostra attenzione, e che è sempre di carattere strutturale ed investe tutto il progetto, è questo: delimitazione dei rapporti fra norma costituzionale e norma ordinaria.
Il collega Lucifero ha detto che in questo progetto vi è mezzo Codice civile, mezzo Codice penale e credo anche mezzo Codice di procedura. È esagerato; ma che in realtà in questo progetto vi siano molte disposizioni che, con grande utilità, potrebbero essere trasferite in altra sede, è una verità nella quale tutti dobbiamo convenire.
Qual è il criterio per distinguere la norma costituzionale dalla ordinaria? Un criterio predeterminato non esiste. È un problema affidato alla classe dirigente che è chiamata a fare la Costituzione, e lo risolve, direi di volta in volta, a seconda della valutazione dei fini e degli interessi politici. Comunque, io vorrei suggerire di tener presente un detto di saggezza: «Nel dubbio, astienti». Se abbiamo il dubbio, se una norma sia costituzionale o ordinaria, optiamo per considerarla norma ordinaria. Non poniamo pericolose ipoteche sul futuro; non imbrigliamo oggi quello che dovrà essere il naturale sviluppo della legislazione.
Questo progetto si muove fra due poli: da una parte attinge vette sublimi: ed è l’esaltazione della personalità umana, che è il motivo dominante della prima parte; poi finisce quasi nelle norme regolamentari. Vi è un articolo che parla del trattamento igienico sanitario, qualcun altro accenna al trattamento da farsi ai detenuti. Vi sono poi troppi riferimenti a istituti contingenti. Non intendo scendere ad esemplificazioni particolari. Negli articoli che disciplinano la scuola si richiamano istituti vigenti: la parificazione, l’esame di stato. Cosa significano queste parole? Tutto e nulla. Bisogna vedere quello che si mette dentro a queste frasi. La parificazione può comportare l’adempimento di certe condizioni e può non importare niente al di fuori di un semplice decreto. Vi è un articolo in questa parte del regolamento scolastico in cui si dice che l’istruzione primaria deve essere di almeno otto anni, cosicché se, domani, si vuole ridurre a sette bisogna modificare la Costituzione!
Una voce all’estrema sinistra. Diminuire no, aumentare sì!
BOZZI. Ora io francamente trovo che vi sono principî che devono essere rimandati alla legislazione ordinaria; per esempio i principî sul matrimonio. Vedete, quando si è posta la questione della indissolubilità, voi lo ricordate, io votai per l’indissolubilità del matrimonio; ma restavo fermo alla pregiudiziale, che cioè questa fosse materia non da Costituzione. E così tutta la disciplina dei figli nati fuori dal matrimonio. Ma questa è materia da Codice civile! Io penso con grande trepidazione a quello che avverrà nella legislazione se dovrà aver vigore l’articolo 25 del progetto! Sconvolgeremo il Codice civile.
Presidenza del Vicepresidente CONTI
Vi sono principî che sono ormai saldamente acquisiti, stabilmente radicati nella coscienza giuridica collettiva. Così è di alcuni canoni sulle sentenze, sull’ordinamento dei giudizi; è inutile trasferirli in sede costituzionale. Vi è taluno che possa dubitare che le decisioni del giudice debbono essere motivate? Vi sono invece altri principî che sono più immediatamente legati al corso progressivo dei tempi, allo svolgersi del moto sociale, e questi principî non è bene consacrarli nella Costituzione, perché altrimenti noi esporremo questo documento a troppi mutamenti, a troppe revisioni, che ne farebbero perdere prestigio e autorità.
Un’altra critica è questa: è troppo largo l’uso del rinvio alla legge. Il rinvio alla legge a volte è utile; ma avviene, in taluni articoli del progetto, che il rinvio esaurisca il contenuto della norma. Ed allora, domando: che ragione vi è di fare una norma costituzionale quando il contenuto di questa norma lo dovremo apprendere dal legislatore ordinario? Vi cito un esempio; il Consiglio economico, che è un istituto che potrà avere molta importanza. Nella Costituzione vi è solo l’affermazione che vi sarà un Consiglio economico. Ma come sarà costituito e quali ne saranno le funzioni noi lo apprenderemo dalla legge. E questo è un istituto costituzionalmente disciplinato?
Un’altra critica, che corre sulle labbra di tutti, è quella del compromesso. Facile critica. In una situazione politica come l’attuale, di fronte a forze così eterogenee, il compromesso è inevitabile; direi che è un bene. La questione è il vedere come si adopera l’arte del compromesso. Non dobbiamo creare una Costituzione di maggioranza, la Costituzione di una classe o di un partito o di una tendenza. La mia aspirazione è che si possa dar vita alla Costituzione di tutti gli italiani.
Il compromesso è inevitabile, adunque. Bisogna vedere, dicevo, come questo strumento si adopera. Ora, non sempre è stato adoperato bene. Per esempio, vi sono norme contraddittorie. Mi permetterò di citare un esempio. Vi è un articolo, il 64, dove si dice che ogni membro del Parlamento e quindi anche della Camera dei Senatori, rappresenta l’intera nazione, senza vincolo di mandato. È la ripetizione di un principio tradizionale. Ma ve ne è un altro, il 117, secondo comma, nel quale, a proposito dello scioglimento del Consiglio regionale, si dice che questo scioglimento avverrà su deliberazione della Camera dei Senatori, ma che a questa deliberazione non potranno partecipare i Senatori interessati. Questo principio, evidentemente, contraddice nettamente quell’altro, perché se i Senatori, come ogni membro del Parlamento, rappresentano l’intera nazione e non la regione o il collegio che li ha eletti, non vi è alcun motivo per escluderli dalla partecipazione alla deliberazione sullo scioglimento del Consiglio regionale.
Ma codesti sono rilievi marginali, che possono essere facilmente eliminati.
Vi sono più profonde disarmonie. Guardate l’istituto della famiglia. La famiglia è tutelata dal progetto solennemente, come elemento fondamentale per la salvezza morale e la prosperità della Nazione. Frasi molto nobili ed elevate. Ma, subito dopo, si fa un trattamento ai figli nati fuori del matrimonio uguale a quello dato ai figli nati nel matrimonio. Ed allora la tutela della famiglia legittima è o non è?
Vi è un articolo in tema di rapporti economici che dice che l’iniziativa privata è libera, salvo il rispetto di certi limiti. È il concetto di libertà: cioè ad ogni individuo è attribuita una sfera di autonomia nella quale egli liberamente si muove, salvo certi divieti. Ma vi è un altro articolo in cui il progetto fa obbligo allo Stato di dettare le norme ed i controlli necessari perché le attività economiche possano essere amministrate e coordinate a fini sociali. E allora c’è da domandare: quale dei due principî vige? Il principio improntato ad una concezione liberale, sia pure opportunamente temperata, oppure il principio di intervento statale?
In un altro modo il compromesso si è manifestato; e non bene. Si sono create norme vaghe, indeterminate, a volta confuse, a margini sfumati. È una forma di compromesso, perché quando non si vuole affermare un principio nettamente, lo si diluisce, lo si denicotinizza, direi. Ma questo crea incertezza.
Vi è tutta una serie di principî nei quali sembra che lo Stato debba sempre intervenire e intensamente. In un articolo apparso sul Giornale d’Italia di ieri, don Luigi Sturzo suonava un campanello d’allarme su questa parte del progetto, e diceva: Badate che qui abbiamo una statalizzazione invadente e oppressiva. Forse un esame più approfondito farebbe vedere che questi principî, data la loro vaghezza e la loro elasticità, possono dire molto, ma possono dire anche poco e a volte possono dire anche niente. Si vuol creare forse una disciplina in bianco, in modo che il contenuto ne sarà dato dalla maggioranza che governerà? Qual tipo di incerto statuto è mai questo?
Io vedo in ciò un attentato alla tutela delle minoranze, che è uno dei fini precipui di ogni Costituzione democratica.
Ora io voglio passare rapidamente ad un altro aspetto: alla struttura e all’ordinamento della Repubblica. Qui, vorrei dire, notiamo un più spirabil aere.
Osservo però che non è stata data soddisfazione a quella che io reputo una delle esigenze fondamentali della democrazia moderna. Taluno ha potuto dire che questo è un progetto ottocentesco. Forse non è esatto. Io trovo due grandi assenti in questo progetto: i partiti e le organizzazioni sindacali. Oggi la vita dello Stato poggia su queste forze: sulle forze organizzate del lavoro e sulle forze dei partiti. Bisogna constatare il fenomeno, se anche può dispiacere. I partiti hanno una funzione pubblica nella vita dello Stato moderno, talché alcune Costituzioni li disciplinano giuridicamente. Il problema fondamentale è questo: attuare nell’interno dei partiti il metodo democratico che è indispensabile, perché la democrazia possa, poi, informare tutta la vita dello Stato. Io non vedo, nel progetto, i rapporti tra lo Stato, i partiti e le forze del lavoro. Bisogna evitare che questi due ultimi elementi si possano porre fuori e contro lo Stato. Vi è un articolo, lo so, onorevole Tupini, l’articolo 47, nel quale si parla dei partiti sotto il profilo del principio di libertà; ed è l’unico articolo nel quale, in certo senso, si delinea quella democrazia alla quale la Repubblica si vorrebbe inspirare e che definirò democrazia occidentale.
Un altro punto sul quale io penso che noi dovremo soffermarci e a lungo, è quello del Senato; anzi, dirò meglio, del bicameralismo, che presuppone due Camere, fondate su principî politici diversi, autonome nel loro funzionamento. Vi erano due tendenze opposte nella Commissione; la tendenza che, seguendo un sillogismo apparentemente rigoroso, portava all’affermazione di una sola Camera come unica detentrice della volontà popolare che si manifesta attraverso il suffragio universale; e una tendenza, alla quale ho partecipato anch’io, che riteneva necessaria, invece, accanto alla Camera dei Deputati, un’altra Camera.
Io credo ancora alla teoria degli antagonismi costituzionali; e perciò dico, e non entro nel merito, che, così come è stata creata nel progetto, la Camera dei Senatori non presenta elementi netti di differenziazione con la Camera dei Deputati. Vi è soltanto l’elemento dell’età per l’elettorato attivo e per l’elettorato passivo. È un primo passo, ma un passo che non segna una demarcazione; non vedo, cioè, un principio politico diverso che giustifichi la ragion d’essere del Senato e lo renda atto alla sua fondamentale funzione di equilibrio nella vita dello Stato. Le categorie sono così vaste che, come la pietà divina, comprendono tutto sotto le loro ali; e non segnano perciò nemmeno esse un criterio di differenziazione.
Un terzo punto desidero accennare: l’istituto del Capo dello Stato, del Presidente della Repubblica. Creato un sistema che, sotto l’apparenza bicamerale, è nella sostanza un sistema unicamerale, il Capo dello Stato viene ad esser posto in una posizione di dipendenza dalla Camera. Questo rappresenta veramente un grave pericolo: siamo sul piano inclinato del regime di Assemblea, che è una delle forme dittatoriali più pericolose.
Credo che dovremo rimeditare questo punto per giudicare se non sia preferibile che il Capo dello Stato venga eletto direttamente dal popolo. Si è detto, ed anch’io ho partecipato a questa opinione, che ciò potrebbe presentare un pericolo: l’investitura troppo vasta, troppo popolare, potrebbe dare al Capo dello Stato la sensazione di essere titolare di poteri personali. Pericolo, cioè, di dittatura. Ma credo che questo pericolo non esista. Non esiste se noi, come è e come ritengo debba rimanere, terremo distinte le funzioni di Capo dello Stato da quelle di Capo del Governo, e non faremo del Presidente della Repubblica anche un Cancelliere, secondo lo schema delle repubbliche presidenziali.
Un pericolo di regime personale, dittatoriale, può esistere là dove nell’unica persona del Capo dello Stato si cumuli anche la funzione di Primo Ministro; ma dove c’è distinzione il pericolo non si presenta. Viceversa, si avrebbe il grande vantaggio di dare al Capo dello Stato una posizione di prestigio e di indipendenza, sicché egli potrà essere veramente il titolare di quella che è stata definita una potestà neutra, il grande moderatore dei supremi poteri.
Sotto questo stesso profilo ritengo sia stato un errore non dare al Capo dello Stato la possibilità di partecipare al processo formativo della legge, negandogli la potestà di sanzione. Si dice: il Capo dello Stato non negherà mai la sanzione. Ma questa non è una buona ragione per togliergli la titolarità di un tal potere, che significa tenerlo estraneo dalla funzione più importante nella vita dello Stato: fare le leggi. Il Presidente della Repubblica, secondo il Progetto, si limita a promulgare la legge, si limita ad una funzione esecutiva; egli esprime una volontà, ma è una volontà che si trova su un piano di esecuzione.
Onorevoli colleghi, io vorrei, prima di concludere questa mia breve delineazione panoramica, esprimervi quella che è la più viva apprensione del mio animo di uomo politico e di giurista. Io ho la preoccupazione, ora che il progetto è composto nei suoi vari elementi e lo vedo a distanza, io ho la preoccupazione che questo progetto possa ingenerare una grande incertezza nell’ordinamento giuridico. È questo uno dei mali più funesti che possano affliggere una società civile. Una grande incertezza, dicevo, non solo per le modalità di trapasso, di saldatura, di sutura con l’ordinamento giuridico esistente, ma per la necessità che avremo di fare delle leggi complementari, senza di che la Costituzione non potrà avere esecuzione. Avremo contrasti tra le leggi attuali e le norme della Costituzione, e ci dovremo porre e dovremo risolvere questo quesito: le norme dell’ordinamento giuridico attuale, che siano in contrasto con le norme della Costituzione o anche con quei tali principî soltanto programmatici e tendenziali, dovranno intendersi automaticamente abrogate o dovremo attendere che il legislatore futuro intervenga per compiere questa abrogazione? Tutti problemi formidabili. Ma l’incertezza più grave e permanente scaturisce dalla struttura stessa del sistema proposto. Io mi richiamo alle norme programmatiche, alle norme vaghe, incerte, e a volte, come diceva don Sturzo, nebulose, ideologiche e demagogiche magari. E domando: quando domani si cercherà di tradurle in legge, non sorgerà necessariamente una serie di dubbi, di interpretazioni diverse, di discussioni, di distinzioni, che si risolveranno in quelle famose questioni di costituzionalità per cui è dato a talune persone, particolarmente legittimate, il potere di impugnare la legge dinanzi alla Corte costituzionale.
Più noi inseriremo nel progetto norme vaghe ed incerte, indefinite e nebulose, e più daremo vita a incertezze di interpretazione, che, sul piano positivo, si potranno tradurre in impugnative della norma, così che noi non sapremo più da quali leggi saremo governati; e i rapporti giuridici staranno sempre sotto la spada di Damocle della dissoluzione.
Ora, la Corte costituzionale deve avere una funzione veramente elevata, senza trasformarsi in superparlamento, e deve essere invocata veramente in casi eccezionali.
E c’è anche un’altra considerazione. Noi abbiamo una gerarchia di norme: norme costituzionali, e fra queste ve n’è qualcuna irrevocabile, e quindi supercostituzionale; poi le norme costituzionali in senso proprio (e qui si pone il problema – ed a questo riguardo richiamo l’attenzione dei tecnici del diritto – se per avventura alle leggi a cui fa rinvio la Costituzione, non si debba dare un valore particolare, che direi para-costituzionale); poi leggi ordinarie. È chiaro che ogni gerarchia, importando una subordinazione, può dar luogo a problemi di validità e quindi a possibilità di impugnativa. Ma il peggio si verifica quando dall’ordinamento dello Stato passiamo all’ordinamento della regione; ed esaminiamo i rapporti reciproci.
Io sono stato contrario alla regione concepita nel modo onde è stata concepita nel progetto. Discuteremo in altro momento se non sia vero che essa spezza l’unità politica ed economica dello Stato. Io ammetto la necessità di un ampio decentramento amministrativo, che credo sia la sola esigenza veramente sentita dalla coscienza nazionale, ed ammetto anche un certo decentramento normativo, che si può affidare utilmente alle regioni entro limiti di attuazione e di integrazione della legge statale; e così si realizzerà, onorevole Lucifero, anche quel decentramento legislativo, a cui lei faceva riferimento, e che è una delle condizioni fondamentali perché i Parlamenti possano vivere. Ma se noi accanto alle leggi dello Stato poniamo le leggi della Regione, la quale ha, nel progetto, una competenza vasta e non ben definita, e se teniamo presente che la legge dello Stato potrà essere impugnata dalla Regione e la legge della Regione potrà essere impugnata dallo Stato e potranno esservi conflitti tra Regione e Regione, – sicché io mi domandavo, venendo qui oggi, se, per avventura, non dovremo risolvere anche questioni inerenti allo statuto personale e reale dei cittadini, che son cittadini dello Stato e delle Regioni, soggetti a diversi ordinamenti giuridici – voi vedete come dinanzi a noi si apra un pauroso panorama di incertezze, di possibilità di conflitti, di impugnazione di leggi. Il che, ripeto, è una delle cose più funeste che possano immaginarsi nella vita di uno Stato, che voglia essere uno Stato di diritto.
Onorevoli colleghi, io ho dato uno sguardo panoramico a questo progetto. Ho voluto essere ligio alle istruzioni impartite dal nostro Presidente: esaminare i punti che si proiettano su tutta la struttura del sistema.
Questo progetto credo che non dovrà essere sottoposto ad approvazione. Non dimentichiamo che è un progetto. Vi dico francamente ed obiettivamente: esso è sempre un buon punto di partenza, spesso è anche un buon punto di arrivo. Noi lo dovremo sottoporre a riesame, serenamente: nella forma, perché anche la forma e la tecnica lasciano a desiderare; ma, soprattutto, nella sostanza. Volendo definirla in poche parole, l’opera che dovremmo compiere sarà soprattutto un’opera di deflazione. Ma dobbiamo, attraverso il nostro dibattito, richiamare sul progetto l’attenzione dell’opinione pubblica. Io ho la sensazione che il Paese non senta profondamente ciò che noi stiamo facendo. Non vorrei che la Costituzione possa essere qualche cosa di posticcio, qualche cosa che viene dall’alto, sia pure fatta da noi che veniamo dal basso. Dobbiamo interessare l’opinione pubblica. Sarà solamente questa che darà l’avallo definitivo; e la interesseremo se sapremo condurre un dibattito elevato, sereno e profondo.
Si parla tanto, oggi, della necessità di consolidare la Repubblica. È diventata una sorta di frase di rito: il consolidamento della Repubblica. Si invocano leggi speciali per il consolidamento della Repubblica. Ebbene, io credo sinceramente che il miglior modo per servire la Repubblica è quello di fare delle buone leggi e, soprattutto, una buona Costituzione.
Così soltanto ogni italiano, monarchico o repubblicano, potrà ritrovare in questa legge fondamentale dello Stato il punto per la pacificazione, e potrà riprendere il cammino nel solco del progresso, nella libertà e nel lavoro. (Applausi – Congratulazioni).
(La seduta, sospesa alle 17,55, è ripresa alle 18,10).
Presidenza del Presidente TERRACINI
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Calamandrei. Ne ha facoltà.
CALAMANDREI. Onorevoli colleghi, parlare in quest’aula con quei banchi vuoti dà un senso di disagio. Non c’è il Governo; non si può dir male del Governo…
Una voce. È quello che manca.
CALAMANDREI. Pare quindi che ci manchino i temi di conversazione…
Ma, d’altra parte, questo dà anche un certo senso di serenità, e direi quasi di raccoglimento familiare.
D’ora in avanti le invettive, le polemiche, le contumelie saranno riservate alle sedute antimeridiane. Nelle sedute pomeridiane potremo parlare tranquillamente, in una atmosfera in cui non si tratterà di criticare un progetto presentato dal Governo e di votargli contro per arrivare a farlo respingere; ma saremo, invece, qui a fare una specie di esame di coscienza, poiché, in sostanza questo progetto di costituzione, sul quale siamo chiamati a discutere, esce da noi, è creato da noi, non dal Governo. Le critiche che noi rivolgeremo ad esso saranno critiche rivolte a noi stessi; dovranno dunque essere critiche costruttive. È una specie di esame di maturità, che la democrazia deve dare attraverso questa Costituzione. Dobbiamo tutti quanti industriarci a far sì che questo esame, se non con pieni voti e lode, sia almeno approvato con pieni voti legali.
Ora, onorevoli colleghi, se noi leggiamo questo progetto, con quest’animo di critica positiva, di critica costruttiva, di critica accompagnata sempre dalla proposta che tende a suggerire il meglio, dobbiamo, alla prima lettura riconoscere che esso non è un esempio di bello scrivere: manca di stile omogeneo, direi quasi che manca di qualsiasi stile.
Voi ricorderete certamente che nel 1801 Ugo Foscolo, il capitano Ugo Foscolo, fu incaricato dal Ministero della guerra della Repubblica Cisalpina di preparare un progetto di Codice penale militare; e di questo progetto egli fece la relazione introduttiva coi titolo di «Idee generali del lavoro», nella quale egli si proponeva, testualmente, di compilare tutta l’opera «in uno stile rapido, calzante, conciso, che non lasci pretesto all’interpretazione delle parole, osservando che assai giureconsulti grandi anni e assai tomi spesero per commentare leggi confusamente scritte. Si baderà ancora a una religiosa esattezza della lingua italiana».
Ecco: questo progetto di Costituzione si sente che non è stato scritto da Ugo Foscolo…
Ma questa è una questione di secondaria importanza.
Si troverà sempre qui e fuori di qui – e probabilmente il nostro Presidente Ruini ci avrà già pensato – chi riesca a dare una forma più pulita e finita a questo progetto ancora grezzo. Noi abbiamo già nei lavori preparatori della Costituzione esempî di equilibrio e di armonia stilistica. Basti ricordare la bella, equilibrata, armoniosa relazione scritta dal nostro Presidente Ruini; e non bisogna dimenticare – proprio è doveroso in questa prima seduta di discussioni sulla Costituzione – non bisogna dimenticare anche, tra i precedenti di questo progetto, i varî volumi, e specialmente il primo, dei lavori della Commissione di studio costituita dal Ministero della Costituente, che sono veramente un esempio di chiarezza e di compitezza, il cui merito risale principalmente a quel grande giurista, a quel grande maestro di diritto pubblico, a cui mando un saluto in questo momento, che è il professor Ugo Forti, Presidente di quella Commissione. Ma, vedete, questa mancanza di stile, questa eterogeneità di favelle che si ravvisa in molte disposizioni di questo progetto, non è soltanto una questione di forma: è anche una questione di sostanza. Deriva dal modo con cui questo progetto è nato; questo progetto, come voi sapete, non è nato di getto, tutto insieme; non è stato concepito in maniera armonica, unitaria. Il lavoro di questo progetto si è dovuto svolgere necessariamente nell’interno di diverse Sottocommissioni e delle sezioni di esse, e di più ristretti Comitati; in tante piccole officine, in tanti piccoli laboratori, ciascuno dei quali ha preparato uno o più pezzi di questo progetto.
Questi vari pezzi sono stati portati poi al Comitato di coordinamento e lì la macchina è stata rimontata nel suo insieme, soprattutto per le intelligenti cure del Presidente Ruini; e solamente oggi qui per la prima volta la possiamo vedere messa in ordine e valutarla nella sua interezza e coglierne certe disarmonie ed accorgerci che i varî pezzi non hanno tutti lo stesso stile. Ci sono in questi ingranaggi ruote di legno e ruote di ferro, pezzi di veicoli ottocenteschi e congegni di motore da aeroplano. C’è confusione di stili e di tempi: e sta a noi qui, in questa discussione introduttiva e in quelle che continueranno sulle varie parti del progetto, di ridare a questo meccanismo, correggendone i difetti, le contraddizioni e le disformità, quell’armonia che oggi esso sembra non presentare in maniera uniforme.
Le osservazioni che io farò avranno tutte quante carattere generale. Esse cercheranno appunto di contribuire a tale riesame complessivo del meccanismo costituzionale, che oggi si presenta tutto insieme. E se mi avverrà, in questa disamina dei suoi caratteri generali e del metodo con cui esso è stato concepito, di citare qualche articolo, e di ricordare qualche questione concreta, sui quali poi si dovrà tornare nella discussione speciale, ciò avverrà soltanto a scopo di esempio, per illustrare certi caratteri generali del progetto, dei quali cercherò qui di cogliere gli aspetti più tipici e più rilevanti.
Le ragioni fondamentali di questa impressione di eterogeneità che il progetto dà in qualche sua parte derivano, come voi sapete, da due cause storiche, che sono state ripetutamente citate durante le nostre discussioni.
La prima è questa: che questo progetto di Costituzione non è l’epilogo di una rivoluzione già fatta; ma è il preludio, l’introduzione, l’annuncio di una rivoluzione, nel senso giuridico e legalitario, ancora da fare. E la seconda ragione è quest’altra: che sugli scopi, sulle mete, sul ritmo di questa rivoluzione ancora da fare, i componenti di questa Assemblea, i componenti della Commissione dei 75, i componenti delle singole Sottocommissioni, non erano e non sono d’accordo. Vedete, io ho sentito ricordare anche poco fa da un collega di questa Assemblea, col quale conversavo, lo Statuto albertino. Lo Statuto albertino fu fatto in un mese, dal 3 febbraio al 4 marzo 1848. Diceva quel collega: «Guardate come era semplice e sobrio; ed ha servito a governare l’Italia per quasi un secolo. E qui è tra poco un anno che lavoriamo e ancora non siamo riusciti, come appare da questa apparenza ancora confusa e grezza del progetto, a preparare qualche cosa che si avvicini per concisione a quello Statuto». Ma l’esempio non calza; perché lo Statuto albertino fu una carta elargita da un sovrano il quale sapeva fino a che punto voleva arrivare; i suoi collaboratori, coloro che furono incaricati da lui di redigere quello Statuto, sapevano perfettamente quello che il sovrano voleva: non avevano da far altro che tradurre in articoli di legge le istruzioni già dosate da quell’unica volontà di cui lo Statuto doveva essere espressione.
Per questo il paragone non calza; perché invece qui, in questa Assemblea, non c’è una sola volontà, ma centinaia di libere volontà, raggruppate in diecine di tendenze, le quali non sono d’accordo su quello che debba essere in molti punti il contenuto di questa nostra Carta costituzionale; sicché essere riusciti, nonostante questo, a mettere insieme, dopo otto mesi di lavoro assiduo e diligente, questo progetto, è già una grande prova, molto superiore a quella che fu data dai collaboratori di Carlo Alberto, in quel mese di lavoro semplice e tranquillo che essi poterono agevolmente compiere sulla guida data loro dal sovrano al quale obbedivano.
Un altro esempio che si è citato è quello della Costituzione russa, specialmente della Costituzione staliniana del 1936. Si dice: «Vedete come in quella Costituzione tutto è preciso; quei diritti sociali che sono affermati in quella Costituzione, trovano in ogni articolo, in un apposito comma, la specifica indicazione dei mezzi pratici che ogni cittadino può esperimentare per ottenere la soddisfazione concreta di quei diritti».
Ma anche qui il paragone non calza; perché la Costituzione russa del 1936 ha dietro di sé una rivoluzione già fatta. È molto semplice, quando è avvenuto un rinnovamento fondamentale, una rivoluzione, insomma, di carattere sociale, in cui le nuove istituzioni sociali vivono già nella realtà, in cui la nuova classe dirigente è già al suo posto, prendere atto di questa realtà e tradurre in formule giuridiche questa realtà. I giuristi vengono, buoni ultimi, a mettere i loro cartellini, le loro definizioni su una realtà sociale che vive già per suo conto.
È molto facile trovarsi d’accordo nel dare, a cose fatte, queste definizioni e queste formule. Noi invece ci troviamo qui non ad un epilogo, ma ad un inizio. La nostra rivoluzione ha fatto una sola tappa, che è quella della Repubblica; ma il resto è tutto da fare, è tutto nell’avvenire.
Proprio per questo, noi ci siamo trovati ad avere una Costituzione che ha gli stessi caratteri del Governo, quantunque il Governo in questo momento sia assente in quest’aula. È una Costituzione tripartitica, di compromesso, molto aderente alle contingenze politiche dell’oggi e del prossimo domani: e quindi poco lungimirante.
Indubbiamente, nel progetto di Costituzione vi è una parte positiva. Ma è inutile che io vi parli di essa: è inutile che stiamo qui a farci complimenti fra noi, compiacendoci di quella parte buona e proficua di lavoro che abbiamo compiuto.
La parte positiva della nuova Costituzione, voi lo sapete, si chiama Repubblica, si chiama sovranità popolare, si chiama sistema bicamerale, si chiama autonomia regionale, si chiama Corte costituzionale. Tutto questo è chiaro. Sono istituti che potranno essere perfezionati nei particolari, ma insomma, su questi punti, in cui i tre partiti che costituiscono il nucleo di questa Assemblea si sono trovati d’accordo, il lavoro è stato facile ed è stato fecondo. Vi è però la parte negativa, quella in cui i partiti non sono riusciti a trovarsi d’accordo con sincerità nella sostanza: ed è questa la parte che, secondo me, pecca di genericità, di oscurità, di sottintesi. Molte volte si sente che si è cercato di girare le difficoltà, anziché affrontarle, di mascherare il vuoto con frasi messe per figura. Ognuno ha cercato insomma, nella discussione degli articoli, di togliere la paroletta altrui che gli dava noia. Chi ha partecipato alla discussione delle Commissioni sa che molte volte, per una parola, si è discusso intere giornate; e che in questa contesa di correnti diverse, più che cercare di far prevalere la propria tesi, tutti hanno cercato d’impedire che prevalessero le tesi degli avversari.
È un po’ successo, agli articoli di questa Costituzione, quello che si dice avvenisse a quel libertino di mezza età, che aveva capelli grigi ed aveva due amanti, una giovane e una vecchia: la giovane gli strappava i capelli bianchi e la vecchia gli strappava i capelli neri; e lui rimase calvo. Nella Costituzione ci sono purtroppo alcuni articoli che sono rimasti calvi. (Ilarità).
Ora, vedete, colleghi, io credo che in questo nostro lavoro soprattutto ad una meta noi dobbiamo, in questo spirito di familiarità e di collaborazione, cercare di ispirarci e di avvicinarci. Ricordate il famoso motto di Silvio Spaventa, da cui nacquero le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato: «giustizia nell’Amministrazione». Il nostro motto dovrebbe esser questo: «chiarezza nella Costituzione».
Varie parti di questo progetto non hanno quella chiarezza cristallina che dovrebbe riuscire a far capire esattamente che cosa si è voluto dire con questi articoli, quali sono le mete verso le quali si è voluto muovere con quelle disposizioni. Si riaffaccia qui la questione che è stata già sollevata oggi dai due precedenti oratori, e che si può chiamane la questione del preambolo, già sorta davanti alla Commissione dei settantacinque. Voi sapete che nella nostra Costituzione, ad articoli che consacrano veri e propri diritti azionabili, coercibili, accompagnati da sanzioni, articoli che disciplinano e distribuiscono poteri e fondano organi per esercitare questi poteri, si trova commista una quantità di altre disposizioni vaghe, che si annidano specialmente fra l’articolo 23 e l’articolo 44 (rapporti etico-sociali e rapporti economici), le quali non sono vere e proprie norme giuridiche nel senso preciso e pratico della parola, ma sono precetti morali, definizioni, velleità, programmi, propositi, magari manifesti elettorali, magari sermoni: che tutti sono camuffati da norme giuridiche, ma norme giuridiche non sono.
Allora, davanti ai Settantacinque già si sollevò questa questione. E si ricordò allora che in altre costituzioni sorte dopo l’altra guerra, in quella di Weimar, in quella della Repubblica spagnola, furono inseriti accanto ai diritti politici di libertà risalenti alla rivoluzione francese, questi nuovi diritti che si sogliono ormai denominare «diritti sociali», ma ci si accorse poi che essi lasciarono inalterata la realtà sociale, nella quale essi non avevano rispondenza.
L’enunciazione dei cosiddetti «diritti sociali» non ebbe nessun resultato pratico, come la storia di questo ventennio ha dimostrato: sicché parrebbe per noi più prudente, invece di travestire questi desideri e questi programmi in apparenze normative, collocarli tutti quanti in un preambolo nel quale sia detto chiaramente che queste proposizioni non sono ancora, purtroppo, norme obbligatorie, ma sono propositi che la Repubblica pone a sé stessa, per trovare in essi la guida della legislazione futura.
Quando io feci questa infelice proposta (dico infelice perché dei Settantacinque mi pare che ricevesse soltanto il voto dei rappresentanti del Partito d’Azione che, come sapete, non sono molti) (Ilarità), quando io feci questa proposta, mi furono fatte due obiezioni: una di carattere strettamente giuridico, dal collega e amico Mortati, il quale mi disse che anche queste norme di carattere programmatico possono avere il loro significato giuridico, perché rappresentano impegni che il legislatore prende per l’avvenire, direttive e limiti alla legislazione futura; e quindi non si può dire che si tratti di disposizioni giuridicamente irrilevanti, perché anche esse hanno la loro efficacia giuridica.
Questo argomento del collega Mortati non mi convinse molto, almeno per certe disposizioni, troppo vaghe e generiche per costituire un qualsiasi impegno. Ma, allora, chi seppe trovare le vie del mio cuore fu l’onorevole Togliatti, il quale capì che il miglior modo per convincere un fiorentino è quello di citargli qualche verso di Dante. Togliatti mi disse che noi preparatori della Costituzione, dobbiamo fare «come quei che va di notte, – che porta il lume dietro e a sé non giova, – ma dopo sé fa le persone dotte».
Non dobbiamo curarci della attuazione immediata di queste pseudo norme giuridiche contenute in questo progetto: dobbiamo pensare ai posteri, ai nipoti, e consacrare quei principî che saranno oggi soltanto velleità e desideri, ma che tra venti, trenta, cinquanta anni diventeranno leggi. Dobbiamo così illuminare la strada a quelli che verranno.
Ho ripensato molto a questi versi di Dante e mi sono pentito di essermi lasciato troppo sedurre dalla poesia, non solo perché – come mi suggerisce un collega che mi interrompe – anche Stalin, citato dal presidente Ruini nella sua relazione, afferma che le costituzioni non possono essere programmi per il futuro; non solo perché non è stato felice l’esperimento fatto dalla «carta del lavoro» e dalla «carta della scuola» che, anch’esse, non erano leggi, ma direttive per le leggi future – ma soprattutto per un’altra ragione; che è la seguente. Ammettiamo, cioè che in una Costituzione si possano utilmente inserire principî precisi per la legislazione futura, che siano veramente lumi, capaci di rivelare un sentiero verso l’avvenire. Ma se io leggo nel progetto di Costituzione il testo di queste norme che dovrebbero avere una siffatta efficacia illuminante mi accorgo che in molte di esse è assai difficile rendersi conto esattamente della direzione verso la quale esse tendono; è assai difficile che in questi lumi i nostri posteri possano trovare un sicuro orientamento.
Prendo l’articolo 1 che dice questa bellissima cosa: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro». È una bellissima frase; ma io che sono giurista – questa d’altronde è la mia professione ed ognuno di noi bisogna che porti qui la sua esperienza e le sue attitudini, perché è proprio da questa varietà di attitudini e di esperienze che deriva la ricchezza e la pienezza di questa Assemblea – io come giurista mi domando: quando dovrò spiegare ai miei studenti che cosa significa giuridicamente che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro, che cosa potrò dire?
Dovrò forse dire che in Italia la massima parte degli uomini continueranno a lavorare come lavorano ora, che ci saranno coloro che lavorano di più èe coloro che lavorano di meno, coloro che guadagnano di più e coloro che guadagnano di meno, coloro che non lavorano affatto e che guadagnano più di quelli che lavorano? Oppure questo articolo vorrà dire qualche cosa di nuovo, vorrà essere un avviamento che ci porti verso qualche cosa di nuovo? Mi accorgo allora che c’è un altro articolo, il 31, il quale dice che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto. Ma c’è anche un dovere del lavoro, e infatti il capoverso dice che ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività: dunque diritto di lavorare ma anche dovere di lavorare. Debbo pensare che si voglia con ciò imitare quell’articolo della costituzione russa, nel quale è scritto il principio che chi non lavora non mangia? Ma se leggo più attentamente questo capoverso dell’articolo 31, vedo che esso dice precisamente così: «ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività (e fin qui si intende che parla di lavoro) o una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta…». Dunque c’è chi svolge un’attività e c’è chi svolge una funzione. Questa funzione può essere anche una funzione spirituale; sta bene: ammetto che quella dei religiosi sia effettivamente una funzione sociale. Ma io penso a qualche altra cosa; penso agli oziosi, penso a coloro che vivono di rendita, a coloro che vivono sul lavoro altrui. Nella Repubblica italiana, dove c’è il dovere di compiere un’attività o una funzione, coloro che vivono senza lavorare o vivono alle spalle altrui, saranno ammessi come soggetti politici? Ho paura di sì: ho paura che saranno ammessi e che essi diranno che il vivere senza lavorare, il vivere di rendita, non sarà un’attività, ma è certamente una funzione. (Si ride). E siccome ognuno può dedicarsi, dice l’articolo, alla funzione che meglio corrisponde alle proprie possibilità e alla propria scelta, essi hanno preferito la funzione di non lavorare, e quindi hanno pieno diritto di cittadinanza nella Repubblica Italiana… Si noti che in quest’articolo c’è un ultimo capoverso il quale dice che «l’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici»; ora questo è un capoverso che non corrisponde a verità: quale è infatti la sanzione di questo capoverso? Per l’esercizio dei diritti politici non è detto affatto in nessun altro articolo, né in nessuna legge elettorale, che sia condizione l’esercizio di un’attività o di una funzione. Ecco intanto qui una di quelle disposizioni in cui a ben guardare si annida una… (come la devo chiamare?) sì, una bugia; perché non è vero che l’adempimento di questo dovere sia condizione per l’esercizio dei diritti politici.
Ma vi è di più. Quando si va a vedere, in materia economica, quali siano queste direttive le quali dovrebbero servire di guida e di lume per coloro che verranno dopo di noi, si incontrano numerosi articoli in cui sono commiste tendenze diverse e contradittorie.
Se uno che non avesse partecipato ai lavori di questo progetto domandasse: la Costituzione della Repubblica italiana, sotto l’aspetto sociale, quale tendenza ha? È a tendenza conservatrice o a tendenza progressiva? Individualista o socialista? La risposta non sarebbe facile.
Io leggo qui un articolo 37, che dice cose sensatissime: «Ogni attività economica privata o pubblica deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali ed al benessere collettivo». Sagge parole; ma mi domando: come questa disposizione può rappresentare, non dico un articolo di legge, ma semplicemente una indicazione di una qualsiasi tendenza politica o sociale? È una frase innocua, come se si fosse dichiarato, nello stesso articolo 37, che il sole risplende; ma non è una direttiva politica per l’avvenire.
Ci sono poi articoli come il 38, 39, 41, in cui si rintraccia alla superficie questo lavoro di compromesso, che ha portato a costruire queste formule ad intarsio in modo da dar ragione a tutte le tendenze.
Mi immagino, a proposito degli articoli 38 e 41, un dialogo fra un conservatore e un progressista: l’uno e l’altro vi troverà argomenti per sostenere che la Costituzione dà ragione a lui. Il conservatore dirà: «Vedi, la proprietà privata è riconosciuta e garantita». Il progressista risponderà: «Sì, ma i beni possono appartenere allo Stato o ad enti pubblici».
Il conservatore, o liberale che sia, dirà: «L’iniziativa economica privata è libera». Il progressista risponderà: «Sì, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». (Si ride).
E così vi è tutta una quantità di articoli che figurano di andar d’accordo, ma che in realtà si elidono; sicché sarebbe stato meglio non scriverli.
Ce ne sono poi altri anche più gravi; ed è su questo che vorrei richiamare la vostra attenzione, perché ho l’impressione che lasciarveli in quella forma screditerebbe la nostra Costituzione; mentre noi dobbiamo volere che questa Costituzione sia una Costituzione seria, e che sia presa sul serio dagli italiani.
Ora quando io leggo nel progetto un articolo come l’articolo 23 che dice in un suo capoverso: «La Repubblica assicura (dico assicura: verbo assicurare, tempo presente) alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa ed al suo sviluppo con speciale riguardo alle famiglie numerose»; quando leggo all’articolo 26 che «la Repubblica tutela la salute, promuove l’igiene e garantisce le cure gratuite agli indigenti»; quando nell’articolo 28 leggo che «la Repubblica assicura l’esercizio del diritto dell’istruzione con borse di studio, assegni alle famiglie, ed altre provvidenze, da conferirsi per concorso agli alunni di scuole statali e parificate»; quando io leggo questi articoli e penso che in Italia in questo momento, e chi saper quanti anni ancora, negli ospedali – parlo degli ospedali di Firenze – gli ammalati nelle cliniche operatorie muoiono perché mancano i mezzi per riscaldare le sale, e gli operati, guariti dal chirurgo, muoiono di polmonite; quando io penso che in Italia oggi, e chi sa per quanti anni ancora, le Università sono sull’orlo della chiusura per mancanza dei mezzi necessarî per pagare gli insegnanti, quando io penso tutto questo e penso insieme che fra due o tre mesi entrerà in vigore questa Costituzione in cui l’uomo del popolo leggerà che la Repubblica garantisce la felicità alle famiglie, che la Repubblica garantisce salute ed istruzione gratuita a tutti, e questo non è vero, e noi sappiamo che questo non potrà essere vero per molte decine di anni – allora io penso che scrivere articoli con questa forma grammaticale possa costituire, senza che noi lo vogliamo, senza che noi ce ne accorgiamo, una forma di sabotaggio della nostra Costituzione! (Approvazioni).
Guardate, una delle più gravi malattie, una delle più gravi eredità patologiche lasciate dal fascismo all’Italia è stata quella del discredito delle leggi: gli italiani hanno sempre avuto assai scarso, ma lo hanno quasi assolutamente perduto dopo il fascismo, il senso della legalità, quel senso che ogni cittadino dovrebbe avere del suo dovere morale, indipendente dalle sanzioni giuridiche, di rispettare la legge, di prenderla sul serio; e questa perdita del senso della legalità è stata determinata dalla slealtà del legislatore fascista, che faceva leggi fittizie, truccate, meramente figurative, colle quali si industriava di far apparir come vero attraverso l’autorità del legislatore ciò che in realtà tutti sapevano che non era vero e non poteva esserlo.
Vi è un esempio caratteristico nella legislazione fascista, che bisognerebbe mettere in una cornice: voi ricorderete (perché tutti abbiamo fatto questa trista esperienza) come era regolata nell’Italia fascista, quando si temeva che cominciasse la folle guerra che poi cominciò, la difesa antiaerea e la difesa antigas. Ricorderete la faccenda delle maschere antigas; se ne vedeva ogni tanto una per modello, ma in commercio non c’erano, e nessuna autorità ne aveva per distribuirle: orbene, il 27 luglio 1938 fu pubblicato in Italia un decreto che porta il numero 1429, il cui articolo primo diceva così: «Entro i limiti stabiliti dall’articolo 3 del presente decreto (notate che in Italia, lo ripeto, non esistevano maschere) la distribuzione delle maschere al personale della industria, a qualunque ramo esso appartenga, deve essere totalitaria». (Si ride).
Queste sono le leggi, onorevoli colleghi, che distruggono nei cittadini il senso della legalità. Bisogna evitare che nella nostra Costituzione ci siano articoli che abbiano questo stesso suono falso! Fra i ricordi più amari dell’altra guerra, in questa Italia, che accanto alle sue grandi virtù ha avuto sempre tra i suoi difetti quello fondamentale dello scetticismo, del cinismo, della mancanza di fede e di convinzioni profonde, rammento che una volta ero tornato in licenza a Firenze, in quel periodo in cui di mese in mese i nostri soldati riuscivano a strappare qualche centinaio di metri di quelle terre, che purtroppo ora ci sono state ritolte. Non c’erano grandi vittorie: c’era soltanto la consunzione quotidiana di quella battaglia di logoramento che durò quattro anni. Ora, tornando in licenza – io abitavo allora in una piccola strada al centro di Firenze – una sera quando stavo per andare a letto, sentii passare uno strillone che gridava l’ultima edizione di un giornale cittadino. Allora i giornalai avevano l’uso di gridare per le strade le notizie più importanti; quello nel silenzio della strada deserta gridava a voce altissima: «Terza edizione! La grande vittoria degli italiani!…»; ma poi aggiungeva, in tono più basso: «…non è vero nulla…»
Bisogna evitare che nel leggere questa nostra Costituzione gli italiani dicano anch’essi: «Non è vero nulla». (Si ride).
Per questo io ritengo che sia necessario, per debito di lealtà, che queste disposizioni che io vi ho letto, ed altre che via via potranno affiorare nel seguito della discussione, siano collocate in un preambolo, con una dichiarazione esplicita del loro carattere non attuale, ma preparatore del futuro; in modo che anche l’uomo semplice che leggerà, avverta che non si tratta di concessione di diritti attuali, che si tratta di propositi, di programmi e che bisogna tutti duramente lavorare per riuscire a far sì che questi programmi si trasformino in realtà.
Per questo, io depositerò alla fine di questo mio discorso un ordine del giorno che dice così:
«L’Assemblea Costituente, mentre ritiene opportuno che nella nuova Costituzione italiana gli articoli che riconoscono veri e propri diritti o che disciplinano organi e poteri siano preceduti da un preambolo preliminare nel quale possano essere riassunti in forma di propositi programmatici le direttive sociali e politiche alle quali dovrà ispirarsi la futura legislazione della Repubblica italiana, rimanda alla discussione degli articoli lo stabilire caso per caso quali di essi debbano essere trasferiti in una parte preliminare».
Sempre per questa esigenza di chiarezza nella Costituzione, nella quale non devono esistere sottintesi o rinvii, o riserve mentali, vi dirò ora qualche cosa sulle relazioni tra Stato e Chiesa.
PRESIDENTE. Onorevole Calamandrei, penso che lei non vorrà entrare nel merito di questa questione.
CALAMANDREI. So perfettamente quali sono i limiti di questa discussione e parlerò unicamente sotto l’aspetto del metodo, senza entrare nel merito.
Quello che dirò ora, e che specialmente colpisce la sensibilità dei colleghi ed amici della democrazia cristiana, vorrei che fosse ascoltato da loro non soltanto con sopportazione – di questo sono sicuro – ma anche, direi, con cordialità; vorrei insomma che quello che dirò non attirasse necessariamente su di me l’epiteto, grossolano, e pesante di anticlericale.
È un momento questo, in cui delle parole «clericale» e «anticlericale» si fa molesto abuso.
Se avviene che qualcuno, che ha il massimo ossequio della religione (la quale è una cosa seria, anche perché la cosa più seria della vita è la morte) ma che ha anche il massimo ossequio per la libertà, espone onestamente sul tema delle relazioni tra Stato e Chiesa, tra libertà di religione e libertà di pensiero un’opinione che non coincide colla vostra, o amici democristiani, voi non dovete perder per questo, come spesso avviene, la vostra serenità, e guastar per questo l’amicizia…
Se poi, domani, qualche resoconto di giornale che si vorrà occupare di queste modeste cose che dico, vorrà a tutti i costi dire che un deputato ha fatto una tirata anticlericale, bene! non crediate che per questo io morirò di crepacuore. (Ilarità). Ormai siamo abituati a raccogliere sulla stampa avversaria tali epiteti, che questo, di anticlericale sarebbe, in fondo, un fiorellino, una mammoletta…
Per quel che si riferisce, dunque, alle relazioni tra Stato e Chiesa, io ho l’impressione che il metodo adoperato nella formulazione dell’articolo 5 manchi di chiarezza, sia contrario a quella esigenza di chiarezza che, secondo me, è indispensabile perché possa venir fuori dai nostri lavori una Costituzione seria.
Intanto si potrebbe fare qualche osservazione, sempre di metodo, sulla prima parte dell’articolo 5, la quale dice che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Qui viene spontanea al giurista questa domanda: – Ma, insomma, in questa Costituzione chi è che parla? Chi parla in prima persona? È lo Stato italiano?
Questa Costituzione è un monologo o è un dialogo? C’è una persona sola che parla o ci sono due interlocutori? –
Si capisce che l’articolo 5 dica che lo Stato italiano – il soggetto della Costituzione – riconosce, se la vuol riconoscere, la sovranità della Chiesa nel suo ordine.
Ma non si capisce che la Chiesa riconosca la sovranità dello Stato, la quale sovranità è il presupposto di questa Costituzione: se non ci fosse la sovranità, neanche potremmo darci la Costituzione.
Il fatto che venga introdotto qui a riconoscere la sovranità dello Stato, del nostro Stato, un altro, sia pure augusto, personaggio; un altro, sia pure altissimo, ordinamento giuridico, questo per un giurista è una incongruenza.
Questo è un articolo che potrebbe andare bene in un trattato internazionale, non in una Costituzione.
Ma è principalmente contro il secondo comma che si appunta la mia osservazione:
«I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Qualsiasi modificazione dei Patti bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale».
Qui, intanto, si potrà osservare, quando si parlerà dei modi di revisione della Costituzione, che vi sarebbero in essa, se l’articolo restasse così, norme costituzionali che non potrebbero essere più modificate per volontà unilaterale dello Stato che ha fatto questa Costituzione. Vi sarebbero norme modificabili soltanto se vi sarà il consenso di quest’altro contraente che è la Chiesa; ma questa sarebbe una vera e propria rinunzia ad una parte della nostra sovranità.
Ma queste sono questioni che si tratteranno al momento opportuno. Io invece mi domando, qui, che cosa significa questa disposizione: «I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi». Sono inseriti, questi Patti Lateranensi, nella Costituzione? Vengono essi a far parte, per rinvio, della nostra Costituzione? La relazione del Presidente Ruini par che risponda di sì; essa ci dice che, in questo modo, i Patti Lateranensi diventano parti dell’ordinamento della Repubblica, che avranno una speciale posizione di natura costituzionale. Ora, io potrò anche essere d’accordo, quando si tratterà del merito, nel dire che la nostra Costituzione debba ripetere espressamente tutti gli articoli dei Patti Lateranensi; io potrò anche essere d’accordo, per ipotesi, nel lasciare che la Repubblica italiana si proclami apertamente una Repubblica confessionale: ma se questo è, bisogna dirlo chiaramente; questa esigenza di chiarezza impone che non si facciano cose di tanta importanza alla chetichella con un rinvio sibillino, che sarà letto senza intenderne la portata dall’uomo che non si intende di leggi, il quale ignora quale sia con precisione il contenuto di questi patti sottintesi e non sa che molte norme di questi Patti Lateranensi sono in contrasto con altre norme apertamente scritte in questa Costituzione. Un giornale di New York, il New York Times, secondo un comunicato dell’Associated Press (non so se la notizia sia vera) riferiva che il 21 gennaio 1947, mentre il Presidente De Gasperi era in America, i delegati di 25 gruppi religiosi protestanti, rappresentanti di 27 milioni di credenti, andarono a domandargli se fosse vero che il testo dei Patti Lateranensi sarebbe stato inserito nella Costituzione, e il Presidente De Gasperi avrebbe risposto che non credeva che i Patti Lateranensi vi sarebbero stati inseriti. Diceva la verità, perché i Patti Lateranensi non vi sono stati inseriti in maniera espressa; vi sono stati soltanto richiamati per implicito. Ma, attraverso questo richiamo, attraverso questo rinvio, attraverso questo assorbimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione, che lo stesso Presidente Ruini ha ammesso, si arriverà a questa conseguenza: che per potere intendere quale sarà la vera portata della nostra Costituzione bisognerà che il lettore avvertito vi inserisca al punto giusto, come se fossero scritte nella Costituzione stessa, molte disposizioni prese dal Trattato o dal Concordato. Non saranno scritte sulle righe, ma fra le righe; e bisognerà leggerle, diciamo così, per trasparenza. E allora, ad esempio, prendiamo l’articolo 5: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani»: qui, per trasparenza, bisogna aggiungere l’articolo 1° del Trattato, il quale dice: «L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1° dello Statuto del Regno 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato». Questo articolo sarà trasfuso per rinvio nella nostra Costituzione. Sarà bene, sarà male? Io magari, sempre per ipotesi, sarò d’accordo con voi nel dire che sarà bene; ma occorre parlarci chiaro, questo articolo ci sarà.
E poi: «I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza e lingua (questo dice l’articolo 7 del progetto di Costituzione) di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche, sono eguali di fronte alla legge». Ma qui bisognerà aggiungere nel capoverso, per trasparenza, l’articolo 5 del Concordato: «In ogni caso i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potranno essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio od in un impiego, nei quali siano a contatto immediato col pubblico».
E poi c’è l’articolo 27 della Costituzione, il quale dice: «L’arte e la scienza sono libere; e libero è il loro insegnamento». Ma c’è, in trasparenza, l’articolo 36 del Concordato, il quale dice: «L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana, secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica».
E poi c’è l’articolo 94 della Costituzione, il quale dice che «la funzione giurisdizionale, espressione della sovranità della Repubblica, è esercitata in nome del popolo». Ma c’è, per trasparenza, l’articolo 34 del Concordato, il quale dice invece che «le cause concernenti la nullità del matrimonio e la dispensa dal matrimonio rato e non consumato sono riservate alla competenza dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici».
Tutto questo – voglio tenermi nei limiti di questa discussione – sarà bene o sarà male? Quando ne riparleremo, si vedrà. Ma ora, sotto l’aspetto del metodo, io dico che non è in questo modo che si fa una Costituzione chiara. Bisogna intenderci lealmente, mettere sul tavolino le nostre divergenze, non giuocare a mosca cieca.
Ma qui io sento suggerimenti provenienti specialmente di là (accenna a sinistra), che mi dicono: «Ma questo non è un discorso politico; questo è un discorso ingenuo: chiarezza e politica non vanno d’accordo. Anche Napoleone diceva che le Costituzioni è bene siano brevi ed oscure».
Sì, in verità la nostra, molto breve non è; ma in quanto ad oscura, riesce ad esserlo in più di un punto! (Ilarità).
Questi stessi amici aggiungono: «Anche la Costituzione è il risultato di un compromesso politico. La politica è l’arte dei compromessi, delle transazioni. Per ora, formule elastiche: e poi si vedrà chi tirerà di più».
Ora io devo prima di tutto riconoscere (già me l’hanno osservato varie volte gli amici comunisti) che io non sono un politico. A me piace di dire le cose chiare. Questo può essere contrario alla politica, ma d’altra parte ognuno porta il contributo che può in queste discussioni. Io mi permetterei però di domandare a questi amici che mi danno siffatti suggerimenti: «Credete, voi che vi intendete di politica, che sia proprio una buona politica quella consistente, quando si discute una Costituzione, nel presupporre sempre che in avvenire il proprio partito avrà la maggioranza, e nel disinteressarsi, in tale presupposto, della precisione e della chiarezza tecnica dei congegni costituzionali? Voi mi dite che l’essenziale è che vi siano nella costituzione i congegni per far prevalere sempre la volontà del popolo: ma siete proprio sicuri che il popolo, ossia gli elettori, daranno la maggioranza a voi, e che quindi, poiché voi avrete la maggioranza, la Costituzione sarà sempre interpretata a modo vostro?»
Contro questo stato d’animo, che chiamerei calcolo o spirito di maggioranza, io mi sono trovato in amichevoli contrasti in diverse occasioni durante la discussione del progetto, tutte le volte che è venuta in questione l’opportunità di inserire nella Costituzione, come freno e controllo degli organi legislativi, che sono espressione politica della sovranità del popolo, organi imparziali di garanzia, che non derivino immediatamente i loro poteri da una diretta elezione popolare.
L’amico Laconi sorride, forse perché ricorda anche lui le nostre discussioni in tema di giurisdizioni speciali, e sul modo di nomina dei consiglieri di Stato, o dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura o della Corte Costituzionale. Nel discutere di questi argomenti io ho sempre sostenuto che, per preparare il testo di una nuova costituzione democratica sia più opportuno e più prudente muovere dal punto di vista della minoranza (non mi è difficile, dato il partito al quale appartengo!), di quella che potrà essere domani la minoranza, in modo che le garanzie costituzionali siano soprattutto studiate per difendere domani i diritti di questa minoranza. Il carattere essenziale della democrazia consiste non solo nel permettere che prevalga e si trasformi in legge la volontà della maggioranza, ma anche nel difendere i diritti delle minoranze, cioè dell’opposizione che si prepara a diventare legalmente la maggioranza di domani.
Ma queste, mi è stato detto, sono astrattezze da giuristi; e questo voler introdurre negli organi di controllo e di garanzia elementi tecnici invece che politici, è contrario ad una costituzione democratica in cui la politica deve penetrare tutti i congegni. Non sono di questa opinione: io ritengo invece, e avrò occasione di tornar su questo argomento nella discussione speciale, che proprio la salvaguardia di certi diritti contro le inframmettenze politiche sia uno dei requisiti fondamentali di un ordinamento democratico: e che sia quindi necessario in chi prepara questo ordinamento uno spirito, direi, di umiltà minoritaria.
Lo stesso spirito credo che debba esser portato nell’esaminare il problema dell’autogoverno della Magistratura. Io sono stato uno dei sostenitori di questo autogoverno, che il progetto ha accolto soltanto in parte. Il Consiglio Superiore della Magistratura, che secondo il progetto proposto da me, avrebbe dovuto esser composto unicamente da magistrati eletti dalla stessa Magistratura, sarà invece composto, per metà, di elementi politici eletti dagli organi legislativi.
In realtà chi ha impedito all’autogoverno della Magistratura di affermarsi in pieno nel nostro progetto, non sono stati tanto gli argomenti dei colleghi sostenitori della opinione contraria, quanto è stato Sua Eccellenza il Procuratore Generale Pilotti, che proprio nei giorni in cui si stava discutendo nella seconda Sottocommissione il problema dell’autogoverno della Magistratura, ed io mi trovavo a dover sostener la mia tesi contro la tesi contraria, ha fornito agli oppositori un argomento lì per lì inconfutabile. A un certo momento, infatti, essi mi hanno obiettato: «Tu vuoi dare l’autogoverno alla Magistratura? eccoti qui, coll’esempio, quello che accadrebbe: eccoti l’istruttivo episodio avvenuto in questi giorni all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione…» Ed io non ho saputo che cosa rispondere: perché veramente si è trattato di un caso assai grave, intorno al quale questa Assemblea ancora non sa quali provvedimenti il Governo abbia preso e non riesce a convincersi che il Governo possa ancora rimanere in silenzio. In verità, l’atteggiamento del Procuratore Generale Pilotti, offensivo per la Repubblica e per il suo Capo, non è stato una distrazione o una svista, derivante da un momentaneo disorientamento, come quello da cui fu preso, molti anni fa, quel Presidente di Corte di appello, che nell’inaugurazione dell’anno giudiziario si confuse, e dichiarò aperto l’anno giudiziario «in nome di Sua maestà il re Vittorio Emanuele re d’Italia e imperatore delle Indie». (Ilarità). Quello fu un lapsus.
Ma il caso del Procuratore generale Pilotti non è stato un lapsus. Il Pilotti è un magistrato eminente ed assai colto, un letterato, un umanista; ma soprattutto è un uomo abituato alla vita di società, alla diplomazia, al cerimoniale, al galateo. Per aver mancato così apertamente alla buona creanza, egli ha dovuto farlo deliberatamente: nel suo caso la indipendenza alla Magistratura non ha nulla a che vedere, perché essa viene in giuoco quando il magistrato giudica, e non quando nelle relazioni sociali si comporta come un maleducato. (Applausi).
Il caso è grave, ma in sostanza, non deve troppo essere sopravalutato. Lo sgarbo del Procuratore Generale Pilotti è stato fatto non al Presidente della Repubblica, ma proprio alla Magistratura: e la Magistratura deve ringraziar proprio lui, il Procuratore Generale Pilotti, della ostilità con cui è stata accolta nel progetto della Costituzione l’idea dell’autogoverno: proprio lui, col suo gesto, è riuscito a impedire che la Magistratura possa aver fin da ora quella assoluta indipendenza di cui la grandissima maggioranza dei magistrati, esclusi alcuni pochi Pilotti, sono degni.
Ma lasciamo andare il caso Pilotti e ritorniamo al nostro discorso. Secondo me è un errore formulare gli articoli della Costituzione collo sguardo fisso agli eventi vicini, agli eventi appassionanti, alle amarezze, agli urti, alle preoccupazioni elettorali dell’immediato avvenire in mezzo alle quali molti dei componenti di questa Assemblea già vivono. La Costituzione deve essere presbite, deve vedere lontano, non essere miope. Il caso del magistrato Pilotti, anche se il Governo lo lasciasse ancora al posto che egli occupa, tra qualche diecina d’anni (pigliamola lunga, per augurargli lunga vita) sarà liquidato e dimenticato; ma tra qualche diecina d’anni vi sarà ancora la Magistratura, degna dell’Italia rinnovata e degna di quel pieno autogoverno, senza il quale essa non può garantire con imparzialità la vita di una vera democrazia.
Cerchiamo dunque di esaminare i problemi costituzionali con spirito lungimirante: quel senso storico di cui parlano spesso gli amici comunisti, che tanto hanno imparato da Benedetto Croce (si ride), non si deve trasformare in un gretto compromesso di partito, che restringa il nostro campo visivo alle previsioni elettorali dell’immediato domani.
Questo spirito di compromesso, che spesso ha portato i preparatori del progetto a girare i problemi piuttosto che affrontarli, ha d’altra parte dato a molti istituti della nostra Costituzione un certo carattere di approssimazione e di genericità. Su molti problemi vivi, dei quali pareva che si dovesse trovare nella Costituzione una chiara soluzione, si è preferito di chiuder gli occhi. Enumero rapidissimamente alcuni di questi problemi.
C’è quello dei decreti di urgenza. Se ho visto bene, dei decreti di urgenza non vi è accenno nella Costituzione. Il fatto che se ne sia taciuto richiama il ricordo di quelle madri ottocentesche che facevano uscire i figliuoli dal salotto quando la conversazione minacciava di cadere su certi argomenti scabrosi. Nella Costituzione non si deve parlare dei decreti-legge perché questo è un argomento pericoloso. Ma, insomma, potrà avvenire che si verifichi la necessità e l’urgenza, di fronte alla quale il normale procedimento legislativo non sarà sufficiente: il terremoto, l’eruzione di un vulcano. Credete che si possa mettere nella Costituzione un articolo il quale dica che sono vietati i terremoti? Se non si può mettere un articolo di questa natura, bisognerà pure prevedere la possibilità di questi cataclismi e disporre una forma di legislazione di urgenza, che è più provvido disciplinare e limitare piuttosto che ignorarla.
Secondo: il funzionamento dei Ministeri. Recentemente è stata fatta da una rivista una inchiesta, rivolta a vari ex ministri su questo quesito: «Perché i Ministeri non funzionano?». Gli ex ministri sanno i varî perché: ed hanno dato diverse spiegazioni e suggerimenti per cambiare la struttura e l’ordinamento di questi ordigni di Governo, costruiti per servire all’amministrazione degli Stati quali erano cento o centocinquanta anni fa, ma che non possono più rispondere alle moltiplicate esigenze di Stati tanto più complessi e macchinosi, come sono quelli di oggi. Orbene, nella Costituzione il problema di dare una struttura nuova, di snellire, di semplificare il funzionamento dei Ministeri non è stato neanche visto: di esso non è stata fatta neanche una parola.
Terzo: il problema del tripartitismo e dei governi di coalizione. Se dovrà continuare un pezzo, come mi pare di aver sentito dire dall’onorevole Togliatti, il sistema del tripartitismo, credete voi che si possa continuare a governare l’Italia con una struttura di governo parlamentare, come sarà quella proposta dal progetto di costituzione? Il Governo parlamentare come è stato accolto nel progetto, è un vecchio sistema che ha avuto sempre, come presupposto, resistenza di una maggioranza omogenea o la possibilità di formarla, la quale possa costituire il fondamento di un gabinetto, che possa governare stabilmente. Ma se invece si suppone che, per molti anni, forse per decennî non vi potrà essere un partito che riesca a conquistare la maggioranza da ée solo e che per un pezzo si dovrà andare avanti con governi di coalizione, allora bisognerà cercare strumenti costituzionali i quali corrispondano a questo diverso presupposto che è, in luogo della maggioranza, la coalizione. Per questo noi avevamo sostenuto durante la discussione alla Seconda Sottocommissione (in verità però senza insistervi molto, perché ci trovammo subito isolati), qualche cosa che somigliasse ad una repubblica presidenziale o per lo meno a un governo presidenziale, in cui si riuscisse, con appositi espedienti costituzionali, a rendere più stabili e più durature le coalizioni, fondandole sull’approvazione di un programma particolareggiato sul quale possano lealmente accordarsi in anticipo i vari partiti coalizzati. Ma di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del Governo, nel progetto non c’è quasi nulla.
E infine c’è il problema dei partiti, del quale già vi ha parlato il collega Bozzi. Ricordo che nel grande discorso di chiusura della Consulta fatto da Vittorio Emanuele Orlando, non mancò un acutissimo accenno a questo fondamentale carattere delle società contemporanee che è il passaggio di gran parte della vita politica nei partiti ed il loro inserirsi nella vita costituzionale: quando si uscì da quella memorabile seduta, eravamo tutti pieni di ammirazione per il grande maestro, che con sensibilità giovanile aveva subito colto quella che è la novità più profonda della situazione costituzionale italiana: i partiti. Avrebbe dovuto esser vanto della nuova Costituzione italiana riuscire ad inquadrar questa realtà nei congegni giuridici: i partiti, in realtà, come voi sapete, sono le fucine in cui si forma l’opinione politica, e in cui si elaborano le leggi: i programmi dei partiti sono già progetti di legge. I partiti hanno cambiato profondamente la natura degli istituti parlamentari. Vedete: qui, mentre io vi parlo (e vi ringrazio della indulgenza con cui mi ascoltate), so benissimo che anche se arrivassi a convincervi cogli argomenti che vi espongo, essi non varranno, se non corrispondono alle istruzioni del vostro partito, a far sì che, quando si tratterà di votare, voi, pure avendomi benevolmente ascoltato, possiate votare con me. E allora io mi domando: se le discussioni si fanno nell’intento di persuadersi, a che giova continuare qui a perdere il tempo nel parlare e nell’ascoltare, quando le persone qui riunite sono già persuase in anticipo su tutti i punti? Questa è la conseguenza dell’esistenza dei partiti: dei quali non si può dire se sia bene o male che ci siano; ci sono, e questa è la realtà. E allora si sarebbe desiderato che nella nostra Costituzione si fosse cercato di disciplinarli, di regolare la loro vita interna, ai dare ad essi precise funzioni costituzionali. Voi capite che una democrazia non può esser tale se non sono democratici anche i partiti in cui si formano i programmi e in cui si scelgono gli uomini che poi vengono esteriormente eletti coi sistemi democratici.
L’organizzazione democratica dei partiti è un presupposto indispensabile perché si abbia anche fuori di essi vera democrazia. Se è così, non basta dire, come è detto nella Costituzione all’articolo 47, che «tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Non basta. Che cosa vuol dire, infatti, metodo democratico? Quali sono i partiti che rispondono alle esigenze del metodo democratico, e quindi sono degni di esser riconosciuti in un ordinamento democratico?
Era stato suggerito che nel nostro ordinamento la Suprema Corte costituzionale avesse fra gli altri compiti anche il controllo, sui partiti: che essa avesse il potere di giudicare se una associazione a fini politici abbia quei caratteri di metodo democratico alla cui osservanza sembra che la formula dell’articolo 47 voglia condizionare il riconoscimento dei partiti. Ma se non la Corte costituzionale a dar tale giudizio, chi lo darà?
Una voce a sinistra. Pilotti.
CALAMANDREI. Sì, Pilotti; se non vi sarà un altro organo più sereno, fornito di quella sensibilità e di quelle garanzie che Pilotti ha dimostrato di non avere.
C’è nelle disposizioni transitorie, del progetto, un articolo che proibisce «la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del partito fascista».
Non so perché questa disposizione sia stata messa fra le transitorie: evidentemente può essere transitorio il nome «fascismo», ma voi capite che non si troveranno certamente partiti che siano così ingenui da adottare di nuovo pubblicamente il nome fascista per farsi sciogliere dalla polizia. Se questa disposizione deve avere un significato, essa deve esser collocata non tra le disposizioni transitorie, e non deve limitarsi a proibire un nome, ma deve definire che cosa c’è sotto quel nome, quali sono i caratteri che un partito deve avere per non cadere sotto quella denominazione e per corrispondere invece ai requisiti che i partiti devono avere in una Costituzione democratica. Sarà la organizzazione militare o paramilitare; sarà il programma di violenze contrario ai diritti di libertà; sarà il totalitarismo e la negazione dei diritti delle minoranze: questi od altri saranno i caratteri che la nostra Costituzione deve bandire dai partiti, se veramente vuol bandire il fascismo. E per controllare la giusta repressione di questi caratteri, bisognerà creare un organo apposito, fornito di adeguate garanzie giuridiche e politiche; in mancanza di che accadrà che il partito fascista, di fatto se non di nome, sarà vietato o permesso secondo quel che parrà alle autorità politiche locali, sotto l’influsso delle correnti prevalenti; e magari si troveranno autorità politiche che si varranno dell’articolo 47 per impedire la vita di un partito in sé sinceramente democratico. Allora contro il provvedimento il partito ingiustamente soppresso ricorrerà al Consiglio di Stato; ma il Consiglio di Stato vi dirà che questo è un atto compiuto nello esercizio di un potere politico che si sottrae al suo controllo. Quando invece si avesse una sezione della Corte costituzionale per verificare quali sono i partiti che corrispondono, per la loro organizzazione e per i loro metodi, alla definizione data dalla Costituzione, vi sarebbero garanzie molto più sicure per poter impedire ai partiti antidemocratici di risorgere ed ai partiti democratici di non essere soppressi e perseguitati da soprusi ed arbitrî di polizia.
Un’ultima osservazione, e avrò finalmente terminato. Onorevoli colleghi, c’è nella Costituzione un articolo 131 che dice: «La forma repubblicana è definitiva per l’Italia e non può essere oggetto di revisione costituzionale».
Voi sapete che il progetto ha adottato il sistema della Costituzione rigida, cioè della Costituzione che non potrà essere variata se non attraverso speciali procedimenti legislativi, più complicati e più meditati di quelli proprî della legislazione ordinaria: in modo che le leggi si potranno distinguere d’ora in avanti in leggi ordinarie, cioè in leggi che si possono abrogare e modificare con un’altra legge ordinaria, ed in leggi costituzionali, che sono leggi per così dire più resistenti, leggi modificabili soltanto cogli speciali procedimenti di revisione stabiliti dalla Costituzione. Ma con questo articolo 131 par che si introduca una terza categoria di leggi: quelle che non si potranno giuridicamente modificare nemmeno attraverso i metodi più complicati che la Costituzione stessa stabilisce per la revisione.
Dunque, la forma repubblicana non si potrà cambiare: è eterna, è immutabile. Che cosa vuol dire questa che può parere una ingenuità illuministica in urto colle incognite della storia futura? Vuol dire semplicemente questo: che, se domani l’Assemblea nazionale nella sua maggioranza, magari nella sua unanimità, abolisse la forma repubblicana, la Costituzione non sarebbe semplicemente modificata, ma sarebbe distrutta; si ritornerebbe, cioè, allo stato di fatto, allo stato meramente politico in cui le forze politiche sarebbero di nuovo in libertà senza avere più nessuna costrizione di carattere legalitario, e in cui quindi i cittadini, anche se ridotti ad una esigua minoranza di ribelli alle deliberazioni quasi unanimi della Assemblea nazionale, potrebbero valersi di quel diritto di resistenza che l’articolo 30 del progetto riconosce come arma estrema contro le infrazioni alla Costituzione. Senonché io mi domando, e con questa domanda termino questo mio lungo discorso: se si è adottato questo sistema per le norme che riguardano la forma repubblicana, dichiarando queste norme immutabili, non credete che questo sistema si sarebbe dovuto adoperare a fortiori per quelle norme che consacrano i diritti di libertà? Era tradizionale nelle Costituzioni nate alla fine del secolo XVIII che i diritti di libertà, i diritti dell’uomo e del cittadino, venissero affermati come una realtà preesistente alla stessa Costituzione, come esigenze basate sul diritto naturale; diritti, cioè, che nemmeno la Costituzione poteva negare, diritti che nessuna volontà umana, neanche la maggioranza e neanche l’unanimità dei consociati poteva sopprimere, perché si ritenevano derivanti da una ragione profonda che è inerente alla natura spirituale dell’uomo.
Ora, se la nostra Costituzione ha adottato questa misura di immutabilità per la forma repubblicana, credo che dovrà adottare questa stessa misura (e mi riservo a suo tempo di fare proposte in questo senso) anche per le norme relative ai diritti di libertà.
Ho finito così, onorevoli colleghi, le mie osservazioni di carattere generale sulla nuova Costituzione. Vi ringrazio di avermi ascoltato con tanta benevolenza e così a lungo.
Vedete, colleghi, bisogna cercare di considerare questo nostro lavoro non come un lavoro di ordinaria amministrazione, come un lavoro provvisorio del quale ci si possa sbrigare alla meglio. Qui c’è l’impegno di tutto un popolo. Questo è veramente un momento solenne. Sento un certo ritegno, un certo pudore a pronunziare queste grandi parole: si fa presto a scivolare nella retorica. Eppure qui veramente c’è nelle cose questa solennità, e non si può non sentirla; questa solennità che non è fatta di frasi adorne, ma di semplicità, di serietà e di lealtà: soprattutto di lealtà.
Questo che noi facciamo è il lavoro che un popolo di lavoratori ci ha affidato, e bisogna sforzarci di portarlo a compimento meglio che si può, lealmente e seriamente. Non bisogna dire, come da qualcuno ho udito anche qui, che questa è una Costituzione provvisoria che durerà poco e che, di qui a poco, si dovrà rifare. No: questa dev’essere una Costituzione destinata a durare.
Dobbiamo volere che duri; metterci dentro la nostra volontà. In questa democrazia nascente dobbiamo crederci, e salvarla così con la nostra fede e non disperderla in schermaglie di politica spicciola e avvelenata.
Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest’aula, in cui una sciagurata voce irrise e vilipese venticinque anni fa le istituzioni parlamentari, è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l’esilio e la morte.
Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna-Maria Enriquez e di Tina Lorenzoni, nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità.
Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellale il dolore.
Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti.
Non dobbiamo tradirli. (Vivissimi, generali applausi – Moltissime congratulazioni).
PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 15.30.
La seduta termina alle 19.50.
Ordine del giorno per la seduta di domani.
Alle ore 15.30:
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
ERRATA CORRIGE
Nel resoconto della seduta di venerdì 7 febbraio 1947 a pagina 1094, seconda colonna, riga 43, invece di «sulla decisione di rinvio» leggasi «sulla opportunità del rinvio».