ASSEMBLEA COSTITUENTE
CCLXV.
SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 21 OTTOBRE 1947
PRESIDENZA. DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Congedi:
Presidente
Domande di autorizzazione a procedere in giudizio:
Presidente
Bettiol
Colitto
Nobili Tito Oro
Ghidini
Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito detta discussione):
Presidente
Corbino
Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione
Nitti
Dominedò
Bozzi
Terranova
Persico
Gasparotto
Fuschini
Meda
Benvenuti
Azzi
Codacci Pisanelli
Carpano Maglioli
Leone Giovanni
Nobile
Sulla elezione di tre membri della Corte costituzionale per la Sicilia:
Presidente
La seduta comincia alle 11.
RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.
(È approvato).
Congedi.
PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati De Caro Raffaele, Mentasti, Micheli, Caldera e Guariento.
(Sorto concessi).
Domande di autorizzazione a procedere in giudizio.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Tega, per concorso nel reato di vilipendio della Magistratura. (Doc. I, n. 9).
Su questa domanda sono state presentate due relazioni, una di maggioranza, che propone all’Assemblea di negare l’autorizzazione a procedere; l’altra di minoranza, che propone di concedere tale autorizzazione. Dichiaro aperta la discussione su queste conclusioni.
BETTIOL. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Né ha facoltà.
BETTIOL. Ho voluto leggere con particolare interesse tanto la relazione di maggioranza, quanto quella di minoranza, in relazione a questo caso che è veramente interessante non soltanto, diciamo così, dal punto di vista politico, ma anche da quello giuridico. Sarò brevissimo, ma dico subito che io aderisco al pensiero della maggioranza, nel senso che, in relazione al caso specifico, credo che l’Assemblea Costituente non debba accordare l’autorizzazione a procedere. E invero, quando si tratta di un’autorizzazione a procedere, non ci si può fermare soltanto ad un esame puramente estrinseco circa l’opportunità politica o meno della concessione dell’autorizzazione per quanto concerne la libertà o meno del deputato per l’esercizio delle sue funzioni; ma la possibilità di accordare o non accordare l’autorizzazione stessa, è anche in funzione di un esame di quello che può essere il metodo da seguire nell’esame del problema, anche se non è un esame approfondito e definitivo come sarà l’esame della magistratura. Ora, se noi scendiamo ad un esame, sia pure superficiale, del merito del problema, noi vediamo come, nei confronti del deputato Tega, non possa essere invocato l’articolo 57 del Codice penale. Questo articolo 57 del Codice penale rappresenta in questo momento una vera e propria stonatura nell’ambito di quelli che sono i principî fondamentali di un diritto penale democratico, diciamo così liberale in senso ampio, perché viene ancora a sancire una presunzione di responsabilità del direttore del giornale stesso, una presunzione di correità materiale e morale nel fatto perpetrato dall’autore dell’articolo.
È noto come queste presunzioni corrispondano ad una concezione arcaica del diritto penale, frutto di quei relitti storici che si tramandano da Codice a Codice e noi troviamo che nell’ambito di questo Codice non sempre è rispecchiata una mentalità democratica. Dopo le giuste ed opportune modificazioni ed epurazioni, io dico che l’articolo 57 non può essere interpretato come se in questo articolo fosse consacrata una presunzione di responsabilità del direttore del giornale juris et de jure. Tutto lo sforzo della dottrina in questi ultimi anni è stato appunto polarizzato verso il tentativo di dimostrare come questa presunzione sia una pura e semplice presunzione juris tantum, la quale ammette la prova del contrario, cioè tutte le volte in cui il direttore del giornale può provare di aver fatto il possibile o per non pubblicare l’articolo incriminato o per manifestare una volontà contraria a quella che è la volontà criminosa contenuta nello scritto pubblicato sul giornale, questa presunzione di correità deve venir meno. Nel caso concreto, noi vediamo come, a parte quello che può essere il contenuto criminoso dell’articolo sopra il quale dovrà decidere domani la magistratura ordinaria, per quanto riguarda la responsabilità penale del direttore del giornale, il corsivo pubblicato dopo l’articolo incriminato è tale da togliere quella presunzione di corresponsabilità, di correità materiale con l’autore del reato stesso.
Per quanto riguarda la posizione del direttore del giornale, nel concreto di questa situazione, non vedo come possa applicarsi l’articolo 57, dopo che tutta la dottrina più recente e più autorevole ha cercato di smantellare questo vecchio rudere, per porre veramente il principio della responsabilità dei direttori di giornali su basi molto più liberali e molto più democratiche. Perciò, io personalmente voterò contro l’autorizzazione a procedere. (Approvazioni a sinistra).
COLITTO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
COLITTO. Onorevoli colleghi, sono anche io dello stesso avviso dell’onorevole Bettiol. Ho letto con molta attenzione sia la relazione di maggioranza che quella di minoranza. In me si è formato preciso il convincimento che l’autorizzazione chiesta non debba essere concessa.
Io non posso certo seguire il Relatore della maggioranza nel punto in cui afferma che l’articolo 57 del Codice penale può anche ritenersi abrogato di fatto. Non esiste, a mio avviso, un’abrogazione di fatto della legge penale. La vita della legge è determinata dalla sua abolizione, espressa o tacita, la quale ultima si ha quando le disposizioni di una nuova legge siano incompatibili con quelle della legge precedente o quando la nuova legge disciplini l’intera materia già disciplinata dalla legge anteriore (art. 5 disposizioni preliminari al Codice civile). Una nuova legge, quindi occorre. In casi dubbi (questo è detto anche dal Codice di diritto canonico) si farà un attento raffronto fra la nuova disposizione e la vecchia per accertare se ed in quanto siano tra loro compatibili. Adunque, una disposizione nuova occorre senza di che di abrogazione di una norma penale assolutamente non è da parlare.
Neppure sono d’accordo col Relatore della maggioranza, allorquando, in una parte della sua relazione, parlando dell’articolo incriminato, afferma che l’autore dell’articolo non supera i limiti della pura critica. A me pare che l’articolo travalichi questi limiti e che, nella specie, non si possa parlare solo di una critica serena ed obiettiva.
Ma, detto questo, ci dobbiamo domandare: È opportuno, è utile ciò che ci viene chiesto in relazione all’interesse pubblico, che si deve tutelare? Questo ci dobbiamo domandare, perché a noi si chiede una autorizzazione a procedere.
L’autorizzazione a procedere è appunto un atto amministrativo discrezionale, con cui l’autorità competente, previa valutazione dell’opportunità e della utilità di ciò che viene chiesto in relazione all’interesse pubblico, che deve tutelare, toglie l’impedimento posto da una norma giuridica al proseguimento dell’azione penale.
È opportuno? È utile? Ecco l’interrogativo. A parte ora quelle considerazioni giuridiche, che ha svolto l’onorevole Bettiol, io credo, nella mia coscienza, di poter rispondere che non è né opportuno, né utile. Perché, ove si esamini il merito della responsabilità dell’onorevole Tega, bisogna riconoscere che almeno da un punto di vista morale nulla gli si può rimproverare. Che anzi, la maggioranza della Commissione dichiara che non è possibile parlare di una responsabilità penale dell’onorevole Tega, in quanto la redazione del giornale, che ha accolto l’articolo, scrisse una nota, con la quale ha mostrato il netto dissenso del giornale dal contenuto dell’articolo, sì che ha finito col togliere allo scritto dell’autore dell’articolo qualsiasi effetto dannoso per il corpo giudiziario. E, d’altra parte, la relazione di minoranza conclude con una frase, con la quale il relatore, onorevole Clerici, dice che personalmente egli pensa di poter prevedere l’assoluzione dell’onorevole Tega.
Se noi, quindi, consideriamo il merito della questione, ci troviamo di fronte ad una maggioranza e ad una minoranza, che dicono la stessa cosa. Perché, allora, sono giunte l’una e l’altra a conclusione diverse? Perché la maggioranza afferma che la valutazione di merito si può fare, e la minoranza lo nega.
Ora una valutazione di merito si può e si deve fare. Noi dovremmo concedere una autorizzazione e l’autorizzazione, ripeto, è l’atto amministrativo, con cui si valuta l’opportunità e la utilità che siano rimossi determinati ostacoli all’inizio della processura penale.
Del resto, onorevoli colleghi, anche tenendosi conto di quello che nella relazione di minoranza si afferma, cioè che la ragione dell’istituto dell’autorizzazione a procedere è da ricercarsi esclusivamente nell’impedire che il deputato possa divenire oggetto di persecuzione e di intralci, una valutazione di merito si deve sempre compiere. Perché, solo guardandosi al merito della questione, noi potremo accertare se il deputato è stato oggetto di persecuzione, di angherie o di intralci. Ed allora, concludendo, se, guardando il merito della questione, la maggioranza e la minoranza sono d’accordo nell’escludere la responsabilità dell’onorevole Tega, se al merito bisogna guardare, perché questo è imposto dalla natura stessa dell’istituto dell’autorizzazione a procedere, io penso che, a parte ogni altra considerazione, noi dobbiamo giungere alla conclusione, a cui giunta la maggioranza della Commissione. Ed è perciò che dichiaro di votare contro la concessione dell’autorizzazione a procedere.
NOBILI TITO ORO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
NOBILI TITO ORO. Onorevoli colleghi, è soprattutto per rendere omaggio all’obiettività e alla serenità cui si sono ispirati, colla maggioranza della Commissione, i colleghi Bettiol e Colitto, che io sento, a questo punto, il bisogno di prendere la parola, anche in nome del mio Gruppo, prima che l’onorevole Presidente dichiari chiusa la discussione. Dire che i miei compagni ed io aderiamo alle conclusioni cui essi sono pervenuti è dire cosa assolutamente superflua. Anche qui si impone il principio della sapienza romana «da mihi factum et tibi dabo ius»: questo è l’ordine del procedimento; dopo discuteremo. L’onorevole Tega, fin dal settembre 1946, aveva lasciata la Segreteria della Federazione socialista di Bologna e la direzione del settimanale La squilla, sostituito regolarmente nell’una e nell’altro; attendeva ai lavori di questa Assemblea e disimpegnava in Roma gli incarichi politici della sua importante circoscrizione. Inviava ogni tanto qualche articolo al giornale, ma ignorava che non fossero state ancora intraprese le pratiche per sostituirlo nella gerenza. In effetti, però, egli era stato sostituito nella Direzione dall’avvocato Artemio Pergola. Di guisa che apparve del tutto giustificata la sua sorpresa nell’apprendere la richiesta di autorizzazione a procedere contro di lui trasmessa alla Camera dalla Procura della Repubblica di Bologna. Fatte subito le necessarie indagini, emerse che questa aveva incriminato un articolo intitolato «La Magistratura non è tabù», a firma del professor Mario Canella, docente di Biologia nella Università di Ferrara, apparso nel n. 46 del 25 ottobre 1946. L’articolo, che si diceva ispirato a desiderio di onesta critica, rivolta alla riforma dell’ordinamento giudiziario, era in realtà un atto di accusa. Esso era stato già pubblicato sul Corriere del Po e su altri giornali locali, e aveva interessato vivamente l’opinione pubblica.
Trasmesso anche al settimanale La squilla, il suo attuale Direttore avvocato Artemio Pergola ritenne di non potersi rifiutare alla sua pubblicazione, in omaggio a un principio di libertà e di critica; ma lo fece seguire da un forte articolo a firma propria, col quale dichiarava il proprio completo dissenso dalla critica del tutto soggettiva che l’articolista aveva fatta alla Magistratura.
L’articolo era in alcune parti addirittura passionale, difendeva i Magistrati sotto ogni aspetto e denunziava i torti dello Stato verso di loro.
La richiesta della Procura della Repubblica ampiamente svolta, riferiva abbondantemente i passi più tipici dell’articolo Canella, ma ometteva di riprodurre fedelmente lo spirito antagonistico dell’articolo direzionale a firma di Artemio Pergola e di dire che questo contrapponeva a quello del Canella, in tono di austera polemica, la vibrante esaltazione della Magistratura.
Basta l’accertamento di queste circostanze di fatto, che entrambe le Relazioni mettono in evidenza, per doverne dedurre: che l’onorevole Tega fu affatto estraneo alla pubblicazione; non ne ebbe né preventiva né immediata notizia; e perciò non si trovò in condizione di poterla evitare; che egli a quel tempo non era più alla direzione del settimanale, dove era stato sostituito dall’avvocato Artemio Pergola; che egli viveva ormai lontano da Bologna e nella fisica impossibilità di partecipare al lavoro direzionale.
Così stando le cose, le conseguenze appaiono fin d’ora manifeste e inevitabili.
Ma ci si domanda, con intenzione pregiudizialista, se non sia preclusa a questa Assemblea la delibazione del merito o se non piuttosto essa debba limitarsi a dare il giudizio sulla necessità e sulla opportunità politica di concedere l’autorizzazione che, facendo cadere le immunità parlamentari, potrebbe esporre l’onorevole Tega a sfogo di antichi livori o di risentimenti a sfondo politico, infine a una rappresaglia. Senonché ad esprimere un siffatto giudizio è proprio indispensabile la delibazione del merito e, per giungervi, l’esame dei fatti e l’accertamento che essi sono proprio tali quali sopra esposti.
Alla stregua di essi è giuoco forza concludere che non può menomamente muoversi accusa di vilipendio della Magistratura alla Direzione de La squilla. Chiunque ne fosse il direttore, non può qualificarsi vilipendio un’appassionata difesa e una calorosa esaltazione; come non può di vilipendio accusarsi chi l’opera e la dedizione della magistratura difese, controbattendo su tutta la linea le accuse dell’articolo incriminato. Questo è un punto fermo dal quale si sprigiona la luce che deve illuminare la questione: se assurda è l’ipotesi del preteso reato, più assurda che mai è quella del concorso del Direttore del giornale che, ospitando l’articolo, lo combatte; e addirittura inconcepibile è quella della responsabilità per concorso da parte di chi, copie l’onorevole Tega, si trovava nella fisica impossibilità di concorrervi.
Si pretende che non sia ammessa in questa sede la delibazione del merito: ma è mai possibile, per lo spirito informatore della autorizzazione che ci si chiede, che noi possiamo concederla senza preoccuparci se il fatto pel quale si vorrebbe procedere contro l’onorevole Tega sia o non sia considerato reato dalla legge? La relazione Varvaro per la maggioranza della Commissione afferma che il testo stesso dell’articolo 57 del Codice penale lo esclude e, per quanto spieghi poi che esso stabilisce soltanto una presunzione suscettibile di quella prova liberatoria che è stata, come si è visto, largamente data, l’affermazione appare più forte e più vasta della dimostrazione, pur giusta, che l’ha accompagnata.
In verità, il testo dell’articolo 57 non contempla affatto la responsabilità in concorso dell’onorevole Tega per la situazione di fatto rispetto a lui accertata nella stessa richiesta della Procura della Repubblica. Infatti l’articolo 57 investe, salva la responsabilità dell’autore, quella presuntiva del Direttore del periodico o del redattore-responsabile alternativamente. Il che significa che il Direttore, come tale, è sempre corresponsabile, salvo la prova liberatoria, in mancanza di un redattore-responsabile registrato a norma della legge speciale sulla stampa; mentre, quando questo esista, il Direttore non è investito dalla presunzione. Non si sa se per il periodico La squilla esistesse il «redattore responsabile». Comunque il Direttore è, contrariamente al redattore-responsabile, che si individua solo in colui che come tale è registrato, quegli che di fatto esercita pro tempore le funzioni direttive; e queste, come si è visto, erano esercitate da colui che all’onorevole Tega fu sostituito e succedette. Come si potrebbe, di fronte a tale constatazione, parlare di autorizzazione a procedere?
Ma vi è di più e di peggio: il Procuratore della Repubblica ha mancato. Il Procuratore della Repubblica ha mancato al dovere di indagare la finalità correttiva ed educativa perseguita dall’avvocato Artemio Pergola coll’accogliere bensì l’articolo incriminato, per rispetto alla libertà di pensiero e di critica, ma col farlo seguire da quella sincera, appassionata confutazione che, risolvendosi in aperta esaltazione della Magistratura, faceva cadere automaticamente ogni ombra di dubbio sulla esistenza di quel dolo che è l’elemento integratore del reato di vilipendio.
Non è artificioso ravvisare in questa lacuna, imperdonabile a un Magistrato che ha pratica di quotidiana applicazione di leggi penali, tale difetto di obiettività e di serenità da giustificare il sospetto di una iniziativa inspirata da quelle preoccupazioni che sotto il crollato regime ispiravano frequentemente i Procuratori del Re contro i cosiddetti sovversivi.
Con questa constatazione riteniamo esaurita la questione sollevata dalla relazione di minoranza, relativamente ai limiti dei poteri dell’Assemblea nelle deliberazioni sulle richieste di autorizzazioni a procedere. Gli accertamenti fatti hanno dimostrato che, seppure reato esistesse e fosse punibile, l’onorevole Tega non avrebbe potuto concorrervi; e che d’altra parte l’iniziativa del Procuratore della Repubblica, lungi dall’offrire garanzie di serenità, ingenera il sospetto di intenzioni persecutorie, contro il fiero tribuno delle plebi rurali, quotidianamente costrette a stare sul «chi va là» dal risorgente spirito aggressivo dell’«Agraria» e dei suoi bene individuati stromenti.
Legittime appaiono dunque le conclusioni della maggioranza della Commissione e non si comprende come si giustificherebbe l’autorizzazione a procedere in un caso cui l’onorevole Tega è assolutamente estraneo e in cui il dimostrato difetto di dolo scrimina in pieno lo stesso Direttore del giornale.
Per questi motivi proponiamo all’Assemblea di approvare in pieno le conclusioni della maggioranza della Commissione; e confidiamo che al deputato, ormai ritenuto da tutti assolutamente irresponsabile del fatto attribuitogli, sarà risparmiata la vessazione di un procedimento che la relazione di minoranza propone di autorizzare solo per freddo ossequio alla maestà delle forme. (Approvazioni).
GHIDINI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
GHIDINI. Dichiaro che noi siamo contrari all’autorizzazione a procedere contro l’onorevole Tega. Non ho bisogno di soffermarmi sulle considerazioni di carattere giuridico che sapientemente sono state svolte testé; per conto mio, anche se si dovrà pervenire alla conclusione, in sede interpretativa, che l’articolo 57 consacri una responsabilità obiettiva, io non cesso per questo di dichiararmi contrario: mi auguro anzi che una modifica del Codice penale abroghi una tale disposizione.
La disposizione che subordina il procedimento penale a carico del deputato all’autorizzazione dell’Assemblea ha carattere eminentemente politico ed è perciò da respingersi la domanda di autorizzazione anche per ragioni politiche e morali. Sta poi di fatto che, in calce a questo articolo dell’onorevole Tega, c’è una nota del redattore che sconfessa in pieno l’articolo incriminato.
Per queste ragioni, che sono per noi assolutamente dirimenti di qualsiasi dubbio, il mio Gruppo si dichiara contrario alla concessione dell’autorizzazione a procedere.
PRESIDENTE. Se non v’è più alcuno che chieda di parlare, passiamo alla votazione. Abbiamo dunque due relazioni: l’una, della maggioranza della Commissione, la quali nega l’autorizzazione a procedere; l’altra della minoranza, la quale invece l’approva. Poiché la proposta della minoranza deve considerarsi quale un emendamento alla proposta della maggioranza della Commissione, pongo prima in votazione la proposta della minoranza di concedere l’autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Tega.
(Non è approvata).
Pongo in votazione la proposta della maggioranza di negare l’autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Tega.
(È approvata).
Passiamo al secondo punto dell’ordine del giorno che reca: Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Bernamonti, per il reato di diffamazione a mezzo della stampa. (Doc. I, n. 14).
La Commissione propone che sia negata l’autorizzazione stessa. Poiché nessuno chiede di parlare, pongo senz’altro in votazione questa proposta.
(È approvata).
Segue la domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro De Giglio Angelo, per il reato di vilipendio delle Istituzioni Costituzionali. (Doc. I, n. 19).
La Commissione propone di concedere la richiesta autorizzazione. Poiché nessuno chiede di parlare, pongo senz’altro in votazione la proposta della Commissione di concedere l’autorizzazione a procedere in giudizio contro De Giglio Angelo.
(È approvata).
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Dobbiamo ora risolvere la questione dell’Assemblea Nazionale, di cui al secondo comma dell’articolo 52: «Le Camere si riuniscono in Assemblea Nazionale, nei casi preveduti dalla Costituzione».
CORBINO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CORBINO. Io ho presentato un emendamento; però, mi permetto di insistere sulla proposta di sospensiva che ho fatto nella seduta di sabato scorso, nel senso di rimandare l’approvazione di questo capoverso dell’articolo 52 a dopo stabiliti i casi nei quali le due Camere dovranno essere convocate in seduta plenaria. Perciò, proporrei di sospendere la votazione sul secondo capoverso dell’articolo 52 e di passare senza altro alla votazione dell’articolo 75, che è il primo rispetto al quale sono enumerati i casi di competenza delle Camere in seduta plenaria.
PRESIDENTE. L’onorevole Ruini ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ho sentito l’opinione di appartenenti al Comitato delle varie parti; e tutti sarebbero del parere di aderire alla proposta dell’onorevole Corbino. Infatti, se noi ora decidessimo di costituire l’Assemblea Nazionale e poi di fatto non l’investissimo neanche dell’elezione del Capo dello Stato, la norma dell’articolo 52, secondo comma, non avrebbe più senso. D’altra parte, se noi decidessimo che questa Assemblea Nazionale non si dovesse costituire, ma poi mano a mano vedessimo l’opportunità di farla funzionare in determinate occasioni, ci vedremmo preclusa tale possibilità.
Quindi, poiché non si perderebbe tempo, perché cominceremmo a discutere subito l’articolo 75, a nome del Comitato aderisco alla proposta dell’onorevole Corbino.
NITTI. Vorrei un chiarimento sui limiti della proposta di sospensione.
PRESIDENTE. Onorevole Nitti, la proposta è di esaminare prima le deliberazioni da attribuire alle due Camere riunite e poi definire la formulazione del secondo comma dell’articolo 52.
DOMINEDÒ. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DOMINEDÒ. Dichiaro, a nome dei colleghi di Gruppo, di aderire alla proposta sospensiva, la quale risulta la più corretta logicamente e praticamente in quanto consente di accertare anzitutto, le ipotesi in cui eventualmente possano essere conferite delle deliberazioni (collegiali) alle due Camere riunite, ovvero, senza fare adesso questione di terminologia, alla cosiddetta Assemblea Nazionale.
In questo modo resterà anche sospesa la decisione finale sul punto che, nel caso in cui tali deliberazioni debbano essere prospettate ed effettivamente contemplate, debbano poi essere le Camere riunite a deliberare collegialmente, ovvero la decisione possa essere sempre rimessa alle due Camere separatamente.
NITTI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
NITTI. Ho chiesto di parlare sulla proposta di sospensiva.
In fondo, dopo tutte le discussioni, quali sono le materie controverse? Per quanto riguardava le attribuzioni di questa ipotetica Assemblea, mostruosa e inesistente, che è l’Assemblea Nazionale si era discusso su tre punti. E mi pare che la discussione fosse stata così chiaramente impostata che non c’era e non vi è più alcuna questione importante controversa. Lo stesso onorevole Ruini, pur così facendo, aveva dovuto riconoscere che non si poteva più parlare dell’amnistia.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. No. Io ho detto che si discuterà questo punto.
NITTI. L’amnistia era fuori questione.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Perché? La Commissione ha proposto; l’onorevole Ghidini sostiene che debba rimettersi all’Assemblea.
NITTI. Era in realtà fuori questione. Quali erano allora le attribuzioni di cui si discuteva? Su una sola eravamo d’accordo: la nomina del Capo dello Stato…
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Non siamo d’accordo!
NITTI. …che non è una funzione da affidarsi ad un’Assemblea Nazionale. Nossignori, basta la semplice riunione delle due Camere, per un giorno solo, come avviene in Francia e come è stato sempre negli altri paesi; ma era ridicolo pensare di riunire le due Camere per l’amnistia e per la guerra, per la guerra che di questi tempi si fa senza nemmeno dichiararla!
Noi pretendiamo poi, di far discutere dalle due Camere riunite l’amnistia, che è un problema delicatissimo da discutere fra poche persone, cioè pretendiamo di farla deliberare da un’Assemblea di oltre mille persone che non hanno nessuna competenza.
La questione pareva talmente chiarita che non mi spiego come è venuto questo risveglio, questa specie di orticaria di discussione di cose che è inutile discutere.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Lo chieda all’onorevole Corbino. E l’onorevole Bozzi ha aderito poco fa con la proposta di rinvio.
NITTI. Loro mi devono dimostrare che un’Assemblea così enorme, di oltre mille persone, può concludere per quanto riguarda la guerra e l’amnistia e le crisi ministeriali.
Se voi volete limitarvi a dire che le due Camere riunite procedono alla nomina del Capo dello Stato, siamo d’accordo, discutere la forma è del tutto inutile. In ogni modo, non mi so spiegare perché si persista in questo equivoco in cui nessuno crede, e perciò prego il Presidente, se può, di ridurre la questione nei veri termini: cioè la riunione delle due Camere per la nomina del Capo dello Stato, e basta.
PRESIDENTE. Prima di dare la parola agli iscritti desidererei pregare i colleghi di non riaprire la discussione fatta l’altra sera, e di non anticipare eventualmente la discussione che dovremmo fare dopo, se la proposta dell’onorevole Corbino fosse eventualmente accolta.
Mi pare che il modo con cui l’onorevole Nitti ha impostato la questione stia a dimostrare che è opportuno decidere ormai, se si è o se non si è d’accordo di affidare alle due Camere riunite le particolari deliberazioni indicate nel testo.
L’onorevole Nitti ha ricordato il risultato della discussione fatta l’altra sera, che rivelò la unanimità o almeno la maggioranza dei consensi, circa l’opportunità di affidare alle due Camere riunite l’elezione del Capo dello Stato.
Pertanto è necessario stabilire punto per punto le attribuzioni delle Camere riunite e, quindi, decidere dell’Assemblea Nazionale.
BOZZI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
BOZZI. Io volevo dire le cose che lei, onorevole Presidente, ha detto. In fondo il problema dell’Assemblea Nazionale o delle due Camere riunite presuppone che si risolvano questi tre problemi: se il Capo dello Stato debba essere eletto dal popolo o dalle due Camere riunite, problema che oggi non possiamo affrontare e pregiudicare.
Secondo: se la guerra debba essere dichiarata dalle due Camere.
Io dico che sono contrario, perché, siccome noi abbiamo già votato un articolo in cui abbiamo detto che l’Italia rinuncia alla guerra e ammettiamo soltanto un’azione di difesa, è evidente che un’azione di difesa non può essere determinata da una deliberazione delle Camere, ma deve essere una deliberazione di urgenza che spetta al Governo. Terzo problema: quello della fiducia, che è connesso con la configurazione che diamo al Governo.
Tutti problemi che adesso non possiamo prendere in esame. Quindi, credo che la proposta dell’onorevole Corbino collimi nella sostanza col pensiero espresso dall’onorevole Nitti e perciò il problema dell’Assemblea Nazionale deve essere accantonato per riprenderlo in esame dopo la soluzione dei vari problemi a cui abbiamo fatto riferimento.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Non ho altro da dire dopo ciò che hanno detto l’onorevole Bozzi e prima, il nostro Presidente. L’onorevole Nitti desidera la stessa cosa: se noi dobbiamo pronunciarci sopra le funzioni da affidare all’Assemblea, è necessario esaminarle, prima di decidere in linea di massima se si deve o no parlare di Assemblea Nazionale.
L’onorevole Corbino ha fatto una proposta che mi pare abbia riscosso generale consenso.
PRESIDENTE. Se non vi sono obiezioni, e mi sembra che anche l’onorevole Nitti aderisca a questo ordine di idee, si può accogliere la proposta dell’onorevole Corbino.
(Così rimane stabilito).
Passiamo ora ad esaminare l’articolo 75, il quale indica specificatamente alcune delle funzioni che dovrebbero essere affidate alle sedute riunite delle due Camere. Se ne dia lettura.
RICCIO, Segretario, legge:
«Spetta all’Assemblea Nazionale deliberare la mobilitazione generale e l’entrata in guerra.
L’amnistia e l’indulto sono deliberati dall’Assemblea Nazionale».
L’onorevole Terranova ha presentato il seguente emendamento:
«Sostituirlo con i due seguenti:
Art. ..
Spetta all’Assemblea Nazionale deliberare la mobilitazione generale e l’entrata in guerra, sempre che ricorrano le condizioni di cui all’articolo 6, e previa la consultazione delle Assemblee regionali.
Art. ..
L’amnistia e l’indulto sono deliberati dall’Assemblea Nazionale».
L’onorevole Terranova ha facoltà di svolgerlo.
TERRANOVA. Onorevoli colleghi, l’emendamento da me proposto all’articolo 75, prima che una chiarificazione di indole tecnica e specifica, ha bisogno di una giustificazione di carattere morale, e, direi persino, psicologica. Desidero, infatti, subito avvertire che il mio emendamento non mira affatto a correggere la procedura costituzionale della dichiarazione di guerra, la quale procedura, così come è prevista nel progetto in esame, può considerarsi, per quel tanto che posso giudicarne, conforme al più ortodosso costituzionalismo democratico. Il mio emendamento non mira neppure, come potrebbe immaginarsi, a dar rilievo alle Assemblee regionali, al solo scopo di valorizzarne la portata, quasi a sminuire la capacità rappresentativa e deliberativa del Parlamento nazionale.
L’emendamento che ho l’onore di proporre si rifà a motivi più sostanziali ed intimi; ha per iscopo l’istituzione di un sistema più ampio e più approfondito di accertamento della volontà popolare di fronte a quella terribile cosa che è la guerra; di un sistema, che renda la responsabilità della decisione relativa all’entrata in guerra più larga e, di conseguenza, più determinante. La verità è che l’idea della guerra ci rattrista e ci atterrisce. E questo articolo 75 ci richiama alla guerra, ci ricorda che la guerra non è scomparsa, che è ancora possibile, che potrà essere ancora fatta dai nostri figli, se non addirittura da noi stessi. Constatazione amara, che ripugna al nostro animo, seppure il pensiero deve essere indotto a considerarla in tutta la sua obiettività. Perché, se il nostro spirito e perfino il nostro organismo fisico si ribellano a sentir soltanto parlare di guerra, la nostra mente, purtroppo, non può non rifiutarsi dal prendere in esame tutto ciò che alla guerra si riferisce, per ovviarne le cause o, quanto meno, per ridurne le possibilità.
Riguardo alle cause, esse, com’è noto, sono molteplici, né io tenterò di enumerarle. Credo opportuno, tuttavia, rilevarne una che è fondamentale e che va considerata come la matrice di tutte le guerre: voglio dire dello spirito di esagerato nazionalismo, che deve essere estirpato dalle radici se si vuole assicurare quella pace che tutti i cuori sinceri auspicano; di quel nazionalismo che è cieco, violento, aggressivo, perché privo di umana e legittima comprensione dei diritti altrui, perché al diritto sostituisce la violenza, alla giustizia la forza.
Ma già ad eliminare tale causa è ordinato l’articolo 6 del nostro progetto di Costituzione.
Con unanime sentimento di solidarietà infatti, questa Assemblea ha approvato il detto articolo, il quale, al primo comma, dichiara solennemente che l’Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli: segno, questo, che il nuovo Stato italiano, uscito dal tormento della più spaventosa conflagrazione della storia, s’impegna solennemente a non far uso delle armi se non per motivi eticamente e giuridicamente legittimi.
Con l’articolo 6 ci si assume anche l’impegno di facilitare l’organizzazione della pace, mediante quelle inevitabili limitazioni di sovranità che possono dar luogo ad un ordinamento internazionale capace di assicurare il rispetto reciproco fra i popoli e di formare un organo comune per il mantenimento della pace.
Vengono pertanto nel detto articolo fissati i tre punti che, in armonia con la dottrina della Chiesa, costituiscono i pilastri per il mantenimento della pace e cioè: proscrizione della guerra di aggressione; necessità di formare un valido ordinamento per la garanzia della pace, ed infine, esigenza di considerare la società dei popoli come una sola unità morale e politica.
È alla luce di quest’articolo, che si chiarisce il significato che occorre dare a quanto forma oggetto dell’articolo 75. Quando cioè si parla di dichiarazione di guerra, non ci si può riferire che a guerra legittima. Ma anche in tal caso, non vi è qualche altra fondamentale esigenza, oltre quella di giusta difesa, che bisogna tenere presente, prima che si addivenga ad un atto formale di dichiarazione di guerra?
A tale domanda io non esito a rispondere affermativamente nel senso cioè, che la dichiarazione di guerra deve rispondere alla volontà della Nazione.
L’articolo 75 del progetto, nel fissare il principio che spetta all’Assemblea nazionale di deliberare la mobilitazione generale e l’entrata in guerra, indubbiamente ha tenuto conto di tale esigenza. Ed è giusto, è onesto, che quando si affronti un così micidiale rischio, quando ci si immerge in una così spaventosa voragine, il popolo, il quale è chiamato a combattere e soprattutto a soffrire la guerra, possa esprimere la sua volontà, possa decidere delle sue sorti e di quelle del Paese tutto.
Certamente l’Assemblea Nazionale è espressione della volontà della Nazione e nella sua democratica composizione rappresenta il popolo; tanto meglio lo rappresenterà in quanto con la prevista trasformazione del Senato, che diventerà, come la Camera dei deputati, una schietta manifestazione del volere e delle opinioni del Paese, essa sarà l’emanazione diretta della sovranità popolare.
Tuttavia, vien fatto di chiedersi se una responsabilità così grave, se un impegno così solenne debbano pesare soltanto su un migliaio di persone che, per quanto degni, per quanto liberamente designati dalla Nazione a rappresentarla anche per le decisioni più importanti, potrebbero non interpretare esattamente quel particolare stato d’animo popolare, quella specifica volontà nazionale che eventi eccezionali determinano. Non occorre essere scaltriti osservatori della vita sociale per rendersi conto che, in alcuni momenti di straordinaria importanza storica, si può verificare una discrasia fra popolo e classe politica, tra la Nazione e coloro stessi che ne sono stati i depositari della volontà e della sovranità. Di fronte ad una siffatta soluzione di continuità della rappresentanza che si verifica in alcuni speciali periodi storici si è dai teorici proclamato il diritto delle élites ad assumersi la responsabilità delle decisioni supreme. La democrazia, valevole per la via ordinaria, non avrebbe più senso, dunque, nelle ore in cui è della vita stessa del popolo che occorre decidere.
Il protagonista quindi, di quella terribile ed atroce avventura che è la guerra, il diretto e designato attore della vicenda bellica, il popolo, rimarrebbe estraneo ad una determinazione che lo riguarda come nulla può riguardarlo più esplicitamente, giacché sacrifici, fame, distruzioni, sono sofferti da lui, il sangue che si versa è il suo sangue.
Ad ovviare siffatta ingiustizia, sarebbe certamente utile e soprattutto onesto, alla vigilia di una decisione di tanta gravità, potere interpellare il popolo; poter consultare i padri che hanno faticato a costruirsi un campicello od una casa; i vecchi, che assommano tanta saggezza e tanta esperienza; le madri e le spose, che dovranno vedersi allontanare, e forse per sempre, i figli ed i mariti, restando loro stesse in balia di pericoli imprevedibili; poter interrogare gli stessi uomini destinati al combattimento.
L’istituto del referendum che il progetto di Costituzione opportunamente introduce nella nostra vita pubblica, potrebbe essere adoperato per chiedere al popolo il suo responso sul più solenne e grave atto della sua esistenza fisica e storica, qual è quello della dichiarazione di guerra. Esso certamente offrirebbe il vantaggio di una consultazione diretta e di una conseguente espressione libera e sincera di volontà.
Una difficoltà insormontabile tuttavia si oppone ad una simile ipotesi: la macchina per far agire il referendum si mette in moto solo lentamente ed i risultati di una votazione simile sarebbero conosciuti a distanza di tempo, mentre la decisione di un intervento di guerra dev’essere rapido e tempestivo. Il referendum, utile in molte circostanze, purtroppo nella circostanza suprema della storia di una nazione si appalesa, per la sua lentezza, d’impossibile attuazione.
Un’altra consultazione di larga portata potrebbe essere quella effettuata a mezzo dei Consigli comunali. Devo confessare che questa idea mi ha per molto tempo sedotto. Il Comune torna ad essere, com’è stato nei secoli passati, la linfa, la sorgente, il centro della vita nazionale. I Consigli comunali, specie nei comuni minori, aderendo più direttamente alle popolazioni che rappresentano, ne interpretano più schiettamente i bisogni, le opinioni, i sentimenti. Interpellare i Consigli comunali della Repubblica in caso di guerra, avrebbe potuto costituire un mezzo di consultazione sufficientemente approfondita nel paese. Mi rendo, tuttavia, conto che difficoltà tecniche si frappongono ad un simile progetto: non sarebbe facile, fra l’altro, coordinare sollecitamente ed organicamente i voti di ottomila assemblee comunali.
Ed allora io oso proporre in altro sistema certo più rapido anche se non altrettanto diretto di consultazione, propongo cioè di far pronunziare le assemblee regionali.
In realtà i Consigli regionali, una volta che saranno istituiti dovunque, rispecchieranno la volontà popolare; la rispecchieranno, mi sia lecito dirlo, in maniera più rispondente alle particolari esigenze delle singole Regioni nelle quali si costituisce e si articola l’Italia. Interpellare le assemblee regionali sulla decisione da adottare, ove lo stato di guerra dovesse profilarsi all’orizzonte della storia nazionale, sarebbe cosa facile e rapida; sarebbe soprattutto un gesto di lealtà, di coerenza democratica, di conforto per la stessa Assemblea Nazionale, che vedrebbe poggiare la responsabilità della sua decisione su un parere espresso da numerose assemblee, investite anch’esse di un potere di rappresentanza emanante dal popolo. Perché, sia lecito dirlo, la rappresentanza politica per quanto possa essere ampia e diretta, per quanto possa costituire il presupposto e la garanzia insieme di un’azione parlamentare, legislativa, e direi persino direttiva del paese, essa tuttavia può essere limitata: ed il limite è costituito da quell’immenso tesoro che si getta nel rogo della guerra: le vite umane, le opere, l’avvenire stesso del Paese.
Onorevoli colleghi! Alla fine di quest’ultimo conflitto, in molti abbiamo creduto che la guerra sarebbe stata cancellata dalla storia futura; e sarebbe stata cancellata non tanto per virtù di uomini, quanto per la forza degli eventi. Di fronte all’immane catastrofe che s’è abbattuta su tanta parte dell’umanità per oltre sei anni, di fronte alla furia devastatrice, che si è scatenata sulle cose, sugli uomini, sullo spirito stesso della civiltà, ebbene, abbiamo pensato che di guerre non ve ne sarebbero state mai più; abbiamo creduto che a rinsavire gli uomini, soprattutto taluni uomini, dalla follia di gettare i popoli gli uni contro gli altri, di farli dissanguare, di annullare il divino destino di pace, fossa sufficiente lo spettacolo offerto dai numerosi nuovi cimiteri, dalle distruzioni di città, dalla rovina di paesi, dell’annichilimento di intere razze e di intere regioni.
Purtroppo invece, oggi, e non da oggi soltanto, la situazione internazionale appare precaria e barcollante; il mondo si rivela diviso di già in due campi, entro ognuno dei quali s’agitano pressioni, ambizioni, insofferenze, maligni spiriti di lotta.
I voti, i programmi, i solenni principî enunciati in documenti ed in atti, che avrebbero dovuto far testo, dalla Carta atlantica alla dichiarazione di San Francisco, sembrano di già lontani nel tempo e, quel che più conta, nell’animo dei contemporanei.
Ebbene, approvando noi l’articolo 6 del progetto di Costituzione, abbiamo inteso fissare, più che una norma specifica, un principio generale. Abbiamo voluto dare una prova tangibile della nostra buona volontà di evitare la guerra, di dichiarare nel modo più categorico e solenne che la guerra è fuori legge.
Accogliendo ora l’emendamento che ho l’onore di proporre io ho fiducia che mentre si pone in maggior luce il carattere che ha l’Assemblea Nazionale, di essere fedele interprete della volontà del popolo, si dà anche un contributo sostanziale alla causa della pace, che, mai come oggi, ha bisogno di tutori inflessibili e sinceri.
PRESIDENTE. L’onorevole Persico ha presentato il seguente emendamento:
«Sostituirlo col seguente:
«Soltanto le due Camere possono con legge deliberare la mobilitazione generale e l’entrata in guerra.
«Ad esse solo spetta il diritto di accordare per legge amnistie e indulti».
L’onorevole Persico ha facoltà di svolgere l’emendamento.
PERSICO. Ho deciso di abbandonare il primo comma del mio emendamento, secondo il quale le due Camere avrebbero dovuto deliberare la mobilitazione generale e l’entrata in guerra.
Avendo riflettuto sulla questione ed anche in seguito alle opinioni manifestate in questa Aula da molti oratori e agli emendamenti presentati dai colleghi Terranova, Gasparotto, Meda, Clerici ed altri, mi sono convinto che, se l’Assemblea Nazionale dovrà restare, essa dovrà avere soltanto delle funzioni eccezionalissime, come la nomina del Capo dello Stato, e come quella di dichiarare la guerra e di promuovere la mobilitazione generale.
Non vale l’obbiezione, che c’è l’articolo 6, già approvato, il quale dice che l’Italia non farà mai guerre di aggressione o di offesa ad altri popoli. Ciò non toglie che l’Italia possa essere coinvolta in una guerra; ed anche una nazione aggredita deve dichiarare la guerra e subirla, deve quindi fare la mobilitazione generale; atto, questo, il più solenne della vita nazionale, forse superiore anche alla nomina del Capo dello Stato.
Per queste ragioni dichiaro di rinunziare alla prima parte del mio emendamento.
Invece sostengo a ragion veduta la seconda parte.
Su questo problema, che conosco per motivi di pratica professionale, ho avuto occasione di esprimere la mia opinione in scritti su riviste giuridiche ed anche in questa Aula, nella seduta del 19 luglio 1946. Cioè, che l’amnistia e l’indulto devono essere discussi e approvati dalle Camere, e non sono atti che possono essere demandati al Governo; sono atti eccezionali che devono corrispondere a momenti e a necessità eccezionali. Non possiamo seguire la prassi fascista per la quale un anno sì e uno no si emanavano decreti di amnistia. Durante il passato regime abbiamo avuto dieci amnistie in venti anni, di modo che, con ben congegnati sistemi di appelli e di ricorsi in Cassazione, si finiva per far sì che nessun delinquente, entro certi limiti, andasse mai in carcere, ciò che finiva per annullare il valore della legge: il valore morale, psicologico e giuridico. I magistrati sapevano che dopo un dato periodo di tempo le loro sentenze sarebbero state poste nel nulla, tanto che presso alcune magistrature minori rimanevano sospesi migliaia di processi (ricordo infatti che alla vigilia del decennale presso la Pretura di Roma ben 12.000 processi erano rimasti sospesi), perché era certo che ben presto sarebbe venuta una benefica amnistia che avrebbe posto fine a tali procedimenti.
Ora, un tale sistema deve finire, perché un organo politico come le due Camere, solo in casi veramente eccezionali, concederà l’amnistia, quando riconoscerà che essa corrisponde ad un bisogno e ad una necessità del Paese, per adeguare la situazione giuridica ad una nuova situazione politica e sociale. Né si dica, come è stato da taluno obiettato, che, in questo modo, ci sarebbe un periodo di tempo in cui, perdurando le discussioni delle Camere sull’opportunità e sulle modalità di emanazione dell’amnistia, le persone potrebbero delinquere tranquillamente, sicuri che poi tutto sarebbe sanato, perché l’amnistia sarà goduta soltanto da coloro i quali avranno commesso il reato prima della presentazione del relativo disegno di legge. In tal modo sarà eliminato questo inconveniente.
Pertanto noi avremo che il disegno di legge concernente l’amnistia andrà prima alla Commissione competente della Camera dei deputati, che, dopo averlo esaminato, presenterà la sua relazione, che sarà discussa dalla Camera stessa e, dopo la sua approvazione, passerà all’esame del Senato, cioè al secondo vaglio. In tal modo potremo anche evitare quei difetti che normalmente si riscontrano nei decreti di amnistia, i quali contengono sempre lacune, incertezze e contraddizioni, che procurano una disparità di trattamento attraverso i diversi responsi dei tribunali e delle Corti di merito e della Corte Suprema. Io credo quindi che sia opportuno togliere all’Assemblea Nazionale questa facoltà, la quale ne snaturerebbe le eccezionali funzioni, perché si verrebbe quasi a formare una terza Camera, con una funzione legislativa che noi non vogliamo darle: noi vogliamo attribuirle soltanto la nomina del Capo dello Stato e la deliberazione sulla mobilitazione generale e sull’entrata in guerra. Resta poi la questione del voto di fiducia: io ritengo che tale compito non debba spettare all’Assemblea Nazionale, ma di questo discuteremo a suo tempo. Limitate così le sue funzioni, esse non possono evidentemente essere estese all’approvazione delle leggi concernenti l’amnistia e l’indulto.
Perciò conservo il mio emendamento soltanto per quanto riguarda la sua seconda parte.
PRESIDENTE. Gli onorevoli Gasparotto, Chatrian, Moranino, Stampacchia, Brusasca, hanno presentato il seguente emendamento:
«Sostituire il primo comma col seguente: «Spetta all’Assemblea Nazionale deliberare la mobilitazione e l’entrata in guerra. In caso di aggressione improvvisa da parte di uno Stato straniero, il Presidente della Repubblica, su proposta del Consiglio dei Ministri, prende i provvedimenti indispensabili per la difesa del Paese, e convoca d’urgenza l’Assemblea Nazionale».
L’onorevole Gasparotto ha facoltà di svolgerlo.
GASPAROTTO. Il mio emendamento porta, oltre alla mia firma, quella dei quattro Sottosegretari del Ministero della difesa del tempo. Con questo non abbiamo inteso certamente di involgere nella questione la responsabilità del Ministero della difesa, ma abbiamo inteso soltanto di dare alla Costituente la sensazione che nella nostra formulazione ci siamo valsi degli elementi tecnici che gli uffici hanno messo a nostra disposizione.
Lo scopo dell’emendamento è quello di concordare i diritti e i doveri dell’Assemblea legislativa (o delle due Camere riunite o separate) col principio contenuto nell’articolo 6 della Costituzione, che bandisce la guerra come mezzo di offesa e come attentato alla libertà dei popoli. Giustamente ha ricordato poco fa l’amico Persico che non vi è contraddizione tra l’articolo in discussione e l’articolo 6, in quanto l’articolo 6 presuppone, perché l’Italia rinunci alla guerra, che ci sia reciprocità ed uguaglianza di impegni anche da parte delle altre nazioni. Ove mancasse questa reciprocità, l’Italia certo non potrebbe rinunciare al terribile diritto di dichiarare la guerra.
Comunque è chiaro che lo spirito dell’articolo 6 potrebbe trovare una risonanza concreta nella vita internazionale ove intervengano accordi fra le varie nazioni, che portino alla creazione di un esercito di polizia internazionale, una gendarmeria o esercito di polizia internazionale a difesa della pace e della libertà di tutti i popoli, con limitazioni parziali dei diritti di sovranità di ciascun paese. Questo concetto è stato accettato nel 1944 da due congressi: uno del partito laburista, l’altro del partito socialista, in Inghilterra.
Comunque, vengo al concreto. L’emendamento mio si distingue dagli altri, in quanto intendo sottoporre all’approvazione delle due Camere o dell’Assemblea Nazionale, non soltanto la mobilitazione generale, ma qualunque mobilitazione, anche quella parziale, perché bisogna tener presente che oggi mobilitazione vuol dire guerra, mobilitazione è sinonimo di guerra, e che la mobilitazione generale è ormai abbandonata, perché è impossibile che venga applicata in concreto. Infatti, data la mole degli eserciti e l’immenso numero dei cittadini chiamati alle armi, il deliberare la mobilitazione generale vorrebbe dire portare lo scompiglio e il disordine economico in tutto il paese, perché le guerre moderne non sono guerre di eserciti, non sono contrapposizioni di forze armate, ma sono guerre di popolo, guerre di nazioni, in quanto che alla mobilitazione militare corrisponde la mobilitazione civile che chiama tutto il paese a collaborare con le forze armate. Quando si pensi che nel recente ultimo conflitto l’Italia ha messo in campo quasi 6 milioni di uomini, la Francia 5 milioni, gli Stati Uniti 11 milioni, e che del numero dei mobilitati dalla Russia e dalla Germania non si è ancora potuto fare il calcolo, perché la Russia ha chiamato alle armi tutti gli uomini dai 18 ai 55 anni, e la Germania non ha fatto questione di età ed ha chiamato alle armi tutti i cittadini validi, ognuno comprende che da queste cifre si ricava la risultanza che è impossibile far luogo di colpo alla mobilitazione generale militare e cioè alla leva di tutta questa immensa massa di cittadini, alla quale deve corrispondere a sua volta la mobilitazione generale civile. Far questo di colpo vorrebbe dire portare la paralisi nella vita del Paese.
Inoltre, vi è un altro argomento. Si credeva un tempo che la mobilitazione generale si potesse fare mantenendo la segretezza degli apprestamenti preparatori. Ciò è impossibile oggi, perché i servizi di informazione di tutti gli Stati e i mezzi di trasmissione delle notizie sono ormai tali e agiscono in tale estensione e profondità che molte volte, per non dire sempre, la notizia di una mobilitazione in preparazione arriva prima all’estero che nell’interno del paese.
Dunque, distinzione, anzi differenziazione precisa, fra l’emendamento mio e parecchi altri emendamenti, inquantoché ritengo che se si vuole veramente assicurare all’Assemblea Nazionale o alle Camere e soltanto ad esse il diritto di dichiarare l’entrata in guerra attraverso la mobilitazione, occorre sopprimere le parole «mobilitazione generale» e fermarsi semplicemente alla parola «mobilitazione». Però, può darsi anche che il nostro Paese come qualunque altro sia soggetto ad una aggressione improvvisa. Il clamoroso precedente di Pearl Harbour va tenuto presente. Ed allora, deve intervenire l’autorità del Capo dello Stato, su proposta del Consiglio dei Ministri, per far luogo a tutti gli apprestamenti necessari per fronteggiare l’aggressione e rendere possibile l’immediata reazione difensiva. Non si tema che per fare questo occorrano dei grandi eserciti. Su questo punto, già quando io ebbi a proporre nel 1921 il nuovo ordinamento dell’esercito ero, e credo di essere tuttora, d’accordo con l’onorevole Bencivenga, al quale è dovuta la fortunata frase «esercito scudo lancia». Può anche un piccolo esercito perfettamente attrezzato, munito cioè dei mezzi tecnici più moderni, fronteggiare una prima aggressione, in attesa che i centri di mobilitazione diffusi nel Paese preparino i nuovi mezzi di difesa. Occorre però che ci sia un potere supremo, che intervenga con tutta prontezza e risolutezza, e questo potere non può essere rappresentato che dal Capo dello Stato in piena solidarietà, s’intende, con il Consiglio dei Ministri.
Le idee che ho esposto trovano corrispondenza nella legislazione militare moderna.
La Costituzione spagnola, all’articolo 76, dice: «Spetta al Presidente della Repubblica di prendere le misure urgenti richieste dalla difesa della sicurezza della Nazione, dandone immediato conto alle Cortes».
La Costituzione sovietica all’articolo 48: «Il Presidium dell’U.R.S.S. ordina la mobilitazione parziale o generale».
La Costituzione estone, al paragrafo 82, dice: «La mobilitazione (non si dice se generale o parziale) delle forze in difesa della Repubblica è ordinata dall’Assemblea nazionale. Tuttavia, se uno Stato straniero ha dichiarato la guerra alla Repubblica, il Governo ha la facoltà di ordinare la mobilitazione senza attendere le decisioni dell’Assemblea nazionale».
La Costituzione lettone all’articolo 44 dice: «Il Presidente della Repubblica ha il diritto di prendere misure di difesa indispensabili qualora uno Stato straniero dichiari guerra alla Lettonia o attacchi le sue frontiere. Nello stesso tempo convoca la Dieta e decide sulla dichiarazione di guerra e sull’inizio della medesima».
Con queste disposizioni si viene a caricare il Capo dello Stato di una grande responsabilità; ma di fronte ad una non preveduta aggressione, non c’è che il Capo dello Stato che abbia l’autorità e la responsabilità di provvedere, in piena solidarietà – è inutile dirlo – con il Consiglio dei Ministri.
Ecco perché il nostro emendamento dice che, pur assegnando all’Assemblea Nazionale o alle due Camere la potestà di deliberare la mobilitazione e l’entrata in guerra, in caso di aggressione improvvisa da parte di uno Stato straniero, ha facoltà il Presidente della Repubblica, su proposta del Consiglio dei Ministri, di prendere i provvedimenti indispensabili per la difesa del Paese, salvo l’obbligo di convocare di urgenza l’Assemblea Nazionale.
PRESIDENTE. L’onorevole Fuschini ha presentato i seguenti emendamenti.
«Sostituire il primo comma col seguente:
«Spetta alle Camere riunite in Assemblea Nazionale deliberare maggiori poteri al Governo in caso di guerra».
«Sopprimere il secondo comma».
L’onorevole Fuschini ha facoltà di svolgerli.
FUSCHINI. Onorevoli colleghi, io mi sono limitato a proporre una modifica che si riferisce al primo comma dell’articolo 75, ed ho poi presentato poco fa un emendamento relativo all’amnistia ed all’indulto. Sono d’accordo sulla seconda parte dell’emendamento presentato dall’onorevole Gasparotto, per quanto ritenga che la dizione «in caso di aggressione improvvisa il Consiglio dei Ministri, d’accordo col Presidente della Repubblica, prende i provvedimenti di urgenza» sia superflua; è evidente, comunque, che il potere esecutivo, nella sua integrale espressione del Consiglio dei Ministri e del Governo, insieme al Presidente della Repubblica, hanno il dovere generico di provvedere sempre alla difesa della Patria e quindi del territorio nazionale. Però, per quanto riguarda la prima parte riferentesi alla mobilitazione, ritengo che l’affidare alle Camere riunite in Assemblea tale questione non possa ammettersi. Né per la mobilitazione a scaglioni, come si è usata negli ultimi tempi (io non sono un tecnico; i tecnici potranno correggermi), né per la mobilitazione generale, penso che occorra l’intervento preventivo delle Camere; perché, secondo me, questo provvedimento, qualunque forma assuma parziale o generale, deve sempre rientrare nei poteri del Governo, dovendosi usare cautele e precauzioni di vitale importanza.
La minaccia di aggressione o l’aggressione stessa da parte di un paese non avvengono ex abrupto, in un batter d’occhio, ma in seguito ad una serie di eventi attraverso i quali lo Stato minacciato è posto in guardia e deve premunirsi con misure di vario ordine, indispensabili per non divenire vittima dell’aggressione.
Ora, non mi sembra che sia opportuno portare innanzi alle Camere una questione tanto delicata come è quella della mobilitazione e sottoporla ad una discussione di carattere pubblico.
Ogni forma precauzionale di difesa della patria deve avere quella segretezza indispensabile, se si vuole che risulti efficace. Sarebbe poi, a mio avviso, un’imprudenza dare notizie ufficiali di tali precauzioni e coinvolgere in esse la responsabilità del potere legislativo. La loro pubblicità poi, anziché allontanare il pericolo di una guerra, potrebbe provocarla o potrebbe perlomeno inasprire i rapporti internazionali.
Quindi, non mi pare che sia nell’interesse del Paese stabilire una norma per la quale la mobilitazione debba ottenere la preventiva approvazione delle Camere. Le Camere, quando il Governo nella sua integrale responsabilità avrà adottato i provvedimenti del caso, potranno discuterli come tutti gli altri atti che tendono a premunire la difesa del territorio nazionale.
Per quello che si riferisce alla dichiarazione di guerra vera e propria, credo che dobbiamo tener presente in linea generale, che le dichiarazioni di guerra sono cadute dall’uso internazionale, perché si comincia ad agire dal punto di vista bellico, prima ancora che vi sia stata la dichiarazione e anche quando nessuna dichiarazione di guerra è stata fatta.
Comunque, se vogliamo mantener fede a quelle che sono le buone norme del diritto internazionale, che desidereremmo fossero riprese e mantenute, così come avvenne nel 1914, quando vi fu la prima guerra mondiale, occorre tuttavia ricordare che nel 1915, quando l’Italia volle entrare in guerra, vi entrò con tutta una preparazione di mesi e mesi, direi quasi dopo una vera e propria battaglia politica sulla neutralità o sull’intervento. E quando il Governo allora in carica, che era il Governo dell’onorevole Salandra, si presentò alla Camera, si presentò non per domandare l’autorizzazione vera e propria alla dichiarazione di guerra, ma si presentò alla Camera presentando un disegno di legge nel quale si domandavano i poteri straordinari in caso di guerra. E le dichiarazioni che fece l’onorevole Salandra il 20 maggio 1915 furono dichiarazioni che poterono essere considerate come una decisione dell’Italia di entrare in guerra; ma la vera e propria dichiarazione di guerra fu fatta il 24 maggio, cioè quattro giorni dopo che le Camere avevano concesso al Ministero i poteri straordinari.
Ecco perché mi sono permesso di apportare un emendamento nel senso che alle Camere siano presentate le richieste dei mezzi straordinari di cui ha bisogno un Governo che ritenga necessario dichiarare la guerra.
Il problema, quindi, non consiste tanto nel fatto che le Camere facciano esse la dichiarazione di guerra, ma consiste piuttosto nel fatto che le Camere debbono dare i poteri necessari perché si possa dichiarare la guerra; cioè, in altre parole, quando le Camere hanno conferito al Governo che è in carica i poteri straordinari – poteri di ogni ordine e grado di carattere giuridico e, soprattutto, di carattere militare, economico e finanziario – sarà poi il potere esecutivo che sceglierà il momento preciso di fare la vera e propria dichiarazione di guerra.
Per quanto riguarda l’altro mio emendamento, che si riferisce all’amnistia e all’indulto, mi risparmio di illustrarlo perché trattandosi di materia penale lo svolgerà in mia vece il collega onorevole Giovanni Leone che è competente in materia penale.
PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Meda e Clerici:
«Sostituire il primo comma col seguente:
«Spetta alle Camere riunite in Assemblea Nazionale deliberare i provvedimenti necessari alla difesa del territorio nazionale».
L’onorevole Meda ha facoltà di svolgerlo.
MEDA. Onorevoli colleghi, la ragione del nostro emendamento ha riferimento con la situazione attuale del nostro Paese in rapporto all’esistenza del trattato di pace che limita enormemente le forze militari e che ha stabilito dei confini i quali indubbiamente non possono darci né sicurezza né tranquillità.
Io sono d’accordo con i colleghi, i quali hanno proposto che qualsiasi deliberazione relativa a una pronunzia, ad una decisione di intervento militare in un conflitto a scopo difensivo, debba essere riservata all’Assemblea Nazionale. Ma noi andiamo più in là; noi affermiamo, infatti, che l’Assemblea Nazionale debba anche decidere in ordine all’azione preventiva di difesa del territorio nazionale.
Sappiamo infatti per esperienza come nel passato le spese militari abbiano sempre raggiunto cifre elevatissime, contrariamente a quello che poteva essere il sentimento delle popolazioni. Si sono apprestati eserciti, si sono apprestate marine per azioni di offesa, per creare la guerra che poi i popoli hanno dovuto subire. Ecco perché noi riteniamo invece che, in funzione di quello che deve essere il nuovo spirito della Repubblica italiana, l’Assemblea Nazionale debba essere interpellata allorché si tratti di stabilire, allorché si tratti di determinare le modalità, i sistemi, allorché si tratti di moderare anche i mezzi con i quali si dovrà provvedere alla difesa del territorio nazionale.
Noi ci auguriamo che mai più il nostro Paese si debba trovare nelle condizioni di dover decidere una mobilitazione. D’altra parte, io sono completamente d’accordo con il collega onorevole Gasparotto quando afferma che la mobilitazione sia ormai, nella sua espressione comune, decisione completamente sorpassata. Oggi, infatti, con i mezzi meccanici di cui uno Stato può disporre, con l’aviazione, con i sistemi di offesa e di difesa di cui è dotato un esercito moderno, non occorre più grande impiego di uomini, ma piuttosto utilizzazione di macchine e di reparti particolarmente attrezzati.
Noi ci auguriamo, ripeto, che mai l’Assemblea Nazionale debba essere chiamata a deliberare per un’aggressione ai confini della Patria: però noi desideriamo nel contempo che l’Assemblea, che è la più pura, che è la più diretta espressione dei sentimenti del popolo italiano, sia interpellata ogni qual volta si debbano adottare provvedimenti che riguardino la sicurezza delle nostre frontiere.
PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Benvenuti e Clerici:
«Al primo comma, alla parola: Spetta, premettere le seguenti:
«Fermo restando il dovere del Governo di provvedere, in qualsiasi circostanza, alla difesa delle frontiere terrestri, marittime, aeree della Repubblica».
L’onorevole Benvenuti ha facoltà di svolgerlo.
BENVENUTI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, io mi assocerei senz’altro all’emendamento dell’onorevole Gasparotto e degli altri firmatari: ma v’è una sfumatura, sulla quale mi permetto di insistere e che, a mio avviso, presenta notevole importanza.
Il collega onorevole Fuschini, un momento fa, ha proclamato essere evidente, anzi lapalissiano, che il potere esecutivo in qualsiasi momento deve difendere le frontiere del Paese: onde dovrebbe ritenersi superfluo inserire tale principio nella legge costituzionale.
Mi permetto di esprimere un ben diverso parere. Ritengo cioè che il dovere inderogabile del Governo di resistere sempre ed automaticamente ad ogni aggressione debba essere consacrato chiaramente in una norma costituzionale. Basterà a questo fine una lieve modifica al testo dell’emendamento dell’onorevole Gasparotto. Mi si consentano brevi considerazioni.
Potrà sembrare paradossale quello che io dico, ma la verità è questa: la terribile responsabilità, la responsabilità diretta ed immediata dello scoppio della guerra grava più sull’aggredito che sull’aggressore. È una constatazione che può sembrare paradossale, ma risponde a verità. C’è un sistema assolutamente sicuro, matematico, di non far scoppiare la guerra: ed è quello di non resistere all’aggressore. Chi non resiste non fa scoppiare la guerra! (Commenti). Perché l’aggressore non vuole la guerra, vuole soltanto l’annessione, la sottomissione del vicino, la conquista di posizioni economiche o strategiche. E finché può cerca di pervenirvi persuadendo la vittima a non resistere. Abbiamo avuto esempi recentissimi, onorevoli colleghi: abbiamo l’esempio dell’Austria e quello della Cecoslovacchia, le quali nel 1938 e nel 1939 non hanno resistito ed hanno evitato la guerra. Quando è scoppiata la guerra? Quando s’è trovato un aggredito, l’eroica Polonia, che ha resistito. È quindi colui che spara il primo colpo di fucile, per difendersi, che fa scoppiare la guerra (Commenti). Di fronte a una responsabilità tanto grande, qualsiasi Governo può avere un moto di perplessità: resistere o trattare coll’aggressore? Occorre che una precisa norma costituzionale tolga al Governo ogni dubbio sul suo unico dovere: che è quello di resistere ad ogni costo.
Io mi auguro che il nostro Paese non debba mai trovarsi nella tragica situazione di dover scegliere fra la guerra e la capitolazione; ma se mai questa scelta dovesse porsi, il Governo dovrà assumersi la responsabilità di resistere: non potrà assumersi mai quella di trattare o tanto meno di capitolare. Noi dobbiamo cioè accollare al Governo la responsabilità assoluta, inderogabile della difesa contro l’aggressione: ché se le tragiche circostanze che la storia può proporre alla vita di tutti i popoli dovesse rendere necessario di valutare a un certo momento il rapporto di forze coll’aggressore e di venire ad una forma di accordi o di patteggiamenti, questa triste atroce responsabilità non potrebbe essere presa se non dalla rappresentanza nazionale, ossia dal Parlamento.
Quindi, onorevoli colleghi, mi pare che non possa essere lasciato dubbio alcuno nel nostro testo costituzionale che il Consiglio dei Ministri debba in ogni caso prendere i provvedimenti necessari per la difesa nazionale; debba far ciò sempre automaticamente, in ogni circostanza, escluso qualsiasi apprezzamento di convenienza (che spetterà poi ai rappresentanti del Paese) costi quel costi, implichi ciò tutte le responsabilità gravissime che può implicare, porti a tutte le conseguenze cui può portare. Guai a noi se alle nostre frontiere si potesse pensare che di fronte ad un’aggressione il Governo della Repubblica italiana possa avere libertà di scelta, possa porsi il quesito: «Che cosa conviene fare: resistere o capitolare?». Se questo dubbio potesse sorgere, in un mondo come quello attuale, onorevoli colleghi, resterebbero profondamente scalfite sul piano psicologico, o anche su quello diplomatico, la nostra sicurezza e la nostra libertà. Tanto più, onorevoli colleghi, in un momento come questo in cui assistiamo a fenomeni singolarissimi. In Francia, per esempio, da pubblicazioni recenti si è fatto l’elogio della «non resistenza». Se ne è parlato anche nei giornali. Sono comparsi libri di autori noti, i quali sostengono che dopo tutto si è fatto molto meglio a fare «Vichy», ché la collaborazione ha successivamente evitato molti guai, ed ha salvato alla Francia un milione di vite umane. Questo è quello che leggiamo oggi: la svalutazione opportunistica della resistenza. Onorevoli colleghi, in tali argomentazioni ci può essere, tristemente, qualche cosa di vero: ma è un ordine di idee che il Governo della Repubblica italiana dovrà, in caso di aggressione, intransigentemente ignorare. Ecco perché suggerisco un emendamento all’emendamento dell’onorevole Gasparotto o, se egli preferisce, mi rimetto a lui, per la modifica del testo. Propongo, quindi, di formularlo così: «Il Consiglio dei Ministri deve proporre al Presidente della Repubblica i provvedimenti indispensabili per la difesa del Paese. Il Presidente della Repubblica dà corso a tali provvedimenti e convoca d’urgenza le due Camere legislative».
Mi rimetto alla saggezza dell’onorevole Gasparotto perché faccia in modo che questo concetto rientri nel suo emendamento, in modo che sia ben chiaro che il Governo è tenuto costituzionalmente a prendere tutte le misure necessarie per la difesa del Paese.
PRESIDENTE. L’onorevole Azzi ha presentato i seguenti due emendamenti:
«Al primo comma, sopprimere la parola: generale, dopo la parola: mobilitazione».
«Fare del secondo comma un articolo a parte».
Ha facoltà di svolgerli.
AZZI. Sull’articolo 75 ho presentato due emendamenti. Nel primo ho proposto di sopprimere la parola «generale» dopo la parola «mobilitazione» contenuta nel primo capoverso, che pertanto verrebbe ad essere così espresso: «Spetta all’Assemblea Nazionale» (o Parlamento o Camere Riunite) «deliberare la mobilitazione e l’entrata in guerra». Questa dizione coincide esattamente con quella dell’emendamento proposto e svolto dall’onorevole Gasparotto, alle considerazioni del quale mi associo pienamente.
Chiarisco che mi sono astenuto dal proporre nel mio emendamento qualsiasi riferimento all’articolo 6, sembrandomi inconcepibile pensare che l’Assemblea Nazionale (o il Parlamento), deliberando sulla mobilitazione e sull’entrata in guerra, non debba tener presenti le disposizioni dell’articolo 6.
Mi è sembrato altresì superfluo qualsiasi riferimento all’azione da svolgere dal Governo in casi di improvvisa aggressione, perché ritengo che il Governo in questa circostanza, che può essere considerata una calamità nazionale, possa o meglio debba, come per qualsiasi altra calamità, prendere i provvedimenti necessari per fronteggiare la situazione, salvo a convocare d’urgenza l’Assemblea Nazionale (o Parlamento) per avere la sanzione di quanto ha già fatto e per discutere e deliberare i provvedimenti da adottare successivamente.
Il secondo mio emendamento propone di fare un articolo a sé di quanto riguarda l’amnistia e l’indulto che devono essere deliberati dall’Assemblea Nazionale (o Parlamento).
È una semplice questione di forma, ma confesso che quando ho letto il secondo comma dell’articolo 75 mi sono domandato: che c’entra la mobilitazione e l’entrata in guerra con l’amnistia e l’indulto? E ho dovuto risalire al titolo del capitolo: «formazione delle leggi» per rendermi conto che erano due provvedimenti riguardanti argomenti diversi attinenti alla formazione delle leggi e contenute in uno stesso articolo. Penso allora che, per semplicità e chiarezza, convenga di questo articolo 75 fare due articoli distinti.
E sempre in tema di forma, chiarezza e semplicità, osservo che l’importantissimo argomento della difesa nazionale è diviso in tre o quattro parti, in più Titoli, con articoli sparpagliati un po’ dappertutto. Per cui, chi volesse sapere come la Costituzione della Repubblica italiana ha provveduto alla difesa nazionale, deve leggere tutta la Costituzione dalla prima all’ultima parte.
Data l’importanza dell’argomento, sembrerebbe opportuno che, una volta fatta la Costituzione, e stabilito quale deve essere la struttura dello Stato, si facesse un piccolo capitolo in fondo, una piccola parte a sé, che dicesse: Difesa Nazionale:
Art. 1. – L’Italia ripudia la guerra, ecc.
Art. 2. – La difesa nazionale è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio, ecc.
Art. 3. – Spetta all’Assemblea Nazionale deliberare la mobilitazione e l’entrata in guerra.
Art. 4. – Il comando delle Forze armate è affidato al Capo dello Stato (o a chi per esso).
Vedremo questa questione quando si discuterà su questa facoltà data al Capo dello Stato.
E così, questo argomento, che oggi in qualsiasi Nazione ha assunto un’importanza tanto grande, troverebbe un posto più logico, più comprensivo e più chiaro nella nostra Costituzione.
PRESIDENTE. L’onorevole Damiani ha presentato il seguente emendamento:
«Al primo comma, dopo le parole: e l’entrata in guerra, aggiungere: che, in relazione all’articolo 6, può essere dichiarata soltanto in caso di legittima difesa».
Non essendo presente, s’intende che abbia rinunciato a svolgerlo.
Segue l’emendamento dell’onorevole Codacci Pisanelli:
«Sostituire il secondo comma col seguente:
«L’amnistia e l’indulto non potranno essere concessi se non mediante legge di natura costituzionale».
L’onorevole Codacci Pisanelli ha facoltà di svolgerlo.
CODACCI PISANELLI. L’emendamento da me proposto mira ad impedire che si continui a fare dell’amnistia e dell’indulto l’abuso che se ne è finora fatto.
È strana la mentalità che si riscontra molto spesso fra noi italiani: nel momento in cui un delitto è compiuto non ci si accontenterebbe delle gravi pene inflitte; si vorrebbero le pene ancora più gravi. Trascorso un anno o poco più si arriva ad un’indulgenza eccessiva. Così le sanzioni previste dalla nostra legge penale finiscono col non raggiungere i fini che si sono proposti. Tutti coloro che commettono delitti sanno benissimo che quando viene loro inflitta una pena, per quanto grave, trattandosi di pena detentiva, vi sarà sempre un accomodamento, in quanto, in una occasione qualsiasi, si arriverà prima o poi all’amnistia o all’indulto.
Al doppio scopo di evitare che la pena perda la sua efficacia preventiva e nello stesso tempo allo scopo di fare in maniera che coloro che legiferano non stabiliscano pene molto gravi tenendo conto del fatto che si farà poi uso del potere di amnistia e d’indulto, io propongo che, per concedere sia l’amnistia che l’indulto, sia seguito un procedimento di legiferazione speciale: cioè ritengo che sia opportuno non ammettere l’amnistia e l’indulto se non siano emanate con legge di carattere costituzionale.
Mi si risponderà: perché? Non per andare contro il principio della irretroattività, ma si tratta qui di derogare ad un principio fondamentale del nostro ordinamento, secondo cui ogni norma di carattere penale deve avere la sua sanzione; e siccome abbiamo stabilito che la pena mira alla rieducazione del reo, dobbiamo fare in modo che la rieducazione vi sia e che la pena abbia la sua efficacia preventiva.
Con le continue amnistie e indulti noi otteniamo l’effetto contrario. L’amministrazione della giustizia è compito assai difficile che non può essere lasciato ai volubili umori di gruppi che in certi momenti vorrebbero eccedere in sanzioni, mentre in altri momenti tendono all’eccessiva indulgenza.
Ritengo quindi che non sarebbe inutile fare in modo che l’amnistia e l’indulto possano trovare applicazione solo in casi rari ed attraverso un sistema di legiferazione speciale quale è quello previsto per modificare la nostra Costituzione.
PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Buffoni, Carpano Magnoli, Costantini, Nobili Tito Oro, Stampacchia, Vigna, Amendola e Targetti:
«Sostituire il secondo comma col seguente:
«L’amnistia e l’indulto sono deliberati per legge».
In assenza del primo firmatario, ha facoltà di svolgerlo l’onorevole Carpano Maglioli.
CARPANO MAGLIOLI. Il nostro emendamento ripete i concetti già contenuti nell’emendamento svolto lucidamente dall’onorevole Persico, e questo esime da lunga trattazione.
Senza rifarsi – come invece ha creduto opportuno l’onorevole Codacci Pisanelli – al fondamento etico, sociale e giuridico dell’amnistia e dell’indulto, non è dubbio che mutate condizioni economiche e sociali possano rendere utile l’amnistia e l’indulto per i reati comuni; mutate condizioni politiche possono consigliare la concessione di amnistia ed indulto per i reati politici. E in questa situazione, poiché la preparazione di una legge di amnistia esige un lavoro di indagine preliminare, inchieste statistiche sì da stabilire preventivamente quali possano essere gli effetti concreti del provvedimento, si richiede perciò particolare elaborazione tecnica.
Pare a noi, come osservava esattamente l’onorevole Persico, che amnistia ed indulto non debbano essere sottoposti alla discussione di un’Assemblea plenaria la quale dovrebbe limitarsi, per funzionare, non ad una accademia col concorso di novecento persone, ma a votazioni molto concise, schematiche, cioè approvare o non approvare; svolgere discussioni di carattere generale, come l’amnistia e l’indulto esigono, è compito più adatto ad Assemblee ridotte di numero anziché Assemblee numerose come quella plenaria delle due Camere.
D’altra parte, talvolta l’urgenza di concedere amnistie e indulti non consente larghezza di tempo per la loro preparazione; pare perciò a noi degno dì accoglimento, anche a questo scopo, l’emendamento dell’onorevole Persico, da noi riprodotto; infine, non pare si possa contestare la necessità di ricorrere a provvedimenti di amnistia e di indulto in determinate particolari circostanze come già detto. Non dico di arrivare a concessioni periodiche, come si è fatto in questi ultimi trenta anni, durante i quali ogni due anni si son concessi indulti ed amnistie.
Noi avvocati questo calcolo preventivo nei riflessi dei clienti possiamo anche averlo fatto. Sia consentito infine di ricordare che l’amnistia è, come motivo sussidiario, consigliata anche per sgravare gli uffici giudiziari di un lavoro ingombrante; la gran mole di lavoro pone sovente i grandi tribunali in condizioni di non funzionare o quasi ed allora la necessità di sbarazzare il terreno di processi che per il decorso del tempo hanno perduto la loro utilità sia per gli effetti intimidativi come correttivi, ai quali faceva cenno l’onorevole Codacci Pisanelli. In questa situazione pensiamo debba essere accolto il nostro emendamento che stabilisce che l’amnistia e l’indulto devono essere emanati per legge dalle singole Camere separate, perché attraverso l’esame analitico si eviteranno incertezze di interpretazioni e di dizione come sovente invece si è dovuto lamentare; certamente giuristi-legislatori preparati cercheranno di impedire queste manchevolezze mercé lavoro diligente di analisi e di compilazione del decreto legislativo.
Per queste considerazioni confidiamo che il nostro emendamento, che coincide nella sostanza con quello dell’onorevole Persico, possa essere accolto dall’Assemblea.
PRESIDENTE. Gli onorevoli Leone Giovanni, Fuschini, Mortati, Moro, Bettiol, Dominedò, Balduzzi, Zaccagnini, Cappugi e Ferrario Celestino hanno presentato il seguente emendamento:
«Sostituire il secondo comma col seguente: «L’amnistia e l’indulto sono disposti con decreto legislativo.
«Essi non possono avere effetto nei confronti di reati commessi in epoca posteriore alla presentazione del disegno di legge di delegazione».
L’onorevole Leone Giovanni ha facoltà di svolgerlo.
LEONE GIOVANNI. Onorevoli colleghi, l’amnistia e indulto nel precedente sistema costituzionale, essendo considerati come uno degli attributi del sovrano, dovevano essere approvati dal Consiglio dei Ministri. In una Repubblica democratica invece è evidente che non si può attribuire il potere di concedere amnistia e indulto al potere esecutivo. Tale facoltà deve essere del Parlamento. Ritengo però che, considerando la particolare, delicata struttura della amnistia e dell’indulto e la necessità che questi provvedimenti siano perfezionati con rapida procedura, sia preferibile applicare il sistema indicato nel nostro emendamento.
E cioè i due rami del Parlamento delegano al Governo la potestà di emanare l’amnistia e l’indulto. Il decreto di amnistia e di indulto, trattandosi di un congegno delicatissimo che deve tener presente tutta la struttura del sistema penale vigente, è preferibile sia predisposto da un organo ristretto qual è il Governo, piuttosto che dalle Assemblee parlamentari. Inoltre vi sono evidenti esigenze di celerità, perché il Paese non può restare in una lunga attesa del provvedimento. Chi conosce l’amministrazione della giustizia sa che l’attesa dei provvedimenti di amnistia e di indulto la paralizza, in quanto le parti, nella speranza del benevolo provvedimento, sogliono chiedere il rinvio al magistrato, il quale spesso ritiene opportuno anch’egli attendere.
Vi sono dunque ragioni di opportunità, teorica e pratica, le quali concorrono per far attribuire al Governo l’attività rivolta a concretare e a rendere attuabile la deliberazione del Parlamento.
Peraltro, trattandosi di delegazione, il Parlamento dovrà indicare al Governo le direttive, gli orientamenti, i limiti e per quanto concerne le pene e per quanto concerne la casistica dei reati, e le condizioni soggettive di applicabilità del provvedimento. Ma dopo aver fatto questa ampia indicazione di direttive, di norme, di orientamenti, il Parlamento potrà e dovrà affidare al Governo la realizzazione concreta.
Ritengo quindi che il nostro emendamento, per questa parte nella quale esso si differenzia da quelli di altri colleghi, cioè nel disciplinare l’amnistia e l’indulto attraverso la legge delegata e non la legge normale, possa raccogliere l’assenso di molti colleghi. Di quanti cioè, mentre vogliono conservare questo importante attributo al Parlamento sovrano, ritengono di dover usufruire delle competenze tecniche del Governo e della rapida procedura che esso solo può offrire.
PRESIDENTE. L’onorevole Nobile ha presentato il seguente emendamento:
«Sopprimere il primo comma dell’articolo 75».
Ha facoltà di svolgerlo.
NOBILE. Veramente, io sarei favorevole alla soppressione di tutto l’articolo; ma, siccome non mi riconosco competente per quanto riguarda la materia regolata dal secondo comma, mi sono astenuto dal proporre la soppressione anche di questo comma.
Il primo comma attribuisce all’Assemblea Nazionale il potere di deliberare la mobilitazione generale e l’entrata in guerra. Mi pare che vi sia un grosso equivoco in questa disposizione. La dichiarazione di guerra è cosa d’altri tempi, è un residuo dei tempi della cavalleria errante allorquando si dichiarava cavallerescamente di voler fare la guerra, prima di muover battaglia. Ma oggi non si fa più così. La guerra scoppia, la guerra viene.
È un fatto che si manifesta brutalmente come tale prima ancora di essere annunziato. Le sole dichiarazioni di guerra dell’ultimo conflitto mondiale sono state quelle imposte dagli Stati i quali per primi sono entrati in guerra e che per assicurarsi che altri Stati minori non potessero parteggiare per il nemico, hanno loro imposto di dichiarare la guerra, anche se poi a questa dichiarazione non è seguito alcun fatto di guerra. Questo è il caso della Repubblica di San Marino e di altri Stati. Nei tempi moderni, insomma, la dichiarazione di guerra è un anacronismo.
Sulla sostanza dell’emendamento proposto dall’onorevole Gasparotto e da altri colleghi, si può essere d’accordo. Che in caso di aggressione sia il Governo a prendere i primi provvedimenti e che poi siano convocate d’urgenza le Camere legislative è cosa ovvia; e non occorre nemmeno dirla.
Per far comprendere l’assurdo al quale si potrebbe giungere se si accettasse integralmente sia il primo comma dell’articolo in discussione che il primo periodo dell’emendamento Gasparotto, domando che cosa succederebbe se, mentre la cosiddetta Assemblea Nazionale sta deliberando, giungesse una bomba che la distrugge. Nessuno allora potrebbe fare la dichiarazione di guerra: mancherebbe l’organo competente, e il Governo, stando alla Costituzione, si troverebbe nella condizione di non poter provvedere alla difesa.
GASPAROTTO. Questo è un caso limite di forza maggiore.
NOBILE. La dichiarazione di guerra è cosa ormai sorpassata. Per questa ragione non se ne deve parlare nella Costituzione. Tanto più è ridicolo parlarne, in quanto noi – come ha osservato l’onorevole Bozzi – nell’articolo 6 abbiamo dichiarato che l’Italia rinuncia alla guerra come arma di offesa. Per queste ragioni propongo la soppressione del primo comma dell’articolo 75.
PRESIDENTE. Sono stati così svolti tutti gli emendamenti proposti all’articolo 75.
Il seguito della discussione è rinviato alle ore 16.
Sulla elezione di tre membri della Corte costituzionale per la Sicilia.
PRESIDENTE. Avverto che all’ordine del giorno della seduta pomeridiana di giovedì 16 ottobre sarà posta la elezione, da parte dell’Assemblea, di tre membri della Corte costituzionale per la Sicilia, ai sensi dell’articolo 24 dello Statuto della Regione siciliana.
La seduta termina alle 13.