ASSEMBLEA COSTITUENTE
CXXXIV.
SEDUTA DI VENERDÌ 30 MAGGIO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
indi
DEL VICEPRESIDENTE CONTI
INDICE
Congedo:
Presidente
Comunicazioni del Presidente:
Presidente
Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):
Presidente
Bosco Lucarelli
Carboni
Cicerone
Canepa
Mastino Pietro 4365
La seduta comincia alle 16.
RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.
(È approvato).
Congedo.
PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo l’onorevole Germano.
(È concesso).
Comunicazioni del Presidente.
PRESIDENTE. Comunico che ho chiamato a far parte della Commissione dei settantacinque, in sostituzione dell’onorevole Farini, dimissionario, l’onorevole Molinelli.
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica Italiana. Riprendiamo la discussione generale del Titolo V relativo alle Regioni.
È iscritto a parlare l’onorevole Bosco Lucarelli. Ne ha facoltà.
BOSCO LUCARELLI. Io non so se è consuetudine di questa Camera, ma, essendo stato alunno all’università di Napoli dell’onorevole Nitti, io credo di dovere in questo momento far giungere a lui una parola di compianto per la morte della sua mamma, che, a 98 anni, è deceduta l’altro giorno in Roma. Il nome della madre è un nome sacro, e, a qualunque età si perde, ne è sempre vivo il rimpianto. Forse non è consuetudine, ma io ho creduto di rompere magari questa consuetudine, mandando al vecchio maestro le mie condoglianze che credo siano condivise da tutti i colleghi della Camera. (Segni di assenso).
Onorevoli colleghi, forse io avrei potuto e dovuto tacermi, quando, in un argomento come quello delle autonomie regionali si è già così largamente ed autorevolmente discusso; ma io penso che, per qualche particolare aspetto, non è inopportuno che qualche altra parola si dica.
È inutile dire che io, conformemente al pensiero del mio Gruppo, democratico cristiano di vecchia data, da oltre quarant’anni, sono per le autonomie; giovane, ho lottato per le nostre autonomie comunali, riallacciandole a tutto un patrimonio sacro d’italianità che ci faceva vedere nei liberi comuni italiani la culla della civiltà italica. E come non potremmo essere noi difensori di quella autonomia, quando abbiamo assunto a distintivo del nostro partito lo stemma glorioso di quei comuni che tanta luce di vita portarono nell’Italia e nel mondo?
Io mi limiterò semplicemente ad accennare a qualche obiezione e perplessità sollevata, perché credo che qui, come fuori di qui, siamo tutti convinti della necessità di un più largo decentramento; qui, come fuori di qui, siamo convinti che la macchina dello Stato deve sveltirsi e che l’Amministrazione statale debba essere più a contatto col popolo e coi bisogni del popolo, più vicina ad esso in modo che i suoi bisogni siano meglio interpretati e sodisfatti.
Non è che noi siamo contrari alle egregie persone che impersonificano la burocrazia, anzi dobbiamo ammirare lo zelo, la competenza e lo spirito di sacrificio con cui essi lavorano per il buon andamento della macchina dello Stato; ma noi vogliamo combattere il sistema, vogliamo sveltire l’amministrazione perché essa possa rispondere più direttamente ai bisogni del popolo, essendo più vicina al popolo stesso. Ed allora, necessariamente, come non è possibile che una cappa di piombo chiuda nella sua uniformità i diversi provvedimenti amministrativi, per cui un comune di mille anime deve essere amministrato con le stesse norme e con le stesse regole, che reggono il comune di Roma, di Milano e di Napoli, così sentiamo il bisogno di decentrare l’amministrazione, perché localmente essa possa stare più a contatto con i bisogni e con le esigenze delle singole regioni, delle singole zone d’Italia.
Ora, la preoccupazione di molti è che noi con questa Costituzione andiamo a costituire lo Stato federale, vale a dire un aggregato di piccoli Stati, quasi che volessimo dividere l’Italia in pillole e ridurla a qualcosa di più frantumato di quello che non fosse l’Italia prima della sua unità. Che in mezzo a noi vi possano essere, in questa Assemblea, persone che concepiscono la struttura che noi andiamo a costruire come quella di uno Stato federale, può anche darsi, ma non è questo il pensiero del Gruppo a cui mi onoro di appartenere e non il pensiero mio, perché noi non intendiamo frantumare l’Italia in piccoli Stati, non intendiamo rompere e spezzare l’unità italiana; noi consideriamo l’ente Regione non come un piccolo Stato di una federazione di Stati, ma come un ente autonomo, con speciali funzioni legislative, inquadrato nell’unità d’Italia, che riteniamo di poter rafforzare con questa divisione di poteri in alcune materie, le quali, essendo più aderenti ai bisogni delle singole popolazioni, possono rompere le differenze ed i contrasti fra Regione e Regione e possono rafforzare quell’unità della Nazione, che noi vogliamo vivificare.
E mi pare che la disposizione dell’articolo 106 sia chiarissima: «La Repubblica Italiana, una e indivisibile». Quindi, noi vediamo il problema dell’autonomia regionale nel quadro dell’unità e della indivisibilità della Patria. Questo deve essere chiaro ai nostri animi ed alla mente di tutti, perché non possano sorgere preoccupazioni, che attraverso la costituzione dell’ente Regione si possa dividere e spezzettare l’Italia.
Qui si è parlato di Mazzini e di Cattaneo, si è parlato di Stato federale, ma noi la Regione – ripeto – la consideriamo come un Ente autonomo, con speciali poteri normativi, e non come uno Stato a sé. Se all’inizio del Regno italico una questione viva fu sollevata fra coloro che volevano lo Stato unitario e coloro che volevano lo Stato federativo, ciò fu per speciali condizioni del momento, inquantoché volevano gli uni e gli altri l’unità italiana: alcuni la volevano attraverso uno Stato unitario; gli altri, viceversa, ritenendo che la divisione dell’Italia in vari Stati potesse essere una remora e una difficoltà per costituire questa unità italiana, credettero che fosse più opportuno ricorrere ad una confederazione di Stati. Ma oggi la posizione è tutta diversa: abbiamo l’Italia una e indivisibile e la vogliamo conservare una e indivisibile anche quando avremo costituito le nostre Regioni e avremo dato le autonomie a queste Regioni.
Circa la facoltà legislativa concessa alla Regione, dopo il discorso del collega Mannironi io potrei anche fare a meno di parlare. Egli ieri ci ha ricordato che delle funzioni normative, in fondo, hanno anche i Comuni, perché il diritto regolamentare dei Comuni, se non può dirsi un diritto legislativo, certamente è qualche cosa di più del regolamento di esecuzione del potere centrale, perché il regolamento comunale non è la norma per l’esecuzione della legge, ma è qualche cosa che dà una norma per sé stante. Potremmo dire che è un regolamento d’attuazione; e in questo regolamento vi sono anche delle penali; questi regolamenti danno il diritto di elevare contravvenzioni, quindi attribuiscono l’esercizio forse più alto della sovranità, quale è il diritto penale. E la facoltà di ordinanza attribuita ai sindaci non costituisce una particella di sovranità, quando si commina una pena e questa pena dà luogo ad un procedimento penale?
E allora, non mi pare che sia soverchiamente da spaventarsi se alle Regioni si concede e si dà una facoltà legislativa. È questione di limiti, di confini, perché giustamente a me pare qui delle obiezioni sopra alcune determinate materie sono state sollevate; e certamente vanno prese nel più largo conto le giustissime osservazioni del senatore Einaudi circa il regime delle acque.
Nella Commissione dei settantacinque, come risulta dai verbali, un altro componente, che in questo momento non ricordo, sollevò la questione delle miniere e ritenne che, mentre faticosamente l’Italia era riuscita a riunire in una legge unica le frammentarie, divise e discordi legislazioni sulle miniere – che si riportavano alle legislazioni singole degli antichi stati ed era stato ritenuto un progresso averle riunite – oggi con le facoltà legislative date alle Regioni può quasi sembrare che si voglia fare un passo indietro.
Sono questioni che potranno essere discusse e vagliate; ma che non potranno attardare l’istituzione delle Regioni, quando noi diamo tutte le garanzie che esse non possono sovrastare né contrastare il potere centrale.
Il prof. Guicciardi, che qui è stato ricordato nelle scorse sedute dall’onorevole Preti, nella memoria presentata al Congresso di Venezia del febbraio, al Congresso delle provincie venete, diceva che l’attribuire un potere legislativo alle Regioni significava attribuire ad esse il potere della sovranità e quindi fatalmente si veniva a creare uno Stato federale.
Ora, queste particelle di sovranità sussistono in molti organi statali, anche quando non vi è la Regione. E l’amico Clerici, in occasione della discussione sull’articolo relativo allo sciopero, fece notare come particelle di questa sovranità risiedessero nel magistrato quando emetteva una sentenza.
Non mi sembra quindi che questa riflessione dell’illustre professor Guicciardi possa avere tale consistenza da farci abbandonare un sistema che riteniamo opportuno e necessario perché nel campo tecnico, nel campo che non investe i problemi unitari e fondamentali dello Stato, quella che è la legislazione, per una delega statutaria, attribuita alla Regione – perché in fondo noi non facciamo che una delega statutaria alla Regione – possa esplicarsi secondo le esigenze e le condizioni speciali dei singoli luoghi.
Così, si è accennato alla riforma agraria. Certo, le linee generali dovranno essere date da criteri generali, ma il problema agrario è fondamentalmente diverso da Regione a Regione e da zona a zona; e quindi la Regione che vive gli interessi locali potrà creare quegli accomodamenti e quelle leggi sussidiarie che consentiranno di poter applicare le leggi generali con efficacia.
Quante leggi non si fanno infatti, onorevoli colleghi, che non si possono poi applicare perché altrimenti non potremmo amministrare, perché molte volte la legge è difettosa e l’esperienza e l’equità debbono sovente far modificare il testo scritto, riportandolo alla mente del legislatore!
Si tratta quindi, io penso, di una questione di limiti, di una questione di confini; e noi potremo con obiettività, con serenità, qualunque siano le nostre idee politiche, studiare e convenire in quella che possa essere e debba essere la materia delle leggi che può, in linea generale e sussidiaria, emettere la Regione.
Ho udito anche dire che vi sono degli allarmi fra gli insegnanti delle scuole e degli istituti industriali; non è a mia conoscenza, se ciò abbia formato o no materia di discussione al congresso che detti insegnanti hanno tenuto in questo mese a Milano: ma certamente noi non abbiamo che lo scopo di fare una legge che risponda ai bisogni delle popolazioni, che risponda ai bisogni e all’avvenire del Paese, e possiamo vagliare i vari voti. Io penso quindi che, da qualunque fonte possano venire dei suggerimenti, essi potranno, con spirito aperto, venire esaminati ed eventualmente accolti dalla Commissione, la quale, per bocca del suo Presidente, ha già fatto conoscere che si potrà addivenire ad una revisione che sarà tanto più utile, dopo che sarà stato espresso in questa aula il pensiero degli esponenti dei vari partiti.
Ma è comunque opportuno che la vita locale abbia quell’espansione che è necessaria perché il popolo nostro, partecipando più vivamente alla vita politica del proprio Paese, possa veramente apportarvi tutto il contributo della propria intelligenza e delle proprie forze.
Ma se la Regione vuole essere un organo autonomo e, soprattutto, se la Regione vuole essere un organo di decentramento, perché anche quando emette provvedimenti legislativi, intende essere un elemento di decentramento, è necessario che essa assorba funzioni attualmente assegnate allo Stato, e non assorba o distrugga quelle che sono attribuite agli enti locali preesistenti. Noi siamo contrari ad un centralismo di Stato – centralismo che non ha a che vedere con l’unità dello Stato, perché l’unità dello Stato è una cosa sacra, mentre il centralismo è un difetto che va corretto – noi vogliamo che la Regione sostituisca il centralismo di Stato, vale a dire che si sostituisca allo Stato in certe materie di indole amministrativa, di indole tecnica, come sono i problemi agrari, i problemi dei lavori pubblici, in cui essa vede più da vicino necessità e circostanze dei luoghi, circostanze che già il legislatore ha visto quando per il passato ha fatto leggi speciali par la Basilicata, per la Calabria, per la Sardegna ed ha riconosciuto che vi erano condizioni di vita speciali che richiedevano provvedimenti speciali. Ora, quello che è stato fatto transitoriamente per questa o per quella Regione, noi, in fondo, lo facciamo definitivamente con un organo stabile, nell’interesse di tutte le Regioni italiane, di modo che la legge in questi problemi tecnici risponda ai bisogni effettivi delle popolazioni. Ora, volendo noi fare della Regione un organo di decentramento statale, dobbiamo evitare di farne un organo accentratore dei poteri delle Provincie e magari dei poteri dei Comuni. Credo che nessuno pensa di toccare i Comuni nella loro libertà, che nessuno pensa di toccarli nelle loro facoltà; anzi penso che tutti tendano ad accrescere i poteri e le mansioni di questo organo vivo, che ha la rappresentanza locale effettiva degli interessi della popolazione vivente in un determinato territorio. Ma io penso che anche un altro ente vada rispettato, e questo ente è la Provincia; perché se noi nella Regione vediamo un organo di accentramento dei poteri della Provincia, allora noi ad un accentramento statale, avremmo sostituito un accentramento regionale e non avremmo risolto il problema del decentramento.
In fondo, la Provincia, anche come organizzazione, è conservata nel testo della Commissione dei settantacinque, ma è conservata in una maniera che, secondo l’interpretazione di alcuni autorevoli membri, rappresenta un qualche cosa di più della Provincia attuale. Infatti l’articolo 107 dice: «Le Provincie sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale». Quindi sembra da questo articolo che la Provincia debba avere facoltà maggiori di quelle che non abbia, appunto per il decentramento statale, ed essendo l’organo della Regione vedrebbe aumentare, attraverso gli aumentati poteri della Regione, anche i poteri propri.
E l’articolo 126 mette a fianco di queste circoscrizioni amministrative una Giunta nominata da corpi elettivi. Il che fa supporre che coloro che hanno stesi questi articoli hanno inteso vedere la circoscrizione provinciale non semplicemente come una circoscrizione puramente materiale, burocratica, ma hanno voluto mettere a fianco l’elemento elettivo, vivificatore che desse a questo organismo una vita, un pensiero, una attività. Ora, se così fosse, in fondo la differenza sarebbe molto più tenue di quello che a prima vista non paia. Però, d’altra parte, non è possibile non tenere conto del pensiero, non tenere conto dei voti che la maggioranza delle provincie italiane ha fatto.
Io sono un Presidente di deputazione provinciale e non vorrei essere sospettato di venir qui a fare una difesa d’ufficio. Un po’ i miei anni, i quali non mi fanno sperare ascensioni ulteriori, mi sono garanzia della sincerità del mio dire. Ma l’essere Presidente di una deputazione provinciale mi ha messo nella circostanza di vedere, di sentire, di vivere l’organismo della Provincia.
Qui da molti si è detto – esagerando in un senso – che la Provincia è qualche cosa di quasi inesistente, un ufficio burocratico per i folli e per gli esposti. Altri l’ha magnificata come un organo di grande vitalità. Forse hanno esagerato gli uni e gli altri, perché anche in quello che sembra un piccolo servizio amministrativo qual è quello dei folli, vi sono – per esempio – implicate tante altre questioni le quali, secondo me, suggeriscono la necessità che a fianco del burocrate vi sia una deputazione provinciale, una giunta (o come la volete chiamare) che sia espressione di popolo e che possa usare quella libertà che il mandato elettorale le dà. Perché nella materia dei folli, la Provincia non ammette e non esclude nessuno dal manicomio; è un servizio, ma i pazzi vanno al manicomio attraverso un’ordinanza dell’autorità giudiziaria e ne sono dimessi dopo un certificato medico che li fa uscire dalla casa. La provincia non ha che una funzione sussidiaria: quella di anticipare le spese per rifarsi su coloro che hanno l’obbligo degli alimenti; e quando si va a quest’obbligo degli alimenti, che riguarda quasi sempre tutta piccola gente, gente minuta, e si va attraverso le informazioni catastali, attraverso le informazioni dei carabinieri, attraverso – direi – tutto uno spionaggio amministrativo a rilevare la consistenza di queste piccole famiglie, spesso obbligate per un terzo o quarto grado di parentela che hanno con gli interessati, allora entra l’elemento equitativo per evitare giudizi inutili e molte volte pregiudizievoli sia alle parti che all’amministrazione provinciale; e queste transazioni non ve le farà nessun burocrate, perché il burocrate ha il timore di essere sospettato, perché il burocrate non ha la visione dei bisogni e degli interessi del popolo; queste transazioni non ve le può fare che un corpo elettivo che senta le necessità e i bisogni dei suoi amministrati.
E anche per gli esposti si presentano tanti problemi. La legge sugli esposti avrebbe bisogno di un grande rimaneggiamento. Quando voi pensate che al 14° anno finisce l’assistenza a questi poveri esseri abbandonati, quando voi pensate che legalmente a 14 anni bisognerebbe prendere una giovinetta, nel periodo più pericoloso della sua vita, e gettarla sul lastrico perché non conosce i suoi genitori; quante volte l’amministrazione provinciale supera la legge e non consegna questi piccoli esseri finché non trovano un padre onesto che assicuri loro moralità e sanità fisica e un pane per il resto della loro vita!
Senza parlare degli altri obblighi assistenziali che si innestano alla Provincia e che domani potrebbero essere modificati, come per esempio l’assistenza ai tubercolotici, ai tracomatosi, ecc.
Ma c’è qualche cosa di più: c’è il diritto d’iniziativa che una Deputazione provinciale valida sa sfruttare. Io non so come vadano le altre Provincie, ma so che nella mia Provincia l’amministrazione provinciale è in mezzo a tutti i bisogni locali: qualunque problema si presenti, convoca i rappresentanti dei partiti, convoca le autorità locali, i sindaci di determinate zone per problemi collettivi; e quindi è tutto un lavoro che il burocrate non fa perché disimpegna solamente il suo ufficio e non sente quelli che sono i bisogni della popolazione. Ritornando più indietro, al servizio delle strade, mi permetto di far osservare che si è detto come il servizio delle strade fosse un qualche cosa di poco importante. Forse quelli che parlano così hanno la visione di quelle Regioni in cui la strada è un problema risolto, e si tratta quindi solo di manutenzione. Ma noi del Mezzogiorno d’Italia – e mi rivolgo ai deputati di tutti i partiti – sappiamo che cosa sia il problema della viabilità e le nostre strade per la trasformazione e la valorizzazione delle campagne; sappiamo come questo problema della strada è molto lontano da una qualsiasi soluzione e che non è solamente problema di manutenzione ma di studio delle singole zone per creare arterie stradali, per creare i mezzi onde sviluppare queste vie che sono la vita delle nostre popolazioni. Nel Mezzogiorno d’Italia, almeno nella mia Provincia, abbiamo una rete completa di vie mulattiere che rispondeva ai bisogni di due secoli fa, quando il trasporto era fatto con i muli. Oggi queste vie dovrebbero essere tutte carrozzabili se non addirittura camionabili. Questo è un problema gravissimo che travaglia tutto il Mezzogiorno d’Italia.
Amici delle altre Regioni venite a vedere ed a studiare il nostro problema, non attraverso i libri, ma nella vita vissuta in mezzo al popolo e vi convincerete dei nostri bisogni e delle nostre aspirazioni. E ritornando alla Provincia: come è possibile che la Costituente non tenga presente la voce che viene da tante parti, da tanti partiti diversi, quando, se sono esatte – e non v’è ragione da dubitare – le notizie date dal Congresso delle Provincie di Firenze, dal referendum indetto dal Ministero della Costituente, ben il 75 per cento delle risposte fu per la conservazione della provincia come ente autarchico? Ed al Congresso di Firenze la grande maggioranza dei convenuti si espresse sull’ordine del giorno Migliori, Presidente della deputazione provinciale di Milano, che chiedeva la conservazione della Provincia come ente autarchico e che ebbe 48 voti favorevoli, 11 contrari e 8 astenuti. Dagli atti del Congresso si vede che i voti degli 8 astenuti e degli 11 contrari si riferiscono ad altre ragioni e considerazioni. Né è stato isolato il voto del Congresso di Firenze, cui hanno partecipato i due terzi delle Provincie italiane, perché esso fu preceduto dal Congresso di Modena dei rappresentanti delle amministrazioni dell’Emilia, e fu preceduto dal Convegno delle amministrazioni provinciali del Veneto che si presentarono, con memorie del professore Guicciardi, al Congresso con una preparazione organica. Abbiamo avuto poi, e hanno ricevuto tutti i Deputati in questi giorni, il voto dell’Unione delle Provincie lombarde dell’8 ottobre 1946 che richiamandosi al voto del Congresso di Firenze lo approvava e raccomandava alla Costituente. E nel mese di gennaio – è inutile che vada a ricordare la data, che ha poca importanza – a Bologna vi fu un’altra riunione di rappresentanti delle Provincie e la maggioranza affermò la conservazione della Provincia come ente autarchico. E nel febbraio in due riunioni tenute a Venezia, mi pare il 6 ed il 22 febbraio, l’Unione delle Provincie Venete ha riaffermato il voto che la Provincia fosse conservata come ente autarchico.
Dagli atti della Commissione dei settantacinque risulta che per piccola maggioranza fu approvata la proposta di soppressione della Provincia come ente autarchico; i deputati del nostro Gruppo, nella quasi totalità, votarono per la conservazione della Provincia.
Se noi dobbiamo in questo momento fare opera di collaborazione e di pacificazione fra i partiti, per presentare al popolo una Carta costituzionale che sia l’espressione del maggior numero di consensi, è necessario venire ad una transazione. E quindi penso che anche coloro, che erano contrari alla conservazione della Provincia come ente autarchico, debbano fare sacrificio della loro idea perché l’ente Regione venga creato ed entri nelle simpatie del popolo, perché le riforme in tanto sono fruttifere, in quanto trovano alimento e vita nel consenso popolare.
Ora, si può fare una questione: come possono coesistere Provincia e Regione?
Il problema fu posto al Congresso di Firenze; la deputazione provinciale di Firenze in una pregevole relazione, che poi formò il sustrato della votazione sull’ordine del giorno Migliori, presidente della deputazione provinciale di Milano, armonizzava questi due enti. Ed io penso che, se si seguisse quella linea, cesserebbero molte contestazioni fra Provincia e Provincia. La deputazione provinciale di Firenze proponeva che al centro della Regione fosse un Consiglio regionale ed una presidenza regionale, come organo normativo, ma che organi di esecuzione fossero e restassero le amministrazioni provinciali; evitandosi, così, una duplicazione di organi amministrativi e l’insorgere di contrasti.
D’altra parte, i rappresentanti delle provincie venete al Congresso di Firenze facevano considerare che mal si affermava che, creando la Regione, si sarebbero avute quattro burocrazie; perché la Regione, se deve essere ente decentratore, deve decentrare il potere centrale dello Stato nelle materie tecniche e amministrative; per cui, parte della burocrazia statale deve fatalmente rifluire nella Regione. Allora, non sono quattro le burocrazie, ma tre: Comune, Provincia e Regione; perché nelle materie demandate alla regione la burocrazia centrale non entra più; altrimenti, come parlare di decentramento e di autonomia? Ritenere che contemporaneamente agli organi regionali, per le stesse materie, debbano sussistere organi centrali, significa, di fatto, negare il decentramento amministrativo.
Certamente, anche nelle questioni tecniche vi sono, vi possono essere e vi saranno problemi di indole generale, che superano l’ambito della Regione; e questi sono problemi statali.
Per esempio, il problema del porto di Napoli non è e non può essere problema di Napoli o della Campania, ma è problema nazionale, perché investe la vita di tutta una organizzazione commerciale, che ha fini nazionali ed internazionali. Così pure, il porto di Genova non è soltanto problema della Liguria, ma di tutta l’Alta Italia e del centro Europa, che fa capo attraverso l’Alta Italia a Genova.
Quindi vi sono dei problemi i quali, pur esistendo nella Regione, restano e devono restare problemi nazionali.
E allora, così sgomberato il terreno da molte difficoltà, io penso, modestamente con la voce modesta dell’uomo di provincia, che porta qui la sua piccola esperienza provinciale, di avere portato una piccola pietra, perché questo nuovo edificio vada costruendosi, e perché molte obiezioni cadano in una comune concordia di intenti, in una chiarificazione di idee.
E bisogna anche pensare alla rappresentanza di questi enti.
È stato da alcuni proposto che restasse l’antica impalcatura dei Consigli provinciali a base mandamentale facendo della Regione quasi una federazione di province, perché i Consigli provinciali avrebbero dovuto nominare il Consiglio regionale.
Sembra più adatto il pensiero di altri, che viceversa chiedono che la vecchia impalcatura del Consiglio provinciale scompaia.
Io non so che cosa avveniva nelle altre parti d’Italia, ma per noi del Mezzogiorno il vecchio Consiglio provinciale era legato a una vecchia concezione feudale del mandato politico.
Noi avevamo dei feudi elettorali, dove i primi Ministri ricavavano la loro maggioranza a tutti i costi.
Il prefetto, agente elettorale, il quale passava tutte le deliberazioni, anche le più strane ed immorali, all’Amministrazione amica del deputato, boicottava tutte le deliberazioni delle amministrazioni che non la pensavano come l’uomo del cuore del Capo del Governo.
Non solo, ma molte volte si spingevano le amministrazioni soggette a tutela anche alla illegalità e l’illegalità era annotata, perché quando veniva il giorno delle elezioni si ricordava che c’era qualche conto aperto e perché questo conto non fosse reso, bisognava votare per il candidato del Governo. Così gli esattori si vedevano i conti non approvati per decenni, perché fossero tenuti in stato di servitù, appunto per questa ragione elettoralistica. E d’altra parte il deputato feudatario (perché specie in alcuni periodi ogni provincia era stata affidata ad un proconsole il quale dirigeva, disponeva, la vita politica del Paese facendo il servitore del Governo e ricevendo dal Governo in cambio tutti i favori per sé, per i suoi amici e per le amministrazioni sue amiche) aveva una sottocategoria di valvassini e valvassori rappresentati appunto dai consiglieri provinciali, che erano i delegati di zona di tutto questo malcostume politico che noi, a qualunque partito apparteniamo, intendiamo rompere ed abbiamo rotto con la proporzionale, perché io sono un assertore convinto della proporzionale, sopratutto perché sono un meridionale che ha visto attraverso la proporzionale spezzata la servitù politica di questo feudalesimo, che è la piaga del Mezzogiorno e che è una vergogna che dobbiamo scuotere per volontà concorde di tutti gli uomini liberi attraverso i sindacati, attraverso le organizzazioni operaie, attraverso l’elevazione del pubblico costume, dando esempio a tutti, che noi costruiamo la nostra vita su un sentimento di giustizia e non di favore. (Applausi).
Allora io penso che non dobbiamo far risorgere dei frantumi di questo passato che non vogliamo più vedere risorto, per cui penso che i consigli provinciali, le giunte, per dir meglio, provinciali, debbano avere un’altra base, un’altra origine.
E quindi credo che sia stato ben detto quello che alcuni colleghi (non faccio nomi, perché hanno manifestato le loro idee in discorsi familiari ma d’altra parte non intendo pigliarmi il merito di idee non mie) suggerivano: che i consiglieri regionali eletti nelle singole province della Regione costituissero la Giunta provinciale della loro Provincia.
Ed allora l’elezione dei consiglieri regionali potrebbe essere fatta per Provincia e gli eletti nell’ambito provinciale a collegio unico, a mandamento unico, a circoscrizione unica potrebbero essere contemporaneamente i componenti della Giunta esecutiva della circoscrizione provinciale e rappresentanti al Consiglio regionale.
D’altra parte, questo è un particolare di poca importanza. Io l’ho voluto dire appunto perché fosse oggetto di studio e di ricerche.
Nel testo di legge non si accenna affatto alle Camere di commercio ed io non intendo dire al riguardo nessuna parola, ma intendo affidare il problema ai componenti della Commissione. Evidentemente si vuole conservare la Camera di commercio, ma si vuole fare che sia oggetto di una legislazione speciale.
Però credo che sia pervenuto a tutti voi, come è pervenuto anche a me, un voto delle Camere di commercio che vorrebbero una interferenza nei consigli regionali ed allora se queste Camere di commercio vogliono una interferenza nei consigli regionali, fatalmente è necessario che in un modo qualunque la legge costituzionale le contempli.
Io personalmente ho manifestato alla Consulta l’opportunità della fusione degli uffici provinciali dell’industria con le Camere di commercio perché, com’è noto, oggi noi abbiamo due organismi: la Camera di commercio, con una funzione molto vaga, di voti, di studi, ecc., e poi abbiamo un organo esecutivo, l’Ufficio provinciale dell’industria e del commercio che non dipende dalla Camera di commercio, ma dipende dal Ministero dell’industria.
Era una delle tante interferenze del centralismo fascista, che aveva creato i podestà di nomina regia e non contento, aveva voluto i segretari di nomina governativa, i presidi delle provincie di nomina regia e i segretari generali delle provincie di nomina governativa. Così per le rappresentanze degli interessi dell’industria, del commercio e dell’agricoltura, aveva fatto di nomina regia i componenti i consigli, ed aveva stabiliti come organi statali gli uffici di esecuzione, cioè quelli che avevano nelle mani la vita economica della nazione.
Ora, mi sembra che questo stato di cose avrebbe dovuto essere modificato, i due enti avrebbero dovuto fondersi ed avrebbero dovuto avere nella vita dell’industria, del commercio e dell’agricoltura una funzione di compartecipazione e di collaborazione col potere centrale, perché io pensavo che i consigli superiori dell’industria e del commercio, se il fascismo li ha fatti ancora sussistere (ma prima del fascismo c’erano), in parte fossero eletti dai rappresentanti della Camera del commercio e dell’industria, per modo che la vita della periferia rifluisse nella vita centrale. Prima dell’avvento fascista, le Camere di commercio si erano costituite in Unione delle Camere di commercio italiane, il che stava a significare che esse non trovavano nello Stato l’assistenza necessaria, ed avevano bisogno di un organo libero che le associasse e ne convogliasse gli interessi; mentre viceversa, se affluissero direttamente nella vita dello Stato vi porterebbero, oltre allo studio del burocrate, il bisogno e la passione della vita vissuta tra le difficoltà che la vita incontra, e questo contatto con la realtà, la vita e gli organi amministrativi locali, renderebbe più perfetto e vitale l’organo dello Stato.
Un problema forse grave, e che io mi limiterò ad accennare è quello del controllo. Noi siamo per l’autonomia, e siamo contrari a tutti i controlli che volessero vietare, o coartare, o distruggere questa autonomia, ma non possiamo dimenticare i controlli di legittimità, vale a dire quei controlli che garantiscono la libertà del cittadino e garantiscono altresì la regolarità degli atti degli enti locali. Penso anzi che in regime di democrazia il controllo di legittimità debba essere più efficace per la maggiore garanzia della libertà e della democrazia. Perché la libertà non può essere intesa come libertà per sé stessa; la libertà vuol dire e significare il riconoscimento anzitutto e soprattutto della libertà degli altri, come democrazia vuol significare non il predominio di una parte, di un uomo, di una fazione, di un aggregato di persone, ma vuol dire che ognuno porta – per quanto vale e può – la sua parola, la sua opera nell’edificio generale, nell’organizzazione della vita nazionale, non volendo sopraffare nessuno, limitandosi a quello che è e rappresenta nel Paese. Allora io penso che questo regime dei controlli vada riveduto; penso che in una legge costituzionale noi non possiamo disciplinare l’intiera materia dei controlli che richiede una legislazione a parte; ma qualche frase generale va pur messa, ed a me pare che l’articolo 122 non sia completamente rispondente a questa esigenza. Ed io non intendo riportarmi a quello che ho letto nelle relazioni di uomini illustri circa il controllo preventivo, circa il controllo repressivo ed il controllo sostitutivo; certo però, dolorosamente, noi vediamo che, nel costume pubblico, molta parte del fascismo sussiste ancora ed è questo morbo che noi dobbiamo distruggere! Del fascismo sono restate due terribili eredità che noi dobbiamo combattere con tutte le nostre forze, a qualunque corrente appartenga la nostra fede politica: la corruzione e la violenza!
La violenza che si esercita ancora nelle forme più brutali, e noi vediamo che molte volte le nuove amministrazioni, appena giunte al potere, sentono il dovere di licenziare gli impiegati che non hanno votato per loro. Questa è negazione di libertà e di democrazia e dobbiamo lottare contro questi sistemi con tutte le nostre forze oggi, e, se occorresse, anche domani, perché dobbiamo creare un costume e una vita nuova, perché le libertà democratiche si alimentano soprattutto attraversa la cura del costume politico che questa libertà e vitalità deve alimentare, ed attraverso la pubblica opinione che deve controllare le pubbliche amministrazioni. Se questi fatti avvengono è pur necessario che vi sia qualche autorità, non soggetta ai partiti, al disopra di tutti, per quanto è possibile, che assicuri la libertà e i diritti di tutti i cittadini, e pensa che voler limitarsi ad un tribunale di legittimità sia poca cosa, e che quando questo tribunale di legittimità si metta semplicemente nei centri della Regione, la difficoltà di adire questa forma di giustizia diventa così difficile che il piccolo commesso comunale, la guardia campestre, l’applicato di segreteria non saranno in condizioni di poterne usufruire, e quando otterranno una sentenza saranno già morti di fame loro e le loro famiglie. Ora, se noi amiamo la libertà, se noi amiamo la democrazia, dobbiamo creare degli organismi agili per la difesa di questi interessi. Dovremmo innanzitutto emettere un giudizio di responsabilità verso gli amministratori, l’azione popolare ampiamente riconosciuta e sostenuta, dovremmo forse anche in questi casi trovare una forma di un visto preventivo per queste determinate materie che riguardano i contratti di impiego. Come pure, in alcuni casi, dovremmo creare gli uffici ispettorali, i quali, vicini all’amministrazione comunale, possono essere i consiglieri e la guida della stessa amministrazione. Forse noi dovremmo anche ammettere che in alcuni casi gli ispettori potessero sostituire l’amministrazione, per denegata giustizia. Anche oggi noi abbiamo il mandato d’ufficio. Quando l’impiegato non è pagato dalla propria amministrazione, e ne ha il diritto, egli può rivolgersi alla Giunta provinciale amministrativa, la quale emette il mandato d’ufficio, attraverso una procedura in verità un po’ lunga: prima deve chiedere al Comune la ragione del diniego, deve attendere risposta, e poi emette il mandato d’ufficio. Ma già è qualche cosa: c’è il Commissario che va per i singoli Comuni, per determinati atti, quando vi è giustizia denegata.
Ora, noi non per un eccesso di libertà, che potrebbe diventare libertinaggio, non per un eccesso di autonomia, non dobbiamo lasciare indifesi gli umili in queste che sono le loro legittime aspirazioni, cioè di una giustizia che deve essere fatta a tutti, principalmente a quelli che più ne hanno bisogno. Quindi, io penso che questa questione dei controlli vada rivista, e se resterà, come spero, la Provincia come ente autarchico, bisogna che anche provincialmente un qualche organo di controllo esista. Oggi, i prefetti per il loro passato sono considerati come degli spauracchi, però un organo amministrativo di giustizia bisogna che vi sia, qualcosa che sia garanzia per tutti bisogna che rimanga, se noi vogliamo far crescere queste nuove istituzioni in un regime di consenso e in un regime di armonia.
Per il contenzioso amministrativo, noi abbiamo nel nuovo progetto un organo regionale di giustizia amministrativa contro il quale si potrà ricorrere al Consiglio di Stato. Qualche studioso suggerisce di dare a questo organismo le tre sezioni che ha il Consiglio di Stato. Questo lo vedrà il legislatore futuro, ma è necessario che il legislatore attuale lo tenga presente, qualora voglia accogliere questo sviluppo futuro della legislazione.
Ed io sulla questione del controllo ho creduto fare degli accenni e sollevare il problema. Abbiamo a capo della nostra Commissione dei settantacinque uno specialista in materia, abbiamo nei componenti dei Consiglieri di Stato, studiosi e professori di università. Raccomando a loro, che hanno una competenza che io non ho – perché la mia è modesta pratica di vita provinciale di una piccola provincia – di rivedere questa questione e questa materia dei controlli per perfezionare gli articoli che ad essi si riferiscono.
Ed ora, prima che metta fine al mio, forse, disordinato dire, mi sia concesso che dica anche una parola in ordine alle circoscrizioni.
All’articolo 123 noi abbiamo una disposizione che dice: «I confini ed i capoluoghi delle Regioni sono stabiliti con legge della Repubblica». Io penso che non solo i confini ed i capoluoghi di Regione dovrebbero essere stabiliti per legge, ma anche la elencazione delle Regioni.
Questo, a parer mio, porterebbe a un duplice vantaggio, porterebbe non la firma di una cambiale in bianco come l’attuale, perché dire una Regione qualsiasi e non dire le Provincie che la compongono può domani portare a delle sorprese nella legge che le indicherà nei suoi confini e nei suoi capoluoghi; ma se deve essere rimandata ad una legge questa determinazione dei confini e dei capoluoghi, non vedo la ragione perché non dovrebbe essere demandata anche a questa legge l’elencazione e la costituzione delle singole Regioni. Allora, forse un più approfondito esame sui luoghi controversi da parte di una commissione estranea e superiore alle competizioni locali, potrebbe portare una visione diretta dei bisogni reali e potrebbe determinare una circoscrizione che deve sorgere nella concordia, per evitare che provincie che vanno artificiosamente ad unirsi possano diventare nemiche ed elementi di disgregazione in seno alla stessa Regione.
D’altra parte, nella nota è detto che questa non è che una elencazione esemplificativa, in quanto la Commissione è in attesa che siano raccolti gli elementi di giudizio mediante una inchiesta in corso presso gli organi locali delle Regioni di nuova istituzione.
Io non so queste parole che cosa vogliano indicare, a quale inchiesta in corso ci si riferisca e quali sono questi organi che debbono fornire queste notizie.
AMBROSINI. Questo è stato fatto.
BOSCO LUCARELLI. Io non lo so. Noi non ne abbiamo avuto notizia né come deputati, né come rappresentanti di amministrazioni provinciali locali; quindi, deve supporsi che è tutto un lavoro fatto al di fuori e al di sopra di quelle che sono state e che sono le voci che vengono dalle amministrazioni locali.
Noi, per il momento, non abbiamo avuto nessun avviso, nessuna partecipazione, nessuna richiesta di alcun genere; ma qualora la Commissione volesse venire a questa determinazione attuale delle Regioni – io non ho presentato emendamenti perché la divisione oggi è ancora allo stato di una nebulosa – visto che allo stato ufficiale degli atti parlamentari nessuna definitiva comunicazione è stata fatta all’Assemblea, sottopongo delle preghiere, che potrebbero domani divenire proposte.
Quindi per ora la mia non è che una raccomandazione che io rivolgo in nome del riconoscimento a Regione del mio Sannio. Sul Sannio dirò pochissime parole, perché, in tema di discussione generale, mi sembrerebbe di abusare della pazienza dell’Assemblea, ove io mi attardassi in questioni le quali, per chi non conosce i problemi, potrebbero anche sembrare delle questioni campanilistiche.
Faccio presente che il Sannio non è semplicemente un ricordo storico, perché, se fosse un ricordo storico, basterebbe osservare che questo ricordo storico è nel pensiero di tutti gli italiani che hanno fatto per lo meno le scuole elementari. Io intendo viceversa affermare che il Sannio, nella sua struttura, nella sua economia, è un qualche cosa di reale, etnicamente a sé stante, nettamente distinto dalla Campania.
Diversi i sistemi di agricoltura, diversa la feracità del suolo, diversa la conduzione agraria, diverso il regime dei fondi, diversa la divisione estensiva che, nella zona della Campania, ha un’altissima percentuale di unità colturali che non superano l’ettaro, quindi tutte unità colturali ortilizie, e le terre non ortilizie danno due prodotti all’anno. La Campania è una Regione dalla terra feracissima che fu chiamata la Campania felice: Campania felix.
Vi è dunque una struttura economica diversa, il corso delle acque completamente diverso, giacché il Sannio ha numerosissimi corsi d’acqua a carattere torrentizio così da determinare problemi di bonifica e di arginatura completamente diversi, che in Campania non esistono.
A proposito della struttura economica, mentre nel Sannio e cioè nelle Province di Campobasso, di Benevento e di Avellino, domina l’artigianato, viceversa nelle Province di Napoli, Salerno e Caserta – mi riferisco ai rilievi statistici contenuti nella memoria della Camera di commercio di Benevento, che è pervenuta a tutti i deputati della Costituente – predomina invece l’operaio della grande industria.
Le cifre sono le seguenti: le aziende con più di cento operai sono appena 7 nella Provincia di Campobasso, 2 in quella di Benevento e 7 in quella di Avellino, di fronte alle 162 comprese nel territorio delle province di Napoli e Caserta e alle 55 comprese nel territorio della provincia di Salerno.
Si tratta quindi di una struttura economica diversa ed è evidente che, quando noi dovremo fare una legislazione locale, essa non potrà essere uniforme per le due province del Sannio e per le altre tre della Campania. Napoli ha poi il problema del mare, Napoli ha i problemi turistici, Napoli ha una viabilità diversa, Napoli ha un regime di autotrasporti diverso.
Che le tre province di Campobasso, Avellino e Benevento costituiscano un’unità etnica a sé, stanno inoltre a dimostrare tutti i precedenti storici. Nel disegno di legge Minghetti, il Sannio era riconosciuto una Regione a sé; nel progetto di legge del partito popolare, il Sannio era riconosciuto una Regione a sé; nel progetto Micheli per le Camere regionali di agricoltura, il Sannio era riconosciuto una Regione a sé.
L’unica divisione regionale che in Italia esista, quella ecclesiastica, riconosce essa pure il Sannio come una regione a sé; anzi l’archidiocesi di Benevento comprende paesi delle tre Province; per cui noi abbiamo già un affratellamento di animi, attraverso gli interessi spirituali delle tre Provincie. Ma io ricordo altri fatti: vi è una Deputazione di storia patria regionale sannita stabilita dal Ministero della pubblica istruzione, vi sono organi a base regionale per le tre Provincie come l’Ispettorato del lavoro, il Circolo di finanza; non parlo del monopolio della coltivazione dei tabacchi, perché a Benevento c’è una Direzione compartimentale che abbraccia un territorio più vasto della Regione. Ricordo anche che gli studiosi ed i rappresentanti delle amministrazioni delle tre provincie, nell’aprile del 1922, si riunirono a congresso a Benevento e istituirono la Società storica del Sannio, della quale fu acclamato a Presidente un illustre irpino, il senatore Enrico Cocchia, professore di lingua latina alla Università di Napoli. E voi avrete anche letto nel «numero unico» sul Sannio la protesta che egli, in nome del Sannio, fece perché fra le statue che circondano l’Ara della Patria il Sannio non era stato tenuto presente, e in cui affermava l’unità etnica delle tre provincie del Sannio che egli voleva ricostruire.
Ma quando dal campo degli studi, dal campo del pensiero si passa alla vita pratica, allora sorgono altre interferenze che tolgono, che tagliano la linea d’insieme e di armonia, che nel campo intellettuale e spirituale si era andata formando.
Io non aggiungo altro; non chiedo privilegi; non sono un campanilista, non lo sono mai stato. Dico all’Assemblea e alla Commissione: «Osservate e studiate, perché per noi il riconoscimento del Sannio a Regione è una opera di giustizia, nell’interesse delle tre Provincie, le quali oggi forse saranno divise da gelosie locali, ma che domani dovranno sentire dalla loro esperienza che fu un errore essere discordi assorbite in altra Regione, ove non giungono loro che le briciole dalla mensa dei ricchi, cadute dalla tavola».
Ricordo inoltre che nel 1944 furono distolti i fondi specificamente assegnati per le opere pubbliche alle provincie di Avellino, di Benevento e di Campobasso, per venire incontro ai bisogni di Napoli.
Ora, di fronte a questa realtà noi rivendichiamo la nostra unità regionale del Sannio. Se ce la concederete, farete opera di giustizia; se non ce la concederete, con costanza sannita continueremo a combattere fino a che giustizia sarà fatta. (Applausi al centro – Molte congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Carboni. Ne ha facoltà.
CARBONI. Onorevoli colleghi, dichiaro subito che io appartengo alla schiera di coloro – e sono molti in quest’aula e fuori – i quali, mentre hanno simpatia per l’ente Regione, e si apprestano a votarne l’istituzione, non si sentono invece di approvare integralmente il progetto di Costituzione, perché ritengono che esso, per quanto attiene ai poteri, alle funzioni, alle attribuzioni della Regione non sia aderente alle condizioni attuali e concrete del Paese e non corrisponda ad un criterio di necessità o di opportunità e neppure allo stato della pubblica opinione. Il progetto ha provocato un diffuso senso di perplessità e di preoccupazione.
Questo delle autonomie è certamente il problema più delicato e più arduo della Costituzione; la sua soluzione caratterizzerà l’ordinamento dello Stato ed inciderà fortemente sull’avvenire d’Italia. Perciò esso va guardato e risolto non secondo concezioni astratte, teoriche, secondo idee di scuola o di partito, ma secondo le conseguenze che l’adozione o meno dell’autonomia, o di una forma particolare di autonomia, può produrre nella realtà italiana.
Ho seguito attentamente la discussione di questi ultimi giorni, nella quale sono stati pronunciati discorsi pregevoli, a cominciare da quello brillante dell’onorevole Tessitori, vibrante di appassionata convinzione, nella giustezza, opportunità ed utilità del progetto, e dominato da un senso di sicurezza e tranquillità di giudizio, che io – senza ombra di malignità – invidio sinceramente, fino a quello ammirevole per la sua alta linea politica pronunciato ieri sera dall’ onorevole Lussu. Ho ascoltato questi discorsi col desiderio di udire un argomento che mi convincesse a superare la mia perplessità, che mi dimostrasse la bontà e la convenienza del progetto sul terreno della razionalità e della realtà. Ma questo argomento non mi è stato offerto, o almeno non ho saputo intenderlo.
Perciò resto favorevole alla creazione dell’ente Regione con poteri più limitati di quelli previsti nel progetto di Costituzione, e cioè come organo di quell’ampio decentramento amministrativo, che, giusta la dichiarazione del secondo comma dell’articolo 106, costituisce uno dei caposaldi della riforma. Su questo punto non ci può essere apprezzabile divergenza di opinioni, di fronte all’esperienza dei mali del centralismo statale, di quel centralismo su cui poté affermarsi e svolgersi il totalitarismo fascista. Siamo quasi tutti d’accordo circa i dannosi effetti che l’accentramento ha provocato nella vita delle amministrazioni locali, soffocate nella possibilità di libera determinazione, nell’attività dell’amministrazione centrale, impacciata ed attardata nel suo funzionamento, ed anche nel Parlamento nazionale, spesso distratto dalle sue funzioni legislative e politiche per esigenze di carattere regionalistico, di difesa di quegli interessi che, non trovando la loro tutela in loco, dovevano essere sollecitati al centro.
Di fronte a questi gravi inconvenienti del centralismo, riconosciuti da parlamentari e da uomini politici di tutte le parti, non si può non essere fautori di un ampio decentramento amministrativo, inteso non in senso puramente burocratico, cioè come ripartizione dei servizi fra gli enti centrali e quelli periferici della stessa amministrazione statale, ma in senso organico, cioè come ripartizione delle funzioni amministrative fra gli organi dello Stato e gli organi degli enti locali, considerati come enti autarchici. Sicché l’attuazione del decentramento amministrativo presuppone la creazione di enti autarchici, idonei ad assolvere le funzioni da decentrare.
Ed è per questo che aderisco alla creazione della Regione come ente autarchico. Tra le funzioni da decentrare dallo Stato verso la periferia ve ne sono di quelle che non possono essere utilmente disimpegnate dal Comune o dalla Provincia, perché attengono ad interessi non localizzati entro i ristretti confini comunali o provinciali, e che si espandono in una sfera più vasta. Queste funzioni vanno attribuite ad un ente più ampio, la Regione. Trasferendo dallo Stato alla Regione, ente autarchico, fornito cioè di poteri e di organi deliberanti, le funzioni amministrative di carattere regionale, si compirà indubbiamente un notevole progresso sulla via della libertà e della democrazia, perché libertà e democrazia si ottengono solamente quando l’amministrazione si avvicina agli amministrati, e cioè quanto più direttamente i cittadini interessati possono regolare i propri interessi.
Però, se l’esistenza d’interessi che non si amministrano convenientemente a Roma stante il loro carattere regionale, consiglia o meglio impone la creazione dell’ente autarchico Regione, e se ciò giustifica pienamente l’attribuzione di vaste funzioni amministrative all’istituendo ente, non c’è bisogno di attribuirgli anche poteri politici, di farne cioè un ente investito dei larghi poteri legislativi previsti nel progetto di Costituzione. È su questo punto che la mia simpatia e la mia adesione alla riforma si arresta e subentra una forte preoccupazione, la quale m’induce ad un apprezzamento contrario.
L’onorevole Bosco Lucarelli, il quale nel suo discorso ha espresso i dati dell’esperienza di un uomo che ha vissuto la sua lunga vita nelle pubbliche amministrazioni, ammoniva saggiamente sulla necessità di andare cauti. Andare cauti, hanno detto anche altri oratori pur favorevoli al progetto di Costituzione; e questa cautela non deve cedere il passo alla suggestione della novità, che, congegnata dall’onorevole Ambrosini e dai suoi valorosi collaboratori col nobile intento di gettare le basi di un migliore avvenire, io temo che nella sua attuazione non corrisponderà all’interesse del Paese.
La pietra di paragone sulla quale dobbiamo saggiare l’opportunità della riforma ci è fornita, come già accennavo, dall’esperienza del passato, dalle condizioni attuali e concrete del Paese; in ragione delle quali dobbiamo ricercare le conseguenze che questo progetto – se attuato – potrà portare nella vita italiana. Guardando il progetto di Costituzione sotto questo profilo, non ritengo necessario fare un esame particolareggiato sulle singole materie rientranti nel potere legislativo dell’istituenda Regione; indagare ad esempio se sia opportuno attribuirle la potestà di legiferare in tema di trasporti o di scuole artigiane. Basta considerare il problema nell’aspetto generale: se cioè convenga la creazione di un ente politico costituzionale, con potere legislativo, il quale, se non erro, farà concorrenza allo Stato. Ciò è ammesso dalla relazione dell’onorevole Ruini, che, parlando dei tre aspetti del potere legislativo attribuito alla regione, specifica: esclusivo, concorrente e di attuazione; e l’onorevole Einaudi, con la sua alta autorità e competenza, ha dimostrato luminosamente la rischiosità di questa concorrenza legislativa.
L’attribuzione alle Regioni di un vasto potere legislativo, con esclusione ed in concorrenza dello Stato, è compatibile con l’esigenza dell’unità nazionale, che l’onorevole Bosco Lucarelli, poco fa, con appassionata parola, dichiarava dover essere non solo difesa ma rafforzata? Questo è il punto cruciale della questione. Valorosi colleghi hanno risposto affermativamente, proclamando anzi che lo Stato regionale attutirà i contrasti tra le varie parti d’Italia. Altri hanno espresso un’opinione opposta, che io ritengo più esatta e più aderente alla realtà. Quando si creano 22 Regioni, con assemblee munite di potere legislativo, in effetti si creano 22 parlamentini locali, che potranno fare leggi contrastanti fra di loro. L’onorevole Persico dice di no; ma invece è una possibilità innegabile, che genererà anche l’incertezza del diritto. Basterà che un cittadino attraversi, forse senza accorgersene, il confine tra due Regioni, per non essere più soggetto alla legge della Regione di partenza ma a quella della Regione di arrivo. E questo è un inconveniente da considerare attentamente.
Qualcuno ha creduto di scorgere nello Stato regionale ideato dall’onorevole Ambrosini affinità con lo Stato federale. Io non condivido questa opinione, ma temo ch’esso contenga in sé il germe degli stessi difetti e pericoli del federalismo; e non trovo convincente l’argomento di coloro che si tranquillizzano considerando che, se tali pericoli potevano preoccupare quando si trattava di fare l’unità d’Italia, non preoccupano più ora che essa è fatta. Non dobbiamo nutrire soverchie illusioni. Oggi l’unità esiste, ma da troppo poco tempo, perché si possa considerare stabilmente consolidata, ed è una unità contro la quale, purtroppo, si manifestano movimenti separatisti, dai quali dobbiamo difenderla.
L’onorevole Ambrosini si è preoccupato della obiezione, dedicando bellissime parole della sua pregevolissima relazione alla Commissione, per dimostrare che una cosa è lo Stato federale e altra cosa è lo Stato regionale. Riferendosi alla diversa genesi degl’istituti, l’onorevole Ambrosini ha osservato che nello Stato federale i singoli Stati membri, nell’atto di creare mediante un patto la federazione, non rinunziano alla loro sovranità originaria; nello Stato regionale, invece, il processo generatore è perfettamente l’opposto; non sono le Regioni che creano lo Stato, ma questo crea le Regioni come enti dotati di autonomia politica e ne stabilisce in concreto i poteri e le funzioni. Poi ha soggiunto: è vero che i diritti attribuiti alla Regione dallo Stato sono diritti costituzionali propri, garantiti in modo più efficace di quelli degli enti autarchici in genere; ma restano sempre diritti attribuiti dallo Stato e che, occorrendo, potranno essere modificati, o limitati con un’altra legge costituzionale.
Ora, io non nego che la genesi degli istituti nello Stato regionale dell’onorevole Ambrosini sia diversa da quella che è nello Stato federale. Però io penso che, per giudicare se il sistema proposto possa cagionare inconvenienti simili a quelli del federalismo, non bisogna guardare al processo generatore, ma alle funzioni e ai poteri concretamente attribuiti alle Regioni, perché sarà appunto nell’esercizio di queste funzioni e di questi poteri che si potranno verificare quegli inconvenienti. Ed è vano cercare di tranquillare la coscienza e di eliminare le preoccupazioni con la prospettiva di porre riparo ai mali, che si manifestassero, con successiva modificazione costituzionale dei poteri e delle funzioni. Se pericolo c’è, bisogna evitarlo sin d’ora; non attendere che si trasformi in danno per ripararvi.
I compilatori del progetto ammettono la possibilità del pericolo e, prevedendo conflitti fra la Regione e lo Stato, oltre che fra le singole Regioni, hanno proposto che il Governo possa rinviare i disegni di legge al Consiglio regionale, e, qualora siano confermati, possa impugnarli per incostituzionalità dinanzi alla Corte costituzionale, o nel merito dinanzi all’Assemblea nazionale.
Ma la necessità di organizzare una procedura apposita per dirimere i conflitti deve consigliare a procedere con estrema cautela ed a considerare se non sia meglio creare la Regione come ente autarchico dotato di larga competenza amministrativa, ma non di poteri legislativi e specialmente di poteri legislativi tanto vasti e complessi. Perciò vorrei consigliare alla Commissione di riprendere in attento esame il tema per stabilire se non sia il caso di sopprimere l’attribuzione del potere legislativo o, quanto meno, di limitarlo alla sola attuazione delle leggi generali dello Stato per adattarle alle condizioni particolari delle singole Regioni, o meglio di ridurre questo presuntuoso potere legislativo delle Regioni ad un semplice potere regolamentare, il quale, senza offendere il carattere autarchico della Regione, non ne farebbe un organo antagonista dello Stato.
Una voce. Questo è centralismo.
CARBONI. Non è centralismo, ma rispetto della unità dello Stato, con attuazione di quel vasto decentramento amministrativo, che è la sola esigenza del popolo italiano in questo momento. Il di più non è un’esigenza sentita dal popolo – mi permetta l’onorevole interruttore – ma soltanto una idea concepita e propagandata, sia pure con nobiltà d’intento, da una ristretta cerchia di studiosi e di politici.
Permettetemi, voi onorevoli colleghi che siete autonomisti integrali, di osservare che, se volete attribuire alle Regioni il potere legislativo, ciò è nell’intento di farne organismi capaci di provvedere alle esigenze regionali, autosufficienti. A questo scopo proponete anche l’autonomia finanziaria.
Ma credete realmente che con il potere legislativo e con l’autonomia finanziaria le Regioni avranno la possibilità di assolvere ai loro bisogni? O piuttosto non confessate voi stessi l’inidoneità del mezzo quando siete costretti ad escogitare quel fondo di solidarietà nazionale, che molto probabilmente si trasformerà in un fondo di gelosie e di contrasti?
Sinora lo Stato ha distribuito il gettito delle imposte tra le varie Regioni secondo le esigenze, senza badare alla loro provenienza. D’ora innanzi, se il progetto sarà approvato, saranno tanti rivoli diversi che giungeranno al fondo di solidarietà nazionale, dove si determinerà una differenziazione tra Regioni esuberanti e Regioni deficitarie; e dal fondo di solidarietà nazionale l’eccedenza delle Regioni ricche andrà a quelle povere, ma chi sa dopo quali e quante discordie e rivalità.
Non solo, ma in un momento come questo, in cui da tante parti si reclama la risoluzione del problema meridionale, credete realmente che essa sarà avvantaggiata dalla creazione della Regione? Credete realmente che le Regioni meridionali, sia pure sussidiate dallo Stato attraverso il fondo di solidarietà nazionale, saranno in condizioni di suscitare le energie necessarie per imprimere un nuovo sviluppo all’economia del Mezzogiorno? C’è da dubitarne fortemente, se non si voglia rispondere senz’altro negativamente, perché la ripresa del Mezzogiorno è condizionata dalla soluzione di alcuni problemi fondamentali (impianto di grandi centrali elettriche, riforma e bonifica del latifondo, costruzione di strade interregionali, regolarizzazione delle acque) i quali, per la loro grandiosità e per l’importo della spesa, vanno impostati e risolti sul piano nazionale.
SCHIRATTI. Ma lo Stato centralizzato questi problemi non li ha ancora risolti!
CARBONI. Concludendo su questo punto, sono convinto che nel momento attuale il progetto di Costituzione non corrisponde all’interesse generale del Paese. (Commenti).
CONTI. È in errore!
CARBONI. Questa è la mia opinione, caro onorevole Conti, opinione convinta e sicura la mia, come è convinta e sicura la sua, che è quella di un tenace regionalista. Ma che io abbia opinione diversa dalla sua non è motivo sufficiente per dire che io sono in errore e lei è dalla parte della ragione.
CONTI. Dimostri allora che noi siamo in errore!
CARBONI. Credo di aver portato il mio contributo, come già hanno fatto altri colleghi nello stesso senso. Ed in quello che ho detto, ho trovato un punto di appoggio in una realtà insopprimibile: che il problema, come è impostato nel progetto di Costituzione, non è sentito dal popolo (Commenti). Questo è un fattore di cui voi non potete non tener conto!
Una voce. Lei conosce solo l’opinione dei romani!
CARBONI. Non dei romani soltanto, i quali peraltro generalmente se ne disinteressano! Io parlo invece, non solo per quel che mi detta la coscienza, ma per la risonanza dell’opinione pubblica di vaste zone.
Un altro argomento, che desidero trattare, e sul quale l’onorevole Bosco Lucarelli ha espresso testé un pensiero coincidente col mio, è quello della Provincia. Il progetto di Costituzione conserva alla Provincia soltanto il carattere di circoscrizione territoriale e l’abolisce come ente autarchico. L’onorevole Bosco Lucarelli, dichiarandosi favorevole alla conservazione della Provincia quale organo autarchico, ha manifestato l’opinione che tale sia pure l’intenzione della Commissione dei settantacinque, perché l’articolo 107 del progetto stabilisce che: «Le Provincie sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale» (nel che l’onorevole Bosco Lucarelli ha visto un allargamento della sfera di competenza della Provincia), e perché nell’articolo 120 si prevede l’istituzione di Giunte provinciali nominate dai Corpi elettivi. Senonché il concetto della Commissione è precisamente l’opposto: quello cioè di sopprimere la Provincia come ente autarchico. La Regione è prevista come ente di decentramento organico di alcune funzioni dello Stato; la Provincia, nel progetto di Costituzione, è considerata invece soltanto come circoscrizione territoriale, nella quale si decentrano burocraticamente i servizi della Regione e dello Stato, e le Giunte provinciali non sono concepite come organi deliberanti, ma di semplice vigilanza, informazione, esecuzione.
In tal modo il progetto di Costituzione procede in parte contro la direttiva segnata nel secondo comma dell’articolo 106, perché, mentre attua il decentramento amministrativo dallo Stato alla Regione, nell’ambito di quest’ultima applica il sistema opposto, concentrando nella Regione le funzioni amministrative sinora disimpegnate autarchicamente dalla Provincia. Non vale opporre che nel progetto si parla di circoscrizione amministrativa, perché questa è intesa come territorio nel quale distribuire i servizi amministrativi dello Stato e della Regione, che avranno propri uffici negli attuali capoluoghi e forse anche in centri secondari di ciascuna provincia. Avremo in ciascun capoluogo di Provincia, per esempio, l’Intendenza di Finanza, l’Ufficio di Questura, ecc.; potremo avere al di sotto del capoluogo di provincia uffici dell’amministrazione dello Interno, delle Finanze, ecc. Però tutto questo sarà, come dicevo, decentramento burocratico, non decentramento organico.
Si dice che la provincia è un ente troppo angusto per attuare un vasto decentramento amministrativo. E l’osservazione è indubbiamente esatta – e perciò ho dichiarato di consentire nell’opportunità della creazione della Regione – ma non vale come argomento contro la conservazione della Provincia non in sostituzione ma in coesistenza con la Regione.
Maggiore considerazione merita un altro argomento, che è stato molto dibattuto anche al di fuori di questa Assemblea. Si è detto da più parti che le Regioni hanno una struttura organica, etnograficamente, storicamente, economicamente, geograficamente, e che le Provincie sono invece creazioni artificiali. Non ripeterò quello che si è controbattuto su questo tema da coloro che hanno sostenuto la tesi favorevole alla conservazione delle Provincie. Dirò soltanto che quelle due affermazioni (della Regione come entità organica e strutturale e della provincia come creazione artificiale accettate generalmente con soverchia facilità) debbono essere sottoposte ad un esame approfondito, e ricorderò che, mentre si afferma e si vanta tanto la struttura organica della Regione, noi siamo assediati giornalmente dalle richieste delle popolazioni di zone delle varie Regioni d’Italia le quali aspirano ad essere distaccate ed a formare Regioni a sé stanti, il che dimostra che il sentimento regionale è più una parvenza che una realtà; e ricorderò pure che da quasi tutte le Provincie ci giungono voti per la loro conservazione.
Sono talvolta voti dei capoluoghi di provincia, i quali possono essere determinati da una spiegabile ambizione cittadina, possono talvolta, come diceva l’onorevole Lussu ieri, essere voti organizzati dal fronte elettorale dell’anti-autonomismo, ma il più delle volte sono l’espressione sincera delle popolazioni dei Comuni e delle campagne, ispirati da quella innegabile realtà che è il sentimento di solidarietà provinciale.
Non è il caso di ricordare ancora una volta quello che Minghetti diceva nel 1861 a difesa del suo progetto di riordinamento amministrativo basato sulla coesistenza delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni. Ma voglio aggiungere che, se Minghetti nel 1861 poteva affermare che le Provincie non sono creazioni artificiali, oggi, nel 1947, cioè a circa un secolo di distanza, si deve tener conto che nel lungo esercizio delle funzioni autarchiche le Provincie hanno acquistato, se pure non l’avevano originariamente, una propria individualità.
Resta a considerare se le Provincie hanno un contenuto di funzioni che ne giustifichi la conservazione.
Qui hanno parlato Presidenti di deputazioni provinciali, hanno parlato uomini esperti della vita locale della nostra Italia, e tutti coloro che sono passati per le amministrazioni provinciali sanno che esse, nel lungo lasso di tempo dalla loro creazione ad oggi, e per effetto della sempre crescente espansione delle funzioni e dei servizi pubblici, hanno vasti compiti da assolvere, che non si limitano a quelli originari del ricovero dei pazzi, dell’assistenza agli esposti, della manutenzione delle strade. (Interruzione al centro).
L’anonima interruzione rivela il malvezzo di ricercare in ogni espressione di sentimento, in ogni manifestazione di pensiero un secondo fine egoistico! Io vi dichiaro, amici e colleghi, che, parlando come parlo, ubbidisco soltanto alla mia convinzione che il progetto non sia aderente ai bisogni del Paese. Io sono fortemente preoccupato; credo che questa mia preoccupazione sia condivisa da moltissimi di noi ed aspiro soltanto ad una cosa, che dalle nostre preoccupazioni, da queste nostre discussioni esca la soluzione migliore, non nell’interesse di questo o di quel partito, non nell’interesse elettorale di Tizio o di Caio, ma nell’interesse della Nazione.
Dunque, colleghi, dicevo che le Provincie hanno oggi una loro individualità ed una funzione da compiere.
Ma, si obbietta: se manteniamo la Provincia, alla Regione quali funzioni daremo?
Anche questa obbiezione si supera facilmente.
Il progetto assegna alle Regioni i seguenti compiti: funzioni legislative; funzioni di controllo sugli enti locali; esercizio di servizi decentrati dallo Stato, cioè di natura statale ed eccedenti l’ambito comunale; esercizio di servizi di carattere locale, già esercitati dalla provincia. Ed in questa maniera si è congegnato un organo pletorico e pesante. Io penso che la coesistenza delle Provincie con le Regioni potrebbe essere realizzata conservando alle Regioni le funzioni di controllo, quelle normative regolamentari o di semplice attuazione delle leggi dallo Stato, i servizi amministrativi decentrati dello Stato purché eccedenti l’ambito provinciale; ed assegnando alle Provincie, oltre alle funzioni di carattere locale eccedenti il comune e che già sono esercitate da esse, quelle statali eccedenti l’ambito comunale, ma inferiori all’ambito regionale.
Così si potenzierebbero le attuali Provincie e si snellirebbero le Regioni, che nella pletorica organizzazione del progetto, non sembrano sufficientemente idonee a realizzare quella semplificazione dell’amministrazione che è uno degli obbiettivi del decentramento, ad ovviare al difetto della lentezza e della pesantezza dei servizi, che, se non vado errato, l’attuazione del progetto provocherebbe nella Regione press’a poco così come ora si manifestano nello Stato.
Permettetemi di aggiungere poche parole per rispondere a coloro che hanno osservato che la conservazione della Provincia come ente autarchico determinerebbe un dannoso aumento della burocrazia ed una eccessiva pluralità delle assemblee elettive. La moltiplicazione della burocrazia è un’apparenza più che una realtà, perché il mantenimento della Provincia quale ente autarchico importerà in più la conservazione dei funzionari addetti agli organi deliberanti. Quelli addetti ai servizi esecutivi non saranno eliminati dall’abolizione delle Provincie, ci sarà di essi sempre bisogno, con un trasferimento di dipendenze dalla Provincia alla Regione.
D’altro canto, se si conserveranno gli organi e gli impiegati provinciali, si avrà una riduzione nei quadri burocratici regionali.
Comunque, non saranno poche centinaia di impiegati in più in tutta Italia, a costituire motivo di danno. E, per quello che riguarda la pluralità eccessiva delle assemblee deliberanti, sono lieto di sapere consenziente il simpaticissimo amico onorevole Conti, del quale ho letto che in seconda Sottocommissione egli osservò giustamente che la pluralità delle assemblee elettive non è un inconveniente in regime di democrazia, ma serve invece a favorire la formazione dei quadri direttivi della Nazione.
Voglio concludere con una raccomandazione: l’ordinamento regionale, costituente il cardine dell’organizzazione dello Stato, deve essere meditato attentamente. Della preoccupazione di tutti noi è chiara manifestazione la larghezza di questa discussione, con tanta generosità consentita dal nostro Presidente (Commenti). Questa larghezza è una manifestazione della fondamentale importanza del problema, intorno al quale si è determinata nella pubblica opinione una aspettativa maggiore che su qualsiasi altro tema. Se ne discute non soltanto nei grandi centri, ma anche nei piccoli paesi, non soltanto tra gli uomini di studio, ma anche presso il popolo minuto. Noi dobbiamo cercare non tanto di sforzare le nostre intelligenze nella ricerca degli argomenti più brillanti a sostegno delle tesi contrastanti, quanto d’interpretare il sentimento, i bisogni e gl’interessi effettivi della Nazione, perché soltanto così faremo opera duratura e proficua. Termino con l’augurio che l’unità degli intenti ci aiuti a trovare la soluzione migliore. (Applausi a sinistra – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cicerone. Ne ha facoltà.
CICERONE. Onorevoli colleghi. La relazione del Presidente della Commissione dei settantacinque dichiara, al Titolo «Regioni e Comuni»:
«L’innovazione più profonda introdotta dalla Costituzione è nell’ordinamento strutturale dello Stato, su basi di autonomia; e può aver portata decisiva per la storia del Paese».
Noi siamo perfettamente d’accordo col pensiero dell’onorevole Presidente Ruini, in quanto è dimostrato che le riforme amministrative che si introducono in uno Stato sono della più lunga durata. Molte volte quelle riforme hanno superato la tempesta del succedersi di regimi, hanno affrontato, direi quasi, l’ira del tempo e noi oggi possiamo ancora vedere come l’antico municipio romano sopravviva, e nella sua denominazione ma anche in qualche modo nella sua sostanza, nei nostri moderni Comuni.
Noi vediamo la Provincia, questo ente di amministrazione periferica, il quale da circa 150 anni in tutte o in quasi tutte le terre italiane assolve alla sua funzione di ente circoscrizionale.
Ma, prima di affrontare in pieno questo argomento, io desidererei liberare il terreno da due questioni che sono state sollevate e in quest’Aula e nelle conversazioni di corridoio.
La prima questione è la questione politica. Si è detto da qualche parte – e ci è stato detto anche in forma personale e privata – che la Regione, con la sua istituzione, avrebbe servito a trattenere l’espandersi dei movimenti di sinistra. Ora, è chiaro che la Regione è stata portata qui da partiti politici, ma che soltanto negli antecedenti questa riforma amministrativa – in quanto perorata dai colleghi democristiani e dalla tradizione della scuola repubblicana – è una questione politica; ma per le sue conseguenze a me pare assolutamente priva di vantaggi per questo o per quel partito politico.
Io non so come si sia potuto pensare che dividendo l’Italia in circoscrizioni amministrative più o meno vaste si sarebbe nientemeno cambiato il corso all’evoluzione della storia del nostro Paese. Noi abbiamo avuto il periodo clandestino e abbiamo visto che gli stessi movimenti politici, che le stesse correnti si formavano nella coscienza popolare sia nel nostro Mezzogiorno, per primo sgombrato dai fascisti e dai tedeschi, sia al di là della linea di fuoco, nel Nord, clandestinamente.
Ora, onorevoli colleghi, come volete che quanto è avvenuto per spontanea determinazione durante il periodo in cui l’Italia è stata divisa in modo netto, preciso, inesorabile, potesse poi essere in qualche modo intralciato o modificato nel suo corso da una riforma amministrativa in clima di democrazia?
Un altro punto desideravo chiarire: è quello della questione finanziaria. Si è parlato della questione finanziaria, per quanto riguarda la Regione, in due ordini di termini. Si è detto: certamente la Regione necessiterà di suoi funzionari, necessiterà di suoi uffici nei capoluoghi di Regione e nei distretti di Provincia. E questo è vero. Certamente questa organizzazione avrà bisogno di un bilancio. Ma si è detto molto autorevolmente in quest’Aula che pretendere l’autonomia finanziaria, in altre parole l’autarchia, l’autosufficienza economica di una Regione, poteva essere estremamente pericoloso. Ed io mi sono chiesto se, in un secolo, in un epoca in cui, non dico l’Italia sola, ma la stessa Europa non è sufficiente a se stessa, e il nostro pane quotidiano, il pane quotidiano degli italiani e dei francesi dipende dagli apporti e dalla buona volontà dei nostri amici d’oltre oceano; e quando il riscaldamento delle nostre case, delle case inglesi, delle case di Parigi è legato tante volte allo sciopero dei minatori che sono al di là dell’oceano, si possa seriamente pensare all’autosufficienza finanziaria di una Regione.
Pertanto ritengo che la circolazione dei beni, sia nostri propri, sia di quelli che ci verranno per scambio dall’estero, non è assolutamente connesso con la divisione amministrativa che sarà adottata nel nostro territorio. È una questione fra parte e parte del nostro Paese; è una circolazione che si opera nel mondo e che ci auguriamo faccia ritornare pace e benessere sulla nostra terra. E intendo così riportare il problema della riforma amministrativa nel suo campo specifico. È un problema veramente amministrativo; è un problema che va guardato senza la passione politica perché qualunque sarà la decisione che uscirà da questa Assemblea, nessun riflesso potrà avere nei partiti. Ora questo problema dell’amministrazione del nostro Stato va affrontato nella sua totalità. Un potere centrale, un Governo, un Paese si trova in linea di massima davanti a tre ordini di interessi: ci sono gli interessi centrali, gli interessi che investono tutto il Paese, e che sono la politica internazionale, le forze armate, la grande politica economica; vi è poi un secondo ordine d’interessi: gli interessi generali ma che si manifestano in periferia. Quando voi decretate l’ammasso del grano e quello dell’olio o adottate delle misure d’ordine pubblico di carattere generale, voi tutelate un interesse generale, ma quell’interesse generale si manifesta in Provincia: col raccolto nelle diverse terre d’Italia. Eppoi ci sono gli interessi locali propriamente detti; vi sono quegli interessi che nascono e si esauriscono nell’ambito di una circoscrizione locale. Ora, onorevoli colleghi, il modo di armonizzare e di amministrare questi tre grandi ordini di interessi è vario nelle funzioni dei popoli moderni. Può lo Stato accentrare tutto ed a mezzo di una politica totalitaria interessarsi di tutta quanta l’amministrazione di questi interessi. Può lo Stato adottare il sistema di larga autonomia, ma questo non significa che si tratta di uno Stato federale. Uno Stato che attua un sistema di grande autonomia può amministrare dalla capitale i larghi interessi e può lasciare al naturale svolgimento delle cose e delegare ai rappresentanti «in loco» l’amministrazione degli altri interessi. È l’istituzione tipica dell’Inghilterra e dell’antica Roma. Non è che ci sia una federazione, perché la federazione è un altro concetto. C’è invece una delega di poteri da parte del Governo centrale a elementi locali eletti o non eletti. Ci può essere un sistema misto di amministrazione, quando cioè un Governo attua al centro la politica generale e tramite i suoi funzionari cura gli interessi generali dell’amministrazione locale, lasciando, però, larga autonomia agli interessi locali, cioè lasciando che quegli interessi che si risolvano in loco, siano amministrati dagli abitanti, in loco.
Poi abbiamo le federazioni. Ma nelle federazioni non c’è un centro. Il centro è puramente convenzionale. La piramide non esiste più; esiste una pianura, esiste una convergenza di interessi affidati alla tutela di un centro, ma è, ripeto, tutta un’altra questione; non entra assolutamente nel campo dello stato unitario la concezione federale.
Che cosa c’è oggi in Italia? Quale sistema è attuato in Italia? È attuato un sistema, consentitemelo dirlo, di origine rivoluzionaria, perché è il sistema che nacque dalla rivoluzione francese. Normalmente tutte le rivoluzioni sorgono e si affermano nei primi momenti con intenti liberatori; esse vogliono recidere i vincoli che legano la persona umana; esse vogliono anche attuare una liberazione di quelle che sono le dipendenze della periferia dal centro che governava questa periferia. E così nel 1789, appena avvenuti gli episodi rivoluzionari, anche nel campo amministrativo, in Francia, si volle operare una rivoluzione, perché quella che era diventata amministrazione paternalistica affidata agli intendenti regi fu sconvolta, e si volle ritornare ai municipi romani: e non vi fu castello che non ebbe il suo consiglio elettivo, e i dipartimenti in cui fu divisa la Francia per spezzare le antiche aderenze con la monarchia, con le famiglie feudali, ebbero anche essi i loro organi elettivi.
Che cosa avvenne nell’anno VIII dopo che la rivoluzione francese ebbe fatta la sua esperienza di Governo? Avvenne quello che avviene quando tutte le rivoluzioni si trovano al potere. Essa fece marcia indietro rapidamente. Sciolse i Consigli dipartimentali, mantenne, ma quanto mai controllati, quelli comunali e per la prima volta nella storia dell’epoca moderna, noi vediamo sorgere il prefetto, questa figura politica, questa figura di controllo dell’opinione del Paese, e siamo passati da una promessa liberatrice rivoluzionaria ad una attuazione pratica accentratrice.
Una voce. Fu Napoleone.
CICERONE. Napoleone è sintesi ed estrema conseguenza della Rivoluzione francese. Che cosa è avvenuto in Russia? È avvenuta la stessa cosa. In Russia la rivoluzione garantisce all’inizio l’autogoverno dei popoli alla periferia; afferma che l’impero zarista abbia violentato le nazionalità. Ma anche la Russia nel giro di quattro o cinque anni fu costretta a fare marcia indietro. Conserva tuttora la caratteristica di uno stato federale, ma controlla questo stato e lo controlla attraverso un partito unico. È la stessa parabola.
In Italia noi abbiamo imitato l’amministrazione francese, che è decentrata, ma unitaria, perché il decentramento è la migliore forma che abbia un governo autoritario, per controllare direttamente, attraverso i suoi funzionari, quello che avviene alla periferia.
Ora, a me è parso, e mi si consenta il paragone, che nell’elaborare questa Costituzione i componenti della Commissione abbiano seguito la stessa parabola, che si svolge nei paesi rivoluzionari: che siano partiti con intenzioni liberatrici, rivoluzionarie, moderne e siano andati a finire ad uno Stato accentratore. Perché in Italia, in fondo, una rivoluzione non c’è stata; la rivoluzione è rimasta nelle intenzioni dei rivoluzionari. Ma, purtuttavia, questo processo mentale ha agito in qualche modo su chi doveva compilare il progetto. La Commissione è partita in quarta per attuare una riforma rivoluzionaria, poi si è spaventata, ha pensato che l’Italia potrebbe sfuggire dalle mani del potere centrale ed ha cominciato a fare marcia indietro. Questo avviene sempre, quando una riforma si stratifica su altra situazione.
Qui, invece di trovarci di fronte ad un progetto agile, moderno, siamo di fronte ad un barocchismo spagnuolo.
Si sono proposte delle assemblee regionali, poi si è parlato di presidenti di regioni, di governi regionali. (In Sicilia i deputati regionali si fanno chiamare onorevoli ed io non so se il presidente della repubblica siciliana, venendo a Roma, dovrà aspettarsi la visita dell’onorevole De Nicola).
AMBROSINI, Relatore. Non è repubblica siciliana.
CICERONE. Questo è l’edificio, il castello. Ma gli abitanti di questo edificio – consentitemelo – sono veramente dei piccoli uomini, perché i costituenti sono stati timidi di fronte alle attribuzioni da dare a questo amplissimo organo periferico.
Ho sentito manifestare preoccupazioni gravissime circa l’unità del Paese e circa il pericolo di contrasti tra legislazione regionale e legislazione centrale; ho sentito anche adombrare una specie di rivolta dei baroni delle Regioni, per cui un giorno ci sarebbe un ultimatum nei confronti del governo.
Ebbene, non penso, ma temo che i miei colleghi, nell’esaminare questo problema non si siano spogliati delle passioni e non abbiano fatto un po’ il raffronto colla storia di altri Paesi federali.
Avviene sempre nello stato federale, quando la federazione non abbia origine in una profonda coscienza nazionale, che il potere centrale si riprende tutto quello che ha dato ed anche qualche altra cosa.
Avviene sempre, come in Germania ed in Austria, che i conflitti fra potere centrale e periferia vengano sempre risolti dagli organi centrali a loro favore; si crea una consuetudine, per cui il centro ha sempre ragione e la periferia torto.
E così, quando voi avete dato alle Regioni le facoltà elencate all’articolo 109, avete fatto molto poco di più di quanto non fosse fatto per la Provincia 80 anni fa. Ma, quando poi considerate gli articoli 110 e 111, in cui questo orizzonte sembra allargarsi, voi forse non vi accorgete di urtare immediatamente contro i poteri centrali, perché quei due articoli rimarranno lettera morta o saranno fonte di eterni cavilli fra il potere centrale ed il potere periferico, per cui ad un certo punto la periferia si adatterà.
Ma voi allora mi dite: che cosa desideri che si faccia? Sei unitario? Sei federalista? Io dico che le cose o si fanno o non si fanno. Io dico che se in Italia ci fosse stato uno spirito federale, in questo momento, l’Italia, il popolo italiano avrebbe avuto molte occasioni per far valere questo spirito federale. Abbiamo attraversato una divisione, durata due anni, fra nord e sud, abbiamo avuto delle amministrazioni diversissime, tedesca al nord, inglese ed americana al sud, c’è stato il due giugno il quale sembrava avesse scavato un fosso incolmabile fra la concezione repubblicana del nord e la maggioranza monarchica del sud, eppure il Paese, salvo qualche rammarico, qualche incomprensione, qualche insulto buttato giù dal nord, il Paese, in fondo, è rimasto tranquillo.
Se questi fatti, onorevoli amici, avvengono, avvengono perché la storia vuole farli avvenire, ma noi non possiamo operare a freddo una malata la quale non dice di accusare il male che vogliamo operare.
Ora c’è anche nel progetto di Costituzione una persona la quale scappa fuori all’ultimo comma di un articolo, ed è questo commissario governativo, il quale alle preoccupazioni che vi esponevo, a quelle cioè che questi organi regionali potessero essere destinati ad una vita puramente vegetativa, aggiunge preoccupazioni di carattere politico, perché, onorevoli colleghi, i commissari saranno 20 e sarà molto facile ad un potere centrale provocare delle crisi in quelle Regioni in cui non avrà o non dovesse avere l’appoggio, e mandare dei commissari, e siccome i poteri dei commissari non sono definibili…
LA PIRA. Questa è materia di competenza statale…
CICERONE. Senz’altro, ma io credevo di aver chiarito che queste materie di competenza statale finiscono per la maggior parte di esse per travolgere anche la competenza locale, ed allora voi vedrete che questo commissario, il quale deve apporre un visto sulle leggi che fa la Regione; ed io non capisco bene la natura di questo visto, avrà poteri ben più vasti. Il commissario è il rappresentante del Governo o è il rappresentante del Presidente della Repubblica? Non è chiaro.
Ed allora io credo che la Regione, in definitiva, potrebbe essere un ottimo strumento accentratone; ed a questo proposito vorrei leggervi la relazione del primo progetto regionale fatto in Italia, quello del 1860, relazione fatta in seno alla Commissione presso il Consiglio di Stato presieduto dal Ministro Farini.
In quel momento noi abbiamo una capitale che sta a Torino, una unità di formazione recentissima, movimenti di malcontento specialmente nel mezzogiorno ed in Toscana, contro i quali il potere centrale è preoccupato e non sa cosa creare per controllare direttamente.
E parlando della Regione, il Ministro Farini dice così:
«È dunque il caso di formare un’altra direzione ed un altro ente morale maggiore della Provincia, cosicché i rappresentanti del Governo possono sicuramente avere quei poteri che abbiamo accennato ed insieme il consorzio delle Province basta a tutti… E veramente io considero la Regione tanto come temperamento di transizione, quanto come esperimento… di transizione per facilitare il trapasso dallo stato di disunione allo stato di unione…». Quindi la Regione nacque, nella concezione del primo governo unitario, come un elemento accentratore, ma poi non se ne fece più nulla, perché i commissari regi furono nominati lo stesso e l’Italia dette così buona prova di unità che bastò la legge comunale e provinciale del 1865. Quale differenza c’è tra questo progetto che ci ponete ora sotto gli occhi, ed il progetto del ’61? Lì non si parlava di elezioni regionali. C’erano consorzi di provincie, ed i consiglieri provinciali si radunavano intorno al commissario e deliberavano in modo rapido ed autonomo in momenti eccezionali.
Qui invece non si crea, a mio modo di vedere, un pericolo per l’unità del Paese, perché questa unità è collaudata e nessuna forza al mondo, io credo, la potrà infrangere; ma si crea un pericolo più grave. Io sono convinto che le crisi quando vengono sono benedette da Dio, perché permettono di tagliare netto in una difficile situazione preesistente e di crearne un’altra migliore. Ma qui noi avremmo un dilagare di campanilismo, di orgogli, di vanità che voi non avete forse ben misurato! Questi organi pletorici, per le attribuzioni che sono loro affidate, finirebbero per cozzare contro quest’organo centrale, e quindi per creare situazioni di permanente disagio nel Paese. Questa è la nostra preoccupazione: può anche darsi che ci sbagliamo – ci si sbaglia tante volte nella vita – ma noi abbiamo paura più che di una crisi unitaria, di una crisi che ci porti verso uno stato di «spagnolismo». Io sono meridionale, e ho dovuto accennare a questa questione perché ad essa hanno accennato altri prima di me, ma non capisco come una riforma come questa che riguarda tutta l’Italia, che sarebbe destinata ad operare egualmente tanto al Nord quanto al Sud, possa accontentare di più il Sud che non il Nord. Comunque non ritengo che la ripartizione delle Regioni, così come è stata fatta nel progetto di Costituzione, avvantaggerebbe il Mezzogiorno e ne dirò il perché. Il perché consiste nel fatto che voi avete preso come unità di misura territoriale nel Nord, nella maggior parte dei casi, il tracciato dei vecchi stati. Avete preso così un Piemonte, una Lombardia, una Liguria, una Toscana e via di seguito. Ora il centro di queste Regioni è la vecchia capitale statale che, nella fattispecie, è Milano, Torino e Genova. Volete forse che di fronte ad esse le Provincie si ribellino e pongano delle pregiudiziali? Questo non accadrà. L’unità piemontese, lombarda sarà perfetta perché i centri minori si raccoglieranno attorno ai loro centri secolari, e riunite tutte queste energie, costituiranno un complesso potentissimo nello Stato. Pensate alla Lombardia e al Piemonte stretti attorno a Torino e a Milano ed avrete una somma di energie uguale alla somma di energie del Belgio e dell’Olanda. Ma cosa si è fatto nel nostro Mezzogiorno? C’era ben poco da scegliere: o si andava verso l’unità del vecchio Stato così come era stato fatto nel Nord, o si andava nel Mezzogiorno ad una riunione attorno a Napoli, oppure si doveva andare alle vecchie distinzioni amministrative del napoletano.
Ma queste non sono le Regioni che oggi ci si vuol dare. Non è mai esistita una regione Lucana, non è mai esistita una regione Calabra, non è mai esistita una regione Pugliese; sono veramente espressioni geografiche, sono veramente creazioni artificiose da paragonarsi ad alcuni Stati del Nord America, tagliati su meridiani e paralleli. Non c’è un sentimento regionale in queste Regioni: noi abbiamo solo un sentimento meridionale, di cui siamo fieri, ma non abbiamo un sentimento più particolare, perché siamo abituati, da mille e più anni, a considerarci un’unità, e quindi non comprendiamo perché ci si vuol fare a fette come una torta, mentre nessuno di noi lo ha richiesto. D’altra parte, oggi si esercitano e giocano intorno alla Capitale, a Roma, delle influenze: c’è l’influenza dei grandi centri del Nord che è irreggimentato nelle industrie, influenza che in un domani sarebbe molto più grande quando avesse intorno a sé tutte le Regioni compatte e unite. Che cosa abbiamo nel Mezzogiorno? Quel poco che c’è, che si poteva riunire e lasciare intorno a Napoli, alla vecchia capitale, alla nostra metropoli, voi l’avete spezzettato in Regioni miserabili, senza forza economica e senza potenzialità industriale, perché non possono averla, perché voi state amputando un arto di un corpo unito. Come si risolve la questione meridionale non starò io certo a dire, perché questa non è la sede opportuna. Io ho sentito i pareri più discordi su questa questione meridionale e vi sono stati quelli che hanno detto che era un paradiso terrestre. Veramente, fino al 1700, il Mezzogiorno era ritenuto un po’ come la terra promessa, tanto che imperatori e sovrani ne hanno fatto luogo dei loro soggiorni. Ma ho sentito raccontare anche scene macabre di contadini simili a bruti ed altra roba del genere. Ora, occorre riportarsi al tempo cui si riferisce il giudizio. Il Mezzogiorno è una terra marinara, è un molo proteso verso le terre d’oltre Mediterraneo; come tutte le terre marinare, è prosperata quando ha avuto da assolvete una funzione in quel mare, ed è decaduta quando quella funzione è venuta meno. Vi sono stati momenti terribili nella sua storia, quando nelle sue campagne si scontravano eserciti saraceni, arabi, spagnoli e francesi: vi era la guerra, ma vi era anche il benessere perché tutti portavano qualche cosa nelle nostre terre. E vi dirò che anche per la marcia degli Alleati si è verificata una situazione simile: tutto in una volta questo Mezzogiorno è diventato il centro dell’attività strategica alleata, ed abbiamo visto anche una grande ricchezza, ricchezza che a noi più eruditi e più consci ha fatto pensare che cosa potrebbe essere questa terra, se il traffico vi confluisse di nuovo.
Fu il Mezzogiorno all’avanguardia dell’Italia moderna, e fu all’avanguardia del pensiero moderno, e preparò in Italia, nel 1700, sotto la guida luminosissima di Carlo di Borbone, quel risveglio giuridico, umano, che precorse la rivoluzione francese. E si stava formando in questa nostra terra una situazione felice di lento progresso, ma di continuo progresso, quando la rivoluzione francese tagliò netto a questo naturale svolgimento della nostra storia, e avendo inasprito i contrasti fra le classi sociali, avendo lanciato la classe intellettuale verso l’estremismo giacobino a cui la monarchia borbonica non poteva adattarsi, avvenne la frattura fra la corona e il Paese; per cui, lungi dall’essere giunti all’unità in quelle condizioni disastrose, come si è voluto far credere dall’estrema sinistra, noi ci siamo arrivati un po’ come tutte le altre Regioni italiane, ad eccezione del Piemonte, che nell’ultimo decennio riuscì a sopravanzare il resto d’Italia, e della Lombardia, che si avvantaggiò di una amministrazione saggia da parte austriaca.
Quindi la questione meridionale è una questione internazionale.
L’Italia che aveva le sue colonie e che nonostante la macchia di un regime interno infelice, aveva il suo Impero oltremare, era un’Italia che stava risolvendo lentamente questo problema meridionale, ed è perciò questa una delle cause fondamentali, per cui alcune nostalgie per il passato regime che si ritrovano ancora nella nostra popolazione sono proprio in relazione a taluni problemi del Mezzogiorno, poiché, quella sia pure operettistica messa in scena di «sbocco verso il mare», rappresentava tuttavia la soluzione di questo problema. Pertanto, finché non si farà una politica di espansione di commercio verso Oriente ed altri paesi, una politica di produzione, di scambio economico ecc. non si sarà risolto questo problema, e bisogna profondamente esaminare tutte le conseguenze e tutti i vantaggi se si vuole veramente venire incontro a questa terra; per cui non vi è tanto il bisogno di dividerla in Regioni, di darle autonomie, quanto invece di una migliore e più equa distribuzione delle risorse di cui dispone il Paese.
Ci sono tanti stanziamenti per le industrie, ci sono tanti stanziamenti di carattere industriale e non si sono fatti stanziamenti della stessa importanza per quanto riguarda l’agricoltura. Quando noi cerchiamo, ci sforziamo di vincere quella che è una situazione di fatto – che è sempre difficile a vincere – noi troviamo ostacoli insormontabili.
Ora, non ci pare che nella competenza attribuita alle Regioni ci siano quelle competenze gravissime e importantissime di ordine economico per cui noi potremmo avvantaggiarci attraverso una migliore divisione amministrativa, regionale. Se ad una autonomia regionale si dovesse arrivare, io non ho paura dell’autonomia, ma sempre che derivi da un fatto naturale, io l’accetterei, ma allora dovreste avere il coraggio di dare una autonomia al Mezzogiorno che sia però in forma molto vasta, perché altrimenti peggiorereste soltanto la nostra situazione.
Io desidero ora affrontare la situazione nei suoi termini concreti per chiedere alla Commissione a che cosa si è ispirata nel preparare questo progetto e questo Titolo della Costituzione. Normalmente, quando una Costituzione non nasce per determinazione rivoluzionaria (come avrebbe voluto l’onorevole Saragat nella discussione generale che si è fatta, senza pensare che quelle Costituzioni durano pochi anni) si fa riferimento ad altre Costituzioni; succede che le Costituenti si mettono davanti i progetti di Costituzione di altri Paesi, si riferiscono a Costituzioni di Stati esteri, ne ricalcano e ne riadattano i concetti; oppure cercano le ispirazioni giuridiche nella profondità della storia del proprio Paese come l’ingegnere che deve costruire una casa crollata e va a ritrovare le vecchie fondamenta che sono quelle che hanno sempre meglio resistito. Io ho ricercato pazientemente tra i testi costituzionali esteri, ma non ho trovato nulla che somigliasse a questa nostra Costituzione, non ho trovato in nessuna Costituzione del mondo questo attributo «regionale». O mi sono trovato di fronte a delle federazioni, in cui la sovranità scaturisce da un atto originale dei singoli componenti, oppure mi sono trovato di fronte a Stati accentrati o a Stati autonomisti o a Stati decentrati. Ma questo tipo di Costituzione aveva qualche cosa di simile alla Costituzione polacca: la prima Costituzione polacca si rifaceva un po’ a queste idee, e per una questione di necessità, per quella stessa questione per cui nel 1861 si pensò in Italia ad uno Stato federale. La Polonia usciva, come noi, da uno stato di divisione, soltanto che questa terra aveva popolazioni etnicamente molto diverse, ed allora venne posto a fianco degli organi elettivi il governatore della Regione, quasi come un controllo del centro su queste popolazioni, alle quali si voleva dare l’illusione di autogovernarsi, ma che dovevano stare nello Stato senza parere che fossero nello Stato.
Si è messo in mezzo l’accentramento, perché si mantengono i rappresentanti del potere centrale; si è messo in mezzo l’autonomismo perché si concedono le autonomie e poi c’è anche un po’ di decentramento. Insomma, c’è di tutto. Ma io non credo che, in una Carta costituzionale, il «po’ di tutto» possa essere un bene; credo che bisognerebbe fare una cosa agile ed informata a un solo principio.
Certamente, mi si risponderà che esiste una tradizione regionale italiana. Ma io mi sono domandato dove sta questa tradizione regionale. Una tradizione, in politica e nella storia, non può essere soltanto l’idea lanciata attraverso un libro o un’opera di propaganda. Una tradizione nella storia è una idea che ha trovato la sua attuazione ed ha resistito nel tempo: soltanto allora diventa una tradizione. Ma in Italia dove sta la tradizione, dove sta questo fatto concreto della regionalità? A meno che non si voglia rifarsi al ’400, quando ci fu un qualche cosa come una federazione di Stati, ma non sancita da nessun accordo internazionale, non consacrata in nessun patto: fu un momento di difficile equilibrio e che non ebbe una sanzione giuridica.
E poi abbiamo la folata del ’48 con questo obiettivo finale di una federazione, cui avrebbe portato la sconfitta dell’Austria. Ma la federazione non ci fu.
E allora? Allora rimane la storia d’Italia, come dice Benedetto Croce, che è la storia di tutta la nostra Patria. Ci possono essere storie delle idee italiane, delle scienze italiane, ma poi c’è la storia d’Italia che comincia nel 1860, la storia dello Stato italiano, che è la storia dello Stato unitario.
Ora, qualche cosa nel campo amministrativo dobbiamo fare nel nostro Paese, perché troppe leggi e regimi si sono stratificati sopra di esso per cui, ad un certo punto, sarebbe meglio spazzare via tutto e rifare tutto da capo.
Ma, prima di affrontare il problema, vediamo che cosa dobbiamo fare, vediamo che forma di Stato vogliamo dare alla nostra Patria. Vogliamo conservare lo Stato unitario, o vogliamo andare alla federazione?
Alla federazione non si è voluti andare: non c’è andata la storia, non c’è andata la Costituente, non ci sono andati i partiti. Si vuol dunque conservare lo Stato unitario; e allora come amministreremo gli interessi di questo Stato? Li amministreremo attraverso il decentramento, cioè attraverso il sistema attuato fino ad ora, affiancandolo alle autonomie locali?
Ma il sistema che vige tuttora non risponde alle esigenze di una vera democrazia, perché una vera democrazia deve affidare l’amministrazione di tutti gli interessi ai diretti rappresentanti dei medesimi. Ora, un interesse generale che si manifesti localmente è anche un interesse locale ed occorrerebbe che questo interesse fosse affidato a un eletto del popolo.
È questo il sistema di tutte le vere democrazie, è il sistema inglese, è il sistema norvegese, ecc. Ora, questi rappresentanti eletti localmente dal Paese potrebbero assumere, come assume in molte cerimonie il sindaco e come avviene anche in Austria, una duplice funzione: di rappresentante, di amministratore degli interessi locali, e una funzione di rappresentante del potere centrale, con competenza sugli interessi generali nella fase di manifestazione locale.
Io credo che veramente sia questo l’ideale della democrazia, perché è ben strano parlare di democrazia, quando questa si limiti al centro. Ma voi comprendete che vi sono delle situazioni locali assolutamente diverse da quelle centrali; e queste situazioni, queste manifestazioni locali hanno il diritto di essere guidate dai rappresentanti della maggioranza locale.
Oggi abbiamo i prefetti che sono diventati i tiranni del Paese; il Paese non sente la democrazia, perché, nei diversi capoluoghi di Provincia vi sono situazioni che sono situazioni di prevalenza del partito a cui appartiene il Ministro dell’interno. E finché non verrà stroncato questo malcostume italiano per cui i partiti fanno la scalata al Ministero dell’interno – è la cosa più vergognosa che esista in Italia – noi non potremo parlare di democrazia.
Troviamo dunque una circoscrizione che risponda veramente a questa esigenza e vediamo di darle la vera autonomia, cercando cioè di creare un organo autonomo, ma con la rappresentanza del centro: e allora avremo fatto un progresso.
Altrimenti, non avremo fatto che del barocco e resteremo nel campo della burla. Io ho un po’ ricercato, riandando attraverso le mie cognizioni storiche, quale potesse essere il vero centro naturale di una circoscrizione amministrativa in Italia; e, dopo l’esame dei fenomeni che hanno sempre caratterizzato la nostra vita sociale, ho trovato che, in fondo, l’Italia presenta una peculiarità sua propria che è la civiltà cittadina. In nessun paese del mondo la civiltà si è svolta tanto nelle città; in nessun Paese del mondo o d’Europa, lo sviluppo dei diversi regimi ha avuto per centro le città. E se voi enumerate così, anche superficialmente, la gran parte delle nostre Provincie, dei nostri capoluoghi di Provincia, hanno tutti una tradizione storica gloriosissima. Non dirò dell’innumerevole quantità di questi municipî romani e del numero ragguardevole di colonie greche, che da millenni esercitano la loro influenza sulla campagna circostante. E i Comuni, quei grandi Comuni che hanno contato nella storia del Paese (non tutti i Comuni hanno avuto una prevalenza); e poi le capitali di Signorie: guardate la pianura padana costellata di città che sono state capitali.
E allora ho considerato che, in fondo, questa amministrazione si potesse ancora reggere attorno al capoluogo di Provincia. Il senatore Einaudi diceva l’altro giorno che la Provincia gli suona nome straniero. Bene, io dirò che mi pare che la provincia sia invece di origine latina; e dirò ancora un’altra cosa: dirò che la provincia in Piemonte esisteva prima dell’invasione napoleonica; soltanto che si riferiva a un piccolo distretto, perché il Piemonte era un piccolo paese; quando il Piemonte diventò un grande paese, la provincia si allargò. E nel Mezzogiorno nostro, la Provincia come norma venne introdotta dal regime napoleonico, ma questo ricalcò la Provincia sugli antichi mandamenti. E in Sicilia la Provincia non assunse il nome di Provincia, ma conservò il nome di «valle». E perciò, quando un ente che ha le sue fondamenta in un ente ancora più antico, che ha vissuto per due secoli o quasi, attraverso vicissitudini le più varie, ed ha risposto alle esigenze di rappresentare un centro di vita della periferia, quando un ente ha fatto tutto questo, allora io trovo lì la tradizione; è lì che c’è la storia, è lì che c’è il fatto concreto.
Resta naturalmente da distinguere nettamente una posizione continentale dalla posizione della Sicilia e della Sardegna. C’è in Sicilia una mentalità speciale: è la mentalità di tutte le popolazioni isolane, le quali si sentono sempre un poco appartate dal mondo; è la mentalità inglese, la quale guarda con diffidenza al di là della Manica; è la mentalità della Sicilia, la quale guarda, ed ha sempre guardato, con diffidenza al di là dello stretto di Messina.
E poi dovete considerare un’altra cosa importantissima: che la Sicilia, oltre a costituire un’entità geografica ben delimitata, ha avuto una vita che è la vita di un continente, perché ha avuto su di sé ad un certo momento tre o quattro civiltà, ha avuto una storia sua, che non è la storia italiana, e non è neanche la storia di Napoli; perché molte volte si parla della Sicilia come di un’appendice del Mezzogiorno, e non si comprende che invece la Sicilia è stata assorbita in una orbita che non è stata che per pochi secoli la nostra orbita.
Vi voglio qui rammentare due o tre fatti essenziali, in poche parole. La Sicilia esce dall’orbita della civiltà europea, non italiana, con la dominazione araba; la Sicilia rientra in quest’orbita con l’impero normanno e la successione sveva. Ed in questo momento stesso in cui rinasce alla civiltà europea la Sicilia si sente la madre dell’imperatore di Germania, si sente il Regno dei Grandi Normanni, i quali avevamo le provincie al di qua dello Stretto; il loro regno è nell’isola e la loro capitale è Palermo; le colonie sono nel napoletano.
Ora, questa mentalità originaria trova esplosione violenta nell’episodio dei Vespri; per cui si offre la corona di Sicilia ad un sovrano di cui non si conoscono neanche i connotati, non perché l’affetto agli aragonesi potesse essere maggiore di quello tributato agli angioini, ma puramente per il desiderio di staccarsi da Napoli, perché già Palermo si sente rivale di Napoli. E la Sicilia rimane nell’orbita spagnola, nell’orbita della grande politica mediterranea sino al Settecento; e nel Settecento Carlo di Borbone deve ricorrere alle armi per sottometterla e Ferdinando I, deve accettare il titolo di re delle due Sicilie per accontentare i siciliani che non vogliono un re solamente napoletano.
E allora vedete come la tendenza autonomistica della Sicilia, cioè questo sentimento di autosufficienza, sia vecchissimo e sarebbe saggia opera lasciare alla Sicilia questa sua indipendenza spirituale, più che altro, questa sua soddisfazione intima di sentirsi qualche cosa in se stessa sufficiente.
Ora, dicevo, cerchiamo di seguire la Provincia nel suo naturale svolgimento perché io credo, e con me il Gruppo, che rappresento, che troviamo lì l’unità amministrativa italiana. Questa Provincia, che in un primo momento è amministrata dall’intendente regio, a cui si affianca poi il consiglio di reggenza pure di nomina regia, si avvia quindi all’elezione del consiglio provinciale, ma con attribuzioni limitate; e poi ci rimane il prefetto. E il naturale democratico svolgimento di questo processo non può essere che uno solo: aumentare le competenze della Provincia e abolire i prefetti. È l’unica soluzione lineare, è l’unica soluzione che va per la corrente.
Voi volete decentrare e decongestionare Roma, e questo è essenziale. Ma voi non vi siete accorti che nelle competenze regionali non vi sono tutte competenze che richiedono che si venga a Roma per definire un determinato affare. Tutto quanto rimane necessario alla vita locale con riferimento al centro non è devoluto alla competenza regionale. E allora, perché create la Regione, con la burocrazia e i diversi dipartimenti della Regione, se costringerete i cittadini di Palermo o di Torino a venire ancora a Roma per assolvere i loro doveri?
Evidentemente non si possono creare né ministeri né sottoministeri, né tanto meno enti ad essi equiparati, nei capoluoghi di Provincia o di Regione, perché sarebbe un assurdo; ma si può tentare su scala più vasta l’esperimento che è stato fatto nel Nord con le Sottocommissioni Alta Italia. Decentrate i ministeri economici fra Milano, Palermo, Cagliari e Napoli; create direzioni generali che riassumano in sé le competenze di questi dicasteri economici. Potete metterli sotto la direzione di un sottosegretario di Stato o di un Direttore generale il quale, seguendo una direttiva indicata dal suo ministro, possa autonomamente e sotto la sua responsabilità svolgere le pratiche, invece che a Roma, in questi grandi centri. Ecco un lavoro che potrebbe essere altamente proficuo e grandemente apprezzato ai fini di decentrare l’amministrazione centrale.
E voi credete che si potrebbe licenziare tutto il personale che oggi è entrato nei vari ministeri in qualità di reduci? Credo che le amministrazioni regionali sarebbero un altro ottimo asilo per questi reduci e per i reduci di un’altra guerra che Dio non voglia che avvenga.
Ora, onorevoli colleghi, vorrei chiudere con una piccola storia di ambiente vaticano, tanto per addolcire ai miei amici democristiani la critica che ho fatto al progetto.
Una volta Michelangelo decise di fare un monumento in San Pietro a Giulio II e si propose di fare questo monumento in proporzioni gigantesche: una montagna di marmo, diceva papa Giulio che, pur essendo papa, era vanaglorioso. Egli iniziò il suo lavoro; senonché, prima la Sistina, poi la morte di Papa Giulio, poi il suo monumento di bronzo a Bologna, poi la gelosia dei successori del grande Papa mandarono sempre a monte regolarmente il progetto michelangiolesco; sicché delle 37 statue, di cui doveva consistere questo monumento, ne rimasero nove e di queste ne sbozzò solamente alcune, quelle dei prigionieri. Però, fece alla fine una sola statua, il Mosè, e con quella statua rese gloria a Giulio II, più che se avesse eretto la montagna di pietra.
Io vorrei che per questo progetto si facesse lo stesso: che venuto qui avanti con una mole e una presunzione tutte sue, alla fine si riducesse a pochi articoli, ma armoniosi, belli e duraturi, non dico quanto la statua di Mosè, ma almeno quanto la nostra vita. (Applausi a destra – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Canepa. Ne ha facoltà.
CANEPA. Onorevole Presidente, io sono ossequente al monito, che lei ieri giustamente rivolgeva all’Assemblea, di brevità; è tempo di accorciare, per quanto possibile, questa discussione, che altrimenti va alle calende greche; e sarò brevissimo anche perché non entrerò nella vexata quaestio della Regione. Mi limiterò ad un semplice sintetico ricorso all’Assemblea contro la sentenza di condanna a morte della Provincia, pronunziata dalla maggioranza, da una scarsa maggioranza della Commissione. Dico condanna a morte perché non è un essere vitale, ma una semplice larva quella dell’articolo 107 alinea: le Provincie sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale; nonché quella dell’articolo 120 alinea: nelle circoscrizioni provinciali sono istituite giunte nominate dei corpi elettivi nei modi ecc., giunte che non avranno un bilancio, non servizi proprî, non si sa quali saranno i loro poteri. I loro dipendenti saranno nominati dalla Regione a cui obbediranno. Indi, la parola larva che ho detto mi pare sia veramente appropriata.
Ora, io credo che questa abolizione della Provincia sia un errore gravissimo, di danno incalcolabile, perché lasciamo da parte la origine, di cui altri hanno parlato (in alcune Regioni come nel Piemonte e nella Lombardia e nel Meridione, la provincia ha illustri tradizioni storiche. In altre, invece, è nata all’epoca del Risorgimento), ma certo è che dappertutto ha messo radici profonde. Questo non lo può negare chiunque abbia vissuto la vita provinciale. Perché ha messo radici profonde? Perché la Provincia è un Consorzio di Comuni, non è altro che questo; e cioè la Provincia fa quello che un Comune per sé non potrebbe fare: gli istituti scolastici, gli istituti sanitari, biblioteche popolari e via; e serve di tramite fra un Comune e l’altro. Quanti Comuni di campagna sarebbero ancora inaccessibili altroché per impervi sentieri, se non fosse stata la Provincia a dotarli di strade carrozzabili; e le strade non basta farle ma bisogna mantenerle, ed è la Provincia la sola che possa compiere questo ufficio. Perché è vano dire: «lo potrà fare la Regione». No! Perché i bisogni si sentono da chi vive a contatto della popolazione. Al capoluogo della Provincia dalle valli e dai monti affluiscono i contadini, gli abitanti in genere; ivi è il tribunale e la intendenza di finanze; ivi si tiene il mercato, ivi è quel piccolo centro di vita a cui gli abitanti della campagna accedono senza spesa e senza perdita di tempo. Mentre il giorno che dovranno andare al capoluogo della Regione dovranno spendere l’uno e l’altro, e ne saranno lontani. Oggi imprecano contro la burocrazia romana, domani imprecheranno contro la burocrazia del capoluogo della Regione, e non mai contro gli uffici della Provincia perché con quelli acquistano, per le ragioni che ho detto, una specie di sorta di famigliarità e in qualche modo li controllano: ciò che non possono fare per il centro lontano.
Dicevo che avvicinare gli amministratori agli amministrati, i dirigenti alle popolazioni, è un’opera essenzialmente democratica; anzi, questa è la vera democrazia: è democrazia a beneficio di quelle popolazioni rurali le quali sono prive delle attrattive della città. Diceva un vecchio politico: «bisognerebbe pagarli perché stiano in quei paesi». Vivono una vita misera, povera; ed è dunque ad essi che dobbiamo rivolgere i nostri pensieri e le nostre cure. E quando si presenta una riforma occorre domandare in primo luogo se ad esse sarà giovevole o dannosa. Quanto all’abolizione della Provincia non v’è dubbio che sarà dannosa. Io mi spiegherò con un esempio. Sulla fine del secolo scorso e sul principio di questo a Rovigo e poi a Parma è nata una provvida istituzione: la Cattedra ambulante di agricoltura, la quale adagio adagio si è estesa a molte Provincie. Nella mia Provincia natia, che allora si chiamava di Porto Maurizio (poi un giorno Mussolini, non potendo fare l’Impero, tanto per fare qualche cosa, l’ha chiamata la provincia d’Imperia), in questa mia Provincia la cattedra ambulante di agricoltura ebbe uno sviluppo veramente meraviglioso, perché raggiunse due fini: aumento della produttività del terreno e dirozzamento del contadino.
Il titolare della cattedra teneva prima la conferenza in piazza ai contadini e poi dava loro, nei poderi, insegnamenti pratici: come si pota, come si innesta, come si concima, come si tiene la stalla. Ed i contadini imparavano.
Questo non potrà essere fatto dall’ente Regione, perché esiste una differenza notevole, dal punto di vista agrario, fra Provincia di pianura e Provincia di montagna. L’agricoltura di Cuneo, ad esempio, non ha nessuna affinità con quella di Vercelli.
Ora, bisogna che fra il titolare della cattedra e il contadino si stabilisca la stessa relazione che tra insegnante ed allievo; che si conoscano a vicenda, che l’insegnante controlli con frequenti visite se il contadino ha capito e segue le buone regole. Tutto ciò non può farsi che nel ristretto campo della provincia.
Purtroppo, le cattedre ambulanti furono abolite dal regime fascista, perché i titolari nelle conferenze non volevano inneggiare al fascismo; e furono sostituite dagli ispettorati agrari, i quali svolgono la loro azione fra le carte, in ufficio, lontani dalle realtà concrete delle popolazioni rurali. Se le cattedre non fossero state abolite, oggi per gli approvvigionamenti alimentari, non ci troveremmo nelle condizioni in cui versiamo.
Molti mesi fa io presentavo un’interrogazione al Ministro per l’agricoltura e le foreste, perché aiutasse la provincia a ricostituire le cattedre ambulanti di agricoltura. Mi è stato risposto che la questione è allo studio. Son passati lunghi mesi e si studia ancora, si studierà in eterno, fino a quando le Provincie, ricostituiti i loro bilanci, potranno esse provvedere ai loro interessi che sono interessi di tutta la nazione.
UBERTI. Le Regioni potranno ricostituirle più presto che non lo Stato.
CANEPA. Ma non certo più presto che le Provincie. Concludo portando un altro esempio, questo non tratto più dai paesi piccoli, ma da una Nazione che è maestra a tutti in tema di democrazia e di federalismo: la Svizzera, nei giorni scorsi, ha commemorato il centenario della morte di un suo distinto figlio, Alessandro Vinet, uomo politico e scrittore. In tale occasione, nei discorsi e negli articoli commemorativi, è stato osservato che si viene compiendo quello che egli aveva presagito. Si viene compiendo lentamente, ma irresistibilmente, lo spezzamento dei cantoni, il Canton diventa demi-canton, un tiers de canton.
È proprio l’opposto di quello che facciamo noi.
È la Regione che diventa Provincia e noi vogliamo fare diventare la Provincia, Regione.
Non credo che occorra aggiungere altro, perché questa tesi mi pare che sia profondamente sentita da voi e raccomando alla Commissione dei 75 di volerle fare buon viso, perché, altrimenti, noi questo Titolo non potremo accettarlo.
È a questa condizione, a condizione cioè che si mantenga in vita un istituto vitale, che noi daremo voto favorevole alla Regione. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mastino Pietro. Ne ha facoltà.
MASTINO PIETRO. Onorevoli colleghi, Sardo di nascita e rappresentante di un partito che s’intitola dalla Sardegna, non credo, ciò non di meno, opportuno parlare del progetto di autonomia che all’Isola si riferisce e le riconosce il carattere politico amministrativo di Regione perché finora è cosa di comune consenso che l’autonomia alla Sardegna debba non solo essere riconosciuta, ma accordata in termini più ampi che per le altre Regioni d’Italia.
Io parlerò col proposito, anzitutto, di ricondurre la questione, che si sta dibattendo da varî giorni, ai suoi termini essenziali, poiché anche in questo dibattito ed in questa polemica (ed il dibattito sulla Regione ha costituito una permanente polemica fra Gruppo e Gruppo parlamentare e talvolta, come, ad esempio, per i liberali, fra esponente ed esponente dello stesso Gruppo) spesso si è dimenticato l’oggetto sostanziale della discussione.
Fu detto in quest’Aula dall’onorevole Nitti che procediamo al tentativo di un nuovo statuto e vogliamo darci una nuova Costituzione in quanto siamo stati sconfitti. Io credo che nessuno possa sostenere che la riforma in senso regionalista sorga per effetto della sconfitta poiché prima, non solo di questa guerra, ma anche dell’altra, ed anche molto tempo prima e già dal periodo immediatamente successivo alla Costituzione d’Italia, programmi regionalisti furono formulati con proposte concrete.
Fu anche detto in quest’Aula, e sempre dallo stesso onorevole Nitti, come egli intenda in genere rimanere mazziniano, anzi egli ebbe a dire che a questo proposito sarebbe più mazziniano dei mazziniani storici. E l’affermazione fatta dall’onorevole Nitti è stata anche successivamente ripetuta da parecchi deputati qui dentro. Io mi permetto ricordare che il Mazzini, verso il 1860, pur sempre dichiarandosi antifederalista, affermò però la necessità che fra il Comune e la Nazione, ci fosse un organo intermedio: la Regione. Quindi il criterio della Regione non è nell’amministrazione dello Stato un criterio nuovo, dovuto alla sconfitta, né un criterio contrario alla fede ed al programma repubblicani ma risponde ad una esigenza già affermata nel campo del diritto costituzionale come elemento fondamentale della vita dello Stato. Principio ed esigenza riconosciuti da vari partiti, da quelli repubblicano e democristiano al partito sardo. Io come vedete, mi sto liberando da queste che potrebbero essere obiezioni di secondo piano per poter giungere in seguito a quello che dovrà essere l’esame della sostanza della questione. E, sempre nel campo delle obiezioni di secondo piano, credo doverosa una risposta alle affermazioni formulate avantieri dall’onorevole Gullo, per quanto la risposta l’abbia già avuta dall’amico Lussu.
L’onorevole Gullo nega l’attualità del problema regionalista in quanto nessuna folla dell’Italia meridionale gli fece mai, nei comizi, richiesta di illustrazione di questo problema. Ci ha anche detto come, invece, sia stato richiesto di spiegazioni sull’eventuale riforma agraria. Nessuno si può sorprendere di ciò, che, anzi, chiunque si dovrebbe sorprendere, eventualmente, del contrario.
Si pensi che l’onorevole Gullo si presentò a quelle folle soprattutto nella veste di Ministro dell’agricoltura, ed era ben naturale, quindi, che al Ministro dell’agricoltura la classe dei contadini chiedesse notizie sulla riforma agraria. D’altra parte è superfluo, onorevoli colleghi, che io accenni alla grande differenza che passa tra quella che è una questione che si riferisce ad istituti amministrativi e politici, e quella che può essere una questione che si riferisca a problemi sociali ed economici.
È naturale che le folle partecipino più entusiasticamente a questi ultimi problemi, anziché ai primi. Ma non è certo per questo che il problema politico ed amministrativo perde la sua importanza. L’onorevole Gullo dovrà riconoscere che questa mia osservazione poggia precisamente sul riconoscimento che, se il materialismo storico e marxista non è da ritenere assolutamente vero in tutto e per tutto, è nel vero però quando afferma che occorra sempre attribuire una fondamentale importanza alla questione economica. Nulla di strano, per ciò, che le folle chiedessero all’onorevole Gullo che spiegasse loro in che la riforma agraria – questione di grandissima importanza ed attualità – potesse praticamente consistere.
Fu anche detto in quest’aula, ancora dall’onorevole Nitti e, salvo errore, è stato ripetuto ieri dall’onorevole Cifaldi (a dimostrazione del come il progetto di Costituzione, nelle linee del pensiero che ne sono la premessa, porti ad una attenuazione dell’unità italiana), che basta ricordare l’episodio ed il comportamento dell’Alto Commissario per la Sicilia e di quello per la Sardegna i quali ad un certo punto procedettero, d’accordo, ad uno scambio, fra le due isole, di merci alimentari. Questo comportamento, che solo un ente sovrano potrebbe permettersi, preso senza la preventiva autorizzazione da parte del potere centrale, dimostrerebbe che se noi continuiamo per questa strada, possiamo giungere ad una effettiva diminuzione del potere centrale e, peggio ancora, ad una situazione di pericolo per l’unità dello Stato.
Ora io mi permetto dirvi che questo episodio non differisce dai cento altri in cui i vari prefetti ritennero opportuno – in contrasto alle disposizioni ed alle circolari del Ministro – di stabilire dei divieti di esodo delle merci da Provincia a Provincia. Quello che si rimprovera all’Alto Commissariato per la Sicilia ed all’Alto Commissariato per la Sardegna fu fatto, precedentemente e ripetutamente, proprio dai prefetti, e mi permetto di dire che quello che fu fatto dall’Alto Commissariato per la Sardegna è stato fatto perché questo Alto Commissario doveva intervenire necessariamente a favore di una popolazione affamata, verso la quale lo Stato non aveva provveduto, oltre che per ragioni strettamente alimentari, per altre, dovute proprio al centralismo ed alle complicazioni della sua burocrazia.
D’altra parte, quello fu un episodio che si riferisce ad un momento di eccezione e che riflette una speciale situazione. Nessuno di noi protesta quando, ad esempio, – come è avvenuto ultimamente – il governo centrale assegna miliardi all’Ansaldo ed alla San Giorgio. Se i miliardi dati all’Ansaldo e alla San Giorgio sono stati dati per salvare la vita di trentamila operai e delle loro famiglie, io dico che questi miliardi sono stati giustamente dati. Ma il danaro non era solo o dell’Italia settentrionale o dell’Italia centrale e tanto meno di quelle città e di quelle Regioni cui appartengono gli operai che lavorano in quei cantieri. Erano danari che venivano da tutta Italia, che venivano certamente anche dai contadini dell’Italia meridionale e dell’Italia insulare. Noi riconosciamo che di fronte alla necessità del momento non era possibile comportarsi diversamente, come voi dovreste riconoscere che il comportamento dell’Alto Commissario per la Sardegna e dell’Alto Commissario per la Sicilia fu comportamento doveroso e necessario.
Troppe affermazioni esagerate sono state fatte durante questa discussione, e dobbiamo anche difenderci dalle esagerazioni che non sono nostre ma che gli avversari ci attribuiscono. Quando per esempio si dice che la Regione, anche riconosciuta come ente con personalità amministrativa ed in parte politica, non potrà sanare tutti i mali della Nazione, noi riconosciamo la giustezza di questa critica; ma noi non abbiamo mai sostenuto che la Regione ed il sistema autonomista possano senz’altro procedere a dei miracoli, tanto più che nei miracoli io credo limitatamente. Si è detto non essere vero che possa giovare l’ente Regione all’addestramento alla vita pubblica; che nessun ordinamento autonomista avrebbe potuto impedire la marcia su Roma; si è anche soggiunto che non trovò impedimento il regime di Hitler nel fatto che vi erano delle costituzioni basate su principî autonomisti là dove egli esercitò il proprio autoritario dominio. Ma noi non abbiamo mai detto che l’ordinamento regionale costituirebbe un impedimento assoluto alle dittature, ma che qualunque sistema dittatoriale incontrerebbe una ben maggiore difficoltà a costituirsi.
I consigli regionali – che sono stati chiamati piccoli parlamenti – addestreranno effettivamente i giovani alla vita pubblica per la via che è la migliore, non quella della ciarla e della retorica, ma del contatto con la realtà quotidiana, cosicché l’attitudine personale si possa con l’esercizio affinare. Mi dovrete riconoscere che non sarebbe piccolo vantaggio quello di fornire l’Italia di una classe dirigente soprattutto in questo momento in cui di una classe politica dirigente in senso veramente buono abbiamo bisogno. Fornire l’Italia di una classe dirigente per il domani è un atto doveroso verso la nostra Patria.
È stato detto dall’onorevole Gullo che, in definitiva, l’accentramento non ha nessuno dei torti che noi gli attribuiamo, in quanto questi torti li hanno avuti verso l’Italia meridionale la monarchia ed il fascismo. Io sono rimasto sorpreso di fronte ad una affermazione sì fatta. Mi dispiace che l’onorevole Gullo non sia presente, ma io ritengo che quando si dice monarchia si dica pure accentramento e quando si parla di fascismo si parli di accentramento per eccellenza. Ricorderete tutti che il duce, prima che iniziasse la «gloriosa marcia delle camicie nere», pronunziò un discorso, in Napoli, che fu definitivamente stroncatore di qualunque desiderio e di qualunque velleità, non solo autonomistica, ma anche di semplice decentramento.
Dire che la colpa fu della monarchia e del fascismo e dire che l’accentramento non ha nulla a che vederci, è un contraddirsi. Effettivamente il compromesso tra monarchia e fascismo ha avuto una gran parte nella situazione in cui attualmente si trova l’Italia meridionale, e non intendiamo neanche opporci al riconoscimento di quanto, continuando nel proprio discorso, l’onorevole Gullo ha affermato, sulla responsabilità delle classi dirigenti. Ma le classi dirigenti trovano nell’accentramento il clima più adatto per seguire una politica ed una pratica in assoluto contrasto con gli interessi di quelle classi meridionali di cui sto parlando.
Si è detto che gli statuti regionali potrebbero impedire le riforme agrarie.
Penso che il progetto di Costituzione sia formulato in termini tali per cui, con l’affermare che le direttive in proposito devono essere date dal potere centrale e che alle direttive essenziali non si possono le Regioni sottrarre, impedisca nettamente ogni possibilità del genere. Se il progetto, nella dizione attuale, ciò non dovesse impedire, dovremmo trovare una formula che giunga a questo risultato.
Sono fautore della riforma agraria, ma non posso essere fautore di una riforma che sia uniforme ed eguale per tutti gli italiani e per tutte le Regioni; sono fautore di una riforma agraria che tenga conto delle varie situazioni che esistono in agricoltura nelle varie regioni. L’agricoltura è la conseguenza di leggi naturali superiori, che non dipendono, in gran parte, dalla nostra volontà.
L’agricoltura è necessariamente legata, direi, a quello che è l’ambiente fisico. Voi non potete, ad esempio, parlare dell’agricoltura della Sardegna, misera, sconsolata nella sua agricoltura, se non pensate o non sapete come molto influisca la poca altezza delle montagne, la mancanza, quindi, di ghiacciai che rende ancor più terribile il morso della siccità estiva, dato che passano mesi e mesi in cui non piove mai, seguiti, spesso, da altri in cui piove troppo.
Ora, una riforma agraria, la quale non tenga conto di queste varietà regionali sarebbe una riforma agraria che non farebbe il vantaggio né della Nazione né della Regione né delle classi che dovrebbero rimanerne avvantaggiate. Ed in quale ambiente e clima migliore si può procedere ad una riforma agraria, opportuna e vitale, dell’ambiente e del clima regionale? Penso che basti enunciare la questione. D’altra parte, si ricordi sempre che noi parliamo di uno Statuto il quale ha delle norme che non sono ancora codificate e che possono quindi ancora fissarsi termini più precisi, meno equivoci, se equivoci fossero quelli già stabiliti.
In definitiva, a che cosa si riducono le critiche e le opposizioni al progetto? Si riducono a questo: «già dal 1860 si disse come un ordinamento regionale avrebbe minato l’unità italiana». Siamo arrivati al 1947, quasi a un secolo di distanza, e vengono ancora ripetute le stesse critiche, con una noiosa insistenza, che è da rilevare, in quanto non si va al di là dell’affermazione: perché la si mini, questa unità, assolutamente non è stato detto. Noi non miniamo l’unità ma l’accentramento; quell’accentramento che consente che si facciano delle leggi centrali che riguardano anche le regioni lontane, e le leggi rimangono inapplicate in quanto non seguite da un adeguato stanziamento di fondi; quell’accentramento per cui il Parlamento non ha modo di conoscere tutte le questioni, e il tempo di occuparsi di tutte. Vi è una scala di priorità nell’esaminare e valutare i problemi ed, in questa scala, rimarranno per ultimi proprio i problemi che riguardano le regioni povere, le regioni misere. Questi sono i vantaggi dell’accentramento, contro il quale noi combattiamo.
Contro questa unità di accentramento noi intendiamo insorgere, non contro l’unità italiana.
Ma le critiche avversarie sono troppo generiche e quando poi si passa all’esame concreto del progetto nessuna delle critiche può sussistere. L’onorevole Einaudi, esaminando gli articoli del progetto, ha escluso che minaccino l’unità nazionale. Nessuno, assolutamente nessuno ha fatto l’esame specifico degli articoli per giungere a conclusioni diverse da quelle dell’onorevole Einaudi.
L’unità nazionale poggia su un grande elemento che è forse imponderabile, ma che è un formidabile elemento, rappresentato dalla coscienza nazionale. Prima ancora che l’Italia fosse unita vi erano non solo divisioni amministrative, ma divisioni politiche, che davano luogo ad una serie di Stati, i quali si unirono formando lo Stato italiano, proprio per l’imporsi di questo fattore che chiamo coscienza nazionale. È quella coscienza nazionale alla quale implicitamente ieri ha accennato l’onorevole Mannironi, quando ci ha parlato della Sardegna, rimasta per oltre un anno staccata dal continente italiano, e che mai concepì un proposito di separazione; quando vi ha parlato della Sicilia che a un certo punto si trovò in condizioni di potersi separare, non a parole, ma di fatto e di fatto non si separò.
Ora, questa coscienza nazionale rimane; e perché dovremmo aver paura di una diminuzione dell’unità italiana, quando, fra l’altro, è detto che quella competenza legislativa, che viene attribuita alla Regione, ha dei limiti nei principî generali della legge e nel rispetto dell’interesse della Nazione; quando è sancito l’obbligo e il diritto alla residenza nel capoluogo della Regione di un Commissario del Governo; quando gli stessi disegni di legge, formulati dalla Regione, dovranno essere trasmessi al Governo centrale per una preventiva approvazione?
Tutti gli Stati usciti vittoriosi da questa guerra, a incominciare dall’Inghilterra, la quale, pur mantenendo ricordi e forme feudali, ammette però principî di autogoverno, a continuare con la Russia e con gli Stati Uniti, rispondono a criteri di governo locale.
Sono state manifestate trepidazioni, perché un articolo stabilisce la facoltà, non so se primaria o secondaria, nella regione, di avere un corpo di polizia, o di avere la vigilanza sulla polizia. E già la fantasia, veramente accesa, degli oppositori al progetto, ci ha voluto parlare in quest’Aula di corpi armati che domani potrebbero rappresentare l’ausilio militare per eventuali ribellioni.
Ma, onorevoli colleghi, mentre io assistevo all’enunciazione di queste critiche, pensavo a quello che avviene da qualche secolo proprio in Sardegna in cui vi è un corpo che è intitolato dei barraccelli e che è uno dei corpi più salutari nella lotta contro la delinquenza nelle campagne.
Nessuno pensa ad organi di polizia locale in contrasto con quella centrale; nessuno pensa ad organi di polizia che possano eventualmente rappresentare un’arma per la Regione, ove essa si ponga in opposizione col potere centrale.
L’onorevole Nobile ha creduto di protestare – mi si consenta anche questo accenno – per un articolo contenuto nello statuto della Sicilia, il quale ammette che il presidente del Consiglio regionale siciliano intervenga, con diritto di voto, al Consiglio dei Ministri, quando si debba deliberare su questioni che interessano la Sicilia. Ebbene, io non comprendo quale danno ciò possa arrecare; io non comprendo in che cosa ciò possa minare l’esistenza dello Stato.
Io credo invece che debba essere un principio veramente di democrazia quello di riconoscere il diritto di una Regione di chiarire in Consiglio dei Ministri quale sia la sua situazione e ciò a mezzo del suo maggiore rappresentante; perché è da supporre che ne conosca i problemi più di quello che non possano conoscerli coloro i quali nella Regione non sono stati o vi sono stati soltanto di passaggio, oppure hanno sì anche delle varie regioni una conoscenza, ma, direi, di seconda mano o libresca; non capisco perché l’onorevole Nobile trovi che questo assolutamente non dovrebbe essere ammesso, e voglia negare questo diritto. Si dovrebbe continuare a verificare questo: che dei provvedimenti vengano presi a danno di una Regione, senza che la Regione sia consultata, possa far sentire il peso della propria voce. Credo che questa voce e questo parere si dovrebbero invece sollecitare e richiedere.
Presidenza del Vicepresidente CONTI
MASTINO PIETRO. Parmi che l’avere in un certo senso contribuito a sfrondare la discussione dalle esagerazioni avversarie e l’aver contribuito a porre il problema – non il problema astratto, ma il problema concreto; quello che ha una formulazione precisa negli articoli del progetto –; che l’aver fatto questo debba persuadere che noi seguiamo una via che è quella giusta, per cui noi non possiamo avere delle difficoltà intrinseche a che il progetto di statuto sia approvato.
Io credo di poter accennare a questo punto – penso sia mio obbligo l’accennarvi – alla questione della Provincia, di fronte a quella della Regione. Ritengo che il problema debba essere enunciato in termini chiari; ed a mio avviso i termini sono quelli che provengono dalla visione e dal concetto della Regione come noi la intendiamo, o meglio, come io la intendo. Intendo la Regione come un ente che abbia, nell’unità della Patria, carattere istituzionale. Intendo che si proceda all’istituzione di un organo nuovo, che adempia a determinate funzioni anche politiche. Ora, se si tratta di istituire un organo nuovo che risponda a queste funzioni, l’organo avrà la necessità di esplicarsi in una zona territorialmente vasta, sufficiente per l’esercizio della propria funzione; la Provincia dovrebbe rimanere invece come sede decentrata per i servizi.
Badate che io non ho motivi speciali per sostenere questa tesi; appartengo ad una cittadina che è capoluogo di Provincia; io appartengo ad una cittadina in cui potrà anche darsi eventualmente che taluno possa trovare motivo di critica nei miei riguardi per il fatto che, anziché affermare soltanto la necessità del mantenimento delle Provincie, riconosco lealmente come la Provincia debba sì esercitare una funzione, ma quella subordinata, alla quale ho accennato.
Premesso questo, soggiungo che non trovo giusti gli argomenti espressi in quest’Aula dall’onorevole Togliatti, il quale si è – ed è naturale, politicamente, che ciò si faccia – preoccupato dello stato d’allarme diffuso nei vari capoluoghi di Provincia. È naturale. Provate a togliere ad un qualunque paese un po’ delle sue prerogative, provate, direi, a diminuire la statura, l’importanza di qualunque cittadina – provate a diminuire, intendo dire, questa importanza per ragioni giuste – e ciò non di meno incontrerete subito le infiammate proteste della cittadina colpita. Questo è naturale. Questo non è giusto, ma è naturale da parte delle città, lese non nei diritti essenziali ma negli interessi che sono loro proprî.
Voi vedete come io proceda enunciando le obiezioni degli avversari senza soffermarmi troppo. Si è anche detto: vedrete che noi ci battiamo, e ci batteremo contro difficoltà finanziarie insormontabili.
Vi confesso il mio stato d’animo, che non era di tranquillità assoluta. Ma io do molta importanza alle dichiarazioni che formulò giorni or sono l’onorevole Einaudi. Egli criticò determinate disposizioni contenute nello Statuto siciliano, e l’Assemblea nel decidere in proposito terrà conto delle critiche dell’onorevole Einaudi. Ma l’ordinamento delle Regioni è approvato anche dall’onorevole Einaudi, pur nella parte finanziaria.
L’essenziale è questo: che si debbono imporre alle Regioni dei sacrifici finanziari proporzionati alle loro possibilità. L’altro principio deve essere questo: le Regioni abbiano diritto a servirsi di mezzi finanziari entro i limiti delle funzioni che devono esercitare.
E quando – badate – le Regioni debbano, in parte con mezzi proprii, provvedere anche alle spese, esse troveranno in ciò il motivo maggiore, per essere caute; esse troveranno in ciò un criterio, un indirizzo pratico per regolarsi.
Prima di finire, debbo una parola all’onorevole Rubilli. Tutto il mio discorso è una risposta al suo ordine del giorno, perché tutta la nostra discussione in definitiva si riassumerà poi nel voto che dovremo dare, e penso che la prima votazione dovrà cadere sull’ordine del giorno Rubilli.
Secondo l’ordine del giorno dell’onorevole Rubilli, il problema della Regione dovrebbe oggi essere respinto. Io devo una parola a lui. L’onorevole Rubilli ha detto che parlava a nome del partito liberale. Io me ne sono sorpreso, voi ve ne siete sorpresi, quando poi avete sentito l’onorevole Einaudi, che è per lo meno liberale quanto l’onorevole Rubilli, approvare il progetto, almeno nelle sue linee essenziali. Passando poi di sorpresa in sorpresa ho sentito l’onorevole Cifaldi, anch’egli liberale, dichiararsi contrario al progetto. Oggi ho poi visto in Risorgimento liberale un articolo in cui si dice che il progetto mina l’unità della Patria. Pensate: l’onorevole Einaudi che mina l’unità della Patria! (Si ride). Io non lo so immaginare! Poi, in questo pomeriggio, ho avuto dalla cortesia di un amico un fascicolo non del partito liberale ma del movimento liberale italiano: badate, non del 1947, sibbene del 1944. Le idee corrono! E si legge in questo fascicolo tutto un inno all’autonomia, e non solo autonomia amministrativa ma anche politica. Si legge che quando parliamo di autonomia regionale, noi intendiamo per autonomia regionale il passaggio di funzioni politiche e amministrative dalla organizzazione centrale a quella regionale, con più ampia partecipazione dei cittadini a quel potere d’imperio che è caratteristica dello Stato, in quanto di più largo contenuto sono le facoltà che permettono loro di concorrere alla vita e al soddisfacimento delle necessità dello Stato. (Interruzione dell’onorevole Lopardi). Io non sto dicendo quali rappresentanti del partito liberale abbiano ragione, ma sto dicendo che è per lo meno sintomatico, di fronte alla certezza che muove l’onorevole Rubilli a presentare il suo ordine del giorno, che vi sia una pluralità di opinioni fra i liberali, affatto diverse fra loro. E l’interruzione non fa che confermare il mio assunto. Fra gli altri (m’interrompe l’onorevole Lopardi) Benedetto Croce è contrario alle autonomie. Io m’inchino dinanzi all’altezza filosofica del Croce, ma non so a quale tesi debbano attenersi i liberali. Questo non riguarda l’onorevole Lopardi che, salvo errore, milita in un altro partito. (Si ride).
Credo, onorevoli colleghi, di dover accennare ad un innegabile vantaggio che la Regione e i Consigli regionali apporterebbero. Il vantaggio è questo: che, in contrasto al modo di vedere di parecchi onorevoli deputati che trovano nella vita dei futuri piccoli parlamenti un motivo deleterio per la Patria, l’azione di quei parlamenti renderebbe meglio possibile l’esame qui in Roma dei veri problemi nazionali, perché gli interessi e i problemi locali verrebbero esaminati invece dai Consigli regionali.
Penso che potrebbero anche esercitare un’azione sul sorgere e sulla vita dei partiti politici riducendone il numero. Questo gioverebbe, non nuocerebbe alla vita politica e alle sorti del paese. L’accantonare le questioni e gli interessi regionali nell’ambito della Regione, il deferirne l’esame e la soluzione ai Consigli regionali, diminuirebbe li numero dei partiti.
Di proposito accenno solo a questo vantaggio mentre mi sarebbe facile accennare anche a tanti altri derivanti sopratutto dall’esame diretto sul posto dei problemi locali; ma questa è cosa ripetuta da secoli, che nessuno può negare e non c’è bisogno che venga ripetuta anche qua dentro.
Il progetto, nei termini in cui è formulato, riconferma il sentimento comune a tutti noi, e sacro per ciascuno di noi, quello dell’unità dello Stato e dell’unità della Patria; questo sentimento è garantito dalla coscienza nazionale, che è al disopra delle divisioni politiche e degli interessi personali degli individui e delle Regioni. Se noi opponessimo un rifiuto all’approvazione di questo progetto – pensiamoci prima di respingerlo – le ragioni di protesta potrebbero diventare motivi di allarme. Allora dalla questione, che oggi è quasi esclusivamente amministrativa, potrebbe arrivarsi ad un’altra che potrebbe avere significato di protesta e pretesa in senso federalistico. Ciascuno di noi pensi d’altra parte se, nell’opporsi al progetto, non confessi sfiducia nella democrazia.
È questa luce nuova, questa nuova realtà (per lo meno credo di poterla chiamare realtà) che ci deve animare; è ad essa che ci dobbiamo ispirare, e non dobbiamo pensare che l’applicazione di questo progetto, diventato legge, ci debba dividere, disunire e possa far sorgere nell’ambito della vita nazionale le partizioni di un tempo; dobbiamo pensare invece ad una vita ricca, varia delle diverse Regioni, che contribuiscano alla grande, all’indissolubile unità della Nazione. (Applausi — Congratulazioni).
PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 9.
La seduta termina alle 20.30
Ordine del giorno per la seduta di domani.
Alle ore 9:
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.