ASSEMBLEA COSTITUENTE
CCLXII.
SEDUTA DI VENERDÌ 17 OTTOBRE 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Congedi:
Presidente
Risposte scritte ad interrogazioni (Annunzio):
Presidente
Comunicazione del Presidente:
Presidente
Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):
Presidente
Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione
Bozzi
Mortati
Lucifero
Tosato
Codacci Pisanelli
Persico
Carboni Angelo
Perassi
Laconi
De Vita
Buffoni
Targetti
Sicignano
Costantini
Fabbri
Nobile
Colitto
Gronchi
Moro
Bertone
Fuschini
Corbino
Uberti
Lussu
Nobili Tito Oro
Russo Perez
Tonello
Nitti
Presentazione di una relazione:
Clerici
Presidente
Comunicazione del Presidente:
Presidente
Interrogazione con richiesta d’urgenza (Annunzio):
Presidente
Interrogazioni (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 16.
DE VITA, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.
(È approvato).
Congedi.
PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Abozzi, Ravagnan, Spataro e Uberti.
(Sono concessi).
Risposte scritte ad interrogazioni.
PRESIDENTE. Comunico che i Ministri competenti hanno inviato risposte scritte a interrogazioni presentate da onorevoli deputati.
Saranno pubblicate in allegato al resoconto stenografico della seduta di oggi.
Comunicazione del Presidente.
PRESIDENTE. Comunico che la Commissione speciale per l’esame del disegno di legge sulla soppressione del Senato, nella riunione di ieri, ha proceduto alla sua costituzione, nominando presidente l’onorevole Bonomi Ivanoe, vicepresidente l’onorevole Mortati e segretario l’onorevole Giolitti.
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Ricordo che ieri sera la seduta fu sospesa, su consiglio dell’onorevole Mortati, nella speranza che fosse possibile, nella mattinata di oggi, trovare una formula concordata per l’articolo 74-bis. Vorrei sapere se è stato formulato un nuovo testo.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Onorevole Presidente, questa mattina i presenti all’adunanza del Comitato hanno formulato un testo che ha avuto il comune consenso, salvo la riserva per alcuni di sentire i loro Gruppi. Avviene così, come in molti altri casi, che le considerazioni di solidarietà politica si sovrappongono alla tecnica legislativa; e nulla si può mai considerare definitivo. Ad ogni modo il testo che ho qui, e che vi leggo, è testo del Comitato, redatto ad unanimità.
«Il Presidente della Repubblica non può emanare decreti aventi valore legislativo, deliberati dal Governo, se non in casi straordinari di assoluta e urgente necessità. In tali casi le Camere, anche se sciolte, sono appositamente convocate e debbono riunirsi entro cinque giorni.
«I decreti perdono di efficacia se non sono convertiti in legge e pubblicati entro sessanta giorni».
Si è arrivati a questa soluzione, seguendo un ordine, un iter di ragionamento. Si è dapprima posto il quesito se conviene prendere in considerazione o mostrar di ignorare quello «stato di necessità» – come dice una prevalente dottrina – da cui dipende l’emanazione dei decreti-legge. Che vi possa essere stato di necessità – anche se non ha veste di istituto giuridico – è un principio generale di diritto largamente ammesso. A ciò si riconduce il sistema del decreto-legge; usato fra l’altro in Inghilterra, paese classicamente libero, con il successivo bill d’indennità, da parte delle Camere. È stato osservato che (a prescindere dalle particolari garanzie che dà il costume politico in Inghilterra, più che in altri paesi) quanto ivi avviene senza alcuna norma costituzionale, solo in base al costume, sembra più difficilmente ammissibile in paesi a costituzione rigida. Se non vi è norma di costituzione, non solo il decreto-legge ma lo stesso bill d’indennità resterebbero atti incostituzionali.
Per un complesso di considerazioni, alle quali hanno aderito i membri del Comitato, tranne l’onorevole Lucifero, si è ritenuto preferibile prevedere nella Costituzione, per porgli i limiti più rigorosi, il decreto-legge. Non ci ha trattenuti il timore di dare cittadinanza nella Carta costituzionale ad un atto che desta così sfavorevoli ricordi e che solleva indignazione in spiriti liberali, che non riflettono come, non mettendo nulla, si viene a facilitare ed incoraggiare l’uso dei decreti-legge, che nulla può impedire, anche il silenzio della Costituzione che significa divieto; non si avranno limiti; e così si farà, col silenzio, opera antiliberale.
Secondo punto: l’onorevole Mortati aveva avanzato una proposta per cercare di classificare e di individuare i casi nei quali poteva essere ammesso il decreto-legge. Aveva (oltre che allo stato d’assedio, che rinviava al Titolo del potere esecutivo) accennato al caso di una modifica delle tariffe doganali, in cui occorre non solo l’immediatezza, ma anche il segreto per evitare speculazioni ed altri turbamenti. Altri osservò che un caso più specifico di necessità del segreto si ha per le borse; e non solo per la loro diretta disciplina, ma anche pei provvedimenti che possono aver riflesso in borsa, ed è necessario che siano tenuti nella maggior segretezza prima di essere emanati. Se fosse possibile indicare i casi, nei quali soltanto può ammettersi il decreto-legge, sarebbe certamente la via migliore; ed il Comitato ha invitato l’onorevole Mortati a trovare una formulazione adatta e completa; ma lo stesso onorevole Mortati ha finito col riconoscere che non è possibile.
Venuta meno la soluzione di una limitazione, per così dire, di sostanza, che riducesse i casi di decreti-logge soltanto ad alcune categorie di atti, si è – passando al terzo punto nel nostro ragionamento – stabilito di ricorrere ad una limitazione di procedura, che sia molto rigorosa e tale da impedire e colpire gli abusi. Si è pertanto, nel testo che vi ho letto, determinato che non si può ricorrere al decreto-legge se non in casi straordinari di assoluta urgenza e necessità (la forma adottata non è positiva, di autorizzazione al Governo di emettere decreti-legge, ma è negativa: «non possono essere emessi»; anche le sfumature possono servire). Cert’è che, direttamente o indirettamente, si riconosce l’eventualità dei decreti-legge, ma subito si appongono i freni e i limiti più efficaci che si possano pensare.
I provvedimenti presi dal Governo devono essere immediatamente – il giorno stesso della loro emanazione – presentati alle Camere per la loro conversione in legge. Se le Camere non sono già raccolte, devono esserlo, anche se sciolte, non più tardi che entro cinque giorni. L’immediato intervento e l’apposita convocazione delle Camere è un freno molto sensibile per i Governi, che sapranno, nell’emettere decreti-legge, di dover presentarsi subito al Parlamento per affrontare un giudizio di responsabilità, che è implicito nell’atto della conversione, e nulla vieta diventi esplicito, ove il decreto-legge risulti ingiustificato ed ispirato a criteri antiliberali ed antidemocratici. Il Governo ci penserà ad emettere profluvio di decreti-legge, quando sa che basta un piccolo decretino di tal genere, per far convocare le Camere anche disciolte. Sarà di fatto un formidabile freno.
Né basta. Vi è un altro freno. Se i decreti-legge non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro presentazione alle Camere, perdono ogni efficacia. Ciò accentua il loro carattere di provvisorietà, e pone un brevissimo termine, nel quale possono aver vigore, senza che intervenga la conversione in legge.
Tali i criteri, onorevoli colleghi, che hanno ispirato la disposizione proposta.
PRESIDENTE. L’onorevole Bozzi, insieme con l’onorevole Cevolotto, ha presentato il testo seguente:
«Quando nei casi straordinari di urgente e assoluta necessità, il Governo emani provvedimenti aventi valore di legge, essi devono essere presentati per l’approvazione alle Camere, appositamente convocate anche se sciolte, nel termine di cinque giorni, e perdono efficacia se non siano convertiti in legge entro 90 giorni».
L’onorevole Bozzi ha facoltà di illustrarlo.
BOZZI. Onorevoli colleghi, le ragioni che hanno portato alla redazione del testo sui decreti-legge sono state lucidamente esposte dal Presidente della Commissione, onorevole Ruini.
Due tesi erano e sono ancora in campo: quella la quale crede che nella Costituzione non si debba assolutamente parlare di decreto-legge e quella la quale crede che nella Costituzione si debba prevedere questa forma di legiferazione, pur straordinaria, e contenerla con una disciplina rigorosa.
Il non parlarne affatto, dato che la Costituzione, come da quasi tutti è riconosciuto, è rigida, significherebbe che il Governo, il quale adottasse un provvedimento di urgenza, verrebbe a porre in essere una norma incostituzionale, con tutte le conseguenze che da questa incostituzionalità deriverebbero, prima di tutte la possibilità di impugnativa e l’incertezza nell’ordinamento giuridico.
Si dice: a questa situazione si può porre riparo mediante un intervento successivo del Parlamento, non preveduto dalla Costituzione, mediante il ricorso al bill di indennità.
Ora, in Commissione è stato rilevato stamane che la figura del bill di indennità presenta vari inconvenienti, che sono stati anche ieri ricordati dall’onorevole Codacci Pisanelli. Ma, soprattutto, il bill di indennità mal si adatta ad una Costituzione rigida, perché la norma creata dal Governo contro la Costituzione è una norma incostituzionale; ed il Parlamento, che volesse sanare questa incostituzionalità, verrebbe di necessità a modificare la Costituzione; ed in ogni caso non verrebbe tolto l’inconveniente che ci si troverebbe di fronte ad una norma inizialmente incostituzionale e quindi priva di ogni efficacia.
Piuttosto, è sembrato conveniente disciplinare l’istituto, vorrei dire, disciplinare questo bill d’indennità, renderlo necessario, determinarne le modalità con rigore. Perché da tutti si è osservato che il fenomeno dei decreti-legge, nonostante le proteste, nonostante gli idealismi sul Parlamento, si impone come una necessità, che non è dovuta soltanto a situazioni particolari, quali le guerre. Se osserviamo la vita del nostro istituto parlamentare dal 1848 in poi, vediamo che, sia pure con un gettito maggiore o minore, il fenomeno del decreto-legge è sempre esistito. Si è tentato di giustificarlo talvolta ricorrendo alla figura della delega implicita o tacita, che scaturirebbe dal sistema parlamentare, fondato sulla fiducia. Tesi, questa, assai discutibile e meno accolta. Da altri si è detto che il fondamento della decretazione di urgenza sta nello stolto di necessità, che è esso stesso una fonte di diritto superiore alla legge: la necessità infrange ogni barriera.
Ora, certo, in un Parlamento che si curasse, non dico esclusivamente, ma prevalentemente della sua funzione legislativa, il decreto-legge dovrebbe avere una scarsa applicazione; ma purtroppo l’esperienza insegna che spesso nei Parlamenti il momento politico prevale su quello legislativo. Faccio notare che nell’attuale fase storica della società nazionale, in cui lo Stato interviene sempre più intensamente (e qui non è questione di essere liberali o socialisti; basta constatare il fenomeno) nella regolamentazione dei rapporti sociali ed anche dei rapporti economici, si determinano spesso delle situazioni di contingenza tali che è necessaria un’azione pronta ed alle volte segreta.
Richiamo soprattutto l’attenzione della Camera sul requisito della segretezza. L’onorevole Ruini ha ricordato giustamente un esempio, che è sintomatico, di tutta una serie di analoghe situazioni: un’azione di intervento sulle borse pensate mai che si possa portare alla discussione delle Camere? Un provvedimento legislativo che deve determinare un certo intervento dello Stato nella materia delle borse, renderebbe impossibile il successo, ove mancassero l’immediatezza e la segretezza del provvedimento. Di fronte al fenomeno che è sempre esistito, non solo in Italia, e sempre esisterà, per cui il Governo che rappresenta la continuità dell’azione dello Stato si trova in situazioni che gli impongono la urgente necessità di legiferare, abbiamo pensato che fosse cosa migliore prevedere il fatto, regolarlo ed arginarlo perché esso non straripi, così come in altri momenti è accaduto. D’altra parte, bisogna ricordare che il fenomeno assunse proporzioni preoccupanti quando non vi era una disciplina del decreto-legge e questo era svincolato da forme e modalità restrittive. Poi venne la legge n. 100 del 1926: ma allora si era in un’altra situazione. Il Parlamento non era più il Parlamento, per cui quella disciplina, che poteva essere apprezzabile, non aveva più il clima necessario per poter avere la giusta applicazione.
Cosa proponiamo noi in sostanza? Proponiamo che la figura del decreto-legge debba essere contemplata nella Costituzione. Non contemplarla significherebbe escluderla e significherebbe che, se il Governo l’adottasse, creerebbe norme incostituzionali, con tutte le conseguenze disastrose che sono agevolmente immaginabili.
Disciplinarla: ma come? Innanzi tutto limitando le ipotesi. Non è possibile fare una casistica: non si possono prevedere e catalogare i casi d’urgenza e di necessità che si manifestano nelle forme più svariate, secondo l’evolversi delle situazioni e l’imporsi dei fenomeni politici e sociali. Quindi abbiamo detto: «nei casi straordinari di assoluta ed urgente necessità», col che sottolineiamo che l’assoluta ed urgente necessità è il fondamento di questo potere, ed inoltre, che la straordinarietà dei casi è un limite politico rimesso alla correttezza – il problema è anche di costume – del Governo, che può comportare un controllo politico del Parlamento.
Non basta, perché il Governo, che ha emanato il decreto-legge, ha il dovere di convocare subito le Camere – entro cinque giorni mi pare sia detto nel nostro schema – anche se sciolte; e ricordo che le Camere sciolte continuano ad esercitare i loro poteri fino a che non avvenga la convocazione delle altre Camere. Vi è un controllo, adunque, immediato del Parlamento: l’esame delle Camere è subito eccitato. Ma vi è un’altra limitazione, perché il provvedimento del Governo perde efficacia, se non è convertito in legge nel termine di sessanta giorni dalla sua emanazione.
Ora, voi vedete che questo complesso di limitazioni rende veramente eccezionale l’adozione del decreto-legge e garantisce quelli che devono essere i diritti del Parlamento, in quanto questo interviene subito e controlla.
Naturalmente, questa possibilità di decretare di urgenza è limitata alle leggi ordinarie. In questo, io accetto il punto di vista dell’onorevole Codacci Pisanelli. Non so se sia il caso di dirlo espressamente; io penserei di no, ma non è configurabile che il Governo decreti di urgenza in materia costituzionale. In questa materia costituzionale vi è tutta una procedura speciale, per cui credo che nessuno potrebbe mai pensare che il Governo possa legiferare con ordinanza di urgenza in materia di questo genere.
Quindi, io credo che, circondato dalle garanzie alle quali ho fatto riferimento, l’istituto del decreto-legge possa e debba anzi trovare introduzione nella Costituzione. Fra le due vie, è quella che vede la situazione realisticamente, che constata un fenomeno e cerca di limitarne, mettendo delle maglie rigide, quelle che sono le esasperazioni e le esagerazioni che si sono verificate nel passato.
PRESIDENTE. L’onorevole Mortati aveva presentato il seguente comma aggiuntivo all’articolo 74:
«All’infuori del caso di delegazione e di quello di guerra, il Governo può emettere norme con forza di legge solo nel caso di aumento delle tariffe delle imposte indirette, quando vi sia danno col ritardo. Gli atti relativi devono essere presentati al Parlamento il giorno stesso in cui hanno esecuzione e convertiti in legge e pubblicati entro due mesi dalla loro presentazione».
Intende svolgerlo, oppure aderisce al testo concordato?
MORTATI. Se il Presidente mi permette, dirò poche parole per giustificare il ritiro condizionato dell’emendamento.
Osservo che non sono affatto convinto di quello che ha detto l’onorevole Bozzi in ordine alla allegata indispensabilità di una disciplina dei decreti-legge. Basta, in contrario, fare riferimento a quella che è la pratica di molti Paesi, anche grandi Paesi, i quali non hanno nessuna disciplina dei decreti-legge, hanno anche una costituzione rigida, e tuttavia attendono alle loro funzioni e provvedono alle esigenze, anche impreviste, senza incontrare quelle difficoltà a cui accennava l’onorevole Bozzi.
Osservo anche che proporsi di disciplinare il caso di necessità è intrinsecamente contradittorio, come è stato di altri osservato, perché la necessità, per sua natura, potendosi presentare negli aspetti più diversi ed imprevedibili, non può mai essere racchiusa nelle maglie di una regolamentazione che esaurisca tutti i possibili casi. Per le ipotesi che sfuggono alla predeterminazione e per cui non bastano gli espedienti escogitati, rimane sempre quel tale problema di fondo di cui parlava l’onorevole Bozzi. Si può riuscire ad attenuarlo, ma non a risolverlo. Si può anche aggiungere che, secondo l’esperienza dimostra, qualsiasi tentativo di disciplina conduce al risultato di indurre a considerare come normale la via del decreto-legge, specie da parte della burocrazia ministeriale.
Si può aggiungere che si sono già previsti alcuni dei casi che in passato sono stati allegati come tipici della legiferazione di urgenza. Uno è il caso di guerra, e per esso si è già d’intesa che si provvederà con apposita disposizione; un’altra ipotesi, cui di solito si fa riferimento quando si vuole dimostrare l’esigenza di consentire i decreti-legge, è quella che riguarda il periodo dello scioglimento delle Camere. Ma anche a questa ipotesi abbiamo provveduto attraverso l’istituto della prorogatio, sancita dall’articolo 58, che prevede il mantenimento del potere delle Camere durante lo scioglimento delle Camere stesse. Ricordo che fra le ragioni addotte per giustificare questo istituto della prorogatio, si disse che esso doveva servire ad evitare il ricorso ai decreti durante il periodo di scioglimento delle Camere.
Rimane un altro caso, che è anch’esso allegato per giustificare l’uso della decretazione di urgenza: cioè il caso in cui, per evitare danni al pubblico interesse è necessario non far conoscere preventivamente il contenuto di determinati provvedimenti legislativi, come gli aumenti delle tariffe di certe imposte indirette, e gli interventi in materia di borse, mercati ecc.
Per provvedere a questa terza ipotesi io avevo suggerito un emendamento che potrebbe essere formulato in modo più comprensivo nel seguente modo: «Nel caso in cui la preventiva conoscenza del provvedimento può arrecare danno agli interessi dello Stato.
Non insisto tuttavia nel mio emendamento, almeno allo stato delle cose, e mi associo al testo concordato, del quale il Presidente della Commissione ha dato lettura. E questo faccio perché penso che se si mantiene il limite così rigido e rigoroso di convocazione delle Assemblee in esso fissato, e cioè al termine brevissimo di 5 giorni dall’emanazione del provvedimento, si pone in essere una remora sufficiente ad evitare l’abuso dei decreti-legge.
Quindi trovo che se si adotterà la proposta così formulata, il limite di contenuto per la decretazione di urgenza da me proposto può apparire non necessario Mi propongo di insistervi nel caso che questa proposta non avesse successo.
LUCIFERO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LUCIFERO. Onorevoli colleghi, in sede di Comitato di coordinamento questa mattina non ho aderito all’emendamento che è stato illustrato dall’onorevole Ruini; ho anzi dichiarato espressamente che non avrei aderito a nessun emendamento e che mi riservavo di dire in Assemblea quale era il mio punto di vista su questa questione.
Noi siamo ad una svolta di questa nostra rivoluzione nazionale; perché il fatto che non ci siano state delle barricate non significa che in Italia non si stia compiendo una rivoluzione, anzi una serie di rivoluzioni; si sta compiendo una rivoluzione civile, cioè una rivoluzione che ha preferito la legge alle armi, e che si serve della legge emanata da organi voluti dal popolo per fare quelle trasformazioni che certe volte con molto minor successo sono state tentate con la violenza. Ma noi non dobbiamo dimenticare in nome di quali principî e in conseguenza di quali esperienze si è compiuto e si va compiendo nel nostro Paese questo esperimento di rivoluzione civile. È attraverso le esperienze della perduta libertà, è attraverso il desiderio di riacquistare la libertà, è nello sforzo di consolidare la libertà che noi abbiamo fatto quello che abbiamo fatto e che stiamo facendo quello che tentiamo di fare. Non so se a queste intenzioni e soprattutto se a queste parole abbia sempre risposto sinceramente l’azione o il sentimento di chi diceva di professare queste idee; ma una cosa è certa: che la parola libertà è il denominatore comune, che, almeno come parola, tutti ci unisce e che dovremmo tutti serenamente ed obiettivamente sentire. Ed allora questa discussione che noi stiamo facendo assume un significato tutto particolare. Su questa Costituzione sono già state fissate delle norme le quali forse non hanno interpretato questa nostra esigenza di libertà.
Chiedo scusa ai colleghi se interrompo un momento perché non voglio disturbare i miei amici qui alla destra, i quali hanno per la libertà un interesse un po’ minore. (Commenti – Interruzione del deputato Guerrieri Filippo).
Il pane quotidiano è quella cosa che uno mangia senza accorgersene, ed invece bisogna essere sempre coscienti del pane che si mangia.
Noi ci troviamo ad una svolta grave, perché noi apriamo una falla nell’edificio e nel sistema. Io ho sentito con molta attenzione la dotta esposizione fatta ieri dall’onorevole Codacci Pisanelli, in modo che avessimo tutta la notte per pensarci su (Ilarità), ed ho pensato molto sulle sue parole; però in esse non ho visto altro che uno sforzo continuo di giustificare qualche cosa che non si giustifica da sé; ho visto un ricorrere a tutte quelle dottrine relative allo stato di necessità, alle misure eccezionali, alle cose straordinarie, ecc., che si vanno ricercando e rivangando o risuscitando ogni qualvolta non si trovi un fondamento sostanziale per affermare la propria tesi.
La libertà può essere garantita soltanto da leggi che non consentano eccezioni, perché, quando noi vogliamo che l’eccezione entri nel sistema, noi non sappiamo più quando e da chi si potrà porre un limite alla eccezione. Si è sempre tempestato contro il decreto-legge, di cui si usava e si abusava quando era discussa la sua costituzionalità; ma qui, badate, il decreto-legge diventa una forma ordinaria di legiferazione, perché, una volta che è entrato nel sistema, diventa una forma ordinaria, una forma a cui legittimamente si può far ricorso, una forma sulla cui legittimità arbitro primo è un settore molto limitato di quelli che sono i complessi poteri dello Stato. Nell’emendamento si parla del Governo e del Capo dello Stato (e qui entro nella parte viva dell’emendamento); ora, se accettiamo il criterio di ammettere nella nostra Costituzione una possibilità di deroga, per il potere esecutivo, contro tutte quelle garanzie che noi abbiamo cercato di costruire perché le cose si svolgano secondo una legittimità democratica, l’averci infilato dentro il Capo dello Stato, significa una grande contradizione con tutto il sistema. Questo Capo dello Stato non potrà emanare decreti aventi vigore legislativo – si dice – deliberati dal Governo se non nei casi straordinari; cioè, in altri termini, il responsabile di fronte al Paese ed alle Camere, diventa il Capo dello Stato, perché è il Capo dello Stato che è arbitro di giudicare se il caso sia straordinario o di assoluta ed urgente necessità. È lui, infatti, l’autorità suprema, è lui che firma ed assume questa responsabilità.
Noi abbiamo cercato di fare di questo Capo dello Stato una specie di simbolo che tragga la sua autorità dalla sua impotenza, e ne facciamo oggi l’uomo, che, se ha una eccessiva volontà di potenza, può diventare il più potente dello Stato. E questo solo fatto dovrebbe far pensare su questa formula, oltre che sul principio. Ed io non parlo del fatto che possano sorgere conflitti tra il Capo dello Stato ed il Governo, sulla necessità o non necessità di emanare un determinato decreto, dei conflitti fra il Capo dello Stato e le Camere, nel caso che domani il Parlamento non concordasse con il giudizio di urgenza o di necessità; non parliamo poi della procedura che dovrebbe stabilire il limite e la garanzia, la procedura della convocazione del Parlamento, delle successive discussioni e trasformazioni del decreto in legge, ecc.
Onorevoli colleghi, si è parlato qui di terremoti, di sciagure, di catastrofi; ma, quando c’è una sciagura, una catastrofe di tal genere, come riunite in cinque giorni il Parlamento?
Come lo riunite in cinque giorni il Parlamento? Qui vogliamo prendere in giro noi stessi. Se succedono fatti di questo genere, possono succedere anche fatti che non consentono di riunire il Parlamento in cinque giorni. E allora?
Allora, rimane una cosa sola. Ha detto l’onorevole Bozzi che lo stato di necessità è di per se stesso una fonte superiore del diritto, che va al di là della legge. Io faccio le mie riserve: il diritto viene dopo, non scaturisce dallo stato di necessità. Ma, in ogni modo, quando lo stato di necessità impone che si faccia qualche cosa, o nella legge, o fuori dalla legge questo qualche cosa avverrà. Ma resti a coloro che l’hanno fatto avvenire l’enorme responsabilità di aver violato la Costituzione e di poter andare incontro a tutte le conseguenze del fatto di avere violata la Costituzione.
Qui la verità è questa: che noi prevediamo che determinati fatti avverranno e vogliamo moralizzarli ed inquadrarli in un sistema democratico, al quale essi non appartengono. Essi sono deroghe che certe volte possono essere indispensabili al sistema; ma non possiamo infilarle nel sistema senza alterare profondamente e senza distruggere il sistema stesso.
È perfettamente inutile voler moralizzare quello che morale non è, o rendere democratico quello che democratico non è. Non è mettendo certe catenelle a certe persiane che si possono moralizzare le cose che avvengono dietro quelle persiane. Se i fatti avverranno – e già così ci siamo regolati per l’articolo 70 – essi troveranno la loro soluzione in se stessi, come tutte le cose del mondo; ma non possiamo assolutamente codificare quella che è stata una delle cose che abbiamo più fortemente combattuto, quello che è stato il mezzo di tutte le oppressioni, e non solo dell’oppressione fascista, ma anche di quegli esperimenti di reazione o di tentativo di soffocamento della libertà tipo Pelloux et similia. Noi non possiamo codificare questo.
L’amico Costantini una voltarmi ha detto, a proposito di alcune mie affermazioni fatte in quest’Aula, che certe volte divento un poeta della politica. Ora, io vorrei invitare l’Assemblea Costituente a voler seguire questa visione – se voi volete – anche poetica, anche sentimentale della libertà. Non è il concetto della libertà che sia fuori della natura, è il sentimento della libertà nella sua vera essenza, che sa di poter trovare dei limiti in se stessa, sa che certe volte possono esserle imposti limiti dall’esterno; ma non codifica i limiti e non può permettere che si torni nella legge agli stati di assedio o alla sospensione dei diritti di libertà.
Dove si consacra in una legge che i diritti di libertà possono essere sospesi, onorevoli colleghi, in quel Paese la libertà già non esiste più.
PRESIDENTE. Invito l’onorevole Ruini ad esprimere il parere della Commissione al riguardo.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Osservo una cosa sola, tanto per chiarire: che la tesi dell’onorevole Lucifero, che vuol apparire la più liberale, è in verità la più illiberale, perché permette in più larga misura gli arbitri. Egli stesso ha detto che un governo, in caso di necessità non può non ricorrere ai decreti-legge. Dunque, se non si pongono dei limiti, il governo può fare quello che vuole. La tesi dell’onorevole Lucifero è la più liberale… perché non pone vincoli all’arbitrio. Noi invece vogliamo limitare l’arbitrio con freni e prescrizioni così rigorose, che il governo non adotterà l’inevitabile male dei decreti-legge, se non in casi di vera ed assoluta necessità, tali che non potranno non essere riconosciuti dal Parlamento. Questo è spirito liberale, onorevole Lucifero. Non si può rendergli omaggio chiudendo gli occhi; coprendo la realtà con una foglia di fico. Noi si può, per un bel gesto contro i decreti-legge, per non metterli nell’arca santa della Costituzione, perché sconvenienti ed indegni, lasciare ad essi in realtà campo aperto, ed autorizzazione, col voluto silenzio, l’arbitrio. Capirei l’esplicito divieto; ma, poiché sarebbe assurdo, non si fa così, si tace, cioè si incoraggia l’arbitrio. Questo non è criterio di libertà.
TOSATO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
TOSATO. L’onorevole Lucifero non è certamente il solo ad essere contrario ai decreti-legge d’urgenza; anch’io mi sono dichiarato reiteratamente contrario all’inserzione nella Carta costituzionale dell’istituto del decreto-legge d’urgenza. Tuttavia, nel caso che l’Assemblea decida di dettare una qualche norma in materia, proporrei un emendamento al testo presentato dalla Commissione e particolarmente all’ultimo comma, proprio al fine di restringere ancora di più, per quanto è possibile, questa eventualità che dovrebbe essere rarissima.
Se non erro, il testo proposto dalla Commissione, al terzo comma, reca che i decreti perdono efficacia se non sono convertiti in legge e pubblicati entro sessanta giorni. Io proporrei invece: «I decreti non hanno efficacia se non sono convertiti», perché, se si conserva il testo della Commissione, «perdono efficacia», resta, per conto mio, già pregiudicata la questione dell’efficacia retroattiva o meno del fatto della mancata conversione in legge dei decreti d’urgenza. Invece, dicendo senz’altro «non hanno efficacia», veniamo a dire implicitamente che la mancata conversione implica inefficacia dal momento dell’emanazione del decreto-legge. (Approvazioni).
CODACCI PISANELLI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CODACCI PISANELLI. Desidero dire che aderisco in gran parte al testo proposto dal Comitato dei diciotto; soltanto avrei preferito che si fosse mantenuta una forma positiva e soprattutto desidero insistere sul mantenimento dell’espressione «efficacia di legge ordinaria», desidererei cioè che i decreti legge venissero ammessi solo come leggi ordinarie, escludendo quindi che con essi possano essere modificate leggi costituzionali.
Uno degli oratori che mi hanno preceduto ha espresso l’opinione che parlando di efficacia legislativa si intenda già implicitamente «ordinaria»; per maggiore garanzia dei fondamentali diritti di libertà garantiti dalla Costituzione preterirei, tuttavia, che ciò fosse espressamente specificato.
Al collega, poi, di parte liberale che così brillantemente ha parlato ora vorrei dire che ho appreso proprio dalla scuola liberale la convinzione dell’impossibilità di negare al Governo la potestà di legiferare e di negare nel tempo stesso l’opportunità che la nostra legislazione costituzionale preveda l’ipotesi di disciplinare la materia dei decreti-legge, anziché lasciare arbitro il Governo di andare contro la Costituzione. Se nulla si prevede al riguardo, il Governo resta praticamente autorizzato ad infrangere la Costituzione, in quanto essa non prevede determinate ipotesi che sicuramente, prima o poi, si vengono a verificare.
Sono d’accordo, invece, con lo stesso onorevole collega quanto all’affermazione che la necessità non possa essere interpretata come fonte di diritto in se stessa.
RUINI, Presidente della. Commissione per la Costituzione. Ma questa è teoria.
CODACCI PISANELLI. Viceversa, penso che la necessità sia uno di quei casi in cui debbono ammettersi particolari ed eccezionali forme di produzione giuridica.
Comunque, quello che interessa è di stabilire in questa sede l’opportunità che venga mantenuta la parola «ordinaria», di modo che il testo proposto dalla Commissione verrebbe così modificato:
«In casi di straordinaria e urgente necessità il Capo dello Stato potrà emanare, con suo decreto, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, norme aventi forza di legge ordinaria. In tali casi le Camere, anche se sciolte, sono immediatamente convocate e si riuniranno entro cinque giorni».
Ho inoltre suggerito al Presidente l’opportunità di prevedere la sanzione dell’inefficacia.
Sulla proposta fatta da un mio collega proprio ora di aggiungere l’espressione: «i decreti-legge non hanno efficacia se non sono convertiti», osservo che questa espressione, forse, va oltre le sue stesse intenzioni, perché in tal caso i decreti-legge potrebbero essere addirittura considerati inefficaci, finché non fossero convertiti. Allora il magistrato non li applicherebbe nemmeno.
D’altra parte sono sodisfatto nel vedere che, se ho fatto riflettere per tutta la notte – come ha detto il collega prima – sul problema dei decreti-legge, tuttavia non è stato inutile, perché mi pare che quelle tali sentinelle non abbiano assolto il loro disorientante compito e che quella tale signora sia riuscita a entrare in quest’Aula!
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Per venire al concreto – ciascuno deciderà poi come vuole – accetto l’emendamento Tosato, che toglie del tutto valore ai decreti-legge non regolarmente convertiti; e corrisponde al concetto stesso di provvedimenti che sono completamente subordinati alla ratifica del Parlamento. Dicendo «non ha efficacia» si esclude che i rapporti posti in essere dall’emanazione del decreto-legge, alla sua reiezione restino senz’altro in vigore; ma non vuol dire neppure che non possa essere regolata la loro materia con disposizioni di legge emanate dal Parlamento nel momento della reiezione.
Posso anche concordare con l’emendamento dell’onorevole Codacci Pisanelli; se «hanno valore di legge ordinaria», vuol dire che non si possono con decreto-legge toccare le leggi costituzionali. La forma però dovrà essere a suo tempo riveduta, perché non appaiano contrasti formali con l’altra affermazione che il decreto-legge è un provvedimento straordinario. La dizione dovrà essere meglio curata.
Con queste dichiarazioni accetto i due emendamenti proposti.
PERSICO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PERSICO. Vorrei fare una semplice proposta. Il termine entro il quale deve essere convalidato il decreto-legge è stato stabilito in sessanta giorni.
A me questo termine sembra eccessivo, dato che si tratta di un provvedimento di urgenza, che la Camera e il Senato potranno spesso discutere anche in un solo giorno, in una seduta antimeridiana ed una pomeridiana. Mi. pare, perciò, che il termine di trenta giorni sia più che sufficiente.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Mi pare, onorevole Persico, che il suo argomento si ritorce contro la sua proposta, perché, appena convocata, la Camera potrà, il giorno stesso se vuole, respingere ed annullare il provvedimento. Se non lo fa, bisogna lasciare un po’ di tempo, prima che avvenga la revoca automatica. Si noti che nei sessanta giorni deve avvenire anche la pubblicazione della legge di conversione.
CARBONI ANGELO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CARBONI ANGELO. Vorrei invitare la Commissione a considerare attentamente l’osservazione dell’onorevole Codacci Pisanelli a proposito della proposta dell’onorevole Tosato.
L’onorevole Tosato propone di dire: «non hanno efficacia se non sono convertiti», e fa questa proposta allo scopo di ottenere una inefficacia operante ex tunc, in modo che la mancata conversione faccia cadere il provvedimento nel nulla fin dall’origine, come se non fosse stato emesso.
Però, diceva giustamente l’onorevole Codacci Pisanelli, la formula «non hanno efficacia se non sono convertiti» va oltre le intenzioni dell’onorevole Tosato, perché significa che la conversione in legge è condizione di efficacia, cioè che, fino a quando non intervenga la conversione in legge, il decreto-legge non ha efficacia.
E allora noi avremmo un periodo di tempo, cioè quello entro il quale può avvenire la conversione in legge, in cui si avrebbe un decreto-legge inapplicabile. Si tratterebbe di una condizione sospensiva, dalla quale dipenderebbe l’acquisto dell’efficacia del decreto-legge. A me pare quindi che la formula proposta dalla Commissione «perdono efficacia» sia più esatta, con l’intesa che, dicendo «perdono efficacia», si vuol dire che l’inefficacia si produce ex nunc e non ex tunc. Dire, invece, che i decreti non convertiti in legge non hanno efficacia, significa dare al Governo la facoltà di emanare decreti-legge inoperanti fino alla conversione, cioè frustrare lo scopo dell’emanazione del decreto-legge.
PERASSI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PERASSI. L’ultima parte della proposta dice: «i decreti perdono efficacia se non sono convertiti in legge e pubblicati entro 60 giorni». A me sembra che le parole «e pubblicati» siano inutili, anzi non me le spiego, perché i decreti sono necessariamente pubblicati appena firmati, e perciò prima dell’eventuale conversione. Ciò che forse si è inteso dire è che la legge di conversione deve essere pubblicata nei sessanta giorni. Ma è evidente che una legge qualsiasi, e così quella di conversione, non ha effetto se non è pubblicata. Quindi le parole «e pubblicati» sono inutili e propongo che siano soppresse.
LACONI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LACONI. Salva la nostra adesione o meno a questo progetto di articolo, vorrei rilevare che mi pare che l’espressione contenuta nell’ultimo periodo dell’articolo stesso si presti a qualche possibile equivoco. Qui è detto: «i decreti perdono di efficacia se non sono convertiti in legge e pubblicati entro sessanta giorni». Mi pare che non sia previsto il caso che le Camere, prima di 60 giorni, deliberino in senso contrario. È evidente che la Commissione aveva intenzione con questa formula di stabilire che, anche se interviene nel contempo la decisione contraria, il decreto perde efficacia. Quindi proporrei quest’altra formula: «i decreti perdono efficacia se non sono convertiti in legge e pubblicati entro 60 giorni, o nel caso che intervenga nel frattempo una deliberazione contraria». (Commenti). Perché dalla lettura dell’articolo pare che si debba in ogni caso attendere 60 giorni perché si riscontri la inefficacia di fatto del decreto. Si potrebbe dare il caso, secondo l’articolo, che, pur essendo questo decreto inesistente legalmente perché la Camera non ha sanzionato, ciò nonostante questo decreto stesso duri per quei 60 giorni ed abbia una sua efficacia.
PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Ruini di esprimere il parere della Commissione sulla proposta dell’onorevole Laconi.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. L’osservazione dell’onorevole Laconi è fondata nella sua sostanza, ma se noi mettiamo «se la Camera non decide in senso contrario», veniamo quasi a diminuire ciò che è già inerente al testo del Comitato. Do assicurazione all’onorevole Laconi che nella formulazione definitiva si cercherà di rendere ancora più chiaro il concetto indicato.
Quanto alla proposta dell’onorevole Perassi di non mettere le parole «e pubblicati», non ho difficoltà ad aderirvi. Non è una questione di importanza. Quel che è importante è la conversione in legge.
DE VITA. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DE VITA. Desidero far notare che se si attribuisse all’emendamento proposto dall’onorevole Tosato il significato che il decreto-legge viene a perdere efficacia ex tunc, si verrebbe a creare una grande incertezza nei rapporti giuridici.
PRESIDENTE. Prego l’onorevole Tosato di esprimere il parere della Commissione in ordine alle osservazioni degli onorevoli Carboni e De Vita.
TOSATO. La preoccupazione manifestata dagli onorevoli Carboni e De Vita non mi pare fondata, perché una disposizione va interpretata nel contesto dell’articolo. Ora se questo articolo stabilisce che, sia pure in determinati casi e con determinate procedure, possono essere emanati decreti legge d’urgenza, è evidente che questi decreti sono emanati validamente, legalmente. Tuttavia essi hanno un valore soltanto provvisorio, condizionato al fatto della conversione in legge, e se non sono convertiti in legge, perdono efficacia.
Mi pare che lo stesso onorevole Carboni sia concorde in questo, quando riconosce l’effetto negativo della mancata conversione. Si tratta dunque d’una efficacia provvisoria condizionata alla conversione.
BUFFONI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
BUFFONI. Credo che la formula dell’onorevole Tosato sarebbe più chiara se si dicesse: «non hanno più efficacia».
PRESIDENTE. Onorevole Tosato, vuol esprimere il parere della Commissione sulla proposta dell’onorevole Buffoni?
TOSATO. Se si adottasse la formula suggerita dall’onorevole Buffoni: «non hanno più efficacia», ciò significherebbe che la mancanza di efficacia interverrebbe dal momento soltanto in cui non si è avverato il fatto della conversione. Il che vuol dire che durante tutto il periodo sino a che questo fatto non si avveri, i decreti legge restano in piedi. Invece io volevo stabilire la responsabilità del Governo, metterlo di fronte a questa responsabilità. Il Governo emana un decreto legge d’urgenza, ed il decreto ha il suo effetto. Ma si tratta di un effetto provvisorio, condizionato ad un avvenimento, la conversione in legge. E se questa non avviene, tutti gli effetti vengono annullati, con gravi conseguenze, che certamente indurranno il Governo a ben valutare i decreti legge da emanarsi d’urgenza.
TARGETTI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
TARGETTI. Propongo un altro emendamento, nel senso che si cominci con le parole:
«Non possono emanarsi decreti aventi valore legislativo se non in casi di assoluta necessità».
Le ragioni di questa modificazione sono chiare e non hanno bisogno d’illustrazione. Siamo in una Repubblica che vogliamo sia parlamentare. Non v’è ragione d’indicare che è il Presidente della Repubblica che ha questo potere. L’intervento del Presidente della Repubblica è necessario, nel caso in esame, come per qualsiasi legge. Se si dice «il Presidente della Repubblica ecc.» si mette il Presidente, almeno in apparenza, in una posizione che può dare l’impressione di un potere diverso da quello che egli ha. E ciò si farebbe proprio per i decreti legge! In realtà poi è il Governo che li prepara e, ripeto, l’intervento del Presidente della Repubblica non è diverso da quello che si verifica per ogni legge.
LUCIFERO. Ma in questo caso è lui che decide!
TARGETTI. Se il Presidente della Repubblica non interviene ad emanarla, la legge rimane nel Gabinetto del Presidente del Consiglio. Non vi è, dunque, differenza.
SICIGNANO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SICIGNANO. La seconda parte del primo comma concordato suona così:
«In tali casi le Camere, anche se sciolte, sono appositamente convocate e devono riunirsi entro cinque giorni».
Io proporrei che si dicesse invece:
«Le Camere devono riunirsi immediatamente e comunque non oltre cinque giorni», perché vi potrebbe essere il caso che il Governo, abusando di questa facoltà, in cinque giorni crei il fatto compiuto che non possa più essere corretto:
COSTANTINI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
COSTANTINI. Non ho che poche osservazioni da fare a quanto è stato detto e le faccio a titolo puramente personale. Mi dichiaro perfettamente d’accordo, in linea di principio, con la tesi sostenuta così brillantemente e con tanto calore dall’onorevole Lucifero, ma devo, adeguandomi alla realtà della vita quotidiana, riconoscere che il Governo non può governare, soprattutto nei periodi di vacanza parlamentare, se non gli si accorda la facoltà di emettere dei provvedimenti aventi, in linea provvisoria, valore di legge. Ma a questo punto io faccio una osservazione, dico cioè: possono essere sufficienti cinque giorni dall’emanazione del provvedimento legislativo, chiamiamolo pure decreto legislativo, per la convocazione della Camera?
Una voce al centro. C’è l’aereo.
COSTANTINI. Sì, ma bisognerebbe che ogni deputato avesse l’aereo a disposizione, e che i deputati avessero quella libertà che normalmente non hanno perché ognuno è occupato da interessi, da cure, da professioni.
Piuttosto, riconosciuta in linea di principio ed in via eccezionale la facoltà al Governo di emettere provvedimenti di urgenza, non sono tanto i cinque o i sette giorni che contano, quanto di avere a disposizione, sollecitamente, ed in linea di normalità, il numero necessario di deputati per poter ratificare il provvedimento.
Ed allora, anziché cinque, concediamo dieci giorni ed abbiamo per lo meno maggiore speranza che entro questo termine i signori deputati, adeguandosi alle necessità, si convochino a Roma. Ecco perché io propongo di prolungare il termine di con vocazione della Camera almeno a dieci giorni; il che non muta il carattere di eccezionalità del provvedimento, ma consente di contare sul numero maggiore possibile di deputati presenti per la ratifica del provvedimento che interesserà il Governo ed il Paese.
FABBRI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
FABBRI. Faccio una dichiarazione brevissima, cioè che voterò contro l’istituto del decreto-legge perché ritengo che il rimedio del suo regolamento sia peggiore del male. Il regolamento è quasi sempre una autorizzazione preventiva che diminuisce la responsabilità a cui si va incontro dal potere esecutivo ricorrendo al decreto-legge. Qualora però la maggioranza della Camera non fosse della mia opinione, come credo, io mi permetterei di suggerire che forse il concetto intorno al quale si sono dibattute varie formule le più diverse, potrebbe essere concretato con le parole: «Gli effetti provvisori del decreto-legge non conservano efficacia se, ecc. ecc.». Allora risulterebbe chiaro il doppio criterio che il decreto legge ha un effetto provvisorio ma che questo viene revocato ex tunc se il decreto non è ratificato.
NOBILE. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
NOBILE. In generale sono contrario alla facoltà del Governo di emanare decreti-legge. Però, dato che l’Assemblea deciderà che questa facoltà sia data, a me sembra che in un caso almeno non si dovrebbe mai concedere, vale a dire allorquando le Camere sono aperte, tranne che si tratti di provvedimenti di carattere tributario; ma per tutti gli altri provvedimenti troverei molto strano che, mentre siedono la Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica, il Governo emanasse un provvedimento legislativo sul quale le Assemblee stesse potrebbero d’urgenza deliberare.
È in tal senso che, in via subordinata, desidero sia emendata l’aggiunta che si propone all’articolo 74.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. La discussione, per cui la Camera dimostra interesse, è discussione tecnica ed è difficile farla in un numero molto grande di persone. Cerchiamo di concludere. Lo spirito del testo è questo: che le Camere sono appositamente convocate e devono riunirsi entro cinque giorni. Non mi sembra che l’emendamento Sicignano aggiunga nulla al senso di rapidità e di immediatezza, che dà il testo del Comitato. Potremo, in sede di revisione, modificare qualche espressione, ma non qui, improvvisando. Noi vogliamo, in sostanza, e non possiamo non essere tutti d’accordo, che il Governo presenti alle Camere il decreto-legge il giorno stesso dell’emanazione. Se le Camere non seggono, lo trasmetterà alle loro Presidenze. E poi i casi sono tre: o le Camere seggono già, e sono senz’altro investite dell’esame del decreto-legge. O sono in vacanza, e vengono appositamente convocate entro cinque giorni. O sono sciolte, ed anche in tal caso ha luogo l’immediata convocazione. Vedremo come si potrà dire tutto ciò, senza prolissità, ma con chiarezza.
Quanto all’osservazione dell’onorevole Nobile, osservo che la Camera può essere già convocata, ma il Governo può egualmente sentire la necessità di emettere un decreto-legge, quando vi siano esigenze di segretezza, che non sarebbero rispettate se il provvedimento dovesse discutersi dalle Camere prima di entrare in vigore.
Quanto all’osservazione dell’onorevole Targetti sarei disposto ad accettarla. Così si elimina ogni questione se si debba parlare di Governo o di Capo dello Stato. Sta di fatto che, come è nel nostro ordinamento costituzionale, il Governo decide ed assume la responsabilità; l’atto del Capo dello Stato è la forma, con cui si esplica tutto ciò; (senza volere escludere l’opera di persuasione e di moderazione che il Capo dello Stato può compiere, ed è nel suo ufficio, nei confronti del Governo, è questo in sostanza che agisce). La formulazione Targetti ha il vantaggio di apparire più drastica nella negazione iniziale dei decreti-legge se non nei casi di necessità ed urgenza, eccetera. Si aggiunga che questo articolo si connetterebbe, anche formalmente, meglio con l’antecedente, che dice: «la funzione legislativa non può essere delegata al Governo se non…». Il caso dei decreti-legge sarebbe ora regolato a sé, ma quasi in parallelo. Sentiti anche altri colleghi del Comitato, accetto l’emendamento Targetti, salvo sempre revisione finale.
COSTANTINI. Circa il termine da me proposto?
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Credo che bisognerebbe rimanere a cinque. Anche se le Camere sono sciolte, con i mezzi attuali di comunicazione i deputati possono avere la possibilità di convocarsi in cinque giorni; mentre se stabiliamo dieci giorni, lasciamo una pausa di arbitrio al Governo.
PRESIDENTE. Dobbiamo passare alla votazione.
La proposta formulata dall’onorevole Crispo s’intende decaduta, data l’assenza del proponente, e così quella dell’onorevole Bozzi, perché egli aderisce al testo formulato dalla Commissione.
Così dicasi per la proposta dell’onorevole Codacci Pisanelli, salvo le proposte che egli ha fatte e che la Commissione ha in parte accettate.
L’onorevole Persico aderisce al testo della Commissione, salvo la modifica del termine da sessanta in trenta giorni.
L’onorevole Mortati, in definitiva, accoglie la formula della Commissione.
Resta allora la formula della Commissione, coi vari emendamenti presentati nel corso di questa seduta e svolti dai rispettivi proponenti.
La prima parte del primo comma del testo della Commissione è del seguente tenore:
«Il Presidente della Repubblica non può emanare decreti aventi valore legislativo, deliberati dal Governo, se non in casi straordinari di assoluta urgente necessità».
L’onorevole Targetti ha presentato la seguente proposta, accettata dalla Commissione:
«Non si possono emanare decreti aventi valore legislativo se non in casi di assoluta necessità».
L’onorevole Codacci Pisanelli ha proposto di sostituire alle parole «valore legislativo» le parole «valore di legge ordinaria» e mi pare che l’onorevole Ruini abbia dichiarato di accettare questa modificazione. Quindi la formulazione del primo comma cogli emendamenti suddetti è del seguente tenore:
«Non si possono emanare decreti, aventi valore di leggi ordinarie, se non in casi straordinari di assoluta urgente necessità.»
BOZZI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
BOZZI. Io aderisco alla proposta dell’onorevole Targetti, purché all’articolo 83 – sui poteri del Presidente della Repubblica – che dovremo esaminare, al secondo comma si dica…
PRESIDENTE. Onorevole Bozzi, non possiamo impegnarci adesso sulla formulazione degli articoli da esaminare.
BOZZI. Allora sono contrario alla proposta Targetti: mi pare che essa risolva il problema come lo risolve lo struzzo, mettendosi la testa sotto le ali.
L’onorevole Ruini sa che vi è stata una discussione sul punto se debba essere il Governo o il Presidente della Repubblica ad emanare il decreto legge. Usare una espressione come quella proposta dall’onorevole Targetti significa eludere il problema.
Se siamo nell’intesa – per il valore che queste intese possono avere – che, quando si tratterà dell’articolo 83, diremo che il Presidente della Repubblica promulga le leggi ed emana i decreti legislativi ed i decreti legge, allora s’intende che questo è un potere del Presidente della Repubblica e potremo adottare la formula Targetti; altrimenti insisto nella formula: «il Presidente della Repubblica…»; per la chiarezza dobbiamo dire chi deve fare questo decreto legge.
Trovo esatto il concetto espresso dall’onorevole Codacci Pisanelli che la materia costituzionale deve essere esclusa dalla sfera della decretazione d’urgenza. Ma non adotterei la forma proposta la quale dice: «non possono essere emanati decretilegge in materia ordinaria, se non nei casi… ecc.». Sembra che il Governo non possa fare i decreti in materia ordinaria, ma gli altri sì.
UBERTI. Quali altri?
BOZZI. Quelli in materia costituzionale; proprio quelli che si vogliono escludere!
Siccome la disciplina della materia costituzionale ha tutto un titolo a sé, mi pare inutile parlarne.
COLITTO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
COLITTO. Propongo che si voti per divisione, separando la parola «legge» dalla parola «ordinaria».
Quando nella norma in esame si parla di legge, non si tiene conto che della sua efficacia, della sua obbligatorietà. Ora io non intendo quale differenza esista fra l’obbligatorietà della legge ordinaria e quella della legge straordinaria. Per cui penso che la parola «ordinaria» debba essere eliminata.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ripeto che il significato della proposta fatta dall’onorevole Codacci Pisanelli è che non si possono con decreto di urgenza toccare le leggi costituzionali. In questo senso, e salvo la solita revisione di forma, la credo accettabile.
FABBRI. Escluso lo stato d’assedio?
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Di questo potremo parlare in seguito, come ha proposto in Comitato l’onorevole Mortati. Non è facile, del resto, fare una determinazione lessicale dei casi di ammissione, e anche di esclusione tassativa, dei decreti-legge.
Le proposte dell’onorevole Bozzi meritano attenzione; ma non sembra che si debba entrare nell’attuale articolo in precisazioni, che risultano da altre disposizioni costituzionali sulla posizione del Capo dello Stato, che emette formalmente i provvedimenti, e del Governo che ne è responsabile. Potremo vedere se, dove l’articolo 82 dice che il Capo dello Stato emana i decreti legislativi, sia anche da aggiungere «e i decreti-legge». Ma non si può metterlo nell’articolo che ora esaminiamo.
PRESIDENTE. Onorevole Colitto, lei conserva la richiesta di votazione per divisione?
COLITTO. Sì, la conservo.
PRESIDENTE. Allora pongo in votazione la prima parte del primo periodo, che è del seguente tenore:
«Non si possono emanare decreti aventi valore di legge».
(È approvata).
Pongo in votazione ora la parola:
«ordinaria».
(Dopo prova e controprova, è approvata).
Pongo ora in votazione la seconda parte di questo primo periodo:
«se non in casi straordinari di assoluta urgente necessità».
(È approvata).
La seconda parte del primo comma del testo della Commissione era del seguente tenore:
«In tali casi le Camere, anche se sciolte, sono appositamente convocate e debbono riunirsi entro cinque giorni».
A questa parte vi è il seguente emendamento dell’onorevole Sicignano: «In tali casi le Camere devono riunirsi immediatamente e comunque non oltre cinque giorni». Vi è poi la proposta dell’onorevole Costantini di elevare i giorni da cinque a dieci.
Pongo in votazione la formulazione seguente, con l’emendamento dell’onorevole Sicignano:
«In tali casi le Camere debbono immediatamente riunirsi o, se sciolte, sono appositamente convocate».
(Dopo prova e controprova, non è approvata).
Pongo in votazione la formula originale della Commissione:
«In tali casi le Camere, anche se sciolte, sono appositamente convocate».
(È approvata).
Pongo in votazione, con l’emendamento Costantini, le seguenti parole:
«e debbono riunirsi entro 10 giorni».
(Non sono approvate).
Pongo in votazione le corrispondenti parole nel testo della Commissione:
«e debbono riunirsi entro cinque giorni».
(Sono approvate).
Passiamo all’ultimo comma. Il testo originario della Commissione era il seguente:
«I decreti perdono di efficacia se non sono convertiti in legge e pubblicati entro sessanta giorni».
L’onorevole Tosato propone che si dica nella prima parte:
«I decreti non hanno efficacia se non sono convertiti in legge».
Pongo in votazione questa formula.
COLITTO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
COLITTO. Voterò contro questa formulazione perché non vi è dubbio, a mio modesto avviso, che, una volta emanato, il decreto-legge ha efficacia. Tale efficacia si può perdere, e la si può perdere ex tunc ovvero ex nunc, ma non può disconoscersi che il decreto ha efficacia nel momento in cui viene emanato.
CODACCI PISANELLI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CODACCI PISANELLI. Anche io sono contrario alla formulazione proposta dall’onorevole Tosato, perché va contro la stessa idea del proponente. In questa maniera, i decreti legge non avrebbero efficacia perché il magistrato, o chi li applica, dovrebbe attendere questa conversione. Se ammettiamo che i decreti non hanno efficacia se non sono convertiti in legge, l’efficacia è condizionata in maniera tale che giustamente la si può negare se non sia intervenuta la conversione.
Di questo io mi preoccupo, e quindi resto fedele al testo della Commissione che mi pare più preciso e non dà luogo a divergenze di interpretazioni.
FABBRI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
FABBRI. Ricordo che ho proposto la seguente mia formula:
«Gli effetti provvisori dei decreti non conservano efficacia se non sono ecc.».
PRESIDENTE. Porrò in votazione la prima formula con l’emendamento dell’onorevole Tosato e poi con l’emendamento dell’onorevole Fabbri.
GRONCHI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
GRONCHI. Vorrei proporre una formula sodisfacente per tutti, che potrebbe essere questa:
«I decreti sono da considerarsi senza efficacia quando non vengano convertiti in legge entro sessanta giorni». (Commenti).
PRESIDENTE. Onorevole Tosato, aderisce alla formulazione dell’onorevole Gronchi?
TOSATO. Conservo la mia.
PRESIDENTE. Pongo in votazione la prima parte del secondo comma nella formulazione dell’onorevole Tosato:
«I decreti non hanno efficacia se non sono convertiti in legge».
(Non è approvata).
MORO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MORO. Siccome mi pare che queste votazioni si stanno facendo non sulla sostanza, ma sulla forma, per cui taluni ammettono la perdita di efficacia retroattivamente, ma adottano una formula non chiara, io proporrei di votare il concetto, poi il Comitato di coordinamento adotterà i termini più appropriati per esprimerlo.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Concordo.
PRESIDENTE. Se ciò corrisponde al pensiero dei colleghi, il problema si risolve votando una qualunque delle formule proposte. (Commenti).
TOSATO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
TOSATO. Credo che si potrebbe votare la formulazione: «I decreti perdono efficacia con effetto retroattivo se non sono ecc.», e poi si troverà una formula più esatta.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. In una gara così improvvisata di formulazioni, vi è il pericolo che esse diano luogo ad incertezze di interpretazione. Il punto in discussione è se il provvedimento non convertito in legge perda efficacia ex tunc o ex nunc; dal momento stesso in cui fu emanato, o dal momento nel quale venne rigettato dalle Camere. Questo è il punto essenziale, su cui è bene pronunciarsi. Resta poi inteso – desidero ripeterlo esplicitamente – che la revoca ex tunc non significa che tutti i rapporti posti in essere e tutti gli atti compiuti nel periodo intermedio debbano senza altro cadere nel nulla. Le Camere, nel momento stesso della reiezione, potranno deliberare al riguardo, e provvedere secondo i casi.
COSTANTINI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
COSTANTINI. Mi sembra implicito che i decreti debbono perdere l’efficacia fin dall’origine.
PRESIDENTE. Noi però, non siamo più in tema di discussione, siamo ora in tema di votazione. Il suo pensiero, onorevole Costantini, lei lo potrà manifestare votando una formula.
NOBILE. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
NOBILE. Si dice che un decreto debba venir considerato nullo fin dal principio. Sta bene. Ma, allora, domando: nel caso di un decreto che abbia raddoppiato il prezzo dei tabacchi che cosa si dovrà fare? Restituire ai fumatori il danaro pagato in più?
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ma, a prescindere che non occorre una legge, le Camere potrebbero decidere che il prezzo aumentato delle sigarette non si dovesse restituire.
PRESIDENTE. In ogni modo, l’Assemblea Costituente non può decidere anche su queste singole questioni.
Onorevoli colleghi, vorrei pregare i presentatori dei vari emendamenti, ciascuno dei quali ha cercato di rendere in modo più evidente lo stesso concetto, di accogliere le dichiarazioni fatte dall’onorevole Presidente della Commissione per la Costituzione, accettando la formulazione che la Commissione stessa adotterà, tale da rendere inequivocabile il concetto. Sono d’accordo su questo i presentatori dei vari emendamenti?
COSTANTINI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
COSTANTINI. Ho sentito l’onorevole Presidente della Commissione per la Costituzione chiedere che la Camera discuta se la perdita di efficacia del decreto legislativo avrà valore dal momento della declaratoria parlamentare di inefficacia o dal momento della pronuncia del provvedimento provvisorio. Vorrei sentire il pensiero dell’onorevole Presidente della Commissione a questo riguardo.
PRESIDENTE. L’onorevole Ruini ha già chiaramente detto che il concetto della Commissione è per l’appunto che i decreti perdano efficacia dal momento della loro emanazione. Votiamo ora sul testo della Commissione, restando inteso che esso significa che questi decreti perdono di efficacia fin dall’inizio. Coloro i quali ritengono che questa perdita di efficacia debba aver luogo soltanto dal momento in cui le Camere si sono pronunciate, voteranno contro la formulazione della Commissione.
CODACCI PISANELLI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CODACCI PISANELLI. Dichiaro che voterò contro perché ritengo che dalla retroattività deriveranno molti inconvenienti pratici, che indurranno le Camere a convertire sempre i provvedimenti, per evitare conseguenze troppo gravi.
PRESIDENTE. Pongo in votazione la seguente formulazione, salvo coordinamento:
«I decreti perdono efficacia se non sono convertiti in legge».
Ricordo all’onorevole Ruini l’impegno preso di trovare una formulazione più comprensiva ed esplicita.
Seguono le parole:
«e pubblicati entro 60 giorni».
Vi sono due emendamenti: l’emendamento Persico, che propone di ridurre i 60 giorni a 30 giorni e l’emendamento Perassi, che propone di sopprimere la parola «pubblicati».
Pongo in votazione la prima formulazione con l’emendamento dell’onorevole Persico:
«e pubblicati entro trenta giorni».
(Dopo prova e controprova, e votazione per divisione, non è approvata).
Pongo ora in votazione la proposta della Commissione:
«e pubblicati entro sessanta giorni».
(È approvata).
Vi è ora la proposta dell’onorevole Perassi di sopprimere le parole: «e pubblicati».
La pongo in votazione.
MORTATI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto..
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MORTATI. Dichiaro che voterò contro la proposta di sopprimere le parole «e pubblicati», perché mi pare che anche la pubblicazione entro sessanta giorni giovi alla certezza della norma.
PRESIDENTE. Sta bene. Pongo in votazione la proposta dell’onorevole Perassi di sopprimere le parole: «e pubblicati».
(Non è approvata).
L’articolo 74-bis risulta approvato nel seguente testo:
«Non si possono emanare decreti aventi valore di legge ordinaria se non in casi straordinari di assoluta urgente necessità. In tali casi le Camere, anche se sciolte, sono appositamente convocate e debbono riunirsi entro cinque giorni.
«I decreti perdono efficacia se non sono convertiti in legge e pubblicati entro sessanta giorni».
Resta inteso che la Commissione studierà una forma più idonea da darsi alla frase: «perdono efficacia, ecc.».
Passiamo all’esame dell’articolo 75. Se ne dia lettura.
DE VITA, Segretario, legge:
«Spetta all’Assemblea Nazionale deliberare la mobilitazione generale e l’entrata in guerra.
«L’amnistia e l’indulto sono deliberati dall’Assemblea Nazionale».
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, si potrebbe osservare che, poiché questo articolo riguarda l’Assemblea Nazionale, sarebbe opportuno o necessario soprassedere alla discussione. Ma poiché vi sono emendamenti i quali, senza porre la questione dell’Assemblea Nazionale, propongono che spetti alle Camere riunite deliberare, chiedo se non sia opportuno esaminare senz’altro questo articolo.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Credo sia meglio rinviare al tema dell’Assemblea Nazionale. Infatti, ora si potrebbe votare soltanto che è sottratta al Governo la competenza di deliberare sopra la guerra e l’amnistia. Sarebbe un concetto vago; quindi è meglio rimandare insieme agli altri articoli.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. Passiamo all’articolo 76. Se ne dia lettura.
DE VITA, Segretario, legge:
«Le due Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali di natura politica o d’arbitrato e regolamento giudiziario, e di quelli che importano variazioni del territorio nazionale, oneri alle finanze o modificazioni di leggi».
A questo articolo l’onorevole Perassi ha presentato il seguente emendamento:
«Alle parole: trattati internazionali di natura politica o di arbitrato e regolamento giudiziario, sostituire le seguenti: trattati internazionali di materia politica, di arbitrato e regolamento giudiziario; ed alle parole: territorio nazionale, sostituire le seguenti: territorio della Repubblica».
Ha facoltà di svolgerlo.
PERASSI. È una pura questione di forma, e perciò rinuncio a svolgerlo.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Il Comitato accetta l’emendamento Perassi.
PRESIDENTE. L’onorevole Colitto ha presentato il seguente emendamento:
«Sostituire alle parole: territorio nazionale, le parole: territorio dello Stato».
Ha facoltà di svolgerlo.
COLITTO. Ho chiesto solo di sostituire alle parole «territorio nazionale» le parole «territorio dello Stato», e rinuncio a svolgere l’emendamento.
PRESIDENTE. Qual è il parere della Commissione?
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Avendo già accolto l’emendamento dell’onorevole Perassi, che parla di territorio della Repubblica, implicitamente è accolto anche quello dell’onorevole Colitto.
COLITTO. Appunto perciò non insisto.
PRESIDENTE. Pongo in votazione il testo dell’articolo, inserendovi l’emendamento dell’onorevole Perassi.
«Le due Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali di materia politica, di arbitrato o regolamento giudiziario, e di quelli che importano variazioni del territorio della Repubblica, oneri alle finanze o modificazioni di leggi».
(È approvato).
Passiamo all’articolo 77. Se ne dia lettura.
DE VITA, Segretario, legge:
«Le Camere approvano ogni anno il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo.
«L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso che per legge, una sola volta, e per un periodo non superiore a quattro mesi.
«Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.
«In ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese devono essere indicati i mezzi per farvi fronte».
PRESIDENTE. L’onorevole De Vita ha presentato il seguente emendamento:
«Sostituire l’articolo 77 col seguente:
«Le Camere votano ogni anno il bilancio e il rendiconto presentati dal Governo.
«Il bilancio, con gli eventuali emendamenti sia in ordine alla spesa, che ai mezzi destinati a coprirla, è approvato a maggioranza di due terzi.
«Nessun disegno di legge, che importi nuove o maggiori spese, può essere presentato al Parlamento se non è accompagnato da un corrispondente disegno di legge relativo ai mezzi atti a coprire le spese stesse.
«Il bilancio è unico e comprende i bilanci dei vari enti autonomi.
«L’unità fondamentale del bilancio è il capitolo. Ogni capitolo riguarda un determinato servizio o un distinto cespite d’entrata.
«L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso che per legge, una sola volta, e per un periodo non superiore a quattro mesi».
L’onorevole De Vita ha facoltà di svolgere il suo emendamento.
DE VITA. Onorevoli colleghi, la dottrina e la prassi finanziaria dominanti poggiano ancora oggi sulla concezione dell’assolutismo. I trattati più recenti di scienza delle finanze dànno spesso l’impressione di una specie di commentario della celebre regola di sapienza: tutto per il popolo, nulla mediante il popolo.
Può valere come esempio lo spazio minimo che di solito è dedicato alla trattazione dell’importantissimo problema dell’approvazione dei bilanci e delle leggi di imposta.
Credo di non esagerare se affermo che l’odierno sistema di approvazione del bilancio e delle leggi tributarie può tutto al più considerarsi come il timido inizio di un sistema parlamentare e veramente democratico; ma soltanto un inizio, perché attualmente le decisioni dei Governi e dei Parlamenti vanno regolarmente contro una più o meno grande parte della nazione, ciò che equivale ad un sopraccarico tributario di questa parte.
Bisogna rendersi esatto conto di questa circostanza, ed invece di attendere soccorso da dottrine finanziarie ormai sorpassate, risolvere il problema dell’approvazione delle imposte e del bilancio in uno spirito di progresso e di sviluppo.
Io ritengo, onorevoli colleghi, che bisogna indirizzare quel movimento che ha diretto la storia politica del nostro secolo e che invano si è cercato di frenare; quel movimento che è il progredire continuo della vita pubblica verso forme sempre più parlamentari e democratiche.
Se noi adottassimo ancora i sistemi finanziari fino ad oggi seguiti, insufficienti a confronto dello sviluppo odierno della vita politica; se noi sostituissimo al giogo delle oligarchie nemiche della libertà, della pace e della libera discussione, la tirannia non meno odiosa di una maggioranza parlamentare, anche occasionale, noi porremmo quel movimento in contrasto con lo spirito che l’ha creato.
Onorevoli colleghi, la questione può sembrare teorica e priva d’importanza pratica e politica.
Per convincervi del contrario, richiamo la vostra attenzione sul fatto che, nell’attività legislativa ordinaria, si hanno di continuo dei casi in cui oltre due soluzioni opposte è possibile trovare una soluzione intermedia. Così, quando si tratta di vietare o permettere un’azione, non è possibile trovare una soluzione intermedia. È naturale che in questo caso la deliberazione a maggioranza semplice debba costituire la regola. Per quanto riguarda invece, la legislazione tributaria e l’approvazione del bilancio, questo dilemma non esiste quasi mai.
Il punto saliente che fino ad oggi non ha ricevuto l’attenzione che merita, è il fatto che non esiste una ripartizione delle imposte che sia rigida e determinata a priori o addirittura indipendente dall’approvazione delle spese. È vero piuttosto che esistono centinaia di modi di ripartire fra le varie classi sociali i costi di una determinata spesa pubblica. Sarà quindi sempre possibile teoricamente e, in modo approssimativo, anche praticamente, di ripartire il carico tributario in modo che la spesa sia riconosciuta utile da quasi tutti i partiti.
Ora, se questo è l’aspetto politico della questione, v’è anche un altro aspetto, quello scientifico.
È stato già approvato un articolo il quale sancisce il principio della progressività delle imposte. Fra il principio dell’eguaglianza o della proporzionalità della prestazione e controprestazione, e il principio dell’eguaglianza o proporzionalità del sacrificio, in altri termini tra il principio dell’interesse e il principio della capacità contributiva, è stato preferito quest’ultimo.
L’affermazione di questo principio era inevitabile, perché il principio della prestazione e della controprestazione, il principio dell’interesse, è stato ricacciato sempre più indietro dal progredire della vita sociale, mentre si è fatto strada il principio della capacità contributiva, sia pure attraverso numerose difficoltà dovute anche alla molteplicità, relatività e mutabilità del concetto stesso di giustizia.
Ma il principio dell’eguaglianza del sacrificio non è da solo sufficiente a risolvere il duplice problema della ripartizione delle imposte e dell’altezza concreta delle imposte. Nonostante tutta la sua impraticità, il principio dell’interesse ha il pregio di mantenere un certo contatto con l’altro aspetto dell’attività dello Stato: quello della spesa. Infatti, potrebbe il principio della capacità fornirci un criterio per stabilire l’altezza delle imposte? Non mi pare. Questo principio potrà soltanto dirci come le imposte debbano essere ripartite.
Ecco il dilemma: o scartare del tutto il problema dell’altezza concreta dell’imposta – cosa molto comoda, ma a mio avviso poco scientifica – ovvero ricorrere all’altro principio, quello dell’interesse, ogni qual volta si voglia determinare l’altezza concreta delle imposte. È probabile che l’attività dello Stato, presa nel suo complesso, fornisca una utilità che sia di gran lunga superiore al sacrificio richiesto alla collettività. Ma si deve arrivare al punto in cui l’utilità sia eguale al sacrificio.
Ma è da rilevare un altro aspetto assai importante della questione, e cioè che le classi politicamente più influenti considerano le spese pubbliche esclusivamente o quasi esclusivamente dal loro punto di vista ed è probabile, anche se il carico tributario sia ripartito non in modo uniforme, ma secondo il principio della progressività dell’imposta, che il beneficio che dall’attività dello Stato riceve una determinata classe dei cittadini, non sia proporzionale al sacrificio ad’essa imposto. Ecco perché non si può negare importanza al fatto che una determinata spesa pubblica vada a benefìcio di una categoria di individui anziché di un’altra.
È possibile stabilire un rapporto fra il sacrificio derivante dalle imposte e l’utilità derivante dall’attività dello Stato?
È possibile evitare che le spese pubbliche vadano a beneficio di una determinata classe di cittadini anziché di un’altra?
Questo è un punto, a mio avviso, importantissimo.
Dal punto di vista individuale, ogni cittadino, sarà disposto a pagare una determinata contribuzione qualora il beneficio derivantegli dall’attività dello Stato sia superiore o almeno eguale al sacrificio richiestogli. Ma sull’ampiezza attuale delle prestazioni pubbliche non decide la valutazione da parte di un singolo individuo, decide la valutazione di tutta intera la collettività. Come può avvenire questa valutazione? Naturalmente può avvenire soltanto attraverso la rappresentanza popolare.
Io do ragione a quegli scrittori che parlano di una specie di patteggiamento fra Governo ed Assemblee rappresentative. In questo caso si tratta di un vero e proprio patteggiamento, perché il Governo rappresenta l’offerta di determinati servigi e l’Assemblea rappresenta la domanda.
Ora, io ritengo che non vi possano essere dubbi circa la possibilità di attuare un simile sistema. Qui basta ricordare soltanto che il sistema da me proposto è in perfetta armonia col principio del sistema della rappresentanza proporzionale. Invero, che cosa ci dice il principio della rappresentanza proporzionale? Che ogni corrente politica, anche piccola, del Paese, ha diritto di avere una rappresentanza in Parlamento. Ma io mi domando quale significato, quale valore avrebbe la rappresentanza dei partiti di minoranza in questa Assemblea, se il suo diritto dovesse consistere soltanto nel protestare contro i colpi della maggioranza?
Contro l’introduzione formale di un simile istituto nella nostra Costituzione, potranno certamente essere sollevate moltissime obiezioni. Si potrà parlare del pericolo dell’ostruzionismo da parte delle minoranze. Non nego l’esistenza di questo pericolo. Ogni potere può essere abusato. Ma a mio giudizio si tratta di un pericolo che diventa tanto più piccolo quanto più si permetterà ai singoli partiti di difendere i loro interessi. Gli ostruzionismi sono l’arma della disperazione. Sono le vendette dei partiti di minoranza che vedono calpestati i loro diritti. Se questi diritti non fossero calpestati, non credo che le minoranze sentirebbero il bisogno di ricorrere all’ostruzionismo.
Onorevoli colleghi, non mi illudo che questa mia proposta troverà accoglimento in questa Assemblea. Se mai essa dovesse essere accolta, verrebbe certamente data la più forte spinta ad una riforma propugnata da circa mezzo secolo dai più grandi pensatori.
PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Codacci Pisanelli:
«Aggiungere, in fine:
«I tributi e le prestazioni di qualsiasi specie potranno essere imposti dagli enti pubblici soltanto in base a legge ordinaria, approvata dalla Camera dei deputati prima che dal Senato».
L’onorevole Codacci Pisanelli ha facoltà di svolgerlo.
CODACCI PISANELLI. L’emendamento aggiuntivo da me proposto all’articolo 77 mira a risolvere costituzionalmente uno fra i più antichi problemi che i Parlamenti siano stati chiamati ad affrontare. Si tratta di limitare la potestà di imposizione da parte degli enti pubblici, a cominciare dallo Stato.
È inutile che ricordi qui come i primi Parlamenti si siano avuti in relazione alla necessità di opporre un freno all’assolutismo, e di non ammettere tributi se non quando fossero stati riconosciuti dai rappresentanti del popolo.
Mi limito ad accennare che, trattandosi di una tra le più antiche competenze dei Parlamenti, non sarebbe inutile farne menzione. Accenno con questo emendamento a tutte le potestà d’imposizione pubblica, sia per i tributi, sia per la prestazione del servizio militare o altro. Premetto che non ritengo questa formulazione da me proposta affatto completa; penso anzi sia alquanto imperfetta. Quindi mi rimetto al Comitato e al Presidente della Commissione dei 75 per trovare una formulazione più adeguata nel caso in cui l’emendamento venga accolto. M’interessa soprattutto stabilire il principio. Oggi in Italia, per esempio, abbiamo avuto diversi esempi di esercizio del potere pubblico d’imposizione attraverso metodi diversi da quello che non sia la legge ordinaria. Ecco la ragione per cui propongo che nella Costituzione venga riconosciuto il principio secondo cui la potestà d’imposizione non può essere esercitata dagli enti pubblici se non in base a legge ordinaria. Ho detto «in base a legge ordinaria», perché mi rendo conto delle obiezioni che mi saranno fatte. Molti sono gli enti pubblici diversi dallo Stato, come le Regioni, le Provincie e i Comuni, ai quali non può disconoscersi la potestà di imposizione come la potestà di provocare una legge ordinaria ogni volta. La mia risposta è facile. Vi sarà una legge ordinaria la quale attribuirà ai diversi enti pubblici la potestà di imporre tributi determinati in modo che non vi siano sperequazioni nelle diverse parti dello Stato.
Finalmente, questo emendamento mira ad evitare un inconveniente, che si è avuto spesso in questo periodo, nella diversità del sistema seguito per imporre le diverse prestazioni. Basta che io accenni al fatto della differenza che esiste fra il sistema di accertamento relativo ai tributi normali e quello relativo ad altre prestazioni, come i contributi unificati in agricoltura. Questi contributi, accertati in maniera alquanto meno accurata di quanto avviene per i tributi fondiari, hanno oggi spesso un livello superiore a quello degli stessi tributi fondiari, uniti tutti insieme.
Ho voluto accennare a questo inconveniente, perché l’Assemblea possa riflettere sulla opportunità dell’affermazione contenuta nel mio emendamento.
Finalmente l’ultima parte stabilisce una procedura particolare col riconoscere nella Costituzione un principio già accolto: cioè la necessità che le leggi in materia tributaria, che le leggi, le quali implichino nuove prestazioni di qualunque genere, non solo di carattere pecuniario, siano proposte alla Camera dei deputati prima che al Senato.
Prevedo l’obbiezione: in questa maniera come fai ad ammettere il principio della parità delle due Assemblee legislative, da te sostenuto nei giorni scorsi?
Ritengo che questa affermazione non stabilisca affatto una preminenza della Camera dei deputati sul Senato, ma stabilisca semplicemente un sistema di procedura e che in materia così delicata – tanto delicata, che per tradizione è stata considerata una delle più antiche competenze dei Parlamenti – sia opportuno fare in modo che la Camera dei deputati (la quale sarà più numerosa ed avrà maggiori possibilità di esprimere le diverse tendenze della pubblica opinione) dia il primo parere.
D’altra parte, non penso affatto che con questo principio, di carattere puramente procedurale, resti menomata la parità fra le due Assemblee legislative; perché nessuno esclude che il Senato possa respingere la proposta fatta dalla Camera dei deputati; e nessuno stabilisce che, in caso di conflitto fra le due Assemblee, si debba giungere ad imporre la opinione della Camera dei deputati.
Non si tratta di una norma giuridica, ma semplicemente di una regola di correttezza costituzionale, dalla quale non deriva la preminenza di una Camera sull’altra.
Questo principio è costantemente rispettato e ritengo che non sia inutile riconoscerlo anche nella nostra Costituzione.
PRESIDENTE. L’onorevole Bertone ha proposto il seguente emendamento:
«Nel secondo comma sostituire le parole: una sola volta, e per un periodo non superiore a quattro mesi», con le altre: «per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi».
L’onorevole Bertone ha facoltà di svolgerlo.
BERTONE. Io concordo pienamente col pensiero della Commissione: che le autorizzazioni agli esercizi provvisori del bilancio non debbano superare i 4 mesi e che debbano essere date per legge.
Però, ritengo sia preferibile anziché dare una sola autorizzazione per quattro mesi, dare autorizzazioni per un periodo complessivo, che non superi i quattro mesi durante l’esercizio; perché si elimina l’incoraggiamento a chiedere autorizzazioni per esercizi provvisori per un tempo più lungo del necessario.
Se il Governo ha bisogno soltanto di un mese di esercizio provvisorio, chiede un mese, sapendo che, in caso di necessità, potrà chiedere un secondo mese. Ma, se esso è costretto a chiedere una volta sola, chiede quattro mesi invece di uno.
Per questo è preferibile concedere al Governo di chiedere autorizzazione ad esercizi provvisori per un tempo complessivamente non superiore a quattro mesi, non obbligarlo a chiederne una sola per quattro mesi.
PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Fuschini:
«Aggiungere al secondo comma:
«In caso di guerra l’esercizio provvisorio sarà regolato con la concessione di maggiori poteri al Governo a norma dell’articolo 75».
L’onorevole Fuschini ha facoltà di volgerlo.
FUSCHINI. Le ragioni del mio emendamento si riferiscono all’esercizio provvisorio che dovrà stabilirsi in caso di guerra. Infatti esso si dimostra, in caso di guerra, come una necessità derivante dalle condizioni in cui viene a trovarsi il Paese e non solo il Paese, ma soprattutto l’esercizio del potere parlamentare. Quindi è necessario che, alla Commissione che dovrà precisare con apposito articolo i poteri che il Parlamento potrà dare al Governo in caso di guerra, sia presente la necessità di regolare la concessione dell’esercizio provvisorio per il periodo di guerra. Ecco perché ho proposto un emendamento, il quale dice che in caso di guerra l’esercizio provvisorio sarà regolato con la concessione dei maggiori poteri che la Camera darà al Governo. Mi pare che questa misura sia così evidente, che non sia necessario intrattenere ulteriormente l’Assemblea con riferimenti di carattere storico, perché è stato sempre dimostrato che in caso di guerra non c’è la possibilità di discutere ed approvare bilanci, come avviene in periodo di pace.
PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Ruini di esprimere il parere della Commissione.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Il primo emendamento è stato proposto dall’onorevole De Vita con la sostituzione intera dell’articolo. L’onorevole De Vita, che ha dimostrato competenza e serietà di studi nel fare questa proposta ed ha palesato un desiderio di dare la maggior correttezza alla vita finanziaria dello Stato, consentirà che io gli dica che le sue osservazioni, se sono in gran parte giuste, non possono entrare nella legge costituzionale. La divisione dei capitoli in articoli – sebbene sollevi in dottrina non pochi dubbi e sebbene anche fra i competenti della contabilità sia discussa e contestata – è, a mio giudizio, un principio giusto, tanto più che nel momento attuale abbiamo per esempio un capitolo del bilancio dei lavori pubblici, che è di 58 miliardi. La divisione dei capitoli in articoli, secondo me, si impone, ma è norma di legge della contabilità di Stato e non ritengo opportuno inserirla nella Costituzione. Assicuro però l’onorevole De Vita, che il Comitato e – credo – l’Assemblea consentono nel voto che sia fra le norme contabili introdotta quella da lui desiderata.
L’articolo proposto dalla Commissione contiene due gruppi di norme.
Il primo è che i due bilanci, preventivo e consuntivo, debbano essere approvati per legge e che «l’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso che per legge, una sola volta, e per un periodo non superiore a quattro mesi». È una notevole garanzia. Dichiaro di accogliere senz’altro il saggio emendamento dell’onorevole Bertone, il quale vuol togliere la possibilità di equivoco, e che cioè l’esercizio provvisorio non possa essere chiesto ed accordato per un tempo minore di quattro mesi; il termine di quattro mesi è il limite massimo, che non può essere superato complessivamente. Formuliamo dunque il testo così:
«L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso che per legge, e per un periodo complessivamente non superiore a quattro mesi».
Tutto il resto dell’articolo, anche nella sua logica struttura, non può essere modificato. È assolutamente da respingere l’emendamento De Vita, che richiede per l’approvazione dei bilanci una maggioranza di due terzi, difficilissima a raggiungersi. Ed allora che avverrebbe, se il bilancio non fosse approvato? Si sospenderebbe la vita finanziaria dello Stato?
E veniamo all’emendamento dell’onorevole Codacci Pisanelli. Proponendo che: «i tributi e le prestazioni di qualsiasi specie potranno essere imposti dagli enti pubblici soltanto in base a legge ordinaria approvata dalla Camera dei deputati prima che dal Senato», egli fa due proposizioni che debbono essere esaminate ciascuna per sé. Non mi pare che la sua prima affermazione sia necessaria. Noi infatti abbiamo già stabilito nell’articolo 18 che «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge».
Per quanto riguarda la seconda proposizione, trovo strano che quando l’Assemblea ha affermata la parità delle Camere in tutto, escludendo ogni eccezione particolare, si voglia ora così, non dico surrettiziamente, che è una parola non corretta, ma improvvisamente creare una precedenza della Camera dei deputati sul Senato. Respingiamo dunque l’emendamento Codacci Pisanelli.
L’emendamento Fuschini merita di essere considerato, ma potrà tenersi presente quando parleremo dei poteri da concedersi al Governo in caso di guerra: si potrà allora far speciale menzione della materia finanziaria, o considerarla inclusa in un’espressione generale.
Con quello che ho detto, il testo dovrebbe rimanere fermo nella forma che è stata stilata dalla Commissione, col solo emendamento accettato dell’onorevole Bertone.
BUFFONI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
BUFFONI. Vorrei proporre la soppressione del penultimo comma dell’articolo 77, in quanto, se nella approvazione del bilancio, ad un determinato capitolo, si propone un aumento, questo non è più possibile secondo questa disposizione.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. È un’altra cosa!
BUFFONI. In Francia è con la legge del bilancio che si stabiliscono nuovi tributi.
PRESIDENTE. Allora, onorevole Buffoni, lei propone la soppressione di questo comma?
BUFFONI. Non credo che sia necessario mettere questo principio nella Costituzione.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Onorevole Buffoni, è una norma di correttezza contabile ammessa nei Paesi più ordinati, che sia tolta la possibilità di varare, confondendoli coi bilanci, omnibus di provvedimenti anche tributari. La Camera, discutendo i bilanci, potrà aumentare o diminuire le cifre dei capitoli; ma non aumentare o modificare le imposte, che sono regolate da apposite leggi, e neppure alterare le leggi generali di autorizzazione delle spese. L’aumento delle spese in bilancio dovrà avvenire nei limiti di tali leggi; se si vuole andare al di là, bisogna modificarle. Il bilancio deve essere un bilancio non diventare un’altra cosa, né prestarsi a sorprese ed abusi.
BUFFONI. Così non si potrà modificare il bilancio?
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Si potrà modificare il bilancio, nei limiti delle leggi tributarie e di autorizzazione delle spese, che si possono essi bensì modificare, ma con altre leggi. Il bilancio deve conservare il suo carattere.
BUFFONI. Tutto questo può essere una pratica opportunissima, ma credo che non sia il caso di metterlo nella Costituzione.
BERTONE. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
BERTONE. Credo che l’onorevole Buffoni sia incorso in un equivoco, perché non è che non sia ammesso, nella legge che vota il bilancio, aumentare il capitolo o diminuirlo; è vietato introdurre nuovi tributi e nuove spese che non siano state predisposte e preparate prima, secondo la procedura normale. Quando si vota il bilancio, i tributi e le spese sono stati studiati, esaminati, elaborati e vengono portati all’approvazione dell’Assemblea. Se l’Assemblea potesse introdurre nuovi tributi e spese, il bilancio salterebbe in aria e non si farebbe più nessun bilancio. Quindi, è legittima la modificazione di tutte le voci del bilancio, in più o in meno, in attivo o passivo, ma non può essere lecito introdurre nuovi tributi e nuove spese sui quali non ci sia stato il lavoro preparatorio.
PRESIDENTE. Prima di passare alla votazione chiedo ai presentatori degli emendamenti se li mantengono.
Onorevole De Vita, mantiene il suo emendamento?
DE VITA. Mantengo il mio emendamento ed affermo che le norme da me proposte non sono norme di contabilità, come ritiene l’onorevole Presidente della Commissione, ma vere e proprie norme costituzionali. Affermo altresì che il principio della specializzazione del bilancio è una conquista della moderna democrazia. Oggi la mia proposta può essere respinta, ma io sono fermamente convinto che il principio della unanimità relativa per l’approvazione del bilancio e delle leggi di imposta sarà una grande conquista della moderna democrazia.
PRESIDENTE. Onorevole Fuschini, mantiene il suo emendamento?
FUSCHINI. Dopo le dichiarazioni del Presidente della Commissione, ritiro il mio emendamento riservandomi di tenerlo presente quando ci sarà la discussione dell’articolo relativo ai poteri del Governo in caso di guerra.
PRESIDENTE. Onorevole Codacci Pisanelli, mantiene il suo emendamento?
CODACCI PISANELLI. In seguito alle dichiarazioni del Presidente della Commissione dei Settantacinque ritiro il mio emendamento in quanto risulta che il principio relativo alla impossibilità di esercitare la potestà di imposizione se non per legge, è già accolto nella nostra Costituzione. Quanto al secondo punto, cioè la precedenza nella presentazione di leggi di carattere tributario alla Camera dei deputati, è bene che non risulti nella Costituzione, perché resti consacrato il principio della parità delle due Camere, mentre a questo proposito potranno meglio provvedere le norme di correttezza costituzionale.
PRESIDENTE. Passiamo alla votazione.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Rilevo un errore di stampa. Va detto «approvano ogni anno i bilanci» e non «il bilancio» per evitare l’equivoco che si possa fare un bilancio non distinto per Ministeri.
PRESIDENTE. Passiamo alla votazione. Poiché l’onorevole De Vita mantiene il suo emendamento sostitutivo dell’intero articolo, procederemo alla votazione, tenendo presente per l’appunto il suo emendamento sostitutivo.
Il primo comma dell’emendamento dell’onorevole De Vita corrisponde al primo comma della Commissione.
Possiamo quindi mettere in votazione il testo della Commissione.
«Le Camere approvano ogni anno i bilanci e i rendiconti consuntivi presentati dal Governo». Lo pongo in votazione nella dizione testé letta.
(È approvato).
A questo punto l’onorevole De Vita propone di inserire il seguente comma:
«Il bilancio, con gli eventuali emendamenti sia in ordine alla spesa, che ai mezzi destinati a coprirla, è approvato a maggioranza di due terzi».
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Con questo emendamento si rende quasi impossibile l’approvazione del bilancio, e se lo si approva si arresta la vita dello Stato. Prego l’Assemblea di respingerlo.
PRESIDENTE. Pongo in votazione il secondo comma dell’emendamento dell’onorevole De Vita del quale ho dato testé lettura, e che la Commissione non ha accettato.
(Non è approvato).
Pongo in votazione il secondo comma del testo della Commissione, con l’emendamento Bertone, accettato dalla Commissione:
«L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso che per legge e per periodi non superiori a quattro mesi».
(È approvato).
Pongo in votazione il quarto comma aggiuntivo proposto dall’onorevole De Vita, non accettato dalla Commissione:
«Il bilancio è unico e comprende i bilanci dei vari enti autonomi».
(Non è approvato).
Pongo in votazione il quinto comma aggiuntivo dell’emendamento dell’onorevole De Vita:
«L’unità fondamentale del bilancio è il capitolo. Ogni capitolo riguarda un determinato servizio o un distinto cespite d’entrata».
La Commissione ha dichiarato di non poterlo accettare come norma costituzionale.
(Non è approvato).
Pongo in votazione il terzo comma del testo della Commissione:
«Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi nuove spese».
(È approvato).
Passiamo ora all’ultimo comma dell’articolo 77 così formulato:
«In ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese devono essere indicati i mezzi per farvi fronte».
Il terzo comma dell’emendamento dell’onorevole De Vita propone di sostituire questo comma con la seguente formula:
«Nessun disegno di legge, che importi nuove o maggiori spese, può essere presentato al Parlamento se non è accompagnato da un corrispondente disegno di legge relativo ai mezzi atti a coprire le spese stesse».
Domando all’onorevole De Vita se mantiene questo comma del suo emendamento.
DE VITA. Sì, perché oltre ad una differenza formale, vi è anche una differenza sostanziale.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Dichiaro che il Comitato respinge la proposta dell’onorevole De Vita.
CORBINO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CORBINO. Io credo che il testo della Commissione, rispetto ai fini che si propone di raggiungere l’onorevole De Vita, sia preferibile, per questa ragione: mentre l’onorevole De Vita richiede la presentazione di due disegni di legge (il che vuol dire che il Parlamento può approvare le maggiori spese senza obbligo di approvare assieme il parallelo disegno di legge sulle entrate), il progetto della Commissione importa l’obbligo dell’approvazione contemporanea delle spese e delle nuove fonti di entrate. Quindi, ai fini della salvaguardia del pubblico erario, credo che il testo della Commissione risponda meglio al desiderio che ha mosso l’onorevole De Vita, di tutelare i contribuenti nei limiti in cui questa tutela può essere esercitata dal Parlamento.
PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole De Vita se, dopo le osservazioni dell’onorevole Corbino, intende mantenere il suo emendamento.
DE VITA. Ritengo esatte le osservazioni dell’onorevole Corbino e ritiro il mio emendamento.
PRESIDENTE. Pongo pertanto in votazione l’ultimo comma dell’articolo 77, nel testo formulato dalla Commissione:
«In ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese devono essere indicati i mezzi per farvi fronte».
(È approvato).
Il testo completo dell’articolo 77 risulta così approvato:
«Le Camere approvano ogni anno i bilanci e i rendiconti consuntivi presentati dal Governo.
«L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso che per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi.
«Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.
«In ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese devono essere indicati i mezzi per farvi fronte».
Passiamo ora all’articolo 78. Se ne dia lettura.
DE VITA, Segretario, legge:
«Ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse.
«La Commissione d’inchiesta è nominata con la rappresentanza proporzionale dei vari Gruppi della Camera e svolge la sua attività procedendo agli esami e alle indagini con gli stessi poteri e limiti dell’autorità giudiziaria».
Vi è a questo articolo la proposta soppressiva dell’onorevole Colitto, il quale ha facoltà di svolgerla.
COLITTO. Onorevoli colleghi! Sarà una mia impressione, ma a me questo articolo sembra del tutto superfluo. Mi sembra, altresì, che non abbia il carattere e, starei per dire, la dignità di una norma costituzionale.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. No, onorevole Colitto; glielo dimostrerò.
COLITTO. Per me è superfluo, perché non è da dubitare che una qualsiasi materia, specie se, come nell’articolo si legge, «materia di pubblico interesse», possa formare oggetto di inchieste disposte dalle Camere, perché le Camere possono sempre disporre indagini, investigazioni, accertamenti, come li possono disporre tutte le pubbliche amministrazioni. A nessuna amministrazione pubblica si può, infatti, negare il potere in ogni materia che rientri nelle sue attribuzioni, di accertare fatti che desidera conoscere. Ed è evidente che, quando si concede ad una autorità il potere di esercitare una certa attività, le si riconosce perciò stesso anche il potere di accertare gli elementi di fatto necessari per il conveniente svolgimento dell’attività.
Ecco perché mi sembra la norma superflua. Ma mi sembra anche che non abbia questa il carattere di una norma costituzionale. Forse m’inganno; ma a dimostrare il mio assunto sembrami sufficiente il rilievo che in altre costituzioni di questo potere di inchiesta non è cenno. È perciò che propongo la soppressione dell’articolo. Può darsi benissimo, ripeto, che la mia sia un’impressione e che dalla oratoria suadente dell’onorevole Ruini mi vengano forniti gli argomenti per convincermi del contrario. È inutile dire che allora sarò pronto ad inchinarmi a lui ed a rinunziare all’emendamento.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Faccio osservare all’onorevole Colitto che, se non vi fosse questa disposizione nel primo comma, occorrerebbe una legge, mentre noi abbiamo voluto attribuire ad ogni Camera il potere di fare l’inchiesta per conto proprio. Quindi, la disposizione non è inutile.
Ciò risulta ancora più nel secondo comma, dove abbiamo detto che si procede «agli esami e alle indagini con gli stessi poteri e limiti dell’autorità giudiziaria». Se non vi fosse, come potrebbero le Camere avere questi poteri dell’autorità giudiziaria, se non per legge? La disposizione quindi ha la sua ragione d’essere.
CORBINO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CORBINO. Vorrei chiedere all’onorevole Ruini: ma, in questo modo, come si dispone l’inchiesta? Occorre un ordine del giorno della Camera o una legge particolare, caso per caso?
PRESIDENTE. L’onorevole Ruini ha facoltà di rispondere.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Il concetto – su cui si può dissentire, ma che è sembrato opportuno – è che ogni Camera possa provvedere con una deliberazione propria, senza una legge, alla quale dovrebbe partecipare anche l’altro ramo del Pagamento.
CORBINO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CORBINO. Vorrei che questa questione fosse chiarita bene, perché in sostanza, noi ammettiamo che una deliberazione interna di una delle due Camere possa disporre una inchiesta anche su materie che in linea generale sono sottoposte al potere dell’altra Camera; ecco perché un qualche cosa che metta d’accordo questi due organi mi pare che ci voglia.
PRESIDENTE. Onorevole Corbino, presenti un emendamento.
LUCIFERO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LUCIFERO. Signor Presidente, io credo che la proposta concreta non possa essere che quella dell’onorevole Colitto. Penso anche io infatti che ci voglia la legge, giacché i poteri che ha una Commissione di inchiesta, che sono gli stessi dell’autorità giudiziaria, sono talmente vasti e talmente gravi, che una Camera senza il consenso dell’altra non mi pare possa assumerseli.
Io aderisco quindi completamente all’emendamento presentato dall’onorevole Colitto; io penso cioè, che quando si debba disporre di queste inchieste, il che non potrà avvenire se non in casi gravissimi e rarissimi, si debba fare una legge al riguardo.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Desidero far presente all’onorevole Lucifero che l’opportunità di non richiedere una legge delle due Camere per un’inchiesta voluta da una Camera era stata affermata anche in passato; e si era all’uopo predisposto un disegno generale di legge, nel senso ora tracciato dalla nostra Costituzione.
UBERTI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
UBERTI. Io sono preoccupato di una formula di questo genere, cioè che una sola Camera possa deliberare, così da sostituirsi in pieno a quella che dovrebbe essere la normale procedura di un disegno di legge, senza l’esame preventivo di una Commissione. In realtà si tratterebbe di una legge di iniziativa dell’Assemblea senza le necessarie correlative procedure. Ma come si può, con una sola deliberazione parlamentare, pretendere di fare una legge?
Penso che non sia assolutamente possibile accettare la formula così come è presentata. Verremmo a conferire un potere deliberativo che non sarebbe circondato da nessuna di quelle garanzie e da nessuno di quei procedimenti che sono necessari per una legge: e cioè che essa sia prima presentata alla Camera e che poi sia esaminata da una Commissione che ne riferisca all’Assemblea.
È un sistema troppo sbrigativo, pieno di pericoli; non si può prescindere anche qui dalle tre letture, come per tutti gli altri disegni di legge; ammettere un procedimento sommario del genere può dar adito a improvvisazioni, a dar corpo a subitanei stati d’animo d’Assemblea.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Desidero far presente all’onorevole Uberti che non è vero, come egli dice, che manchino le garanzie: deve esservi una deliberazione formalmente regolare della Camera che vuol fare l’inchiesta; ed il Regolamento della Camera stabilirà le condizioni e le modalità da osservare. È poi da ricordare che un’inchiesta non è un provvedimento o una conclusione; è soltanto una raccolta di elementi e di fatti; una documentazione; e può essere ammessa senza che occorra, volta per volta, una legge vera e propria.
La questione non ha grande importanza, ma ho creduto di dover esporre le ragioni per le quali la Commissione ha ritenuto di stabilire così.
UBERTI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
UBERTI. L’onorevole Ruini dice che ci sono tutte le garanzie; ma quali garanzie? Qui basta una semplice deliberazione. Può anche trattarsi di una deliberazione su argomento non all’ordine del giorno.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ma no! Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Vi è già nel nostro Regolamento una procedura per le inchieste parlamentari. Noi potremmo fare un Regolamento che stabilisca garanzie anche maggiori; ma ripeto che l’inchiesta non è una cosa così pericolosa che debba richiedere una legge. Può essere benissimo disposta da una Camera sola, nella sua responsabilità.
Mi si chiede cosa dice l’attuale Regolamento. Dice all’articolo 135: «Le proposte per inchieste parlamentari sono equiparate a qualsivoglia altra proposta d’iniziativa parlamentare». E poi all’articolo 136: «Allorché la Camera, dopo esaurita la procedura ordinaria, delibera una inchiesta, la Commissione è nominata dalla Camera mediante schede, ecc.». Vi sono già delle garanzie; le potremmo ampliare e l’onorevole Uberti sarà completamente tranquillo.
Del resto, decidete come volete.
LUCIFERO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LUCIFERO. Chiedo scusa, ma la cosa per me è più grave di quanto l’onorevole Ruini non creda, perché le deliberazioni della Camera devono essere prese in considerazione con una certa cautela. La Camera è un organismo politico, che, come tutti gli organismi politici, ha i suoi moti e le sue reazioni.
Vorrei ricordare con quanta leggerezza deliberammo la nomina della Commissione degli Undici e di fronte a quanti inconvenienti ci trovammo perché questa deliberazione era stata presa in un modo troppo sollecito. La procedura del disegno di legge ci garantirebbe contro deliberazioni troppo affrettate, delle quali poi, molto spesso, dobbiamo portare le conseguenze.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Non era nemmeno un’inchiesta.
LUCIFERO. Figuratevi, se deliberavamo un’inchiesta!
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Volevo far presente che attualmente la Camera può fare delle inchieste, può costituire delle Commissioni, in virtù degli articoli di cui ho dato lettura.
Ora, non c’è niente di straordinario che noi mettiamo questo nella Costituzione, per superare la difficoltà che, quando si tratta di poteri giudiziari, si debba richiedere una legge.
Questa è la portata del provvedimento; e lei che conosce i precedenti, onorevole Lucifero, sa che fu studiato altre volte e si decise perciò di includere questo provvedimento nella Costituzione. Io non trovo, quindi, nessuna difficoltà. Inchiesta significa accertamento di notizie, e non è quindi niente che possa pregiudicare delle decisioni. Se sopprimete questo inciso, lasciate un’incertezza, che è invece opportuno togliere.
Ripeto che la questione non ha grande importanza e il peggio è che perdiamo del tempo a discuterla.
Se l’Assemblea ritiene, potremmo dire così: «Ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse, a maggioranza assoluta».
Questa sarebbe una garanzia notevole.
UBERTI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
UBERTI. Proporrei che fosse emendato in questo modo: che prima di deliberare si dovessero seguire le norme dei disegni di legge, nel senso che, prima di decidere, una Commissione della Camera, che esamina il problema, riferisca all’Assemblea.
Io capisco quello che lei dice, onorevole Ruini, che cioè una Camera altrimenti non può decidere perché si sovrappone all’altra. Ma quello che mi preoccupa è questo: che ci siano le sufficienti garanzie, cioè che non basti una semplice deliberazione per costituire una Commissione d’inchiesta che ha anche poteri d’indagini giudiziarie.
PRESIDENTE. Passiamo alla votazione. Pongo in votazione il primo comma:
«Ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse».
(È approvato).
Pongo in votazione il secondo comma:
«La Commissione d’inchiesta è nominata con la rappresentanza proporzionale dei vari gruppi della Camera e svolge la sua attività procedendo agli esami e alle indagini con gli stessi poteri e limiti dell’autorità giudiziaria».
(È approvato).
L’articolo 78 risulta così approvato nel testo della Commissione.
L’onorevole Calamandrei ha proposto il seguente articolo 78-bis:
«Ciascuna Camera è giudice delle accuse mosse nel Parlamento alla onorabilità dei suoi componenti. Non si può addivenire alla discussione e deliberazione pubblica su tali accuse, se prima non si sia pronunciata su di esse, a richiesta degli interessati o anche di ufficio, una apposita Commissione permanente, la quale indaga sulla fondatezza delle medesime e ne riferisce alla Camera per gli opportuni provvedimenti».
L’onorevole Calamandrei non è presente.
NOBILE. Signor Presidente, lo faccio mio e rinuncio a svolgerlo.
PRESIDENTE. Invito l’onorevole Ruini ad esprimere il pensiero della Commissione sull’articolo aggiuntivo proposto dell’onorevole Calamandrei e fatto proprio dall’onorevole Nobile.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Il Comitato ritiene che il concetto che si vorrebbe regolare dall’articolo 78-bis della Costituzione va più opportunamente considerato dal punto di vista del Regolamento delle Camere. L’attuale Regolamento già prevede il diritto di chi è fatto oggetto di accuse di chiedere una inchiesta a suo riguardo. Potremo in sede di Regolamento allargare tale disposizione; e stabilire che l’indagine può essere chiesta anche da altri, e potremo, se parrà opportuno, costituire una Commissione permanente per questi giudizi, che l’articolo Calamandrei configura come giudizi di onorabilità.
Quanto alla dizione proposta, dovrebbe essere in ogni caso ben considerata: cosa vuol dire precisamente la frase iniziale che «la Camera è giudice»? E quali sono «i provvedimenti» che si possono prendere?
A prescindere da ciò, ritorno al criterio di opportunità che il tema non sia trattato qui, ma rimesso al Regolamento.
PRESIDENTE. Onorevole Nobile, mantiene l’emendamento?
NOBILE. Dopo le dichiarazioni dell’onorevole Ruini, lo ritiro.
LUSSU. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LUSSU. Avrei fatto mio anche io l’emendamento dell’onorevole Calamandrei, ma riconosco che quanto ha detto il Presidente della Commissione è convincente. È materia di regolamento.
Ma desidero far notare ai colleghi l’importanza della innovazione che il collega Calamandrei voleva introdurre con questo emendamento: cioè non si può mai in nessun caso pubblicamente per la prima volta accusare un collega se prima una Commissione non senta l’accusatore. Solo dopo e non prima.
A nessuno sfugge l’importanza moralizzatrice di questa norma che il collega Calamandrei per la prima volta pone.
Comunque, sono convinto delle obiezioni dell’onorevole Ruini e ritengo anch’io che si tratti di materia regolamentare.
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, passiamo ora alla proposta di articolo aggiuntivo avanzata dall’onorevole Mortati nel corso della precedente discussione, e che avevamo rinviato. Il testo è il seguente:
«Possono essere eleggibili al Parlamento gli italiani che non siano cittadini della Repubblica».
Prego l’onorevole Ruini di esprimere il parere della Commissione.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Anche qui non ho avuto il tempo di sentire formalmente il parere del Comitato, dato il continuo succedersi delle sedute d’Assemblea. Ma ho esposto il mio punto di vista all’onorevole Mortati; e se consentite vi esporrò le considerazioni che mi spiegano la ragione di questa disposizione, ma nello stesso tempo mi rendono perplesso ad accettarla.
Innanzi tutto devo osservare che il collocamento della disposizione dovrebbe essere nell’articolo 20, che parla dell’eleggibilità in generale, non soltanto al Parlamento, ma anche ai Consigli comunali, provinciali, regionali. Il criterio da adottare dovrebbe essere unico e generale.
Ciò premesso, è indubitabile che lo spirito della disposizione è tale da muovere tutta l’Assemblea, di primo impeto, come un cuore solo, ad una viva adesione. Si tratta infatti di stabilire che i nostri fratelli italiani, italiani di nazionalità, nel senso classico della parola, i fratelli nostri strappati alla madre patria, possano, anche se non abbiano la cittadinanza italiana, essere eletti al Parlamento e ad altri corpi elettivi.
Nello spirito della disposizione, ripeto, siamo d’accordo. Ma bisogna realisticamente considerare i termini giuridici della questione, ed i problemi concreti che possono sorgere.
La legislazione attuale ammette che possano essere nominati ai pubblici impieghi gli italiani non cittadini, non «regnicoli».
Adopero la parola nel senso che si usa nella Repubblica francese, ove si parla di «regnicoles» secondo una tradizione e con un significato ben chiaro. L’onorevole Mortati ha opportunamente corretto la designazione, che egli stesso aveva dapprincipio usato, di «regnicoli» in quella di non cittadini; o, come si dice, in altro modo, «non appartenenti allo Stato».
La disposizione ora proposta farebbe un passo avanti, che sembra giusto e logico, ammettendo l’accesso non solo agli impieghi pubblici, ma alle cariche elettive.
Bisogna ad ogni modo vedere i casi che si possono presentare; e che – attenendosi alle espressioni usate nella disposizione – eccedono l’intento originario, cui essa si ispira, di aprir le braccia, diciamo la vecchia parola, agli «irredenti». Vi sono molti, d’origine e di sangue italiano, che vivono all’estero. Se hanno, come avviene, la doppia cittadinanza e cioè se, avendo acquistata la cittadinanza straniera, conservano quella italiana, sono – in quanto cittadini italiani – eleggibili al Parlamento. Sorgono sulla doppia cittadinanza, nei riflessi politici, considerazioni sulle quali non mi voglio fermare qui.
Continuiamo ad esaminare gli altri possibili casi.
Può avvenire che l’italiano di nazionalità e di sangue, di tradizione, risieda all’estero e, avendo perduto la cittadinanza italiana, possegga soltanto quella straniera. Dobbiamo, con una nuova disposizione, renderlo eleggibile al nostro Parlamento?
Vediamo le varie possibili ipotesi. Se l’italiano sia irredento nel senso più vero e proprio, ed abita in una terra strappata a noi, una terra contesa da dissensi e da lotte di nazionalità, dubito che vi possa rimanere, se è eletto deputato italiano. Se invece egli si trova in una terra dove non v’è irredentismo e lotta di nazionalità – per esempio un altro paese d’Europa o d’America – e ne è cittadino, senza essere (si noti) cittadino italiano, non dovrebbe esservi per lui pericolo materiale a restarvi, dopo esser diventato membro del Parlamento italiano. Ma possono sorgere difficoltà, diverse ma analoghe a quelle di cui abbiamo parlato a proposito della discussione, avvenuta sul progetto di Costituzione nella nostra Assemblea, per la possibilità di assicurare ai cittadini italiani residenti all’estero l’esercizio dei diritti elettorali. Siete sicuri che i paesi esteri in cui abitano, e ne son cittadini, gli eletti al Parlamento italiano, ne siano sempre lieti? In certi casi potrebbero esserne troppo lieti, servendosi come lunghe mani di loro cittadini, deputati e senatori italiani; ma in altri casi potrebbero dispiacersi della situazione che si viene a creare, e prendere provvedimenti e contromisure, così che la disposizione, invece che a vantaggio degli italiani all’estero, si risolverebbe in loro danno.
Altra ipotesi è d’un italiano di terra irredenta, che, perché la sua terra non è più italiana, è costretto ad abbandonarla ed a venire in Italia. Non è più, in questo momento, nostro concittadino; e noi vorremmo aprirgli le porte del Parlamento. Bisogna ricordare che nella nostra legislazione e nella prassi vi è la possibilità di concedere subito, senza le ordinaria formalità, con semplice decreto del Capo dello Stato, la cittadinanza italiana, ed allora diventa pienamente eleggibile. Praticamente, dunque, si ottiene il risultato che la disposizione Mortati si propone.
Comprendo benissimo che noi desideriamo fare, in questo momento, un atto di solidarietà e di significato politico. Ma sarà opportuno, in ogni caso, meditare bene la formulazione e le conseguenze della proposizione da adottare, per non darle una portata che trascenda il nostro intento, per non sollevare difficoltà che siano eventualmente di danno più che di vantaggio ai nostri fratelli. Era mio dovere esporvi obiettivamente e chiaramente lo stato delle cose e delle possibili questioni, perché la nostra decisione sia meditata e degna dell’argomento che commuove il cuore, ma non deve far velo al ragionamento. (Approvazioni).
MORTATI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MORTATI. Mi richiamo a quanto con molta chiarezza ha detto l’onorevole Ruini, il quale ha ricordato che il problema da me sollevato non è nuovo. La disposizione proposta si può dire in certo senso acquisita al diritto italiano. Esiste già una disposizione, che vale per gli impiegati, per le cariche pubbliche, per cui si può essere nominati anche se non si è cittadini italiani, e c’era una tendenza a far valere, per coloro che prima si chiamavano italiani non regnicoli, il diritto di potere essere nominati membri del Parlamento.
NOBILI TITO ORO. La Repubblica romana instaurò questo sistema. Ammise all’elettorato passivo cittadini italiani che da sei mesi avessero preso stanza nel territorio romano.
RUINI. Presidente della Commissione per la Costituzione. Ma se hanno preso stanza possono benissimo oggi diventare cittadini italiani.
MORTATI. Ora tale principio già acquisito alla nostra legislazione conserva ancora attualità poiché si verifica il caso di terre che sono italiane ma non fanno più parte dello Stato italiano, sicché appare essere opportuno, da un punto di vista politico, una affermazione che mantenga il principio. L’onorevole Ruini, giustamente, ha osservato che c’è una difficoltà nella formulazione, perché la formulazione, nel senso proposto, può far sorgere dubbi. La formula «italiano non regnicolo» era più chiara perché precisata da una lunga prassi interpretativa. Non so se dalla cortesia del Presidente dell’Assemblea si possa ottenere un ulteriore rinvio allo scopo di potere giungere ad una formulazione che possa meglio sodisfare, raggiungendo il risultato di mantenere fermo un principio già acquisito alla nostra legislazione.
PERASSI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PERASSI. L’onorevole Ruini ha già molto chiaramente esposto tutti i lati sentimentali, non sentimentali e giuridici della questione.
Io vorrei soltanto fare una piccola aggiunta a conferma di quanto ha detto l’onorevole Ruini, prendendo lo spunto da una affermazione ora fatta dall’onorevole Mortati, la quale mi sembra che mi autorizzi a dire che v’è un equivoco nella sua proposta.
Egli ha affermato: si tratterebbe di confermare un principio che già esiste. Ora, io faccio una riserva su questo punto. Il principio che esiste non è quello che ora si vuole inserire nella Costituzione; il principio è diverso e più tenue, ed è questo: che la qualità di italiano non appartenente allo Stato, ossia «non regnicolo» secondo la vecchia formula, è assimilato al cittadino per quanto concerne l’ammissione agli impieghi pubblici. Questo è il punto a cui si è arrivati nel campo del diritto pubblico: non oltre. Vi è poi, come esattamente ha richiamato il Presidente della Commissione onorevole Ruini, un’altra disposizione nel nostro diritto attuale; è un articolo inserito nella legge della cittadinanza nel quale si afferma che nulla è innovato per quanto concerne la concessione della cittadinanza per decreto agli italiani non regnicoli. Questo richiamo si riferisce ad una vecchia disposizione che è stata inserita per la prima volta in una legge elettorale. Secondo questa disposizione, l’italiano «non regnicolo» – cioè non appartenente allo Stato – poteva ottenere la concessione della cittadinanza italiana con decreto prescindendosi dalle altre condizioni che normalmente sono richieste per concedere la cittadinanza italiana in base alla legge comune. Questa è la situazione. La proposta dell’onorevole Mortati, la quale, come ha detto giustamente il Presidente, suscita tanta e generale simpatia dal punto di vista sentimentale, è una proposta che va al di là del diritto attuale, e che porta alla parificazione automatica al cittadino dell’italiano non appartenente allo Stato, non soltanto nel campo dell’ammissione a pubblici impieghi, ma anche nel campo dei diritti politici, cioè per l’elettorato attivo e passivo. È un passo più in là, che solleva problemi molto delicati.
CODACCI PISANELLI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CODACCI PISANELLI. Mi permetto di far presente l’importanza politica della proposta dell’onorevole Mortati. Dal lato giuridico sono d’accordo: vi sono numerosi inconvenienti per precisare quali siano le persone a cui la proposta si riferisce. Ma dal lato politico si tratta di sancire nella Costituzione un principio che è stato accolto in tutta la storia del nostro risorgimento. In un momento in cui un trattato iniquo strappa alla nostra Patria i nostri fratelli, ritengo sia un giusto riconoscimento; ed invito l’Assemblea a pensare alle conseguenze del rigetto del principio proposto. Credo che sia un giusto riconoscimento che tutti quanti, anche coloro che sono stati strappati alla Patria, continuino a far parte della famiglia italiana.
LACONI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LACONI. Sono anch’io molto sensibile a ciò che è detto in questo emendamento. Mi pare che si corra il rischio di creare gravi inconvenienti alla Giunta delle elezioni la quale domani, quando si troverà dinanzi a contestazioni per l’elezione di un deputato e dovrà andare ad accertare una condizione non giuridica – e che riconosciamo non essere giuridica, ma quasi politica, come ha detto l’onorevole Codacci Pisanelli – non saprà probabilmente come risolvere il quesito propostole, mentre abbiamo la possibilità di giungere al medesimo risultato, senza nessuna difficoltà, rendendo facile agli italiani, che vivono fuori della Repubblica e che hanno altra cittadinanza, l’acquisto della cittadinanza italiana, mediante una determinata procedura.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. C’è già.
LACONI. Non vedo per quale ragione dobbiamo stabilire una norma, che domani potrà essere pericolosa.
FABBRI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
FABBRI. Se l’onorevole Mortati mantiene letteralmente la sua dicitura, io la voterò molto volentieri, perché noto che non dice «sono eleggibili» o «possono essere eletti» ma «possono essere eleggibili». Quindi questa norma, letteralmente intesa, pone soltanto la esigenza di una disposizione futura la quale regoli la materia, mentre allo stato attuale delle cose l’eleggibilità di italiani che non siano cittadini è esclusa e occorre un decreto di naturalizzazione come è stato spiegato.
Porre fin da ora la possibilità costituzionale di una legge ordinaria, che regoli in quali casi gli italiani non cittadini possono divenire eleggibili, non mi pare costituisca un inconveniente. Si propone di dire: «possono essere eleggibili», non «possono essere eletti». Questa dizione ha molta importanza. Se essa fosse modificata, allora forse non potrei più votarla.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. L’interpretazione che lei dà all’emendamento non corrisponde alle intenzioni del proponente.
FABBRI. Devo partire dal concetto che, data la dizione letterale della formula, vi corrispondesse la intenzione del proponente. Se l’onorevole Mortati dichiara un’intenzione diversa…
PRESIDENTE. L’ha dichiarata nel corso dello svolgimento.
FABBRI. Non mi sono giunte le sue parole: se è così cade la ragione del mio intervento.,
LACONI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTÈ. Ne ha facoltà.
LACONI. Che interesse abbiamo a che una persona mantenga la sua cittadinanza in altro Paese e poi si faccia eleggere deputato o senatore nel nostro? Egli dovrebbe rinunciare a quella cittadinanza per acquistare quella italiana: sarebbe un atto di adesione anche morale al nostro Paese. Possiamo, se mai, facilitarlo in questa richiesta. Ma non possiamo ammettere che diventi deputato o senatore in Italia rimanendo cittadino di un altro Stato, con tutti i diritti che gli competono per questa qualità. In questo modo noi non serviremmo gli interessi della Nazione.
PRESIDENTE. Onorevole Mortati, mantiene la sua proposta?
MORTATI. La mantengo.
LUCIFERO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LUCIFERO. Credo che molti come noi, nessuno più di noi, possano essere sensibili agli alti motivi ideali e riparatori che hanno ispirato l’onorevole Mortati nel formulare la sua proposta. Però devo riconoscere che la proposta tecnicamente può portare non solo al di là delle nobilissime intenzioni del proponente, che sono indubbiamente anche le nostre, ma addirittura a un risultato opposto a quello che l’onorevole Mortati si propone.
Ritengo quindi che il principio, che è nelle intenzioni più che nella dizione dell’onorevole Mortati, non debba essere da noi abbandonato, ma debba essere ripreso con precisa formulazione, che garantisca al nostro Paese e a quest’Aula, in cui esso è rappresentato, una giusta interpretazione; e che sia pertanto rinviata la discussione in sede di legge elettorale, dove si potrà fare la norma che effettivamente affermi questo principio.
In questo spirito, per queste ragioni e con la riserva di risollevare noi, se non lo farà lui, la stessa questione in sede di legge elettorale, noi non potremmo votare ora per l’emendamento.
MORTATI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MORTATI. Vorrei fare osservare all’onorevole Lucifero che l’inserzione nella legge elettorale di una norma nel senso proposto non sarebbe costituzionale, perché violerebbe la disposizione contenuta nell’articolo 45 della Costituzione, per cui le cariche pubbliche sono accessibili solo ai cittadini italiani.
LUCIFERO. Faremo una «leggina» che consenta di conservare la cittadinanza italiana agli italiani che l’hanno persa perché strappati alla Madrepatria.
MORTATI. Insisto nella proposta di richiedere alla cortesia del Presidente un breve rinvio per vedere se è possibile inserire nella Costituzione una disposizione che risolva la questione nel modo migliore. Una possibilità di soluzione potrebbe essere di inserire nel testo costituzionale una norma, come quella di cui ha fatto menzione l’onorevole Perassi, che conceda agli italiani di cui si tratta la possibilità di acquistare con una procedura abbreviata e semplificata la cittadinanza italiana.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. L’Assemblea si trova ormai davanti aduna questione che si presta ad interpretazioni delicate. Avrei desiderato che non fosse portata qui senza averla prima esaminata in Comitato. Ma ciò non è avvenuto; ed io ed i colleghi del Comitato – tranne il proponente – abbiamo letto la proposta nel fascicolo degli emendamenti. L’Assemblea è ora investita dell’argomento e potrebbe darsi che, se non accogliessimo, per le difficoltà pratiche che solleva, la proposta avanzata, ciò fosse interpretato come mancanza di solidarietà e di slancio verso i nostri fratelli. Ciò assolutamente non è. Qualsiasi nostra decisione deve essere accompagnata dalla più calda espressione di affetto e dal fermo proposito di raggiungere lo scopo che ci proponiamo, di dare, o meglio ridare ai nostri fratelli l’eleggibilità nel Parlamento italiano. Anzi la questione è più vasta; concerne anche la cittadinanza per quelli che non saranno membri del Parlamento. Dovremo studiare ancora sotto i vari aspetti tutti i problemi che sorgono. Ho oggi trattato, come era necessario, delle questioni tecniche; le approfondiremo ancora; senza spegnere la fiamma di sentimento e di cordialità che ci ispira e ci anima. Date al Comitato il tempo necessario perché possa riunirsi e cercare soluzioni e disposizioni tali da superare gli ostacoli che voi tutti avete riconosciuto. Affermiamo a questo riguardo, con un saluto che l’Italia manda ai suoi figli non più cittadini italiani, che noi vogliamo averli a pieno diritto partecipi della nostra famiglia e della nostra casa: l’Italia. (Applausi).
LUCIFERO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LUCIFERO. Mi associo a quanto ha detto l’onorevole Ruini. Mi permetto di dare un suggerimento all’onorevole Ruini, dato che io non sarò presente in seno al Comitato, ma sarò sostituito, perché dovrò assentarmi da Roma.
Se vogliamo affermare il concetto, io proporrei una forma come questa: «La legge stabilirà le condizioni di eleggibilità, ecc.». Allora potremo fare una legge che ci dia le garanzie e non ci troveremo di fronte ad ostacoli costituzionali.
PRESIDENTE. Se l’Assemblea ritiene di potere accogliere la richiesta dell’onorevole Ruini – che in fondo è simile a quella dell’onorevole Mortati – cioè di non soffermarci in maniera specifica con una votazione sulla proposta di questo articolo aggiuntivo, ma di lasciare al Comitato di redazione il tempo di esaminare la questione per vedere di introdurre nella forma più acconcia una disposizione, possiamo sospendere la discussione su questo argomento.
Se non vi sono altre osservazioni, rimane pertanto così stabilito.
(Così rimane stabilito).
Onorevoli colleghi, avremmo così concluso l’esame del Titolo dedicato al potere legislativo, se non ci fossimo lasciati alle spalle un problema di una certa importanza, quello relativo all’Assemblea Nazionale. Come tutti noi ricordiamo, a mano a mano che nel corso della discussione abbiamo incontrato un richiamo concernente l’Assemblea Nazionale, l’abbiamo accantonato, perché occorre per prima cosa risolvere la questione di principio.
Da alcuni colleghi è stata prospettata l’opportunità di non tenere sedute domani. In questo caso vorrei pregare i presenti di non chiedere che venga tolta immediatamente la presente seduta, perché sarebbe molto opportuno che con la prossima settimana potessimo passare senz’altro ad affrontare il Titolo II, relativo al Capo dello Stato.
RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUSSO PEREZ. Io chiedo che domani si faccia seduta. Non vedo le ragioni per cui non si debba fare, data la brevità di tempo a nostra disposizione.
LACONI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LACONI. Io vorrei pregare l’Assemblea non di tenere o no seduta domani, ma di un’altra cosa: che non si discuta domani la questione dell’Assemblea Nazionale.
E dirò subito le ragioni. L’Assemblea ha già sospeso l’articolo 67 nel quale è detto che la funzione. legislativa è collettivamente esercitata dalle due Camere. Le diverse formulazioni che si possono proporre di questo articolo, alcune delle quali sono state presentate e altre no, si connettono in modo stretto col potere dell’Assemblea Nazionale. L’unità del potere legislativo si può raggiungere attraverso norme diverse, sia introducendo, come da qualcuno è stato proposto, come compositore il Capo dello Stato, sia invece ricorrendo ad una istanza superiore che comprenda entrambe le Camere, sia in altri modi. Insomma, vi sono tali connessioni fra il problema dell’esercizio collettivo del potere legislativo da parte delle Camere, con o senza l’intervento del Capo dello Stato, e quello dell’Assemblea Nazionale, che potrebbe essere l’organo unitario delle Camere, da far considerare inopportuno che essi non siano discussi e deliberati separatamente. E sta di fatto che per quanto riguarda l’articolo 67 ne è stata rinviata la discussione a dopo che sarà decisa la questione delle funzioni del Capo dello Stato. Io penso che potrebbe anche farsi prima. Cioè potremmo esaminare subito la questione. Penso però che, prima che sia esaminato, il Comitato di redazione dovrebbe rivedere il problema, in connessione col Titolo sul Capo dello Stato.
Non faccio obiezioni a che domani sia tenuta seduta, ma pregherei il Presidente di volere eventualmente stabilire altra materia all’ordine del giorno, in modo che sui problemi dell’esercizio del potere legislativo e dell’Assemblea Nazionale vi sia un minimo di respiro e che siano possibili preventive consultazioni.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Naturalmente, io non mi oppongo affatto alla proposta di tenere seduta anche domani. Debbo però ricordare che noi abbiamo a suo tempo rinviato il tema dell’Assemblea Nazionale a quando si sarebbero esaminate, a mano a mano che si presentavano nel progetto, tutte le questioni delle sue funzioni. La maggior contesa è sorta e si svolgerà soprattutto per un problema concreto, quello della fiducia o sfiducia che si deve esprimere al Governo attraverso l’Assemblea Nazionale o le Camere distinte.
Aggiungo che il Comitato di redazione non ha ancora potuto deliberare il tema perché non ne ha avuto materialmente il tempo. Oggi abbiamo dovuto riunirci alle 8, alle 9, alle 10, in varie Sottocommissioni, fra cui quella per gli statuti regionali, e poi in Commissione plenaria dei Settantacinque; ed alle 11 in Assemblea Costituente. Non possiamo, come Giosuè, arrestare il sole; o lavorare contemporaneamente in più riunioni.
Sono a disposizione dell’Assemblea. Vuol dire che, se non potrò formalmente convocare il Comitato di redazione, sentirò qui nell’Aula colleghi di varie parti, e mi assumerò la responsabilità di interpretare il pensiero del Comitato.
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, devo far notare che, oltre quella costituzionale, non c’è altra materia da porre all’ordine del giorno della seduta di domani.
LACONI. Potrebbe essere dedicata alle interrogazioni.
PRESIDENTE. No. Non prendiamo le interrogazioni come un rimedio per tutti i mali. Si è stabilito di dedicare al loro svolgimento i lunedì in modo che i membri del Governo e i presentatori possano regolarsi tenendo presente questo nostro uso.
Il lavoro del Comitato di redazione non esonera l’Assemblea dalla discussione intorno alle questioni di principio come quella della istituzione o meno dell’Assemblea Nazionale. A me pare pertanto che si possa mettere all’ordine del giorno di domani ancora il seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana, riprendendo dal secondo comma dell’articolo 52: «Le Camere si riuniscono in Assemblea Nazionale, nei casi preveduti dalla Costituzione». Questo comma pone appunto la questione di principio ed appunto perciò ne fu rinviata la discussione. Risolta con una votazione tale questione, il Comitato di redazione potrà proporre i conseguenti adattamenti, sui quali, nella prima seduta della prossima settimana, si pronuncerà l’Assemblea.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Vorrei avvisare che, poiché la discussione di questo tema avverrà domani alle ore 11 davanti alla Assemblea, convocherò prima il Comitato di redazione, rinviando la riunione della Commissione dei Settantacinque, che era già stata convocata.
LACONI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LACONI. Mi duole che non ci si sia compresi. È proprio la questione di principio, è proprio resistenza o meno dell’Assemblea Nazionale che non è possibile discutere in Assemblea se non si sarà risolto prima l’altra di cui all’articolo 67.
TONELLO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
TONELLO. Io insisterei perché fosse accettata la proposta del nostro Presidente, cioè di tenere seduta anche domani, perché, intendiamoci, noi qui regoliamo il nostro lavoro a seconda delle necessità, ma dobbiamo dare anche al Paese la sensazione che il nostro lavoro è continuo e che non lo interrompiamo inutilmente: altrimenti si corre il rischio di giungere a fine dicembre senza aver approvato tutta la Costituzione.
NITTI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
NITTI. Io non ho compreso la discussione attuale: che cosa ha a che fare l’Assemblea Nazionale con i poteri del Capo dello Stato? Niente! Non c’è nessuna connessione. Noi possiamo ammettere o non ammettere che ci sia l’Assemblea Nazionale, ma questo non riguarda affatto i poteri del Capo dello Stato.
Una voce. E per l’elezione del Capo dello Stato?
NITTI. Ma non è necessario creare apposta l’Assemblea Nazionale; basta dire che la fanno le Camere unite. Che esista o no questo simulacro che si vuol chiamare l’Assemblea Nazionale, che non esiste in nessun Paese della terra e che altro non è che una superstruttura assurda; che esista o non esista, ciò non riguarda la elezione del Capo dello Stato. Anche in regime monarchico per il giuramento all’inizio della legislatura si riunivano le due Camere. Ora Camera e Senato possono riunirsi per eleggere il Presidente della Repubblica, ma non c’è necessità, per ciò solo, di dar vita a quella supercamera, a quella invenzione, a quella assurdità stupefacente, a quella fantasia inutile che vogliamo chiamare Assemblea Nazionale.
Questa idea di fare una terza Camera così numerosa comporterebbe la necessità di convocarla – continuando con questi sistemi – in Piazza Montecitorio, piuttosto che nell’Aula. Questa supercamera, che non esiste in nessun Paese della terra e che si vorrebbe far convocate permanentemente, facendole discutere le cose più assurde, come per esempio l’amnistia (figurarsi se può essere un argomento discutibile da mille persone l’amnistia, che richiede una particolare competenza giuridica!) è una pura fantasia, che non riguarda il Capo dello Stato.
Ora noi dobbiamo affrontare la questione. Io credevo che, senza lunghe discussioni, si potesse procedere oltre. Volete discutere? Volete rinviare a domani? Si tratterà di perdere un’altra giornata; se vi volete divertire su questa stoltezza, che farà ridere l’Europa intera, divertitevi pure. Perderemo uno o due giorni ancora, ma non approveremo questa Assemblea Nazionale. È stata una aberrazione momentanea. Anche questa passerà. Vogliamo perdere ancora del tempo? Se lo volete, rinviamo a domani, ma lasciamo da parte il Capo dello Stato, e discutiamo e decidiamo, perché l’importante è sbarazzare al più presto il terreno dei nostri lavori da questo incubo, per non tornarci più sopra.
PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alle 11 di domani. Resta inteso che domani esamineremo questo problema, prendendo come base l’articolo 52 che abbiamo lasciato in sospeso nel suo secondo comma.
Presentazione di una relazione.
CLERICI. Chiedo di parlare, per la presentazione di una relazione.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare. La invito a salire sul banco della Presidenza.
CLERICI. Quale vicepresidente della Commissione per le autorizzazioni a procedere, mi onoro presentare all’Assemblea la relazione sulla domanda di autorizzazione a procedere contro il signor Del Giglio Angelo, imputato del reato di cui all’articolo 290 del Codice penale.
PRESIDENTE. Questa relazione sarà stampata e distribuita.
Comunicazione del Presidente.
PRESIDENTE. Comunico che, in sostituzione dell’onorevole Lucifero, dimissionario, ho chiamato a far parte della Commissione per la Costituzione l’onorevole Condorelli.
Interrogazioni con richiesta d’urgenza.
PRESIDENTE. L’onorevole Morini ha presentato la seguente interrogazione con richiesta d’urgenza:
«Al Ministro dell’interno, per sapere se sono stati accertati i precedenti politici dell’attuale concessionario del Casinò di San Remo e ciò allo scopo di decidere con cognizione di causa sul visto che il Ministero deve apporre o negare alla deliberazione di concessione 17 aprile 1947 del Consiglio comunale di San Remo.
«Morini».
Interesserò il Ministro dell’interno, che non è presente, affinché faccia sapere al più presto quando intenda rispondere.
Interrogazioni.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.
MOLINELLI, Segretario, legge:
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, sulle ragioni che lo hanno indotto a esonerare senza preavviso e senza motivazione il colonnello in servizio permanente effettivo Vincenzo Vetere, mutilato di guerra, dalla carica di capo della divisione disciplina ufficiali dell’esercito, che ricopriva degnissimamente da cinque mesi, mettendolo a disposizione del comando territorio, alla stregua di ufficiali discriminandi o reimpiegandi, con grave danno materiale e morale, mentre ufficiali della riserva, per età e per sfollamento, sono trattenuti, a domanda, in servizio presso il Ministero e presso Enti della Capitale. Il Ministro della difesa, assicurando che esulava dal suo provvedimento ogni motivo di carattere politico aveva preso l’impegno formale di affidare al colonnello Vetere mansioni di pari o di superiore importanza. Si domanda quali sono le ragioni che hanno indotto l’onorevole Ministro a cambiare avviso. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Pacciardi».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se, ai fini di pacificazione, presupposto indispensabile perché venga ristabilita la normalità, non ritenga indispensabile giustizia estendere l’annunciato provvedimento di revoca dei provvedimenti dipendenti dalla legislazione di epurazione, a tutte le categorie colpite.
«In proposito rileva:
che tutta l’impostazione dell’epurazione è basata su criteri assolutamente arbitrari, antigiuridici, illogici;
che ad aggravare tale impostazione si sono succedute, nel tempo, in modo caotico, leggi e disposizioni, diverse e anche contrastanti, le quali hanno determinato gravissime sperequazioni tra i colpiti;
che, indipendentemente da ciò, non rispondente affatto a criteri di equità, comprensione e giustizia, è stata la pratica applicazione delle leggi stesse;
che più antigiuridico ed iniquo tra tutti è il decreto-legge 11 ottobre 1944, n. 257 – meglio conosciuto col nome di «legge Bonomi» – il quale, con lo specioso pretesto di affrettare l’epurazione degli alti gradi, soppresse per gli ufficiali ed i funzionari dei primi 4 gradi anche quel minimo di garanzia e di difesa, che le leggi anteriori concedevano;
che, in tale guisa, vennero colpiti nella grande maggioranza, benemeriti funzionari, i quali non avevano – in effetti – altra colpa, che quella di essere pervenuti, sotto il passato regime, da essi stessi subito, ad alta carica, unicamente per meriti e capacità professionali, in rapporto alla anzianità di servizio, servendo lo Stato, come tale, con senso di responsabilità, abnegazione, obbiettività, rettitudine;
che detti funzionari, senza avere in alcun modo diritto a difesa e senza potere, neanche, conoscere il motivo del provvedimento, e, per taluni, mentre era ancora in corso il procedimento presso la competente Commissione di epurazione di primo grado, od erano stati da questa addirittura sciolti, furono – senz’altro – defenestrati, a profitto di altri, sotto ogni riguardo, certamente, non più di essi meritevoli;
che, per i prefetti, al fine di colpirli comunque, non solo fu applicato il predetto decreto legislativo 11 ottobre 1944, n. 257, ma si giunse al punto di collocarli a riposo, applicando una disposizione analoga, contenuta in legge fascista: regio decreto-legge 5 aprile 1925, n. 441;
che è necessario, una buona volta, porre la parola «fine» ad uno stato di cose intollerabile, e che da troppo tempo si trascina, con danno – soprattutto – del Paese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Bencivenga».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere se non ritenga equo ed opportuno disporre una modificazione del decreto 29 luglio 1947, n. 689:
- a) per concedere ai pensionati per vecchiaia o per invalidità, di età inferiore o superiore a 65 anni, l’assegno temporaneo di contingenza, nella misura unica di lire 2400;
- b) per annullare la disposizione relativa alla detrazione di un importo pari all’assegno dalla retribuzione dei pensionati che lavorano; e ciò, considerando che trattasi di categorie fra le più disagiate e che i pensionati si sottopongono al grave carico del lavorare nella loro età avanzata solo quando sono spinti dal pesante carico di famiglia e dalle attuali difficilissime condizioni di vita.
«Per questi medesimi motivi gli interroganti chiedono all’onorevole Ministro se non ritenga equo disporre che l’indennità di caro-pane per i pensionati della previdenza sociale venga equiparata a quella dei pensionati degli altri Enti, estendendola ai famigliari a carico. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Scarpa, Fornara».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro del tesoro, per sapere con quali provvedimenti il Governo intenda venire incontro nel più breve termine possibile alle urgenti esigenze alimentari ed alla fiduciosa attesa dei ciechi civili, i quali hanno presentato in forma concreta e motivata un progetto per un assegno di assistenza continuativa, a mezzo della benemerita Unione italiana dei ciechi.
«Tale provvedimento sarebbe corrispondente all’articolo 34 già votato del progetto di Costituzione e si ispirerebbe al criterio della solidarietà sociale, per la quale spetta allo Stato, indipendentemente da qualsiasi responsabilità, di aiutare i cittadini più bisognosi, tanto più che è noto lo sforzo non soltanto individuale, ma anche collettivo, con il quale i ciechi hanno cercato e cercano di affrancarsi dalla inferiorità sociale e dall’inerzia, alle quali sarebbero condannati dalla tremenda loro disgrazia, ed è noto altresì come le feroci condizioni economiche odierne e la conseguente terribile concorrenza minaccino gli sforzi compiuti da quella categoria di grandi minorati per riuscire utili oltre che a se stessi alla società. Soprattutto si fa presente come, accanto ai ciechi lavoratori, esista un 70 per cento di quegli infelici non più ricuperabili, che sono letteralmente alla fame e nell’abbandono, e che minacciano di tornare all’accattonaggio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Clerici».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non creda giusto ed opportuno – data la scarsità del personale adatto – di estendere agli ufficiali giudiziari (i quali hanno raggiunto il 70° anno di età e sono collocati a riposo, giusta l’articolo 120 del regio decreto 28 dicembre 1924, n. 2275) il provvedimento di mantenimento in servizio, che è stato già adottato per i magistrati fino al grado quinto e per i cancellieri, quanto meno fino al 31 dicembre 1949, e se non ritenga di dover intanto soprassedere ai collocamenti a riposo in corso. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Filippini».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se, in base alla nuova disciplina dell’olio di oliva, non ritenga opportuno, oltre che conveniente, lasciare libero il commercio delle sanse, in quanto l’ammasso di tale sottoprodotto impone agli agricoltori maggiori spese per la conservazione, nuovi esasperanti controlli ed esige altresì il mantenimento del Consorzio per la distribuzione delle sanse ammassate, per cui i costi di produzione risultano gravati da notevoli ed evitabili spese, che in ogni caso superano quelle derivanti dal maggiore prezzo che verrebbe pagato ai produttori agricoli. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Caroleo».
«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della difesa, dell’agricoltura e foreste e del tesoro, per conoscere quale è l’attuale estensione dei campi tuttora minati e quali provvedimenti intendono finalmente adottare per la sollecita restituzione alla produzione agricola delle terre cosparse di ordigni esplosivi, risultando che numerosi operai specializzati nel rastrellamento di mine sono da vari mesi disoccupati. Nei comandi militari addetti a tale rastrellamento si nota una viva preoccupazione per la fine dei lavori perché determinerebbe il licenziamento di varie centinaia di impiegati, mentre è urgente che considerevoli estensioni della pianura padana ritornino al più presto alla coltivazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Caroleo».
«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’interno e del tesoro, per conoscere quali provvedimenti intendano adottare per ovviare alla penosa situazione delle vedove e dei famigliari dei caduti in guerra in attesa di pensione, ai quali viene continuata la corresponsione del soccorso giornaliero, di cui alla legge 22 gennaio 1934, n. 115, che, pur aumentato a norma di successivi provvedimenti, è assolutamente irrisorio.
«L’interrogante chiede di sapere quindi se, in considerazione che tale soccorso è corrisposto a titolo di acconto sulla pensione, non si ritenga opportuno e giusto aumentarlo in misura tale da renderlo, per quanto possibile, più adeguato alle necessità di vita delle vedove e delle famiglie interessate. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Camangi».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se non reputa opportuno disporre la fermata del rapido R-562 Roma-Reggio Calabria alla stazione di Gioia Tauro, centro agricolo industriale di rilievo, dove fanno scalo gli abitanti di tutta una zona popolosa ed importantissima dal punto di vista agricolo e commerciale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Priolo».
PRESIDENTE. Queste interrogazioni saranno trasmesse ai Ministri competenti per la risposta scritta.
La seduta termina alle 19.45.
Ordine del giorno per la seduta di domani.
Alle ore 11:
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.