ASSEMBLEA COSTITUENTE
LII.
SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 6 MARZO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Verifica di poteri:
Presidente
Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana:
Basso
Cevolotto
Rubilli
Saragat
La seduta comincia alle 16.
AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.
(È approvato).
Verifica di poteri.
PRESIDENTE. La giunta delle elezioni, nella riunione odierna ha verificato non essere contestabili le elezioni dei deputati: Danilo Paris per la Circoscrizione di Trento (VIII), Dante Veroni e Bruno Bernabei per la Circoscrizione di Roma (XX), e, concorrendo negli eletti i requisiti previsti dalla legge elettorale, ne ha dichiarata valida la elezione.
Do atto alla Giunta di questa sua comunicazione e, salvo i casi di incompatibilità preesistenti e non conosciuti sino a questo momento, dichiaro convalidate queste elezioni.
La stessa Giunta delle elezioni, in seguito alla morte dell’onorevole Antonino D’Agata, deputato per la Circoscrizione di Catania (XXIX), ha deliberato di proporre, a termini dell’articolo 64 della vigente legge elettorale, la proclamazione del candidato Umberto Fiore, che nella stessa lista risulta primo dei non eletti nella Circoscrizione medesima.
Do atto alla Giunta di questa sua comunicazione e metto ai voti tale proclamazione.
(È approvata)
Avverto che da oggi decorre il termine di venti giorni per la presentazione di eventuali proteste o reclami.
Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana. È iscritto a parlare l’onorevole Basso. Ne ha facoltà.
BASSO. Onorevoli colleghi, è difficile intervenire in questo dibattito senza toccare punti già discussi dai colleghi che mi hanno preceduto. Anche io, per esporre il punto di vista del Partito socialista, incomincerò dove ha incominciato ieri il collega Laconi. Si è da più parti mossa a questo progetto di Costituzione la critica che esso rappresenti il frutto di un compromesso; si è parlato, da qualche parte, riguardo a questo progetto, che esso contenga in sé l’equivoco del tripartito. Se con questo si vuol dire che il progetto di Costituzione è il frutto di uno sforzo di diversi partiti per trovare un’espressione concorde che rappresenti l’espressione della volontà della grande maggioranza degli italiani, questo non è un difetto. Noi non abbiamo mai pensato che si potesse portare a questa Assemblea una Costituzione socialista, non abbiamo mai pensato che si potesse portare a questa Assemblea una Costituzione che fosse il frutto di punti di vista particolari. Sarebbe una posizione facile, declamatoria, demagogica; non sarebbe una posizione socialista. E questo proprio perché noi siamo socialisti e come tali, abbiamo vivo il senso della storia.
Non abbiamo appreso, onorevole Calamandrei, il nostro storicismo da Benedetto Croce;
lo abbiamo appreso da coloro che sono stati maestri vicini e lontani di Benedetto Croce: da Carlo Marx e da Antonio Labriola. Ed appunto perché abbiamo appreso questo senso storico, noi diciamo che la Costituzione non può rispondere ad un modello, non è mai una cosa perfetta, non è un archetipo, ma è una traduzione di realtà sociali, è il frutto dell’incontro di diverse correnti, rappresenta il punto di equilibrio delle forze sociali che sono in atto in un determinato momento.
La Costituzione non ha il compito di trasformare la società o di creare qualcosa di nuovo; la Costituzione è il frutto di precedenti trasformazioni, è il riflesso delle trasformazioni che sono in atto; ed è la porta aperta verso trasformazioni che verranno. In questo senso noi voteremo in questa Costituzione degli articoli che certamente non corrispondono alle vecchie tradizioni del Partito ed altri che contraddicono a quelle che sono le nostre aspirazioni lontane; ma voteremo degli articoli che siano l’espressione della complessa realtà oggi in atto e li voteremo con perfetta lealtà. Voteremo gli articoli in cui si accetta la proprietà privata, in cui si dice che è assicurata l’iniziativa privata, perché sappiamo che nella società di oggi questi articoli esprimono la concreta realtà e voteremo in perfetta lealtà e in perfetta coscienza l’affermazione che i rapporti tra la Chiesa e lo Stato devono essere regolati su basi concordatarie, perché questa è una situazione storica che noi accettiamo lealmente, perché lealmente noi vogliamo conservare all’Italia la pace religiosa. Non vi è quindi in noi quel contrasto che vedeva l’onorevole Calamandrei, quando diceva che vi sono articoli che contengono affermazioni contradittorie, che possono sodisfare l’una il socialista, l’altra l’individualista.
È l’espressione di una complessa e multiforme realtà che noi vogliamo interpretare e che interpretiamo votando tranquillamente questi articoli. Quello che desideriamo, però, è che lo stesso avvenga da altre parti, cioè che non si voglia qui approfittare di maggioranze magari esigue, magari effimere, magari forse non più corrispondenti alla realtà politica di oggi, per consacrare in questa Carta costituzionale dei principî che non riflettono la coscienza collettiva e farne le linee maestre della Costituzione. Noi ci opporremo a che questa Costituzione possa comunque apparire una Costituzione di parte, e ci opporremo anche se si volesse intendere questa Costituzione come un freno al realizzarsi di ulteriori trasformazioni sociali.
Ogni Costituzione è un limite che la sovranità popolare dà a se stessa e noi accettiamo questo limite, noi accettiamo questa legalità in cui la Costituzione ci pone, ma vogliamo che questi limiti che si pongono alla sovranità popolare non siano delle barriere per il futuro, perché non intendiamo che si possa approfittare di questa Costituzione per garantire il permanere di posizioni di privilegio o di condizioni particolari che riteniamo destinate ad essere superate.
In questo senso mi associo, senza ripeterlo, a ciò che diceva ieri il collega Laconi circa, tutto l’apparato di pesi, di contrappesi, di precauzioni e di intralci che la Costituzione nella seconda parte pone ad un normale sviluppo legislativo e a un normale affermarsi della sovranità popolare, col proposito confessato ieri dall’onorevole Tupini di rallentare il moto e il progresso della democrazia repubblicana.
Costituzione, quindi, aperta verso tutte le trasformazioni democratiche future, e Costituzione che sia riflesso delle trasformazioni già avvenute o in atto, ed espressione della coscienza popolare collettiva: ecco la Costituzione che noi vogliamo.
Orbene io credo di non poter essere contraddetto se affermo che, nelle circostanze presenti, all’indomani del fascismo e della guerra mondiale, quello che la coscienza popolare collettiva in Italia e fuori d’Italia chiede è essenzialmente la difesa di due principî: da un lato la difesa della persona umana che regimi tirannici hanno avvilito e sacrificato; dall’altra la coscienza, specialmente dopo il fallimento delle vecchie democrazie prefasciste, che questa dignità umana, questa persona umana, questi diritti di libertà, non si difendono soltanto con gli articoli di una legge scritta sulla carta, ma traducendo in realtà effettiva gli articoli della legge, cioè sostituendo ad una democrazia puramente formale una democrazia sostanziale, rendendo effettivi i principî di libertà che da secoli sono sanciti nelle carte costituzionali. Sono due aspirazioni di libertà e giustizia sociale, che in realtà sono due momenti inscindibili della stessa aspirazione umana, anche se talvolta ama qualcuno distinguerli e contrapporli. Sono questi due principî che devono essere sanciti dalla nostra Carta costituzionale.
Da Dunkerque a Stalingrado milioni di uomini sono caduti per questi ideali; per questi ideali i migliori figli del nostro popolo hanno offerto volontariamente la vita sulle nostre montagne, e non ne è ancora spento il ricordo nella nostra mente, e non sono ancora chiuse le ferite nel nostro cuore.
È la voce che si leva da questi milioni di tombe sparse per tutta l’Europa, la voce che si leva dai popoli doloranti dell’Europa, che ancora non hanno ricostruito le loro rovine e ancora non hanno asciugato le loro lacrime; la voce che si leva dalla terra stessa, ancora sconvolta e ferita, ma già anelante a rinascere al soffio di una nuova primavera; è la voce che ci ammonisce che nulla vi è in questa terra di più sacro all’uomo che l’uomo stesso, immagine di Dio per i credenti, termine ultimo dell’evoluzione per i non credenti. È la voce che ci ammonisce che val meglio perdere la propria vita che avvilirla; è la voce che ci ammonisce che val meglio sacrificare milioni di vite piuttosto che consentire ad un popolo di perdere il senso e la coscienza della libertà.
Ebbene, questa voce è stata, sì, presente ai nostri colleghi della Commissione per la Costituzione, e non starò qui a citare i molti articoli già citati dall’onorevole Tupini e dall’onorevole Laconi, che consacrano questa profonda aspirazione; ma, mancherei al mio dovere se non dicessi qui senza reticenze, senza preoccupazioni, che vi è nella nostra Carta costituzionale qualcosa che la nostra coscienza di libertà non può ammettere.
Io credo che fra tutti gli articoli del trattato di pace di cui abbiamo riconosciuto il diritto di revisione, uno ve n’è la cui revisione nessuno vorrebbe chiedere ed è l’articolo 15 che dice: «L’Italia prenderà tutte le misure necessarie per assicurare a tutte le persone senza distinzione di razza, di sesso, di lingua e di religione il godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, compresa la libertà della espressione di pensiero e la libertà di stampa».
Ed è stato davvero doloroso per me, poche settimane fa, quasi alla vigilia della partenza della nostra missione che andava a Londra a negoziare accordi economici, leggere sulle colonne del grave «Times», la deplorazione che la Costituente italiana si apprestasse a votare una Costituzione in cui l’articolo 15 del trattato di pace è violato, perché è violato il principio fondamentale della libertà di religione.
Mi riferisco, onorevoli colleghi, all’articolo che, inserendo nella nostra Costituzione i Patti Lateranensi, inserisce perciò stesso nella nostra Costituzione l’articolo 5 del Concordato. Io non posso non ripetere qui le cose che già dissi nella prima Sottocommissione, che dissi nella Commissione dei settantacinque e ripetei sulle colonne del giornale del mio Partito. Le dico con la stessa lealtà, con cui ho detto in principio: «Noi siamo fermamente decisi, ad accettare il principio concordatario e ad adoperarci per il mantenimento della pace religiosa». Ma con la stessa fermezza e con la stessa lealtà, senza preoccupazioni elettoralistiche, devo dichiarare che includere nella Costituzione l’articolo 5 del Concordato rappresenta per la nostra coscienza civile una grave offesa al principio di libertà.
Non mi si dica, come ha affermato l’onorevole Tupini ieri, che la Chiesa cattolica, nella sua sconfinata saggezza, correggerà anche questi errori. Noi siamo chiamati oggi a votare questa Costituzione in cui si vuole inserire questo Concordato e questo articolo 5; e noi siamo chiamati a dare il nostro voto a quell’articolo che ha permesso, che ha servito a far tacere nell’Ateneo romano la libera voce di Ernesto Buonaiuti.
Io credo che noi verremmo meno ai nostri doveri di garanti di una nuova vita democratica se accettassimo anche indirettamente, anche per richiamo che nella nostra Costituzione entrasse questo principio.
A parte questo, io credo che il progetto abbia veramente tenuto conto di queste fondamentali esigenze di libertà; ma ne ha tenuto conto – secondo noi – in un modo e in una forma che non rispondono più oggi alla nostra condizione storica. Si sente negli articoli del progetto che esso si inspira ancora, per quanto attiene a questa parte delle libertà individuali, ad un concetto vorrei dire illuministico, al vecchio concetto individualistico del Settecento da cui nacquero le Carte dei diritti dell’uomo. La stessa intitolazione della prima parte: «Diritti e doveri dei cittadini», non è che una giustapposizione del principio illuministico del Settecento e del mazzinianismo dell’Ottocento, ma non credo che risponda ad una moderna ed organica visione dei problemi sociali, non credo che noi ci possiamo ancora oggi inserire in questa concezione individualistica, per cui lo Stato, come qualche cosa di estraneo, si contrappone ai cittadini considerati ciascuno come individui isolati, come individui chiusi in se stessi, tutti uguali e perfetti, che ricordano, secondo la felice espressione di Benedetto Croce, tante uguali fredde e lisce palle di ghiaccio.
Non è questa evidentemente la nostra concezione della società; concezione che si spiega in riferimento all’ambiente storico dove è nata, ma che oggi non risponde più alla complessa vita sociale del nostro tempo. Di là dall’individualismo del Settecento, di là da questa concezione un po’ gretta, un po’ chiusa, un po’ egoistica, che un filosofo tedesco, uno studioso proprio dello spirito borghese, il Tillich, chiamava «finita in sé conchiusa e sodisfatta», di là da quelle vecchie concezioni è nata una nuova coscienza, è nata una nuova esperienza, è nata una nuova concezione della vita del mondo ed è nata dalla esperienza di vita della classe operaia.
L’operaio che vive oggi nella grande fabbrica, l’operaio che vive oggi nella disciplina della divisione del lavoro, l’operaio che fa continuamente la stessa vite, lo stesso dado, la stessa molla, sa che la sua vita, sa che il suo dado, sa che la sua molla non hanno alcun senso, presi in se stessi; ma che fanno parte del lavoro collettivo. L’operaio sa che il suo lavoro, la sua opera, la sua stessa vita, assumono un valore nell’armonia dello sforzo collettivo. L’operaio sa che la macchina che esce dalla sua officina non è una somma di pezzi freddi e uguali, ma è l’armonia dell’opera complessiva, sa che la macchina non è una semplice somma di viti o di dadi, ma che le viti e i dadi hanno un senso in quanto sono parti della macchina.
Ed è da questa esperienza che nasce la nostra esperienza; oggi la società non si può considerare una somma di individui, perché l’individuo vuoto non ha senso se non in quanto membro della società. Nessuno vive isolato, ma ciascun uomo acquista senso e valore dal rapporto con gli altri uomini; l’uomo non è, in definitiva, che un centro di rapporti sociali e dalla pienezza e dalla complessità dei nostri rapporti esso può soltanto trovar senso e valore.
E allora anche le nostre concezioni politiche e giuridiche assumono un significato diverso. Non si tratta più di contrapporre l’individuo allo Stato, intesi quasi come entità astratte e lontane l’una dall’altra. Si tratta di realizzare invece la vita collettiva dalla effettiva partecipazione di tutti i mezzi.
Ecco allora il senso dell’espressione dell’articolo primo del nostro progetto, che è per questa parte opera mia, e che l’onorevole Calamandrei citava l’altro giorno, là dove si dice che la «Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; appunto, perché oggi non concepiamo più l’uomo come individuo contrapposto allo Stato, ma, al contrario, concepiamo l’individuo solo come membro della società, in quanto centro di rapporti sociali, in quanto partecipe della vita associata. La Repubblica, espressione della vita collettiva, trae il suo senso e il suo significato solo dalla partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale.
Ed ecco anche il senso del lavoro, inteso come fondamento della Repubblica; altra espressione che è stata criticata. Perché noi non facciamo, e non vogliamo fare, una Repubblica di individui, ma vogliamo fare non una Repubblica di individui astratti, una Repubblica di cittadini che abbiano solo una unità giuridica, vogliamo fare la Repubblica, lo Stato in cui ciascuno partecipi attivamente per la propria opera, per la propria partecipazione effettiva, alla vita di tutti. E questa partecipazione, questa attività, questa funzione collettiva, fatta nell’interesse della collettività, è appunto il lavoro; e in questo, penso, il lavoro è il fondamento e la base della Repubblica italiana.
Ed ecco perché noi pensiamo che sia errata la concezione a cui parecchi colleghi si sono sovente inspirati nella redazione degli articoli, e che si trova nel progetto della nostra Costituzione che la democrazia si difende, e si difende la libertà, e si difendono i diritti del cittadino, limitando i diritti dello Stato, limitando l’attività o le funzioni dello Stato. Concezione che si inspira sempre a quella che noi riteniamo una contrapposizione superata fra individuo e Stato. Noi pensiamo che la democrazia si difende, che la libertà si difende non diminuendo i poteri dello Stato, non cercando di impedire o di ostacolare l’attività dei poteri dello Stato, ma al contrario, facendo partecipare tutti i cittadini alla vita dello Stato, inserendo tutti i cittadini nella vita dello Stato; tutti, fino all’ultimo pastore dell’Abruzzo, fino all’ultimo minatore della Sardegna, fino all’ultimo contadino della Sicilia, fino all’ultimo montanaro delle Alpi, tutti, fino all’ultima donna di casa nei dispersi casolari della Calabria, della Basilicata. Solo se noi otterremo che tutti effettivamente siano messi in grado di partecipare alla gestione economica e politica della vita collettiva, noi realizzeremo veramente una democrazia.
E questo è il senso profondo, onorevole Calamandrei, degli articoli sul lavoro, che ella e molti altri colleghi hanno criticato; ella in forma particolare, quasi con spavento, dicendo che questi articoli sono formulati in modo che i cittadini domani, leggendo la Carta costituzionale, potrebbero dire: «Non è vero». Certo, non è vero oggi che la democrazia italiana, che la Repubblica italiana sia in grado di garantire a tutti il lavoro, che sia in grado di garantire a tutti un salario adeguato alle proprie esigenze familiari; ma il senso profondo di questi articoli nell’armonia complessa della Costituzione, dove tutto ha un suo significato, e dove ogni parte si integra con le altre parti, sta proprio in questo: che finché questi articoli non saranno veri, non sarà vero il resto; finché non sarà garantito a tutti il lavoro, non sarà garantita a tutti la libertà; finché non vi sarà sicurezza sociale, non vi sarà veramente democrazia politica; o noi realizzeremo interamente questa Costituzione, o noi non avremo realizzata la democrazia in Italia.
Non posso dire che questa concezione, che abbiamo cercato di difendere, e che forse è apparsa talvolta frammentaria o dispersa nella redazione dei vari articoli, sia stata tenuta presente completamente e si trovi nel testo che ci viene sottoposto.
Certo, vi sono alcuni progressi sensibili sulla via di questa effettiva partecipazione di tutti i cittadini alla gestione degli interessi collettivi.
È rimasto, ancorché corretto ed attenuato, l’articolo che io avevo proposto, e che si trova ora al capoverso dell’articolo 7, che dice: «È compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui, ecc.».
Questo articolo è rimasto, ma, non so come, modificato, Il testo del mio articolo era il seguente: «Rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza di fatto degli individui», appunto per mettere in evidenza il contrasto fra i diritti e la realtà vissuta. Su questa via della effettiva partecipazione di tutti, qualche altra cosa si ritrova nella Costituzione: per esempio, un maggiore riconoscimento, direi un riconoscimento integrale, della eguaglianza della donna, e questo principio è affermato anche laddove si ammette la partecipazione della donna nell’ordine giudiziario. Ma, nel complesso, non direi che questo sia stato lo spirito che si è tenuto presente in tutta la Costituzione. Non era certamente presente quando si è redatto l’articolo 30, dove si dice che la Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro. È una espressione un po’ paternalistica, questa; comunque, se io sono riuscito a rendere bene il senso della nostra concezione, è chiaro che quello che noi desideriamo è che il lavoro sia finalmente soggetto e non oggetto della storia; che i lavoratori siano finalmente i veri protagonisti della vita politica; è chiaro che non si tratta di una Repubblica che dall’alto tutela il lavoro, ma piuttosto di un lavoro che ha conquistata la propria maggiorità e che permea di se stesso gli Istituti della nuova Repubblica italiana.
È sempre su questo piano, di una più completa e più reale partecipazione di tutti alla vita collettiva, che io direi che l’ordinamento regionale non segna un vero progresso. È certamente vero che le autonomie locali, in quanto avvicinano i cittadini ai problemi collettivi, in quanto portano i cittadini a partecipare più intimamente alla vita pubblica, rappresentano una educazione all’autogoverno, ma è pure certamente vero che il sottrarre alla competenza dello Stato e deferire a quello della Regione determinate materie – per quelle Regioni che sono più arretrate ed in cui questo processo di partecipazione effettiva di tutti alla gestione della vita pubblica non è ancora avvenuta – può indubbiamente rappresentare un regresso. Ed in questo senso credo che molti tentativi che sono stati fatti per giustificare certe forme di bicameralismo non possono essere accolti. Si è tentato sovente, e si è tentato anche in questa Assemblea, di parlare di rappresentanze di interessi, economici e professionali, ora di interessi locali, ora regionali, ecc, per giustificare l’esistenza di una seconda Camera; in realtà, appunto perché noi non crediamo che si possa parlare di un cittadino, di un individuo nel vecchio senso, concepito come un’ipotesi politica, distinto dalla sua forma economica, ma crediamo che si debba sempre parlare soltanto dell’uomo, che vive nella società, come centro di confluenza di tutti i rapporti, dell’uomo che vive della interezza di questi rapporti, noi pensiamo che l’uomo manifesta il proprio voto politico, esprime il proprio voto in quanto esso è al centro di tutta questa vita concreta, e non lo esprime di volta in volta, ora come uomo politico, ora come economico.
E sempre su questa strada, credo che sia una lacuna veramente profonda nella nostra Costituzione, proprio nel senso in cui noi sentiamo ed intendiamo il progresso della democrazia, come partecipazione sempre più attiva, sempre più effettiva e concreta, di tutti alla vita pubblica, il silenzio totale sui partiti politici, che rappresentano un grande passo avanti della vera democrazia.
Noi sentiamo spesso criticare quello che oggi si chiama il Governo dei partiti, la democrazia dei partiti, che qualcuno chiama la dittatura dei partiti. Si dice che esso ha ucciso il Parlamento. Ed indubbiamente la vita dei partiti ha ucciso certi aspetti della vita parlamentare, ma noi crediamo che ciò sia stato un progresso. Ha ucciso il trasformismo, ha ucciso la dittatura personale alla Giolitti, ha ucciso le facili crisi che caratterizzano soprattutto certe forme di democrazia parlamentare francese, quando la vita parlamentare non aveva dietro di sé il controllo della vita dei grandi partiti.
Ma noi pensiamo che proprio attraverso la vita dei partiti si correggono questi difetti della vita parlamentare, perché non si tratta più dell’opinione del singolo Deputato che può mutare di volta in volta, secondo le combinazioni parlamentari o magari le manovre di corridoio. Si tratta di grandi partiti che hanno la responsabilità di grandi masse, di milioni di elettori che sanno che ogni loro gesto, ogni loro atteggiamento politico, ogni loro decisione implica la responsabilità di milioni di cittadini, e che sanno altresì che ogni loro errore può costare caro sul piano dell’influenza che il partito ha nella vita del Paese. Non c’è dubbio che in questo senso la vita dei partiti, l’esistenza dei grandi partiti rappresenta un notevole progresso della democrazia, perché dà un maggior senso di responsabilità e quindi una maggiore stabilità alla vita politica e trasforma conseguentemente l’istituto parlamentare.
Ma anche in altro senso, la vita dei partiti è un progresso per la democrazia, perché oggi non accade più che il cittadino, chiamato alle urne per eleggere i propri rappresentanti, compie la manifestazione della sua volontà politica ogni quattro o cinque anni a seconda della durata del mandato parlamentare, e poi sia costretto a rimettersi a quello che faranno i suoi mandatari. Oggi il cittadino che deve occuparsi di politica, che vuole veramente partecipare all’esercizio della sovranità popolare, lo può fare ogni giorno, perché attraverso la vita del suo Partito, la sua partecipazione all’organismo politico cui aderisce, egli è in grado di controllare giorno per giorno, d’influire giorno per giorno sull’orientamento politico del suo partito e, attraverso questo, sull’orientamento politico del Parlamento e del Governo.
È un esercizio direi quotidiano di sovranità popolare che si celebra attraverso la vita dei partiti, e i partiti di massa sono veramente oggi la più alta espressione della democrazia, perché consentono a milioni di cittadini di diventare ogni giorno partecipi della gestione politica della vita del Paese.
Ma allora è chiaro che vi è una lacuna nella nostra Costituzione, la quale ignora l’esistenza dei partiti e ci ripete ancora schemi tradizionali di costituzioni che erano valide e legittime espressioni di condizioni sociali che non sono le nostre.
Anche qui io ricordo ai colleghi della prima Sottocommissione che avevo proposto un articolo che in qualche modo introducesse il Partito nella vita costituzionale, e dopo ampie discussioni la Sottocommissione fu unanime nell’accogliere il principio, ma ritenne di demandarne l’applicazione pratica alla seconda Sottocommissione, la quale, non so perché, lo ha ignorato completamente ed ha dato un testo costituzionale che, non c’è dubbio, sotto questo aspetto rappresenta una vera lacuna.
Questo è fondamentalmente il senso e lo spirito con cui noi socialisti esamineremo il progetto che ci sarà sottoposto.
Credo di aver detto con sufficiente chiarezza, senza scendere in dettagli, senza ripetere troppe cose già dette da altri, che il senso della nostra visione costituzionale è quello che ispira tutta l’attività, politica del nostro Partito, cioè che la democrazia che noi vogliamo realizzare in questa Costituzione non è un problema astratto, ma un problema concreto; non è soltanto questione di leggi, di articoli sulla carta, ma è questione di partecipazione effettiva, di tutti, è questione, vorrei dire, di vita e di sicurezza economica, per lo meno altrettanto quanto di articoli sanciti nella legge, è un problema di salari, è un problema di diritto al lavoro, per lo meno altrettanto quanto è un problema di diritto di riunione o di associazione. Nessun istituto giuridico, nessuna legge, nessun congegno ben costruito di meccanica costituzionale potrà mai garantire una democrazia che non abbia le sue radici nella cosciente, matura, effettiva partecipazione del cittadino alla vita collettiva, alla gestione degli interessi pubblici, si chiamino essi economici o politici. Ecco perché, come dicevo in principio, le due grandi aspirazioni che sono oggi nella coscienza di tutti, quella di libertà e quella di giustizia sociale sono, in fondo, due aspetti di una sola aspirazione, che si realizza veramente solo se si realizza nei suoi due momenti.
Se noi riusciremo a tradurre nella nostra Carta costituzionale questa grande aspirazione di libertà e di giustizia sociale intesa nel senso che non c’è libertà senza giustizia sociale, che non c’è democrazia politica se non c’è democrazia economica; se noi riusciremo a tradurre nella Carta costituzionale quei principî in cui si incontrano i più antichi motivi della civiltà cristiana, le più vive esigenze della democrazia e le più profonde aspirazioni del movimento socialista, noi avremo realizzato una grande opera: non solo avremo assolto al compito che ci è stato affidato dai nostri elettori, ma avremo veramente fatto qualcosa di un’importanza storica, avremo inserito nella vita dello Stato le grandi masse lavoratrici, avremo cioè dato una garanzia di sviluppo democratico al movimento sociale.
Noi crediamo profondamente in una democrazia così intesa, e noi ci batteremo per questa democrazia. Ma se altri gruppi avvalendosi, come dicevo in principio, di esigue ed effimere maggioranze, volessero far trionfare dei principî di parte, volessero darci una Costituzione che non rispecchiasse quella che è la profonda aspirazione della grande maggioranza degli italiani, che amano come noi la libertà e come noi amano la giustizia sociale, se volessero fare una Costituzione che fosse in un certo qual modo una Costituzione di parte, allora voi avrete scritto sulla sabbia la vostra Costituzione ed il vento disperderà la vostra inutile fatica. (Applausi a sinistra).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cevolotto. Ne ha facoltà.
CEVOLOTTO. Onorevoli colleghi, poche dichiarazioni, spero brevi e spero chiare. Si è accennato da due oratori della parte destra alla opportunità, alla necessità, anzi, che questa Costituzione, dopo che sarà votata, sia sottoposta all’approvazione del referendum popolare. Ora, io domando: ma nel mandato che ci è stato dato dagli elettori non vi è già qualcosa che autorizza noi a ritenere già fissati i limiti di questa Costituzione, anche se non è stato possibile di sottoporre delle precise domande al corpo elettorale? Io ricordo che si è discusso da parte del Ministero, che rappresentava allora anche in sostanza le funzioni del Parlamento, e che ha fatto la legge in base alla quale si è formata la Costituente, si è discusso se non fosse opportuno di formulare e proporre
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agli elettori dei quesiti relativi alla forma e al contenuto della futura Costituzione. E non si è potuto, perché sarebbe stato difficile, in una formula breve è comprensiva per gli elettori, segnare i limiti della Costituzione. Però vi è stata lo stesso un’indicazione precisa del corpo elettorale. I partiti si sono presentati con programmi che erano sì inerenti prima di tutto alla questione istituzionale, ma che erano anche inerenti alla nuova Costituzione da dare al popolo italiano. E questi programmi non son stati i programmi, diremo così, massimi di ciascun partito, sono stati espressione di un compromesso, perché tutti i partiti, e specialmente quelli che sono usciti vittoriosi dalla lotta elettorale, si sono trovati concordi nel dire al corpo elettorale: noi vogliamo dare all’Italia una Costituzione democratica, progressiva, una Costituzione che permetta la rinnovazione fondamentale degli istituti dello Stato, una Costituzione che consenta di formare in Italia uno Stato che sia lo Stato della democrazia del lavoro.
Questo è stato il programma di tutti i partiti, ed è stato il programma che hanno affermato i candidati quando si sono presentati davanti agli elettori. In tanto gli elettori hanno dato la maggioranza ai partiti che questi programmi affermavano, in quanto i partiti hanno dichiarato che volevano che in Italia si desse una Costituzione democratica, progressiva, sociale, la Costituzione di una Repubblica sociale del lavoro. Se noi formiamo una Costituzione in questo senso, non abbiamo bisogno di sottoporla a nessun referendum, perché abbiamo obbedito a quella che è stata la volontà precisa del corpo elettorale.
E allora perché si fa la questione? Se realmente i partiti seguissero in questo primo schema e poi attuassero, nel testo definitivo, le promesse che hanno fatto al corpo elettorale, cioè formassero una Costituzione democratica, progressiva, per instaurare la Repubblica sociale del lavoro, la questione non potrebbe neanche sorgere. Se non che, si obietta, il progetto che si presenta non risponde alle dichiarazioni. Importa poco che i partiti avessero dichiarato di convergere su una linea intermedia tra loro, che seguiva l’idea in sostanza rappresentata da quei partiti della democrazia di sinistra che sono riusciti viceversa largamente battuti nelle elezioni; importa poco, perché da una parte e dall’altra ci si è spostati da questa linea mediana che si era promesso di seguire.
I partiti di massa, invero, sono bensì partiti democratici in quanto, in questo momento, vogliono lavorare e collaborare sul terreno comune della democrazia; ma sono democratici più qualche cosa: democratici più socialisti, democratici più comunisti, democratici più cristiani. Qualcuno dice che per una parte del partito della democrazia cristiana questo più diventa un meno, perché sarebbe in certo modo una attenuazione della democrazia. Credo che il mio amico onorevole Jacini non si dorrebbe se io dicessi che la sua democrazia è senza dubbio cristiana, ma è anche un poco conservatrice. (Commenti).
Nel complesso non si può negare che questi grandi partiti collaborano per la democrazia. Senonché è successo che quando ci si è trovati a dover formulare la Costituzione, ciascun partito, come era naturale ed era inevitabile, ha cercato di metterci qualche cosa di quel più che in quel partito va oltre la democrazia, e si sono così verificate due spinte, una a sinistra e una a destra, spinte che avrebbero potuto, come nella meccanica, convergere in una linea intermedia. Ma, dice l’onorevole Lucifero, questa convergenza invece non c’è stata e si è andati un po’ a zig zag e si sono fatte le montagne russe.
Ora è un fatto che se anche ciò non è successo proprio con quelle forme di compromesso palesi e quasi dichiarate di cui ha parlato l’onorevole Lucifero, anche se proprio non è successo che si sia comunque contrattato – non stupitevi della parola che può essere poco riguardosa – quasi una forma di do ut des, c’è stato uno scambio di favori, e n’è uscita realmente qualche volta una accentuazione di punte, da una parte e dall’altra. Così, per esempio, è successo che accanto a quelle affermazioni avanzate in senso sociale, che io approvo perché sono nella realtà delle cose, perché le abbiamo promesse al corpo elettorale, perché abbiamo dichiarato che avremmo formato una Costituzione di democrazia progressiva, accanto a queste vi sono state altre affermazioni, come ad esempio, quella dei rapporti fra Chiesa e Stato con la creazione di uno Stato confessionale, che a me non piacciono. Nel discuteremo a suo tempo, a fondo; qui non è il caso.
E vi sono stati anche infortuni sul lavoro; per esempio l’articolo 23. Gli amici della Democrazia cristiana hanno le loro tenaci idee e le hanno, in sede di Sottocommissione, difese molto validamente, forse anche troppo, sicché molte volte non sono stati aderenti alla via intermedia ed hanno troppo voluto tirare la corda. Ebbene, gli amici della Democrazia cristiana hanno fra le loro idee quella che la famiglia preesiste allo Stato.
(Commenti al centro).
Una voce. È una cosa evidente!
CEVOLOTTO. Ne discuteremo a suo luogo. Intanto è capitato l’infortunio. Quando hanno voluto affermare che la famiglia è una società naturale, e noi ne discutevamo, c’è stato l’onorevole Togliatti che immediatamente ha detto: «Sono d’accordo, mettiamo pure questa formula». E non si sono accorti che l’onorevole Togliatti li soffocava sotto una pioggia di rose. Timeo Danaos et dona ferentes. Ma non hanno avuto paura di Togliatti, forse perché sanno che non è greco.
La famiglia è una società naturale e la Repubblica ne riconosce i diritti. Ma allora la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale, cioè dell’unione libera. (Proteste al centro).
Come no? Tanto è vero che se ne sono viste le conseguenze quando si è parlato di figli illegittimi. Noi avevamo proposto una formula che ci pareva potesse avere un certo pregio e cioè: la legge provvede perché non ricadano sui figli le conseguenze di uno stato familiare non conforme al diritto.
Si è voluto di più, si è voluta una formula che ora a molti fa paura. Anche di questo discuteremo a suo tempo.
Comunque, queste accentuazioni ci sono state da una parte e dall’altra. E allora? E allora ne è venuto fuori – per qualche parte – quello che si temeva, una Costituzione di compromesso. Noi non dobbiamo fare una Costituzione di compromesso, perché sarebbe una Costituzione provvisoria, e noi vogliamo sforzarci di non fare una Costituzione provvisoria.
E qui subentrano le critiche che a questa Costituzione sono state proposte da molte parti. L’onorevole Calamandrei, che è un grande giurista, ha sostenuto quelle idee che, del resto, aveva già espresso anche in un suo ordine del giorno presentato alla Commissione dei settantacinque:
«La Commissione, mentre si dichiara Convinta che nel testo della Costituzione, come suprema legge della Repubblica, debbano trovar posto non proclamazioni di ideologie etico-politiche, ma soltanto norme giuridiche aventi efficacia pratica, che siano fondamento immediato di poteri, ecc.».
Anche qui, bisogna un po’ che ci intendiamo.
La Costituzione è una legge; ma non è però e non deve essere un codice. Ora, il codice è formato esclusivamente di norme, perché fotografa una realtà di rapporti che esistono e che la legge deve regolare, cosicché è aderente ad una situazione precisa di un determinato momento. I rapporti cambiano, si evolvono, mutano: la legge non muta; ad un certo momento, quando la legge non sarà più sufficiente neanche nelle forme dell’adattamento e dell’interpretazione analogica, si cambierà. Si è detto, efficacemente, che un codice comincia a invecchiare lo stesso giorno che entra in vigore. Ma non è lo stesso di una Costituzione. La Costituzione ha bensì delle norme; ma ha anche qualche cosa d’altro: crea gli organi politici, crea gli organi amministrativi dello Stato, crea la struttura politica ed amministrativa dello Stato. E ha delle norme che presentano un carattere, un aspetto speciali.
Per esempio, vi sono quelle norme che si rivolgono non al singolo, ma al legislatore, e gli impongono dei limiti alla formazione delle leggi, e gli dicono: «Tu devi fare la legge in questo modo ed entro questi limiti». Ed anche nel nostro progetto vi è una quantità, forse, anzi – secondo me – un eccesso di rimandi alle leggi speciali. Tante volte si dice: «La legge provvederà; una legge sancirà questo»; il che, per quelle materie che sono già regolate da leggi particolari, mi sembra per lo meno inutile, in quanto è chiaro che queste leggi particolari dovranno essere adattate alla nuova Costituzione.
Ma vi sono anche norme che si dirigono al singolo: questa è una estensione delle Costituzioni moderne, le quali, per ragioni storiche, per ragioni contingenti, perché hanno regolato anche rapporti sociali ed economici che nelle Costituzioni vecchio tipo non erano regolati, hanno anche un contenuto di norme particolari.
Nella nostra Costituzione ve ne sono forse troppe: questo è il difetto. Vi sono norme che sono necessarie, o quanto meno opportune, per ragioni contingenti – come per esempio quella relativa al sequestro della stampa, o quelle relative alle perquisizioni – ma che avrebbero trovato posto benissimo in leggi particolari. Vi sono altre norme le quali, più opportunamente, dovrebbero trovar posto nelle leggi particolari. Non trovo logico e giusto che nella Costituzione ci sia una norma particolare per le Corti d’assise: questa è proprio materia di Codice di procedura penale. Ma è un difetto, o un eccesso evidente che nella Costituzione si è messa troppa roba. Tutti hanno voluto metterci qualche cosa; e perché c’era questo, si è messo anche quello.
Per esempio, io ho il massimo rispetto per l’altissima funzione dell’Avvocatura generale dello Stato; ma non trovo ragionevole che nella Costituzione si parli della Avvocatura dello Stato, in quanto non si tratta di organo costituzionale. Siccome si è parlato di tante altre cose, giustamente la suscettibilità degli avvocati dello Stato ha chiesto che anche l’Avvocatura fosse nominata nella Costituzione.
Ma proprio tutto quello che non è norma deve essere rimandato – come ha chiesto l’onorevole Calamandrei – al preambolo, a quel preambolo di cui molti hanno già parlato e che, secondo me, è necessario?
Se si tratta di affermazioni di carattere filosofico o di carattere morale, io sono perfettamente d’accordo: è più che giusto rimandarle al preambolo.
Il Presidente della prima Sottocommissione, onorevole Tupini, con quella altezza morale che lo anima, ha detto che la nostra Costituzione deve accompagnare l’uomo dalla nascita alla tomba.
Ha fatto una esaltazione dell’affermazione della Costituzione relativa alla perfezionabilità dell’uomo.
È questione che abbiamo discusso tante volte, in sede di prima Sottocommissione. Gli amici democristiani propugnavano tenacemente alcune idee loro, altissime e nobilissime, che io rispetto, come quella del perfezionamento della natura umana. Io mi domando se veramente la Costituzione deve proporsi l’obietto del perfezionamento della natura umana.
Secondo me, no; non che non debba avere un contenuto etico, anche religioso, nel senso alto, umano della parola. Ma la Costituzione deve regolare i diritti degli uomini, deve sancire e stabilire i diritti politici, civili, sociali dei cittadini, e non proporsi il fine del perfezionamento della natura umana, che è altissimo e nobilissimo proposito, ma che non è fra gli scopi della Costituzione.
Ecco, dunque, perché queste affermazioni di carattere teorico, di carattere etico, di carattere filosofico, se si vorranno mantenere, troveranno posto più adatto nel preambolo.
Quanto alle norme relative ai diritti sociali ed economici, sono di altra idea, almeno parzialmente diversa.
È vero, nella nostra Costituzione abbiamo voluto inserire anche questa parte – di importanza sostanziale – conforme all’indirizzo di tutte le Costituzioni moderne.
Ma questa parte, per forza di cose, ha anche un contenuto programmativo, oltre che un contenuto normativo. Vi è un contenuto normativo preciso; ma vi è anche l’espressione di propositi, di aspirazioni, la descrizione, quasi, di un progresso evolutivo dei rapporti sociali.
Abbiamo detto che avremmo fatto una Costituzione democratica progressiva. Il progresso è appunto questo.
Ora, noi non possiamo prescindere da questa parte, se non vogliamo fare una Costituzione provvisoria. Perché noi marciamo rapidamente – e peggio per chi non lo intende – verso una trasformazione della società, in senso socialista; non vi è dubbio su questo; dobbiamo prevederlo nella Costituzione; dobbiamo tenerne conto; l’abbiamo promesso, l’abbiamo detto. Se non lo facessimo, che cosa succederebbe? Badate che noi facciamo una Costituzione rigida ed è giusto; dobbiamo fare una Costituzione rigida perché, nelle Costituzioni flessibili, il potere legislativo diventa potere costituente e questo noi non vogliamo. Ma se non teniamo conto della possibilità di questo progresso sociale che è già in marcia, di questo avviamento verso istituti, verso forme nuove di giustizia sociale, se non teniamo conto di ciò e se non prevediamo queste nuove forme, potremmo trovarci costretti a modificare progressivamente la Costituzione, di volta in volta, con i modi abbastanza complicati che sono stati previsti, oppure potremmo anche trovarci di fronte al pericolo che qualcuno impugni la Costituzione per negare questi necessari progressi.
Accadrebbe allora che la Costituzione diverrebbe un ostacolo all’evoluzione sociale, un ostacolo che rischierebbe di trasformare questa evoluzione in rivoluzione. Quando si dice che Stalin ha affermato che le Costituzioni non debbono contenere dei programmi, io rispondo che Stalin parlava in Russia, dove un programma è ormai realizzato.
Noi parliamo invece in Italia, dove vi è tutta una materia in evoluzione, tutta una materia che lievita e cresce, non dobbiamo dunque segnare le vie verso l’avvenire? Ecco il punto per cui io, pur riconoscendo che la Costituzione deve avere essenzialmente un contenuto normativo, dico: badiamo, specialmente in questo campo, di non irrigidirci, di non creare barriere, perché è necessario che la Costituzione preveda il domani. Non facciamo una Costituzione destinata a durar poco. Abbiamo degli ostacoli delle difficoltà gravi da superare: la via è disseminata di scogli.
Quando don Sturzo ha rilevato già nel nostro progetto un eccesso di statalismo, ha detto probabilmente cosa che ha alcune apparenze di verità; ma qui sta, non dirò la tragedia, ma la difficoltà della democrazia. Noi dobbiamo avviarci verso forme di giustizia migliore, ma dobbiamo avviarci verso queste forme in modo che la giustizia non si attui a detrimento della libertà. Non voglio dire bestemmia, affermando che giustizia e libertà siano termini contrapposti; anzi sono la stessa cosa. Ma, nell’avviarci verso le nuove forme della giustizia sociale, può essere anche che alcuno ritenga necessarie delle forme di accentramento, di statalismo, che potrebbero diventare la base, o che si teme diventino la base, di nuovi totalitarismi. Ecco lo scoglio che la democrazia deve evitare; perché noi dobbiamo segnare una strada che concili giustizia e libertà.
Vorrei dire una parola sul progetto di Costituzione in concreto, per quello che si riferisce la parte politica.
L’onorevole Calamandrei ha fatto una grave osservazione che purtroppo tutti, più o meno, abbiamo fatto in varie occasioni. Altro scoglio al quale ci troviamo davanti: è possibile, mentre noi facciamo e vogliamo formare la Costituzione di una Repubblica parlamentare, è possibile ancora la funzione del Parlamento? Ha ancora funzione il Parlamento? Questa è la domanda. Il nostro è un progetto di Costituzione parlamentare, bicamerale, con tutti gli annessi e connessi dell’apparato parlamentare; ma già qui nell’Assemblea molte volte ci siamo accorti che il Parlamento – diciamolo pure – funziona con difficoltà; non dirò non funziona, ma funziona fino a un certo punto. I partiti decidono; ed è giusto che oggi siano i partiti a decidere. Qui cosa veniamo a fare? A discutere per convincere? Forse. Ma chi anche sia convinto, poi vota secondo la disciplina del suo partito. E allora, qual è la funzione di questo Parlamento? Qual è la funzione del Deputato? È una funzione tecnica, sì, la formazione delle leggi, l’elaborazione delle leggi nel nostro caso, poiché noi siamo la Costituente, l’elaborazione della Costituzione. Ma la vita politica vera sfugge al Parlamento e si concentra nei partiti. Ed ecco, allora, la domanda logica di Calamandrei: «Ma perché non avete disciplinato la vita dei partiti nella Costituzione». Perché? Ma perché forse domani vi saranno forme nuove, sorgeranno forme nuove; oggi non sono ancora sorte e non si preannunziano. Non è poi detto che Parlamento e democrazia siano termini indissolubilmente connessi; domani sorgeranno forse altre forme politiche in cui la democrazia esprimerà la sua funzione politica. Oggi non vi è che questa vecchia forma, anche se funziona male e forse – diremo le cose come stanno – si avvia al suo tramonto, anche se oggi vi sono i partiti.
Ma in Italia si poteva basare, in una Costituzione, la vita politica della Nazione sui. partiti? Io non lo so. Non è questo che Calamandrei chiedeva. Certo non vi era né il tempo, né il modo di studiare una innovazione così profonda. Anche perché i partiti in Italia sono, sì, ormai formati e delineati nelle loro grandi linee, ma non raccolgono, non che la totalità, neanche la maggioranza degli elettori: vi è tutta una massa ondeggiante che vota e aderisce ai singoli partiti, ma non ne fa parte e che si sposta. Non vi sono ancora delimitazioni precise; i vari partiti sono molte volte in trasformazione: abbiamo assistito e assistiamo a scissioni, a moltiplicazioni per divisione, ad assorbimenti, a riorganizzazioni diverse delle varie correnti: è anche qui una massa in formazione, una massa che fermenta.
Regolare sui partiti e nella vita dei partiti e con i partiti la vita politica non è sembrato facile, anzi non è sembrato che fosse possibile. Ecco perché dei partiti nella Costituzione si è fatta parola soltanto in un breve articolo, alquanto generico.
Certo è che il Parlamento è regolato secondo una formula vecchia che non risponde più alla situazione e non risponde più all’affermarsi dei partiti nella nostra vita politica. Potranno rimediare a questo difetto in qualche parte le leggi elettorali? Forse. Qualche miglioramento attraverso le leggi elettorali è sperabile per riportare la vita parlamentare ad un livello che sia tollerabile.
Ad ogni modo il progetto propone di adottare il sistema parlamentare ed il sistema bicamerale. E qui si sono prospettate altre obiezioni. Per esempio, l’obiezione che il sistema bicamerale renderà lenta la formazione delle leggi. E questo è vero. L’ordinamento del sistema bicamerale non è certo il più adatto per una rapida legislazione. Non dobbiamo dimenticare che noi viviamo in un momento di trasformazione dello Stato in cui è necessario rinnovare tutta la legislazione precedente. Perché, insomma, abbiamo ancora in vita le leggi, i codici fascisti, e qualche volta questo dà fastidio. Non è soltanto il fastidio quasi fisico che io posso provare nel maneggiare leggi che sono firmate da Mussolini, ma è che sono leggi molte volte in camicia nera; dobbiamo quindi rinnovarle. L’onorevole Calamandrei diceva: ma nel progetto non è stato previsto nemmeno il decreto-legge. Forse l’osservazione non è del tutto esatta. L’articolo 75 infatti dice che l’esercizio delle funzioni legislative non può esser delegato al Governo se non previa determinazione dei principî e criteri direttivi e soltanto per un tempo limitato e per un dato oggetto; quindi, con delle limitazioni, questa delegazione vi può essere e per i decreti legislativi valgono le norme che esistono in questa materia.
Arrecherà impaccio questa forma ristretta e prudente della decretazione che è prevista dalla Carta costituzionale rispetto al bisogno di rinnovare rapidamente la vecchia legislazione. Che cosa volete? Io per mio conto penso che se anche si dovessero fare meno leggi, non sarebbe poi un gran male. Comunque, non credo che di questa delegazione, per tutte quelle leggi che non hanno una grande importanza, che non sono grandi leggi istitutive fondamentali, non si possa fare un uso prudente, ma almeno in un primo tempo non limitatissimo. È necessario però che questa rinnovazione legislativa sia compiuta. E la Costituzione ha infatti il suo punto fondamentale nella profonda riforma di tutta la struttura amministrativa dello Stato.
Voglio accennare soltanto al problema della regione, ma non me svolgo la discussione perché chissà quanto ne dovremo parlare a suo tempo. Certo che si è partiti dal principio ovvio del decentramento politico-amministrativo, ma non so se si è arrivati veramente al decentramento amministrativo-politico. Ho una grave preoccupazione a questo riguardo: che la nuova forma porti ad una inflazione burocratica, che si determini una complicazione dei congegni burocratici e non una semplificazione. Ho il timore che si creino nuovi organi senza sopprimere i vecchi. Del resto, vedete l’agitazione che c’è già da parte di tutti i capoluoghi di provincia per mantenere la provincia ed è una agitazione alla quale non so se noi resisteremo. Già è molto male, ma è inevitabile, che la Costituzione si debba elaborare in un periodo pre-elettorale.
Vi è la questione grave dei limiti del potere politico della provincia, perché se fossimo in tempi normali questo problema potrebbe non preoccupare, ma è indubitato che questa guerra, con tutte le sue orribili conseguenze, ha portato anche ad una accentuazione di separatismi di ogni genere, di divisioni: Nord contro Sud, e non è colpa né del Sud né del Nord; è colpa delle cose; regione contro regione: abbiamo visto persino, in momenti gravi della situazione alimentare, provincie contro provincie. Abbiamo visto la provincia mettere delle barriere attorno a sé, per isolarsi e per difendere il proprio grano e i propri prodotti.
La costituzione della regione in un momento così delicato – e badate che io non sono né centralista né statalista, e anzi non domando di meglio che il decentramento – non creerà delle barriere fra le parti d’Italia, e non vi sarà il pericolo – la Corte costituzionale provvederà poi – che una regione legiferi con criteri opposti a quelli di un’altra, con tali differenze di criteri tra regione e regione da rendere necessario normalmente l’intervento – che dovrebbe essere eccezionale – della Corte Costituzionale per regolare poi questa materia?
L’istituzione dell’Ente Regione non sarà un salto nel buio se attenueremo, se limiteremo, se preciseremo la facoltà legislativa che vogliamo dare alle regioni. Dovrà essere, io penso, come si era proposto, una legislazione integrativa e regolamentare piuttosto che una legislazione originaria e autonoma.
Il problema è gravissimo e quindi non è il caso di trattarne in pochi minuti, tanto più che non ho intenzione di allungare il mio discorso. Ho voluto dare uno sguardo panoramico alla Costituzione, esaminandone gli aspetti principali e soprattutto le tendenze, gli indirizzi che essa vuole seguire, senza scendere ai dettagli, neanche a quelli di forma che meno mi interessano. Già, la forma ha tuttavia notevole importanza, perché molte volte ha il suo peso. Però trovo che della forma e dello stile di questa Costituzione si è detto troppo male. Si è detto persino che bisogna tradurla in italiano e questa è una esagerazione; però una certa revisione formale ancora sarà forse necessaria e non sarà facile, perché non è riuscito né nella Commissione dei diciotto, né in quella dei settantacinque, né nel Comitato di redazione e quindi men che meno riuscirà in questa Assemblea di quattro o cinquecento persone che vi dovrebbero mettere le mani. D’altra parte, se questa ripulitura non si farà prima, quando i singoli articoli saranno approvati, modificarli successivamente, anche dal punto di vista della forma, non risulterà più possibile.
In questa Costituzione trovo espressioni molto diverse, che non so se corrispondano per esempio a concetti diversi. Per esempio, trovo che la Repubblica garantisce, assicura, promuove, favorisce, cura, tutela, rimuove gli ostacoli, attua: tutte queste parole hanno un significato analogo o vi è una graduazione?
La differenza significa qualche cosa di concettualmente diverso? Perché, per esempio, ad un certo momento all’articolo 12 trovo che «delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica». E non mi piace neanche l’espressione, poiché penso che senza motivi l’autorità non potrebbe intervenire in nessun caso.
All’articolo 25 trovo qualche cosa un po’ differente: «nei casi di provata incapacità morale o economica», ecc. ecc. Comprovata e provata è la stessa cosa? Queste accentuazioni non le metterei nella Costituzione, perché non vorrei che si dicesse che dove una data espressione non ricorre, l’intenzione è più debole, mentre dove si è messa una data parola, l’intenzione è più marcata e più decisa.
L’articolo 16, per esempio, dice qualche cosa che non approvo: «Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni che siano contrarie al buon costume».
Le pubblicazioni a stampa possono essere contrarie alla morale, ma al buon costume mi pare un po’ difficile. E poi si aggiunge:
«La legge determina misure adeguate». E come? Si può pensare al caso che, dove non si dice questo, la legge determini misure meno adeguate?
Sono accentuazioni che non si addicono alla sobrietà dello stile di una Costituzione.
L’articolo 45 dice: «Sono eleggibili, in condizioni di eguaglianza, tutti gli elettori che hanno i requisiti di legge». Ora, per inserire il concetto ovvio e quindi superfluo delle «condizioni di eguaglianza» siamo caduti in una evidente tautologia.
Ma queste sono quisquilie, sono difetti che si correggeranno nel corso della discussione: quello che importa è ciò di cui ho parlato prima, cioè i pericoli a cui andiamo incontro e in mezzo a cui dobbiamo muovere.
Noi dobbiamo compiere una navigazione abbastanza lunga, verso un porto che non è troppo vicino, in mezzo a scogli, e a tutto vapore perché abbiamo il termine fisso. Dobbiamo cercare di evitare questi scogli e togliere soprattutto dalla Costituzione ciò che è superfluo, per una parte rimandandolo al preambolo, e per l’altra rimandandolo alle leggi speciali, senza perdere però di vista la mèta, la linea direttrice, perché dobbiamo fare una Costituzione che si presti il meno possibile alle critiche.
Critiche ve ne saranno sempre; una Costituzione, non dico perfetta, ma neanche una bella Costituzione non so se in questo momento, nelle attuali contingenze, nelle attuali condizioni di partiti, sia possibile farla. Del resto abbiamo visto tutte le nuove Costituzioni: di veramente belle non ce n’è neanche una!
Dobbiamo cercar di fare una Costituzione che si presti il meno possibile alle critiche nel suo complesso, nel suo schema, perché da parte di tutti coloro che non sono democratici, anche se si chiamano democratici, c’è il deciso proposito di approfittare di ogni occasione per combattere la democrazia e la Repubblica.
Qui si chiama alla pietra di saggio la democrazia: si vuole conoscerne la capacità e noi dobbiamo compiere il nostro dovere per formare una Costituzione veramente democratica e repubblicana che assicuri alla nostra Nazione, a questa povera Italia massacrata e delusa, le possibilità del suo avvenire. Alle altre delusioni dell’Italia martoriata, amputata, non si deve aggiungere la delusione della democrazia. La democrazia deve rispondere al suo compito, formando quegli organismi che permettano alla patria di riprendere il suo cammino nel campo del lavoro, pacifico e concorde con gli altri popoli, verso nuove, più alte e più belle vittorie. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Rubilli. Ne ha facoltà.
RUBILLI. Onorevoli colleghi, vi dirò lei mie impressioni di indole generale sul progetto di legge, con qualche breve accenno a quelli che ritengo i punti fondamentali e, naturalmente, nuovi che sono stati proposti.
Finora mi pare che nella grande maggioranza, o nella totalità, abbiano parlato soltanto i componenti, della Commissione. Non vi dispiaccia di sentire altri, in modeste e semplici osservazioni, più che altro di carattere pratico. Anche chi è fuori della Commissione può portare qui le impressioni sincere che ha avute nell’esame di questo progetto.
Ed io incomincio col premettere che prendo sull’argomento attuale ben volentieri la parola, perché si tratta di questioni assai importanti, quasi fondamentali nella vita politica della Nazione, e perché credo di potermi avvalere dell’articolo 16 del progetto in esame «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero». Quindi, mi auguro che mi sia concessa almeno ora una completa tolleranza.
D’altronde, in caso di dissenso, so a che cosa varrebbero le nostre opinioni. Noi siamo pochi e dispersi in quest’Aula, ed io sono ben consapevole della scarsa efficacia che può avere la nostra parola proprio qui, dove permane e prevale solo quello che hanno forse di già stabilito o saranno per stabilire i grandi partiti di massa. Può restare a noi soltanto la soddisfazione di un dovere compiuto, e questo ci basta per la tranquillità della nostra coscienza.
Ora, non credo inopportuno ricordare in questa occasione le origini della nostra Assemblea Costituente, il momento in cui sorse, lo scopo precipuo che si proponeva. E poiché essa ebbe l’atto di nascita nei nostri paesi meridionali, quando purtroppo eravamo ancora separati, violentemente avulsi, dai fratelli del settentrione, anche per questo non sarà inutile qualche ricordo che può forse essere sfuggito a qualcuno dei nostri colleghi del Nord. Noi ci trovavamo nel 1944 in questa situazione politica nelle città meridionali di fronte all’istituto monarchico: era uniforme quasi unanime il sentimento che riteneva, se non l’indegnità, per lo meno l’incompatibilità del re al trono. Anche coloro i quali non sapevano decidersi sulle origini e sulle cause del fascismo, ed esitavano a dichiarare se fosse stato più debolezza di re o non piuttosto aberrazione di popolo, o derivato e conservato dal concorso dell’uno e dell’altro elemento, di fronte alle case crollate, alle rovine della Patria, che con triste eloquenza parlavano al cuore ed alla coscienza di ogni italiano, ritenevano che il re il quale comunque e contro la volontà del popolo, aveva firmato la guerra non potesse ancora rimanere al suo posto. Venne allora il provvedimento del 5 giugno 1944, il primo provvedimento con cui si istituiva il luogotenente del re. L’onorevole Orlando, insigne maestro, come sempre, di ogni cosa, ma più specialmente di diritto costituzionale, in un mirabile discorso che pronunciò alla Consulta tra l’unanime plauso e l’entusiasmo dei presenti, e di cui venne anche decretata l’affissione, censurò con una certa asprezza questa soluzione, e aveva ragione, perché, dal punto di vista costituzionale, questo provvedimento non si spiega e non si comprende. Però l’onorevole Orlando era a Roma e non sapeva quello che avveniva laggiù. Qui non sentivate nulla, non arrivava neppure l’eco delle bombe non vi era modo di raccogliere il sentimento pubblico di paesi più o meno lontani; e voi non sapevate, onorevole Orlando, che quel provvedimento, nell’istante in cui fu preso valse a risparmiare all’Italia altri lutti e altri dolori.
Questo provvedimento del 5 giugno 1944 non bastò, e quando, dopo la liberazione di Roma, il Governo si trasferì a Salerno, l’agitazione contro il vecchio Monarca non era ancora calmata. Si voleva di più. Non bastava il luogotenente che rappresentava sempre il re, ma si voleva l’abdicazione, si voleva che se ne andasse il re della guerra, di quella guerra che aveva rovinato una nazione prospera e fiorente, elevata mano mano a grande prestigio dal sacrificio dei suoi figli e dalla sapiente guida dei nostri grandi uomini del Risorgimento. Il re invece, forse mal consigliato, si ostinò a resistere al sentimento pubblico, e non volle decidersi ad abdicare, mettendo così maggiormente anche in pericolo l’istituzione monarchica, come i fatti poi hanno meglio dimostrato. Allora sorse la necessità del decreto col quale poté in certo modo calmarsi ogni agitazione, del decreto Bonomi del 25 giugno 1944, il quale implicitamente rappresentava, come si disse, una sosta sulla questione istituzionale per aspettare i fratelli del Nord.
Ma intanto si stabiliva come un punto fermo che sarebbe stata l’Assemblea Costituente, eletta a suffragio universale, a decidere e a risolvere le sorti della Monarchia. Per questo scopo specialmente sorse l’Assemblea Costituente.
Io ho un convincimento, personale che non so fino a che punto possa essere esatto, ho il convincimento cioè che se il re, o meglio la monarchia, in quel momento si fosse decisa ad andarsene, noi non avremmo avuto l’Assemblea Costituente, non ne avremmo forse sentito il bisogno. In quel momento era quello l’unico problema che assillava. Chi volete che pensasse in quelle tristi condizioni dell’Italia alla Costituzione, alle nuove leggi, alla nuova attività politica o nazionale? Chi prevedeva come e quando, ed in quali condizioni saremmo risorti?
Il decreto Bonomi riuscì a frenare gl’impulsi del momento, l’attesa imposta per legge venne accettata dal popolo; si rinviò ogni dibattito ad altro periodo più calmo, in cui con maggiore oculatezza tutto quanto il popolo italiano riunito da un capo all’altro della Nazione, potesse pronunziarsi sulla Monarchia e decidere del suo avvenire politico.
Ma quando si arrivò alla Consulta, sorse l’idea del referendum, e fui forse il primo tra quelli che maggiormente sostennero la necessità del referendum nazionale: così dicemmo in molti e dissi anch’io: sì, vi sarà un’Assemblea Costituente, ma qui si tratta d’un problema fondamentale che riguarda il nostro nuovo Stato, e allora perché demandarlo solo ai rappresentanti che possono anche farsi guidare dal loro personale pensiero? Sarà meglio invece ed assai più opportuno che lo risolva direttamente il popolo, con espressione sincera e diretta della propria volontà. Quindi la Consulta propose – non toccava infatti ad essa di decidere – ed il Governo accettò la proposta soluzione.
Dopo di che il problema fondamentale, lo scopo precipuo per cui si era creata e doveva sorgere la Costituente se ne andò; ed allora mi permisi di inoltrare alla Consulta un’altra proposta: se si accetta il referendum e la soluzione del problema fondamentale dello Stato è affidata direttamente al popolo, perché due prossime Assemblee, perché due prossime riunioni, perché due prossime agitazioni elettorali? Rimane il compito di una legge che è importante sì, ma non completamente diversa da altre leggi, per l’organizzazione della nuova monarchia, perché sarebbe stata una nuova monarchia, se l’istituzione fosse rimasta, o della nuova Repubblica. Avevamo uno Statuto di già vecchio, prima del fascismo, che doveva sempre essere rinnovato, tanto più che per le troppe violazioni, quasi annullamento di sé stesso, che aveva subite, avrebbe sempre rappresentato un cattivo ricordo per il nuovo Stato. È vero, lo Statuto Albertino non poteva rimanere, e sarebbe stata sempre necessaria una nuova Costituzione. Ma essendo il problema fondamentale demandato al referendum, cioè demandato al popolo, non vedevo la necessità di due Assemblee che si seguissero l’una all’altra, di due successivi movimenti elettorali che maggiormente avrebbero sconvolto il Paese.
Ed aggiungevo: se non si vuole proprio che la Camera legislativa si occupi della nuova legge costituzionale, in un primo periodo, e di pochi mesi soltanto, l’Assemblea che sorge dalle prime elezioni potrà funzionare come Costituente, e poi si muterà in Camera legislativa.
Non si volle accettare questa soluzione, e allora si è verificato quello che si poteva agevolmente prevedere, con evidente riflesso sulla formazione della legge costituzionale.
Si è verificato, cioè, che abbiamo avuto una costante, continua permanenza di movimento e di periodo elettorale: il 2 giugno si sono fatte le elezioni, ed il 3 giugno è ricominciato il periodo elettorale. Questo ha paralizzato tutta l’attività dell’Assemblea Costituente per nove mesi, ed ha influito – ecco la conseguenza, ecco la conclusione dei precedenti rilievi – ha influito, a mio avviso, sulla formazione della legge costituzionale. Io credo – ecco le impressioni che riporto, se errate o vere, vedete voi, ma permettetemi solo di esporvele – che il progetto di costituzione in esame sia stato formulato in parte, anzi in gran parte, sotto l’assillo delle ansie elettorali, per cui ogni Partito ha lottato ad ottenere affermazioni, sia pur vaghe, imprecise ed inconsistenti, le quali poi debbono costituire una piattaforma più o meno salda per le prossime agitazioni elettorali.
I democristiani – non vi ribellate troppo violentemente, ad essi dico – (Commenti al centro) i democristiani ne trassero quanto potevano dai rapporti tra lo Stato e la Chiesa all’indissolubilità del matrimonio. Non me ne dolgo, perché non sono democristiano, ma sono cristiano e cattolico anch’io. Da parte opposta, gli altri partiti di massa si presero la rivincita sul terreno dei rapporti economici, e stabilirono tante altre affermazioni che possono essere utilmente sfruttate davanti alle loro masse nel momento elettorale.
Ora comprendete tutta la portata di quanto vi affermavo; questo lungo periodo elettorale permanente, di un anno e mezzo per lo meno, e che durerà ancora per altri mesi, mentre ha posto l’Assemblea Costituente nella condizione di non fare niente – perché non abbiamo fatto niente, signori miei – d’altra parte ha influito enormemente per quello che riguarda la formazione della legge costituzionale. E badate, come vi ho detto, che non mi dolgo, almeno personalmente, per i miei sentimenti, di quello che voi (Accenna ai democristiani) siete riusciti ad affermare per il vostro Partito nel seno della Commissione; non mi dolgo nemmeno di quello che in cambio avete strappato voi (Accenna ai banchi di sinistra) perché, in tema di riforme io non sono affatto restio, anzi non so se possa anche prevenirvi o superarvi. Ma dico all’una e all’altra parte: vi sembrano proprio le quistioni, di cui vi ho fatto cenno, tali da potersi risolvere con un articolo di legge in tema di Costituzione? Questo è quello che vi dico. Sono grandi argomenti che richiederanno ampie discussioni e meritano di essere assai oculatamente ponderati. Se è così, mettiamoli da parte per ora ed occupiamoci soltanto della legge costituzionale. Ma senza dubbio essi dovranno essere esaminati in sede opportuna, ed al più presto possibile, come la loro gravità ed importanza impone alla coscienza dei rappresentanti del popolo dinanzi alla prossima Camera dei Deputati.
Le affermazioni che avete fatte da ogni parte, anche se inconsistenti, anche se non mi dispiacciono, non possono passare così, in modo superficiale e quasi inconsapevolmente, con un periodo, o con una frase, in un articolo di legge generale, ma meritano a parte, leggi separate e distinte che possano comprendere le soluzioni veramente conformi al desiderio, alla volontà ed alle esigenze del popolo italiano. Se senza dubbio adunque, venuto meno lo scopo precipuo per cui venne creata l’Assemblea Costituente, si affermò anche un lungo periodo elettorale, ne è innegabile la ripercussione sulla legge per la Costituzione dello Stato; vediamo, ciononostante, se questa legge risponda ai requisiti che dovrebbe avere. Io ho appreso dai grandi maestri di diritto costituzionale, tra cui Orlando che li supera tutti quanti; ho appreso sempre che, in fondo, una legge costituzionale, deve contenere i diritti fondamentali, imprescrittibili, inalienabili del cittadino e deve occuparsi della struttura politica dello Stato con l’ordinamento dei poteri.
Questo mi hanno insegnato; e così è.
E voi che avete fatto?
Il presidente della Commissione dei settantacinque esponendo nella sua relazione i requisiti della legge costituzionale, dice che essa deve essere breve, chiara e semplice.
In verità, l’impressione che ho riportata è che essa non risponde per niente a questi tre requisiti.
E mi spiego meglio. Non tratta solamente di quei punti, di cui si deve occupare la Costituzione, come or ora ho esposto e come mi confermava col suo assenso anche l’onorevole Orlando, ma tratta dei più svariati problemi e di multiformi questioni, non trascura niente, non tralascia nessun argomento, traversa tutti quanti i Codici, dal Codice civile al Codice penale, al Codice di procedura penale, al Codice penitenziario; dimodoché si arriva ad un punto, in cui non si sa più se ci troviamo di fronte ad una legge costituzionale o ad una enciclopedia giuridica.
Basta uno sguardo anche superficiale al progetto per una simile constatazione. Valutatela voi.
E cominciamo: la famiglia, i diritti di famiglia, la definizione della famiglia. Ma in quale legge costituzionale avete visto la definizione della famiglia? Ditemi voi se esista e dove una legge simile.
C’è bisogno di fare una legge costituzionale per dire che cosa è una famiglia? Quella definizione poi non si sa che cosa voglia dire: «è una società naturale»; una definizione più scialba non si potrebbe immaginare; è priva d’ogni colore e d’ogni calore, d’ogni nota sentimentale.
È una società naturale. Non so perché poi sia indissolubile; tutte quante le società si possono sciogliere. Vedete adunque che avete definito in modo da stabilire una contradizione in una stessa legge.
Si parla dei diritti dei figli, del trattamento dei figli naturali, di diritti di successione, ecc.
Ma questa è materia di Codice civile. Vi sono leggi di già complete con molteplici disposizioni al riguardo. Se poi vi sembrano manchevoli le norme di già adottate, si potranno modificare. Ma distinguete la legge ordinaria dalla Costituzione.
Non hanno nulla a che vedere con la Costituzione la famiglia, la successione, i diritti dei figli.
Poi, si passa dal diritto civile al diritto penale. I principî più banali, più elementari, noti ormai a tutti i cittadini ed anche agli uscieri dei Tribunali e delle Università, dovunque accolti; la pena è personale, non vi è colpevole se non vi è una sentenza passata in giudicato, le leggi penali non hanno effetto retroattivo, di due pene diverse si applica quella più favorevole, ecc.
Ma vi era proprio bisogno di un’Assemblea come la nostra, creata con tanta solennità, per affermare concetti così elementari?
MANCINI PIETRO. È appunto il principio che si afferma.
RUBILLI. Ma ogni articolo di Codice contiene un principio e non tutti i principî si debbono evidentemente includere nella legge fondamentale.
Però nella elaborata relazione dell’insigne Presidente, che io ho esaminata con tutta l’attenzione possibile, si dice che, siccome questi principî sono stati violati qualche volta, sarà bene che noi li inseriamo nella Costituzione per ribadirli. Ma questa violazione ha avuto luogo in tempi di tirannia; noi invece facciamo una Costituzione per tempi liberi e civili, non per tempi tirannici; ché, se viene la tirannia – non sia mai, Presidente – non se ne vanno le piccole norme di cui ho fatto cenno, ma se ne va, cade e si annulla tutta la Costituzione.
RUSSO PEREZ. Non può cadere la Costituzione, perché c’è l’articolo 131, nel quale si dice che la forma repubblicana è definitiva.
RUBILLI. E poi ancora le norme penitenziarie: come deve essere espiata la pena, la pena deve essere di rieducazione. Ma questo sta scritto in tutti i manuali! E poi ancora: che i detenuti non debbono essere maltrattati. E questo è un reato, è un delitto di già previsto dal Codice penale, anzi precisato come un grave ed esoso delitto: e non vi è proprio ragione di ripeterlo nella Costituzione! Si passa persino, quindi, alla procedura penale, e voi vi siete pronunciati per la giuria, mentre vi è una Commissione parlamentare che ora propone il contrario, cioè che noi si ritorni ai giurati. Io credo che nella Commissione dei Settantacinque non ci fosse nessun avvocato penale, perché non è possibile che un avvocato penale sostenga ancora il sistema dei giurati.
MANCINI PIETRO. Eravamo invece in molti avvocati penali ed eravamo tutti per la giuria.
RUBILLI. Ho cinquant’anni di Corte d’assise: lasciatemi parlare.
MANCINI PIETRO Tanto vero che il fascismo non fece altro che abolire la giuria.
RUBILLI. Ma c’è la Commissione della giustizia che è una Commissione parlamentare, la quale propone, come propongo io, che non si torni ai giurati. La democrazia è una cosa magnifica, ma non ha nulla da vedere col retto funzionamento della giustizia dove si decidono le sorti dei cittadini. Né si può ripristinare un’istituzione sol perché il fascismo l’aveva abolita. E se poi l’Assemblea approva il parere dato dalla Commissione parlamentare per gli affari di giustizia, comincia a cadere un pezzo della Costituzione, prima che si sia approvata.
Una voce al centro. Ma lo vogliamo fare.
RUBILLI. L’inconveniente è appunto questo: che non bisognava parlarne; non è materia di Costituzione. Lasciamo andare quello che pensate sui giurati; ve la vedrete voi quando verrà la legge, e io potrò, spero, modestamente esprimere il mio pensiero. Ma quello che è certo è che questa non è affatto materia di Costituzione; tutto quello che muta, che cambia, non può, non deve trovar posto nella Costituzione. La Costituzione rappresenta appunto i cardini fondamentali, sacri ed intangibili che non possono, non devono essere sgretolati. I re, per tradizione, giuravano sul vangelo o sulla bibbia la fede alla Costituzione. Noi non la giuriamo, noi la votiamo soltanto; però, per noi Deputati e uomini di onore, il voto vale quanto il giuramento.
Dalle leggi civili, penali e procedurali poi si passa ad un lavoro di enunciazione dei rapporti economici che, secondo me – come ho detto – rappresentano la piattaforma elettorale della parte di sinistra della nostra Assemblea. Ora, come vi ho già detto, io non mi oppongo affatto anche alle riforme più ardite. Anzi, giacché si parla sempre, e sento dire ad ogni istante in quest’Aula del dovere di consolidare la Repubblica, io sono convinto che la Repubblica non si consolida né con mezzi di coercizione, né con parole persuasive; la Repubblica si consolida in un solo modo: con grandi riforme sociali ed economiche, specialmente a vantaggio delle classi più umili e più bisognose; altrimenti avrete la rivoluzione. Questo è il mio concetto.
Noi ci siamo già di troppo indugiati – confessiamolo apertamente – in crisi ministeriali e dibattiti sulle dichiarazioni dei governi, dei successivi governi, che poi in fondo si riducono ad un Governo solo, sempre lo stesso Governo; mentre il popolo aspettava ben altro da noi, e non ha avuto né una riforma, né una legge, né un provvedimento. Questo dobbiamo dire e confessare. Invece occorre provvedere alla Repubblica, ma non con frasi roboanti e articoli fugaci di Carte costituzionali. Come sarebbe a dire? C’è un articolo che solennemente afferma: «Si ha il diritto al lavoro». Che avete concretato? Con quali mezzi, con quali leggi? Che avete fatto per stabilire sul serio questo diritto al lavoro? Risponde il Presidente della Commissione, sempre oculato, a cui non sfugge niente: «Ma questo è un diritto potenziale». E come, i diritti potenziali, le possibilità si mettono nella Carta costituzionale?
RUINI: Sì, in tutte le Costituzioni moderne!
RUBILLI. Io non ce li metterei, perché nella Costituzione trova posto ciò che è stabile, non quello che è solo possibile ed aleatorio, e rappresenta una mera speranza, quando si sa poi che sono assai difficili i mezzi per appagarla.
Per me la Costituzione deve limitarsi ai diritti effettivi, non alle promesse, ma a quello che si può mantenere fin da questo momento. Non si risolve con una frase il grande problema della disoccupazione.
Le famiglie, si aggiunge, hanno diritto al sostentamento, ai mezzi di cui hanno bisogno; chi non può lavorare, chi è inabile deve avere efficace, completa assistenza. Il Presidente della Commissione dice: che questo non è diritto potenziale, ma un diritto concreto.
RUINI. Vi sono infatti gli istituti di assistenza.
RUBILLI. Ma si sa con quale scarsa efficacia questi istituti funzionano, ed io dico invece che dovete prima stabilire i mezzi adeguati, e poi affermare un diritto. E penso che si potrà anche arrivare al momento in cui, allorché sarete chiamati a mantenere le promesse sancite nella legge costituzionale, voi direte: non è possibile per il momento, perché c’è stata una piccola distrazione; infatti la Commissione si è dimenticata di chiamare tra i suoi componenti il Ministro del tesoro, per averne i fondi indispensabili.
Ora quale è la conclusione? Che tutta questa parte è opera della Camera legislativa. Riforme, sì, ma è la Camera legislativa che dovrà essere chiamata a tutto questo lavoro, e trovare i mezzi per attuare i diritti che solennemente vengono stabiliti.
Il popolo non vuole promesse, ma vuole fatti concreti e questi bisogna dare. Ora questo vagare della legge fra i vari codici, questo passaggio da un codice all’altro, senza escluderne nessuno, con una serie di affermazioni che potranno servire solo per i prossimi comizi elettorali, ma nulla danno al popolo, tranne che vaghe promesse, bisogna evitarlo. Secondo il mio avviso, questa materia dovrebbe essere tolta dalla Carta costituzionale…
LA ROCCA. Ma allora facciamo una Costituzione del 700!
RUBILLI. No; facciamo una Costituzione seria ed onesta, perché gli argomenti complessi e di grande portata sociale ed economica debbono essere demandati alla Camera legislativa.
Io credo che queste, che a mio avviso potrebbero rappresentare delle deficienze della Costituzione, e che secondo l’avviso di altri ne sarebbero forse pregi emeriti, siano anche da attribuirsi ad un fatto semplicissimo: cioè al modo come si è svolto il lavoro per formare la Costituzione. Io non so da quali criteri sia stato spinto il Presidente Saragat nel fare una Commissione di settantacinque persone per preparare la Carta costituzionale. Nessun digesto, nessun corpus juris, nessun codice, nessun trattato di pace, anche mondiale, ebbe un comitato di tante persone.
E naturalmente, in tanti, ognuno ha desiderato portare un pensiero proprio e dire qualche cosa che aveva nell’animo, nella coscienza; quindi, avete una legge costituzionale la quale si è ingrandita mano mano, secondo le idee che sorgevano a ciascuno dei costituenti. (Commenti — Interruzioni).
Non abbiate impazienze, perché dovete sentire anche il parere di coloro che sono di avviso contrario al vostro. Non possiamo avere tutti la vostra opinione.
Una voce a sinistra. Torniamo allo Statuto!
RUBILLI. Non c’è pericolo. Non era per i tempi nostri, ed era di già invecchiato prima del fascismo, tanto che si sentiva da ogni parte il bisogno ed il desiderio di modificarlo, ma anche se fosse stato adatto ai tempi nostri, bisognava abolirlo come un documento che non aveva avuto grande fortuna dopo quello che si è verificato. Si capisce, quindi, colleghi, che non ho proprio alcuna voglia di richiamare in vigore lo Statuto Albertino; parlo invece in modo puramente sereno ed obiettivo.
Aggiungo che anche il metodo ha la sua importanza, ed il metodo seguito dai settantacinque non mi piace affatto, perché non si spiega quella divisione in varie sottocommissioni e sezioni con un lavoro affidato ad alcuni ed altro lavoro a diversi componenti che agiscono per conto proprio. Questo si può fare nei codici, dove ogni parte è quasi autonoma e può essere trattata a sé, indipendentemente dalle altre parti, ma non si può fare per una legge costituzionale, che dev’essere considerata nel suo complesso con uno sguardo di assieme così come si presenta, di getto.
Mi pare che si sia fatto con la costituzione come quell’artista, che dovendo creare una statua, aveva affidato le braccia a un suo discepolo, le gambe ad un altro discepolo e la testa se l’era riservata per sé. Presso a poco è così.
Sono queste le osservazioni d’indole generale a cui mi limito per non dilungarmi troppo. Qualche piccolo rilievo devo fare ancora. Come volete che io capisca il significato vero, reale dell’articolo 1? Che significa la repubblica dei lavoratori? Credo piuttosto che la Repubblica italiana sia di tutti quanti i cittadini italiani, che la stessa Carta costituzionale dichiara eguali dinanzi alla legge ed egualmente tutela e garantisce. Nessuno più di me ama il lavoro ed i lavoratori, perché ho vissuto sempre e vivo anche ora esclusivamente di lavoro quotidiano. Sì, amo il lavoro ed i lavoratori, ma non mi spiego questa affermazione solenne e risonante che l’Italia sia la Repubblica dei lavoratori.
Per quanto riguarda il preambolo, ritengo che non sia indispensabile; se non c’è preambolo la Costituzione rimane egualmente, né si cambia o si modifica solo perché vi è o non vi è il preambolo, ma in fondo credo che sia utile, che sia opportuno ed anche esteticamente farebbe assai buona impressione e suonerebbe bene alla coscienza del popolo italiano. Fatelo come volete, per me è indifferente; potete preferire l’invocazione a Dio, come dice Lucifero, oppure un caldo appello al popolo, alla coscienza del popolo, come è stato detto dall’altra parte; potete unire Dio e popolo anche per contentare gli storici mazziniani. Come vi piace; occorre però che vi sia un pensiero caldo che scenda al cuore e parli all’anima del popolo italiano. È la Repubblica che si presenta, la Repubblica col suo saluto augurale, che salda si afferma con le sue prime leggi costituzionali. Ripeto che non è indispensabile, ma senza dubbio sarebbe utile. Se vi è qualcuno che sappia dettare come si conviene questo preambolo, e credo che ve ne siano tanti nella Commissione a cominciare dal Presidente, è bene farlo e sarà l’espressione della nostra coscienza che troverà eco profonda in eguale espressione del popolo italiano.
Vi ho fatto adunque qua e là degli accenni fugaci, poiché, come vedete, io parlo così per semplici impressioni ed in pari tempo con sincero convincimento. Per discutere tutta la legge costituzionale occorrerebbe almeno una settimana. Una discussione completa non può venire da un solo Deputato, ma dal complesso degli oratori.
Consentitemi ora che una parola io dica su quelli che sono i due punti fondamentali, i cardini del progetto. Le disposizioni che io modestamente ho criticate, ci siano o non ci siano, utili o no, in fondo non rappresentano un gran male. A me pare che sarebbe bene obbedire di più al precetto che ci ha dato il Presidente della Commissione, che cioè la Costituzione debba essere breve, chiara e semplice. Se fosse sfrondata di tante materie che non sono indispensabili o vanno rinviate alla Camera legislativa, o non possono essere trattate incidentalmente e di straforo, sarebbe meglio. Non volete farlo? Non importa. La legge costituzionale rimane la stessa, anche se voglia comprendere argomenti non proprî o riuscire inutilmente pletorica, e grave danno in fondo non apporta.
Ma dove richiamo, per debito di coscienza come Deputato, ed anche come cittadino tutta quanta la vostra attenzione, è sui due punti fondamentali, sui due cardini come ho già detto del progetto di Costituzione: la riforma regionale e la formazione del Senato. Sono due punti nuovi. Naturalmente non farò, come hanno fatto altri oratori fino a questo momento, che dire concetti puramente di indole generale, perché la discussione più ampia sarà fatta a suo tempo. Ma permettetemi di manifestare il mio pensiero come l’hanno manifestato altri sia pure in senso opposto a ciò che io sono per dirvi. Per conto mio, sono contrarissimo alla riforma regionale. Esempi ne abbiamo di già avuti fino a questo momento. Abbiamo date delle autonomie e state vedendo quello che avviene e che non è certo confortante. Ma ad ogni modo dove ora esistono hanno rappresentato una giusta, legittima ed opportuna transazione. Dopo la guerra non si poteva fare diversamente. Avremmo avuto peggiori sconvolgimenti se non si fossero concesse le autonomie. Io sono contrario a tutte le autonomie, ma dico che quelle concesse debbono rimanere. Più che concesse veramente sono state strappate e imposte, diciamo la verità. Qui possiamo dire, anzi dobbiamo dire, sempre tutta quanta la verità, e se sarà pure indiscutibile quello che ripete con calda anima di siciliano l’onorevole Orlando, che la Sicilia non può rimanere senza l’Italia e l’Italia non può rimanere senza la Sicilia, non si potrà neppure in alcun modo negare che ove mai voi mettiate in dubbio la concessa autonomia della Sicilia, onorevole Orlando, io non so se la Sicilia sarà senza l’Italia o l’Italia sarà senza la Sicilia. Quello che è fatto bisogna mantenerlo. Non avverrà niente, come voi sostenete, ma è prudente che ogni inconveniente sia anche lontanamente previsto ed eliminato.
Ma se si son dovute per forza consentire, e, diciamolo pure, non molto volentieri delle autonomie, perché, vi domando, volete estenderle ancora? Io sono completamente contrario per ragioni politiche e per esigenze amministrative. Dal punto di vista politico perché, (sarà anche una questione di nostalgia) noi abbiamo conservato sempre vivo nell’animo il ricordo del nostro Risorgimento e sappiamo i sacrifici che esso è costato. Ci hanno insegnato sin dalle scuole elementari ad onorare i Martiri che hanno creato l’unità d’Italia. Noi siamo abituati al culto di questa unità. Non scacceremo mai dall’animo nostro, finché viviamo, questo sentimento nobilissimo che è ormai connaturato in noi. Anche se nulla di male dovesse avvenire, a noi parrebbe sempre che questo spezzettamento rovini l’Italia. In un’altra nazione forse la cosa potrebbe importar poco, ma proprio in Italia, dove c’è il triste ricordo dei vari Stati e staterelli, oggi mi fate le varie regioni e mi fate i vari Parlamenti? Uno deve essere il Parlamento! Dall’unità dell’Italia siamo abituati a vedere i grandi uomini politici, uniti, spendere tutte quante le loro forze, la loro attività e morire poveri per l’Italia nell’unico parlamento italiano che ha sempre rappresentato la saldezza della Patria nostra ed ha raccolte in sé tutte le virtù della nostra gente. Come vi viene in mente di fare proprio ora un parlamento napoletano, o un parlamento lombardo, o tanti altri parlamenti grandi o piccoli che sieno? Ora, per queste ragioni di carattere politico, sono completamente contrario alla riforma regionale.
E sono contrario anche per esigenze amministrative. Decentrare, sì, decentrare finché volete, ma decentrare significa pure semplificare, mentre voi decentrate per complicare. E questo non mi pare opportuno, né credo possa rappresentare un giusto criterio di diritto amministrativo.
Voi mi create tanti enti, con multiformi facoltà, e lo fate con troppa leggerezza e superficialità, senza rendervi conto di quello che potrà avvenire. Quindi, anche per ragioni di carattere amministrativo, io sono contrario alla riforma regionale e sono meravigliato nel sentire che di questa riforma proprio ora non si voglia e non si possa fare a meno. Chi l’ha detto? Non vi è una stampa che ne abbia fatto oggetto della sua attività, non vi sono uomini politici che ne abbiano parlato nei comizi elettorali, non vi sono opuscoli o trattati che se ne occupino o la consiglino, non vi è niente e nessuno se ne è occupato. Noi non riceviamo che ordini del giorno votati da enti, istituti, associazioni, tutti eguali e tutti contro le regioni. Non c’è un solo ordine del giorno in favore della riforma regionale. (Proteste – Commenti).
Una voce al centro. Non ve li mandano, perché non ci credete.
RUBILLI. Questa proposta inventata, non si sa come, dalla Commissione è servita solamente, per ora, ad alimentare le rivalità e le vanità dei vari capoluoghi delle varie popolazioni interessate. Ogni città vuol essere capoluogo di Regione. Si parla di regione del Sannio, della Daunia, del Molise, del Salernitano, ecc. Credevo che fosse una specialità dell’Italia meridionale, ma ora vedo che vengono anche dall’Italia settentrionale questi desideri; così per Imperia, Cuneo, ecc. E naturalmente il male si è propagato ed è passato pure nel settentrione. Si è creata così un’agitazione nel Paese, mentre la riforma regionale nessuno la desidera, nessuno la vuole, anzi nessuno l’ha prevista o se l’aspettava.
Una voce al centro. È inesatto. Bisogna aggiornarsi.
RUBILLI. Può essere che sia inesatto quello che ho detto, sebbene a me sembri che siate inesatti voi e non io. Ma non capisco perché vi dovete ostinare su certi concetti. Quando vi è una ragione di partito, io mi arrendo, perché la ragione di partito purtroppo è predominante. Per esempio: la proporzionale. Voi sapete che ho combattuto accanitamente contro la proporzionale; ad ogni modo, la proporzionale è rimasta, con le sue non liete conseguenze e con i suoi inevitabili inconvenienti sino al punto che non possiamo avere un Governo diverso da quello che c’è, intangibile ed inamovibile, e non possiamo neppure avere un Sindaco a Roma. Ma la proporzionale posso anche tollerarla, perché s’imposta su di una ragione di Partito; essa giova ai partiti di massa, quindi, se non la giustifico, me la spiego, e mi spiego pure che, ad onta di tutte le evidenti difficoltà che presenta, vi accingiate a sostenerla ancora.
PRESIDENTE. Onorevole Rubilli, non devii dall’argomento. La legge elettorale la discuteremo poi.
RUBILLI. Chiedo scusa, ma ho creduto mio dovere di rispondere ad una interruzione e ad una domanda che mi è stata rivolta.
Per la riforma regionale, però, non vi è nemmeno una ragione di partito, quindi non so spiegarmi perché ad ogni costo voi volete insistervi.
Ma io vi dico un’altra cosa: supponiamo che sia una grande riforma, il che, mettetevi in mente, non si può dire o ritenere in alcun modo. Vi faccio ora un quesito: vi pare che sia questo il momento di attuarla? Stiamo appena rinascendo, stiamo risorgendo dalle rovine, dalle ceneri della Patria e volete abolire quelle provincie che hanno tanto servito, e bene, il Paese dall’unità d’Italia in poi? Proprio in questo momento si deve attuare e con tanta incomprensibile fretta una grande riforma pericolosa di cui non possiamo prevedere le conseguenze? Anche se fosse una riforma utile, vi direi di aspettare un altro momento più opportuno, a breve o a lunga cadenza.
Ma volete ancora elementi decisivi a riguardo? Ebbene io vi dico che se non vi fossero altre ragioni per ostacolare, almeno in questo momento, la riforma regionale, per me basterebbe e dovrebbe bastare anche per gli altri, quello che ha scritto il Presidente della Commissione nella sua relazione. Il Presidente della Commissione scrive infatti questo: «Nell’atto di dare il via a così rilevante forma strutturale della vita italiana, la Commissione non si è celata la complessità e le difficoltà di pratica attuazione. Basti pensare all’autonomia finanziaria non agevole a congegnarsi».
E voi volete proporre la riforma, e non avete pensato a risolvere e concretare prima quello che ne è il punto quasi essenziale e certo il più difficile?
RUINI. Le difficoltà le sentivamo.
RUBILLI. Vuol dire che allora le difficoltà le rimettete agli altri. Intanto segnate nella Carta costituzionale la grande ardita pericolosa riforma, e poi gli altri se la vedranno. (Commenti).
Io alla mia età non ho grandi interessi da sostenere, né un avvenire da coltivare, non ho nulla da temere ed anche nulla da sperare, tengo solo a compiere modestamente il mio dovere, e dico a voi: riflettete, pensateci e vedete se con le presenti difficoltà volete proprio ora mettere la nazione in una situazione di vero sbaraglio, di fronte ad una grande incognita e ad una riforma tutt’altro che matura e preparata.
Un’altra parola debbo ancora dire, e poi concludo, su di un altro punto che ritengo fondamentale del progetto di Costituzione, cioè sul Senato. Vi dichiaro che io sono contrario ad un Senato completamente elettivo. Non vi parlo del modo come sono state stabilite le categorie dei senatori. Vi ricordo solo che si arriva al punto di rendere eleggibili al Senato i consiglieri comunali anche dei più piccoli Comuni, dei quali abbiamo un triste ricordo che ci viene da quando li abbiamo visti funzionare come giurati. I giurati erano in gran parte Consiglieri comunali, perché i professionisti, ed in genere quelli delle categorie più elevate, trovavano sempre il modo di farsi ricusare.
(Commenti – Interruzioni).
Ora sapete che notavamo, e non di rado, i perché la votazione avveniva in udienza, di fronte a noi? Che un giurato guardava il suo vicino, e se questi sulla scheda scriveva sì egli pure scriveva sì, se poi vedeva scrivere no si regolava egualmente. E questi consiglieri comunali, ex giurati e presso a poco analfabeti, possono giungere al Senato!
Ma dove siamo arrivati? (Commenti – Si ride).
Una voce. Alla sovranità del popolo! (Commenti).
RUBILLI. La sovranità del popolo va rispettata più di ogni altra cosa, ma dobbiamo evitare gl’inconvenienti dei capricci elettorali. Io parlo del progetto: quello che farete voi è un’altra cosa; anzi sono ben disposto a sperare che non mancheranno attraverso la discussione notevoli miglioramenti. Dico che nelle condizioni proposte non vedo perché debba esservi un Senato, che poi rappresenta sempre un peso sul bilancio dello Stato: una Camera legislativa costa e non poco. Il sistema completamente elettorale rende inutile una seconda Camera. Quelli che eleggeranno i Deputati al Parlamento saranno poi gli stessi che eleggeranno i Senatori, identici nella loro fisonomia politica o di partiti. Avremo, quindi, tanti comunisti, tanti democratici cristiani, tanti socialisti e che so io per la Camera; e per il Senato avremo ugualmente tanti comunisti, tanti socialisti e tanti democristiani, perché sono sempre quelle le masse che operano direttamente o indirettamente su terreno elettorale. E allora i comunisti al Senato, per disciplina di partito, faranno quello che fanno i Deputati comunisti alla Camera. Nello stesso modo si regoleranno i democristiani ed i socialisti. Ma allora questa seconda Camera perché la fate? (Applausi a destra).
Sarà una seconda, ma identica edizione dell’altra Camera e non servirà a niente. Un tripartito, insomma, alla Camera dei deputati ed un altro eguale tripartito al Senato.
Una voce a sinistra. La seconda Camera noi non la volevamo.
RUSSO PEREZ. E noi la vogliamo seria.
RUBILLI. Allora se non la volevate è meglio non farla, perché sarà un peso di meno pel bilancio. Almeno una volta siamo d’accordo. Per chi la vuole poi, deve essere costituita in modo che abbia una ragione di esistere.
Cerco di concludere, perché mi accorgo di avere un poco abusato della vostra cortesissima pazienza. Ma una legge costituzionale richiede pure discussione. Quindi, mi limito per ora a questo che ho detto, salvo a riprendere la parola, quando il Presidente me la concederà, in un altro momento opportuno.
La seconda ragione per cui sono contrario alla Costituzione del Senato, così come è prevista dal progetto, è questa: esistono o pur no nella Nazione delle personalità elevate, di competenza indiscutibile, uomini dotti, che sono assurti ai più alti fastigi nelle scienze, nell’arte, nelle questioni sociali e politiche? Uomini che per la loro stessa natura vivono fuori dei partiti? Per esempio, il Primo Presidente della Corte di cassazione, che poi non sarà il Presidente attuale. (Si ride). Un Primo Presidente di Corte di cassazione è una personalità spiccata, è il più alto funzionario, il numero uno nella graduatoria dei pubblici funzionari. E perché dovrebbe star fuori del Senato?
Vi sono persone di grande preparazione. Perché all’attività legislativa, alle alte mansioni da cui dipende la vita dello Stato, perché debbono rimanere assolutamente estranee? Perché debbono essere avulse da ogni efficace e benefica collaborazione? Io domando: uomini come questi che mi circondano, per esempio, perché dovrebbero stare fuori del Senato?
Una voce. Saranno eletti.
RUBILLI. Può darsi pure che siano eletti. Ma può verificarsi anche il contrario, e poi come vi dicevo, si tratta per lo più di persone che o sono fuori di ogni Partito, o per il loro grado e per le loro qualità elevatissime sono restìe ad affrontare l’alea elettorale, mentre sarebbe per esse non solo un diritto, ma anche un dovere di contribuire con la loro competenza, dottrina e perspicacia alla formazione delle leggi.
Ecco la seconda ragione per cui sono contrario ad un Senato che sia tutto quanto elettivo. Una parte, un terzo almeno non sia elettivo; che ci sia una possibilità, nei limiti che volete, di fare entrare al Senato queste grandi personalità, queste grandi voci che possono onorare l’Italia e la patria nostra e che col loro nome possono anche elevare la Nazione di fronte all’estero – dovete i tener conto di ciò specialmente ora che tutte le forze convergono a farci riprendere il nostro prestigio. Proprio in questo momento voi scegliete solo gli uomini che vengono dai partiti; uomini nuovi; è vero che sono i giovani, siamo perfettamente d’accordo, i quali debbono farsi avanti ed essere preferiti. Ma date un posto anche a quelli che con la loro virtù e con la loro esperienza, come per esempio i più alti funzionari, come coloro che a forza di studio hanno quasi acquistato una fama mondiale, possono validamente contribuire ad accreditare col loro nome onorato l’Italia, ed a guidarla nella nuova legislazione, nei nuovi orientamenti economici, sociali e politici. Anche di questi uomini la Patria ora ha bisogno.
Le discussioni, in fondo, a qualche cosa servono: servono per creare ed anche per modificare e migliorare. Orbene, ad onta di queste osservazioni che vi ho prospettate, io sono certo che con lo studio diligentissimo fatto dalla nostra, sia pure esuberante, Commissione e con l’ausilio delle ampie riflessioni, che verranno da ogni parte dell’Assemblea, di qui a qualche mese, l’Italia avrà la sua Costituzione, veramente degna delle sue grandi e gloriose tradizioni. (Vivi applausi al centro e a destra – Molte congratulazioni).
(La seduta, sospesa alle 18.50, è ripresa alle 19.10).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Saragat. Ne ha facoltà.
SARAGAT. Onorevoli colleghi, il progetto di Costituzione, che sta di fronte a noi, è il risultato necessario di un compromesso politico fra differenti partiti, non poteva essere diversamente.
Questa eterogeneità delle forze politiche, che hanno contribuito alla elaborazione di questo documento, si riflette necessariamente sulla eterogeneità delle sue formulazioni.
E questo si spiega.
Il crollo del fascismo in Italia si è accompagnato col crollo delle forme politiche, di cui il fascismo era l’espressione, ma non si è accompagnato col crollo della vecchia struttura economica italiana, della vecchia struttura sociale italiana. Molte parti di questa struttura economica e di questa struttura sociale sono rimaste in piedi.
È avvenuto in Italia qualcosa di molto diverso di quello che è avvenuto in altri Paesi d’Europa, dove le rivoluzioni politiche hanno trascinato con sé anche il vecchio mondo sociale, di cui queste società politiche erano l’espressione.
Potremmo dolerci di questo o potremmo felicitarci, a seconda del punto di vista in cui ci collochiamo; ma questo è un dato di fatto, da cui dobbiamo partire.
Questa situazione di fatto, di fronte alla quale ci troviamo, propone al legislatore dei compiti speciali, che sono diversi dai compiti che si sono proposti ai legislatori dei Paesi, in cui le rivoluzioni hanno, invece, fatto tabula rasa del vecchio mondo.
In queste società, in cui le rivoluzioni hanno fatto tabula rasa del vecchio mondo, i legislatori si sono trovati non soltanto, talvolta, nella necessità di creare un ordine nuovo, ma anche, di far rivivere elementi del vecchio mondo, che si mostrarono utili ed erano stati spazzati via.
Da noi il problema è diverso.
Si tratta di eliminare progressivamente tutto quello che del vecchio mondo sociale italiano non risponde più allo spirito dei tempi. Da noi si tratta, in altri termini, di creare un tipo di Costituzione moderna, di gettare le fondamenta d’un ordine nuovo, anche dal punto di vista sociale ed economico, e di farlo, anche se sappiamo che su queste fondamenta non ci sarà possibile elevare subito le mura della nuova casa.
E questo spiega perché, mentre nelle società, in cui la rivoluzione ha spazzato via tutto, le Costituzioni hanno carattere di linearità e di semplicità, che molte volte confina anche con il semplicismo, da noi, invece, la Costituzione deve seguire le curve d’una realtà infinitamente più complessa. È per questo che la nostra Costituzione ha un carattere, che può apparire contraddittorio; ma la contraddittorietà è nella natura delle cose e della materia, che noi dobbiamo elaborare dal punto di vista legislativo e costituzionale.
È molto facile fare delle Costituzioni – vedete! – quando le minoranze non hanno voce in capitolo. In questo caso i testi legislativi hanno un carattere di omogeneità.
Si direbbe veramente che la storia universale sia docile al cenno d’un legislatore imperioso. È molto facile fare Costituzioni omogenee, dove non c’è che un partito unico che legifera. È molto più complesso farle nel caso in cui ci troviamo noi, in cui ci sono molti partiti, che hanno cooperato al compito nuovo di ricostruzione della nuova casa italiana. Non voglio fare qui che una questione di forma perché, se dovessimo fare una questione di fondo, dovremmo dire: la Costituzione che abbiamo creato è suscettibile di rispondere, sia pure progressivamente, ai bisogni profondi della grande maggioranza del popolo italiano? Questo infatti è il problema. Dal modo come gli sviluppi della situazione italiana risponderanno a questo quesito, dipenderà il destino della democrazia che abbiamo creato.
Tutto quello che possiamo oggi chiedere al testo legislativo che dobbiamo elaborare è di assecondare questo processo di evoluzione delle masse, fondato su una nuova giustizia sociale, questo ordine nuovo fondato sulla libertà politica. E noi dobbiamo anche chiedere al legislatore di assecondarlo in misura efficace. Ed io penso che questa misura non sia piccola perché, contrariamente alle prevenzioni che hanno molti, i quali pensano che il testo legislativo non abbia efficacia sull’azione economica, che il testo legislativo sorga un po’ al crepuscolo dell’azione, noi pensiamo invece che ci sono dei casi in cui l’azione rivoluzionaria del legislatore ha una efficacia profonda, per trasformare la sostanza economica del Paese, per assecondare il processo di evoluzione verso un ordine nuovo sociale ed economico.
In linea generale, si può ammettere che è pur vero che vi sono le condizioni economiche che determinano le evoluzioni legislative; ma possiamo anche ammettere che un’audace innovazione di carattere legislativo può avere un’efficacia nel senso della trasformazione economica della società. Ed è per questo che, mentre nei paesi in cui le rivoluzioni sono state, in un certo senso, già fatte, si può considerare esatta la frase del grande legislatore russo, Stalin, il quale dice che le Costituzioni non sono dei programmi; questa frase non può invece esser presa alla lettera, perché va adattata alle varie situazioni storiche, perché, in un mondo come il nostro in cui la curva degli avvenimenti non ha subìto salti bruschi, ma segue invece un andamento progressivo, noi possiamo ammettere che le Costituzioni siano anche dei programmi.
Del resto, onorevoli colleghi, è il caso di chiederci veramente se questa distinzione, fra paesi in cui le rivoluzioni si sono fatte e Paesi in cui le rivoluzioni sono ancora da farsi, non abbia un carattere un po’ scolastico, formale. Nei paesi, per esempio, in cui la rivoluzione è stata già fatta, nei paesi in cui i diritti sociali sono stati realizzati in misura maggiore che non negli altri, noi possiamo constatare che, purtroppo, in alcuni casi, certi diritti di libertà debbono essere di nuovo restaurati.
Noi vediamo allora che appunto manca qualche cosa di fondamentale in quella Costituzione. Nei paesi, però, come il nostro, in cui le rivoluzioni sociali non sono state ancora fatte, certi diritti fondamentali e politici sono veramente acquisiti, in modo che non si può dire che vi sia ancora tutto da fare.
Molte cose sono state fatte e molte cose si faranno. Il popolo italiano è riuscito, in ogni caso, col crollo del fascismo, a riconquistare quei diritti fondamentali politici che sono dei diritti inalienabili della persona umana, e la democrazia politica che abbiamo instaurato noi in Italia è una democrazia che risponde pienamente ai requisiti di una vera comunità politicamente libera. Il progetto che noi esaminiamo ha fatto molto bene a sottolineare il carattere inalienabile di questi diritti. Ma, accanto a questi diritti di libertà che sono sanzionati da tutte le Costituzioni moderne, accanto a questi diritti individuali, il testo della nostra Costituzione introduce una nozione che è nuova per l’Italia, ma non è nuova per altre legislazioni e per altri paesi d’Europa, ed è la legislazione dei diritti sociali.
Questo punto è essenziale al nostro documento, ed è quello che conferisce alla Costituzione che noi esaminiamo il suo carattere specifico, e ne fa una Costituzione veramente moderna e adeguata allo spirito dei tempi. Con questa innovazione fondamentale, il testo che noi discutiamo si adegua al moto di trasformazione della struttura economica delle società moderne. Si passa da un’economia a carattere puramente individualistico al tipo di economia in cui la libera impresa si trova a contatto con l’impresa non privata, collettiva, di Stato, con l’impresa socializzata. In termini più generali, si può dire che il progetto che stiamo discutendo riflette sul piano giuridico un compromesso tra le forme tradizionali dell’economia privata e la forma nuova dell’economia collettiva.
Ma, prima di scendere all’esame più particolareggiato di questo aspetto della questione, vorrei intrattenermi per un istante su un altro fatto: vorrei dire quanto sarebbe assurdo stabilire un’equazione fra economia privata e diritti individuali, quasi che la scomparsa progressiva delle istituzioni privatistiche dovesse coincidere con la scomparsa progressiva dei diritti di libertà, dei diritti individuali. Diciamo subito che i diritti di libertà sono diritti inalienabili in qualsiasi tipo di società; e il testo ha fatto molto bene a dare ad essi un rilievo essenziale e a considerarli come principî assolutamente inviolabili. Questi diritti sono talmente radicati nella coscienza del mondo moderno che, anche dove vengono praticamente calpestati, non vengono mai pubblicamente negati. È questo un tacito omaggio che la dittatura rende alla libertà politica; e la critica che da parte dei socialisti si è mossa, per esempio, nel secolo scorso ai così detti diritti dell’uomo, è una critica delle limitazioni egoistiche di questi diritti, non del contenuto umano che è in questi diritti. La critica che socialisti teorici hanno mosso nel secolo scorso alla nozione di libertà di stampa, per esempio, era una critica che moveva dal fatto dell’aspetto improprio di questa libertà, fino a tanto che questa libertà era privilegio di gruppi, e non invece patrimonio di tutte le classi lavoratrici. Ma è chiaro che è nella misura in cui tutte le classi lavoratrici possono usufruire di questo bene che la libertà di stampa cessa di essere un diritto sezionale, per diventare veramente un diritto universale, generale. La Costituzione ha fatto molto bene, quindi, a sottolineare il carattere inalienabile di questi diritti e il loro valore assoluto. Queste limitazioni dei vecchi diritti dell’uomo, dei diritti che si chiamavano «diritti borghesi», sono a mano a mano superate dalla natura stessa delle cose, dalla possibilità che hanno le classi lavoratrici di poterne beneficiare nel modo più vasto; ed è assurdo oggi ripetere certe critiche che avrebbero potuto avere un senso cinquanta anni fa, ma che oggi perderebbero senz’altro ogni valore.
Ripetiamo, quindi, che l’economia individualistica potrà scomparire a vantaggio di forme diverse di economia sociale, ma che le libertà individuali dovranno sopravvivere, perché se non sopravvivessero sarebbe morto ogni tipo di società fondato sulla nozione di responsabilità personale.
Accanto a questi diritti di libertà noi troviamo nel progetto i diritti sociali. L’articolo 1 di esso dice: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Può darsi benissimo che dal punto di vista giuridico questa formulazione non sia tra le più felici; ma io ritengo che la sostanza di questa affermazione sia storicamente esatta, e che anzi su di essa poggi tutta quanta la struttura di questo progetto relativamente a diritti sociali. Ciò che caratterizza il nostro testo è appunto il dilatarsi della nozione di responsabilità da quella unicamente verso se stessi, che è il fondamento dei diritti di libertà, a quella più vasta di responsabilità verso i propri simili, che è il fondamento dei diritti sociali.
I rapporti da uomo a uomo si estendono oggi dall’ambito individuale, alla sfera più vasta dell’ambito sociale; il che non è soltanto giusto dal punto di vista etico, ma anche vero dal punto di vista storico. Oggi si prende atto che l’individuo si avvantaggia del lavoro di tutti e dà a tutti il suo contributo. Questo contributo è appunto il lavoro umano. Il rapporto concreto di solidarietà che nel mondo moderno lega gli uomini non può essere che il lavoro. Se questo rapporto, per ragioni che sono note agli studiosi di economia, può assumere un carattere antagonista, non è men vero che abbiamo diritto di ritenere che verrà un giorno in cui questo rapporto di lavoro sarà la base di una società più giusta.
Può darsi che la critica dal punto di vista giuridico di questo aspetto del problema sia giusta, ma io penso che ogni lavoratore, leggendo questo documento, può capire che cosa si vuol dire. Che cosa vuol dire infatti questo articolo primo della Costituzione? Vuol dire che essa mette l’accento su tutto ciò che è lavoro umano, che essa mette l’accento sul fatto che la società umana è fondata non più sul diritto di proprietà e di ricchezza, ma sulla attività produttiva di questa ricchezza. È il rovesciamento, insomma, delle vecchie concezioni, per cui si passa dal fatto della ricchezza sociale a considerare l’atto che produce questa ricchezza. E questo dà luogo a sviluppi molto importanti. Il fatto della proprietà in sé può essere anche un fatto di carattere egoistico, ma l’atto del lavoro è veramente un atto per sua natura altruistico e determina un rapporto collettivo che dà un risalto anche al carattere sociale dei diritti. In altri termini, mentre la proprietà può isolare, il lavoro unisce, ed è da questa nozione dell’attività produttiva e del lavoro – nozione che deve essere associata al diritto al lavoro – che sgorgano tutti gli altri diritti sociali.
Questa è la nozione fondamentale di questo documento e su essa poggia tutto il sistema giuridico che ha ispirato il legislatore di questo documento. Ed aggiungo che questa nozione del lavoro regola non soltanto i diritti sociali, ma regola anche i diritti di libertà. Non vorrei fare della demagogia, ma bisogna tener conto di questo fatto fondamentale: che valore può avere oggi per un disoccupato, per un uomo che lotta per la sua vita fisica, che valore può avere la nozione di libertà di stampa, o di pensiero, o di riunione? Certo, può avere un valore importante; ma, badate, che queste libertà varranno al disoccupato come armi di guerra in un clima che non sarà più democratico.
I diritti sociali sono un complemento necessario oggi dei diritti di libertà, e qui sorge un problema fondamentale, ed è un problema che ha posto anche l’onorevole Togliatti nella sua relazione in sede di Sottocommissione: il problema cioè della garanzia di questi diritti. È un problema che storicamente si pone in modo analogo a quello della garanzia dei diritti di libertà delle vecchie Costituzioni. Anche allora si poneva il problema di queste garanzie del diritto di riunione, di stampa, di pensiero. Oggi si pone questo problema in modo moderno: quale è la garanzia che questi diritti sociali possano venire effettivamente realizzati e finalmente applicati? Allora, nelle vecchie Costituzioni, questi diritti di libertà venivano garantiti da istituti formali e venivano affidati al senso di civismo del Paese, al senso di libertà delle masse popolari. Così, oggi, in certo senso, la garanzia effettiva di questi diritti può bensì essere trovata in alcuni istituti formali, ma deve essere affidata al senso di civismo del popolo italiano ed all’azione che i partiti possono esercitare per dare un contributo concreto.
Ed ecco che, lungi dal relegarli, come è stato proposto, nel preambolo, io ritengo che essi vivifichino, con la loro presenza, tutto quanto il documento che stiamo esaminando. Qui veramente la Costituzione si può dire che cessi di essere un documento astratto e diventi qualche cosa di concreto e di vivo, diventi un programma nel senso che abbiamo detto noi, un programma costruttivo che dà un orientamento al Paese. Ed è evidente che, se noi togliessimo dalla Costituzione moderna questo diritto sociale, faremmo una cosa morta.
In verità, essi sono la parte più viva di questo documento; posso ammettere che la formulazione sia stata più o meno felice, ma bisogna riconoscere che senza di essi questo documento perderebbe ogni sua ragione storica, ogni sua giustificazione sociale.
Bisogna quindi reagire contro lo stato d’animo che si è formato in questa Assemblea, e che nasce appunto da una sfiducia sul valore della democrazia. In fondo è la possibilità di vita stessa della democrazia politica che è in discussione, perché, vedete, è il problema della garanzia di questi diritti sociali che si pone, come è stato detto, storicamente, in modo analogo a quello per cui si poneva nelle vecchie Costituzioni il problema di garanzia dei diritti di libertà. È un problema di vita o di morte della democrazia politica. A chi dicesse quali garanzie abbiamo noi da realizzare, direi che il problema va posto in modo diverso. Se veramente noi avessimo l’impressione che nessuno di questi diritti sociali può essere realizzato, dovremmo porre la domanda in modo diverso, dovremmo porla in questo modo: quali garanzie abbiamo noi che la democrazia politica possa oggi vivere? Se non siamo capaci di dare un contenuto concreto a questi diritti sociali, non possiamo difendere neanche i diritti di libertà. Se cade la parte sociale di questa Costituzione e se, in altri termini, non siamo in grado di realizzare la parte sociale di questa Costituzione, non saremo in grado di difendere la parte politica.
Oggi la democrazia sociale è talmente legata alla democrazia politica per cui, se non realizziamo un minimo di giustizia sociale, non saremo in grado neanche di difendere i diritti di libertà.
Dal punto di vista tecnico è stato rilevato che questa parte del documento è di una formulazione giuridica imperfetta. Può darsi, in quanto le contraddizioni che si rilevano nel documento sono contraddizioni – va notato – della natura stessa delle cose. Il documento è stato elaborato da forze sociali contrastanti, da partiti diversi, e queste contraddizioni riflettono le contraddizioni che sono proprie della situazione italiana di oggi, una situazione che, noi tutti sentiamo, è transitoria.
Ciò che è essenziale è che in esso sia stato dato un rilievo efficace a tutto ciò che del mondo passato deve essere conservato, e sono essenzialmente i diritti di libertà, e sia stato dato un rilievo efficace a tutto ciò che noi vogliamo costruire di nuovo per creare un mondo veramente migliore per tutti i lavoratori italiani.
Questa Costituzione, a mio avviso, concilia in modo abbastanza felice la nozione di libertà e la nozione di giustizia sociale, la nozione di personalità e la nozione di umanità. In altri termini, tutto ciò che è individuale e tutto ciò che è collettivo. Queste due nozioni, vedete, nozione di libertà e nozione di solidarietà, in fondo sono state compromesse dai regimi passati. Per esempio, la nozione di libertà è stata compromessa profondamente nella coscienza moderna. Da che cosa? Dall’aspetto egoistico con cui la libertà si è presentata nelle Costituzioni del secolo scorso. La libertà appariva veramente come qualche cosa che isolasse l’individuo, lo sottraesse ai doveri di solidarietà che esso ha verso la collettività.
D’altra parte, la nozione della solidarietà è stata compromessa dai regimi totalitari, i quali hanno compromesso, con la formula «tutto per lo Stato», la nozione di responsabilità sociale e di solidarietà sociale. Ed ecco invece che queste due nozioni, la nozione di libertà e la nozione di solidarietà, devono essere abbinate, mentre sono state compromesse nello spirito di molti, per cui se oggi uno mette l’accento sul problema della libertà individuale, si ha l’impressione che voglia, con questo, trascurare la necessaria solidarietà che deve legare un individuo all’altro; e se mette l’accento sulla solidarietà, si ha l’impressione che voglia trascurare il problema della libertà individuale.
Merito di questa Costituzione è di avere instaurato queste due nozioni ed averle collocate nella loro luce umana e veramente democratica.
Questo progetto, del resto, ha un altro merito, per me: è un progetto che non è caduto nell’errore, che poteva esser grave, di valorizzare le forme di rappresentanza dei cosiddetti interessi corporativi, le forme corporative.
Io ho l’impressione che dappertutto dove esiste il corporativismo, la democrazia muore. Ho l’impressione che, in linea generale, il corporativismo è un pretesto per mettere la museruola alla bestia popolare. L’unica cosa veramente organica della società è l’individuo sociale, l’individuo che è collocato nei suoi rapporti sociali con tutto il resto del mondo del lavoro. L’unico modo organico di rappresentare la solidarietà è il suffragio universale. Il suffragio universale non può, come è stato detto ieri, trovare un’espressione automatica; bisogna che sia elaborata attraverso determinati filtri, attraverso un meccanismo che è tutta la tecnica della democrazia. L’impressione che la volontà del popolo possa esprimersi automaticamente è errata. Questo non è possibile. La volontà popolare deve essere prima di tutto estratta, devono crearsi gli organi per filtrare e tradurre questa volontà popolare. Tutto il meccanismo politico, tutto il meccanismo democratico è fondato su questo.
Merito di questa Costituzione è l’avere accantonato le forme corporative, che possono falsare il gioco della volontà popolare; ma uno dei difetti di questo testo è di avere dimenticato qual è lo strumento che oggi dà veramente una forma di rappresentanza organica alla volontà popolare nelle democrazie moderne. Qual è questo strumento? È il partito politico. Questa è la vera forma di rappresentanza organica della democrazia. Eppure in questa Costituzione questo strumento fondamentale che è il partito politico non esiste. Se ne fa un vago accenno e non si intende che proprio lì è il fulcro delle democrazie moderne.
Ora, un oratore, se non mi sbaglio, l’onorevole Calamandrei, ha accennato alla possibilità di determinate garanzie costituzionali per il funzionamento democratico dei partiti. E ho udito una obiezione, che è venuta dall’estrema sinistra, in cui si diceva che il popolo giudicherà se i partiti sono democratici o meno, dando il voto o non dandolo. Questa è una illusione, perché se veramente questo criterio fosse valido, il problema non si porrebbe. La tragedia è che molte volte il popolo può essere ingannato. Tutta la storia è un esempio di questi inganni di cui il popolo è stato vittima. Il popolo molte volte ha votato per partiti che erano antidemocratici, totalitari, reazionari. Ora, può questa Costituzione studiare qualche cosa che dia al popolo la garanzia di essere tutelato da questi inganni? I partiti politici sono lo strumento più efficace della volontà popolare se essi sono democratici. Questo è il punto fondamentale della realtà politica moderna. Se ciò è, la democrazia è al riparo di ogni pericolo. Ma se i partiti sono tendenzialmente antidemocratici, allora tutto il problema della democrazia è posto in discussione, ed è difficile determinare un criterio di discriminazione fra partiti democratici e partiti che non lo sono, perché tutti i partiti, tutti indistintamente, tendono a trasformare lo Stato e la società, e mentre oggi, in un certo senso, tutti i partiti sono profondamente esclusivisti, ogni partito è la cellula di formazione di un nuovo tipo di società e di un nuovo Stato. Questa, più o meno, è la tendenza generale dei partiti politici di oggi.
Ora, io penso, che se questo esclusivismo dei partiti, lo chiamerò così, è spinto fino al punto di fare, delle eliminazioni violente degli altri partiti, l’obiettivo tacito ed espresso, allora l’esclusivismo cessa ed al suo posto subentra spesso una cosa più grave, che è il totalitarismo.
Questo è il criterio di discriminazione tra partiti democratici e partiti che non lo sono. La garanzia contro questo pericolo è rappresentata oggi, nella democrazia moderna, dalla pluralità dei partiti. Dove ci sono molti partiti c’è una specie di neutralizzazione di forze antagonistiche e di queste tendenze esclusivistiche; ma più che la pluralità dei partiti, a mio avviso, è nella funzionalità democratica, nella vita democratica dei partiti stessi che risiede la garanzia di vita della democrazia politica. E, ciò che è grave nel nostro tempo gli elementi fondamentali della vita politica, gli elementi fondamentali che creano lo Stato, si elaborano in un’atmosfera che molte volte sfugge al controllo dell’opinione pubblica e sfugge in parte al controllo degli stessi militanti che vivono nell’interno dei partiti. Ma se nel militante da un lato si determina un comportamento di devozione e di sacrificio, che è altamente sociale, dall’altro lato la vita di partito determina in lui un comportamento conformistico che molte volte è in netta opposizione con lo spirito critico e che può costituire una minaccia per la democrazia. I capi di partito sovente sono costretti a richiamare i loro militanti ai pericoli del settarismo che insidia e minaccia le finalità democratiche nell’interno dei partiti stessi. E questo è il processo che minaccia la democrazia moderna. Tutto dipende dal modo come i partiti funzioneranno, dipende dalla possibilità di mantenere una vita democratica nell’interno dei partiti stessi. Può la Costituzione offrire delle garanzie per favorire questo processo di sviluppo democratico nell’interno dei partiti o non può farlo? Questo è il problema. Ora, ci sarebbe da fare un lungo discorso, che io non voglio fare. Dirò che la migliore garanzia è nella creazione di un clima generale politico del Paese che favorisca la tolleranza reciproca. E questo clima non si può alimentare che in un’atmosfera sociale in cui i peggiori antagonismi economici vengono soppressi, in un regime economico che attenui i motivi di sofferenza e di rivolta morale della classe lavoratrice.
In altri termini, soltanto con la giustizia sociale si possono risolvere questi problemi. Il problema della giustizia sociale ed il problema della libertà sono intimamente collegati. Implicitamente, il progetto nella sua esplicita enunciazione dei diritti sociali dell’individuo, indica questo rimedio fondamentale ed il pericolo di un avviamento al totalitarismo.
Un’altra garanzia, a mio avviso, del funzionamento democratico dei partiti è nel civismo degli stessi militanti che si trovano nell’interno di questi partiti, civismo che può dare un certo equilibrio di patriottismo di partito. Ma è chiaro che un accenno a questo problema e qualche garanzia devono pure essere formulati nella Costituzione. Per una certa analogia, si sarebbe potuto applicare ai partiti politici quello stesso criterio che nella Costituzione si è applicato per la stampa. Un certo controllo analogo a quello sul funzionamento dei giornali si sarebbe potuto, a mio avviso, elaborare per quanto si riferisce alla vita interna dei partiti politici.
Ma lasciamo stare questo argomento. Il testo della Costituzione, così come è nel suo complesso, è suscettibile, a nostro avviso, di un’utile discussione, e noi l’affronteremo con la volontà di fare di questo documento uno strumento che sia veramente efficace per lo sviluppo della democrazia politica del nostro Paese. Per la democrazia sociale del nostro Paese il valore della Costituzione è sempre in funzione della situazione storica in cui questa Costituzione è stata elaborata.
Questa Costituzione, è stato detto, non è scritta bene. Credo che non sia questo l’inconveniente peggiore di questa Costituzione, perché è molto facile sottoporla ad un riesame e fare un testo, anche da un punto di vista stilistico, corretto.
Il problema non è questo. Se vi è un difetto in questa Costituzione, esso è un difetto di stile. Ma questo difetto di stile è inevitabile. Da che cosa deriva? Questa mancanza di stile deriva dal fatto non già che il documento non sia stato composto da letterati – anche gli altri documenti politici non sono mai stati fatti da letterati, ma da uomini di azione – ma dal fatto che il nostro progetto è stato elaborato due anni dopo gli avvenimenti che lo hanno reso necessario, quando le passioni si sono calmate. Questa è la ragione della inefficacia stilistica di questo documento. Se esso fosse stato elaborato prima, sono certo che avrebbe avuto maggiore calore, maggiore unità, maggiore organicità. Oggi esso si presenta come la espressione di aspirazioni e di esperienze che sono venute a mancare al Paese. In tutte le Costituzioni ci sono dei problemi di questo tipo: un problema di ritmo e un problema di tempo che sono fondamentali. L’essenziale è di immergere questa Costituzione nelle vive correnti del Paese, di metterla in contatto con l’anima popolare. In che modo? Non già, come si crede, facendo dei comizî per spiegare lo spirito di questo documento; questo può anche essere utile e vi sarà anche la necessità di fare questa divulgazione e mettere questo documento in contatto con l’anima popolare. Ma il problema, a mio avviso, è un altro. Non si tratta soltanto di fare della propaganda, si tratta di ricreare quell’atmosfera che esisteva in un certo senso due anni fa e di colmare il distacco che si è avuto fra l’ambiente di cui questo documento avrebbe dovuto costituire l’essenza e la situazione che si è formata oggi. Molte parti di questo documento possono essere le più democratiche, ma possono anche essere quanto vi è di più conservatore, perché un documento di questo tipo va giudicato a seconda della natura e della situazione sociale a cui si adatta. C’è in tutti i documenti di carattere giuridico una bivalenza che ne fa dei documenti che potrebbero essere i più progressivi o i più conservatori, a seconda appunto della situazione speciale a cui si adattano e dell’atmosfera che in un certo senso devono organizzare e controllare.
Considerate, per esempio, la parte relativa alle autonomie regionali; questo può essere il fatto più democratico o più conservatore del mondo a seconda delle circostanze. Se l’autonomia regionale si applica ad una situazione in cui il processo di democrazia che segue la regione è già sviluppato, allora evidentemente questa riforma assume un carattere perfettamente democratico; ma se, invece, l’autonomia regionale viene applicata a regioni che sono rimaste arretrate nello sviluppo democratico, noi abbiamo con questa forma di autonomia un processo di cristallizzazione e non facciamo che sanzionare un distacco progressivo di quella regione dalle altre più evolute. Ecco che la stessa norma può diventare di carattere democratico o di carattere reazionario.
Questo vale anche per altri problemi. L’onorevole Calamandrei ha fatto il caso della Magistratura. L’autonomia della Magistratura può, a seconda dello spirito di questo organismo, essere o non essere un fatto di carattere democratico.
Per eliminare questi pericoli che ci sono e che derivano da questo scarto, da questa sfasatura tra la norma politica e la situazione che si è venuta creando oggi, bisogna ristabilire un contatto profondo tra questo testo legislativo e la Repubblica. Come stabilirlo? Ho già detto che non basterà fare dei comizî per divulgare questo testo. L’unica via da seguire, come abbiamo visto, è di non attendere che la Costituzione, una volta varata, dia impulso al moto democratico, ma di mettere in moto sin da ora la democrazia sociale, in modo che quando sarà varata la Costituzione acquisti un vero e profondo significato sociale.
Se vogliamo rendere efficace questo testo fondamentale, la divulgazione nel Paese non deve limitarsi all’aspetto giuridico e sociale delle norme, ma deve sollecitare quelle profonde trasformazioni economiche e sociali a cui quelle riforme daranno il loro vero significato.
Se vuole essere una cosa veramente viva, questa Costituzione deve essere la lucida coscienza dei problemi ancora insoluti nella storia del nostro Paese. Ma appunto per questo noi tutti dobbiamo collaborare a realizzare tutti i problemi. La Costituzione da sola non può operare il miracolo. La lettura del testo, come è stata fatta, per esempio, dall’onorevole Calamandrei, che si è divertito a contrapporre una disposizione all’altra, ad immaginare il contrasto nel dialogo fra un progressivo e un conservatore, diventa una cosa quasi comica e contraddittoria. Ma per mettere in moto un meccanismo di questo genere bisogna operare dal di fuori, affidandosi al Paese, ai partiti politici, al popolo. Questa Costituzione, lungi dal saldare un conto immaginario che la storia avrebbe col Paese, stabilisce nuovi e solenni impegni, che non saranno saldati se non quando l’ultimo suo articolo avrà trovato perfetta rispondenza nella realtà storica. Si tratta di gettare le basi giuridiche di un edificio che dovrà aderire in modo sempre più perfetto alla realtà più libera di domani.
Noi siamo dei legislatori sui generis. Siamo quegli stessi uomini che per venti anni hanno guidato la lotta contro il fascismo. Questi stessi uomini hanno elaborato questo documento, ed essi hanno la possibilità e la capacità di mettere in pratica le norme che esso conterrà.
Questo è l’impegno che dobbiamo prendere esaminando il progetto di Costituzione, ed è un impegno che non può figurare nel testo. Ma questo impegno è la parola più viva di questa Costituzione.
Bisogna che dal corso dei lavori questo impegno traspaia evidente, e allora questo testo che oggi è un testo freddo, troverà le vie del cuore del popolo. Perché, non dimentichiamolo, onorevoli colleghi, questo testo è stato scritto col sangue del popolo italiano.
(Vivi applausi a sinistra – Molte congratulazioni).
PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani.
La seduta termina alle 19.50.
Ordine del giorno per la seduta di domani.
Alle ore 10:
- – Interrogazione.
- – Discussione del disegno di legge:
Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni.
Alle ore 16:
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.