Come nasce la Costituzione

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GIOVEDÌ 5 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

9.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 5 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sull’ordine dei lavori

Presidente – Cappi – Lussu.

Organizzazione costituzionale dello Stato

(Seguito della discussione)

La Rocca – Bozzi – Lussu – Patricolo – Calamandrei – Tosato – Porzio – Targetti – Einaudi – Fabbri – Amendola – Vanoni – Presidente – Mortati – Conti – Mannironi – Bulloni – Grieco – Perassi.

La seduta comincia alle 17.

Sull’ordine dei lavori.

PRESIDENTE, poiché taluni colleghi hanno espresso il desiderio di stabilire una specie di calendario dei lavori sufficientemente preciso, avverte che il problema è alquanto delicato perché è necessario evitare le interruzioni, dato che i lavori della Sottocommissione, anche col ritmo attuale, sono destinati a durare a lungo. Comunque, domanda se vi sono al riguardo proposte concrete sulle quali sia possibile un accordo.

CAPPI propone che il sabato si tenga seduta al mattino e non se ne tenga il lunedì.

LUSSU ricorda che è preannunziata la convocazione dell’Assemblea Costituente per uno dei prossimi giorni.

PRESIDENTE osserva che nei giorni in cui l’Assemblea fosse convocata, i lavori della Sottocommissione dovrebbero adattarsi alla situazione. Mette quindi ai voti la proposta di tenere da oggi in poi seduta nel pomeriggio alle 17 tutti i giorni, salvo il sabato in cui si terrebbe alle 9, facendo riposo la domenica e il lunedì.

(È approvata).

Seguito della discussione sull’organizzazione costituzionale dello Stato.

LA ROCCA dichiara che egli è favorevole ad una Repubblica parlamentare, nel senso di una Repubblica con un tipo di Governo parlamentare, che, però, dovrà avere sue caratteristiche particolari, che costituiranno delle innovazioni sostanziali. Ma, questo aspetto della questione sarà esaminato in un secondo tempo, cioè quando si discuteranno i rapporti tra i poteri.

Si hanno tre tipi generali di Governo, con delle varietà, nella pratica, caratterizzate dalle modalità di organizzazione e dallo spirito con cui funzionano gli istituti: il tipo presidenziale, il direttoriale e il parlamentare. Questi tre tipi sono prodotti della evoluzione storica e se, in misura variabile, appaiono come applicazioni di una teoria e di un principio, questa teoria e questo principio riflettono essi stessi delle circostanze storiche.

Tutti questi Governi democratici hanno più organi; il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario, che compiono funzioni diverse e sono concepiti come poteri distinti. L’esistenza di poteri distinti corrispondenti ad una divisione di funzioni proviene, in generale, da una causa politica e da un principio: nel regime di transizione che condusse alla democrazia, il re conservava il potere esecutivo, mentre il potere legislativo era rappresentato dagli organi che rispecchiavano la volontà popolare.

I sostenitori del liberalismo videro nella separazione dei poteri un mezzo per indebolire lo Stato e per proteggere l’individuo contro l’arbitrio del potere. L’esperienza ha dimostrato che la separazione dei poteri concepita in una maniera ristretta, è una impossibilità e un assurdo. Comunque, la dottrina della separazione dei poteri, che già si trova nella politica aristotelica e che Montesquieu ha elevato a sistema, ha avuto una parte capitale nella formazione dei tre diversi regimi democratici. L’impronta e la struttura stessa di questi regimi differiscono secondo il grado di separazione dei poteri che si è potuto realizzare.

Il regime presidenziale risponde all’idea di una separazione netta tra i due poteri. Il parlamentare, invece, crea dei poteri distinti; ma prevede ed organizza la loro collaborazione. Il direttoriale è qualche cosa di mezzo tra i due regimi, in quanto ha la stabilità dell’esecutivo propria del presidenziale e ha l’esecutivo espresso dal legislativo, come il parlamentare.

Del regime presidenziale, fondato sulla netta separazione dei poteri (l’esecutivo da un lato, il legislativo da un altro), il modello è offerto dagli Stati Uniti. Ne parla unicamente per far notare – e non a caso ha detto che questi Governi sono prodotti dalla evoluzione storica – e per dimostrare che, se un regime ha avuto un esperimento felice in un determinato clima storico, trasportato altrove potrebbe dare dei frutti quanto mai diversi.

È inutile rievocare come sorse la Costituzione di Filadelfia: si ebbe l’idea di difendere i diritti del cittadino e la libertà degli Stati particolari, pure subendo l’influenza della così detta Costituzione inglese. Quindi, un Presidente che praticamente aveva tutto il potere del re d’Inghilterra – salvo ad essere elettivo e non ereditario – e, d’altra parte, un legislativo che costituiva un freno, un contrappeso ai poteri dell’esecutivo. Infatti, il Presidente detiene da solo l’esecutivo e il Gabinetto è formato di Ministri che sono dei suoi agenti, investiti della sua fiducia personale.

Egli ha il diritto di messaggio, di veto legislativo e di nomina dei funzionari; il legislativo vota le leggi. Il Presidente, per la realizzazione della sua politica, ha bisogno dell’assenso del Congresso; quindi tutte le manovre del Presidente, per il tramite dei suoi amici ed anche per effetto dei suoi messaggi. Il Senato ha l’arma dell’approvazione dei trattati, onde è, praticamente, il cimitero dei trattati, come è avvenuto nel caso del trattato di pace al tempo di Wilson; poi, il Congresso – cioè i Senatori e i rappresentanti della Camera – votano il bilancio e accordano o non accordano l’approvazione. Questo, detto in generale, determina possibilità di conflitti non appena non si stabilisce l’accordo tra i due poteri. Quando il Presidente praticamente è l’espressione del partito che ha la maggioranza del Congresso, ha modo di applicare puramente e semplicemente la sua politica; ma, poiché la Camera si rinnova di continuo, la maggioranza in favore del Presidente può diventare minoranza e allora si determina la situazione di conflitto: a meno che il Presidente non abbia una grande personalità, come è qualche volta avvenuto nella storia (come, a prescindere da Washington, nel caso di Lincoln, che aveva una tale autorità da raccogliere senz’altro il consenso generale), egli è costretto a fare una politica di stagnazione. Ad ogni modo, anche questo sistema è stato possibile ed è possibile in America, perché ivi funziona il sistema dei due partiti: i vecchi federalisti e gli anti-federalisti, che poi sono diventati i democratici e i repubblicani; due partiti più o meno conservatori. Gli Stati Uniti, per la loro situazione geografica e per le favorevoli condizioni economiche, non sono agitati da grandi convulsioni interne e in materia di politica internazionale non hanno da temere attacchi; quindi, tutte le loro questioni si riducono a questioni di protezionismo e di intervento o di isolazionismo, che sono pure questioni di grande importanza e di grande peso.

Ma questo regime, che ha avuto esito più o meno positivo negli Stati Uniti, non può essere assolutamente preso a modello da altri Stati. A parte la circostanza che, trapiantato nell’America Latina, ha dato luogo agli inconvenienti che tutti conosciamo, cioè ha spianato la via alle dittature, il regime presidenziale in Europa ha avuto una sua attuazione col regime consolare, al tempo di Napoleone, e con quello della Repubblica del ’48, che ha spianato la via al secondo bonapartismo in Francia. E c’è di più. Nel dopoguerra una Costituzione ha cercato di innestare l’elemento presidenziale sul tipo parlamentare: la Costituzione di Weimar, fatta da dottrinari, con a capo Preuss, ha cercato di dare vita in Germania al parlamentarismo, che non vi è mai esistito, ma ha tenuto a creare un esecutivo forte, cioè una figura di Presidente che aveva tutti i poteri del vecchio Imperatore e per giunta il famoso potere dell’articolo 48, col quale aboliva praticamente i principî fondamentali della Costituzione. Ebbene, questa Costituzione è stato il ponte gettato sul caos politico della Germania per dodici anni, per condurla alla dittatura terroristica di Hitler.

Questa è l’esperienza del regime presidenziale.

Nelle attuali condizioni e nelle condizioni che eventualmente potranno crearsi in Italia – perché non ci si deve fermare alla considerazione del momento in cui la Costituzione è formata, ma bisogna prevedere gli sviluppi futuri – un Presidente eletto dal popolo potrebbe ritenersi indipendente anche di fronte al legislativo e quindi come una specie di dittatore, e poiché della dittatura tutti ne hanno abbastanza, a prescindere dalle altre ragioni, il regime presidenziale non ha alcuna possibilità di vita nel nostro Paese.

Il regime direttoriale, che ha avuto il suo modello in Svizzera, è un regime in cui l’esecutivo è costituito da un insieme di membri, da un direttorio, senza un vero e proprio capo dello Stato a capo del Governo. Questo direttorio ha una durata fissa, cioè non può essere revocato. Però, così come è stato concepito in Svizzera, l’esecutivo non è se non un commesso agli ordini del legislativo; perciò, essendo espressione del legislativo, non può trovarsi in conflitto con questo. Anche il regime direttoriale in Europa ha avuto altri precedenti, quanto mai pericolosi: la Costituzione del fruttidoro dell’Anno III, fondata sul principio della netta separazione dei poteri, col timore dell’onnipotenza del legislativo e con la consegna dell’esecutivo al direttorio, che creò le premesse per la nascita del primo bonapartismo. C’è sempre da preoccuparsi di tutto quello che ci può anche lontanamente portare all’apertura di un varco verso la dittatura.

V’è infine il regime parlamentare, il quale ha avuto la sua culla in Inghilterra e di cui è bene parlare più minutamente.

L’Inghilterra ha avuto un suo processo, una sua formazione lenta. Anzitutto è un Paese che non ha una vera e propria Costituzione scritta: la Costituzione inglese è fatta di frammenti, di prassi, di principî accettati dalla consuetudine, più che scritti. Comunque, anche la lettera della Costituzione non risponde alla realtà pratica. Ivi il Capo dello Stato, il re costituzionale, ha tutti i poteri dell’esecutivo e qualche potere del legislativo, perché ha la sanzione legislativa, ma praticamente non è che una ruota accessoria nel meccanismo: è Capo dello Stato, Capo delle forze armate, dichiara la guerra, conclude la pace, conclude e ratifica i trattati, ha potere di grazia e diritto di sciogliere la Camera, ma praticamente è una figura secondaria, anche se può avere il suo prestigio, che deriva dalla tradizione. In Inghilterra il potere esecutivo e legislativo è il Gabinetto; ma questo per particolari circostanze storiche, che non si sono riprodotte in nessun Paese d’Europa e che difficilmente vi si possono riprodurre. In Inghilterra, praticamente il Gabinetto ha la direzione legislativa, perché è esso che propone le leggi, che sono puramente e semplicemente approvate dal Parlamento, e conduce la politica governativa. Il Gabinetto inglese è il Comitato della maggioranza parlamentare; cioè, l’esecutivo è la vera espressione della volontà del legislativo, ossia della maggioranza del legislativo, perché, già da quando il parlamentarismo è sorto, fin dal secolo XVIII, si sono delineati due partiti: prima i wighs e i tories, poi i conservatori e i liberali. I liberali sono poi scomparsi, sostituiti dai laburisti; e si hanno due partiti, disciplinati e organizzati, che si mantengono compatti e costituiscono, or l’uno or l’altro, la maggioranza, per il modo di scrutinio che consente la eliminazione dei piccoli gruppi e permette – con l’abbassamento della Camera dei Lords, la Camera dei Comuni è diventato organo onnipotente – di mandare alla Camera dei Comuni una maggioranza compatta, che può sostenere un Governo e gli può dar modo di svolgere fino all’ultimo tutta la sua politica. Così il Governo ha stabilità e sicurezza, perché non può in alcun modo dubitare di essere seguito da questa maggioranza parlamentare, che è il partito che esprime il Gabinetto e soprattutto il partito, che nel suo capo, nel suo leader designa anche il Primo Ministro. Fin dal tempo di Pitt e di Napoleone si è delineata la figura del Primo Ministro, che è colui il quale tiene il timone, designa i Ministri, propone al re lo scioglimento della Camera. Il Re in Inghilterra non si è mai opposto alla volontà del Primo Ministro, le cui proposte di legge sono senz’altro accettate. Cosicché, mentre la Camera dei Comuni sembra onnipotente, in realtà essa è docile seguace dell’indirizzo e delle direttive del Gabinetto.

Ora, queste condizioni particolari del parlamentarismo inglese non si possono riprodurre né si sono riprodotte finora altrove. Ed in Francia, che si è pure retta col sistema parlamentare, il parlamentarismo nella pratica è stato quanto mai diverso dal sistema inglese. Mentre in Inghilterra abbiamo avuto un esecutivo forte e fornito del potere di scioglimento, cioè un esecutivo espresso dal legislativo, che aveva sicurezza di durata, in Francia ha finito col prevalere la forma del Governo di Assemblea, di un governo cioè, che non si soprappone alla Camera, ma è un esecutivo alle dipendenze del legislativo, con tutte le debolezze, le crisi e le paralisi che ne sono derivate.

Afferma che egli è favorevole al sistema parlamentare. Senza esaminare la questione dei rapporti fra i poteri, di cui si discuterà in un secondo tempo, rileva come nel sistema parlamentare debba essere riconosciuto il principio che nella Repubblica italiana, unitaria, indivisibile, democratica, la radice della sovranità sta esclusivamente nel popolo, da cui emana ogni potere. Lo Stato si deve organizzare in modo che la sovranità sia esercitata con i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, i quali, provenendo dalla stessa unica fonte, non siano separati e tanto meno opposti, ma ripartiti in modo razionale tra gli organi chiamati ad attuare la volontà popolare, unica fonte della sovranità e del potere. Si deve, cioè, creare la unità armonica dei poteri, non secondo la concezione di Montesquieu, ma secondo quella di Rousseau, con la istituzione di un’Assemblea rappresentativa popolare che nello stesso tempo sia legislativa ed esecutiva, elabori la legge e ne controlli l’esecuzione, esamini, critichi e decida, sorvegli l’osservanza delle sue decisioni. All’ordine giudiziario, con piena indipendenza della magistratura, spetta applicare la legge ai casi concreti, nel diritto pubblico e privato, per il rispetto dell’ordinamento giuridico.

BOZZI osserva che le relazioni dell’onorevole Mortati e dell’onorevole Conti e l’intervento dell’onorevole Einaudi, nella cui esposizione si sentiva circolare la vita vissuta, hanno in sostanza posto in evidenza come i due sistemi, presidenziale e parlamentare, nella prassi, nella consuetudine non siano poi così opposti l’uno all’altro come, secondo uno schematismo troppo rigido, potrebbe apparire: vi sono dei temperamenti e dei tentativi di avvicinamento, sia in linea di fatto, sia mediante la predisposizione di specifici congegni costituzionali. Sussistono però dei connotati costituzionali che individuano e differenziano l’un regime dall’altro.

Senza fare una esposizione di diritto pubblico comparato, come ha già fatto egregiamente il collega La Rocca, rileva che il tipo presidenziale, nel suo modello classico nordamericano, è caratterizzato da questo fatto, che il Presidente è il Capo effettivo, il titolare, il padrone – come è stato qui detto con una frase assai efficace – del potere esecutivo. Vi è separazione netta fra esecutivo e legislativo; onde le possibilità di attriti, di disarmonie, ecc. e, quindi, le difficoltà di agire del regime presidenziale, e la mancanza costituzionalmente organizzata di un controllo parlamentare sull’esecutivo.

Un tipo diverso è il sistema parlamentare in cui si ha una compenetrazione e una collaborazione fra esecutivo e legislativo, tanto che si è potuto parlare di confusione di poteri anziché di divisione: vi si attua una divisione di lavoro e di funzioni.

Le idee che esporrà non sono nuove e nemmeno peregrine; ma sarebbe un errore ricercare di proposito ciò che è peregrino e ciò che è nuovo. Bisogna richiamarsi ai vecchi principî collaudati dall’esperienza; vedere le deformazioni, le degenerazioni che questi principî hanno subito per varie cause, e porre dei rimedi, affinché queste cause non si riproducano.

Il fine che si deve perseguire è quello di foggiare una Costituzione che renda possibile un equilibrio stabile e un’intima collaborazione fra i diversi poteri. Il principio fondamentale – come ha esattamente sottolineato l’onorevole La Rocca – deve essere che ogni potere attinge la sua fonte di legittimazione dal popolo. Da qui deriva la necessità della collaborazione fra i poteri per l’attuazione di questa unica volontà popolare che sottostà ad ogni potere. Al popolo deve essere riservata una funzione d’intervento diretto ed attivo nelle decisioni politiche; ed esso deve costituire l’ultima istanza alla quale si può ricorrere per la risoluzione delle crisi e la riequilibrazione dei poteri. L’equilibrio naturalmente presuppone un congegno costituzionale di controlli e di limiti. Ogni potere deve essere efficiente nella sfera delle sue attribuzioni, ma non deve essere dominato, né a sua volta dominare gli altri poteri, altrimenti l’equilibrio verrebbe meno.

L’esigenza che più spiccatamente si è manifestata anche dopo la guerra del 1914-18, è quella del rafforzamento del potere esecutivo sotto il profilo della stabilità e dell’efficienza. Ciò non fu possibile in alcuni Paesi, come in Italia, per varie ragioni, e soprattutto per le degenerazioni parlamentaristiche. Si disse allora che era la crisi della democrazia; viceversa la crisi era rappresentata dal parlamentarismo, da questa forma patologica del sistema parlamentare. Il parlamentarismo ruppe l’equilibrio: il potere legislativo, degenerando, prese il sopravvento sull’esecutivo; onde quelle facili crisi, con la conseguente instabilità del potere esecutivo che tutti conosciamo e che hanno poi aperta la via all’affermazione dei regimi dittatoriali. Rottura, quindi, di equilibrio per il prepotere del legislativo sull’esecutivo, con conseguenti effetti funesti.

Ma altrettanto gravi e funesti sarebbero gli effetti qualora l’equilibrio si dovesse rompere in senso inverso, se cioè si creasse un sistema in cui costituzionalmente il potere esecutivo avesse una posizione di preminenza sul potere legislativo. Perciò egli è contrario al sistema presidenziale, che rappresenta una forma di accentramento di poteri la quale, trapiantata in Italia, potrebbe tralignare in forme dittatoriali. La migliore difesa contro il pericolo di futuri regimi autoritari e dittatoriali sta appunto nel rafforzamento dell’esecutivo. Ma bisogna vedere come il rafforzamento dell’esecutivo si possa ottenere nel quadro di un regime parlamentare; ed a suo avviso ciò deve ottenersi attuando una forma di collaborazione fra il legislativo e l’esecutivo: questo in tanto potrà essere forte ed efficiente in quanto tragga di continuo la fiducia dal legislativo.

Si dice che vi è il pericolo delle crisi. Anzitutto è da dire che le crisi non sempre sono un male; alle volte sono il rimedio per sanare un male, per ricostituire quell’equilibrio ch’era stato infranto da un dissidio determinatosi fra questi poteri. Le crisi sono un male, una forma patologica del sistema parlamentare, quando siano artificiosamente create, quando siano manifestazioni della degenerazione del sistema parlamentare, cioè, di quel prepotere del Parlamento sull’esecutivo. Quindi occorre preoccuparsi di congegnare dei dispositivi che rendano impossibile o per lo meno attenuino il manifestarsi delle crisi artificiose. Ritiene perciò che occorra orientarsi verso una architettura costituzionale che, schematicamente e senza entrare in particolari, riservandone la discussione ad altre sedi, espone così:

  1. a) si deve attribuire una posizione di indipendenza al Presidente della Repubblica, che dovrebbe essere eletto non già dal popolo (perché ciò darebbe una eccessiva autorità al Capo dello Stato, turbando quel rapporto di equilibrio di cui ha parlato) e nemmeno soltanto dal Parlamento riunito in un organo risultante dalla somma della Camera dei Deputati e del Senato (perché ciò porterebbe all’inconveniente in senso contrario, di far dipendere troppo sommessamente il Capo dello Stato dalle due Camere), ma da un Collegio misto costituito dal Parlamento, cioè dalle due Camere, e da rappresentanti di altre forze sociali, secondo criteri che potranno essere determinati e studiati in seguito. Inoltre, il Capo dello Stato deve essere il titolare di una potestà effettiva – concetto messo bene in evidenza ieri dall’onorevole Ambrosini – perché è estremamente pericoloso creare organi meramente decorativi, inutili. Tutto ciò che è inutile può essere anche dannoso e pericoloso. E tra i poteri che il Capo dello Stato dovrebbe avere è quello di nomina del Primo Ministro e di scioglimento della Camera dei Deputati. In sostanza il Capo dello Stato dovrebbe essere il supremo moderatore della vita politica, titolare di quella che è stata definita «potestà neutra»;
  2. b) il Governo deve avere la fiducia delle due Camere, ossia di quell’organo che si potrebbe chiamare l’Assemblea nazionale. L’idea dell’onorevole Mortati, che, per assicurare la stabilità del Governo, questo dovrebbe avere una durata minima, irriducibile – egli proponeva due anni, quasi come in un sistema direttoriale – non gli appare accettabile. La vera forza dell’esecutivo deve essere attinta dalla fiducia immanente espressa dal legislativo che detiene e manifesta la volontà popolare. Vi sono i pericoli delle crisi; ma le crisi artificiose si eliminano mediante altri congegni costituzionali, disciplinando, cioè, costituzionalmente l’istituto del voto di fiducia. In quasi tutte le Costituzioni del dopo-guerra vi è una disciplina del voto di fiducia, al fine di evitare le crisi di sorpresa, macchinate nei corridoi dei Parlamenti. Anche nella legge che governa la nostra Assemblea Costituente, all’articolo 3 vi è una certa disciplina, da tenere in considerazione, del voto di fiducia. In sostanza i principî fondamentali sono questi: che la mozione di sfiducia deve essere scritta e sottoscritta da un certo numero di Deputati e motivata; deve essere comunicata preventivamente a tutti i Deputati; deve venire in discussione dopo che i Deputati ne abbiano avuto conoscenza. La mozione di sfiducia, per determinare la caduta del Ministero dovrebbe conseguire una maggioranza qualificata. Si porrebbe così un freno alle crisi artificiose e si assumerebbero più nettamente le responsabilità di fronte al Paese. Si può pensare anche che, dopo un secondo voto di sfiducia, il Parlamento automaticamente si sciogliesse;
  3. c) si deve, infine, dare rilievo costituzionale autonomo alla figura del Primo Ministro. Se non si ha paura delle parole, è in sostanza la figura del Cancelliere; del Cancelliere che qui attinge il titolo della sua legittimazione dalla Camera e indirettamente quindi dalla volontà popolare.

Non si nasconde che l’adozione del sistema parlamentare a tipo Primo Ministro può incontrare in Italia delle difficoltà, soprattutto per il sistema pluralistico dei partiti e per la necessità – qui si fa una facile profezia – che per molto tempo ancora i governi siano costituiti sulla base di coalizioni. Perciò non è facilmente prevedibile che le forze politiche che entrano nella coalizione possano accettare la loro subordinazione alla figura del Primo Ministro. Ma egli pensa che se fosse accettato questo sistema del Primo Ministro, il quale dovrebbe esprimere la direzione politica generale nel Governo ed esserne il responsabile, si potrebbe forse avere un correttivo pratico a quegli inconvenienti che dai regimi dei governi di coalizione scaturiscono, come l’esperienza anche assai recente insegna.

Conclude questa breve delineazione del suo punto di vista, affermando sinteticamente che propende per un sistema a base parlamentare con correttivi intesi a mantenere uno stabile equilibrio e una collaborazione fra i poteri attraverso il rinsaldamento dell’esecutivo.

LUSSU confessa di aver sentito il bisogno di un tipo di repubblica presidenziale in Italia quando era all’estero. Tornato in Italia e vissuta l’esperienza dei primi Governi di coalizione dell’Esarchia e del presente Governo, si è però convinto che quel tipo di Repubblica non è adatto alla situazione politica italiana, specialmente in questo momento, in cui una radicale riforma costituzionale dovrebbe essere preceduta da riforme sociali, soprattutto nel campo industriale ed agrario, le quali dovrebbero dare al Paese una durevole stabilità interna.

Queste riforme non sono attuabili da un Governo di coalizione, in seno al quale non possono esser sopite le diversità ideologiche, mentre, nell’ipotesi di un Governo di maggioranza che uscisse dalle prossime elezioni, il voler realizzare grandi riforme sociali potrebbe comportare il rischio di una situazione molto confusa, forse anche rivoluzionaria, così come potrebbe portare allo stesso risultato il non volerle realizzare. In una simile situazione, con una Repubblica di tipo presidenziale potrebbe determinarsi un irrigidimento delle parti in contrasto, col conseguente pericolo della guerra civile, mentre in un tipo di Repubblica parlamentare queste estreme conseguenze possono essere più facilmente evitate dalla maggiore possibilità di manovre, di equilibrio, di transazioni tra i partiti.

Il suo avviso favorevole alla Repubblica parlamentare è pertanto dovuto a considerazioni pratiche, mentre dal punto di vista teorico egli sarebbe favorevole alla Repubblica presidenziale. Non condivide infatti molte delle critiche formulate in proposito dall’onorevole Einaudi. Non trova, fra l’altro, fondato il concetto che il Presidente degli Stati Uniti d’America perda il suo prestigio a mano a mano che copre i posti di cui può disporre, e cioè via via che diminuisce le sue possibilità di accontentare i sostenitori. Infatti, non sono rari i casi di rielezione del Presidente americano, il che dimostra che alcuni presidenti seppero conservare ed anzi rafforzare il proprio prestigio anche nel quarto anno della loro carica.

Anche l’altro inconveniente denunciato dall’onorevole Einaudi, relativo ai Comitati parlamentari, non è sufficiente a demolire la tesi della repubblica presidenziale, trattandosi di inconvenienti che, sotto aspetti diversi, si presentano in tutti i regimi democratici.

Non crede esatta nemmeno l’affermazione dell’onorevole Einaudi, secondo cui lo Stato federale non sarebbe una garanzia contro il prepotere del Presidente: in America più di una volta Stati federati hanno impedito che la volontà del Presidente fosse eccessiva nei loro territori.

La realtà dimostrata dall’esperienza è che i regimi democratici di tipo presidenziale funzionano bene nei Paesi in cui il problema sociale non è sentito con eccessiva intensità, come negli Stati Uniti e in Inghilterra, ove si ha una relativa pace sociale.

È stato detto che negli Stati Uniti i due partiti che si sono alternati al potere vogliono in fondo le stesse cose. Ciò può dirsi a maggior ragione per l’Inghilterra, ove tutti i partiti sono d’accordo nell’accettare il regime della Corona ed il presupposto che ogni conquista sociale debba essere ottenuta nella legalità, secondo la volontà dal Paese liberamente espressa. Ma negli Stati Uniti oggi la realtà è alquanto diversa, e precisamente da quando il Presidente Roosevelt con il New Deal ha dato forza politica ai sindacati operai: da allora, infatti, il partito democratico si è evoluto in senso progressivo, mentre il partito repubblicano ha assunto le forme di partito conservatore. In Inghilterra, anche dopo che il partito liberale è stato sostituito da quello laburista, un conservatore si sente molto più sicuro e tranquillo, per quanto la politica laburista lo abbia già molto spogliato, che non in Italia dove ai conservatori invece non è stato ancor tolto nulla.

Queste considerazioni hanno importanza nella vita politica, perché non si può non tener conto della situazione presente e del fermento che esiste. Là dove la stabilità sociale non esiste, è la crisi permanente. L’esempio è dato dagli Stati dell’America Latina, ove si può dire che ogni giorno si verifichi un colpo di stato e dove è permanente una confusione anarcoide che noi difficilmente comprendiamo, anche a causa della distanza, ma che certo nulla ha da vedere con la stabilità. L’unico Stato che faccia eccezione è l’Uruguay, in cui non esiste una grande proprietà agraria, ma soltanto la piccola proprietà: ivi la democrazia è magnifica, come egli può personalmente affermare per le conoscenze, se non profonde, assai notevoli che ha in materia.

La stabilità non c’è e non c’è stata né in Francia né in Italia. A differenza di quello che si verifica negli Stati Uniti d’America e nell’Inghilterra, i nostri Paesi continentali hanno esigenze ideali molto superiori. È questo un fenomeno psicologico che si prolunga nella storia da Atene ad oggi: da noi si è sempre alla ricerca di una società migliore, e da questa caratteristica della nostra civiltà occidentale deriva l’instabilità. La stessa crisi del dopo-guerra è un prodotto di questa situazione di instabilità. Egualmente è accaduto in Francia, e non c’è rimedio. E allora bisogna adattare la nostra Costituzione alle nostre particolari esigenze, e non dimenticare che la crisi odierna è una crisi che risale a vent’anni, tanto in Francia quanto in Italia.

Perciò, pur avendo teoricamente estrema simpatia per una Repubblica presidenziale, egli riconosce che occorre stabilire un regime che sia accettato da tutti o dall’immensa maggioranza, e per cui tutti si sentano partecipi della vita dello Stato. Non è infatti possibile esasperare ancora la situazione; bisogna impedire la guerra civile; bisogna ricostruire, e ricostruire nella legalità, altrimenti ci ridurremo alla situazione di un popolo barbaro. Ora, il Presidente parlamentare è quello che ha maggiore possibilità di prestigio: non essendo legato troppo alla vita di alcun partito, egli può correggere e regolare la situazione. Questo si vede oggi anche nel Presidente dell’Assemblea Costituente che, pur essendo uomo di partito, raccoglie tutti i Deputati nella sua rappresentanza; e tutti i Deputati si sentono garantiti dalla sua presidenza. Così dev’essere per la presidenza della Repubblica, se si vuole non correre i rischi che tutti conoscono.

Nella Repubblica parlamentare il Presidente deve avere, non solo un prestigio formale, ma soprattutto un prestigio sostanziale: non eccessivo, ma sostanziale. In Inghilterra il Re non può intervenire ad una riunione del Consiglio dei Ministri, non perché alcuna legge glielo vieti, ma perché glielo impedisce la tradizione. Ciò si è verificato, storicamente, da quando un Re straniero ritenne inutile di intervenire perché non capiva l’inglese: da quel momento nessun Re prese parte alle riunioni del Consiglio dei Ministri. In Francia, invece, il Presidente della Repubblica presiedeva il Consiglio dei Ministri in determinate circostanze, e si stabiliva così un maggiore contatto, una maggiore possibilità di esercitare la propria influenza, di correggere alcune deviazioni. Con alcuni correttivi si può arrivare a questo.

Il Presidente dovrebbe essere eletto con elezione pura e semplice dalle due Camere e da queste soltanto, perché se si chiamassero a partecipare all’elezione, per esempio, dei rappresentanti sindacali, questi finirebbero per esercitare un doppio diritto di voto.

Bisogna poi stabilire in qual modo il potere esecutivo può avere una maggiore influenza. Ma, a questo scopo, non ha alcun valore il fatto che nella Carta Costituzionale il Primo Ministro sia considerato un uomo molto importante: se rappresenta una grande corrente politica, egli sarà effettivamente un uomo rispettabile; ma, se rappresenta una corrente confusionaria, sarà anch’egli confusionario nella sua azione. La pratica importanza della nuova Costituzione dipenderà dai primi Presidenti del Consiglio dei Ministri: se essi saranno delle persone mediocri, la Carta Costituzionale non avrà valore. Quello che occorre, dunque, è aumentare il prestigio e l’autorità della democrazia.

PATRICOLO osserva che dalle relazioni svolte ieri è stata posta in luce una questione fondamentale, cioè se la Costituzione debba ispirarsi o meno al concetto della divisione dei poteri dello Stato. È stato osservato che il Governo presidenziale porterebbe al grave inconveniente della divisione dei poteri, intesa non come divisione delle funzioni di ciascun potere, ma come esclusione di ogni intervento di un potere sull’altro.

Ora, quando si manifesta la preoccupazione che il potere esecutivo venga totalmente staccato dal potere legislativo e che non gli sia consentita la partecipazione alla funzione legislativa, si afferma un principio che urta con la divisione dei poteri, in quanto si teme che il potere esecutivo non abbia la funzione di legiferare. È vero che il potere esecutivo in determinate occasioni, anche per motivi di competenza, può convenientemente prendere l’iniziativa delle leggi, e che la divisione sembrerebbe portare all’inconveniente che il potere esecutivo non partecipasse all’iniziativa della legislazione. Ma iniziativa non è potere di legiferare. D’altra parte, quando si dice che il potere legislativo nella Repubblica presidenziale è separato dal potere esecutivo perché esso non ha la facoltà di rovesciare un governo in quanto manca della possibilità di dare un voto di sfiducia, si afferma cosa che trae origine da un errore di valutazione sulle funzioni del Parlamento.

E su questo vorrebbe richiamare l’attenzione.

A suo avviso il Parlamento, che è espressione della volontà popolare, ha innanzi tutto una funzione legislativa, quale espressione di uno dei poteri dello Stato, nel modo in cui sono stati finora considerati; ma ha anche una funzione strettamente politica di vigilanza e di controllo sui poteri statali, funzione che gli viene appunto dalla sua rappresentanza politica. Questo punto è necessario approfondire prima di procedere oltre nella discussione.

Quando si parla di maggiore o minore influenza del potere legislativo sull’esecutivo in relazione alla possibilità o meno di rovesciare un governo, non si tiene presente che questa non è funzione precipua del potere legislativo, ma di un’Assemblea che ha la rappresentanza politica del popolo. Quindi quando si dice che la Repubblica presidenziale impedisce al potere legislativo di partecipare attivamente a questo controllo del potere esecutivo si dice cosa inesatta, perché ciò che si impedisce al Parlamento è soltanto d’influire, col suo controllo, sul potere esecutivo, ciò che è costituzionalmente in tutti gli Stati democratici; senza con ciò coinvolgere la funzione legislativa del Parlamento.

Perciò ritiene che in una Costituzione democratica si debba tendere principalmente a limitare le possibilità del potere esecutivo di esorbitare dai limiti delle sue funzioni e competenze; mentre non deve preoccupare il fatto che il potere legislativo, rappresentato dai Deputati eletti dalla volontà popolare, possa avere una funzione di vigilanza e di controllo sugli altri poteri dello Stato.

Onde, mentre è da accettare come principio ormai acquisito alla scienza del diritto ed alla dottrina, quello della divisione dei poteri dello Stato, è anche da ammettere che questa divisione sia inerente alle funzioni degli organi dei vari poteri e non all’estensione delle attribuzioni politiche del Parlamento.

Nel medesimo tempo occorre trovare una forma di collaborazione fra i tre poteri che permetta, principalmente ed essenzialmente al potere legislativo, in quanto rappresentante della volontà popolare, di vigilare e controllare gli altri poteri dello Stato.

Se queste premesse al problema dell’ordinamento dei poteri saranno accettate dalla Sottocommissione, questa potrà approvare un ordine del giorno nel quale siano fissati quei concetti e che può dar luogo ad uno sviluppo della discussione sui poteri; perché quando siano stabilite l’indipendenza e la divisione dei poteri, si potranno più concretamente inquadrare i vari poteri in armonia a questo principio di ordinamento giuridico.

Propone quindi il seguente ordine del giorno:

«Premesso che la Costituzione del nuovo Stato italiano deve ispirarsi ai concetti di una sana democrazia;

considerato che la forma di Governo più rispondente alle esigenze dell’attuale situazione politica italiana è quella della Repubblica parlamentare;

ritenuto che l’ordinamento giuridico dello Stato debba uniformarsi al principio della divisione e indipendenza dei poteri;

riconosciuto che il Parlamento, rappresentante della volontà popolare, oltre alla sua funzione legislativa, ha anche una funzione politica di vigilanza e di controllo su tutti i poteri dello Stato;

propone che lo schema di Costituzione, che sarà presentato all’approvazione della Costituente, risponda alle seguenti esigenze di ordine giuridico e politico:

1°) adozione della forma di governo parlamentare;

2°) rispetto della divisione ed autonomia dei poteri;

3°) riconoscimento delle funzioni politiche di vigilanza e di controllo del Parlamento sui poteri dello Stato».

CALAMANDREI ritiene di essere il solo che abbia qualche simpatia, nonostante la discussione, per la Repubblica presidenziale. Crede che il risultato di questa discussione sia piuttosto scoraggiante, tanto per i fautori della Repubblica presidenziale, in quanto ve n’è uno solo, che è lui, quanto per i fautori della repubblica parlamentare, che sono tutti gli altri, perché tutti, a quanto sembra, sono d’accordo nel ritenere che le costituzioni non servono a cambiare la situazione sociale quale è in realtà. Questo ha affermato l’onorevole Mortati nella sua relazione, in cui ha concluso dicendo che con le disposizioni si può fare assai poco. Quel che conta è quello che c’è sotto. È quello che ha detto ieri l’onorevole Einaudi, il quale ha spiegato che la repubblica presidenziale funziona bene negli Stati Uniti perché là v’è il sistema dei due partiti, e che in Inghilterra funziona altrettanto bene il regime parlamentare, perché anche in Inghilterra ci sono i due partiti; e dove non esistono i due partiti ma c’è una pluralità, uno sminuzzamento dei partiti, non funziona bene né la repubblica presidenziale, né quella parlamentare. Questa sembra la conclusione alla quale è poi arrivato l’onorevole Lussu, il quale, in sostanza, ha detto che in Italia sussiste il pericolo della guerra civile; onde occorre alla testa dello Stato un uomo che cerchi di evitarla.

Pur riconoscendo che la Costituzione non è che la forma cui si deve far aderire la sostanza sociale, crede che si possa avere una certa fiducia nella efficacia pedagogica delle leggi. La legge non basta a modificare la realtà, ma può essere uno degli stimoli per introdurre anche nella vita politica il costume, il quale venga a modificare questa realtà sociale.

Nell’attuale situazione italiana, quale delle due forme di Repubblica, presidenziale o parlamentare, può sembrare più idonea a contribuire al ristabilimento o allo stabilimento di un costume politico che faccia gradatamente avvicinare l’Italia ai paesi in cui funziona la democrazia? La democrazia, per funzionare, deve avere un Governo stabile: questo è il problema fondamentale della democrazia. Se un regime democratico non riesce a darsi un governo che governi, esso è condannato.

A chi dice che la repubblica presidenziale presenta il pericolo delle dittature, ricorda che in Italia si è veduta sorgere una dittatura non da un regime a tipo presidenziale, ma da un regime a tipo parlamentare, anzi parlamentaristico, in cui si era verificato proprio il fenomeno della pluralità dei partiti e della impossibilità di avere un governo appoggiato ad una maggioranza solida che gli permettesse di governare. Quindi il problema è questo: come si fa a far funzionare una democrazia che non possa contare sul sistema dei due partiti che, in Italia, in questo momento non esiste e che ancora per qualche tempo non esisterà, ma che deve invece funzionare sfruttando o attenuando gli inconvenienti di quella pluralità dei partiti la quale non può governare altro che attraverso un governo di coalizione? Cioè: qual è la forma dello Stato che meglio serve a far funzionare un governo di coalizione, impedendo quelle crisi a ripetizione che sono la rovina della democrazia, quella rovina che, se non fosse evitata, ricondurrebbe inevitabilmente, a più o meno lontana scadenza, ad una dittatura? Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dalla impossibilità di governare dei governi democratici.

Premesso questo, quelle cautele pratiche che sono state suggerite da vari colleghi per garantire che nella Repubblica parlamentare si abbia stabilità di governo, sono veramente efficaci a questo scopo?

È stato detto che bisognerà regolare la mozione di sfiducia, renderla difficile. Ma le crisi nei governi di coalizione avvengono indipendentemente dai voti di sfiducia: così oggi stesso in tutti i giornali si leggono allarmi di crisi, indipendentemente da qualsiasi voto di sfiducia. È il governo di coalizione che non ha coesione, che si frantuma. Quindi è inutile emettere disposizioni che regolino e rendano difficile il voto di sfiducia, quando il pericolo è proprio nella scarsa solidità dei governi di coalizione.

D’altra parte, gli sembra poco efficace anche la cautela da altri suggerita di far annunziare dal Capo del Governo un programma di lavoro, la cui approvazione assicuri automaticamente al Ministero una certa durata. È stato qui autorevolmente e lealmente spiegato come questa cautela sia assai illusoria e come, nonostante questa cautela, si possa arrivare ad una crisi il giorno dopo in cui il messaggio ha conseguito la maggioranza.

In conclusione: si può trovare un mezzo pratico più efficace di quelli proposti?

Tutti sanno che questo è un momento in cui in Italia ogni Governo, per potere esplicare un’opera efficace, deve avere la sicurezza di poter lavorare tranquillamente su un piano da svolgersi non con provvedimenti alla giornata, ma in un periodo di tre, quattro o cinque anni. Quindi è un problema che sorge proprio dalla tragica situazione italiana, dalla necessità di piani la cui realizzazione sia resa possibile dalla stabilità del governo. E allora, vi sono dei mezzi più efficaci di quelli proposti per garantire questa stabilità?

Non è tanto questione di nome: Repubblica presidenziale o parlamentare. Ammesso pure che anche in Repubblica parlamentare il Presidente, cioè il Capo dello Stato, debba essere al disopra dei partiti, nominato non come corifeo di un programma politico, ma come organo equilibratore che sta al disopra dei partiti, l’essenziale è che non il Capo dello Stato, ma il Capo del Governo abbia la sicurezza di poter governare. V’è modo di dare questa sicurezza? Se questo modo non esiste, comunque si voti, alla fine, sull’ordine del giorno, rimarrà in tutti un senso di imbarazzo e di delusione: si saranno votate delle formule, ma non si sarà trovato il modo di contribuire efficacemente a risolvere la situazione italiana.

In queste condizioni, se altri mezzi più efficaci non vengono suggeriti, egli rimane attaccato alla Repubblica presidenziale. In questa, poiché il Presidente, per riuscire eletto, deve conseguire la metà dei voti, è necessario che si formi una coalizione, uno schieramento di due gruppi di partiti; e poiché l’elezione avviene su un programma del Presidente, è più facile che su questo programma si formi una coalizione che abbia probabilità di essere più stabile di quella illusoria che si può invece attendere dai sistemi proposti da chi dà la preferenza alla Repubblica parlamentare.

Per queste ragioni voterà contro l’ordine del giorno del collega Patricolo.

TOSATO rileva che l’onorevole Calamandrei ha fatto un’esposizione del più alto rilievo, perché ha posto nei suoi termini veramente essenziali la questione della preferenza da dare ad una forma di governo piuttosto che ad un’altra. Dice in sostanza l’onorevole Calamandrei che, ove si riuscisse a trovare una forma, pure inquadrata nel tipo di governo parlamentare, che veramente assicurasse la stabilità del governo, egli potrebbe aderire alla forma di governo parlamentare; ma, poiché non vede questa possibilità, o per lo meno questa possibilità non traspare ancora dalle proposte che su questo argomento sono state fatte dagli altri colleghi, dati gli attuali urgenti problemi della vita politica italiana, egli è favorevole alla forma di governo presidenziale. In sostanza, l’onorevole Calamandrei domanda se nel senso da lui chiesto vien fatta qualche proposta. A questa domanda intende dare una risposta, a titolo puramente personale.

La discussione si è impostata da principio sulla scelta fra la forma di governo presidenziale e la forma di governo parlamentare. Ora, da un punto di vista generale, e naturalmente intendendo per governo presidenziale quello che è secondo lo schema teorico classico, egli crede che la forma di Governo presidenziale non sia adattabile all’Italia, perché nascerebbe snaturata e non potrebbe conseguire gli effetti che soli potrebbero giustificarne la scelta. Nascerebbe snaturata perché il Governo presidenziale presuppone l’esistenza di due partiti e quando il Presidente fosse, viceversa, designato da una coalizione, cioè in seguito ad un compromesso fra due partiti, nella migliore delle ipotesi, cioè nel caso che il compromesso funzionasse, si avrebbe un Presidente con poteri di fatto limitati, appunto perché legato dal compromesso che sta alla sua origine. D’altra parte la repubblica presidenziale non permetterebbe in Italia al Presidente, sempre per la pluralità dei partiti, di attuare la politica governativa, in quanto questa implichi e si traduca nell’adozione di date leggi. È facilmente prevedibile un contrasto permanente fra Governo e Camera.

Trova esattissimi i rilievi fatta dall’onorevole Einaudi, il quale ha richiamato alla considerazione che, di fatto, il governo presidenziale si sta notevolmente avvicinando alla forma di governo parlamentare. Tuttavia esiste pur sempre tra governo presidenziale e governo parlamentare una differenza fondamentale: nel governo presidenziale, a differenza di ciò che avviene nel governo parlamentare, il periodo di durata degli organi costituzionali è predeterminata, in un periodo fisso dalla costituzione; e questo elemento del periodo fisso, che assicura la stabilità dei supremi organi dello Stato, è un elemento che in Italia forse, più che a giovamento e a rafforzamento del potere esecutivo, potrebbe condurre all’indebolimento di esso.

Resta un importante elemento comune al governo parlamentare ed a quello presidenziale, e cioè che sia nell’una che nell’altra forma impera il principio della divisione dei poteri, in quanto le funzioni fondamentali dello Stato sono attribuite costituzionalmente a gruppi di organi diversi fra di loro, di modo che un atto di una determinata funzione che non venga emanata dall’organo competente è costituzionalmente invalido.

Questo è un elemento fondamentale da tener presente, perché ove si arrivasse ad ammettere una forma di governo con assoluta confusione di poteri, si perderebbe una delle caratteristiche fondamentali dello Stato moderno. Con una forma qualsiasi di confusione del potere legislativo e del potere esecutivo, si cancellerebbe, per lo meno dal punto di vista tecnico, giuridico, costituzionale, la garanzia della libertà moderna. Fermo il principio della divisione dei poteri, vero è tuttavia che nel governo parlamentare il Governo è l’espressione delle Camere. Ciò non significa però confusione di poteri. Nel governo parlamentare vero e proprio, non degenerato in governo di assemblea, titolare dell’attività di governo, appunto per la divisione dei poteri, è sempre il Governo e non le Camere. Nel governo parlamentare le Camere controllano il governo; il governo deve avere necessariamente la fiducia della Camera, ma il governo è governo e il legislativo è il legislativo; e questa è una esigenza fondamentalissima nella vita dello Stato moderno, né occorre richiamare le esperienze, che hanno avuto conclusioni tragiche, di molte costituzioni che, dopo la guerra del 1914-18, hanno instaurato forme di governo parlamentari in cui il governo era, in definitiva, schiavo e commesso del legislativo.

Di un governo non si può indubbiamente fare a meno ed a questo proposito bisognerà chiarire anche un altro concetto, e cioè che nell’ordinamento dei poteri indubbiamente il potere legislativo ha il primato, perché titolare della funzione legislativa dalla quale dipendono i limiti per tutti gli organi dello Stato; ma questo primato teorico, giuridico, dovuto alla natura della funzione, è tuttavia accompagnato da un primato effettivo, sostanziale dell’esecutivo, perché uno Stato senza un esecutivo stabile ed efficiente, che dia impulso e vita all’intero organismo statale, non può funzionare.

Il problema italiano sorge proprio qui. In generale, si è d’accordo nel preferire la forma di governo parlamentare. Sono ben presenti tuttavia le esigenze fondamentali proprie del governo parlamentare e l’esigenza soprattutto di una forma di governo che assicuri un esecutivo stabile ed efficiente, specie in questo momento in cui si deve compiere lo sforzo della ricostruzione. Data la situazione politica italiana, come si può assicurare in Italia una forma di governo che corrisponda a questo requisito?

Se si vuole evitare la degenerazione del governo parlamentare in governo di assemblea, cioè, in concreto, in governo dei comitati direttivi dei partiti dominanti, non vi sono che due possibilità. Una è quella di procedere alla regolamentazione dei voti di sfiducia e alla fissazione di un periodo minimo di vita al governo che abbia ottenuto l’approvazione delle Camere. Non crede che in Italia, data la pluralità e il profondo contrasto dei partiti, si possa per tal modo efficacemente ovviare alla intrinseca debolezza e precarietà dei governi. Personalmente condivide quindi la sfiducia manifestata dall’onorevole Calamandrei circa gli accorgimenti finora proposti per stabilizzare il governo parlamentare. La disciplina dei voti di sfiducia ha una influenza relativa. La determinazione costituzionale di una certa durata del governo che abbia ottenuto il voto di fiducia della Camera urta contro il fatto rilevato dall’onorevole Calamandrei, che le crisi di governo sono di regola extraparlamentari, perché, data la situazione politica in Italia, i governi sono governi di coalizione e la crisi avviene recisamente per dissoluzione interna della coalizione.

Dato questo, bisogna ricorrere ad un’altra soluzione, che non può esser data che dal contemperamento, da una specie di «contaminazione» del governo presidenziale con il governo parlamentare. Questa contaminazione, però, non dovrebbe avvenire nel senso tentato della Costituzione di Weimar, la quale ha creduto di risolvere il problema attraverso un irrobustimento dei poteri del Capo dello Stato. Il tentativo tedesco, checché si dica in contrario, ha dato un pessimo risultato. La contaminazione fra il governo presidenziale e il governo parlamentare dovrebbe avvenire nel senso di un potenziamento della figura del Presidente del Consiglio, il quale fosse espressione della volontà della Camera, ma avesse la effettiva possibilità di governare.

La soluzione che egli suggerisce, quindi, è questa: un Capo dello Stato distinto dal Capo del Governo, che sia un elemento di moderazione, imparziale, cioè in possesso delle cosiddette funzioni neutre; ma che abbia, sia pure limitato con ogni avvedutezza, il potere, in determinati momenti, di dissoluzione delle Camere nel caso di gravi difficoltà fra governo e Camere stesse. Quanto al Capo del Governo, non ritiene essenziale, nella forma di governo parlamentare che la sua nomina debba esser fatta dal Capo dello Stato, ma la crede utile in Italia, per la situazione particolare in cui ci troviamo. All’inizio di ogni legislatura le due Camere dovrebbero riunirsi e designare il Presidente del Consiglio su una lista presentata dal Presidente della Repubblica, dopo le normali consultazioni degli esponenti della vita politica. Le consultazioni fatte dal Presidente della Repubblica dovrebbero servire appunto alla formazione della lista dei candidati alla Presidenza del Consiglio. Su questa lista le Camere dovrebbero votare, ed il candidato che ottenesse la maggioranza sarebbe designato Presidente del Consiglio e quindi nominato dal Presidente della Repubblica. (Può darsi che nessuno dei candidati ottenga la maggioranza ed allora – necessità fa legge – bisognerà fare in una seconda votazione utile anche la maggioranza relativa). Il Presidente così designato e successivamente nominato dal Presidente della Repubblica dovrebbe godere la fiducia parlamentare. Si potrebbe tuttavia accettare il principio che, una volta fatta questa designazione, il nuovo Presidente del Consiglio si presumesse assistito dalla fiducia parlamentare e quindi potesse senz’altro durare in carica finché la fiducia parlamentare non gli venisse meno. Per il voto di sfiducia dovrebbe richiedersi che sia presentata al Presidente della Repubblica una mozione di censura, firmata da almeno un terzo dei membri delle Camere, e motivata. Il Capo dello Stato dovrebbe quindi convocare le Camere, e se la mozione di sfiducia venisse approvata dalla maggioranza, il primo firmatario della mozione dovrebbe essere senz’altro considerato come Presidente designato al governo. Se fossero presentati più voti di sfiducia, si dovrebbe considerare come primo designato il primo firmatario della mozione che avesse ottenuta la maggioranza relativa; ma in questo caso il Presidente della Repubblica dovrebbe avere il potere di procedere allo scioglimento delle Camere.

Si riserva di presentare nei suoi lineamenti concreti la proposta accennata, che gli sembra dia affidamento di un governo parlamentare stabile ed efficiente. Conclude affermando che in ogni caso, ove tale inderogabile esigenza non potesse venire soddisfatta, esprimerebbe senz’altro la sua preferenza per una forma di governo presidenziale.

PORZIO dichiara che ha tutte le apprensioni e le preoccupazioni dell’onorevole Calamandrei, come quelle dell’onorevole Tosato.

Credeva che la questione della scelta fra Repubblica parlamentare e Repubblica presidenziale fosse stata già decisa, quando egli era stato forzatamente assente; ma constata che tutta la discrepanza sta su questo punto: se v’è modo di assicurare un Governo stabile in regime di repubblica parlamentare. Egli crede di aver trovato questo modo che è molto semplice: abolire la proporzionale. Se si considera la proporzionale come intangibile, si fa un discorso a rime obbligate, ma non si riesce ad armonizzare la discussione.

Quando ci sarà un Governo di maggioranza, quando cioè il corpo elettorale sarà chiamato a discutere su un programma di governo e su questo programma si sarà costituita la maggioranza, si avrà la forza, l’autorità ed il prestigio del Capo del Governo e si avrà la stabilità del Governo. Quando invece ci si trova di fronte ad una situazione elettoralistica nella quale si improvvisano i partiti, non si avrà mai una stabilità di governo e le discussioni saranno inutili perché non daranno mai la stabilità. La Francia si tormenta in una crisi da anni, perché ha la proporzionale. L’Italia si è tormentata nel dopoguerra in quelle convulsioni che tutti sanno perché aveva la proporzionale e non è stato mai possibile creare un Governo di maggioranza. Questo è l’inconveniente che l’Assemblea dovrebbe cercare di risolvere ed in questo modo essa darebbe veramente all’Italia una Costituzione stabile, che abbia autorità, forza e potere per impedire la guerra civile. Questo è quello che desiderano tutti i presenti, qui riuniti per il solo desiderio di difendere la Repubblica e di darle stabilità e forza con un governo veramente libero, che mostri che l’Italia è degna della democrazia che ha conquistato.

Ci saranno sempre i cento partiti, ma i cento partiti ad un certo momento deporranno le armi per pronunciarsi su un programma del Governo e, approvandolo o non approvandolo, formeranno la maggioranza.

Un Presidente del Consiglio, che presenta un programma su cui chiama il Paese a pronunciarsi, comincia a creare quello stato della pubblica coscienza che è destinato a formare le due correnti per le quali l’America e l’Inghilterra prosperano ed hanno stabilità di regime.

Quando fu compiuto il primo esperimento della proporzionale, piccole ambizioni di uomini, piccole avidità di potere, erano veramente dei massi che si mettevano nelle ruote. Riconosce di essersi illuso, a quell’epoca, anche lui, ma quando la proporzionale fu adottata, bastò la più piccola questione, per esempio la nomina di un segretario della Camera, perché si potesse dire che il Governo era stato battuto. E fu così che l’Italia ebbe Mussolini.

TARGETTI osserva che l’ordine del giorno Perassi chiama la Sottocommissione a decidere fra le due forme di Repubblica, presidenziale o parlamentare, e gli argomenti in favore di una soluzione o dell’altra sono stati esposti. Ora, non si tratta di entrare nei particolari del tipo di Repubblica parlamentare, perché questo è un argomento a sé, tant’è che nell’ordine del giorno Perassi si accenna a quei provvedimenti che dovranno essere presi per assicurare la stabilità del Governo. Quindi, allo stato attuale si tratta di risolvere il problema posto dall’onorevole Calamandrei: le difficoltà di dare stabilità al Governo di tipo parlamentare sono tali da far preferire l’altro sistema?

Crede che ciascuno debba aver già fatto dentro di sé questo esame, ed i Commissari socialisti, per esempio, per quante difficoltà possa incontrare il problema di dare stabilità al governò della Repubblica di tipo parlamentare, non voteranno mai una Repubblica di forma presidenziale.

Ritiene inutile far perdere del tempo per portare ancora argomenti a dimostrazione di questa tesi, ma desidera dire all’onorevole Porzio che se egli avesse ragione, bisognerebbe che fosse vero che il collegio uninominale sia stato in Italia una grande scuola di civiltà e di educazione politica, mentre egli ha in proposito molti dubbi.

La proporzionale ha molti difetti, anche perché è quasi impossibile trovare sistemi elettorali perfetti. Potrà essere corretta; ma che i difetti debbano far dimenticare che il collegio uninominale fu sempre scuola di incultura politica non gli sembra possibile.

Né crede si possa veramente dire che sussista oggi un pericolo di guerra civile. Ma se vi fossero ragioni storiche o politiche per scatenare una guerra civile, il sistema uninominale non potrebbe certamente superare il loro formarsi.

EINAUDI ha fatto, nella precedente seduta, un confronto tra il sistema presidenziale americano e il sistema parlamentare inglese; ha cercato di dimostrare che il sistema americano si avvia, e più si propone che si avvii, a sistemi simili a quelli del metodo parlamentare e, d’altro canto, il sistema parlamentare non è più quello che era una volta, ma è ispirato sostanzialmente al concetto della scelta da parte dell’elettorato del Capo del Governo, che è il leader, seguito dalla maggioranza parlamentare. Poiché si è limitato a questo paragone ed a questa analisi quasi storica dei due sistemi, gli è stato chiesto quali siano le sue conclusioni.

Le sue conclusioni sono semplicemente queste: che, in fondo, ove si accettassero due concetti fondamentali, la distinzione tra l’uno e l’altro metodo consisterebbe esclusivamente nel modo di nomina del Capo dello Stato. Ma le condizioni necessarie affinché la distinzione tra i due regimi si limiti al metodo di nomina del Presidente sono queste: anzitutto, che il Presidente, che è nominato dal popolo, debba nominare il suo Gabinetto, in parte notevole se non in tutto, tra uomini i quali abbiano la fiducia delle due Camere; e in secondo luogo, che ci sia qualcuno – e potrà essere il Capo dello Stato, se c’è divisione tra Capo dello Stato e Capo del Governo, o il Capo del Governo se questa divisione non c’è – il quale abbia il diritto di scioglimento delle Camere. A queste condizioni la differenza si riduce soltanto a questo, che il Presidente sia nominato dal popolo, oppure dalle due Assemblee riunite, oppure dalle due Assemblee riunite insieme con altri corpi.

Ma questa non è una distinzione essenziale.

Le questioni di primo piano sono queste: i membri del Gabinetto devono avere la fiducia delle due Camere? E il Capo dello Stato distinto dal Capo del Governo, o l’unico che ricopre le due funzioni, deve avere il diritto di scioglimento delle due Camere? Personalmente egli risponde in senso affermativo, confermando che, a suo avviso, la differenza nel metodo di nomina del Capo dello Stato, tra sistema presidenziale e parlamentare, non è fondamentale.

Desidera aggiungere che qualunque sistema si adotti, serve poco, se non sussistono altre condizioni, fra le quali l’essenziale non è che le due Camere abbiano maggiore o minore potere nel governo, ma è che le Camere abbiano una vera libertà di discussione, perché un governo libero non è libero perché sia presidenziale o parlamentare; un governo è libero se nelle due Camere e nel paese esiste libertà completa ed assoluta di discussione.

La libertà nasce dalla libertà della discussione e, se c’è libertà di discussione, allora può nascere anche un altro effetto, importantissimo, che si può indicare sotto l’espressione di «adesione della minoranza alla maggioranza». Un qualunque provvedimento legislativo che sia stabilito esclusivamente sulla base di un voto di maggioranza, dà luogo ad un’azione di governo che può darsi ma non è affatto sicuro che incontri successo. Perché questo successo abbia, è necessario che il voto di maggioranza sia stato preceduto da una discussione, non solo nelle due Camere, ma oltre che nelle due Camere, nella stampa e che la stampa goda di una piena ed assoluta libertà di discussione, così che, quando si arriva al voto, la minoranza si trovi in tale condizione da essere costretta ad ubbidire volenterosamente e spontaneamente alla deliberazione presa dalla maggioranza. Se non si arriva a questa condizione di cose, se non si creano organismi tali per cui vi sia di fatto un’ampia, completa discussione e questa completa discussione abbia luogo anche fuori delle due Camere, non si arriverà mai a quello stato di cose per cui la minoranza si persuade che deve consentire a collaborare con la maggioranza. Se a questo punto non si arriva, si avranno sempre discordie civili col mutare della maggioranza e si potrà giungere all’estremo di lotte e guerre civili.

A questo riguardo confessa di essere – come è stato sempre e come ha dichiarato anche alla Consulta, ove ha parlato contro la proporzionale senza curarsi dell’opinione del suo Partito – completamente contrario alla proporzionale e nettamente favorevole al collegio uninominale. Non crede affatto che le elezioni debbano avvenire su programmi di partiti. Questi programmi di partito in tutti i paesi sono pure forme; ma nella realtà, tanto negli Stati Uniti, quanto in Inghilterra, gli elettori votano per questo o per quell’uomo; fanno una scelta, non fra idee, ma fra uomini; una scelta tra due uomini nei quali gli uni elettori hanno fiducia e gli altri no. E questa scelta si fa dagli elettori tra uomini che essi conoscono.

In tutti i Paesi, in cui esiste la proporzionale, si formano nelle Camere dei partiti che ubbidiscono ai capi. Allora la discussione cessa; oppure, se si fa, non ha per effetto quello di convertire qualcuno; è un parlare a vuoto, e già preventivamente si conosce l’esito della votazione. In queste condizioni non esiste parlamento, non esiste discussione, non esiste la condizione fondamentale della libertà politica, che è esclusivamente la libertà di discussione.

Queste sono soltanto alcune delle ragioni, che lo fanno contrario alla proporzionale. Altra ragione fondamentale è questa: che la proporzionale moltiplica i partiti, accanto ai due o tre partiti di massa, onde viene a mancare l’equilibrio necessario ad una vera e propria discussione e non si ha una votazione nella quale coloro i quali si sono lasciati persuadere dalle buone ragioni degli avversari, modifichino il proprio atteggiamento. La proporzionale moltiplica i partiti, perché non appena si ha la possibilità di ottenere un quoziente in un collegio più o meno grande, si forma un partito per ottenerlo.

Per conseguenza non crede che, anche se si adotti il criterio che il Gabinetto debba avere la fiducia delle due Camere, e che qualcuno debba avere il diritto di scioglimento delle due Camere, il sistema, qualunque sia, possa per sé avere l’effetto di dare quello che si vuole ottenere, ossia un Governo stabile. L’esistenza di un Governo stabile dipende da tanti fattori, tra i quali importantissimo quello della libertà piena e completa della discussione, che vuol dire capacità e possibilità di persuadere gli avversari. E questa possibilità non c’è, quando le elezioni sono dominate da partiti irreggimentati, come quelli che hanno prodotto la Costituente.

FABBRI domanda se, fra gli eventuali espedienti per dare una certa stabilità al Governo, non sia il caso di codificare le modalità del voto di sfiducia. Pensa che sia difficile dare efficacia e conseguenze politiche ai rimedi cui accennavano gli onorevoli Mortati e Bozzi; ma si domanda: se, per esempio, fosse stabilito nella Costituzione che il voto di sfiducia al Governo in carica implichi automaticamente lo scioglimento di quello dei rami del Parlamento che il voto di sfiducia ha dato e l’obbligo da parte del Gabinetto in carica di fare le elezioni in base ad un programma, quali sarebbero le conseguenze riguardo alla stabilità del Governo?

Non vuol dire che sia questo il toccasana: ma qui si cercano dei rimedi di carattere legislativo; mentre il rimedio di una disciplina del voto di sfiducia, che implicasse come conseguenza di fatto la permanenza in carica del Governo che il voto di sfiducia ha avuto, va talmente contro il costume politico italiano, da infrangere ogni disciplina. Se, invece, si stabilisse che il voto di sfiducia dato ad un ramo del Parlamento implica automaticamente lo scioglimento della Camera che lo ha emesso e quindi la consultazione popolare sul programma che il Governo sarebbe invitato ad esporre al Paese, si avrebbe una remora al voto di sfiducia infinitamente maggiore di quanto taluno possa pensare.

AMENDOLA, ascoltando le chiare dissertazioni che qui sono state fatte sui vari tipi di Governo, è andato col ricordo alle lezioni di diritto costituzionale che, nel 1927, ascoltava all’università di Napoli. Il fascismo imperversava e il professore illustrava le caratteristiche dello Stato italiano: lo definiva, sulla base della Costituzione, monarchico-parlamentare e discuteva perché fosse parlamentare e non costituzionale. Discussioni che urtavano contro qualche cosa che era nella coscienza, perché era un tentativo di inserire la realtà concreta della nostra storia in formule che restavano vuote.

Si è parlato del tentativo di dare alla nostra democrazia condizioni di stabilità con norme legislative. È evidente che una democrazia deve riuscire ad avere una sua stabilità, se vuole governare e realizzare il suo programma; ma, non è possibile ricercare questa stabilità in accorgimenti legislativi da inserire nella Costituzione. In realtà, questa instabilità, che è stata caratteristica di regimi democratici nel corso di questo secolo, ha radici nella situazione politica e sociale, non nella Costituzione stessa. Questo è tanto vero, che nessuno Stato, neppure l’Inghilterra dal 1920 al 1940 ha avuto vita politica così rosea come si è mostrato di credere. Per due volte la maggioranza laburista eletta dal popolo, nel corso della legislatura ha dovuto cambiare basi politiche; ed anche nelle maggioranze conservatrici si sono avute modificazioni.

L’instabilità è stata determinata da fatti politici e sociali, legati all’intervento nella vita politica delle grandi forze popolari, che nel secolo scorso erano assenti. L’entrata di queste forze politiche, inquadrate nei partiti socialisti e nei sindacati, ha creato le condizioni delle crisi, caratterizzate dalla resistenza dei ceti interessati ed ostili a rinnovamenti politici e sociali. La crisi del dopoguerra e del fascismo non è nata dalla proporzionale; è nata da questo contrasto tra le esigenze rinnovatrici della società italiana del dopoguerra e l’ostilità che queste esigenze incontravano, per cui gruppi politici, che pur erano formalmente liberali, passavano ad una posizione di reazione e divenivano fiancheggiatori del governo di Mussolini.

Oggi l’Italia attraversa una crisi analoga: è uscita dalla dittatura, in condizioni tragiche; ha il problema del rinnovamento democratico in tutti i campi, il bisogno di riforme profonde nella società, che, solo se attuate, potranno dare basi solide alla democrazia; ma vi è la resistenza interessata dei ceti che appoggiavano ieri il fascismo e che sarebbero colpiti da queste riforme; e c’è il fatto nuovo positivo della formazione dei grandi partiti democratici, che sono condizione di una disciplina democratica. Oggi che il suffragio universale è stato esteso alle donne e con l’ingresso nella vita politica di milioni e milioni di lavoratori, il collegio uninominale con corpo elettorale ristretto è un ricordo nostalgico, che non ha niente a che fare con le esigenze politiche attuali. Oggi la disciplina, la stabilità è data dalla coscienza politica, affidata all’azione dei partiti politici.

Quindi, regime parlamentare il più aperto possibile, perché la situazione è fluida ed è bene che si consentano adeguamenti successivi. Tanto meglio se gli adeguamenti si possono fare senza crisi; ma, se crisi ci devono essere, è meglio siano crisi di adeguamenti successivi, per evitare rotture più profonde. Si vogliono porre delle dighe a queste forze popolari che avanzano?

Quando la maggioranza della Sottocommissione si sia pronunziata per la Repubblica parlamentare, egli seguirà gli sforzi dei colleghi per assicurare la stabilità; ma pensa che la maggiore stabilità possa essere assicurata da un regime parlamentare che permetta l’adeguamento della situazione governativa allo sviluppo della situazione politica del Paese, in modo da evitare quei contrasti tra la situazione politica del Paese e la situazione politica parlamentare governativa, che sono causa delle crisi che pongono in pericolo la struttura dello Stato.

(La seduta, sospesa alle 19.45, è ripresa alle ore 20).

PORZIO propone la chiusura della discussione.

VANONI poiché qualche commissario che, per ragioni di ufficio, non ha potuto intervenire alla seduta, vorrebbe esprimere la sua opinione sugli argomenti in discussione, è costretto ad opporsi alla proposta di chiusura.

PRESIDENTE avverte che vari colleghi hanno già fatto osservare che la discussione di questo argomento è completamente approfondita: un suo approfondimento ulteriore forse non andrebbe incontro al comune desiderio di una certa sollecitudine.

PORZIO fa notare che la chiusura della discussione non impedisce le dichiarazioni di voto, con le quali ciascuno può precisare il proprio pensiero.

MORTATI, Relatore, osserva che per apprezzare il valore e il significato della proposta di chiusura bisogna sapere su che cosa si deve votare. Le discussioni fino ad ora svolte hanno riguardato non tanto la scelta tra i due regimi, presidenziale o parlamentare, quanto la specificazione del regime parlamentare. Non è possibile votare puramente e semplicemente per il tipo classico di regime presidenziale o per quello parlamentare, ma occorre precisare i punti caratteristici del sistema costituzionale cui si vuole dar vita, sui quali una ulteriore discussione non sarebbe superflua.

PRESIDENTE crede che occorra giungere ad una prima conclusione, relativa al tipo di governo, rimandando ad ulteriori discussioni la specificazione dei dettagli.

MORTATI, Relatore, chiarisce che, a suo avviso, non si tratta di svolgere fin d’ora in tutti i loro particolari le applicazioni del sistema, bensì di individuare due o tre punti caratteristici, che fino a questo momento non risultano formulati in modo tale da poter essere votati senz’altro. Tali quelli indicati dall’onorevole Einaudi: il diritto del Presidente della Repubblica di sciogliere la Camera, e il modo di stabilire l’armonia tra parlamento e governo. Se si dovesse votare puramente e semplicemente sulla scelta del tipo presidenziale o parlamentare, personalmente dovrebbe votare per il tipo parlamentare; ma se poi la Sottocommissione decidesse di escludere il diritto di scioglimento delle Camere, egli dovrebbe dichiararsi contrario al regime parlamentare. Onde la necessità di una presa di posizione generale, nella quale non vengano però ignorate certe precisazioni.

LUSSU è d’avviso che si debba continuare col metodo che è stato deciso di seguire e stabilire anzitutto se si intende adottare il tipo della Repubblica parlamentare. Questo implica naturalmente altri problemi che dovranno essere esaminati successivamente.

LA ROCCA concorda con l’onorevole Lussu.

VANONI, avendo chiesto, in conversazioni amichevoli, all’onorevole Perassi qual è la portata del suo ordine del giorno, crede opportuno precisare: se la portata è semplicemente quella di costituire un piano di lavoro, si è ormai esaurita la discussione generale sui due grandi tipi di organizzazione dello Stato e si può passare oltre, lasciando tuttavia aperta la possibilità di riprendere l’argomento se i risultati dell’ulteriore esame mostrassero che non vi è accordo. Ora, l’intervento del collega Amendola fa ritenere che alcuni commissari, quando parlano di Repubblica parlamentare non intendono la stessa cosa che intende l’onorevole Amendola. Alcuni oratori hanno sottolineato la fondamentale preoccupazione di avere una Repubblica con un governo stabile, mentre l’onorevole Amendola ritiene che il tipo migliore sia quello in cui il governo si adegua alle condizioni del paese. Si tratta di posizioni lontane fra loro, e una votazione in cui si stabilisse che si è d’accordo sulla Repubblica parlamentare non risolverebbe questo equivoco. L’esitazione di taluni nella scelta fra i due tipi di Repubblica è fondata sulla esigenza della stabilità del governo: ove dovessero constatare che si andrebbe incontro ad una Repubblica parlamentare in cui non fosse assicurata la stabilità del governo, essi vorrebbero avere la possibilità di passare al tipo della Repubblica presidenziale.

Se quindi l’ordine del giorno Perassi ha la portata soltanto di un ordinamento di lavoro, egli lo accetta; ma se dovesse avere una portata preclusiva, non potrebbe accettarlo.

TARGETTI non crede che la preoccupazione del collega Vanoni abbia ragione di essere, perché l’ordine del giorno Perassi pone esplicitamente la condizione che siano stabilite norme per assicurare la stabilità del governo.

VANONI precisa che occorre chiarire quale importanza abbia, per la scelta del tipo di Repubblica, la discussione sul meccanismo necessario ad assicurare la stabilità del governo e quale sarà la situazione in cui verrà a trovarsi la Sottocommissione se, dopo aver votato l’ordine del giorno Perassi, dovrà constatare che nessuno dei meccanismi proposti soddisfa e non esiste un sistema per assicurare la stabilità del governo nella forma di Repubblica parlamentare.

LA ROCCA rileva che l’onorevole Amendola ha posto la questione in termini nettamente politici: una Costituzione non è una formula giuridica, ma rispecchia una data realtà sociale e politica, e per questo l’Italia non può modellarsi sul tipo americano o su quello inglese che hanno funzionato in altri climi ai quali rispondono.

L’onorevole Amendola vuol creare una Repubblica parlamentare che aderisca alla realtà italiana, perché semplicemente da questa realtà il governo può attingere la forza per durare. È ovvio che il governo parlamentare ha bisogno della fiducia del popolo.

VANONI non può accettare questo modo di impostare il problema.

CONTI crede che l’onorevole Vanoni sospetti una presa di posizione dei colleghi comunisti, e ciò in seguito all’intervento dell’onorevole Amendola. Questi in sostanza ha voluto affermare che il mandato politico non può scindersi dalle preoccupazioni sociali ed economiche e che, se si vorrà risolvere la questione politica, si dovrà risolvere anche il problema sociale ed economico. Ma su questo è da ritenere che tutti siano d’accordo.

Quello che occorre fare adesso è di avvicinarsi a soluzioni concrete. Ci sono dei problemi precisi: come organizzare il governo, la Camera, il potere legislativo? Non crede che sia il caso di riprendere la discussione sulle dottrine di carattere generale, ma che sia invece necessario passare ad un lavoro più concreto.

MANNIRONI aderisce alla proposta dell’onorevole Conti. Ritiene che l’ordine del giorno Perassi richiami alla necessità di soluzioni pratiche; ma pensa che, per arrivare rapidamente a conclusione, quest’ordine del giorno debba essere votato per divisione. Vi si afferma, in sostanza, che si devono scartare le soluzioni presidenziale e direttoriale per una soluzione di Repubblica parlamentare, con accorgimenti e congegni intesi a stabilizzare il Governo. Se si mette in votazione e si approva la prima parte dell’ordine del giorno, che afferma la soluzione parlamentare, si compie già un passo avanti. La discussione potrebbe poi continuare utilmente sui congegni atti a dare la desiderata stabilità al Governo.

PRESIDENTE crede che la Sottocommissione abbia oramai gli elementi per prendere una prima decisione, perché ciò che orienta nella scelta fra le varie forme di Repubblica è questo: se la Repubblica italiana debba avere un Governo che debba rispondere ad un Parlamento, cioè agli eletti dal popolo, oppure se il Governo – per tutto il periodo che è stabilito dalla Costituzione – debba governare indipendentemente da ogni richiesta di fiducia o da ogni manifestazione di sfiducia. Questo è il concetto fondamentale.

PATRICOLO chiede se si intende porre in votazione anche il suo ordine del giorno, che risponderebbe a queste preoccupazioni di parte dei colleghi.

PRESIDENTE, personalmente, ritiene che nell’ordine del giorno Patricolo si affrontino già alcune questioni che non sono state abbastanza approfondite, onde pensa che occorrerebbe, comunque, limitarsi alla prima affermazione, cioè alla parte in cui parla della adozione della forma di governo parlamentare.

PATRICOLO fa osservare che la questione della divisione dei poteri è pregiudiziale per lo svolgimento ulteriore dei lavori, perché sta alla base dell’ordinamento giuridico.

PRESIDENTE risponde che, votando per il sistema presidenziale – a parte le notizie concrete che l’onorevole Einaudi ha fornito sul processo di evoluzione di questo sistema – evidentemente si viene a decidere sul secondo punto: divisione ed autonomia dei poteri.

MORTATI, Relatore, rileva che l’ordine del giorno Perassi e la discussione hanno dimostrato che questa non può esaurirsi nell’accettazione dell’una forma o dell’altra di governo se non subordinatamente a certe condizioni. Accettato questo punto di vista della scelta condizionata, prima di procedere alla chiusura, vorrebbe presentare un suo ordine del giorno in cui queste formulazioni siano meglio precisate; ma, data l’ora tarda propone di rinviare la decisione a domani.

PRESIDENTE deve porre anzitutto ai voti la proposta di chiusura della discussione, riservando la parola all’onorevole Mortati.

(È approvata con 16 voti favorevoli ed 11 contrari).

MORTATI, Relatore, osserva che l’esigenza sentita dalla quasi unanimità dei commissari è quella della stabilità del governo. Ora questa stabilità non può essere intesa in modo puramente formale; non può esser data, cioè, dal semplice fatto del permanere di date persone fisiche per un certo periodo di tempo in una data carica; ma è, invece, realizzata quando, attraverso tale permanenza, riesca a svolgersi e ad attuarsi l’indirizzo politico di cui quelle persone fisiche sono portatrici.

L’impostazione che ha dato l’onorevole Calamandrei della sua preferenza per il regime presidenziale pecca in questo senso, che egli considera la stabilità da un punto di vista formale, avulso dagli elementi che dànno ad essa una efficienza concreta.

In un regime di separazione di esecutivo e di legislativo, come è nello schema presidenziale, la stabilità di governo, nel senso che s’è detto, si realizza quando vi sia la possibilità di un minimo di coordinazione fra i due poteri, che consenta all’indirizzo politico di concretarsi in modo coerente ed armonico.

Ora questa coordinazione è tanto più difficile a realizzarsi quanto più le forze politiche sono divise, e quanto più labili e fluttuanti siano le coalizioni formatesi fra esse in occasione delle varie elezioni che danno vita agli organi dei due poteri.

L’onorevole Einaudi ha ricordato come negli stessi Stati Uniti d’America sia avvertita l’esigenza di superare lo schema classico della divisione, che si è dimostrata incapace di realizzare l’armonia, in modo sicuro e costante. Pertanto il regime presidenziale, attuato nelle presenti condizioni della vita pubblica italiana, non darebbe vita alla stabilità, che si ha di mira.

È vero che, come ha osservato l’onorevole Calamandrei, nemmeno l’espediente di far durare in carica per due anni il ministero che abbia ottenuto la fiducia delle Camere garantisce dai pericoli del mutamento, prima dello scadere del detto periodo, dello schieramento politico, sulla cui base quella fiducia poggiava. Questo conferma come, al di sopra della distinzione delle forme, si producano disfunzioni analoghe nei due regimi quando vi sia identità di situazioni politiche concrete.

Ora il quesito da porsi è questo: qual è, nella situazione italiana, tra i due sistemi, quello che garantisce la possibilità di una aderenza fra i due poteri più immediata e più continuativa: quella che fa sorgere i poteri medesimi direttamente dal popolo in due momenti diversi, o quella che li fa derivare l’uno dall’altro attraverso il voto di fiducia del Parlamento al governo, ma imponendo, una volta che la scelta sia effettuata, un limite al disvolere della Camera che ha emesso la manifestazione di fiducia verso il governo? Crede che l’avvicinamento di un potere all’altro potrebbe facilitare quella concordia, che, viceversa, sarebbe meno agevolata dalla elezione diretta di ambedue dal corpo elettorale.

Infatti l’accordo che al momento delle elezioni ha portato alla scelta di uno dei candidati alla presidenza della Repubblica può venir meno durante il periodo fissato per la sua permanenza al potere, onde al Presidente verrà meno la base politica nel paese. Ciò sia nel caso che si esiga per la sua elezione una maggioranza qualificata (come avveniva con la Costituzione di Weimar, dove peraltro il Presidente era posto in posizione diversa da quella propria del Capo dello Stato dei regimi presidenziali), sia che ci si contenti della maggioranza semplice, essendo difficile che un solo partito possa raggiungere tale maggioranza sul proprio candidato. A ciò si aggiunga l’eventualità di disarmonia con le Camere elette in diverso periodo di tempo ed indissolubili.

Invece il tentativo di inserire un elemento del regime presidenziale, cioè la fissità di durata per un certo periodo di vita dell’esecutivo, nel congegno proprio del regime parlamentare, caratterizzato dalla derivazione del governo dal parlamento, il tentativo, in altri termini, di spostare l’accordo fra i partiti in una fase di maggiore immediatezza e di maggiore impegno, quale può essere quella del conferimento della fiducia sulla base dell’approvazione di un programma concreto, può fare sperare di dar vita ad una stabilità più sostanziale di quella che non si avrebbe (in analoga situazione politica), con l’instaurazione di un regime presidenziale.

Il congegno proposto offrirebbe inoltre il vantaggio di temperare la rigidezza propria del regime presidenziale e di rendere possibile la risoluzione dei conflitti che sorgessero fra i due poteri, attraverso il ricorso alla pronuncia popolare. Un importante contributo alla stabilità il popolo potrebbe offrire quando le sue pronunzie avessero luogo sulla base di voti motivati, quando cioè la fiducia o la sfiducia al governo, il consenso o il dissenso da parte del Parlamento si manifestassero non in base alla votazione di un generico ordine del giorno, ma invece su una mozione di sfiducia motivata che determinasse in modo preciso gli elementi del dissenso. In tal modo chi vota la sfiducia deve giustificarla davanti al popolo assumendone la responsabilità, conferendo al giudizio del popolo chiaro significato di apprezzamento della ragione che ha portato alla sfiducia. Se si introducono nella forma rappresentativa elementi propri della forma diretta, facendo assumere al popolo una funzione di decisione in ordine ai motivi che hanno portato alla crisi, si può sperare di conseguire un maggiore grado di stabilità.

Tenendo conto delle considerazioni esposte, si può ritenere che lo scopo che preoccupa tutti si possa raggiungere più efficacemente col regime parlamentare. Il riferimento ora fatto all’arbitrato popolare offre occasione di richiamare l’attenzione sull’importanza fondamentale che sul funzionamento della Costituzione esercita il regime elettorale. Appunto per questa importanza occorre che lo si consideri come il presupposto del funzionamento di tutto l’ordinamento dei poteri, e se si voglia e si debba tendere verso un intervento del popolo, che non sia diretto alla scelta degli uomini, secondo il concetto ottocentesco, che è irrimediabilmente passato, ma fare di esso l’ago della bilancia, il centro di riequilibrazione dei poteri, allora bisognerà che si abitui il popolo a prendere decisioni politiche, ed a questo scopo il regime elettorale proporzionalistico è quello meglio rispondente ad abituare il popolo non solo alla migliore scelta degli uomini (esigenza anch’essa essenziale) ma alla valutazione e scelta dei programmi. Il regine uninominale è il meno idoneo a questo scopo, e, in un Paese come l’Italia che ha bisogno di educazione politica, il sistema uninominale peggiorerebbe l’indisciplina dei partiti e la mobilità, la fluidità delle situazioni politiche, renderebbe più frequenti le crisi parlamentari. Il sistema uninominale potrebbe apparire soddisfacente se si riuscisse a riprodurre la situazione di cento anni addietro, situazione invece superata per il fatto che mentre allora vi erano 500 mila elettori adesso ve ne sono 28 milioni; massa tale di elettori che non può comparire efficacemente sulla scena politica se non è organizzata. L’onorevole Einaudi ha detto che in Inghilterra il sistema uninominale è indirizzato solo alla migliore scelta degli uomini, ma egli forse si è riferito ad una situazione passata in cui c’era effettivamente quella fusione di classi politiche, che ora non esiste più. Anche in America si è incominciata a verificare una maggiore scissione fra le classi ed i partiti assumono una fisionomia sempre più netta e marcata, che dà all’intervento popolare la funzione di scelta dei programmi e non solamente degli uomini.

Concludendo, pensa che, volendo specificare o chiarire meglio i congegni più idonei a raggiungere i fini di stabilità, che presiedono alla scelta della forma di governo, bisognerebbe fermarsi su questi due punti: fissità di durata del governo e possibilità eccezionale conferita al Capo dello Stato di procedere allo scioglimento della Camera nel caso che si verifichi una situazione di irrimediabile e prolungato dissidio fra i poteri. Naturalmente non devono trascurarsi altri elementi, perché sono essenziali al buon funzionamento del regime, come la distinzione di posizione giuridica del Primo Ministro rispetto ai Ministri; ma su questi la discussione può essere rimandata ad un secondo momento.

PRESIDENTE dichiara chiusa la discussione e avverte che, dei due ordini del giorno, dell’onorevole Perassi e dell’onorevole Patricolo, deve porre in votazione anzitutto quello Perassi, che è stato presentato per primo.

BULLONI dichiara che i membri della Sottocommissione appartenenti al gruppo della Democrazia Cristiana voteranno a favore dell’ordine del giorno Perassi se ed in quanto la Sottocommissione proponga idonee misure intese a garantire la stabilità di Governo e ad impedire le degenerazioni del parlamentarismo, riservandosi, in caso contrario, di riproporre in seduta plenaria della Commissione e in seno all’Assemblea Costituente la questione circa la forma del Governo.

GRIECO propone la votazione per divisione in modo che la Sottocommissione si pronunci anzitutto sulla prima parte dell’ordine del giorno in cui si afferma l’adozione del sistema parlamentare.

Crede che l’argomentazione dell’onorevole Mortati non condizioni un tipo o l’altro di regime, presidenziale o parlamentare, alle garanzie di stabilità del Governo; può, cioè, esistere così un regime presidenziale come un regime parlamentare, deficiente di stabilità. Comprende l’importanza delle questioni sollevate dall’onorevole Mortati, ma ritiene che esse non debbano essere inevitabilmente legate alla scelta del regime e possano e debbano essere trattate in sede opportuna, quando si discuterà l’argomento del Governo.

VANONI osserva che la proposta dell’onorevole Grieco sottolinea la fondatezza della preoccupazione da lui manifestata. In sostanza, si vuole arrivare ad una presa di posizione ben decisa su una determinata forma di Governo, senza tener conto di tutte le riserve emerse dalla discussione. Quindi, a nome dei suoi colleghi di gruppo, dichiara che essi voteranno contro la proposta di votazione per divisione. Essi accetteranno l’ordine del giorno Perassi solo in quanto costituisca un tutto unico; altrimenti, la discussione fatta non sembra loro sufficiente per prendere una decisione sui due fondamentali tipi di organizzazione dello Stato.

TARGETTI fa notare che il tenore dell’ordine del giorno Perassi non si presta ad una votazione per divisione. Un ordine del giorno si può dividere, quando esso è composto di due parti indipendenti; mentre l’ordine del giorno Perassi è composto di due parti che si integrano.

PERASSI, quale proponente, dichiara che, nel suo pensiero, l’ordine del giorno è un blocco indivisibile. Quindi prega la Commissione di non accogliere la proposta di votazione per divisione.

PRESIDENTE mette ai voti la proposta dell’onorevole Grieco di procedere alla votazione per divisione.

(Non è approvata).

GRIECO si riserva di presentare un ordine del giorno in cui ripeterà quello che ha detto.

PRESIDENTE pone ai voti l’ordine del giorno Perassi.

(È approvato con 22 voti favorevoli e 6 astensioni).

La seduta termina alle 21.15.

Erano presenti: Ambrosini, Amendola, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele Luigi, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Porzio, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Vanoni, Zuccarini.

In congedo: Fuschini, Piccioni.

Assenti: Leone Giovanni, Maffi, Uberti.

MERCOLEDÌ 4 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTO COMMISSIONE

8.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MERCOLEDÌ 4 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Organizzazione costituzionale dello Stato

(Seguito della discussione).

Presidente – Conti, Relatore  – Tosato – Mortati – Perassi – Einaudi – Ambrosini.

La seduta comincia alle 17.15.

Seguito della discussione sull’organizzazione costituzionale dello Stato.

PRESIDENTE invita l’onorevole Conti a fare la sua relazione sul tema del potere legislativo.

CONTI, Relatore, intende limitarsi ad una succinta esposizione, sia perché quella del collega Mortati è stata così ampia da aver toccato tutti gli argomenti che possono essere oggetto di discussione, sia perché, a suo avviso, lo sforzo della Sottocommissione deve esser diretto soprattutto alla formulazione di positive disposizioni per il progetto di Costituzione.

Nella premessa della relazione che ha presentato ha avvertito che le disposizioni contenute negli articoli del testo abbozzato sono in rapporto con la struttura autonomistica dello Stato, perché se non è chiara ed accettata questa premessa, le conseguenze che si possono trarre dal suo progetto sono diverse. Bisogna tener presente l’importanza che egli annette al sistema autonomistico. Costituita la regione e attribuita a questa competenza legislativa, il Parlamento non sarà più quello dello Stato unitario, che si è sperimentato con tutti i suoi pesi e con tutte le sue conseguenze.

Lo Stato accentrato comporta un Parlamento che si occupa dei minimi particolari della vita nazionale, mentre lo Stato autonomista distribuisce alle regioni gran parte del lavoro legislativo con la conseguenza di un sicuro, generalmente neppure intravisto, mutamento di costumi parlamentari. Personalmente non è soddisfatto della modesta estensione delle competenze fissate nella relazione Ambrosini, perché egli è per una più larga competenza. Il Parlamento, quando sarà sgravato da tante competenze, diventerà finalmente quell’alto consesso legislativo al quale accederanno i migliori del paese, e quindi si eleverà di tono.

Questo porta anche ad accennare alla necessità di ridurre al massimo il numero dei membri della prima e della seconda Camera. Fra tutte e due le Camere si dovrebbe arrivare ad una cifra che equivalga a quella della Camera attuale; cinque o seicento deputati e senatori in tutto (e dicendo senatori, non si intende fissare come definitivo questo termine verso il quale si hanno antipatie e che può essere abbandonato volentieri se un altro se ne possa trovare).

Il sistema legislativo che egli propone può considerarsi la realizzazione del sistema misto fra il parlamentare e il direttoriale.

Detto questo, accenna alla sua preferenza assoluta per il sistema bicamerale e passa alla lettura della seguente relazione.

Il Parlamento

Il criterio direttivo, al quale deve ispirarsi la Costituzione nel determinare gli organi ai quali sarà attribuito, come competenza principale, l’esercizio della funzione legislativa, è quello di dare ad essi una conformazione tale da essere per se stessa una garanzia che il procedimento attraverso il quale si forma la legge, cioè l’atto che crea le norme giuridiche regolatrici della società nazionale, abbia ad assicurare un’adeguata considerazione dei diversi interessi, dei quali la legge deve regolare il contemperamento. L’utilità generale che le leggi risultino ponderatamente elaborate e perciò più stabili e più spontaneamente osservate, ha manifestamente un valore più alto che non la velocità del meccanismo che le produce.

Sistema bicamerale

Questo criterio direttivo per la costruzione degli organi legislativi porta a due conseguenze, fra loro connesse.

In primo luogo, esso rende preferibile il sistema bicamerale, lasciando vedere come sia viziato da un evidente semplicismo il noto ragionamento col quale si pretendeva di condannare tale sistema.

D’altra parte quello stesso criterio indica le necessità che i modi di formazione delle due Camere parlamentari siano differenti, perché esso sarebbe fondamentalmente disconosciuto se una Camera non fosse che una seconda edizione dell’altra. Ciascuna di esse, per il modo della sua costituzione, deve dare affidamento di apportare al processo di formazione della legge un concorso ispirato alla considerazione di interessi, esigenze e punti di vista che meritano di essere tenuti in conto per essere composti nell’interesse generale della Nazione.

Il sistema bicamerale, avuto riguardo anche all’esperienza dei diversi Paesi, si raccomanda inoltre come più adatto ad assicurare un conveniente esercizio di quelle funzioni di controllo politico (e specialmente di quelle relative alla gestione finanziaria ed alle relazioni internazionali) che costituiscono l’altro compito, non meno politicamente importante, del Parlamento.

Secondo tali criteri la Costituzione dovrebbe istituire una Camera dei Deputati ed un Senato.

La Camera dei Deputati

La Camera dei Deputati avrebbe il carattere di un organo rappresentativo della Nazione nella sua unità, cioè come collettività dei cittadini. Essa sarebbe eletta, a suffragio universale, diretto e segreto, da collegi elettorali nei quali si distribuiscono territorialmente i cittadini aventi il diritto di voto. Sarebbe composta di 400 membri e nominata per quattro anni.

Il sistema di elezione dei Deputati e la formazione delle liste elettorali e dei collegi elettorali sarebbero regolati dalla legge elettorale, essendo opportuno che i particolari di questa materia non siano pregiudicati da disposizioni aventi la rigidità delle norme costituzionali.

Il Senato

Il Senato avrebbe, invece, il carattere di una camera rappresentativa della Nazione come si presenta differenziata nelle varie forme di organizzazioni ed istituzioni in cui si esplica la vita sociale.

Nel modo di formazione del Senato dovrebbe aversi, anzitutto, uno dei riflessi costituzionali del riconoscimento delle Regioni come enti di diritto pubblico.

Il Senato dovrebbe essere una Camera destinata, in prima linea, a rappresentare l’organo nel quale l’indirizzo dell’attività politica e legislativa dello Stato si determina tenendo conto delle diverse esigenze regionali.

Non è però necessario che il criterio regionale sia adottato come criterio unico ed esclusivo per la formazione del Senato. Sarebbe conveniente attribuire l’elezione di una parte dei senatori ad altri enti, nei quali si concreta sotto altri aspetti la differenziazione della società nazionale.

Secondo tali criteri, la Costituzione determinerebbe il numero dei senatori da eleggersi dalle Regioni e quello da eleggersi da altri enti, quali le organizzazioni sindacali nazionali, le università.

Il numero complessivo dei membri del Senato potrebbe essere fissato a 300.

Il numero dei senatori eletti dalle Regioni, dovrebbe non essere inferiore ai due terzi. Si può considerare se convenga, come in Svizzera e negli Stati Uniti, attribuire a ciascuna regione l’elezione di un numero eguale di senatori o se, invece, non sia più opportuno che la distribuzione dei seggi senatoriali fra le Regioni sia da farsi tenendo conto delle diversità di estensione geografica e di popolazione delle varie regioni. L’elezione dei senatori di questa categoria sarebbe attribuita all’Assemblea della Regione alla quale prenderebbero parte anche delegati dei consigli comunali della regione.

Il criterio indicato come direttivo della formazione del Senato, non esclude, poi, in linea di principio, che si consideri anche la convenienza di attribuire allo stesso Senato od al Capo dello Stato la nomina di un ristrettissimo numero di senatori a vita, in modo da permettere di assicurare al Senato il concorso di personalità eminenti, che per ragioni diverse non sarebbero utilizzate col sistema elettivo.

I senatori sarebbero eletti per 6 anni e si rinnoverebbero per metà ogni 3 anni.

Formazione delle leggi

La Camera dei Deputati ed il Senato concorrerebbero, come organi distinti, alla formazione delle leggi, le quali sarebbero sanzionate e promulgate dal Capo dello Stato.

La Costituzione dovrebbe stabilire che il Capo dello Stato, quando ritenga di rifiutare la sanzione, deve rinviare il disegno di legge alle Camere con messaggio motivato: se ciascuna di queste approva di nuovo il disegno di legge a maggioranza dei due terzi, il Capo dello Stato sarebbe obbligato a promulgare la legge.

Procedura d’urgenza

A questa procedura normale per la formazione delle leggi la Costituzione potrebbe prevedere una deroga per il caso di urgente necessità.

In questo caso l’approvazione di ciascuna delle due Camere su un disegno di legge sarebbe data da una Delegazione permanente nominata annualmente da ciascuna di esse nel suo seno con sistema proporzionale. Se l’urgente necessità non è preliminarmente riconosciuta dalla Delegazione di una Camera, la procedura normale di approvazione della legge dovrebbe essere osservata.

Con questa disposizione, la Costituzione, mentre escluderebbe la facoltà del Governo di emanare decreti-legge, istituirebbe un procedimento accelerato, che assicura la possibilità di una pronta emanazione di provvedimenti legislativi che fossero richiesti da una effettiva urgente necessità.

Limiti costituzionali della legge ordinaria

La legge ordinaria, quanto al suo contenuto, deve essere subordinata alla Costituzione, nel senso che essa non può creare norme che modifichino la Costituzione o che siano contrarie a principî costituzionali. È questa un’esigenza essenziale, imposta da due ordini di considerazioni.

In primo luogo il riconoscimento costituzionale delle Regioni, la cui competenza è determinata dalla Costituzione, esige la garanzia che la legge ordinaria dello Stato non possa modificare lo stato giuridico delle Regioni. Senza questa garanzia costituzionale l’autonomia delle Regioni sarebbe malsicura.

In secondo luogo, la Costituzione deve avere un valore superiore a quello della legge ordinaria, per assicurare, da un lato, che l’ordinamento costituzionale sia più stabile e le modificazioni siano attuate con un procedimento speciale adeguato all’importanza della materia, e dall’altro, che alcuni principî enunciati nella Costituzione come guarentigie dei cittadini siano muniti di effettiva efficacia giuridica, che si concreta nel funzionare come limiti la cui osservanza è causa di invalidità non solo degli atti della pubblica amministrazione, ma anche delle leggi ordinarie dello Stato.

Leggi costituzionali

Tale esigenza fondamentale importa che la Costituzione, sottraendo se stessa al potere della legge ordinaria, istituisca un procedimento speciale per la formazione delle leggi costituzionali.

Sul modo di differenziare il procedimento di formazione delle leggi costituzionali da quello delle leggi ordinarie si possono considerare diversi sistemi.

Così potrebbe ritenersi sufficiente stabilire che le leggi costituzionali devono essere approvate dalla maggioranza dei due terzi dei membri in carica delle due Camere. La garanzia risultante dall’esigenza di una maggioranza qualificata potrebbe essere sostituita ovvero rafforzata prescrivendosi che le leggi costituzionali siano sottoposte all’approvazione delle Assemblea delle Regioni, assicurandosi con ciò particolarmente una garanzia per lo stato giuridico costituzionale delle Regioni.

Si può anche considerare se non convenga sottoporre le leggi costituzionali alla votazione diretta dei cittadini, esigendosi per l’approvazione la maggioranza dei votanti calcolata sia nazionalmente sia per regioni.

L’Assemblea nazionale

La Costituzione, poi, prevederebbe che per talune attribuzioni, da essa determinate, la Camera dei Deputati ed il Senato funzionerebbero riuniti insieme, costituendo l’Assernblea nazionale, che sarebbe presieduta dal Presidente del Senato.

Dopo questa esposizione dei principî informatori del testo, dà lettura dei seguenti articoli che propone, senza peraltro considerarli definitivi, e anzi ritenendoli come spunti per la stesura del progetto di Costituzione:

 

I POTERI DELLO STATO

Art. …

Il potere legislativo è esercitato dalla Camera dei Deputati e dal Senato.

La Camera dei Deputati e il Senato riuniti costituiscono l’Assemblea Nazionale.

L’iniziativa delle leggi è riconosciuta al Presidente della Repubblica, al Governo, ai Senatori ed ai Deputati e al Popolo.

Il potere esecutivo è attribuito al Presidente della Repubblica che lo esercita per mezzo di ministri.

Il potere giudiziario è esercitato da una magistratura indipendente retta da un Supremo Consiglio di magistrati eletto dai giudici di tutti i gradi.

 

LA CAMERA DEI DEPUTATI

Art. …

La Camera dei Deputati è composta di cittadini d’ambo i sessi, dell’età di almeno 25 anni, eletti per quattro anni a suffragio universale uguale, diretto e segreto.

Art. …

Per l’elezione della Camera dei Deputati lo Stato è suddiviso in collegi elettorali a norma di legge speciale.

Sarà eletto un Deputato ogni 150 mila abitanti.

(Il Relatore rileva che la riduzione del numero dei deputati deve essere considerata in relazione all’ordinamento regionale, che comporta la costituzione di assemblee con competenza legislativa. I deputati eletti ogni 150 mila abitanti sarebbero circa 300).

Art. …

I requisiti per la eleggibilità e i casi di incompatibilità sono fissati dalla legge elettorale. La Camera verifica la validità dell’elezione dei Deputati.

(Il Relatore dichiara di ammettere la possibilità del Tribunale elettorale menzionato dal relatore onorevole Mortati).

Art. …

I Deputati sono rappresentanti della Nazione. Esercitano liberamente la funzione legislativa e, durante l’esercizio del mandato, non possono essere arrestati se non in flagranza di reato. Non possono essere arrestati neppure in esecuzione di sentenza di condanna, né possono essere sottoposti a procedimento penale senza autorizzazione della Camera.

Art. …

La Camera dei Deputati deve riunirsi appena eletta e in ogni caso non oltre venti giorni da quello della proclamazione degli eletti.

Nel quadriennio si riunirà senza alcuna convocazione nella prima decade del marzo e dell’ottobre di ogni anno, e terrà le sedute che saranno necessarie allo svolgimento della opera legislativa. Può essere convocata in via straordinaria dal Presidente della Repubblica, con messaggio motivato al Presidente della Camera, dalla sua Presidenza, o, da questa, a richiesta motivata del Capo del Governo.

La convocazione a richiesta di Deputati deve essere fatta su domanda di un decimo dei componenti la Camera.

Art. …

La Camera dei Deputati può essere sciolta prima della scadenza del termine per deliberazione propria a maggioranza assoluta di voti. Può essere sciolta dal Presidente della Repubblica in seguito a voto della Camera e del Senato.

Art. …

La Camera elegge nel suo seno il Presidente, due Vicepresidenti, i Questori, i Segretari e le Commissioni, a norma del proprio regolamento. Elegge ogni anno, all’inizio della sessione di primavera, con votazione a maggioranza assoluta, una Giunta permanente, presieduta dal Presidente della Camera, composta di 30 Deputati con il mandato di procedere nella vacanza del Parlamento congiuntamente con la Giunta del Senato all’esame e alla approvazione in via di urgenza di progetti di legge del Governo.

Art. …

La Giunta permanente della Camera si riunisce con la Giunta permanente del Senato nei casi previsti dalla Costituzione, dalle leggi e dai regolamenti.

Art. …

La Camera delibera il proprio regolamento e provvede alla propria amministrazione disponendo dei fondi stanziati nel bilancio dello Stato.

IL SENATO

Art. …

Il Senato è composto di rappresentanti d’ambo i sessi di età non inferiore ai 40 anni, eletti dalle Assemblee delle Regioni, dai Consigli accademici, dalle Università, dalle Organizzazioni sindacali nazionali, dagli Ordini professionali e dal Presidente della Repubblica, riconosciuti gli uni e le altre dallo Stato e chiamati all’elezione da legge rinnovabile ogni dieci anni.

Art. …

Le Assemblee Regionali eleggono un Senatore per ogni cinquanta Deputati regionali. Le Assemblee Regionali composte di un numero di Deputati minore dei cinquanta eleggono anche esse un Senatore.

Le Organizzazioni sindacali, le Università, gli Ordini professionali eleggono ciascuno un numero di Senatori pari a un quarto del numero dei Senatori eleggibili dalle Regioni.

Spetta al Presidente della Repubblica la nomina di dieci senatori nelle seguenti categorie:

  1. a) magistrati;
  2. b) …………
  3. c) …………

Art. …

I Senatori sono eletti per sei anni.

Ogni tre anni si deve procedere alla rinnovazione della metà dei membri del Senato. La cessazione del mandato allo spirare del triennio, deve essere rimessa al sorteggio. I sorteggiati sono rieleggibili. I Senatori nominati dal Presidente della Repubblica restano in carica durante l’esercizio della loro funzione pubblica.

Art. …

I Senatori hanno i medesimi diritti e doveri dei Deputati e godono le immunità previste dall’articolo …

Il Senato delibera il proprio regolamento e provvede alla propria amministrazione disponendo dei fondi stanziati nel bilancio dello Stato.

Art. …

Il Senato concorre all’opera legislativa con la Camera dei Deputati e col Governo di propria iniziativa e coll’esame e l’approvazione delle leggi votate dalla Camera dei Deputati.

Art. …

Il Senato si riunisce e funziona nei modi e nei termini previsti per la Camera dei Deputati.

Art. …

Il Senato elegge nel suo seno una Giunta presieduta dal Presidente del Senato, composta di 30 Senatori, con i poteri previsti dall’articolo … per la Giunta permanente della Camera dei Deputati.

Art. …

La legge ordinaria deve osservare i limiti della Costituzione; non può creare norme che la modifichino e che siano contrarie a principî costituzionali.

Art. …

Le leggi di iniziativa della Camera dei Deputati debbono essere approvate dal Senato.

Art. …

Le leggi di iniziativa del Senato debbono essere approvate dalla Camera dei Deputati. Le approvate leggi dalla Camera dei Deputati, non approvate dal Senato, sono rinviate con relazione motivata per nuovo esame alla Camera.

Se la legge sarà dalla Camera nuovamente approvata con due terzi dei voti, dovrà essere presentata al Presidente della Repubblica per la sanzione e la promulgazione.

(A proposito del Senato si dovrà esaminare il quesito della sua dissoluzione).

Art. …

Le leggi costituzionali dovranno essere sottoposte alla votazione diretta dei cittadini elettori, per l’approvazione a maggioranza dei votanti.

(Questo articolo, osserva il Relatore, dispone un’applicazione del diritto ad referendum, che per le leggi deliberate dal Parlamento nazionale non avrebbe altre applicazioni, mentre il referendum dovrà essere previsto per molti casi di legislazione regionale).

L’ASSEMBLEA NAZIONALE

Art. …

L’Assemblea Nazionale elegge il Presidente della Repubblica, ne revoca l’elezione per alto tradimento, per violazione della Costituzione dichiarata con i voti di due terzi dei componenti le due Camere; delibera la dichiarazione della guerra; conclude i trattati di pace e i trattati internazionali.

(Il Relatore rileva che un testo completo dovrà stabilire quale regolamento – se quello della Camera o del Senato – dovrà adottare l’Assemblea Nazionale).

Art. …

L’Assemblea Nazionale è presieduta dal Presidente del Senato.

DIRITTO DI PETIZIONE E DI INIZIATIVA

Art. …

Tutti i cittadini hanno diritto di petizione e di iniziativa.

Art. …

Per una legge di iniziativa popolare si richiede la presentazione della proposta da parte di 25 mila cittadini nel pieno godimento dei diritti civili.

Art. …

Proposte di legge e petizioni sono portate all’esame di Commissioni della Camera dei Deputati e del Senato per la formulazione di progetti legislativi.

PRESIDENTE ricorda che la Sottocommissione ha nominato l’onorevole Rossi Paolo relatore sul terna «revisione della Costituzione»; ma pensa che si potrebbe discutere a parte questo argomento, cominciando ora senz’altro la discussione sopra le due relazioni Mortati e Conti.

Circa l’ordine della discussione, ritiene che sarebbe opportuno affrontare intanto il tema pregiudiziale del tipo del sistema presidenziale, o parlamentane, o misto del genere di quello prospettato ieri dall’onorevole Mortati.

TOSATO aderisce al criterio di procedere alla discussione distinguendo i temi e seguendo un ordine logico. Facendo parte del gruppo dei Relatori sul potere esecutivo, ritiene impossibile delimitare una relazione su questo tema se non si è stabilito in linea di massima se è esclusa o meno la forma di governo presidenziale e se si intenda adottare il sistema bicamerale; ed in tal caso se si ha intenzione di porre le due Camere in una posizione di parità o meno. Questi due punti sono assolutamente pregiudiziali per una qualsiasi impostazione e delimitazione completa della struttura del Governo. Propone perciò che si discuta prima sulla forma del governo presidenziale, sul sistema bicamerale e poi sui rapporti fra le due Camere.

MORTATI, Relatore, ritiene superata la questione da quando si è deciso di fare una parte introduttiva sulla Costituzione dello Stato. In questa parte introduttiva, svolta ieri, vi sono elementi relativi al potere esecutivo. Quindi la discussione sarebbe utile se affrontasse nelle sue linee generali questa parte relativa ai principî fondamentali della struttura dello Stato, per scendere poi nei dettagli circa la composizione del potere esecutivo e di quello legislativo. Naturalmente in questi argomenti, generali e fondamentali, entra l’argomento di struttura indicato dall’onorevole Tosato, relativo al sistema unicamerale o bicamerale, che incide sul tipo di Governo.

PERASSI, dopo la discussione abbozzata ieri, crede che converrebbe cominciare con lo stabilire se scegliere o scartare il tipo di governo presidenziale; ed allo scopo di precisare i punti di vista ed affrettare i lavori, propone la seguente decisione:

«La Seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo».

EINAUDI desidera fare alcuni rilievi sulla contrapposizione che si è voluta fare del sistema presidenziale a quello parlamentare.

Nella sua relazione l’onorevole Mortati si è riferito, sovratutto e molto approssimativamente, a precedenti di Costituzioni, le quali hanno avuto una lunga durata e delle quali, per conseguenza, si conoscono il funzionamento e gli effetti e quindi si può dare un giudizio ponderato. La maggior parte dei suoi riferimenti sono stati fatti al sistema presidenziale degli Stati Uniti ed a quello parlamentare della Gran Bretagna. Non sono i soli che si potrebbero fare per il problema della scelta fra il sistema presidenziale e quello parlamentare, perché anche in Italia abbiamo uno statuto che è durato quasi un secolo e che ha dato luogo ad esperienze molto interessanti.

Non è dalla lettera di una Costituzione che occorre ricavare gli elementi più fecondi: la lettera è stata scritta in altri tempi, quando i bisogni erano diversi: più interessante è vedere quale uso si è fatto di quel sistema creato tanti anni fa.

Lo Statuto albertino aveva presentato nelle sue varie applicazioni successive qualche nota abbastanza interessante. Esso, per esempio, supponeva che il senatore fosse di nomina regia, mentre la realtà è stata del tutto diversa. Il re, infatti, non nominava alcun senatore, ma questi erano nominati in secondo o terzo grado, indirettamente dagli elettori, perché questi eleggevano la Camera, che aveva finito per designare il Gabinetto, e questo il Capo del Governo, il quale nominava di fatto i senatori. Così nello Statuto niente si diceva, salvo per la precedenza nel tempo dei progetti tributari a favore della Camera, intorno alle prerogative di una Camera rispetto all’altra; ma lo Statuto fu profondamente modificato circa i diritti del Senato quando, avendo il Senato emesso un voto di sfiducia al gabinetto di Agostino Depretis, questi si alzò e pronunciò cinque semplici parole: «Il Senato non fa crisi». Da allora il Senato non ha avuto più l’autorità di determinare crisi di governo. Ancora: quello che era in realtà il Governo cosiddetto costituzionale, nominato dal re, finì per trasformarsi, prima del 1922, in un Governo parlamentare, il quale aveva la fiducia della Camera dei Deputati e non occorreva che avesse la fiducia del Senato.

Quello che importa sostanzialmente, dunque, nell’esaminare le Costituzioni che possono fornire esempi, non è la loro lettera, ma la loro vita. Qui si può osservare che i due sistemi, presidenziale e parlamentare, nella loro vita effettiva, si sono andati avvicinando l’uno all’altro e stanno avvicinandosi ancor più, cosicché noi assistiamo già e assisteremo sempre più quasi al fenomeno di obliterazione della distinzione tra l’un sistema e l’altro.

È evidente che il sistema presidenziale presenta dei difetti grandissimi: può dar luogo ad abusi da parte del Presidente, il quale ha una grande autorità. A tale proposito è stato detto che questi abusi hanno negli Stati Uniti d’America scarsa importanza inquantoché esiste il federalismo. Ma si deve aggiungere che coloro che negli Stati Uniti si occupano di questo argomento non mettono in evidenza una connessione diretta tra il sistema federativo e la riduzione della possibilità di abusi da parte del Presidente. Negli Stati Uniti, Presidente nazionale e governatori statali possono abusare, ciascuno nel proprio campo, senza freni reciproci. E, del resto, negli Stati del Centro e del Sud America, che hanno pure un ordinamento federativo, il sistema presidenziale dà luogo a dittature che si succedono l’una all’altra nonostante il federalismo.

Se negli Stati Uniti il sistema presidenziale non ha dato luogo a quegli abusi che si possono temere fondatamente in altri Paesi, ciò deriva da altre circostanze e soprattutto dall’esistenza di un potere giudiziario indipendente, il quale in fondo trova la sua forza anche qui in due o tre parole inserite nella Costituzione, per cui il Congresso può fare soltanto delle leggi per l’applicazione della Costituzione. Su queste poche parole si è eretto tutto il sistema giudiziario, il quale si contrappone ed agisce come freno tanto per il Congresso quanto per il Presidente. Ma anche questo potere giudiziario si è creato per virtù di uomini, soprattutto per virtù di un grande giurista che ha presieduto per trent’anni la Corte degli Stati Uniti – il giudice Marshall – che ha impresso per un secolo la sua personalità preminente su l’interpretazione della legge costituzionale. Se alle origini del sistema del potere giudiziario nord-americano ci fosse stato un altro uomo, che avesse interpretato diversamente i rapporti fra i poteri, forse anche questo controllo costituzionale non ci sarebbe stato. In sostanza, non la Corte Suprema, ma tutto l’ordine giudiziario esercita sulle leggi il controllo costituzionale, che finisce per essere imperniato sull’idea che i nove giudici della Corte Suprema si fanno non di quello che è scritto nella Costituzione, ma di quello che, a loro avviso, deve intendersi scritto, secondo l’interpretazione che essi ne dànno. È il criterio della giusta legge, il criterio della legge comune – della common law – che si è introdotto attraverso i giudici.

Non si può nemmeno dire che il freno agli abusi del regime presidenziale negli Stati Uniti derivi dalla forza dei partiti, perché non si deve credere che in realtà i due partiti tradizionali, repubblicano e democratico, siano delle forze che esercitino quell’influenza che taluno suppone. Sono le persone che vengono presentate agli elettori: sono stati Roosevelt e i suoi avversari, domani saranno Truman, MacArthur, o il Senatore Taft; e la battaglia elettorale si combatte sulle persone dei candidati alla presidenza o, nelle singole circoscrizioni, alla carica di deputati o senatori. E poi nella formazione della legge non intervengono soltanto i partiti, ma intervengono molte altre organizzazioni sezionali che non hanno niente a che fare con i due grandi partiti fondamentali: intervengono le organizzazioni di interessi, le organizzazioni regionali e molte volte accade che le leggi più importanti siano votate non da un partito contro l’altro, ma da un gruppo di maggioranza formato da appartenenti ad ambedue i partiti, contro altri raggruppamenti pure di ambedue i partiti. Per esempio, il trattato recentemente concluso tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra per il prestito di 4.400.000.000 di dollari è stato votato da una maggioranza composta da democratici e da repubblicani contro una minoranza composta pure da democratici e repubblicani. Vi sono state, cioè, persone che hanno «tradito» i loro partiti; fatto abbastanza normale, soprattutto nei casi che eccitano le passioni interne. Non si può nemmeno dire che il sistema dei partiti abbia influenza nell’impedire o accrescere le possibilità di abusi da parte del Governo presidenziale, perché il Presidente non è veramente sicuro del suo partito se non nel primo anno della sua vita presidenziale, quando avviene la distribuzione delle spoglie. Nel primo anno di nomina, il Presidente dispone di una grandissima parte dei posti governativi (non di tutti, perché i maggiori, i più importanti, quelli del servizio civile, sono stati da leggi particolari sottratti all’arbitrio presidenziale) e di cariche che servono a tacitare la massa degli elettori: per esempio, attraverso il Post-master, il Ministro delle Poste, dispone di una grande massa di posti e finché non li ha tutti distribuiti tiene a freno il proprio partito: ma dopo, compiuta la distribuzione delle spoglie, i membri del partito possono cominciare a ribellarglisi e spesso gli si ribellano. Infatti accade sovente che molte votazioni fondamentali non avvengono secondo la linea distintiva dei partiti, ma secondo altri criteri che sono economici o sociali, ma soprattutto di interesse regionale: basta ricordare il caso dei tre o quattro senatori degli Stati produttori di argento, i quali riescono ad ottenere permanentemente la votazione di leggi in favore dell’argento. Proprio ieri negli Stati Uniti è stato aumentato il prezzo dell’argento da 75 a 90 cents per oncia, per influenza di questi senatori; e non è possibile liberarsi da questa influenza, perché, altrimenti, costoro creerebbero ostruzionismi in altri campi.

Il sistema presidenziale eccita negli Stati Uniti critiche continue, di cui la più importante è stata rilevata dal relatore Mortati, ed è che non esiste in esso una comunicazione tra potere esecutivo e potere legislativo. È vero che i segretari di Stato possono presentarsi dinanzi ai comitati, ma questa loro presentazione si rileva quasi sempre poco efficace, in quantoché tradizionalmente i comitati sono moltissimi. Tra le due Camere del Congresso vi sono più di cento comitati, i quali si occupano dei diversi gruppi di leggi e sono indipendenti gli uni dagli altri. Per tradizione secolare questi comitati sono importantissimi, inquantoché in essi si insediano gli anziani, ossia vi si fa carriera: un rappresentante senatore comincia da zero e, via via, procede in uno o due comitati, fino a diventarne Presidente di diritto per anzianità: altra consuetudine dalla quale non si riesce a liberarsi. Diventando presidenti per anzianità, essi dispongono della legislazione e fanno sì che i disegni di legge «raccomandati» dall’amministrazione (il Governo non presenta direttamente i disegni di legge, ma li fa raccomandare dai propri amici, che sono distribuiti nei diversi comitati) siano più o meno presto discussi ed approvati. Se il Presidente fa ostruzionismo alla discussione ed alla approvazione di un disegno di legge in un comitato, quel disegno di legge non va avanti. Può darsi che, per anzianità, i presidenti dei singoli comitati appartengano a partiti diversi da quello al quale appartiene il Capo dello Stato, ed allora la legislazione risulta di una lentezza straordinaria; ed è molto facile per il potere legislativo mettere pastoie all’opera del potere esecutivo. Né si sa mai se un disegno di legge presentato dal potere esecutivo possa essere approvato, a causa della gelosia tra potere legislativo e potere esecutivo e della varia composizione dei cento e più comitati, in cui si dividono i due rami del Congresso, ognuno dei quali, attraverso il Presidente, determina la data alla quale si devono esaminare i disegni di legge, la durata della discussione, e se debbano essere o no discussi.

Un altro elemento che rende difficile la collaborazione tra potere esecutivo e potere legislativo nel sistema presidenziale americano – se si vuole costruire un sistema presidenziale, bisogna evidentemente tener conto di questo difetto – è quello della diversa durata delle Camere e del potere presidenziale. Quando è eletto il nuovo Presidente, si elegge una parte delle Camere, e quindi può darsi che il nuovo Presidente non abbia neppure la maggioranza nelle due Camere. Questo poi si verifica più frequentemente nel secondo biennio, perché è più facile allora che, per l’oscillare del pendolo elettorale, il corpo elettorale nomini senatori contrari alla politica del Presidente, il quale nel secondo biennio della durata del suo potere si trova spesso dinanzi ad una fronda, che nelle due Camere legislative rende impossibile la legislazione. Infatti, una conclusione alla quale sono arrivati tutti coloro che si sono occupati di questo argomento negli Stati Uniti è che il potere presidenziale in quel Paese funziona bene soltanto in tempo di guerra; ma all’infuori di quel periodo, subisce non di rado, anche con presidenti di grande autorità, una dopo l’altra delle sconfitte sui punti essenziali della sua politica, per il continuo dissidio fra potere esecutivo e potere legislativo. In tempo di guerra funziona, solo perché le due Camere abdicano ai propri poteri, conferendo i pieni poteri al Presidente.

Quindi, non solo sono frequenti le proposte, ma c’è un avviamento alla modificazione del sistema presidenziale negli Stati Uniti, ed uno dei passi più importanti in questo senso è stato compiuto dal Segretario di Stato, Ministro degli esteri, Cordell Hull, durante la guerra. Egli si è posto questo quesito: «cosa accadrà quando il Congresso sarà chiamato ad approvare il trattato di pace? Avremo la ripetizione dell’esperienza di Wilson?». Wilson si trovò alla fine della prima guerra mondiale senza pieni poteri, contro una minoranza irriducibile del Senato, dove, per approvare il trattato, occorreva una maggioranza di due terzi; onde quella minoranza rese impossibile l’approvazione del Covenant per la Società delle Nazioni e del trattato di pace tra le Nazioni alleate ed i Paesi vinti. Cordell Hull pensò che era necessario creare un organo di collegamento tra l’amministrazione ed il Senato: non solo è andato ripetutamente dinanzi al Senato, che è l’organo decisivo per i trattati internazionali, ad esporre e difendere la sua politica di intervento degli affari mondiali, la sua politica anti-isolazionista, ma ha creato un comitato, che durante la guerra era composto di membri di ambo i partiti, il quale approvasse preventivamente le sue idee, che erano poi quelle della costituzione e dell’organizzazione delle Nazioni Unite e di un trattato di pace unitario, così da assicurarsi il consenso preventivo da parte del Senato. Questo è il primo organo di collegamento che è stato istituito senza bisogno di una modificazione costituzionale, perché è compatibile con la Costituzione esistente, e che si pensa di perfezionare e rendere permanente.

Molti accennano all’idea, pur rimanendo il Gabinetto un complesso di segretari di Stato di nomina puramente presidenziale, di allargare questo Gabinetto ad un numero equipollente di rappresentanti delle grandi commissioni parlamentari. Invece di avere quel numero strabocchevole di commissioni, che sono padrone della legislazione (di cui ha parlato prima) se ne dovrebbe, cioè, avere un numero più ridotto. Poiché i segretari di Stato sono nove, si dovrebbero avere nove commissioni per il Congresso e nove per la Camera dei rappresentanti, che potrebbero costituire commissioni miste; ed i relativi presidenti farebbero parte del Gabinetto: nominati dal Presidente, ma sostanzialmente di emanazione parlamentare. Così, il Parlamento potrebbe conoscere in precedenza ciò che il Governo vuol fare. Oggi, data la separazione dei poteri (questo è l’inconveniente gravissimo del sistema presidenziale), il Gabinetto preordina i disegni di legge, ma le due Camere non ne sanno niente, perché non hanno propri rappresentanti nel Governo, e quindi non possono preventivamente darne un proprio giudizio. I disegni di legge arrivano per interposte persone, i cosiddetti amici del Presidente, alle due Camere i cui comitati hanno verso di essi un atteggiamento di sospetto, perché sono disegni provenienti dal potere esecutivo, su cui le due Camere non hanno alcuna influenza e con cui non hanno nessun collegamento. Se, invece, nel Gabinetto, accanto ai ministri segretari di Stato, che governano le singole amministrazioni, ci fossero altri nove segretari di Stato rappresentanti delle due Camere, questi interverrebbero nella formulazione dei disegni di legge, che arriverebbero alle due Camere sotto l’aureola dell’accettazione da parte dei delegati di queste.

Si osserva, dunque, negli Stati Uniti la necessità di un avvicinamento del sistema presidenziale al sistema parlamentare, la necessità di far sì che il Parlamento abbia voce nella formazione dei disegni di legge preventivamente alla loro presentazione ai due rami del Congresso. Tutti sono d’accordo nel ritenere che, se questo non si fa, il sistema presidenziale, anche quando una forte personalità è a capo del Governo, può agire soltanto in circostanze straordinarie, quando il nemico batte alle porte. Fuori di questi casi eccezionali anche un uomo forte, che si trovi a capo del potere esecutivo, anche un Presidente che emani indubbiamente dal popolo, si trova nell’impossibilità di sormontare, salvo nel primo anno dopo la sua elezione, l’opposizione gelosa del Congresso. Onde una specie di stasi, di impossibilità di funzionamento. Questa è l’opinione – pare – prevalente in quei Paesi, della quale già si comincia a tener conto di fatto e per la quale si vogliono cercare dei rimedi.

Il sistema presidenziale americano, dunque, ha funzionato nei momenti di emergenza del Paese, e nei momenti in cui a capo del Governo si trovavano personalità molto eminenti. Ma questo negli Stati Uniti avviene molto raramente: la norma è quella di presidenti ordinari, i quali vanno benissimo per i tempi di pace, ma vanno incontro all’inconveniente che non possono esercitare una influenza sulla legislazione e si trovano bloccati dall’eterno contrasto col potere legislativo.

D’altro canto, non si può dire che il sistema parlamentare, così come oggi tende ad evolversi, sia così differente dal sistema presidenziale, come si può immaginare. L’esperienza ricordata dal Relatore onorevole Mortati mette in luce la evoluzione che si è andata verificando nel sistema parlamentare, perché sempre di più nei Paesi d’origine del sistema parlamentare, quello che acquista importanza prevalente, al di sopra del Gabinetto, al di sopra della Camera dei comuni – non parliamo della Camera dei Lords, che ha una funzione prevalentemente ritardatrice – è il Primo Ministro. Questa figura del Primo Ministro nelle leggi non era neppure conosciuta di nome trent’anni fa; era uno qualunque dei membri della Camera dei comuni, il quale, quando si doveva presentare alla sbarra della Camera dei Lords per sentire il discorso della Corona, era confuso insieme con tutti gli altri membri della Camera dei comuni, e non era nemmeno il più alto nelle precedenze tra i membri del Gabinetto. Allora il Lord presidente del Consiglio, che oggi non è niente, aveva, invece, teoricamente, dignità molto maggiore di quella del Primo Ministro. Adesso, da una trentina di anni, questa figura è almeno ricordata nelle leggi. Ma la realtà è che il vero capo della legislazione è il Primo Ministro, che non è di fatto scelto dalla Camera dei comuni, la quale non lo designa neppure. La forma può essere quella della designazione della Camera, ma è pura forma; la realtà è del tutto diversa, ed è quella stessa che si verifica negli Stati Uniti. Nello stesso modo come negli Stati Uniti, ogni quattro anni, la popolazione nel suo complesso nomina il Presidente, che è il capo ispiratore del potere esecutivo, e che tende anche ad essere – e lo è nei momenti supremi – l’ispiratore della legislazione, in Inghilterra è il popolo che designa il Primo Ministro, è il popolo che lo elegge. Non è il partito laburista che abbia designato Attlee; non è il partito conservatore che abbia designato Churchill: è il popolo che ha indicato, nelle elezioni, Churchill e Attlee, come capi dei partiti mandati al potere. Le masse dei due partiti hanno seguito questi due capi. La legge è quella che è (e in Inghilterra non c’è nemmeno la legge); il costume è quello che è; ma quello che di fatto esiste è che nessun partito oserebbe ribellarsi a colui che è designato dal corpo elettorale come capopartito: questi è il vero padrone del partito, è il vero padrone della distribuzione dei posti.

In Inghilterra il numero dei posti ministeriali è enorme: tra ministri ed altri personaggi variamente denominati, si hanno settanta o ottanta membri del governo, i quali hanno minore o maggiore importanza secondo l’importanza che dà ad essi il Primo Ministro. È il Primo Ministro che li sceglie e stabilisce quali sono quelli con cui si deve consultare di volta in volta, secondo le deliberazioni che intende prendere. Il vero capo, colui che veramente forma il Governo e lo ispira, è il Primo Ministro. I Ministri e i Sottosegretari sono uomini di fiducia del Primo Ministro: perciò si dà il caso, che in Italia non si può dare, che un Governo di coalizione funzioni, in quanto i membri di esso non sono designati dai vari partiti; i membri di un Gabinetto di coalizione sono uomini di fiducia del Primo Ministro, che hanno accettato di diventare membri di un Governo di coalizione in quanto nominati da lui, e sanno che la loro vita ministeriale dipende dal Primo Ministro e non dal proprio partito. È questa convinzione che fa sì che i Governi di coalizione – che si hanno però soltanto in tempo di guerra – possano durare. E anche i partiti non possono esercitare una influenza molto grande sul Capo del Governo, perché non sono i partiti che dominano il Gabinetto, ma è il Capo del Governo il quale ha avuto la fiducia dal corpo elettorale ed è sicuro di esser seguito, mentre invece, se avesse la fiducia dei deputati, potrebbe anche ad un certo momento vederla venir meno.

Il sistema parlamentare inglese funziona in quanto è congegnato in quella maniera, in quanto cioè la figura dominante è quella del Primo Ministro, il quale può anche – ove creda che si siano verificate delle ribellioni nel suo partito, o che la coalizione non possa più funzionare – presentare al Sovrano la proposta di scioglimento. Questa facoltà di scioglimento, che esiste in Inghilterra, non esiste invece negli Stati Uniti; circostanza che vi è considerata come uno dei difetti più gravi del sistema presidenziale; onde le proposte si moltiplicano allo scopo di dare al Presidente della Confederazione la facoltà di scioglimento.

Naturalmente per il caso di uso della facoltà discioglimento delle due Camere, coloro i quali avanzano questa proposta, la fanno coincidere con l’altra: che lo scioglimento del Congresso implichi anche nuove elezioni presidenziali, cosicché gli elettori manifestino contemporaneamente la propria opinione sul dissidio che si è manifestato tra il presidente e le due Camere. Si reputa da molti negli Stati Uniti che il sistema presidenziale, se potrà superare i pericoli che lo minacciano e che, oltre a quelli internazionali, possono essere anche interni a causa della complicazione sempre crescente della vita sociale e politica del Paese, non potrà comunque funzionare se non con questo correttivo. Il quale avvicinerebbe il sistema presidenziale a quello parlamentare, mentre il sistema parlamentare tende a sua volta ad evolversi in senso opposto.

Termina dicendo che ha creduto bene di fare queste osservazioni per evitare che, discutendosi della scelta tra il sistema presidenziale e quello parlamentare, si configurino questi due sistemi come qualche cosa di rigido, come nettamente differenziati l’uno dall’altro. È opportuno tener conto dell’evoluzione che si è verificata nell’uno e nell’altro sistema, per la quale il primo tende già – e molti affermano che deve tendere ancora di più – ad avvicinarsi al secondo, con una comunicazione tra le due Camere e il potere esecutivo, con la presenza nel Gabinetto di membri eletti dai due rami del Congresso, col diritto da parte del Presidente di promuovere nuove elezioni dei due rami del Congresso e sue proprie contemporaneamente; e d’altra parte, il secondo tende ad avvicinarsi al primo col dare una figura preminente nel governo del Paese al Primo Ministro; il quale è in realtà il vero padrone della legislazione. Teoricamente in Inghilterra, ai singoli membri della Camera spetta sempre il diritto di presentare disegni di legge; ma è un diritto puramente astratto, perché in realtà nessun disegno di legge ha probabilità di essere approvato se non è presentato dal Governo, non solo per le materie finanziarie (e questo è un principio indiscusso, perché il disordine delle finanze sarebbe la conseguenza logica del diritto di iniziativa dei membri delle due Camere in questa materia), ma di fatto anche nelle altre materie. Per ogni legislatura inglese si potrà trovare forse un deputato che sia riuscito a fare approvare un suo disegno di legge; e quel deputato diventa famoso, perché è riuscito in una cosa difficilissima, in quanto il tempo concesso per la discussione dei disegni di legge presentati dai singoli membri della Camera è minimo, cosicché praticamente la loro approvazione, salvo casi rarissimi, è impossibile.

AMBROSINI ritiene essere ormai opinione generale che fra le varie forme di governo che vengono oggi in esame, la più adatta al nostro paese sia quella parlamentare.

Il regime presidenziale non si confà alla nostra tradizione ed alle esigenze della nostra vita politica. Il principio della separazione dei poteri con la conseguente non diretta ed efficiente comunicazione e collaborazione fra potere legislativo ed esecutivo – che si ha, quantunque non spinto alle estreme conseguenze, in tale regime – causerebbe da noi inconvenienti maggiori di quelli che a volte si lamentano negli Stati Uniti, giacché le necessità attuali della vita del Paese richiedono più che mai una collaborazione attiva fra i due poteri, in modo che le esigenze segnalate dall’esecutivo e le proposte relative di leggi da esso avanzate siano subito prese in esame dagli organi legislativi. Il che è molto più facile col funzionamento proprio del regime parlamentare.

Occupandosi dell’evoluzione del sistema statunitense l’onorevole Einaudi ha parlato della tendenza che si va manifestando affinché siano immessi nel gabinetto i rappresentanti di nove commissioni parlamentari, ed ha inoltre accennato alla richiesta da taluno avanzata che si dia al Presidente la facoltà di scioglimento della Camera dei rappresentanti.

Ma questi non sono che sintomi dell’affermazione di nuove esigenze costituzionali, che non può sapersi se e quando verranno concretamente soddisfatte. Comunque può osservarsi che, se effettivamente si arrivasse all’adozione delle suaccennate misure, non potrebbe allora più parlarsi di regime presidenziale, perché questo ne risulterebbe così profondamente trasformato da perdere una delle sue caratteristiche principali, che va riguardata anche sotto l’aspetto dei poteri del Presidente e della composizione del ministero.

L’elezione del Presidente statunitense si basa sulla competizione di due partiti. L’eletto è il rappresentante del partito di maggioranza, ed assume l’esercizio di tutto il potere esecutivo, oltre che una indiretta interferenza nel legislativo col diritto di veto, sia pur di efficacia limitata, alle leggi votate dal Congresso. Ma l’esecutivo lo ha tutto nelle sue mani non solo come titolare, ma anche come capo effettivo. Negli Stati Uniti non c’è un primo ministro.

I segretari di Stato, cioè i ministri, sono nominati liberamente dal Presidente, all’infuori delle Camere. Occorre l’assenso del Senato. Ma dopo di ciò non si ha alcuna ingerenza degli organi legislativi. I ministri debbono seguire ed applicare le direttive del Presidente e sono responsabili soltanto di fronte a lui, e non di fronte alle Camere, le quali non possono quindi costringerli a dimettersi con la votazione di mozioni di sfiducia.

Un simile congegno, che è caratteristico del regime presidenziale, non sarebbe tollerato nel nostro Paese, perché il Parlamento non rinuncerebbe mai al diritto di sindacato politico sul Governo.

Passando al regime direttoriale rileva che deve considerarsi anch’esso non adottabile, nemmeno parzialmente, giacché in tale regime il Governo non ha un carattere preminentemente politico, nel senso che non ha una propria personalità autonoma di fronte all’Assemblea; il che non corrisponde alla nostra tradizione ed alle nostre esigenze che postulano la necessità di un Governo forte, che sia responsabile del suo operato, ma che abbia il diritto di iniziativa e, finché resta in carica, la piena padronanza della condotta dell’esecutivo; attribuzioni indispensabili in un grande Stato, e specie nella complicata e difficile situazione odierna del nostro Paese.

Non resta quindi che adottare il regime parlamentare. L’onorevole Einaudi ha prospettato incisivamente l’evoluzione che negli ultimi tempi ha subito questo regime in Inghilterra, con la designazione del Premier fatta sostanzialmente dal corpo elettorale nelle elezioni generali, e con l’assunzione da parte del Premier di una somma di poteri tali, che possono indurre a ritenere che il regime parlamentare quasi si avvicini in questo punto a quello presidenziale. L’osservazione è interessante e giusta. Per quanto ci riguarda c’è da domandarsi se questo tipo speciale di regime parlamentare sarebbe applicabile in Italia. Purtroppo non se ne ha la possibilità, almeno nella situazione attuale.

Il sistema inglese presuppone l’esistenza di due grandi partiti, uno di maggioranza e l’altro di minoranza, che si alternano al potere; cosicché è agevole e naturale che al momento stesso in cui si conosce il risultato delle elezioni generali si sappia chi sarà nominato Primo Ministro, ed è agevole e naturale che questi scelga i ministri suoi collaboratori nel seno del suo partito, quello di maggioranza, e conseguentemente si venga ad avere un Gabinetto unitario, omogeneo.

Ora ciò non è possibile in Italia e in altri Paesi, per la semplice ragione che, esistendo molti partiti, nessuno dei quali ha la maggioranza assoluta, non si può dire al momento in cui si conoscono i risultati delle elezioni quale partito e più precisamente quale uomo politico assumerà la direzione del Governo; né tanto meno si può arrivare alla costituzione di un Gabinetto unitario ed omogeneo.

La formazione del Governo è più difficile ed è il risultato di una serie spesso necessariamente non breve di consultazioni e di intese. Da questo travaglio non può nascere infine che un Governo di coalizione.

Ciò presenta molti inconvenienti, ma è il risultato fatale della situazione politica.

In tale stato di cose, sembra che non sia possibile altro che ricorrere al regime parlamentare del tipo più adatto alla situazione suddetta, e col mantenimento di alcuni istituti collaudati dall’esperienza, ed anzitutto di quello della stabilità del Capo dello Stato.

Bisogna evitare che si affacci in qualsiasi modo la prassi costituzionale della Terza Repubblica francese, che diminuiva il prestigio ed i poteri del Presidente col sistema di costringerlo a dimettersi, quando non fosse più gradito alla maggioranza, prima ancora della scadenza del periodo di tempo previsto dalla Costituzione.

Non potendosi ottenere la stabilità del Capo del Governo, occorre, per il buon funzionamento del potere esecutivo, che sia mantenuta la stabilità del Capo dello Stato, salvo soltanto nel caso eccezionalissimo in cui egli sia posto in stato di accusa per delitto o per violazione della Costituzione.

Bisogna inoltre evitare che il Capo dello Stato venga ridotto ad una figura puramente rappresentativa.

Nel regime parlamentare, il potere esecutivo spetta a due organi: il Capo dello Stato ed il Governo. L’iniziativa, la condotta del Governo e la conseguente responsabilità, sono in concreto del primo Ministro e degli altri ministri; ma questi, e specie il Primo Ministro, debbono mantenersi in continuo contatto col Capo dello Stato per arrivare ad una proficua collaborazione.

Il Capo dello Stato non va estraniato dalla condotta del Governo; in altri termini, non va ridotto ad un puro organo di rappresentanza e di registrazione. Né è a temere che possano derivare danni dall’attribuzione di adeguati poteri al Capo dello Stato, specie quando si tenga presente che egli deriva la sua funzione dalle elezioni, qualunque sia il sistema che sarà per essere scelto.

Riguardo al Governo, deve considerarsi interessante la proposta dell’onorevole Mortati di adozione di un sistema con cui si cercherebbe di assicurare in via di massima la permanenza al potere, cioè la stabilità del Governo, per due anni. Tutto sta nel vedere se il sistema può riuscire applicabile ed efficiente non solo nei riguardi dei contrasti fra Parlamento e Governo, ma anche in caso di contrasti o di divergenze di vedute che insorgano nel seno del Governo. In questo secondo caso, che non è da escludere, dato il carattere di coalizione che avrà il Governo, il funzionamento del proposto sistema appare molto difficile. L’argomento merita la più attenta considerazione e verrà ripreso quando si passerà a trattare in modo specifico del Governo.

Per le considerazioni esposte, ritiene che il regime che naturalmente viene in considerazione sia quello parlamentare, con i temperamenti e gli accorgimenti che le condizioni del Paese possano consigliare specialmente per garantire una maggiore stabilità al Governo ed evitare la degenerazione del sistema nel parlamentarismo.

La seduta termina alle 19.10

Erano presenti: Ambrosini, Amendola, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Leone Giovanni, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Porzio, Ravagnan, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

In congedo: Rossi Paolo, Vanoni.

Assenti: Maffi, Targetti.

MARTEDÌ 3 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

7.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MARTEDÌ 3 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Organizzazione costituzionale dello Stato (Discussione)

Presidente – Mortati, Relatore – Tosato – Uberti – Porzio – Lussu – Cappi – Piccioni.

Sull’ordine della discussione

Finocchiaro Aprile – Presidente.

La seduta comincia alle 17.

Discussione sull’organizzazione costituzionale dello Stato.

PRESIDENTE avverte che i Relatori, in una loro riunione, hanno riconosciuto l’opportunità che l’onorevole Mortati, Relatore sul tema: «potere legislativo» faccia una premessa sulle questioni della forma del Governo e dei rapporti fra i poteri, come introduzione alla trattazione specifica dei tre poteri.

MORTATI, Relatore, comunica di avere compilata una relazione che sarà distribuita in bozza ai membri della Sottocommissione, e premette che, per procedere ad una scelta, bisogna cominciare col fare alcune classificazioni generalissime così da fissare qualche primo orientamento. Ed un primo orientamento potrebbe prendersi su questo punto: fare una Costituzione in cui al popolo sia affidata una funzione di preposizione alla carica dei titolari degli organi costituzionali elettivi, oppure una Costituzione in cui il popolo abbia il potere di designare anche gli indirizzi politici, e sia quindi organo di espressione di una concreta volontà politica? Questo sembra sia ormai un punto superato: la tendenza delle democrazie moderne è nel senso che il popolo non è più inteso, come nel secolo scorso, come organo di decisione politica. Comunque è questo un primo punto da sottoporre alla discussione, e che, ad avviso del Relatore, si dovrebbe risolvere affermando la necessità di una Costituzione non meramente rappresentativa, ma di una Costituzione in cui il popolo abbia un potere operante.

In sostanza il problema delle forma dello Stato è il problema dei rapporti fra potere legislativo e potere esecutivo. Ora, la schematizzazione più generale che si può fare in proposito, conduce ad una bipartizione. Vi sono alcune Costituzioni che fanno derivare direttamente dal popolo sia gli organi esecutivi che gli organi legislativi, e questi organi sono fra loro in «rapporto di separazione», nel senso che l’uno non dipende dall’altro; tutti originano dal popolo, ma con forme e direzioni diverse, di modo che l’uno dall’altro è diviso. Questo regime, attuato negli Stati Uniti d’America, porta ad una separazione di funzioni, nel senso che i titolari dell’esecutivo non possono dipendere, né per la loro origine né per il loro funzionamento, dai titolari dell’organo legislativo e viceversa. Sono indipendenti l’uno dall’altro per realizzare il fine che questa forma di governo si propone e cioè che l’un potere impedisca possibilità di abuso da parte dell’altro.

In contrapposto a questo sistema sta il regime parlamentare, che presenta, rispetto al precedente, il vantaggio di stabilire un nesso di omogenizzazione fra l’un potere e l’altro, di modo che non dovrebbero sorgere possibilità di antitesi, di squilibri, di disarmonie fra i due poteri, nel senso che l’uno è derivante dall’altro. L’azione dello Stato dovrebbe procedere con maggior fusione, senza il pericolo di disarmonie e di contrasti.

Queste sono le due forme fondamentali, perché, nella realtà, bisogna differenziare tanti tipi diversi.

Visto che si tratta di concetti generalmente acquisiti, domanda se sia il caso di scendere a dettagli e precisazioni, oppure di iniziare senz’altro la discussione su questi punti, tenendo presente che in questa sede non deve farsi una esposizione di carattere scientifico, ma debbono aversi presenti degli scopi politici che si vogliano raggiungere.

PRESIDENTE ricorda che, quando si è trattato dei problemi delle autonomie, si è richiesta una esposizione anche degli elementi che possono sembrare i più semplici, esposizione che è apparsa utile. Crede quindi opportuno seguire lo stesso sistema, contenendo l’esposizione nei limiti necessari.

MORTATI, Relatore, prosegue rilevando che una scelta di questo genere, fatta in sede politica, implica la conoscenza dei presupposti di carattere giuridico e sociale per cui una forma, in un dato ambiente storico, può apparire preferibile ad un’altra.

Di questi presupposti uno, rispetto alla forma presidenziale, è l’accentramento della funzione esecutiva nel Presidente, il quale deriva la sua origine direttamente dal popolo. Questo importa il pericolo che si accentri in tale organo un complesso di poteri tale che esso possa abusarne. Nel regime nord-americano non esistono controlli alla funzione esplicata dal Presidente: gli organi legislativi si occupano semplicemente della funzione legislativa, e l’attività di controllo sull’esecutivo non esiste, appunto perché si vuole attuare una separazione netta di poteri. Il pericolo di abuso da parte del Presidente importa che il potere dell’esecutivo non sia eccessivamente esteso: si suol dire che un regime di vasto decentramento, o un regime federale, è il presupposto di questo ordinamento di Governo ché, altrimenti, senza questa limitazione derivata dalla struttura decentrata dello Stato, potrebbe dar luogo a gravi inconvenienti.

Una riprova del pericolo di dare allo Staio una tale forma, quando mancano questi presupposti, può trovarsi nella cattiva prova fatta dal Governo presidenziale in Stati che presentavano un assetto accentrato, anziché decentrato.

Un altro inconveniente che può derivare da questo regime è che il potere esecutivo e quello legislativo non siano collegati da nessi che possano armonizzarli. Allora, il potere esecutivo, che deriva da una investitura diversa, segue una politica diversa da quella delle Camere e può verificarsi che il Capo dello Stato, destinato ad imprimere l’indirizzo politico allo Stato, si trovi nell’impossibilità di assolvere a questa sua funzione quando sia in presenza di Camere non omogeneizzate con la tendenza di cui egli è espressione; onde un arresto nel funzionamento dello Stato. Negli Stati Uniti questo pericolo è stato neutralizzato anzitutto dall’esistenza di quella struttura di due partiti che consente quei collegamenti fra i vari organi che non troverebbero altro modo di realizzarsi nelle istituzioni giuridiche. Sono gli istituti politici che suppliscono a questo che potrebbe essere un elemento negativo della struttura giuridica. Un altro mezzo per compenetrare i due poteri è poi l’uso delle Commissioni parlamentari, cui partecipano anche i Ministri che, in America, non hanno veste istituzionale.

Il regime parlamentare presenta, rispetto a quello presidenziale, una maggiore compenetrazione di poteri, compenetrazione che può arrivare, in certe forme, fino alla confusione di poteri. In Inghilterra, il Gabinetto è formato dal partito di maggioranza: in virtù della struttura ben definita dei partiti inglesi, è di fatto il partito di maggioranza che assume il potere e il Capo di tale partito diventa automaticamente Capo del Governo. Naturalmente, questo Capo del Governo, che ha il suo prestigio come dirigente del movimento vittorioso, ha una notevole libertà in ordine alla composizione del Governo, ed ha nel contempo il dominio della Camera, perché, attraverso la sua maggioranza, riesce a far valere la politica di cui è espressione. Vi è quindi compenetrazione fra potere legislativo e potere esecutivo, in modo che la separazione dei poteri viene praticamente meno.

Naturalmente, il funzionamento di questo regime è diverso là dove non sussistono le condizioni che esistono in Inghilterra, specialmente dove si ha una molteplicità di partiti, e dove manca la disciplina in seno a questi partiti. Dove non si hanno chiare designazioni da parte del corpo elettorale, la formazione del Governo è frutto di un complesso di accordi fra le varie correnti che si sono manifestate nelle elezioni e i Governi sono, per lo più, di coalizione e risentono di questa debolezza alla base; donde il danno della instabilità dell’indirizzo politico del Governo e la mutabilità dei Ministeri. Quindi la scelta di un regime o dell’altro è subordinata all’accertamento della esistenza di queste condizioni, che possono farlo funzionare in un modo anziché in un altro.

Vi sono stati dei tentativi per avvicinare queste due forme di Governo, e vi sono avvicinamenti che derivano dal fatto stesso della esistenza di condizioni analoghe.

È stato osservato che il funzionamento del regime parlamentare inglese si avvicina al regime presidenziale perché, in sostanza, l’investitura del potere esecutivo è data dal popolo, direttamente negli Stati Uniti, indirettamente nell’ordinamento inglese, in quanto il Capo del partito che ha ottenuta la maggioranza diventa il Premier. Rimane però sempre la differenza già accennata, nel senso che in Inghilterra avviene quella compenetrazione fra esecutivo e legislativo, che in America si realizza solo quando il partito che ha la maggioranza in sede di elezione del Capo dello Stato è lo stesso partito che ha la maggioranza nelle due Camere.

Ma vi sono dei punti di avvicinamento fra queste due forme contrapposte, anche in via di diritto istituzionale.

Una forma di Governo che contiene elementi dell’uno e dell’altro è il regime direttoriale attuato in Svizzera. Questo fa, allo stesso modo del regime parlamentare, derivare il Governo dal Parlamento, dalle due Camere, che eleggono il Gabinetto; ma ha un elemento differenziale in quanto il Gabinetto è eletto dal Parlamento per un periodo fisso, irriducibile. Il Parlamento, cioè, è vincolato dal voto attraverso cui si forma il Gabinetto e, per tutto il periodo di durata stabilito dalla Costituzione, non vi è possibilità di revocare il Governo.

Occorre ben precisare questo punto differenziale: mentre nel regime presidenziale o direttoriale vi è la certezza di durata, viceversa nel regime parlamentare, in forme varie, possono farsi venir meno gli organi elettivi, sciogliere le Camere e consultare il popolo, per accertarsi della rispondenza degli orientamenti di questi organi con quelli popolari.

Un altro regime che si può chiamare intermedio è quello assembleare, in cui manca il potere di dissoluzione della Camera. Le Camere eleggono, direttamente o indirettamente, il Governo e possono sempre revocarlo in base al principio che il Governo deve riscuotere la fiducia dell’Assemblea, la quale non può essere sciolta prima del periodo fissato. Questa rigidezza avvicina il regime assembleare a quello presidenziale, mentre la dipendenza del Gabinetto dalle Camere lo avvicina al regime parlamentare.

Una discussione, ad avviso del Relatore, potrebbe vertere precisamente su questo punto generalissimo: se scegliere un regime presidenziale o un regime parlamentare; e forse, in via ancor più generale: se adottare il sistema della nomina diretta da parte del popolo per un periodo stabile, fisso, senza possibilità di revoca, ciò che dovrebbe garantire una certa stabilità di indirizzo politico, o se invece adottare l’altro sistema, allo scopo di controllare in ogni momento l’aderenza degli indirizzi rappresentati dagli organi sia esecutivi che legislativi a quelli popolari.

Naturalmente, la scelta implica una conoscenza più particolare del modo di funzionare di questi ordinamenti; e la scelta dovrebbe muovere soprattutto da questo quesito: quale è il fine politico che si intende raggiungere? In questo momento, data la situazione italiana, date le esigenze che si sono manifestate attraverso quella che è stata chiamata la crisi dello Stato, che è un fenomeno di carattere generale, ma che ha avuto influenze speciali, quale è l’interesse politico maggiore che può spingere alla scelta dell’uno o dell’altro sistema?

Se dovesse essere il principio della separazione dei poteri, bisognerebbe affidarsi a quelle forme che garantiscano di più la realizzazione di questa finalità; se, invece, dovesse essere l’assicurazione di una stabilità di indirizzo del Governo, che nello stesso tempo non offra gli inconvenienti che offrono i regimi presidenziali – possibilità di disarmonia fra gli organi esecutivi e gli organi legislativi – bisognerebbe orientarsi verso un regime parlamentare. Ma non potrebbe essere un regime parlamentare puro, simile a quello inglese, o a quello francese del 1875, perché mancano in Italia i presupposti necessari per un buon funzionamento di un tal regime (manca la dualità di partiti; manca la disciplina di partito) e il popolo non potrebbe fare designazioni nette che orientassero nella scelta del Governo, né si potrebbe contare sulla stabilità dell’azione di Governo, perché la stabilità sarebbe compromessa dalle possibilità di crisi derivanti dalla fluidità della situazione politica. Basta infatti il ritiro di un gruppo, anche piccolo, dalla coalizione che ha dato vita al Governo, perché questo Governo debba cadere, con le conseguenze dolorose che si sono constatate nell’altro dopoguerra e che hanno portato a quel discredito delle forme democratiche, di cui si sono subite le conseguenze. Quindi, se si dovesse adottare un regime di indole parlamentare e si dovesse escludere perciò quella rigidezza assoluta che è caratteristica dei regimi presidenziali, bisognerebbe ricorrere ad un sistema misto, ad un sistema, cioè, che avvicinasse le due forme, allo scopo di realizzare l’intento, tenuto conto della situazione italiana.

Personalmente il Relatore pensa che il contemperamento fra le due forme di regime si possa ottenere e ne espone il modo.

Bisogna anzitutto tener presenti tutti gli elementi che debbono entrare in gioco in questa struttura costituzionale. Fra questi elementi dovrebbe essere anzitutto un Capo dello Stato; si dovrebbe, cioè, rinunciare a quelle forme dii Governo che prescindono dall’esistenza di un Capo dello Stato, che a suo avviso è essenziale per gli scopi che esporrà. Quindi: un Capo dello Stato; poi un Governo; Camere – e si vedrà se dovranno essere una o due – e il popolo. Naturalmente bisogna ricondursi al principio democratico, il quale vuole che il popolo sia la fonte di tutti i poteri, non solo, ma anche il mezzo di riequilibrazione nel caso di dissidio tra questi poteri.

La Camera elettiva, o le Camere elettive, dovrebbero esprimere l’indirizzo politico che emerge dalle elezioni. Naturalmente, in quanto manchino le possibilità, i requisiti, i presupposti di fatto perché questo indirizzo politico si manifesti in modo esplicito – poiché, in altri termini, non è possibile fare come si fa in Inghilterra, dove la designazione del Governo emana direttamente o implicitamente dalle stesse elezioni – bisognerà pensare che questa valutazione della situazione politica quale emerge dalle elezioni e dai riflessi nelle assemblee legislative, sia fatta dal Capo dello Stato. Cioè il Capo dello Stato deve valutare quella che è la situazione politica in relazione alle elezioni e deve designare per la composizione del Governo la persona che si suppone più adatta ad esprimere questo indirizzo o gli indirizzi dominanti nei gruppi espressi dalle elezioni popolari.

La designazione da parte del Capo dello Stato, in virtù del principio proprio del regime parlamentare per cui il Governo deve riscuotere la fiducia delle Camere, deve essere in un certo modo controllata e approvata dalle Camere; cioè le Camere non si devono limitare a prendere atto della costituzione di questo Governo, o meglio della designazione di questo Capo del Governo, ma devono discutere, appena il Governo si presenti ad esse, l’indirizzo politico di cui il Governo stesso è l’espressione e che deve rendere esplicito attraverso l’enunciazione di un programma preciso; e devono esprimere un voto di fiducia. Quindi dovrebbe sancirsi espressamente nella Costituzione che il Governo può effettivamente rimanere in carica ed esercitare le sue funzioni in quanto abbia un espresso voto di fiducia sulla base del suo programma politico, che sia motivato dal consenso dato a questo programma.

I dettagli circa il modo della designazione; se debba avvenire solo nei riguardi del Capo del Governo o anche dei Ministri; se il Governo, per ottenere la fiducia debba presentarsi alle Camere solamente nella veste del Presidente o anche in concorso coi singoli Ministri, potranno essere esaminati in un secondo momento. Per una esposizione in termini generali bastano gli elementi accennati.

L’innovazione rispetto al regime parlamentare dovrebbe consistere nel prescrivere che il voto di fiducia esplicito, motivato sulla base di un programma concreto, debba vincolare la Camera a mantenere in vita il Governo per un certo periodo di tempo, che il Relatore propone in due anni, ma che potrebbe variare in base ad altre considerazioni. Si avrebbe così una specie di regime direttoriale, quale si ha in Svizzera, ove il periodo coincide con quello di vita dell’Assemblea nazionale. Questo elemento che si assume dal regime direttoriale, corrisponderebbe all’esigenza preminente dei regimi democratici moderni di dare forza, stabilità e autorità al potere esecutivo, perché la instabilità dei Governi è il danno peggiore che possano lamentare i vari paesi, in quanto ne deriva l’impossibilità di seguire una linea logica, di svolgere un programma coerente che risponda alle esigenze del Paese; e quindi il discredito della democrazia.

Naturalmente, v’è da porsi questo quesito: che cosa avviene se in questo periodo di due anni – o quale potrà essere determinato – si verifichino delle disarmonie fra Camere e Governo? Ma perché questo regime possa riuscire proficuo, bisogna superare la mentalità parlamentaristica. È un regime che si formerà col costume, e in ogni caso dovrà intervenire il popolo come giudice del dissidio. Ma quando il dissidio si riveli tale da non poter essere in nessun altro modo eliminato, bisogna contare anche su questo fattore psicologico, cioè su un superamento della mentalità parlamentaristica che pone il Governo alla mercé della Camera; si deve far penetrare nell’animo, nel pensiero, nel costume dei parlamentari la concezione che il Governo deve avere una sua autonomia; deve godere la fiducia della Camera, ma, una volta concessa questa fiducia sulla base di un consenso motivato, la Camera deve dare al Governo la necessaria autonomia, affinché esso possa adempiere la funzione che gli è propria.

Ammesso che si realizzi questo presupposto, bisogna pur attenuare l’eccessiva rigidezza del regime direttoriale; e la presenza del Capo dello Stato, che viceversa in Svizzera non esiste, potrebbe precisamente dare la possibilità di questo temperamento. Si dovrebbe accordare al Capo dello Stato la possibilità di intervenire in qualche modo per sanare il dissidio che può verificarsi tra questi organi.

Quali possono essere le cause del dissidio? Può essere anzitutto l’inadempimento, o meglio, per andare all’ipotesi più semplice, le manchevolezze nell’azione di governo delle persone designate: può il Capo di un Governo sforzarsi di attuare il programma, essere fedele a questo programma, ma non avere la capacità politica necessaria per realizzarlo. Può, insomma, aversi crisi di uomini. Ma può verificarsi invece una ipotesi più complessa, cioè che il dissidio politico sorga dal fatto che il programma già approvato non goda più il consenso di quella maggioranza che si era raccolta intorno ad esso: ipotesi facile a verificarsi, quando si pensi che nel caso di un Gabinetto di coalizione basta il ritiro di uno dei gruppi che lo appoggiano perché la maggioranza venga meno. Poi vi può essere una terza ipotesi: cioè che l’armonia tra le Camere e il Governo sussista, ma si tratti di approvare misure di carattere eccezionale che non sono state oggetto di valutazione politica. Infine, per un mutamento verificatosi nello spirito pubblico in seguito ad avvenimenti eccezionali può venir meno la concordanza fra Corpo elettorale ed organi elettivi.

Queste sarebbero le ipotesi-tipo la cui valutazione dovrebbe spettare al Capo dello Stato. L’impegno di rispettare la vita del Governo per un periodo determinato dalla Costituzione dovrebbe far sì che il dissenso su misure particolari non portasse necessariamente al ritiro del Governo o alle dimissioni dei Ministri proponenti; ma dovrebbe esservi un potere discrezionale del Capo dello Stato. Un giudizio sfavorevole su singole misure non dovrebbe produrre la crisi; non dovrebbe consentirsi alle Camere di revocare la fiducia in qualsiasi momento e su qualsiasi punto, come, ad esempio, col rifiuto del bilancio, col rigetto di una determinata misura legislativa, ecc.; insomma, la Camera non dovrebbe avere il potere di esigere il ritiro del Governo quando si manifestassero dissensi su particolari, ed unico organo idoneo a valutare la possibilità di una modificazione o di una riduzione del periodo fissato dalla Costituzione per la vita del Governo, dovrebbe essere il Capo dello Stato, con potere discrezionale.

Il Capo dello Stato, quando constatasse che il contrasto fra Assemblea e Governo è sistematico, tale cioè da escludere la possibilità di una conciliazione, dovrebbe esigere – e questo è un punto fondamentale in un simile sistema di ordinamento dei poteri – un voto esplicito delle Camere circa le ragioni del dissenso; e quando vi fosse un voto motivato di dissenso della Camera dalla politica del Governo, egli dovrebbe valutare la convenienza di revocare il Ministero, oppure di procedere allo scioglimento della Camera.

Affidando indiscriminatamente al Capo dello Stato il potere di regolare i conflitti tra Camera e Governo si correrebbe però il rischio di dar vita a degenerazioni in senso presidenziale; il Capo dello Stato, cioè, potrebbe indursi ad esercitare un potere personale: pericolo da evitare, presso di noi, per ragioni presenti a tutti.

I poteri del Capo dello Stato sono appunto perciò strettamente legati alla procedura della sua nomina. Quella plebiscitaria gli darebbe un prestigio assai forte di fronte alle Camere; d’altra parte deferire la nomina del Capo dello Stato alla Camera o alle Camere riunite non pare opportuno, in quanto scemerebbe l’autorità del Capo dello Stato, che deve essere l’arbitro dei conflitti fra Governo e Camera. Anche il temperamento di stabilire una durata in carica del Capo dello Stato più prolungata di quella della Camera non eliminerebbe gli inconvenienti e non assicurerebbe la necessaria indipendenza del Capo dello Stato nei confronti del Parlamento. Perciò il Relatore propone di fare eleggere il Capo dello Stato da gruppi sociali che siano particolarmente interessati al mantenimento di quell’equilibrio di cui il Capo dello Stato è in certo modo il tutore, in virtù della sua funzione moderatrice e, come si dice in Francia, neutra, che lo pone al disopra dei partiti.

Queste forze sociali in uno Stato che debba essere organico, che debba, cioè, riconoscere giuridicamente i gruppi sociali e farli intervenire nel funzionamento degli organi dello Stato, sono i partiti, i gruppi territoriali e i gruppi economici, di professione, di categoria. In una struttura statale così organizzata, si potrebbero fare intervenire gli organi più rappresentativi dei gruppi sociali in un collegio speciale nel quale dovrebbero essere rappresentati anche gli enti territoriali e soprattutto le regioni, e questo collegio dovrebbe eleggere il Capo dello Stato.

Prima di addentrarsi nella illustrazione dei particolari di questo progetto, chiede se la Sottocommissione desideri discutere anzitutto la questione pregiudiziale, e cioè il carattere parlamentare o presidenziale della Repubblica.

TOSATO è di tale avviso.

UBERTI concorda, perché, se la Sottocommissione decide in maggioranza di adottare quella forma di Stato, diventa inutile esaminare le modalità delle altre forme. La minoranza potrà presentare all’Assemblea un proprio testo ed una propria relazione.

PRESIDENTE crede che l’onorevole Mortati dovrebbe portare a termine la sua relazione, affinché la Sottocommissione possa giudicare a ragion veduta.

PORZIO ritiene che dovrebbe essere decisa innanzitutto la questione pregiudiziale. Crede che l’opinione prevalente nella Sottocommissione sia favorevole alla forma della repubblica parlamentare, sicché non vi sarebbe molto da innovare rispetto allo stato presente. Le novità di maggior rilievo proposte dal Relatore concernono la funzione del Capo dello Stato e di conseguenza la procedura per la sua nomina. Ma, per decidere quale è la forma di repubblica da adottare, non crede necessaria una discussione particolareggiata, perché tutti conoscono le caratteristiche delle forme presidenziale e parlamentare: basta tener presente l’accenno fatto dal Relatore alla Costituzione francese del 1875, perché con quella in Francia si stabilì la repubblica parlamentare dopo cinque anni di terribili lotte alle quali parteciparono i più insigni parlamentari francesi.

LUSSU dissente dall’onorevole Porzio e crede che il Relatore debba proseguire la sua esposizione fino in fondo.

PRESIDENTE, poiché è noto che la grande maggioranza aderisce all’idea di una repubblica parlamentare e si può prevedere che la discussione si avvierà verso questa soluzione, trova opportuno che l’onorevole Mortati prosegua l’esposizione del suo pensiero su questo particolare problema.

PORZIO osserva che il Relatore espone tutte le ipotesi, ma la Sottocommissione non può discuterle che una alla volta. Poiché essa è, in maggioranza, favorevole alla repubblica parlamentare, potrà qualcuno che sia favorevole alla tesi della repubblica presidenziale, sostenerla, senza alcun bisogno di una discussione su tutta la relazione, che espone con molta obiettività tutte le ipotesi possibili.

CAPPI, affinché la scelta per la forma di repubblica parlamentare possa essere consapevole, crede opportuno che l’onorevole Mortati precisi le conseguenze concrete e dettagliate che dall’una e dall’altra forma possono derivare.

PICCIONI ricorda che l’onorevole Mortati è stato incaricato di fare una relazione generale e osserva che la parte da lui svolta finora non esaurisce tale relazione. Non vede per quale motivo si dovrebbe lasciare il compito del Relatore a metà.

MORTATI, Relatore, avverte che i Relatori, incaricati di esaminare separatamente il potere legislativo, l’esecutivo e il giudiziario, in una riunione preliminare hanno constatato la scarsa possibilità di procedere in questo esame per compartimenti stagni e l’opportunità di far precedere la discussione particolareggiata dell’organizzazione dei singoli poteri da una discussione preliminare sulla struttura generale dello Stato. La sua relazione consta pertanto di tre parti, di cui la prima esamina il problema fondamentale della forma di Governo nelle sue linee essenziali, per passare poi all’esame dettagliato del potere legislativo come organizzazione e come funzionamento. La prima parte ha quindi una sua autonomia concettuale.

LUSSU osserva che il Relatore ha fatto una esposizione generale: ma, accennando a vari problemi, su due punti ha espresso una sua opinione personale. Crede che questo dovrebbe essere il sistema da seguire per tutti i problemi che egli ha affrontato.

PRESIDENTE mette ai voti la proposta che il Relatore continui la sua esposizione.

(È approvata).

MORTATI, Relatore, passando al problema dell’unicameralismo e bicameralismo, osserva che, per risolverlo, bisogna chiedersi quali sono i fini politici che si vogliono raggiungere con l’esistenza di due Camere anziché di una sola. Tali fini possono essere molteplici e si tratta di vedere come si possano realizzare.

Un primo fine è quello di esercitare una funzione ritardatrice, di controllo dell’operato della prima Camera. Si osserva che il meditare su una deliberazione presa dalla prima Camera, l’approfondire il problema e il ripetere la discussione, possono agevolare così la valutazione della convenienza politica della legge come il suo perfezionamento tecnico. Questo scopo può essere raggiunto da una seconda Camera qualsiasi: anche una seconda Camera formata con la stessa struttura della prima può esercitare questa funzione ritardatrice, questa ripetizione dell’esame. Il caso-tipo di una seconda Camera formata esclusivamente con questo intento è offerto dalla Costituzione norvegese, l’unica che forma la seconda Camera dallo stesso seno della prima: il corpo elettorale norvegese elegge, infatti, un certo numero di Deputati, i quali eleggono nel loro seno un numero più ristretto di membri che vanno a formare la seconda Camera; e si dice che il risultato di questo sistema sia assai soddisfacente, il che significa che non è esatta la tesi che quella seconda Camera non sia che un duplicato della prima.

Ma, accanto a questo scopo ve ne è un altro più particolare e che esige forme specifiche di realizzazione: quello dell’integrazione della rappresentanza. Ammessa una rappresentanza generale del popolo, indifferenziato, può apparire utile accompagnare la prima Camera con una seconda, la quale sia formata in modo diverso, pur essendo sempre di origine popolare. Bisogna partire dal presupposto che questa seconda Camera debba essere capace di decisioni politiche, cioè di manifestazioni di volontà e non di pure espressioni di pareri o manifestazioni di desideri. Questa seconda Camera, posta in posizione di parità con la prima, potrebbe realizzare meglio il suo fine quando fosse espressione di una integrazione del suffragio.

Richiama l’attenzione della Sottocommissione sul fatto che, comunque si decida la questione dell’organizzazione del suffragio, la Costituente dovrà tener presenti certe linee essenziali dell’ordinamento del suffragio, perché vi sono istituti che con determinati regimi elettorali funzionano in un certo modo, con altri regimi funzionano diversamente.

Ammessa una rappresentanza formata in un dato modo, si domanda se, insieme o accanto a questa rappresentanza politica che esprime gli orientamenti dei vari partiti fra cui si divide il corpo elettorale, non vi sia posto per un’altra forma di rappresentanza, la quale esprima la volontà dello stesso popolo, che sia quindi anche espressione del suffragio generale, ma in una veste diversa. Naturalmente queste forme di costituzione della seconda Camera hanno una funzione in quanto portano ad uno spostamento del peso politico che emerge dalla prima Camera. Questo è il risultato pratico.

Qualunque Senato tende a modificare il peso politico dei cittadini quale potrebbe essere espresso attraverso il suffragio universale e la rappresentanza di partiti. Il sistema francese del 1875, modificato nel 1884, si basa sulla rappresentanza territoriale: la legge francese dà una rappresentanza eguale a comuni o a organismi territoriali diversamente composti nel loro rapporto demografico; e la conseguenza politica che ne deriva è che i comuni piccoli hanno una influenza maggiore delle grandi città, onde una impronta speciale che deriva al Senato da questa rappresentanza, la quale sposta il rapporto realizzato nella prima Camera con il suffragio universale.

Vi possono essere altre forme per una diretta integrazione del suffragio, ed una di queste è quella della rappresentanza di categoria. Le categorie si possono intendere con due significati: o col significato economico, in cui le categorie rappresentano gli interessi delle professioni che intervengono nella vita economica come fattori della produzione e del consumo; o col significato super-economico, e quindi culturale, assistenziale, o, se si vuole anche dire, professionale, in cui però la parola «professionale» va intesa in senso generico. Naturalmente l’accettazione di una rappresentanza di questo genere solleva problemi numerosi e di varia natura e presupporrebbe o l’organizzazione di queste categorie in gruppi determinati o il realizzarsi delle categorie anche indipendentemente dalle organizzazioni di questo genere, sulla base di una semplice anagrafe delle popolazioni nei vari settori delle attività economiche o culturali. In questo secondo caso l’attribuzione di un numero di seggi a ciascuna categoria verrebbe fatta avendo soltanto in vista il quadro di ripartizione, indipendentemente da una organizzazione delle singole categorie in sindacati appositamente riconosciuti. Si potrebbe, cioè, pensare ad una terza forma, la quale non considerasse le categorie nelle loro specializzazioni, ma che abbracciasse gruppi di categorie sulla base di certi interessi sociali più eminenti e più importanti: per esempio la cultura, la giustizia, il lavoro, l’industria, l’agricoltura. E sarebbe, questo, un tentativo di dare alla rappresentanza una maggiore organicità e di eliminare o attenuare l’influenza strettamente proporzionale degli interessi, per allargare la visuale verso forme di valutazione più propriamente politica. Non si deve, infatti, dimenticare che, se si vuol dare alla seconda Camera una funzione politica, si debbono anche creare i presupposti perché i rappresentanti possano elevarsi a questa più ampia valutazione politica.

Si può sospettare che una seconda Camera fondata su una base strettamente professionale possa essere espressione di interessi troppo limitati e quindi costituire un ostacolo a che assurga ad una visione generale e inquadri l’interesse particolare nell’interesse generale, ciò che è caratteristico degli organi politici. Un tale inconveniente si potrebbe attenuare, dunque, attraverso questa concezione più larga delle categorie.

Naturalmente, o si scelga un tipo o si scelga l’altro, bisogna preoccuparsi di dosare il peso politico attribuito a ciascuna categoria, preoccuparsi cioè di proporzionare il numero dei seggi alla rilevanza delle categorie, che non si può desumere soltanto dal rapporto numerico, ma che bisogna desumere da criteri più comprensivi, perché non è detto che il peso numerico sia il preminente in una rappresentanza di questo genere destinata a fare emergere la capacità politica di esprimere interessi generali.

Questo è un problema da risolvere in sede politica.

Qualcuno dice che sarebbe arbitrario attribuire un certo numero di seggi ad una categoria piuttosto che ad un’altra; ma, dal punto di vista di una logica astratta, tutto è arbitrario; anche, per esempio, l’età fissata per l’attribuzione del diritto di elettorato, l’attribuzione dell’elettorato alle donne, ecc. Il criterio di risoluzione si può trovare in sede politica, secondo quello che si ritiene più opportuno di realizzare, secondo la rappresentanza che si ritiene necessaria in una certa situazione.

Naturalmente le difficoltà non si fermano a questi risultati.

Si può osservare che, dovendo essere consacrato questo peso nella Costituzione, l’inserire questa determinazione di peso in una Costituzione rigida, porterebbe ad una cristallizzazione della situazione di un determinato momento, onde la determinazione potrebbe modificarsi soltanto con la procedura piuttosto lenta della revisione costituzionale. Ma a questo inconveniente si potrebbe ovviare stabilendo una revisione periodica da fare in forma più semplice della comune revisione costituzionale.

Qualche altro osserva che, nel caso di scelta di questo sistema, bisogna pensare al modo di presentazione delle candidature e al modo di esercizio del voto nel seno di ogni gruppo. Tutte difficoltà che bisognerebbe affrontare e risolvere per decidere l’accettazione dell’uno o dell’altro sistema.

Ma oltre alla forma che si basa sul concetto territoriale e a quella che si basa sul principio delle categorie, si potrebbe pensare ad un’altra che abbinasse l’uno e l’altro sistema. L’abbinamento si potrebbe ottenere giustaponendo la rappresentanza di categoria a quella territoriale, così da avere una percentuale di rappresentanti delle regioni e dei comuni sulla base territoriale, e un’altra percentuale sulla base delle categorie. L’integrazione potrebbe essere più soddisfacente se si fondessero le due rappresentanze e si ripartisse il numero dei seggi della seconda Camera fra le regioni (e si vedrà in un secondo tempo se la rappresentanza debba essere proporzionale o raggiunta in altra forma). Attribuito un numero di seggi alle varie regioni, l’elezione nel seno di ciascuna avverrebbe sulla base delle categorie, con un risultato più organico.

Questi sono i sistemi diretti a risolvere il fine di integrare il suffragio attuato per la formazione della prima Camera.

Senza soffermarsi sui vantaggi dell’uno o dell’altro sistema, dichiara di essere favorevole a questa forma di rappresentanza che integra quella basata sul principio territoriale.

A chi obietta che questa è materia di legge elettorale, osserva che, se anche si volesse rimandare l’esame del sistema elettorale, non si potrebbe in nessun caso prescindere dal prenderne in considerazione i punti basilari. La decisione sulla legge elettorale potrà essere rinviata per quanto riguarda i particolari, ma il tipo della seconda Camera deve essere stabilito nella Costituzione, e deve essere precisata la quantità dei voti che spettano a ciascuna categoria, perché è di rilevanza costituzionale conformare la seconda Camera ad un metodo o ad un altro. Personalmente accede al sistema di fissare un numero pari di rappresentanti, qualunque sia il numero dei rappresentati. Comunque, il sistema influisce sul funzionamento dell’Assemblea e deve perciò essere assunto come punto fondamentale nella Costituzione. Ma, per evitare la cristallizzazione delle situazioni che si verificano in determinati momenti, occorrerà appunto stabilire la revisione periodica.

Anche la legge elettorale politica che serve alla formazione della prima Camera è un elemento troppo essenziale perché si possa considerarlo di dettaglio o di carattere soltanto esecutivo: i particolari si possono rimandare ad una legge speciale; ma il sistema che si vuole adottare dovrà essere fissato nella Costituzione, perché l’accoglimento di uno o di un altro sistema porta a conseguenze diverse nel funzionamento dell’organo.

Ma la formazione di una seconda Camera può tendere anche ad un altro scopo, cioè a quello di selezionare particolari capacità e competenze; e allora bisogna affrontare il problema della competenza, che vale anche per la prima Camera, ma che per la prima Camera si risolve più difficilmente, appunto perché ad essa si vuol dare un carattere di rappresentanza politica generale.

Nella seconda Camera, per lo meno storicamente, si è realizzata la tendenza a delimitare la scelta degli eleggibili per assicurare la presenza nell’assemblea legislativa di certe competenze individuali che il sistema dei regimi rappresentativi di per se stesso non assicura. Questo terzo scopo a cui si può tendere nella costituzione della seconda Camera, formata nell’ambito di certe categorie, cioè prescrivendo che gli eleggibili siano scelti nell’ambito di determinati gruppi, che si suppone abbiano una certa competenza, è molto importante, perché uno dei fattori che ha contribuito a determinare la cosiddetta crisi della democrazia è precisamente il difetto di competenza, tanto più sensibile nello Stato moderno che ha visto estendersi la sua sfera di attività in settori sempre nuovi e sempre più tecnici. Questo fine politico particolarmente importante può essere soddisfatto con la costituzione di una seconda Camera in cui si faccia una selezione degli eleggibili. Naturalmente se si stabilisce una rappresentanza di categoria, per evitare la forma di rappresentanza fascista, in cui alla Camera delle Corporazioni un poeta o un filosofo rappresentava, per esempio, gli ortofrutticoli, bisogna esigere che i rappresentanti appartengano alle categorie rappresentate, determinando certi requisiti di capacità: età, appartenenza a certe attività, aver fatto parte di certi corpi od uffici, ecc.

Vi sono poi forme di composizione della seconda Camera che tendono a conciliare i vantaggi di vari sistemi, cioè forme di composizione che, insieme agli elementi elettivi, comprendono anche elementi scelti in altro modo. Così, ci sono costituzioni che adottano un contemperamento del sistema elettivo con quello della nomina da parte del Capo dello Stato, ammettendo che un certo numero di membri del Senato sia nominato dal Capo dello Stato; ciò che può avere una ragione di essere, in quanto ci sono delle capacità che è opportuno assicurare alla seconda Camera, mentre non è opportuno siano scelte attraverso le elezioni: magistrati, membri dell’esercito o dell’amministrazione, ecc. Un altro sistema misto è quello della così detta cooptazione, per cui lo stesso Senato sceglie parte dei suoi membri. Vi è il sistema della nomina da parte della Camera, oppure da parte delle due Camere: sistema misto, che tende ad integrare la rappresentanza elettiva con una rappresentanza elettiva di secondo grado, per assicurare il concorso di certe competenze.

Un altro punto da affrontare a proposito del sistema bicamerale è quello della parità, o meno, da concedere alle due Camere: parità piena, semipiena, o non parità. Questa ultima pone la seconda Camera in una situazione di inferiorità di fronte alla prima, limitandone la competenza all’emissione di pareri o alla sospensione dell’attuazione di certe misure. Uno dei casi è quello della Camera dei Lords inglese che, dopo la riforma del 1911, non è più una Camera legislativa in senso proprio, ma ha una funzione sospensiva di certe misure; ed anzi, nella materia finanziaria non ha neanche questa funzione. Questo era il caso del Reichsrat della Costituzione di Weimar. A suo avviso, il sistema bicamerale non può consentire forme di seconda Camera con questi limiti; la seconda Camera dovrebbe avere non solo piena parità di diritti in materia legislativa, ma anche piena parità in ordine alla fiducia da accordare al Governo. Egli, anzi, aveva proposto di formare un organo misto, una riunione plenaria delle due Camere per votare sulla fiducia al Governo, in modo che fosse meglio attuata una compenetrazione dei vari punti di vista attraverso la discussione e la votazione. In considerazione del fatto che la prima Camera ha un valore politico di fatto, non di diritto, preminente, si potrebbe escogitare un sistema che desse una preminenza numerica alla prima Camera in modo da metterla nella sua giusta posizione.

Quindi, egli è per la piena parità anche nel campo finanziario, perché, evidentemente, quei limiti che sono valsi per diminuire l’efficienza in questo campo della seconda Camera negli ordinamenti in cui questa ripeteva la sua origine non dal popolo ma dal Sovrano, non hanno più ragione d’essere in un ordinamento nel quale l’origine della seconda Camera è anche essa popolare, e manca la ragione di un trattamento diverso alle due Camere anche in questo campo.

Da questa impostazione dei rapporti fra le due Camere nascono problemi molto gravi. Uno è quello della durata da attribuire alle due Camere ed il Relatore ritiene che le due Camere dovrebbero essere elette contemporaneamente e durare per lo stesso periodo di tempo; né vede la ragione perché dovrebbe essere stabilito altrimenti. Questa parità di formazione può evitare l’inconveniente che potrebbe sorgere dalla formazione delle due Camere in momenti diversi, quello, cioè, di rispecchiare due orientamenti politici, diversi.

Esaurito così l’argomento del bicameralismo, sono da esaminare argomenti più particolari per esaurire la materia dell’organizzazione: numero dei componenti, durata del mandato, requisiti per la nomina, procedimento elettivo, ecc. Vale la pena di soffermarsi sul problema della verifica dei poteri.

Il modo di verifica dei poteri attuato in quasi tutti i Paesi continentali, salvo poche eccezioni, è quello di affidare la verifica alle stesse Camere; modo che è stato attuato in relazione al principio dell’autonomia delle Camere, per garantire questa autonomia. In contrapposto a questo è il sistema inglese, adottato poi dalla Costituzione di Weimar e da quella cecoslovacca, che sottrae il giudizio dei titoli dei membri alla Camera per affidarlo ad un organo giurisdizionale di formazione speciale composto anche di rappresentanti della Camera stessa. Si tratta di sapere se è opportuno seguire il sistema tradizionale, oppure modificarlo, e il Relatore ritiene che sarebbe opportuno introdurre il sistema del tribunale costituzionale, sottraendo alle Camere la verifica dei poteri. È questa una esigenza particolarmente sentita nelle strutture politiche simili a quella italiana, in cui non esiste un costume politico che possa garantire il rispetto dei diritti delle minoranze, mantenendo quel presupposto del leale gioco politico che è un caposaldo del regime democratico parlamentare. In queste condizioni occorre trovare un sistema di mezzi tecnici i quali tendano a garantire le minoranze; e su questa esigenza fondamentale egli richiama l’attenzione della Sottocommissione.

Uno dei mezzi di tutela del diritto delle minoranze potrebbe consistere appunto nel sottrarre alle Camere la verifica dei poteri per attribuirla ad un tribunale elettorale, che sarebbe naturalmente da costituire e che dovrebbe essere oggetto di una apposita legge costituzionale.

Un altro argomento importante è quello del potere di auto-organizzazione.

Questo potere è spontaneo in tutti i corpi costituiti e, quindi, spetta alle Camere. Il problema consiste nel sapere se vi sono principî che debbano essere posti nella Costituzione a garanzia di certi interessi che si vuole sottrarre all’arbitrio delle Camere. Anche qui può rientrare il concetto della tutela delle minoranze. Per esempio, si potrebbe stabilire che il regolamento della Camera debba essere approvato con una maggioranza qualificata, in modo da rendere meno facile che sia fatto a vantaggio di certe maggioranze o per imporre certi metodi.

Anche l’obbligo dell’emanazione del regolamento potrebbe essere uno dei punti da fissare nella Costituzione, per evitare che l’Assemblea ometta di emanarlo. Si potrebbero sottrarre al potere regolamentare determinati rapporti, oppure dare efficacia di legge al regolamento per quanto riguarda determinati rapporti. Qualche Costituzione stabilisce che il regolamento deve essere approvato per legge.

Altro argomento particolare: le modalità della prima riunione della Camera dopo le elezioni. Nelle Costituzioni monarchiche è previsto il discorso della Corona; in quelle presidenziali il messaggio del Presidente. È ammissibile il messaggio presidenziale quando al Presidente si assegni una funzione di moderatore dei poteri; ma ove egli abbia funzioni di intervento attivo, il messaggio potrebbe non essere consigliabile, per rispettare l’indipendenza del Parlamento.

Altre questioni di dettaglio molto importanti sono quelle relative alla convocazione e all’aggiornamento delle Camere. Vi sono sistemi rigidi di convocazione e di aggiornamento, sistemi che prevedono l’autoconvocazione, soprattutto a tutela delle minoranze che richiedono la convocazione dell’assemblea; sistemi che rimettono la convocazione alla iniziativa del Capo dello Stato o del Presidente della Camera, con poteri illimitati, oppure limitati, come nel caso in cui si precisi che nel provvedimento di aggiornamento deve essere indicata la data della riconvocazione, non oltre un determinato periodo di tempo.

La Costituzione dovrà inoltre risolvere il problema della durata delle legislature e delle sessioni. Il Relatore ritiene che le prime non dovrebbero superare i quattro anni, e per le seconde se ne dovrebbe fissare almeno una all’anno. Occorre inoltre stabilire l’organo che può prorogare le sessioni e prevedere l’ipotesi di mutamento del Governo a Camera chiusa.

Vi sono poi le questioni della retribuzione o meno delle prestazioni dei Deputati, delle immunità e delle guarentigie (con particolare riguardo alla insindacabilità delle opinioni, alla libertà dall’arresto, alla sottrazione al giudizio dei tribunali ordinari) e della disciplina di partito, tanto nella procedura elettorale che nella esplicazione del mandato. Dovrebbe determinarsi il modo di intervento dei partiti, nel periodo elettorale, nella scelta e nella presentazione delle candidature. Potrebbe farsi luogo ad una base popolare nella presentazione delle liste, sollecitando l’intervento anche dei non iscritti ai partiti, in modo da determinare le preferenze in ragione al numero degli elettori presentatori e non già a quello dei voti di preferenza. Trattasi di problemi molto scabrosi.

Accolto il sistema proporzionalistico e considerati i Deputati come rappresentanti dei partiti, sorge il problema se l’espulsione di un Deputato dal partito faccia cessare il rapporto elettorale, cioè la qualità di Deputato, in considerazione del presupposto dell’equilibrio politico, onde è composta l’assemblea, equilibrio determinatosi in seguito alla espressione della volontà popolare e che potrebbe venire turbato dalla espulsione da un partito di Deputati che si sottraggano alla disciplina. La Costituzione cecoslovacca ha portato alle estreme conseguenze logiche l’impostazione della lotta politica sulla base delle organizzazioni di partito, sancendo la decadenza dalla carica in caso di dimissioni o di espulsione dal partito: decadenza che deve però venire accertata da uno speciale giudice, competente anche ad accertare legittimità dei titoli per essere investiti della carica di Deputato. Si potrebbe anche pensare alla opportunità di ammettere una revoca tacita del mandato da parte del corpo elettorale al Deputato dimissionario o espulso.

Altro punto di particolare interesse è quello relativo agli organi legislativi misti, straordinari o interinali. Talune Costituzioni, prevedendo che si possano verificare conflitti tra i due rami del Parlamento, tanto per quel che riguarda la fiducia al Governo, quanto per la approvazione delle leggi, hanno stabilito organi misti interparlamentari, che possono essere formati tanto dalla riunione delle due Camere quanto dalla istituzione di un terzo organo, composto da Deputati eletti in pari numero nelle due assemblee. Può prevedersi un solo organo, oppure più commissioni interparlamentari, alle quali può anche essere deferito lo studio preliminare dei progetti di legge, allo scopo di prevenire il verificarsi dei conflitti fra i due rami del Parlamento. E si può pensare a questo organo misto anche per altri compiti, uno dei quali – secondo quanto è desumibile dalla legislazione comparata – è quello di supplire le Camere nel caso di sospensione delle sessioni, o – come ammette anche qualche Costituzione – nel caso di scioglimento o di fine della legislatura: cioè, quando sia sciolta la legislatura, questi organi dovrebbero permanere in carica allo scopo precisamente di supplire la Camera mancante, nel senso di far partecipare questo organo misto, rappresentativo delle Camere che non esistono più perché sciolte, all’emanazione dei provvedimenti d’urgenza. Non sembra al Relatore che questo espediente possa essere utile, perché, quando le Camere sono svuotate di prestigio politico, o perché sciolte o per decadenza del mandato, sarebbe inopportuno, dal punto di vista politico, farle in qualsiasi modo interferire. Si finirebbe, in sostanza, per attenuare quella responsabilità che in tale occasione è meglio far assumere in pieno dal Governo, dato che si tratta comunque di una competenza di carattere eccezionale, poiché durante le elezioni il Governo che rimane in carica non può emettere che atti di ordinaria amministrazione.

Esaurita la parte relativa all’organizzazione del potere legislativo, bisogna passare alla fase del suo funzionamento.

(La seduta è sospesa alle 19.30, ed è ripresa alle 19.45).

MORTATI, Relatore, circa l’organizzazione del potere legislativo, ricorda, perché non è un dettaglio secondario e potrebbe anche influire sul funzionamento, i modi di intervento della Camera nella discussione e nell’esame delle leggi: il modo di lettura, il funzionamento degli Uffici e delle Commissioni. È noto quale influenza abbia avuto in Francia sull’atteggiamento del Governo parlamentare il sistema delle Commissioni permanenti, le quali avevano un largo potere sull’esame delle leggi e sul loro controllo. Attraverso questo metodo la Camera francese è riuscita ad asservire a sé il Governo, diminuendo l’indipendenza e l’influenza della sua azione e compromettendo la forza del potere esecutivo nei confronti di quello legislativo. Quindi, anche nella trattazione della disciplina di questa materia, bisognerebbe tener conto delle ripercussioni che le commissioni permanenti possono esercitare nei rapporti fra legislativo ed esecutivo.

Per passare alla parte relativa al potere legislativo visto nel momento del funzionamento, sono da esaminare vari punti e innanzitutto a chi spetti la iniziativa. Vi sono in proposito varie tendenze: una tendenza che si potrebbe chiamare demagogica, la quale vorrebbe escludere la iniziativa del potere esecutivo in generale, mentre, se si vuole creare un regime che dia al potere esecutivo il giusto posto che gli spetta, bisogna pensare che la libera iniziativa parlamentare non deve escludere quella governativa, perché il Governo, se è responsabile, deve avere una pienezza di mezzi, uno dei quali è la iniziativa. Viceversa si può pensare ai limiti della iniziativa parlamentare ed uno di questi, che la esperienza del funzionamento dell’iniziativa parlamentare ha dimostrato particolarmente utile, è in materia di spese. Si è invertita storicamente la posizione dei due poteri rispetto al passato. Mentre prima i Deputati influivano nel senso di limitare le spese, anzi la loro funzione storicamente era quella di intervenire, su richiesta del Capo dello Stato, per stabilire l’entità delle contribuzioni e limitarla, adesso nei regimi parlamentari è il Governo che deve limitare la tendenza eccessiva di iniziativa in materia finanziaria da parte dei Deputati. Perciò si è pensato a limitare in qualche modo l’esercizio di questo potere di iniziativa da parte di organi non responsabili, i quali, non avendo nelle mani il funzionamento dell’assetto finanziario, sono portati a eccedere nelle spese senza pensare al modo come farvi fronte. Si è pensato, cioè, di limitare la iniziativa parlamentare alla determinazione delle entrate sufficienti a coprire le spese e precisamente ad inquadrare questa posizione reciproca dei due poteri.

Oltre alla iniziativa vi sono poi altri argomenti. In merito all’esame dei progetti di legge, si tratta di vedere se vi possa essere una regolamentazione più penetrante, soprattutto nell’intento di riparare all’inconveniente che si è verificato e si verifica tuttora di una deficienza di formulazione tecnica, di una mancanza di coordinazione nella redazione dei progetti di legge. Qualcuno proporrebbe (e vi è qualche esempio nella legislazione comparata) la costituzione di un consiglio legislativo, presso il Parlamento, col compito della revisione tecnica dei progetti per rendere le leggi più idonee ad assicurare la certezza del diritto, evitando disarmonie nel complesso della legislazione, affermando meglio le esigenze sistematiche.

Bisognerebbe poi stabilire le norme sul numero legale, sui procedimenti di votazione, ecc. Per quanto riguarda gli effetti del rifiuto dell’approvazione di una legge, si è già parlato delle possibilità che possono essere offerte per sanare il dissidio. Più importante in questa sede è esaminare la funzione che può attribuirsi al Capo dello Stato in sede di formazione di leggi. Al Capo dello Stato può essere attribuita una funzione di intervento attivo, che si esplica con la sanzione, oppure può attribuirsi una funzione diversa, che non è più di intervento attivo, ma di arresto temporaneo dell’entrata in vigore della legge, una funzione di veto. Ammesso un sistema in cui il Capo dello Stato abbia attribuzioni di carattere prevalentemente moderatore, un intervento attivo nella funzione legislativa non si potrebbe considerare se non come elemento di disarmonia nel sistema e quindi si potrebbe pensare ad una funzione di veto, che assume una rilevanza notevole, ove si prescelga un sistema parlamentare con la permanenza per un certo periodo di tempo del Governo che abbia ottenuto la fiducia della Camera, perché «l’arresto» da parte del Capo dello Stato con il conseguente obbligo della Camera di un ulteriore esame della legge e l’approvazione con una maggioranza qualificata, potrebbe almeno in parte ovviare ad un possibile inconveniente: se nel periodo fisso di durata in carica del Governo, si verificasse un dissenso col Parlamento e se il Parlamento, appunto nella espressione di questo dissenso, approvasse delle misure in disarmonia con la politica generale del Governo, l’intervento del Capo dello Stato potrebbe tentare di ricondurre questa armonia. Ma in ogni caso è da escludere assolutamente un intervento del Capo dello Stato sotto forma di sanzione. Viceversa, al Capo dello Stato potrebbe spettare il potere di promulgazione, che è un potere esecutivo, che però si potrebbe anche affidare al Governo, se il Governo si distaccasse dal Capo dello Stato con una funzione propria autonoma, lasciando al Capo dello Stato una attività semplicemente di controllo politico.

La Costituzione deve poi regolare la posizione delle leggi nel sistema delle fonti, stabilire la efficacia delle leggi, in armonia di queste fonti e pertanto stabilire la potestà di interpretazione autentica della legge, stabilire i limiti di questo potere, limiti che sono di varia natura. Uno, più generale, nasce dalla legge costituzionale. Oltre alla questione del diritto naturalistico come fonte autonoma, del rispetto del principio di giustizia e di uguaglianza, del rispetto delle norme del diritto internazionale, si deve anche esaminare il problema del principio di giustizia e di eguaglianza, del rispetto del giudicato.

Ma un punto importante in materia è quello delle delegabilità del potere legislativo. In regime di Costituzione rigida non vi è dubbio che il silenzio della Costituzione su questo punto importa ovviamente la non delegabilità della funzione legislativa, e quindi, se si vuole delegare il potere legislativo ad altro organo, bisogna dirlo esplicitamente. Nello Statuto nostro il silenzio è stato ammesso come non capace di portare il divieto, perché è una Costituzione non rigida. Il Relatore ritiene opportuno stabilirlo, in quanto crede eccessivo adottare il principio della Costituzione francese che escludeva la delegabilità, potendo ben sorgere il bisogno di affidare al potere esecutivo, tecnicamente più preparato per certe leggi, il compito di esaminarle sia pure dopo aver deliberato i principî fondamentali che lo impegnano. Senza scendere nel dettaglio, accenna alla esclusione di una delega geniale, ma con l’attribuzione di poteri su compiti e punti particolari.

Vi è poi il problema del divieto della subdelegazione, il divieto del potere di delegabilità ai Ministri e quindi l’esclusione di decreti ministeriali delegati.

Un problema delicato è quello di sapere a chi bisogna attribuire il potere di sindacare i limiti della delegazione e se si debba affidarlo al potere legislativo stesso. Qualcuno propone di creare un sistema misto, cioè di controllo interno da affidare a determinate commissioni della Camera, che dovrebbero accertare preventivamente il mantenimento della legislazione delegata nei limiti della delegazione.

Un limite particolare alla efficacia della volontà legislativa del Parlamento che si può collegare a quello delle esigenze della protezione delle minoranze, può essere costituito dal diritto attribuito a certe minoranze, cioè alle minoranze che raggiungono una certa percentuale (un terzo o un quinto), di attuare un veto sostanziale della legge dichiarata non urgente dal legislatore.

Anche la possibilità di sospendere l’entrata in vigore della legge s’inquadra nel problema della tutela delle minoranze e nel complesso delle misure che potranno predisporsi a questo scopo.

Non si sofferma sul problema dei decreti-legge, perché rientra nei compiti specifici del potere esecutivo. Accenna invece ai punti più importanti relativi alle funzioni non legislative che spettano al potere legislativo in deroga al principio della separazione dei poteri.

L’approvazione dei trattati deve essere sottoposta al potere legislativo, in vista dei rapporti di diritto interno e di diritto internazionale.

Quanto ai bilanci, la Costituzione dovrà occuparsene ed affermare la possibilità di apportarvi variazioni entro determinati limiti.

Per quanto riguarda la funzione di controllo, il punto più importante è il potere di inchiesta. Bisogna vedere se sia opportuno un regolamento e stabilire i particolari di questo potere e i particolari circa i rapporti dei cittadini con la pubblica amministrazione e i vincoli che i poteri pubblici possono imporre nei rapporti con la Commissione d’inchiesta.

Sulla funzione costituzionale, non pare sia il caso di attribuire alla Camera funzioni in materia di giudizio di responsabilità dei propri membri. È questo un concetto che non troverebbe ragione di essere in una Costituzione moderna. Gli elementi di accusa per la responsabilità dei Ministri potrebbero essere portati o ad una delle Camere o, ad avviso del Relatore, ad un tribunale speciale, che potrebbe essere una sezione del Tribunale costituzionale.

Si deve infine accennare alla funzione da attribuire al popolo come organo del potere legislativo. La tendenza moderna è quella di condurre il popolo, da una funzione limitata alla scelta dei suoi rappresentanti, ad una funzione più ampia, di attiva partecipazione politica, e il mezzo adoperato a questo scopo è il referendum, che ha una efficacia diversa a seconda del modo in cui sono congegnati i poteri pubblici.

Il referendum ha una funzione più penetrante, più importante di quella che ha nella Costituzione del primo tipo, in cui si ammette una assoluta rigidezza nella formazione degli organi costituzionali che hanno un periodo fisso di durata. Si presenta allora l’esigenza di risolvere i conflitti eventuali, di sentire il parere del popolo; e questa esigenza può essere più viva che non nel regime parlamentare, in cui esistono congegni più elastici, che consentono ad ogni momento di tornare al popolo attraverso lo scioglimento della Camera.

Il referendum, destinato a sentire il giudizio del popolo su determinate questioni, è più intensamente usato in Svizzera e negli Stati Uniti, che rappresentano i due più importanti sistemi rigidi degli organi fondamentali dello Stato. Ma il ricorso al popolo può essere opportuno anche in regime parlamentare, specialmente in quello di tipo temperato, perché può intervenire utilmente nel risolvere i conflitti fra Governo e Parlamento nel periodo di durata della fiducia accordata a un dato Governo.

In ogni caso, anche a prescindere dalla considerazione di questi particolari sistemi, e riferendosi in genere al regime parlamentare, crede che l’intervento del popolo possa sempre avere una funzione equilibratrice, nel senso che potrebbe anzitutto avere l’effetto utile di promuovere l’educazione politica del popolo, predisponendolo a queste consultazioni, e quindi di promuovere una certa idoneità vantaggiosa alla progressiva elevazione dell’attitudine politica popolare nell’apprezzamento dei programmi politici. Un altro effetto utile dell’intervento del popolo è quello di influire sui partiti, di costringerli ad un maggiore contatto col popolo per problemi concreti, con un temperamento di quella che si è chiamata l’onnipotenza dei partiti.

In pratica si è visto che il ricorso al popolo ha portato talvolta ad una redistribuzione di voti. Non sempre le maggioranze rappresentate in parlamento sono state vittoriose nelle questioni sottoposte al referendum: in alcuni casi il corpo elettorale si è mostrato dissenziente.

D’altra parte si può parlare di un lato negativo del ricorso al popolo, quello di introdurre un elemento di disarmonia nell’unità dell’indirizzo politico; ed è proprio questo il rimprovero che gli avversari del referendum fanno all’istituto.

In ogni caso quello che bisognerebbe curare, ove si introducesse l’istituto del referendum, sarebbe di congegnarlo praticamente in modo che possa dare il massimo rendimento. È questo un punto molto delicato, che implica particolarità di dettaglio che influiscono sulle funzioni dell’istituto stesso. Bisogna aver cura che il popolo risponda nel referendum come entità organizzata, e non come popolo indifferenziato. La realtà costituzionale anteriore alla istituzione del suffragio universale può essere in proposito di ammaestramento.

Le assemblee primarie francesi, per esempio quelle anteriori alla Rivoluzione francese, possono offrire un esempio utile di quello che potrebbe essere una eventuale organizzazione del referendum. Queste assemblee primarie, nelle quali il popolo interveniva non per dire un od un no, ma per partecipare al dibattito delle questioni, in modo che a tutti era consentito di esprimere il proprio punto di vista, potrebbero essere un modello da seguire, così il popolo chiamato a dire il suo o il suo no, fosse raccolto in determinati organismi da delimitare, per giungere al voto attraverso un dibattito, che potrebbe essere integrato dalla facoltà di proporre emendamenti.

Vi è una prassi nord-americana che può essere tenuta presente. L’esempio della ratifica all’introduzione di dati emendamenti è qualcosa di utile, che neutralizza le obiezioni che si muovono contro il referendum. Il popolo, costretto a votare con un o con un no, ha la possibilità di subordinare il suo consenso all’accoglimento di certe modifiche. E questo è un modo di rendere più congrua l’interpellazione popolare.

Poi bisognerebbe curare che la formulazione dei quesiti sia fatta in modo tale da mettere il popolo in condizioni di valutarne l’importanza, e quindi, trattandosi di quesiti subordinati, di ben inquadrarli nel loro ordine logico per ottenere un sicuro orientamento generale. In pratica sono tutte cose difficili da realizzare, ma l’esigenza relativa non può non esser tenuta presente.

Conclude rilevando che è inutile affannarsi a creare congegni tecnici per ottenere una maggiore stabilità di Governo, se prima non si tengono presenti gli elementi politico-sociali che sono necessari per dare a questa stabilità una effettiva realizzazione. Tutti questi congegni saranno validi se si creerà un assetto sociale approssimativamente stabile, e se si terranno presenti gli interessi sociali che sono il presupposto necessario perché questi congegni funzionino a dovere. I risultati a cui nel frattempo sono giunte le altre Sottocommissioni potranno dare, in sede di studio, qualche orientamento per rendere omogenea questa società politica e creare quei presupposti.

Quando si dice che l’ordinamento anglosassone funziona bene per costume politico, si accenna solo ad una parte della realtà, perché il costume politico si forma sulla base di una omogeneità di struttura. È da questa stabilità dell’assetto sociale che deriva la stabilità dell’organismo giuridico e costituzionale. Il costume politico non è una causa, ma un effetto. Quindi le forze politiche italiane dovranno cercare di realizzare questa finalità, senza di che qualunque congegno renderebbe vano il funzionamento pacifico degli ordinamenti democratici.

Sull’ordine della discussione.

FINOCCHIARO APRILE osserva che la relazione diligentissima fatta dall’onorevole Mortati investe tutto il problema costituzionale e che, per l’ordine della discussione, questa dovrebbe farsi ed esaurirsi argomento per argomento. È stato detto che bisogna stabilire inizialmente se si vuole la Repubblica presidenziale o una Repubblica parlamentare. Occorrerà definire questo punto, per passare poi al Parlamento, al sistema bicamerale, ecc. Altrimenti la discussione diverrebbe troppo confusa.

PRESIDENTE ricorda che la Sottocommissione ha nominato tre Relatori. Crede quindi necessario sentire anzitutto la esposizione degli altri due, dopo di che si potrà stabilire l’ordine della discussione.

Erano presenti: Ambrosini, Amendola, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Conti, De Michele Luigi, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Leone Giovanni, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Porzio, Ravagnan, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Assenti: Codacci Pisanelli, Maffi, Targetti.

Assente giustificato: Rossi Paolo.

In congedo: Fuschini, Vanoni.

(Alla seduta del 26 luglio era presente l’onorevole Bozzi; a quella del 1° agosto l’onorevole Mannironi).

La seduta termina alle 20.40.

GIOVEDÌ 1° AGOSTO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

6.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 1° AGOSTO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Seguito della discussione sulle autonomie locali

Patricolo – La Rocca – Nobile – Perassi – Presidente – Lussu – Uberti – Finocchiaro Aprile – Bulloni – Conti – Rossi Paolo – Mortati – Ambrosini – Tosato – Piccioni – Bordon – Einaudi – Castiglia – Zuccarini – Fabbri – Leone – Amendola.

Sui lavori della Sottocommissione

Presidente – Fuschini – Mortati – Conti – Calamandrei – Lussu – Einaudi – Piccioni – Mortati.

La seduta comincia alle 17.

Seguito della discussione sulle autonomie locali.

PRESIDENTE ricorda che si debbono oggi esaminare gli ordini del giorno proposti come conclusione della discussione, di uno dei quali presentato dall’onorevole Tosato è già stata data lettura ieri.

PATRICOLO presenta il seguente ordine del giorno, firmato anche dall’onorevole Castiglia:

«La seconda Sottocommissione, premesso che d’ordinamento del nuovo Stato italiano più idoneo alla realizzazione dei postulati di libertà democratica è quello che garantisca una larga autonomia amministrativa e finanziaria agli enti locali, unico mezzo per ovviare agli inconvenienti dell’accentramento amministrativo e burocratico del potere centrale;

considerato che insufficiente appare la concessione di tale autonomia ai comuni ed alle provincie, mentre più opportuna si rivela la costituzione in persone giuridiche di tutte le regioni italiane;

ritiene necessaria la creazione dell’Ente regione dotato di autarchia e di potestà normativa;

fa voti perché tale potestà ed in specie quella normativa siano per la Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta e Trentino più larghe e adeguate alle loro esigenze di carattere storico, economico, sociale, politico, avendo riguardo ai particolari ordinamenti statutari concessi o in via di concessione alle regioni suddette e che si inseriranno, con opportune modifiche, nel quadro dell’unità politica italiana».

LA ROCCA presenta il seguente ordine del giorno:

«La seconda Sottocommissione, convinta della necessità che nella riorganizzazione dello Stato venga posto fine risolutamente all’attuale accentramento unanimemente deprecato;

identifica nelle regioni, per le loro peculiari diversità, le naturali basi per un sistema decentrato di organizzazione e funzionamento dello Stato unitario;

e decide in conseguenza che le regioni vengano costituite in Enti giuridici, dotati di autonomia amministrativa e forniti di potestà legislativa da esercitarsi nei modi e sulle materie che verranno stabilite con la Legge Costituzionale».

NOBILE presenta il seguente ordine del giorno:

«La seconda Sottocommissione, esaminato nelle linee generali il problema dell’istituzione dell’ente giuridico «regione»,

ritiene che:

1°) l’istituzione di un tal ente, se provveduto di autonomia politica e funzioni legislative, non corrisponderebbe alle necessità economiche, sociali e politiche attuali del popolo italiano, ed avrebbe come effetto di approfondire le divisioni fra regione e regione, triste retaggio della sconfitta, proprio nel momento in cui una più stretta unione è richiesta di tutti gli italiani per lo sforzo della ricostruzione;

2°) che la divisione del territorio nazionale in regioni autonome ed autarchiche, ognuna provvista di un parlamento legislativo, farebbe accrescere e non diminuire il dislivello economico e sociale fra regioni ricche e progredite e regioni povere ed arretrate, nonostante tutti i provvedimenti compensativi che potessero escogitarsi;

ritiene che il necessario decentramento e semplificazione dei meccanismi statali debba ottenersi accrescendo l’autonomia degli enti locali e potenziando le attuali provincie, cui dovrebbero venir affidate talune delle funzioni oggi esercitate dal potere centrale».

PERASSI presenta il seguente ordine del giorno:

«La seconda Sottocommissione, riconoscendo la necessità che la nuova Costituzione dia alla struttura dello Stato un assetto aderente alle reali condizioni della nazione, le cui varietà regionali esigono di essere adeguatamente considerate nell’interesse stesso dell’unità nazionale e della realizzazione di un regime di decentramento e di effettiva democrazia;

ritiene uno dei cardini della nuova Costituzione il riconoscimento delle regioni come enti territoriali, il cui ordinamento dovrebbe informarsi ai seguenti criteri fondamentali:

1°) attribuzione costituzionale alla regione di una competenza legislativa comprendente:

  1. a) il potere di emanare su materie determinate di stretto interesse regionale norme giuridiche legislative, salva l’osservanza dei principî generali inseriti nella Costituzione;
  2. b) il potere di emanare norme giuridiche legislative su materie determinate per le quali le leggi dello Stato si limiterebbero a statuire norme direttive e generali;

2°) attribuzione alle regioni di funzioni amministrative attualmente di competenza dello Stato;

3°) formazione elettiva dei principali organi della regione;

4°) ordinamento finanziario delle regioni per quanto possibile distinto da quello dello Stato, ma con esso coordinato».

PRESIDENTE osserva che i cinque ordini del giorno presentati (ivi compreso quello dell’onorevole Tosato) si possono dividere in due gruppi, in quanto quattro di essi sono ispirati allo stesso concetto, mentre quello dell’onorevole Nobile si distingue dagli altri perché esclude la costituzione dell’ente regione.

Mette ai voti l’ordine del giorno Nobile.

(Non è approvato).

In rapporto agli altri quattro ordini del giorno, osserva che occorre fare una distinzione, perché in quello degli onorevoli Patricolo e Castiglia si considera un punto non toccato negli altri e cioè quello relativo alla situazione particolare che, nel quadro della organizzazione regionale, dovrebbe essere fatta alla Sicilia, alla Sardegna, alla Val d’Aosta ed al Trentino. Domanda ai proponenti se intendono riferirsi proprio al Trentino o all’Alto Adige, poiché vi sono correnti favorevoli al riconoscimento di una autonomia all’Alto Adige, ma non favorevoli a che questa autonomia sia riconosciuta al Trentino, nel suo complesso, che comprende una massa di popolazione di tedeschi e di italiani; e vi sono altre correnti che vorrebbero fosse concessa a tutto il Trentino.

PATRICOLO si riferisce al Trentino, dato che una autonomia concessa soltanto all’Alto Adige potrebbe provocare una ulteriore divisione tra le due regioni.

LUSSU crede che, votando questo ordine del giorno, si confonderebbero le idee, e prega i due proponenti di accantonarlo o ritirarlo affinché non sia pregiudicata da un’eventuale non approvazione la questione di quelle quattro regioni, che sta a cuore a molti italiani.

Osserva che l’ordine del giorno La Rocca, e le idee esposte dall’onorevole Rossi e da altri rappresentanti di diversi settori dimostrano che il modo di vedere sulla Sicilia, sulla Sardegna e le altre due regioni è identico: tutti riconoscono le esigenze particolari di queste regioni e ritengono che debba essere concessa l’autonomia a tutte le regioni d’Italia, ma a queste ultime un’autonomia a carattere accentuato.

UBERTI, poiché vi sono affermazioni univoche in tutti questi ordini del giorno, per poter dare delle direttive alla Sezione che sarà poi nominata, crede sia opportuno fissare quelle conclusioni su cui si è manifestalo un accordo. Trova accettabile, a tal fine la proposta accennata ieri dell’onorevole Piccioni di lasciare alla Sezione i punti in cui è apparso un disaccordo, in modo che essa li esamini a fondo e proponga delle soluzioni.

FINOCCHIARO APRILE si richiama alle dichiarazioni da lui fatte all’Assemblea Costituente, alla Commissione plenaria ed alla Sottocommissione, facendo rilevare che il suo punto di vista è diverso da quello degli altri, in quanto egli, con gli indipendentisti, è per la Confederazione di Stati. Né crede che alla sua idea sia stata mossa seria obiezione. È stato detto che, per creare la Confederazione, bisognerebbe prima creare gli Stati; ma ciò non è esatto, perché la creazione degli Stati e della Confederazione potrebbe benissimo avvenire contestualmente e contemporaneamente. Non voterà quindi nessuno degli ordini del giorno che sono stati proposti, coerentemente alle idee che ha espresso precedentemente, e che sono condensate nel seguente ordine del giorno che propone:

«La seconda Sottocommissione,

premesso che il risultato del referendum, nel Mezzogiorno e nelle Isole, più che una tendenza alla conservazione della monarchia in Italia, ha indicato, come da varie parti si ammette, un orientamento antiunitario e che di questo orientamento non può non tenersi adeguato conto, se si vuole rispettare la volontà del popolo;

riconosciuto che il sistema unitario, quale è stato praticato sinora, ha fatto il vantaggio esclusivo delle Provincie settentrionali e ha avuto come risultato lo sfruttamento e l’asservimento della Sicilia, della Sardegna e del Mezzogiorno agli interessi politici e capitalistici del Nord;

ritenuto che condizione essenziale alla rinascita del Mezzogiorno e delle Isole è il sorgere delle industrie alimentabili con le materie prime locali, industrie che governi e gruppi plutocratici hanno costantemente ostacolato e che continuerebbero ad ostacolare, rimanendo in vita l’attuale sistema unitario;

considerato che è superiore interesse delle classi lavoratrici meridionali ed isolane che esse si organizzino indipendentemente dalle classi lavoratrici delle altre parti d’Italia, pur conservando con queste vincoli di stretta solidarietà al fine delle conquiste politiche, sociali ed economiche dell’avvenire;

considerato che gli scopi predetti, come tutti gli altri essenziali alla vita ed al progresso del Mezzogiorno e delle Isole, non potranno affatto essere raggiunti con l’introduzione nel sistema costituzionale italiano di semplici autonomie amministrative che si ridurrebbero ad un’inutile e forse dannosa riforma, non accetta alle popolazioni interessate che potrebbero solo accogliere un’autonomia integrale, cioè politica, giurisdizionale, culturale, economica, finanziaria, tributaria, e doganale;

considerato che, con la caduta della monarchia, è venuta meno l’adesione all’unità italiana che la Sicilia e il Mezzogiorno manifestarono con i plebisciti del 1860 e che i loro popoli hanno riacquistato il diritto di sovranità e di autodecisione;

considerato che, anche in virtù dei risultati del referendum, s’impone la necessità di un plebiscito onde i popoli stessi manifestino chiaramente la loro volontà sull’assetto politico e costituzionale dei loro paesi, volontà che non può essere soppressa sotto speciosi motivi maggioritari a proposito della votazione per la forma istituzionale e che non può essere sostituita da organi che non siano emanazione diretta ed esclusiva della Sicilia e del Mezzogiorno, come della Sardegna;

considerato che, per segni manifesti, questa volontà non appare favorevole alla costituzione della Sicilia, della Sardegna e del Mezzogiorno in regioni come enti di diritto pubblico, ma tende invece alla loro elevazione a Stati liberi, conformemente alle loro secolari tradizioni storiche, alle loro aspirazioni ed ai loro diritti; Stati che dovranno entrare a fare parte, insieme con gli altri che volessero formarsi in Italia o con il solo Stato italiano, di una confederazione di Stati italiani in condizioni di assoluta parità ed eguaglianza e ciò nell’intento precipuo di dare inizio alla vera unità dei popoli di lingua italiana, mai esistita sinora;

ritenuto che la creazione della regione come ente di diritto pubblico debba limitarsi a quei territori italiani per i quali fosse riconosciuta adatta e conveniente e le cui popolazioni la desiderassero;

delibera che la Sezione della Sottocommissione che sarà incaricata di formulare il nuovo ordinamento costituzionale dello Stato sulla base delle regioni, limiti il suo compito a quei territori per i quali non sia avvertita una imperiosa esigenza di più vasta e complessa portata, e di riservare alla Sicilia, alla Sardegna ed al Mezzogiorno l’ordinamento che crederanno di darsi nel pieno esercizio della loro sovranità e con i mezzi legali e pacifici che la civiltà impone e che confidano di non essere mai costretti ad abbandonare».

LUSSU ha l’impressione che il lavoro della Sottocommissione, utilissimo fino a ieri, da questo momento cominci ad entrare in una via per la quale si avrà un’infinità di ordini del giorno ad ogni momento, con grande perdita di tempo.

È d’avviso che sia necessario che tutti i presentatori rinuncino ai loro ordini del giorno, affinché possa giungersi ad un accordo pratico sulle conclusioni, alle quali, in sostanza, la Sottocommissione era già arrivata ieri sera.

PRESIDENTE osserva che il mezzo normale ed inevitabile col quale, dopo aver molto discusso, si deve venire ad un accordo, è quello di fissare le idee in ordini del giorno. Attraverso la votazione si giungerà ad un ordine del giorno che ottenga il consenso della maggioranza.

BULLONI riconosce rispettabili le convinzioni dell’onorevole Finocchiaro Aprile, ed i motivi per cui egli invoca una determinata soluzione; ma crede di doverlo pregare di attenuare, quanto meno, alcune affermazioni contenute nel suo ordine del giorno, specialmente là dove rappresenta il nord dell’Italia quasi come l’elemento sfruttatore e determinante della lamentata povertà delle regioni del Sud. Così esplicite e gravi affermazioni non possono non determinare risentimenti e legittime reazioni.

CONTI non crede necessaria l’approvazione di ordini del giorno così complessi e propone di formularne uno nel quale, constatato che la discussione ha toccato tutti i termini del problema della regione e che l’Assemblea è d’accordo sul principio regionalista, si deliberi la nomina di una Sezione alla quale si potranno rimettere tutti gli ordini del giorno presentati, che riassumono punti di vista particolari. La Sezione dovrà tener presente la discussione consacrata nei resoconti, nonché gli ordini del giorno, per formulare proposte precise da sottoporre, in un secondo tempo, alla Commissione.

ROSSI PAOLO propone il seguente ordine del giorno firmato anche dall’onorevole Bocconi:

«La seconda Sottocommissione, ritenuta l’esigenza di un vasto ed efficace decentramento amministrativo autarchico, demanda ad una apposita Sezione la formulazione di un progetto che assicuri agli enti locali il potere di provvedere in modo diretto e autonomo a tutti gli interessi d’ordine amministrativo, assicurandone l’indipendenza e limitando il controllo degli organi centrali al sindacato di legittimità;

affida alla Sezione stessa l’indagine circa l’opportunità, per la migliore realizzazione pratica del decentramento amministrativo, di costituire l’ente regione, entro i limiti del carattere unitario dello Stato italiano».

PRESIDENTE osserva che quest’ordine del giorno avrebbe avuto ragione di essere se fosse stato presentato cinque giorni fa: la discussione che si chiede di fare in seno alla Sezione è stata ormai già fatta.

MORTATI rileva che quest’ordine del giorno farebbe supporre che si trattasse di preparare soltanto un’autonomia puramente amministrativa, mentre i lavori della Sottocommissione tendono a determinare la nuova costituzione dello Stato.

PRESIDENTE deve ora porre in votazione l’ordine del giorno Finocchiaro Aprile, nel suo testo integrale, se così è mantenuto.

FINOCCHIARO APRILE dichiara di mantenerlo integralmente.

FUSCHINI dichiara che voterà contro, protestando per l’affermazione che l’unità nazionale avrebbe arrecato danni alla Sicilia.

PERASSI trova grave, e tale da non poter essere lasciata passare senza una riserva molto netta, l’affermazione contenuta nell’ordine del giorno Finocchiaro Aprile, relativa al voto dei siciliani nel plebiscito del 1860, che sarebbe stato legato alla permanenza della monarchia. I siciliani, per primi, nel 1860, rispetto alle altre regioni d’Italia, votarono la formula dell’Italia una e indivisibile che era stata suggerita a Garibaldi da Francesco Crispi. Che questa formula fosse unita all’altra riguardante la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II, era un fatto derivante da esigenze storiche. Ma l’essenza del voto era quella dell’unità; il che non toglie che i siciliani già allora – ed i repubblicani lo hanno sempre ricordato – abbiano inteso l’unità, non nel senso piemontese, ma come unità vera che avrebbe dovuto risultare dalla coordinazione delle varietà regionali. Questa posizione dei siciliani apparve in maniera nettissima nelle proposte concrete adottate dal Consiglio straordinario di Stato convocato dal Mordini e presentato quasi lo stesso giorno del voto, come appare nella magnifica relazione con la quale Michele Amari accompagnò le conclusioni del Consiglio di Stato; cioè: affermazione netta dell’unità nazionale, e affermazione altrettanto netta della necessità che la Sicilia, entro il quadro dell’unità nazionale, avesse un ordinamento di carattere autonomo. Ed è questa posizione che molti altri partiti d’Italia hanno sempre mantenuto ferma.

AMBROSINI desidera, sull’espressione usata dall’onorevole Finocchiaro Aprile, fare un rilievo: in sostanza tutto quello che si è svolto in Sicilia è un fenomeno degli ultimi tempi e si riconnette a quello che fu in principio il desiderio dei siciliani di promuovere ed appoggiare l’unità e trovare in essa il modo di affermare le caratteristiche regionali. Se il movimento di questi ultimi tempi ha potuto dare l’impressione che si volesse da parte dei siciliani incrinare l’unità d’Italia, ciò è derivato dal fatto che l’individualità della Sicilia non è stata completamente messa in rilievo. Col sistema dell’autonomia regionale sarà possibile riattaccarsi al principio che fu segnato al momento in cui la Sicilia manifestò per la prima volta la sua volontà unitaria, ed eliminare gli inconvenienti che il sistema dell’accentramento vigente ha prodotto.

Ad ogni modo, considerando come irrevocabilmente acquisito il principio dell’unità indissolubile dello Stato italiano, che è nel cuore di tutti e al disopra di qualsiasi considerazione particolaristica, deve restare inteso che lo statuto già dato alla Sicilia è, per molte ragioni, insopprimibile.

LUSSU voterà contro l’ordine del giorno Finocchiaro Aprile, pur riconoscendo che contiene affermazioni che egli condivide perfettamente. Ma ve ne sono altre che non condivide, onde se votasse a favore, assumerebbe un atteggiamento politico che non intende assumere.

PRESIDENTE dopo queste dichiarazioni, mette ai voti l’ordine del giorno Finocchiaro Aprile.

(Non è approvato).

Mette ai voti l’ordine del giorno Rossi Paolo-Bocconi.

(Non è approvato).

LUSSU conferma la sua dichiarazione che suo ideale è il federalismo e presenta il seguente ordine del giorno:

«La seconda Sottocommissione,

riconosciuta la non rispondenza dell’attuale struttura dello Stato centralizzato alle esigenze della democrazia e della ricostruzione nazionale;

concorda, dopo l’ampia discussione svoltasi, che la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta e l’Alto Adige abbiano una particolare situazione che esige un’autonomia particolare,

e dà incarico alla Sezione … di fissare i principî della riorganizzazione dello Stato con la costituzione dell’ente regione sulla base di una sua potestà legislativa e di un suo autogoverno, con autosufficienza finanziaria con la soppressione della prefettura, con la creazione di organismi burocratici esecutivi per la regione e il comune e con una coordinazione centrale delle regioni nell’interesse dell’unità nazionale e del migliore potenziamento delle attività molteplici del popolo italiano per la sua resurrezione».

PRESIDENTE crede che questo ordine del giorno si allontani dall’esigenza, che sembra condivisa, di non entrare in particolari, per fermarsi ai soli punti sostanziali già acquisiti.

CONTI, richiamandosi a quanto ha prima esposto, propone il seguente ordine del giorno:

«La seconda Sottocommissione,

ritenuto che la discussione ha toccato tutte le questioni relative all’ente regione che l’Assemblea considera necessario per la soluzione del problema dell’ordinamento costituzionale;

letti gli ordini del giorno favorevoli alla costituzione della regione, mentre ne accoglie lo spirito e l’indirizzo, passa alla nomina di una Sezione e ad essa affida l’incarico di formulare un progetto articolato di costituzione dell’ente regione sulla scorta della discussione registrata nei resoconti».

TOSATO ricorda che ieri si è ritenuto di concludere la lunga discussione sulle autonomie locali con un ordine del giorno contenente quei punti sui quali si era venuto manifestando un accordo.

Ha ascoltato molto attentamente le dichiarazioni fatte ieri sera dal Presidente, interessanti, non soltanto perché ricche di molti spunti, che certamente saranno presi nella più attenta considerazione, ma anche perché hanno segnato un sostanziale avvicinamento, se non una coincidenza dei punti di vista, nelle questioni principali relative al regionalismo.

Infatti, uno dei punti che lasciava divisa la Sottocommissione era se la regione dovrebbe essere un istituto da attuarsi in tutto il territorio dello Stato o limitato a determinate parti del territorio, ed il Presidente ha acceduto al punto di vista che, per esigenze generali della ricostruzione della costituzione dello Stato e, in particolare, per quanto riguarda il problema della seconda Camera e della sua organizzazione, la regione debba essere un istituto generale per tutto il territorio.

Altra questione che lasciava divisa la Sottocommissione era quella riguardante la estensione della potestà legislativa da assegnare alla regione: vi erano tendenze estensive e tendenze restrittive. Comunque, nell’ambito di queste tendenze, erano emersi chiari questi concetti: che in ogni caso la potestà legislativa della regione, nell’ambito stabilito dalla legge costituzionale, dovrebbe essere limitata dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali dello Stato, non solo, ma anche dalle altre leggi emanate dallo Stato, al fine di tutelare gli interessi generali, perché la regione dovrebbe avere competenza legislativa soltanto per materie di interesse prevalentemente locale e per la risoluzione di eventuali conflitti interregionali.

Ora, l’ordine del giorno che egli ha ieri presentato era precisamente destinato a concludere la discussione su questi punti, sui quali era venuto manifestandosi un sostanziale accordo. Quindi sottopone ancora all’attenzione della Sottocommissione quest’ordine del giorno, rispetto al quale gli altri, in definitiva, non presentano sostanziale diversità. Quello dell’onorevole Perassi, al quale potrebbe accedere, specifica in sostanza alcuni argomenti che egli si è astenuto dal toccare per non entrare in formule tecniche che avrebbero potuto dar luogo a difficoltà.

PRESIDENTE osserva che l’ordine del giorno dell’onorevole Conti tende a trasformare gli altri in raccomandazioni; e poiché gli altri contengono considerazioni svariate, ma nelle conclusioni coincidono (salvo l’ordine del giorno Patricolo-Castiglia, che ha conclusioni non previste negli altri), crede se i proponenti potrebbero cercare di fonderli in un ordine del giorno unico.

PICCIONI presenta, come materiale di elaborazione ulteriore, il seguente ordine del giorno:

«La seconda Sottocommissione,

presa in esame la questione delle autonomie locali, sulla cui larga attuazione si è trovata concorde per il rinnovamento democratico e sociale della vita nazionale, in aderenza alla sua naturale struttura;

riconosciuta la necessità di dar luogo alla creazione, sancita dalla nuova Costituzione, dell’ente regione (persona giuridica territoriale):

  1. a) come ente autarchico (cioè con fini propri d’interesse regionale e con capacità di svolgere attività propria per il conseguimento di tali fini);
  2. b) come ente autonomo (cioè con potere legislativo – normativo – nell’ambito delle sue specifiche competenze e nel rispetto dell’ordinamento giuridico dello Stato);
  3. c) come ente rappresentativo degli interessi locali, su basi elettive a suffragio universale diretto;
  4. d) come organo dotato di sufficiente autonomia finanziaria;

demanda ad una propria Sezione la formulazione di un progetto di ordinamento regionale, tenute presenti le premesse suindicate e gli altri criteri informatori risultanti dalla ampia discussione svoltasi in seno alla Sottocommissione».

BORDON si trova in una posizione particolare perché la Val d’Aosta è la sola delle quattro note regioni in cui l’autonomia concessa dalla legge 7 settembre 1945, n. 545, sia già in vigore. Perciò l’ordine del giorno dovrebbe prendere atto di quello che allo stato attuale esiste in quella regione.

PRESIDENTE osserva che l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Piccioni riassume in forma abbastanza sistematica e concisa le idee ed i desideri espressi. Rileva però che al comma b), laddove è detto «come Ente autonomo (cioè con potere legislativo – normativo – nell’ambito delle sue specifiche competenze)», farebbe pensare che la competenza sia già stabilita. Propone perciò di dire: «competenze che saranno fissate».

Circa l’obiezione dell’onorevole Bordon, dato che si tratta di una esigenza sentita e che è innegabile che un determinato stato di fatto esiste, come è egualmente innegabile che esso risponde a necessità avvertite, propone di aggiungere alla fine dell’ordine del giorno: «tenute presenti le premesse suindicate e alcuni stati di fatto già creati».

PICCIONI accetta i due emendamenti.

LA ROCCA è sostanzialmente d’accordo con l’ordine del giorno Piccioni. In sostanza la Sottocommissione riconosce la necessità di ovviare ai mali del decentramento e perciò vuole la creazione dell’ente regione. Ma egli non vorrebbe legare la Sezione che sarà nominata ad indicazioni troppo particolareggiate. Crede sufficiente concludere che si crea l’ente regione, con competenze da attribuirsi, alla stregua dei lavori compiuti dalla Sottocommissione, risultanti dai verbali.

TOSATO, dato che l’ordine del giorno dell’onorevole Piccioni cerca di andare incontro al desiderio della Sottocommissione di votarne uno scheletrico e riassuntivo dei punti sui quali si è raggiunto l’accordo, vi si associa e ritira il suo.

CONTI ritira anche il suo.

MORTATI, tenendo conto delle obiezioni dell’onorevole Bordon, propone di aggiungere, all’ultimo comma, dopo le parole «premesse suindicate», le parole: «le situazioni esistenti».

BORDON non trova sufficientemente chiara questa espressione.

LUSSU propone di aggiungervi, fra parentesi, la specificazione «Val d’Aosta, Sardegna, Sicilia ed Alto Adige».

EINAUDI osserva che l’inserzione delle parole «situazioni esistenti» non deve implicare accettazione a priori di principî consacrati nello statuto della Val d’Aosta ed in quello della Sicilia.

PRESIDENTE fa rilevare che il testo dice: «tenute presenti…»; quindi l’onorevole Einaudi può essere tranquillo.

BULLONI preferirebbe la dizione: «tenute presenti le situazioni di diritto esistenti».

LUSSU crede meglio dire: «situazioni speciali», o meglio ancora: «situazioni particolari».

PRESIDENTE osserva che per l’Alto Adige e per il Trentino non esiste una situazione di diritto, ma una situazione politica.

BORDON propone di dire: «situazioni particolari esistenti».

CASTIGLIA, per quanto riguarda l’ultima parte dell’ordine del giorno Piccioni, relativa alle quattro regioni (si riferisce in modo particolare alla Sicilia), ritiene che le modifiche e le aggiunte non sarebbero sufficienti a determinare in maniera tassativa quali siano le esigenze e le situazioni. Propone pertanto la seguente nuova formulazione:

«fa voti perché tali potestà, e in ispecie quelle normative, siano per la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta ed il Trentino più larghe ed adeguate alle loro esigenze di carattere storico, economico, sociale e politico, avendo riguardo ai particolari ordinamenti statutari concessi o in via di concessione alle regioni suddette e che si inseriranno, con opportune modifiche, nel quadro dell’unità politica italiana».

Precisa che, sia nello statuto della regione Siciliana, che in quello della Val d’Aosta esiste una disposizione secondo la quale gli statuti medesimi dovranno essere rimessi all’ulteriore esame dell’Assemblea Costituente, affinché siano inquadrati nell’unità politica italiana. Conclude insistendo sull’opportunità che tale concetto venga inserito nell’ordine del giorno, per dar modo alla Sezione competente di attuare praticamente i deliberati della Sottocommissione.

PICCIONI fa osservare che la Sezione sarà composta di membri della Sottocommissione che hanno partecipato a tutte le discussioni e sono quindi al corrente dei vari desiderata espressi e delle relative motivazioni. È quindi naturale che la Sezione, considerando il richiamo alle situazioni particolari, avrà presenti le note quattro regioni. Non ritiene, pertanto, opportuno fissare un grado di priorità, in riferimento alla potestà legislativa, di uno o di un altro statuto, tanto più che tali statuti dovranno poi essere coordinati e armonizzati con la riforma della struttura dello Stato. Occorre lasciare tale compito, per una elaborazione più approfondita, alla Sezione.

PATRICOLO osserva che, se l’ordine del giorno deve rispecchiare i lavori della Sottocommissione, non v’è alcuna ragione di non dare atto compiutamente di tutta la discussione. Precisa, inoltre, che l’onorevole La Rocca che pur s’è dichiarato oppositore dell’inserimento nell’ordine del giorno di questo particolare aspetto della questione, ha dichiarato che la Sottocommissione è concorde nel ritenere che le note quattro regioni debbano avere una autonomia più larga rispetto alle altre.

PRESIDENTE osserva che l’ordine del giorno non deve riassumere i lavori, ma solo fissare quei pochi punti che hanno trovato unanime consenso. Comunque, allo scopo di trovare una via conciliativa, crede si possa accogliere la proposta Lussu che le quattro regioni vengano indicate fra parentesi nel punto ove si fa riferimento alle situazioni particolari, senza per altro aggiungere la considerazione che ciò presupponga senz’altro più larghe concessioni.

PATRICOLO crede che il suo ordine del giorno potrebbe essere accolto come raccomandazione.

PICCIONI, pur non ritenendo necessaria, per un motivo di sinteticità, alcuna maggiore specificazione, si dichiara disposto ad accettare l’emendamento Lussu richiamato dal Presidente.

NOBILE crede che in questa specificazione sarebbe meglio indicare l’Alto Adige anziché il Trentino.

PICCIONI preferirebbe lasciare «Trentino», ma ritiene più opportuno che la questione venga risolta dalla Sezione.

PRESIDENTE teme che sia l’una formula che l’altra possa sollevare una questione politica, perché vi è un problema controverso fra i due raggruppamenti di popolazioni. Considerando la questione da questo punto di vista, forse sarebbe opportuno non fare specificazioni.

LUSSU non concorda, considerato anche che il problema per ora rimane nell’ambito della Sottocommissione e non è destinato alla pubblicità.

PRESIDENTE riconosce che il problema ora sollevato non è destinato alla pubblicità, ma pensa a possibili indiscrezioni, soprattutto di stampa, che sollevino dubbi e perplessità.

CASTIGLIA, per superare la difficoltà, senza pregiudicare la questione che sicuramente è molto importante, propone di formulare così questa parte dell’ordine del giorno Piccioni: «tenendo conto delle situazioni particolari esistenti (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta) e di qualche altra che potrà determinarsi».

PICCIONI, per lasciare impregiudicata la questione, suggerisce di fare la specificazione in questi termini: «Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta e Trentino-Alto Adige». In questo modo si preciserebbe che non è una questione che già sia stata risolta.

ZUCCARINI, poiché può sorgere il problema anche per la Venezia Giulia, propone di usare la formula: «zone miste», oppure «zone a popolazione mista».

FABBRI domanda se vi è qualche difficoltà ad adoperare alla lettera b) l’espressione «potere normativo», sia pure potere normativo obbligatorio, invece che «potere legislativo», perché il concetto del potere legislativo attribuito alla regione, nell’ambito però delle leggi, crea una necessaria differenziazione fra una legge che ne vincola un’altra, cosa completamente nuova nella nostra legislazione e nella nostra tecnica legislativa, perché la legge non pone un limite ad una legge successiva, mentre qui si avrebbe una legge regionale che ostacolerebbe una legge nazionale successiva. L’espressione «potere normativo» comprende sia la legge che i regolamenti, ecc.; invece, dicendo «potere legislativo nell’ambito delle leggi», si pone inevitabilmente un riferimento alle leggi preesistenti a quelle della Regione. Ma se la regione emana una legge che, dal punto di vista nazionale, si ritiene aberrante, e una legge successiva dello Stato interviene, questa abrogherà implicitamente la legge regionale? Crede, insomma, pericoloso mettere in conflitto le leggi nazionali con quelle regionali. Usando l’espressione «potere normativo», si supera questa difficoltà, senza escludere che nell’esercizio del potere normativo ci sia anche la facoltà di emanare una norma che avrà valore di legge nell’ambito della regione.

EINAUDI chiede all’onorevole Piccioni se non ha difficoltà a togliere la parola «sufficiente» davanti ad «autonomia finanziaria», perché in fondo è superflua.

PICCIONI accetta questo emendamento. Circa la proposta di modificazione dell’onorevole Fabbri, non crede sia necessaria perché, è vero che si parla di «potere legislativo», ma è poi specificatamente indicato: «nell’ambito delle sue specifiche competenze che saranno determinate nel rispetto dell’ordinamento giuridico generale dello Stato».

FABBRI chiede che sia messa in votazione la sua proposta, perché ritiene che l’uso dell’autonomia da parte della regione possa determinare un conflitto con gli interessi generali e far luogo quindi ad una legge di carattere generale. Questa legge emanata dal Parlamento deve abrogare la disposizione regionale. Non trova opportuno dare alla regione la potestà di emanare e mantenere una legge in conflitto con una legge generale dello Stato.

LEONE osserva che l’onorevole Fabbri pone un problema interessantissimo, ma non lo risolve sostituendo l’aggettivo «normativo» a quello «legislativo». Egli si preoccupa di un conflitto che possa sorgere tra una legge regionale e una generale precedente o successiva, e in particolare di un conflitto tra una legge regionale precedente e una legge generale successiva.

Propone che questo problema sia segnalato alla Sezione, affinché essa lo risolva mediante quei congegni che la Costituzione potrà delineare sul delicato tema del conflitto di leggi generali e leggi regionali, conflitto che probabilmente dovrà essere risoluto dalla Suprema Corte costituzionale.

AMENDOLA concorda, in linea di massima, con le preoccupazioni dell’onorevole Fabbri, e vorrebbe che la formula fosse la più lata possibile, in modo da permettere alla Sezione di decidere questo delicato problema. Infatti, in un Paese a struttura sociale e politica così differenziata come l’Italia, il problema appare estremamente serio; si potrebbe dissociare quella unità che non si vuole né spezzata né distrutta.

Richiama poi l’attenzione sul primo comma in cui si parla di «naturale struttura» della regione e, dato che gli elementi distintivi della regione sono storici, propone di parlare di criteri «storicamente determinati».

PICCIONI obietta che il concetto di «naturale» è più riassuntivo, sintetico: esso raccoglie in sé concetti non soltanto storici, ma anche geografici, linguistici, economici, etnici, ecc.

PERASSI, anziché: «vita nazionale», preferirebbe dire: «nazione».

EINAUDI sostituirebbe: «naturale», con: «tradizionale» o «storica».

ZUCCARINI direbbe: «tradizionale e naturale»; due concetti che si integrano.

PRESIDENTE domanda all’onorevole Fabbri se insiste nel suo emendamento inteso a sostituire la parola: «legislativo», con l’altra: «normativo».

FABBRI insiste, per le ragioni già dette e perché la formula proposta del «potere legislativo» attribuito alle regioni può portare alla conseguenza che, essendo leggi tanto quelle emanate dallo Stato quanto quelle emanate dalla regione, la legge nazionale non possa modificare la legge regionale preesistente, anche se con essa l’autorità regionale abbia per avventura sorpassato i confini della competenza stabilita dalla Costituzione.

LUSSU pensa che le preoccupazioni dell’onorevole Fabbri potranno essere tenute presenti dalla Sezione che dovrà tradurre in proposte concrete i principî affermatisi nel corso di questa discussione.

PRESIDENTE mette ai voti l’emendamento proposto dall’onorevole Fabbri all’ordine del giorno Piccioni.

(Non è approvato).

Dà lettura del testo definitivo dell’ordine del giorno Piccioni, così concepito:

«La seconda Sottocommissione, presa in esame la questione delle autonomie locali, sulla cui larga attuazione si è trovata concorde per il rinnovamento democratico e sociale della Nazione, in aderenza alla sua tradizionale e naturale struttura;

riconosciuta la necessità di dar luogo alla creazione, sancita dalla nuova Costituzione, dell’ente regione (persona giuridica territoriale):

  1. a) come ente autarchico (cioè con fini propri d’interesse regionale e con capacità di svolgere attività propria per il conseguimento di tali fini);
  2. b) come ente autonomo (cioè con potere legislativo nell’ambito delle specifiche competenze che gli verranno attribuite e nel rispetto dell’ordinamento giuridico generale dello Stato);
  3. c) come ente rappresentativo degli interessi locali, su basi elettive;
  4. d) come ente dotato di autonomia finanziaria;

demanda ad una propria Sezione la formulazione di un progetto di ordinamento regionale, tenute presenti le premesse suindicate, le situazioni particolari esistenti (Sicilia, Sardegna, Val D’Aosta, Trentino-Alto Adige) e gli altri criteri informatori risultati dall’ampia discussione svoltasi in seno alla Sottocommissione».

Lo mette ai voti.

(È approvato).

FABBRI prega si dia atto a verbale che egli non ha approvato l’ordine del giorno Piccioni solo in relazione alla parola: «legislativo».

PRESIDENTE avverte che, votato l’ordine del giorno Piccioni, non vi è ragione di mettere ai voti gli altri che non sono stati ritirati, ma di cui la nominanda Sezione terrà il debito conto.

Comunicherà la deliberazione adottata al Presidente della Commissione affinché ne faccia parte alle altre Sottocommissioni.

Sui lavori della Sottocommissione.

PRESIDENTE ricorda che è stato già accennato alla suddivisione della Sottocommissione in cinque Sezioni: 1a Parlamento; 2a, Capo dello Stato; 3a Governo; 4a Organi di garanzia costituzionale e giurisdizionale; 5a Autonomia.

FUSCHINI osserva che per la quinta dovrebbe parlarsi di «autonomia regionale».

PRESIDENTE fa notare che questa Sezione dovrà occuparsi anche della autonomia dei comuni, nell’ambito di quella delle regioni.

MORTATI osserva che già al momento della entrata in vigore della nuova Costituzione dovrà essere in atto un ordinamento regionale. In altre parole, contemporaneamente alla elaborazione della Costituzione si dovrà elaborare una legge speciale, dettagliata, anche se di importanza costituzionale, sull’ordinamento delle regioni. Ciò sarà tanto più opportuno in vista delle prossime elezioni, per le quali non dovrebbe potersi prescindere dalla nuova organizzazione amministrativa dello Stato. Pensa pertanto che la quinta Sezione, benché il regolamento della Commissione parli solo di progetto di Costituzione, dovrebbe gettare anche le basi per questa legge separata para costituzionale.

Rileva inoltre che le materie che verrebbero assegnate alle prime tre Sezioni sono strettamene connesse tra loro, per cui occorrerebbe: o unire in una Sezione unica le tre Sezioni, per la formulazione dei criteri generali e direttivi di massima, salvo poi una successiva suddivisione con distribuzione dei compiti a gruppi di commissari o a singoli commissari nel suo seno; oppure lasciare le tre Sezioni separate, ma stabilire che esse si riuniscano inizialmente e periodicamente insieme, per controllare a vicenda i risultati a cui ciascuna è giunta.

PERASSI non ritiene opportuna una eccessiva suddivisione della Sottocommissione, e pertanto, ove non si voglia riunire in una sola le tre prime Sezioni, converrebbe mantenere separata la Sezione per il Parlamento e attribuire ad una seconda Sezione tanto la materia relativa al Capo dello Stato quanto quella relativa al Governo.

CONTI crede che la Sezione delle autonomie debba preparare un tipo di Statuto per le regioni. Tutti sono appassionatissimi di questo problema e parlano di autonomie regionali e, se fuori della Sardegna, della Sicilia, della Val d’Aosta e del Trentino non si hanno espressioni concrete di questa esigenza, non è tuttavia da mettere in dubbio che in ogni regione d’Italia si abbia uno spirito vivissimo per l’autonomia. Bisogna, dunque, fare in modo che, appena la Costituzione sarà stata approvata dalla Costituente, le regioni possano senz’altro funzionare. Occorre perciò occuparsi anche della formazione delle istituzioni burocratiche che dovranno sorgere nelle regioni.

Circa la suddivisione della Sottocommissione in Sezioni, crede che si debba partire da una diversa concezione strutturale. Poiché si deve preparare la nuova Costituzione, bisogna tener presente la divisione dei poteri: potere legislativo (e si avrà il problema della Camera e del Senato), potere esecutivo (Governo e Capo dello Stato), potere giudiziario (ordinamento della magistratura). Il potere giudiziario non è da confondere con la Corte delle garanzie, che è un’altra cosa. Perciò propone la suddivisione in quattro Sezioni; cui è da aggiungere quella delle autonomie. La Sezione che si occuperà del potere giudiziario, con le distinzioni necessarie, potrebbe occuparsi anche della Corte delle garanzie.

CALAMANDREI osserva che la definitiva decisione sulla Costituzione spetta all’Assemblea Costituente. Questa ha nominato una Commissione di settantacinque deputati, la quale probabilmente riproduce in piccolo la struttura politica dell’Assemblea e quindi si può pensare che quello che delibererà la maggioranza di questa Commissione corrisponda a quello che delibererà poi l’Assemblea della Costituente al completo. Ma con la ripartizione della Commissione in tre Sottocommissioni e con l’ulteriore ripartizione delle Sottocommissioni in Sezioni, non si può esser sicuri che piccoli gruppi che debbono elaborare i testi riproducano la struttura politica dell’Assemblea cui compete di decidere sulle questioni controverse.

Quindi crede che il lavoro avrebbe dovuto svolgersi in senso contrario a quello col quale si va svolgendo, cioè sarebbe stato necessario che l’Assemblea Costituente, in una serie di sedute preliminari, avesse fissato alcuni punti sui quali potrà esservi dissenso: sistema bicamerale o monocamerale; autonomia regionale o no, ecc.; e che poi le Commissioni, in numero sempre più ristretto, dovessero perfezionare dei principî generali su cui ormai l’Assemblea aveva raggiunto l’accordo.

Ora, la Sottocommissione ha in certo modo adottato questo sistema solo per quel che riguarda il problema delle autonomie; ma non per gli altri.

PRESIDENTE riconosce che il migliore metodo di lavoro sarebbe quello di continuare a lavorare in seduta plenaria di Sottocommissione per affrontare almeno le questioni principali e rimettere poi, come si è fatto per l’autonomia, alle Sezioni il compito di elaborare i risultati della discussione. Può, infatti, avvenire che le Sezioni giungano a risultati che non incontrino l’adesione della maggioranza della Sottocommissione. Comunque, Sezioni che comprendano sette o otto membri ciascuna, pur non rispecchiando il maniera fedele la formazione della Sottocommissione e la formazione della Commissione plenaria e dell’Assemblea, in limiti abbastanza approssimativi hanno la struttura di quegli organi più vasti, talché è presumibile che le loro decisioni potranno essere in parte notevole accettate.

Il metodo di lavoro delle Sezioni dovrebbe esser questo: riunirsi almeno per tre giorni per esaminare la materia che a ciascuna di esse è stata sottoposta e chiarirla in maniera che risulti immediatamente ciò che è da porre in disparte e ciò che resta come materia efficiente per la trattazione, e poi nominare dei relatori che preparino le relazioni.

LUSSU rileva che l’onorevole Calamandrei ha sollevato una questione mossa da preoccupazioni di carattere politico e non solo pratico; ma la Sottocommissione, postasi su una via, non può ritornare indietro. Certo, è possibile che nella suddivisione del lavoro fra le Sezioni venga a mancare la proporzione fra i rappresentanti dei vari partiti, col rischio di fare un lavoro non produttivo. Ma praticamente si può ovviare a questo inconveniente facendo in modo che nella composizione di ogni Sezione il criterio proporzionale politico sia per quanto possibile osservato.

Crede poi che, riducendo le Sezioni da cinque a tre, si otterrebbe un lavoro molto più proficuo. Con sette membri per ogni Sezione, si corre il rischio che in ciascuna di queste non siano presenti Deputati che per la loro preparazione tecnica sono indispensabili.

EINAUDI fa osservare che la Sezione delle autonomie si trova su un piano diverso in confronto alle altre: essa è un Comitato incaricato di tradurre in articoli i principî già discussi dalla Sottocommissione. Le altre, invece, debbono ancora esaminare preliminarmente tutti i problemi. Ma si potrebbe decidere che alle riunioni di queste Sezioni possano intervenire tutti coloro che credono di dover parlare su un determinato argomento e rendere possibile il loro intervento convocando le Sezioni in ore diverse.

PICCIONI, riconoscendo legittima la preoccupazione dell’onorevole Calamandrei, suggerisce che le Sezioni, all’infuori di quella delle autonomie, procedano alla nomina per i diversi argomenti specifici di tre o quattro relatori che preparino una relazione da fare alla Sottocommissione, affinché questa assuma un orientamento generale.

MORTATI crede conveniente nominare i relatori e aggiornare la Sottocommissione fino a quando non si possano avere delle relazioni.

CALAMANDREI concreta questa proposta nel senso che ogni relatore non prospetti una sola soluzione, ma tutte le soluzioni possibili; oppure che si nominino per ogni tema due relatori che si possa presumere siano di opinioni antagonistiche.

PRESIDENTE, per quanto riguarda il metodo di lavoro, mette ai voti la proposta che, senza suddividere la Sottocommissione in Sezioni, si nominino dei relatori le cui relazioni saranno poi discusse in Sottocommissione.

(È approvata).

MORTATI, per quanto riguarda la suddivisione delle materie, propone di seguire un criterio sistematico, e stabilire i seguenti gruppi: 1°) Forma di Governo; Capo dello Stato; ordinamento del Governo e del Parlamento; 2°) Funzione legislativa; 3°) Funzione esecutiva; 4°) Problema delle autonomie; 5°) Garanzie giurisdizionali.

PRESIDENTE mette ai voti questa suddivisione della materia.

(È approvata).

Invita la Sottocommissione a procedere alla scelta dei relatori e sospende brevemente la seduta per le necessarie consultazioni.

(La seduta, sospesa alle 19.50, è ripresa alle 20.15).

PRESIDENTE comunica che, in seguito agli accordi presi nell’intervallo, è stata fatta la seguente proposta:

per la questione delle autonomie, nominare un Comitato così composto: onorevoli Ambrosini, Bordon, Castiglia, Codacci Pisanelli, Einaudi, Grieco, Lami Starnutì, Lussu, Uberti, Zuccarini;

nominare poi i seguenti relatori per i vari temi così definitivamente stabiliti:

primo tema: «il potere legislativo»: gli onorevoli Mortati, Perassi e Rossi Paolo;

secondo tema: «il potere esecutivo»: gli onorevoli Bozzi, La Rocca e Tosato;

terzo tema: «il potere giudiziario»: gli onorevoli Calamandrei, Leone e Patricolo. (Essi esamineranno anche il tema delle guarentigie costituzionali).

La mette ai voti.

(È approvata).

Avverte che la Sottocommissione sarà convocata per il 27 agosto alle ore 17.

La seduta termina alle 20.55.

Erano presenti: Ambrosini, Amendola, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Lami Starnuti, La Rocca, Leone, Lussu, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Ravagnan, Rossi Paolo, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Erano assenti: Canevari, Grieco, Maffi, Mannironi, Porzio, Targetti.

In congedo: Vanoni.

MERCOLEDÌ 31 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

5.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MERCOLEDÌ 31 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Seguito della discussione sulle autonomie locali

La Rocca – Einaudi – Bulloni – Fabbri – Patricolo – Presidente – Tosato – Lussu – Mortati – Leone Giovanni – Perassi – Piccioni.

La seduta comincia alle 17.5.

Seguito della discussione sulle autonomie locali.

LA ROCCA, dopo l’elevata discussione che ha avuto luogo finora, crede non rimanga ormai che rivedere con chiarezza taluni punti di vista.

Tutti sono d’accordo che bisogna ad ogni costo eliminare i danni di uno Stato burocratico ed accentratore che si è dimostrato negatore della vita nazionale e che, invece di far fiorire le energie latenti del paese, le ha soffocate, dimostrando di non conoscere, o di trascurare e tradire addirittura i bisogni e le aspirazioni vive della periferia, la quale da questa noncuranza od avversa volontà si è vista impedita nel suo cammino.

Nella discussione sono affiorate le varie concezioni che si hanno dello Stato.

Anche i commissari comunisti hanno la loro: e cioè che lo Stato non è la realtà dell’idea morale, alla Hegel; e sono confortati dal pensiero che gli studiosi cominciano ad essere concordi su questo; che lo Stato è sorto sulla base d’inconciliabili contrasti sociali: che, espresso dal seno della società, si è a poco a poco staccato dalla società e sovrapposto ad essa, divenendo lo strumento di dominio delle classi che si sono succedute al potere, nelle varie tappe del processo storico: lo stato dei patrizi nell’antichità, dei signori nel medioevo, dei capitalisti nella società moderna.

È stato detto che l’eccessivo centralismo fu una delle cause del trionfo del fascismo; e può anche darsi che l’eccessivo centralismo vi abbia contribuito. Ma il fascismo ha altre radici.

Tutti sono d’accordo che bisogna evitare certe pericolose forme di accentramento. Ma non si può non far tesoro dell’esperienza storica. È conosciuta la Costituzione di Weimar, che è stata il modello delle altre: repubblica; tutti i poteri emanano dal popolo; il governo centrale da soltanto le direttive; la nazione si organizza intorno ai länder, con potestà legislativa piena. Tuttavia questo Stato, così decentrato, non ha impedito che si affermasse l’hitlerismo, che è qualcosa di peggio del fascismo. Quindi bisogna procedere con cautela nell’esame.

Tutti vogliono impedire che il fascismo ritorni; e vogliono una riforma radicale soprattutto affinché scompaia in Italia ogni diversità strutturale. Vogliono che finisca l’unità unicamente apparente (territoriale e più o meno politica) ma che si risolve in una disparità economica e sociale e finisce col minare le basi stesse dell’unità nazionale.

Infine tutti vogliono che la trasformazione di struttura segni la rinascita del Paese, il quale deve essere oggi considerato, più che un insieme organico ed armonioso retto dal principio della concordia discorde, un insieme che presenta disparità manifeste nella struttura organica, che presenta squilibri, sproporzioni, ingiustizie, che non aiutano certo il formarsi della vera unità nazionale.

Questa unità organica manca per il modo con cui l’unità del Paese si è venuta formando, manca a causa dello squilibrio fra nord e sud. L’unità si è costituita sopra una base economica a danno delle popolazioni del Mezzogiorno, il quale da taluni gruppi industriali e bancari del nord è stato ridotto insieme con le isole a vere colonie di sfruttamento. La questione meridionale è un problema essenziale della politica nazionale, e si è risolta nella subordinazione del Mezzogiorno al Settentrione: il Mezzogiorno – comprese le isole di Sardegna e di Sicilia – è stato spogliato e paga le spese degli altri. Quindi lo scopo da raggiungere è quello di portare tutte queste regioni allo stesso livello economico delle altre.

La preoccupazione, in rapporto a questa trasformazione radicale, è che si possa comunque aprire un varco al passaggio di forze centrifughe che possano minacciare o addirittura spezzare l’unità nazionale. E appunto perciò egli è contro la tesi federalista e qualsiasi tesi regionalista che praticamente possa sboccare in federalismo. Il federalismo è vincolo fra vari Stati sovrani che s’impegnano a delegare ad un potere centrale una parte della loro sovranità, ed è stato sostenuto con calore dall’onorevole Lussu come la sintesi più razionale del processo storico e evolutivo del Paese.

Non può essere d’accordo con lui e con gli altri che ne condividono l’opinione.

Il cammino storico e del progresso è stato sempre nel senso del graduale passaggio dal piccolo al grande gruppo, dall’organizzazione federativa a quella nazionale; ha proceduto sempre dai più piccoli aggruppamenti ai più grandi, dalla federazione allo Stato unitario; e adesso tende anche ad un più ampio allargamento che oltrepassa lo Stato. E questo perché le possibilità di soluzione dei problemi economici, che sono fra loro quanto mai connessi, non possono essere ricercate nello sparpagliamento delle forze, ma nell’aggruppamento. Intende riferirsi soprattutto al problema economico, perché, pur ammettendo che esso non rappresenta l’unico determinante, bisogna riconoscere che esso costituisce il fattore decisivo, la grande forza motrice di tutti gli avvenimenti storici; onde nella trasformazione strutturale dello Stato non si può non tenerne conto.

L’organizzazione federale rappresenta una grande garanzia di libertà e di democrazia là dove la federazione è la risultante di un naturale processo storico accompagnato da una progressiva autoeducazione della coscienza civile, come è avvenuto negli Stati Uniti e nella Svizzera.

Parla della soluzione federalistica, non perché tenga a battere questa tesi, ma perché non vorrebbe che si adottasse una soluzione regionalistica che praticamente fosse come la sorella di quella federalistica. Questo intende ben chiarire.

In Italia una soluzione in senso federale non sarebbe la risultante naturale di un processo evolutivo e rinnegherebbe un secolo di storia patria, senza far altro che inasprire gli squilibri e il dislivello fra le regioni, in ispecie fra quelle del nord e del sud; avrebbe quindi il torto di portare avanti forze retrograde che esistono e lavorano per spezzare la unità nazionale. Nella profonda tendenza autonomistica del sud si deve vedere una giusta reazione al tentativo del nord di sopraffare il Mezzogiorno d’Italia. Ma la questione del Mezzogiorno e delle isole non può essere risolta che in senso unitario, nel quadro di un generale ordinamento, senza dividere e frazionare il corpo dello Stato, del Paese, senza creare tanti compartimenti stagni. Nel 1848 la soluzione federalistica sarebbe stata un avviamento all’unità del Paese: oggi sarebbe un indietreggiamento: sarebbe quanto mai regressiva.

La soluzione unitaria, comunque si sia compiuta ed effettuata, ha rappresentato un fatto progressivo anche nei riguardi del Mezzogiorno. Come uno dei rappresentanti di Napoli, riconosce che il sud soffre delle conseguenze dell’unità compiutasi a danno di tutte le popolazioni meridionali. E non è il caso di ricordare i milioni dell’ex Regno delle Due Sicilie spesi per la costruzione di ferrovie, ponti e strade del nord, sotto la specie delle necessità strategiche e che accrebbero lo sviluppo del nord. Pur compiuta male, l’unificazione costituì un progresso, e oggi tornare indietro significherebbe farsi giudicare male dall’avvenire, e farsi maledire dal popolo italiano. Anche la soluzione unitaria di Bismarck che pure è stata ricordata, fu opera progressiva, anche se compiuta col metodo di un Junker, perché riunì tutta la nazione tedesca. La nazione unitaria è un prodotto del capitalismo nella fase ascendente e progressiva: bisognava creare un mercato unico, un’unica legislazione, un unico sistema monetario; bisognava abbattere le barriere che ostacolavano i traffici e gli scambi. In fondo la feudalità fu distrutta dalle forze produttive formatesi nel seno della vecchia società e che erano compresse nei limiti provinciali; e la borghesia ha avuto una funzione progressiva nell’evoluzione sociale, quando ha creato la Nazione, ed ha creato, non solamente il mercato e l’economia nazionale, ma il mercato e l’economia mondiale.

Oggi non si potrebbe tornare indietro: l’economia nazionale non esiste più da sola: non è che un anello di una catena che si chiama economia mondiale. Oggi le forze produttive cresciute nel seno della società tendono a superare i confini nazionali.

Afferma di volere una trasformazione profonda: non federalismo, e neanche un regionalismo troppo spinto, che sia federalismo mascherato, trasformazione, basata sulla creazione di un ente che si interponga fra il comune e la nazione. Questo corpo intermedio può essere la regione, e si tratta di definirlo.

Dal punto di vista territoriale sarà facile mettersi d’accordo: si adotteranno criteri etnici, geografici, storici, culturali, ecc. Ma il problema più importante è quello di stabilire quali debbano essere le attribuzioni delle regioni, per impedire che queste possano di fatto, se non di nome, essere quasi degli Stati autonomi nello Stato italiano.

Vuole la creazione dell’ente regione come ente giuridico; ma, appunto perché aderisce alla realtà obiettiva – che non va mai dimenticata per sostituire ad essa il proprio desiderio – vuole tenere in considerazione tutto il complesso di tratti caratteristici, di condizioni strutturali, di tradizioni che sostanziano le diverse regioni.

Sono state ricordate le drammatiche condizioni della Sardegna e della Sicilia, e si è detto che vi sono quattro regioni in Italia che hanno bisogno di autonomia piena, affinché possano provvedere direttamente ai loro bisogni. È d’accordo con questa tesi; ma il problema consiste nello stabilire fino a qual punto concedere l’autonomia piena ed una potestà legislativa primaria; e se veramente occorre concederla a tutte le regioni.

Una più larga autonomia, con potestà legislativa primaria, bisognerebbe concederla a quattro regioni: la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta e l’Alto Adige, tanto più che esiste già uno statuto speciale per la Sicilia, per la Sardegna e per la Val d’Aosta, ed è in via di concessione per l’Alto Adige. Ma che fare per le altre regioni? Si dice che è necessario che ogni regione provveda a risolvere i suoi problemi e che le Assemblee regionali diventeranno magnifiche palestre politiche. Ma quali potestà si debbono concedere a queste altre regioni che si vogliono costituire? Si deve indubbiamente abolire la provincia come ente autarchico e conservarla come centro burocratico. Città come Milano, Napoli, Firenze, ecc., ben conoscono i loro bisogni, che sono quelli di grandi comuni, ed è giusto che non abbiano le mani legate dall’autorità centrale. Ma quali limiti si debbono porre a questa potestà?

Riconosce che si devono costituire, oltre le quattro accennate, secondo il criterio che la Sottocommissione riterrà opportuno, le regioni come enti e chiede che si conceda ad esse una facoltà legislativa delegata.

Si presentano, ad esempio, tre grandi problemi: ricostruzione, riforma agraria e nazionalizzazione di taluni complessi industriali, di taluni strumenti di produzione. Se si concede una potestà primaria a tutte le regioni d’Italia, si può giungere a concedere l’autonomia fuori del quadro nazionale. Esistono delle ingiustizie; esistono delle regioni più popolose, più progredite, più ricche: se si consenta alla regione di chiudersi in se stessa, si rischia di fare una politica antinazionale non facilmente sanabile; si rischia che la regione povera continui a vivere nella sua miseria, anche se non vedrà più sfruttate le sue risorse e non vedrà più il suo denaro emigrare, a vantaggio di determinati gruppi di speculatori. Si possono avere delle regioni più progredite ed avanzate che continuino a progredire, e quelle arretrate, che avrebbero più bisogno di avanzare, fermarsi se non addirittura regredire.

La riforma agraria deve essere attuata su una scala vasta, nel quadro, nazionale, specie nei riguardi del Mezzogiorno che è la parte più arretrata. La ricostruzione pone il problema di chi deve pagarne le spese. Se essa è lasciata all’arbitrio di ogni regione, si possono determinare disparità enormi. Onde la necessità di una potestà legislativa delegata. Bisogna eliminare gli impacci; bisogna costituire, per tutto il popolo italiano, la garanzia che ci sarà una marcia unica in senso progressivo, portando le regioni più povere e arretrate al livello di quelle più fornitele avanzate.

Con una potestà legislativa primaria a tutte le regioni, si rischia di creare un grande squilibrio nell’applicazione di determinate norme fondamentali. All’insieme delle regioni (a parte le su indicate) bisogna concedere una larga possibilità di iniziativa e non potestà legislativa.

Contrariamente a quello che altri ha sostenuto, ritiene ammissibile nella regione, in certi limiti, anche la potestà giurisdizionale, con una sezione di Corte di cassazione per regione. Può essere aderente alla diversità dei bisogni delle varie regioni. Di una sola cosa si preoccupa: se si crea l’ente regione, si deve riorganizzare lo Stato sulla base regionale, ma in una miniera differenziata, cioè dando la autonomia a quelle regioni che più ne hanno bisogno, e costituendo le altre in enti affinché suscitino le loro energie e risolvano i loro problemi senza impacci ed eccitino le autorità centrali a provvedere, ma con delle garanzie, in modo che non si crei eventualmente una diversità tale per cui il regionalismo possa poi portare su un terreno del tutto diverso.

In materia finanziaria, l’onorevole Einaudi non vuole le imposte indirette perché impacciano i traffici. Ma se si ammettono le imposte dirette, allo Stato che resta? In ogni caso, si badi a non costringere il contribuente a pagare due o tre volte.

È dunque perfettamente d’accordo sullo schema e sull’indirizzo generale, ma non sui limiti della potestà legislativa. Si deve fare in modo che le regioni più arretrate si mettano al medesimo livello delle regioni più avanzate e cioè che tutta la Nazione abbia lo stesso ritmo di marcia. Soltanto così avremo compiuto opera utile per il nostro Paese e per la nostra rinascita. Così solo avremo messo in atto l’unità economica e quindi spirituale e morale di tutti gli italiani intorno alla nuova bandiera.

EINAUDI in materia finanziaria non crede esista una soluzione unica, la quale possa soddisfare alla necessità di dare, sia alla provincia, per coloro che vogliono mantenerla, sia alla regione, per coloro che vogliono crearla, una finanza che non abbia bisogno di altri enti maggiori o minori. E crede che sia impossibile trovare questa soluzione, in quanto ciò condurrebbe a ricorrere ad espedienti che si sono adottati già tante volte nella storia, ma che non hanno mai dato risultati soddisfacenti. Vi sono stati luoghi e tempi nei quali l’ente intermedio (chiamiamolo regione) viveva dei contributi dei comuni (nel Regno di Napoli, prima del 1860, qualche cosa di simile si è verificato); ma il risultato fu sempre che la regione, ente intermedio, viveva una vita meschina, in quanto nasceva necessariamente la gara al peggio fra i comuni che avrebbero dovuto dare il contributo necessario per far vivere l’ente intermedio. Tutti i comuni facevano a gara per dimostrare la loro povertà, la loro incapacità a dare. Il risultato che si aveva, e che si avrebbe di nuovo se si applicasse il sistema dei contributi pagati dal comune, sarebbe l’impossibilità della vita finanziaria della regione. Lo stesso dicasi del sistema opposto di far vivere l’ente intermedio mediante il contributo dello Stato. È un sistema che è stato qualche volta anch’esso applicato, ma ha sempre prodotto la corruzione politica. Se la regione deve vivere del contributo dello Stato, si faranno vivere quelle regioni che hanno maggiore influenza politica e quindi vi saranno sempre regioni arretrate che si troveranno in condizioni sfavorevoli. Per conseguenza crede che l’esperienza dimostri che la regione non possa vivere con il sistema finanziario dei contributi, sia che questi partano dall’ente minore, il comune, sia che partano dall’ente maggiore, lo Stato. Quindi necessità di fatto che l’ente intermedio abbia una finanza, che si potrebbe chiamare propria se, invece di essere chiamata propria, non dovesse essere chiamata finanza in partecipazione con gli altri enti: il comune e lo Stato.

La ragione per cui non è possibile immaginare un sistema che sia proprio alla regione sta nel fatto che in sostanza la materia imponibile è una sola: il reddito del contribuente. Questo reddito si potrà afferrare all’origine, quando entra nel bilancio del contribuente, o quando, sotto forma di consumi, esce dal bilancio del contribuente; ma fuori del reddito non esistono altre materie imponibili. Quindi necessità tecnica, di fatto, che la regione ricorra alla medesima materia imponibile a cui forzatamente debbono ricorrere lo Stato ed i comuni. Si tratterà di trovare metodi di compartecipazione della regione a quest’unica materia imponibile, che è il reddito del contribuente, che siano meglio adatti alla regione medesima, lasciando allo Stato e rispettivamente al comune quelle altre parti di reddito, che siano meglio adatte l’uno alla natura unitaria dello Stato, l’altro alla natura piccola, locale del comune.

Presa questa via che è la sola possibile, quali limiti si possono mettere alla finanza regionale?

Innanzi tutto qualche limite di esclusione. Si devono escludere tutte quelle imposte che, se diventassero imposte regionali, costituirebbero un impedimento alla vita economica unitaria. Le riforme che si vogliono attuare devono tener conto delle necessità economiche del Paese. Per limitarci in un primo momento alle imposte sul consumo, si devono escludere dal campo di applicazione delle regioni tutte quelle imposte che sminuirebbero l’unità economica del Paese. Non si può dare alle singole regioni il diritto di stabilire un’imposta di fabbricazione sullo zucchero, senza avere per conseguenza che ogni regione diventerebbe un campo chiuso. Se una regione stabilisce un’imposta di fabbricazione di mille lire ed un’altra regione la stabilisce di ottocento, quella che l’ha stabilita di mille deve mettere un dazio contro l’altra regione che l’ha stabilita di ottocento, perché altrimenti rovinerebbe la propria industria. Tutto ciò che costituisce barriera, vincolo, ecc., al commercio fra una regione e un’altra è una materia imponibile che deve essere sottratta alla regione.

L’atto fondamentale dovrebbe quindi sancire un principio il quale contempli i casi singoli di esclusione nei quali la regione non può intervenire perché il suo intervento sarebbe dannoso all’economia del Paese.

Ma la regione dovrà, come la provincia oggi, avere un suo campo tributario che si rivolga soprattutto alle imposte dirette.

Oggi la provincia ha funzioni sue proprie molto limitate e che si riferiscono ai manicomi, brefotrofi e strade. Queste funzioni dànno luogo alle spese obbligatorie e, in relazione a queste spese, ad un sistema tributario. Ma la regione non si potrà contentare di queste funzioni così limitate; dovrà avere funzioni più importanti e più larghe, a cui dovranno corrispondere delle imposte a più larga base. Non sarà possibile accontentarsi dei centesimi tradizionali sulle imposte sui terreni e fabbricati, ma bisognerà dare sotto forma di centesimi addizionali il diritto di imporre più largamente sulle industrie, sui commerci e sulle professioni. In realtà questa imposta non è altro che una parte della imposta di ricchezza mobile con qualche piccola esclusione per le categorie A, C e D. Siccome è impossibile tecnicamente concedere ai comuni il diritto di sovraimposizione sulla imposta di ricchezza mobile (perché ha un campo di applicazione che va al di là del comune), si è creato il succedaneo della sovrimposta all’imposta di ricchezza mobile, che si chiama imposta sulle industrie, i commerci e le professioni, ma che non è nient’altro che una forma particolare di sovrimposta applicata alle necessità del caso. Forse bisognerà dare qualche cos’altro, ma il nucleo fondamentale della forma che dovrà assumere la finanza regionale sarà quello della sovraimposizione sui redditi che si formano nell’ambito della provincia. Rimane il quesito se alla regione debba essere dato anche un diritto di sovraimposizione sull’imposta personale che da noi oggi si chiama imposta complementare progressiva sul reddito per lo Stato e imposta di famiglia per i comuni. Non si può, a priori, negare alla regione anche il diritto di sovrimporre su questa fonte, nei limiti consentiti dalla sua natura territoriale.

Nello Stato si è creata una imposta complementare progressiva sul reddito, perché lo Stato non poteva limitare la sua potestà di imposta soltanto a quei redditi che nascevano nel territorio dei singoli comuni, come erano le imposte sui terreni e fabbricati, ma doveva allargare la sua capacità di imposta a tutti i redditi nascenti nello Stato, ed anche a quelli nascenti fuori dello Stato. La nostra imposta progressiva teoricamente colpisce tutti i redditi che il cittadino, persona fisica, riceve in Italia, sia che i redditi si producano in tutto lo Stato italiano od anche all’infuori dello Stato italiano, in quanto dei redditi nascenti fuori dello Stato italiano si abbia qualche notizia diretta, cioè che questi redditi siano importali e goduti nello Stato. È lo Stato che ha questa capacità di imposizione a titolo di imposta progressiva, perché è soltanto lo Stato che ha i mezzi di accertamento per scoprire il reddito dovunque esso sia sorto.

Né il comune né la provincia o regione hanno la possibilità di conoscere il reddito sorto all’infuori dei loro confini e si può inoltre fondatamente dubitare se abbiano ragione di colpirlo. Può derivarne una lotta fra i singoli comuni e le singole regioni o provincie. Ogni ente locale deve avere una certa potestà di colpire il reddito personale che sorge ed è attinente, per l’origine e per il consumo, al proprio territorio. Ma perché dovrebbe colpire anche i redditi che nascono fuori del suo territorio, con il pericolo di una doppia tassazione, con la necessità poi di risolvere a posteriori i conflitti che possono sorgere con altri comuni o con altre regioni? È bene quindi che la legislazione ponga a priori dei limiti ai comuni ed alle provincie, per impedire che comuni e provincie colpiscano, come materia di tassazione personale, redditi che hanno avuto origine o in qualche modo si consumano fuori dai limiti del comune e della provincia. In fondo, in maniera imperfetta, empirica, il legislatore italiano aveva tentato di risolvere questi problemi per i comuni con una imposta sul valore locativo e con una imposta di famiglia. Erano certamente degli strumenti, dal punto di vista degli accertamenti, imperfetti; ma non si può dire che l’idea che li informava fosse errata. Si diceva che il comune ha il diritto di imporre sul reddito personale complessivo del contribuente quando tale reddito del contribuente ha una qualche attinenza col comune; di qui l’imposta sul valore locativo. Anche l’imposta di famiglia, così come era stata costruita in origine, aveva tratto al reddito goduto, visibile della famiglia in quella certa località; materia imponibile che non era quella del reddito tassato dall’imposta complementare complessiva sul reddito appartenente allo Stato. Lo Stato deve abbracciare tutto. Lo Stato, se ci riesce, deve abbracciare anche ciò che nasce fuori dai confini dello Stato medesimo e che poi, in qualche modo, rientra e viene goduto dentro lo Stato. Ma perché la regione dovrebbe violare l’eguale diritto di altri comuni o di altre regioni? Quindi occorre che il reddito, nelle sue varie trasformazioni, abbia acquistato una fisionomia locale, regionale e che il comune e la regione tassino quel reddito in quanto esso abbia questa configurazione comunale o regionale.

Ricorda di avere redatto una relazione alla Consulta sul decreto sull’imposta di lusso, presentato e fatto approvare dal Ministro Scoccimarro, relazione favorevole in principio e contraria per le applicazioni, perché quel decreto, sebbene giusto in linea di principio, dal punto di vista della tecnica non era accettabile. In principio quel progetto si informava all’idea di creare una imposta che conglobasse insieme le due vecchie imposte di famiglia e sul valore locativo, tenendo conto anche di tutti gli altri coefficienti visibili del reddito e del consumo. In sostanza tutto il reddito prodotto è, parlando in generale, tassabile dallo Stato. Questo reddito, consumato e goduto, deve avere necessariamente delle manifestazioni locali ed in quanto sia goduto e consumato costituisce la materia imponibile dei comuni e dell’ente regione. Certamente, non si tratta di tassare un reddito nuovo: lo si vede soltanto in momenti diversi, i quali sono appropriati alla natura dell’ente che deve imporre l’imposta.

La distinzione avrà maggiore o minore successo a seconda dei metodi di applicazione, in quanto che, se si continuasse nella via attuale, qualunque sistema sarà inventato e legiferato produrrà sempre risultati dannosi. Finché si dimenticherà che Stato, provincie, regioni e comuni colpiscono sempre la medesima materia imponibile e cioè il reddito, e si guarderà alle singole imposte invece che al loro insieme, i contribuenti saranno sovratassati e continueranno a reagire con la frode; e questa sarà tale solo di nome. È molto difficile sapere oggi quello che paga il contribuente italiano.

Un calcolo fatto dell’onere complessivo che il contribuente italiano dovrebbe sopportare per le tre imposte reali, quella complementare sul reddito e quella ordinaria sul patrimonio, tenendo conto delle sovrimposte locali, dà i seguenti risultati. Partendo dall’ipotesi che si tratti della famiglia media italiana, cioè composta dei genitori e due figli, il proprietario della terra dovrebbe pagare aliquote che vanno dal 49 al 96 per cento. Se si trattasse poi di un celibe, questo dovrebbe pagare come minimo il 42 per cento e come massimo il 108 per cento. Ora, non è possibile pensare ad aliquote di questo genere; il sistema è assurdo e non può essere applicato. Se si tratta di un proprietario di fabbricati, sempre ammogliato con due figli, dovrebbe pagare dal 53,3 al 73,7 per cento; se è un industriale, o commerciante che abbia un’azienda individuale, l’aliquota andrebbe dal 45,6 al 71,9; se è una società, l’aliquota andrebbe dal 44,1 al 71,3. Un professionista che vive del suo lavoro pagherebbe il 15,7 per i redditi minimi e il 63,1 per i redditi massimi.

A questo riguardo oggi non si deve pensare che esistano redditi molto elevati, specialmente per talune categorie; per esempio un professore universitario che aveva nel 1914 un reddito dii 10.000 lire corrispondenti almeno ad 1 milione di lire attuali, e paga circa 1’8 per cento, ha oggi un reddito di 200 mila lire e dovrebbe pagarne per imposte almeno il 15 per cento.

Quindi, tutte le riforme che si possono escogitare saranno inutili se non si troverà un modo per attribuire una parte al comune e alla regione, ma sempre in maniera che non si eccedano certi limiti nel complesso della tassazione. Notisi che le percentuali dette sopra si riferiscono solo alle imposte dirette. Accanto a queste vi sono le imposte di successione, sugli affari e sui consumi.

Ammesso che le imposte dirette nel sistema fiscale delle provincie e dei comuni diano la percentuale maggiore, poiché l’inverso accade per lo Stato, è chiaro che a quelle aliquote occorrerebbe aggiungere almeno altrettanto; sicché il contribuente, per compiere il proprio dovere, dovrebbe soccombere.

Per far sì che ognuno degli enti tassati abbia la sua parte, ma che non ecceda un certo livello, si sono adoperati in Italia mezzi ben noti: il legislatore ha stabilito un limite massimo; ma comuni e provincie dopo averlo raggiunto, hanno dichiarato che non potevano vivere, e allora si è creato un secondo limite a cui sollecitamente tutti i comuni sono arrivati; e, allorché se ne è creato un terzo, questo è stato subito raggiunto dalla totalità dei comuni. È un sistema che non funziona, perché crea negli amministratori dei comuni e delle provincie la tendenza ad ottenere l’autorizzazione ad arrivare fino al limite massimo stabilito; essi finiscono per concepire il raggiungimento dell’ultimo limite di tassazione come una cosa naturale; come un diritto di proprietà. L’amministratore del comune concepisce il diritto di giungere fino ad un certo limite come un dovere di giungervi, tanto più che la spinta a spendere c’è sempre, quando esiste la possibilità di tassare. In tal modo si arriverebbe anche al quarto e al quinto limite se ci fossero.

Si era immaginato di trovare un freno nel senso che l’eccedenza oltre il limite dovesse essere autorizzata con una legge speciale; ma la sola conseguenza di questo è stata la moltiplicazione dei disegni di legge per la fissazione dei limiti. La verità è che un rimedio veramente efficace per tutti i casi non esiste.

In Inghilterra si segue un sistema che sembra funzioni meno male, e che ha già avuto una sua tecnica legislativa: il sistema che le autorizzazioni ad una maggiore imposta siano collegate con speciali esigenze, per cui il comune, la contea, la parrocchia, ecc., chiedono l’autorizzazione ad aumentare le loro imposte in relazione a qualche spesa che deve essere fatta.

È da vedere, però, se questo sistema può essere applicato in Italia. Certamente, conviene cercar di regolare la materia nel senso che il forte sostenga il debole; che la provincia o la regione ricca sostenga la provincia o la regione povera, attraverso il fondo generale delle imposte statali. Ma è dubbio se lo Stato accentratore, quale è esistito finora, sia il più adatto ad adempiere a queste necessità, perché le provincie che hanno un maggiore peso elettorale, cioè quelle più popolose, hanno una forza preponderante e finiscono per soverchiare le provincie più povere, cioè meno popolose. Il sistema delle autonomie rende le regioni meno asservite allo Stato e capaci di far sentire meglio la propria voce.

In Svizzera la Confederazione interviene a favore dei singoli Cantoni e soprattutto a favore dei Cantoni alpestri, più poveri, che hanno minore capacità finanziaria e non possono coi propri mezzi adempiere ai servizi richiesti per mettersi alla pari con i Cantoni più ricchi, nei quali è accentrata l’industria. Non per questo le regioni povere non hanno diritto ad essere aiutate; questi aiuti si chiamano rivendicazioni. Un Cantone povero, il quale ha bisogno di ferrovie, di scuole, ecc., e che si trova al di sotto del minimo necessario per sostenere quelle spese, rivendica dalla Confederazione un contributo sancito dalla legge. In Italia il contributo potrebbe essere dato dallo Stato, dalla provincia o dalla regione all’ente minore.

In varî modi si può concepire il limite: al comune che non abbia raggiunto il limite dell’imponibile lo Stato può imporre anzitutto di raggiungerlo, per aiutarlo, se necessario, quando l’avrà raggiunto. Al comune che abbia superato quel limite potrà imporre di mettersi in regola riducendo le aliquote, salvo a aiutarlo quando si sarà messo in regola, affinché possa adempiere alle sue funzioni che con i suoi mezzi non può adempiere.

Non è un sistema che possa funzionare con semplicità; ma la materia tributaria non è semplice, anzi tende a diventare sempre più complicata, per la diversificazione dell’economia e per il fatto che il contribuente può ricavare i propri redditi da fonti di natura diversa e situate in località diverse.

Entro i limiti delle necessità tecniche, si possono fissare dunque per la finanza regionale e locale alcune idee fondamentali.

Circa l’esclusione delle imposte che, se fossero applicate dagli enti locali, creerebbero barriere tra comune e comune, non si tratta di pericoli immaginari. Ricorda un bellissimo articolo in cui Giuseppe Prato denunziò i dazi protettivi creati in Italia all’ombra dei dazi comunali sui consumi. Con i dazi si erano create delle vere e proprie barriere, che non rendevano nulla ai comuni, ma proteggevano l’interesse degli industriali risiedenti nella cerchia murata della città a danno degli altri industriali, i quali esercitavano la loro industria, magari a due passi fuori della cinta daziaria. Si deve impedire che il territorio nazionale diventi una specie di quadro bizzarro di tanti Stati, separati economicamente ed operanti contro le esigenze della economia nazionale.

Altre idee fondamentali sono: partecipazione degli enti locali, comuni e regioni, alle imposte reali, in quanto queste abbiano attinenza con le località; partecipazione anche alle imposte personali, in quanto queste assumano la forma dell’imposta sul reddito consumato, perché il reddito consumato necessariamente ha un’attinenza con il luogo dove è consumato; e finalmente collaborazione o aiuto del forte al debole, attraverso lo Stato, collaborazione realizzata non per arbitrio, ma sulla base di leggi; cosicché l’Ente locale possa rivendicare un suo diritto dimostrando di trovarsi nelle condizioni richieste dalla legge.

Passando ad un punto più generale, osserva che l’onorevole Piccioni, affermando giustamente che è preferibile la regione alla provincia, ha dato di questa sua affermazione una spiegazione dicendo che la provincia è una creazione artificiosa, mentre la regione è una creazione naturale. Pur consentendo nella preferenza, non può condividerne la spiegazione. L’evoluzione storica del Piemonte certamente non la giustifica. Nelle Langhe, una propagine collinosa del Monferrato, i vecchi contadini, quando vanno a Cuneo dicono che vanno in Piemonte, perché nella loro mente il paese in cui vivono non è Piemonte. E in realtà il Piemonte è una creazione storica recente, nata non prima ma dopo le provincie. Prima della Rivoluzione francese, la denominazione. «Piemonte» era ristretta al piccolo territorio della regione pedemontana. La Val d’Aosta, il Monferrato, le Langhe non erano Piemonte. Il Piemonte è una creazione di Napoleone I che fuse insieme venticinque vecchie provincie nelle quattro tradizionali di Torino, Cuneo, Alessandria e Novara, che per qualche tempo si chiamarono «divisioni militari» e poi «provincie». Le vecchie provincie, in parte, diventarono circondari; poi i circondari furono aboliti. Quindi storicamente si va dai piccoli circondari alle quattro divisioni, diventate provincie, e la regione è il punto di arrivo. Appunto per questo la regione può essere una creazione sana; se fosse un punto, di partenza, sarebbe una creazione artificiale.

Uno scrittore francese ha affermato che molte istituzioni statali sono al di sopra ed al di là della natura dell’uomo; comunque è certo che vi è un contrasto tra i moderni ordinamenti territoriali e la capacità dell’uomo a dominarli. È quindi impossibile che un amministratore domini tutta la materia di una regione. Il Piemonte, ad esempio, ha tre milioni e mezzo di abitanti, e il futuro Presidente regionale non potrà conoscere intimamente tutte le esigenze degli abitanti. In molti campi, che si possono chiamare economici e che sono quelli spiritualmente meno interessanti in quanto si tratta di tecnica (strade, ponti, costruzioni in genere) la regione potrà essere uno strumento adatto. Ma vi sono altri campi dell’attività politico-amministrativa in cui è indispensabile il contatto diretto dell’amministratore con gli amministrati; è necessario che l’amministratore si faccia conoscere dai suoi amministrati e sappia apprezzare le esigenze migliori, spirituali dell’uomo. Quindi si può creare la regione, ma non si deve eccedere nel fissarne i compiti. Alcune funzioni affidate ad essa provocherebbero gli stessi inconvenienti cui si va incontro quando sono attribuite allo Stato. Richiama a questo proposito il problema della scuola elementare in cui è evidente lo stretto legame fra genitori, alunni e insegnanti. Molti comuni sono troppo piccoli per poter far fronte alle esigenze dell’insegnamento; possono far fronte solo alle prime due classi elementari. Le esigenze odierne richieggono che, oltre alla terza e alla quarta, si dia grande sviluppo alle scuole di avviamento e scuole tecniche. Occorre, quindi, ricercare un quid medium, un consorzio tra comuni o, magari, il «collegio» (meglio che la «comunità»), quella circoscrizione che a un dipresso, è la tradizionale del collegio uninominale, in cui l’eletto conosceva i propri elettori e riusciva a farsi conoscere. Il «collegio» dovrebbe comprendere non più di 80-100.000 abitanti; a capo starà la cittadina od il borgo col suo mercato centrale in cui si riuniscono gli abitanti una volta la settimana; il Pretore, l’Ufficio del Registro, ecc. Questa unità sarà la più adatta per far fronte a quel decongestionamento delle grandi città che è un’esigenza fondamentale della vita moderna.

Questa circoscrizione intermedia fra la regione e il comune, che non è la provincia, non dovrà essere obbligatoria, ma dovrà essere incoraggiata da favori legislativi; si chiamerà collegio, o consorzio o distretto e dovrà fronteggiare le spese che oltrepassano le forze del comune e che da un punto di vista non materiale, superano le forze dell’uomo che governa la regione.

BULLONI si dichiara favorevole alla riforma della struttura dello Stato attraverso l’istituzione dell’ente regione come organo di decentramento politico, con potestà normativa nelle materie riservatele dalla Carta costituzionale, e regolamentare per l’attuazione delle leggi dello Stato; potestà garantibili in sede giurisdizionale. Tra le varie ragioni che raccomandano tale istituzione occorre tener presente la necessità di resistere non solo allo strapotere dei cento legislatori e dei cento burocrati, ma anche allo strapotere economico delle cento famiglie, se tante ve ne sono in Italia, che, attraverso gli organismi centrali, sopraffanno la volontà popolare.

Passando a trattare del problema finanziario, osserva che l’autonomia politica ed amministrativa reclama necessariamente l’autonomia finanziaria: la regione deve avere un bilancio proprio che non deve formare oggetto di un capitolo speciale del bilancio dello Stato. Saranno gli esperti a dar pratica attuazione a questa autonomia, ma qui si deve affermare il principio della autonomia finanziaria della regione. La Costituzione potrà rimandare per questa parte ad una legge costituzionale finanziaria che sia in armonia con la riforma tributaria generale del Paese.

L’amministrazione della giustizia deve essere sottratta all’influenza regionale; ma ciò non impedisce che si possa tornare alle Corti di cassazione regionali.

Anche la polizia deve essere sottratta alle influenze locali, per le necessità del reclutamento e dell’impiego e quindi deve appartenere allo Stato. Alla regione potranno essere affidate polizie speciali che abbiano stretta attinenza alle materie amministrate dalla regione: la polizia stradale, forestale, portuale, ecc. Si tratterà di vedere se, per economia, queste varie polizie debbano avere una scuola centrale da cui escano gli allievi per essere distribuiti nelle varie regioni.

In ogni regione ci potrà essere un prefetto di polizia, il quale obbedirà alle leggi fondamentali dello Stato e alle particolari leggi della regione.

La provincia dovrà rimanere come ente autarchico, e deve anzi accrescersi delle materie che la regione affiderà alla sua competenza. Per la modestia delle competenze attuali, la provincia come ente locale, nella sua attività amministrativa è poco sentita; ma non si deve dimenticare che le provincie hanno una tradizione locale, che, come tutte le tradizioni, deve essere salvaguardata; hanno generalmente una buona burocrazia e un patrimonio gelosamente sorvegliato e controllato dagli abitanti (sanatori, manicomi, ospedali e altri patrimoni immobiliari cospicui).

Si deve certo favorire ogni manifestazione e ogni attività che chiami il popolo all’esercizio della vita pubblica; ma per soddisfare a questa, che è una necessità dell’ordine democratico, non è il caso di mantenere in vita il Consiglio provinciale. Si moltiplicherebbero senza buona ragione questi organi. Istituita la regione, la cui Assemblea rappresenterà una sicura palestra per la preparazione degli uomini alla vita politica; mantenuti i consigli comunali, le cui materie richiamano da vicino la partecipazione dei componenti alla discussione dei problemi della vita amministrativa del comune, sarebbe eccessivo il mantenimento dei Consigli provinciali.

I Consigli comunali dovranno nominare una Giunta o Deputazione provinciale, la quale amministrerà la provincia; la Giunta o Deputazione provinciale nominerà un suo presidente, che sostituirà il prefetto nel compito specifico della coordinazione di tutti i servizi che interessano la vita amministrativa della provincia e nella esecuzione del mandato amministrativo per le materie specificamente riservate all’amministrazione provinciale.

La scuola elementare dovrà essere affidata all’organismo amministrativo più naturale, più vicino all’ambiente famigliare, che conosce le necessità di indirizzo educativo, professionale, sociale dei figli, cioè al comune. Sussistono difficoltà derivanti dalla insufficienza di alcuni comuni a provvedere ai bisogni della scuola; ma un saggio ordinamento scolastico potrà riparare a questa insufficienza.

FABBRI osserva che la Sottocommissione, come conclusione dei suoi lavori, dovrà riassumere in pochi principî basilari i termini degli articoli della Costituzione, rimanendone i presupposti nel pensiero dei commissari a giustificazione di quegli articoli. Vale a dire che nella Costituzione non potrà trovare posto quasi nulla di quello che è stato detto qui.

La questione, fondamentale, a suo avviso, è quella della istituzione dell’ente regione come ente autarchico, dotato di facoltà normative. Contemporaneamente si tratta di stabilire se deve essere soppressa la provincia, quale ente autarchico dotato di autonomia.

Non concepisce la soppressione della provincia come eliminazione della maggior parte dei servizi che oggi le sono attribuiti e che potranno diventare notevolmente maggiori domani, quando una somma di servizi economici e amministrativi dovranno localmente trovare la loro esplicazione e si accentreranno in determinati servizi locali che potranno avere anche per sede quelli che sono oggi i capoluoghi di provincia. Saranno servizi di carattere amministrativo e di carattere economico, i quali si esplicheranno nelle provincie dagli impiegati regionali; ma non sarà più l’autarchia e l’autonomia delle provincie, né come patrimonio, né come facoltà normativa, ecc., perché altrimenti, col proposito di decentrare e di innovare, non si farebbe che aggiungere un ente a quelli che già oggi esistono.

Ritiene assurda la pretesa di sottrarre la regione a qualunque ingerenza da parte dello Stato. Pensa che si debba avere una dotazione specifica di pertinenza della regione; e non avrebbe, ad esempio, alcuna difficoltà a stabilire fin da ora che la totalità delle tre imposte dirette fondamentali: terreni, fabbricati, ricchezza mobile, fosse interamente devoluta ai comuni e alla regione, salvo a stabilire la ripartizione tra i servizi comunali e i servizi della regione. Ma è ben lontano dal ritenere che vi possa essere sovranità o potestà legislativa della regione in ordine a queste imposte: l’aliquota massima e minima, con una leggera oscillazione fra minimo e massimo, deve essere stabilita dalla legge dello Stato, perché una regione potrebbe trovare conveniente un’aliquota più favorevole, per esempio, di ricchezza mobile, per attirare l’impianto di nuove industrie nel suo territorio, per fare particolari facilitazioni a impianti commerciali, ecc.; ma fondamentalmente il regime tributario deve essere unitario; e poiché non v’è che il reddito che si possa colpire, non possono e non debbono appartenere alla facoltà normativa della regione, entro i limiti della legge generale dello Stato, se non i redditi insottraibili al concetto territoriale.

Un altro concetto fondamentale che, a suo avviso, dovrebbe essere sancito nella Carta Costituzionale è che soltanto per legge si possano determinare le regioni, i loro confini, i capoluoghi. Ciò non dovrebbe significare che le regioni vengano poi sottratte ad ogni forma di controllo e di aderenza alla politica generali dello Stato. Così come vi è ora una Direzione generale della finanza locale, potrà esservi una Direzione generale della finanza regionale, alla quale dovrebbe fra l’altro essere attribuito il compito della integrazione del bilancio annuale dello Stato, con quella azione compensativa che, avendo il significato di solidarietà nazionale, è da tutti auspicata, ma che alcuni commissari vorrebbero realizzare attraverso stanze di compensazione fra regioni povere e regioni ricche. Dovrebbe, in altre parole, realizzarsi tale compensazione attraverso la distribuzione tra le varie regioni, tenendo presenti le necessità di quelle più povere, delle risorse del bilancio dello Stato.

Ritiene inoltre che nelle leggi istitutive delle singole regioni dovrebbero prevedersi opportune particolari disposizioni, in relazione alle caratteristiche politiche ed economiche di ciascuna regione. Così come per quattro regioni (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta e Alto Adige) dovrebbero prevedersi autonomie particolarmente accentuate – e si augura che a queste regioni se ne aggiunga una quinta: la Venezia Giulia –, per una sesta regione, il Lazio, sarebbero opportuni speciali precetti legislativi, dato che buona parte delle spese di Roma sono sostenute dalla generalità dei cittadini.

Non vorrebbe però che si istituisse un ennesimo ministero, quello delle regioni, e approfitta dell’occasione per affermare l’opportunità di un altro principio statutario: quello che la creazione di nuovi Ministeri debba venire stabilita soltanto per legge, e ciò sopra tutto per evitare che si ripeta quanto è già avvenuto in Italia, vale a dire che si istituiscano nuovi Ministeri, non in considerazione di necessità amministrative, ma per facilitare la risoluzione delle crisi ministeriali e l’assegnazione proporzionale dei Ministeri ai vari partiti politici.

Ritiene che i Comuni debbano avere la maggiore autonomia; ma sottostare sempre al controllo di legittimità e, entro certi limiti, al controllo di merito; entrambi i controlli dovrebbero essere esplicati, in via preventiva, dalla regione.

L’istituzione della regione non dovrebbe, a suo avviso, avere la conseguenza di innovare profondamente in materia di giurisdizione ordinaria e amministrativa. Dovendosi sopprimere le provincie, non vi è più motivo per conservare le Giunte provinciali amministrative, ma la competenza di questa giurisdizione dovrebbe passare ad una Giunta regionale amministrativa, la quale potrebbe anche suddividersi in più sezioni – e non gli sembra che vi siano motivi di aprioristica opposizione a che tali sezioni possano avere competenza territoriale provinciale o pluri-provinciale – e dovrebbe essere comunque giudice di primo grado, sottoposta al sindacato giurisdizionale del Consiglio di Stato. Del pari dovranno essere mantenute, conformemente all’ordinamento politico, amministrativo, finanziario e sociale del nuovo Stato, le Intendenze di finanza, le Carriere di commercio, le Organizzazioni sindacali, ecc.

Critica a questo proposito la direttiva della Confederazione generale del lavoro di insistere per la stipulazione di contratti di lavoro a carattere nazionale, contratti che non di rado influiscono in senso negativo sul sorgere in determinate località di nuove iniziative industriali. Se si vuole realmente favorire lo sviluppo industriale, non bisogna pretendere che lo status dell’operaio sia uguale in tutte le parti d’Italia. Gli esponenti della Confederazione del lavoro sostengono che il livellamento lo fanno, così, dal basso verso l’alto; ma in tal modo non contribuiscono al progresso perché, quando l’operaio del meridione è meno disciplinato di quello del Nord, e tuttavia si pretende che la sua paga sia eguale, si ottiene il risultato di avere nuove industrie nell’Italia settentrionale e non nell’Italia meridionale.

PATRICOLO ha ascoltato con molto interesse l’esposizione dell’onorevole Einaudi, ma teme che si sia invertito l’ordine logico dello studio: si è cercato di stabilire i tributi che la regione potrà imporre, prima di aver studiato quali servigi essa dovrà rendere.

Né vedrebbe con preoccupazione il fatto che lo Stato dovesse rinunziare del tutto a determinate imposte le quali, anziché nelle sue casse, andrebbero in quelle della regione, perché l’autonomia regionale importa un decentramento amministrativo da cui deriva uno sgravio per il bilancio statale.

Quella che si deve fissare anzitutto è l’entità dell’autonomia ragionale, cioè i servigi che la regione dovrà rendere ai suoi cittadini, dopo di che si potrà parlare di tassazione e vedere se le imposte dovranno essere prelevate dal cittadino della regione, oppure se si dovrà trasferire alla regione parte delle imposte che vanno allo Stato.

PRESIDENTE constata che la discussione è stata abbastanza approfondita e che la sezione, che pensa verrà costituita per l’ulteriore esame del tema particolare della autonomia, avrà quindi a sua disposizione un materiale assai abbondante per le sue conclusioni.

Desidera ora esprimere il suo personale pensiero su alcune delle questioni che sono state sollevate.

È caratteristico che il tema posto sia quello dell’autonomia, e immediatamente si sia trasformato in quello della regione. E vero che alcuni dei commissari, e particolarmente l’onorevole Zuccarini, hanno cercato di ricondurre l’Assemblea al tema iniziale, ma a certe cose che vengono in modo naturale evidentemente non ci si può opporre: il problema dell’autonomia è oggi in Italia sentito essenzialmente come il problema della regione.

La questione fondamentale che si pone è se deve o non deve costituirsi la regione. Onde, le varie posizioni.

Pochi hanno sostenuto una delle tesi estreme secondo cui non è necessario procedere a questa trasformazione veramente sostanziale della struttura dello Stato, e che può esser sufficiente un semplice decentramento col quale si dia una determinata autonomia di funzioni agli enti autarchici attuali, comune e provincia.

Pochi pure hanno sostenuto l’altra tesi estrema tendente alla creazione di uno Stato confederale.

Il pensiero e l’opinione della grande maggioranza si sono volti al concetto della trasformazione della struttura amministrativa, inserendo in questa struttura il nuovo ente regione.

Visto che la grande maggioranza è favorevole alla creazione dell’ente regione, si pone la seconda questione, se debba essere regione obbligatoria o regione facoltativa, e personalmente ritiene che l’ente regione debba essere accettato nella struttura dello Stato italiano come una forma generale, e quindi obbligatoria. Non è pensabile una struttura che da una parte si presenti attraverso determinate caratteristiche e dall’altra attraverso caratteristiche del tutto diverse. Ad un’altra sottoquestione gli onorevoli Grieco e La Rocca hanno dato una risposta alla quale personalmente aderisce: stabilito che si debba avere una struttura uniforme a base regionale, è tuttavia evidente che debba sussistere una certa differenziazione fra le autonomie godute da talune e da altre regioni, ed in modo particolare da quei quattro territori ai quali già il nuovo Stato in formazione ha riconosciuto una esigenza particolare autonomistica, tanto che posseggono una caratteristica autonomia o che ne hanno una in via di regolamentazione.

La terza questione che è stata toccata e sulla quale la sezione dovrà formulare qualche conclusione è se la creazione dell’ente regione porti la soppressione dell’ente provincia, ed anche a questo proposito vi sono tesi favorevoli e contrarie. Personalmente pensa che, creandosi la regione, la provincia, come ente autarchico, debba scomparire e debba o possa restare, come parecchi colleghi hanno sostenuto con abbondanza di argomentazioni, solo come un centro particolare di uffici, cioè come un centro che rappresenti propaggini, diffuse nel territorio regionale, del centro dirigente e fornito di particolari potestà della regione stessa. Il progetto delineato dall’onorevole Bulloni a questo proposito, risolve la questione della coesistenza della provincia e della regione nel senso che la provincia continua a sussistere, ma non più col suo Consiglio provinciale, bensì con una Giunta provinciale, il cui Presidente dovrebbe assolvere a certe funzioni particolari, in sostituzione del prefetto che, per unanime aspirazione, dovrebbe scomparire. Comunque, il tema da affrontare e che la sezione dovrà risolvere è quello della coesistenza o meno della provincia e della regione.

Vi è poi il problema delle potestà e delle funzioni della regione, al quale proposito l’argomento generale per cui tutti si sono dichiarati favorevoli alla creazione dell’ente regione è la necessità della lotta efficace contro l’accentramento delle funzioni statali e di un’azione tendente ad un funzionamento di carattere decentrato dell’apparato della vita pubblica. Non dovrà essere dimenticata questa premessa generale quando si passerà a precisare in maniera definitiva le competenze e le funzioni della regione, perché l’accentramento si fa in generale avvertire più gravemente (anche gli esempi che sono stati portati suonano in questo senso) non nel momento della decisione di particolari provvedimenti legislativi, ma nel momento della loro applicazione. I siciliani, che da parecchi giorni attendono che un servizio automobilistico venga organizzato, non chiedono allo Stato di emanare un certo provvedimento legislativo, ma di tradurre in realtà concreta certe disposizioni che già esistono. Da questo punto di vista, si raggiungerebbe largamente lo scopo al quale si tende, cioè quello dello snellimento delle funzioni, della rapidità nell’esecuzione delle decisioni prese, quando si desse alla regione nel campo esecutivo, e cioè nella funzione amministrativa, più larghe possibilità.

Non sa se, dando alla regione grandi facoltà nel campo legislativo, si raggiungerebbe lo scopo di fare aderire i provvedimenti legislativi che vengono emanati alla situazione locale. Non gli sembra fondata l’opinione che una Assemblea legislativa nazionale non riesca ad avvertire esigenze di carattere locale: quando si tratta di esigenze di territori abbastanza vasti, anche una Assemblea nazionale, attraverso gli strumenti di accertamento, di controllo, di indagine e di inchiesta di cui può disporre lo Stato, riesce ad ottenere tutti gli elementi necessari per giungere ad una elaborazione legislativa soddisfacente.

Competenze della regione, in linea generale possono essere: quella legislativa, nelle sue varie sottospecie, quella regolamentare e quella esecutiva. Personalmente pensa che una competenza legislativa debba essere affidata alla regione, ma in un campo relativamente limitato. Da parte di tutti si è detto che deve esserle affidata la facoltà legislativa nelle materie attinenti alla vita particolare della regione. Quando si crea qualche materia che tocchi le esigenze e le necessità interne di una regione, senza colpire materia consimile o analoga di regioni confinanti, ricorrono alla mente la pesca, la caccia, ecc. Senonché un corso d’acqua può attraversare numerose regioni ed a seconda del modo in cui è regolamentato il diritto di pesca in un tratto del corso d’acqua si influisce sopra diritti analoghi di pesca in altri tratti di quel corso. Così avviene per la caccia con la trasmigrazione degli uccelli, onde delle leggi della Stato possono cercar d’impedire che certe cacciagioni vengano distrutte in talune zone del territorio. Non intende, facendo questi esempi, dire che su queste materie non dovrebbe concedersi una facoltà legislativa alle regioni, perché altrimenti non si capisce quale attività legislativa si potrebbe concedere: lo dice per mostrare che bisogna andare molto cauti in questa materia e fare gran conto delle avvertenze e degli inviti enunciati dall’onorevole Einaudi. È molto difficile stabilire dei limiti per i quali una attività legislativa di una regione non venga ad interferire o danneggiare l’attività corrispondente dell’altra regione. La proposta dell’onorevole Zuccarini di stabilire accordi fra regioni confinanti scivola sul terreno pericoloso del tipo federalistico mascherato dal quale personalmente desidera di restare lontano.

A proposito del problema dell’istruzione, pensa che l’istruzione elementare debba restare di competenza esclusiva dello Stato, perché essa rappresenta forse lo strumento maggiore col quale può essere costituita una coscienza unitaria di carattere nazionale nel Paese. Si aveva l’abitudine di parlare dell’esercito come di un crogiuolo in cui le popolazioni trovavano una loro unità: ciò era in parte vero, e lo era anche perché, almeno in certi momenti, nell’esercito si impartiva una istruzione elementare agli analfabeti che concorreva a questo scopo. D’altra parte, se l’istruzione primaria fosse lasciata agli organi autarchici locali, se ne avrebbe una distribuzione non eguale in tutto il territorio nazionale, come avviene in America dove l’istruzione è sviluppatissima o meno a seconda dell’importanza che si dà ad essa da parte di uno Stato in confronto di un altro.

Altro punto da considerare è quello della finanza regionale, e taluno ha detto che questo problema è bene trattarlo, ma non è necessario approfondirlo ora, perché occorre anzitutto procedere ad una riorganizzazione generale del sistema tributario dello Stato.

Crede, comunque, che si dovrà dare una indicazione del modo in cui dovrebbe essere attuata l’organizzazione tributaria generale dello Stato italiano. Così, se nella Costituzione, quando si parla della regione, non si dicesse già qualche cosa sui fondamenti che debbono regolare il bilancio della regione, si lascerebbe incompiuta quell’opera che alla Sottocommissione è stata affidata.

È favorevole alla formazione della camera di compensazione che è stata proposta. Malgrado i dubbi da taluno espressi in proposito, pensa che una camera di compensazione amministrata da un consiglio composto da un rappresentante per ogni regione, e presieduta da una persona nominata dal Parlamento nazionale, potrebbe concorrere ad accrescere la solidarietà fra le varie regioni.

Poi vi è la questione dei controlli. Si domanda: dovrà essere esercitato un controllo e in quale maniera l’attività della regione potrà essere controllata? Pensa che un controllo sopra l’attività della regione debba esistere, ma che debba essere un controllo che trovi la propria origine sulla base elettiva. Così come il controllo dei comuni è esercitato da una Giunta provinciale amministrativa – che deve essere trasformata e diventare di carattere elettivo – le regioni potrebbero essere controllate da una Giunta parlamentare nazionale, in modi che potranno essere poi stabiliti. Se poi si tiene presente – ciò di cui non si è ancora parlato in maniera esplicita – che la seconda Camera, se si giungerà a stabilirne l’esistenza, sarà una Camera essenzialmente a base regionale, questa sarà appunto indicata per creare nel proprio seno organismi di controllo della regione, e con ciò si stabilirà una connessione maggiore, più organica, fra il nuovo ente regione e gli organismi centrali dello Stato.

Sulla struttura interna della regione, cioè sugli organi dei quali essa deve essere costituita, si è detto che essa deve riprodurre, in genere, la struttura di tutti gli enti giuridici autarchici: un’assemblea rappresentativa, un organismo esecutivo e un Presidente. A questo proposito (lo dice perché nel primo progetto preparato dal Ministero dell’interno, per la riorganizzazione delle amministrazioni comunali e provinciali, il problema era stato risolto in maniera diversa) crede che si debbano avere un Presidente dell’Assemblea regionale e un Presidente della Giunta regionale, e non si debbano riunire le due cariche nella stessa persona.

Altro problema che si pone è quello del metodo di elezione dell’Assemblea. Si è accennato alla possibilità che non si ricorra ad elezioni di carattere diretto, ma ad un corpo elettorale diversamente congegnato. Egli crede che la base elettiva dell’Assemblea regionale debba essere quella del suffragio universale diretto, e che non si possa opporre che si farebbe così una ripetizione della elezione per il Parlamento: la stessa cosa allora si potrebbe dire per il consiglio comunale.

Coglie l’occasione per accennare al problema della differenziazione della seconda Camera nei confronti della prima: tale differenziazione, a suo avviso, dovrebbe essere data dal modo particolare in cui la seconda Camera sarà eletta: cioè a base di suffragio universale diretto per l’Assemblea parlamentare, e a base di suffragio universale indiretto per la seconda Camera. È stato fatto presente autorevolmente che è necessario che, non appena la Costituente si scioglierà, vi sia già la possibilità di procedere non soltanto alla formazione della prima Camera, ma anche a quella della seconda; perché il Capo definitivo dello Stato molto probabilmente sarà eletto dalle due Camere riunite. Pertanto, è evidente che, se non si potesse immediatamente passare alla formazione della seconda Camera, o bisognerebbe prorogare la elezione del Capo definitivo dello Stato o bisognerebbe tener sospesa anche la elezione della prima Camera; posizioni queste ambedue insostenibili. Ora, gli organismi appositi dello Stato attuale – che saranno ereditati dal nuovo Stato, perché rappresentano apparecchi tecnici – potrebbero frattanto incominciare a preparare le basi regionali necessarie per l’elezione della seconda Camera.

Ha rappresentate queste considerazioni, perché gli sono state fatte presenti, col desiderio implicito che egli ne facesse parte ai membri della Sottocommissione.

Ultimo punto, sul quale la sezione dovrà fornire alcune conclusioni articolate, è quello che si riferisce ai rapporti fra lo Stato e la regione: se debba esistere o no un organo di collegamento e, ove debba esistere, quale debba essere. Si è parlato di un Governatore; altri ha detto che il Presidente dell’Assemblea regionale debba, di diritto, divenire rappresentante del Governo nella regione. Personalmente propende per una soluzione, la quale eviti che nella regione sia presente un funzionario dello Stato e deleghi a qualche persona, che promani dalla stessa formazione della regione, le funzioni di collegamento fra Stato e regione.

Ricorda che in seduta plenaria di Commissione si è detto che il problema dell’autonomia deve essere risolto pregiudizialmente, anche per l’utilità dei lavori della prima e della terza Sottocommissione in alcuni dei loro momenti ed aspetti. Crede che sarebbe utile poter trasmettere senz’altro al Presidente della Commissione, affinché la comunichi alle altre due Sottocommissioni, almeno una conclusione iniziale, nella quale si affermi, per esempio, che la Sottocommissione è giunta a stabilire che l’ente regionale deve essere costituito. A questa prima determinazione altre potranno essere aggiunte, che sono forse necessarie, per dare i primi lineamenti, molto rudimentali, all’ente regione.

TOSATO propone il seguente ordine del giorno:

«La seconda Sottocommissione:

premesso che l’ordinamento costituzionale dello Stato dev’essere aderente alla struttura naturale della Nazione;

riconosciuto che l’unità nazionale italiana presenta una varietà insopprimibile di nuclei regionali diversi fra di loro per il costume, la tradizione, il dialetto, le condizioni topografiche, il clima, le risorse naturali, e che, quindi, le varie regioni dimostrano esigenze economiche, sociali e amministrative, almeno parzialmente, diverse;

considerata la necessità che l’attività pubblica sia adeguata e corrispondente alle diversità indicate;

ritenuto che a tal fine non basta lo sviluppo delle autarchie comunali ed, eventualmente, provinciali ma, al tempo stesso, occorre procedere al riconoscimento di tutte le regioni italiane come persone giuridiche pubbliche territoriali;

ritenuto anche che il riconoscimento dell’Ente regione rappresenta uno strumento particolarmente atto a promuovere l’educazione politica e il consolidamento delle libertà democratiche, l’equilibrio economico politico fra le diverse parti del territorio dello Stato e una radicale riorganizzazione della burocrazia;

demanda ad una apposita sezione della Sottocommissione la formulazione concreta di un ordinamento che, previa determinazione delle singole regioni, assicuri alle medesime il potere di provvedere, con la necessaria autosufficienza finanziaria, alla cura degli interessi prevalentemente regionali non solo in via amministrativa, ma anche in via legislativa, nei limiti della Costituzione e delle leggi statali intese alla tutela degli interessi generali e al coordinamento degli interessi interregionali».

LUSSU crede che tale ordine del giorno sia troppo vasto e troppo motivato.

MORTATI osserva che questa risoluzione dovrebbe mirare ad affermare alcuni principî emersi dalla discussione, per dare una direttiva al lavoro delle sezioni. Il problema base è quello della struttura generale dello Stato; ammessa la struttura decentrata, questa influirà su tutta la configurazione della nuova Costituzione. Occorre pertanto che la Sottocommissione stabilisca i punti direttivi basilari, ché altrimenti il lavoro preliminare sarebbe superfluo. Ritiene che quattro siano i punti principali del problema e cioè:

1°) affermazione dell’autonomia costituzionale delle regioni (costituzionale nel senso che dovrà essere garantita dalla Costituzione e che sia estesa alla materia legislativa);

2°) autonomia finanziaria dell’ente regione (che può essere formulata in via generale, salvo in un secondo periodo a concretarne i limiti);

3) ordinamento decentrato dell’ente regione (per evitare l’inconveniente, da molti paventato, che il nuovo ente non sia a sua volta fonte di accentramento);

4°) utilizzazione delle regioni al fine della istituzione di uno o più organi centrali a carattere perequativo (il lavoro della sezione competente dovrebbe essere rivolto a trovare i congegni atti a realizzare questa perequazione che è necessaria, data la diversa struttura economica e l’entità demografica varia delle singole regioni, per correggerne le deviazioni o le sperequazioni. Se non si ricorresse a questo correttivo, si potrebbe pregiudicare una delle finalità essenziali del nuovo ente).

Richiama l’attenzione della Sottocommissione su questi quattro punti e sulla opportunità di una deliberazione di massima allo scopo di vincolare le determinazioni e le specificazioni affidate alle sezioni.

LEONE GIOVANNI ritiene di ravvisare nella relazione testé fatta dal Presidente la constatazione dell’accordo raggiunto, in linea di massima, sulla istituzione della regione e sui poteri – sempre determinati in linea generale – del nuovo ente, e cioè potere legislativo e potere tributario. Comunque, occorre stabilire una identità di vedute su questi punti basilari; salvo a rinviare la discussione sui limiti dei poteri. Aggiunge che l’ordine del giorno Tosato non pone, secondo il suo punto di vista, alcun vincolo alla delimitazione di questi poteri, anzi lascia l’adito alle sezioni di stabilire un progetto concreto per la creazione dell’ente regione.

PERASSI concorda sulla necessità che la Sottocommissione precisi alcuni punti, tenendo presente che la questione per ora deve solo esaminarsi in sede pregiudiziale. Ritiene che i punti salienti emersi fin qui dalla discussione siano i seguenti:

1°) istituzione dell’ente regione. A questo proposito bisognerebbe precisare se la regione debba essere o meno istituita in tutto il territorio dello Stato. Si dichiara favorevole alla istituzione della regione in tutto il territorio, salvo poi a discutere l’altra questione, e cioè se tutte le regioni debbano avere necessariamente la stessa competenza; né è da escludersi la possibilità che certe regioni abbiano una competenza in certe materie diversa, più ampia di altre;

2°) determinazione della competenza della regione, prendendo posizione netta sulla questione, che è stata tanto discussa, se debba avere o no competenza legislativa. La conclusione dovrebbe precisarlo, indicando le competenze legislative nei diversi modi che si possono formulare, come già è stato varie volte accennato, ossia: a) competenza legislativa su certe materie da indicarsi nella Costituzione e sulle quali la Regione abbia una potestà legislativa primaria, col solo limite di principî generalissimi iscritti nella Costituzione, principî che limitano anche la legislazione dello Stato; b) competenza legislativa su materie sempre da determinarsi nella Costituzione, con tutte le conseguenze che ne derivano, e sulle quali le regioni abbiano la potestà di emanare norme giuridiche destinate a svolgersi nell’ambito di norme più generali indicate in leggi ordinarie dello Stato, allo scopo soprattutto di rendere possibile una legislazione regionale su queste materie che meglio tenga conto della varietà delle esigenze regionali. È questa la categoria forse destinata ad essere la più ricca di applicazioni pratiche;

3°) questione della organizzazione della regione; nel senso di stabilire se la regione debba avere organi suoi propri o invece organi in qualche maniera connessi con quelli dello Stato. Crede tutti siano d’accordo nell’affermare il principio che gli organi della regione debbano essere tutti di emanazione regionale, a carattere elettivo, e non di provenienza dello Stato.

Le altre questioni – la cui importanza nessuno mette in dubbio – dovrebbero essere studiate dalle sezioni cui il problema verrà rinviato. La stessa questione finanziaria – salvo a fare, se possibile, qualche osservazione di principio – è così notevole e complessa, che conviene lasciare ad una sezione di studiarla in maniera più particolareggiata. Così anche il problema se la Provincia, che è autarchica, debba restare o debba sopprimersi, non può risolversi in un senso o nell’altro in questo momento e conviene lasciarla allo studio di una sezione, perché tra l’altro si porrà questa domanda: la materia degli ordinamenti degli enti locali potrà inserirsi nella lista delle materie attribuita alla competenza legislativa della regione? Se, per ipotesi, si arrivasse a questa soluzione, sarebbe possibile che una regione, tenendo conto delle sue esigenze particolari, ammettesse nel suo ambito l’esistenza di comuni e di provincie e che un’altra, invece, usando della facoltà attribuitale dalla Costituzione, ritenesse che nel suo ambito non c’è posto per i comuni, o altri enti.

Quindi ritiene che non convenga pregiudicare questo punto con una decisione di massima; e così per altri problemi più particolareggiati. L’essenziale è che in questo momento, tenendo conto del modo come la questione è stata rinviata a questa Sottocommissione e delle ripercussioni che le decisioni di questa devono avere sull’attività delle altre Sottocommissioni e sezioni, occorrerebbe limitarsi a prendere posizione precisa sui punti fondamentalissimi che ha indicato.

FABBRI chiede se il proponente avrebbe difficoltà a sostituire al termine: «potestà legislativa», nell’ambito delle leggi dello Stato: «potestà normativa», perché il concetto di una potestà normativa che si esplica nel solo ambito delle leggi emanate da un altro organo può determinare un equivoco. Egli è disposto ad andare oltre una semplice potestà regolamentare, ma non arriverebbe a chiamare «legislativa» la competenza della regione; e perciò parlerebbe di competenza «normativa» nei limiti delle leggi dello Stato.

LUSSU ha l’impressione si sia compiuto un lavoro molto proficuo, ma che da questo momento si stia prendendo un’altra via col rischio di perdere del tempo.

Non trova quest’ordine del giorno, pur concordando a grandi linee su di esso, rispondente né al tono né alle conclusioni della discussione. Gli sembra troppo lungo e contenente anche concetti che non sono stati esposti.

La discussione è stata esauriente su quasi tutti i punti; ma non si può dire che tutti i punti siano stati chiariti in modo tale per cui si possa già arrivare ad una conclusione. Per esempio, sulla potestà legislativa della regione, sulla conservazione o meno della provincia – per citare solo due problemi – vi sarebbe ancor molto da dire e si potrebbe ricominciare la discussione. Solo due punti sono stati chiariti in modo tale per cui si può dire che è acquisito il favore generale della grande maggioranza:

1°) costituzione dell’ente regione, esclusi i criteri federale e confederale nonché quello del puro e semplice decentramento amministrativo;

2°) particolare organizzazione di quattro regioni (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta e Alto Adige).

Crede quindi che la Sottocommissione dovrebbe approvare con un voto questi due punti, deferendo ad una più ristretta Commissione di studio l’incarico di riferire sui problemi di dettaglio.

PICCIONI rileva che, oltre alla soluzione proposta, vi è anche quella di non prendere alcuna deliberazione, rinviando la prosecuzione della discussione ad una sezione della Sottocommissione; soluzione quest’ultima che tuttavia non corrisponde alla economia e alla praticità dei lavori.

Ritiene pertanto opportuno fissare qualche punto su cui il consenso della Sottocommissione si è già fatto palese. Il primo di tali punti coincide con quello indicato dall’onorevole Lussu (istituzione dell’ente regione); punti successivi e necessari potrebbero riguardare le caratteristiche principali della regione: autarchia, autonomia, rappresentanza della popolazione, anche attraverso il suffragio universale. Si potrebbe inoltre stabilire se la regione debba avere una sua autosufficienza finanziaria.

Non è d’accordo, sul secondo dei due punti fissati dall’onorevole Lussu, in quanto non ritiene opportuna una discriminazione preventiva tra le regioni, ammettendo tuttavia che le quattro regioni nominate dall’onorevole Lussu hanno particolari esigenze, delle quali si potrà tenere conto dopo che sia stata stabilita la disciplina generale del nuovo ente regione.

Quanto agli altri punti dibattuti, come la competenza legislativa, regolamentare, ecc., essi potranno venire deferiti alle sezioni.

In ogni modo, occorre che la Sottocommissione si pronunci, accettando o l’ordine del giorno Tosato, o le conclusioni dell’onorevole Lussu, o conclusioni diverse.

PRESIDENTE crede che occorra decidere se la discussione deve concludersi con un ordine del giorno, sul quale sarà possibile mettersi d’accordo domani, oppure se la discussione deve sospendersi a questo punto con la nomina delle sezioni.

Mette ai voti la proposta che la discussione deve concludersi con una risoluzione.

(È approvata).

Rinvia a domani l’esame dell’ordine del giorno Tosato e degli altri che eventualmente saranno presentati.

La seduta termina alle 21.15.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Leone Giovanni, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Ravagnan, Rossi Paolo, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Erano assenti: Canevari, Maffi, Porzio.

In congedo: Amendola, Calamandrei, Vanoni.

MARTEDÌ 30 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

4.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MARTEDÌ 30 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Seguito della discussione sulle autonomie locali

Nobile – Ambrosini, Relatore – Mortati – Conti – Finocchiaro Aprile – Presidente – Fuschini – Bordon – Targetti – Piccioni.

La seduta comincia alle 17.

Seguito della discussione sulle autonomie locali.

NOBILE ritiene che alle quattro soluzioni del problema che si sta dibattendo, indicate dall’onorevole Bozzi, debba aggiungersene una quinta, che si trova all’estremo opposto di quella proposta dagli onorevoli Finocchiaro Aprile e Lussu.

L’onorevole Grieco ha detto che la tendenza centrifuga resa manifesta dall’insistente richiesta di autonomia è nata da un generale scoraggiamento. Egli dice di più; essa è nata dalla sconfitta e dal caos morale, intellettuale e materiale nel quale il Paese è stato precipitato. Il federalismo, il regionalismo, l’autonomismo, rispondono essi a necessità permanenti di vita del popolo italiano, o non rappresentano piuttosto un movimento di reazione a fenomeni transitori? Dubita che il movimento d’indipendenza, di cui è campione l’onorevole Finocchiaro Aprile, sarebbe esistito, o, perlomeno, avrebbe assunto l’importanza che ha oggi, se non si fosse perduta la guerra. Altrettanto si dica delle altre manifestazioni regionalistiche. L’istituzione dell’Ente regione viene considerata come una panacea per tutti i mali di cui soffre o ha sofferto il popolo italiano. Ma questo sarebbe comprensibile se la catastrofe in cui siamo caduti fosse una conseguenza della struttura unitaria e centralizzata dello Stato, o se questa struttura ne fosse stata almeno una delle cause; mentre è difficile sostenere che il fascismo, che fu uno dei maggiori responsabili della seconda guerra mondiale, non sarebbe sorto in una Italia avente una struttura statale federalistica.

Questi nuovi «ismi» sono, a suo parere, un malanno derivato dalla guerra e da una guerra perduta, senza la quale non sarebbe mai sorta l’idea – propugnata con tanto fervore e con tanta urgenza – di spezzettare l’Italia in regioni più o meno autonome. Si poteva sentire il bisogno di semplificale o decentrare l’amministrazione statale (sono vecchi problemi di cui si è sempre parlato); ma nessuno avrebbe pensato sul serio a realizzare una struttura regionale, il cui inevitabile risultato sarebbe quello di accentuare i sentimenti regionalistici già oggi esistenti.

Si rimprovera agli italiani di essere eccessivamente individualisti e campanilisti: orbene, il regionalismo è un sentimento egoistico che si estende ad un orizzonte più ampio, ma è pur sempre della medesima natura gretta e meschina.

Vi sono divisioni di animi che la guerra ha accentuato e forse la difficoltà nelle comunicazioni di idee, cose e persone, vi ha contribuito (vi sono stati periodi di tempo in cui in fatto di comunicazioni stradali, postali, telegrafiche eravamo tornati indietro di un secolo): queste privazioni, queste difficoltà, sembra che ci abbiano fatto tornare indietro anche con la vita e con i sentimenti. Il Nord inveisce contro il Sud, le Isole contro il Continente. Questo esacerbarsi di sentimenti regionalisti è certamente un male, ma, abbandonato a se stesso, sarebbe un male passeggero, mentre ora, senza volerlo, ci si accinge a cristallizzarlo in forme che non potranno più mutarsi.

Se, facendo appello all’unione di tutti gli italiani, si avviasse il Paese alla rinascita, fra qualche tempo ci troveremmo guariti di quel male, così come nel 1921-1922 eravamo già guariti dei mali di quel dopoguerra. E invece ci si propone di congegnare la Carta fondamentale dello Stato italiano in maniera da renderlo permanente.

Sa che alla maggior parte dei colleghi queste idee faranno una impressione sfavorevole, e soprattutto si duole di avere su questo  punto un pensiero così completamente opposto a quello dell’onorevole Zuccarini; ma non può tacere, anche se lo si dovesse tacciare di essere un ostinato conservatore, per quanto sarebbe erroneo vedere le sue idee sotto questa luce.

Egli è profondamente convinto della necessità di unificare tutto il mondo, se si vuol salvare l’umanità dall’immane catastrofe che è la guerra moderna.

Dividendo l’Italia in regioni, sia pure coordinate fra loro da uno Stato centrale, si marcerebbe a ritroso. La divisione del Paese in regioni autonome, che, sia pure solo in parte, si diano da se stesse leggi e si amministrino, è un regresso, non già un progresso.

Giudica assai debole l’argomento dell’onorevole Lussu, secondo cui la Sardegna è distante dal continente più che non Malta da Londra. Vero che le comunicazioni con la Sardegna sono oggi difficili e insufficienti, ed erano inadeguate ai bisogni dell’Isola anche prima della guerra; ma questo è un fenomeno transitorio. L’abolizione delle distanze nel mondo moderno costituisce la grande forza unificatrice delle comunità umane, e non è possibile ammettere che un’isola, la quale, con i mezzi di trasporto attuali, dista un’ora o forse anche mezz’ora soltanto dal continente, possa avere una vita quasi indipendente.

Circa gli Stati Uniti d’America, che sono stati citati più volte, osserva che quell’unione è dovuta al fatto che quando di quegli Stati si formarono i primi nuclei, già esisteva la trazione a vapore, la quale costituì la forza unificatrice. Se Giacomo Watt e Stephenson fossero vissuti mezzo secolo più tardi, anziché una confederazione in cui la autorità del governo centrale federale di continuo va aumentando, si sarebbe avuta un’America spezzettata in tanti stati, con lingua e costumi diversi, l’uno contro l’altro armati come in Europa.

Nel secolo in cui la distanza fra Paese e Paese è praticamente annullata, ed in cui, per questo stesso fatto, l’economia di un Paese è intimamente collegata a quella dell’altro, non si può pensare a dividere l’Italia in tante regioni autarchiche, fra le quali inevitabilmente sorgerebbero antagonismi: è profondamente erroneo pensare che da una divisione di forze si possa attendere un maggiore sviluppo economico delle singole regioni. L’unità economica del mondo, sia pure nella forma più caotica, è già un fatto reale, e la sola meta che gli uomini dovrebbero proporsi è quella di comporla in una forma organizzata. Ed invece in Italia si vorrebbero ora creare tante economie, separate o quasi.

Con l’istituzione di regimi autonomi si corre il rischio di elevare delle barriere, sia pure ideali, fra italiani, quando si dovrebbe invece unirli sempre più fra di loro. In una dieta regionale siciliana, sarda o piemontese si potrebbe perfino vedere elevata a lingua ufficiale il dialetto locale. Non sarebbe certo questo un progresso, e sarebbe, se mai da desiderare che tutti i popoli del mondo parlassero, se possibile, una medesima lingua, affinché potessero meglio intendersi ed affrettarsi fra loro, realizzando così l’ideale cristiano.

L’Italia oggi è unita e questa unità è stata penosamente conquistata con lo sforzò di generazioni, ed ora si vorrebbe disfare quel lavoro. Si lamenta che sia un Paese povero, e si insiste nel dire che questa povertà è la causa prima di molti mali, e come rimedio si propone, non già una più stretta unione, una più stretta collaborazione, come sarebbe logico, ma una divisione.

Con l’istituzione dell’ente regione si vorrebbe da un lato attuare un migliore sviluppo economico delle varie regioni, e dall’altra lato eliminare dalla vita politica l’oligarchia costituita da centri legislativi e burocratici che la governano. Ma il dividere l’Italia in regioni autonome non avrà altro risultato che quello di moltiplicare le oligarchie e con esse il danno che producono.

Certamente nessuno vuole perpetuare lo stato di cose attuale. L’amministrazione statale è divenuta una macchina pesante, mostruosamente complicata, e per giunta corrotta, ciò che in gran parte è anche conseguenza della guerra: ma allora si tratta di semplificare il meccanismo statale, di renderlo efficiente, e di eliminarne la corruzione; e questo non si ottiene complicandolo ancora più, come inevitabilmente avverrebbe se si istituissero dei governi regionali.

È noto, ad esempio, che la S.E.P.R.A.L. è un ente generatore di corruzione. Ebbene; se non si è capaci di purificarlo e di farlo veramente servire agli interessi della collettività anziché a quelli di singole persone, lo si sopprima. Certo non si rimedierebbe a questo danno, creando una S.E.P.R.A.L. in ogni regione, moltiplicando cioè per otto o per dieci il numero di questi deleteri organismi.

Così, pure, per i Provveditorati dei lavori pubblici. Qualcuno ha detto che la loro istituzione non costituisce un effettivo decentramento, ma piuttosto una complicazione, perché le vie che una proposta deve percorrere prima di essere approvata sono aumentate e non già diminuite. Forse questo non è esatto: vi sono oggi molto meno complicazioni di una volta. Comunque, la ragione per cui i Provveditorati non funzionano bene è un’altra: è la mancanza di personale capace, competente, ben pagato, ecc.

Il problema, cioè, è solo quello di riformare l’amministrazione statale, per renderla più semplice e più efficace, per eliminare gli eccessivi ed inefficaci controlli.

Può comprendere l’autonomia dei comuni, purché non sia eccessiva. È bene concedere la autonomia alle grandi città; ma non ha senso l’autonomia per tanti comuni del Mezzogiorno che, per l’inerzia, la passività e la scarsa educazione, talvolta, degli abitanti alla vita pubblica, non sanno amministrarsi. Se un comune è privo di fognatura, di acqua, di cimitero, non è con l’autonomia che si provvederà a questi bisogni fondamentali, non fornendo ad essi i mezzi e curando che questi mezzi siano bene spesi.

Si è addotto l’esempio dei piani regolatori che bisognerebbe lasciar decidere ed eseguire ad ogni singola città. Ma il Governo centrale dovrà pur dettare talune norme che salvaguardino, ad esempio, la salute pubblica, o che concernano la conservazione di monumenti nazionali. Se il problema edilizio di un paese, o la costruzione di una strada comunale, o di una scuola, o di un cimitero si possono riguardare come problemi locali, la cui risoluzione può esser lasciata all’ente locale, i problemi di una regione non sono mai di interesse soltanto regionale, ma investono anche l’interesse nazionale. La bonifica delle paludi pontine è un problema che interessa non soltanto il Lazio, ma tutta Italia. La trasformazione della costa salernitana, che vi richiami turisti dalle varie parti del mondo, è problema che interessa non solo il Mezzogiorno, ma tutta Italia. Le saline e le miniere della Sardegna interessano non solo quelle regioni ma tutto il Paese. Si è detto che le scuole elementari dovrebbero rientrare nella competenza delle singole regioni; e invece queste scuole, se fosse possibile, dovrebbero avere una regolamentazione non solo nazionale, ma addirittura mondiale.

È quindi recisamente contrario alla divisione dell’Italia in tanti enti autonomi regionali e crede che il problema da porsi e da risolversi sia solo quello di semplificare e decentrare l’amministrazione statale. È stato ricordato che quando il Regno delle due Sicilie si riunì al resto dell’Italia, esso versò nelle casse del nuovo Stato una riserva aurea di 450 milioni di lire-oro, che servì per compiere lavori pubblici nel nord. Ma non si ripara a questa ingiustizia abbandonando il Mezzogiorno perché faccia da solo. È un non senso volere che l’economia regionale si sostituisca a quella nazionale. E quando si dice che le regioni più ricche dovrebbero dare a quelle più povere, non si pensa che questo si può fare senza difficoltà nello stato unitario centralizzato, e lo si fa, mentre in uno stato federalistico darebbe luogo a difficoltà, attriti, antagonismi.

Inevitabile conseguenza delle economie regionali sarebbe questa, che aumenterebbe la distanza fra le regioni più progredite e quelle meno progredite; una Lombardia ricca, prosperosa, più avanzata anche nella vita sociale e culturale, si lascerebbe dietro, a distanza sempre più crescente, una Calabria o una Lucania, povera ed arretrata.

Per queste ragioni la sua avversione alla istituzione delle regioni, che viene presentata con colori tanto attraenti, è invincibile. Più saggiamente si agirebbe se venisse potenziato l’ente provincia, accrescendone le attribuzioni e rendendolo autonomo, per quanto è possibile. Che se poi si volesse dare una voce autorevole agli interessi peculiari di ogni regione, questo si potrebbe conseguire senza pericolose improvvisazioni, creando delle assemblee regionali, di carattere tecnico, economico, con funzione consultiva obbligatoria per il Governo centrale, e anche con facoltà di prendere l’iniziativa per leggi da proporre alla Assemblea legislativa statale. Esorta quindi i colleghi a meditare bene prima di decidere, perché l’istituzione della regione è un passo grave del quale un giorno potrebbe venire il pentimento. Non vi è alcun bisogno di introdurre nella Costituzione dell’Italia democratica novità che possono essere pericolose. La ricostruzione del Paese si fa unendo tutti i cittadini più strettamente che mai gli uni agli altri e non già approfondendo le divisioni prodotte dalla guerra, che anche da questo punto di vista ha riportato l’Italia ad un secolo addietro.

AMBROSINI, Relatore, ricorda di avere prospettato i problemi nel modo più semplice e più obiettivo possibile. L’onorevole Lussu, pur riconoscendo l’obiettività della esposizione, ha creduto rilevare in questa una propensione, del resto naturale, verso la creazione di un Ente regionale, dotato di personalità giuridica e di diritti propri, sanciti nella Carta costituzionale e garantibili in sede giurisdizionale. In realtà la Sottocommissione sembra orientarsi in questo senso e, salvo le posizioni estreme, pare sia desiderato da tutti un termine, il quale porti all’avvicinamento; e forse vi si arriverà. Peraltro, è fuori dubbio che tutti tendono a potenziare le energie nazionali, a valorizzare quanto è indispensabile per la ricostruzione, la quale non può essere che nazionale e basata, come diceva l’onorevole Grieco, sulla solidarietà nazionale. Si tratta soltanto della scelta dei mezzi più adeguati per raggiungere questo scopo.

L’onorevole Mortati sostanzialmente disse la stessa cosa dell’onorevole Grieco, perché impostò così il suo problema: occorre anzitutto stabilire che cosa vogliamo. Quando sia stabilito quello che vogliamo, si sceglieranno i mezzi più adeguati per giungervi. E questo è necessario, perché, se per avventura questi mezzi non fossero o non risultassero rispondenti allo scopo, si compirebbe fatica inutile e forse anche dannosa.

Ora, nei problemi della riforma, della struttura o dell’amministrazione dello Stato, bisogna evitare il danno dell’accentramento, ricercando mezzi più adeguati, nel campo economico e nel campo politico, per eccitare e sospingere le energie locali, che attualmente sono compresse, mortificate. Gli inconvenienti esistevano già prima del fascismo, a causa dell’ingerenza politica dei Deputati nelle pubbliche amministrazioni e sui prefetti, di questi sugli enti locali e del governo centrale su tutti.

Quindi il problema va riguardato dal punto di vista economico-sociale ed anche da quello politico. Sì debbono tener di mira questi due fini e vedere se la soluzione regionale può portare, se non alla scomparsa dei mali, almeno alla loro attenuazione, ed alla restituzione alle amministrazioni locali, da un lato, ed ai deputati eletti all’Assemblea Nazionale, dall’altro, della vera libertà di compiere il proprio dovere, senza interferenze di natura politica ed amministrativa, che portano ad una servitù ed a una tirannia reciproca.

Il Relatore dice che si è sforzato di non lasciarsi guidare da pregiudiziali teoriche, in modo da riguardare i fatti ed impostare le questioni secondo la realtà effettiva, i bisogni più direttamente sentiti, le eventuali proposte più adeguate alla eliminazione degli inconvenienti o dei mali accennati. Ora – salvo alcune posizioni estreme – da quasi tutti i settori sembra si sia disposti al riconoscimento della necessità, o della opportunità della creazione, del riconoscimento o della utilizzazione della regione, considerata da taluno dal punto di vista del decentramento istituzionale autarchico, cioè da un punto di vista che va più in là del decentramento burocratico, e da altri, invece, da un punto di vista non solo amministrativo, ma anche costituzionale, cioè dal punto di vista dell’autonomia, che si usa dire politica per distinguerla dall’amministrativa; di quella autonomia, nella quale la regione ha diritti propri fondamentali, sanciti e garantiti dalla Costituzione.

Il Relatore nota che la prima soluzione che si presenta, nel caso che si adotti in via di massima l’istituto regionale, è quella di applicarlo integralmente allo Stato, dividendone in regioni tutto il territorio.

Nel caso, invece, che non si adotti questa soluzione generale, sarà da decidere se la regione possa essere costituita secondo l’esempio dato dalla Costituzione spagnola del 1931: cioè, a richiesta delle popolazioni interessate. La Costituzione spagnola dice che lo Stato spagnolo è composto dai comuni raggruppati in provincie o da regioni autonome, che eventualmente si costituiscano ed aggiunge che una provincia, la quale in un primo tempo abbia chiesto di far parte di una regione e che si sia quindi sottratta alla compagine amministrativa dello Stato, può chiedere il ritorno al suo precedente stato giuridico di provincia, cioè, dello Stato. È un esempio di Costituzione nella quale l’Ente regione può esistere e può non esistere, nella quale la provincia può essere aggregata direttamente alle dipendenze dello Stato, e può invece essere aggregata alla regione.

È stato detto che per lo meno per quattro regioni – la Sicilia, la Sardegna, la Vai d’Aosta e il Trentino – l’autonomia ormai deve considerarsi cosa acquisita. Per due di queste regioni ci sono già degli ordinamenti stabiliti. Per la Sardegna esistono un Alto Commissario e una Consulta regionale che in fatto ha attuato una forma di autonomia. Per il Trentino l’esigenza è anche maggiore, per ragioni non solo interne ma anche internazionali. L’ex Ambasciatore inglese a. Roma, Lord Perth, ha detto alla Camera dei Comuni che, se le ventuno Nazioni non adotteranno la soluzione dell’annessione all’Austria, il Tirolo meridionale dovrà avere la più ampia autonomia. Comunque sia, il sistema potrebbe consistere nella concessione della autonomia a determinate regioni, per le quali essa è assolutamente necessaria, se si vogliono guardare le cose dal punto di vista della realtà.

Per quelle alle quali è stata già concessa, e specie per la Sicilia, l’autonomia deve considerarsi irrevocabile. Per altre regioni dovrà necessariamente arrivarsi ad una identica soluzione.

Data la situazione particolare di talune regioni, come quelle suaccennate, e l’opportunità che a tale particolare situazione si adegui il rispettivo statuto, sorge la questione se sia conveniente e financo possibile (nel caso che l’istituto regionale si applichi per tutto il territorio dello Stato) che venga adottato uno statuto uniforme per tutte le regioni.

Il Relatore dice che in via di massima potrebbero dettarsi nella Costituzione i principî fondamentali, lasciando poi alle Regioni, e precisamente alle Assemblee rappresentative regionali, la possibilità di elaborare specificamente lo statuto in modo più rispondente ai propri bisogni; statuto che dovrebbe essere sottoposto all’approvazione del potere legislativo dello Stato.

Venendo ad esaminare le materie da affidare alla competenza specifica delle regioni, salvo a vedere poi se debba usarsi una formula o l’altra, osserva che si tratta di quel gruppo di materie che interessano principalmente gli affari locali, pur ammettendo che con questa distinzione non ponesi un criterio assoluto e che occorre sempre un criterio relativo e di opportunità per giudicare la prevalenza dell’interesse locale, perché l’interesse nazionale esiste sempre, non è isolabile. Si tratta di vedere qual è l’interesse prevalente, se quello locale o quello nazionale. E là dove sia decisamente stabilito che l’interesse prevalente è quello locale, potrebbe senza alcun danno concedersi alla regione anche la potestà legislativa.

Per venire al concreto, senza lasciarci fuorviare da esempi di legislazioni straniere dalle quali è necessario differenziarsi, sottopone all’attenzione dei colleghi una distinzione dal punto di vista generale, e poi una indicazione di materie dal punto di vista particolare.

Dice che due potrebbero essere i gruppi di materie da affidarsi alla competenza normativa della regione: materie di competenza legislativa primaria, e materie di competenza legislativa secondaria o integrativa.

Non parlerebbe di legislazione esclusiva, perché è questo un termine che può suonare troppo rigido: parlerebbe piuttosto di legislazione primaria, e non userebbe altre specificazioni, restando inteso che il primo gruppo di materie dovrebbe competere alla regione, perché sono materie di prevalente interesse locale; aggiungendo che sino a quando l’Assemblea regionale non avrà legiferato su tali materie, resteranno naturalmente in vigore le norme della legislazione nazionale.

Un secondo gruppo di materie potrebbe dar luogo alla legislazione secondaria, per cui la regione legifera secondo le norme di principio segnate dalle leggi dello Stato. Non sarebbero norme di sola attuazione, norme regolamentari: sarebbero vere e proprie leggi, naturalmente nel quadro dei principî fondamentali stabiliti dalla legislazione nazionale.

Detto questo in via generale, passando alle specificazioni, prospetta a titolo puramente indicativo la formula seguente:

«1°) La regione ha potestà legislativa nelle seguenti materie (e questa potrebbe essere la legislazione primaria): agricoltura e foreste, strade, ponti, comunicazioni, porti, lavori pubblici in generale, con esclusione delle opere di interesse nazionale, acquedotti, pesca e caccia, urbanistica, antichità e belle arti, turismo, istruzione elementare, scuole tecniche e professionali, pubblica beneficenza, ordinamento degli uffici regionali.

Osserva che vi sono materie per le quali è molto difficile decidere. Nella prima redazione della formula aveva indicato, dopo «agricoltura e foreste», anche «industria e commercio», ma non si dissimula che nei riguardi di questo ramo di attività possono esservi elementi che interferiscono con l’interesse di altre regioni o addirittura di tutta la Nazione; per il che potrebbe essere opportuno includerle nel secondo gruppo.

Ricorda che per il regime minerario è stato affermato che la sua unificazione ha fatto buona prova. Potrebbe vedersi se non sia il caso di collocare queste materie nel secondo gruppo, perché sembra fuor di dubbio che, pur potendo essere opportuno un criterio di massima generale che regoli la materia, le singole regioni hanno delle esigenze particolari per ragioni obiettive e per ragioni psicologiche particolari.

Per il secondo gruppo, ha considerato due modi diversi di prospettare la norma tenendo conto delle esigenze diverse e quasi delle pregiudiziali diverse. Una dizione potrebbe essere la seguente:

«2°) Entro i limiti della legislazione di principio emanata dallo Stato, compete alla regione la potestà legislativa nelle seguenti materie…».

La seconda dizione sarebbe questa:

«2°) La regione può dettare norme legislative per le seguenti materie, in armonia alle norme di principio rispetto ad esse fissate nelle leggi dello Stato».

Le materie sarebbero: rapporti di lavoro; riforme economiche e sociali; disciplina del credito, delle assicurazioni, del risparmio; istruzione media e superiore; igiene e assistenza sanitaria; ordinamento degli enti locali; ecc.., e le altre materie di interesse prevalentemente regionale (da indicarsi).

Ritiene che potrebbe attribuirsi alla Giunta regionale il potere regolamentare. Ha accennato in via generale ai gruppi di materie specifiche per rispondere alle sollecitazioni di alcuni colleghi; ma crede necessario che la precisa indicazione delle materie di competenza legislative della regione sia affidata ad una sezione della Sottocommissione.

MORTATI ritiene opportuno precisare i limiti della discussione. La determinazione delle materie da attribuire ad un eventuale ente decentrato non gli sembra sia da fare in sede di discussione generale: questo si dovrebbe discutere dopo.

CONTI concorda; tuttavia crede fosse necessario accennare al problema della competenza della regione perché, in sostanza, si può concretare un pensiero intorno all’autonomia secondo l’idea che ci si forma della competenza della regione..

FINOCCHIARO APRILE ricorda che riguardo alla Sicilia esiste già uno statuto pubblicato anche sulla Gazzetta Ufficiale. Non sa se questo decreto sia entrato o stia per entrare in attuazione; sa che sono stati interpellati alcuni organi consultivi dello Stato per sapere se il Parlamento siciliano – conseguenza di questa autonomia – debba essere eletto e convocato. In quello sono indicate moltissime delle cose di cui si sta occupando la Sottocommissione.

Domanda ora se questa può continuare ad occuparsi di autonomia per quanto riguarda la Sicilia, quando vi è già uno statuto che è diventato una legge dello Stato, o se ha competenza per chiedere modificazioni dello statuto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.

Prega il Presidente di interpellare il Governo circa l’entrata in vigore di quel decreto, per chiarire il fatto strano che lo si sia emanato alla vigilia della riunione dell’Assemblea Costituente alla quale è così tolto, in certo senso, il diritto di legiferare su questa materia.

PRESIDENTE avverte che la Sottocommissione non è investita della discussione del problema della Sicilia, ma del problema nazionale, di cui la Sicilia rappresenta una parte. Ritiene che, di fronte alla Costituzione, tutte le leggi già emanate siano suscettibili di modificazione, e ricorda che nel decreto col quale viene emanato lo statuto della regione siciliana, un inciso stabilisce che quello statuto sarà sottoposto all’Assemblea Costituente per essere coordinato con la nuova Costituzione. Quindi è naturale che se ne parli.

Eventualmente l’onorevole Finocchiaro Aprile potrà rivolgersi direttamente al Governo per chiedere i chiarimenti del caso. I poteri della Costituente in relazione allo statuto siciliano sono indicati da quell’inciso ed è questa la sola base sulla quale la Sottocommissione si può porre. La stessa questione potrebbe sorgere anche per tutte le altre leggi che sono passibili di modificazione, ma che intanto sono applicate.

FUSCHINI ritiene necessario che la Sottocommissione abbia idee molto chiare e precise su quello che dovrà essere il progetto da sottoporre all’Assemblea Costituente. Essa deve dare all’Assemblea Costituente la sensazione che quello che propone costituisce un progetto ponderato, nel quale le diverse tesi hanno trovato un punto di comune consenso.

Come si è già detto, lo Stato italiano è oggi afflitto da un accentramento che ha soffocato gli enti locali e non ha loro consentito di dare tutto il rendimento possibile e che quindi bisogna orientarsi verso un decentramento delle funzioni e della attività amministrativa statale.

Questo è il punto fondamentale: si soffre di un accentramento burocratico, amministrativo, di funzioni, per cui il comune e la provincia non hanno avuto la possibilità di vivere ed i cittadini italiani hanno dovuto sempre subire la volontà della amministrazione centrale. Ma non si tratta di un’esigenza che possa essere suddivisa tra le regioni del sud e quelle del nord, fra Sicilia, Sardegna e Val d’Aosta; è un’esigenza di tutto il Paese. È una esigenza sentita da tutte le provincie. Il voler fare una distinzione tra le provincie che vogliono essere costituite in regione e quelle che non lo vogliono è un errore iniziale che bisogna evitare.

Si deve dare un nuovo ordinamento allo Stato e occorre prospettare alle popolazioni quello che secondo l’orientamento che deriva dalle discussioni può apparire il sistema migliore, affinché il male della centralizzazione scompaia dalla vita amministrativa del nostro Stato. Se si ammettesse la facoltà delle provincie di costituirsi o meno in regione, si creerebbe un tale stato di diversità di rapporti politici, economici ed amministrativi, per cui sarebbe difficile farne una sintesi e si avrebbero delle provincie che rimarrebbero allo stato in cui si trovano, senza nessun giovamento. Lo Stato deve essere unitario ed avere una sua organizzazione uniforme e si deve, invece, arrivare al decentramento, non soltanto per favorire determinati interessi locali, ma soprattutto per un interesse di carattere generale dello Stato, che svolgerà così nel modo migliore i propri compiti.

L’idea di una confederazione di Stati gli appare una fantasia, perché, se è già difficile arrivare alla costituzione dell’ente regione, sarebbe ancora più difficile arrivare alla costituzione di stati regionali. Né è possibile ricostituire i sette stati italiani come erano prima del 1859. Sarebbe una incongruenza storica e una creazione artificiosa.

La sua affermazione che la regione non può essere facoltativa, ma deve essere determinata da una norma generale della Costituzione, rispecchia una reale necessità di organizzazione: altrimenti si avrebbe un mosaico di organizzazioni statali contrario a quello spirito moderno, che tende al raggiungimento del massimo risultato col minimo mezzo. Si deve avere, dunque, una norma uniforme per tutto il territorio dello Stato e, se mai, si potrà tener presente che vi sono regioni con particolari caratteristiche, come la Sicilia, la Sardegna e la Val d’Aosta, che meritano ogni considerazione.

Se si ammettesse la regione facoltativa, si verrebbe meno anche ad un’altra esigenza di carattere costituzionale. Riferendosi al sistema bicamerale, al quale il partito cui egli appartiene è favorevole, e attribuendo al Senato una forma elettiva, osserva che una delle basi elettorali per la creazione del Senato è appunto la costituzione della regione.

Crede che si debba poi andare molto cauti quanto alla potestà legislativa della regione e che sarebbe opportuno sottoporre questo argomento ad un esame molto attento della Sottocommissione.

È favorevole alla limitazione dei compiti e delle materie da assegnare alla competenza dell’ente regione, salvo una disposizione che consenta, dopo un esperimento, di aumentare tali compiti, allo scopo di poter procedere gradualmente nella organizzazione del nuovo ente. Si può discutere molto su questo; ma, avendo vissuto anche negli uffici ministeriali, egli sa quanto sia difficile creare e fare muovere degli organismi burocratici che rispondano a determinate esigenze, particolarmente se nuovi.

A proposito del mantenimento della provincia è stato detto che è sufficiente, come organo intermedio tra il comune e lo Stato, la regione. Il comune dovrà essere valorizzato più di quanto non lo sia stato finora. L’autonomia comunale è un dato di diritto che deve diventare una realtà. Si deve dare al comune una efficienza di carattere amministrativo, che rispecchi una maggiore libertà e una maggiore responsabilità da parte degli amministratori; il che potrà dare una nuova spinta realizzatrice all’attività comunale. Ma non crede si possa dall’attività comunale andare direttamente a quella regionale; né è questa, come potrebbe sembrare, una contraddizione. Il nucleo provinciale oggi è un dato di fatto e un dato di diritto, per eliminare il quale si dovrebbero compiere sforzi eccessivi e dispendiosi, giacché le riforme vanno riguardate non soltanto per quello che creano, ma anche per le reazioni che producono. Bisogna stare attenti alla forza delle reazioni che sarebbero provocate dalla soppressione della provincia come ente giuridico autarchico.

Non crede sia necessario, per creare la regione, abolire la provincia come ente autarchico. Può riconoscere che le prefetture vanno, in certo senso, abolite per quanto bisogna riconoscere che il potere centrale, specialmente per le questioni di ordine generale e pubblico non potrà fare a meno di tenere un suo rappresentante in determinati centri della periferia, regionale o provinciale, perché non potrà rimanere all’oscuro di tutto quello che avviene nelle province: esso deve poter provvedere allo stesso ordine pubblico, e vigilare se tutti gli organismi locali funzionino dal punto di vista politico e amministrativo così che siano salvaguardati gli interessi generali della Nazione e quindi anche quelli locali. Quando siano affidati alla regione determinati servizi, come strade, trasporti, igiene, se questi servizi non funzionano, bisogna che l’organo centrale ne sia informato. Quindi, il potere centrale deve vigilare costantemente e vigilare non vuol dire impedire agli organi locali di agire, ma vedere se adempiano alle funzioni loro demandate dalla legge.

Esclude che il controllo di legittimità debba rimanere affidato ai prefetti, potendo essere affidato ad un organismo diverso dalla prefettura, ad un organismo elettivo e nello stesso tempo burocratico, che non abbia funzione politica, come è la Corte dei conti per i Ministeri.

Ripete che sopprimere la provincia significherebbe, a suo avviso, determinare un grande disordine nella vita del Paese. Una decisione recisa che togliesse alla provincia la sua personalità giuridica, farebbe rimanere però degli uffici, che non avrebbero più l’autorità necessaria per soddisfare le esigenze delle popolazioni, che desiderano essere qualche cosa nella amministrazione degli enti locali.

L’amministrazione provinciale potrà essere riveduta e modificata secondo i dati della esperienza, ma dovrà rimanere per una migliore tutela degli interessi locali.

La provincia è diventata un centro economico, un centro amministrativo, un centro commerciale, un centro di confluenza di interessi i più svariati ed i più attinenti alla vita delle popolazioni. Distruggendola nella sua vitalità, nella sua essenza di ente giuridico, rimarrebbe un organismo privo di quella consistenza amministrativa, che sarà necessaria anche per soddisfare alle esigenze della regione. Non si deve creare la regione per sottrarre dei compiti alla provincia, ma per dare ad essa compiti nuovi. Come il comune esercita funzioni proprie dello Stato, così la provincia potrà esercitare funzioni proprie della regione, se non dello Stato. Si deve creare la regione togliendo delle attribuzioni, e delle funzioni allo Stato. Quindi, il proposito di abolire la provincia deve essere meditato. È vero che nel provvedimento per la Sicilia le province risultano abolite; ma ciò ha suscitato delle reazioni piuttosto gravi e non è il caso di provocarne in tutto il territorio nazionale. Proprio quando si ha bisogno della massima tranquillità nelle popolazioni non si devono creare ragioni di turbamento. Gli sembra un principio di sana politica portare innovazioni che non creino dissapori e contrasti tali da mettere in pericolo l’ordine pubblico.

Il problema della finanza è gravissimo per la regione, ma non crede sia il caso di preoccuparsene molto, perché è tutto il sistema tributario che va riveduto; e va riveduto in modo tale da avere un’unica imposizione, un unico accertamento ed una distribuzione dei proventi tributari in maniera rispondente alle esigenze della regione, in rapporto alle spese che la regione sopporterà per i servizi già svolti dallo Stato.

Naturalmente le regioni, come i comuni, potranno applicare tasse speciali per i servizi che esse renderanno ai cittadini. La finanza locale dovrebbe quindi essere riveduta in senso regionale.

Conclude osservando che il problema dei controlli non può essere eliminato, né lo potrebbe anche se si volesse, per ipotesi, eliminare del tutto il controllo dello Stato. Ricorda che nel progetto elaborato dalla Commissione per la riforma della pubblica amministrazione è prevista la istituzione di una Commissione di controllo regionale elettiva. Vi potranno poi essere forme di controlli con ispezioni così dette volanti, che sono le più idonee alle esigenze di una buona amministrazione. Snellire e semplificare il controllo è utile; ma sarebbe un errore l’abolirlo; lo stesso errore in cui è caduto il fascismo: il controllo della Corte dei conti sui bilanci dello Stato non era efficiente, perché era sopraffatto e continuamente violentato dal potere politico. Occorre invece il controllo, tanto al centro quanto negli organi locali, indipendente dall’amministrazione, perché l’amministrazione è elemento attivo e non può controllare se stessa. Bisogna che il controllo sia esplicato da un organo distinto e superiore all’amministrazione attiva, così per i comuni, come per le province e per le regioni.

(La seduta, sospesa alle ore 19, è ripresa alle ore 19.15).

BORDON non è dell’avviso dell’onorevole Nobile, il quale ha prospettato una quinta soluzione, mentre l’onorevole Tosato ne aveva prospettato quattro: centralista, federativa, Stato federale, Stato regionale. Quella sostenuta dall’onorevole Nobile risponderebbe alla prima domanda e cioè se si debba rimanere allo statu quo. Ora, sembra che tale questione sia ormai sentita da tutti come superata. Non crede che si senta soltanto ora il disagio dell’accentramento, disagio che era una realtà acquisita anche molto tempo prima del fascismo. Nel 1860-61 si era creduto di disattendere le voci che si richiamavano alla necessità di un decentramento federativo; ma si è poi veduto che l’accentramento non rispondeva agli scopi nazionali. Già in uno studio del Sighele, sulla gente nostra, si diceva che era un errore aver voluto fare l’italiano di tipo unico ed è un errore l’aver voluto accentrare, mentre le regioni sono molto diverse le une dalle altre. Non si tratta dunque di una necessità che sorga oggi, ma di una necessità già sentita da molto tempo; una necessità che poi si è andata accentuando e che ora è intensamente sentita per particolari circostanze.

Il fascismo non ha fatto altro che accentuare e peggiorare l’accentramento: perciò egli non può accogliere la soluzione dell’onorevole Nobile. Non si tratta di dividere, come egli ha detto, il sistema unitario della Patria; si tratta di dividere soltanto l’amministrazione: la divisione non tocca che l’apparato amministrativo, non il Paese, sul cui concetto unitario tutti sono d’accordo.

Scartata quindi senz’altro questa soluzione che pare non risponda alla situazione e alle esigenze della Nazione, rimarrebbero in sostanza le tre altre soluzioni.

Crede che a ragione l’onorevole Lussu abbia sollevato la questione federativa come un problema che va esaminato. La Costituente deve dare una Costituzione allo Stato e non può assolvere questo incarico gravissimo ed importantissimo se non dopo aver esaminato tutti gli aspetti del problema, fra cui anche quello federativo.

Col federalismo non crede si possa arrivare agli estremi cui è arrivato l’onorevole Finocchiaro Aprile; non crede sia oggi possibile fare una Confederazione di Stati, perché bisognerebbe far risorgere gli Stati italiani. Questa soluzione estrema non risponde alle esigenze del Paese, e sarebbe anche difficile ad attuarsi; creerebbe disagi e inconvenienti molto gravi.

Ma quando si parla di federalismo, non è detto si debba intenderlo soltanto nel senso di una confederazione di grandi stati: lo si può attuare anche sotto altre forme ed esattamente è stata ricordata la Repubblica austriaca, che attua appunto il principio federale con le sue diete federali, e giustamente è stato pur rilevato come lo Stato federale sia qualche cosa di diverso dalla Confederazione di Stati. In altre parole, non bisogna far confusioni fra il federalismo e le applicazioni che ne possono derivare: sarebbe esprimere un concetto semplicistico individuare nel federalismo soltanto la possibilità di Confederazioni di grandi Stati, dato che vi possono essere anche altre forme federali.

Lo Stato federale va esaminato sotto un punto di vista pratico. Poiché dobbiamo dare una nuova Costituzione allo Stato, è venuto il momento di dargli una Costituzione a largo respiro, veramente democratica, degna di questo nome. Senza pronunciarsi sul problema se si debba scartare senz’altro l’idea federale, esorta ad esaminarla, per vedere se sia possibile una proposta che si adatti alla nuova Costituzione. Personalmente ritiene che lo Stato federale, se fosse uno Stato unitario con diversi cantoni, potrebbe rappresentare una soluzione, perché se vi sono nel nostro Paese delle regioni che non hanno raggiunto una maturità democratica, ve ne sono per contro altre democraticissime e che potrebbero adattarsi benissimo al nuovo assetto di Stato federativo formato a cantone. E non vede come a priori si possa dire che questo rappresenterebbe un inconveniente. Non sarebbe neppure un salto nel buio, ma una riforma che avrebbe già larghe premesse democratiche, sovrattutto nel nord Italia. Né sarebbe leso il concetto unitario. Non si potrebbe avere alcun timore in questo senso in Italia, ove esiste una Nazione sola, quando lo Stato federale elvetico, costituito da tre nazioni, ciò nonostante, secondo che un’esperienza secolare dimostra, ha risposto, anche attraverso duri cimenti cui è stato sottoposto, alle esigenze del Paese.

Sotto il punto di vista locale della Val d’Aosta, questo concetto ha già trovato qualche richiamo: in una «carta» che fu redatta il 19 dicembre 1943, in periodo cospirativo, allorché le Valli alpine si erano pronunciate per uno Stato federale, si auspicava che il futuro Stato italiano venisse organizzato con criteri federalistici, fosse, cioè, costituito da unità amministrative e politiche autonome sul tipo cantonale. Non è quindi un’idea nuova: è stata sostenuta già da tempo e sarebbe consigliabile, perché risponderebbe ai bisogni particolari della Val d’Aosta, dare a questa un potere normativo assai più esteso di quello che si potrebbe avere con una semplice autonomia.

Comprende che possano aversi delle opposizioni all’idea dello Stato federale formato in cantoni: vedrà l’Assemblea se questa sia una proposta accettabile. Se non dovesse accoglierla, evidentemente non si potrebbe sostenere uno Stato federale soltanto per la Val d’Aosta, e quindi si dovrebbe lasciar cadere la proposta, alla quale del resto ritiene che le altre regioni italiane dovrebbero essere favorevoli. Il nostro Paese è profondamente diverso da zona a zona, e proprio per questo motivo l’accentramento ha avuto un esito fallimentare. Uno Stato cantonale risponderebbe alla diversità delle esigenze da regione a regione. Comunque, se questa soluzione sarà scartata, si ripiegherà sul piano dell’autonomia.

La Val d’Aosta ha già avuto un’autonomia che è in attuazione, ma vorrebbe fosse ancora maggiormente ampliata. Essa accetta lo Stato regionale autonomo con le precisazioni che ha fatto l’onorevole Grieco, cioè non crede che si possano mettere sullo stesso piano tutte le regioni d’Italia; perché vi sono delle regioni che hanno sentito questo problema e lo hanno posto come questione di vita e di morte. E fra queste regioni è la Valle d’Aosta, che è una zona che ha particolari esigenze e caratteristiche a sé, come è stato riconosciuto quando le si è concessa l’autonomia. Essa è una zona di frontiera ed ha ottenuto anche particolare riguardo per la sua posizione rispetto alla Francia ed alla Svizzera, come zona franca.

Sullo stesso piano della Valle d’Aosta si trovano l’Alto Adige, la Sicilia, la Sardegna, per le quali tutte è necessaria una autonomia a largo respiro, autonomia in cui la potestà legislativa sia diretta e larghissima.

Si deve quindi tener presente la necessità della più larga potestà legislativa che deve differenziare queste zone dalle altre regioni. La Valle d’Aosta non può accettare alcuna limitazione e domanderà che le sia riconosciuta nella Costituzione l’autonomia regionale con la più ampia potestà legislativa e con la potestà di zona franca, che è stata sancita dalle leggi in vigore.

TARGETTI rileva che la possibilità di mutare la struttura dello Stato secondo il criterio federalistico è stata indirettamente esclusa anche da quelli che sono sempre stati i più convinti fautori del federalismo i quali, forse, a riconoscere questa impossibilità sono arrivati considerando obiettivamente le particolari specialissime condizioni nelle quali si trova il Paese, e che sono dovute – non è male ripeterlo – all’azione combinata della monarchia e del regime fascista.

Sono però tutti concordi nel riconoscere la necessità di decentrare, di spogliare, nei limiti del possibile, lo Stato delle sue facoltà e dei suoi poteri. La creazione dell’Ente regione trova moltissimi fautori. Si dovranno tuttavia tenere presenti alcuni dati di fatto posti in rilevo dall’onorevole Rossi per aggiungerli alle ragioni fatte valere da altri in favore del mantenimento in vita dell’ente autarchico provincia.

Esistono in realtà diversità di bisogni anche nel seno delle regioni geograficamente configurate. Se si toglie il Piemonte, la Lombardia e il Veneto, è forse difficile trovare in Italia regioni monolitiche; nessuna di esse presenta unità di interessi. Questo fatto, se non infirma tutte le ragioni a favore della costituzione dell’Ente regione, deve però concorrere con gli altri motivi che militano in favore del mantenimento della provincia. Abolire la provincia significherebbe accrescere senza dubbio gli attriti fra i vari ex capoluogo di provincia, perché il capoluogo di regione sarebbe istintivamente portato a far prevalere i propri interessi su quelli degli altri centri della regione.

Nega che la provincia abbia solo modeste funzioni: chi vuol compiere sul serio il suo dovere di Deputato provinciale ha modo di constatare che il lavoro non manca. Ma il grande argomento in favore della provincia è questo: si sta compiendo uno sforzo per trovare la strada migliore per decentrare; ma, distruggendo un ente locale autonomo come la provincia, si finisce con l’accentrare nella regione quel tanto che è decentrato, cioè col fare proprio l’opposto di quello che si vuole.

Nega pure che, creato l’Ente regione, vengano a mancare alla provincia le ragioni di esistenza, perché l’Ente regione nascerà e vivrà a tutto detrimento dello Stato. La regione non assumerà funzioni che oggi sono della provincia: essa ridurrà la competenza delle amministrazioni centrali. Ricorda che lo stesso Minghetti, sostenitore ad oltranza del regionalismo, manteneva non solo il comune, ma anche la provincia.

Di più l’abolizione della provincia determinerebbe un grave malcontento e conseguentemente ostacoli e contrarietà al funzionamento della regione.

La provincia quindi deve essere mantenuta, salvo poi decidere i poteri che le si debbono attribuire.

PICCIONI intende fare alcune considerazioni di carattere prevalentemente pratico per vedere se si può giungere ad una conclusione.

Anzitutto deve risultare chiara la visione che si ha dello Stato e della sua struttura. Se si concepisce lo Stato come espressione massima, unitaria, indifferenziata, della organizzazione giuridica della società, il centralismo statale ha più di una giustificazione; se si concepisce invece lo Stato come il potere massimo della società organizzata, ma che non deve comprimere gli organismi naturali che vivono nella società stessa, bisogna, nella struttura politica e amministrativa, adattare questo concetto dello Stato alla funzionalità effettiva di questo in rapporto agli altri organismi.

Uno dei limiti fondamentali alla capacità dello Stato è dato dalla esistenza, anteriore a quella dello Stato, di nuclei ed organismi naturali ai quali deve essere consentito di esercitare la loro funzione per l’ordinamento migliore della società. Tra questi organismi, che limitano il potere dello Stato, sono in prima linea i comuni e successivamente le regioni.

Il concetto di autonomia non deve essere circoscritto e limitato soltanto all’ente regione. Il comune è il primo organismo che va difeso di fronte al potere e al prepotere dello Stato; in fatto di autonomie il comune non va posto in secondo o terzo piano, ma va tenuto in primo piano, non soltanto per liberarlo dagli impacci statali, ma per rendergli tutta la sua forza evolutiva ed espansiva nell’ambito della sua attività specifica.

Dal punto di vista di una concezione organica della società, le provincie non costituiscono un problema serio, perché sono in un certo senso una costruzione artificiosa imposta dal criterio che ha dominato l’ordinamento statale nostro, in rispondenza al fine centralizzatore dello Stato. Questo è tanto vero che il fascismo ad un certo momento, senza reazioni né scompensi di alcun genere, ha creato quindici provincie nuove, ritagliate abusivamente dal territorio di altre provincie. È quindi la provincia una circoscrizione puramente artificiosa, dettata da considerazioni di carattere prevalentemente politico; è un organismo amministrativo sempre centralizzante. Di fronte alla provincia sorge quindi il problema delle difficoltà di carattere pratico, che possono derivare dalla sua soppressione; ma dal punto di vista organico, la provincia non dovrebbe costituire un ostacolo serio per un ordinamento diverso, più logico, più coerente.

Si osserva che le provincie hanno già una tradizione di 70-80 anni. Ma, se si analizza a fondo la posizione delle provincie, ci si imbatte in una situazione di equivoco fondamentale: quando si parla di provincia, in sede di riforma strutturale dell’ordinamento statale, si pensa alla provincia ente autarchico, mentre volgarmente, quando si parla di provincia si pensa alla prefettura. Quali sono gli interessi, le convergenze, che si dicono coalizzate o create intorno alla provincia? Il capo della provincia, nella interpretazione ordinaria, non è il presidente della deputazione provinciale, ma è il prefetto, con tutta la sua burocrazia, con tutte le sue attività, ed è difficile constatare una altrettanto forte confluenza di sentimenti, di aderenze alla provincia come amministrazione provinciale. La provincia in definitiva amministra i manicomi, le strade provinciali, le scuole professionali (che non ci sono) i brefotrofi, la maternità e infanzia (che è anche in compartecipazione con lo Stato). Ora, quando si tratterà di analizzare le funzioni della regione meglio coordinate e meglio disciplinate, tutto questo non sarà sufficiente per legittimare la permanenza di un organismo, quale è quello provinciale, una volta che tutti sono d’accordo sulla soppressione della provincia come prefettura. Lasciare in piedi questa larva di amministrazione provinciale, con le debolissime competenze concrete che ha, sarebbe una esagerazione, rispetto a tutto il rimanente quadro dell’organismo amministrativo che è auspicato.

Né si potrebbero aumentare le competenze della provincia, perché bisogna scegliere: o rimanere attaccati all’ordinamento amministrativo dello Stato com’è, oppure, se si ha il desiderio di rinnovarlo secondo una direttiva più naturale e più organica, si deve avere il coraggio di superare le difficoltà più o meno artificiose di cui si parla in rapporto alla soppressione della provincia. Con questo non si nega che non vi possano essere resistenze da parte di città che si vedrebbero private della loro dignità di capoluogo di provincia; ma non è certo la burocrazia provinciale che dà il grado di superiore decoro ad una città rispetto ad un’altra. E poi, anche in queste città l’istituzione della regione renderà indispensabile la costituzione di un certo organismo decentrato della funzione regionale, il quale sostituisca in maniera più seria e più attiva le forme improduttive finora create per reggere la provincia.

Si vuole, solo per prevenire le eventuali reazioni, che rimanga a queste città la denominazione di provincie, come organi di decentramento della funzione regionale? È questione di nome e di psicologia collettiva, che può essere considerata. Ma bisogna essere concordi nel ritenere che la provincia, come ente autarchico in seno all’ordinamento nuovo, non ha possibilità di sopravvivenza, perché altrimenti si creerebbero dualismi e duplicati sterili, che potrebbero mettere in pericolo la fecondità del nuovo ordinamento regionale.

Le regioni devono essere concepite come organismi naturali, che vanno riattivati, per ragioni storiche, geografiche, linguistiche, per ragioni di costumi, di caratteristiche economiche e produttive proprie, che in Italia più che in qualsiasi altro Paese europeo sono differenziate per la stessa configurazione geografica del Paese. In Francia si può comprendere l’ordinamento statale centralizzato, prescindendo da altre considerazioni, per la struttura del Paese e la sua configurazione geografica; ma in Italia è inconcepibile, per le notevoli differenze specie fra Nord e Sud. Perciò appunto, malgrado il livellamento perseguito durante settanta anni dal potere centrale, la regione ha resistito ed ha una individualità ancora viva e operante che può avere nelle linee marginali delle sfumature più o meno rilevabili, ma che si dimostra ben precisa quando si parla di regioni come il Piemonte, la Lombardia, la Toscana, il Lazio, gli Abruzzi, ecc.

Ora è giunto il momento di ricondurre la evoluzione storica sulle sue direttive naturali; e la regione dovrebbe essere un elemento di trasformazione della vita, dello Stato, e soprattutto del costume politico del Paese. La regione deve essere sentita, non soltanto in riferimento alle esigenze strutturali e amministrative, ma anche come affermazione di una esigenza profondamente democratica. Si deve, in essa, vedere un baluardo per le libertà dei cittadini e per le libertà democratiche del Paese.

In contrasto con quello che ha detto l’onorevole Nobile, concorda con coloro che, come l’onorevole Lussu e qualche altro, ritengono che il centralismo statale, così come si era organizzato fino al 1922, sia stato uno dei fattori più efficienti (non l’unico, perché vi sono anche i fattori economici, sociali, ecc.) per la nascita o, se non per la nascita, per l’affermazione trionfale del fascismo. Se il Paese fosse stato ordinato in maniera diversa, si sarebbe potuto avere un tentativo di quel genere, ma non avrebbe avuto la sciagurata fortuna che arrise al fascismo.

Né è, dal punto di vista storico, esatto che il regionalismo, l’autonomismo, siano frutto della disfatta: può essere esatto solo dal punto di vista di una coincidenza casuale. Frutto della disfatta si può dire che è nella misura stessa in cui il fascismo è frutto del centralismo statale. Se vi fosse stato un ordinamento diverso, evidentemente la guerra sciagurata a cui siamo arrivati avrebbe trovato una forte remora nella resistenza e negli interventi di solidarietà diverse, quali potevano essere quelle fra regione e regione, opponentisi alla politica nazionalistica e imperialistica del fascismo.

Anche per le esigenze politiche è quindi favorevole alla creazione dell’ente regione. Ed anche per esigenze di carattere più pratico; per esempio quella della divisione dei poteri, perché pensa alla possibilità di un’organizzazione del potere locale accanto al potere statale, cioè di una divisione dei poteri che è certamente di grande rendimento ed economia. Si può realizzare attraverso la regione, il principio del minimo mezzo. Episodi che sono stati riferiti e che tutti conoscono sono infinitamente illustrativi al riguardo. Una quantità notevolissima di funzioni statali, esercitate o istituite nell’ente regione, evidentemente costituiscono un mezzo più economico per il rendimento politico e amministrativo. È già stato svolto il concetto della maggiore agilità e snellezza nella funzionalità dello Stato che, diminuito di tutte le funzioni amministrative che non sono specifiche sue proprie, può dedicarsi in maniera più ferma e più sicura alle funzioni caratteristiche dello Stato, che sono funzioni politiche nel senso più pieno e più alto della parola.

Si deve ora determinare l’ordinamento della regione.

Tutti concordano nel riconoscere che l’ente regione che si vuole istituire deve essere riconosciuto come un ente autarchico, in quel senso specifico che il Relatore Ambrosini ha indicato, cioè nel senso che abbia propri fini da raggiungere e mezzi adeguati al raggiungimento. Questi fini sono quelli determinati dagli interessi locali che caratterizzano ciascuna regione. Se si pone questa prima specificazione della figura dell’ente regione, le discussioni e le sottilizzazioni sulla competenza legislativa dell’ente regione (cioè sulla sua autonomia vera e propria, perché per autonomia questo logicamente e seriamente si deve intendere) oltrepassano la questione delle necessità intrinseche dell’ente.

Qui bisogna esser chiari ed assumere le proprie responsabilità. Non si può pensare di creare l’ente regione senza dargli la possibilità di raggiungere i fini per i quali viene istituito. E per raggiungere questi fini non basta una potestà legislativa, delegata, secondaria, perché allora rimarrebbe sempre all’ente la camicia di Nesso del centralismo statale, e non si creerebbero dei poteri locali.

Circa la potestà legislativa, richiama le enunciazioni dell’onorevole Grieco, il quale sembra voler riconoscere all’ente regione una potestà legislativa; e si dichiara d’accordo con lui, purché si tratti di potestà autonoma, non delegata, non secondaria, ma primaria, come diceva il Relatore Ambrosini.

Ora, una volta fissati i fini per i quali la regione si istituisce, i suoi obiettivi, le sue funzioni di rinnovamento della struttura politica e amministrativa della nazione, non si debbono lesinare i mezzi necessari allo svolgimento delle sue funzioni, perché altrimenti si compirebbe opera inutile. Quindi potestà legislativa, entro i limiti delle competenze specifiche della regione e nell’ambito dell’ordinamento generale dello Stato. Un altro limite alla potestà legislativa dovrebbe servire, in certo senso, a superare le scrupolose successive specificazioni che a tale riguardo ha creduto di fare il Relatore Ambrosini: il limite naturale è quello dell’interesse locale. È evidente che la potestà legislativa, oltre che rimanere nei limiti dell’ordinamento generale e delle competenze specifiche, non deve andare al di là dell’interesse locale che caratterizza tutto l’ordinamento regionale.

Poi bisogna decidere sugli organi rappresentativi degli interessi locali e del popolo della regione stessa; e qui sorge una questione più sottile, sulla quale bisogna esser cauti nell’assumere una posizione decisa. In riferimento ai concetti specificati sui comuni, si può riconoscere all’Ente regione una funzione rappresentativa anche di tutti i comuni, non soltanto dei cittadini della regione stessa. A questo si dovrà riflettere quando si tratterà di discutere la formazione degli organi dell’Ente regione: se si deve parlare di suffragio diretto, universale ecc., oppure se si deve parlare di una commistione del suffragio diretto con una rappresentanza diretta dei comuni, perché è evidente che la vita locale trova prima una sua specificazione nei comuni e poi una sua integrazione nella regione, e combinare insieme l’uno e l’altro elemento in un sistema organico sarebbe quanto di meglio si potrebbe auspicare.

Si è pure concordi nell’ammettere che, per dar vita all’Ente regione, occorre l’autonomia finanziaria vera e propria, perché se non si pone come premessa fondamentale l’autonomia finanziaria, tutto il resto rimane abbandonato alla discrezionalità del potere centrale. A parte quello che i tecnici della finanza potranno dire al riguardo, un’esigenza è certa, ed è che anche l’ordinamento finanziario della regione dovrebbe trovare il suo collocamento organico nella riforma generale tributaria dello Stato; così come l’autonomia finanziaria del comune, se questo deve essere efficiente e vivo, deve essere pure considerata nel quadro generale di quella riforma.

Occorreranno poi delle forme di controllo. Per i conflitti di competenza tutti sono d’accordo che questi dovranno essere devoluti alla Corte suprema di garanzia.

Sulla forma della costituzione degli organi regionali sembra raggiunto un accordo: Consiglio regionale, Giunta esecutiva, Presidente del Consiglio, Presidente della Giunta. Scarsi consensi ha invece ottenuto l’idea di avere un rappresentante statale nella regione, come un tipo di governatore, o di prefetto, e personalmente egli non è certo favorevole a far ricomparire la figura del prefetto in più vasto raggio e su più vasta sfera. Un ordinamento regionale costituito democraticamente e seriamente è più che sufficiente per garantire le varie funzioni che anche lo Stato ha diritto di esercitare nell’ambito della regione.

Si parte, in fondo, sempre da un falso presupposto, da un residuo; e bisogna che tutti compiano uno sforzo estremamente forte per distaccarsi completamente dalla concezione dello Stato così come si è avuto finora, per aderire ad una concezione nuova, diversa. Ora, anche dal punto di vista della rappresentanza dello Stato nella regione, bisogna tener presente che la legittimità, i poteri dello Stato derivano dalla stessa forza da cui derivano i poteri locali, regionali; onde non si deve fare una discriminazione così sostanziale fra il potere centrale – come se si trattasse di un’investitura per diritto divino – e il potere regionale, che viene costituito sulla stessa base e proviene dalla stessa fonte.

Certamente vi deve e vi può essere una forma di controllo o, se si vuole, di coordinamento, da parte del potere centrale delle funzioni della regione, che possono interferire l’una con l’altra e coordinarsi in un interesse che supera lo stretto ambito regionale. Ma queste sono tutte funzioni integrative che possono essere sviluppate in vario modo, senza necessità di porre nella regione un rappresentante diretto e ufficiale del potere centrale.

Ci sono poi altri controlli, previsti per l’ordinamento dello Stato, come, ad esempio, il controllo sul consuntivo amministrativo della Giunta. Questo dovrà essere affidato al Consiglio regionale, così come il controllo sul consuntivo dello Stato è affidato al Parlamento. Il controllo, invece, sul consuntivo contabile dovrà essere esercitato da una Corte mista di rappresentanti dello Stato e di rappresentanti della regione, perché, qualunque sia il sistema tributario attraverso il quale si possa realizzare in qualche forma l’autonomia finanziaria della regione, sarebbe pressoché impossibile, per le considerazioni svolte dall’onorevole Einaudi, fare a meno di contributi integrativi dello Stato. Se lo Stato, sia pure in base a disposizioni fondamentali, oggettive – come diceva l’onorevole Einaudi – e non sulla base di un capriccio dello Stato stesso o di insistenze da parte di una o dell’altra regione, deve intervenire nella finanza regionale, esso deve avere la possibilità di un controllo diretto. Ogni altra ingerenza però dovrebbe essere esclusa, tranne quella di appositi organi per l’azione contenziosa e giurisdizionale, senza arrivare fino a dare una funzione giurisdizionale alla regione stessa.

Non vuole affrontare la questione e si limita a rilevare che il sistema più logico e pratico è quello di specificare le competenze della regione, lasciando che tutto il resto rimanga allo Stato. Solo su un punto desidera fare un’osservazione: sull’istruzione, circa la quale si sono avute indicazioni divergenti. L’onorevole Grieco ha detto che è un aspetto del problema che andrebbe approfondito, prima di prendere un indirizzo in un senso o nell’altro. L’onorevole Nobile ha detto che affiderebbe l’istruzione elementare addirittura ad un organo mondiale. Crede, invece, che questa sia da restituire ai comuni, perché è una delle forme di attività che devono aderire il più strettamente possibile alle esigenze locali fondamentali. L’istruzione secondaria dovrebbe essere passata all’Ente regione, salvo il compito del potere centrale di indicare i criteri tecnici dell’ordinamento scolastico, lo sviluppo degli studi, ecc. Ma, quando lo Stato abbia stabilito i programmi scolastici, in modo che non vi sia disparità fra regione e regione, l’ordinamento concreto della scuola deve essere lasciato all’iniziativa, alla valutazione della regione. Non vi è necessità, ad esempio, di dare in una regione industriale ampio sviluppo agli studi classici. Per le università e gli istituti superiori si affaccia un altro concetto di autonomia. Non si è fatto un guadagno sottoponendole all’ordinamento unitario dello Stato: nei paesi liberi e democratici le università trovano, nella loro autonomia, un motivo serio e profondo per servire al più ampio sviluppo della scienza. Allo Stato devono rimanere solo le funzioni ispettive ed un controllo attraverso l’esame di Stato, il quale ultimo, in un regime libero, rappresenta una garanzia per gli scopi generali che lo Stato deve salvaguardare.

La discussione ha chiarito molti punti che conducono a questa conclusione: l’ordinamento centralizzato dello Stato deve essere trasformato. Su questo non ci può essere dubbio; e l’ordinamento regionale è il mezzo più efficiente per arrivare a questa trasformazione dell’ordinamento statale; trasformazione che non deve essere considerata come panacea universale, ma deve consentire di rendere più democratica la vita del Paese e, quindi, più efficienti i suoi risultati costruttivi.

La seduta termina alle 20.50.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Perassi, Piccioni, Ravagnan, Rossi, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Erano assenti: Canevari, Leone, Maffi, Porzio.

In congedo: Amendola, Calamandrei, Patricolo, Vanoni.

LUNEDÌ 29 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

3.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI LUNEDÌ 29 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Seguito della discussione sulle autonomie locali

Finocchiaro Aprile – Rossi Paolo – Lami Starnuti – Uberti – Conti – Tosato – Bozzi – Mortati – ManniRoni – Lussu – Grieco – Fuschini – Presidente.

La seduta comincia alle 17.

Seguito della discussione sulle autonomie locali.

FINOCCHIARO APRILE rileva che l’onorevole Lussu ha sollevato una questione meritevole della maggiore attenzione.

Si richiama alla discussione fatta sull’ordine dei lavori e all’opinione allora espressa dall’onorevole Zuccarini che la questione preliminare da prendere in esame fosse quella della struttura dello Stato. La Sottocommissione preferì iniziare la discussione sulle autonomie; ma l’onorevole Lussu ha poi giustamente rilevato che questo problema deve essere esaminato non solo sotto il profilo dello Stato unitario, ma anche sotto quello dello Stato federale e crede che l’onorevole Lussu abbia perfettamente ragione.

Riprende questo tema, pur sapendo che nella Commissione prevale l’idea unitaria e si vuole il mantenimento del sistema della unità italiana creato da Cavour e sul quale si sono modellati tutti gli ordinamenti dello Stato.

Dopo aver ricordato che l’idea unitaria al tempo del Risorgimento non fu la sola, pur essendo stata l’idea sostenuta strenuamente da Giuseppe Mazzini, ma che vi fu anche l’idea federalista che ebbe in Carlo Cattaneo un sostenitore altrettanto tenace, avverte che, come l’onorevole Lussu ha considerata la situazione dal suo punto di vista sardo, egli intende considerarla particolarmente dal punto di vista siciliano.

Non vuol rifare la storia di quest’ultimi anni, ma deve confermare quel che disse già nel suo discorso alla Costituente: il solo modo per dirimere il contrasto che è evidente tra la Sicilia e le altre Regioni italiane, è quello della elevazione della Sicilia e di altri paesi italiani a Stati, e l’unione di questi Stati in una grande confederazione italiana, mediterranea ed eventualmente europea. Né è vero che, sostenendo la confederazione di questi Stati, si compie opera antitaliana, ché anzi il sistema della confederazione degli Stati è quello che meglio di ogni altro cementa la unità dei popoli di una stessa lingua. È sempre avvenuto così: avvenne così in Germania, in America, in Svizzera, ed avverrà in tutti i Paesi che adotteranno il sistema della confederazione di Stati. Respinge, quindi, l’accusa di aver voluto creare una situazione contro l’Italia. Ciò non è vero: il Movimento per l’indipendenza della Sicilia compie, al contrario, opera eminentemente italiana.

Passando a considerare il problema dal punto di vista giuridico, costituzionale, tecnico, afferma che col sistema delle autonomie non si ovvierebbe agli inconvenienti che si sono deplorati dal 1860 in poi: e aggiunge che il sistema delle autonomie non può essere adottato per tutte le regioni italiane, anzi alcune di esse, come il Piemonte, la Lombardia, la Liguria, il Veneto, non hanno alcun bisogno dell’autonomia. Non si deve confondere l’autonomia col decentramento; e per molte regioni italiane il decentramento sarebbe più che sufficiente; mentre vi sono regioni, e precisamente la Sicilia e la Sardegna, per le quali la semplice autonomia, quale viene prospettata, non servirà che a ben poco, se non pure a nulla. Esse hanno bisogno di autonomie larghe, complete, non soltanto per i piccoli affari di ordinaria amministrazione, ma anche nel campo economico, finanziario, tributario, doganale. Qui ci si vuole limitare a modeste riforme di scarso interesse e che non toccano i gangli vitali di queste regioni. In tal modo non si concluderà niente. Così la esclusione, voluta dall’onorevole Einaudi, dell’autonomia giurisdizionale è un errore, perché la Sicilia ha una secolare tradizione di indipendenza giurisdizionale ed ha avuto fino a poco tempo fa la sua Corte di Cassazione, che era forse la migliore per la saggezza della sua giurisprudenza, tanto che quando esisteva un contrasto tra la Corte di Firenze e quella di Roma, quella che lo decideva era molto spesso la Corte di Cassazione di Palermo.

Anche per il problema finanziario, l’onorevole Einaudi parte da un punto di vista rigidamente unitario. Da quel punto di vista egli ha ragione; ma, parlando di autonomie, non si può rimanere legati al sistema unitario così come egli vorrebbe, perché si va verso una forma diversa di unità. Vi sono varie forme di unità, e una di queste è anche la confederazione di Stati. Quando, nel 1870, Bismarck creò la confederazione germanica, bavaresi, sassoni, prussiani, brandeburghesi, ecc., si sentivano tutti tedeschi come gli altri, e contribuivano tutti alla prosperità, alla ricchezza e alla gloria della Germania. Perché questo non si deve fare in paesi di lingua italiana?

Il sistema della confederazione di Stati è il più adatto nelle circostanze presenti. Non può sfuggire ad uomini politici un fatto che non è privo di importanza. Non si può dire che l’Italia meridionale, da Roma in giù, e le maggiori isole abbiano fatta nel referendum istituzionale un’affermazione nettamente monarchica; egli è d’avviso diametralmente opposto, convinto che non questo abbia voluto fare l’Italia meridionale (sono passati molti anni da quando si poteva dire che nel Mezzogiorno, come in Sicilia e in Sardegna, tutti erano monarchici), ma abbia piuttosto voluto cogliere l’occasione per fare una manifestazione decisamente antiunitaria. Quando alla Sicilia e alla Sardegna, che sono repubblicane (non al numero dei voti, ma agli spiriti si deve guardare), si sarà data la dignità di Stati, e questi stati saranno tutti confederati nell’interesse comune italiano, i dissensi che ci sono stati verranno a cessare, mentre permarrebbero se permanesse la situazione attuale.

Pensa quindi che il problema vada affrontato più nettamente, più risolutamente e non soltanto col proposito di fare qualche cosa che debba servire momentaneamente a tener buone le popolazioni. Non è questo che ci vuole per l’Italia meridionale. È stato eletto Presidente provvisorio della Repubblica un uomo degnissimo come Enrico De Nicola, meridionale e monarchico, ma non è da pensare seriamente che soltanto per questa nomina l’Italia meridionale, la Sicilia e la Sardegna siano paghe. Occorre qualche cosa di molto serio, e il sistema dell’autonomia non risolverà il problema, anzi lo aggraverà.

Parla perché ha il dovere di parlare, non per convincere i presenti, che hanno orientamenti chiari e definiti; ma perché ha ricevuto un mandato non imperativo, e tuttavia molto preciso e desidera che negli atti rimanga traccia di queste sue affermazioni.

L’idea della Confederazione di Stati non deve essere scartata. Ha torto, a suo avviso, l’onorevole Grieco quando dice che, adottando questo sistema, si dovrebbero ricreare gli Stati per poi confederarli e che ciò costituirebbe un errore. Non vede quale danno ne potrebbe derivare. Erano certamente degli Stati piuttosto forti quelli di prima: il Regno delle Due Sicilie era il perno della vita politica ed economica italiana: basta pensare che nelle sue casse nel 1860, al momento del trapasso, vi erano 428 milioni d’oro, mentre nelle casse di tutti gli altri ex Stati riuniti non ce ne era nemmeno la metà: basta pensare al gettito della vendita dei beni delle soppresse corporazioni religiose, dalla quale si ricavarono circa 650 milioni che furono per la quasi totalità destinati al porto di Genova e alle ferrovie del Veneto e ad altre opere pubbliche dell’Alta Italia. E tutto questo deve far riconoscere pure che vi è un diritto nelle popolazioni siciliane ad avere qualche cosa di più della semplice autonomia.

Esorta ad esaminare il problema della confederazione di Stati italiani e a non abbandonarlo soltanto perché una enorme maggioranza della Commissione è unitaria. Esaminare questo problema potrebbe significare risolverlo.

Comunque, ha adempiuto al suo dovere, perché ognuno deve assumere le proprie responsabilità.

ROSSI PAOLO afferma che l’esigenza comunemente sentita non è, a suo avviso, né quella di una forma federativa, né quella di una forma regionalistica. Alla tesi federalista inclinano, evidentemente, siciliani, sardi e valdostani; ma il loro è un problema particolare che non deve influenzare tutta intera la struttura italiana. I loro casi specifici, ben noti, saranno regolati a parte. La federazione di Stati sarebbe una federazione di circondari, perché le regioni sono territorialmente così limitate che non si potrebbe parlare di Stati. Semmai si dovrebbe parlare di cantoni. Né l’esigenza vera è quella della creazione del nuovo ente regione, ma di un largo, profondo, sincero, efficiente decentramento amministrativo, al quale risultato si può arrivare benissimo anche senza costruire dal niente l’ente regione.

La creazione di una regione con piena competenza legislativa sarebbe una riforma completamente antistorica perché il processo comune di tutti gli Stati federativi è precisamente quello contrario, cioè di diminuire sempre più la competenza legislativa nei cantoni dello Stato per accrescere la competenza federale.

Per quanto riguarda l’autonomia giurisdizionale, richiama al fatto che il 90 per cento dei giudizi non sono giudizi di successione, o di filiazione, o di alimenti, ma giudizi di diritto mercantile, onde sarebbe proprio sul diritto mercantile che si determinerebbero differenze tra regione e regione. E facile immaginare cosa succederebbe se, oltre tutte le questioni di competenza territoriale, sorgesse anche l’eccezione di carenza di giurisdizione: i rapporti commerciali sarebbero praticamente impediti. Sarebbe dunque un grande regresso politico ed economico per il Paese avere varie giurisdizioni per limitate regioni.

Vero è che si potrebbero costituire delle regioni senza autonomia giurisdizionale e senza autonomia tributaria; ma non varrebbe la pena di introdurre questa grande innovazione quando le regioni non fossero autonome in nessuno di questi campi.

Ritiene inoltre che sia difficile in Italia determinare in modo soddisfacente, economicamente e politicamente, il territorio delle singole regioni. Vero è che l’Italia nasce dall’unione di molti staterelli, quasi nessuno di essi ha conservato per un periodo notevole una costante uniformità territoriale: quasi tutti hanno subito di secolo in secolo, di decennio in decennio, di anno in anno, di semestre in semestre, profonde modificazioni territoriali. Ci sono certo delle regioni – come appunto le Isole – che posseggono inconfondibili caratteristiche geografiche, etniche ed economiche; ma ciò non accade per tutta l’Italia.

Cita in proposito due esempi. Appena si è parlato della costituzione dell’ente regione, reclami molto vivaci sono stati fatti dalla provincia di Savona, la quale ha un porto in concorrenza con quello di Genova e un numero di abitanti notevolmente inferiore a Genova, ed osserva che, ove fosse istituito un Consiglio regionale, i consiglieri genovesi sarebbero in maggioranza e determinerebbero con quelli delle regioni finitime rapporti contrari agli interessi del porto di Savona. Essa perciò chiede di essere salvata dall’unione con Genova.

All’onorevole Finocchiaro Aprile, che ha ricordato la Liguria come un esempio caratteristico di unità regionale, fa quindi osservare come la Liguria offra questo contrasto fra Genova e Savona.

Recentemente si discuteva della ricostituzione della Corte di appello di Lucca, che dovrebbe avere competenza su tutta la zona nord-ovest della Toscana: Pisa, Livorno, Massa e Carrara. Ebbene, a parte Firenze, dove gli avvocati vorrebbero accentrare tutte le cause, Massa, col suo Consiglio dell’Ordine professionale, vi si è opposta, chiedendo l’unione con Genova. Né se ne capisce bene la ragione: certo non si tratta di maggiore facilità di comunicazioni, perché il viaggio tra Genova e Massa è molto più lungo che non fra Massa e Lucca.

Ci sono dunque nelle varie regioni dei motivi psicologici difficilissimi a penetrarsi, ma dei quali è pur necessario tener conto.

Infine bisogna fare attenzione che l’auspicato decentramento da istituirsi contro l’accentramento statale non si risolva in un accentramento regionale. Soppresse le provincie, molti sindaci e segretari comunali, che oggi lamentano di dover mettersi in viaggio per raggiungere il non lontano capoluogo di provincia, riterrebbero impossibile un viaggio di otto ore per andare al capoluogo di regione.

Questo vale per il caso che non si voglia mantenere la provincia; perché, se si vuole mantenerla, sorge un’altra osservazione. Si lamenta oggi una burocrazia che appesantisce. Ma se, per snellirla, oltre la burocrazia comunale, quella provinciale e quella centrale – e quest’ultima non si può sopprimere per il suo necessario sindacato di legittimità – se ne crea un’altra, regionale, invece di alleggerire, si appesantisce ancora di più.

Bisogna poi tener conto del fatto che le diverse provincie hanno interessi non complementari fra loro, ma concorrenti, e mal si adatterebbero quindi all’unità regionale.

A suo avviso, la soluzione migliore, perché più rispondente ad una formazione naturale, è quella di concedere ai comuni ed alle singole provincie già esistenti amplissime autonomie amministrative, da attuarsi concretamente così:

1°) abolizione dei prefetti;

2°) riduzione del controllo dello Stato al semplice sindacato di legittimità, senza alcuna interferenza circa il merito dei singoli provvedimenti;

3°) riconoscimento di una competenza regolamentare, se non normativa in senso assoluto, in numerose materie, come l’insegnamento professionale e industriale, la tutela del patrimonio agricolo, idrico, zootecnico, la tutela della circolazione stradale, ecc.;

4°) congrua elasticità di bilancio. (E qui occorrerà ascoltare dei tecnici, perché i mezzi debbono essere forniti con sicurezza e non si deve ricorrere all’integrazione dà parte dello Stato);

5°) riconoscimento di un potere di iniziativa legislativa.

A questo proposito richiama l’accenno fatto dal Relatore Ambrosini alla possibilità di concedere alle provincie ed ai comuni una iniziativa legislativa che sia meno vana del vecchio principio di petizione. Si dovrebbe fissare un termine entro cui quella iniziativa dovesse essere sottoposta all’autorità centrale.

La legge fondamentale potrebbe poi prevedere il libero e spontaneo raggruppamento di una o più provincie mediante referendum, e allora si avrebbe una unione naturale e le regioni si formerebbero per virtù propria.

LAMI STARNUTI non è in tutto d’accordo con l’onorevole Rossi e, per quanto dissenta in parte dalla relazione dell’onorevole Ambrosini, dichiara di essere in linea di massima favorevole all’ente regione.

Esiste la necessità politica ed amministrativa di spezzare l’attuale accentramento dello Stato e di dare al nuovo Stato una struttura agile e snella per cui tutti gli interessi locali trovino la loro soluzione nel luogo dove gli interessi sorgono, anziché nel centro dello Stato. Problema, quindi, non di semplice decentramento burocratico, ma di decentramento autarchico territoriale, e se si intende sottrarre allo Stato la quasi totalità delle sue attuali attribuzioni amministrative, la provincia non è in grado di provvedere alle funzioni che le si dovrebbero attribuire nell’ipotesi che non si facesse luogo alla creazione dell’ente regione.

Capisce le ragioni che hanno mosso l’onorevole Rossi per sostenere che il decentramento amministrativo debba trovare la sua sede nella provincia che è un ente locale già esistente, anziché in un ente locale di nuova formazione come la regione. Si possono ferire degli interessi locali precostituiti, sollevare opposizioni o proteste delle città capoluoghi di provincia, che si riterranno non solo sminuite ma anche danneggiate, perché la costituzione della regione dovrebbe portare all’abolizione della provincia come persona giuridica. Non crede, infatti, sia il caso di aggiungere la regione alla provincia, perché la provincia non potrebbe avere grandi funzioni, e perché questo triplice ordinamento locale finirebbe per costituire un aumento della burocrazia ed un aggravio per i contribuenti. Pensa però che i capoluoghi di provincia, con la costituzione della regione, non perderebbero interamente gli uffici amministrativi che ora hanno, perché la regione dovrebbe a sua volta far luogo ad un decentramento amministrativo di carattere burocratico e istituzionale e gli uffici decentrati della regione dovrebbero trovare necessariamente sede nell’attuale capoluogo di provincia. Quindi una lesione degli interessi materiali ora costituiti nei capoluoghi di provincia non si avrebbe.

Non sarebbe esatto obiettare che, se la regione costituisce un decentramento burocratico, permane tuttavia l’aggravamento della burocrazia, perché la regione dovrebbe rappresentare un alleggerimento ed un risparmio nel personale burocratico dello Stato.

È dunque favorevole alla costituzione dell’ente regione come strumento di decentramento amministrativo autarchico, che ritiene necessario per dare allo Stato italiano una veste e una struttura più agile, più corrispondente ai bisogni della nazione.

E pensa alla regione nel suo territorio tradizionale e storico, perché non è vero che non sia già prestabilito il territorio regionale. Quale che sia stata, nelle vicende storiche d’Italia, la fluttuazione di piccole parti del territorio nazionale, la Liguria, il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, e gran parte delle altre regioni d’Italia sono fissate in modo preciso nei loro caratteri distintivi.

Pensa però che la creazione di Enti regionali dovrebbe esser fatta non soltanto per opera dei legislatori, ma con il contributo attivo delle popolazioni che vivono nel territorio di quelle regioni. Alla regione si dovrebbe lasciare, non la facoltà, come vorrebbe l’onorevole Zuccarini, di darsi lo Statuto, ma la facoltà di darsi la delimitazione territoriale. Se una regione pensa che la sua convenienza politica, amministrativa ed economica sia quella di non racchiudere in una unica circoscrizione amministrativa tutto il territorio della regione, dovrebbe poterlo fare. Se Savona ritiene che nella regione potrebbe essere sacrificata da Genova, l’Ente regionale dovrebbe tuttavia avere l’imparzialità che ha lo Stato verso tutte le parti del suo territorio e cercare, nella concordia delle popolazioni liguri, la scissione della regione in due parti. Alla stessa stregua due regioni limitrofe potrebbero riunirsi. Non si ha che richiamare i criteri amministrativi e giuridici della vecchia legge comunale e provinciale del 1915, per intendere subito come questo movimento di aggregazione e di separazione potrebbe avvenire.

Circa la competenza della Regione è d’avviso che questa debba avere una vera e propria competenza legislativa solo per alcune materie, come la pesca, la caccia, le scuole professionali; ma fuori di queste materie e di poche altre, la Regione non dovrebbe avere che una competenza di regolamento per la esecuzione della legislazione unitaria deliberata dallo Stato italiano. Invece le funzioni amministrative della Regione dovrebbero essere le più estese possibili, con sottrazione allo Stato di quasi tutte le attribuzioni di carattere amministrativo, così che non gli rimangano che quelle attinenti veramente e propriamente allo Stato politico.

Aderisce al concetto che la Regione abbia un diritto di iniziativa, nel vero significato della espressione, e che possa partecipare alla formazione della seconda Assemblea legislativa nazionale, se la si avrà.

Circa l’autonomia degli Enti locali è contrario al mantenimento della tutela. Concepisce la vigilanza come un controllo sulla legittimità degli atti amministrativi dell’Ente locale, e come un diritto di sostituzione da parte dello Stato o di un organo precostituito, in caso di inattività dell’Ente locale rispetto ad obblighi suoi di carattere giuridico. La tutela di merito esercitata dalla Giunta provinciale amministrativa o da qualunque altro organo, comunque concepito, dovrebbe essere abolita. Taluno teme che questa mancanza di tutela possa costituire un pericolo, ma egli pensa che contro questo eventuale pericolo dovrebbe stare esclusivamente il diritto popolare di referendum, che non è soltanto un mezzo di conservazione, come dice l’onorevole Einaudi, ma è un mezzo di partecipazione diretta della popolazione alle cose amministrative e politiche sue; un modo, anche, di impedire il formarsi delle oligarchie dei partiti.

Sull’accenno, che non ritiene completamente esatto, dell’onorevole Einaudi ad un caso di referendum svizzero, precisa che si trattava di una legge sulla concessione della cittadinanza votata dal Gran Consiglio del Canton Ticino all’unanimità, con il voto favorevole di tutti i partiti. Si era richiesto da una parte della popolazione il referendum e, questo indetto, cinque partiti del Gran Consiglio cantonale avevano fatto campagna insieme in favore della legge; ma il corpo elettorale si ribellò alla coalizione dei partiti. Fu un uso della sovranità forse sbagliato, perché la legge era ben fatta; ma un atto veramente mirabile di sovranità popolare. Qualche volta il popolo, che scende direttamente alle urne, sbaglia: ma è meglio che paghi i suoi errori, anziché gli errori che commettono i suoi rappresentanti amministrativi o politici.

Nella Regione, a suo avviso, dovrebbe essere un Governatore o, se la parola è brutta, un Consigliere di Stato, rappresentante dello Stato, a simbolo del carattere unitario dello Stato repubblicano, per funzionare da tramite tra gli Enti locali e il centro, e compiere l’ufficio di controllo di legittimità sull’attività amministrativa degli Enti locali. Questo Consigliere di Stato dovrebbe essere anche capo della polizia e rispondere dell’ordine pubblico, perché è bene che l’ordine pubblico sia affidato ad un funzionario superiore anziché ai Commissari locali o ai Questori dei vecchi capoluoghi di provincia.

Ritiene che tra le varie funzioni della Regione debba essere anche quella di polizia concorrente con la polizia di Stato. Non deve spaventare la presenza di due polizie: in Italia si sono avute sempre due polizie: i carabinieri e la pubblica sicurezza; l’una che sorveglia la città, l’altra le campagne, e senza gravi inconvenienti. Anzi questa duplice polizia può costituire un elemento e una garanzia di libertà: se uno degli Enti preposti alla tutela dell’ordine pubblico e dei diritti dei cittadini venisse meno in momenti eccezionali alla sua funzione, potrebbe sopperire onestamente la funzione dell’altro Ente.

UBERTI ritiene che nell’istituzione dell’Ente regione si debba essere particolarmente preoccupati di rimanere aderenti ad una realtà storica, per non creare una cosa astratta, non rispondente alle situazioni reali.

Non crede soddisfacente l’opposizione dell’onorevole Rossi, che preferisce il decentramento amministrativo, in quanto permette di realizzare tutti i vantaggi del sistema unitario, senza i danni attuali del centralismo. È in corso tutto un movimento di continuo sviluppo del centralismo. Anche oggi, che non v’è più il regime fascista, si assiste al costituirsi nella Camera di commercio, accanto agli organi locali, con gli stessi funzionari locali, l’U.P.I.C., cioè la rappresentanza locale del Ministero dell’industria e commercio. A Venezia l’onorevole Lombardi lo ha difeso con grande energia, manifestando la diffidenza dello Stato verso gli organi locali. Nel campo agricolo le Cattedre ambulanti d’agricoltura, che certamente assolvevano al loro compito, sono divenute strumento del Ministero dell’agricoltura. Il decentramento amministrativo del Magistrato delle Acque si è risolto con la istituzione del Provveditorato delle opere pubbliche, che in realtà non è un decentramento, perché si tratta di elementi distaccati dal Ministero dei lavori pubblici e perché tutte le sue decisioni devono essere approvate dal Ministero, per cui si è realizzato un peggioramento. In tutte le nuove leggi si vede un continuo aumento dei poteri centralizzati, ed è contro di questo che si eleva il malcontento delle popolazioni.

Ora, nella regione c’è una volontà realizzatrice: non si chiede la resurrezione di antichi Stati, ma la possibilità di intervenire e deliberare in tutte quelle questioni che hanno carattere locale. Il Veneto domanda perché nelle sue questioni si debba deliberare insieme con quelle che riguardano la Sicilia, la Calabria o la Sardegna, che hanno problemi completamente diversi o contrastanti. La possibilità di adeguare la legislazione alla realtà della vita ha una importanza essenziale: una legge è tanto più perfetta quanto più realizza la migliore aderenza ai bisogni locali; altrimenti si deve, per forza di cose, arrivare ad un minimo comune denominatore, che non può raggiungere mai gli scopi che si vogliono raggiungere.

La regione si potrebbe realizzare senza turbare la forma unitaria dello Stato: massimo potenziamento dell’iniziativa privata, libertà delle popolazioni, legislazione aderente ai bisogni della vita locale.

Non crede però che si debba sopprimere la provincia, la quale è una entità economica vera e propria, rappresenta una confluenza di interessi che non si può distruggere, ed ha i suoi compiti, sia pure limitati. Bisogna, invece, abolire l’intervento dello Stato nell’amministrazione locale dei comuni e della provincia, a mezzo del prefetto. L’esperienza compiuta in dieci mesi lo ha confermato nel convincimento contrario a questo regime centralizzatore, perché, o il prefetto ha iniziativa, e allora interviene in tutte le questioni e tutti si rivolgono a lui, oppure tende a lasciar fare, ed allora si ha uno svuotamento completo di questa autorità dall’amministrazione centrale.

Egli nega che il prefetto svolga una notevole attività politica. Quello che può fare è di intervenire in tutti gli atti di merito dei comuni, e questo dovrebbe essere eliminato, perché la principale aspirazione dei comuni è di poter deliberare nel merito senza attendere l’approvazione della Prefettura. Restituire ai comuni la loro indipendenza sarebbe già una grande conquista e per questo basterebbe trasformare la Giunta provinciale amministrativa, composta a maggioranza di membri governativi, rendendola a maggioranza di organi elettivi. Oggi, col sistema del Segretario comunale nominato dal Governo, si ha una intromissione continua di questo, per cui il comune non ha nemmeno la libertà di nominarsi il suo più diretto collaboratore.

Tornando alla regione, ritiene che, per creare un ente regione vitale, non sia il caso di dargli funzioni eccessive, per evitare un insuccesso. Quindi, non gli attribuirebbe un potere giurisdizionale. L’Austria, che è l’unico Stato veramente organizzato a regioni, non ha dato poteri giurisdizionali alle regioni. In Italia la Sicilia rivuole la sua antica Corte di cassazione, ma questa dovrà, se mai, funzionare nell’ambito statale.

Richiama la gamma di attribuzioni che il Relatore Ambrosini ha indicato per la regione, tra cui, per delegazione, tutta l’attività amministrativa statale. Non vede perché lo Stato dovrebbe dirigere l’amministrazione anche localmente, quando può delegare direttamente alla regione tutti i suoi compiti amministrativi. La regione potrà occuparsi di tutta la materia dei lavori pubblici, mentre attualmente tutte le questioni sono risolte da un unico Ministero che non sa neanche quali sono i lavori più o meno urgenti e che risponde soltanto a chi lo sollecita di più. Tutti i lavori pubblici, le bonifiche, le irrigazioni dovrebbero essere affidati alla regione. Sarà stabilito il quantum da spendere; ma una volta determinato questo, ogni regione deve poterlo utilizzare in relazione ai propri bisogni effettivi.

Nell’agricoltura solo la regione può avere una visione esatta delle proprie necessità. Si è veduto, per esempio, in occasione del lodo sulla mezzadria, quali diverse ripercussioni si siano avute da regione a regione. Si possono fissare delle norme generali, ma le riforme devono essere adeguate alle necessità locali affinché rispondano al bisogno di aumentare la produzione e di soddisfare le necessità dei cittadini. È evidente che la regione emiliana è profondamente diversa da quella pugliese. Anche nella distribuzione delle terre è diverso il criterio da seguire, per esempio, a seconda che nella zona sia o non sia possibile lo sviluppo della cooperazione. Si faranno leggi agrarie veramente efficienti, quando queste risponderanno perfettamente alla realtà della produzione e ai bisogni delle popolazioni. Per ciò, stabilite le norme generali, le applicazioni concrete devono essere fatte regionalmente.

Evidentemente, non si può dare alla regione il carattere di uno Stato, ma le si deve dare quello di un ente amministrativo che risponda ai bisogni sentiti e profondi delle popolazioni. Oggi, invece, esiste una frattura netta fra popolazione e Stato, determinata dal centralismo per il quale bisogna rivolgersi ad un direttore generale o ad un altro funzionario della capitale per risolvere un problema locale.

Altrettanto vale per i piani regolatori delle città. Chi mai più delle città dovrebbe essere responsabile della propria conservazione e del proprio sviluppo? Invece attualmente le città fanno i loro piani regolatori e poi interviene il centro, approvandoli o non approvandoli e la popolazione locale si vede denegato il diritto di deliberare su una questione che interessa così da vicino la sua vita.

Ha citato solo alcuni problemi, ma ve ne è una infinità in tutta la vita amministrativa. Per colmare il distacco fra popolo e Stato non v’è altro rimedio che quello di creare un ente con funzioni amministrative, e con qualche funzione propria normativa. E se domani si dimostrerà che altre incombenze siano da dare alla regione, nulla vieta che un emendamento alla Costituzione possa essere apportato in tal senso.

Non crede che, lasciando sussistere la provincia, si abbia il pericolo di creare un accentramento regionale, pericolo effettivamente avvertito, per cui Savona non vuole essere unita a Genova, la Lunigiana a Firenze ed in Sicilia le deputazioni provinciali si oppongono ad un loro assorbimento nella Regione. D’altra parte, v’è tutta una serie di importanti problemi regionali che è giusto siano risolti insieme dalle diverse provincie, e saranno risolti meglio che non a Roma.

A chi dice che non è possibile, se si crea la regione, lasciar sussistere la provincia, obietta che le regioni austriache sono poco più estese delle nostre provincie. Tutta l’Austria conta 5 milioni di abitanti; ha nove provincie e tuttavia ha il distretto, pura entità amministrativa. La comparazione con altre costituzioni, cioè, ammette che, nell’ambito della regione, possa rimanere la provincia, che potrebbe diventare un organo consorziale per determinati problemi, che oggi non trovano soluzione per il disaccordo dei comuni.

Sulla questione finanziaria osserva che quasi tutte le legislazioni la rimandano a leggi costituzionali, ma particolari. La nostra questione finanziaria non può non essere legata alla riforma tributaria generale dello Stato, perché, se si attribuiscono alla regione o una percentuale delle entrate attuali o particolari imposte, si rischia, come diceva l’onorevole Einaudi, di avere o la insufficienza o la eccessività. Occorre fare una analisi concreta, in rapporto ai definitivi compiti da attribuire alla regione ed alle sue necessità finanziarie. In molte legislazioni di Stati a sistema federale si ha l’imposizione dello Stato federale; ma dove questa non esiste, si può avere una unica imposizione da ripartire in percentuali fra i vari enti, per non creare imposte nuove. Onde una riforma tributaria generale che stabilisca quale percentuale del gettito debba essere devoluta alla regione. Gli inconvenienti cui si può andare incontro non sono argomento contro una determinata tesi; si tratta di questioni pratiche risolubili. Fondamentale è che il creare un’amministrazione finanziaria della regione accanto a quella dello Stato significherebbe moltiplicare gli organi, col pericolo non solo della doppia imposizione, ma della sperequazione fra le imposte. Ricorda in proposito che nell’antica legislazione austriaca imperiale, oltre alle 21 imposte, esisteva una quotizzazione a favore della regione.

Conclude che la creazione dell’Ente regione dà la risoluzione effettiva di un problema, che diversamente non sarebbe risolto e che non deve essere esasperato, arrivando alla forma federalistica, né minimizzato, persistendo nell’accentramento. La burocrazia centrale è allarmata ed armata contro l’autonomia locale, mentre non vi è motivo perché le esperienze dell’amministrazione centrale siano trasferite, per la parte esecutiva, alla competenza della regione. Superate queste difficoltà, creata la regione, anche coloro che forse la considerarono con qualche timore di diminuzione della vita unitaria del Paese, troveranno invece la possibilità di realizzare nella varietà e difformità delle regioni un’unità di maggiore contenuto e di assicurare alle iniziative locali piena efficienza e sviluppo.

CONTI rileva che da parte degli antiregionalisti si fa una manifestazione di conservatorismo veramente preoccupante. Mentre è stata eletta in Italia una Costituente per dare all’Italia una nuova Costituzione, da parte conservatrice – che sembra dovrebbe essere la parte rivoluzionaria del consesso – si vogliono adattare alcune piccole riforme sul tronco del vecchio regime.

Pensa che dovrebbe essere ben inciso nelle menti quello che ha detto l’onorevole Uberti, a cui desidera aggiungere qualche considerazione su un aspetto particolare non illustrato.

In fondo a tutto il problema che si sta ora agitando intorno alla Costituente dello Stato è un fatto fondamentale, generatore di tutto il male della vita del nostro Paese: in definitiva l’Italia è governata da non più di cento persone, che legiferano, e da non più di un centinaio di burocrati. In Italia si vive perché cento Deputati sui cinque o seicento governano l’Italia. Si può modificare come si vuole la burocrazia, metterle il berretto frigio invece della parrucca monarchica: si avrà sempre una burocrazia di cento persone, che domina tutta la vita italiana.

La via per rompere queste oligarchie, per spezzare questo andamento fatale alla vita del Paese è quella di trasformare l’organizzazione dello Stato, di creare la democrazia. Se non che, si continua a sbandierare la democrazia illudendo se stessi e gli altri. Per creare la democrazia bisogna far partecipare gli italiani alla vita legislativa, amministrativa, governativa del Paese. La pretesa di pochi Deputati di legiferare per l’Emilia e per le Puglie, per la Calabria e per il Piemonte, per la Sicilia e per il Veneto, insomma per tutta l’Italia, è assurda.

Bisogna, dunque, creare la democrazia, e a questo proposito ricorda un pensiero epigrafico dell’onorevole Einaudi: «la democrazia si crea con la molteplicità delle assemblee nella vita del Paese».

Quando si discuterà della regione, della provincia, sarà favorevole a queste, e ad altre forme di democrazia, al Consiglio comunale per primo, al Consiglio regionale e ad altri Consigli e consessi popolari nei quali si dibatteranno i problemi e si troveranno le soluzioni adeguate.

Se il male dell’Italia sta in questo fatto riconosciuto da tutti, in questo gruppo di oligarchi burocratico e parlamentarista, in questo nucleo di despoti della vita italiana, la regione rappresenta la soluzione efficace. La regione si creerà con le norme che saranno elaborate ed egli affretta col desiderio più vivo il momento in cui si cominceranno a scrivere quella decina o ventina di articoli che regoleranno la competenza e le attribuzioni della regione. Sono stati ricordati gli inconvenienti che si sono manifestati negli Stati Uniti ed in Svizzera; ma questi non costituiscono un argomento probante. Quando si sarà elaborata la Costituzione, si potranno riscontrare degli inconvenienti e degli errori, e si dovrà correggerli.

La creazione dell’Ente regione significa creazione di una forma nuova nella vita italiana per provvedere agli interessi degli italiani in quei modi che si fisseranno sulla carta.

Circa la questione della competenza, ricorda un progetto di statuto della Generalidad di Catalogna, progetto che non fu approvato e nel quale sono concretate le competenze della regione: tutta una serie di attribuzioni che nello statuto definitivo si ridussero appena ad un quarto. La competenza sarà quella che verrà stabilita.

Così per quanto riguarda la delimitazione territoriale, può darsi che vi siano delle regioni ben delimitate per le quali la discussione è semplice e facile (Giuseppe Ferrari, quando vagheggiava la federazione italiana, parlava di otto centri, che però non sono stati mai precisati nei suoi scritti); ma il miglior sistema è quello di accogliere un concetto democratico: fissare dei sicuri raggruppamenti di popolazione, e poi, col metodo democratico più serio, accogliere l’espressione della volontà dei cittadini. La Liguria, per esempio, è abbastanza ben delimitata; altre regioni lo sono più vagamente. Come vi è oggi una delimitazione di territori per la provincia, domani vi sarà per la regione, in modo tale da consentire gli sviluppi dei lavori legislativi, amministrativi ecc.

Circa il problema della provincia, avverte di essere stato sempre un nemico accanito dei Prefetti, e afferma che ci si deve avviare verso l’abolizione completa di questi funzionari che gli italiani detestano ormai concordemente. Resta il problema posto dalla tradizione, dalle abitudini, perché da quando si è creata la provincia, si sono avviate verso questo centro le attività tendenti al soddisfacimento di certe necessità. E si può mantenere la provincia come organo di decentramento della regione. Non crede opportuno conservare i Consigli provinciali, di cui si può fare benissimo a meno una volta che vi sia un’Assemblea regionale.

Richiama ancora l’attenzione sul fatto fondamentale e funesto della «oligarchia governamentale», che risiede a Roma, di pretesi legislatori, di burocrati. Anche i sapienti hanno dato prova di incapacità: grandissimi uomini di Stato nel Parlamento italiano sono falliti. Quindi creazione di Assemblee regionali.

Il Consiglio comunale rappresenta il primo grado. I comuni liberi nelle grandi città riusciranno a trattenere nel loro ambito una quantità di cittadini, i quali essendo oggi inutilizzati nel loro paese per un’attività pubblica, emigrano e vanno tutti a finire a Roma o nelle altre grandi città. Una vita comunale attiva, viva e prospera, in virtù dell’attività di tutti, tratterrà nei capoluoghi molti elementi che altrimenti andrebbero a confluire nelle grandi città. Nelle Assemblee regionali poi saranno portate numerose altre persone, che altrimenti sarebbero sacrificate dal punto di vista della partecipazione alla vita attiva. Tanti candidati delle lotte elettorali che non hanno potuto giungere al Parlamento Nazionale, potrebbero trovare posto degnissimo e con grande utilità nell’Assemblea regionale, dove potrebbero svolgere magnificamente una funzione utile per il Paese.

Il Parlamento centrale – la Camera dei Deputati – dovrebbe essere costituito da pochissimi elementi: il numero di 556 è esagerato, 300 sarebbero già troppi per fare quel poco che rimarrebbe da fare, perché, se le competenze legislative regionali saranno allargate e sarà sottratto al Parlamento centrale tutto quel groviglio di materie sul quale esso non dice mai una parola competente ed utile, il numero dei Deputati potrà essere grandemente ridotto. L’Assemblea regionale sarà il luogo in cui potranno convenire molte competenze specifiche, risolvendo anche il concetto della rappresentanza organica, per la trattazione di problemi inerenti all’agricoltura, al commercio, alle scuole medie ecc.

Quando sarà decisa la formazione della Regione e quando sarà stato adeguatamente studiato il complesso delle competenze e dei compiti da attribuire al nuovo ente, si sarà compiuta opera utile per il Paese. Se si negasse al Paese questa soluzione, non si compirebbe quell’opera che esso aspetta, perché la sua aspettativa è proprio questa.

TOSATO, dopo la discussione analitica, ritiene opportuno riportare il problema ai suoi termini sintetici, non tanto perché la discussione analitica non sia necessaria, ché anzi attraverso l’analisi si sente ancora più viva l’esigenza delle autonomie, ma per avviare la discussione verso la decisione.

Osserva che tutti sono ormai concordi sulla necessità e sull’opportunità di un certo decentramento: le differenze si riscontrano solo circa la intensità, il grado e le modalità del decentramento. Ritiene che le tesi prospettate finora possano ridursi sostanzialmente a quattro: una tesi estrema, la quale vorrebbe trasformare l’Italia da Stato unitario a Stato confederale; alla quale ne corrisponde un’altra, pure estrema, che sostanzialmente nega l’autonomia e si limiterebbe soltanto a soddisfare l’esigenza di un maggior decentramento sia per i comuni che per le provincie; e due altre che si possono definire intermedie, che vorrebbero, l’una trasformare l’Italia in Stato federale e l’altra che, anziché di federalismo, parla semplicemente di autonomia regionale.

Per quanto riguarda la tesi della confederazione di Stati osserva che, a parte ogni altra considerazione, essa non sia attuale perché, per arrivare ad una confederazione, occorrerebbe anzitutto scindere l’Italia in tanti Stati e poi fra i diversi Stati ristabilire un certo collegamento che, in ogni caso, non darebbe vita ad uno Stato unitario ma ad una semplice confederazione.

Non crede accettabile questa tesi, non fosse altro che per ragioni pratiche.

A proposito dell’altra tesi estrema, rileva che il principio di un semplice ampliamento delle autarchie comunali e provinciali è stato sostenuto dall’onorevole Rossi, il quale ha fatto presenti alcune difficoltà relative all’autonomia regionale, inerenti soprattutto al fatto che sorgerebbero conflitti fra provincia e provincia e che, con l’istituzione dell’Ente regione, si avrebbe un nuovo centralismo. Ma la tesi dell’onorevole Rossi, che vorrebbe un ampliamento della potestà regolamentare dei comuni e soprattutto delle provincie, non gli sembra accettabile perché, pur essendo effettivamente sentito il bisogno – per far corrispondere l’azione dello Stato alle esigenze locali – di dare agli enti locali una certa autonomia in determinate materie ora sottratte alla loro competenza (autonomia legislativa), si verrebbe a creare in Italia una tale pluralità e molteplicità di legislazioni locali che importerebbe delle difficoltà forse insormontabili. Se si vuole invece soddisfare effettivamente l’esigenza a cui corrisponde la tendenza autonomista, è necessario che questa esigenza sia soddisfatta nell’ambito di un ente più vasto della provincia, che non può essere che la Regione. Riguardo alle altre difficoltà prospettate dall’onorevole Rossi osserva che già dalla relazione dell’onorevole Ambrosini risulta che, se in determinate materie è utile ed opportuno attribuire alla Regione una competenza legislativa esclusiva, vi sono tuttavia delle altre materie in cui la competenza legislativa della Regione potrebbe considerarsi secondaria e dipendente dalla legislazione direttiva di pertinenza dello Stato. In tal modo, tutte le difficoltà prospettate (ad esempio le questioni tra il porto di Savona e quello di Genova) potrebbero essere risolte attraverso questa legislazione direttiva.

Circa le altre due tesi, ritiene che occorra abbandonare ogni questione di parole che diventa assolutamente inutile, per andare direttamente verso la realtà. È d’avviso che tra queste due tesi non vi sia sostanzialmente alcuna differenza in quanto, attribuendo alla Regione una potestà legislativa esclusiva, sia pur limitata a determinate materie, si cade senz’altro nel principio federalistico. A parte tutte le discussioni di carattere teorico sulla natura dello Stato federale, tutto il problema si riduce alla necessità di dare un sempre più ampio respiro alle esigenze locali, in modo che le Regioni possano – come crede fermamente – disciplinare in autonomia determinate materie. Bisogna quindi arrivare alla creazione dell’Ente regione, attribuendogli una tale potestà legislativa; salvo poi a vedere se questa potestà legislativa dovrà avere un ambito maggiore o minore; discussione di dettaglio che non tocca la questione di principio.

L’unica vera difficoltà che si prospetta contro la creazione dell’Ente regione è che, accanto al centralismo statale, si verrebbe a creare un centralismo regionale. A questo proposito ritiene che si debbano tener presenti alcune considerazioni. L’Ente regione non deve essere qualcosa che si sostituisca ad una realtà effettiva, ché in questo modo si creerebbe un ente artificiale; l’Ente regione deve essere creato per rispondere a determinate esigenze storiche concrete e non deve innovare radicalmente la struttura degli enti locali. Il comune deve restare; si prospetta soltanto il bisogno di svincolarlo, se non da tutti, dalla gran parte dei controlli di merito. Per quanto riguarda la provincia, crede siano ormai tutti convinti che non trattasi di un ente artificiale ma di una realtà storica, di un centro di interessi, che deve considerarsi come una comunità effettiva nella vita dello Stato italiano. Il problema si riduce a quello dei rapporti tra provincia e regione e viceversa.

Se si vuole essere pratici e concreti e aderire alle effettive esigenze, bisogna considerare la regione innanzi tutto come un ente con potestà normativa; le provincie debbono restare, anzi dovrebbero accrescere la loro competenza, in relazione alla soppressione della prefettura. Tutta la serie di doppioni, che esistono oggi tra la provincia come ente autarchico e la provincia come ente amministrativo (prefettura), scomparirebbero, determinandosi in tal modo un notevole alleggerimento burocratico. La provincia verrebbe così ad avere anche altri importantissimi compiti, principale fra tutti quello di seguire le norme emanate dalla Regione. Per questo non è necessario creare una burocrazia regionale, perché, se la Regione dovesse avere oltre alla competenza normativa anche qualche competenza amministrativa, questa dovrebbe limitarsi a quella parte di attività attualmente di competenza dell’amministrazione governativa locale che dallo Stato dovrebbe passare alla provincia (la quale dovrebbe conservare la sua personalità giuridica, perché intorno ad essa esiste tutto un complesso di interessi anche patrimoniali che ne sono il fondamento).

Si sono ricordati i Provveditorati alle opere pubbliche: sarebbe questa una delle attività locali che dovrebbero passare sotto il controllo della Regione la quale, diventando organo direttivo di questa attività statale, non avrebbe alcuna necessità di creare una burocrazia.

In conclusione, scartata l’ipotesi della confederazione, scartata l’ipotesi di un semplice decentramento amministrativo con l’estensione della podestà regolamentare, si vede che le due tesi, dello Stato federale e dell’autonomia regionale, coincidono e tutto il problema si risolve nella determinazione della sfera di competenza normativa della Regione.

(La seduta, sospesa alle 19.05, è ripresa alle 19.15).

BOZZI ritiene che dalla discussione fino ad ora svoltasi un punto di partenza possa risultare pacifico e comune a tutti: l’esigenza di una maggiore espansione delle autonomie locali. I diversi punti di vista si cominciano a delineare quando si tratta di dare consistenza al contenuto giuridico – poteri e limiti – di queste autonomie.

Concorda sulla necessità di dare un colpo decisivo al centralismo burocratico: ma non soltanto a quello statale, sibbene anche ad ogni altra forma di centralismo che comunque potesse soffocare, comprimere, mortificare la libera espansione e la vitalità delle autonomie locali. Con un sistema che sostituisse al centralismo statale un centralismo regionale, non verrebbe raggiunto lo scopo desiderato, anzi, sotto alcuni profili, quello regionale potrebbe essere peggiore del centralismo statale.

Appunto per ovviare a queste conseguenze, occorre, a suo avviso, prendere le mosse dall’ente locale primigenio: il comune.

Ritiene che una riforma della struttura comunale dovrebbe soprattutto imperniarsi, da un lato su di una discriminazione, con effetti giuridici, dei comuni in funzione non soltanto della quantità della popolazione, ma anche della diversa natura dell’aggregato sociale – ed ognuno pensa già al comune rurale – e dall’altro sulla necessità di svincolare il comune dalla maglia rigida dei controlli attuali; controlli oggi in gran parte accentrati nella autorità prefettizia.

Sotto quest’ultimo punto di vista, precisa che non si tratta di eliminare ogni controllo, dato che la necessità di un controllo può ritenersi giustificata se non altro dal fatto che la sua esistenza acuisce il senso di responsabilità della autorità al controllo stesso sottoposta, ma di creare un sistema di controllo, indiscutibilmente di legittimità, forse anche di merito, che non sia espressione di un prepotere centrale. Oggi la vita dei comuni è grama, non solo per la pressoché generale deficienza di mezzi economici e finanziari, ma anche in conseguenza degli eccessivi controlli.

Per ciò che riguarda la provincia, concorda con l’opinione di coloro che ritengono dovere questo ente rimanere in vita, tanto nell’ipotesi che si voglia dar luogo alle autonomie regionali, quanto in quella contraria.

Precisa che intende parlare della provincia come persona giuridica di diritto pubblico, soggetto di autarchia e di autonomia insieme, cioè di poteri che si esplicano nel campo amministrativo e normativo, prescindendo quindi dal secondo aspetto, vale a dire da quello di circoscrizione amministrativa, a capo della quale sta il prefetto. Storicamente la provincia come ente autarchico territoriale è stata trapiantata in Italia in seguito alla riorganizzazione amministrativa che seguì l’occupazione francese nei primi anni del secolo scorso. In fondo non si tratta che del dipartimento francese che si è portato in Italia. Tuttavia, la provincia è diventata un centro di attività e di interessi che è oggi difficilmente sradicabile. Tentare di eliminare la provincia significherebbe andare incontro a resistenze, attive e passive, che renderebbero difficile il compito.

Ritiene che anche nell’ambito della regione la provincia possa a buon diritto sussistere come persona giuridica di diritto pubblico, soggetto di autarchia, soprattutto in quanto potrà servire da tramite tra il comune e la regione, contribuendo ad evitare un accentramento regionale. Oggi i comuni sono gravati di funzioni complesse, cui non sempre possono adempiere. Molti dei compiti dei comuni potrebbero essere attribuiti alle provincie, le quali dovrebbero essere soprattutto viste, a suo avviso, come consorzi di comuni.

È pertanto favorevole a conservare la provincia, come organo di attuazione della funzione amministrativa della regione, e come forma di decentramento intraregionale.

Viene poi il problema della regione. Se la regione si deve creare, essa deve essere munita di una autonomia politica o legislativa, perché altrimenti si creerebbe una superstruttura non giovevole.

Quindi, bisogna attribuire alla regione una potestà normativa primaria, cioè la potestà per la regione di creare delle leggi formali; oltre che leggi secondarie, di adattamento e di attuazione.

Si deve creare la regione dappertutto?

Quando si parla di autonomia regionale si considerano la Sicilia, la Sardegna e la Val d’Aosta; ma è vero che una esigenza nella stessa misura e intensità sia avvertita da tutte le altre regioni?

Propone di configurare la regione facoltativa; cioè la Costituzione dovrebbe stabilire alcuni principî fondamentali, e poi dovrebbe essere rimesso ad un atto di libera determinazione, di libera volontà, delle provincie il chiedere uno statuto regionale, che dovrebbe essere sottoposto all’approvazione degli organi parlamentari riuniti.

Si può obiettare: ma così si verrebbe a creare uno Stato di varia struttura.

Precisa la sua proposta nel senso di rimettere alle regioni non soltanto la composizione di ogni eventuale conflitto territoriale; ma rimettere alla loro volontà, manifestata col referendum, l’esistenza stessa del nuovo ente.

Pensa che questo sistema consentirebbe di risolvere la questione con un gradualismo che permetterebbe di fare delle esperienze. La Costituzione spagnola segue un orientamento di questo genere.

In fondo non si può rispettare l’esigenza di una perfetta architettura giuridica, ma si debbono piegare gli schemi giuridici alle reali esigenze degli aggregati sociali.

Concludendo: potenziamento dei comuni, svincolandoli dal regime dei controlli quale oggi è; varietà di tipi di comune, a seconda della varietà dell’aggregato sociale; mantenimento della provincia come persona giuridica pubblica soggetto di autarchia e di autonomia e come strumento capace di evitare raffermarsi di un accentramento regionale; affermazione della regione (Ente dotato anche di potestà legislativa primaria), come espressione di libera manifestazione degli stessi aggregati provinciali.

MORTATI ritiene che in questa discussione compito della Sottocommissione sia quello di individuare gli elementi che consentano una soluzione; e per raffigurare questi elementi essenziali bisogna considerare anzitutto gli scopi del decentramento, appunto per stabilire poi i mezzi giuridici per il raggiungimento di questi scopi.

Questi scopi sono stati accennati, ed è bene riassumerli perché sono così connessi fra loro che bisogna cercare di raggiungerli tutti; altrimenti l’istituto del decentramento verrebbe meno alle sue esigenze fondamentali.

Gli scopi sono tre:

1°) innanzi tutto l’avvicinamento dell’amministrazione agli interessi locali; al duplice scopo dell’educazione politica dei cittadini e dell’adattamento alle esigenze locali;

2°) garanzia di libertà quale può essere data da un saldo gruppo omogeneo;

3°) infine, e questo non è stato accentuato sufficientemente nella sua funzione essenziale, equilibrio delle regioni fra loro, superando l’inconveniente, che si verifica in tutta la storia d’Italia, della sopraffazione da parte delle regioni più popolate e più ricche di quelle meno popolate e più povere. Occorre creare e rafforzare una coscienza regionale creando gli istituti adatti al suo sorgere e le possibilità di equilibrio, così da far valere in modo più efficace gli interessi delle regioni meno dotate.

Per raggiungere questi scopi, occorre innanzi tutto una vera autonomia, non soltanto amministrativa, ma costituzionale, garantita dalla Costituzione con un tribunale apposito per risolvere gli eventuali conflitti di competenza. Occorre poi una certa autosufficienza: è assurdo conferire l’autogoverno senza una sufficiente autonomia finanziaria, senza un minimo di mezzi economici per far fronte alle spese della regione. Una vera autonomia suppone, inoltre, che si possa fare a meno del controllo esterno, cioè dell’intervento di organi dello Stato centrali. Quindi anche l’esame di legittimità degli atti dovrebbe essere affidato in proprio agli enti locali; occorrerebbe cioè ricorrere al controllo interno nell’ambito degli stessi enti, attraverso l’interessamento dei cittadini alla cosa pubblica, con mezzi (come per esempio: un sistema di azioni popolari) che diano agli amministrati le possibilità più efficaci di controllo, dando ai cittadini la consapevolezza che da essi stessi dipende la buona amministrazione e quindi la tutela dei loro interessi.

Bisogna inoltre evitare un accentramento regionale che sarebbe più pericoloso dell’accentramento burocratico statale; bisogna, cioè, che alla regione competano prevalentemente le funzioni direttive, normative, mentre il compito dell’esecuzione dovrebbe essere lasciato agli enti locali minori, cioè ai comuni e ad un ente intermedio che non dovrebbe essere l’attuale provincia, ma un gruppo sociale minore che si dovrebbe creare attraverso adattamenti successivi, essendo evidentemente impossibile farlo sorgere da un giorno all’altro. Questo ente intermedio dovrebbe essere più ristretto dell’attuale provincia, e con carattere più omogeneo. Si potrebbe, per esempio, pensare a quel consorzio di comuni di cui è stato parlato, organizzato secondo l’identità degli interessi e delle aspirazioni, e la possibilità di un’azione comune nei vari campi. Così l’amministrazione sarebbe meglio avvicinata agli amministrati e potrebbe meglio operarsi una selezione delle capacità in base alla conoscenza personale dei portatori delle medesime.

Il concetto di comunità, che è stato recentemente illustrato dall’Olivetti, ma che deriva dalla concezione cattolica di una società organica, potrebbe essere utilizzato quando si volesse procedere alla costituzione di questi aggregati intermedi fra regione e comune, perché precisamente soddisfa alle esigenze che si sono indicate.

Un’altra funzione della regione potrebbe essere quella dell’esercizio, in virtù di delegazione, di compiti statali, in modo da evitare duplicazione di uffici e giungere ad una riduzione del personale. Invece dovrebbero rimanere alla cura di uffici direttamente gestiti dallo Stato altri compiti, come per esempio quello della pubblica sicurezza, per i quali più sensibile è l’esigenza dell’unità d’azione e più rilevante l’interesse politico generale.

Un ultimo punto essenziale è quello della costituzione dei nessi fra centro e periferia, perché non si può negare l’esigenza unitaria dello Stato moderno in alcuni campi. Questo vale specialmente nel campo economico, dove, pur volendo lasciare alla regione una certa latitudine di azione, è necessario preoccuparsi contemporaneamente di non compromettere la realizzazione di piani nazionali. Non sa se e quanto l’economia si indirizzi verso forme di economia pianificata; ma se queste esigenze di pianificazione ci saranno, bisogna che siano attuate non da una burocrazia più o meno competente e responsabile, ma dalle autorità regionali; è necessario che queste autorità regionali siano inserite nell’ordinamento centrale, in modo che i piani siano concretati attraverso la partecipazione attiva delle medesime. E questo inserimento dovrebbe avvenire in modo da correggere la sperequazione attuale tra le regioni d’Italia più numerose e più ricche e le regioni più povere e meno popolate.

Il punto accennato è di straordinaria importanza, e dalla sua felice soluzione dipende la possibilità di un proficuo impiego di un regime decentrato.

Si pensi, per esempio, all’influenza che sulla disciplina dell’economia da parte delle singole regioni esercita la politica doganale. Ora, se alle decisioni su tale politica non partecipassero organi formati con il concorso delle regioni, con le forme perequative accennate, potrebbe essere reso vano ogni sforzo di autonomia delle singole regioni.

La necessità di utilizzare le regioni nella formazione di organi centrali dello Stato porta ad escludere la tesi sostenuta dall’onorevole Bozzi sulla possibilità di una regione opzionale. Sta bene lasciare un certo potere di autogoverno alle regioni, e quindi di adattamento della loro organizzazione alle esigenze di ciascuna di esse; ma accanto a questa discrezionalità di organizzazione interna bisogna mantenere un tipo strutturale uniforme. Questo è, a suo avviso, un elemento fondamentale per giungere all’accettazione della tesi regionalista.

Fa presente, infine, un ultimo punto che riguarda la concretezza del lavoro della Sottocommissione. Si avvertirà ad un certo momento il bisogno di dire qualcosa sul modo di concretare questi enti regione. Sarebbe opportuno perciò avere a disposizione taluni dati positivi, statistici ed economici, che potrebbero guidare il lavoro della Sottocommissione ed indirizzarla nelle proposte da fare circa la delimitazione territoriale. Propone quindi di prendere in considerazione questo aspetto pratico della questione, promovendo la formazione di una segreteria con compiti di raccolta di dati, anche presso organi centrali o locali, e di elaborazione dei medesimi.

MANNIRONI interviene in questa discussione per portarvi un contributo che deriva da una sua esperienza di vita regionale.

La Sardegna, forse per la prima, ottenne la possibilità di vivere in un regime relativamente autonomistico. Prima ancora che in Sicilia, si era costituita in Sardegna una Consulta regionale, la quale doveva affiancare l’opera di un Alto Commissario, nominato dal Governo centrale. Era un primo esperimento; ma non era tutto, anzi basta pensare al fatto che l’Alto Commissario era di nomina governativa per escludere che si potesse parlare di autonomia. Tuttavia la Consulta regionale, che funziona affiancando l’opera dell’Alto Commissario ed esercitando un potere di consulenza, ha potuto dimostrare fino a qual punto di maturità le popolazioni sarde fossero giunte per una vita autonomistica, e ha dato anche un saggio delle possibilità e delle realizzazioni a cui si può arrivare.

Alla Sardegna questa concessione fu fatta per prima, perché l’esigenza autonomistica è colà vivamente sentita, soprattutto per ragioni geografiche ed economiche. Ma oggi l’onorevole Uberti, che è un veneto, ha pur dichiarato di sentire al pari dei sardi l’esigenza autonomistica; ed altri colleghi vivono egualmente questa necessità, e la sentono soprattutto come espressione di quel corpo elettorale che li ha inviati alla Costituente.

Dall’insieme della discussione fin qui svolta risulta quindi che tutti sono già orientati verso questa forma di decentramento e di autonomia regionale. Riconosce anch’egli che non bisogna fare questioni di nomi; bisognerebbe che ciascuno cercasse in questa discussione di arrivare il più possibile al concreto, dimenticando l’attaccamento a teorie e tesi politiche finora abbracciate.

Ora, che si tratti di una forma di federalismo o di una forma di regionalismo poco importa (le definizioni sono sempre pericolose); importante è venire al concreto e vedere fino a qual punto si può consentire alla regione di vivere una vita autonoma.

Qualcuno ha parlato di creazione della regione. È un termine erroneo: lo Stato, la legge non crea la regione; la riconosce, perché la regione esiste come entità economica, storica, geografica, linguistica ecc. Perciò, non può accettare la tesi dell’onorevole Bozzi. La regione esiste, e deve essere riconosciuta per tutta l’Italia: altrimenti si avrebbero delle regioni esistenti autonomamente ed altre no, e delle situazioni pericolose ai fini stessi dell’unità nazionale.

Scendendo al concreto e preoccupandosi delle realizzazioni definitive, osserva che la prima preoccupazione che si deve avere è quella di stabilire quali sono i limiti dell’autonomia da concedere alla regione e dei poteri da darle. La regione è uno degli enti, si potrebbe dire, di diritto naturale, come il comune, e quindi un ente insopprimibile; un ente che esiste e che bisogna riconoscere proprio perché in questa maniera, non solo si favorisce l’educazione politica dei cittadini, ma si dà loro giustamente modo di provvedere essi stessi ai loro immediati bisogni attraverso gli organi e gli enti che sono più vicini a loro.

I compiti della regione possono èssere definiti in rapporto al comune e allo Stato, per via di esclusione, e vi si può arrivare meglio tenendo conto della configurazione territoriale di questi enti. Lo Stato provvede a tutti i bisogni generali dei cittadini, ai fini della difesa, della rappresentanza diplomatica, dell’istruzione superiore, delle leggi di economia generale, al sistema delle telecomunicazioni, alla polizia generale. Tutte quelle che non sono esigenze generali rientreranno invece nei compiti della regione, la quale ha esigenze particolari sue, che sono la somma delle esigenze dei comuni. In sostanza, la regione dovrebbe essere quell’ente che difende meglio la libertà dei comuni, provvede alle loro immediate esigenze, tutelandole rispetto allo strapotere dell’organismo statale. Quindi, alla regione potranno essere affidati compiti in materia di agricoltura, di industria, di pesca, di caccia, di lavori pubblici, di lavoro, di previdenza, di assistenza, di beneficenza e vari altri che possono essere sottratti alla competenza esclusiva dello Stato.

Non crede che possa sorgere un conflitto tra le competenze della regione e quelle dello Stato quando siano fin da principio completamente e chiaramente definiti i poteri dell’un ente e dell’altro; e soprattutto questi poteri dovranno essere definiti nella Carta costituzionale, in cui bisogna preoccuparsi di essere chiari. In ogni caso all’eventuale insorgere di contrasti e di conflitti di competenza fra i due enti potrebbe benissimo provvedere il Tribunale costituzionale, utilmente intervenendo anche in questa sede e in questi casi.

Affinché la regione possa assolvere i suoi compiti, essa deve avere una autonomia effettiva, non fittizia, e quella potestà legislativa cui da altri si è accennato, che potrà pure essere determinata in origine, per evitare conflitti di competenza con lo Stato, e che dovrà essere limitata alle specifiche materie già ricordate. E questa potestà legislativa potrà essere riconosciuta anche nel senso che alla regione sia riconosciuto il potere di emanare norme di attuazione delle leggi generali che fossero emanate dallo Stato.

Un altro problema è quello del modo in cui dovrà essere organizzata la regione. Crede che in questa sede si dovranno fissare delle norme generali e, per essere autonomisti rispettosi della volontà della regione, si dovrà consentire che, entro il quadro generale fissato dalla Costituente, ogni singola regione provveda al proprio ordinamento. Ricorda in proposito che quando la Consulta espresse parere favorevole al decreto che riconosceva l’autonomia della Sicilia, fu proposto che quel decreto fosse esteso automaticamente anche alla Sardegna; ma in Sardegna, e proprio in seno alla Consulta regionale, si ebbe una reazione vivissima a quel provvedimento, perché non si vuole quella forma di autonomia che è stata concessa alla Sicilia; non si vuole quella estensione automatica e si chiede di essere sentiti, perché quella che può essere una giusta esigenza per la Sicilia, non lo è per la Sardegna.

LUSSU rettifica, avendo assistito alla riunione della Consulta Sarda, precisando che i monarchici dicevano di non volere che l’autonomia fosse concessa per decreto regio. Parve perciò strano a molta parte dell’opinione pubblica che questa forma di diffidenza verso un decreto regio l’avessero proprio i monarchici. Egli ebbe l’impressione, e con lui molti altri, che dietro quell’atteggiamento fosse un motivo elettoralistico piuttosto che di interesse regionale effettivo.

MANNIRONI dissente dal rilievo dell’onorevole Lussu, perché non erano soltanto i monarchici a reclamare la concessione dell’autonomia per decreto regio: esponenti di varie correnti politiche, da quella democristiana a quella comunista, erano d’accordo, perché si sentivano regionalisti e l’onorevole Lussu, che avvertì l’opportunità di discolparsi in sede di Consulta regionale del suo intervento, sentì in quel momento quali fossero gli umori: era una reazione in senso autonomistico.

LUSSU afferma che nessuno degli oratori in quella sede manifestò queste esigenze particolari, che dovevano essere espressione locale: la preoccupazione era che l’autonomia potesse essere concessa per decreto regio. Ed erano tutti monarchici, tranne alcuni comunisti, che per l’occasione erano coi monarchici.

MANNIRONI, indipendentemente da questo episodio, sulla cui valutazione c’è disparità di vedute, afferma che, a voler essere coerenti con se stessi e partendo dagli stessi presupposti autonomistici, si deve fare in modo che la regione possa creare una specie di costituente iniziale in seno alla regione stessa e provvedere al suo organamento e alla sua costituzione, naturalmente entro linee generali che dovranno essere fissate dalla Costituente.

Queste linee generali dovranno essere quelle che ha lo Stato in Italia; cioè gli organi che presiedono alla regione dovranno essere elettivi, eletti a suffragio universale, segreto, con sistema proporzionale. Dovrà, cioè, valere per le elezioni regionali, con le opportune modifiche e i necessari adattamenti, quella stessa legge che vale per l’Assemblea nazionale. L’Assemblea regionale dovrà nominare un Consiglio; dovrà avere quindi un capo, che si potrà chiamare presidente, governatore, o altrimenti, e che sarà l’organo esecutivo della volontà dell’Assemblea regionale.

Ma la regione, affinché possa adempiere a questi suoi compiti, oltre alla potestà legislativa, dovrà avere anche una sua autonomia finanziaria. Si rende conto delle preoccupazioni e delle difficoltà che ha sollevato l’onorevole Einaudi: sono argomenti che rendono perplessi, perché provengono da una fonte non sospetta e soprattutto da un competente in materia. Ma se alla regione non si concedesse un minimo, perlomeno, di autonomia finanziaria, l’esperimento regionalista non sortirebbe buon fine; si ridurrebbe ad una forma di decentramento che non muterebbe la situazione, non farebbe altro che trasformare il centralismo dello Stato lasciando sempre lo Stato dominatore dì tutte le situazioni, non dando alcun sviluppo e respiro alle energie regionali, che più direttamente ed utilmente possono occuparsi dei problemi locali. Se non si dà alla regione un minimo di autonomia finanziaria non si risolve nemmeno la questione del Mezzogiorno. Come ebbe a dire l’onorevole Labriola nel suo ultimo discorso in Assemblea: giacché il Mezzogiorno insiste nel volere questa autonomia, per risolvere da sé i suoi problemi, bisognerà che questo esperimento lo si lasci fare. Non si può ignorare questa esigenza delle popolazioni meridionali; la si deve tenere presente in sede di Costituente, dove sono rappresentati tutti gli indirizzi politici, ma anche tutti gli interessi delle varie regioni italiane.

Questa autonomia finanziaria sarà necessaria affinché le regioni, che si considerano ingiustamente sfruttate, possano avere la possibilità di rimediarvi. Vi saranno regioni non autosufficienti e tra queste sarà la Sardegna, la quale è certamente una terra molto povera, con i tre quarti o quattro quinti della sua superficie incolta e in gran parte improduttiva; ma ve ne saranno altre autosufficienti. Quindi la necessità dell’intervento dello Stato per costituire una specie di stanza di compensazione, un piano di solidarietà fra le regioni, perché è giusto che le regioni ricche contribuiscano ad integrare i bilanci insufficienti delle regioni povere. Questo è un punto delicato della questione; tuttavia non così grave da potersi ritenere insuperabile. La regione potrà contare sui demani regionali, su determinate imposte: le si potranno assegnare tutte le imposte dirette sui terreni e sui fabbricati; le si potrà consentire l’istituzione di altre imposte, come le si potrà concedere una percentuale sulle imposte di ricchezza mobile e di produzione, che è giusto siano prelevate direttamente dallo Stato.

Le regioni dovranno fare il bilancio preventivo, che potrà essere studiato da organi misti regionali e statali, i quali considereranno fino a qual punto le attività basteranno per supplire alle passività e stabiliranno le necessità di integrazione.

Crede che questa autonomia finanziaria, anche se limitata, non debba costituire un ostacolo insuperabile per coloro che si preoccupano sempre del concetto unitario solo in questo senso, che se alla regione sarà concessa una larga autonomia legislativa in campo economico, potrà sorgere il pericolo di conflitti di interessi economici tra regione e regione. Se ne è avuto un esperimento recentissimo in Sardegna, quando questa ha costituito una specie di mercato chiuso perché l’Alto Commissario aveva impedito l’esportazione di determinati generi dalla Sardegna nella penisola, determinando così un’economia chiusa che potrebbe essere causa di veri conflitti, se alle stesse misure pervenissero altre regioni, le quali non invierebbero più alla Sardegna generi di cui questa ha bisogno.

Questo porta a concludere che nel campo della economia è giusto che intervengano norme generali dello Stato, per evitare che si costituiscano questi mercati chiusi, che sarebbero dannosissimi.

Circa la provincia, ritiene assolutamente impossibile sopprimerla quando, se non è un ente così ben definito storicamente e geograficamente come la regione, è tuttavia entrato ormai nella coscienza pubblica ed ha coagulato intorno a sé molti interessi economici.

D’altra parte la provincia potrà essere un utilissimo organo di decentramento regionale. Di questo ha fatto un’esperienza, quando si è compiuto uno studio preliminare per la riforma delle Camere di commercio, e vi erano taluni che sostenevano la necessità di abolire le Camere di commercio provinciali per creare una Camera regionale. Se si dovessero costringere tutte le categorie di produttori, che attualmente gravitano intorno alle Camere di commercio, a far capo ad un’unica Camera regionale, si creerebbero degli intralci di natura burocratica, arrecando danni indubbiamente gravi. La provincia è un ente insopprimibile: non sarà la provincia di oggi; sarà la provincia intesa come consorzio dei comuni, tutrice della libertà dei comuni ed organo di controllo. Crede che la Giunta provinciale amministrativa sia necessaria per il controllo di legittimità e anche di merito e pensa che i comuni non avranno a dolersene quando questi controlli verranno esercitati, non più dal prefetto, ma da una Giunta provinciale amministrativa a carattere elettivo. Inoltre, alla provincia si possono assegnare altri compiti oltre quelli che ha già oggi: assistenza e beneficenza, consigli provinciali scolastici, ecc.

Vi sono, in sostanza, numerosi interessi che possono essere direttamente curati in sede provinciale, considerata questa come organo utile di decentramento regionale, perché, se si vuole decentrare e abolire il centralismo statale, si deve anche evitare di creare un centralismo regionale, che sarebbe altrettanto nocivo e pericoloso.

Conclude esprimendo l’avviso che la soluzione migliore sia quella di una forma di larga autonomia regionale, riconoscendo alla regione la sua qualità di Ente autonomo autarchico, con autonomia finanziaria controllata e conservando anche la provincia; e propone che in seno a questa Sottocommissione si costituisca una sezione apposita che si occupi concretamente del problema delle autonomie.

GRIECO trova la discussione assai interessante e ricca di numerosi problemi, ai quali occorrerà dare soluzione.

Malgrado le divergenze, alcune delle quali anche profonde, crede che si stiano facendo dei passi in avanti, sia pure stentati, verso un incontro, e vorrebbe dare un contributo, anche modesto, al raggiungimento di questo incontro.

Si limiterà ai due temi indicati, a conclusione della sua interessantissima relazione, dall’onorevole Ambrosini, e ribaditi anche dal Presidente.

Sono stati posti due problemi pregiudiziali: si deve creare l’Ente regionale o no? Quali i doveri e le competenze della Regione? Intende rispondere a queste due domande, salvo a parlare a suo tempo in modo particolareggiato su altre importantissime questioni. Ma è stato domandato che sia data una risposta alla questione federale, ed anche questa darà.

Concorda col collega Bozzi, che ha invitato ad evitare gli schemi ed a far sorgere soluzioni e proposte dalla realtà: si deve ricercare quale forma statale sia oggi la più efficace a risolvere i problemi della ricostruzione del Paese, i problemi economici, politici, culturali, per fondare una nuova e più solida democrazia. Dice questo perché, leggendo degli articoli e udendo dei discorsi fatti fuori di qui, si è formato la convinzione che esista, in alcuni regionalisti o federalisti, anche accesi, l’opinione che una delle cause principali, fondamentali dei nostri mali debba ricercarsi nel fatto che l’Italia mancò di larghe autonomie interne. Anzi, fuori di qui qualcuno ha sostenuto addirittura che, se l’Italia si fosse unita in sistema federativo, non avrebbe avuto il regime fascista. Non può accogliere le argomentazioni di questi autonomisti, perché pensa che il fascismo sia sorto e si sia affermato per altre cause. Difatti il fascismo è sorto anche in Paesi dove erano tradizioni federali, e vi è da temere che, se il popolo degli Stati Uniti non starà con gli occhi aperti e molto bene aperti, potrà trovarsi domani di fronte a movimenti di tipo fascista, nonostante la propaganda sul sistema costituzionale americano.

Ritiene che la creazione di uno Stato unitario italiano nel secolo scorso sia stato un fatto progressivo, anche nelle condizioni troppo spesso deplorevoli e deplorate nelle quali questa unità si realizzò, e che su questo punto avessero ragione gli unitari, nel secolo scorso, e non i federalisti. Riconosce però che Carlo Cattaneo aveva ragione quando indicava la urgenza della soluzione di problemi economici e sociali delle varie regioni italiane, corrispondenti, press’a poco, ai vecchi staterelli. Quei problemi gli unitari non li videro. Se la rivoluzione del secolo scorso avesse avuto almeno il contenuto che voleva darle Cattaneo, si sarebbe formato un altro Stato, senza dubbio più solidamente democratico, più moderno; quasi certamente non si sarebbe avuta una monarchia in Italia; molto probabilmente non si sarebbe avuto più tardi il fascismo.

Lo Stato unitario fu una conseguenza dello sviluppo della lotta nazionale tendente a superare lo spezzettamento secolare del Paese. Bisognava abbattere le frontiere interne, creare un mercato nazionale: questa è la formula economica dell’unità, da cui derivano o a cui si legano elementi culturali e anche sentimentali, che contribuiscono sempre fortemente al fatto di una rivoluzione nazionale. Lo Stato unitario era una esigenza dello sviluppo economico, culturale, politico delle forze nazionali dell’epoca. Che questo sviluppo sia stato poi rachitico, essendosi elusi i problemi sociali ed economici sollevati da Cattaneo, e soprattutto la riforma agraria, specie nel Mezzogiorno, questa è un’altra questione. Non sarà male, dinanzi ai problemi attuali della ricostruzione, rileggere Cattaneo.

Non vuole pensare cosa sarebbe stata l’Italia, come un insieme di Stati federati Del resto ciò non ha importanza. Però ottantacinque anni di vita unitaria statale, con tutte le colpe enormi, qualche volta criminali, commesse dalle classi dirigenti – delle quali ha fatto un’appassionata, per quanto parziale (come quantità) denunzia l’onorevole Lussu, che tutta la parte comunista condivide assolutamente, come condivide assolutamente i giusti risentimenti delle popolazioni siciliane – e nonostante la relativamente debole coscienza nazionale degli italiani, questo secolo o quasi di vita unitaria rappresenta qualche cosa nella nostra vita nazionale, economica e politica: è un’esperienza comune di successi ed anche di sventure e di disastri; ma da questa esperienza dobbiamo muovere per andare avanti, per rifare insieme l’Italia nel progresso. Dice queste parole pensatamente, con la conoscenza che ha anch’egli della realtà italiana. C’è molto scoraggiamento nel nostro popolo e questo aiuta lo sviluppo di tendenze centrifughe, ed i rappresentanti nazionali debbono lottare decisamente contro questo scoraggiamento ed unire tutte le forze vive nazionali per difendere l’unità e muovere uniti verso il rinnovamento del Paese.

Il federalismo oggi, come il piano integrale delle autonomie proposte dall’onorevole Zuccarini, non rappresenterebbero un passo avanti, ma un serio passo indietro.

Come è stato detto giustamente dall’onorevole Rossi, tutta la vita delle Nazioni, nei loro rapporti economici e culturali, tende, per la esigenza che nasce dallo sviluppo delle loro forze interne, ad attenuare i particolarismi nazionali. È una caratteristica dell’epoca nostra quella di tendere ad una sfera di azione, che si può chiamare intra-nazionale (non dice internazionale): cioè ad accordi ed intese particolari fra gruppi di Nazioni. Ed anche il divenire – nella misura in cui si può vedere e prevedere – dell’umanità, non sarà nel ripiegamento delle Nazioni in se stesse, ma nel loro aggruppamento. Ora, se questa è una realtà, come lo è infatti, non comprende perché si dovrebbe creare oggi una sorta di frontiere interne; perché frontiere interne nascerebbero, quando fossero date alle Regioni la potestà legislativa e l’autonomia finanziaria ed economica.

Domanda se è possibile ricostruire l’Italia, lasciando ad ipotetici Stati autonomi, confederati o federati, di provvedere da sé, con proprie leggi, alla propria ricostruzione: personalmente non lo crede. Il piano federale dell’onorevole Lussu non renderebbe un servizio né all’Italia né alla Sardegna. Creando oggi una Repubblica sarda, in qual misura si agevolerebbe la soluzione dei problemi della Sardegna? I problemi che l’onorevole Lussu vuole risolvere, e che tutti vogliono risolvere con lui, non li potrà risolvere la Sardegna senza l’aiuto ed il concorso di tutta la Nazione italiana, dello Stato italiano. E se un federalista sardo dissennato – che ritiene non esista – pensasse di risolvere i problemi della Sardegna ricorrendo all’aiuto economico straniero, non solo farebbe dell’Isola una dipendenza straniera, col pericolo di spezzare l’unità statale italiana, ma non risolverebbe i problemi della economia sarda: al posto dei capitalisti continentali, i sardi vedrebbero i capitalisti stranieri. Questo sarebbe il risultato.

Riconosce che non si può essere, in principio, né assolutamente federalisti, né assolutamente antifederalisti; e lo ricorda a coloro i quali ritengono che il problema del federalismo sarebbe qualche cosa di permanente ed immanente. Ritiene che la questione debba essere posta politicamente, cioè in vista di obiettivi politici da raggiungere. E l’obiettivo che si deve raggiungere è il consolidamento della Repubblica, attraverso la ricostruzione economica unitaria del Paese, sulla base di una solidarietà nazionale. Del resto, ha udito parlare di stanze di compensazione: un autonomista realista, come il collega che ha proposto la creazione di una stanza di compensazione, sente che la Regione sarda non sarebbe autosufficiente, avrebbe bisogno di aiuto.

LUSSU crede che questo potrebbe dirsi all’onorevole Finocchiaro Aprile, ma non a lui, che ha accennato (ed è questione sulla quale occorrerà tornare) alla miseria della Sardegna, che non è solo conseguenza dello sfruttamento locale, che esiste in ogni parte, ma anche dello sfruttamento da parte dello Stato centralizzato, ed a cui si ovvia precisamente sradicando queste possibilità di sfruttamento. Con le saline, le miniere e le tonnare si può ricostruire la Sardegna, senza bisogno di ricorrere a casse di compensazione, ridando a questa Regione la sua naturale ricchezza.

GRIECO riconosce che i problemi che l’onorevole Lussu pone sono problemi reali, ma crede che non comportino necessariamente, per la loro soluzione, la creazione di una Repubblica sarda.

Si deve, dunque, cercar di ricostruire il Paese attraverso criteri unitari. Insiste su questo. Si vedrà il peso che avrà il criterio unitario nella ricostruzione. Lo Stato unitario è oggi minacciato da forze centrifughe, le quali sono alle volte legittimiste, nemiche della Repubblica. Potrebbe accadere di vedere impugnata la bandiera federalista dai gruppi legittimisti, che fino a ieri erano ferocemente unitari e centralisti. Questo conferma che il problema del federalismo e dell’antifederalismo non è problema di principio, ma mezzo per il raggiungimento di certi obiettivi.

La stessa opera di ricostruzione richiede l’unità nazionale e non la suddivisione interna. Da tempo si è persuasi che senza un intervento dello Stato, senza la mobilitazione di tutte le risorse di tutti i cittadini italiani, è impossibile rimettere in marcia vari importanti settori dell’economia nazionale. Per esempio, i comunisti pensano che occorrerà procedere a delle nazionalizzazioni (problema molto importante); essi domandano, e molti dei presenti sono d’accordo, che si proceda di urgenza a trasformazioni e ad una riforma agraria. Ma queste ed altre riforme esigono una larga mobilitazione di risorse che solo lo Stato unitario può mettere in movimento. Questo indirizzo nella ricostruzione, che porta ad un progressivo miglioramento delle condizioni delle grandi masse lavoratrici, ad uno sviluppo delle forze produttive, è contrastante con la creazione di Stati interni italiani, ma è nell’interesse delle nostre stesse Regioni. Per la realizzazione di un simile piano di ricostruzione, a suo avviso, occorrono non già delle ipotetiche repubbliche autonome, quale una Repubblica calabrese o calabro-lucana, ma l’Italia unita che aiuti la Calabria e la Lucania a rinascere ed in qualche zona a nascere, perché queste nostre Regioni da molto tempo sono state veramente abbandonate al loro destino.

Si dichiara, dunque, contrario ad ogni tipo di federazione o confederazione dello Stato italiano nell’interesse delle Regioni prese isolatamente e della Repubblica presa nel suo insieme.

Però riconosce la necessità di apportare cambiamenti seri, modificazioni profonde del vecchio Stato italiano per metterlo in grado di assolvere ai nuovi compiti che stanno dinanzi al Paese. Occorre allargare le basi popolari della democrazia in Italia, arricchire i quadri dirigenti di nuove forze, avvicinare il potere al popolo, mettere in gara, in una nobile fruttuosa emulazione ricostruttiva, le nostre popolazioni e dare un colpo a quella mostruosa macchina burocratica, contro la quale numerosi colleghi si sono levati con indignazione. Quindi è d’accordo con coloro che chiedono la creazione in Italia dell’Ente regione, che potrebbe favorire il superamento dei contrasti e dello spirito di concorrenza fra le provincie denunciato dall’onorevole Rossi. Però non vorrebbe che dietro l’Ente regione si nascondesse una specie di federalismo mascherato.

Dichiara, innanzi tutto, che riconosce la legittimità storica e politica della rivendicazione di statuti regionali particolari e particolarmente ampi alla Sardegna, alla Sicilia, al Trentino e alla Val d’Aosta. Non si può non riconoscere la giustezza di queste rivendicazioni per alcune Regioni, specialmente per la Sicilia, ma anche per altre. Queste rivendicazioni sono chieste dalle masse popolari ed è un atto doveroso di riparazione per tutte le colpe che lo Stato unitario ha commesso verso di esse l’aderirvi. Ma la questione non si pone alla stessa maniera per tutte le Regioni. Anzi in alcune di esse non esiste un problema simile, perché un problema politico-sociale non è quello che si pongono o pongono certi gruppi di uomini politici o di studiosi «problemisti», ma quello che sorge dalla vita stessa del popolo, e non sembra che esista un movimento popolare regionalista nell’Emilia, nella Lombardia, nel Lazio, in Toscana, nella Campania, nelle Marche, e in altre regioni.

Ricorda di avere, in una Commissione volontaria interpartitaria, dove si studiavano questi problemi, affacciato un giorno lo stesso argomento che affaccia ora, ed alcuni colleghi giuristi gli dissero che voleva dar vita ad un monstrum giuridico. Vero è che si potrebbe dare l’esempio di altri mostri, come il progetto di Costituzione spagnola che conteneva lo Statuto della Catalogna e dei Paesi baschi, e che ammetteva anche la creazione volontaria dell’ente regione, e persino il volontario ritorno di una regione già autonoma al regime centralizzato, ogni volta che lo volesse. Naturalmente, non è questo che egli invita a fare; ma vuole fare osservare che questo statuto era proprio il contrario di uno statuto eguale per tutte le regioni; ed era giusto, perché rispondeva ad una esigenza storica e reale della Spagna e negava l’egualitarismo formale che è spesso la fonte di molte ingiustizie.

Ripete quindi che gli Statuti regionali già concessi in Italia possono essere modificati, o migliorati col concorso delle singole regioni, ma debbono restare come Statuti particolari. Avremo, così, in Italia un tipo misto di regioni autonome e di semplici regioni.

Dall’impostazione generale che dà alla questione, pensa che l’ente regione (non la regione autonoma, che è particolare) potrebbe nascere in tutto il Paese. Esso non dovrebbe avere una competenza legislativa in generale, ma solo per certe materie che dovrebbero essere indicate, pur ammettendo il principio di una delega normativa ogni volta che l’Assemblea nazionale la dia con una legge. Invece le regioni autonome avrebbero maggiori potestà, senza però giungere a competenza legislativa e normativa in genere, che porterebbe ad un federalismo mascherato, con tutte le conseguenze che ha indicate, deleterie per la economia, per la vita, per l’unità del Paese.

Secondo il suo modo di vedere, la Regione ordinaria dovrebbe avere una competenza amministrativa, ma anche una competenza economico-tecnica per una serie di attività oggi statali, e quindi una funzione che va al di là del semplice decentramento e una competenza normativa per certe branche, nel quadro delle leggi dello Stato, e una delegazione normativa da parte dell’Assemblea legislativa, per leggi determinate. Ha citato la riforma agraria: è evidente che una riforma agraria, per essere efficiente dovrà, nel quadro dei principî e degli scopi decisi dall’Assemblea nazionale, essere attuata dalle regioni. Le Assemblee regionali avrebbero il compito di procedere all’attuazione della riforma sulla base dei principî fissati dalla stessa legge generale, ma attraverso norme regionali. Gli uffici amministrativi attuali della provincia potrebbero essere assorbiti da analoghi uffici regionali. La provincia dovrebbe cessare come ente autarchico, rimanendo come circoscrizione per certe amministrazioni. Quando è tolto alla provincia il carattere di ente autarchico, si può vedere che cosa resta a questa circoscrizione, come organizzazione amministrativa dello Stato (e ciò può essere discusso in relazione alle idee che presiederanno ad una riforma dell’Amministrazione statale), e cosa la provincia può rappresentare come organizzazione interna della Regione.

Si potrebbero assegnare alla Regione le questioni delle strade non nazionali, degli acquedotti, dei beni demaniali, delle foreste, della caccia, della pesca. Non sarebbe del parere di passare all’Ente le miniere, né, salvo un’attenta discussione sulla questione, di assegnargli in blocco tutto il problema della istruzione; passerebbero invece alla Regione le scuole professionali, nonché i compiti scolastici, ecc. Tutti gli organi della Regione: Assemblea, Giunta, Presidente, dovrebbero essere elettivi.

Naturalmente è per la soppressione del prefetto; non condivide l’opinione di quanti propongono la creazione della figura del Governatore (che crede non piacerebbe a nessuno) e ritiene che al Presidente della regione potrebbero essere attribuite le funzioni di rappresentante dello Stato.

Circa il territorio della Regione, conserverebbe quello attuale, salvo piccole rettifiche necessarie. Ha sentito molte idee in proposito ed ha visto altrove ritagliare con le forbici a pezzetti il territorio italiano; ha sentito anche una volta un collega il quale esigeva l’annessione alla sua regione della Spezia, come al suo hinterland naturale.

Da quello che ha detto risulta che non accetta il dilemma: Stato centralizzato o decentralizzato, sebbene sia per tutte le ragionevoli e sane decentralizzazioni; non approva né uno Stato federale né uno Stato definito regionale (forse qui è questione di parole). La Repubblica deve restare uno Stato unitario, una organizzazione di regioni autonome e di Regioni unite, le cui competenze saranno fissate dalla Costituzione. I compiti particolari delle regioni autonome e delle altre regioni dovrebbero o far parte integrante della Costituzione o essere affidate a leggi costituzionali a parte.

E poiché si parla di problemi per i quali si può non essere tutti preparati, ad esempio quello della finanza, per questa materia riterrebbe opportuno affidarla a qualche riconosciuta competenza.

PRESIDENTE crede che si potrebbe pregare l’onorevole Einaudi di fare uno studio in proposito. Si potrebbe anche sentire se non esista qualche componente della Commissione economica del Ministero della Costituente, al quale potrebbe essere affidato il compito di una breve relazione in proposito.

FUSCHINI ricorda che della Sottocommissione fa parte l’onorevole Vanoni, che potrebbe mettere a disposizione la sua competenza.

LUSSU suggerisce che il Presidente chieda ufficialmente alla Ragioneria generale dello Stato ed alla Corte dei conti, quanto le varie Regioni dànno allo Stato e quanto lo Stato dà a queste Regioni.

PRESIDENTE, per quanto lo si possa fare, non crede che la Carta Costituzionale possa scendere a questi particolari.

La seduta termina alle 21.05.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Perassi, Piccioni, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Erano assenti: Canevari, Cappi, Leone, Maffi, Porzio.

In congedo: Amendola, Calamandrei, Einaudi, Patricolo, Vanoni.

SABATO 27 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

2.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI SABATO 27 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Discussione sulle autonomie locali

Ambrosini, Relatore – Perassi, Relatore – Presidente – Zuccarini – Einaudi – Targetti – Lussu – Cappi – Bulloni – Fabbri – Conti.

La seduta comincia alle 17.

Discussione sulle autonomie locali.

AMBROSINI, Relatore, premette che, più che fare una relazione, intende semplicemente iniziare la discussione.

Il problema dell’autonomia si affaccia e si impone per riparare agli inconvenienti dell’accentramento, cioè di tutto quel sistema che, per la diffidenza verso le popolazioni e le autorità locali, fu instaurato nel primo momento della unificazione nazionale; inconvenienti che si manifestarono subito e vennero man mano aggravandosi, determinando una situazione che occorre affrontare e superare.

Gli inconvenienti dell’accentramento sono ben noti, e cioè:

1°) la sottrazione degli affari, specialmente amministrativi, a coloro che vi sono direttamente interessati e la loro attribuzione ad organi lontani, centrali, che possono non conoscere affatto le condizioni locali e che comunque dipendono o sono influenzati dai governanti;

2°) la compressione delle energie locali, l’accumulazione delle pratiche al centro, il ritardo nello svolgimento degli affari, la diminuzione della libertà degli enti locali e conseguentemente della popolazione;

3°) circa il funzionamento del Parlamento e la missione del Deputato, l’inconveniente gravissimo è che i rappresentanti della nazione, a causa di questo sistema di accertamento, sono gravati da una infinità di sollecitazioni e di richieste da parte degli elettori, che, non arrivando a veder risolte le proprie pratiche al centro, ricorrono, come usando di un diritto, al loro deputato, il che naturalmente distrae la rappresentanza politica dal compito di curare gli interessi della nazione.

Per eliminare questi inconvenienti bisogna togliere la causa, ed è qui che soccorre il concetto dell’autonomia che, per mezzo di norme adatte, porterebbe:

1°) ad evitare i danni del centralismo statale;

2°) a stimolare e potenziare le energie locali con la partecipazione dei singoli alla vita pubblica;

3°) a stabilire l’equilibrio fra le forze politiche e quindi ad impedire l’abuso del potere e l’eventuale predominio illecito di gruppi politici di gruppi di interessi.

Per raggiungere questi scopi non basterebbe l’istituto del decentramento burocratico, né basterebbe l’istituto del decentramento autarchico, il quale assegnerebbe dei compiti ad un nuovo ente autarchico ma lasciandolo esposto alle pressioni e all’ingerenza del potere centrale e dei governanti. Occorre quindi ricorrere all’adozione dell’istituto dell’autonomia politica regionale.

L’autonomia dell’ente regione dovrebbe intendersi accentrata su un insieme di diritti della regione elevata a persona giuridica; diritti propri, diritti fondamentali sanciti nella Costituzione, e quindi non modificabili o diminuibili con una legge ordinaria e perciò garantita davanti ad una Carta costituzionale.

Si intende che questo sistema presuppone la adozione di un tipo di Costituzione rigida, perché altrimenti mancherebbe qualsiasi garanzia per il funzionamento di tutto il congegno.

La regione è indubbiamente un ente naturale che sta tra lo Stato e i comuni, ed alla quale, se si vuole far sorgere l’ente regione, si debbono attribuire dei compiti, alcuni dei quali sono oggi di spettanza degli enti locali compresi nella sua giurisdizione ed altri dello Stato. Dei compiti di spettanza degli enti locali, possono venire in considerazione quelli che si riferiscono a servizi pubblici i quali, per acquistare maggiore efficienza, hanno bisogno di una circoscrizione più vasta (servizi dell’acquedotto, dell’energia elettrica, ecc.). Ma in concreto, quando si ammette la necessità del cambiamento del sistema attuale e l’adozione dell’istituto regionale, il problema si riduce nel determinare quale caratteristica deve avere la regione ed a quali scopi concreti deve assolvere. E qui bisogna guardare alle funzioni pubbliche ed orientarsi secondo la divisione fondamentale di queste funzioni: quindi la funzione legislativa, quella esecutiva o amministrativa e quella giurisdizionale.

Anzitutto viene in considerazione la competenza legislativa o normativa. Questa competenza, che verrebbe a spettare alla regione, sarebbe di natura diversa da quella che oggi compete a tutti gli enti i quali, in virtù del  loro diritto di autonomia, possono darsi delle determinate norme per regolare per lo meno l’esercizio dei loro poteri. Qui si tratterebbe di una competenza legislativa normativa, assegnata alla regione direttamente dalla Carta costituzionale e che perciò, nel caso specialmente di materie affidate alla competenza esclusiva della regione, darebbe luogo all’emanazione di vere e proprie leggi, le quali avrebbero lo stesso valore delle leggi emanate dallo Stato, tanto che, in caso di contrasto, dovrebbe esser consentito alla regione la facoltà di impugnare le stesse leggi dello Stato in difesa della propria competenza.

Detto questo in via generale, bisogna esaminare i gruppi diversi di materie che devono restare necessariamente nella competenza dello Stato e di quelle che possono essere attribuite alla regione. Ma qui basta limitarsi ad alcuni criteri di orientamento.

Vi sono materie che, per la loro stessa natura, riguardano gli interessi generali di una nazione e per le quali non può esservi dubbio che, in qualsiasi evenienza, devono rimanere di competenza dello Stato (rappresentanza all’estero, problemi di politica internazionale, questioni riguardanti la nazionalità, sistema monetario ecc., ecc.).

D’altra parte, vi sono altre materie che, per la loro natura, più si avvicinano al soddisfacimento dei bisogni locali o dei bisogni di determinati gruppi od enti territoriali che non si espandono per tutta la nazione, e che possono esser considerate è trattate con maggior comprensione e rendimento dagli organi locali nell’ambito della loro circoscrizione (per esempio: l’agricoltura, le istituzioni di beneficenza, le strade, gli acquedotti, il regime delle miniere, della pesca, del turismo, ecc.). Questo gruppo di materie attinenti a interessi prevalentemente locali dovrebbe essere attribuito alla competenza della regione in modo esclusivo, cosicché in questo campo la regione potrebbe emanare norme legislative.

Si può raffigurare un terzo gruppo di norme relative a materie nelle quali l’interesse della collettività nazionale è preponderante, ma per le quali può essere utile che gli organi legislativi centrali non vincolino in modo rigido l’esecuzione delle norme nelle singole regioni. Per questo gruppo di materie potrebbe lasciarsi agli organi legislativi centrali dello Stato la facoltà di stabilire i principî fondamentali, ed attribuire invece alla regione la facoltà di dettare le norme di esecuzione, in modo da adattare i principî fondamentali alle particolari esigenze dell’ente locale.

Infine, può raffigurarsi un altro gruppo di materie per le quali si potrebbe stabilire una competenza cosiddetta concorrente; per le quali, cioè, allo Stato spetterebbe in principio il diritto di legiferare, ma si potrebbe concedere alle regioni di dettare norme per mezzo dei propri organi, fino a quando lo Stato non avesse fatto uso della sua facoltà di dettare norme.

Per semplicità si potrebbe fissare l’attenzione sui primi tre gruppi, che in sostanza finirebbero per ridursi a due, perché la potestà normativa della regione determinata dal terzo gruppo si esplicherebbe col dettare norme di esecuzione.

La questione fondamentale consiste nel determinare quelle che sono e devono essere materie di competenza dello Stato e quelle che possono essere materie di competenza della regione. In una Carta costituzionale il problema potrebbe risolversi determinando i gruppi di norme di competenza dello Stato e quelli di competenza della regione, oppure stabilendo soltanto quali sono le materie di competenza della regione, restando sottointeso che in tutte le altre materie la competenza è dello Stato. Probabilmente questo secondo sistema è il migliore.

Si deve aggiungere che sembra opportuno dare alla regione un altro diritto nel campo generale della legislazione. Vi sono dei problemi, delle esigenze che spesso non sono contemporaneamente avvertite da tutta la popolazione dello Stato, perché toccano un interesse particolare di indole sentimentale o puramente materiale nell’ambito regionale. Ora, se si vuole che le regioni partecipino alla vita generale dello Stato, non solo con quel compito normativo che in sostanza finisce per esaurirsi nella regione, ma con un accordo più ampio e quindi con l’affermazione di un senso di maggior fiducia nello Stato e di più salda unità, si potrebbe concedere alla regione la facoltà che si può dire di iniziativa nel campo legislativo, in questo senso: la regione non diventerebbe mai uno degli organi del potere legislativo dello Stato, né potrebbe interferire nell’assoluta libertà e indipendenza del potere legislativo generale; ma nessun inconveniente deriverebbe dal fatto che l’assemblea regionale, avvertendo determinati bisogni, e in vista di interessi che la popolazione della regione può per prima avvertire o sentire, si facesse iniziatrice di una proposta di legge che fosse sottoposta al potere legislativo dello Stato, il quale rimarrebbe assolutamente libero di decidere, ma sarebbe costretto a esaminarla. Non si tratterebbe che di estendere il diritto che può competere a qualsiasi cittadino di rivolgersi all’assemblea legislativa del proprio paese, di sottoporre dei desiderata e di fare anche delle proposte. Questo diritto però acquisterebbe maggior rilievo, non solo dal punto di vista spirituale e politico, ma anche dal punto di vista giuridico, quando si stabilisse che la Camera o le Camere legislative devono, non solo esaminare i progetti che vengono presentati per avventura dall’assemblea regionale, ma anche sentire gli eventuali rappresentanti dell’assemblea regionale che essa reputasse opportuno di inviare al Parlamento per esporre le proprie ragioni.

Dal campo della legislazione passando a quello della esecuzione, è evidente che la regione deve poter esercitare la funzione esecutiva amministrativa per tutte le materie che sono di sua competenza esclusiva e per le altre che vengono a trovare la loro esplicazione nella regione. Può aggiungersi che la regione potrebbe esplicare le funzioni amministrative che sono proprie dello Stato nel caso che questi le delegasse i suoi poteri esecutivi. L’organo centrale può ritenere opportuno servirsi della amministrazione regionale per perseguire quegli scopi che sarebbero in linea di principio riservati alla propria amministrazione diretta, centrale o locale.

Viene infine la funzione giurisdizionale.

La questione qui è molto più delicata, perché l’eventuale attribuzione delle funzioni giurisdizionali alla regione metterebbe quest’ente in una posizione di assoluto primo piano e potrebbe quindi dar luogo alla affermazione di pretesa della regione come Stato.

Non si può giungere ad elevare la regione alla dignità di quello che suole chiamarsi Stato membro di uno Stato federale; ma è opportuno avvertire che vi sono casi di stati, cosiddetti federali, nei quali lo Stato membro ha la potestà legislativa e quella amministrativa, ma non anche quella giurisdizionale. Non è tuttavia il caso di irrigidirsi. Posto il principio, potrebbe ben concedersi alla regione la possibilità di istituire degli organi giurisdizionali per la decisione di ricorsi avverso atti o deliberazioni degli enti locali, congegnando il sistema in modo da non infrangere il sistema generale dell’unità della giurisdizione dello Stato. Si può aggiungere che, per andare incontro ad esigenze e desideri di regioni, si potrebbe adottare una specie di decentramento, con la istituzione nella regione di sezioni anche dei supremi tribunali giurisdizionali ed amministrativi dello Stato. Ma chi voglia attenersi al principio dell’autonomia della regione nel senso qui prospettato non può arrivare all’attribuzione alla regione della funzione giurisdizionale.

La possibilità che si conceda alla regione la facoltà di rendersi iniziatrice di progetti di legge da presentarsi al Parlamento nazionale riguarda la cooperazione della regione alla vita nazionale e naturalmente questo sarà uno dei problemi che dovrà essere esaminato. Circa la partecipazione della regione come tale alla vita nazionale, si presenta pure la possibilità che la regione concorra, anche solo parzialmente, alla formazione della seconda Camera, cioè del Senato. Si accenna qui al problema senza arrivare ad alcuna soluzione; ma indubbiamente, se si avrà la seconda Camera, la partecipazione della regione, anche limitatamente ad un numero di Senatori, potrebbe essere consigliabile.

Viene ora la questione forse più spinosa, quella della finanza della regione. Quando si trasferiscono alla regione delle funzioni, è evidente che bisogna darle pure la possibilità di esercitarle. Vi può essere una finanza esclusivamente regionale? In ogni caso, sarà sempre necessario che vi sia una finanza coordinata. Sorge poi la questione di chi deve disporre l’imposizione e del sistema di erogazione delle spese. Nel caso di regioni povere o impoverite deve poter ammettersi che lo Stato non le abbandoni, perché altrimenti l’istituto dell’autonomia politica finirebbe per danneggiare la regione.

Connesso con quello della finanza è il sistema dei controlli, specialmente quando si abbiano degli apporti da parte dello Stato, perché chi dà il contributo deve accertarsi del modo in cui questo viene effettivamente impiegato.

Altra questione di indole generale relativa all’istituzione della regione è quella del suo territorio. In Italia esistono regioni geograficamente o tradizionalmente determinate; ma bisogna tener presente la necessità che l’ente regione si istituisca in modo da essere vitale e quindi potrebbe sorgere la necessità di non seguire meccanicamente il criterio storico, ma di addivenire a fusioni o cambiamenti consigliati dalla valutazione di particolari interessi. Onde un’altra questione: quale sarebbe il potere competente per operare un eventuale cambiamento nella struttura politico-territoriale della regione? Pare indubbio che non possa essere che il potere centrale, naturalmente, sentita la regione o a richiesta della regione.

Vi è poi il problema degli organi. Si potrebbe dire con semplicità che sarà necessaria un’Assemblea, un Presidente, una Giunta, un Segretario; un Presidente che rappresenti la regione e sia il capo della amministrazione regionale; una Giunta composta da assessori preposti alle varie materie dell’amministrazione. Presidente e assessori sarebbero, naturalmente, nominati dall’Assemblea regionale.

Riguardo all’Assemblea regionale, sorge la questione della sua formazione. Indubbiamente deve essere elettiva: ma con quale criterio? Dal punto di vista generale potrebbe dirsi che la struttura della legge elettorale regionale deve essere demandata alla stessa regione. Potrebbe, d’altra parte, prendersi in considerazione la possibilità che le linee generali di questa legge elettorale fossero determinate nella Carta Costituzionale, come è avvenuto nelle Carte Costituzionali specialmente dell’altro dopoguerra. Tenuti presenti i presupposti che in Italia hanno spinto a propugnare la creazione dell’ente regione, potrebbe affacciarsi la proposta che vengano indicati i criteri fondamentali di elezione dell’Assemblea regionale su basi diverse da quelle della così detta rappresentanza diretta, del suffragio diretto, cioè della elezione fatta da collegi elettorali composti da cittadini indifferenziati. Potrebbe, cioè, affacciarsi la proposta che, per dare alla regione un carattere tutto particolare, a seconda delle sue esigenze, sia opportuno evitare quel sistema di elezione a suffragio diretto che porta concretamente la lotta elettorale sul terreno delle ideologie politiche dei partiti; la proposta che l’Assemblea regionale venga costituita sulla base di un sistema generalmente chiamato della rappresentanza degli interessi, così che nell’Assemblea regionale si rispecchiassero la struttura economico-sociale e gli interessi della regione. In tal modo i rappresentanti sarebbero maggiormente legati alla cura di quegli interessi e si affermerebbe nell’Assemblea regionale un principio diverso nel modo di valutare gli interessi particolari.

Per quanto si riferisce all’Assemblea regionale e alle norme da essa emanate, corre l’obbligo di esaminare alcuni quesiti.

Anzitutto: può l’Assemblea regionale essere sciolta? Qui si dovrà vedere quello che sarà deciso al riguardo alla prima Camera ed eventualmente anche alla seconda. Se si afferma la possibilità che l’Assemblea regionale sia sciolta, da chi potrebbe provenire l’ordine di scioglimento e, eventualmente, in quali circostanze?

Altro quesito si riferisce alle leggi votate dall’Assemblea regionale. In linea di massima dovrebbero essere senz’altro operative; ma può prospettarsi la questione se sia utile che vengano comunicate agli organi dello Stato e se sia ammissibile che gli organi centrali dello Stato avanzino un diritto di veto. Comunque, dato il sistema di divisione delle competenza tra Stato e Regione, è indubbio che, come spetta alla Regione il diritto di ricorrere ad un organo giurisdizionale (una corte costituzionale, o un organo misto, a seconda che la Carta costituzionale sarà per deliberare) avverso le disposizioni degli organi centrali dello Stato che interferiscano nei limiti della sua competenza e la violino, così è naturale che spetti agli organi centrali dello Stato la possibilità e il diritto di ricorrere avverso le leggi emanate dall’Assemblea regionale, che per avventura si reputi abbiano invaso il campo di competenza dello Stato.

Riguardando poi il problema più largo dei rapporti tra Stato e Regione, sorge il quesito: il governo dello Stato avrà un suo rappresentante nella Regione? Il Presidente della Regione può essere investito della rappresentanza dello Stato? E, comunque, il Presidente della Regione può essere chiamato a partecipare alle sedute del Consiglio dei Ministri nelle quali si discuta un argomento che interessi specialmente la Regione, senza naturalmente avere voto deliberativo?

Vi è poi la questione degli enti e delle istituzioni che esistono nella circoscrizione della Regione. Se si vuole modificare il sistema di accentramento attuale, non può consentirsi che si istituisca un sistema di accentramento regionale; quindi deve affermarsi nell’ordine della Regione quel principio della libertà degli enti territoriali ed istituzionali locali, i quali devono poter perseguire i loro fini liberamente a mezzo di organi elettivi. Ma su questo punto non è applicabile il concetto di autonomia politica, così come è stato delineato nei riguardi della Regione: qui può trattarsi semplicemente dell’applicazione del principio comune dell’autarchia, del ritorno all’antico sistema, con quelle modificazioni e quegli adattamenti che siano richiesti da un maggior riconoscimento della libertà locale e dell’istituzione dell’ente regionale. Basta il ritorno, in sostanza, all’antico principio dell’autarchia come libertà dell’ente territoriale o dell’istituzione di perseguire liberamente i suoi scopi e di perseguirli (perché qui si esplica il principio della libertà e del governo libero locale) per mezzo di organi eletti direttamente dagli interessati, con quelle facoltà di controllo che, pur limitate, potrebbero sembrare sempre opportune per evirare lo straripamento degli enti locali e più ancora la faziosità degli amministratori.

Tra gli enti locali, quello che maggiormente viene in discussione e per cui più grave è la controversia, è la provincia.

Bisogna distinguere la provincia come ente autarchico e come circoscrizione amministrativa. Resterà la provincia come ente autarchico? E qui c’è da domandarsi: se la Regione verrà ad avere dei compiti, taluno dei quali può essere sottratto a quelli degli enti locali, dato che la provincia come ente autarchico ha compiti ben limitati, quali di questi le resterebbero? Ancora: se si applica maggiormente il principio e la tendenza a formare consorzi tra comuni, anche limitatamente a determinati scopi e a singoli interessi, quale è il campo di azione che resterebbe alla provincia? Ed allora, data questa situazione, varrebbe la pena di conservarla o non sarebbe più utile sopprimerla come ente autarchico?

Quanto alla provincia come circoscrizione amministrativa (prefetture) la questione è ancora più delicata. Dovrebbe quest’organo, nel caso che fosse conservato, diventare un organo regionale? La soluzione, in un senso o nell’altro, potrebbe dipendere dal fatto che si stabilisca nella capitale della regione un rappresentante del Governo centrale o che il Presidente della Regione sia a sua volta investito delle funzioni e dei compiti come rappresentante del Governo centrale per la cura di quegli affari che restano allo Stato anche nell’ambito regionale.

Riguardo al Comune, non può esser dubbio che si tratta di un ente intangibile perché è proprio quello in cui si accentrano tutti i bisogni locali, che sono i bisogni rudimentali per i quali è nato questo aggregato, per i quali esso ha acquistato un insieme di poteri è di organi, la personalità giuridica e un diritto di ordinanza.

La questione più grave è quella dei controlli. Può lasciarsi agli amministratori dei Comuni la libertà assoluta? Da tante parti si è chiesto, e forse giustamente, l’abolizione del controllo di merito, attraverso il quale potevano esplicarsi, ed effettivamente si esplicavano, influenze ed ingerenze illecite. Il controllo di legittimità potrebbe restare, come potrebbe restare il controllo ispettivo. Indubbiamente (e la questione qui si riattacca al mantenimento o all’abolizione dell’ufficio del prefetto) si potrebbe anche pensare all’abolizione di tutti questi congegni e alla messa in efficienza del semplice diritto comune, che è sostanzialmente il sistema tradizionale dell’Inghilterra. Pur nella varietà della distribuzione di circoscrizioni territoriali, tutti gli enti locali inglesi godono della più assoluta libertà e non sono sottoposti ai controlli che da noi sono diventati tradizionali, e se gli organi degli enti locali – siano borghi, contee o città – esorbitano dalla sfera della propria competenza o violano i diritti di taluno, si mette in moto il diritto comune, cioè chiunque può ricorrere ai giudici ordinari. È da vedere se questo sistema potrebbe, per lo meno in tutta la sua interezza, trovare applicazione nel nostro Paese. Può darsi che sia più opportuno mantenere alcuni degli istituti tradizionali, ma corretti e adeguati in modo da non dar luogo agli inconvenienti, danni, incidenze, prepotenze e corruzioni che finora purtroppo si sono lamentati.

Concludendo: tutti i problemi che si riferiscono agli enti che esistono o che possono crearsi come enti territoriali o enti istituzionali nell’orbita della circoscrizione regionale vanno esaminati in un secondo momento e comunque sono subordinati alla direttiva generale che si seguirà per il problema fondamentale, che consiste nel riconoscimento o meno delle regioni dotate di personalità giuridica, con attribuzione di diritti propri, sanciti nella Carta Costituzionale, e quindi non modificabili con leggi ordinarie e conseguentemente garantiti col ricorso ad una Corte costituzionale.

(La riunione, sospesa alle 18.15, è ripresa alle ore 18.30).

PERASSI, Relatore, constata che la relazione del collega Ambrosini è esauriente nel modo più assoluto; anzi, è andata oltre quel che era richiesto, sia perché il Relatore è sceso a considerare utili particolari, sia perché ha fatto conoscere alcune sue preferenze personali. A prescindere da questo, sta in fatto che nella relazione Ambrosini tutti problemi sono stati posti, dai più generali ai più particolari. Non rimarrebbe pertanto che precisare sinteticamente quali sono gli aspetti da considerarsi al fine di prendere una posizione.

Il problema si accentra, soprattutto, sulla opportunità di creare in Italia l’ente «regione» e di determinarne le competenze. A questo riguardo il punto più importante consiste nel determinare la competenza legislativa. E qui si pone questa considerazione: se sia il caso di procedere a questa determinazione della competenza in via diretta o in via indiretta, cioè in relazione alla competenza dello Stato.

Senza entrare nel merito, perché qui si tratta di prospettare soltanto le due formule, queste possono essere: l’una, determinare le materie nelle quali la competenza legislativa è riservata allo Stato; l’altra, inversa, determinare direttamente la competenza della regione, senza fare una elencazione di competenze dello Stato.

Resta poi, come idea centrale da esaminare, quella di determinare in che senso e in che limiti la regione eserciterebbe la sua funzione legislativa. Qui si hanno due ipotesi: legislazione su materie determinate con una competenza piena, nel senso che in queste materie ogni regione possa fare proprie leggi con piena libertà, salvo soltanto i limiti determinati da alcuni principî costituzionali inseriti nella Carta Costituzionale dello Stato; oppure legislazione regionale, la quale dovrebbe svolgersi nell’ambito della legislazione statale, che, rispetto a certe materie, dovrebbe limitarsi a fissare i capisaldi, rendendo possibile alle singole regioni di avere una legislazione di adattamento alle condizioni locali.

Questi sono i punti fondamentali.

Naturalmente, il problema della regione si connette soprattutto al problema dell’ordinamento tributario. Anche qui, prescindendo dai particolari, possono escogitarsi diversi sistemi: il sistema di una finanza regionale autonoma, nel senso che la Costituzione determini essa stessa quali sono le fonti di imposizione per la finanza regionale; e il sistema, nettamente opposto, secondo cui le regioni, avendo la competenza tributaria più larga, concorrono alle spese dello Stato mediante contingenti. Comunque, è certo che il problema dell’ordinamento tributario e della coordinazione della finanza regionale con la finanza dello Stato è fondamentale. In ogni caso, nella Costituzione alcuni principî dovrebbero essere posti in maniera netta, allo scopo di disciplinare questa coordinazione e di evitare inconvenienti.

Altro punto è quello di sapere se tra le materie da lasciarsi alla competenza legislativa della regione entri anche l’ordinamento degli enti locali. E vi è un altro aspetto di questo problema: vedere in che modo debbano funzionare ed entro quali limiti i controlli sugli enti locali; se attraverso la regione o attraverso lo Stato.

Anche il problema della giurisdizione è stato accennato ampiamente e può avere diverse soluzioni: la regione può avere una giurisdizione propria in talune materie; la sua funzione giurisdizionale può essere limitata al campo amministrativo.

Per quanto concerne l’organizzazione della regione, si pone una domanda pregiudiziale: la Costituzione deve fissare essa stessa i criteri dell’organizzazione regionale, oppure questa materia può essere lasciata alla legislazione regionale; o i due sistemi si possono combinare? È possibile concepire che la regione abbia una organizzazione i cui principî siano fissati nella Costituzione, ma che, tuttavia, la Costituzione lasci alle singole regioni la facoltà di integrare questi principî mediante una legge organica, che renda possibile eventualmente nella regione l’adozione di certi istituti; per esempio l’istituto del referendum.

Lasciando da parte per il momento l’esame dei problemi più dettagliati, l’attenzione della Sottocommissione dovrebbe fissarsi sui problemi fondamentali: istituzione della regione; competenza legislativa, determinata o no dalla costituzione.

PRESIDENTE crede opportuno limitare la discussione intorno a questo tema iniziale: se l’ente regione debba esistere e debba entrare nell’ordinamento dello Stato, oppure no.

ZUCCARINI ha ascoltato con molta attenzione la bellissima relazione dell’onorevole Ambrosini che ha prospettato il problema della regione sotto tutti i suoi aspetti.

Si richiama ad una precedente proposta che non fu accettata, ma che poi è ritornata in questa Sottocommissione nella discussione sul problema delle autonomie.

La creazione dell’ente regione è una delle soluzioni del problema delle autonomie; ma è una conclusione, non una premessa: il problema delle autonomie locali è fondamentale, e in certo modo indipendente dalla soluzione del sistema regionale. Per poter arrivare alla soluzione regionale, era indispensabile porsi il problema centrale dell’organizzazione dello Stato. E per passare alla struttura dello Stato, importa molto definire i pilastri della costruzione statale che si dovrà articolare. Questo non è stato fatto, e non si sa quali saranno le conclusioni della prima Sottocommissione. Può avvenire che la seconda formuli delle conclusioni che male si concilieranno con la parte elaborata dalla prima Sottocommissione; come può avvenire il contrario. Il problema dell’organizzazione dello Stato è unico e deve essere risolto armonicamente. Se non si stabiliscono preventivamente i limiti delle funzioni che si intende attribuire allo Stato, il tipo cioè dello Stato verso cui occorre orientarsi, tutte le altre discussioni diventano inutili.

Il problema del comune è oggi in Italia il primo che si deve affrontare. Il comune, nella sua struttura essenziale può restare quello che è?

In questa Sottocommissione occorre stabilire anche, soprattutto, quali limiti di competenza e di attività si vogliano assegnare al comune. I comuni devono avere tutti lo stesso regolamento, la stessa struttura? O si deve invece dare ai comuni quella autonomia, che consenta loro di modificare la propria struttura interna, secondo le varie situazioni e necessità ed anche secondo le diverse entità; secondo, ad esempio, che siano di mille o di due milioni di abitanti? Non basta dire che si vuol riservare ai comuni certe facoltà; bisogna vedere se i comuni possono darsi, ciascuno, una struttura diversa, secondo i bisogni. Ci sono comuni rurali, comuni in parte rurali ed in parte urbani; ci sono dei grossi agglomerati, che devono avere una costruzione diversa.

Questa parte, a suo avviso, doveva essere affrontata anzitutto. Stabilito cosa devono essere i comuni, cosa possono fare, in quale raggio di azione possono svolgere la loro attività, si potrà pensare al raggruppamento dei comuni nella regione.

Quando si incomincia con lo stabilire di voler creare la regione, viene la domanda se essa debba essere un libero raggruppamento di comuni o di consorzi di comuni.

Il problema della provincia si pone anche così: finora si è avuta una circoscrizione ben limitata, molte volte contraria agli interessi locali che dovrebbe tutelare e rappresentare, e soprattutto con limitate attribuzioni. Ora, nella nuova struttura dello Stato, la provincia potrà costituirsi in altra forma, come consorzio di comuni per i servizi più larghi destinati agli interessi comuni?

Quando sia Stabilito quali libertà si vogliono riservare al comune e quali funzioni esso deve avere nella vita nazionale, allora si può anche parlare della regione.

La regione deve essere delimitata, organizzata quasi, dallo Statuto, oppure, stabiliti alcuni criteri di massima sui limiti di competenza dei comuni? Si intende, ad esempio, lasciare ai comuni la facoltà di modificare la loro struttura, di avere cioè nella regione una diversa consistenza, più larga o più ristretta secondo le necessità?

Non si deve poi dimenticare che, quando si vuole affrontare il problema della regione, ci si trova di fronte ad alcune esigenze e richieste di determinate regioni d’Italia. Esse non sono tutte eguali; ci sono regioni classiche, ci sono regioni sulla cui formazione ci può essere molto da dire; ci sono regioni piccolissime, come la Val d’Aosta. E allora nell’affrontare il problema della regione si deve tener conto anche di altre necessità: queste esigenze sono state in parte soddisfatte con statuti e concessioni provvisorie, che magari saranno soggette a modifiche, ma che, essendo state date, non possono essere più tolte. Quindi, nell’affrontare questo problema, si deve tener conto dello stato di fatto. C’è uno statuto per la Sicilia, più o meno approvabile; ce n’è uno in progetto per la Sardegna; ce n’è uno per l’Alto Adige, su cui i Trentini e gli Alto-atesini non sono d’accordo (c’è chi pensa di fare dell’Alto Adige una sola regione e chi vuole distinguere la provincia di Trento da quella di Bolzano, anche con una diversa organizzazione interna); c’è poi lo statuto provvisorio della piccola Val d’Aosta; ci sono un po’ dappertutto esigenze e richieste precise. Quindi, risolto il problema fondamentale del comune, esaminando quello della regione, si deve cercare di conciliare lo stato di fatto con la nuova struttura dello Stato.

Ma è un problema particolare questo? È un problema che si può assegnare ad una sezione, mentre tutte le altre funzioneranno per loro conto?

Così in tutti gli altri problemi affidati alle Sottocommissioni. Le diverse possibili strutture dello Stato – Stato che si formi dal comune al Governo centrale o inversamente dal centro alla periferia – portano a soluzioni diverse. Anche le questioni della divisione dei poteri, della prima e della seconda Camera, degli organi costituzionali per la interpretazione del diritto costituzionale, sono tutte questioni di autonomia. In fondo, in alcune Nazioni sono state risolte creando dei poteri autonomi, i quali si controllano a vicenda, per eliminare l’invadenza dell’uno o dell’altro potere. Anche questo è problema di autonomia, che ha soluzione diversa, secondo che si parta dalla periferia verso il centro, o dal centro verso la periferia.

Ecco perché una discussione preliminare sarebbe stata necessaria.

Circa le altre questioni particolari prospettate dall’onorevole Ambrosini in merito alla regione, ha alcune idee, specialmente su quella della finanza, che non concordano con quelle del Relatore, e si riserva di discuterle successivamente. Sul momento intendeva prospettare il problema delle autonomie non come un tema particolare di tutta la struttura dello Stato, ma come problema capitale.

EINAUDI si associa all’apprezzamento molto favorevole fatto da tutti i colleghi alle relazioni.

All’onorevole Zuccarini osserva che non conviene fermarsi sul punto: quale degli argomenti debba essere trattato prima; la regione o il comune o l’ordinamento generale dello Stato. Le sue esperienze in materia di elaborazione di testi legislativi, che risalgono ad un quarto di secolo, lo hanno condotto alla conclusione che l’essenziale è cominciare da un punto qualsiasi e redigere uno schema. Sarebbe conveniente che i Relatori preparassero uno schema articolato; forse alla fine della discussione gli articoli che ne usciranno saranno diversi da quelli presentati; non per questo la fatica dei Relatori sarà stata meno meritoria. Poi si dovrà armonizzare i risultati della seconda Sottocommissione con quelli delle altre, e probabilmente alla fine quello che nascerà sarà del tutto diverso da quello che provvisoriamente era stato approvato. Ma, seguitando a domandarsi quale argomento debba essere discusso prima, si finisce col non discutere nulla. Dal punto di vista metodologico non c’è un argomento più importante di un altro; bisogna pur cominciare da qualcuno.

Passando a qualche osservazione specifica, afferma che, se si vuole istituire la regione, si deve abolire la provincia, perché, se si aggiungesse la regione alla provincia, si moltiplicherebbero gli uffici e i gravami fiscali.

Per la determinazione della competenza di questi organi, occorre tener presente che noi non siamo nella situazione di un gruppo di Stati che intendono federarsi. In questa situazione – come è avvenuto in Svizzera e negli Stati Uniti d’America – gli Stati che si federano determinano essi quali sono le competenze che intendono attribuire al Governo federale e riservano a sé tutte le altre. Noi invece partiamo dallo Stato unitario, che intendiamo mantenere, ed allora la soluzione migliore è che siano attribuite dalla Carta costituzionale alla regione determinate competenze e che la regione non ne abbia nessuna di più di quelle stabilite dall’atto costituzionale. Ciò non impedisce che quando si sia constatato che le regioni dànno buona prova, si possano, con emendamenti successivi, ampliare i poteri delle regioni. L’altra via, per la quale si tratterebbe di lasciare all’ente regione la facoltà di fare tutto salvo quello che è attribuito allo Stato, al momento attuale gli pare pericolosa.

Rispetto alla finanza crede che si debba tener conto dell’esperienza, la quale dimostra che qualunque tentativo sia stato fatto di specificare le imposte da assegnare ai comuni, alle provincie o alle regioni e in genere agli enti minori è andato a vuoto, perché ha urtato contro un ostacolo essenziale; qualsiasi sistema preciso di attribuzione di un gruppo di imposte agli enti locali si dimostra o insufficiente o esuberante. È sempre accaduto così, ed è impossibile che una preordinata distribuzione delle fonti tributarie tra l’ente Stato e gli enti minori possa soddisfare allo scopo della sufficienza: non si può mai prevedere se le spese della regione potranno essere coperte da quelle imposte. Quindi il sistema è da scartare, e conviene piuttosto fare qualcosa nel senso di negare alla regione la facoltà di stabilire taluni tipi di imposta che, se la regione potesse usarli, li userebbe in senso dannoso all’interesse collettivo. Per esempio, se le si attribuisce il diritto di stabilire molte imposte indirette, come dazi, imposte sui consumi ecc., pur senza volerlo, si crea un sistema di mercato chiuso, che sarà di impedimento al traffico interregionale. Se un principio fermo deve essere scritto in una Costituzione, questo è che sia negato a qualsiasi ente locale il diritto di mettere qualsiasi impedimento al traffico tra una località e l’altra. Deve essere invece attribuita alla regione una certa lata facoltà di stabilire le imposte che non sono negate espressamente.

Ma è certo che si verificherà un inconveniente. È probabile che le imposte che possono essere stabilite diano un gettito insufficiente, specie nelle regioni meno progredite. Questa previsione, derivante dalla esperienza, potrà forse suggerire il modo di sostituire, nella regione come nella provincia o nel comune, qualche cosa ai controlli preventivi esercitati da parte dell’autorità centrale, come prefetti, giunte provinciali amministrative, ecc. Bisogna ammettere che qualche ente locale abusi dei proprî poteri e allora quali saranno i correttivi? Per le regioni che non hanno da chieder nulla allo Stato, possono essere soltanto quelli d’ispezione; e le ispezioni devono continuare ad esser fatte dalle autorità centrali, a mezzo di ispettori volanti, inviati da un’autorità competente centrale, come il Ministero dell’interno, il Ministero delle finanze, la Sanità pubblica. E quali sanzioni dovrebbero avere i risultati negativi che determinassero il biasimo degli ispettori? Non ve ne è altra all’infuori dell’appello agli elettori. I risultati delle ispezioni sono pubblici, e saranno gli elettori che, in base ad essi, si decideranno a non rieleggere gli amministratori colpevoli. Per le regioni, invece, e per i comuni per i quali le imposte assegnate sono insufficienti e che hanno da chiedere qualche cosa allo Stato, bisogna pensare a qualche altra sanzione in aggiunta a quella del ricorso agli elettori, e questa sanzione evidentemente prende nome di norme relative alla concessione di un contributo dallo Stato alla regione.

La questione dei contributi è delicatissima e forse nessun Paese è mai riuscito a risolverla. Quando lo Stato dà contributi agli enti minori che non hanno entrate sufficienti, tutti gli enti minori finiscono per chiedere sempre contributi all’ente centrale, e in questa situazione non vale stabilire in qualsiasi modo l’autonomia: gli enti locali dipenderanno dall’ente centrale che li sovvenziona. La soluzione che è stata trovata dopo molti esperimenti – si può pensare agli esperimenti svizzeri e inglesi – è quella che il contributo non sia stabilito a priori a libito delle autorità centrali, ma siano invece stabiliti dei criteri oggettivi in base ai quali l’ente locale abbia diritto ad un certo contributo. Per esempio, un municipio povero, perché la sua popolazione è scarsa, la ricchezza per testa è insufficiente, il reddito delle imposte molto basso, non potrà avere scuole al di là della seconda o della terza elementare: se si vuole che superi questo limite, è necessario un contributo. Il contributo viene allora dato in funzione di una considerazione oggettiva.

Ricorda qui di aver conosciuto un ufficiale inglese della Commissione alleata, antico segretario comunale di un comune inglese, che aveva assunto poi un altro ufficio: le sue funzioni erano di introduttore delle esigenze dei comuni presso il Ministero dell’interno, la Sanità pubblica o la Camera dei comuni per ottenere di volta in volta un atto privato, un atto speciale. Funzione giuridica, non lasciata all’arbitrio dell’autorità centrale; funzione certamente non perfetta, ma che soddisfa una esigenza giuridica: quella di eliminare l’arbitrio dell’ente centrale, il quale esercita il suo controllo sulla base di norme stabilite per legge, che non possono essere violate né dal potere centrale né da quello locale.

Circa la questione dell’elettorato, di cui è cenno nella relazione Ambrosini, dichiara di essere contrario a qualunque forma di elettorato professionale, che, a suo avviso, costituirebbe un enorme errore nella nostra legislazione. Ma è una questione generale su cui non intende dilungarsi.

In materia di elettorato una certa larghezza di criteri dovrebbe essere lasciata agli enti locali, in quanto negli enti locali ciò che importa di stabilire è il legame diretto fra comuni o regioni ed elettori. Non può essere elettore nella regione e nel comune il primo venuto: occorre che abbia dato prova con una residenza di un certo numero di anni, di non essere una persona che, stando lì quasi di passaggio, determini col proprio voto delle norme che saranno poi obbligatorie per quelli che risiedono sul posto in permanenza, mentre lui se ne sarà andato via. Quindi la possibilità di limitare il diritto elettorale, senza alcuna distinzioni di opinioni, di culto, di razza ecc.; ma relativamente alla durata dei rapporti che intercedono fra l’abitante del comune o della regione e il diritto elettorale. Il cittadino italiano ha diritto di votare sempre, perché è cittadino italiano, ma per il comune un rapporto temporale, anche di piccola durata, deve essere tenuto presente.

Su un altro punto importante richiama un recente volume dell’Olivetti, che, fra molte affermazioni forse un po’ fantastiche, ha un’idea che può essere accolta anche in misura limitata, sperimentalmente: quella della «comunità» (parola non appropriata). L’Olivetti quando parla di «comunità» probabilmente vuole riferirsi a qualche cosa di simile ai distretti nelle provincie del Veneto, minori del circondario e maggiori del mandamento. Esiste infatti una certa circoscrizione, la quale non è il comune, e di gran lunga non è la provincia; una circoscrizione che si raggruppa intorno ad un mercato, ad una cittadina di diecimila abitanti, per esempio. Questa risponde ad una situazione più propria dell’Alta e Media Italia che non dell’Italia Meridionale. Nell’Italia Meridionale esistono grosse città che raggruppano moltissimi abitanti, mentre nell’Italia Settentrionale vi sono molti borghi di tre-quattro-cinquemila abitanti, vi sono comuni di mille-millecinquecento abitanti che non hanno i mezzi per vivere, né li avranno mai e non potranno mai mantenere complessi servizi; onde la necessità di un qualche cosa che raggruppi tutti questi piccoli comuni che gravitano intorno ad un mercato centrale, che sarà un mercato economico, ma potrebbe anche essere un centro giudiziario; sarà la cittadina che è sede del tribunale o dove si trovano gli uffici del registro, delle imposte, ecc., o della pretura. Per molti servizi, come ad esempio quelli del medico condotto, del veterinario ecc., questa circoscrizione può essere attuata, se non nella maniera concepita dall’Olivetti, in modo più ristretto, in forma sperimentale, quasi di consorzio: ma l’idea non deve essere abbandonata.

Per gli enti minori è favorevole all’idea del referendum. Un po’ conservatore per tradizione, relativamente poco per le cose economiche, ma molto per le cose tradizionali, ha constatato che il referendum è un organo di conservazione di tutto ciò che è tradizionale, a cui gli abitanti tengono e che invece molte volte gli uomini politici, credendo di innovare a vantaggio della popolazione, vogliono distruggere. Il referendum, per esempio nella Svizzera, porta quasi sempre ad emendamenti di progetti di legge che sono stati votati qualche volta ad unanimità dai Grandi consigli dei Cantoni o dai consigli comunali. Così è avvenuto, per esempio, nel 1944, con un referendum nel Canton Ticino, proprio sull’elettorato. Tutto il Canton Ticino aveva votato in favore di un allargamento dei criteri dell’elettorato; ma gli elettori respinsero il disegno di legge, perché tenevano molto a che gli elettori nei comuni fossero persone che essi conoscevano, che erano vissute sul posto almeno per un certo numero di anni. Il corpo elettorale spesso risponde negativamente quando si tratta di cose che toccano le tradizioni famigliari, le istituzioni fondamentali di carattere morale, a cui molto tengono gli elettori, i quali in questa materia credono poco alle innovazioni.

Circa la giurisdizione, dubita molto della opportunità di estendere alla regione il diritto di avere una giurisdizione propria. Crede che questo urti contro l’esperienza anche di quei Paesi, nei quali si avevano tribunali locali. È una esperienza che si è fatta nella Svizzera in forma moderata, negli Stati Uniti in forma clamorosa, perché il gangsterismo nord-americano ha trovato alimento nella impotenza delle autorità di polizia e delle autorità giudiziarie federali. Perciò oggi in tutti gli Stati federali c’è la tendenza a restringere l’autorità degli organi giudiziari, della polizia locale, e aumentare l’autorità della polizia centrale. Per la stessa ragione tecnica per la quale tutti sono d’accordo che le ferrovie, le poste e telegrafi, ecc., siano di spettanza, per il loro regolamento, delle autorità centrali e non di quelle locali, si riconosce che, per praticamente amministrare la giustizia e la polizia, è assolutamente necessario che queste siano di spettanza dell’autorità centrale e non delle autorità locali.

Ciò conforta ancora la tesi che in materia di autonomia, condizione essenziale nel nostro Paese, è quella di stabilire tassativamente in precedenza quali siano le materie di competenza delle autorità locali; tutte le altre spettano all’autorità centrale. Via via, fatta la necessaria esperienza – nessuna Costituzione è perfetta – tali competenze potranno essere allargate o ristrette.

Rinnova in ultimo il desiderio che, dopo le relazioni, siano formulati degli articoli, che si possano esaminare e discutere uno ad uno, salvo a rivederli ancora in rapporto a quelli che, sulle altre materie, saranno formulati dalle altre Sottocommissioni.

TARGETTI osserva che si è parlato della regione e si sono esposte idee varie sopra le diverse facoltà, da attribuire a questo ente regionale. Ma si domanda se nessuno abbia qualche cosa da obiettare sull’opportunità di costituire questo ente.

PRESIDENTE ricorda di aver già fatto presente che questo è il problema che deve essere preliminarmente risolto. Finora coloro che hanno parlato si sono manifestati più o meno favorevoli alla costituzione dell’ente regione o hanno implicitamente rivelato di tollerarne la costituzione, forse avvertendo che non se ne può fare a meno. Ma vi sono altri iscritti a parlare. Perciò, pur rendendosi conto del desiderio dell’onorevole Einaudi che si abbia un testo di articoli, sui quali discutere e raccogliere le idee, crede che ciò sia prematuro e che si debba intanto continuare questa discussione di carattere generale.

LUSSU, per la sua esperienza politica che rimonta pure a quasi un quarto di secolo, crede di poter esprimere alcune considerazioni di chiarimento alla discussione che si deve fare.

Ritiene che, malgrado tutto, il sistema adottato sia il migliore e il più redditizio perché, dopo questa discussione, in cui sarà chiarito bene il problema nei punti fondamentali, sarà possibile in una riunione plenaria della Commissione stabilire un indirizzo sufficientemente illustrativo del lavoro al quale occorre accingersi.

Constata che il Relatore onorevole Ambrosini ha prospettato con obiettività, pur rivelando la sua simpatia per una forma di trasformazione dello Stato a base autonomistica, tre ipotesi: quella dell’accentramento statale, quella delle autonomie su base unitaria e finalmente quella dello Stato federale. Circa la centralizzazione statale il Relatore ha accennato appena al problema se debba rimanere oppure no; ma è chiaro che il centralismo statale, così com’è oggi, non risponde né alle esigenze né alle aspirazioni del paese. La critica dello Stato centralizzatore è in tutti i partiti, anche se si differenzia nelle singole zone; onde è da ritenere che la prima ipotesi possa essere trascurata.

Le altre due ipotesi: stato federale (al quale il Relatore ha accennato appena) o stato autonomistico su basi unitarie, sono quelle che si debbono considerare.

Desidera da parte sua e ritiene anzi suo dovere fare qualche considerazione, sia pure rapida, sulla prima, perché appartiene da molto tempo alla corrente politica federalista; una corrente che si ha in vari settori politici, che però non parlano esplicitamente di federalismo per una certa riluttanza a parlare di questo argomento.

Partendo dal concetto dell’unità nazionale, che sente con la stessa intensità di qualsiasi altro, partendo da un principio ispirato ad un maggiore potenziamento di tutte le forze del Paese – affinché l’Italia risorga dalla condizione miserabile in cui il fascismo l’ha piombata e torni ad essere una grande Nazione che, dopo avere civilizzato se stessa, porti un suo afflato di civiltà al mondo – deve dichiarare che segue la concezione federalista in quanto si sente fortemente italiano. Il federalismo, a suo avviso, rappresenta la corrente che pone l’antidoto ai mali che hanno condotto il paese fino alla avventura del fascismo e della guerra; rappresenta l’antitesi di quel centralismo da cui sono derivate la corruzione parlamentare, la sopraffazione del centro sulla periferia, lo strapotere della burocrazia e infine la stessa corruzione e decadenza sulla democrazia. Così come molti temevano che la Repubblica fosse un salto nel buio, mentre ora si vede che è stato un passo magnificamente fatto con le scarpe ai piedi e con gli occhi aperti, così oggi si ha paura del federalismo e non se ne parla, o se ne parla con una certa preoccupazione. Ma un salto nel buio, se mai, è stato il passaggio improvviso da una vita italiana che non era più unitaria da tanti secoli, ad una formazione di Stato burocratico centralizzato. L’unitarismo dei Giacobini in Francia fu storicamente logico, perché i Giacobini avevano ereditato lo stato unitario di Luigi XIV. In Italia, invece, se una eredità storico politica si è avuta, è stata quella dei vari stati in cui era diviso il paese, ed avrebbe dovuto condurre all’unità federale. Invece, si è creato uno stato centralizzato, che ha imposto la sua organizzazione statale a tutto il Paese. Senza voler fare una critica al sistema burocratico piemontese, non vi è dubbio che la burocrazia piemontese si è impadronita dello Stato ed ha imposto il suo sistema amministrativo a tutta l’Italia: cosa irrazionale, antistorica, da cui è derivata quella corruzione sulla quale è inutile insistere.

Il federalismo pertanto rappresenta, malgrado le diffidenze, malgrado i pericoli che molti ritengono gravi, l’aspirazione dell’opinione più consapevole del Paese e di quella parte del Paese che ha sofferto di più. Pur rispettando il pensiero di coloro che sono su un’altra linea politica, ritiene che il federalismo sia l’espressione della profonda sofferenza del Paese nel passato e l’aspirazione ad una radicale trasformazione.

Lo Stato che dovrà federarsi è la regione. Tante regioni più o meno caratterizzate costituiscono in Italia quello che in Isvizzera è il Cantone; quello che negli Stati Uniti è lo Stato federato; la base della organizzazione federale.

Da taluni si obietta che il federalismo si è avuto come sviluppo storico di fatti che hanno indotto stati preesistenti a federarsi. Così in Svizzera alcuni Cantoni si sono riuniti, hanno concluso un patto federale e vi hanno giurato fedeltà. Successivamente altri Cantoni hanno aderito alla Federazione che si era formata. Qualche cosa di simile è avvenuto in America. Ma, dicono gli avversari del federalismo, in Italia un processo verso il federalismo oggi sarebbe del tutto antistorico, perché l’Italia è costituita in stato unitario e non si parte dallo stato unitario per spezzettarlo e farne uno stato federale.

Senonché è possibile riferirsi all’ultimo esperimento di formazione di uno Stato federalista in Europa, che dimostra esattamente il contrario: lo Stato federale austriaco è sorto dal crollo dell’impero Austro-ungarico e alla fine della prima guerra mondiale si è organizzato con le popolazioni di lingua tedesca dell’ex impero e si è organizzato federalisticamente pure partendo da una regione austriaca unitaria. Caso tipico che sta a dimostrare appunto che si può passare da uno Stato non federale ad uno Stato federale.

Ed a ragione questo dovrebbe avvenire in Italia, ove si hanno alcune regioni che, dal punto di vista soprattutto geografico, non possono essere che Stati federati. Si riferisce principalmente alla Sicilia e alla Sardegna, e più alla seconda che è totalmente distaccata dal territorio nazionale. La Sardegna è più lontana da Roma di quanto non lo sia Malta da Londra, tanto che tale isolamento crea esasperazioni psicologiche che portate sul terreno politico si potrebbero definire aberrazioni. Accanto a queste due regioni ve ne sono altre, come la Calabria, l’Emilia, il Piemonte, la Toscana, l’Umbria, gli Abruzzi, il Molise e altre che hanno caratteristiche proprie che le differenziano sostanzialmente l’una dall’atra. Ed è da aggiungere che nella Val d’Aosta si parla il francese; che vi è la situazione della zona attorno a Bolzano; onde si deve concludere che, se in Europa vi è un Paese in cui si abbia la premessa logica di una organizzazione federale, questo è indubbiamente l’Italia.

Al centro rimarrà quello che deve rimanere in uno Stato moderno democratico: la direzione e la rappresentanza di una grande Nazione; l’essenziale insomma, tranne quella infinita serie di problemi che spettano solamente alla periferia e che il centro non ha alcun diritto di vedere né da vicino né da lontano.

La questione federalistica italiana deve essere concepita come potenziamento della civiltà italiana, e perciò egli la sente con grande passione. Nella organizzazione attuale la burocrazia al centro è la detentrice di tutto il potere. I funzionari sono in buona fede, molti di essi sono onesti e intelligenti; ma la burocrazia, in sé, è la negazione della vita, dell’amministrazione, dell’attività civile moderna. E tutto questo non si trasforma se non si trasforma tutta l’organizzazione dello Stato.

Forse la questione federalistica non sarà sentita dalla maggioranza: sarà un problema sollevato da una minoranza all’Assemblea. E allora, se la maggioranza non sarà per il federalismo, bisognerà vedere il problema dell’autonomia.

Venendo a questa, dichiara di concordare con l’onorevole Zuccarini sull’importanza del comuni, ma crede opportuno esaminare ora il problema dell’ente regionale; ciò che non pregiudica il problema dei comuni. In fondo, la regione è una federazione di comuni; quindi, il procedimento più razionale per l’utilità delle discussioni è quello che si è adottato.

Si afferma convinto che la provincia debba sparire perché, oltre che inutile, è dannosa. Chi ha fatto parte dei consigli provinciali sa che la provincia si occupa solo delle strade, dei manicomi e di poche altre cose: tutto fa la prefettura. La vita e la morte della provincia sono nelle mani del prefetto – il barone – che è il rappresentante dello Stato centralizzatore, con la sua burocrazia che sopprime ogni possibilità di vita, stronca ogni iniziativa con un boicottaggio permanente.

Si deve riconoscere che le popolazioni del Mezzogiorno e delle Isole sono terribilmente arretrate: perciò uomini intelligenti esulano da quei paesi. La corruzione, l’ignoranza, l’analfabetismo derivano non in piccola misura dal prepotere dei baroni imposti dal Governo centrale. Se non scomparissero le prefetture, tanto varrebbe conservare lo Stato centralizzatore: non si realizzerebbe alcun progresso.

Per quanto riguarda le elezioni nell’ambito della regione, ha una certa riluttanza a che siano fatte sulla base della rappresentanza di interessi: crede che non si possa evitare il prevalere del pensiero politico e, quindi, del partito politico.

Problema serio è quello delle finanze. Nelle regioni molto povere le finanze costituiranno un problema a sé grave. La Sardegna, per esempio, è un Paese estremamente povero, dove c’è chi muore letteralmente di fame. Ma lo Stato accentratore aggrava enormemente la situazione. Le grandi compagnie industriali e commerciali che lavorano in Sardegna hanno la loro sede fuori della Sardegna ed eludono il pagamento delle imposte locali, sottraendo all’Isola centinaia di milioni all’anno.

Quest’Isola, estremamente povera, ha però alcune fonti di ricchezza: le miniere, e lo Stato accentratore gliele sottrae. Ha le tonnare, e le tonnare sono concesse come un diritto feudale al marchese di Villamarina. Ha le saline, e lo Stato gliele toglie. Bisogna ridare alla Sardegna la possibilità di sfruttare per sé le scarse fonti di ricchezza di cui dispone.

Concludendo, si domanda ancora se debba esistere un organo intermedio fra la regione e il comune, se la provincia cioè debba essere o meno soppressa e, se soppressa, se debba o meno essere sostituita. Non ritiene giustificato il fermento che si manifesta in molti capoluoghi di provincia, per il timore di perdere di prestigio con la soppressione della provincia; il prestigio le città principali lo hanno indipendentemente dall’essere o meno un capoluogo di provincia; viene loro dai traffici, dai commerci, dalla posizione geografica, ecc.

CAPPI, rifacendosi a quanto ha detto precedentemente l’onorevole Perassi, osserva che la discussione attuale dovrebbe considerarsi preliminare, in modo da permettere alle singole sezioni di iniziare proficuamente il loro lavoro ed afferma che, senza entrare in dettagli, la Sottocommissione dovrebbe vedere quale debba essere, a grandissime linee, la struttura del nuovo Stato.

Sono state prospettate tre soluzioni, e cioè:

1°) mantenere la struttura dello Stato accentrato;

2°) stato federale. E qui bisogna vedere fino a qual punto debba arrivare l’autonomia dei singoli Stati e quali vincoli dovranno stabilirsi tra stato e stato della federazione;

3°) creazione dell’Ente regione, cioè di un ente giuridico che abbia certi poteri e certe competenze.

Ritiene che la Sottocommissione debba decidere in linea generale quali delle tre soluzioni sia da accettare, senza allargare la discussione, lasciando poi alle singole sezioni il compito di un esame più approfondito.

BULLONI osserva che, decisi i punti principali, sarebbe conveniente pregare i relatori di abbozzare un progetto particolare, così come è stato richiesto dal senatore Einaudi, da sottoporre alla Sottocommissione nella prossima seduta.

PRESIDENTE è d’opinione che la discussione non sia stata ancora abbastanza esauriente perché possa già arrivarsi a questa formulazione.

FABBRI gradirebbe che i fautori dell’istituzione dell’ente regione specificassero le materie che particolarmente dovranno essere di competenza di un tale ente. Siccome forse non si può fare a meno di essere d’accordo nel concetto che, istituita la regione, debba essere la Carta costituzionale a stabilire quali sono le materie specifiche di competenza della regione stessa, rimanendo tutto il resto delle materie di competenza dello Stato, ritiene che la discussione debba chiarire quali dovranno essere le funzioni della regione e quali i mezzi finanziari a disposizione dell’ente regione per raggiungere gli scopi prefissi. Osserva che in tal caso inevitabilmente per alcuni servizi si avrà una tendenza legislativa perfettamente opposta a tutto quello che era stato fatto prima. Si richiama in particolare alla materia mineraria, per la quale si è riconosciuto di aver realizzato un enorme progresso allorché si è arrivati all’unificazione di tutta la legislazione, prima frammentaria e diversissima fra le varie regioni d’Italia. La stessa cosa è stata fatta in materia di acquedotti, e in tutte le altre a questo connesse. Ora, se la materia mineraria, degli acquedotti ed anche delle concessioni elettriche dovesse essere di competenza della regione, si andrebbe inevitabilmente a ritroso rispetto a quello che finora è stato il movimento dell’unificazione amministrativa nazionale.

Ritiene necessario, nel caso di istituzione dell’ente regione e di conseguente soppressione totale o parziale delle provincie, stabilire quali debbano essere le materie da attribuire all’ente, e quali soprattutto i mezzi finanziari per farvi fronte.

CONTI considera necessario, ma prematuro, un progetto con l’articolazione degli argomenti. Ora il problema, di carattere pregiudiziale, è quello di precisare in linea di massima quali competenze dovranno essere attribuite alla regione. A questo scopo sarebbe opportuno, a suo avviso, nominare un Relatore o una ristretta Commissione di studio, con l’incarico di riferire alla Sottocommissione.

PRESIDENTE propone che la Sottocommissione continui lunedì 29 alle 17 la discussione sull’opportunità o meno di creare il nuovo organo regionale e, in caso affermativo, sull’opportunità di formare soltanto un organo amministrativo o di attribuirle anche poteri politici.

(Così rimane stabilito).

La seduta termina alle 20.30.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Cappi, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Erano assenti: Castiglia, Leone, Maffi, Porzio, Ravagnan.

In congedo: Amendola, Calamandrei, Vanoni.

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 19 DICEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

PRIMA SOTTOCOMMISSIONE

51.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 19 DICEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TUPINI

INDICE

La libertà di opinione, di coscienza e di culto (Seguito della discussione)

Presidente – Dossetti, Relatore – Moro – Cevolotto, Relatore – Marchesi –De Vita – La Pira – Grassi.

Revisione degli articoli da deferire al Comitato di coordinamento

Presidente – Cevolotto – Moro – Dossetti.

L’insegnamento religioso nelle scuole elementari (Discussione)

Marchesi – Presidente – Moro – Togliatti.

Chiusura dei lavori della Sottocommissione

Presidente – La Pira – Togliatti.

La seduta comincia alle 19.

Seguito della discussione sulla libertà di opinione, di coscienza e di culto.

PRESIDENTE apre la discussione sul quarto ed ultimo articolo proposto dall’onorevole Dossetti nella sua relazione e così formulato: «Il carattere ecclesiastico o lo scopo di religione o di culto di una associazione o di una istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative per la sua costituzione od attività, per la sua erezione in persona giuridica e per la sua capacità di acquistare, di possedere ed amministrare beni mobili ed immobili, come non possono essere causa di speciali gravami fiscali».

DOSSETTI, Relatore, fa presente che vi sono degli Stati in cui la personalità giuridica degli enti ecclesiastici non è mai stata contestata, anche se ha subito rare o lievi compressioni in linea di fatto. Invece nello Stato italiano, in seguito a vicende a tutti note, è stata tolta agli enti ecclesiastici la personalità di diritto. Questo articolo vuole, quindi, affermare un concetto negativo, che cioè il carattere ecclesiastico o lo scopo di culto non possono essere causa di un trattamento odioso a danno degli enti stessi. La norma si giustifica non solo come esigenza particolare degli enti ecclesiastici della Chiesa cattolica, ma anche degli enti religiosi non appartenenti alla Chiesa cattolica, tanto è vero che essa è stata invocata da appartenenti a Chiese non cattoliche.

MORO dichiara di aderire alle considerazioni svolte dall’onorevole Dossetti.

CEVOLOTTO, Relatore, propone che all’ultima proposizione dell’articolo in discussione, la quale dice: «come non possono essere causa di speciali gravami fiscali», sia fatta la seguente aggiunta: «Tali limitazioni possono essere però sancite dalla legge quando l’ente e i suoi titolari siano sussidiati dallo Stato o da altri enti pubblici, o godano esenzioni tributarie».

Osserva che il principio generale affermato nell’articolo proposto dall’onorevole Dossetti è giusto, ma per gli enti religiosi sussidiati dallo Stato o da altri enti pubblici vi dovrebbe essere una norma speciale, essendo logico che, se lo Stato paga, può imporre delle limitazioni.

DOSSETTI, Relatore, riconosce che l’osservazione dell’onorevole Cevolotto, il quale dice che nell’eventualità in cui sussista un onere a carico dello Stato a favore di un ente ecclesiastico, lo Stato avrà un diritto di intervento nel regime dell’ente stesso, diritto che egli esclude quando quest’onere non c’è, è fondata e risponde all’attuale disciplina degli enti ecclesiastici.

La limitazione riaffermata nell’aggiunta proposta dall’onorevole Cevolotto non è in contradizione con la norma posta nell’articolo in discussione, perché questo non riguarda le eventuali restrizioni o il diritto di intervento dello Stato là dove lo Stato dà una contropartita all’ente stesso, ma riguarda il principio della riconoscibilità, per cui si vuole assicurare che non ci siano esclusioni di riconoscibilità fondate sul carattere ecclesiastico e lo scopo dell’ente.

MARCHESI domanda all’onorevole Dossetti se, a queste associazioni ecclesiastiche che in qualità di persone giuridiche possono avere il possesso e l’amministrazione di beni mobili ed immobili, sia consentita la proprietà di larghe estensioni di terreno, che restino immuni da riforme legislative.

DOSSETTI, Relatore, risponde che anzitutto va tenuto presente che esiste una legge la quale disciplina gli acquisti degli enti morali, legge che è alla base del nostro ordinamento giuridico. Questa legge stabilisce che un ente morale non può acquistare beni se non entro determinate condizioni e entro certi limiti; e precisamente stabilisce che non possa acquistare beni mobili mortis causa o per atto di donazione o per compravendita se non con l’autorizzazione governativa, la quale è un atto discrezionale che può essere dal Governo dato o rifiutato. Il Governo ha quindi in mano un’arma per garantirsi che questi enti non si espandano eccessivamente.

Fa osservare in secondo luogo che la norma dell’articolo 4 in discussione non preclude allo Stato la possibilità di introdurre ulteriori limitazioni. Vuole soltanto stabilire che queste eventuali limitazioni devono essere adottate per tutti gli enti e non soltanto per gli enti aventi scopo o finalità di culto. Se lo Stato in futuro decidesse che le persone giuridiche non possono possedere la terra, la norma in discussione non contraddirebbe a tale decisione e non verrebbe a garantire agli enti ecclesiastici un trattamento particolare.

MARCHESI torna a domandare se la norma non mira a stabilire oasi ferme di proprietà, escluse dalle vicende delle legislazioni sociali.

DOSSETTI, Relatore, ripete che la norma in esame mira soltanto a escludere un privilegio negativo e odioso. La personalità giuridica degli enti ecclesiastici può essere colpita da tutte le leggi restrittive in vigore per gli altri enti morali; ma, in base a questo articolo, non può essere colpita in modo speciale per il semplice fatto di essere persona ecclesiastica.

CEVOLOTTO, Relatore, fa osservare all’onorevole Marchesi, che dopo il Concordati, in realtà è cessato il divieto di possedere e che quindi esiste la possibilità di una ricostituzione della manomorta, ricostituzione che l’articolo in esame né facilita né contrasta. Non resta ora che vedere come essa si svilupperà, e se diverrà una questione che andrà risolta. Allo stato attuale non ravvisa la possibilità di tornare a imporre quei divieti che sono stati tolti.

MARCHESI domanda se non si ritengano sufficienti, allo scopo che si propone l’articolo dell’onorevole Dossetti, le disposizioni del Concordato.

CEVOLOTTO, Relatore, risponde che nell’articolo proposto dall’onorevole Dossetti non v’è niente di sostanzialmente diverso dalle disposizioni concordatarie. È da osservare, inoltre, che la norma è richiesta anche da associazioni religiose appartenenti ad altre Chiese. Non si possono certo porre le associazioni cattoliche in una situazione peggiore delle associazioni protestanti o di altre religioni.

MARCHESI obietta che si potrebbero applicare allora le disposizioni concordatarie.

CEVOLOTTO fa presente che si tratta di arrivare ad una norma comune per tutte quante le associazioni dei diversi culti. Se questa presenterà dei pericoli, lo si vedrà nel corso della sua applicazione.

DE VITA osserva che, secondo la legge civile, quando viene a cessare lo scopo per cui l’ente morale è stato costituito, il patrimonio va devoluto allo Stato. Per quel che riguarda gli enti morali non religiosi il pericolo della manomorta è dunque evitato; invece, per quanto riguarda gli enti ecclesiastici, questo pericolo esiste perché non c’è per essi la possibilità di devoluzione del loro patrimonio allo Stato. Con l’articolo in esame gli enti morali ecclesiastici potranno costituire patrimoni, anche vistosi, e attraverso la costituzione di questi patrimoni si può creare quella situazione giuridica che comunemente si chiama manomorta.

DOSSETTI, Relatore, ricorda che la legge del 1855 prescrive che un ente morale, sia esso ecclesiastico o no, per acquistare determinati beni, specialmente immobili, ha bisogno dell’autorizzazione governativa. C’è quindi un controllo. Se lo Stato, in futuro, notasse un fenomeno di eccessivo afflusso di beni specialmente immobili agli enti in genere, può non dare l’autorizzazione a nuovi acquisti.

Osserva quindi non essere esatta l’affermazione dell’onorevole De Vita che i beni delle persone giuridiche estinte vadano allo Stato. Ci vanno solo in ultima istanza, giacché nel caso di estinzione di un ente morale il suo patrimonio andrà ad enti che si prefiggono scopi analoghi e, in mancanza di questi, allo Stato. Ma tale questione non interessa la norma in esame, perché, restino o no quei bini nell’ambito di un determinato tipo di ente, ciò non significa che attraverso estinzioni successive si aumenti il patrimonio globale di un determinato tipo di ente. Ciò non può avvenire, perché alla base di tutto il sistema vi è un controllo da parte dello Stato.

DE VITA obietta che la sua osservazione rimane valida nonostante le delucidazioni dell’onorevole Dossetti. La legge civile, per quanto riguarda la disciplina di questa materia, non è applicabile agli enti ecclesiastici.

DOSSETTI, Relatore, replica che per tutti gli enti vale la stessa norma, e fa notare che vi è una vasta dottrina sul principio della estinzione delle persone giuridiche e la conseguente assunzione dei beni.

PRESIDENTE conferma che le finalità dell’articolo in discussione sono quelle indicate dal Relatore, onorevole Dossetti.

DE VITA spiega il suo rilievo precedente nel senso che, mentre per tutti gli altri enti morali c’è la possibilità che i loro beni a lungo andare vadano a finire nelle mani dello Stato, per gli enti ecclesiastici ciò non avviene. Lo Stato quindi può concedere agli enti morali l’autorizzazione ad acquistare immobili, ma non conviene che la conceda agli enti ecclesiastici, perché altrimenti vi è la possibilità che si ricostituisca la manomorta attraverso il patrimonio degli enti ecclesiastici stessi.

LA PIRA ricorda che lo Stato controlla tutti gli enti giuridici. Quando lo Stato si accorge che per le persone giuridiche si forma la cosiddetta manomorta, non dà l’autorizzazione e quindi il patrimonio non cresce e può anche essere eliminato. Non comprende pertanto le difficoltà sollevate dall’onorevole De Vita.

DE VITA dichiara di aver compreso lo spirito della disposizione, ma insiste sul fatto da lui indicato.

DOSSETTI, Relatore, sostiene con un esempio concreto che in ogni caso il patrimonio non si accresce. Infatti, supponendo che gli enti ecclesiastici in Italia abbiano un patrimonio complessivo di un miliardo, e che questo miliardo sia distribuito tra cento enti ecclesiastici, se ad un determinato momento novanta di questi enti si estinguono e ne restano soltanto dieci, è chiaro che il patrimonio di un miliardo va a concentrarsi nei dieci enti superstiti, ma non per questo aumenterà.

DE VITA obietta che possono sorgere nuovi enti ecclesiastici, e che lo Stato deve anche ad essi accordare l’autorizzazione; per questa via il patrimonio degli enti ecclesiastici può certamente aumentare.

DOSSETTI, Relatore, precisa che le sue osservazioni in risposta all’onorevole De Vita volevano sottolineare il fatto che il regime di evoluzione degli enti ecclesiastici non costituisce ragione per l’espansione del loro patrimonio. La Chiesa avrebbe altrimenti un sistema molto semplice per aumentare il suo patrimonio: distruggere gli enti ecclesiastici.

GRASSI osserva che attualmente gli enti ecclesiastici possono possedere ed acquistare e che l’articolo proposto dall’onorevole Dossetti potrebbe anche essere superfluo, poiché la materia è già regolata dal Concordato. Se mai, la norma può valere per gli enti religiosi non cattolici.

L’unico inconveniente è che i beni religiosi sono sottratti alla successione e quindi, mentre gli altri patrimoni nel giro di poche generazioni fatalmente si disperdono, quelli degli enti ecclesiastici non si estinguono. D’altra parte, la legge fissa al posto della tassa di successione quella di manomorta.

DE VITA fa presente che la sua osservazione mirava proprio a segnalare il pericolo di una possibile ricostituzione della manomorta.

GRASSI rileva che, in questo caso, lo Stato si difenderà con le sue leggi.

PRESIDENTE mette ai voti l’articolo 4 nel testo proposto dall’onorevole Dossetti, di cui ripete la formulazione:

«Il carattere ecclesiastico o lo scopo di religione o di culto di una associazione o di una istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative per la sua costituzione od attività, per la sua erezione in persona giuridica e per la sua capacità di acquistare, di possedere ed amministrare beni mobili ed immobili, come non possono essere causa di speciali gravami fiscali».

CEVOLOTTO dichiara che rinuncia alla sua proposta aggiuntiva e voterà a favore di questo articolo, tenendo però presenti i chiarimenti dati dall’onorevole Dossetti.

(L’articolo è approvato con 13 voti favorevoli, 1 contrario e 2 astenuti).

Revisione degli articoli da deferire al Comitato di coordinamento.

PRESIDENTE fa presente che, avendo la Sottocommissione esaurito il suo compito nei riguardi della formulazione degli articoli, restano ora da rivedere quegli articoli già approvati che non sono stati trasmessi al Comitato di coordinamento perché la Sottocommissione si era riservata di riesaminarli, non solo al punto di vista del testo, ma anche del loro collocamento.

Avverte che, essendosi avuto sentore della possibilità che venga proposta la soppressione dalla Costituzione dei tre articoli che egli si appresta a sottoporre alla revisione della Sottocommissione, salvo a inserirne il concetto nel preambolo, è bene che anche questa eventualità sia tenuta presente nel riesame.

Passa quindi alla lettura dell’articolo 1:

«La presente Costituzione, al fine di assicurare l’autonomia, la libertà e la dignità della persona umana, e di promuovere ad un tempo la necessaria solidarietà sociale, economica, spirituale, riconosce e garantisce i diritti inalienabili e sacri dell’uomo sia come singolo, sia nelle forme sociali nelle quali esso organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona».

CEVOLOTTO dichiara che, essendo contrario a questo articolo, se verrà proposto in sede di Commissione plenaria o di Assemblea plenaria di trasferirne il concetto nel preambolo, sarà favorevole a questa proposta.

PRESIDENTE dà lettura dell’articolo 2:

«Gli uomini, a prescindere dalle diversità di attitudini, di sesso, di razza, di nazionalità, di classe, di opinione politica e di religione, sono uguali di fronte alla legge ed hanno diritto ad un eguale trattamento sociale.

«È compito perciò della società e dello Stato eliminare gli ostacoli di ordine economico-sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza degli individui, impediscono il raggiungimento della piena dignità della persona umana ed il completo sviluppo fisico, economico, culturale e spirituale di essa».

CEVOLOTTO dichiara che se anche per questo secondo articolo sarà proposto il collocamento nel preambolo, voterà a favore di tale proposta.

PRESIDENTE legge l’articolo 3:

«Ogni uomo è soggetto di diritto».

CEVOLOTTO propone che questo articolo sia soppresso, perché ritiene che il concetto sia già compreso nell’articolo 4, così come è stato formulato dal Comitato di coordinamento.

MORO ricorda di aver fatto un’esplicita riserva, dichiarando che questo articolo doveva essere sottoposto ad una seconda elaborazione.

PRESIDENTE propone che i tre articoli, così come sono stati formulati, vengano inviati al Comitato di coordinamento.

(Così rimane stabilito).

Ricorda che il Comitato di coordinamento ha abolito l’articolo 6, già approvato dalla Sottocommissione, che era così formulato:

«È riconosciuto ad ogni lavoratore, nei modi indicati dalla legge, uno stato professionale che è fondamento di diritto».

Legge quindi il penultimo articolo sui rapporti civili, non ancora trasmesso al Comitato di coordinamento:

«Le libertà garantite dalla presente Costituzione devono essere esercitate per il perfezionamento integrale della persona umana, in armonia con le esigenze della solidarietà sociale e in modo da favorire lo sviluppo del regime democratico mediante la sempre più attiva e concreta partecipazione di tutti alla cosa pubblica.

«La libertà è fondamento di responsabilità».

CEVOLOTTO dichiara di essere contrario a questo articolo, perché dire che le libertà garantite devono essere esercitate in modo da assicurare lo sviluppo del regime democratico rappresenta una formula che permette di sopprimere tutte le libertà che si vogliono negare, con la giustificazione che non sono dirette a favorire il regime democratico.

PRESIDENTE propone che anche questo articolo, così come è formulato, venga rinviato al Comitato di coordinamento, e fa presente che a suo parere esso dovrebbe essere collocato al n. 3 del tema dei rapporti civili.

(Così rimane stabilito).

Ricorda che, secondo l’ordine dato ai lavori della Sottocommissione, il tema dei principî dei rapporti politici e sociali deve riprendere il suo posto, di precedenza rispetto al tema della famiglia. Fa inoltre presente che questo tema dei rapporti politici avrebbe dovuto concludersi all’articolo 7, ma invece fu estesa la discussione a punti che non erano compresi nelle proposte dei Relatori e furono votati i seguenti articoli riguardanti le forme dello Stato italiano e i provvedimenti nei confronti della Casa Savoia:

«Art. … – Lo Stato italiano è una Repubblica democratica. Essa ha per suo fondamento il lavoro e la partecipazione concreta di tutti i lavoratori all’organizzazione economica, sociale e politica del Paese».

«Art. … – L’adozione della forma repubblicana dello Stato è definitiva e non può essere oggetto di normale procedimento di revisione della Costituzione».

«Art. … – La legge disporrà l’avocazione allo Stato dei beni di Casa Savoia».

«Art. … – Ai membri della Casa Savoia è proibita la residenza nel territorio della Repubblica».

Dovendosi dare ora un collocamento a questi articoli, fa presente che essi, per il loro carattere generale, andrebbero collocati in testa o in coda al testo costituzionale. Ritiene che la Sottocommissione debba limitarsi a stabilire tale collocazione, lasciando alla Costituente la definitiva decisione.

Apre la discussione su questo punto.

DOSSETTI si dichiara del parere che l’articolo riguardante la dichiarazione dello Stato come Repubblica, che qualcuno vorrebbe vedere in testa alla Carta costituzionale, sia da mettere invece in testa alla parte riguardante la struttura dello Stato, come esplicazione logica dei principî affermati nell’ordinamento precedente, anche perché, nella coscienza collettiva, l’adesione alla Repubblica democratica da parte di tutti gli italiani sarà tanto più approfondita, in quanto sarà sentita non come un cappello imposto un po’ forzosamente all’apice del nostro ordinamento, ma come lo sviluppo logico ed ultimo di una catena che dal riconoscimento dei diritti della persona arriva all’affermazione dello Stato repubblicano.

CEVOLOTTO, contrariamente allo schema di collocazione prospettato dall’onorevole Rossetti, ritiene che l’articolo riguardante la dichiarazione dello Stato come Repubblica vada collocato nella prima parte della Carta costituzionale, quella cioè che riguarda la sovranità, come è appunto nell’attuale Costituzione francese. Poiché non si sta facendo un trattato di sociologia, ma la Costituzione della Repubblica italiana, è del parere che, per un principio politico, questa Costituzione debba cominciare con l’affermazione: «Lo Stato italiano è una Repubblica democratica».

MORO, associandosi alle osservazioni dell’onorevole Dossetti, fa presente che gli articoli in discussione non hanno formato oggetto di alcuna decisione da parte del Comitato di coordinamento, il quale ha ritenuto di doverne rimandare la decisione alla Commissione plenaria. Crede quindi opportuno che ciascuno si riservi di esprimere in quella sede il proprio parere sull’argomento.

PRESIDENTE comunica che rimane inteso che la decisione circa il collocamento di questi articoli è rinviata in sede di Commissione plenaria.

(La Sottocommissione concorda).

Proseguendo nell’esame degli articoli non ancora sottoposti a revisione, fa presente che a due articoli riguardanti la bandiera nazionale e la sovranità dello Stato, già esaminati dal Comitato di coordinamento, seguono quelli concernenti la resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri che violino le libertà fondamentali garantite dalla Costituzione e l’altro che stabilisce la rinuncia da parte della Repubblica alla guerra come strumento di conquista o di offesa alla libertà degli altri popoli.

MORO fa presente che il Comitato di coordinamento ha approvato il concetto che, per quanto riguarda il collocamento e la formulazione di questi articoli, la decisione debba spettare alla Commissione plenaria.

PRESIDENTE ricorda che la Sottocommissione ha approvato nella seduta di stamane un articolo in cui è detto: «Ogni uomo ha diritto alla libera professione delle proprie idee e convinzioni, alla libera e piena esplicazione della propria vita religiosa interiore ed esteriore, alla libera manifestazione individuale ed associata della propria fede, alla propaganda di essa e al libero esercizio privato e pubblico del proprio culto, purché non si tratti di religione e di culto implicanti principî o riti contrari all’ordine pubblico e al buon costume».

Propone che questo articolo venga collocato nella prima parte che riguarda i principî dei rapporti civili.

(Così resta stabilito).

Fa presente che ci sono infine i due articoli riguardanti la questione dei rapporti internazionali e quella dei rapporti tra Stato e Chiesa.

DOSSETTI ricorda che la Sottocommissione aveva già stabilito un ordine di collocamento per questi articoli.

PRESIDENTE dichiara di ritenere che i due articoli debbano essere collocati nel capitolò che riguarda i principî dei rapporti civili.

(Così resta stabilito).

Discussione sull’insegnamento religioso nelle scuole elementari.

MARCHESI fa presente che è rimasto sospeso un articolo proposto dall’onorevole Moro concernente l’insegnamento religioso nelle scuole elementari. Su questo articolo, a proposito del quale egli fece una dichiarazione di voto preliminare, la Sottocommissione non si è pronunciata.

PRESIDENTE ricorda all’onorevole Marchesi che quell’articolo fu oggetto di una lunga discussione, troncata in seguito a una proposta dell’onorevole Dossetti di rinviarne la discussione dopo che la Sottocommissione avesse deliberato circa le relazioni tra lo Stato e la Chiesa. Invita l’onorevole Moro, che insieme all’onorevole Marchesi fu Relatore del tema dei rapporti culturali, a cui l’articolo si riferisce, ad esprimere il suo pensiero sull’argomento.

MORO dichiara che, essendosi stabilito che i Patti Lateranensi rimangono come base per i rapporti tra Stato e Chiesa, i commissari democristiani rinunciano a richiedere una esplicita dichiarazione su questo punto. Qualora questa disciplina giuridica non avesse più efficacia, egli ed i colleghi della Democrazia cristiana si riservano di presentare quell’articolo nella forma e nella sede più opportuna.

MARCHESI dichiara che l’articolo votato nella seduta precedente, in cui è stato inserito il Concordato come base dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, si presterà certamente ad una ulteriore discussione. L’argomento non si è certo esaurito nella sede della prima Sottocommissione, e parecchi punti saranno particolarmente messi in rilievo, e specialmente quella parte del Concordato che si riferisce all’insegnamento religioso nelle scuole.

Osserva che la formula proposta in un secondo tempo dall’onorevole Moro avrebbe di molto attenuato l’opposizione a quel principio, e farebbe onore all’onorevole Moro il riproporla in questa sede come indizio modificatore di certe inconsulte asprezze delle norme concordatarie. L’articolo però dovrebbe essere riproposto così com’è formulato nella sua seconda redazione.

MORO ricorda all’onorevole Marchesi le vicende subite da quel suo articolo che suscita lo sdegno dell’onorevole Togliatti, in seguito al quale egli dovette rivendicare la propria buona fede. Fa presente come egli, in quella sede, chiarì che se i democristiani avessero potuto ottenere l’unanimità dei voti su quell’articolo, avrebbero potuto giustificare la situazione delicata che veniva a crearsi per la discordanza tra la seconda formulazione dell’articolo stesso e la norma contenuta nel Concordato.

TOGLIATTI fa presente che i comunisti erano disposti a votare l’articolo.

MORO obietta che l’onorevole Marchesi aveva già dichiarato che non l’avrebbe votato. Osserva che ora la situazione è diversa, perché nella seduta precedente è stato votato un articolo che richiama integralmente la disciplina concordataria per tutte le norme di sua competenza, tra cui è compresa una norma relativa all’insegnamento religioso. Quindi, dopo l’inserimento del Concordato nella Costituzione, si potrà sempre apportare a quella norma le modificazioni che si riterranno opportune; ma se, invece, si approvasse in questa sede una norma diversa dal testo concordatario, si creerebbe una situazione non solo particolarmente delicata da un punto di vista politico, ma tale da meritare un attento esame da parte della Sottocommissione nei riguardi del lato giuridico.

MARCHESI osserva che i democristiani darebbero un lodevole e giovevole esempio se, senza smentire la sostanza dell’articolo concordatario, inserissero nella Costituzione una qualche modificazione conforme a quello spirito di libertà che hanno tante volte affermato.

MORO invita l’onorevole Marchesi a rendersi conto dell’importanza del rilievo che egli ha fatto in relazione a questo problema costituzionale, e come egli non possa assumersi leggermente una tale responsabilità.

MARCHESI dichiara fin d’ora che in sede di Commissione plenaria e di Assemblea costituente esprimerà il suo pensiero sull’articolo del Concordato.

PRESIDENTE fa presente all’onorevole Marchesi che, ove l’onorevole Moro non accolga la sua richiesta, egli potrà riservarsi di risollevare la questione in sede di Commissione plenaria o di Assemblea costituente. Ritiene comunque opportuno sospendere brevemente la seduta, per dare modo all’onorevole Moro di consultarsi con i colleghi democristiani prima di rispondere in merito alla richiesta dell’onorevole Marchesi.

(La seduta è sospesa per alcuni minuti).

Comunica che, non avendo lo scambio di idee portato ad alcuna conclusione, si intende che tanto l’onorevole Marchesi come l’onorevole Moro, come anche tutti gli altri Commissari che lo ritenessero opportuno, si riservano il diritto di risollevare tutta la questione in sede di Commissione plenaria ed eventualmente anche in sede di Assemblea costituente.

MORO fa presente che, essendo stati vani i tentativi di giungere a una soluzione concorde, la questione resta impregiudicata ed i contatti in merito tra i rappresentanti delle opposte tendenze saranno ripresi in seno alla Commissione dei settantacinque.

Chiusura dei lavori della Sottocommissione.

PRESIDENTE, prima di dichiarare chiusi i lavori della prima Sottocommissione, dà atto ai Commissari della alacrità e assiduità da essi dimostrate. È stato compiuto un lavoro molto interessante; si è lavorato bene e in profondità; sono stati formulati ben 60 articoli della Costituzione.

Ritiene che, quando il Paese avrà cognizione dell’opera svolta dalla Commissione per la Costituente e sarà in grado di valutarne l’importanza, non potrà non riconoscere che a questa Costituzione è stato portato – nel modo più alto – tutto il contributo di attività, di intelligenza, di operosità in corrispondenza con i sentimenti popolari.

Intende sottolineare, soprattutto, lo spirito col quale si è lavorato: spirito di comprensione che ha mirato sempre a raggiungere risultati nei quali le opposte visioni si integrassero e si fondessero in modo da appagare, nei limiti del possibile, le esigenze di ciascuno dei componenti la Sottocommissione. Ritiene che questo sia il carattere più importante che ha contraddistinto i lavori e che di questo soprattutto si debba conservare il ricordo.

Se il sentimento di comprensione che ha animato tutti i commissari durante i loro lavori potesse diventare patrimonio comune dei militanti nei partiti che oggi formano la base della democrazia italiana, l’opera svolta dalla Sottocommissione non avrebbe potuto raggiungere risultato migliore e di miglior auspicio per quel che dovremo ancora fare nell’Assemblea e nel Paese per garantire al popolo un effettivo regime democratico sulla base della libertà e della giustizia.

(Segni di consenso).

LA PIRA ringrazia il Presidente che ha, con alta imparzialità, con paterna sapienza e con squisito tatto, guidato i lavori della Sottocommissione.

I commissari gliene sono tutti grati: la solidarietà raggiunta in seno alla Sottocommissione è dovuta anche alla sua fatica ordinatrice.

Si associa con tutto il cuore alle parole pronunciate dal Presidente, rilevando che, realmente, tutti i commissari sono spiacenti di doversi separare, poiché si era venuta formando fra di essi una consuetudine di vita e di comune sentimento che ha costituito in seno alla Sottocommissione un vincolo di fraternità umana. È questa già una conquista politica ed è un preannunzio della fraternità che legherà in avvenire tutti gli italiani.

(Segni di consenso).

TOGLIATTI si associa all’onorevole La Pira nell’espressione del ringraziamento per l’azione che il Presidente ha svolto nelle sue funzioni. Tutti i commissari gli sono riconoscenti e ne apprezzano la competenza, l’abilità e la capacità. Sarebbe augurabile che tutte le Commissioni costituzionali fossero dirette nello stesso modo e quindi con lo stesso profitto.

Per quanto si riferisce ai risultati del lavoro svolto dalla Sottocommissione, rileva che, di certo, vi sono punti ancora da discutere e che saranno discussi. La lotta politica continuerà anche dopo che sarà compiuta la Costituzione. Il fatto però di essere riusciti, prima di tutto, a comprendersi, e di essere riusciti in secondo luogo a fissare come elementi della Costituzione alcuni punti su cui i rappresentanti di correnti politiche diverse, provenienti da parti molto lontane, di varia preparazione, con ideologie differenti, si sono trovati d’accordo e hanno votato ad unanimità; il fatto che si è riusciti – e si riuscirà in futuro – ad inserire nella Costituzione una maggioranza di articoli sui quali tutti sono fin d’ora concordi, è di buon auspicio per il futuro del Paese.

L’aver collaborato in questa Sottocommissione, pur attraverso dibattiti alle volte tempestosi, è per tutti motivo di soddisfazione: soddisfazione di aver conosciuto degli uomini, di averne constatato la capacità intellettuale e politica, e di aver trovato con essi una base comune di accordo e di discussione.

Questo è un risultato proficuo che certamente riuscirà utile ai partiti, all’Assemblea e a tutto il Paese.

(Segni di assenso).

PRESIDENTE dichiara chiusi i lavori della Sottocommissione.

La seduta termina alle 21.

Erano presenti: Amadei, Basso, Cevolotto, Corsanego, De Vita, Dossetti, Grassi, Iotti Leonilde, La Pira, Lucifero, Marchesi, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro, Togliatti e Tupini.

Assenti giustificali: Caristia e Mancini.

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 19 DICEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

PRIMA SOTTOCOMMISSIONE

50.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 19 DICEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TUPINI

INDICE

Il giuramento (Discussione)

Moro – Presidente – La Pira – Togliatti – Lucifero – Merlin Umberto – Cevolotto – Mastrojanni – Corsanego – Basso – Grassi – De Vita – Marchesi – Amadei.

La libertà di opinione, di coscienza e di culto (Seguito della discussione)

Presidente – Dossetti, Relatore – Cevolotto, Relatore – Togliatti – Marchesi – Grassi – Basso – Mastroianni – La Pira – Moro – Merlin Umberto – Lucifero.

La seduta comincia alle 11.

Discussione sul giuramento.

MORO propone di procedere a uno scambio di idee sulla questione del giuramento, e, prima di tutto, sull’opportunità che il giuramento venga inserito nella Costituzione, salvo poi, quando sarà stata dibattuta la questione preliminare, ad entrare nel merito del giuramento stesso, in quanto questo tema appartiene alla competenza della prima Sottocommissione.

PRESIDENTE, non opponendosi alcuno alla proposta dell’onorevole Moro, apre la discussione sull’argomento.

MORO fa presente che, in sede di approvazione della legge sul giuramento nell’Assemblea costituente, fu fatta da parte dei deputati democristiani una esplicita riserva di discutere in sede di Costituzione il tema del giuramento, per stabilire se vi sia un obbligo al giuramento, per quali categorie esista questo obbligo, oppure se vi sia un diritto alla libertà di non essere obbligati a nessun giuramento. Ritiene che la sede più idonea per la discussione di questo punto, sul quale dovrà pronunciarsi l’Assemblea plenaria, sia la prima Sottocommissione, a cui è stato assegnato il tema che riguarda i principî generali della libertà.

LA PIRA dichiara che, essendo il giuramento un atto essenzialmente religioso, che si fa al cospetto di Dio, esso va fatto in casi estremi ed impegna seriamente e fino in fondo la coscienza umana. Siccome però nella vita pubblica ne è stato fatto finora un grande abuso, specialmente nel periodo fascista, ritiene che il giuramento dovrebbe essere soppresso, se questo è possibile, e che, in ogni modo, dovrebbe essere limitato a pochissimi casi eccezionali, restituendogli la sua importanza di un impegno della coscienza dinanzi a Dio o comunque dinanzi ad una coscienza superiore.

PRESIDENTE osserva che questi pochissimi casi riguardano sia la materia sulla quale si dovrebbe giurare, sia le persone che devono giurare. Quindi la limitazione dovrebbe essere ordinata sia sul piano oggettivo, che sul piano soggettivo.

TOGLIATTI dichiara di essere d’accordo con l’onorevole La Pira.

LUCIFERO esprime la sua contrarietà a ogni giuramento imposto per legge, che non è un giuramento fatto secondo la coscienza, ma coatto. Dichiara comunque di concordare con l’onorevole La Pira sul principio che, se ci deve essere un giuramento, esso sia ridotto a quei casi in cui l’assunzione di una determinata carica richieda un determinato impegno di coscienza di fronte allo Stato.

MERLIN UMBERTO ritiene che il giuramento rappresenti una necessità solo per le seguenti categorie: Presidente della Repubblica, membri dell’Esercito, appartenenti agli organi di Polizia, ed infine magistrati. Poiché, però, il giuramento è un atto che impegna davanti a Dio, e ci sono uomini che non hanno il dono della fede, costoro dovranno giurare sulla loro coscienza. Occorre però che il giuramento non sia fissato in una forma determinata, ma con una formula che rispetti la libertà di coscienza di tutti. Cita a tale proposito la Costituzione di Weimar, dove si dice che il Presidente giura secondo una data formula, e si fa seguire poi questo capoverso: «Egli può aggiungere alla formula un giuramento religioso».

CEVOLOTTO fa osservare che, quando si è discusso del giuramento in sede di Assemblea costituente, si trattava di approvare un progetto di legge, diretto soltanto a modificare la formula del giuramento, in quei casi nei quali la legislazione attuale ne indica l’obbligo. Ora invece si tratta di stabilire se si debba introdurre o no il giuramento nella nuova Costituzione, e in quali casi. Esprime anch’egli il parere che il giuramento debba essere limitato, e riservato ai casi del Capo dello Stato, delle Forze armate, della Polizia e dei magistrati.

MASTROJANNI si dichiara contrario al giuramento, poiché esso non trasforma la situazione delle cose, né garantisce l’esecuzione delle leggi. Comprende che il giuramento debba essere prestato dal Capo dello Stato, ma non lo ammette per i magistrati e per l’Esercito, poiché l’Esercito è formato con coscrizione obbligatoria. Aggiunge che ogni volta che il giuramento viene imposto, esso non è più un giuramento.

PRESIDENTE fa osservare che l’Esercito è composto anche di ufficiali di carriera.

MASTROJANNI afferma di ritenere che il giuramento debba essere liberamente espresso dalla coscienza e che pertanto non possa essere ordinato. Non vede perché il magistrato, che amministra la giustizia, debba giurare fedeltà. Fedeltà forse all’osservanza della legge? Ma la legge ha in sé una forza coattiva, per cui la sua violazione porta come conseguenza una sanzione. Parimenti non comprende il giuramento per le Forze di polizia, costituite da modesti esecutori della legge che debbono esercitare le loro funzioni sotto qualsiasi regime, indipendentemente da qualsiasi avvenimento che possa verificarsi nella storia della società. Il giuramento deve essere imposto soltanto nei casi in cui si debba esercitare una funzione processuale, come, ad esempio, per i periti e gli interpreti, e nel caso dei testimoni; per questo giuramento occorre mantenere la formula espressa nel codice di procedura penale. È d’avviso che all’infuori dei casi giudiziari, il giuramento vada escluso, e che neppure debba essere prestato il giuramento al Capo dello Stato, perché in regime democratico sembra assurdo che un cittadino debba ricevere il giuramento degli altri cittadini, quando la sua funzione è transitoria e quando egli rappresenta il più alto magistrato, ma non ha nessun attributo di sovranità. Ammette perciò, per determinati casi, il giuramento alla Repubblica, ma non al Capo dello Stato.

MORO dichiara di essere contrario per principio al giuramento, ma di rendersi conto della sua necessità in quei casi nei quali il vincolo del giuramento può avere significato politico, oppure può essere un efficace richiamo alla serietà della funzione che si sta per compiere. È quindi del parere che debbano giurare: da un lato il Capo dello Stato ed i Ministri, dall’altro le Forze armate, le Forze di polizia ed inoltre i testimoni e gli interpreti: non ritiene invece necessario il giuramento per i magistrati. È favorevole all’aggiunta di una formula religiosa, che potrebbe essere ad esempio: «consapevole della responsabilità che assumo dinanzi a Dio».

CEVOLOTTO, contrariamente al parere espresso dall’onorevole Mastrojanni, ritiene che il giuramento abbia un’importanza grandissima per le Forze armate, e che possa servire ad allontanare dall’Esercito quegli ufficiali che si sentono ancora legati alla monarchia. Osserva però che delle varie categorie di persone che dovrebbero essere obbligate al giuramento non si fa menzione in nessuna Costituzione. Le diverse Costituzioni lasciano ad una legge particolare di stabilire chi deve giurare e con quali formule. È d’accordo con l’onorevole Mastrojanni che si debba giurare fedeltà alla Repubblica e non al Capo dello Stato. Ritiene che si possa considerare l’opportunità o meno di inserire nella Costituzione l’obbligo del giuramento da parte del Capo dello Stato, ma che per il resto si debba lasciare alle leggi di stabilire i singoli casi in cui determinate categorie debbono giurare.

TOGLIATTI dichiara di non condividere l’opinione di coloro i quali pensano che il giuramento abbia valore solo quando rivesta un carattere religioso. È evidente, comunque, che per chi è religioso il giuramento ha valore in quanto si riferisce ai principî nei quali crede, che lo portano a ritenere che lo spergiuro incorre in determinate sanzioni.

LA PIRA obietta che non è soltanto un problema di sanzioni, ma anche un problema interiore.

TOGLIATTI osserva che anche per colui che non ha una coscienza religiosa esiste una coscienza morale, e non è pensabile che coloro che hanno una coscienza religiosa giudichino immorali coloro che non l’hanno.

LA PIRA dichiara che un giudizio del genere non è nella coscienza cristiana.

TOGLIATTI continua rilevando che esiste un vincolo morale anche al di fuori delle ideologie religiose, ed esiste in misura maggiore o minore per tutti gli uomini. Perfino i delinquenti, in determinate organizzazioni, prestano giuramento e vi tengono fede. Anzi il giuramento dei delinquenti alle volte è quello al quale viene prestata fede in misura maggiore che a qualsiasi altro; il che vuol dire che nella coscienza degli uomini questa formula del giuramento ha valore in sé e per sé.

Osserva che altro argomento a sostegno della sua tesi è che regimi, quali ad esempio il russo, i quali non tengono conto della ideologia religiosa, considerandola come un fatto personale, organizzano il loro esercito sulla base di un giuramento molto rigoroso, e puniscono gli spergiuri nel modo più severo.

Per queste ragioni ritiene che si debba mantenere il giuramento come un vincolo particolare, non escludendo che nella Costituzione si dica che coloro che desiderano aggiungere una formula religiosa al loro giuramento hanno tale possibilità: ciò significa che per essi il giuramento è legato alla particolare ideologia religiosa professata.

Quanto alla questione di chi debba giurare, è del parere che in primo luogo il giuramento debba essere richiesto al Capo dello Stato, il quale deve promettere fedeltà alla Costituzione ed alla Repubblica; e su questo non vi può essere dubbio. In secondo luogo, debbono prestare giuramento i militari, soldati ed ufficiali. Il militare deve giurare perché il servizio delle armi è una forma speciale di servizio che impegna la persona umana fino al sacrificio della vita. Il militare deve essere un uomo disposto ad andare alla morte per adempiere ad un ordine, non solo in guerra, ma anche in pace. Rileva che il richiamo a questo dovere è implicito nel giuramento. Non vi può essere un esercito se non vi è un giuramento, sino a che la coscienza degli uomini non si sia evoluta tanto da far perdere valore a queste forme.

Da ciò deriva che devono prestare giuramento tutti i corpi militarizzati: quindi anche i Corpi di polizia.

Concorda sulla necessità di richiedere il giuramento ai magistrati, in quanto si è in presenza di un legame speciale di fedeltà alle leggi che va al di là del legame di fedeltà cui sono tenuti i funzionari dello Stato.

Parimenti vi deve essere l’obbligo del giuramento per i testimoni e per i periti nei processi, perché in questi casi si richiede il massimo di garanzia che si dica la verità.

Non crede invece che si debba richiedere il giuramento a tutti i funzionari dello Stato. Ogni giorno il superiore ha la possibilità di richiamare i funzionari che da lui dipendono all’adempimento del proprio dovere, né è concepibile che l’impiegato, per il fatto di essere venuto meno al proprio dovere, possa essere senz’altro considerato spergiuro. Si deve evitare ogni violazione della disciplina del lavoro e della correttezza, instaurando un sistema efficace di controllo e non tranquillizzandosi per il fatto che i funzionari hanno giurato.

Conclude esprimendo l’avviso che nella Costituzione si debba stabilire l’obbligatorietà del giuramento per il Capo dello Stato, per i magistrati e per i militari, mentre per quanto riguarda i testimoni ed i periti nel processo, tale obbligo può essere disposto dal Codice di procedura penale, così come è attualmente.

CORSANEGO fa osservare che la maggior parte delle Costituzioni si preoccupano soltanto del giuramento del Capo dello Stato. Pur essendo d’accordo con l’onorevole Cevolotto e con l’onorevole Togliatti circa la necessità di richiedere il giuramento ai magistrati, ai militari e alle Forze di polizia, si domanda se questo obbligo debba fissarsi nella Carta costituzionale, o se non sia invece opportuno che la Costituzione italiana, così come le altre, parli soltanto della formula del giuramento del Capo dello Stato.

Insiste sul carattere sacro del giuramento ed osserva che, pure essendo vero quanto ha affermato l’onorevole Togliatti, che cioè anche coloro che non hanno una fede religiosa possono impegnarsi solennemente davanti agli altri uomini, nel giuramento religioso vi è una maggiore garanzia. Questo, però, non vuol dire che coloro che non hanno la fortuna di avere la fede religiosa non possano impegnarsi sulla loro coscienza a compiere determinati doveri verso lo Stato.

BASSO ritiene che una discussione sul giuramento non rientri nella competenza della Sottocommissione, in quanto la materia sarà trattata dalla seconda Sottocommissione.

PRESIDENTE fa osservare all’onorevole Basso che la questione pregiudiziale è già stata superata: la Sottocommissione ha affermato, in principio di riunione, che si riteneva competente ad esaminare la questione.

LUCIFERO ritiene che indubbiamente la Sottocommissione sia competente sulla questione di principio, dato che essa è incaricata di formulare i principî generali; è, quindi, di sua competenza la questione di principio se si debba ammettere o no il giuramento e, in linea subordinata, se debba essere esteso a vaste categorie o limitato ad alcune. Si potrà poi lasciare alla seconda Sottocommissione la traduzione in formule pratiche delle decisioni che la prima Sottocommissione avrà preso.

PRESIDENTE rileva che quasi tutti i Commissari hanno ritenuto competente la prima Sottocommissione a decidere in linea di principio, e sono d’accordo sull’opportunità di includere nella Costituzione il giuramento e sulla necessità che esso sia limitato a ben determinate categorie.

BASSO dichiara di non essere d’accordo circa l’opportunità di fissare nella Carta costituzionale le categorie alle quali si pone l’obbligo del giuramento. Alla Costituzione spetta di dire soltanto quale giuramento deve essere prestato. Il legislatore a sua volta fisserà le categorie che debbono giurare.

PRESIDENTE constata che la Sottocommissione è d’accordo circa l’obbligo del giuramento per il Capo dello Stato e che di questo obbligo si debba fare menzione nella Costituzione, rimettendo alla seconda Sottocommissione la decisione circa la formula del giuramento stesso.

MORO dichiara di ritenere che se la Sottocommissione dovesse limitarsi a constatare che la Costituzione deve parlare della questione del giuramento del Capo dello Stato, sarebbe inutile prendere una decisione in merito, perché la seconda Sottocommissione ha già fissato l’obbligo del giuramento non solo per il Capo dello Stato, ma anche, ad esempio, per i Ministri. Se invece, come è suo parere, si deve garantire costituzionalmente che la legge futura non estenda eccessivamente l’obbligo del giuramento, la prima Sottocommissione deve dichiarare quali sono le categorie chiamate per legge a giurare, salvo a lasciare alla seconda Sottocommissione e al futuro legislatore di definire le forme e le formule del giuramento.

MERLIN UMBERTO si dichiara d’accordo circa le categorie che debbono essere sottoposte al vincolo del giuramento; fa presente però che l’Assemblea plenaria ha recentemente approvato una legge sul giuramento, la quale deve essere eseguita. Se la prima Sottocommissione stabilisce la limitazione delle categorie vincolate al giuramento, la legge sul giuramento già approvata verrà ad essere svalutata.

MORO fa osservare all’onorevole Merlin che la legge sul giuramento approvata dalla Costituende ha una clausola che ne limita l’applicazione fino a quando la Costituzione non abbia detto la parola definitiva in proposito.

Rileva che ora si tratta di decidere se nella Costituzione debba essere inserita una norma, che potrebbe essere così formulata:

«Sono tenuti al giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza delle leggi, il Capo dello Stato, le Forze armate e quelle assimilate, i Magistrati. A scelta del giurante, può essere aggiunta una formula di carattere religioso».

Quanto alla questione del giuramento dei testimoni, periti ed interpreti, esprime il parere che essa debba essere rinviata alla seconda Sottocommissione.

GRASSI domanda se coloro che hanno preso la parola sulla questione del giuramento abbiano tenuto presente la norma del Concordato, che tratta del giuramento dei Vescovi nelle mani del Capo dello Stato.

MORO fa osservare che, in base a quanto la Sottocommissione ha già stabilito, il Concordato è stato assunto nella Costituzione, salve le modifiche bilateralmente decise, che potranno anche vertere sulla questione del giuramento dei Vescovi.

Propone alla discussione della Sottocommissione il seguente articolo: «Sono tenuti al giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza alle leggi, il Capo dello Stato, i Magistrati, le Forze armate e quelle ad esse assimilate».

PRESIDENTE è del parere che anche i ministri debbano essere sottoposti all’obbligo del giuramento.

MORO concorda.

MERLIN UMBERTO domanda se non sia il caso di stabilire anche per i sottosegretari l’obbligo del giuramento.

MORO, accogliendo l’aggiunta, ritiene si possa inserire nell’articolo da lui proposto la dizione «i membri del Governo».

LUCIFERO fa osservare che sarebbe più esatto stabilire che queste categorie di persone devono giurare fedeltà alla Costituzione. Il giuramento di fedeltà alla legge è implicito, perché ogni cittadino deve osservare la legge.

MORO dichiara di accettare la formula «alla Costituzione e alle leggi».

LUCIFERO insiste perché si dica soltanto «alla Costituzione», perché è da ritenere implicita l’osservanza delle leggi. Ritiene che la formula esatta dovrebbe essere la seguente: «giurano fedeltà alla Costituzione».

TOGLIATTI propone che si dica: «alla Costituzione e alla Repubblica».

CEVOLOTTO concorda con l’onorevole Togliatti che si debba dire «alla Costituzione e alla Repubblica», anche se questo può costituire una tautologia.

PRESIDENTE osserva che quando si dice «giurano fedeltà alla legge», è implicita anche la Costituzione, in quanto questa è anch’essa una legge, anzi la legge fondamentale della Repubblica.

LUCIFERO torna ad insistere perché si dica soltanto «alla Costituzione», facendo osservare che si chiede questo particolare giuramento al Capo dello Stato, ai magistrati e ai militari, in quanto costituiscono gli organi che garantiscono la legge costituzionale. Perciò si deve richiedere da questi uomini il giuramento di fedeltà allo Statuto. Lo Statuto è qualche cosa di fisso che si stabilisce per la Nazione, mentre invece le leggi sono mutevoli e mutano nell’ambito della Costituzione.

MORO dichiara di accettare la formula «giuramento di fedeltà alla Repubblica e alla sua Costituzione».

PRESIDENTE mette ai voti la formula proposta dall’onorevole Moro, così modificata:

«Sono tenuti al giuramento di fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione, il Capo dello Stato, i membri del Governo, i Magistrati, le Forze armate e quelle assimilate».

BASSO dichiara di votare contro per le ragioni già espresse. Non vede il motivo per cui si debba inserire questa formula nella Costituzione. Infatti il contenuto del giuramento può essere diverso, e potrebbe essere esteso ad altre categorie di cittadini, ma non per violare la loro coscienza. Il giuramento si chiede a certe categorie di persone, investite di determinate cariche, perché esse non si servano di quelle loro particolari funzioni per minare la Costituzione e la Repubblica; ma per quanto riguarda la propria opinione, ognuno deve essere libero di pensare come vuole.

DE VITA dichiara di astenersi dalla votazione.

LUCIFERO dichiara di concordare con l’onorevole Basso sul significato e sul valore del giuramento, ossia che vi è l’obbligo da parte dello Stato di richiederlo a chiunque sia chiamato all’espletamento di funzioni importanti. D’altra parte, mentre concorda nel concetto dell’obbligo di lealtà, non crede al giuramento di lealtà, perché è un impegno morale della coscienza dell’individuo. Si asterrà pertanto dalla votazione.

MASTROJANNI dichiara di astenersi dalla votazione, perché non è stata prima formulata l’esatta dizione del giuramento.

MORO ritiene che non sia da escludere che la legge possa adottare questa formula generale anche per altre categorie.

PRESIDENTE domanda all’onorevole Basso se chiede la votazione per divisione.

BASSO ripete di essere contrario alla formula, se con essa si intende dare una elencazione tassativa. Se questa elencazione non è tassativa, è invece favorevole.

LUCIFERO osserva che, se l’elencazione c’è, vuol dire che è tassativa.

PRESIDENTE fa presente che, a suo parere, non vi sono altre categorie oltre quelle indicate.

BASSO dichiara di essere d’accordo sulle categorie che sono state indicate, ma di essere contrario a fissarle nella Costituzione come un elenco rigido, perché nessuna Costituzione fa questo. Sarà la legge che dovrà stabilire le categorie. Ritiene che, nel corso dei diversi capitoli della Costituzione, parlando della Magistratura si debba specificare che devono prestare giuramento i Magistrati; lo stesso si dica del Capo dello Stato, quando si parla delle sue prerogative e dei suoi doveri; e così pure dell’esercito, ma sempre nella sua sede. Non si stabilirà in tal modo nella Costituzione, in modo tassativo, che solo determinate categorie, e non altre, possono essere chiamate al giuramento.

MARCHESI ritiene che l’elenco delle categorie si esaurisca in quelle indicate e cioè: Capo dello Stato, Magistrati, Forze armate e assimilati.

MORO propone che l’articolo sia votato con la riserva che in sede di coordinamento venga considerata l’opportunità di inserire la norma nei vari capitoli della Costituzione, come ha indicato l’onorevole Basso.

LUCIFERO dichiara che, prescindendo dal fatto se si debba o meno ammettere il giuramento, se si dichiara che il giuramento deve essere limitato a poche categorie, ossia quelli che per le loro funzioni sono i custodi della Costituzione, le categorie stesse debbono essere indicate nella Costituzione, perché gli individui che ad esse appartengono diventano garanti della Costituzione nel momento in cui assumono la carica di Capo dello Stato, di ministro, di magistrato; cioè nel momento in cui assumono l’impegno di adempiere alle loro particolari funzioni di custodi del diritto fondamentale del popolo italiano.

CEVOLOTTO dichiara di preferire la proposta dell’onorevole Basso, ma non si opporrà se la Sottocommissione è del parere di inserire nella Costituzione un articolo di carattere generale sull’argomento.

MORO fa presente che la discussione è partita dal principio di restringere a poche categorie l’obbligo del giuramento. Ritiene, quindi, che si debba votare la formula da lui proposta, in quanto restrittiva dell’obbligo stesso.

MASTROJANNI fa osservare che le Forze di polizia sono costituite dagli agenti, i quali sono elementi militari, ma che la parte direttiva è formata da funzionari civili, i quali sono gli unici depositari del potere. Ora questa categoria sarebbe esclusa dal giuramento, con una evidente contradizione. Osserva inoltre che, se ci si vuole garantire da tutti coloro che esercitano un potere, non si possono dimenticare anche i professori universitari. Pur essendo contrario al giuramento, come indizio di una mentalità inferiore, ritiene che un insegnante di diritto Costituzionale in una Università abbia tutto il potere per scardinare la consistenza della Repubblica, disponendo delle armi più efficaci per formare coscienze che contrastino con la conformazione anche istituzionale dello Stato. Chiede che si apra una discussione su questo argomento e avverte che presenterà un emendamento perché, qualora ci si dovesse limitare a determinare le categorie di coloro che hanno l’obbligo del giuramento, vi vengano inclusi anche i professori universitari.

MARCHESI dichiara che, a differenza dell’onorevole Mastrojanni, crede moltissimo alla validità del giuramento come a una formula sacra che impegna la coscienza di molti uomini. Comunista, si guarderebbe, però, bene dal proporre l’espulsione di un professore di diritto costituzionale che sostenesse i principî di Dante nel «De monarchia» dalla cattedra universitaria. Questa deve essere aperta a tutte le ricerche, a tutte le meditazioni e a tutte le conclusioni.

Rileva inoltre che i professori universitari non possono essere considerati funzionari dello Stato. Essi sono uomini di cultura, di scienza, di indagine che possono giungere a conclusioni diversissime e non arrivano alla luce della cattedra attraverso una carriera burocratica, ma per sola virtù di studio e di intelligenza.

LA PIRA dichiara di concordare pienamente con quanto ha detto l’onorevole Marchesi e aggiunge che c’è anche una ragione tecnica la quale infirma le argomentazioni dell’onorevole Mastrojanni. Il Capo dello Stato, i ministri, i magistrati, la polizia costituiscono l’aspetto esecutivo e giurisdizionale dello Stato. Essi o applicano giurisdizionalmente la legge o l’applicano in via esecutiva, e, quindi, vi è un rapporto tra la legge e questi organi giurisdizionali. Essi ne sono attuatori in tutti i rami, mentre il professore universitario non attua nulla, non ha alcun potere esecutivo o giurisdizionale: egli ha soltanto il potere di dire la verità secondo la sua coscienza.

LUCIFERO dichiara di concordare con quanto ha detto l’onorevole La Pira, aggiungendo che nel continuo divenire delle cose umane i professori di università sono proprio gli eterni rivoluzionari, cioè quelli che studiano ed elaborano il progresso della vita umana, per cui una Costituzione, che è statica e insieme mobile, anche nella solennità della cattedra troverà voce per i rinnovamenti e le trasformazioni nel tempo. Si oppone perciò nel modo più assoluto a che si abbassi la personalità del professore universitario.

DE VITA si dichiara contrario al giuramento per i professori universitari, ma osserva da un punto di vista storico, che alcune dottrine filosofiche e sociali sono sorte per la difesa di interessi particolari.

MASTROJANNI dichiara di aver portato l’esempio dei professori universitari, non perché fosse esteso ad essi il giuramento, essendo egli contrario a tutti i giuramenti, ma in relazione alle premesse con cui si voleva giustificare il giuramento per altre categorie depositarie del potere. Ripete che egli identifica nei professori di diritto costituzionale i più efficaci depositari del potere dello Stato, perché sono proprio essi che con il loro insegnamento orientano e ammaestrano i futuri dirigenti dello Stato.

LUCIFERO replica all’onorevole Mastrojanni che il professore di diritto costituzionale svolge l’opera critica alla Costituzione vigente, ne studia la trasformazione, quindi lui, più di ogni altro, deve essere lasciato libero da qualsiasi vincolo.

BASSO, ripetendo la sua contrarietà ad ogni elencazione tassativa delle categorie che devono giurare, fa rilevare che si dovrebbe tener conto anche dei Capi dei governi regionali, per essere coerenti ai principî che sono stati affermati. Non conosce bene quale sarà la futura organizzazione regionale, ma ritiene che i Capi dei governi regionali dovrebbero costituire una categoria di persone a cui si dovrebbe richiedere il giuramento.

PRESIDENTE osserva all’onorevole Basso che, non conoscendo ancora le conclusioni cui è pervenuta la seconda Sottocommissione in merito all’organizzazione regionale, non si può discutere l’argomento cui egli ha fatto cenno. Ritiene, prima di procedere alla votazione sulla formula proposta dall’onorevole Moro, di dover mettere ai voti la proposta pregiudiziale dell’onorevole Basso, secondo la quale non si ritiene che debba far parte della Costituzione una elencazione delle categorie che devono giurare.

LUCIFERO, pure avendo affermato di essere contrario al giuramento, dichiara che voterà a favore della formula proposta dall’onorevole Moro, che ritiene la migliore, limitando il giuramento a determinate categorie. Voterà contro la proposta dell’onorevole Basso, perché pensa che, se si rimanda il problema ad una legge speciale, sicuramente questa estenderà ad altre categorie l’obbligo del giuramento.

AMADEI dichiara di votare a favore della proposta dell’onorevole Basso, perché è di opinione che l’obbligo del giuramento debba essere esteso anche agli insegnanti, esclusi i professori universitari.

CEVOLOTTO dichiara di astenersi.

LA PIRA ritiene che la preoccupazione dell’onorevole Basso possa essere superata con il principio dell’interpretazione analogica. Pertanto dichiara di votare contro la proposta Basso.

(La proposta pregiudiziale dell’onorevole Basso è respinta con 9 voti contrari, 2 favorevoli e 4 astenuti).

PRESIDENTE mette ai voti la formula proposta dell’onorevole Moro:

«Il Capo dello Stato, i membri del Governo, i magistrati, le Forze armate e quelle assimilate prestano giuramento di fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione».

(La formula è approvata con 10 voti favorevoli, 2 contrari e 3 astenuti).

MORO propone che, in relazione a quanto ha detto l’onorevole Merlin, venga aggiunto alla formula ora approvata il seguente comma:

«Le persone obbligate al giuramento possono aggiungere alla formula prevista dalla legge un impegno di carattere religioso».

PRESIDENTE dichiara di ritenere inopportuno il comma, in quanto esso nulla aggiunge al valore e al significato che si è inteso dare al giuramento.

MERLIN UMBERTO dichiara di non insistere nella sua richiesta, tanto più in quanto ritiene che essa potrà essere presa in considerazione più opportunamente quando si conoscerà la formula del giuramento.

PRESIDENTE ricorda che, in sede di discussione, si è accennato ad una categoria di persone che dovrebbero prestare giuramento, cioè i testimoni, i periti e gli interpreti. Avverte che l’onorevole Moro, ritenendo che di questa categoria si dovrebbe fare cenno non in questa ma in altra sede, ha presentato il seguente ordine del giorno:

«La prima Sottocommissione, avendo adottato disposizioni restrittive in ordine all’obbligo del giuramento, rinvia alla seconda Sottocommissione perché sancisca l’obbligo del giuramento per i testimoni, i periti e gli interpreti».

BASSO fa presente che il giuramento dei testimoni, dei periti e degli interpreti non può essere fatto alla Repubblica e alla Costituzione.

MORO dichiara di ritirare il suo ordine del giorno.

Seguito della discussione sulla libertà di opinione, di coscienza e di culto.

PRESIDENTE prega l’onorevole Dossetti di comunicare la formula definitiva dell’articolo, quale risulta dall’unione dell’articolo 1 con l’articolo 2 da lui precedentemente proposti.

DOSSETTI, Relatore, comunica la formula del nuovo articolo:

«Ogni uomo ha diritto alla libera professione delle proprie idee e convinzioni, alla libera e piena esplicazione della propria vita religiosa interiore ed esteriore, alla libera manifestazione, individuale ed associata, della propria fede, alla propaganda di essa, al libero esercizio, privato e pubblico, del proprio culto, purché non si tratti di religione o di culto implicante principî o riti contrari all’ordine pubblico e al buon costume».

Chiarisce alcuni punti della formula da lui proposta, facendo osservare che nella sua prima parte essa, come assolutezza di garanzia della vita religiosa, specialmente delle varie confessioni non cattoliche, e perciò come possibilità di esplicazione di ogni vita religiosa sia individuale che associata, è completamente esauriente proprio per il fatto di essere sintetica e di non scendere a determinazioni.

Fa osservare che l’altra parte della formula, la quale dice: «purché non si tratti di religione o di culto implicante principî o riti contrari all’ordine pubblico e al buon costume», è la formula adoperata tradizionalmente da tutte le legislazioni, la quale contiene una certa precisazione tecnica, in quanto si riferisce non soltanto agli eventuali principîi contrari all’ordine pubblico e al buon costume, ma anche ai riti, cioè alle manifestazioni di questi principî che possono essere contrari all’ordine pubblico e al buon costume.

CEVOLOTTO, Relatore, dichiara che l’articolo proposto dall’onorevole Dossetti diverge non solo formalmente, ma anche sostanzialmente dalla formulazione da lui proposta, alla quale non può rinunciare.

Ricorda che le sue proposte comprendono i seguenti quattro articoli:

Art. 1. – «Tutti i cittadini hanno diritto alla piena libertà di fede e di coscienza».

Art. 2. – «Tutti i cittadini hanno diritto di professare qualsiasi culto che non sia contrario all’ordine pubblico, alla morale e al buon costume, o di non professarne alcuno; di manifestare pubblicamente le proprie credenze religiose, di compiere attività religiosa nella loro casa e nei locali privati come nei locali e templi aperti al pubblico culto, o anche di abbandonare una confessione religiosa per entrare in un’altra».

Art. 3. – «Tutte le confessioni religiose che non contrastino con l’ordine pubblicò, con la morale e con il buon costume hanno pari diritto di organizzarsi liberamente, di propagandare e di diffondere la loro fede, di eleggere i propri ministri e di revocarli, di aprire templi e di possedere gli edifici nei quali il culto viene esercitato.

«Tutti i culti hanno diritto a eguale protezione penale contro il vilipendio loro, delle loro credenze, dei loro ministri e contro il turbamento delle loro funzioni.

«Particolari leggi e patti concordati regoleranno il regime giuridico e amministrativo delle associazioni e degli enti morali di qualunque culto».

Art. 4. – «Nessuno può giustificare un reato o il mancato adempimento di un dovere imposto dalla legge, invocando le proprie opinioni religiose o filosofiche».

Fa presente che, se nella seduta precedente non fosse stato votato l’ultimo capoverso di un articolo in cui si dice che i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dai Patti Lateranensi, egli avrebbe insistito molto meno nel mantenere la sua formulazione. Ma, poiché nel Trattato Lateranense, riconosciuto costituzionalmente, c’è un articolo primo che si richiama all’articolo primo dello Statuto Albertino per cui la religione cattolica è la religione dello Stato (anzi è detto che la religione cattolica è «la sola» religione dello Stato), di conseguenza, sia pure indirettamente, è stato ammesso il principio dello Stato confessionale.

A questo proposito richiama l’attenzione della Sottocommissione su un brano di una delle ultime lezioni del professor Jemolo, in cui si afferma che «Religione dello Stato vuol dire posizione dominante fatta ad una confessione religiosa e con essa ai suoi ministri e ai beni che essa possiede, e posizione deteriore fatta ad altre confessioni alle quali si può negare il diritto di propaganda e di proselitismo».

Osserva che in questo brano è prospettata la situazione creata con l’approvazione della formula, la quale inserisce nella Carta costituzionale i Patti Lateranensi.

PRESIDENTE prega l’onorevole Cevolotto di prendere atto che i Commissari democristiani non ritengono di aver determinato con l’approvazione di quella formula la situazione cui egli ha accennato.

CEVOLOTTO, Relatore, riferendosi alla storia delle ultime relazioni tra Stato e Chiesa in Italia, ricorda che, dopo la sanzione di quel primo articolo del Trattato Lateranense, si sono avute manifestazioni in Italia, anche nel campo giudiziario e in quello legislativo, che hanno confermato la superiorità della posizione fatta ad una religione rispetto alle altre. Cita, nel campo legislativo, il caso del Codice penale, che ha sancito una protezione minore per le offese alla religione e ai ministri dei culti ammessi nei confronti di quelli della religione cattolica; e nel campo giudiziario, varie sentenze che non fanno onore alla nostra magistratura, perché contrarie al diritto di proselitismo di culti diversi da quello cattolico.

Per questa ragione, dato che si è creduto opportuno di creare uno Stato confessionale, col richiamo sia pure indiretto all’articolo 1 dello Statuto Albertino, ritiene necessario affermare la libertà religiosa con formula precisa, che consenta la libertà del proselitismo. Ricorda che le Chiese protestanti si lamentano fortemente della posizione fatta loro non dalla legge, ma dall’applicazione dopo il Concordato della legge sui culti ammessi, e sostiene la necessità di trovare formule per cui questa applicazione, che forse è aberrante ma che deriva sempre dalla interpretazione che si è data ai Patti Lateranensi, non abbia a ripetersi. Insiste pertanto nella sua formulazione.

PRESIDENTE domanda all’onorevole Cevolotto se non crede che sia soddisfatta la sua esigenza allorquando si dice: «Ogni uomo, nessuno escluso, ha diritto alla libera e piena esplicazione della vita religiosa, interiore ed esteriore, alla libera manifestazione individuale ed associata della propria fede, al libero esercizio privato e pubblico del proprio culto».

CEVOLOTTO, Relatore, risponde che non può ritenersi soddisfatto, perché con questa formula non è riconosciuta la libertà di propaganda e di proselitismo.

TOGLIATTI osserva che te formula dell’onorevole Dossetti contiene quasi tutto quello che è necessario prevedere; però c’è una piccola sfumatura nei confronti di quella dell’onorevole Cevolotto. La formula dell’onorevole Dossetti dice: «Ogni uomo ecc…», quella dell’onorevole Cevolotto invece dice: «Tutte le confessioni religiose…», ciò che, certamente, costituisce qualche cosa di diverso.

MARCHESI propone di aggiungere alla formula proposta dall’onorevole Dossetti, dopo le parole: «libera manifestazione», le altre: «e propagazione della propria fede».

DOSSETTI, Relatore, dichiara che sarebbe anche disposto ad approvare gli articoli dell’onorevole Cevolotto; ma resta convinto che la sua formula sintetica sia più esauriente.

PRESIDENTE domanda all’onorevole Cevolotto se, con l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Marchesi, la sua esigenza sarebbe soddisfatta.

CEVOLOTTO, Relatore, riconosce che con tale aggiunta verrebbe anche prevista la libertà di proselitismo.

DOSSETTI, Relatore, fa presente che dicendosi: «manifestazione individuale ed associata», evidentemente si ammette anche la libertà del proselitismo. Per comprendere l’ampiezza del significato che i democristiani danno alla formulazione da lui proposta, basterà un rilievo: che con essa i democristiani intendono garantire la libertà religiosa di tutte le confessioni e anche della confessione cattolica; perciò, ogni ulteriore precisazione in questo senso rappresenta una garanzia maggiore nella dannata ipotesi che in Italia venisse a cessare il regime concordatario. Se egli si è preoccupato di ciò, vuol dire che la formula da lui presentata è esauriente, almeno nelle intenzioni.

PRESIDENTE domanda alla Sottocommissione se è d’accordo di prendere come base della discussione l’articolo proposto dall’onorevole Dossetti.

(La Commissione concorda).

Mette ai voti la prima parte dell’articolo presentato dall’onorevole Dossetti: «Ogni uomo ha diritto alla libera professione delle proprie idee e convinzioni».

(È approvato all’unanimità).

Mette in discussione le parole seguenti: «alla libera e piena esplicazione della propria vita religiosa interiore ed esteriore».

Propone che vengano omesse le parole «interiore ed esteriore». Osserva che è difficile vietare il diritto di una libera manifestazione interiore della propria fede. Quanto poi alla parola «esteriore», osserva che nel termine «esplicazione» è già compreso il carattere di esteriorità, che è quello che si deve garantire.

DOSSETTI, Relatore, spiega che egli distingue tra esplicazione della propria vita religiosa e manifestazione della propria fede o esercizio del culto. «Manifestazione della fede» è una forma di esplicazione della propria vita religiosa, ossia è l’esercizio di un culto. Questa norma richiede che tutti gli uomini non siano, in nessuna maniera, coartati o compressi nella esplicazione di questo aspetto della loro personalità. Se non si può sopprimere la realtà interiore dell’uomo, si può comprimerla. Perciò anche l’esplicazione interiore della propria vita religiosa deve essere tutelata. Per questi motivi insiste sulla formulazione da lui proposta.

TOGLIATTI concorda con quanto ha dichiarato l’onorevole Dossetti. Ritiene che si debba insistere nel conservare la specificazione. L’intolleranza in materia di religione è consistita parecchie volte non nel proibire un determinato culto, ma nel proibire una fede. Si sono spesso mandate al rogo delle persone non in quanto esplicavano un culto, ma in quanto avevano una determinata fede, anche se puramente interiore.

PRESIDENTE mette ai voti l’inciso contenuto nell’articolo presentato dall’onorevole Dossetti e così formulato: «alla libera e piena esplicazione della propria vita religiosa interiore ed esteriore».

CEVOLOTTO, Relatore, dichiara che si asterrà dal votare l’intero articolo, non perché sia contrario ai principî in esso contenuti, ma perché è contrario alla formulazione che ritiene incompleta.

GRASSI dichiara che voterà contro, non perché sia contrario, ma perché ritiene superflua la specificazione.

(L’inciso è approvato con 13 voti favorevoli, 1 contrario ed 1 astenuto).

PRESIDENTE mette ai voti l’inciso: «alla libera manifestazione, individuale ed associata, della propria fede, alla propaganda di essa, al libero esercizio, privato e pubblico, del proprio culto».

(L’inciso è approvato con 15 voti favorevoli ed 1 astenuto).

PRESIDENTE pone in discussione l’ultimo inciso dell’articolo proposto dall’onorevole Dossetti: «purché non si tratti di religione o di culto implicante principî o riti contrari all’ordine pubblico e al buon costume».

BASSO domanda se in base a quest’ultima disposizione si potrebbe proibire in Italia la professione della religione mussulmana, la quale ammette la poligamia.

MASTROJANNI osserva che la poligamia è proibita dal Codice penale.

DOSSETTI, Relatore, fa presente che questo non significa che la religione mussulmana sia proibita.

LA PIRA rileva che bisogna tener distinto il problema religioso da quello civile.

BASSO obietta che con la norma in discussione si afferma il diritto di ogni uomo di professare la religione ed il culto che vuole, purché essi non offendano l’ordine pubblico e il buon costume. Potrebbe darsi che domani si proibisse in Italia la religione mussulmana per il fatto che essa contiene un principio contrario al buon costume. D’altra parte è lecito temere che l’interpretazione possa essere generalizzata.

DOSSETTI, Relatore, fa osservare che la formula da lui proposta riproduce la formula dell’articolo 1 della legge attualmente in vigore sui culti ammessi.

PRESIDENTE mette ai voti l’inciso: «purché non si tratti di religione o di culto implicante principî o riti contrari all’ordine pubblico e al buon costume».

(L’inciso è approvato con 14 voti favorevoli e 2 astenuti).

Legge l’articolo così come risulta dopo l’approvazione delle singole parti:

«Ogni uomo ha diritto alla libera professione delle proprie idee e convinzioni, alla libera e piena esplicazione della propria vita religiosa interiore ed esteriore, alla libera manifestazione, individuale ed associata, della propria fede, alla propaganda di essa, al libero esercizio, privato e pubblico, del proprio culto, purché non si tratti di religione o di culto implicante principî o riti contrari all’ordine pubblico e al buon costume».

Lo pone in votazione nel suo complesso.

(È approvato).

CEVOLOTTO, Relatore, propone il seguente emendamento aggiuntivo:

«Tutti i culti hanno diritto a eguale protezione penale contro il vilipendio loro, delle loro credenze, dei loro ministri e contro il turbamento delle loro funzioni».

MORO si dichiara contrario all’emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Cevolotto, perché ritiene che la tutela penale accordata dal Codice in materia sia opportunamente graduata.

È chiaro che una tutela penale vi deve essere, e che quanto alla sostanza essa debba essere eguale per tutti; ma non può concordare che questa tutela, oltre che essere eguale in valore abbia eguale concreta esplicazione, perché la tutela penale deve essere graduata in proporzione all’entità del danno che viene arrecato. Se vi è una religione che è professata dalla stragrande maggioranza degli italiani, evidentemente in questo caso il danno e l’offesa sono più gravi di quello che non siano il danno e l’offesa arrecati attraverso il vilipendio di altri culti non professati dalla stragrande maggioranza del popolo italiano.

Precisa che, domandando una posizione particolare per la religione cattolica, non si richiede una disparità di principio, ma si richiede soltanto che la legislazione si adegui ad una realtà di fatto, per la quale le reazioni giuridiche debbano commisurarsi naturalmente al danno effettivo subito dalle coscienze.

CEVOLOTTO, Relatore, dichiara di insistere nella sua proposta. L’opposizione che ad essa viene fatta dimostra come, con l’inserimento del Concordato nella Costituzione, si sia inteso porre le religioni su di un piano differente.

MERLIN UMBERTO osserva che la eguaglianza di trattamento proposta dall’onorevole Cevolotto costituirebbe una ingiuria al Capo della religione professata dalla maggioranza degli italiani.

MORO dichiara di essere sostanzialmente in disaccordo con l’onorevole Cevolotto, e di ritenere che sia questo il luogo per dare un impegno preciso al legislatore penale, il quale valuterà in quale momento e in quale forma occorrerà applicare il criterio cui l’onorevole Cevolotto ha accennato.

CEVOLOTTO, Relatore, insiste affinché la questione venga trattata in questa sede, essendo l’articolo 402 del Codice penale – che riguarda la materia – ancora in vigore. Ricorda che anche il Professore Jemolo ha manifestato il pensiero che sia necessaria la modificazione di quell’articolo.

LA PIRA fa presente che il Ruffini, il quale non era un cattolico, scrisse che la Chiesa cattolica ha una tale realtà storica che non può in tutto essere parificata alle altre forme di religione.

MORO insiste nella sua pregiudiziale circa la inopportunità di collocare nella Costituzione l’emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Cevolotto.

LUCIFERO dichiara di essere favorevole alla pregiudiziale, perché ritiene che l’articolo, così come è stato compilato e approvato, contenga già la garanzia richiesta dall’onorevole Cevolotto. Infatti, una volta stabilita l’eguaglianza delle religioni in tutti i casi, è evidente che il legislatore non potrà che adeguarsi a questo principio.

(La pregiudiziale è approvata con 9 voti favorevoli e 7 contrari).

PRESIDENTE apre la discussione sull’articolo 3 nella formulazione proposta dall’onorevole Dossetti: «I rapporti di lavoro, l’appartenenza alle Forze armate o a pubblici servizi, la degenza in ospedali, ricoveri, istituti, carceri, non possono dar luogo a nessun impedimento di diritto o a nessun ostacolo di fatto in ordine all’adempimento dei doveri religiosi fondamentali e all’assistenza da parte dei ministri del culto seguito».

TOGLIATTI ritiene che questo articolo sia inutile e non convenga inserirlo nella Costituzione. Non comprende che cosa significhi l’accenno alla degenza in ospedali. È evidente che negli ospedali deve esservi un servizio religioso. E allora – domanda – quell’accenno vorrebbe significare forse che, se vi è un malato grave e il medico non lo lascia uscire per andare a Messa, questo medico violerebbe la Costituzione?

Quanto all’accenno circa le carceri, domanda se violerebbe la Costituzione quel direttore di un carcere mandamentale che vietasse l’uscita ai carcerati che volessero andare a sentire Messa a 20 chilometri di distanza.

DOSSETTI, Relatore, osserva che è facile rispondere alle osservazioni dell’onorevole Togliatti con un vecchio adagio «Ad impossibilia nemo tenetur». Chiarisce che l’articolo proposto ha lo scopo di garantire non soltanto l’osservanza di un principio, ma anche il rispetto di determinate situazioni di fatto nelle quali sia assicurato ad ogni cittadino, anche di religione diversa dalla cattolica, la possibilità di avere quella assistenza religiosa che è conforme al culto da lui seguito.

Fa presente all’onorevole Togliatti che l’articolo proposto è desunto da un libretto in cui sono contenute le rivendicazioni delle religioni evangeliche in Italia, libretto scritto dal Signor Pejrot e inviato a tutti i Costituenti.

CEVOLOTTO, Relatore, dichiara di non giustificare perché si sia adottata una formula sintetica per esprimere il concetto della libertà di esercizio del culto, e poi si voglia specificare la stessa cosa nell’articolo in esame.

Fa presente che nel diritto al libero esercizio della propria fede è implicito il diritto di ricevere l’assistenza religiosa, anche per i carcerati e i degenti in un ospedale, nei limiti delle possibilità concrete.

DOSSETTI, Relatore, rileva che la garanzia contenuta nell’articolo da lui proposto non riguarda le norme concernenti la libertà religiosa, ma tutto il complesso di norme giuridiche relative all’organizzazione degli istituti di pubblica assistenza e di pena.

GRASSI osserva da un punto di vista pregiudiziale che, essendo il diritto di esplicazione del proprio culto espresso già nelle norme precedentemente approvate, si debba fare il rinvio a quelle norme o non sia opportuno votare l’articolo proposto dall’onorevole Dossetti.

MORO fa osservare che, con l’articolo in esame, non si è più nell’ambito delle garanzie, ma in quello della libera esplicazione. È vero che sono state già votate delle norme che garantiscono la libera professione della fede religiosa, ma qui si prospetta il caso concreto di cittadini che non possono, per motivi indipendenti dalla loro volontà, godere di una libertà fisica.

TOGLIATTI dichiara che volerà contro l’articolo, non intendendo con questo di votare contro il suo contenuto, ma in quanto non ritiene che l’articolo tratti una materia da Costituzione.

PRESIDENTE mette ai voti la pregiudiziale dell’onorevole Grassi secondo cui quanto è espresso nell’articolo proposto dall’onorevole Dossetti è già implicito nella formula dell’articolo precedentemente approvato.

(La pregiudiziale Grassi è approvata con 9 voti favorevoli e 7 contrari).

La seduta termina alle 13.45.

Erano presenti: Amadei, Basso, Cevolotto, Corsanego, De Vita, Dossetti, Grassi, Iotti Leonilde, La Pira, Lucifero, Mastrojanni, Marchesi, Merlin Umberto, Moro, Togliatti e Tupini.

Assenti giustificati: Mancini e Caristia.