Come nasce la Costituzione

LUNEDÌ 22 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccxxvIIi.

SEDUTA DI LUNEDÌ 22 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente

In memoria di Fiorello La Guardia:

Gasparotto

Tupini, Ministro dei lavori pubblici

Presidente

Interrogazioni (Svolgimento):

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste

Tupini, Ministro dei lavori pubblici

Laconi

Fanfani, Ministro del lavoro e della previdenza sociale

Salerno

Mazza

Schiratti

Corbellini, Ministro dei trasporti

Veroni

Mastino Pietro

Numeroso

Presidente

Chatrian, Sottosegretario di Stato per la difesa

Martino Gaetano

Fiore

Stampacchia

Andreotti, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri

Caso

Cappi

Brusasca, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri

Giacchero

Interpellanze (Svolgimento):

Silipo

Tupini, Ministro dei lavori pubblici

Nobile

Cingolani, Ministro della difesa

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Sui lavori dell’assemblea:

Russo Perez

Vernocchi

Laconi

Presidente

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati Arata, Carmagnola, Pellizzari.

(Sono concessi).

In memoria di Fiorello La Guardia.

GASPAROTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO. Invito l’Assemblea a rivolgere un pensiero di rimpianto e di omaggio alla memoria di Fiorello La Guardia, spentosi l’altro ieri a New York, portando nel cuore l’impronta dei suoi due grandi amori: l’antica patria d’origine, l’Italia, la sua nuova patria di elezione, gli Stati Uniti.

La romantica vita di quest’uomo, figliuolo della Puglia, che si inizia nella più dura miseria e culmina nei fastigi del più alto potere nella città più possente del mondo, è degna di insegnamento e anche di ammonimento per coloro che ancora disconoscono ì valori morali che racchiude in sé questa povera Italia. Perché, dal nulla, da padre ramingo ed esule dalla patria che gli negava il pane, l’italiano Fiorello La Guardia ha saputo battere vie nuove ed arrivare a superba altezza.

Di lui ricordiamo il compagno d’armi della prima guerra europea; di lui ricordo, soprattutto, che quando, dopo la sventura di Caporetto, l’Italia, fino allora divisa, si trovò unita e concorde nel pensiero e nella volontà della rivincita, la voce dell’America suonò consolante ed incitatrice per bocca di Fiorello La Guardia, del quale è ancora memoria di un appassionato discorso al Teatro della Scala a Milano.

Poi, quando, durante l’ultimo e più sanguinoso conflitto, durava in Italia ancora la guerra civile – e fu il delitto maggiore del fascismo – venne dall’America attraverso le onde della radio la prima parola amica, essa era la voce di Fiorello La Guardia. Perciò un gruppo di deputati italiani, profughi ed ospiti nella Svizzera (fra essi vedo presente qualcuno, l’onorevole Targetti, l’onorevole Momigliano, l’onorevole Maffi) gli dirigevano questo saluto:

«Amici vostri, memori della nobile opera da voi spiegata in Italia in altra ora e costantemente mantenuta oltre Oceano, sicuri interpreti unanime pensiero del popolo italiano, vi esprimono la loro profonda riconoscenza per la nuova affermazione di incoraggiante solidarietà, augurando che il generoso appello accolga consensi presso il Vostro grande Paese».

Fiorello La Guardia, passando sopra a tutti i protocolli, malgrado l’ufficio che teneva, ha risposto immediatamente così:

«Amici, pazienza e coraggio. Apprezzo vostro gentile omaggio. L’America è profondamente interessata nell’avvenire dell’Italia. Ho la assoluta certezza che le condizioni miglioreranno molto presto». E il presagio fu tradotto in realtà. Otto mesi dopo l’Italia era libera. Ma, ove non bastasse a costituire titolo di riconoscenza verso di lui quello che ha fatto Fiorello La Guardia per l’Italia, basterà por mente a quello che ha fatto quando, già martoriato dal male che lo ha tratto alla tomba, ha diretto l’U.N.R.R.A., quella meravigliosa e generosa istituzione che ha sfamato tanti vecchi, tanti bimbi, tanti infermi, sparsi per le vie del mondo.

Perciò noi non ricordiamo soltanto in lui il fedele amico del nostro Paese, ma ricordiamo anche uno dei cavalieri dell’umanità, destinati ad aprire la via dell’universale solidarietà a tutti gli uomini che soffrono e che sperano. (Vivissimi, generali applausi).

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Il Governo si associa alle nobili parole dell’onorevole Gasparotto. L’Italia ha perduto in Fiorello La Guardia un amico leale e sincero; la democrazia un’incomparabile campione, l’umanità un forte assertore, generoso e leale, dei valori umani e cristiani della vita. (Vivissimi, generali applausi).

PRESIDENTE. Io credo di interpretare il sentimento e il pensiero dell’Assemblea associandomi alle nobili parole dell’onorevole Gasparotto e del rappresentante del Governo alla memoria di Fiorello La Guardia. Fiorello La Guardia non può essere dimenticato dagli italiani. Essi ricordano la sua solidarietà viva ed ardente durante la nostra lotta di liberazione e la lotta per la conquista delle istituzioni repubblicane d’Italia. Lo ricordano per tutte le virtù dell’uomo pubblico, che ha dato anche un mirabile esempio nello sviluppo dell’opera sua a favore della sua città.

Lo ricordiamo noi, onorevoli colleghi, che avemmo il privilegio di ospitarlo nel nostro palazzo; e lo udimmo rivolgerci delle forti e generose parole di incoraggiamento per la lotta che avremmo ancora dovuto sostenere nel nostro Paese, per i sacrifici che avremmo dovuti ancora affrontare. Egli ci incoraggiò, ci confortò e ci ha, credo, accompagnati col pensiero sino all’ultimo istante di sua vita, perché egli amava veramente l’Italia.

Vada alla memoria di Fiorello La Guardia il nostro commosso pensiero. (Vivissimi generali applausi).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni. La prima è dell’onorevole Laconi, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed ai Ministri dei lavori pubblici e dell’agricoltura e foreste, «per sapere: 1°) se è a conoscenza del Governo lo stato di grave disagio nel quale si dibatte l’agricoltura e quindi tutta l’economia dei comuni situati nella piana di Oristano in seguito ai danni provocati dalle continue alluvioni dovute all’illegale funzionamento delle opere di scarico del lago Omodeo che, creato come opera di trattenuta delle piene del fiume Tirso, è invece diventato causa principale degli allagamenti delle campagne sottostanti ed impedimento alla esecuzione delle opere di bonifica e di trasformazione fondiaria nei terreni più fertili della Sardegna; 2°) le ragioni per le quali il Governo non ha finora raccolto le proteste delle popolazioni colpite, proteste che tendono a far cessare l’attuale stato di asservimento di tutta l’economia di una vasta e fertile regione agli interessi della società concessionaria del bacino, asservimento che dura dal 1924, malgrado le vive proteste delle popolazioni danneggiate; 3°) le ragioni per le quali il Governo non ha finora ritenuto opportuno applicare l’articolo 30 dei disciplinari di concessione 17 marzo 1914 (legge il luglio 1913, n. 985) dichiarando la decadenza della concessione stessa, dato che l’esercizio del serbatoio è così difettoso ed irregolare da richiedere provvedimenti nel pubblico interesse».

L’onorevole Ministro dell’agricoltura e delle foreste ha facoltà di rispondere per la parte che lo concerne.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Il bacino del Tirso, costruito in seguito alla legge Cocco Ortu e regolato dal disciplinare 18 marzo 1914, aveva come scopo preminente la produzione di energia elettrica per usi industriali e civili e quello di irrigazione della piana di Campidano di Oristano.

Il compito di regolatore delle piene del Tirso era un compito secondario, che si univa agli altri due, non nel senso che il bacino fosse concepito come regolatore totale delle piene del Tirso, ma che fosse concepito anche allo scopo di diminuirne la portata e l’intensità, giacché il corso irregolare di quel fiume faceva sì che, per la sua natura torrentizia, piene massime di oltre 3 mila metri cubi al secondo fossero registrate negli anni di massima piovosità; piene che era impossibile contenere anche con un bacino della capacità di 400 milioni di metri cubi, quale è il bacino del Tirso, piene che, però, attraverso la diga del Tirso stesso venivano ridotte ad un massimo di 700-800 metri cubi al secondo.

Costruito il bacino, le opere di irrigazione nella bassa valle del Tirso trovarono una viva opposizione da parte dei grandi proprietari del comprensorio; viva opposizione che si è sempre ripetuta, e si è ripetuta anche quest’anno, adducendo gli stessi elementi e gli stessi motivi – secondo noi, non esatti – che sono contenuti nell’interrogazione dell’onorevole Laconi.

Le acque del Tirso, opportunamente regolate, possono essere sufficienti ad irrigare non solo gli 8 mila ettari del comprensorio di Arborea, ma anche i 16 mila e più ettari del basso Campidano di Oristano.

Se al bacino si attribuissero esclusivamente o prevalentemente funzioni di regolatore di piene, è certo, dati i diagrammi del deflusso del fiume, che l’irrigazione non potrebbe essere praticata. Si aggiunga che, se anche il bacino del Tirso fosse utilizzato come regolatore delle piene, esso non potrebbe mai impedire le inondazioni del Tirso nelle massime piene che si verificano precisamente in anni di piovosità eccezionale, come è stato l’anno decorso. In 24 anni si sono potuti misurare completamente i deflussi del Tirso, e si è visto che essi oscillano da 200 milioni di metri cubi annui, negli anni di minima piovosità, ad oltre un miliardo e cento milioni di metri cubi negli anni di massima piovosità. E questi stessi diagrammi dimostrano come, in questi anni di massima piovosità, che si ripetono con ciclo quasi decennale, le funzioni di trattenuta delle piene del bacino del Tirso non potrebbero essere in nessun modo adempiute, in quanto il deflusso invernale supera quasi tre volte la capacità del bacino stesso.

Si aggiunga inoltre che a valle della diga del Tirso, un affluente del Tirso, il Fiumineddu, il quale non è trattenuto da bacini e riversa le sue acque in piena nella piana di Oristano, provoca anch’esso delle esondazioni frequenti, le quali si confondono con le esondazioni del bacino del Tirso.

Questa situazione non è passata inosservata certamente né al Governo attuale né ai Governi precedenti; essa è stata, anzi, oggetto di lunghi studi, e si è ritenuto che la soluzione dovesse essere la seguente: arginare tutto il corso del Tirso a valle della diga, per proteggere i terreni del Campidano di Oristano dalle inondazioni del Tirso stesso, e utilizzare completamente le acque del Tirso per l’irrigazione del fertilissimo comprensorio del basso Campidano, che permetterebbe di decuplicare la produzione di quei 16.000 ettari di terreno che oggi sono quasi esclusivamente adibiti a pascolo.

Se noi invece adottassimo la tesi di alcuni grossi proprietari della valle del Tirso, del Consorzio della destra del Tirso e dell’onorevole Laconi, dovremmo negli anni di scarsa piovosità condannare questi terreni alla mancanza di irrigazione. Dato infatti l’andamento alterno delle stagioni, per cui a stagioni di media o massima piovosità seguono anni di scarsa piovosità, se si vuol praticare l’irrigazione è necessario conservare nel bacino del Tirso un determinato quantitativo di acqua che serva a compensare nell’anno successivo ad anno di piovosità normale i minori probabili afflussi di pioggia.

Noi dobbiamo regolare l’irrigazione non secondo il decorso annuale della piovosità, ma secondo un decorso almeno biennale, in modo da essere sicuri che nel biennio possiamo disporre annualmente di 300 milioni di metri cubi circa per la necessaria irrigazione dei due comprensori, trattenendo quindi sempre nel bacino un determinato quantitativo di acqua perché anche negli anni di minima piovosità di soli 200 milioni di metri cubi, noi possiamo sopperire con le acque dell’annata precedente ai bisogni dell’irrigazione.

Per utilizzare quindi il bacino del Tirso come opera regolatrice, al massimo, delle piene, noi dovremmo tenere per quanto è possibile permanentemente vuoto al massimo il bacino stesso, mentre noi abbiamo bisogno di trattenere da un anno all’altro nel bacino stesso un centinaio di milioni di metri cubi per poter assicurare questa irrigazione, che si sta estendendo e che è intenzione del Ministero di completare al più presto possibile.

Per salvaguardare i terreni a valle del bacino, che devono essere veramente salvaguardati in quanto si intende trasformarli dalla cultura estensiva attuale a cultura fortemente intensiva, quali sono le culture irrigue, è necessaria la costruzione di argini, i quali sono stati interrotti dalla guerra, in parte distrutti dalle opere di guerra, in parte perché ne è stata sospesa l’esecuzione, la quale è stata ora ripresa e che, completata, porrà completamente in salvo i terreni irrigui dalle possibili inondazioni del Tirso.

Vi sono state anche delle obiezioni contro questa sistemazione, ed è bene che queste obiezioni siano completamente superate da un esame spassionato, perciò nel luglio scorso, dopo la precedente mia visita personale nel territorio, effettuata in aprile, si è proceduto, d’accordo col Ministero dei lavori pubblici, alla nomina di una Commissione che dia l’ultima e definitiva parola sulle decisioni adottate dal Ministero dell’agricoltura. Il problema è ormai più agricolo che di lavori pubblici. Noi intendiamo spingere al massimo l’irrigazione in un territorio desolato come quello della Sardegna.

Ci pare che lo scopo migliore a cui la bassa valle del Tirso potrà essere destinata sia quello di rendere produttivi i fertili territori della bassa valle del Tirso e contrastare le inondazioni nella bassa valle del Tirso, per cui si può trovare rimedio nel proseguimento dell’arginatura, lavoro che richiederà ancora qualche anno, ma che è, secondo noi, indispensabile. Si son fatte obiezioni non tecniche, perché ritengo che le obiezioni tecniche siano infondate; si è trovata avversione nel misoneismo di alcune persone, ma ritengo che il pronunciato della Commissione, che è composta dagli ingegneri Giandotti e Malacarne, tecnici e idraulici noti in tutta Italia, e dal professor Passerini, agronomo di grande valore, ritengo, ripeto, che toglierà di mezzo tutte le obiezioni che infondatamente sono state rivolte all’operato del Ministero.

Questa ritengo che sia la soluzione da adottare per l’interesse della Sardegna, superando quelli che possono essere i piccoli interessi locali che potessero essere lesi. Questa soluzione credo debba adottarsi al più presto, ed io ho già disposto dei finanziamenti destinati ad eseguire quelle opere di arginatura che in ogni caso sono indispensabili; perché, come ho detto, nelle annate di grande piovosità il bacino del Tirso non è capace di trattenere tutta l’acqua del Tirso stesso, in quanto esso ne può trattenere appena un terzo e gli altri due terzi sarebbero sufficienti, nei momenti di massima piena, per provocare quelle inondazioni che si lamentano.

Occorre quindi difendere i terreni con un mezzo che sia diverso da quello del bacino, con un mezzo che non può essere costituito altro che dall’arginatura del corso del Tirso, ed anche del corso dei suoi affluenti, le cui piene, se pure di minore importanza, sono più numerose ed egualmente dannose.

Questo, per la soluzione che noi prospettiamo. In quanto al passato ed alle accuse che si sono mosse da varie parti, e si muovono anche con questa interrogazione, al comportamento della società ed alla mancata applicazione dell’articolo 30 del disciplinare della concessione del 17 marzo 1914, devo rispondere che l’applicazione di questo articolo non è possibile. Il disciplinare stesso contempla infatti la decadenza della concessione quando, durante il periodo dell’esercizio, non venisse sufficientemente curata la manutenzione ordinaria e straordinaria dell’opera, per modo da correre pericolo cose e persone, oppure quando l’esercizio del serbatoio e servizi attinenti all’agricoltura e all’industria dovesse risultare così difettoso ed irregolare da richiedere provvedimenti di pubblico interesse.

Il Ministero dei lavori pubblici, concessionario, ed al quale spetta fare osservare la concessione, ha giustamente osservato che il funzionamento della diga avviene sotto il controllo del Genio civile, il quale nessun rilievo ha presentato in proposito, e soggiunge che le inondazioni lamentate nel decorso anno sono dovute esclusivamente all’annata con andamento intensamente piovoso, torrentizio, eccezionale in modo che il bacino non è causa di queste inondazioni stesse, che sono prodotte invece dal naturale svolgimento della stagione. Ritengo perciò che senza voler prevedere quali possono essere i risultati dei lavori della Commissione nominata, che ha già iniziato lo studio della questione, Commissione sulla quale non vogliamo influire in nessun modo, la soluzione della questione si debba trovare nelle linee che ho già indicate, cioè arginare i fiumi le cui inondazioni provocano notevoli danni, i quali oggi sono contenuti in limiti modesti in quanto il terreno rivierasco è a coltura estensiva, ma che sarebbero ingentissimi, e che è necessario evitare, quando il terreno stesso fosse adattato a coltura intensiva; estendere con la massima intensità, contemporaneamente, le opere di irrigazione perché è certo che il beneficio che si ricava dall’utilizzazione delle acque del Tirso a scopo irriguo è incredibilmente più grande di quello che si potrebbe ricavare da qualsiasi altra utilizzazione. Non vi è confronto fra il benefìcio che può arrecare la diga del Tirso come regolatrice di piene e il benefìcio che le stesse acque possono arrecare utilizzandosi come irrigazione. Perciò fra le due soluzioni, nell’interesse generale collettivo, io ritengo che lo Stato debba perseguire l’opera già iniziata, in quanto, proseguendo quest’opera, si otterrà per la Sardegna un benefìcio grandissimo e, contemporaneamente, proseguendo gli argini si eviteranno i danni che si sono lamentati. Ritengo che questa sia la soluzione migliore da adottare; ma ad ogni modo, prima di proseguire in questa strada, il Ministero attende le decisioni della Commissione che non si faranno aspettare ancora a lungo perché il lavoro della Commissione stessa è stato già iniziato.

PRESIDENTE. Il Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di parlare per la parte di sua competenza.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. C’è un terzo punto dell’interrogazione dell’onorevole Laconi che può riguardare direttamente il Ministero dei lavori pubblici, là dove si domanda «come mai il Governo non ha ritenuto finora opportuno applicare l’articolo 30 del disciplinare del 17 marzo 1914 dichiarando la decadenza della concessione stessa, dato che l’esercizio del serbatoio è così difettoso e irregolare da richiedere provvedimenti nel pubblico interesse».

Da quanto ha detto il collega onorevole Segni si può facilmente desumere come, di quanto avviene nel funzionamento del serbatoio, non si debba imputare in modo particolare la responsabilità completa alla Società concessionaria, la quale, per quanto riguarda gli uffici del Ministero – poiché gli organi periferici competenti non hanno fatto segnalazioni gravi a questo riguardo – ha rispettato le norme del disciplinare stesso. D’altra parte, devo ricordare all’onorevole Laconi quale è la dicitura precisa della clausola che riguarda l’eventuale decadenza della concessione, che bisogna tener presente in tutti i suoi termini per vedere se concorrono elementi per addivenire a quello che egli domanda nella sua interrogazione, e cioè: «la decadenza può essere decretata quando durante il periodo di esercizio non venisse sufficientemente curata la manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere, per modo da far correre pericolo alle cose ed alle persone e da far prevedere che, rinviando la scadenza della concessione, dovesse essere restituita allo Stato con un forte deprezzamento»: circostanze queste che, secondo i dati a nostra disposizione, non si sarebbero verificate. Il successivo paragrafo 4 prevede anche la decadenza quando l’esercizio del serbatoio e dei servizi attinenti alla agricoltura, all’industria e ad usi civici dovesse risultare così difettoso da richiamare provvedimenti di pubblico interesse. Per quel che riguarda la competenza del mio Ministero devo dire all’onorevole Laconi che il funzionamento avviene sotto il controllo del Genio civile il quale non ha lamentato nulla di grave che possa dar luogo al provvedimento sollecitato dall’onorevole Laconi.

D’altra parte, le doglianze dell’onorevole Laconi, se fondate, non dovranno rimanere insoddisfatte; ed io stesso, non appena ho preso visione della sua interrogazione, mi sono dato cura di richiedere agli uffici competenti della Sardegna dati ed elementi che mi consentano di meglio approfondire la questione e di portare a disposizione dell’onorevole Laconi e di chiunque vi abbia interesse quei risultati che potranno derivare da queste indagini.

Comunque, noi attendiamo che la Commissione, di cui parlava testé l’onorevole Segni, ci dia le sue risultanze, le sue conclusioni, perché, in armonia con le medesime, si possano adottare quei provvedimenti che meglio rispondano agli scopi che hanno determinato l’interrogazione dell’onorevole Laconi.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

LACONI. Io mi rendo conto del fatto che gli scopi che il Ministro dei lavori pubblici e il Ministro dell’agricoltura hanno attribuito alla creazione del bacino del Tirso non solo ricorrono fra quelli contemplati nel disciplinare del 1914 e nella legge del 1913, ma sono anche in se stessi apprezzabili e rispondono ad esigenze che ciascuno di noi è portato a riconoscere come giuste; però sta di fatto che l’articolo 1 del disciplinare stabilisce che la diga di sbarramento principale doveva essere costruita non soltanto in modo da rendere il serbatoio di trattenuta capace della quantità di acqua necessaria agli usi industriali ed all’irrigazione, ma anche in modo da rappresentare un argine tale da servire come raccolta delle acque del Tirso. Evidentemente, nel disciplinare e nella legge tra gli scopi, sia pure non tra i principali, che ci si proponeva con la creazione della diga, era contemplato anche quello di impedire o limitare le inondazioni.

Ora se andiamo a vedere cosa è accaduto in realtà, da quando la diga è stata creata, constatiamo che non solo il bacino non ha esercitato questa funzione, ma la situazione si è aggravata subito dopo la costituzione del bacino, almeno per quanto riguarda questo, che avrebbe dovuto essere uno degli scopi, sia pure secondari, della costruzione della diga.

Prima della costruzione, le inondazioni del Tirso erano di breve durata, 24-36 ore. Dopo la costruzione del bacino, siamo giunti ad avere nel 1934 fino a 27 giorni di inondazione; il che dimostra che almeno uno degli scopi, per cui il bacino è stato creato, non è stato in nessun modo raggiunto.

Io prendo atto delle dichiarazioni del Ministro dell’agricoltura, per quanto riguarda i provvedimenti che egli ha inteso di prendere per la costruzione delle arginature.

Ho però qualche dubbio su questa soluzione, in quanto è anche a conoscenza del Ministro dell’agricoltura che in Sardegna, soprattutto negli ambienti tecnici, si avanzano serie riserve sulla efficienza di queste opere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Dubbi interessati.

LACONI. Lo credo. Ma sta di fatto che ci sono interessi diversi e contrapposti, come il Ministro dell’agricoltura sa bene. In genere, chiunque parli di queste cose rispecchia uno degli interessi.

UBERTI. Allora lei rispecchia degli interessi.

LACONI. Non lo nego; ed all’inizio di questa mia risposta precisavo che di fatto vi sono scopi diversi, egualmente perseguiti attraverso la costruzione del bacino, e tutti apprezzabili.

Il fatto è che il bacino non può rispondere a tutti questi scopi e non possiamo chiudere gli occhi dinanzi ad una situazione così grave, come quella verificatasi quest’anno.

A me spiace che il Ministro dell’agricoltura sia andato soltanto in luglio.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Sono andato in luglio, in aprile e in dicembre.

LACONI. Ricordo che quando ella visitò il Campidano di Oristano in aprile, vi era il diffuso desiderio tra quelle popolazioni, che ella visitasse le zone colpite, desiderio che non ebbe soddisfazione. Io stesso, che invece visitai quelle zone in quel periodo, ebbi modo di rilevare uno dei difetti fondamentali delle arginature. I terreni del cosiddetto «bennaxi» sono così sabbiosi, che permettono penetrazioni, ben oltre gli argini. Ho visto io stesso oltre l’argine l’acqua riaffiorare.

Questo è uno dei motivi, che rendono problematica la soluzione; ve ne sono anche altri, i quali portano a pensare che la questione sia di difficile soluzione e che la proposta del Ministro dell’agricoltura non sia tale da sodisfare le esigenze degli agricoltori della zona.

Spero, comunque, che la Commissione nominata sia in grado di trovare la soluzione che risponda agli interessi di tutti.

L’onorevole Ministro non ha precisato come questa Commissione sia composta.

SEGNI. L’ho detto; lo ripeterò.

LACONI. Per quanto riguarda la decadenza eventuale dalla concessione, io non credo che le obiezioni portate dal Ministro dell’agricoltura e dal Ministro dei lavori pubblici siano persuasive, in quanto tutto dipende dalla interpretazione che si dà al disciplinare, e se si ammette che uno degli scopi per i quali il bacino fu costruito era quello di regolare le piene del Tirso, mi pare evidente che, non essendo stato questo scopo raggiunto ed occorrendo per raggiungerlo l’intervento dello Stato, resta dimostrato, almeno sotto questo aspetto, che il funzionamento di queste opere non è stato quello che ci si proponeva nel momento in cui esse furono costruite.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Ho già detto, e mi duole che l’onorevole Laconi non abbia sentito, che la Commissione è composta da Giandotti e Malacarne, idraulici di grande valore, e dal professore Passerini, agrario di provato valore.

In quanto alla questione di merito, essa secondo me si deve risolvere indiscutibilmente nel senso che ho detto, perché se anche fosse esatto, e non ci fossero altri modi di riparare ai danni che avvengono nel «bennaxi» di Oristano e riguardanti un migliaio di ettari sempre lasciati a pascolo ed appartenenti a alcuni grossi proprietari di Oristano, cioè anche se dovessero essere sacrificati, mi pare che varrebbe la pena che essi fossero sacrificati per salvare la restante zona della pianura. Tuttavia affermo che questo sacrificio non vi sarà, tanto più che questo fenomeno, verificatosi quest’anno, si verifica solo negli anni di massima piena, ogni 12-13 anni. È un fenomeno che possiamo studiare e per il quale possiamo trovare soluzioni, anziché sacrificare la restante zona della pianura. Ci potranno essere dei drenaggi e gli idrovori occorrenti, ma ritengo che sia assolutamente da non seguire la strada per la quale, a causa di una piccola zona soggetta non alle esondazioni, ma ad asserite infiltrazioni attraverso la diga, si debba invece sacrificare la restante zona, che, come ho constatato nelle mie visite, non è soggetta ad infiltrazioni, ma è protetta dalle dighe stesse, irrigabile e destinata ad una profonda trasformazione tecnica e sociale che desideriamo vivamente sia realizzata al più presto possibile.

Non voglio precorrere il giudizio dei tecnici ai quali ci siamo affidati. Dopo questo giudizio, che certamente non tarderà molto, intendiamo proseguire la strada che i tecnici stessi ci consiglieranno.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Salerno, Persico, Ruggiero Carlo, al Ministro del lavoro e della previdenza sociale, «per sapere quali provvedimenti di urgenza intenda adottare per far fronte alla grave e allarmante disoccupazione di Napoli e della regione campana».

Sullo stesso argomento, l’onorevole Mazza ha presentato la seguente interrogazione al Ministro del lavoro e della previdenza sociale, «per conoscere i provvedimenti che si intendono adottare per combattere il tragico problema della disoccupazione nella provincia di Napoli».

L’onorevole Ministro del lavoro e della previdenza sociale ha facoltà di rispondere a entrambe le interrogazioni.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Anzitutto, circa l’affermazione che nella regione campana ed a Napoli si manifesterebbe particolarmente grave il fenomeno della disoccupazione, posso assicurare gli onorevoli interroganti che il fenomeno stesso, per quanto riguarda ad esempio l’intera regione campana (esclusa la provincia di Napoli) non si presenta in condizioni più gravi di come si presenta nell’intero territorio della Repubblica. La cosa non si può affermare invece se includiamo – come la geografia impone di includere – nella regione campana anche la provincia di Napoli; e naturalmente la gravità aumenta se prendiamo in considerazione esclusivamente il territorio della provincia di Napoli. Sono in grado di fornire dei dati a questo proposito.

Rapportato all’intera popolazione italiana, il numero dei disoccupati iscritti nelle liste degli uffici di collocamento, esso si può ragguagliare a circa il cinque per cento. Debbo però aggiungere, come dimostrerò, che dette liste sono piuttosto pletoriche. Ora lo stesso rapporto per l’intera regione campana è del 6 per cento. Per la sola provincia di Napoli si va dal 7 all’8 per cento. Naturalmente, debbo anche avvertire, come ho richiamato poc’anzi, che questi rapporti sono poco attendibili, soprattutto perché le liste dei disoccupati iscritti negli uffici di collocamento sono pletoriche. E ciò, per quanto riguarda Napoli, posso dimostrare immediatamente. Fin dal mio arrivo al Ministero mi sono preoccupato, forse perché vecchio studioso di statistica, di arrivare a qualche dato più attendibile di quelli correnti sui giornali o nei bollettini ufficiali, ed ho predisposto una revisione delle liste dei disoccupati. Ora, la revisione fatta per Napoli ha portato a questi risultati: i 91 mila iscritti nelle liste di disoccupazione al 31 luglio, al 10 settembre sono ridotti a 41 mila, ed una ulteriore verifica di questi 41 mila ha portato, per le cifre finora verificate, ad una ulteriore riduzione del 5 per cento. Si noti che non si tratta di un fenomeno particolare a Napoli o alla provincia di Napoli. Revisioni del genere, compiute nelle maggiori città italiane, ed anche nelle provincie agricole, hanno portato a risultati comparabili a quelli ottenuti per la provincia e la città di Napoli.

Occorre tener presenti questi dati per non essere indotti dalle cifre pubblicate dai giornali o anche nei bollettini ufficiali a manifestare delle preoccupazioni che, in base a queste cifre, diverrebbero ingiustamente gravissime.

Ad ogni modo, debbo aggiungere che esaminando l’andamento delle cifre e dei dati relativi alla disoccupazione per la provincia di Napoli e per la Campania, negli ultimi mesi si notano dei sintomi notevoli di diminuzione. Per i marittimi si nota già, fin dal mese di maggio, una notevole diminuzione del 20 %, sicché oggi la cifra dei marittimi disoccupati nella provincia di Napoli raggiunge forse appena le 9.000 unità. Per quanto riguarda l’agricoltura, non raggiungiamo le 6.000 unità; mentre, ripeto, notevole e grave è il fenomeno per quanto riguarda soprattutto le industrie.

Ora, di fronte a questa situazione che cosa ha fatto il Governo e che cosa si propone di fare? Questa è la sostanza dell’interrogazione rivolta dall’onorevole Salerno e da altri onorevoli colleghi. Per quanto riguarda il tentativo di aumentare l’occupazione nel territorio stesso della provincia di Napoli, il Governo ha preso una serie di provvedimenti nei mesi scorsi ed ha continuato a prenderli in questi ultimi mesi. Ad esempio, ha esteso alla provincia di Napoli l’integrazione dallo zero alle quarant’ore per i pastai e per i navalmeccanici e quindi ha provveduto a 126.000 integrazioni per oltre duecento milioni di lire. In più, ha preso accordi con l’«Ansaldo» di Pozzuoli e l’«Ilva» di Bagnoli per l’assunzione di nuovi contingenti di reduci. Ha promosso, altresì, su richiesta dei partigiani e dei reduci, ispezioni presso le varie ditte ed uffici pubblici per eliminare gli occupati che non ne avevano bisogno e sostituirli invece con i disoccupati che avevano urgente bisogno di guadagnare.

Anche per quanto riguarda Napoli si è perseguito l’indirizzo già in vigore nelle altre provincie italiane, quello cioè di tentare di qualificare o di riqualificare la mano d’opera, che non può essere assorbita in un determinato settore, per avviarla in un altro settore. Così, ad esempio, proprio nella provincia di Napoli si sono svolti 32 corsi per oltre 6.000 operai che cercavano un altro titolo di qualificazione professionale più favorevole alla loro occupazione.

In materia di lavori pubblici, posso assicurare che i lavori messi in atto fino al mese di luglio hanno consentito in Napoli l’occupazione media giornaliera di 20,661 unità.

I lavori ferroviari hanno consentito di assorbire, e tuttora assorbono, cinquemila unità. Inoltre l’Amministrazione ferroviaria ha ordinato alle varie officine e stabilimenti di Napoli e provincia 2450 carri ferroviari, di cui finora sono stati consegnati soltanto 157 carri ferroviari. Il che consente di dire che le ordinazioni dell’Amministrazione ferroviaria garantiranno anche per i prossimi mesi un notevole assorbimento di mano d’opera.

Per quanto riguarda poi le erogazioni del già Ministero dell’assistenza post-bellica ed oggi del Ministero del lavoro agli enti e cooperative che provvedono all’avviamento al lavoro di disoccupati e reduci, posso dire che dal marzo al 15 settembre tali erogazioni sono ascese a sette milioni di lire. Queste le provvidenze che finora sono state prese.

Per quanto riguarda il prossimo futuro sono in corso di appalto 130 opere pubbliche per oltre due miliardi di importo. E questi lavori predisposti dal Ministero dei lavori pubblici occuperanno 1500 operai, di cui 1000 nella sola Napoli. Inoltre, sempre a cura dell’Amministrazione dei lavori pubblici, sono state predisposte costruzioni, che verranno presto iniziate, di case popolari per oltre un miliardo, con impiego per interi dodici mesi di 1400 operai.

L’Amministrazione ferroviaria ha disposto altresì il prossimo inizio della costruzione di fabbricati per i servizi accessori della stazione di Napoli per un importo di 107 milioni.

In base al recente decreto sulla massima occupazione in agricoltura, si è potuto calcolare da esperti del Ministero del lavoro, che altre 6000 unità entreranno ad essere occupate nei prossimi mesi.

Infine, interrogato il Ministero dell’agricoltura, si è potuto accertare che esso ha predisposto una serie di bonifiche per tutta la Campania per un importo di alcuni miliardi di lire; ed altresì ha già predisposto un piano per il finanziamento di opere di trasformazioni fondiarie, in base alla legge del luglio 1946 per 250 milioni.

Nel settore della marina mercantile si è adottato il criterio di dirottare il massimo numero di piroscafi al porto di Napoli. Sicché nell’ultimo periodo sono affluiti a Napoli cinque piroscafi di carbone e cinque di cereali con possibilità di impiego, di cui si è avuto un benefico, effetto nei riguardi della disoccupazione dei marittimi.

Sempre a cura del Ministero del lavoro è già stata disposta l’apertura di due nuovi piccoli stabilimenti per le lavorazioni assistenziali. L’apertura sarebbe già avvenuta, ove l’U.N.R.R.A. avesse predisposto la concessione dei tessili necessari. Ma sono in condizione di potere affermare che l’apertura è prossima.

Per andare incontro alla disoccupazione nel settore auto-filo-tramviario in Napoli, su richiesta della stessa azienda, il Ministero del lavoro ha predisposto il finanziamento di un corso per 300 allievi della durata di 4 mesi.

Questo per quanto riguarda l’occupazione all’interno.

Naturalmente esiste un’altra possibilità, sebbene più scarsa, dell’avvio di lavoratori disoccupati in territorio straniero.

A questo proposito, per quanto riguarda le provincie campane, sono espatriati in questi ultimi mesi per la Francia 597 unità; per il Belgio 541; per Cecoslovacchia 115; per la Svezia 25; per la Svizzera 136; per l’Argentina 25.

Sono in partenza 245 per la Francia e 400 per l’Argentina. Sicché un totale di altre 640 unità. Però debbo notare una cosa: che la popolazione disoccupata delle provincie campane non dimostra particolare disposizione ad approfittare di queste possibilità, tanto è vero che non tutti i posti che sono stati messi a disposizione dall’ufficio del lavoro sono stati occupati. Ad esempio, faccio il caso della Svizzera: il Ministero del lavoro ha messo a disposizione per la provincia di Napoli e per Napoli 205 posti per emigranti in Svizzera; questi 205 posti, in qualsiasi altra provincia d’Italia sarebbero andati, per così dire, a ruba; a Napoli solo 163 disoccupati ne hanno profittato.

La Svezia ha offerto all’Italia il mercato migliore in fatto di occupazione di mano d’opera per i paesi stranieri. Ebbene, dei 90 posti messi a disposizione per la Svezia, i disoccupati napoletani hanno approfittato soltanto per 25 posti. Quando si dice che i disoccupati napoletani nel settore dell’industria sono 55 mila, si resta un po’ perplessi e ci si domanda quale possa essere lo stato psicologico che si oppone a che usufruiscano di questa valvola, per quanto piccola essa sia, di sfogo della disoccupazione.

Lo stesso ragionamento si può fare per la Cecoslovacchia, dove di 229 posti messi a disposizione ne sono stati usufruiti solo di 115.

Comunque, tenendo conto di un fatto, che la popolazione napoletana dimostra una forte propensione e simpatia all’emigrazione in Argentina (mi sono pervenute per questo oltre 12 mila domande) ho disposto che il prossimo contingente di emigrazione per l’Argentina di 400 unità in partenza nei primi di ottobre, sia interamente dedicato alla provincia di Napoli.

Naturalmente questo non potrà essere continuato, almeno fino a quando l’emigrazione verso l’Argentina cessi di avvenire con quello stillicidio in cui avviene attualmente, per diventare un’emigrazione vasta, capace di assorbire la totalità degli aspiranti.

Per quanto riguarda il settore dell’assistenza ai disoccupati, devo far presente che è stato predisposto un accordo speciale per l’integrazione a benefìcio dei pastai e dei lavoratori dell’arte bianca in genere, il quale accordo riguarda ed interessa 8.820 operai, la quasi totalità dei disoccupati in questo settore.

D’altra parte, devo anche far presente che dal 15 settembre è entrato in vigore il decreto che predispone l’aumento del sussidio di disoccupazione da 50 a 200 lire, oltre l’indennità di caropane, e l’indennità quadruplicata per i figli e per i famigliari a carico. Questi sono i dati che sono in grado di mettere a disposizione dell’onorevole interrogante. Devo, per completare, informare che a cura del Ministero del lavoro da due mesi un’apposita Commissione di esperti e studiosi sta predisponendo un piano per la massima occupazione e specialmente invernale. Non credo oggi di fare anticipazioni specifiche per quanto riguarda Napoli, però il rapporto stesso considererà alcuni lavori cui ho già accennato, parlando delle opere predisposte dal Ministero dei lavori pubblici e dal Ministero dell’agricoltura per un importo complessivo che si fa ascendere a 5/6 miliardi, da iniziarsi nel prossimo inverno a favore dei disoccupati di Napoli e della sua provincia.

PRESIDENTE. L’onorevole Salerno ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

SALERNO. Io non posso davvero dichiararmi sodisfatto delle dichiarazioni del Ministro del lavoro, di cui apprezzo le ottime intenzioni, ma i cui dati sono, per lo meno, in conflitto con i dati provenienti dagli stessi uffici che si occupano di questa materia

La mia interrogazione non è frutto né di fantasia, né del desiderio di provocare un qualsiasi dibattito a vuoto, ma è il prodotto di sollecitazioni che vengono da uffici i quali studiano proprio questa desolata materia della disoccupazione. Ho qui, in data 9 settembre, un ordine del giorno della Commissione di collocamento di Napoli presieduta da un rappresentante dell’ufficio regionale del lavoro, il quale incomincia con queste parole: «Premesso che la situazione della disoccupazione nella città e nella provincia di Napoli diventa ogni giorno più grave e insostenibile, che in questi giorni, nella sola città capoluogo, ben 43.000 disoccupati si sono presentati, pur essendo in un periodo di lavori stagionali… ecc.». È bene a conoscenza dell’onorevole Ministro che tali lavori stagionali normalmente assorbono molta mano d’opera e fanno scendere al minimo il livello della disoccupazione, onde reputo superfluo proseguire nella lettura. Da queste parole, onorevoli colleghi, comprenderete quanta ragione io abbia di essere veramente allarmato della situazione di Napoli.

Ma l’onorevole Ministro del lavoro non ignora altresì che la Prefettura di quella città – Prefettura il cui titolare, con nostro rammarico, è scomparso proprio ieri, ed era un uomo che del problema della disoccupazione si era sempre occupato in modo veramente efficace e consapevole – la Prefettura di Napoli, dicevo, in data 15 agosto, sollecitava tutti i Ministeri perché avessero preso in considerazione il problema della disoccupazione, che se è veramente il problema più drammatico per tutte le regioni che hanno sofferto la guerra, è però un problema che non si può non definire pauroso per la provincia di Napoli, nonostante le auree cifre di cui l’onorevole Ministro ci ha gratificati.

Ebbene, la stessa Prefettura faceva rilevare che, mentre in data 31 dicembre la disoccupazione aveva raggiunto il livello di 135 mila unità, al 31 luglio tale cifra era salita a ben 185 mila unità, aveva registrato cioè ben 50 mila unità di aumento. Se pertanto siamo tutti d’accordo nel ritenere che si debbano reclamare provvedimenti per ovviare a questa situazione, che è certamente grave in tutta l’Italia, non è difficile riconoscere come la situazione abbia assunto, per quello che riguarda Napoli e Provincia, il carattere di un vero e proprio fenomeno preoccupante.

Infine, alla mia precedente obiezione, che cioè le cifre presentate dall’onorevole Ministro siano state in precedenza un po’ ritoccate, mi permetto di aggiungere quello che è il frutto della mia modesta esperienza: creda l’onorevole Ministro che i nostri uffici sono assaliti ogni giorno da una vera massa di disoccupati che si accontenterebbero di accettare qualsiasi lavoro pur di risolvere l’angoscioso problema.

È perciò che io sono rimasto alquanto stupito quando l’onorevole Ministro ha osservato che i napoletani non desiderano di emigrare: ma Napoli è stata sempre la fonte dell’emigrazione! E ben se ne comprende la ragione: la ragione è che ivi le condizioni sono sempre state pessime, peggiori comunque che nelle altre parti d’Italia. Si tratta, onorevoli colleghi, di cause remote; e fra esse primeggia la scarsezza delle nostre industrie le quali non hanno evidentemente la possibilità di assorbire la mano d’opera nella misura che sarebbe adeguata al bisogno. Industrie poi che, non bastando la abituale scarsezza, sono state anche decimate per effetto dello sfacelo che è seguito alla guerra, cosicché quella poca mano d’opera che veniva precedentemente occupata, si trova oggi anch’essa sul lastrico.

Io non metto in dubbio, onorevole Fanfani, che i dati da lei addotti le siano stati effettivamente riferiti: ma mi permetto di opporre ad essi i dati che anche a me sono stati presentati. Potrà confermarle il suo collega dei lavori pubblici, il quale si mostra anch’egli sollecito del problema, sebbene qui ci vogliano fatti e non più parole, potrà confermarle, dicevo, che un miliardo e dispari è stato investito in opere pubbliche, il cui espletamento, però, volge alla fine, sicché si potrebbe andare avanti al massimo per altri tre o quattro mesi. Lei mi fa cenno di no, onorevole Fanfani; me lo auguro; non desidero altro che si realizzi quello che lei dice, ma purtroppo oggi, per quanto mi si informa, le prospettive future sono poco rosee, perché siamo al termine dei lavori in corso e dopo ci sarebbero piccole, modeste costruzioni, le quali, anche se si possono considerare tali da assorbire una certa mano d’opera, non sono, però, sufficienti ad assorbire tutta l’enorme massa di disoccupati che si trova in Napoli e nella provincia di Napoli.

Io vorrei pregare in ogni caso il Governo di considerare con un senso di maggiore organicità questo problema napoletano, e dirò anche della Regione campana, perché non è esatto che la disoccupazione esista solamente a Napoli. Io potrei presentare il «dossier» che mi ha fornito il sindaco di Capua – che non è più la città degli ozî, almeno degli ozî comodi di una volta, ma forse è la città degli ozî… forzati – dove vi era un cosiddetto «pirotecnico», un’importante fabbrica di cartucce, la più grande fabbrica della zona, che oggi purtroppo non produce più. Se lei leggesse, onorevole Ministro, quali sono le condizioni delle maestranze di Capua, che non è provincia di Napoli, ma è Campania, si accorgerebbe che anche nella provincia di Caserta vi è una grande quantità di mano d’opera che invoca pane e lavoro.

PRESIDENTE. Concluda, onorevole Salerno!

SALERNO. Concludo, signor Presidente, invocando che i lavori pubblici siano intensificati e che le imprese private siano messe in condizioni di lavorare. Vi è una legge, cosiddetta del «sesto», e mi pare del febbraio 1947, secondo la quale un sesto dei lavori commissionati per conto dello Stato dovrebbe essere affidato alle imprese e alle industrie del Mezzogiorno. Ma purtroppo questo decreto è rimasto per aria. La Camera di commerciò di Napoli ha pregato, ha sollecitato che a questo decreto si aggiungesse un regolamento, che rendesse veramente applicabile la disposizione, ma il regolamento non è venuto e la norma è rimasta quasi lettera morta. Il sesto non è attribuito. Vi sono infine tante industrie, tante imprese private, come quella per la trasformazioni delle terme di Castellammare di Stabia o per la trasformazione del Matese, che hanno bisogno di incoraggiamenti da parte dello Stato, e lo Stato non può sottrarsi al dovere di intervenire.

Il Governo, consapevole della situazione di grave disagio in cui si trova Napoli e la provincia, checché dicano le belle cifre, faccia il possibile perché la mano d’opera venga assorbita.

Ancora una preghiera, ed ho finito. Vi è un decreto che stabilisce l’assunzione obbligatoria dei reduci, dei combattenti. Come ella sa, onorevole Ministro Fanfani, la quantità maggiore di disoccupati è costituita proprio da reduci, partigiani, ex-prigionieri. Si era stabilito di far assumere una certa percentuale, un’aliquota di questi reduci; però si è fissata una sanzione che è irrisoria, perché, se non sbaglio, si tratta di 2.000 lire. E allora si comprenderà che tanti imprenditori, che tanti datori di lavoro in genere, preferiranno pagare duemila lire di penalità, anziché assumere questi disoccupati. Le associazioni combattentistiche hanno fatto, credo, anche a lei, onorevole Ministro, delle pressioni, perché si elevi almeno la penalità, in modo che la sanzione sia una sanzione seria, che imponga veramente al datore di lavoro questo compito sociale. Si raccolga, e subito, tale suggerimento!

In fondo, non esigo certo che un problema di questa imponenza si risolva con una interrogazione; non posso reclamare dal Governo provvedimenti istantanei, ma il mio scopo è di mettere a punto l’angoscioso argomento della disoccupazione, che esiste ed è grave, in modo da sganciarlo anche da qualsiasi speculazione politica, e farne un problema di umanità, di giustizia e di lavoro, quale esso veramente è. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Mazza ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MAZZA. Onorevole Presidente, non voglio correre il pericolo di annoiare i colleghi presenti, e poiché l’onorevole Salerno ha esposto la situazione di Napoli, io mi permetterò di fare soltanto delle osservazioni, di ordine pratico, soprattutto approfittando del fatto che i banchi del Governo sono stranamente affollati, e quindi ho il piacere di vedere il Ministro delle finanze, il Ministro dei lavori pubblici, il Ministro dell’agricoltura. Parlerò a nuora, perché suocera intenda.

Per Napoli, a parte il fatto che la legge del sesto non viene quasi mai rispettata, posso anzi dire che quando viene rispettata succede un altro fenomeno. Il Ministro Corbellini oscilla con la testa per dirmi che per i trasporti viene rispettata. Sì, viene rispettata, però succede quest’altro fatto: che le nostre industrie non riescono ad avere le materie prime necessarie per approntare i lavori richiesti. Quindi, come ha detto l’onorevole Fanfani, noi dobbiamo approntare duemila vagoni ferroviari, ne abbiamo preparati duecentocinquanta e non abbiamo materie prime.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. In settembre ci saranno.

MAZZA. Speriamo nel prossimo settembre! In genere la salute rifiorisce sempre in settembre!

Ma c’è anche un’altra osservazione che riguarda un po’ l’impostazione che in genere noi meridionali diamo al problema. E questo problema, specialmente noi di Napoli, lo poniamo come un problema di giustizia, come un problema di remunerazione dei danni che Napoli ha subito e delle nostre sofferenze.

Io credo invece che il Governo debba porsi questo problema come un problema di saggia amministrazione, perché è impossibile che il Governo dimentichi che ci sono delle zone dove la produzione deve essere intensificata e degli stabilimenti da far lavorare per poter dare lavoro agli operai.

Il collega Salerno chiedeva in nome di tutte le sofferenze di Napoli. Io dico invece che è dovere del Governo di amministrare saggiamente e di dare ugualmente lavoro a tutte le provincie. Per esempio, succede questo fenomeno: che al Nord sono stati pagati almeno per il 50 per cento i danni subiti, mentre da noi questo non è successo (Commenti).

Una voce. Hanno dato degli acconti.

MAZZA. Non solo hanno dato degli acconti, ma si è verificato il fatto che industriali del Nord, prima della liberazione, si son fatti pagare i danni di guerra. È vero o no? Io lo domando a voi.

Una voce. In parte sì. Saranno stati tredici miliardi.

MAZZA. Saranno tredici miliardi, non so, ma per Napoli si è verificato che i nostri industriali attendono ancora il pagamento delle commesse effettuate prima del 1943. Aspettano ancora!

I provvedimenti che il Ministro dell’agricoltura ha promesso e che il Ministro Fanfani ha garantito, per esempio, non sono ancora praticamente attuati. Credo che bisognerà aspettare l’altro settembre, non questo, per vedere iniziare la bonifica campana.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. No, si sta lavorando, in Campania e in altre Regioni. Proprio l’altro ieri ho assegnato al Sele circa 400 milioni.

PRESIDENTE. Ad ogni modo, non divaghiamo, onorevole Mazza, perché vi sono ancora altre interrogazioni da svolgere.

MAZZA. Ho finito. Ho soltanto un’altra richiesta da fare al Ministro Fanfani. Vorrei chiedergli di rivolgere al Ministro delle finanze questa preghiera: se è possibile, per stimolare l’iniziativa privata, per stimolare la costruzione di case (perché noi siamo senza case), di fare come si è fatto per la città di Roma: cioè, dare l’esenzione dal pagamento dei tributi sui fabbricati per i prossimi 25 anni, onde spingere la gente a costruire, per dar lavoro ai manovali e case ai senzatetto, perché a Napoli, nella galleria Vittoria, sebbene un solo inquilino, ma c’è ancora un inquilino.

Ho fatto queste osservazioni così come sono venute. Non ho nessuna speranza che esse saranno ascoltate, ma chiedo scusa al Presidente e all’Assemblea e spero nel prossimo settembre! (Applausi).

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Vorrei assicurare l’onorevole Salerno che i suoi dati sono meno esatti dei miei, e la ragione la dico subito: egli li ha attinti ad un ordine del giorno, mentre io li ho attinti invece a registri ed elenchi dei singoli uffici del lavoro. Se l’onorevole interrogante avesse attinto i suoi dati alla mia stessa fonte avrebbe potuto constatare la loro esattezza. Aggiungo che se l’onorevole Salerno crede ai dati relativi alla disoccupazione attinti all’Ufficio del lavoro, deve altrettanto credere, per non cadere in contradizioni, ai dati relativi all’emigrazione. Ora, i dati relativi all’emigrazione dicono che una parte dei disoccupati napoletani non intende andare in Svizzera, in Svezia, ecc.

SALERNO. Temo che non si faccia una sufficiente pubblicità. Gli operai vogliono emigrare.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli: Franceschini, Lizier, Ferrarese, Baracco, Ponti, Carbonari, Fantoni, Valmarana, Schiratti, Rapelli, Alberti, Rumor, Giacchero, Cappelletti, Uberti, Micheli, Sartor, Tessitori, Del Curto, Giordani, Guerrieri Filippo, Dominedò, Moro, Firrao, Valenti, Stella, Bastianetto, Monticelli, Tosato, Balduzzi, Cappugi, Fabriani, Bellato, Burato, Marzarotto, Cremaschi Carlo, Biagioni, Gortani, ai Ministri dell’agricoltura e foreste, dell’industria e commercio e del commercio estero, «per conoscere se e come intendano fronteggiare il gravissimo pericolo che incombe sulla cultura e sull’industria della seta. Il prezzo dei bozzoli è infatti sceso quest’anno, sul mercato interno, a un terzo o poco più di quello dell’anno scorso, e cioè ad una quota del tutto inadeguata e tale da rendere prevedibile con quasi assoluta certezza l’abbandono della coltura del baco da seta e la sostituzione dei gelsi nelle campagne. La cessazione della bachicoltura in Italia – che dopo il Giappone è stato ed è tuttora il paese più intensamente sericolo – oltre che troncare un nobile ramo dell’esportazione nazionale che, se aiutato, potrebbe ancora riprendersi e rifiorire, sarebbe di irreparabile danno a grandi masse di lavoratori (contadini e donne filandiere soprattutto specie nelle regioni maggiormente produttrici, quali il Veneto e la Lombardia). È, pertanto, necessario che il Governo si preoccupi con tutta urgenza di tale problema che interessa al vivo la stessa vita economica e sociale di numerose province».

L’onorevole Ministro dell’agricoltura e delle foreste ha facoltà di rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. La questione del disagio dei produttori di bozzoli non è certo sfuggita al Ministero, ma la soluzione è tutt’altro che facile. Voglio ricordare come i bozzoli fossero soggetti ad ammasso obbligatorio, il che portava anche in sé una certa garanzia di prezzo; ma nel 1946 l’ammasso obbligatorio fu abolito su richiesta degli stessi produttori e subentrò ad esso una specie di ammasso volontario con certe garanzie di credito, che è stato praticato anche nella corrente campagna.

Questo sistema era di pieno gradimento ai produttori né ad esso può attribuirsi il tracollo dei prezzi, che è dovuto esclusivamente ad un fattore sul quale noi non possiamo in modo assoluto influire, cioè al tracollo dei prezzi internazionali della seta, che scesero da 23 dollari al chilo ad 8 dollari, il che spiega come i prezzi all’interno, dalle 430-450 lire nei mesi di agosto e settembre ed anche ottobre dell’anno scorso, discendessero poi a prezzi molto inferiori e si mantengano ora poco superiori alle 200 lire.

Come risolvere questa tragica situazione, tragica perché interessa centinaia di migliaia di famiglie che traggono dall’allevamento del baco le fonti della loro sussistenza?

I suggerimenti che ci sono stati dati dagli interessati sono di vario ordine, ma quelli attuati finora sono stati, nel campo degli scambi internazionali, diretti a migliorare il regime degli scambi stessi. Invece di ricorrere all’esportazione di valuta il Ministero del commercio estero ha disposto in via eccezionale delle compensazioni, le quali tendono a migliorare il prezzo dei bozzoli italiani. Senonché queste misure sono state in pari tempo annullate da una nuova discesa dei prezzi del mercato internazionale, in modo che la misura stessa è stata semplicemente sufficiente a mantenere i prezzi al livello precedente, impedendo un ulteriore tracollo.

Preoccupato di questa situazione, io ho convocato nella settimana scorsa una riunione di tecnici presso il mio Ministero, e ne ho raccolto le proposte. Queste proposte sono ora all’esame del Ministero del bilancio perché esse importano una esposizione – una garanzia, per lo meno – quindi un pericolo per il bilancio dello Stato. Attendo di conoscere con maggiore precisione i voti del Congresso di Treviso e quelli del successivo Congresso di Milano perché, esaminati questi voti, possa scegliersi una via. Finora da tutti gli studi compiuti ed i suggerimenti ricevuti, l’unica via suggerita è purtroppo quella di un premio o di una sovvenzione da parte del Tesoro dello Stato, sia essa in una forma particolare di cambio o in una forma di ammasso con garanzia del prezzo da parte dello Stato.

Questa formula importa delle conseguenze certamente gravi, ma che ancora non possiamo determinare. Essa, come dico, è allo studio; ma oltre il nostro interessamento, richiede l’esame di una complessa situazione finanziaria nazionale ed anche d’una situazione del mercato internazionale che non si può in questo momento definire. Assicuro però che tutto il Governo, compresi il Presidente del Consiglio che è stato investito della questione, il Ministro del tesoro, del bilancio e il Ministro dell’agricoltura, s’interessa di questa grave questione e farà tutti gli sforzi possibili per risolverla a favore delle popolazioni interessate, specialmente di quella veneta.

PRESIDENTE. Uno degli onorevoli interroganti ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

SCHIRATTI. Sono senz’altro persuaso che il Governo è compreso della gravità del problema sotto il profilo economico, che coinvolge una entità di prodotti da esportare per circa 16 miliardi, e sotto il profilo della natura del male che affligge questo settore della nostra produzione. Ma, dalla risposta che ha dato il Ministro dell’agricoltura, mi è parso che egli ritenga che l’attuale sia in prevalenza un male ciclico del campo della sericoltura. Se così fosse, sono perfettamente persuaso che i mezzi già approntati e quelli che egli dice essere allo studio potrebbero essere sufficienti a superare il malanno. Senonché, c’è un secondo aspetto e temo che sia quello vero: che il malanno di cui si soffre nel campo della bachicoltura sia un malanno di senilità. Il problema non credo si possa curare con dei calmanti, il cui effetto può essere immediato, ma limitato nel tempo, ma deve essere studiato se vi può essere un rimedio radicale se cioè il male della senilità, che può forse essere quello che affligge questo campo, sia guaribile con qualche cura Voronoff o altro.

Io sono persuaso che bisogna che approfondiamo un po’ l’indagine, onorevole Ministro, e che l’approfondiamo sia in rapporto all’interno che in rapporto all’esterno; approfondendola, verranno dei suggerimenti che mi permetterei di dare modestamente al Governo. Le condizioni esterne sono in definitiva dipendenti, condizionate e determinate da un mercato di produzione e da un mercato di smercio: Giappone, mercato di produzione; Stati Uniti, mercato di smercio.

Ora, noi, le vicende, le situazioni, gli atteggiamenti dell’uno e dell’altro mercato – quello di produzione, in nostra concorrenza, e quello di consumo – o non li conosciamo, oppure li conosciamo troppo in ritardo. E già il ritardo, influisce in maniera nefasta e grave sul nostro mercato e sull’atteggiamento dei nostri produttori e dei nostri industriali.

Penso che questi due mercati vadano sorvegliati in forma costante e permanente, non da rappresentanti di categorie o di interessi, ma da rappresentanti ufficiali.

Vede, onorevole Ministro: oggi che siamo in crisi, tutte le categorie interessate al ciclo bozzolo-seta sono unite, soprattutto nel premere sul Governo. Ma lei mi insegna che, nei tempi d’oro, queste categorie non erano altrettanto unite, anzi erano in forte contrasto. Ora, io ho un grande timore che, se questa osservazione tecnica sui due mercati viene fatta direttamente dalle categorie, del frutto di questa osservazione ne approfittino in prevalenza, i ceti più abili e più avveduti, cioè i ceti industriali, a detrimento dei ceti meno organizzati, quali sono quelli dei produttori.

Per questa ragione, se non dico un’eresia dal punto di vista della tecnica burocratica dello Stato, mi permetto di suggerire che questa osservazione venga fatta in forma ufficiale, con elementi addetti alle rispettive ambasciate.

C’è un problema di spesa; il Tesoro insorgerà; ma io sono dell’opinione che quanto si spende in questi osservatori, sarebbe compensato abbondantemente dal giovamento che ne avremmo.

Circa le condizioni interne, penso che si debba avere il coraggio, anche qui, di dire ai nostri interessati una parola franca; cioè, dire ai produttori che è giunto il momento, in cui bisogna abbandonare il bozzolo giallo per il bozzolo bianco; e bisogna fare questa propaganda; il giallo rende di più ed il contadino vi è più attaccato; il bianco rende di meno, ma trova molto più facile collocamento sul mercato internazionale. I coltivatori devono essere indirizzati verso questa via, per tentare di superare la crisi.

Per quanto riguarda gli industriali, mi pare che siamo in arretrato di 50 anni. Le nostre filande, se è vero quello che si dice, non sono all’altezza di concorrere con quelle giapponesi. Bisogna che gli industriali modernizzino i loro impianti, se vogliono essere in condizione di affrontare la concorrenza. Questo comporta impiego di capitali. Ma questi industriali della filatura, che hanno guadagnato in misura ingente negli anni scorsi, non dovrebbero avere riluttanza ad impiegare parte di quei guadagni nell’attrezzamento nuovo delle filande, per salvare se stessi e i produttori.

Per indirizzare tutta l’attività interna e quella esterna su questo binario, penso di suggerire al Ministero dell’agricoltura la costituzione permanente, in seno al Ministero stesso, di un Consiglio del ciclo bozzolo-seta, il quale possa validamente e tecnicamente fare quanto sia necessario sul campo interno e su quello esterno, per tentare di salvare tutto il ciclo da questa crisi, che può essere male di senilità.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Veroni, ai Ministri dei lavori pubblici e dei trasporti, «per sapere se sia eventualmente esatto che l’Azienda nazionale autonoma della strada – accampando infondate esigenze del traffico– si oppone, con gravissimo danno dei numerosi comuni interessati, al ripristino della linea tramviaria Albano-Velletri, reclamata insistentemente dalle popolazioni dei Castelli Romani così duramente provate dalla guerra».

L’onorevole Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Fin dal giugno ultimo scorso, per quell’amore che porto ai Castelli Romani come l’onorevole Veroni sa, mi recai sul posto, al ponte di Ariccia, per constatare di persona lo stato dei lavori e per vedere quanto fosse fondata l’opinione di coloro che precisamente facevano capo alla direzione dell’A.N.A.S., secondo la quale sarebbe stato opportuno che al momento in cui si fosse riaperto quel ponte al traffico, non vi si facesse in pari tempo scorrere la vecchia tramvia. Effettivamente quella considerazione ha un suo opportuno fondamento ed è in armonia con le necessità generali del traffico nelle pubbliche strade, che mal sopportano l’ingombro di linee tramviarie, come è facile a tutti noi di costatare.

Ecco perché i competenti, cioè i tecnici, si orientano verso una soluzione che dia sede propria alle tramvie e possibilmente sostituisca queste ultime con le filovie. Ma questo appartiene al campo degli studi e degli orientamenti, mentre qui si tratta di provvedere con una certa tempestività alle esigenze attuali del traffico su quel tratto di strada che comprende il ponte di Ariccia e le comunicazioni tramviarie tra Ariccia e Velletri. Ecco perché mi recai io stesso nel posto dove, tra l’altro costatai che il nuovo ponte aveva realizzato taluni miglioramenti su quello distrutto, grazie anche a un leggero allargamento ai due lati di esso. E allora, pur apprezzando il valore dei nuovi studi e dei nuovi orientamenti, sollecitai opportune intese col collega dei trasporti e potei dare le necessarie disposizioni perché, contemporaneamente all’apertura al traffico del nuovo ponte, anche la linea tramviaria fosse in grado di funzionare. Il che potrà avvenire entro il prossimo dicembre o – al più tardi – in gennaio.

Ringrazio, pertanto, l’onorevole Veroni per avere richiamato l’attenzione pubblica su questo argomento, e avermi offerto l’occasione di fugare ogni preoccupazione al riguardo. Possiamo, dunque, concludere che, al momento in cui il ponte sarà riaperto al traffico, anche la tramvia potrà riprendere il suo normale corso per collegare nuovamente tra di loro Albano, Ariccia, Genzano e Velletri, per tanto tempo a causa della guerra disgiunte.

Debbo però a questo punto informare l’onorevole Veroni e l’Assemblea che in località «Catena» di Genzano si è addivenuti alla rettifica di un punto della strada. Questa rettifica consiste, tra l’altro, in un elevato di terra da 0 a 15 metri e questo elevato richiederà qualche mese in più per consolidarsi e consentire che nel momento stesso in cui la tramvia rientrerà in funzione possa venire utilizzato. Ma questa circostanza non offrirà alcun motivo di ritardo all’esercizio della tramvia, essendo già intervenuti accordi tra il mio Ministero e la società concessionaria, nel senso di utilizzare nel frattempo il vecchio tracciato e corrispondere così pienamente alle legittime aspettative delle popolazioni interessate.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro dei trasporti ha facoltà di rispondere per la parte di sua competenza.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Non ho nulla da aggiungere, solo posso dire che nel sistema filo-tramviario, che sarà collegato anche ai servizi extraurbani della capitale, noi dovremo fare un completo rinnovamento ed un completo studio, anche in relazione con la metropolitana, perché questi servizi siano più rapidi e più confortevoli in modo che si possa direttamente congiungere il centro di Roma con i suoi Castelli. Questo è un problema a lunga scadenza, che non si connette con quello attuale, ma che potrà essere studiato nel complesso del sistema dei servizi urbani ed extra urbani della capitale.

PRESIDENTE. L’onorevole Veroni ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

VERONI. Sono lieto di aver determinato, particolarmente dal Ministro dei lavori pubblici, le autorevoli dichiarazioni testé fatte in questa pubblica Assemblea, poiché, come l’onorevole Ministro sa, recentemente si era diffusa la voce – ed essa rispondeva alla verità obiettiva – che non si intendesse ripristinare il tratto della nostra tramvia da Albano a Velletri, e ciò, perché, secondo l’Azienda della strada, il suo esercizio avrebbe ostacolato il traffico: in sua sostituzione di pensava ad istituire un servizio con filobus sul tratto Albano-Velletri, per il cui funzionamento tecnici autorevoli hanno previsto una spesa di moltissimi milioni e un tempo non inferiore a tre anni.

Le dichiarazioni dell’onorevole Tupini confortano le popolazioni dei Castelli romani, che recentemente in un adunanza di Sindaci, tenutasi a Genzano, elevarono alte le loro proteste per le difficoltà frapposte dall’Azienda autonoma della strada, contraria al ripristino della tramvia che è il mezzo tradizionalmente più comodo e più economico.

Siamo, perciò, sodisfatti delle dichiarazioni degli onorevoli Ministri dei L.L.P.P. e dei trasporti che ci hanno solennemente data l’assicurazione formale della riattivazione del servizio tramviario entro l’anno. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Mastino Pietro, Lussu, Abozzi, Giua, Murgia, Mannironi, Corsi, al Ministro dei trasporti, «per sapere se intenda prendere urgenti provvedimenti per ottenere che molti Comuni della Sardegna, ora completamente isolati, siano allacciati alle linee pubbliche automobilistiche».

L’onorevole Ministro dei trasporti ha facoltà di rispondere.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. L’interrogazione è molto generica e, quindi, io non posso che rispondere genericamente, rimandando eventualmente a casi particolari risposte specifiche su singole comunicazioni. È fuori di dubbio che i paesi che non sono collegati coi capoluoghi, o che non hanno collegamenti diretti con le ferrovie, debbano essere serviti da servizi automobilistici.

La legge che stabilisce la concessione di questi servizi è una legge molto artificiosa, di cui tutti noi tecnici abbiamo notato le lacune. Essa è la legge del settembre 1939. Abbiamo già nominato una commissione per modificarla e per snellirla, sull’esempio di tutte le leggi che esistono negli altri Paesi del mondo che usano servizi di linee automobilistiche.

Comunque, anche per la Sardegna e con la vigente legge, noi non possiamo fare che delle concessioni, dietro domande dirette di società concessionarie che chiedano di effettuare questi servizi. Ora, se ci sono dei Comuni della Sardegna che possano trovare delle società esercenti che, nell’ambito delle leggi attuali, possano avere queste concessioni, noi siamo ben disposti a favorirle il massimo possibile. Posso dire, a titolo di esempio, che il 1° luglio 1946 avevamo 80 linee concesse nell’Isola, e che in quest’anno sono aumentate di 20, più altre sei per servizio operai che sono i servizi caratteristici che portano nei grandi centri di Sassari e di Cagliari.

Dopo questa interrogazione, ho dato subito disposizioni agli uffici competenti perché esaminino ancora le eventuali domande e sollecitino al riguardo i Compartimenti della motorizzazione della Sardegna, per vedere se ci possono essere altre comunicazioni che si possono attivare per migliorare i servizi di comunicazione fra i centri minori e i centri maggiori. Se vi saranno casi specifici saranno esaminati man mano che mi verranno segnalati.

PRESIDENTE. L’onorevole Mastino ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

MASTINO PIETRO. L’interrogazione che io presentai, e che adesso discuterò, è stata dall’onorevole Ministro definita generica, così come io potrei definire eccessivamente teorica e generica la sua risposta. Ma la genericità della interrogazione non ha impedito al signor Ministro di rispondere a quella che è veramente la sostanza della interrogazione stessa: vi sono dei Comuni completamente isolati, vale a dire privi di qualunque possibilità di mezzi di comunicazione o trasporto con altri Comuni, soprattutto non allacciati con le attuali linee automobilistiche pubbliche.

Il Ministro ha detto: «quando venissero indicati casi precisi, specifici, potrei intervenire».

A mio avviso l’intervento del Ministro dovrebbe essere diretto ad eliminare tutti gli inconvenienti di codesto genere; dovrebbe cioè essere diretto, con una disposizione generale, a far sì che i Comuni attualmente isolati cessino di esserlo.

Per quello che ne so io, attualmente si verifica questo: che lo Stato ha revocato, già da anni, i sussidi statali; allo stesso tempo ha bloccato le tariffe, di modo che le società che gestiscono linee automobilistiche esercitano solo quelle linee in cui le ragioni di traffico e del movimento dei viaggiatori consentono o consigliano l’esercizio, perché vantaggioso, cioè redditizio. Gli altri Comuni, quelli che mi permetterei di qualificare e definire «nullatenenti», sono Comuni che rimangono completamente isolati.

È nei raffronti di questi Comuni che dovrebbe intervenire lo Stato, dopo avere studiato la forma dell’intervento: o con sussidio statale o con un relativo, modico sblocco delle tariffe. Sarà il Governo a giudicare la via da seguire. Ma non si può rispondere ad una lamentela, relativa a una esigenza la più elementare: «provvederemo, caso mai».

Ho detto «esigenza la più elementare» perché, mentre si parla spesso qui dentro di miglioramento di servizi, di raddoppiamento, di arricchimento dei servizi stessi (mi pare che poc’anzi anche l’interrogazione del collega Veroni fosse diretta ad alcunché del genere) io sto parlando non di miglioramento, ma di servizi da istituire, da stabilire. Il Ministro ha chiesta l’indicazione di casi specifici.

Non ho creduto di fare dei nomi, che avrebbero avuta l’apparenza di nomi ostrogoti. Per esempio chi vuole andare a Lodè deve partire da Nuoro e fermarsi a Siniscola in quanto da Siniscola a Lodè i 16 chilometri di distanza debbono essere percorsi o col cavallo di San Francesco oppure con altro mezzo di fortuna. Chi debba andare ad Austis ed a Teti ha la possibilità di usufruire della linea automobilistica solo fino a Sorgono.

L’esemplificazione non aggiungerà però nulla alla affermazione della necessità di immediato intervento del Governo diretto ad eliminare un inconveniente che costituisce uno sconcio, se si considera che la situazione attuale è peggiore di quella di un tempo, perché un tempo le linee automobilistiche, anche per quei determinati paesi, esistevano e funzionavano, ed abbiamo fatto un passo indietro, che non si può nemmeno spiegare od attribuire a ragioni di guerra.

Quindi parmi che quella interrogazione, che apparentemente sembrava generica, generica non fosse e voglio sperare che la saggezza del Signor Ministro, dopo i chiarimenti che ho fornito, sappia trovare la via per un intervento e provvedimenti immediati.

È troppo evidente che oggi non mi posso dichiarare sodisfatto.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Volevo dire all’onorevole interrogante che è precisamente la deficienza della legge che rende possibile il permanere di questi inconvenienti. Ed ho accennato che una apposita Commissione sta studiando i provvedimenti opportuni, che dovranno essere statuiti con legge.

MASTINO PIETRO. E questa Commissione quando dovrà fare le sue proposte?

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Io spero di poter fare il più presto possibile, in maniera che si possa provvedere alla disciplina dei trasporti automobilistici con il sistema della concessione, come è per le linee secondarie.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Numeroso e De Michele, al Ministro dei lavori pubblici, «per conoscere i provvedimenti che si intendono adottare per l’approvazione ed il finanziamento del progetto di captazione delle sorgenti del Torano e del Biferno, che dovranno finalmente fornire di acqua potabile i comuni delle provincie di Caserta e di Campobasso e costituire altresì l’indispensabile acquedotto sussidiario per la città di Napoli. Si tratta di un’opera di grande importanza ed urgenza, soprattutto di carattere igienico e sanitario, che interessa circa due milioni di abitanti della Campania e che non può ulteriormente procrastinarsi».

L’onorevole Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Questa interrogazione degli onorevoli Numeroso e De Michele segue a poca distanza di tempo quella del 7 luglio degli onorevoli Camposarcuno, Colitto e Ciampitti. In quella interrogazione gli onorevoli interroganti esprimevano la preoccupazione che le acque del Biferno avessero potuto essere sottratte alle popolazioni proprietarie della sorgente e destinate unicamente alla città di Napoli.

Assicurai allora gli onorevoli interroganti che quella preoccupazione era completamente infondata. Successivamente, dietro mia sollecitazione, il Consiglio Superiore dei lavori pubblici prese in esame la questione con l’intento di utilizzare, non solo le sorgenti del Biferno e del Torano, ma anche quelle del Trigno a favore delle popolazioni del Molise, della provincia di Caserta e della città di Napoli proporzionatamente ai loro rispettivi bisogni.

Le conclusioni del Consiglio Superiore dei lavori pubblici consentono quindi un’equa soluzione del problema e prevedono all’uopo la formulazione di apposito progetto.

Sussistono ancora negli ambienti interessati delle ricordate provincie timori e opinioni contrastanti circa le modalità del progetto stesso e, al fine di arrivare a deliberazioni concordi, ho disposto di convocare presso di me i rappresentanti delle autorità amministrative e politiche competenti per territorio.

Questa riunione e le altre che si renderanno necessarie ed utili avverranno al più presto.

Debbo però fin d’ora avvertire che l’opera sarà di notevole grandezza e comporterà qualche miliardo di spesa.

Esiste già in bilancio una certa somma, assai piccola in confronto di quella totale, la quale potrebbe essere subito utilizzata per i primi lavori di captazione delle sorgenti non appena il progetto sarà stato approvato nei suoi elementi tecnici.

Non c’è infatti bisogno che tutta l’opera sia finanziata subito. L’essenziale è che i lavori iniziali non siano fine a se stessi e offrano in pari tempo la suscettibilità di agganciamento all’ulteriore sviluppo dell’opera. In tale senso mi riprometto di dare opportune disposizioni al momento giusto. A meno che non si preferisca inserire quest’opera nel complesso dei lavori per il Mezzogiorno d’Italia cui l’apposito Centro Economico volge le sue speciali cure mediante la preparazione di un programma generale, che sarà pronto quanto prima. Ma io penso che sia più opportuno tenere isolato questo problema ed avviarlo senz’altro a concreta soluzione. Se – come mi auguro – i relativi lavori potranno essere presto iniziati ciò costituirà un buon auspicio per il loro proseguimento e un impegno sicuro per il compimento secondo il desiderio degli onorevoli interroganti.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

NUMEROSO. Ringrazio l’onorevole Ministro delle assicurazioni date. Vorrei però fargli notare che il problema della captazione delle sorgenti del Torano e del Biferno per fornire finalmente di acqua potabile i Comuni delle Province di Caserta e di Campobasso non è cosa nuova ed è problema che va risolto con la maggior possibile sollecitudine. Se pertanto l’onorevole Ministro crede di far risolvere questo problema al Comitato del Mezzogiorno…

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. No, no: si tratta di un semplice accenno che ho fatto.

NUMEROSO. Debbo farle notare, onorevole Ministro, che ci sono Comuni della Provincia di Caserta che utilizzano per acqua potabile quella del Volturno, senza alcuna garanzia di carattere igienico. Sono Comuni, come ognuno ben comprende, che vivono quindi, dal punto di vista igienico, e nei riguardi dell’approvvigionamento dell’acqua potabile, in condizioni veramente disastrose, tanto che noi ci meravigliamo che non si siano ancora verificate delle epidemie. Ed è un problema non di oggi, ma di decenni.

Circa poi la spesa, noi sapevamo benissimo di quale entità essa fosse. Io personalmente so, per averlo sentito proprio oggi affermare da un eminente tecnico che si occupa di questi problemi, che la relazione è stata presentata all’onorevole Ministro.

Noi, pertanto, insistiamo perché soprattutto venga fatta una legge speciale; ci rendiamo ben conto dell’importanza, della vastità di essa e della mole della spesa occorrente.

Occorre una legge speciale. Non è necessario, signor Ministro, che l’opera venga fatta in uno o due anni. Io sono convinto che la spesa potrebbe essere ratizzata in diversi esercizi; occorre, però, stabilire l’esecuzione di quest’opera con una legge speciale. Soltanto così, finalmente, le provincie di Caserta, Napoli, e anche di Campobasso, potranno vedere realizzate queste antiche aspirazioni delle loro popolazioni.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Perugi, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere: 1°) quali aiuti ed alleggerimenti fiscali intenda disporre il Governo a favore degli agricoltori del comune di Gradoli (provincia di Viterbo), i cui raccolti sono stati quasi interamente distrutti dalla grandine nel nubifragio verificatosi in quella zona il 28 giugno ultimo scorso; ) se in considerazione dell’attività quasi esclusivamente vinicola di quei lavoratori e del fatto che i danni subiti avranno ripercussioni negative sui raccolti ancora per circa due anni, non ritenga dare agli aiuti oltre che un carattere urgente, anche uno continuativo per alleggerire il disastro che ascende a più di cento milioni di lire».

D’accordo col Presidente del Consiglio dei Ministri, lo svolgimento di questa interrogazione è stato rinviato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Vinciguerra, al Ministro della pubblica istruzione, «per conoscere quali provvedimenti intende adottare per gli insegnanti di educazione fisica provenienti dagli Istituti di magistero governativi e vincitori di regolari concorsi, estromessi dai ruoli dello Stato nel 1913 a seguito della riforma Gentile e passati alla dipendenza di un ente privato (Enel) e poscia con decreto del famigerato gerarca Ricci liquidati a 55 anni, e cioè 10 anni prima del previsto, visto che il decreto legislativo 23 aprile 1947, mentre ha sistemato nei ruoli anche i provenienti dalle Accademie di Roma e di Orvieto, ha dimenticato di rendere giustizia alla categoria summenzionata e più meritevole, attualmente ridotta ad esiguo numero (per cui non v’è da preoccuparsi di eventuali oneri finanziari), per i quali sarebbe opportuna e di giustizia la riassunzione in servizio al fine di potere utilizzare la loro provata capacità in vantaggio dell’educazione fisica italiana ed anche a riparazione di un torto da essi ingiustamente subito».

Non essendo presente l’onorevole Vinciguerra, s’intende decaduta l’interrogazione.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Martino Gaetano, al Ministro della difesa, «per sapere se risponde a verità che la base navale di Messina sarà trasferita prossimamente ad Augusta; e per conoscere se, nella ipotesi affermativa, l’onorevole Ministro non ritenga opportuno revocare tale provvedimento che accrescerebbe la disoccupazione nella città di Messina, già così duramente provata dalla guerra, giustificando tra l’altro gravi agitazioni, che già si preparano, suscettibili di turbare l’ordine pubblico».

Sullo stesso argomento ha presentato la seguente interrogazione l’onorevole Fiore, al Ministro della difesa, «per conoscere se intende revocare i provvedimenti predisposti dallo Stato Maggiore della marina relativi al trasferimento della base navale di Messina ad Augusta».

Ha facoltà di rispondere l’onorevole Sottosegretario di Stato per la difesa.

CHATRIAN, Sottosegretario di Stato per la difesa. A seguito della situazione creatasi col Trattato di pace e per l’assoluta necessità di ridurre le spese dell’amministrazione della Marina militare, lo Stato Maggiore della marina è costretto a contrarre tutti i servizi periferici, sopprimendo quelli non strettamente indispensabili alla nuova organizzazione.

Ogni allarme relativo al trasferimento della base navale da Messina ad Augusta, è, però, prematuro, essendo tuttora in corso di studi presso gli organi competenti, allo scopo di definire questa organizzazione, che riveste delicata e particolare importanza ai fini della difesa del Paese.

Qualunque sia la decisione finale, essa sarà attuata solo dopo accurato esame, e tenendo anche nel dovuto conto la situazione degli arsenalotti e della città di Messina.

PRESIDENTE. L’onorevole Martino Gaetano ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MARTINO GAETANO. Io non so, signor Presidente, se debbo dichiararmi sodisfatto o meno della risposta dell’onorevole Sottosegretario di Stato. (Commenti). Il Ministro poc’anzi, in un colloquio privato, mi aveva dato assicurazioni più precise. Comunque, io nutro fiducia (Commenti – Ilarità) che il Governo non vorrà prendere un provvedimento del genere, il quale implicherebbe il licenziamento di migliaia di operai, che non possono, nella città di Messina – distrutta due volte in un terzo di secolo – trovare altra via per il sostentamento delle proprie famiglie.

PRESIDENTE. L’onorevole Fiore ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

FIORE. Non posso dichiararmi soddisfatto della risposta dell’onorevole Sottosegretario di Stato, per parecchie ragioni.

Qui non si tratta solo della questione della base navale, cioè non bisogna riferirsi al Trattato di pace e, quindi, all’obbligo che ci si fa di lasciare in Sicilia una sola base navale, ma al trasferimento della base navale e dell’arsenale. Ora, l’arsenale è un complesso di carattere industriale che è legato a tutto lo sviluppo della città e del porto di Messina, e soprattutto allo sviluppo del bacino di carenaggio. Ora, togliere a Messina l’arsenale significa ancora una volta, per la terza volta, distruggere la città. L’arsenale e la Direzione di artiglieria costituiscono gli unici complessi seri industriali che noi abbiamo nella nostra città. La nostra città, che per disoccupazione credo non sia inferiore a Napoli né alle altre città del Meridione. All’atto, sono 3 mila operai; quindi, 3 mila famiglie che vivono del lavoro dell’Arsenale.

Soprattutto però è necessario che il Ministro e il Ministero si preoccupino dell’efficienza dell’Arsenale, cioè si dia a questo Arsenale del lavoro, perché non vorremmo che a un determinato momento ci si venisse a dire: non abbiamo sufficiente lavoro per questo Arsenale e, quindi, dobbiamo ridurre il personale e licenziare operai. Perché il trasferimento dell’Arsenale e della base navale di Messina ad Augusta comporterebbe in fondo il licenziamento di 2500 operai, dato che l’Arsenale, trasportato ad Augusta potrebbe occupare solamente 500 operai.

Quindi vorremmo che il Ministero si preoccupasse di questa situazione e soprattutto si preoccupasse di guardare la situazione dell’Arsenale in funzione dello sviluppo del porto di Messina, considerasse la necessità dell’allargamento del bacino di carenaggio, e distinguesse quindi le due cose: trasferimento della base navale e trasferimento dell’Arsenale.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Stampacchia, al Ministro della difesa, «per sapere se non ritenga rispondente ai fini di giustizia estendere agli «sminatori marini» l’aumento di lire 300 sull’indennità «pericolo mine» recentemente concesso agli sminatori terrestri.

L’onorevole Sottosegretario di Stato alla difesa ha facoltà di rispondere.

CHATRIAN, Sottosegretario alla difesa. La questione prospettata dall’onorevole Stampacchia nella sua interrogazione circa l’opportunità di estendere agli sminatori marini l’aumento sull’indennità pericolo mine, recentemente concesse agli sminatori terrestri, è già stata sollevata dall’Amministrazione della marina militare presso il Ministero del tesoro, cui è stato sottoposto fin dal 24 giugno ultimo scorso uno schema di decreto. Con questo schema, si tende ad elevare, da lire 100 a lire 230 l’indennità giornaliera prevista nel 1° e 3° comma dell’articolo 1 del decreto ministeriale 24 maggio 1946, che concerne le indennità ed i premi da corrispondere al personale della Marina militare impiegato nelle operazioni di dragaggio, disattivazione e distruzione delle mine marine o di altri ordigni esplosivi in mare.

Ciò allo scopo di eliminare la diversità di trattamento attualmente esistente tra il personale dell’esercito addetto al rastrellamento di proiettili e bombe, che percepisce una indennità di rischio giornaliero pari a lire 230 in media, elevabile a 300 lire nelle giornate nelle quali vengono recuperate mine e il personale della marina, assegnato ai gruppi di dragaggio o impiegato per l’assistenza tecnica e sanitaria, ed il palombaro, al quale, giusta il citato decreto ministeriale 24 maggio 1946, viene corrisposta, in aggiunta alle normali competenze, una indennità pericolo mine di lire 100 giornaliere.

Nello schema di provvedimento in parola, non è stata prevista la possibilità di aumentare l’indennità di lire 230 a lire 300 nei giorni in cui vengono ricuperate mine, come avviene per il personale dell’esercito, poiché l’articolo 2 del citato decreto ministeriale stabilisce già uno speciale trattamento con la corresponsione di appositi premi, a favore del personale della marina, per ogni mina marina od altro ordigno esplosivo dragato, disattivato o fatto brillare.

Il 24 luglio ultimo scorso, è stato nuovamente sollecitato il Ministero del tesoro per la necessaria adesione.

PRESIDENTE. L’onorevole Stampacchia ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

STAMPACCHIA. Presentata l’interrogazione lo scorso maggio, chiudendosi, per le ferie la Costituente, richiesi a fine luglio risposta scritta, che gentilmente il Ministro onorevole Cingolani mi favorì ai primi dello scorso agosto, se non sbaglio. Non pensavo perciò che l’interrogazione fosse portata alla discussione orale.

CINGOLANI, Ministro della difesa. Un eccesso di zelo verso l’onorevole Stampacchia.

STAMPACCHIA. Sono stato quindi sorpreso, entrando nell’Aula, di trovare la mia interrogazione riportata nell’ordine del giorno.

Ora, allo stato delle cose osservo che la questione non ha fatto un passo avanti dal mese di agosto.

Sin d’allora, infatti, si disse che il provvedimento era in corso. Adesso mi pare che ancora è in corso e non so quanto tempo rimarrà in corso. In fondo, dalla comunicazione che ha fatto il Sottosegretario, apparirebbe che il provvedimento non è completo, in quanto che, richiamandosi ad una disposizione di legge, si vorrebbe mantenere una disparità fra gli sminatori dell’esercito e gli sminatori della marina. Gli sminatori – io dicevo e osservavo – sia che appartengano all’Esercito, sia alla Marina, sia lavorino a mare, sia che lavorino a terra, per la ricerca delle mine, fanno lo stesso lavoro, si espongono allo stesso pericolo e quindi credo che questo lavoro e questo pericolo debbano essere egualmente compensati.

È inutile dire se mi dichiaro sodisfatto o no: io raccomando che il provvedimento sia sollecitato, perché ormai questi sminatori, i quali tutti i giorni vanno incontro a pericoli e molto spesso a gravi infortuni, non abbiano ancora ad aspettare le provvidenze invocate.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Caso, Bastianetto, Titomanlio Vittoria, De Maria, Riccio, Mazza, Lizier, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro del tesoro, «per conoscere le ragioni che ritardano l’istituzione dell’ente coordinatore per i servizi dei danni di guerra (Alto Commissariato o Sottosegretariato), di cui alle ultime dichiarazioni del Governo, e per attuare ordine e disciplina giuridica in materia che riguarda milioni di famiglie, le quali è bene che sappiano quali siano le speranze da coltivare e quali le illusioni da scartare».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha facoltà di rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Da un punto di vista sostanziale la risposta non può essere sodisfacente per l’interrogante, in quanto non è stato ricostituito il Sottosegretariato o costituito un Alto Commissariato o un altro organo per i danni di guerra. Quindi in qualche modo il Governo è in difetto, ma, in realtà, non si vuole costituire semplicemente un organo perché per risolvere il problema dei danni di guerra non basta nominare un Sottosegretario o un Alto Commissario, occorre studiare sul piano del bilancio le possibilità per risarcire questi danni ed occorre più che altro iniziare un’azione organica sia per il risarcimento dei danni alle cose sia per il risarcimento dei danni alle persone. In questo senso si sta svolgendo un’attività preparatoria da parte del Governo, per vedere in che modo si può far fronte a questo enorme onere che pesa sullo Stato per i danni di guerra. Per i danni alle persone, per le pensioni, si sta studiando il modo di poter accelerarne la liquidazione essendovi ancora in sospeso circa 300.000 pratiche. Qualche cosa è stata fatta; sono stati costituiti altri uffici, un po’ di personale esuberante in altre amministrazioni è stato trasferito in quella delle Pensioni e si sta ora vedendo se si possono trovare, pur lasciando inalterata quella procedura che esiste oggi e che rappresenta una certa garanzia, delle misure per agevolare lo svolgimento delle liquidazioni e forse si sono trovati due accorgimenti pratici che permetteranno, una volta adottati, di vedere accelerare effettivamente la liquidazione delle pensioni.

Non chiedo all’onorevole Caso ed agli altri interroganti di dirsi sodisfatti, perché allo stato attuale non lo possono essere. Chiedo loro soltanto di aspettare, per dichiararsi sodisfatti, l’emanazione di questi provvedimenti.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CASO. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario e mi dichiaro sodisfatto di non essere ancora sodisfatto; mi auguro che vi sia da attendere poco e che si pensi alla coordinazione integrale dei servizi per i danni di guerra che sono troppo sparpagliati e suddivisi.

PRESIDENTE. L’onorevole Rivera ha presentato le seguenti interrogazioni:

ai Ministri dell’agricoltura e foreste e della difesa (aeronautica), «per sapere se intendano intervenire urgentemente ed efficacemente per combattere la diffusione della lyda, che sta distruggendo i boschi di pini, faticosamente impiantati nell’Appennino centrale nell’ultimo cinquantennio»;

al Ministro del lavoro e della previdenza sociale, «per sapere se e quando intenda di provvedere all’assegnazione di terre da coltivare alla popolazione del comune di Campotosto (Aquila), messa alla disperazione ed alla fame da circa sei anni, per perdita del proprio territorio coltivato, a causa della istituzione di un lago artificiale».

Non essendo presente l’onorevole interrogante, si intendono decadute.

L’onorevole Canevari ha presentato la seguente Interrogazione, al Ministro delle finanze, «per conoscere quali provvedimenti si intendano adottare a favore degli agricoltori, coltivatori diretti, delle provincie di Pavia e di Milano, danneggiati dalla grandinata del 22 giugno 1947».

La interrogazione dell’onorevole Canevari è rinviata d’accordo con il Ministro delle finanze.

L’onorevole Borsellino ha presentato le seguenti interrogazioni:

ai Ministri dei lavori pubblici e della marina mercantile, «per sapere quali provvedimenti intendano prendere per la messa in efficienza con massima urgenza dei piccoli porti in Sicilia – e particolarmente dei piccoli porti pescherecci – che sviluppano una grande attività economico-commerciale»;

al Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica), «per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per l’assistenza del gran numero di tubercolotici che vivono in provincia di Agrigento, espressione questa delle condizioni di estrema miseria di quelle popolazioni e della mancanza assoluta di sanatori antitubercolari, per cui non possono effettuarsi ricoveri in provincia. E per sapere – inoltre – se non intenda provvedere con la costruzione d’urgenza di qualche sanatorio o con l’adattare altri edifici in condizioni di contingenza».

Non essendo presente l’onorevole interrogante, si intendono decadute le sue interrogazioni.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Per la seconda interrogazione dell’onorevole Borsellino, quella riguardante l’assistenza ai tubercolotici della provincia di Agrigento, la risposta era positiva, cioè sono stati stanziati più di cento milioni per la costruzione di un sanatorio provinciale. Pur essendo decaduta l’interrogazione, invierò quindi la risposta scritta all’interrogante.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Bulloni e Cappi, al Ministro dei trasporti, «per conoscere quali provvedimenti abbia adottato o intenda adottare per andare tempestivamente incontro, attraverso facilitazioni nei trasporti ferroviari, ai bisogni dell’Alta Italia circa l’approvvigionamento della legna da ardere, specie a quello delle provincie, dei comuni, degli enti ospedalieri e di ricovero e degli enti comunali di consumo, in vista dei contratti di acquisto dagli stessi stipulati nelle regioni centro-meridionali, stante la grave scarsità di legna nell’Alta Italia, dove, in previsione del consumo invernale, i prezzi della legna sono già fin d’ora divenuti proibitivi per il bilancio familiare delle classi meno abbienti».

L’onorevole Ministro dei trasporti ha facoltà di rispondere.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Come l’onorevole interrogante saprà, il problema del trasporto della legna dall’Italia meridionale all’Italia settentrionale per i bisogni invernali, che si è iniziato fin dalla primavera passata, ha dato luogo a molti inconvenienti, anzi, posso dire, a vere e proprie speculazioni che bisognava stroncare in maniera rapida ed energica. Allora, in questa estate, fu data disposizione che la legna da ardere, in carri singoli o in tradotta, fosse spedita solo a determinati enti che dessero assicurazione che non si facessero speculazioni; e perché l’amministrazione ferroviaria potesse garantirsi di questo fatto, fu stabilito che gli enti dovessero avere il benestare delle singole prefetture per la fornitura di legna soltanto ad enti ospedalieri, a comuni, ad enti comunali di consumo, a mense o industrie che se ne servissero anche per le loro maestranze.

Questo vincolo ha moralizzato indubbiamente la cosa e quindi si son potuti concedere i carri con ritmo consentito dalle disponibilità, e con una regolarità che non credo abbia dato luogo a rimostranze. Purtroppo la deficienza di carri esiste; abbiamo dovuto in questi ultimi tempi, alla vigilia della stagione invernale, intensificare il movimento di queste tradotte, che servono non soltanto per la legna, ma anche per le ligniti. La primavera scorsa avevamo stabilito il divieto di trasportare legna dalla Calabria al Nord, in considerazione della grande distanza, che avrebbe impegnato molti carri e richiesta una spesa reale di energia per il trasporto molto prossima al valore intrinseco dell’energia calorifica contenuta nella legna. Successivamente, però, data anche la penuria della legna nel Nord, questo vincolo è stato tolto, ma non per carri isolati, ma soltanto per treni completi di 30 carri, i quali potessero raggiungere in poco tempo la destinazione.

La situazione dei trasporti ferroviari di merci è la seguente: mancano circa 30 mila carri per ricostituire il parco ante-guerra; ed i carri circolano con ritmo molto più lento di quello normale: il ciclo del carro, anziché essere di sei giorni, è di dieci; quindi la quantità di carri offerta al carico è di 9.100, anziché di 15 mila, di cui abbiamo bisogno.

Compatibilmente con queste esigenze, conoscendo l’importanza del trasporto della legna per i prossimi bisogni invernali, l’Amministrazione delle ferrovie fa di tutto perché queste domande, opportunamente istruite e con l’approvazione dei prefetti, siano esaudite secondo la data di presentazione.

Ho ragione di ritenere che, entro due o tre mesi, le richieste pervenute a tutt’oggi saranno pressoché esaurite, quindi entro un periodo conciliabile con le necessità della più rigida stagione invernale.

Assicuro che l’amministrazione delle Ferrovie dello Stato, anche in questo campo, cerca di fare il possibile per intensificare al massimo il trasporto delle merci, compatibilmente con la disponibilità dei mezzi, che è ben lungi dall’essere normale.

PRESIDENTE. L’onorevole Cappi, che è uno dei firmatari della interrogazione, ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CAPPI. Devo dare atto del buon volere dimostrato dal Ministero dei trasporti in materia. Mi compiaccio per la decisione di dare assolutamente la preferenza alle tradotte per enti pubblici e per i comuni, perché prima i negozianti riuscivano molte volte ad avere la precedenza nel modo che tutti immaginate.

La nostra interrogazione era stata provocata da circostanze, che, con piacere l’ho appreso, sono state superate. La stampa politica un mese fa pubblicava che da Salerno in su erano tassativamente proibiti i trasporti, in tal modo il Comune di Cremona non avrebbe potuto effettuare il trasporto di legna per i suoi bisogni. Poiché sento che questa disposizione è stata revocata per tradotte complete, mi devo dichiarare sodisfatto.

(La seduta sospesa alle 18.25, è ripresa alle 18.35).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Giacchero, al Ministro degli affari esteri, «per sapere se corrisponde a verità quanto è stato pubblicato dalla stampa brasiliana di San Paulo circa i bandi di vendita dei beni italiani congelati in Brasile e, in caso positivo, per conoscere quale è l’azione del Governo italiano a tutela dei nostri connazionali allarmati da dette notizie».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per gli affari esteri ha facoltà di rispondere.

BRUSASCA, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Il Governo brasiliano ha posto sotto sequestro taluni beni italiani in Brasile allo scopo di assicurare il risarcimento di danni subiti dai suoi cittadini per cause di guerra.

Da parte nostra si è insistentemente richiesta la liberazione di tali beni, richiesta giustificata dai vincoli di cobelligeranza e di amicizia tra l’Italia ed il Brasile, dalla conclusione di una pace – le cui condizioni il Brasile intendeva anzi rendere migliori come dimostrò nella sua nobilissima azione alla Conferenza di Parigi – e dal comune intento di riprendere in pieno le concrete e feconde relazioni fra i due Paesi, ciò che evidentemente richiede la eliminazione di ogni residuo di quei provvedimenti di guerra, che non possono non costituire un intralcio agli auspicati sviluppi delle reciproche relazioni in ogni settore. Tutto questo appare tanto più necessario e urgente dopo che sono decorsi circa quattro anni dalla cobelligeranza dell’Italia e circa tre dalla ripresa delle relazioni diplomatiche fra i due Stati, e mentre sempre più si sente universalmente la necessità di assicurare, colla stessa cooperazione dell’Italia, l’ordine internazionale e il progresso delle civili nazioni.

Il Governo italiano non può accettare la tesi brasiliana che, basandosi sulla solidarietà dell’Italia con gli altri Paesi dell’asse, tende in definitiva a far ricadere su di noi la responsabilità per danni determinati da sottomarini tedeschi. Tuttavia, per dimostrare la propria buona volontà, il Governo italiano nel richiedere la liberazione dei beni italiani, si è dichiarato disposto a rimettersi al giudizio di una Commissione paritetica o di altro organo arbitrale, cui sia commesso il compito di accertare che i danni in parola siano stati realmente causati dall’azione di forze navali italiane. In tal caso, il Governo italiano assumerebbe l’impegno di indennizzare gli effettivi danni, purché accertati dal predetto organo come causati da azioni belliche italiane.

Posso assicurare l’onorevole interrogante che non si mancherà da parte nostra di insistere, come sta tenacemente facendo il nostro ambasciatore Martini per ottenere una conveniente tutela degli interessi italiani, nel quadro di quella intima amicizia e cordialità di rapporti tra Italia e Brasile che il Governo intende vieppiù sviluppare e rafforzare.

È d’altronde chiaro che accordando tutta la riconoscenza italiana a quei Paesi che hanno rinunciato all’applicazione del disgraziato articolo 79 del Trattato di Pace, l’Italia non potrà non tener conto di ciò nei futuri accordi commerciali per quanto concerne l’acquisto di merci, o nei futuri accordi emigratori

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

GIACCHERO. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario per le assicurazioni e informazioni che mi giungono tranquillizzanti. Le informazioni che erano state precedentemente date e per le quali vi erano anche documenti presentati al Ministero degli esteri nel giugno e nel luglio scorsi dai cittadini interessati della provincia di Asti, erano piuttosto allarmanti.

Le assicurazioni dell’onorevole Sottosegretario, nel loro complesso, ottimistiche, si accordano ad altre notizie che si riferivano all’atteggiamento di esponenti della stampa di San Paulo e di deputati, atteggiamento particolarmente favorevole all’Italia, anche se l’atteggiamento ufficiale del Governo brasiliano non lo è altrettanto.

Comunque, il fatto che il Governo italiano si assuma l’impegno, sotto condizione di un accertamento da parte della commissione paritetica e dietro interessamento dell’Ambasciatore, di risarcire i danni al Brasile e quindi di ottenere lo sblocco dei beni che sono direttamente di proprietà degli italiani, contribuisce a rassicurare gli italiani stessi che hanno nella Repubblica Sud-Americana i loro interessi.

Io penso, in pieno accordo con quanto ha detto l’onorevole Sottosegretario, che è necessario contribuire ad una intesa fra i due popoli che devono lavorare insieme; ed in seguito anche alle richieste che vengono fatte di mano d’opera dal Brasile, penso che sarà non difficile ottenere una vera ed effettiva collaborazione. Se noi abbiamo bisogno di quest’atto di giustizia, non diciamo di generosità, dal Brasile, da parte nostra potremo contribuire, con la nostra emigrazione e col nostro lavoro, a rendere un aiuto prezioso all’amico Paese latino. (Approvazioni).

Svolgimento di interpellanze.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Svolgimento di interpellanze. La prima è quella degli onorevoli Silipo, Gullo Fausto, Musolino, Mancini, Sardiello, Priolo, Caroleo e Mazzei, ai Ministri dei lavori pubblici e del tesoro, «per conoscere i motivi per i quali nulla di sostanzialmente concreto sia stato fatto a favore di coloro che sono rimasti senza tetto in seguito al terremoto dell’11 maggio scorso in Calabria. Gli interpellanti segnalano la necessità urgente di trovare e di applicare provvedimenti, a sollievo di tante miserie, che non consentono ulteriori dilazioni».

L’onorevole Silipo ha facoltà di svolgerla.

SILIPO. Onorevoli colleghi, il 17 giugno, il Ministro dei lavori pubblici, rispondendo ad una mia interrogazione sui provvedimenti che il Governo intendeva adottare a favore dei Comuni colpiti dall’ultimo terremoto del 10-11 maggio in Calabria, dichiarava che era allo studio uno schema di decreto legislativo, contro il quale, però, si era pronunziato il Ministro del tesoro, che adduceva lo specioso pretesto della cronica mancanza dei fondi.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Specioso lo dice lei!

SILIPO. Sì, lo dico io e lo dimostrerò.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Io volevo affermare che non ero stato io a dirlo.

SILIPO. Si diffondeva quindi, sui soccorsi di urgenza, apprestati ai Comuni, soccorsi dei quali noi ancora una volta ringraziamo, e concludeva il suo dire affermando che bisognava agire con rapidità e costruire ricoveri stabili, in vista della necessità della sostituzione delle tende, che erano state mandate dal Governo in un primo momento e che non avrebbero potuto essere più utilizzate col cessare della stagione estiva.

Questo, il 17 giugno. Rispondendo, prendevo atto delle comunicazioni dell’onorevole Ministro, pur facendo le mie riserve ed ammonendolo nello stesso tempo a sveltire, quanto più fosse stato possibile, l’apparato burocratico, che noi della periferia sappiamo bene quanto sia pesante e grave. Si badi che io presentai la mia interrogazione nel giugno, ad oltre un mese di distanza dal terremoto, perché ritenni che fosse bene lasciar passare un certo periodo di tempo, per dare al Governo la possibilità di prendere provvedimenti concreti, che non fossero soltanto quelli di urgenza immediata e che, come tali, non potevano non avere carattere transitorio.

Ebbene, siamo oggi al 22 settembre. Io allora dissi che alla distanza di un mese avrei pregato il Ministro di mettermi al corrente dello stato dei lavori promessi. Siamo, oggi, quasi alla fine di settembre: non un mese è passato, ma più di tre. Bene, la preghiera che dovevo rivolgerle molto tempo fa, gliela rivolgo ora: che cosa è stato fatto onorevole Ministro, fino a questi ultimi giorni per lenire le sofferenze di chi 1’11 maggio paventò la morte ed oggi la desidera? Se permette, fisserò io alcuni dati. Sono stato parecchie volte sul luogo del disastro; ho visitato tutti i Comuni più duramente colpiti, anche recentissimamente (ultimi di agosto, primi di settembre). Debbo, purtroppo, dire con amarezza che molto poco è stato fatto e che quel poco che è stato fatto, non è stato fatto nemmeno bene. Non è questa una frase ad effetto. Io ho la documentazione fotografica di quanto affermo e che è stata presa nei primi di settembre. Ad Isca, a Badolato, a Sant’Andrea, in parecchi altri comuni le strade sono ancora ingombre di macerie, e questo chi sa per quali misteriosi motivi. Una volta viene l’ordine di iniziare lo sgombero; poi quest’ordine viene revocato, quindi impartito di nuovo! Il fatto si è che anche oggi molte strade (se strade si possono chiamare quei viottoli larghi spesso 60-70 centimetri che si inerpicano lungo i dorsi della montagna) sono ancora piene di macerie, impraticabili, specialmente quando piove. A rendere ancora maggiormente precarie le condizioni ambientali contribuisce il fatto molto più grave, che non è stata completata o del tutto iniziata la demolizione di buona parte degli edifici pericolanti, per alcuni dei quali anzi s’è revocato l’ordine di demolizione (forse per essere compiacenti verso interessi privati), e questo voler mantenere in piedi quello che è destinato a crollare rappresenta un pericolo serio anche per gli altri edifici non danneggiati, ma vicini, che restano così sotto una specie di spada di Damocle. Se lei fosse venuto in Calabria (anzi aveva promesso che sarebbe venuto…

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Ci Verrò.

SILIPO. …poi, non so per quali motivi, non lo ha fatto), si sarebbe reso conto che quello che sto dicendo è la verità nuda e cruda, senza fronzoli retorici.

Macerie, ripeto, edifici che avrebbero dovuto essere abbattuti e che non lo sono stati ancora, costruzioni e riparazioni di case ancora in massima parte sulla carta. Certo, noi non ci attendiamo miracoli, non pretendiamo l’impossibile; ma credo che sia logico che noi ci attendessimo qualche cosa di concreto. Invece?

Fino al 16 settembre, data in cui ho presentato la mia interpellanza, ancora quello schema di decreto legislativo che deve regolare gli aiuti da dare ai Comuni terremotati, era ancora all’esame, nonostante la necessità, di agire presto, necessità riconosciuta dallo stesso Ministro!

In tre mesi nemmeno uno schema di decreto legislativo s’è riusciti a fare approvare al Consiglio dei Ministri!

E sì che, in materia di terremoti, la legislazione italiana non era ai primi passi, non mancava d’un passato tragico; aveva anzi un’esperienza, della quale avrebbe potuto e dovuto servirsi.

Non si è tenuto conto di tutto questo e si è lasciato scorrere il tempo nell’inazione, rinviando la pratica per… accertamenti, per… pareri, per… approvazioni, da un ufficio all’altro, così come se si fosse trattato d’una comune pratica burocratica…

Quando – questa è la verità – non si è in contatto diretto con le sofferenze e con i lutti, questi non si comprendono; quando si è lontani, non si comprende che cosa significhi terremoto e quali conseguenze apporti! Ma noi di Calabria – questa terra che con una espressione magari infelice, ma molto eloquente, viene chiamata «terra ballerina» – noi di Calabria lo sappiamo e le sappiamo. Quante volte abbiamo sentito tremare il pavimento della nostra casa! Quante volte nei primi attimi, nella vaga, ma vana speranza che quel fremito fosse prodotto dal passaggio di una vettura vicina o lontana, abbiamo sollevato gli occhi al lampadario e, vedendolo ondeggiare e sobbalzare, non abbiamo potuto avere più dubbi sulla causa di quel fremito! Quante volte abbiamo avvertito dei disturbi circolatori e la parola orrenda «terremoto» c’è morta sulle labbra!

Ebbene, con tutta questa esperienza, quando dopo 4 mesi sentiamo dire che lo schema di decreto legislativo è ancora allo studio, onorevoli colleghi, non sarà strano se ci sembra che si tratti di una beffa! E una beffa ancor più sanguinosa ci pare, quando sentiamo dire che per i comuni disastrati di Calabria non ci sono fondi! Beffa ancora più grave, uomini del Governo, ancora più grave!

Che colpa abbiamo noi se lo Stato vuol trovare il denaro nelle tasche di chi non l’ha? (Lo dimostra in una maniera molto eloquente la legge sulla patrimoniale!). E dire che basterebbe soltanto parte della rendita di un anno di un ricco proprietario a riparare i danni del terremoto dell’11 maggio in Calabria. Là ci sono vastissimi oliveti che appartengono ad una sola persona, la quale guadagna miliardi con l’olio, vendendolo al mercato bianco e al mercato nero! (Interruzione dell’onorevole Russo Perez). Stia tranquillo, onorevole Russo Perez, è la verità: basterebbe parte di una simile rendita! Certo non possiamo sperare che questi baroni della terra, cuore bugiardo e, magari, volto di santo, facciano spontaneamente una cosa simile; ma se lo Stato cercasse il denaro nelle loro tasche, uscirebbero i soldi necessari per rimediare in parte, anzi del tutto, ai danni prodotti dal terremoto. Con questo vantaggio: il denaro prodotto col sudore del popolo resterebbe – una volta tanto – sul posto – diciamo così – di produzione e allevierebbe il tormento del popolo.

Inoltre, quando sentiamo dire che 150 miliardi vengono stanziati per la revisione dei prezzi…

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. È falso!

SILIPO. Io l’ho letto…

Una voce al centro. Sull’Unità!

SILIPO. Anche su altra stampa!

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. È un’invenzione gratuita!

SILIPO. Non credo, pur volendo augurarmi che sia così. Del resto, non mi si deve fraintendere: nessuno vuole negare che ci debba essere una revisione dei prezzi. Soltanto non riesco a capirla molto bene in determinati casi, quando, per esempio, assistiamo allo spettacolo di edifici, che crollano prima di essere terminati, come è avvenuto a Milano per i locali della «Rinascente» e a Foggia per alcune case per i senza tetto. (Per imprenditori simili, che antepongono il guadagno alla vita umana, vi dovrebbe essere non revisione di prezzi, ma ergastolo). Ecco il mio pensiero: se si trovano miliardi d’assegnare sollecitamente per la revisione dei prezzi, si dovrebbe pur trovare il denaro, che non è molto, per dare una casa a chi l’ha perduta ed un po’ di lavoro a chi è disoccupato.

Ed a proposito di case che crollano non appena costruite, nei nostri Comuni s’è manifestata una certa preoccupazione: se dovessero crollare – si pensa – anche i nostri ricoveri stabili? Tra terremoto ed imprenditori siffatti c’è poco da stare tranquilli!

Ma torniamo all’argomento.

Abbiamo visto la sorte del famoso schema legislativo, almeno sino al 16 settembre. Vediamo ora l’opera del Ministero attraverso i suoi organi diretti.

Che cosa è stata fatta dal Genio civile e dal Provveditorato alle Opere pubbliche della Calabria? Lo dirò subito: il Ministero, invece di tener conto della mia raccomandazione di ridurre al minimo le pratiche burocratiche, le ha aggravate: vengono prima stabiliti degli accertamenti, viene poi inviato da Roma un funzionario per esercitare un controllo sugli accertamenti stessi; vengono, in un terzo tempo, disposti ulteriori accertamenti!

Intanto il tempo passa; famiglie e famiglie continuano a rimanere sotto le tende ed altre ancora, che non hanno avuto la fortuna di averne, vivono in locali umidi e infetti peggio delle bestie. Il mio dubbio è questo: vi saranno state forse delle interferenze, affinché i primi accertamenti venissero annullati e se ne facessero altri addomesticati? Mi rivolgo e, onorevole Ministro, le rivolgo questa domanda, perché non riesco a trovare dei motivi plausibili che abbiamo potuto indurre il Ministero competente a mettere in dubbio e ad annullare l’opera del Genio civile. Continuiamo. Questo ispettore viene in Calabria e distrugge tutta l’opera del Genio civile. Perché? Perché i primi accertamenti erano stati fatti male o perché egli doveva tenere una definita linea di condotta, indipendentemente da quello che era lo stato reale delle cose? Dal modo come s’è comportato appare chiaro che questo signor ispettore o è un ignorante, o è in malafede. Infatti ha avuto il coraggio, la spudoratezza, di dichiarare, in Isca, abitabile un edificio il quale è crollato due giorni dopo la sua dichiarazione d’abitabilità! (Fortunatamente gli abitanti di quella casa non prestarono fede alla parola del suo ispettore, onorevole Ministro, che altrimenti sarebbero morti di certo in conseguenza di questa specie di terremoto ministeriale!).

Io stesso ho voluto visitare una casa dichiarata abitabile: quella del medico condotto del medesimo Comune su citato: bisogna camminare bene attenti rasente alle pareti e badando di non fare dei passi verso il centro delle stanze. Una casa simile è stata dichiarata abitabile!

E non solo io giudico così l’operato del suo ispettore.

Se, onorevole Ministro, ella desidera anche ascoltare la parola di altri, io gliela posso far udire.

RUSSO PEREZ. Ma noi crediamo alla sua parola, onorevole collega: non occorre.

SILIPO. Ma a me piace ugualmente diffondermi in particolari, perché ogni dubbio scompaia. Ecco quello che mi scrive un sindaco: «Detto ispettore vorrebbe demolire l’opera del Genio civile perché la legge fosse formulata con larga applicazione». Ed ecco il pensiero di un altro: «L’ispettore, per favorire forse amici suoi personali, si vestì di carattere dittatoriale ed emise ordine di demolizione di alcune case, curando subito di revocarlo; riconobbe che effettivamente oltre un centinaio e mezzo di famiglie erano state private dell’alloggio, ma ritornando a Catanzaro», ecc.

Così ha agito il suo ispettore, che, ripeto, o è un ignorante o è in malafede. Nell’un caso e nell’altro non deve godere la fiducia dell’onorevole Ministro. È in ballo la vita umana e dà questi giudizi? Il suo contegno è tale da giustificare i nostri sospetti, anche perché fa una specie di doppio giuoco: quando è sul luogo del disastro, dichiara: «Questa casa è inabitabile; non può andare, deve essere distrutta»; quando va a Catanzaro, agisce proprio in senso opposto! E continuiamo.

Sono venuti, dopo gli accertamenti di questo ispettore, nuovi accertamenti; è passata tutta l’estate, onorevole Ministro; siamo alle porte dell’inverno, e nessun provvedimento sostanziale è stato preso ancora. In conclusione: molte delle case che erano state dichiarate inabitabili in un primo periodo, furono dichiarate abitabili in un secondo tempo. Circa 1’80 per cento degli altri edifici colpiti furono dichiarati inabitabili, ma riparabili… Ben poca cosa fu dichiarata di estrema urgenza! Tutto questo perché?

Noi temiamo, per una dolorosa, amara, lunga esperienza, che ci siano state delle interferenze da parte di elementi molto potenti; noi temiamo, cioè, che per salvare e difendere gli interessi di qualche grosso, molto grosso proprietario, si voglia mantenere artatamente uno stato di disagio per dei motivi di speculazione, di esosa speculazione.

Su di un giornale, che certo non si può dire che sia un giornale di sinistra, da Isca si scrive: «Stavamo già male e troppo agglomerati prima del nefasto terremoto dell’11 maggio; ma oggi stiamo del tutto pigiati, sia pure all’aperto!». Badolato si agita: se ne parla sulla stampa e se ne parla bene: sul Giornale d’Italia, nonché sul Giornale della Sera. Mi vorrà concedere, onorevole Ministro, che non sono giornali che abbiano delle tenerezze per noi della sinistra. Se scrivono così, vuol dire che le cose vanno proprio male.

RUSSO PEREZ. Onorevole Silipo, crede che faccia ricostruire le case, parlando un’ora invece di cinque minuti?

SILIPO. Io parlo così, perché ognuno assuma la propria responsabilità; io cerco appunto di stabilire le singole responsabilità.

Sto delucidando all’Assemblea e non all’onorevole Russo Perez uno stato di cose intollerabile. Ognuno assuma la propria responsabilità.

Il Governo farà quello che crederà di fare, l’onorevole Russo Perez potrà fare o pensare quello che crederà; ma penso che di fronte ad un problema simile non ci sono parole sufficienti ad esprimerne tutta la gravità.

RUSSO PEREZ. Ecco: il silenzio è più espressivo.

SILIPO. Si parla e si ottiene poco; se si tacesse, si otterrebbe quello che s’è ottenuto durante l’estate!

Questa – dicevo – l’opera svolta (se opera si può chiamare) dal Governo in 4 mesi.

Parliamoci chiaro: lo stato dei nostri paesi è tale che non ci si può illudere di risolverlo con l’erogazione di alcune centinaia di milioni! Io non vengo qui a fare della storia, ma tutti sappiamo che i luoghi, in cui sono costruiti i nostri paesi (luoghi scelti nel Medio Evo per ragioni di opportunità, per sfuggire alle incursioni barbariche), sono tutti luoghi destinati ad essere abbandonati, in massima parte, e non c’è potenza umana che tenga. Sono costruiti su colline franose, su rocce in disfacimento. Si visitino Sant’Andrea, Badolato, Isca. Sono constatazioni le mie! Per mantenere Badolato, bisognerebbe fare dei muraglioni di sostegno per l’importo di oltre 150 milioni. Ad Isca non molto tempo fa ci fu la frana di Valloscura, che minacciò di travolgere tutto l’abitato. I nostri paesi, in breve, sono costituiti da case addossate le une sulle altre, mal costruite, mal tenute, aderenti al dorso delle colline, formanti una specie di cumulo informe di catapecchie.

Si capisce che in queste condizioni ambientali, i danni, prodotti dal terremoto, sono stati molto più gravi di quelli che sarebbero stati, se il paese si fosse trovato in un ambiente migliore.

E d’altra parte, è notorio come sia fatale che, prima o poi, questi piccoli paesi di montagna finiscano col ridursi, in proporzione, di oltre la metà. Vi saranno solamente dei boscaioli ad abitarli; ma il paese vero e proprio andrà al mare, perché la vita ritorna al mare. E in questo caso, conviene – dico io – al Governo far costruire e riparare nello stesso luogo delle case che, se non cadono oggi, cadranno domani? Se la regione è terremotata, cioè soggetta a terremoti, le case devono essere costruite secondo sistemi antisismici e queste case non potranno costruirsi che su strade ampie, non già ai lati di quei viottoli, di cui precedentemente ho fatto cenno. Si facciano sorgere dunque delle belle frazioni in pianura, se non si vuol perdere tempo, denaro e vite umane.

E mi avvio a concludere.

Da tutto quanto precede si deduce che è stato fatto poco e che questo poco, che è stato fatto, è stato fatto male. Ad Isca, per esempio, si stanno costruendo – mi pare – due lotti di ricoveri stabili in una zona malarica, mentre sarebbe bastato e basterebbe che si spostasse l’ubicazione di essi di tre o quattrocento metri per sistemarli in una zona salubre. Ora, chi vuole, onorevole Ministro, che vada ad abitare in questi ricoveri? Le rane li abiteranno, perché, se per sfuggire al terremoto, bisogna andare a prendere la malaria, non sapendo quale delle due cose sia preferibile, ognuno, potendo, rimarrà dove si trova, memore dell’incidit in Scyllam qui vult vitare Charybdim. Ma perché si deve agire così? Dovremmo forse spiegarlo che è per mantenere integra la proprietà terriera di qualche persona? (Approvazioni a sinistra – Commenti a destra).

RUSSO PEREZ. Mi faccia scrivere la sentenza di fucilazione.

SILIPO. Qui si parla di gente che soffre e muore. Non faccia dell’ironia.

RUSSO PEREZ. Ma chi glielo ha detto che è ironia? Io trovo che l’argomento è serissimo. Mi permettevo solo di pensare che si potrebbe esporlo più brevemente.

SILIPO. Lei parla di fucilazione e poi dice che non fa dell’ironia. Siccome l’ho spiegato il 17 giugno brevemente e non fui capito, lo espongo adesso in maniera più completa nella speranza che questa volta mi si capisca.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Prenda comunque atto che il Governo l’ascolta con molta attenzione.

SILIPO. Mi voglio augurare che all’attenzione del Governo seguano i fatti.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. I fatti glieli dirò poi io.

SILIPO. Sarò molto felice di sentirli.

Dunque, dicevo: siamo alle porte dell’inverno, molti sindaci minacciano già di dimettersi perché non sanno come fare. Che cosa accadrà? Non ci si culli nella vana speranza che nulla succederà, perché, quando le tende saranno inservibili e la gente non saprà dove andare a sbattere la testa, sarà pure costretta a muoversi, e non so se questo potrà fare piacere al Ministro dell’interno. E non parlo delle ripercussioni politiche che l’inazione del Governo non mancherebbe di determinare ad opera degli interessati.

Io prima di finire, affinché non si dica che mi limito a criticare e a non proporre nulla di concreto, mi permetto di esporre al Governo il mio pensiero e quello degli interessati in fatto di provvedimenti.

Scrivevo – e non ho motivo di modificare il mio pensiero da quello che ho scritto nel mese di luglio – che sono necessari dei provvedimenti che devono essere di duplice natura: alcuni devono riflettere l’opera da spiegarsi dai Comuni e dal Governo per la sistemazione, mediante un piano regolatore ed amplificatore dei paesi terremotati; altri devono mirare a fissare una serie di agevolazioni tributarie e di aiuti finanziari atti a stimolare l’attività privata. Io attendo dal Ministro che qualche cosa mi dica in proposito.

È certo che la sola esenzione dalle tasse non sia sufficiente e, riguardo a questa, così mi scrive il sindaco del Comune di Squillace: «Comunque sono del parere che tale provvedimento non risolva il problema». D’altra parte è desiderio unanime dei sindaci e delle popolazioni che ci sia un contributo statale dell’80 per cento, come è stato fatto coi decreti legislativi per i terremoti del 1905 e del 1908; che questo contributo dell’80 per cento sia almeno dato ai più bisognosi, a quelli che non hanno nemmeno quel 20 per cento con cui iniziare i lavori, e magari sia ridotto, se non soppresso del tutto, a chi può costruire con quel denaro che ha messo insieme sfruttando il lavoro degli altri. Invece dell’80 per cento pare che il governo voglia dare soltanto il 50 per cento, a tutti indistintamente; io invece propongo che si elevi il contributo statale a chi nulla ha e lo si riduca o si sopprima a chi ha troppo. Una specie di contributo differenziato.

Inoltre, siccome v’è della gente che aveva soltanto la casa, che il terremoto ha distrutto, e null’altro, per questa sarebbe umano che la ricostruzione fosse fatta a totale carico dello Stato.

Questo chiedo a favore di quelle infelici popolazioni, tra le quali dominano i mali della miseria, dal tracoma alla tubercolosi, dall’analfabetismo alla superstizione; questo chiedo a favore di chi ha sempre dato alla patria tutto, lavoro e vita, senza mai ottenere in contraccambio un sollievo, anche modesto, ai propri mali; questo io chiedo in nome della giustizia sociale.

Non intendiamo che si provveda tout court, ma bisogna pure incominciare a fare e bisogna incominciare a far presto, prima che sia troppo tardi. Non ho altro da dire. (Approvazioni – Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di rispondere all’onorevole interpellante.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Onorevoli colleghi, devo ricordare i precedenti ai quali si è riferito l’onorevole Silipo. In data 17 giugno, cioè a undici giorni dal mio insediamento nel Ministero dei lavori pubblici, l’onorevole Silipo ed altri colleghi m’interpellarono su quello che il Governo aveva fatto e intendeva di fare in ordine al terremoto dell’11 maggio precedente. Assicurai l’Assemblea che avrei fatto tre cose. Primo: mi sarei accertato dello stato dei danni prodotti dal terremoto; secondo: avrei sollecitato tutti quei provvedimenti di urgenza che avessero potuto consentire un graduale ricovero della gente rimasta senza tetto o male alloggiata; terzo: avrei promosso un provvedimento legislativo apposito con il quale si potesse, mediante una congrua somma da stanziare in bilancio, affrontare quella situazione.

GULLO FAUSTO. Di queste tre cose non è stata fatta nessuna.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. A tre mesi di distanza, onorevoli colleghi, posso dare una precisa relazione della mia opera personale in ordine a quello che si è fatto. Anche se l’onorevole Gullo dice che non si è fatto niente, dimostrerò che si è fatto molto.

GULLO FAUSTO. Non negli uffici, ma nelle località.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Io sfiderei – lo dico naturalmente in termini pacifici – chiunque si trovasse al mio posto o in quegli organi periferici ai quali gli onorevoli interruttori si riferiscono, a fare di più e meglio di quello che si è fatto.

Io disposi l’immediata partenza, per i luoghi del terremoto, di un ispettore del Ministero. L’onorevole Gullo, che è stato Ministro della giustizia e dell’agricoltura, sa benissimo che quando accadono dei fatti che interessano un singolo Ministero la prima cosa che fa il Ministro è di accertarsi attraverso un suo funzionario. Ed è precisamente quello che ho fatto io! Il mio funzionario si è recato subito sul posto. Chi mi conosce sa che io disdegno gli indugi e che preferisco la rapidità dell’azione. Un riconoscimento simile avrei dovuto attendermelo anche dall’onorevole Silipo.

SILIPO. Io attendo la risposta.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Comunque, l’ispettore ha accertato che le famiglie rimaste senza alloggio ammontavano a 627 in tutta la zona terremotata.

SILIPO. Lo dice lui.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Se l’onorevole Silipo mi può documentare, ex adverso, che l’accertamento dell’ispettore del Ministero non è esatto, io terrò conto delle sue conclusioni, le metterò a raffronto con quelle dei miei uffici e ne trarrò le necessarie conseguenze.

Comunque di queste 627 famiglie, io posso annunciare all’Assemblea che ben 170 hanno trovato finora un alloggio stabile.

SILIPO. Dove?

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Onorevole Silipo, io l’ho ascoltato con attenzione religiosa; voglia ricambiarmi con eguale moneta.

SILIPO. Anche lei mi ha interrotto, mentre svolgevo l’interpellanza.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Per dirle che l’ascoltavo (Ilarità).

Le rimanenti 457 famiglie sono finora alloggiate in modo precario.

Ho insistito perché si accelerasse la costruzione di nuove case; e mentre svolgevo quest’opera, non trascuravo l’altra, lenta, difficile e dura, che chiunque abbia esperienza di Governo, come l’onorevole Gullo, può confermare, e cioè di persuadere il collega del Tesoro a stanziare in bilancio una congrua somma per le provvidenze necessarie a favore delle vittime del terremoto.

GULLO FAUSTO. Non dimentichi che c’è un terremoto per lo mezzo.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Nel contempo disponevo che 100 milioni venissero accantonati ed anticipati (somma da rifarmi poi su quello che il Tesoro avrebbe definitivamente dato), perché si desse senz’altro inizio alla costruzione di un certo numero di alloggi, che ora sono in una fase di avanzata costruzione; cioè 150, di cui, per la provincia di Catanzaro, 32 nel Comune di Isca ed 8 per ciascuno dei Comuni di Badolato, Chiaravalle, Sant’Andrea, Santa Caterina, Squillace, Catanica ed altri, e 20 per la Provincia di Reggio Calabria, che è stata meno danneggiata. Intanto le trattative col Tesoro si sviluppavano favorevolmente e nell’ultima riunione del Consiglio dei Ministri è stata approvata la legge che destina la somma di un miliardo e mezzo a favore delle popolazioni colpite. Il disegno di legge è ora all’esame della competente Commissione dell’Assemblea.

L’onorevole Silipo ricorda che, secondo le prime previsioni del mio ufficio, i danni si calcolavano a 900 milioni. Secondo l’onorevole Silipo ammontavano ad un miliardo: una differenza, quindi, di cento milioni. Gli accertamenti successivi fatti dal mio Ministero hanno constatato un fabbisogno minimo di un miliardo e 500 milioni, che è precisamente la somma stanziata in bilancio.

A me pare che, giunti a questo punto, onorevole Silipo, si possa onestamente riconoscere che tutti gli affidamenti e le assicurazioni da me date, tutte, ripeto, nessuna esclusa, sono state mantenute, e che anche i miei uffici hanno fatto tutto quello che umanamente era possibile di fare, e ciò non nel termine di quattro mesi, ma nel termine di tre mesi, perché, se non erro, dal 17 giugno al 22 settembre decorrono tre mesi e non quattro; se mai, il quarto mese, che in questo caso è il primo, non appartiene alla mia amministrazione ma a quella del mio predecessore.

Sono dunque tre mesi. Io domando: in tre mesi cosa poteva fare di più il Governo? Senza dire, onorevole Silipo, che per facilitare e per accelerare la costruzione degli alloggi per i senza tetto si dispose l’utilizzazione immediata di ben 80 milioni al fine di una sollecita liquidazione degli acconti e quindi di un maggior acceleramento dei lavori in corso. Se poi, onorevole Silipo, quest’opera di acceleramento non ha dato i risultati da tutti noi voluti, le cause sono di duplice ordine: 1°) quella cui velatamente ha accennato l’onorevole Silipo, cioè di un contrasto sorto fra coloro che vogliono rimanere aggrappati dove sono e coloro che vogliono prendere occasione (non dico pretesto) della disgrazia avvenuta per spostare altrove l’abitato. Questi sono contrasti che dovunque si accendono: sono di una importanza e di una gravità tale che dovunque, onorevoli colleghi, portano necessariamente ad un ritardo dei lavori. Io lo vedo e lo constato anche per quanto attiene alla ricostruzione delle zone distrutte o danneggiate dalla guerra: si accendono sempre simili contrasti. E quando l’onorevole Silipo accenna che i contrasti, che producono i ritardi, possono essere stati determinati da interferenze di interessi, che egli teme – questa è la parola usata dall’onorevole Silipo – abbiano avuto giuoco nella specie, io invito l’onorevole Silipo a voler trasformare se può il timore in certezza e fornirmi dei dati certi che mi consentano di individuare ogni eventuale interferenza obliqua o disonesta, di adottare gli opportuni provvedimenti e prendere le necessarie esemplari sanzioni. (Applausi al centro).

Per continuare, onorevoli colleghi, e in attesa che la legge diventi operante, sono stati predisposti i progetti per altri 400 alloggi i cui lavori saranno iniziati al più presto.

Onorevoli colleghi! Non mi pare che questo sia argomento sul quale sia lecito fare speculazioni di parte. Per quel che attiene alla mia personale responsabilità, ho la coscienza tranquilla, perché so di aver fatto tutto ciò che è umanamente possibile di fare per andare incontro alle esigenze di quelle sventurate popolazioni.

L’onorevole Silipo ha accennato a deficienze della legge. La Commissione competente la sta esaminando. Se si vogliono suggerire proposte ed innovazioni il Governo è a completa disposizione dell’Assemblea. L’importante è che si riconosca che l’impegno da me assunto tre mesi fa è stato portato a compimento. Ora non rimane che proseguire con volontà e tenacia su la via intrapresa per ridonare tranquillità e sicurezza alle famiglie colpite con pieno esaudimento dei loro desideri che sono soprattutto i desideri miei, del Governo e anche dell’onorevole interrogante.

Per quanto poi riguarda, onorevole Silipo, la lentezza degli organi burocratici, io lo apprendo per la prima volta da lei. I giornali possono averne parlato, ma non è soltanto su un articolo di giornale che il Governo ed il Ministro possano basarsi per determinare la propria azione. I giornali, se mai, forniscono l’occasione e lo stimolo per eventuali accertamenti che vengono solitamente affidati a degli ispettori.

SILIPO. Che non siano quelli.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Che siano quelli che sono. Se hanno fatto male…

SILIPO. Le ho dato elementi.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Spero che non ci sia bisogno di mandarne più alcuno e che gli organi locali, da me energicamente richiamati a fare con la maggiore intensità possibile il proprio dovere, siano in grado di farlo, sì da consentire a me ed a voi di poter guardare con una certa soddisfazione al lavoro compiuto.

Per conto mio, confermo ancora una volta che tutti gli impegni assunti sono stati mantenuti, e si manca di generosità se non sono riconosciuti ed anzi negati.

L’onorevole Silipo, nel corso dello svolgimento della sua interpellanza, mi ha offerto l’occasione di dare un chiarimento in ordine ad una certa sua affermazione, che non ha nulla a che vedere con l’attuale dibattito, ma che mi riguarda personalmente. L’onorevole Silipo ha, cioè, affermato che la pretesa indolenza del Governo nei confronti del terremoto calabrese contrasta con altrettanta sollecitudine nei riguardi degli appaltatori delle opere pubbliche, a favore dei quali sarebbero stati stanziati ben 150 miliardi! Ringrazio l’onorevole Silipo per avermi fornito l’opportunità di smentire solennemente dinanzi all’Assemblea una simile affermazione che non esito a dichiarare falsa e calunniosa. A favore delle revisioni degli appalti figurano in bilancio per l’anno corrente solo 15 miliardi e questi 15 miliardi non li ho fatti stanziare io, bensì il mio predecessore. Vi si è aggiunto uno zero e se ne è attribuita a me la paternità con evidenti finalità di calunnia politica. Sta in fatto che io mi sono limitato a distribuire la somma dei 15 miliardi da me trovata in bilancio tra i vari Provveditorati delle opere pubbliche secondo le segnalazioni fatte al mio Ministero dai rispettivi titolari. Del resto i bilanci, come qualsiasi provvedimento di spesa, sono pubblici. Chiunque ne può prendere visione e sono a disposizione dell’Assemblea. La verità, dunque, è quella affermata da me e non teme smentita, mentre gratuita e falsa è ogni contraria affermazione. (Applausi al centro).

Chiusa questa parentesi, mi onoro di concludere pregando l’onorevole Silipo d’informare il Governo e l’Assemblea su tutto quanto riguarda i lavori in corso nei territori colpiti dal terremoto, tanto più se contrastano con le mie informazioni.

Qui si tratta di lavorare insieme indipendentemente dal colore politico del Governo e al solo fine di portare un concreto e sollecito giovamento alle popolazioni colpite contribuendo ad un’opera altamente umana e civile. (Applausi).

PRESIDENTE. Invito l’onorevole interpellante a dichiarare se sia sodisfatto.

SILIPO. Una chiarificazione anzitutto, perché il Ministro ha fatto delle allusioni di carattere politico. Egli deve riconoscere che la mia interpellanza è stata firmata da uomini di tutti i settori. Anzi tengo a dichiarare che anche l’onorevole Lucifero mi ha detto proprio oggi di aderire in pieno alla mia interpellanza, che non ha firmato, perché assente. Quindi nessuna speculazione politica. Sono perfettamente d’accordo con lei, onorevole Ministro.

In quanto al progetto legislativo, prendo atto con letizia della sua comunicazione e la ringrazio, sebbene debba dire che questo provvedimento venga un po’ in ritardo, a distanza di tre mesi e dopo la presentazione della mia interpellanza.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. La data è antica. Le relative pratiche sono tutte a sua disposizione.

SILIPO. Quale data? Certo, non quella dell’approvazione, giacché, come lei stesso ha detto, il progetto è stato approvato dal Consiglio dei Ministri soltanto venerdì, 18 settembre. Comunque mi dichiaro sodisfatto.

Riguardo al contenuto di questo provvedimento legislativo, non posso dire nulla perché non ne ho preso visione e, quindi, non posso dire se risponda alle esigenze da me esposte. Non appena l’avrò letto e studiato, farò una mia relazione a lei personalmente, appunto per quel desiderio di collaborazione che deve animare tutti in simili frangenti.

Riguardo all’opera dei suoi ispettori, mi sembra d’essere stato abbastanza chiaro.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Ormai l’opera degli ispettori è finita.

SILIPO. Ma la loro relazione resta, e questo è il guaio più grande. Se vuole un’altra prova dell’opera inconsulta di costoro, eccola: il Comune di Chiaravalle mi scrive: «In questo Comune le famiglie senza tetto sono 32 e per esse il Genio civile ha predisposto un solo lotto di case popolari per appena otto famiglie».

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Per ora otto famiglie, ma gli altri 400 alloggi finiranno per compensare ad usura la deficienza fra otto e trentadue.

SILIPO. Voglio dire che mentre il Genio civile ha giudicato sufficiente per Chiaravalle un ricovero per otto famiglie, il numero effettivo delle famiglie senza tetto è ivi di trentadue.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Onorevole Silipo, se mi consente, quando ho parlato di 8 alloggi non ho parlato di otto alloggi definitivi. Ho detto che questi rappresentano, di fronte ai 170 già sistemati, altri 150 alloggi per altrettante famiglie.

Ho detto anche che c’è un progetto per un complesso di altri 400 alloggi che verranno, adesso che abbiamo lo stanziamento, a sodisfare ad usura tutte le esigenze, comprese quelle del sindaco di Chiaravalle.

SILIPO. Lei parla del numero complessivo degli alloggi, per tutti i paesi terremotati, e, se entriamo in questo argomento, debbo dichiarare che il numero da lei citato non mi sembra sufficiente. Comunque, mi voglio augurare che si facciano, perché siamo già alla fine di settembre. Riguardo al miliardo e mezzo stanziati, le dico con franchezza che vi sono delle espressioni parlamentari delle quali diffido. Tra queste v’è quella di «stanziamento». Invece dell’espressione «stanziamento» preferirei che si parlasse di «assegnazione».

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Ma quando è avvenuto lo stanziamento ne consegue l’assegnazione.

SILIPO. Stanziamento è una cosa, assegnazione è un’altra. (Commenti al centro).

Si stanziano i milioni che si vogliono, ma poi si dice: quando ci saranno i soldi si procederà ai lavori. Invece, quando si tratta d’assegnazione, s’intende che la somma è già pronta, quindi… Mi permetta, infine, onorevole Ministro, di dirle che alcuni sindaci si sono lamentati del suo modo d’agire, perché, avendo rivolto a lei personalmente parecchi telegrammi, lei, non so perché, non si è benignato di rispondere…

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Ma ho provveduto.

SILIPO. Una risposta si poteva pure dare. In ogni modo, quello di cui la prego caldamente è di non tenere in nessun conto gli accertamenti degli ispettori ministeriali, contro cui si sono levate voci di protesta da tutte le parti, ed io ho citato dei fatti positivi.

Mi voglio augurare di non dover intervenire ancora una volta in una materia così dolorosa.

PRESIDENTE. Segue l’interpellanza dell’onorevole Nobile, al Ministro della difesa, «sulla situazione venutasi a creare con la riammissione in servizio permanente effettivo degli ufficiali che furono sottosegretari di Stato per l’aeronautica con la repubblica fascista: e sulle gravi sperequazioni createsi con l’applicazione della legge sullo sfollamento».

L’onorevole Nobile ha facoltà di svolgerla.

NOBILE. Onorevoli colleghi! Nella prima parte dell’interpellanza sono incorso in una inesattezza che mi è grato rettificare: ho dato per avvenuto ciò che allo stato attuale delle cose è soltanto una minaccia. Una minaccia, però, che, secondo informazioni attinte al Ministero della difesa, sussiste realmente, tant’è vero che si sta preparando un apposito provvedimento legislativo per stornarla. Per quanto mi risulta, gli ex sottosegretari di Stato per l’Aeronautica della repubblica di Salò non sono stati ancora ufficialmente riammessi nei ruoli; ma la riammissione, a quanto pare, è l’inevitabile conseguenza giuridica dell’esito dei procedimenti giudiziari cui essi furono sottoposti.

Sta di fatto che taluno di quei sottosegretari, condannato dalla Corte di assise speciale, è stato recentemente amnistiato, mentre tal altro è stato assolto.

Ora, secondo il parere espressomi negli uffici dell’Aeronautica, amnistia ed assoluzione porterebbero necessariamente ed implicitamente alla revoca della cancellazione dai quadri. Una tale revoca – fosse pure soltanto temporanea – costituirebbe invero uno scandalo intollerabile, perché né l’amnistia, né l’assoluzione potranno mai distruggere il fatto che questi ufficiali occuparono alte cariche nella repubblica fascista e che, in conseguenza, organizzarono e diressero la lotta contro le nostre truppe regolari e contro i nostri partigiani.

Ma è sulla seconda parte dell’interpellanza che voglio particolarmente intrattenermi. L’argomento è grave e meriterebbe una discussione assai ampia, che tentai già altra volta di provocare in questa Assemblea con una interpellanza che per varie circostanze non fu poi discussa. Essa si riferisce all’ormai famigerato decreto legislativo del 14 maggio 1946, che regola lo sfollamento dei quadri delle Forze armate.

Non vi è oggi alcuno, io ritengo, il quale non riconosca che quel decreto fu uno sproposito solenne, un provvedimento affrettato e male studiato, sia per l’impostazione generale che per quella particolare. Con esso infatti si voleva, da un lato, favorire l’esodo volontario degli ufficiali, e questo era cosa lodevole; dall’altro, si volevano colpire, eliminandoli dai quadri, quegli ufficiali che, pur essendo stati discriminati, avessero riportato sanzioni disciplinari dopo la data dell’8 settembre 1943.

Già il fatto solo di avere accomunato in un solo provvedimento queste due così differenti categorie di ufficiali e con il medesimo trattamento economico costituisce, a mio avviso, un primo madornale errore. Si consideri, poi, che il trattamento economico fatto agli ufficiali che, per essersi comportati male all’atto e dopo dell’armistizio, furono collocati di autorità in posizione ausiliaria, in esecuzione del succitato decreto, è veramente un trattamento privilegiato in confronto di quello fatto ad ufficiali che, avendo sempre compiuto il proprio dovere ed essendo rimasti sempre fedeli alle legittime istituzioni della Patria durante il periodo nazi-fascista, furono, antecedentemente all’emanazione del decreto stesso, collocati in pensione per aver raggiunto i limiti di età.

Infatti il comma c) dell’articolo 5 del decreto stabilisce che all’ufficiale collocato nella riserva o in ausiliaria spettano, per i primi due anni, gli assegni completi, che percepiva al momento dello sfollamento e, per gli anni successivi, gli assegni stessi ridotti di un quinto.

Ad aggravare la cosa, il limite di età è stato notevolmente prolungato. Così, ad esempio, per un tenente colonnello pilota, per il quale il limite di età normale era di 48 anni, il limite stesso viene portato a 56, prolungato cioè, di ben 8 anni. Per fare un caso concreto, un tenente colonnello ammogliato senza prole, dell’età di 46 anni, se viene collocato oggi in posizione ausiliaria in base a quel decreto, continuerà a percepire per due anni lire 38.725 mensili lorde fino al 48° anno di età, mentre, per i successivi 11 anni, cioè fino al 59° anno, percepirà, come ho già detto, i quattro quinti di quegli assegni, cioè lire 30.980 al mese.

In totale, nello spazio di 13 anni, l’ufficiale predetto, punito per il suo comportamento dopo l’8 settembre 1943, avrà ricevuto ben lire 5.018.760 al lordo. Si confronti con questo il trattamento fatto all’ufficiale di pari grado che non riportò alcuna sanzione disciplinare per il suo comportamento dopo l’armistizio, che non demeritò in alcun modo ma che anzi, per aver fatto il suo dovere, sopportò disagi e corse rischi insieme con la sua famiglia. Questo degno ufficiale, supposto che avesse raggiunto il limite di età qualche mese prima della data di emanazione del decreto, e che contasse 40 anni di servizio utili per la pensione, sarebbe stato collocato in pensione col trattamento normale di quiescenza, cioè con 185.400 lire lorde all’anno. Pur tenendo conto degli aumenti apportati successivamente a tutte le pensioni, egli, nel medesimo periodo di tempo di tredici anni, avrà percepito 2.552.616 lire; cioè quasi esattamente la metà della somma percepita dall’ufficiale eliminato dal servizio per essersi compromesso dopo l’8 settembre 1943!

L’iniquità, direi anzi l’assurdità, di tale sperequazione salta agli occhi; e non occorre aggiungere alcuna parola di commento.

La fretta con cui fu emanato quel decreto legislativo, così pieno di spropositi, non si può in alcun modo giustificare. In materia così grave si imponeva la più grande prudenza. D’altronde, la riduzione impostaci dal cosiddetto trattato di pace era ancora di là da venire; tanto è vero che nemmeno oggi, ad un anno e mezzo di distanza dal decreto, è cosa decisa. Né si può dire che la fretta fosse giustificata dall’urgenza di alleggerire i bilanci delle Forze armate. In realtà, per le ragioni che ora ho dette, l’applicazione del decreto, all’atto pratico, si è risolta in un aggravio notevole per lo Stato. Sarebbe stato assai meno oneroso per il bilancio statale corrispondere agli ufficiali da sfollarsi i pieni assegni, come se fossero in servizio, fino al raggiungimento dei limiti normali di età; e una volta poi raggiunti questi limiti, collocarli in pensione col trattamento normale di quiescenza.

È bensì vero che il maggior onere all’erario dello Stato, derivante dall’applicazione del decreto, risulta oggi attenuato, in qualche caso anche eliminato; ma ciò si deve soltanto ad una malaugurata circostanza, certamente non prevista da chi compilò il decreto; voglio dire la svalutazione della lira; svalutazione la quale ha imposto, come si sa, successivamente all’emanazione del decreto, un aumento generale degli stipendi. Questo aumento, però, ha portato ad un’altra grave sperequazione, di cui parlerò di qui a poco. Per ora voglio far notare che, secondo l’articolo 2 del decreto, si dovevano «di massima» – così dice testualmente il decreto – collocare nella riserva o in posizione ausiliaria anzitutto gli ufficiali che, pur essendo stati discriminati, avessero riportato sanzioni disciplinari per il loro comportamento dopo l’8 settembre. Questa espressione «di massima», inserita nell’articolo 2 del decreto, fu quanto mai infelice, prestandosi, come è ovvio, ad ogni sorta di interpretazioni. E, in effetti, tra i primi ufficiali superiori sfollati dell’aeronautica se ne trovano parecchi che non solo non hanno riportato alcuna sanzione disciplinare per il loro comportamento dopo l’8 settembre, ma anzi hanno benemeritato. Citerò per tutti il caso di un colonnello, che non conosco personalmente, ma di cui ho avuto occasione di occuparmi: il colonnello pilota Cesare Scaetta. Questo ufficiale, che in tempo di pace aveva compiuto ben 1.400 voli, era certo considerato tra i migliori piloti da bombardamento, dal momento che era stato classificato con 20/20. È vero che non aveva partecipato alla guerra d’Africa né a quella di Spagna e nemmeno a quella dell’«asse», ma per contro si era arruolato volontario a 17 anni fra gli alpini ed aveva passato un anno in trincea. Durante il periodo fascista era stato oggetto di persecuzioni. Nel 1926 un suo fratello antifascista militante lasciò l’Italia per rifugiarsi in Francia, dove morì 15 anni dopo. Dal momento della fuga all’estero del fratello, cominciarono per lo Scaetta le persecuzioni: subì perquisizioni domiciliari, trasferimenti, umiliazioni di ogni sorta. La sua carriera fu ostacolata da prima ed infine stroncata. Caduto il fascismo, fu riammesso in servizio. Il suo comportamento dopo l’armistizio fu ineccepibile. Restò per otto mesi alla macchia per sottrarsi agli ordini emanati dalle autorità nazi-fasciste. Niente, dunque, adesioni larvate né doppio giuoco. Per il suo caso era comminata la pena di morte. Dovette abbandonare la famiglia e vivere segregato, col timore continuo che la moglie ed i figli potessero essere da un momento all’altro trascinati in campo di concentramento. Con la liberazione di Roma riprese servizio e fu assegnato ad una Commissione di epurazione, dove compì regolarmente il suo dovere.

Orbene, un tale ufficiale, con siffatti onorevoli precedenti, fu uno dei primi ad essere sfollato, il 21 dicembre 1946, con due giorni di preavviso, come non si farebbe neppure con una serva. Unico motivo ufficiosamente addotto: mancanza di reparti.

Mentre così si mandavano a casa ufficiali che pur avevano un chiaro passato di antifascismo, altri invece erano trattenuti in servizio, e spesso anche promossi, che nel passato si erano gloriati di essere squadristi o antemarcia o che avevano fatto sfoggio di distintivi di sciarpa littorio o di volontariato nella guerra di Spagna o che perfino avevano aderito alla repubblica di Salò, con o senza il solito comodo doppio giuoco.

Come vedete, onorevoli colleghi, gravi errori furono commessi nella prima applicazione di questo infelice decreto, ma altri più gravi stanno per commettersi ora, conseguenza questi, non già di errato giudizio o di parzialità delle Commissioni preposte alla scelta degli ufficiali da eliminare, ma esclusivamente delle disposizioni stesse del decreto.

Si noti infatti che – secondo l’articolo 8 – nessun ufficiale poteva essere sfollato fin tanto che si trovava sotto processo di epurazione. In conseguenza, gli ufficiali più gravemente compromessi dopo l’armistizio figurano tuttora in servizio. Essi, che avrebbero dovuto essere eliminati per primi, saranno eliminati per ultimi.

Si dirà che si tratta di un ritardo senza alcuna conseguenza. No, le conseguenze vi sono, e non soltanto di carattere morale ma anche, e soprattutto, di carattere economico.

Si consideri il comma c) dell’articolo 5, il quale prescrive che lo stipendio e l’indennità militare dell’ufficiale collocato in ausiliaria o nella riserva saranno i medesimi di quelli che egli godeva quando era in servizio. Segue da ciò che un colonnello antifascista (come nel caso che ho citato) sfollato prima del dicembre 1946 continua oggi a percepire (a parte il carovita), fra stipendio e indennità militare, lire 10427 mensili lorde, le stesse, cioè, che percepiva al momento in cui lasciò il servizio; mentre un colonnello con benemerenze fasciste, che venga sfollato oggi in base a quel decreto, percepirà, fra stipendio e indennità militare, lire 23.304, giungendosi così alla paradossale conseguenza, certamente non voluta dal legislatore, che ufficiali che avrebbero dovuto essere puniti risulteranno invece premiati con 12.877 lire in più al mese. Né il vantaggio si limita soltanto a questo, perché per il fatto stesso di essere sfollati con un anno e più di ritardo essi avranno goduto per un periodo più lungo dell’intero stipendio e degli assegni.

Voi vedete, onorevoli colleghi, a quali immorali conseguenze porti nella pratica applicazione questo decreto legislativo del 14 maggio 1946. Bisogna convenire che esso fu emanato troppo precipitosamente ed anche più precipitosamente applicato. Si deve ora avere il coraggio di riconoscere francamente l’errore commesso e ripararlo. Meglio sarebbe abrogarlo e farne uno nuovo, in base a criteri più semplici e più razionali, ma, ove non si creda opportuna una tal cosa, si dovrebbe per lo meno fissare per legge una unica data di collocamento nella posizione ausiliaria o nella riserva per tutti gli ufficiali sfollati.

Se mai una distinzione volesse farsi, essa dovrebbe essere nel senso che gli ufficiali che si compromisero dopo l’8 settembre 1943 s’intendono collocati in posizione ausiliaria con quella stessa data, mentre per tutti gli altri si dovrebbe fissare una data unica, ad esempio, il 1° ottobre 1947.

La riduzione dei quadri impostaci dal cosiddetto trattato di pace ed anche dalle nostre condizioni economiche è un’operazione assai dolorosa. Essa è cominciata dagli ufficiali superiori e generali, ma dovrà purtroppo seguitare con gli ufficiali inferiori.

Speriamo che per questi almeno non si ripetano gli errori commessi per quelli. Si rifletta che si tratta in gran parte di ufficiali che per anni hanno servito fedelmente e con onore il Paese. Essi si vedono stroncare una carriera sulla quale avevano fatto assegnamento e spesso saranno obbligati ad una vita di grandi ristrettezze. Sulla necessità di misere così gravi, nessuno oggi discute, dal momento che sono dettate da considerazioni di ordine superiore; ma misure di questo genere, per essere tollerate con equanimità, richiedono che siano eseguite con giustizia. Giustizia finora non vi è stata, perché, nella sua prima applicazione, la legge sullo sfollamento dei quadri ha favorito precisamente quegli ufficiali che avrebbero dovuto essere puniti. Io spero che il Governo provveda.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro della difesa ha facoltà di rispondere.

CINGOLANI, Ministro della difesa. Onorevoli colleghi, ed in particolar modo onorevole Umberto Nobile, noi seguitiamo il nostro cordiale dialogo che dura, mi pare, su questa materia, dal nostro ingresso in quest’Aula. Ed anzitutto vorrei pregarla, in via pregiudiziale, di una cosa, che è questa: ha riconosciuto la inconsistenza dei suoi timori per la prima parte della sua interpellanza e l’ha riconosciuta perché, essendosi recato al Ministero con quella libertà che hanno tutti i deputati di recarsi nei vari uffici e trattare anche personalmente dei problemi che stanno loro a cuore, ha avuto una smentita a quanto era soltanto un suo timore, ma ha avuto aggravato anche il timore per l’avvenire. Se oltre che andare negli uffici fosse venuto anche direttamente da me, avrei non soltanto smentito quella che era una falsa notizia che le avevano dato, ma la avrei anche rassicurata per l’avvenire. C’è un vecchio proverbio che dice: non fasciamoci la testa prima di averla rotta. C’è anche la storia di quella mamma di Franceschino che piangeva per la morte di Franceschino prima che fosse nato. Andiamo alla realtà; e la realtà è questa, ed è bene che l’Assemblea la sappia nell’interesse di tutti. La carica di Sottosegretario per l’aeronautica presso la repubblica fascista fu ricoperta dal tenente colonnello Ernesto Botto, dal generale di brigata aerea Enrico Tessari, dal generale di brigata aerea Ruggero Bonomi, dal tenente colonnello Manlio Molfese: i primi tre ufficiali effettivi, il quarto ufficiale di complemento. Tutti e quattro furono cancellati dai ruoli perché nel loro comportamento furono ravvisati gli estremi della collaborazione con il nemico. Nessuno di essi è stato finora riammesso in servizio. Quanto a ciò che potrà verificarsi in prosieguo di tempo è da tener presente – e questo è ormai noto a tutti – che la quarta sezione del Consiglio di Stato, con sentenza 3 luglio 1946, ha affermato il principio che, qualora in sede penale gli interessati non vengano condannati per collaborazionismo, la cancellazione dai ruoli non può restare operante, in quanto il fatto generatore di collaborazione è unico, e se cade per un effetto deve cadere anche per l’altro. Ora, mentre per il generale Bonomi il provvedimento penale è tuttora in corso, per il generale Tessari e per il tenente colonnello Molfese si è estinto per amnistia. Il tenente colonnello Botto non fu denunciato perché a suo carico non risultarono elementi di colpevolezza dato anche il brevissimo periodo in cui ricoprì la carica; si acquistò anzi benemerenze partigiane dopo cessata la carica. Nei confronti del Botto e del Tessari si dovrebbe procedere alla revoca della cancellazione dai ruoli e altrettanto per il Bonomi, qualora il provvedimento penale ancora in corso si concludesse senza condanna. La posizione del Molfese non desta preoccupazione, perché ufficiale di complemento. Quale funzionario civile dell’aeronautica, egli riveste il grado di ispettore generale. È stato da tempo collocato a riposo, e il provvedimento è irrevocabile. Le preoccupazioni che l’interpellante ha circa la situazione che si verrà a creare con la riammissione pura e semplice dei summenzionati ufficiali non mancarono di essere tempestivamente avvertite dalle autorità responsabili, e, per risolvere le varie questioni connesse alla revoca della cancellazione dai ruoli che dovrà disporsi per effetto della sentenza del Consiglio di Stato, fu posto allo studio un apposito provvedimento legislativo ora in corso di diramazione per l’esame al Consiglio dei Ministri. (Ricordate la drastica risposta data dal collega onorevole Sforza qualche seduta fa).

Con esso si dispone che le cancellazioni dai ruoli rimangano ferme nei casi di condanna ancorché seguita da amnistia, dalla cosiddetta amnistia impropria; mentre sono senz’altro revocate nei casi di assoluzione con formula piena. In tutti gli altri casi, tra i quali rientrano quelli degli ex sottosegretari, la posizione degli interessati sarà riesaminata dalla Commissione la quale, nel termine di sei mesi, proporrà al Ministro la definitiva conferma della cancellazione. Nelle more di tale provvedimento non si fa luogo alla corresponsione di competenze arretrate. In tal modo si darà all’amministrazione la possibilità di eliminare il passato rigore lasciandole peraltro la facoltà di mantenere le cancellazioni in quei casi in cui la riammissione in servizio potrebbe riuscire dannosa alla compagine militare.

E veniamo allo sfollamento. Vorrei pregare l’onorevole Nobile ed eventuali altri interpellanti di essere più dettagliati nella esposizione del loro pensiero, perché io ho inteso, leggendo l’interpellanza dell’onorevole Nobile, che parlasse soprattutto di sperequazioni di carattere economico per le varie categorie di sfollati. Comunque, rispondo a questa parte. Le sperequazioni createsi con l’applicazione della legge sullo sfollamento derivano dal fatto che l’assegno integratore può essere variato unicamente in relazione al variare del carovita, e non anche al variare degli stipendi base. Conseguentemente coloro che furono sfollati con la prima aliquota, sotto la data del 31 dicembre, hanno avuto bloccato il trattamento di sfollamento, mentre coloro che vengono sfollati ora beneficiano di un successivo aumento di stipendio; la differenza è sensibile e la sperequazione è ancora più grave, per il fatto che con la prima aliquota non si poterono sfollare gli ufficiali sottoposti ad epurazione, perché l’articolo 8 della legge lo vietava.

Prendendo il caso di un tenente colonnello, si hanno assegni di lire 13.580 mensili nella prima ipotesi, e di 20.875 nella seconda ipotesi.

Allorquando fu concordato col Ministero del tesoro il trattamento di sfollamento, fu dall’Amministrazione militare accettata la norma suddetta, perché si partiva dal presupposto, allora, nei primi del 1946, sicuro (era Ministro, mi pare, l’onorevole Cevolotto), che l’adeguamento delle competenze degli statali al costo della vita sarebbe stato disposto soltanto sul caro-vita e non sullo stipendio base. Ora che tale principio è stato abbandonato, ci adoperiamo per modificare la legge nel senso di rendere l’assegno integratore variabile col variare dello stipendio base, oltre che del caro-vita. Vogliamo stabilire un’unica data per tutti, quella dell’ultima aliquota.

Per tutto il resto cui ha accennato l’onorevole Nobile, do una breve risposta, attingendo un po’ alla memoria dei tanti colloqui avuti con lui in quest’Aula; precisamente, per quanto riguarda lo spirito con cui è stato fatto lo sfollamento, mi riallaccio al mio discorso sulle comunicazioni del Governo, sullo svolgimento dell’ordine del giorno del mio successore onorevole Gasparotto. Non so se era presente l’onorevole Nobile; comunque, secondo la consuetudine che abbiamo, di lasciare qualcosa dei nostri discorsi, io ho fatto stampare quel discorso; credo di averlo mandato anche all’onorevole Nobile.

NOBILE. No.

CINGOLANI. Ministro della difesa. Mi dispiace; glielo manderò.

In quel discorso io ho affrontato in pieno la questione; ho polemizzato su quanto l’onorevole Nobile aveva affermato, circa il numero dei generali e le qualità di squadrista, di sciarpa littorio e di aderente alla repubblica di Salò; dimostrando che lo sfollamento era avvenuto con serenità di giudizio, ma anche con eccezionale dolore. Perché, dover mandare via 14 mila persone dall’Amministrazione quando si dispone di un corpo di ufficiali e di sott’ufficiali di primo ordine (all’infuori dei repubblichini e delle sciarpe littorio e squadristi), gente dotata di capacità di comando, di resistenza fisica, di virtù morale, di tradizioni e di rettitudine, è un taglio dolorosissimo, che costa all’Amministrazione più di quello che non pesi sulla vita futura di questi valorosi ufficiali. Io non mi pentirò di applicare una legge, che non ho fatta io, purché questi ufficiali e sottufficiali abbiano per un paio di anni la possibilità di orientarsi, per potere reimpiegare le proprie capacità tecniche in Italia o all’estero.

Ma non gettiamo un’accusa, che si può riferire soltanto ad una minoranza, su una massa valorosa e generosa, di alto spirito civico oltre che morale. II generale Nobile ha citato il caso del colonnello Scaetta. Lo esaminerò; sono contento che i colleghi mi aiutino in quest’opera.

NOBILE. Non ho fatto nessuna accusa generica. Ho riferito il caso specifico di un ufficiale.

CINGOLANI, Ministro della difesa. Sul caso specifico mi riservo di dare delucidazioni, quando avrò preso visione del fascicolo personale.

Ma ella ha fatto accuse generiche, riferendosi a ufficiali repubblichini, sciarpa littorio e squadristi. Io affermo che le informazioni da lei assunte non sono esatte.

Si son dovuti persino escludere e sfollare ufficiali i quali si presentarono alle autorità repubblichine per dichiarare che non volevano prestare servizio, ed ufficiali che entrarono in ospedali, per sottoporsi ad operazioni di cui non avevano bisogno, pur di non servire la repubblica di Salò. Ebbene se costoro sono stati colpiti non mi si venga poi a dire che abbiamo mantenuto in servizio dei repubblichini! Se siamo caduti in qualcuno di questi errori, da colleghi a colleghi, ditecelo: noi lo riconosceremo e giustizia sarà fatta!

VERNOCCHI. È stata fatta l’epurazione a rovescio!

CINGOLANI, Ministro della difesa. Ma lei è avvocato! L’autorità di Stato, allora impersonata dal colonnello Botto e dal generale Tessari, non fu riconosciuta da molti ufficiali dell’aeronautica, i quali per non riconoscere quella autorità si sono fatti ammazzare, come è accaduto a due generali fucilati alle Fosse Ardeatine. Dovendo noi tagliare così dolorosamente nel corpo della nostra ufficialità, dobbiamo tener conto degli ufficiali che si presentarono alle autorità repubblichine e di coloro i quali hanno rifiutato di far questo, magari lasciando le loro famiglie in miseria. È naturale che se dobbiamo scegliere, scegliamo questi e non quegli altri. Veramente mi pare di non avere altro da aggiungere. Credo, onorevole Nobile, che l’accenno fatto alle condizioni economiche degli ufficiali delle nuove Forze armate della Repubblica Italiana tocchi non soltanto lei, ma tutti noi. Dobbiamo affrontare questo problema e si deve farla finita con i luoghi comuni di un anticlericalismo di maniera ormai superato. Se l’esercito ci deve essere, esso deve essere saldo, onesto, retto, valido difensore della Repubblica e genuina espressione delle virtù del nostro popolo. Siamo noi che lo dobbiamo tenere e lo dobbiamo pagare e dargli il pane sufficiente a garantirgli la serenità di spirito. Ebbene, onorevole Nobile, tutto questo è aderente al pensiero di tutti i colleghi dell’Assemblea. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Nobile ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

NOBILE. Sono pienamente sodisfatto della risposta che il Ministro ha dato alla prima parte della mia interpellanza.

Per quanto riguarda la seconda parte, debbo fare qualche osservazione.

Il Ministro non ha detto come intende eliminare la grave sperequazione di cui son vittime gli ufficiali collocati in pensione nella prima metà del 1946, avanti che il decreto sullo sfollamento entrasse in vigore. Ho dimostrato che questi pensionati godono di un trattamento economico corrispondente alla metà di quello di cui usufruiscono gli ufficiali fascisti. Ciò è talmente iniquo che si deve trovar modo di rimediarvi. Da questo lato non posso dirmi sodisfatto. Un provvedimento che sani la situazione si impone. Bisogna tener presente che gli ufficiali collocati in pensione prima dell’emanazione del decreto non avevano alcuna pecca; è assurdo ed iniquo che essi abbiano un trattamento inferiore a quello degli ufficiali mandati via per aver riportato sanzioni disciplinari per il loro comportamento dopo l’armistizio. Lo stesso Ministro ha avuto una volta a pronunciare queste parole: «È addirittura inconcepibile, paradossale la situazione degli sfollati, se si confronta con la situazione di molti ufficiali che, sebbene incriminati, si trovano tuttora in servizio permanente effettivo». Con questa sua dichiarazione, il Ministro ha già dato ragione ai gravi rilievi da me fatti.

CINGOLANI, Ministro della difesa. Qui non si tratta di valutazione politica, ma di capacità tecnica. Penso che ci volevano due leggi, non una.

NOBILE. Ciò conferma quanto ho obiettato. I primi ad essere eliminati sono stati gli ufficiali non fascisti. È un fatto che bisogna riconoscere. Non metto in dubbio che le Commissioni giudicatrici non abbiano agito correttamente; ma ritengo che esse abbiano preso in considerazione soprattutto i meriti tecnici e militari, mentre il decreto voleva che fossero sfollati principalmente gli ufficiali che si erano compromessi dopo l’armistizio. Qui sta l’errore commesso.

In quanto alla affermazione del Ministro, non esser vero che siano stati trattenuti in servizio ufficiali insigniti di distinzioni fasciste, posso smentirla in pieno. Ho qui davanti a me dei documenti ufficiali che dimostrano l’esattezza delle mie affermazioni. Potrei leggere una lista di ufficiali in servizio che furono squadristi o ebbero altre benemerenze consimili; ma mi astengo dal farlo, perché non mi piace portare in pubblico nomi di distinti ufficiali che, se commisero l’errore di militare nel partito fascista, sono peraltro persone stimabili. Del resto non invoco provvedimenti contro di essi, ma provvedimenti a favore degli ufficiali che il loro errore non commisero. Creda pure l’onorevole Ministro che se citassi fatti e nomi egli e l’Assemblea resterebbero convinti della fondatezza delle mie affermazioni.

CINGOLANI, Ministro della difesa. Segnali a me questi nomi.

NOBILE. Lo potrei anche fare, sebbene potrei dire al Ministro di ricercarli da se stesso.

L’essenziale è la questione di principio. Non si può ammettere che vi siano gravi sperequazioni come quelle da me denunciate. Esse vanno eliminate, ed io spero che i provvedimenti che il Ministro ha promesso siano tali da eliminarle.

PRESIDENTE. Lo svolgimento delle altre due interpellanze all’ordine del giorno è rinviato ad altra seduta.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di urgenza:

«Al Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per restituire il dovuto prestigio all’Istituto Orientale di Napoli, riportandolo alla sua missione di custode, diffusore e incrementatore del patrimonio di cultura e civiltà, merito degli orientalisti italiani.

«Codacci Pisanelli».

«Al Ministro della marina mercantile, per conoscere quali criteri intenda seguire nella assegnazione dell’ultimo lotto di Liberty e delle navi restituite al Governo italiano dagli Stati Uniti d’America ed in particolare se non creda, per stimolare le iniziative locali anche nel campo dell’armamento marittimo, destinare una forte percentuale di tali navi alle regioni meridionali ed isolane.

«Volpe, Borsellino».

Interesserò i Ministri competenti perché facciano sapere quando intendano rispondere.

Sui lavori dell’Assemblea.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevole Presidente, suppongo che Ella sappia che il Fronte liberale democratico dell’Uomo Qualunque è impegnato nel suo secondo Congresso Nazionale, il quale avrà termine il giorno 25. Ci sono due questioni di grande rilievo da trattare in questa Assemblea Costituente: quella che concerne la discussione anticipata sull’ultimo comma della prima disposizione finale e transitoria del progetto di Costituzione e le mozioni Nenni e Togliatti di sfiducia al Governo. Noi, riferendoci ai precedenti parlamentari, abbiamo chiesto al Presidente Terracini di voler postergare queste discussioni a dopo il giorno 25 corrente. Egli ci ha risposto, cortesemente, che non può assumersi un potere che appartiene all’Assemblea. Praticamente ha rimesso all’Assemblea la soluzione del problema, mentre egli, da parte sua, si è soltanto impegnato a consentire che, in nostra assenza, non si passi a votazione su alcuno dei due temi a cui ho accennato. Ora, evidentemente, una votazione non è un puro fatto meccanico: la mano può sempre votare, ma la coscienza deve votare dopo aver seguito tutta la discussione.

Quindi, noi chiediamo che l’Assemblea voglia procrastinare la trattazione dei due argomenti a dopo il giorno 25. Nel frattempo, si potrebbe continuare la discussione sul progetto di Costituzione.

VERNOCCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERNOCCHI. Per quanto riguarda la mozione presentata dal Partito socialista, dico subito che aderisco, per un atto di cortesia. Domani potremmo avere bisogno anche noi di un medesimo atto.

RUSSO PEREZ. Ringrazio per questo atto così cavalleresco.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Dato che è una esigenza della vita democratica del Paese che i partiti vivano e tengano le loro consultazioni democratiche, anche il Partito comunista aderisce alla proposta di rinvio.

RUSSO PEREZ. Potessimo essere così d’accordo in tutte le deliberazioni!

CINGOLANI, Ministro della difesa. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CINGOLANI, Ministro della difesa. Il Governo non si oppone all’accoglimento della richiesta dell’onorevole Russo Perez.

PRESIDENTE. Aderisco anch’io, plaudendo per tanta concordia!

Se non vi sono osservazioni, rimane dunque inteso che sono rinviate a dopo il 25 corrente tanto la discussione sull’ultimo comma della prima disposizione finale e transitoria del progetto di Costituzione che quella sulle mozioni Nenni e Togliatti di sfiducia al Governo; e che domani alle 16 l’Assemblea proseguirà la discussione dei primi tre Titoli della seconda Parte del progetto di Costituzione.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

DE VITA, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Governo, per conoscere se, in omaggio ai principî di solidarietà umana e di giustizia, non ritenga di dover provvedere al mantenimento dei ciechi civili, mediante concessione di pensioni a carico dello Stato, e alla loro assistenza, attraverso la valorizzazione dell’Ente nazionale di lavoro per ciechi e la costruzione di case di riposo; e se non creda di porre in studio provvedimenti per i quali sia possibile il collocamento dei ciechi presso Amministrazioni dello Stato e aziende private.

De Vita.

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri delle finanze e dell’agricoltura e foreste, per conoscere quali provvedimenti intendano adottare a favore degli agricoltori della provincia di Trapani danneggiati dalle recenti avversità atmosferiche.

De Vita.

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non creda di dare opportune istruzioni ai Commissari regionali per gli «usi civici» di restringere la loro azione agli atti di pura amministrazione ordinaria, posto che la materia – per deliberazione dell’Assemblea Costituente – sarà in breve di dominio legislativo dell’ente Regione.

«Un tale provvedimento appare tanto più necessario in quanto da parte di codesti organi esecutivi si insiste nell’applicazione della legge fascista sul riordinamento degli usi civici del 16 giugno 1927, n. 1766, la quale, nelle zone montane dell’Alta Italia e in particolare nel Friuli, non avrebbe altro esito che quello di determinare grave disordine e sconvolgimento dell’economia locale. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Piemonte, Gortani».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali difficoltà hanno impedito la sollecita ricostruzione del Ponte Bivio di Sestu-Piscina Matzeu (Cagliari) sulla strada nazionale Cagliari-Sassari, crollato in seguito all’alluvione dell’autunno scorso. Nessun lavoro di ricostruzione di tale ponte è stato iniziato sì che, con le piogge invernali, quel tratto di strada, uno dei più importanti dell’Isola, non sarà praticabile. E per conoscere se non ritenga necessario impartire disposizioni affinché i lavori di ricostruzione siano immediatamente iniziati e condotti a termine. E se non ritenga, nello stesso tempo, opportuno prendere delle sanzioni contro funzionari eventualmente responsabili di tanta negligenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lussu».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se sia esatta la notizia pubblicata dal giornale Il Tempo nel numero di giovedì 11 settembre che per le nipoti di Giuseppe Garibaldi, figlie di Teresita e del generale Stefano Canzio, vi sia una pensione tuttora limitata a lire 287 al mese. Nell’ipotesi affermativa, giacché si riconosce senza dubbio l’opportunità di un assegno, la suddetta somma, di già improntata nelle sue lontane origini a criteri di eccessiva parsimonia, ai tempi d’oggi appare assolutamente derisoria, ed è proprio umiliante non solo per chi la riceve, ma anche per chi la dà. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rubilli».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.20.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

SABATO 20 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXVII.

SEDUTA DI SABATO 20 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Per la ricorrenza del XX Settembre:

Tonello

Russo Perez

Congedi:

Presidente

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente

Tupini, Ministro dei lavori pubblici

Riccio Stefano

Caso

Laconi

Chatrian, Sottosegretario di Stato per la difesa

Schiavetti

Andreotti, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri

Di Fausto

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste

Colitto

Cappa, Ministro della marina mercantile

Pella, Ministro delle finanze

Zuccarini

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

Persico

Interrogazione con richiesta d’urgenza (Svolgimento):

Presidente

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste

Stella

Interrogazioni e interpellanza con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste

Sull’ordine del giorno:

Presidente

Interrogazione (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 10.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Per la ricorrenza del XX Settembre.

TONELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Oggi nella mia anima turbinano tutti i ricordi della lontana giovinezza. XX settembre! Giorno sacro alla Patria italiana, giorno sacro a quanti ancora credono nella santa libertà e nel libero pensiero. Nel 1870 la monarchia di Savoia sorse sulle ceneri del potere temporale; e si sperò, dagli italiani migliori di quel tempo, che sorgesse un’aurora di pace, di giustizia e di libertà per il nostro Paese, percosso da tanti secoli di schiavitù e di persecuzioni interne e straniere.

Quante delusioni vennero dopo! Ma il significato del XX settembre rimase e rimane sempre, per quanti sforzi oggi si facciano perché quella data sia dimenticata ed umiliata.

Noi lo ricordiamo ancora il XX settembre, noi insegneremo alle future generazioni di non dimenticarsi mai di questa data, poiché in essa culminano ancora tante aspirazioni umane incompiute. Non odio di parte mi spinge a questa evocazione, ma sentimento vivo di uomo libero. L’umanità troppo pianse, troppo sofferse, troppe tirannidi sopportò in Italia e nel mondo per colpa di un potere maledetto che stendeva i suoi tentacoli sull’Europa e sul mondo. Oggi quel potere è rientrato nei suoi confini; oggi c’è una netta separazione fra quello che è il potere spirituale e quello che è il potere temporale. È bene che questa divisione permanga sempre; e che, in nome del XX settembre, il nostro Paese sia un Paese libero e supremamente laico. (Applausi a sinistra).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. L’onorevole che ha parlato or ora ha parlato di «un potere maledetto». Pare che parlasse della Chiesa Cattolica Apostolica Romana.

Che Dio lo perdoni, se è così! (Approvazioni a destra – Rumori – Commenti a sinistra).

TONELLO. Ho parlato del potere temporale.

LUSSU. L’Italia è cattolica, ma non vuole essere clericale.

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Franceschini, Marazza e Vischioni.

(Sono concessi).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

L’onorevole Riccio Stefano ha presentato due interrogazioni al Ministro dei lavori pubblici, che, trattando la stessa materia, potranno essere svolte congiuntamente:

«per conoscere le ragioni per le quali – nonostante le insistenti preghiere e gli impegni assunti dai vari Ministri – non ancora si è provveduto: a) ad appaltare l’acquedotto di Agerola; b) a completare il finanziamento dell’acquedotto della Penisola sorrentina, in modo da poterne accelerare l’esecuzione; c) a completare il finanziamento dell’acquedotto del Nolano e a dare inizio ai lavori»;

«per conoscere quali provvedimenti particolari intenda prendere per i comuni turistici della provincia di Napoli, per la esecuzione delle opere indispensabili».

L’onorevole Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Le due interrogazioni interferiscono fra di loro, perché entrambe si preoccupano, almeno in parte, dei problemi accennati in ciascuna di esse. Per quanto riguarda, ad ogni modo, la prima, ritengo che l’onorevole interrogante non sia al corrente della situazione, se domanda cosa abbia fatto il Ministero per gli acquedotti di Agerola, della penisola Sorrentina e del Nolano, nonostante le insistenti preghiere e gli impegni assunti dai vari Ministri.

Per l’acquedotto del comune di Agerola, l’interrogante saprà quali sono state le vicende, attraverso cui sono passati i vari progetti e le loro rispettive istruttorie, che finalmente sono state messe a punto, talché si è potuto far luogo alla licitazione privata per l’appalto dei lavori in parola.

Da tre mesi – ecco perché dicevo che l’onorevole interrogante non deve essere sufficientemente informato – l’appalto è stato perfezionato, i lavori sono stati iniziati e si stanno eseguendo regolarmente, almeno per il primo lotto, che riguarda rimpianto delle vasche di raccolta.

Circa l’acquedotto della penisola Sorrentina, il relativo progetto è stato suddiviso in più lotti, dei quali i primi due sono stati già aggiudicati, ed il Ministero dispose a suo tempo per l’immediato inizio dei lavori. Questi – e qui la ragione della mia osservazione pregiudiziale – sono in pieno sviluppo e, secondo le informazioni pervenutemi, procedono con discreta alacrità. Seguirà a suo tempo, secondo un concetto razionale, che è postulato anche dalle disponibilità finanziarie, l’appalto degli altri lotti, in termini tali che, appena eseguiti i primi, non ci sia soluzione di continuità per il proseguimento e l’ultimazione dei lavori stessi. Quanto all’acquedotto del Nolano, questo è veramente ancora nella fase istruttoria. Però tutte le difficoltà – e di ordine tecnico e di ordine legale, che hanno ritardato la licitazione, l’appalto e quindi l’inizio dei lavori – sono state ormai superate. Ora il progetto è tornato al Provveditorato di Napoli, perché senz’altro appalti i primi lotti, e disponga l’inizio immediato dei lavori. Questo per quanto riguarda la prima interrogazione.

La seconda interrogazione è legata alla prima, in quanto prevede lo sviluppo turistico della penisola Sorrentina, nel cui territorio sono compresi anche l’acquedotto di Agerola e quello del Nolano. Per questa prima parte ho già risposto e credo che queste siano veramente due opere che, insieme con le altre, confluiscano a quel fine per cui gli onorevoli interroganti hanno formulato le loro interrogazioni.

Faccio comunque osservare, in linea preliminare, che il problema del turismo non è di competenza diretta del mio Ministero, al quale spetta soltanto di predisporre e di eseguire quelle opere che sono destinate a mettere in valore tutte quelle zone che hanno una speciale importanza turistica. I due acquedotti, di cui ha formato oggetto la precedente interrogazione, sono precisamente diretti a questo scopo. Ma io sono in grado di aggiungere che anche il progetto di fare una strada turistica che colleghi Sorrento con Amalfi è in istato di avanzata istruttoria. Infatti, è attualmente all’esame del Consiglio Superiore dei lavori e subito dopo sarà mandato al Consiglio di Stato per il definitivo parere. Non appena questo sarà stato dato si disporrà il finanziamento e l’appalto di un primo lotto della strada. Io seguo la pratica con molto interesse e mi riprometto di dare quanto prima una più concreta risposta agli onorevoli interroganti.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

RICCIO STEFANO. Voglio ringraziare il Ministro Tupini per i chiarimenti dati. È da osservare però che l’interrogazione fu presentata il 23 giugno e che dopo di allora molti fatti si sono verificati. Do atto al Ministro dell’inizio dei lavori dell’acquedotto di Agerola, che ormai si può considerare opera compiuta. Non così, però, può dirsi per l’acquedotto del Nolano e per quello sorrentino. Siamo soltanto ai primi passi. È vero che è stato approvato il progetto dell’acquedotto sorrentino e che è stato anche approvato, e vi è financo il parere del Consiglio di Stato, il progetto dell’acquedotto del Nolano, ma è altrettanto vero che i finanziamenti si sono avuti solo in piccola parte. Tutte le mie insistenze presso il Genio civile ed il Provveditorato alle opere pubbliche hanno avuto questa risposta: provveda il Ministero al finanziamento! Erano stati dati 110 milioni per l’acquedotto sorrentino. Di questi 110 milioni, 35 sono stati spesi per l’acquedotto di Agerola: ne restano soltanto 75. Con 75 milioni l’acquedotto non può essere fatto. Per l’acquedotto di Lettere vi è un impegno generico; per quello di Gragnano non si ha neppure il progetto.

Per l’acquedotto del Nolano sono stati dati soltanto 40 milioni, mentre ne sono necessari molti di più. Giacché la mia provincia ha sete, pure avendo l’acqua su ogni collina, è veramente urgente che queste opere vengano subito completate. Chiedo al Ministro di voler dare i finanziamenti necessari e disporre la immediata esecuzione di tutto questo complesso di acquedotti, che sono fondamentali per la vita della nostra provincia. Sarebbe inutile parlare di turismo, della bellezza di Sorrento e di Capri, quando in questi due centri non vi è acqua da bere, non vi sono fognature. Che si è fatto per Capri? Da tanti anni è posto il problema dell’acqua in quella isola. Eppure è un dovere dello Stato risolverlo. Non molto occorrerebbe; ma è necessario che il Ministero si renda conto della urgenza e della inderogabilità della risoluzione. È tempo – crediamo – che queste richieste siano esaudite.

Quanto alla seconda interrogazione, indubbiamente connessa con la prima, voglio fare una modestissima osservazione: siamo a tre anni dalla fine della guerra e Capri non ha avuto un’opera. Gli alleati, che andavano a riposare a Capri, hanno tutto distrutto. Le vie sono tutte rovinate; e non una strada è stata rifatta. E tante opere nuove urgono. Ad Anacapri solo ultimamente è stato fatto qualche lavoro ed è stato assunto impegno per una strada nuova. Ma diventerà poi realtà? Così anche per Sorrento. Do atto al Ministro che nella sua graditissima visita dette ordine di eseguire una via turistica; però, sebbene egli avesse detto (io lo ricordo perché ero presente) che entro otto giorni il progetto andava approvato, adesso, a distanza di due mesi e mezzo, siamo allo stesso punto di prima. Vorrei che egli, gentile come sempre, intervenisse ancora una volta per l’esecuzione dell’opera. Per la viabilità molto è da farsi ancora nella penisola Sorrentina, nelle isole di Capri e di Ischia. Il Provveditorato ed il Ministero devono comprendere che la vita della nostra provincia è legata allo sviluppo turistico.

E non è una questione locale, ma è una questione che possiamo e dobbiamo portare sul piano nazionale, perché, se una corrente turistica di stranieri si sviluppa, vantaggi ne verranno allo Stato per l’immissione di moneta pregiata. Ringrazio, comunque, il Ministro Tupini per quanto ha fatto. Egli però, perdoni la mia insistenza, mi lasci nutrire la fiducia che, con la sua tenacia, tutte queste opere saranno portate ad esecuzione completa. Avrà la riconoscenza mia e delle popolazioni tutte della mia provincia.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Per quanto riguarda Capri, essa non è oggetto di questa interrogazione ed io mi riservo di riesaminare la questione. Devo dire soltanto all’onorevole interrogante che non è esatto quello che egli ha affermato circa i lavori dell’acquedotto del Nolano, perché un primo lotto è stato iniziato.

RICCIO STEFANO. Onorevole Ministro, è inesatta la sua notizia.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Allora, se è inesatta la mia informazione, controlleremo nell’interesse comune, perché se le notizie che mi si dànno non sono esatte, bisognerà che non mi limiti soltanto a prendere atto delle inesattezze, ma a prendere anche qualche provvedimento.

Però, avrei preferito che l’onorevole Riccio, che mi pare mi abbia accompagnato in quelle visite molto affrettate e rapide, e che ebbero anche una conclusione costruttiva relativamente alla strada da Amalfi a Sorrento, e per la quale gli organi tecnici rappresentati dal Provveditorato del Genio civile mi consentivano di poter affermare che entro otto giorni i lavori sarebbero stati comunque iniziati, avrei preferito che l’onorevole Riccio (io non posso essere onnipresente, io raccomando sempre a coloro che mi accompagnano di prendere nota di quello che si dice) si fosse fatto sollecito dopo otto, dieci giorni.

RICCIO STEFANO. Sono stato ogni settimana al Provveditorato!

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Non ad informare me, però, che quanto si era disposto sul luogo non aveva avuto esecuzione. Io certamente avrei potuto tempestivamente provvedere. Comunque, ne prendo nota, mi informerò e provvederò in conseguenza.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione al Ministro dei lavori pubblici degli onorevoli Caso, Numeroso, Titomanlio Vittoria, De Michele, «per conoscere le ragioni che, a quattro anni dalla battaglia del Volturno, fanno ritardare la ricostruzione dei ponti sul fiume omonimo, sacro alla Patria e utile all’economia nazionale al pari degli altri fiumi italiani; e per invitarlo, a nome delle popolazioni interessate, a quell’intervento decisivo che superi ogni intralcio burocratico e mostri effettivamente che la giustizia distributiva per il Mezzogiorno d’Italia non è puro artificio retorico. I ponti sul Volturno da costruire o ricostruire sono quattro: quello della Scafa di Vairano Patenora, il ponte Margherita presso Dragoni, il ponte di Annibale, il ponte alla Scafa di Caiazzo (provincia di Caserta); e tutti e quattro sono di tale riconosciuta importanza che il farne senza costituisce attualmente l’ostacolo maggiore per la ripresa del traffico di una zona che è il passaggio obbligato fra il Molise, il Lazio, le Puglie, Napoli e Roma.

L’onorevole Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Anche qui mi sembra di poter affermare – a meno che l’onorevole Caso non abbia notizie più recenti di quelle che mi fornisce l’ufficio – che, per quanto attiene ad uno dei ponti, l’interrogazione è tardiva e intempestiva, perché il primo non solo è stato ricostruito, ma mi dicono che è in piena efficienza anche per opere d’arte e per tutto ciò che riguarda parapetti e rifiniture.

CASO. Non fa parte della interrogazione.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Quello della Scafa di Vairano Patenora.

CASO. No, quello ricostruito è un altro.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Lo dirà nella replica. Comunque esamineremo insieme come stanno effettivamente le cose. Debbo dire però che – secondo le informazioni dei miei uffici – il ponte di Raviscanina, che è il più vicino alla località di Vairano Patenora, menzionato nella interrogazione, è stato ricostruito ed anche le opere di rifiniture sono state ultimate.

Se vi sono delle disparità fra le notizie che mi fornisce il mio ufficio e quelle dell’onorevole Caso, sarà mio dovere di rettificare.

Circa il ponte Margherita, il relativo progetto ha dovuto subire, come tutti i progetti, la sua fase istruttoria e vi sono state apportate alcune modifiche. Ora l’ultima variante che è stata suggerita dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ha avuto la necessaria approvazione e posso assicurare che i lavori, almeno per un primo lotto, saranno prossimamente iniziati, secondo mie precise disposizioni.

Per quanto attiene agli ultimi due ponti, l’onorevole Caso e gli altri colleghi interroganti conoscono la situazione; è una questione vecchia, anteriore alla guerra, di cui la guerra ha impedito la soluzione. Si tratta di una questione esistente fra l’amministrazione provinciale di Caserta e l’A.N.A.S., secondo la quale un tronco stradale, sul quale dovrebbe costruirsi il quarto dei ponti ai quali accenna l’onorevole interrogante, dovrebbe formare oggetto di una permuta col tronco stradale sul quale dovrebbe costruirsi il terzo ponte.

Io ho sollecitato la ripresa delle trattative tra i due enti posso assicurare che la permuta avverrà fra breve. Si aspetta soltanto che l’Amministrazione provinciale di Caserta dica la sua ultima parola e approvi il progetto.

Dopo di che, avvenuta la permuta, l’A.N.A.S. procederà alla costruzione del quarto ponte e mediante opportuni accordi con l’amministrazione provinciale, per ciò che attiene alle rispettive competenze, si potrà dare anche inizio alla ricostruzione del terzo ponte definitivo, in sostituzione di quello provvisorio di ferro attualmente esistente e che, per il momento, risponde abbastanza bene alle esigenze del traffico. Mi auguro che queste mie assicurazioni valgano a far dichiarare sodisfatto l’onorevole interrogante.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

CASO. Ringrazio l’onorevole Ministro e do un chiarimento per il quinto ponte del Volturno, che è l’unico costruito lungo il suo corso, cioè il ponte di Raviscanina, che non ha niente a che vedere con quelli citati nella mia interrogazione.

Il     ponte Margherita presso Dragoni è l’unico ponte che è stato appaltato, onorevole Ministro, nel febbraio 1945 e doveva essere ricostruito nel dicembre dello stesso anno, mentre sono trascorsi due anni per una controversia fra la ditta appaltatrice Del Vecchio e lo Stato.

Il ponte di ferro, al posto di quello in fabbrica, è un ponte che è costato allo Stato sei milioni e non è stato quindi, un regalo degli Alleati. Siccome la ditta Del Vecchio, appaltatrice dei lavori, è venuta meno all’appalto e d’inverno, spesso, il traffico veniva interrotto per la piena del fiume (si traghettava con delle zattere antidiluviane), il Ministero dei lavori pubblici venne incontro alle nostre richieste e fece costruire il ponte in ferro che, come ho già detto, è costato sei milioni. Per quanto riguarda poi, il ponte della Scafa di Vairano Patenora debbo segnalare la sua importanza, giacché allaccia numerosi paesi della zona occidentale del Matese con lo Scalo di Vairano sulla linea ferroviaria Roma-Cassino-Napoli.

TUPINI. Ministro dei lavori pubblici. Di nuova costruzione?

GASO. Di nuova costruzione. Nella sua risposta vi è dunque un equivoco…

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Chiarito, chiarito.

CASO. In sostanza mi dichiaro sodisfatto e sono ben lieto che il Ministro sia in grado di venire incontro al più presto ai bisogni della zona del Medio Volturno e dell’Alifano, tanto più che egli conosce già la nostra provincia di Terra di Lavoro.

Tengo a richiamare inoltre l’attenzione del Governo sulla necessità dell’immediata ricostruzione degli altri ponti e cioè di quello di Annibale presso Capua oltre che del ponte Margherita, che entrambi, non solo servono al traffico comune, ma sono destinati, fra le opere più importanti, ad affrettare la già decisa ricostruzione della ferrovia secondaria per Piedimonte d’Alife dando passaggio, sullo stesso piano stradale, al binario della ferrovia suddetta.

Sono molto sodisfatto delle assicurazioni che ella mi dà per la costruzione del ponte alla Scafa di Caiazzo e sono grato a lei e all’Amministrazione provinciale di Terra di Lavoro che ha accettato e facilitato la permuta stradale, permettendo così, quasi con la stessa spesa, di costruire due ponti sul Volturno, anziché nello stesso posto (Triflisco), in due località, poco distanti fra loro, ma favorevoli ad un maggior smaltimento del traffico che verrà smistato per Capua e Santa Maria Capua Vetere attraverso il ponte di Annibale e dal Molise e dall’Alifano per Caserta e Napoli attraverso il più breve percorso del nuovo ponte da costruire alla Scafa di Caiazzo.

Mi associo all’onorevole Riccio per quanto egli ha rilevato intorno alla lentezza con cui vengono eseguiti gli ordini del Ministero. Posso dire che per qualunque lavoro pubblico che riguardi specialmente la provincia di Caserta ho l’impressione che gli organi tecnici facciano l’impossibile per svalutare l’opera e le buone disposizioni del Governo centrale. I funzionari che vengono mandati da Roma sono dovunque accolti con gesti di fastidio e di sopportazione. (Approvazioni).

PERSICO. Mi associo.

CASO. Io mi sono recato giorni or sono dall’ingegnere Capo del Genio civile di Caserta per sottoporgli la necessità di costruire una strada molto importante. Egli, pur avendomi data la precedenza, ha fatto comprendere che in quel momento non aveva tempo per discutere con me. Profitto dell’occasione per elevare qui la mia protesta.(Approvazioni).

Per quanto riguarda l’attività, la diligenza, la buona volontà ed il grande spirito di abnegazione dell’onorevole Ministro Tupini gliene rendo atto pubblicamente: egli è stato uno dei primi che sia venuto nella zona del Volturno, ma non credo che abbia ricavato una grande soddisfazione quando ha potuto constatare che molte opere risultavano soltanto teoricamente eseguite. San Pietro Infine (96 per cento di distruzioni belliche), Mignano (92 per cento), Teano, Pignataro, Roccadevandro, ecc. insegnino!

Cito un fatto tanto per dare un esempio: nell’acquedotto di San Gregorio d’Alife, appaltato, costruito, collaudato, l’acqua della sorgente non va più nei tubi e si disperde al disotto della piattaforma di cemento che invece dovrebbe raccoglierla.

Una voce a sinistra. Inverosimile!

CASO. E non c’è verso di poter ottenere un rimedio nonostante le numerose insistenze. E così anche per il ponte presso Alvignano divenuto pericolante dopo essere stato ricostruito e per varie opere di riparazioni alle Chiese della mia Provincia.

Per il resto, come ho già detto, mi dichiaro sodisfatto e mi auguro che l’onorevole Ministro Tupini possa intervenire e risolvere una situazione incresciosa. I funzionari degli Uffici tecnici che fanno il loro dovere devono essere largamente premiati; i negligenti puniti.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Onorevole Caso, l’incidente che mi ha ora segnalato è molto grave ed io le domando perché non me lo ha segnalato prima.

CASO. È stato segnalato dal sindaco di San Gregorio d’Alife e da me in una lettera recente, che però riguardava anche altri inconvenienti relativi alla ricostruzione di Teano.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Comunque tutti i deputati che corrispondono con il Ministro sanno con quanto interesse e con quanta obiettività io mi tenga a disposizione dell’Assemblea per poter provvedere a rimuovere gli inconvenienti che mi vengono segnalati. Mi interesserò naturalmente della cosa, al fine di porre riparo a quanto è accaduto e soprattutto perché si dia una volta tanto l’esempio che i denari della Nazione non debbono essere sperperati. (Approvazioni).

Voci a destra. Sarebbe ora!

PRESIDENTE. Onorevole Ministro, la prego di rispondere anche alla protesta intorno al comportamento dei funzionari: glielo dico in nome dell’Assemblea.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Io ho preso contatto con molti provveditori…

PERSICO. Parliamo piuttosto del ponte da costruirsi dove ora è la Scafa di Caiazzo, che è più urgente.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Una cosa alla volta.

CASO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CASO. Vorrei profittare delle parole del Ministro per confermare che i fatti lamentati dànno luogo a questa osservazione: i deputati nelle Provincie sono considerati come un incomodo da una gran parte degli organismi burocratici, mentre invece, lo grido forte, essi sono gli unici collaboratori diretti del Governo (Applausi). Gli onorevoli Ministri che sono oggi numerosi sul banco del Governo, facciano delle circolari in proposito per esigere il massimo riguardo per i rappresentanti del popolo.

PRESIDENTE. È il Governo che collabora con l’Assemblea, onorevole Caso.

CASO. Gli organi periferici cercano di svalutare. Potrei citare altri esempi. Andrò presto dall’onorevole Ministro dei trasporti per denunciargli conclusioni prese alla mia presenza, in tema di servizi automobilistici, presso l’Ispettorato ferroviario di Napoli e dopo due giorni dalla comunicazione smentite in pieno, molto probabilmente per dimostrare la scarsa ingerenza ed autorità dei deputati all’Assemblea Costituente, perché l’autorità medesima possa assolutamente spettare agli organi burocratici. E questo è un errore di valutazione ed un danno grave per quella opera di collaborazione che si deve svolgere soprattutto nel campo politico. Io dico questo anche per invitare gli altri onorevoli Ministri a stare in allarme, a stare guardinghi, perché è indubitato che vi è questa tendenza in giro: la tendenza a svalutare la loro opera che invece è ardua, nobile e faticosa. (Applausi).

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Ho preso contatto con molti Provveditori e con molti Ingegneri Capi del Genio Civile, perché, quando posso, la domenica la dedico a visitare le varie regioni al fine di condurre di persona i necessari accertamenti ed esercitare un’opera costante di stimolo e di sollecitazione. L’impressione che ricevo dagli incontri coi miei funzionari periferici, provveditori e ingegneri del Genio Civile, è dovunque rassicurante, in quanto essi dichiarano di dar subito mano all’esecuzione delle opere che qua e là vengono d’intesa con loro disposte.

Ma ora, dinanzi alle segnalazioni dell’onorevole Caso, che fino a prova contraria devo ritenere attendibili, sono assai spiacente di dovermi ricredere. Sarebbe il caso di pensare alla maschera e il volto. La maschera per il Ministro e il volto per gli altri (Commenti). Se tutto ciò fosse vero ne soffrirebbe il prestigio dell’Amministrazione e io non consentirò che questo avvenga. Noi siamo tutti interessati, Governo e deputati, perché quello che si dice e si dispone, quello che attiene cioè al regolare andamento della nostra Amministrazione abbia il dovuto seguito e la normale esecuzione per il bene esclusivo del Paese, cui dedichiamo l’opera nostra. Assicuro pertanto l’onorevole Caso e l’onorevole Presidente dell’Assemblea che porterò la mia personale attenzione sui fatti denunziati e non esiterò a prendere i necessari provvedimenti al fine di garantire una pronta, onesta e adeguata esecuzione dei lavori disposti. L’onorevole Caso conosce un precedente al riguardo. Mi trovavo tempo fa in visita nella provincia di Avellino. Fui allora informato che a Monteforte – se non erro – era stata riparata una strada e che i lavori di riparazione erano stati condotti così male da far pensare con nostalgia alla vecchia strada. Mi recai immediatamente sul posto, percorsi a piedi la strada per circa un chilometro, constatai purtroppo fondate le doglianze della popolazione e disposi che la strada stessa venisse rifatta a carico dell’impresa inadempiente senza pregiudizio di eventuali più gravi sanzioni (Approvazioni). Non è assolutamente tollerabile che i danari dello Stato e cioè del popolo vengano sperperati. (Applausi).

PRESIDENTE. Passiamo alla interrogazione dell’onorevole Laconi, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed ai Ministri dei lavori pubblici e dell’agricoltura e foreste per sapere: «1°) se è a conoscenza del Governo lo stato di grave disagio nel quale si dibatte l’agricoltura e quindi tutta l’economia dei comuni situati nella piana di Oristano in seguito ai danni provocati dalle continue alluvioni dovute all’illegale funzionamento delle opere di scarico del lago Omodeo che, creato come opera di trattenuta delle piene del fiume Tirso, è invece diventato causa principale degli allagamenti delle campagne sottostanti ed impedimento alla esecuzione delle opere di bonifica e di trasformazione fondiaria nei terreni più fertili della Sardegna; 2°) le ragioni per le quali il Governo non ha finora raccolto le proteste delle popolazioni colpite, proteste che tendono a far cessare l’attuale stato di asservimento di tutta l’economia di una vasta e fertile regione agli interessi della società concessionaria del bacino, asservimento che dura dal 1924, malgrado le vive proteste delle popolazioni danneggiate; 3°) le ragioni per le quali il Governo non ha finora ritenuto opportuno applicare l’articolo 30 dei disciplinari di concessione 17 marzo 1914 (legge il luglio 1913, n. 985) dichiarando la decadenza della concessione stessa dato che l’esercizio del serbatoio è così difettoso ed irregolare da richiedere provvedimenti nel pubblico interesse».

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Vorrei pregare di rimandarla. La sua interrogazione, onorevole Laconi, per quanto porti la data del 18 luglio, è stata a me segnalata soltanto ieri sera, qui è mancato quindi il tempo di esaminare i dati forniti dai miei uffici. D’altra parte l’interrogazione investe anche la competenza del Ministro dell’agricoltura, col quale intendo prendere i necessari accordi e desidero perciò pregare l’onorevole Laconi di acconsentire al richiesto rinvio anche alla prossima seduta dell’Assemblea. Solo in tal caso sarò in grado di dargli una risposta per mia parte sodisfacente anche se non mi illudo circa l’eventuale soddisfazione dell’onorevole interrogante.

PRESIDENTE. L’onorevole Laconi è d’accordo?

LACONI. Sì.

PRESIDENTE. Domando al Ministro se è disposto a rispondere lunedì.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Sì.

PRESIDENTE. Allora l’interrogazione dell’onorevole Laconi sarà posta all’ordine del giorno di lunedì.

Passiamo all’interrogazione degli onorevoli Schiavetti, Cianca e Lussu, al Ministro della difesa, «per sapere se non ritenga opportuno di modificare la motivazione della medaglia d’oro al valor militare alla memoria del capitano di fregata Vittorio Meneghini, là dove essa dice che quell’ufficiale col suo eroico contegno a Lero fra l’8 settembre e il 17 novembre 1943 «riconfermava in tal modo sublime i diritti della Patria su quelle terre lontane».

CHATRIAN, Sottosegretario di Stato per la difesa. Gli onorevoli interroganti, nel riportare nel testo dell’interrogazione al Ministro della difesa la motivazione della medaglia d’oro al valore militare conferita «alla memoria» del capitano di fregata Vittorio Meneghini, non hanno completato la frase citata: «i diritti della Patria su quelle terre lontane» con le seguenti parole, che la completano: «così strenuamente contese al tedesco invasore».

Ecco il testo integrale della motivazione:

«Motivazione della medaglia d’oro al valor militare alla «memoria» del capitano di fregata Vittorio Meneghini fu Fausto e Girolami Teresa, nato a Foligno (Perugia) l’11 giugno 1900.

«Ufficiale superiore, comandante in guerra di sommergibile, secondo di incrociatore, e finalmente comandante di cacciatorpediniere, affondata la propria unità, assumeva volontariamente il comando di una zona della difesa costiera di piazzaforte marittima d’oltremare violentemente attaccata da forze aeree, navali e terrestri, dopo aver dato ripetute prove di bravura e valore.

«Nel lungo assedio subito, controbatteva molto efficacemente la soverchiante offesa aerea, prima da bordo e successivamente con le batterie della zona affidatagli e rinforzata con i naufraghi del suo equipaggio e le armi recuperate dal cacciatorpediniere.

«Quando già l’intera piazzaforte era caduta, resisteva ancora nella sua zona e cessava il fuoco solo dopo avere avuto conferma dell’ordine generale che rendeva ogni ulteriore lotta inutile spargimento di sangue.

«Caduto in mano ad un nemico ingeneroso e feroce, suggellava con il sangue una vita tutta dedita all’adempimento del dovere e riconfermava in tal modo sublime i diritti della Patria su quelle terre lontane, così strenuamente contese al tedesco invasore.

«Esempio alle future generazioni marinare di alte virtù militari e di comando.

«Lero, 8 settembre 1943-17 novembre 1943».

Il comandante Meneghini, in conseguenza dell’incarico di occupazione armata del territorio affidatogli, aveva il compito di difendere la Bandiera nazionale, nel suo significato e nei suoi diritti contingenti, contro chiunque il Governo nazionale avesse riconosciuto nemico.

Per i precedenti costantemente attuati in materia di motivazioni al valor militare e per le ragioni suesposte, il Ministero della difesa non ritiene di modificare la motivazione in questione.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

SCHIAVETTI. Devo dire che non mi ritengo in nessun modo sodisfatto della risposta del Governo. A mio modo di vedere sarebbe bastato un minimo di buona volontà e di comprensione perché potessimo andare tutti d’accordo nel deplorare l’inciso contenuto in questa motivazione al valore. È inutile dire che noi abbiamo il massimo rispetto e la massima gratitudine verso questo valoroso ufficiale della marina che ha perduto la vita per compiere il proprio dovere. Non si tratta assolutamente di questo, ed il Governo avrebbe potuto meglio apprezzare l’intenzione che mi ha mosso se avesse tenuto conto del fatto che il mio appunto è rivolto al Governo precedente e non a questo, perché la data della motivazione è quella del 27 maggio 1947. Qui si tratta di un’altra cosa. Si tratta di vedere se è lecito di insinuare in una motivazione al valore un’affermazione che può creare delle difficoltà alla politica internazionale del Governo. Quando il Sottosegretario alla difesa mi viene a dire che l’affermazione dei diritti della Patria su quelle terre lontane, ossia sulle isole dell’Egeo, può essere delucidata dalla frase seguente: «contese strenuamente al tedesco invasore», dimostra la buona volontà di non voler capire che cosa significa questo inciso. Significa una riaffermazione del diritto dell’Italia sulle isole dell’Egeo…

Voci a destra. Meno male che l’ha capito!

SCHIAVETTI. Il Dodecaneso è stato un pezzo forte della propaganda nazionalistica degli ultimi decenni. Ora io mi voglio richiamare soprattutto ai testi ufficiali. C’è la relazione recentissima del Ministro degli esteri per il trattato di pace, là dove si prende in esame l’articolo 14 che concerne le riparazioni territoriali, e si parla della volontà di riparazione del Governo italiano verso i torti che abbiamo nei riguardi della Grecia. (Rumori a destra).

Ora mi sembra che un’affermazione di questo genere contenuta in una motivazione che è firmata dal Presidente della Repubblica in persona, sia sommamente scorretta; ed è scorretta innanzi tutto perché nuoce alla politica generale del Governo e perché insinua il sospetto che facciamo una politica poco sincera, cosa che è di gran nocumento all’opera di ricostruzione internazionale. (Commenti).

Licenze poetiche di questo genere, qualora siano captate dalla propaganda straniera…

RUSSO PEREZ. È lei che le sta captando.

SCHIAVETTI. …possono nuocere moltissimo alla politica del nostro Governo. Qui si tratta di una infedeltà alla nazione, compiuta da un membro della commissione che ha il compito di redigere le motivazioni al valore. Richiamo l’attenzione del Governo su questo atto che non esito a definire di sabotaggio contro la politica democratica della nuova Italia, atti simili ad altri atti che alcuni impiegati si permettono di compiere nell’oscurità dei loro gabinetti. Bisogna che il Governo sia vigile e dia alla Nazione la prova provata che la nostra politica estera è una politica sincera e che noi vogliamo tener fede sinceramente ai doveri che abbiamo assunto verso la società internazionale.

RUSSO PEREZ. Le abbiamo regalate quelle isole.

PRESIDENTE. L’onorevole Martino Gaetano ha presentato la seguente interrogazione al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere quali provvedimenti intenda adottare al fine di impedire il continuo esodo di capi bovini dalla Sicilia, che minaccia già seriamente l’esistenza del patrimonio zootecnico dell’Isola».

Non essendo presente l’onorevole interrogante, la sua interrogazione s’intende decaduta.

L’onorevole Valiani ha presentato la seguente interrogazione al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere i motivi per i quali – a due anni dalla fine delle ostilità – non si pagano ancora le pensioni alle vedove dei caduti della guerra partigiana».

Non essendo presente l’onorevole interrogante, la sua interrogazione s’intende decaduta.

L’onorevole Di Giovanni ha presentato la seguente interrogazione al Ministro del lavoro e della previdenza sociale, «sulla urgente necessità che sia istituita in Siracusa una Sezione dell’ispettorato del lavoro, con competenza anche sulla vicina provincia di Ragusa, per esercitare con visite frequenti una continua azione ispettiva, ai fini dell’osservanza delle norme legislative in materia di assistenza e previdenza sociale, sulle ditte interessate ed impedirne le evasioni, col danno dei lavoratori. L’interrogante richiama in proposito l’attenzione del Ministro sulle recenti deliberazioni ed istanze della Camera confederale del lavoro di Siracusa e dei rappresentanti degli Uffici provinciali di assistenza e previdenza e del lavoro».

Non essendo presente l’onorevole interrogante, la sua interrogazione s’intende decaduta.

L’onorevole Di Fausto ha presentato la seguente interrogazione al Governo, «per sapere se corrisponde a verità la notizia secondo la quale sul colle della Farnesina, dominante, in vista di San Pietro, fra Monte Mario e Ponte Milvio, in uno dei luoghi più suggestivi di Roma e del mondo, entro la cinta urbana, colle destinato infatti a parco pubblico nel piano regolatore vigente, sarebbe stata concessa una immensa zona di terreno (circa 35 mila metri quadrati) da destinare a cimitero di guerra francese, nel quale sarebbero naturalmente accolte anche salme di mussulmani di colore. E, nel caso affermativo, per sapere che cosa il Governo intenda fare per rimuovere la intollerabile concessione che, rilevando la assoluta insensibilità delle autorità responsabili, suona insulto – sotto troppi aspetti – alla cocente immeritata sventura della Nazione, e suona comunque soprattutto insulto alle altissime tradizioni civili e cristiane di Roma, alle quali deve pur rendere omaggio la Francia, che, con noi, trae, da quelle, comune nobiltà di origine».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. La concessione al Governo francese di un’area per la costruzione di un cimitero di guerra fu data, dopo dei passi ufficiosi fatti presso il Comune di Roma e conclusi con un voto affermativo di tutta la Giunta comunale del Comitato di liberazione nazionale che allora era in carica, con un decreto del Presidente del Consiglio Bonomi nel maggio 1945. Dopo quel momento furono fatte alcune riserve da parte di uffici del Ministero degli esteri; ma naturalmente il Governo, dato che era impegnato con un atto formale, non crede di poter ritirare questo atto né di poter fare seri passi diplomatici con la Francia per poter rivedere la cosa.

Comunque, se sul piano urbanistico ed artistico la cosa può essere discussa e valutata in modo diverso – e di questo ne ha particolare diritto l’onorevole Di Fausto nella sua competenza – sembrano non accoglibili, anzi sconvenienti, alcune espressioni contenute nella interrogazione in cui si parla di un insulto alle tradizioni civili e cristiane di Roma, che sarebbe stato operato con la concessione di questa area per un cimitero di guerra nel quale, afferma scandalizzato l’onorevole interrogante, sarebbero accolte salme di mussulmani. Penso che sia proprio la grande tradizione universale di Roma a consentire di non scandalizzarci di questa concessione, anche se si vuol prescindere dal valore storico che essa ha come frutto di una collaborazione italo-francese nella lotta di liberazione.

PERSICO. Bisognerebbe fare una permuta, dando un altro terreno.

PRESIDENTE. L’onorevole Di Fausto ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DI FAUSTO. Alla inverosimile concessione – oggetto della mia interrogazione – si rimedia solamente con la revoca (d’intesa col Governo francese) della concessione stessa.

Non entrerò – per ovvie ragioni – nel delicato campo politico, limitandomi a precisare le ragioni di ordine generale che confortano la mia richiesta.

La concessione è contraria: 1°) alle disposizioni del piano regolatore (zona a parco pubblico); 2°) alle disposizioni di polizia mortuaria e al regolamento d’igiene (niente cimitero entro la cinta urbana); 3°) alle disposizioni sulla tutela del paesaggio. Siamo infatti in pieno nel tipico e classico paesaggio laziale.

Sono responsabili di questa infrazione: la Commissione comunale urbanistica, l’Ufficio d’igiene, la Commissione edilizia, la Sovrintendenza ai monumenti, il Sindaco di Roma, che non hanno difeso, come si doveva, le supreme ragioni di Roma.

Tutto questo sul terreno legale, regolamentare.

Ma vi è qualcosa di più alto e più grande: c’è insomma la maestà di Roma, alla quale il pensiero universale si è sempre inchinato, compreso quello francese. Nella letteratura romantica e nella moderna è tutto un inno alla «majesté de Rome». Dinanzi a questa maestà non si transige. È la storia del mondo che si riassume nel nome e nel volto di Roma. E Monte Mario è parte viva, integrante del suo mitico complesso! Monte Mario sta a Roma così come l’Olimpo sta ad Atene; verso di esso convergono visuali e miraggi di bellezza; sulle sue verdi pendici s’incastona quella gemma del Rinascimento, «Villa Madama», disegnata da Raffaello per gli ozî medicei e realizzata da Pierin Del Vaga e Giovanni da Udine. Opera singolare che porta in sé gli schemi di quella che sarà la casa moderna; opera pervasa dalla suggestione di tutte le realizzazioni d’arte rimaste incompiute; opera che porta visibili ancora oggi i segni di quella violenza, che, abbattutasi improvvisa sull’Italia, arrestò e spense, nell’ora del suo più alto fulgore, la vita e il mondo del Rinascimento. Nelle sale mirabili bivaccarono le sozze soldataglie mercenarie. I fuochi sinistri dei Lanzachenecchi non si spengono ancora nelle nostre anime, conturbate dagli echi della guerra recente. Monte Mario nel proposito e nell’auspicio nostro dovrebbe, nella sua alta platea, dominante il fiume della nostra storia, accogliere quel centro internazionale del pensiero, di cui il mondo abbisogna, per affermare l’umana solidarietà, e che solo in Roma può trovare il clima e le ragioni della sua esistenza.

Ho voluto tracciare sommariamente questo profilo storico estetico del colle per chiedermi con voi, onorevoli colleghi, se era proprio questo il luogo da destinare a cimitero militare di guerra, per accogliervi soldati non caduti in Roma, ma qui importati dalle lontane plaghe delle loro gesta, contrariamente ad ogni consuetudine e norma. Americani ed inglesi riposano infatti nelle zone dove caddero.

Dell’altra grande guerra noi abbiamo portato in Roma un solo caduto: l’ignoto! Si tratta di un simbolo.

Ed allora, che cosa vuol significare questa presa di posizione così eloquente, quando si pensi che in pari numero ai caduti francesi dovranno qui giacere quelle truppe di colore, di cui non voglio ricordare le gesta e l’oltraggio.

LACONI. Questo non le fa onore. Perché dice queste cose? Sono morti, non sono vivi.

DI FAUSTO. O noi dobbiamo – contro ogni nostro desiderio – interpretare alla lettera la dichiarazione del Ministro del lavoro francese Mr. Croizat a proposito di emigrazione – dichiarazione apparsa sul Populaire qualche tempo fa, e riportata da giornali italiani:

«Non essendovi più negri né prigionieri tedeschi, ci si accontenti degli italiani e si faccia buon viso a cattivo giuoco».

Ignoro le origini del Sig. Croizat; comunque questo linguaggio è indegno di un europeo, ossia di un uomo civile!

Il senso latino della misura – che noi italiani non dobbiamo perdere specialmente nelle ore più gravi – mi impone di non andare oltre e di tornare al tema, nel quale, per criteri analoghi, ricadono gli altri cimiteri di guerra francesi in Italia – come quello di Siena, per esempio – per il quale è stata rifiutata una assai adatta area demaniale, e si è prescelto, col consueto criterio di evidenza e di preminenza, un sito a cultura intensiva, che noi dovremo pagare ad alto prezzo. Non si comprende poi perché i cimiteri francesi non ricadano nel provvedimento legislativo che disciplina gli altri cimiteri di guerra alleati.

E a che cosa fa cenno la relativa relazione al Consiglio dei Ministri ora distribuita alle Commissioni legislative, e nella quale si dice, riferendosi ai cimiteri francesi: «sono in corso trattative in via diplomatica, in relazione a pretese avanzate dal Governo francese sui campi cimiteriali, che vanno al di là del semplice diritto di uso»? È inaudito! Ma ho inteso ripetere con insistenza che si parla addirittura di diritto di sovranità. Ma dove si vuole arrivare? Si vuole proprio di un tema di pietà fare uno spunto di provocazione? Vale – a questo punto – richiamarsi alla discrezione che deve circondare questi luoghi lontano e fuori dei grandi centri politici, sempre pronti ad accendersi e facili a mutare di indirizzo! Sarebbe deplorevole veramente che in determinate imprevedibili situazioni la folla portasse la sua incontenibile reazione in questi luoghi del silenzio. (Commenti – Interruzioni a sinistra). Deplorevole per tutti e più specialmente per il Paese che questi luoghi ospita e che deve tutelare ad ogni costo, quando ha consentito alla loro creazione. (Commenti a sinistra). Qui entra in giuoco la sensibilità nella scelta. Comunque la zona va restituita alla sua naturale funzione di bellezza e di storia ed alla sua legittima destinazione riparando al triplice errore: politico, storico ed estetico, invitando la Francia alla scelta di una più idonea zona di terreno. Pertanto la interrogazione non si esaurisce con la risposta odierna, ma dovrà il Governo, appena possibile, dirci il suo pensiero sulla proposta che io avanzo formalmente, di invitare il Governo francese al riesame della questione. Dovrà comunque questa Assemblea essere rassicurata sulla portata effettiva delle pretese avanzate dallo stesso Governo francese. Mi riservo poi di trasformare, se necessario, l’interrogazione in interpellanza, e se occorre, in mozione, che sia ferma enunciazione della volontà del Paese su così delicata questione.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Bettiol e Lazzati, ai Ministri della pubblica istruzione e del tesoro, «per sapere se non ritengano urgente provvedere di concerto a che siano banditi senz’altro ritardo i concorsi a posti di assistente universitario di ruolo».

Non essendo presenti gli onorevoli interroganti, si intende decaduta la loro interrogazione.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Colitto, al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per conoscere quando provvederà a disporre lo sblocco della rimanenza dell’olio di oliva nella provincia di Campobasso in conformità degli impegni assunti nel novembre scorso, essendo stata non solo raggiunta, ma largamente superata, in detta provincia, la quota stabilita per il contingentamento, ponendosi termine con lo sblocco allo stato di gravissimo disagio nel quale, per le incertezze governative, trovasi la tanto laboriosa disciplinata popolazione molisana».

L’onorevole Ministro dell’agricoltura e delle foreste ha facoltà di rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. La questione è stata risolta con un decreto ministeriale del maggio. Mi pare quindi inutile far perdere tempo alla Assemblea.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

COLITTO. Ringrazio l’onorevole Ministro di quel che ha detto. Sapevo anch’io della pubblicazione del decreto; ma esso è stato pubblicato posteriormente alla mia interrogazione. Oggi questa, perciò, non ha più ragion d’essere.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Gotelli Angela e Guerrieri Filippo, ai Ministri dei trasporti e della marina mercantile, «per sapere se non ritengano doveroso riparare a una grave ingiustizia che si è creata ai danni del porto di La Spezia, col decreto del Capo provvisorio dello Stato 3 aprile 1947, n. 372 – Gazzetta Ufficiale n. 120 – riesumando il decreto-legge n. 1266, del 24 luglio 1938, in base al quale si concedeva la riduzione del 50 per cento sulle tariffe ferroviarie delle merci da e per la zona industriale apuana per distanze superiori ai 50 chilometri (con esclusione perciò del porto di La Spezia, distante da Apuania 35 chilometri). Tale esclusione, che parve anche allora ingiusta e fu attribuita a protezionismo di gerarchi per il porto di Livorno, era però in quei tempi tollerabile, poiché la vita economica di La Spezia aveva altri alimenti che la guerra ha poi spaventosamente colpito. Quindi gli interroganti, ben lontani dal desiderare che siano soppresse le facilitazioni ripristinate a favore della zona industriale apuana, chiedono solo che tali facilitazioni non costituiscano un ingiusto danno per il porto di La Spezia, e che quindi anche per le merci da e per il porto di La Spezia dirette o provenienti dalla zona industriale apuana venga applicata la stessa riduzione del 50 per cento, anche se tale porto dista da Apuania meno di 50 chilometri».

Poiché gli onorevoli interroganti non sono presenti, l’interrogazione s’intende decaduta.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Terranova, al Ministro della marina mercantile «per conoscere se non ritenga di dovere ripristinare le linee di navigazione con l’Egitto e la Libia, con scalo nei porti siciliani, tenuto conto che essi si trovano sulle rotte che dai porti dell’Italia settentrionale, centrale e meridionale conducono ai suaccennati Paesi d’oltremare. In particolare l’interrogante chiede che sia considerato, qualora si addivenga al ripristino delle suddette linee, come uno degli scali principali, il porto di Siracusa, che per tradizione, posizione geografica e attrezzatura ha rappresentato nel passato e rappresenterà nell’avvenire il porto capo-linea delle comunicazioni fra l’Italia e i Paesi del nord Africa. La richiesta riattivazione di linee risponde anche alle esigenze dell’intensificata produzione agricola siciliana, che, come nel passato, trova nei Paesi d’oltremare il suo naturale sbocco e un largo mercato di consumo».

Poiché l’onorevole interrogante non è presente, l’interrogazione s’intende decaduta.

Segue l’interrogazione degli onorevoli Faralli e Barbareschi, al Ministro della marina mercantile, «per conoscere il suo pensiero circa quanto è affiorato nel recente Convegno nazionale delle commissioni interne delle compagnie marittime di linea, raggruppate nella FINMARE, a proposito delle trattative inerenti a possibili cessioni da parte dell’I.R.I. all’armamento libero. Tale eventualità rappresenterebbe un grave attentato alla integrità di un organismo di preminente interesse nazionale, che risponde alle esigenze pratiche, morali e alla struttura economica del nostro Paese».

L’onorevole Ministro della marina mercantile ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Ho risposto per iscritto a questa interrogazione.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Marinaro al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro del tesoro, «per conoscere le ragioni che hanno indotto il Governo a nominare Vicedirettore generale della Banca d’Italia il dottor Paride Formentini, estraneo all’Amministrazione della Banca stessa, interrompendo così una lunga tradizione, in base alla quale almeno uno dei tre alti dirigenti dell’Istituto veniva scelto fra il personale superiore del medesimo, e umiliando ingiustamente il folto gruppo di detto personale».

Poiché l’onorevole interrogante non è presente l’interrogazione si considera decaduta.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Zuccarini, al Ministro delle finanze, «per sapere se e quando vorrà provvedere ad emanare norme tassative e precise intese a consentire che i beni immobili di proprietà dei comuni o di altri enti locali che, in seguito a pressioni e ad imposizioni ben note, vennero donati o ceduti al cessato partito fascista e ad organizzazioni da questo dipendenti, ritornino agli enti proprietari senza gravami e oneri di sorta».

L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di rispondere.

PELLA, Ministro delle finanze. Il problema riguardante l’emanazione di norme legislative intese a consentire il ritorno ai Comuni, o ad altri enti locali, di beni immobili, non liberamente donati o ceduti al cessato partito fascista o alle organizzazioni dallo stesso dipendenti, forma da tempo oggetto di studio da parte del Ministero delle finanze e degli altri Dicasteri interessati. Trattasi di problema di vasta portata sia dal punto di vista giuridico che dal punto di vista pratico, la cui soluzione deve essere perciò esaminata con profonda ponderazione.

È da tener presente che molti di tali beni, già di pertinenza del partito fascista e delle organizzazioni fasciste, sono attualmente adibiti a sede di uffici governativi e spesso in essi sono stati eseguiti, con ingenti spese, lavori di restauro e di adattamento. In molti casi si è trattato di trasferimento del solo terreno sul quale poi vennero costruiti fabbricati di valore di gran lunga maggiore di quelli delle rispettive aree, talvolta con mutui di cui lo Stato ha dovuto ora assumersi l’onere.

Ad ogni modo, posso assicurare che è in corso di preparazione l’apposito provvedimento legislativo che mira a disciplinare la materia, specialmente per i casi di devoluzione dei beni immobili di società cooperative, associazioni ed enti similari soppressi per ragioni politiche.

PRESIDENTE. L’onorevole Zuccarini ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

ZUCCARINI. Io debbo dichiarare che sono sodisfatto così così della risposta, cioè non completamente sodisfatto. Intanto, noto che vi sono in corso delle richieste di acquisto, da parte di Comuni, di edifici che già appartenevano al partito fascista che li aveva costruiti per le sue case ed istituti, per essere trasformati in locali scolastici. Potrei citare uno di questi casi per il quale io mi sono interessato presso il Ministero delle finanze, ricevendone risposta negativa.

Ed è solamente dopo di ciò che mi sono deciso a presentare questa interrogazione.

Di che cosa si tratta? Il fatto si è ripetuto in moltissimi Comuni d’Italia. Il partito fascista, in alcuni casi, là dove si trattava di istituzioni e di associazioni, ha addirittura prelevata la proprietà degli altri, senza indennità; in altri casi premendo sui Comuni, sulle amministrazioni elettive se ancora esistevano, poi facendo quello che voleva quando l’amministrazione elettiva non c’era più, si è fatto cedere per i propri edifici il terreno in modo pressoché gratuito. Oggi, quei Comuni che chiedono l’acquisto di quei fabbricati, che cosa reclamano dal Governo? Di riavere i terreni allo stesso titolo gratuito o semigratuito al quale hanno dovuto cederli. È una cosa molto semplice. Uno dei Comuni per i quali mi sono interessato chiedeva appunto di riavere il terreno sul quale l’edificio «casa del fascio» era stato costruito, e che esso intendeva ora adibire ad edificio scolastico; che gli fosse valutato allo stesso valore per il quale esso l’aveva dovuto cedere. Era una richiesta giusta e naturale; invece l’Amministrazione finanziaria insiste per avere il valore attuale di quei terreni, che è di centinaia di volte superiore al misero prezzo che il Comune percepì per la sua cessione. È logico questo? È possibile che, e ciò anche indipendentemente da un provvedimento in corso, per il quale secondo il Ministro, occorrono ancora altri studi, l’Amministrazione finanziaria pretenda un prezzo che l’Amministrazione stessa deve riconoscere esagerato? Qui siamo nel caso di amministrazione pubblica. Lo Stato è dei cittadini come lo è il Comune, e i Comuni oggi, tutti lo sappiamo, versano in condizioni quanto mai difficili. È opportuno che l’Amministrazione finanziaria insista, come lo potrebbe fare un privato e solo perché ha bisogno di fare denaro, a fissare e a pretendere il prezzo corrispondente al valore attuale di un terreno da un Comune che l’ha dovuto invece cedere a poche migliaia di lire? Questo è il problema e bisogna che in questo senso l’Amministrazione finanziaria se lo ponga.

I provvedimenti di cui il Ministro ci ha parlato, non richiedono del resto larghi studi: si tratta di restituire, di ristabilire la legalità. E ciò non solamente per le Amministrazioni comunali, ma anche per quelle istituzioni politiche e cooperative che si sono viste spogliate dal fascismo dei loro edifici e delle loro legittime proprietà. Le proprietà liquide non si potranno recuperare, ma le proprietà immobiliari sì.

C’è attualmente un caso di questo genere che agita in modo assai impressionante la popolazione di un piccolo paese della provincia di Ancona. Mi riferisco alla Casa dei repubblicani della frazione di Torrette di Ancona. Quella casa fu costruita pietra per pietra dai nostri amici col sacrificio di giornate di lavoro. Quella casa venne requisita dal fascismo, venne ceduta a terzi per settemila lire; oggi quei nostri amici, quegli stessi che l’hanno costruita, reclamano la restituzione di quell’edificio per lo meno allo stesso miserabile valore per il quale esso venne tolto loro durante il fascismo. Si rispondo picche. Si richiedono addirittura due milioni per settemila lire. Ma, a parte questo, si minaccia di sfrattare i repubblicani dalla loro proprietà nella quale erano stati già riammessi per un decreto prefettizio; si minaccia addirittura di sfrattare con la forza questi nostri amici da un edificio che è il loro. E per consentire che possano rimanervi si pretendono addirittura oggi due milioni. E ciò in via di transazione!

Ora bisogna che il Governo su questa materia emani al più presto i provvedimenti che il Ministro promette ma che intanto restano sempre allo studio. È passato già troppo tempo. Bisogna che queste questioni, là dove sorgono, vengano prontamente esaminate e risolte con criteri di equità e di giustizia. Mi riferisco, con ciò, anche alla domanda del Comune di Iesi, che in modo concreto chiede di riavere l’area su cui sorgeva la casa del fascio al valore per cui dovette cederla mentre è disposto ad acquistare l’edificio vero e proprio al suo prezzo venale. E chiedo che per l’area non si richieda altra somma che quella che il Comune ebbe a suo tempo. Come pure richiedo (è una domanda che già rivolsi al Ministro dell’interno) che si intervenga nella incresciosa questione (è una digressione, ma entra a proposito) della casa repubblicana delle Torrette, e che intanto si provveda, almeno, a prorogare i termini di sfratto (c’è infatti un decreto di sfratto) fino a che non venga quella legge che il Ministro ci dice che è in corso di studio. Se si lasciano le cose allo stato in cui sono si determineranno gravissimi incidenti.

Avevo chiesto al Ministro, avevo chiesto al Prefetto e ne avevo avuto assicurazioni, che per lo meno si concedesse una proroga agli atti esecutivi di sfratto in attesa del decreto legislativo. Ora, invece, sono stato informato proprio in data di ieri che il Prefetto ha accordato ai nostri amici appena altri 10 giorni di tempo.

E in dieci giorni di tempo non credo che il Governo emanerà la legge sanatrice di questa situazione assolutamente intollerabile. Bisogna quindi (e qui mi rivolgo non al Ministro delle finanze, ma al Ministro dell’interno) che si intervenga subito per evitare che, prima che le questioni vengano sanate con provvedimenti legislativi, avvengano incidenti che potranno avere gravi ripercussioni.

Per la questione poi che ha dato luogo alla mia interrogazione, prego il Ministro perché, in attesa dei provvedimenti che verranno, quando verranno, dia intanto istruzioni all’Amministrazione finanziaria, perché per la casa del fascio di Iesi – sempre per la parte che si riferisce al prezzo del terreno – il Comune sia autorizzato a versare una somma, sia pure ragguagliata, uguale a quella che ha incassato al momento in cui dovette cedere il terreno.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Persico, al Ministro di grazia e giustizia, «per sapere se non intenda emanare opportune disposizioni perché l’articolo 283 del Regolamento per gli Istituti di prevenzione e di pena 18 giugno 1931, n. 787, venga opportunamente modificato, o almeno interpretato cum grano salis, onde impedire la possibilità del ripetersi di casi che – come quello del pazzo omicida Bruno Strolighi – offendono la morale e mettono in serio pericolo la tranquillità pubblica e privata».

L’onorevole Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di rispondere.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Ringrazio l’onorevole Persico, esimio avvocato penalista e cultore di scienze criminali, per aver portato nell’Assemblea le considerazioni sull’articolo 283 del Regolamento per gli Istituti di prevenzione e di pena del 1931, in occasione del caso Strolighi, del quale non so se tutti i colleghi residenti nelle diverse parti d’Italia hanno conosciuto le ripercussioni che ha avuto sulla stampa romana durante il periodo estivo.

Per quanto riguarda i principî generali cui si riferisce la interrogazione, è noto a voi tutti che il nostro sistema penale si basa sul principio della responsabilità e su quello della pericolosità. E, in relazione a questi principî, viene stabilito il sistema delle pene, per quello che si riferisce alla responsabilità dei reati, e il sistema delle misure preventive e di sicurezza, per quello che riguarda la pericolosità.

Su questo indirizzo, che ha cercato di associare e di distinguere quelli che sono stati i postulati di tutta la scienza criminale al riguardo, si è avviato il nostro sistema penale, in modo che, mentre la responsabilità del reato porta la pena – che ha carattere prevalentemente punitivo e, in forma secondaria, correttivo – invece, per la pericolosità, il sistema si inverte e, anzi, segue esclusivamente il concetto della cura di coloro i quali sono stati colpiti da questa situazione di pericolosità sociale. Questo indirizzo e questa sistemazione del nostro ordinamento penale porta a queste conseguenze, fra le altre: che mentre il sistema delle pene è un sistema continuativo, senza interruzioni – per quanto qualcuno voglia stabilire che anche in questo campo bisognerebbe entrare in un indirizzo più curativo, e quindi intervenire con la possibilità di interruzioni – invece nel sistema delle misure di sicurezza detentive è penetrato ed è stabilito nel nostro ordinamento il principio dell’interruzione attraverso forme di licenze che sono disciplinate nel nostro sistema dagli articoli 278 e 283.

Circa l’opportunità di tale principio voi avete visto anche durante quella polemica che c’è stato l’intervento di un cappellano militare, il quale ha detto quale beneficio porta in questi internati la possibilità dell’esercizio di questa misura che è un premio per la loro condotta, un premio per la possibilità di mostrarsi già curato; d’altra parte c’è tutta un’attività di tanti e tanti scienziati che hanno cooperato perché fosse introdotto questo istituto nel nostro sistema penitenziario.

Due sono i tipi di licenze che si possono accordare. L’uno è quello previsto dall’articolo 278, e si tratta di una vera e propria licenza di ricompensa, come nello stesso articolo è denominata. Essa viene concessa quando il detenuto abbia mostrato, per la propria condotta e per le condizioni psichiche e sanitarie, di essere in condizioni di non pericolosità nei riguardi dei terzi.

V’è poi una seconda forma di licenza che è quella prevista dall’articolo 283, la quale è fondata su motivi gravi e speciali, personali o di famiglia, ma anche questa non viene concessa se non quando il giudice della sorveglianza, che è colui che disciplina e mantiene le garanzie sociali nei confronti di questi internati – si tratta normalmente di uno psichiatra – assicuri che l’individuo non è pericoloso.

Ora, in questo quadro generale, l’amministrazione della giustizia assicura che in tutta l’applicazione dell’esercizio di questa misura, non si è mai dato luogo ad alcun inconveniente.

E veniamo ora al caso Strolighi. Il caso Strolighi rientra in queste disposizioni generali. Il giudice di sorveglianza del manicomio criminale di Montelupo Fiorentino ritenne, sotto la sua responsabilità, dopo aver avuto anche il parere del direttore di quel manicomio, che è uno dei più rinomati psichiatri, il professor Quadrino, che lo Strolighi non fosse in condizioni di pericolosità. Pertanto, poiché correva la circostanza che la madre dello Strolighi era moribonda, egli concesse allo stesso una licenza di quindici giorni. Questo fatto destò un allarme non lieve nella pubblica opinione, perché indubbiamente il delitto che lo sciagurato aveva commesso era gravissimo: egli aveva ucciso una bambina di cinque anni. Poiché però era stato ritenuto che egli in quel momento non fosse «compos sui» fu condannato a dieci anni di custodia in un manicomio criminale.

D’altra parte, onorevoli colleghi, durante i cinque anni già dal medesimo scontati, egli aveva tenuto buona condotta, né è da pensare che durante il periodo in cui l’internato fruisce di una licenza egli possa considerarsi completamente libero: esso è sempre, al contrario, accompagnato dal foglio di via e deve fornire le necessarie informazioni alla pubblica sicurezza. La licenza quindi è sempre revocabile.

È perciò che io, non appena mi resi conto che la stampa aveva dato un grande rilievo a questo fatto e che tale licenza aveva suscitato nell’opinione pubblica una non favorevole impressione, feci immediatamente quello che ritenni essere il mio dovere: telegrafai cioè al procuratore generale di Firenze, consigliandogli di revocare la licenza in base all’ultimo comma dell’articolo 283.

Ma ebbi per risposta dal procuratore generale che, interrogato il giudice di sorveglianza e non risultando che durante la parte di licenza di cui il detenuto aveva già fruito egli avesse dato motivi di lagnanza o di sospetto di pericolosità, non si riteneva vi fossero gli estremi per procedere alla revoca della licenza.

Che cosa è accaduto invece allo Strolighi durante la sua licenza? È accaduto che sulla sua psiche ha influito questa eccessiva campagna di stampa. Questo l’ha portato al tentativo di suicidio, sotto l’incubo di dover tornare nel manicomio, che riteneva un luogo eccessivamente grave per lui. Lo Strolighi, dopo questo tentativo di suicidio fu internato in un ospedale, sotto sorveglianza; ed ho avuto assicurazioni che ora è in condizioni di viaggiare e che rientrerà al Manicomio criminale di Montelupo Fiorentino. Questo è il fatto.

Deduzioni dal fatto. Possiamo per questo episodio, che poi non ha presentato alcuna pericolosità sociale, venire a modificare le norme che hanno formato l’indirizzo ormai del sistema penale nostro? È una questione che non possiamo risolvere in un’interrogazione. Penso che sia stato interessante, e mi ha fatto piacere, di poter portare all’Assemblea i chiarimenti su questo fatto, di cui in questo periodo l’opinione pubblica si è molto interessata; ad ogni modo, siccome c’è una Commissione, nominata dal mio predecessore, per studiare la riforma carceraria, questa potrebbe essere una questione da mettere sul tappeto: cioè se questo articolo 283, non per tutti coloro che sono sottoposti a misure di sicurezza detentiva, ma limitatamente a coloro che si trovano nei manicomi criminali, sia o no da conservare. In questi limiti si potrebbe esaminare la questione.

D’altra parte, come Ministro responsabile ho diramato una circolare, perché tutti i giudici di sorveglianza siano molto accorti e cauti nel dare le licenze in base all’articolo 283. Non ho altro da aggiungere al riguardo, e spero che l’onorevole. Persico sia rimasto sodisfatto delle mie dichiarazioni. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Persico ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

PERSICO. Onorevoli colleghi, ringrazio vivamente il Ministro di grazia e giustizia per la sua ampia, esauriente e chiara risposta. Però ritengo doveroso intrattenere per pochi minuti i colleghi sulla gravità del fatto e sulle conseguenze che dobbiamo trarne.

Nessuno più di me è difensore della teoria dell’emenda, della correzione e della cura di quelli che noi chiamiamo «delinquenti» e che io ritengo siano soltanto o dei malati o degli antisociali. Io, anzi, credo che anche il Codice penale debba essere profondamente modificato e che non si debba più parlare di pene, ma di ospedali di criminalità, dove questi malati, o dalla nascita, o diventati tali in condizioni speciali di ambiente e sociali, devono essere curati, riadattati, se possibile, alla vita sociale.

Però il fatto dello Strolighi richiama la nostra attenzione per le sue peculiarità. Si tratta di un individuo che da bambino cominciò ad avere parecchi processi per furto e da giovinetto, un giorno, si fece condurre in tassì ad Ostia, con la scusa di trovare una parente malata – pare che questi parenti malati siano la sua specialità – e al ritorno, non sapendo come pagare l’autista, gli sparò un colpo di rivoltella alle spalle, che fortunatamente non lo uccise, ma lo ferì gravemente. Fu ritenuto delinquente per tendenza dalla Corte d’Assise la quale lo condannò a dieci anni di detenzione nella Colonia penale agricola di Asinara. Dopo quattro anni fu liberato.

Tornato a Roma, sposò una donna, egli dice, contro la sua volontà; ed ora ha scritto anche un memoriale (che un giornale di Roma ha fatto male a pubblicare) in cui minaccia di uccidere la moglie e l’amante della moglie. Un giorno allontana la moglie di casa, dicendole di andare a comperare del vino. (Pare che non ce ne fosse bisogno, perché il vino c’era in casa). In casa si trovava una nipotina, di cinque anni; un amore di bimba, che giocava. Egli la piglia, le avvolge il collo con un asciugamano, la strozza, e ancora viva la chiude in una cassa; si siede sulla cassa fino a che ha la certezza che sia morta. E quando viene la moglie, la minaccia, dicendole: «Ecco la bambina, l’ho uccisa. Se mi denunci, uccido anche te». Portato il processo in istruttoria, fu mandato al Manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino, dove adesso si trova, per la perizia. Io ho voluto leggere tutto il processo. La perizia concluse ritenendo non imputabile lo Strologhi, ma socialmente pericoloso perché affetto da schizofrenia (si ritenne uno schizofrenico, ma pare che sia stata una diagnosi poco esatta, perché voi sapete che lo schizofrenico è un demente precoce).

La schizofrenia è una demenza precoce che finisce con l’idiozia e la schizofrenia determina sempre la condotta più strana e bizzarra ed è favorevole terreno a reati di sangue.

È stato allora rinchiuso senza processo come non imputabile a Montelupo Fiorentino. Da lì è evaso quando gli alleati passarono per la zona. Venne a Roma: ciò con turbamento enorme nella famiglia della bambina uccisa, perché in essa vi sono altri due bambini, e si temeva che potessero venire uccisi. Fu ripreso e riportato in manicomio. Viene ora il giudice di sorveglianza e gli dà una licenza, in base all’articolo 283; dà una licenza a questo pazzo pericoloso che ha una forma di infermità mentale, la schizofrenia, che costituisce il terreno adatto ai più gravi reati di sangue. E lo si manda dove? Nel suo ambiente, dove ci sono tutti i parenti di quella nipotina uccisa, col pretesto della malattia della madre, dico pretesto, perché pare che la madre non sia stata mai gravemente malata e certo non è morta! Fu visto passeggiare per il Corso Umberto dal padre della bambina uccisa. Se questo padre lo avesse ucciso, che cosa avremmo fatto noi? Lo avremmo condannato? Evidentemente no.

Quindi è evidente che l’articolo 283 non può essere applicato in questo senso latissimo. Del resto, il Ministro Rocco, nella sua relazione al re, si esprime così: «Si comprende perciò, di leggieri, che la disposizione è applicabile soprattutto agli internati nelle colonie agricole, nelle case di lavoro e nei riformatori, ma non è escluso che si verifichino casi eccezionali nei quali possa applicarsi anche agli internati nei manicomi e nelle case di cura e di custodia. Data la brevità ed il carattere della licenza, non mi è sembrato opportuno sottoporre l’internato in tale periodo di tempo a libertà vigilata». Il pazzo rimane dunque perfettamente libero! Allora io dico: stiamo a vedere quello che farà la Commissione per la riforma delle nostre leggi penitenziarie. Ma pregherei che, da parte del Ministro, si facesse una circolare perché i giudici di sorveglianza siano più cauti nel dare queste licenze, onde evitare che domani possiamo trovarci in tram o per via a fianco di un pazzo criminale, schizofrenico, che estragga un coltello e ce lo pianti in cuore, solamente perché la sua schizofrenia lo porta a compiere atti simili.

I colleghi medici presenti sanno meglio di me cosa è la schizofrenia e non potranno dolersi se ne parlo io, quantunque profano di medicina.

Quindi, ringrazio il Ministro di quello che ha dichiarato e lo prego di voler affrettare i lavori di questa Commissione di riforma, anche perché, nella futura legislazione penale, è molto importante che il trattamento dei detenuti sia profondamente riveduto e modificato. (Applausi).

BERTONE. Chi ha mandato il certificato attestante che la madre era malata? La cosa è molto delicata e grave. Se si è dimesso questo malato in condizioni così spaventose, dev’essere arrivato al manicomio un certificato attestante la malattia della madre. Se il certificato è falso chi l’ha mandato?

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. C’è un certificato.

BERTONE. È un certificato falso. E allora chi l’ha mandato?

PRESIDENTE. Passiamo all’interrogazione dell’onorevole Colitto, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed ai Ministri delle finanze e del tesoro, «per sapere se non ritengano indilazionabile ormai – a due anni dalla fine della guerra – di affrontare e risolvere il problema del risarcimento danni di guerra e della ricostruzione nazionale, tenendo presenti le proposte contenute nella Relazione predisposta per iniziativa del Comitato studi danni di guerra di Genova e distribuita ai membri della Camera, e cioè: che sia sancito il principio per cui chiunque sia stato danneggiato dalla guerra ha diritto al risarcimento da parte dello Stato, in base ad un concetto mutualistico accettato anche dalle Carte costituzionali straniere, come quella francese; che pertanto vengano immediatamente ricostituite le Commissioni provinciali di accertamento e liquidazione danni guerra; che si provveda a pagare subito, in contanti, i danni più lievi; venendo così incontro al più presto ai più bisognosi; che per i danni più gravi si provveda mediante il rilascio di fedi di credito scontabili ed ammortizzabili da parte dello Stato; che il recupero dei fondi occorrenti per tali pagamenti venga fatto mediante imposta o meno, per un numero di anni da determinarsi; e che a tale scopo venga costituito un fondo autonomo dal bilancio ordinario in modo che si esaurisca con l’assolvimento del suo compito speciale, senza interferenze con l’ordinaria contabilità».

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di rispondere.

PELLA, Ministro delle finanze. Ho l’onore di rispondere non per conto delle Finanze, ma per conto del Ministro del tesoro, impossibilitato ad intervenire questa mattina. In ordine all’interrogazione dell’onorevole Colitto, faccio presente che è intendimento del Governo di affrontare in modo organico il problema del risarcimento dei danni sofferti dai privati, persone fisiche e giuridiche, a causa degli eventi bellici, come risulta dalle dichiarazioni fatte all’Assemblea Costituente dallo stesso Presidente del Consiglio onorevole De Gasperi, che alla necessità di addivenire ad una soluzione dell’importante problema ha fatto esplicito accenno.

Quanto alle linee del disegno di legge, che dovrà raccogliere e coordinare in una specie di testo unico le molte norme sinora emanate in materia, a richiesta di vari Ministeri, non è possibile assicurare che esse saranno conformi alle proposte contenute nella relazione predisposta per iniziativa del Comitato studi danni di guerra di Genova, anche perché di tali proposte, più o meno pregevoli, ad iniziativa di enti, associazioni, esperti della materia, studiosi, ne sono pervenute e ne pervengono tuttora in gran copia.

Di tutte queste proposte il Ministero del tesoro terrà debito conto nella compilazione del disegno di legge che, dopo l’approvazione del Consiglio dei Ministri, sarà sottoposto all’Assemblea Costituente, alla quale spetta fissare le linee definitive.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

COLITTO. Sono purtroppo dolente di dover dichiarare che la risposta dell’onorevole Ministro non mi ha sodisfatto. Io vivevo nell’attesa di una parola che, almeno dopo quattro anni, durante i quali si sono formulati voti, si sono inviati memoriali, si sono redatti progetti, alleviasse un po’ le pene di milioni di italiani; ma con stupore e con dolore ho dovuto constatare che quella parola neppure oggi è stata pronunciata e che siamo sempre, purtroppo, pressoché al punto di partenza. Il che non è davvero confortante, anzi – oso dire – è esasperante.

Mi rendo conto dell’impossibilità, nella quale nel giugno 1944 il Governo si trovò, di continuare ad applicare la legge del 1940; ma non comprendo come mai da quell’epoca tutti i Governi si siano completamente disinteressati della materia. Venne sospesa l’applicazione di quella legge; ma non si provvide a sostituirla con un’altra. Nel novembre del 1944 il Governo si decise a concedere il famoso sblocco degli acconti per i danni ai mobili di abitazioni ed oggetti di vestiario, che,secondo le intenzioni del compianto Ministro Soleri formalmente espresse nelle circolari del 18 novembre 1944 e del 12 gennaio 1945, avrebbe dovuto recare un soccorso immediato ai danneggiati, che avevano perduto le cose più strettamente indispensabili alla vita. Ma tutti sanno che tale provvedimento ha mancato – si può dire, completamente – ai suoi pur modesti scopi, come ebbe a riconoscere lo stesso Sottosegretario per i danni di guerra onorevole Braschi, quando affermò che il sistema degli acconti era riuscito soltanto ad «esasperare» i danneggiati. Il numero, infatti, delle liquidazioni di acconto, effettuate durante tre lunghissimi anni di attesa, non sembra abbia raggiunto il 40 per cento delle domande presentate, senza dire che l’importo di ciascun acconto è stato così esiguo da non superare il livello medio delle 15 mila lire, sulla cui capacità di acquisto, ai fini della ricostruzione dei beni indispensabili alla vita, è del tutto inutile che io mi soffermi.

È altresì noto che nessun provvedimento è stato mai preso per la concessione di acconti sull’importo dei danni recati dalle operazioni belliche ai mobili commerciali ed industriali, fra i quali gli stessi attrezzi di lavoro degli artigiani e dei professionisti.

E, quanto al risarcimento dei danni ai beni immobili, nessuno ignora che per gli stabilimenti industriali lo Stato si è sempre trincerato dietro il paravento di dati astronomici riguardanti i relativi oneri; e per i fabbricati urbani e precisamente per la ricostruzione degli immobili urbani popolari, i provvedimenti presi sono stati assolutamente inadeguati.

Le disposizioni successivamente emanate, che vanno sotto il nome di «leggi per i senza tetto», non hanno avuto l’effetto desiderato di incrementare effettivamente le ricostruzioni. Nel campo dell’agricoltura e degli altri settori facenti capo ad amministrazioni diverse da quella finanziaria – come per il caso dei danni in Africa – anche se i mezzi sono stati limitatissimi, si è riscontrata una certa maggiore sensibilità ed aderenza a taluni specifici bisogni dei danneggiati. Ciò ha concorso, però, a frazionare gli sforzi, le disposizioni e le iniziative, dando luogo ad una regolamentazione del danno di guerra sporadica e disordinata.

Che cosa intende ora fare il Governo per venire efficacemente incontro ai bisogni dei danneggiati di guerra?

Occorre evidentemente una legge ed un organo che sia insieme propulsore e coordinatore, come quello che esiste in Francia, in Inghilterra ed in altre Nazioni. Ora, quanto alla legge, si dice che sia stato preparato un progetto; ma nessuno è riuscito ancora a levarlo dagli archivi ministeriali per portarlo alla luce della pubblica discussione e, quanto all’organo, lo si è soppresso, allorché, invece, andava potenziato.

Io mi permetto di esortare ancora una volta il Governo ad affrontare il problema ed a risolverlo.

Non esagero, se affermo che trattasi per il Governo dell’adempimento di un imprescindibile dovere.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Numeroso, De Michele e Caso al Ministro della difesa, «per conoscere quale fondamento abbiano le notizie secondo cui l’Accademia dell’aeronautica non sarebbe trasferita per il prossimo anno scolastico nella sua antica sede di Caserta e ciò in contrasto con le esplicite assicurazioni fatte anche recentemente dall’onorevole Ministro a una rappresentanza del personale. Il Comitato della predetta Accademia, ora a Nisida, avrebbe fatto ritirare in questi giorni dalla sede di Caserta macchinari di officina e materiali vari per installarli a Nisida con spese e lavoro completamente inutili, tenuto conto del trasferimento a Caserta per il prossimo anno scolastico».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la difesa ha facoltà di rispondere.

CHATRIAN, Sottosegretario di Stato per la difesa. Allo scopo di garantire l’assoluta obiettività nella determinazione da adottare circa il trasferimento dell’Accademia aeronautica, l’ex Ministro della difesa onorevole Gasparotto nominò una Commissione, composta degli onorevoli Gustavo Colonnetti, Concetto Marchesi e Ottavio Condorelli e dei generali Vittorio Giovine, Domenico Ludovico e Bruno Borghetti. La suddetta Commissione, alla quale peraltro era stato raccomandato di sentire le autorità e gli enti delle provincie interessate al problema, ha ultimato i suoi lavori e presentato le sue conclusioni, favorevoli, a maggioranza di voti, al ritorno dell’Accademia aeronautica a Caserta.

Sono state date quindi immediatamente disposizioni, perché venisse attuato il trasferimento dell’Accademia.

È, peraltro, necessario procedere prima ad alcuni lavori di ripristino e di adattamento dei locali; e, quindi, la data del trasferimento rimane unicamente subordinata al tempo necessario per ultimare tali lavori, che saranno condotti con la massima possibile sollecitudine.

Quanto alla seconda parte dell’interrogazione, il Comando dell’Accademia ha telegraficamente assicurato che nessun materiale è stato trasportato dai locali di Caserta a Nisida o altrove e che le disposizioni al riguardo, impartite dal Ministro della difesa, vengono scrupolosamente osservate.

PRESIDENTE. L’onorevole Caso ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CASO. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario di Stato per la difesa delle assicurazioni datemi. Debbo dichiararmi invero solo parzialmente sodisfatto. Non vedo la necessità di subordinare l’eventuale rinvio dell’anno scolastico alla esecuzione dei lavori, che sono di scarsa importanza. Data la vastità degli ambienti dell’ex Palazzo reale di Caserta e considerata la scarsa entità dei lavori da eseguirsi, sono sicuro che l’onorevole Ministro della difesa vorrà fare in modo che si inizi l’anno scolastico dell’Accademia aeronautica a Caserta e si appaltino celermente i lavori, la cui esecuzione potrebbe anche proseguire ad attività scolastica iniziata. La provincia di Caserta è grata al Ministro per avere ridato alla città capoluogo la sua Accademia e desidera ora di vederla viva e vitale per custodirla come un privilegio e come sua gloria.

PRESIDENTE. È così esaurito lo svolgimento delle interrogazioni all’ordine del giorno.

Svolgimento di interrogazione con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. L’onorevole Stella ha presentato la seguente interrogazione urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri ed ai Ministri di grazia e giustizia e dell’agricoltura e foreste, per sapere se non ritengano opportuno concedere la libertà provvisoria ai contadini arrestati per inadempienza agli ammassi; e ciò al fine di poter effettuare le semine autunnali».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Posso rispondere subito.

Nel decreto che regola l’ammasso del grano per la corrente campagna sono già largamente previsti i casi in cui può esser concessa la libertà provvisoria.. Essa può essere concessa in tutti quei casi in cui l’entità dell’infrazione può far ritenere che il quantitativo sottratto sia destinato soltanto allo scopo di alimentazione della famiglia.

In questa disposizione possono rientrare, evidentemente, numerosissimi casi; ed è rimesso al potere discrezionale dell’Autorità giudiziaria di interpretare la norma con quella larghezza che la può rendere adatta alle varie circostanze.

Per i casi più gravi di evasione, cioè di evasori che, in un momento alimentare così difficile per la Nazione, vogliono destinare il grano al mercato nero, sottraendosi al loro dovere per puro scopo speculativo, ritengo che non si possa concedere il beneficio della libertà provvisoria. Mi pare quindi che le misure vigenti siano sufficienti per consentire una relativa clemenza verso tutti coloro i quali hanno contravvenuto nei casi di minore importanza. Per gli altri casi non si può usare la stessa larghezza, che si tradurrebbe in un incoraggiamento a future evasioni, ciò che noi in questo momento non possiamo e non dobbiamo assolutamente consentire di fronte alla deficienza del raccolto nazionale e di quello internazionale e di fronte alle gravi difficoltà alimentari che il Paese dovrà superare nei prossimi mesi.

PRESIDENTE. L’onorevole Stella ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

STELLA. Io non intendo difendere coloro che hanno tentato di fare delle speculazioni; mi preoccupo di quelli che sono gli interessi collettivi. Ci sono aziende di una discreta importanza che non hanno uomini per fare la semina.

SILIPO. Chi lo dice? Non sono tutti in prigione.

STELLA. Io ritengo che nell’interesse della collettività (ripeto che non intendo difendere coloro che hanno cercato di fare borsanera) si debba concedere la libertà provvisoria perché le semine possano essere effettuate.

SILIPO. A tutti dovrebbe essere concessa?

UBERTI. Non a tutti! Si esaminerà caso per caso.

STELLA. Logicamente, se in qualche azienda vi saranno coloro che possono accudire alla semina, non si darà luogo a libertà provvisoria.

Costoro che sono stati inadempienti, secondo le nuove disposizioni per l’anno venturo, saranno i premiati in quanto, avendo quest’anno nascosto i loro prodotti, figureranno di avere ottenuto una superproduzione, solo perché hanno conferito all’ammasso quel tanto che i Comitati di agricoltura hanno stabilito di conferire.

SILIPO. Ed alimentano il mercato nero!

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Escludo che gli evasori siano premiati dalle nuove norme di ammasso per contingente: lo escludo in modo tassativo. L’ammasso per contingente non va a premiare gli evasori all’ammasso dell’anno in corso, o dei precedenti. Il sistema è congegnato in modo da evitare questo inconveniente gravissimo.

In quanto alle contravvenzioni alle norme sull’ammasso attuale, ripeto che le misure penali sono state così attenuate che non credo che le preoccupazioni dell’onorevole Stella possano avere ragion d’essere. Si potrà trattare di qualche caso isolato, da risolvere non con una misura generale ma individualmente. Io prego l’onorevole Stella di segnalarmi questi casi individuali per vedere se possiamo venire incontro alle giustificate esigenze di singole aziende.

Annunzio di interrogazioni e di una interpellanza con richiesta di urgenza.

PRESIDENTE. Sono pervenute alla Presidenza alcune altre interrogazioni ed una interpellanza con richiesta di urgenza. La prima interrogazione è quella dell’onorevole Mazza, al Ministro del tesoro:

«Per conoscere i motivi dell’ostinazione con la quale si escludono, dai decreti di equiparazione del carovita dei comuni viciniori di Napoli, quelli della penisola Sorrentina, compresi in un raggio di 25 chilometri e legati al centro da molteplici mezzi di trasporto marittimi e terrestri».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Interesserò il Ministro competente perché faccia sapere quando intenda rispondere.

PRESIDENTE. L’onorevole Di Gloria ha presentato la seguente interrogazione:

«Al Ministro della pubblica istruzione, per sapere in base a quale criterio saranno formate le commissioni esaminatrici dei candidati al concorso di cui al supplemento n. 1 della Gazzetta Ufficiale n. 158, del 14 luglio 1947».

Lo stesso onorevole Di Gloria ha presentato la seguente interpellanza al Ministro della pubblica istruzione:

«Per conoscere i motivi in base ai quali sono stati introdotti nel bando di concorso di cui al supplemento n. 1 della Gazzetta Ufficiale n. 158, del 14 luglio 1947, i paragrafi 4 e 6 (comma d)) ed il paragrafo 9 (comma 6°) evidentemente lesivi del buon diritto di ogni cittadino partecipante al concorso suindicato».

Il Ministro della pubblica istruzione mi ha fatto sapere di essere pronto a rispondere, sia all’interrogazione, che all’interpellanza, in una delle sedute successive a quella di lunedì prossimo.

Sull’ordine del giorno.

PRESIDENTE. Lunedi vi sarà seduta alle ore 16 con interrogazioni e interpellanze all’ordine del giorno.

Verranno svolte interpellanze presentate dagli onorevoli Silipo, Nobile, Cremaschi Olindo e Gavina; e interrogazioni degli onorevoli Laconi, Salerno, Mazza, Veroni, Mastino Pietro, Numeroso, Perugi, Vinciguerra, Franceschini, Martino Gaetano, Fiore, Giacchero, Caso, Canevari, Stampacchia, Rivera, Borsellino e Bulloni. Questi colleghi sono dunque avvertiti che lunedì loro interpellanze e interrogazioni saranno all’ordine del giorno.

Interrogazione.

PRESIDENTE. Si dia lettura di una interrogazione pervenuta alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere, in conformità ad altre precedenti interrogazioni presentate al riguardo, quando verranno iniziati i lavori di ricostruzione del tronco terminale Triflisco-Piedimonte d’Alife, distrutto dalla guerra, della ferrovia Napoli-Piedimonte.

«Ciò anche per ristabilire la verità di fronte alle varie voci messe in circolazione tra le laboriose popolazioni dell’Alifano, che hanno il massimo interesse a veder risorgere al più presto la ferrovia, che è per loro condizione essenziale di vita e di sviluppo economico. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

PRESIDENTE: L’interrogazione testé letta sarà trasmessa al Ministro competente per la risposta scritta.

La seduta termina alle 11.55.

Ordine del giorno per la seduta di lunedì 22 settembre 7947.

Alle ore 16:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Svolgimento di interpellanze.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 19 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccxxvi.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 19 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE BOSCO LUCARELLI

INDICE

Congedo:

Presidente

Comunicazione del Presidente:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Conti, Relatore

Tosato, Relatore

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione

Sull’ordine dei lavori:

Presidente

Monticelli

Lussu

Russo Perez

La Rocca

Interpellanza e interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Cingolani, Ministro della difesa

Sui lavori delle Commissioni permanenti per l’esame dei disegni di legge:

Presidente

Mastino Pietro

Sull’ordine del giorno:

Presidente

Mastino Pietro

Cingolani, Ministro della difesa

Tonetti

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Quintieri Adolfo.

(È concesso).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che ho chiamato a far parte della terza Commissione permanente per l’esame dei disegni di legge l’onorevole Donati, in sostituzione del compianto onorevole Bassano.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana. Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore Conti.

CONTI. Relatore. Onorevoli colleghi. Io sono molto affezionato all’amico onorevole Tosato; sono un suo ammiratore e soffrirei nel vederlo costretto a rivolgere la parola all’Assemblea, e cioè ai pochi Deputati presenti, mentre gli altri hanno preso evidentemente congedo. Perciò tollererete che io dica due parole che potrei considerare introduttive della relazione del collega Tosato, introduttive anche perché ritengo di poter dire, se Tosato me lo consente, che sono in gran parte d’accordo con lui nella tesi che sosterrà intorno alla struttura del potere esecutivo.

Ma io vi dirò altre cose che non sono proprio quelle che si attendono dai Relatori, cioè esposizioni di vedute e discussione delle opinioni degli altri.

Se noi dovessimo metterci a discutere tutto quello che si è detto qui dentro, tutte le teorie che sono state esposte, tutti i pareri, tutte le opinioni, tutte le particolarità che si sono dette intorno ad ogni istituto ed a ogni situazione politica che potrà derivare dalla nostra Costituzione, evidentemente correremmo dietro ad una quantità di cose anche inutili.

Vi voglio fare alcune confessioni. Mi permetterete di farle come repubblicano storico, cioè come uno dei custodi della Sacra Falange. Io vi dico che dal testo costituzionale non mi aspetto affatto la fondazione della Repubblica. Per me la Repubblica non c’è ancora; lo dissi un giorno interrompendo l’onorevole Nitti: la Repubblica non esiste. È caduta la monarchia; ed io vi dico che per me, repubblicano di convinzioni antiche, è la caduta della monarchia che soprattutto ha un significato profondo, una importanza storica grandiosa. So benissimo che moltissimi non sentono come me il valore di questo avvenimento. I repubblicani di oggi, cioè coloro che hanno accettato la Repubblica a fatto compiuto (ed io mi compiaccio grandemente di questo fatto, ormai molto diffuso nella vita del nostro Paese), i nuovi repubblicani non danno la stessa importanza che io do al fatto della caduta della monarchia.

Non si capiva e non si sentiva da molti che cosa rappresentasse la monarchia in Italia e che cosa rappresentino le monarchie, anche le poche monarchie residuate in Europa. Sono un grave ostacolo al progresso.

Una voce. La Svezia?

CONTI. Compresa la Svezia. I popoli liberi sono liberi quando non hanno nessuno di fronte che condivida la sovranità: questo è il punto. (Vedete che non ho sbagliato a dire che i nuovi repubblicani sono repubblicani convinti fino ad un certo punto).

Il fatto dunque della caduta della monarchia ha, per me, più importanza della fondazione della Repubblica in virtù di un testo costituzionale. Io do pochissima importanza a tutti gli articoli che sono stati scritti, a tutti gli articoli che sono stati approvati ed a quelli che saranno approvati. Do pochissima importanza a tutti gli articoli che sono stati approvati. Tutta la prima parte della nostra Costituzione è una novella, un capitolo di romanzo. Io accetto tutto, perché non mi par vero che ci sia un punto di partenza per poter camminare avanti; ma la prima parte della Costituzione non ha nessuna importanza perché è tutta una raccolta di affermazioni di principio: è stato detto e ripetuto da molti qua dentro, molto autorevolmente, che essa è tutta una serie di affermazioni campate in aria. Non serviranno gran che.

Formulo perciò l’augurio che l’Assemblea, quando avrà compiuto il lavoro principale con l’approvazione di tutto il testo, quando si concentrerà un po’ in se stessa, e rivolgerà l’occhio sul complesso dell’opera, torni a discutere una proposta che fu fatta in un primo tempo, mi pare, dall’onorevole Calamandrei: di rivedere tutto e di considerare con molta serietà e attenzione se non sia il caso di trasferire in un ben fatto preambolo una quantità di formulazioni che sono in altrettanti articoli della nostra Costituzione.

L’onorevole Nitti diceva l’altro giorno, giustamente, che dopo molto divagare, siamo finalmente arrivati ad esaminare la parte del progetto che si riferisce alla Costituzione della Repubblica. Io vi ripeto quanto ho detto prima: anche a questa parte do pochissima importanza.

Che volete! Credete proprio che con gli articoli della Costituzione, sarà davvero costituito il Parlamento? Credete fatto il Parlamento perché abbiamo scritto quegli articoli? Io non lo credo assolutamente. Perciò ho sentito con molto scetticismo tutto quanto è stato detto intorno al funzionamento della futura Camera e del futuro Senato. Articolo A, articolo B, articolo C: con l’articolo A si provvede a determinata funzione, col B ad altra funzione, col C ad altra funzione ancora! Si provvederà a tutto e non si provvederà a niente; perché chi provvederà all’utile funzionamento di questo ente rappresentativo, del Parlamento, saranno i deputati. E se i deputati non saranno uomini preparati alla loro funzione ed uomini di grande coscienza e consapevolezza, essi non saranno diversi da quelli che sono stati in Italia nel passato e – permettetemi di dirlo – anche nel presente. Dobbiamo confessare tranquillamente i nostri difetti. Se non ci sarà mutamento di costumi, se l’educazione politica non sarà diversa da quella che abbiamo avuto e che è diffusa nel Paese, è da ritenere che, comunque organizzato, il Parlamento funzionerà poco, funzionerà male: raramente funzionerà bene.

Vedo avanti a me l’onorevole Rubilli, che ha celebrato i Parlamenti del passato. Non capisco come Rubilli, che è uomo di tanta serietà e consapevolezza, voglia farsi propagandista di questa leggenda; perché di leggenda si tratta!

Oh! la Camera dei deputati del passato! Oh! la Camera pre-fascista! No, onorevole Rubilli, basta con queste esclamazioni… non ne parliamo affatto della Camera del passato: essa ha avuto tutti i difetti dell’Assemblea attuale. Il parlamentarismo invase il Parlamento. Il Paese ha sempre avuto risultanze negative, in modo assoluto negative. Ho avuto occasione di dirlo altre volte; tengo moltissimo a fare di nuovo questa affermazione, perché è affermazione che ci deve guidare ad essere migliori nell’avvenire.

Credo – e qui mi piace di contrastare con la tenacia di alcuni colleghi, con l’ostinata avversione di alcuni colleghi (ne ho due di fronte, coi quali mi trovo spesso in conflitto, simpaticissimo; l’amico Targetti e l’onorevole Nitti) – credo che l’Assemblea abbia provveduto a salvare il sistema rappresentativo con l’istituzione della Regione. È questo veramente l’unico provvedimento utile per portare il Parlamento su altra via. Con la organizzazione delle Regioni si è giunti probabilmente ad un avviamento del sistema rappresentativo, ad un avviamento nuovo. Se metteremo della buona volontà, se non si svilupperanno ostruzionismi, noi raggiungeremo, anzitutto, con la istituzione delle Regioni una certa deflazione legislativa. Ed allora molti inconvenienti del sistema passato potranno essere eliminati. Il Parlamento è istituito per far leggi, ma meno ne farà e tanto meglio sarà per il Paese.

Ma non basta l’avere creato la Regione. È necessario che noi andiamo coraggiosamente verso un provvedimento che può essere doloroso per molti, almeno a prima vista, ma che deve essere adottato se qui seggono deputati che vogliono servire il Paese più pensosi del suo destino che non della propria sorte elettorale. Se non si ritorna qui, non cade il mondo: bisogna invece provvedere ad organizzare la prossima Camera dei deputati in modo serio. Mi riferisco ad una necessità, a quella della riduzione del numero dei deputati.

Non è possibile pensare a una Camera legislativa composta di sei o settecento deputati; sarebbe un errore anche pensare che essa debba essere composta di cinquecento deputati; per me sarebbe un errore comporla di quattrocento deputati. Bisogna ridurre il numero e vi dico subito che voterò a quattro mani l’emendamento per il quale si propone, in via transitoria, che una parte degli eletti di questa Assemblea, deputati di non so quante legislature, passino di diritto al primo Senato. Ecco qua sessanta o settanta nemici della riduzione del numero, che io spero di eliminare con l’approvazione di un siffatto emendamento. (Commenti). Molti potranno andare al Senato: porteranno nel nuovo consesso la loro esperienza tecnica. Dico agli altri: facciamoci coraggio, provvediamo seriamente agli interessi del Paese e riduciamo il numero dei deputati. Le Assemblee numerose sono Assemblee dannose al Paese.

Ieri, avendo l’intenzione di dire qualcosa, volli trascrivere per leggerlo a voi il parere di un nostro grande scienziato. Non sono un seguace gretto delle sue dottrine, ma della sua genialità non si può discutere: parlo di Cesare Lombroso. Ieri rileggevo questi suoi pensieri sulle Assemblee, questi due pensieri che mi sembra debbano esser tenuti presenti dall’Assemblea Costituente che deve deliberare sul numero: «una folla anche la meno eterogenea, anche la più eletta, quando deve deliberare dà una risultante che non è la somma, ma più spesso la sottrazione del pensiero dei più». Onorevoli colleghi, su questo pensiero si deve meditare.

Ecco un altro pensiero: «è un’osservazione volgare, passata in vecchio proverbio, che più sono i deliberanti, meno giusta e meno savia è la deliberazione che ne risulta, perché tutto quel sotto strato di pregiudizi, di vizi che si domano a furia di coltura dell’individuo, pullula e si fonde in triste veleno nelle Assemblee. È quanto accenna il proverbio: senatores boni viri, senatus mala bestia: cosicché il merito, nei consigli, è in ragione inversa del numero dei consiglieri». Evidentemente siamo di fronte a pensieri che devono costringere alla meditazione. Bisogna ridurre il numero dei deputati. Avremo così una Assemblea più snella e, se vogliamo davvero, come è nei voti, la costituzione di uno Stato in cui tutti gli organi rappresentativi abbiano vigore ed una grande autorità, dobbiamo tendere a fare della Camera dei deputati un’Assemblea nella quale la dignità, la cultura, se possibile, la sapienza siano immediatamente riconosciute dal Paese il giorno successivo alle elezioni. Non si deve dire: quanta gente che non vale nulla! Si deve riconoscere l’esistenza di un’Assemblea legislativa composta di uomini degni della loro funzione.

Questa è la mia opinione su questo punto, onorevoli colleghi.

È inutile che io mi fermi a dirvi la mia opinione intorno al funzionamento della Camera, se non ammettete che la Camera non funzionerà se sarà numerosissima; e se credete che riuscirà a funzionare per ben congegnati articoli della Costituzione. Ridotto il numero credo che potrà funzionare, se il regolamento della futura Camera non sarà più il regolamento attuale. Esso dovrà essere un altro che stabilisca modi semplici di lavoro per mezzo di Commissioni e di altri dispositivi atti a compiere l’opera legislativa. Se no, non cesserà mai la condizione di impotenza della Camera, denunciata dai nostri colleghi. Avete udito l’onorevole Clerici l’altro giorno. Lo avete udito richiamare fatti parlamentari del periodo leggendario del caro amico onorevole Rubilli. Io ho qui il resoconto stenografico perché desidero che i colleghi tornino a meditare le cose gravi dette dal collega Clerici: «Nella 23a legislatura su 820 decreti legislativi mandati dal Governo per la convalida, ne furono convalidati dal Parlamento appena 9». Desidero richiamare l’attenzione dei colleghi su queste cose dette dall’onorevole Clerici, anche perché possono essere sfuggite a molti. Per la foga oratoria del nostro collega possono essere state afferrate meno bene le sue parole dette tanto bene. Il collega Clerici così continuò: «Nella 24a legislatura, che va dal 1913 al 1919, furono approvati 396 disegni di legge sui 1181 che il Governo aveva trasmesso all’Assemblea. Nella 25a, che era Camera rinnovata e popolare con 200 deputati della sinistra e 100 del partito popolare, furono approvali solo 166 progetti di legge su 1139 presentati. Nella 26a che andò dal giugno al dicembre 1921, 106 su 1185».

Ed il Tittoni, nel suo noto saggio pubblicato dall’editore Zanichelli, dice che «se nel 1922 si ripensò di riparare all’inconveniente istituendo delle sedute mattutine accanto a quelle pomeridiane, si poté constatare allora che le sedute mattutine erano disertate e che i deputati presenti nell’aula non superarono mai il centinaio». Onorevoli colleghi, proprio come oggi! E vi posso fare anch’io testimonianza sull’assenteismo dei deputati dell’antica Camera. Discutendosi qui, nelle sedute antimeridiane, nel 1922 il progetto di legge sul latifondo siciliano (era allora Ministro dell’agricoltura l’onorevole Bertini, se non erro) venivamo alle sedute mattutine e ci trovavamo in sette, dieci, dodici presenti. Erano le stesse sedute che vediamo con occhio disperato la mattina quando entriamo qui dentro. Ed avevamo allora la Presidenza, niente di meno, che di Enrico De Nicola, di un uomo di cui si sentiva l’autorità ed il prestigio da lontano, e per il quale c’era una venerazione da parte di tutti noi. Non bastava neanche il grande prestigio di Enrico De Nicola a richiamare i deputati al compimento del loro dovere.

«La malattia è incurabile» direbbe un nostro grande pensatore, Giuseppe Ferrari, che, occupandosi di certi problemi italiani, diceva che in Italia vi sono malattie incurabili che neppure la provvidenza riuscirebbe a guarire!

Orbene, io dicevo prima che avremo una certa deflazione legislativa, col funzionamento delle Assemblee regionali, che l’avremo, se si potrà provvedere al funzionamento della Camera e del Senato con regolamentazione opportuna. Ma è certo che, se non mutano i costumi politici, se la Camera ed il Senato saranno sempre un’arena nella quale saranno portate mozioni a getto continuo per la politica del Governo, un giorno contro il governo rosso che non piace ai neri, l’altro giorno contro il governo nero che non piace ai rossi, se non si penserà che a questa ginnastica, che è, scusate, anche ridicola, in certi momenti, il Paese non provvederà ai propri interessi, ma andrà alla deriva, sempre, in ogni fase della sua vita. Ed è inutile che ci siano recriminazioni da destra e da sinistra, perché questa malattia è un’altra malattia incurabile, direbbe ancora una volta Giuseppe Ferrari.

Governo: su questa parte l’onorevole Tosato farà una relazione mirabile, chiara, limpida. Sosterrà idee che io condivido in gran parte, anzi quasi totalmente, dopo aver discusso con lui largamente in Commissione. Noi ci incontrammo nel concepire il sistema che egli esporrà. Si tratta di trovare il modo di far funzionare il Governo stabilmente, cioè con una certa continuità. Nessuno può governare, se non è tranquillo per un certo periodo e per l’attuazione di un certo programma.

Questo il punto di vista dal quale si parte. Problema quanto mai difficile in Italia. Non ne parliamo. Anche per un’altra ragione. Io ero convinto prima della caduta del fascismo, durante il periodo fascista, e lo sostenevo nelle discussioni con amici con i quali si parlava dell’avvenire, ero convinto, dicevo, della necessità della stabilità assoluta del Governo. Mi pareva che fosse un problema da risolversi nel modo più drastico. Il Governo deve essere fisso, deve scadere a termine, tre anni!

Tre anni di Governo; sarà quel che sarà, dicevo con convinzione. Ma si cambia opinione, si deve cambiare, quando si ragiona freddamente, serenamente su certi problemi. Un giorno esponevo questa mia veduta ad un mio amico magistrato, consigliere di Cassazione, cospiratore coraggioso nel periodo fascista. Io gli dicevo: stabilità, stabilità! Bisogna assolutamente riuscire a conquistare questa certezza.

Ah, esclamò quel Consigliere: In Italia! In Italia!

Capii subito! E posso dire che cambiai subito opinione. È vero, siamo in Italia, paese di camorristi!

Questa amara riflessione feci allora. Arriverò, oggi, a questa stessa conclusione in maniera più delicata, andrò più moderatamente alla stessa conclusione. Per i deputati pare non vi sia altra possibilità di sviluppo della propria personalità che diventando Ministri. Tutti vogliono essere Ministri e Sottosegretari. Conquistata una poltrona di un Ministero, si va a fare il padrone, si raccoglie tutta la cricca delle amicizie, e si distribuiscono favori, posti, prebende, si fa tutto quello che un galantuomo non fa.

In un Paese come il nostro nel quale c’è questa tendenza, quest’altra malattia inguaribile, affermare che la stabilità del Governo sia una cosa buona è affermare una cosa alquanto pericolosa.

RUSSO PEREZ. Allora conviene abolire i Ministeri.

CONTI, Relatore. Mi sono convinto che bisogna andare ad una soluzione intermedia. Cercare, sì, la stabilità dei Governi, ma circondare questa conquista di una quantità di cautele, di molte cautele. Stabilità, ma anche possibilità di rovesciare il Governo il quale si dimostri o incapace o portato ad agire con criteri che non sono di purezza e di onestà politica.

Ed allora il concetto che abbiamo meditato molto per la costituzione del Governo e che l’onorevole Tosato ha trasferito nella relazione in modo geniale e limpido è questo: si costituisca un Governo nel quale il Gabinetto abbia una funzione minore, e in certo senso subordinata; ci sia chi assuma la responsabilità di fronte al Parlamento della direzione del Governo. Ed ecco la figura del Primo Ministro come è presentata nel testo costituzionale.

Questo tipo di costituzione del Governo può forse dare risultati; ma non si può garantire niente. Siamo sempre al richiamo della necessità di nuovi costumi nel nostro Paese. Dalla soluzione proposta nel testo costituzionale, dalla nuova educazione politica del Paese, avremo risultati e li avremo anche se uomini vecchi (udite il giovane che sono io!), vecchi come voi siete, uomini cresciuti, educati in un ambiente che vi ha fatto quelli che siete, avete assorbito una quantità di pregiudizi che devono essere combattuti e revocati.

Scusatemi, ma io vi posso parlare così, da repubblicano diverso da voi per origine politica. Voi siete cresciuti alla scuola dei costituzionalisti, dei piccoli e grandi maestri del diritto costituzionale delle nostre Università, che hanno avuto dello Stato, del diritto costituzionale, del Governo, un concetto che non è democratico. Come i vostri maestri, voi siete costituzionalisti nel senso monarchico della parola! Ora dovete essere repubblicani: ed io auguro che siate, a un certo momento, i migliori repubblicani. Dovete sforzarvi di intendere che, se avete pensato monarchicamente, ora è venuto il momento di pensare repubblicanamente. Per pensare repubblicanamente, bisogna accettare due principî fondamentali: il primo è che un regime repubblicano deve essere fondato sulla libertà, in modo assoluto, e irrevocabilmente. La Costituzione, dunque, a questo deve provvedere: a stabilire tutte le garanzie della libertà. Per il secondo principio si deve considerare la democrazia non come si considera da molti, e anche da uno dei più illustri rappresentanti di partiti politici qua dentro, e di parte sinistra, essere la democrazia il regime retto da democratici, cioè da uomini i quali pensano al bene del popolo.

La democrazia, per noi repubblicani, non è questa; la democrazia non è il regime degli uomini democratici, la democrazia è il regime nel quale il popolo sviluppa se stesso, esprime una sua volontà e la fa valere nei modi legali.

Ed allora, per quella garanzia della libertà e per la fondazione della democrazia non si devono scrivere formule e articoli che provvedano a questa o a quell’esigenza dell’andamento parlamentare; no, bisogna creare istituzioni.

Ed ecco perché (ripeto quello che dicevo prima), l’istituzione della Regione è un passo avanti sulla via della democrazia. Ecco perché bisogna fondare anche il nuovo Comune nel nostro Paese. Il Comune e la Regione sono le due istituzioni le quali assicurano la libertà e creano la democrazia, che garantiscono la libertà, creano la vita democratica, l’andamento democratico nel nostro Paese.

La mentalità vostra (scusatemi se vi parlo con tanta confidenza; so che in ognuno di voi c’è tanta bontà da permettermi di parlare così) è ancora lontana da questa concezione. In voi è il pregiudizio giacobino; voi siete ottantanovisti tutti quanti, voi della sinistra, voi della destra. L’ottantanove è la matrice tremenda che ha fatto del nostro Paese un Paese di violenti, di declamatori, di retori.

RUSSO PEREZ. Grazie.

CONTI, Relatore. No, ci mancherebbe, altro! Non parlo solo di voi, parlo anche del Paese. (Commenti a destra). E non vi meravigliate del mio modo di sentire, in contrasto con idee correnti. Per coprirmi con una grande autorità potrei invocare Mazzini. Io non sono mazziniano, sono repubblicano; ma se io, comunque, invocassi Mazzini, potrei invitarvi a leggere le pagine di Mazzini sulla Rivoluzione francese; dico anzi che potrei invitarvi a rileggerle, perché presumo che tutti quanti abbiate letto Mazzini. Potreste dunque, rileggere, che la Rivoluzione francese non ha già aperto un ciclo storico, ma lo ha concluso.

Ora, dicevo, per questa mentalità tutto è, in Italia, Stato, tutto è Governo, tutto è Parlamento, tutto è legge, tutto è fucina di leggi. Ebbene, questa non è mentalità repubblicana; è mentalità monarchica. Quando, dunque, si parla della Repubblica, in Italia bisogna andare cauti, bisogna andare piano. Noi, in Italia, la Repubblica ancora non l’abbiamo; noi in Italia la Repubblica l’avremo fra parecchio tempo, la avremo, quando sarà raggiunta, finalmente, l’autonomia dei Comuni: autonomia che deve significare, soprattutto, possibilità finanziaria, cioè autonomia finanziaria. Bisogna, in altri termini, pensare al Comune rinnovato, soprattutto per la possibilità di provvedere ai suoi bisogni. Allora, dunque, avremo veramente la Repubblica quando il Comune sarà divenuto autonomo nel più ampio e concreto senso della parola, quando la Regione (sulla quale ogni tenace avversario si diletta, anche oggi che è creata, di gettare un podi discredito) funzionerà come deve. Le Regioni non dovranno commettere errori d’interpretazione dei loro compiti e del loro funzionamento. Non c’è dubbio, ad esempio, che i siciliani hanno detto qualche sciocchezza…

RUSSO PEREZ. L’avete detta voi.

CONTI, Relatore. Non noi! Hanno detto qualche sciocchezza i siciliani e qualcuna l’hanno indubbiamente fatta, quella, ad esempio, di essersi costituiti in Assemblea secondo il sistema parlamentare, tanto che il Governo siciliano ha posto le sue brave questioni di fiducia. Quel Governo cioè si è atteggiato come un Governo qualunque (non parlo di un Governo dell’onorevole Giannini) (Ilarità a destra), come un Governo qualunque, del passato parlamentarismo monarchico.

Le Regioni non debbono commettere tali errori. Perché non li commettano, bisogna che le Regioni siano accostate dagli uomini che sentono il bisogno di un ordinamento serio nel nostro Paese; bisogna anche che siano represse certe tendenze che possono riuscire dannosissime, mentre bisogna che ne siano sviluppate altre pregevolissime. E non bisogna preoccuparsi di cose che non possono avere alcun riflesso nella vita politica del Paese, che non hanno alcuna sostanziale importanza. Quando sento parlare di lotte fra, poniamo, Catanzaro e Reggio, perché ambedue si contendono il titolo di capitale, confesso che non posso se non mettermi a ridere. Non è questo, del resto, che un fenomeno naturalissimo: è propriamente il desiderio del prestigio della propria città, del proprio campanile, del proprio santissimo campanile. Non dobbiamo davvero lamentare che gli italiani abbiano tanto affetto per le loro città, per i loro paesi, per quelle che Carlo Cattaneo chiamava «le patrie singolari».

Per carità dunque, onorevoli antiregionalisti, non allarmatevi per le sciocchezze e gli errori possibili e per queste naturali manifestazioni dell’umanità degli uomini, e invece cercate di costituire buone amministrazioni, di farle funzionare! Allora, lo vedrete, la democrazia in Italia sorgerà davvero. Comuni e Regioni; ecco le istituzioni della democrazia. E non si appunti più l’occhio sullo Stato, e del Governo non si abbia più il vecchio concetto paternalista.

Queste osservazioni e non altre sul capitolo del progetto dedicato al Governo. Io vi ripeto, agli articoli do ben poca importanza; spero soltanto che da un’impostazione diversa della vita costituzionale e rappresentativa del Paese derivino i risultati che noi tutti quanti auspichiamo per il benessere della Nazione. Non vi dovrei dire altro. Ma a proposito delle crisi ministeriali, che sarebbero proprie di questo tempo, secondo critici acerbi della democrazia, e secondo il collega onorevole Rubilli e altri laudatores temporis acti, mi cade sott’occhio un appunto interessante.

Allora, nei tempi leggendari, tutto bene, è vero, Rubilli? Oh che gioia, allora: che uomini allora! Nessuno scandalo allora! Ah! caro Rubilli, il Paese nostro è stato il paese degli scandali.

RUBILLI. Questa roba c’è sempre, non manca mai.

CONTI, Relatore. Gl’italiani ignorano la storia e la cronaca del loro Paese. Questa è un’altra lacuna nella cultura degli uomini politici italiani. Si conosce benissimo la storia della Russia – tutti hanno letto i tanti volumi che si sono scritti sulla storia russa…

GIANNINI. Io non li ho letti.

CONTI, Relatore. Si conosce la storia dell’Assiria, della Babilonia, dell’India antica, della Cina; si sono fatte e si fanno ricerche sulla civiltà americana precolombiana; si scoprono tante cose; ci dilettiamo moltissimo. Ci sono due fenomeni in Italia, interessantissimi: gli Italiani non conoscono la storia del loro Paese, quella recente specialmente; perché la storia di Cesare Augusto e di tutti quegli altri personaggi, che sono stati tutti quanti monumentati, naturalmente la conoscono perfettamente tanti. Non si conosce la storia, specialmente la contemporanea; non si conosce la geografia dell’Italia; sicché i legislatori che qui fanno le leggi per tutta l’Italia, non sanno che non si può legiferare nello stesso modo per la Basilicata e per il Piemonte, perché sono regioni ben diverse. Ma questa è una parentesi.

Dicevo, dunque, che nel tempo passato si sono avuti in Italia fenomeni, che oggi si riproducono in piccola parte. Scandali si sono avuti in Italia dal 1860 in poi, sempre; e oggi non ce li sogniamo neanche; non esistono. Oggi è tanto viva, poi, la censura pubblica, per cui, alla più piccola mossa di camorristi, di imbroglioni, c’è subito la frusta del giornalismo nostro, che a torto o a ragione, fa saltare i sospettati. Abbiamo visto cose di importanza relativa, per le quali si è fatto un chiasso indiavolato. Nel passato, invece, si è sempre provveduto a coprire le magagne (Interruzione a destra)sì, caro Bellavista – a coprirle in ogni modo: magagne di Governi, e degli uomini politici.

GIANNINI. In quale passato?

CONTI, Relatore. Mi riferisco dal 1860 a sempre.

GIANNINI. No, fino al 1922…

CONTI, Relatore. Caro Giannini, tu potrai insegnarmi come si fa una commedia, come si legge un libro di storia, no.

GIANNINI. Lo scandalo della Banca Romana?

CONTI, Relatore. Ti posso affliggere settimane intere a darti elementi per tutto il periodo cui ho accennato.

GIANNINI. La Banca Romana…

CONTI, Relatore. No, per carità, non mi far inquietare (Ilarità), se non vuoi che ti rovesci addosso una quantità di fatti…

Proprio ieri ho ricevuto dal figlio di Giovanni Bovio un profilo pubblicato nell’Eloquenza di non so quanti mesi fa.

In quel profilo leggevo un capitoletto che si riferisce a due processi nei quali Bovio indossò la toga: uno contro i socialisti, l’altro contro Alberto Mario, il girondino della Repubblica, il più aristocratico dei democratici, la finezza fatta giornalismo, la bellezza artistica concretata in ogni manifestazione, nel gesto, e perfino nel vestire: egli era elegantissimo. Ebbene, processato dinanzi alla Corte d’assise di Roma, investito fieramente dai magistrati (ai magistrati io voglio molto bene, ma essi sono stati sempre, nel nostro Paese, reazionari, e hanno sempre servito ciecamente la monarchia), Alberto Mario fu condannato, malgrado la difesa di Giovanni Bovio. E non la interminabile sfilza delle aggressioni alle pubbliche libertà, e gli stati d’assedio e tutte le persecuzioni di avversari della monarchia.

Una voce a destra. Era per illuderci.

CONTI, Relatore. Come illudervi? Non ricordate Crispi? E prima di lui la destra dominatrice dal 1860 al 1876? E non debbono ricordarsi le violenze e la corruzione della sinistra, che aveva voluto abbattere la destra perché liberticida? E perché non dire che la sinistra ne fece più della destra che, se non altro, diede prova di competenza e probità, mentre la sinistra non ebbe né competenza né probità! (Applausi a destra). Bene. Siete contenti?

Voci a sinistra. Parli da questa parte.

CONTI, Relatore. Parlavo a loro, perché ne hanno bisogno. Adesso torno a voi.

Ma non voglio intrattenervi troppo, onorevoli colleghi.

Questa digressione v’è stata, perché volevo confutare ancora una volta l’amico Rubilli, quello dei tempi leggendari, dei tempi nei quali non avveniva mai nessuna crisi ministeriale, non accadeva mai niente, e tutti erano buoni e tutto andava tanto a gonfie vele.

Bene, da un libro di Nitti, che è sempre una grande guida alla ricerca di fatti (leggeteli i libri di Nitti, il quale, per il suo desiderio, che direi naturale, di dire sempre con chiarezza e il proprio pensiero intorno agli uomini e alle cose, ha scritto tanto); da un libro di Nitti – dicevo – ho tratto indicazioni statistiche sul tempo… leggendario. Anche allora crisi ministeriali, e con quei grandi uomini: quelli «che non rinascono più», disse l’altro giorno l’amico Rubilli. (Notate, colleghi, che allora, nei tempi leggendari, si diceva che non erano rinati quelli che c’erano stati prima! E non vi meravigliate: queste sono buaggini che diciamo per nostra consolazione! Gli uomini sono animali uomini: questa è la nostra dottrina sociologica per la quale noi non pensiamo agli angeli né a miracoli, e per la quale non pensiamo che la Repubblica raddrizzi le gambe ai cani. La Repubblica è possibilità per tutti di vivere liberamente e di costruire una nuova vita e costumi nuovi).

GIANNINI. Chissà come saremo rimpianti noi fra cento anni!

CONTI, Relatore. Guardate, dunque, questa indicazione statistica: Giolitti… (ho detto Giolitti: il nome di un uomo che non rinasce più, secondo Rubilli; il nome di un uomo, dico io, sul quale credo sia onesto rettificare molti giudizi. Di Giolitti si deve oggi parlare con serenità e concludere che fu un uomo di alte intenzioni liberali, io direi un illuso in tempi di monarchia, perché Giolitti si illudeva e illudeva che con la monarchia gli italiani potessero conquistare la libertà e la democrazia. Oggi Giolitti sarebbe repubblicano come noi). Chiudiamo quest’altra parentesi. Giolitti, dunque, cadde il 16 marzo 1905. Dal 16 marzo 1905 al 27 maggio 1906, appena un anno, sei ministeri!…

RUBILLI. Appunto perché non c’era lui!

CONTI, Relatore. No, ecco l’avvocato che incespica e cade. Giolitti è caduto il 16 marzo 1905. Tittoni, interim, cioè un alter ego di Giolitti, messo al posto suo, cade il 16 aprile 1905. Dopo Tittoni, altro uomo di fiducia di Giolitti: Fortis. Salì al potere il 28 marzo e cadde il 22 dicembre. Riebbe l’incarico il 24 dicembre e si resse fino all’8 febbraio 1906. I proconsoli giolittiani si esaurirono. Succede Sonnino, fino al 27 maggio 1906: uno dei due ministeri, durati cento giorni, di Sonnino. Giolitti di nuovo il 27 maggio 1906. Avete visto quanti Ministeri in quattordici mesi! Non c’è, dunque, da preoccuparsi e da fare gran chiasso per le crisi di questo tempo, annunziate con enormi titoloni sui giornali. Siamo alla quarta caduta e alla quarta ripresa del Governo di De Gasperi? Nessuna meraviglia: questo è il prodotto del sistema parlamentare, quello di una volta e quello attuale. Speriamo che non continui così, che si cambino i costumi. Speriamo che la riduzione del numero dei deputati, che la formazione del Governo secondo le linee tracciate nel progetto costituzionale siano nell’avvenire la base di procedimenti parlamentari migliori di quelli del passato.

Mi dovrei ora occupare del Capo dello Stato, ma non me ne occupo. (Segni di approvazione dell’onorevole Giannini).

No, no, Giannini, questo gesto col quale sembra che tu voglia dire che si tratta di un problema di nessuna importanza, non è un gesto che mi piace. Il problema ha una grande importanza. La Repubblica in Italia significa che non abbiamo più la monarchia e che è finito l’ultimo residuo feudale. Mi dispiace molto per l’amico carissimo Condorelli che ieri l’altro mi ha fatto gonfiare di gioia nel sentirgli ripetere i soliti luoghi comuni sulla monarchia e sulla Repubblica. Ma insomma, che non ci sia più il re, che non ci sia più la dinastia, che non ci sia più questo potere stabile che viene dalla legge, come diceva Condorelli, o dal diritto divino, la liberazione da questo peso enorme che era sul nostro Paese, è di una importanza colossale, onorevole Giannini. Con la dinastia è caduta tutta la costellazione delle forze retrograde che intorno alla dinastia erano concentrate. Noi non abbiamo più la dinastia che era, poi, in Italia una dinastia militaresca e che era in Italia molto inferiore alle altre che l’Italia ha conosciuto.

Tra i Savoia e i Borboni, lo dico anche all’onorevole Mazza per consolazione di lui napoletano, tra i Savoia e i Borboni, si deve riconoscere la superiorità dei Borboni. La revisione storica degli ultimi anni ha portato a questa conclusione.

Si può con certezza affermare che fra le due dinastie non c’è differenza seria. All’amico Bellavista offrirò la lettura di studi di Napoleone Colajanni. Uno di essi è intitolato: Dai Borboni ai Sabaudi. In esso Napoleone Colajanni dimostra quello che erano i Borboni ed i Sabaudi.

BELLAVISTA. Napoleone Colajanni era laudatore del tempo presente.

CONTI Relatore. Ora, io dicevo che la prima conquista fatta dall’Italia è questa: si è sbarazzata della dinastia.

RUSSO PEREZ. Se ha detto che la Repubblica ancora non c’è!

CONTI Relatore. Se le dicessi che è un sofista, che mi direbbe? (Ilarità).

GIANNINI. Questo è un partito agnostico; non ci compromettere! (Si ride).

CONTI Relatore. Bisogna buttare a mare l’agnosticismo: lo dico a tutti. Mi auguro che la destra sia la destra repubblicana conservatrice e che la sinistra sia la sinistra repubblicana progressiva come vuole il «migliore», il nostro Togliatti. Bisogna che vi decidiate: la Repubblica non può essere più insidiata dai nemici del passato. Bisogna essere franchi. O mangiatevela viva, se vi riesce, o accettatela e servitela con convinzione, perché la Repubblica rappresenta anche per voi – per voi prima di tutti – la libertà. Mai l’Italia è vissuta come in questo momento nella più assoluta libertà, e nella tranquillità. Sicuro: non potete negarlo. Le lotte sociali si svolgono in ogni parte, movimenti si hanno dappertutto, ma tutto avviene nella massima libertà e con il presidio di tutti i diritti dei cittadini.

Dicevo, dunque, che, della parte del progetto che riguarda il Presidente, non mi occupo. Richiamo solo un pensiero dell’onorevole Nitti a questo proposito. L’onorevole Nitti ha detto che noi pensiamo alla fastosità e ad altri accessori della funzione presidenziale. Dico anch’io che noi dobbiamo mirare ad una grande semplicità nell’organizzazione anche dei supremi poteri dello Stato, ma aggiungo che noi dobbiamo anche provvedere a circondare di grande prestigio colui che è chiamato a rappresentare l’unità del Paese, a rappresentare l’Italia di fronte all’estero. L’onorevole Nitti diceva: «si parla di Quirinale» come residenza del Presidente. Sì. Bisogna andare al Quirinale; il Presidente della Repubblica deve risiedere al Quirinale; il Presidente della Repubblica deve essere oggetto dell’omaggio di tutti gli italiani, se è un galantuomo.

Oggi abbiamo la fortuna di avere alla Presidenza l’uomo che abbiamo; di avere impersonata in un uomo la quintessenza della sapienza, della serenità, della lealtà e della decisione a servire il Paese. Speriamo che nell’avvenire il problema sia sempre risoluto nello stesso modo. Io non so se ci riusciremo sempre, se avremo sempre un Presidente della statura di Enrico de Nicola. Ma certo, in avvenire, il problema non sarà di difficile soluzione, anche se non avremo uomini perfetti.

Si è discusso tanto, onorevoli colleghi, di Repubblica presidenziale, di Repubblica direttoriale. No! io sono convinto che per l’Italia il sistema migliore è quello che è stato predisposto dal testo costituzionale. Io credo che noi faremo bene ad approvarlo. Non credo che per il Titolo che riguarda il Capo dello Stato debbano farsi modificazioni; io non ne farei nessuna. Abbiamo tanto meditato intorno a questo problema. Ricordo le discussioni che feci con l’amico onorevole Perassi, cinque, sei, sette anni or sono. Ci siamo convinti da allora che il sistema presidenziale per l’Italia non è assolutamente accettabile. Siamo favorevoli al sistema che in Francia non diede cattivi risultati. In fondo si tratta di un potere che, in certi momenti e per certe funzioni, si afferma come e quanto è necessario, ma di un potere che per tutto il resto è au dessus de la mêlée, è fuori della mischia ed è di natura arbitrale al di sopra di tutto e di tutti.

GIANNINI. Allora, il Capo dello Stato non deve essere eletto dal popolo?

CONTI, Relatore. L’elezione popolare può turbare in Italia l’andamento della vita politica, perché il popolo italiano non è portato, per suo temperamento, a decisioni che richiedono una certa valutazione diretta, specifica di elementi, che possono sfuggire alla collettività.

Voi discutete tanto sulla elezione dei deputati; dite: rappresentanza proporzionale, perché il popolo non può giudicare i singoli candidati; dite: sistema uninominale, perché v’è forse possibilità di giudizio intorno a un uomo, solo perché lo consentirebbe la limitata estensione del collegio elettorale; come potrebbe raggiungersi una seria valutazione e un giusto giudizio mettendo in discussione un uomo fra 45 milioni di italiani?

Contentiamoci della elezione di secondo grado. Restando fermi al sistema previsto dal progetto di Costituzione credo che provvederemo bene per l’avvenire del nostro Paese.

GIANNINI. Spero ci permetterete di parlare contro questa tesi.

CONTI Relatore. Naturalmente e si potrà discutere di allargare il collegio degli elettori, oltre alla Camera ed al Senato; si potrà pensare all’intervento di altri corpi legislativi ed amministrativi, come i Consigli regionali ed i Consigli comunali, ma queste sono questioni di non grande importanza.

Ora finisco. Non vi parlerò del Senato: se ne è tanto parlato. Vi dico che sono convinto della necessità della seconda Camera. Una sola Camera può trasformarsi in una oligarchia. E noi vogliamo democrazia: e democrazia è molteplicità di consigli e di assemblee. La libertà, diceva Cattaneo, è pianta di molte radici.

Nel complesso, onorevoli colleghi, questo testo costituzionale può andare. Non ci mettiamo in testa grandi cose, cose straordinarie. Facciamo il nostro dovere con coscienza. Se correggeremo la prima parte del testo della Costituzione, se riusciremo a persuaderci che un preambolo potrà renderla più agile, più arieggiata, più luminosa, se riusciamo a persuaderci che con questo provvedimento il testo definitivo potrà essere reso migliore, credo che l’Assemblea provvederà magnificamente al proprio compito.

Si dirà dalla gente che i deputati sono stati negligenti, che questa Costituzione è stata fatta a pezzi e bocconi. Sarà doloroso udire critiche severe o non giuste, ma se il Paese si troverà di fronte ad un testo costituzionale armonico, positivo, liberato da piccoli errori e deficienze, che nella fretta o per passione di parte sono stati inseriti, noi avremo fatto opera buona e opera utile al nostro Paese. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Relatore onorevole Tosato.

TOSATO, Relatore. Onorevoli colleghi, l’onorevole Conti vi ha già detto, ed anche troppo benevolmente – e gliene sono molto grato – di cosa mi occuperò. Vi parlerò in qualità di Relatore sui Titoli secondo e terzo della Parte seconda del progetto di Costituzione: vale a dire di quella parte della Costituzione che si riferisce al Presidente della Repubblica ed al Governo.

Molte osservazioni sono state fatte alle norme del progetto relative a questi gravi e difficili argomenti. Mi permetterò di non occuparmi dei rilievi di carattere particolare, perché ritengo che su questi problemi sia particolarmente importante, e sia un’esigenza essenziale, che noi non perdiamo di vista l’unità del sistema e le linee principali dell’edificio che intendiamo costruire.

Questa seconda parte della Costituzione ha una funzione, come tutti voi sapete, essenzialmente strumentale: si tratta di apprestare gli strumenti destinati ad attuare e a salvaguardare quei principî che tanto solennemente sono stati affermati nella prima parte della Costituzione, già approvata. Ora è evidente l’assoluta necessità che i vari momenti ed elementi che compongono lo strumento complesso destinato a questa funzione siano perfettamente aggiustati fra loro: è necessario che si incontrino e non si scontrino. È per questo che ritengo essenziale che siano ben presenti all’Assemblea il tipo di edificio e le ragioni delle singole parti, così come sono costruite, per poter dare un giudizio finale e deliberare su questa parte del progetto, che è come il cuore di tutta la Costituzione.

Affrontiamo subito l’argomento relativo al Presidente della Repubblica. Durante la discussione generale in Assemblea si sono manifestate a questo proposito due tendenze, se non assolutamente opposte, certo notevolmente contrastanti. Da una parte si è detto: in sostanza la figura del Presidente della Repubblica, quale emerge dal testo del progetto, è una figura scialba, evanescente, inconsistente; voi ci date con questo progetto un Capo dello Stato privo di mordente e privo di forza, senza poteri effettivi; un Capo di Stato che sta al vertice dell’edificio, ma che è privo di poteri effettivi e che non avrà un peso sostanziale nella direzione politica e nel Governo della Nazione. È necessario – si è detto – un Presidente che rappresenti veramente qualcosa nell’organizzazione costituzionale dello Stato; un Presidente che, almeno nei momenti decisivi della vita della Nazione, possa far sentire la sua voce; i poteri che voi gli avete dati sono troppo scarsi; ma indipendentemente dai poteri – ed è questo, se non erro, l’argomento fondamentale – anche ammesso che i poteri siano sufficienti (e mi pare che qualcuno si sia anche dichiarato pronto a diminuirli), ciò che è assolutamente e strettamente indispensabile è che il Presidente della Repubblica sia posto effettivamente nella condizione di esercitarli. Ora – si soggiunge – siccome avete stabilito che il Presidente venga eletto dalle Camere riunite in Assemblea Nazionale, voi venite in tal modo a dar vita a una figura di Presidente che è originariamente debole, che non può rappresentare alcuna parte effettiva nella vita dello Stato. Perché il Presidente, si dice, possa effettivamente valere e far sentire la sua parola decisiva nella vita politica dello Stato, occorre abbandonare il sistema dell’elezione indiretta e passare all’elezione diretta da parte del popolo.

Così una delle due correnti che si sono manifestate nell’Assemblea.

Contro di essa si è manifestata un’altra corrente, la quale, in definitiva, ci rimprovera di aver sbozzato un Presidente troppo forte. Troppi poteri avete dato al Presidente si dice. E l’attenzione degli onorevoli colleghi è stata richiamata soprattutto sui poteri di nomina dei Ministri e di scioglimento delle Camere legislative; non solo, ma anche sul potere di deferire al popolo la decisione su eventuali contrasti frale due Camere. Da parte dei rappresentanti di questa tendenza, si osserva: una repubblica parlamentare non consente assolutamente un Presidente forte; nella repubblica parlamentare il Presidente neve essere necessariamente debole. In sostanza, si afferma, accontentiamoci di un Presidente decorativo, di un personaggio che abbia un significato puramente simbolico, di un Capo dello Stato che non sia, secondo una recente frase di Herriot più che «Le Président de la figuration nationale». E a questo scopo, è evidente, occorre che il Presidente sia eletto dalla Camera, per esserne prigioniero.

Ora, di fronte a queste due correnti bisogna che ci parliamo con molta franchezza. Fra chi vuole un Presidente forte e chi vuole un Presidente debole, a mio avviso è necessario anzitutto che noi ci intendiamo sul significato da dare alle parole «Presidente forte». Che cosa intendiamo per «Presidente forte»? Forse un Capo dello Stato che sia anche Capo del Governo? Che possa essere fonte autonoma di decisioni politiche in determinati settori ed in determinati momenti della vita della Nazione? S’intende, in altre parole, un Presidente di tipo americano? In questo caso sì, evidentemente, il Presidente deve essere eletto direttamente dal popolo, perché solo l’elezione diretta consente un Presidente di questo tipo; ma in questo caso bisogna anche accettare tutte le conseguenze, e cioè arrivare ad una forma di Governo presidenziale.

Nella Commissione dei Settantacinque, e in particolar modo nella seconda Sottocommissione, si è discusso, ad un certo momento, di tale questione, si è esaminata cioè l’opportunità o meno di adottare la forma di Governo presidenziale invece che quella parlamentare.

Ricordo però che in seno alla seconda Sottocommissione la quasi totalità dei Commissari si pronunciò decisamente per la forma di Governo parlamentare. Soltanto, mi pare, l’onorevole Calamandrei manifestò un avviso contrario, ed il sottoscritto a questo proposito manifestò la sua grande perplessità.

Quali sono, in sostanza, le ragioni in base alle quali la Commissione non ha ritenuto di adottare la forma di Governo presidenziale? Qui si è parlato di pericolo di cesarismo. Non credo che questa sia una ragione molto sostanziosa, perché i pericoli di cesarismo ci sono sia con la forma di Governo presidenziale che con quella di Governo parlamentare. La ragione fondamentale è, a mio avviso, che il Governo presidenziale per sua natura esige che nella vita dello Stato si affermino soltanto due partiti, in modo che il Presidente, che non è soltanto Capo dello Stato ma anche Capo del Governo, completamente indipendente dalle Camere, abbia però la certezza di essere d’accordo col partito dominante nelle Camere. Ciò è necessario per l’attuazione, in sede legislativa, della politica del Presidente.

Esistono in Italia le condizioni per creare una forma di Governo presidenziale? Se teniamo presente il fatto della notevole molteplicità dei partiti, vediamo che creeremmo a priori una figura di Presidente che sarebbe rappresentativa non di una grande corrente politica ma semplicemente di un compromesso fra alcuni partiti, un Presidente poi che sistematicamente non potrebbe mai poggiare su una maggioranza sicura presso le Camere legislative in modo da poter realizzare una certa uniformità di indirizzo fra il potere legislativo ed il potere esecutivo, ed in modo soprattutto che la politica del Capo dello Stato possa trovare applicazione in seno alle Assemblee legislative. Questa, se non erro, è la ragione fondamentale per cui in Italia non sembra attuabile la forma di Governo presidenziale.

Qualcuno mi dirà: ma, in fondo, anche per la forma di Governo parlamentare la condizione ideale è l’esistenza di pochi partiti. Esatto. Però nel Governo presidenziale la molteplicità dei partiti, e quindi possibilità di contrasto fra il Capo dello Stato e le diverse maggioranze esistenti nelle Camere, diventa ancora più grave, perché una delle caratteristiche di questo Governo presidenziale è che il Capo dello Stato duri in carica per un tempo determinato. Ora, questo fatto può determinare conflitti molto gravi, conflitti che non sorgono, normalmente, negli Stati Uniti di America, ma che possono sorgere, data soprattutto la diversa mentalità, in Italia.

Queste sono le ragioni, a mio avviso, fondamentali che hanno indotto la Commissione a scartare la forma presidenziale e ad adottare invece la forma di Governo parlamentare.

Ed allora, dato che questa forma di Governo parlamentare risponde al voto quasi unanime della Commissione dei settantacinque, dato che, se non erro, non si è manifestata in Assemblea, nella discussione generale, nessuna voce precisa che abbia perorato una forma di Governo diversa da quella parlamentare, mi domando: che cosa si può intendere, in un Governo parlamentare, per «Presidente forte»? Non si può intendere evidentemente che questo: un Presidente che, pur non avendo un peso autonomo nella vita dello Stato, rappresenti però (come direbbe l’onorevole Ruini) uno dei piloni fondamentali della struttura costituzionale dello Stato, vale a dire un elemento il quale concorra con le Camere alla formazione delle leggi e alle decisioni politiche più gravi. Si avrebbe così, da un lato il Capo dello Stato, dall’altro le Assemblee legislative, e in mezzo il Governo con funzione essenziale di tramite fra il Capo dello Stato e le Camere.

Ora, questa è una concezione del Governo parlamentare. Indubbiamente una concezione del Governo parlamentare che corrisponde alle prime attuazioni storiche del Governo parlamentare negli Stati monarchici, e che è stata accolta anche nel 1919 in Germania, nella Costituzione di Weimar. Ed è evidente che se si vuol dare, nel Governo parlamentare, al Presidente una funzione sostanziale, ne consegue che il Capo dello Stato non può avere un’origine puramente parlamentare. Da questa difficoltà non si esce.

Di fronte a questa concezione, legata a determinate situazioni storiche e politiche, si afferma l’altra che si è manifestata in questa Assemblea, concezione che considera il Governo parlamentare come un Governo nel quale si afferma e si deve attuare esclusivamente la volontà delle Camere e in cui il Capo dello Stato non ha che una funzione del tutto secondaria. Il che esclude l’elezione diretta.

Ora, di fronte a queste due concezioni, a quale concezione si è ispirato il testo del progetto?

Non si è ispirato alla prima concezione e non si è ispirato nemmeno alla seconda. Non si è ispirato alla prima concezione, perché si ritiene che in una forma di Governo repubblicano, con un Capo dello Stato rappresentativo, l’attribuzione di un potere effettivo al Capo dello Stato, eletto a questo scopo dal popolo, darebbe luogo a continui conflitti fra il Presidente e le Camere e metterebbe praticamente il Governo nella impossibilità di governare.

D’altra parte, noi non abbiamo nemmeno seguito l’altra concezione, la concezione prettamente parlamentare, che in verità più che definirsi un Governo parlamentare dovrebbe definirsi come Governo di Assemblea, quella concezione in base alla quale i Ministri rappresentano – tutto sommato – il comitato esecutivo dell’Assemblea legislativa e in cui il Capo dello Stato ha una funzione puramente dichiarativa e rappresentativa, senza alcuna possibilità di intervenire menomamente nelle cose dello Stato.

Noi abbiamo seguito un’altra concezione del Governo parlamentare, che, in Italia, sembra l’unica possibile. Io non ritengo che, specialmente in Italia, sia possibile istituire né la prima né la seconda forma di Governo parlamentare. Nella forma di Governo parlamentare, il Capo dello Stato ha, indubbiamente, una sua funzione: questa funzione non è soltanto rappresentativa, né importa la possibilità di partecipare effettivamente ad atti di Governo dello Stato, facendo sentire direttamente, ma decisamente, la sua voce. Ha, tuttavia, una funzione essenziale, quella di essere il grande regolatore del gioco costituzionale, di avere questa funzione neutra, di assicurare che tutti gli organi costituzionali dello Stato e, in particolare, il Governo e le Camere, funzionino secondo il piano costituzionale.

Non è una funzione irrilevante, ma essenziale, che corrisponde a tutta la struttura vera e propria del Governo parlamentare.

In fondo, il Governo parlamentare si costruisce in questo modo: alla base sta il popolo, dal popolo derivano direttamente i corpi rappresentativi e, mediatamente, deriva il Governo. L’una e l’altra Camera e il Governo rappresentano ugualmente il popolo. Possono sorgere conflitti fra il Governo e le Camere, fra le Camere e il popolo, fra il Governo e il popolo: chi mantiene il regolare funzionamento di questo sistema in uniformità alla volontà popolare? Ecco la funzione essenziale del Capo dello Stato.

Ora, nel nostro progetto abbiamo cercato di dare alla figura del Capo dello Stato un ordinamento che sia corrispondente a questa sua funzione e, per questo, non si è ritenuto opportuno che il Capo dello Stato sia eletto direttamente dal popolo.

Non si può prescindere, a mio avviso, da questa considerazione: in regime repubblicano, con un Presidente elettivo, eletto cioè direttamente dal popolo col voto di milioni e milioni di cittadini, questo Presidente non si limiterà ad essere un organo che tuteli l’ordinato e corretto funzionamento degli organi costituzionali secondo la Costituzione, ma vorrà intervenire effettivamente e decisamente – la natura stessa delle cose lo porta – nella vita dello Stato, far sentire la sua voce, far valere e imporre la sua volontà. Per questo non è stata accolta la tesi di far eleggere il Presidente direttamente dal popolo.

D’altra parte, anche la soluzione accolta nel progetto, debbo confessarlo, presenta pure degli inconvenienti. Presenta degli inconvenienti nel senso che vi spiegherò. Secondo il progetto, il Presidente della Repubblica sarà eletto da un collegio speciale, costituito dalle due Camere riunite in Assemblea Nazionale, con la partecipazione di due rappresentanti per ogni Regione.

Noi siamo partiti – compilando tale norma – da questo punto di vista, che un Presidente eletto direttamente dal popolo è pericoloso per le ragioni che ho dette, ma che, d’altra parte, un Presidente eletto esclusivamente dalle Camere sarà inesorabilmente dipendente dalle Camere stesse e quindi incapace di rendere i servigi che deve rendere, di adempiere cioè a quella sua essenziale funzione di supremo equilibratore.

Abbiamo così formato un collegio speciale, costituendo un corpo elettorale allargato, rispetto alle due Camere. La prima nostra idea sarebbe stata anzi di allargare ulteriormente questo collegio, includendovi delle categorie qualificate; ma la Commissione non ha creduto di accettare questo criterio di ulteriore allargamento.

D’altra parte, sempre per rafforzare i poteri e il prestigio del Presidente, noi abbiamo stabilito che la sua durata in carica sia di sette anni, sia cioè superiore a quella delle Assemblee.

Ma, soprattutto, noi abbiamo preso una altra disposizione: e cioè che il Presidente è eletto bensì dall’Assemblea Nazionale, ma si esige, in seno ad essa, la maggioranza dei due terzi. Ci è sembrato che questo requisito della maggioranza di due terzi possa dare veramente la garanzia che venga eletto un Presidente il quale risponda ai requisiti essenziali, il quale abbia cioè la capacità di esercitare quella funzione neutra, imparziale, che occorre abbia il Presidente della Repubblica.

Siamo riusciti in questo intento? Evidentemente no. No, perché non basta stabilire che il Presidente sia eletto a maggioranza qualificata di due terzi. Infatti, se al primo scrutinio non si ottengono i due terzi, si procede a un secondo scrutinio; se poi anche a questo scrutinio non si ottenesse la maggioranza di due terzi, si procederà a un terzo scrutinio: e, se anche a questo terzo scrutinio la maggioranza di due terzi non si dovesse ottenere, è prescritto allora che ci si dovrà rimettere al volere della maggioranza assoluta.

Ora, a mio avviso questo rappresenta effettivamente un grave inconveniente, rappresenta una grave lacuna del progetto. Noi ci siamo preoccupati di non avere un Presidente che rappresenti esclusivamente la maggioranza, perché, in questo caso, noi avremmo evidentemente un Presidente il quale non potrebbe svolgere la sua funzione in quanto sarebbe completamente collegato alla maggioranza che lo ha eletto e da essa dipendente.

Ebbene, onorevoli colleghi, che cosa si può escogitare per risolvere questo problema? Mi permetto di presentarvi non dico un suggerimento, ma un’idea che mi è venuta: io penso che, nell’ipotesi in cui il candidato alla Presidenza della Repubblica, dopo il terzo scrutinio non abbia raccolto i 2/3 previsti dal primo comma dell’articolo 79 del progetto, in questo caso – e in questo caso soltanto – si debba ricorrere all’elezione diretta. Perché in questa ipotesi? Perché io ritengo che in questo caso, la ipotesi e la possibilità di un’elezione diretta del Presidente da parte del popolo, nel caso che non si ottengano i due terzi, indurrà anzitutto le Camere ad ottenere più facilmente la maggioranza richiesta dei due terzi. Ritengo poi che si introduca in tal modo un elemento di «souplesse» nella Costituzione, che è sempre bene abbia una certa fluidità, una certa possibilità di adattamento a situazioni nuove che possono formarsi.

D’altra parte, qui si tratta di fare una scelta: è necessario un Capo dello Stato che svolga determinate funzioni e non sia un Capo dello Stato puramente simbolico, un Capo dello Stato, e non un capo del Parlamento. Orbene, si domanda: nel caso che il Presidente non raccolga il largo suffragio dei due terzi dell’Assemblea Nazionale, e quindi, almeno in parte, non ottenga anche il voto della minoranza, in tal caso è preferibile un Presidente di maggioranza dell’Assemblea nazionale o un Presidente di maggioranza del popolo?

Una voce a destra. Del popolo.

TOSATO, Relatore. Questo è il problema che voi dovete decidere.

E passiamo all’ordinamento del Governo. Il progetto, secondo il voto quasi unanime della Commissione dei Settantacinque, accoglie e regola la forma di Governo parlamentare. Tuttavia, debbo pur ricordare che, se la Commissione dei Settantacinque ha adottato unanimemente, si può dire, la forma di Governo parlamentane, non l’ha adottata proprio con entusiasmo; anzi, si è resa ben conto dei gravi, dei gravissimi inconvenienti che la forma di Governo parlamentare presenta in Italia. Se ha scelto la forma di Governo parlamentare, l’ha scelta quindi come il male minore. Difatti la Commissione, quando ha deciso di informare il Governo dello Stato al tipo parlamentare, ha approvato un ordine del giorno dell’onorevole Perassi, secondo il quale si adottava bensì la forma di Governo parlamentare, purché tuttavia si trovassero degli accorgimenti tali da poter ovviare almeno ai più gravi inconvenienti che tale forma di Governo presenta in Italia.

Ora, quali sono gli strumenti, gli accorgimenti, i dispositivi proposti, per ovviare appunto ai più gravi inconvenienti della forma di Governo parlamentare? Anzitutto, si è cercato di dare una struttura precisa al Governo.

L’onorevole Gullo, ieri, ha manifestato delle grandi perplessità e dei gravi dubbi per quanto riguarda i rapporti fra il Primo Ministro, Presidente del Consiglio e i Ministri; e si è domandato: «Ma, in fondo, da questo progetto non si capisce bene se abbiamo una forma di Governo del Primo Ministro, sia pure con la collaborazione dei Ministri, oppure una forma di Governo di Gabinetto, in cui chi governa non è propriamente il Primo Ministro, ma il collegio dei Ministri». Ora, se noi leggiamo attentamente il progetto, vediamo che da esso risulta consacrata, senza possibilità di dubbi, la forma di Governo parlamentare secondo il tipo di Gabinetto, cioè di Governo collegiale. Tuttavia il progetto non ha adottato una forma di Governo di Gabinetto puro e semplice, perché, pur stabilendo che il Governo è costituito da più Ministri, i quali deliberano in collegio, ha tuttavia cercato di assicurare al Capo di questo collegio, Primo Ministro, Presidente del Consiglio, una posizione che sia corrispondente alla sua funzione, con i mezzi e i poteri necessari al fine di assicurare l’esecuzione della volontà del Gabinetto e di mantenere l’unità di indirizzo politico dai vari ministeri.

Quindi, non mi pare che vi possano essere dei dubbi relativamente a questa parte del progetto, sull’ordinamento e la struttura interna del Gabinetto. Infatti, l’articolo 74 dice precisamente: «Il Governo è costituito dal Primo Ministro Presidente del Consiglio e dai Ministri».

Dunque, il Governo è costituito ugualmente dal primo Ministro e dai Ministri.

Presidenza del Vicepresidente BOSCO LUCARELLI

TOSATO, Relatore. E l’articolo 89 reca: «Il Primo Ministro dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile».

S’intende, però, dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile in quanto i principî e le linee fondamentali di questa politica siano già deliberati anzitutto dal Consiglio dei Ministri.

E infatti si dice: «I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e personalmente degli atti dei loro Dicasteri».

Ora, i Ministri non sarebbero responsabili collegialmente se la politica generale del Governo non fosse deliberata dal Consiglio dei Ministri.

Quale potere speciale si attribuisce al Capo del Governo? Quello di poter fare eseguire la politica deliberata dal Governo e mantenere l’unità di indirizzo della politica deliberata dal Consiglio dei Ministri stesso.

Il progetto, in secondo luogo, ha cercato di regolare i voti di fiducia. A questo proposito si è stabilito che le mozioni di sfiducia non possono essere discusse se non dopo un certo termine dalla loro presentazione; e si è anche stabilito che il voto di sfiducia deve raggiungere una certa maggioranza.

Ma queste sono disposizioni di carattere particolare, che non toccano ancora la linea essenziale del progetto.

L’elemento nuovo del progetto è quello riguardante l’intervento dell’Assemblea Nazionale. Su questo punto bisognerà spiegarsi.

Questa Assemblea Nazionale è stata considerata – mi pare – dalla quasi totalità degli oratori che si sono susseguiti nella discussione generale, con un certo sospetto, con una certa diffidenza.

Qualcuno ha detto che è una mostruosità; qualche altro ha detto che è un elemento tale da trasformare radicalmente il volto della Costituzione che noi stiamo deliberando, perché porterà inevitabilmente ad un Governo totalitario e dittatoriale. L’onorevole Orlando, precisamente, mi pare abbia sostenuto questa tesi.

Qualche altro ha detto che l’Assemblea Nazionale comunque, anche se limitata come vedremo, porterà conseguenze che potranno essere gravissime.

L’onorevole Nitti, nel suo discorso – come sempre molto interessante – ha notato che questo progetto di Costituzione presenta, fra gli altri difetti, quello di essere sovrabbondante, esuberante, di avere istituiti troppi organi. Ma come – ha osservato – voi avete istituito una Camera dei Deputati, avete istituito un Senato, volete istituire anche una terza Camera, l’Assemblea Nazionale, oltre a tutti gli altri corpi – i cosiddetti «camerini» – che volete istituire accanto ai corpi principali!

Ora, è esatto, l’Assemblea Nazionale appare, secondo il progetto, come una terza Camera. È un organo distinto, senza dubbio, che non si confonde né con la Camera dei Deputati né col Senato.

Questo, però, dal punto di vista formale; perché, dal punto di vista sostanziale, questa Assemblea Nazionale è formata dai membri della Camera dei Deputati e dai membri del Senato. Sono i membri della Camera dei Deputati e del Senato che si riuniscono in questa Assemblea.

È vero, è una terza Assemblea, perché nell’Assemblea Nazionale non è la volontà della Camera dei Deputati più la volontà della Camera del Senato che si incrociano; è la volontà di un organo nuovo che non si confonde né con la Camera dei Deputati né col Senato.

NITTI. Che non è niente!

TOSATO, Relatore. Badate bene che, secondo il progetto, l’Assemblea Nazionale non rappresenta nemmeno una fusione delle due Camere, benché essa riunisca i membri delle due Camere. Quindi, la riunione dei due rami del Parlamento nell’Assemblea Nazionale non porterebbe mai all’impossibilità, da parte del Presidente della Repubblica, di uno scioglimento delle Camere, perché le Camere sono riunite in Assemblea Nazionale.

Questo avverrebbe se si trattasse di fusione. La questione non è irrilevante. In Francia si è discusso se il Presidente potesse sciogliere le Camere quando sono riunite in Assemblea Nazionale e la dottrina francese ritiene che pur essendo questa una terza Assemblea il Presidente conserva il potere di scioglierla. Ciò appunto perché l’Assemblea Nazionale non sorge dalla fusione delle due Camere.

Ma quello che voglio sottolineare è che questa terza Assemblea, in definitiva, non deve spaventare sotto l’aspetto della sovrabbondanza perché, se formalmente è una Assemblea a sé stante, sostanzialmente essa non risulta che dalla riunione dei deputati e dei senatori.

Osservazione molto grave è stata quella fatta dall’onorevole Orlando ed alla quale, in parte, si è associato l’onorevole Fuschini. A questa Assemblea Nazionale – si dice – voi attribuite troppi poteri. Se voi considerate i singoli poteri attribuiti all’Assemblea Nazionale, voi vi accorgerete che, in definitiva, l’Assemblea Nazionale rappresenta la chiave di volta di tutto il sistema costituzionale.

Ora, francamente, io non posso concordare in questa osservazione. Consideriamo pure tutti questi poteri dell’Assemblea Nazionale. L’Assemblea Nazionale elegge il Presidente della Repubblica con il concorso dei rappresentanti delle Regioni, fa alcuni atti di nomina dei membri della Corte costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura, delibera la guerra e la mobilitazione generale, delibera l’amnistia e l’indulto, accorda o nega in determinate condizioni la fiducia al Governo. Ora, prescindiamo un momento dalla questione della fiducia al Governo e consideriamo le prime attribuzioni delle quali, del resto, si può discutere. Anche se qualcuna di esse venisse sottratta all’Assemblea Nazionale, essa conserverebbe la sua struttura e la sua fisionomia. Ritenete che con queste sue attribuzioni si ponga come organo sovrano? Lo nego nel modo più reciso perché queste attribuzioni dell’Assemblea Nazionale sono attribuzioni tassativamente indicate. Non si dica: ma l’Assemblea Nazionale potrà abusare sempre di queste attribuzioni. Perché allora non può abusare delle sue attribuzioni la Camera dei Deputati o non può abusare il Senato, o non può abusare il Governo o il Capo dello Stato? Queste mi sembrano veramente obiezioni inconsistenti.

Ma, soprattutto, non è una Assemblea sovrana per la considerazione che questa Assemblea non esercita mai, per nessuna ragione, il potere legislativo e su questo punto, richiamo in modo particolare la vostra attenzione. Sia in materia legislativa ordinaria sia per la materia costituzionale, in caso di revisione costituzionale, mai interviene l’Assemblea Nazionale: è previsto sempre e soltanto l’intervento delle Assemblee legislative agenti separatamente e indipendentemente l’una dall’altra.

Ora, se questa Assemblea Nazionale non ha mai nessun potere legislativo, né ordinario né costituente, come si può ritenere che essa rappresenti veramente la chiave di volta di tutto il sistema costituzionale, l’organo sovrano che potrà sconvolgerlo completamente?

Non mi pare assolutamente possibile.

Ed allora passo ad esaminare direttamente quello che è veramente il punto centrale della questione. L’Assemblea Nazionale preoccupa soprattutto perché, secondo il progetto, ad essa è conferito il potere di accordare o di negare la fiducia al Governo.

Indubbiamente, l’Assemblea Nazionale, con questa attribuzione rappresenta una profonda innovazione rispetto alla tradizione.

Devo osservare anzitutto, a questo proposito, che il testo del progetto, per verità, si scosta notevolmente da quella che era stata la proposta originaria. La proposta originaria era questa: svincolare completamente il Governo, per le questioni di fiducia, dalle singole Camere separatamente agenti; deferire qualsiasi questione di controllo politico sul Governo e, in particolare, la questione di sfiducia o fiducia al Governo all’Assemblea Nazionale. Questa è stata l’idea originaria. La Commissione dei Settantacinque, pur accogliendo in parte questa idea, non ha ritenuto conveniente adottarla in pieno, ed è perciò che – pur avendo accolto il principio che il Governo, una volta nominato dal Presidente della Repubblica, debba presentarsi non alle singole Camere separate ma all’Assemblea nazionale – ha accolto d’altra parte il principio che le singole Camere possano esprimere, sia pure a determinate condizioni, la sfiducia al Governo, salva la possibilità al Governo di ricorrere quasi in appello all’Assemblea Nazionale. Se posso esprimere un parere personale, dico che con questa modificazione, il sistema proposto viene a perdere in gran parte i vantaggi che esso poteva e può offrire. Soprattutto per una ragione d’ordine pratico; perché un Governo, che in un certo momento sia stato messo in minoranza da una delle Camere, non ricorrerà mai all’Assemblea nazionale. Quindi, se fosse accolta l’idea dell’Assemblea nazionale e se, d’altra parte, si volesse conservare e restare fermi al punto che le Camere possano esprimere la sfiducia al Governo al quale pertanto la fiducia è stata accordata, secondo me non bisogna lasciare al Governo la facoltà di ricorrere all’Assemblea nazionale; ma se mai concedere questo potere al Presidente della Repubblica quasi a provocare, a costringere il Governo stesso a presentarsi all’Assemblea nazionale, specie quando la situazione politica non è sufficientemente chiarita, e ciò anche nell’interesse del Capo dello Stato perché questi possa avere maggiori elementi a disposizione per la scelta eventuale del nuovo Capo del Governo.

Comunque, a parte questa questione di ordine particolare, la questione si pone nei termini seguenti: è conveniente o non è conveniente questa innovazione del progetto? È conveniente abbandonare il principio tradizionale secondo il quale il Governo è responsabile di fronte alle Camere separatamente, o è più opportuno passare al sistema nuovo di svincolare, per quanto riguarda la questione di fiducia, il Governo dalle Camere, per renderlo responsabile soltanto di fronte alle due Camere riunite in Assemblea Nazionale? Questo è il problema.

Ora, a mio avviso, prima che l’Assemblea possa pronunciarsi su questo punto, sulla convenienza o meno di adottare questa soluzione innovativa, bisogna tener presente quelli che sono i presupposti di questa soluzione e le premesse che lo condizionano. E la premessa fondamentale è questa, che la nuova Costituzione, per quanto riguarda il Parlamento, si ispiri al principio bicamerale. Noi siamo partiti da questa premessa, quella di un Parlamento bicamerale e quindi formato da due Camere differenziate tra loro ed in posizione di parità e di uguaglianza. In regime repubblicano democratico non è possibile, secondo me, ammettere un bicameralismo con una seconda Camera che sia perfettamente uguale alla prima, perché la seconda Camera evidentemente non avrebbe ragion d’essere. Nel sistema bicamerale in regime repubblicano occorre, evidentemente, che la seconda Camera abbia qualche elemento di differenziazione rispetto alla prima. Questo elemento di differenziazione sarà dato dalla rappresentanza d’interessi o dalla rappresentanza delle Regioni o dalla rappresentanza dei Comuni o dalla rappresentanza del popolo preso in una particolare età e quindi in una particolare maturità; quello che volete. Comunque un elemento di differenziazione ci deve essere.

E qui devo ricollegarmi ad una osservazione, sotto certi aspetti acuta, ma che non mi sembra fondata, dell’onorevole Condorelli.

Egli fece questa osservazione: «voi mettete insieme ciò che non è possibile mettere insieme: per poter riunire le due Camere, almeno agli effetti di questa funzione, in Assemblea Nazionale, occorre che esse abbiano omogeneità tra di loro; se partite (come si deve partire secondo noi) dalla esistenza di due Camere differenziate fra di loro, non potete riunirle in unica Assemblea Nazionale, perché non si può riunire l’eterogeneo».

Io sono stato guidato da ragionamento opposto. Cioè: se dovessimo arrivare alla deliberazione di accogliere il Parlamento bicamerale, ma, sia pure per disperazione, si arrivasse ad accogliere un Senato perfettamente identico alla Camera, non vedrei mai la possibilità di riunirli, perché l’unica giustificazione di questa seconda Camera eguale alla prima non potrebbe essere che questa: che l’una e l’altra sono destinate ad agire separatamente. Se voi invece partite, come noi siamo partiti, dalla premessa di un Parlamento bicamerale, ma, tuttavia, riuscite a creare due Camere differenziate, allora si ha non solo l’opportunità ma, direi quasi, la necessità di riunirle, nei momenti difficili dello Stato, appunto perché queste due Camere, costruite in modo differenziato, sono precisamente destinate in certi momenti a confluire in Assemblea di rappresentanza unitaria di tutto il popolo.

E noi siamo partiti anche, evidentemente, dalla esigenza della parità delle due Camere.

Io capisco che non si possa ammettere la parità delle due Camere, quando una seconda Camera non ha base democratica, né diretta, né indiretta; d’accordo. Ma se istituiamo due Camere a base democratica e non le mettiamo in situazione di parità, quale costruzione facciamo?

A questo proposito ricordo di aver letto nei discorsi di Stalin una osservazione veramente acuta. Si discusse anche nella Commissione per la Costituzione sovietica del 1936 circa l’opportunità o meno di adottare il sistema bicamerale e di porre o meno le due Camere (Soviet dell’Unione e Soviet delle nazionalità) in situazione di parità fra di loro. Una corrente sostenne che le due Camere non potevano essere poste in condizioni di parità, ma che doveva essercene una destinata ad avere la prevalenza. Stalin si oppose a questa tendenza, precisamente perché diceva: se voi ponete queste due Camere in posizione di differente forza, non di parità, non diminuite i conflitti, ma li aumentate; ciò che elimina il conflitto fra le due Camere è la posizione di parità e l’uguale base democratica; se date ad una di esse posizione diversa da quella dell’altra, indubbiamente, solo per questo fatto, avrete conflitti continui.

Mi pare che questa sia osservazione molto esatta che cada precisamente nel caso nostro.

Comunque, le premesse da cui siamo partiti nel pensare all’Assemblea nazionale, sono precisamente queste: un Parlamento bicamerale con due Camere differenziate ed in posizione di eguaglianza. Il ragionamento che abbiamo fatto è molto semplice: noi istituiamo un Governo parlamentare, siamo tutti consci dei gravissimi inconvenienti dei Governo parlamentare in Italia, derivanti dalla pluralità dei partiti, dalla necessità dei Governi di coalizione, dalla mancanza di omogeneità e quindi dalla intrinseca, permanente instabilità dei Governi. Ed allora possiamo permetterci il lusso di rendere il Governo responsabile di fronte all’una e all’altra Camera? Cioè, di avere la possibilità di crisi continue di Governo per eventuale disaccordo tra l’una e l’altra Camera?

Mi pare che la soluzione proposta dal progetto, di rendere responsabile il Governo esclusivamente di fronte all’Assemblea Nazionale (si intende, miracolismi non se ne possono attendere) abbia almeno il vantaggio di escludere delle fonti di crisi, che non hanno ragion d’essere, perché, in definitiva, questa Assemblea nazionale rappresenta il corpo unitario ed integrale di tutta la Nazione, nei suoi organi rappresentativi. Questa è stata la ragione fondamentale, ripeto, che ci ha portato all’Assemblea Nazionale.

Non ci siamo illusi minimamente di risolvere in radice il problema della instabilità dei Governi, perché il male è molto più profondo e non si può correggere con dispositivi costituzionali. Non si può correggere forse nemmeno modificando il sistema elettorale. Abbiamo cercato di togliere una fonte inutile di crisi e crediamo che almeno da questo punto di vista tutti debbano convenire che questo vantaggio c’è. Senonché, ci è stato osservato: voi, con questo sistema di rendere responsabile il Governo esclusivamente di fronte all’Assemblea Nazionale, negate quello che volete affermare e uccidete il bicameralismo, proprio quando volete imperniare la Costituzione dello Stato su due Camere indipendenti tra di loro. Ora, veramente a me sembra che questa obiezione non sia molto consistente, perché non riesco a concepire, come esigenza del principio bicamerale, quello che avveniva ed avviene in certi Stati nei quali il Governo è responsabile di fronte alle due Camere indipendentemente e separatamente. Perché il sistema bicamerale – è un’osservazione contrastata dall’onorevole Fabbri – non importa affatto un sistema a tipo collegiale, come il consolato romano. Nel sistema bicamerale le due Camere sono bensì indipendenti e debbono agire quindi separatamente, ma sempre in vista di effetti unici finali. Ora, guardate come funziona il principio bicamerale per quanto riguarda la fiducia al Governo. Si può verificare questa ipotesi: un Governo, approvato da una Camera, e, successivamente, dall’altra Camera, ad un certo momento cade esclusivamente per volontà di una delle due Camere. Domando: è bicameralismo questo? Secondo il sistema bicamerale, per determinare questo effetto, per modificare la situazione preesistente, dovrebbe essere necessario ancora l’accordo fra la prima e la seconda Camera. A me sembra sia così.

Vi è un altro argomento per sostenere che non si lede il sistema bicamerale. Tutti certamente ricordiamo che secondo il vecchio Statuto del regno in certi casi si doveva, dalle Camere, procedere alla nomina del reggente. La dottrina si domandava: in questo caso, la nomina del reggente da parte delle Camere deve avvenire da parte delle due Camere separatamente ed indipendentemente agenti, o da parte delle due Camere riunite? I fautori del sistema bicamerale ritenevano che le due Camere dovessero agire separatamente, ma l’onorevole Orlando manifestò autorevolmente e – a mio avviso – fondatamente, la tesi contraria in base alla considerazione che l’atto di nomina è un atto che, di sua natura, non può e non deve essere compiuto che da un unico organo collegiale.

Ora io domando: l’approvazione, la fiducia al Governo, cosa è? Il Governo è formalmente nominato dal Capo dello Stato, ma soltanto formalmente, perché chi investe realmente il Governo della sua funzione è l’atto di fiducia che è la vera nomina da parte delle Camere. Se si tratta in definitiva di un atto di nomina da parte delle Camere è più conveniente avere due Camere o un’unica Assemblea Nazionale? Anche questo mi sembra sia un argomento il quale dimostra che effettivamente non siamo di fronte ad una esigenza…

FABBRI. Il Governo deve camminare con due gambe. Se resta con una gamba sola, cade.

TOSATO, Relatore. Io dico che questa innovazione non lede, per lo meno, il principio bicamerale.

CONTI, Relatore. Questa è zoologia; non costituzionalismo!

TOSATO, Relatore. Comunque a me pare che la soluzione proposta presenti un indubbio vantaggio, perché si evitano inutili motivi di crisi e con questo sistema non si urta – a mio modesto avviso – contro il principio del bicameralismo.

La soluzione che abbiamo proposta ha poi altri utili aspetti non trascurabili.

Innanzitutto, a me pare che non si possa prescindere dalla considerazione che indubbiamente l’Assemblea Nazionale avrà una maggiore solennità delle singole Camere e che quindi quando si tratterà di questioni di Governo, di fiducia o di sfiducia, gli stessi membri dell’Assemblea Nazionale saranno ricondotti ad un più alto senso di responsabilità. Non solo. L’Assemblea Nazionale, a mio avviso, permetterà un chiarimento più immediato e più diretto della situazione politica, e quindi permetterà anche al Capo dello Stato di prendere direttamente e più fondatamente decisioni politiche in ordine alla formazione del Governo.

Ma, a mio avviso, vi è poi un’altra ragione, alla quale io personalmente darei molta importanza, ed è che attraverso questo sistema dell’Assemblea Nazionale, come organo della fiducia al Governo, noi risolviamo il problema della divisione dei poteri nel Governo parlamentare. Chi ha a cuore la libertà, e il progresso nella libertà, non può non avere a cuore l’attuazione della divisione dei poteri. Il principio della divisione dei poteri non si oppone al principio della sovranità popolare. Si oppone soltanto alla dittatura, al totalitarismo. Orbene: tutti sanno che il Governo parlamentare tende alla confusione dei poteri. Con questo sistema dell’Assemblea Nazionale si arriva a saldare il principio della divisione dei poteri anche nel Governo parlamentare. Perché? Perché per le questioni di Governo sarebbe competente un’Assemblea, completamente distinta e indipendente dalle due Assemblee. Mentre l’attività legislativa verrebbe esercitata dalle due Assemblee separatamente e indipendentemente agenti, invece, per le questioni di Governo, si avrebbe la possibilità di una Assemblea diversa, la quale sarà competente a decidere soltanto di questioni di carattere fondamentale, di suprema direzione politica. Con quale beneficio per il normale svolgimento dell’attività legislativa svincolata così dalle continue pressioni e dalle questioni di vita o di morte dei Governi, con quale beneficio per la stabilità dei Governi stessi, sottratti così al quotidiano assalto alla diligenza, è evidente. Il Governo parlamentare si è tradotto in Italia in un confusionismo di poteri, che è deleterio per fattività legislativa e per l’efficienza dei Governi. Bisogna porvi riparo. Se non si vuole che il potere legislativo sfugga inesorabilmente alle Camere, se non si vuole che il Governo parlamentare si traduca e degeneri in Governo di Assemblea, in un comitato esecutivo delle Camere, con le conseguenze che ne derivano, occorre ristabilire, per quanto è possibile, la divisione dei poteri. E da questo punto di vista, l’innovazione introdotta nel progetto relativa ai nuovi compili dell’Assemblea Nazionale, potrebbe essere un rimedio eccellente.

Ad ogni modo, questi sono i criteri fondamentali che ispirano il progetto e le disposizioni in esso contenute. Io ho cercato di esporvi la materia nel modo più semplice, nel modo più chiaro: vi ho parlato con franchezza, e, credo, anche con obiettività. Personalmente, io ritengo che le soluzioni proposte possano essere prese in attenta considerazione. Prenda ora l’Assemblea Costituente la sua responsabilità. (Vivi applausi – Congratulazioni).

(La seduta, sospesa alle 18.10, è ripresa alle 18.20).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Parlo come relatore dei relatori. Ho detto altra volta che il mio compito è di notaio. Debbo chiarire le tendenze, localizzare i dissensi, esporne le ragioni, da una parte e dall’altra, obbiettivamente. E dirò quando mi avvenga di esprimere una mia opinione personale.

Dopo molte analisi sottili e profonde, si sente il bisogno di semplificare, e di inquadrare insieme tutti i problemi. Sarò un annunciatore di problemi. Cercherò di farli vedere sinteticamente come in un panorama.

Non svolgerò teorie e dottrine. Un solo e rapido accenno, alle posizioni iniziali, per comprendere gli atteggiamenti e le soluzioni che ne discendono nei problemi concreti.

Si presuppone il tipo dello Stato; se ne è discusso in Commissione; si è riconosciuto da tutti; ed anche qui nell’Aula abbiamo sentito, da Clerici a La Rocca, che il nostro deve essere uno Stato parlamentare. Ma cosa è «Stato parlamentare»? Con la consueta finezza – poiché vi sarà il referendum e lo scioglimento delle Camere – Mortati propone di dire «semiparlamentare».

La formula, pur facendo sempre capo al Parlamento si presta ad aver contenuto e figure diverse. Bisogna andare alla sostanza delle cose, e vedere cos’era storicamente il regime parlamentare nel quale abbiamo vissuto, e come è nato in antitesi al regime assoluto, ed anche a quello «costituzionale», dove ancor prevaleva il potere del Re. Per mettervi sotto gli occhi un’immagine drastica – di cui mi varrò come motivo fondamentale del mio discorso – lo Stato parlamentare era un edificio a due piloni. Vi era il pilone della monarchia tradizionale che, per quanto si richiamasse anche alla «volontà della Nazione», si basava sulla grazia divina e sul diritto ereditario. Dall’altra parte avevamo il pilone del Parlamento, che usciva dall’elezione e dalla volontà popolare. Fra i due piloni si lanciava un arco di ponte, che era il Gabinetto ministeriale. Regime parlamentare e regime di gabinetto – come ci insegnò Orlando, il nostro Maestro – coincidevano storicamente, fra loro.

Che cosa è avvenuto? Uno di questi piloni, il regio, è crollato. Quali conseguenze dobbiamo trarne? Che cosa dobbiamo fare? Si pongono così, realisticamente, i problemi.

Vi sono ora due tendenze estremiste, che si sono affermate qui, nella discussione, non tanto in proposte pratiche, quanto in aspirazioni ed idee-limite, che affiorano ogni tanto. La corrente estremista di sinistra trovò qualche espressione, durante la discussione generale del progetto di costituzione, nei discorsi di Nenni e Togliatti, ed in una lucida esposizione di Laconi; è stata ripresa testé, più accentuatamente, in un brillante intervento di La Rocca. Ecco quale è questa concezione.

Badate; è una cosa molto seria, non solo per le forze che ispira e convoglia, ma anche per la sua impostazione di pensiero; che si riallaccia, del resto, ad alcune definizioni della democrazia di Kelsen, e non dispiace a spiriti riflessivi come Salvatorelli. Ma è, nella sua essenza, e nella sua rigorosa consequenzialità, concezione estrema e di punta, a sinistra.

Si presenta nell’aspetto di un sillogismo. Vi è una sovranità unica, e ne è depositario il popolo. Vi è una delegazione unica di sovranità, ed è fatta al Parlamento. Dunque: ogni potere – anche l’esecutivo, lo ha sottolineato La Rocca – s’incentra nel Parlamento; e tutti gli altri organi – nessuno eccettuato – il Capo dello Stato, il Governo, la Magistratura, sono «commessi» – dico la parola meditatamente, perché è stata scritta, commessi revocabili ad un nutum per volontà del Parlamento.

È il modo più spinto e più pieno di concepire lo Stato parlamentare; e non è evidentemente la forma ottocentesca che ne ebbe il nome. I suoi sostenitori idealizzano ed esaltano un tipo di Stato che non è soltanto il più democratico, il vero democratico, perché tutto proviene unitariamente dal popolo; ma – si è scritto – assicura la maggior stabilità al Governo investito dal Parlamento; né – ogni potere risiedendo nel Parlamento – è possibile una dittatura personale.

Tali argomenti han suscitato confutazioni e dinieghi. Si è osservato che se il Parlamento ha illimitatamente tutti i poteri, anche questa è dittatura, sia pure collettiva. Anche questo è totalitarismo. E come parlare di stabilità di governi revocabili ad nutum? E come ignorare che, in clima di dittatura, lo sbocco storico più facile è a quella delle persone? La concezione di sinistra, continua la critica, porta ad un Governo di Assemblea o di Convenzione, demolitore, tumultuoso, instabilissimo; quando non sia – anche ciò avviene – parvenza e maschera, in una plumblea fissità, ad un dittatore velato. Proudhon riassume così: il Governo d’assemblea ha tutti i difetti della dittatura, senza averne il pregio della responsabilità individuale.

Fonte prima dell’attuale concezione di sinistra è Rousseau con la sovranità popolare. Un colosso, Rousseau, nella storia del pensiero e dell’azione, come Marx. I nostri estremisti, per quanto concerne gli istituti politici, rinnegano Marx per Rousseau. E deviano anche da questi, che nega ogni facoltà di delegazione della sovranità ad altri che non sia il popolo; e vogliono un vero trasferimento di sovranità nel Parlamento, con un atto vero di delegazione. Tutti i poteri al Parlamento; non vi siamo ancora arrivati, ha detto La Rocca, ma vogliamo che il Parlamento abbia anche il potere esecutivo. Che è perfettamente un assurdo ed un’impossibilità assoluta, nel Parlamento attuale, come lo era nella «landesgemeinde» cara a Rousseau.

Ed ecco, per contrapposto, all’estrema destra l’altra concezione. Basata sulla tenace nostalgia del pilone, che è caduto. La sua ombra agisce ancora. Si vorrebbe tornare, in definitiva, all’antico edificio, quale era. Posizione impenitentemente conservatrice, il cui spirito aleggia anche nei discorsi di uomini di primissimo ordine, come Orlando e Nitti. Ha detto Nitti, esplicitamente, che la monarchia non risorgerà mai più; ha espressa una fede che è anche la mia (ma è necessaria maggior vigilanza che egli non creda). Questi uomini eminentissimi non chieggono la rinascita della monarchia; ma pensano come se non vedessero che il famoso pilone non c’è più, e che è necessario rifare l’edificio su basi in parte nuove. Bisogna essere cauti, non far salti nel buio, stare nel terreno saldo, utilizzare i materiali esistenti; ma insomma non aver paura di attenersi alle esigenze nuove; non essere conservatori, come lo sono Orlando e Nitti.

È venuto un enfant terrible, un uomo di forte ingegno, un «loico», Condorelli; e – denunziati gli inconvenienti ed i mali dell’odierno momento – ha dichiarato che nessun avvedimento d’altro genere può eliminarli, se non si ristabilisce tale e quale il filone del Re. Potrei osservargli che i mali e gli inconvenienti esistevano (egli stesso in altre parti del suo discorso l’ha detto) quando vi era la monarchia, e che questa non ha evitato quanto è avvenuto. Mi basta dargli atto della sua consequenzialità.

Io prendo netta posizione contro l’uno e l’altro estremismo: ne sono egualmente distante; e dissento da Nenni e Togliatti, come da Orlando e Nitti. Credo di essere sopra una via giusta, di equilibrio e di necessità, che è la via seguita dal progetto di costituzione; e può essa sola servire alla causa della democrazia ed al bene del Paese (Approvazioni).

Che cosa bisogna fare? Ristabilire in altra forma, democraticamente, il pilone crollato; ed allargare le fondamenta della casa, rinsaldandole ed affondandole sempre più nella sovranità popolare. Far capo al Parlamento, che è l’espressione preminente, ma non la sola, della sovranità popolare. Il sovrano non è il Parlamento; è il popolo che ha due emanazioni essenziali della sua sovranità: l’elezione dell’organo parlamentare ed il referendum. Nella nuova costituzione bisogna far posto, così, anche al referendum. E cogliere tutte le altre possibili emanazioni della sovranità popolare, stabilendo l’equilibrio fra gli organi dello Stato nell’orbita inderogabile della sovranità popolare.

Non disturbiamo, a questo riguardo, la venerabile teoria della divisione dei poteri, contro la quale si sono condotte, qui dentro, crociate; ed Ambrosini con la sua mirabile penetrazione, disturbando Aristotile e Montesquieu, ha messo il dito sul punto che, quando un organo ha tutti i poteri, è spinto dalla natura delle cose ad abusarne. La vecchia teoria è in gran parte superata (tant’è che noi non l’abbiamo seguita per la denominazione dei titoli nel nostro progetto); ma quanto bene ha fatto per la libertà e per la creazione dello Stato moderno! Né dobbiamo vergognarci, come d’un relitto democratico, dell’esigenza di equilibrio, di freni e di contrappesi, di cheks and balances che viene pure dalla più bella costituzione del mondo, la americana. Noi vogliamo ricordare e subordinare tutti gli organi dello Stato alla sovranità popolare. Vi sono, oltre il Parlamento, altri organi che emanano, per elezione diretta, o almeno indiretta, dalla volontà popolare; come il Capo dello Stato. Altri ancora non provengono da elezione, ma da concorsi; tipica è la magistratura; e deve essere autonoma; ma esercita anch’essa il suo potere in nome del popolo; e non può sottrarsi alla sua sovranità, racchiudendosi come in un mandarinato (ecco perché nel nostro progetto mettiamo nel Consiglio superiore della magistratura la rappresentanza del Parlamento).

Anche il Governo, che non può vivere senza la fiducia del Parlamento, deve avere – lo ha ammesso Gullo – una sua autonomia; l’amministrazione è la struttura e la continuità dello Stato; e non può essere sconvolta e revocata capricciosamente, ad nutum, né dal Governo né dal Parlamento. Il popolo è la forza che avvolge e muove tutto lo Stato; il solo organo originario, anche se non configurato e fissato formalmente come gli altri che ne derivano; è il popolo che deve sempre avere la prima e l’ultima parola. Noi siamo già entrati in una fase dello Stato che si potrebbe chiamare «popolare», più ancora che «parlamentare».

Nella gerarchia degli organi, subordinati tutti al popolo, prevale necessariamente il Parlamento, che è di immediata designazione del popolo, ha la funzione legislativa; ma non vogliamo abbandonarci alla ossessione allucinata ed unilaterale di una sovranità ed onnipotenza del Parlamento; né condannare tutti gli altri organi come ritardatari. Esistono esigenze di riflessione e di meditazione. Una frase della mia relazione è citata e ripetuta: «bisogna in certi casi pensarci su». L’edificio costituzionale deve essere armonico ed equilibrato; il Parlamento ne è il centro; ma non il Solo ed il Tutto. I colleghi d’estrema, che inclinano ad un Governo d’Assemblea, che possa con un colpo di testa modificare tutto, pensino al pericolo del boomerang; la loro teoria potrebbe essere attuata contro di loro e contro la democrazia. Le conquiste democratiche e sociali bisogna guadagnarle e consolidarle pezzo per pezzo nel tessuto dello Stato, che va penetrato e ravvivato dal sano spirito della democrazia e del lavoro, e va difeso con trincee efficaci contro le demolizioni e le sovversioni anti-democratiche e reazionarie. Questa è la visione che deve ispirare la nostra Costituzione.

Entriamo ora nel concreto e nel particolare dei problemi da risolvere.

I più importanti sono tre; composizione del Senato, elezione del Capo dello Stato, posizione del Primo Ministro nel Governo. Li tratterò nell’ordine logico ed al loro posto in connessione agli altri argomenti.

Le correnti e gli atteggiamenti generali che abbiamo visto si riflettono nella questione se vi devono essere due Camere od una Camera sola. Gli estremisti di sinistra, che partono dalla unicità della delegazione di sovranità popolare ad un solo organo debbono essere, nella loro logica, monocameralisti; aspirazione che si è sentita in più d’un intervento. Ma non si è formulata in alcuna proposta d’emendamento. Vi sono, in realtà, varie gradazioni: 1°) monocameralismo, in senso assoluto; 2°) vi sia pure una seconda Camera, ma soltanto con funzioni consultive (si noti che, se è contenuta in questi caratteri, alcuni comunisti e socialisti han dichiarato che accetterebbero, per la seconda Camera, il sistema della rappresentanza organica); 3°) si può ammettere una seconda Camera, vera e propria, purché sempre a base elettiva, ma con minori funzioni o con prevalenza, in certi casi ed in certe materie, della prima. L’esigenza limitatrice è stata formulata da La Rocca, nei termini che anche la seconda Camera deve provenire dalla volontà popolare; ed i suoi modi di formazione non debbono alterare i risultati che il suffragio universale, indiscriminato, imprime all’altra Camera.

Due Camere dunque; questo si può considerare acquisito.

Sorge, sulla soglia degli altri temi, se sia ammissibile o no l’Assemblea Nazionale, come riunione delle due Camere. Sono stati contro: Orlando nella discussione generale, ed in questa Nitti, riecheggiato da Codacci Pisanelli e da Fuschini. «Con l’Assemblea Nazionale, ha esclamato Codacci Pisanelli, il monocameralismo, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra». E Fuschini denuncia il «tricameralismo». Interessanti cose ha dette l’onorevole Nitti; il Comitato lo ringrazia di non aver fatto soltanto una critica erosiva, ma costruttiva; ed io sono lieto della dichiarazione a me fatta, che le differenze tra il nostro progetto e le sue proposte non sono poi grandi.

Egli però non ha interpretato esattamente il mio pensiero dicendo che nella relazione ho parlato di una nuova Camera, di una terza Camera. No; ho rilevato che si tratta di un «nuovo istituto».

NITTI. È la stessa cosa, onorevole Ruini.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. No; ed è del resto istituto nuovo per l’Italia, non per altri paesi, dove già esiste, e sta in molte Costituzioni – anche qui l’onorevole Nitti non è esatto – per l’elezione del Capo dello Stato, e per altri compiti, che vanno dalla revisione costituzionale, al componimento dei dissensi fra le due Camere. Non è nel nostro progetto un organo permanente; non basta che abbia un regolamento; né ha un presidente proprio; è un istituto, una procedura, piuttosto che un organo a sé del Parlamento.

Posto che non vi è più differenza sostanziale fra una prima Camera eletta dal popolo ed una seconda del re – posto che tutte due, pur in forme diverse, emanano dalla designazione popolare – nulla si oppone a che si possano raccogliere insieme, in determinati casi, con risparmio di tempo, con risparmio di conflitti, per raggiungere una sintesi che si può ottenere meglio in questa forma che con adunanze separate. Non vedo cosa vi sia di strano e di mostruoso, onorevoli colleghi. Potete anche votar contro. Il Comitato ha creduto, né vi sono state vere divergenze, di proporre un istituto che non esisteva nel vecchio edificio, e che afferma il carattere nuovo e comune dei due rami del Parlamento che, in certi momenti essenziali della vita del Paese, deliberano unitamente.

Ho pensato molto; e non sono riuscito a capire perché Orlando vede nell’Assemblea Nazionale un pericolo di totalitarismo. È, caso mai, un baluardo contro il totalitarismo di una Camera sola.

Le funzioni assegnate dal progetto all’Assemblea Nazionale sono, oltre la elezione del Capo dello Stato, altri atti attinenti ad organi importanti dello Stato, quali – attraverso il voto di fiducia o sfiducia – la formazione del Governo e, con la designazione di loro membri, quella del Consiglio Superiore della Magistratura e della Corte suprema di garanzia costituzionale. Infine: la dichiarazione di guerra e di mobilitazione generale; e l’amnistia e l’indulto. Da notare che sono in complesso nomine ed atti che non rientrano nella funzione legislativa vera e propria: Tosato lo ha sottolineato.

L’elenco potrà essere riveduto. Fuschini, il critico dell’Assemblea Nazionale, cancella altri casi, ma aggiunge la concessione dei pieni poteri per la guerra. Qualcuno pensa a riunioni comuni anche nei disaccordi fra le due Camere. Non credo che vi possa essere, su questo argomento, occasione a battaglie vivaci. Ma basta aver mostrato che questo istituto – qualunque ne sia la sorte – non rientra nel «museo degli orrori» a cui si è voluto, per alcuni aspetti, assomigliare il progetto.

Parliamo ora delle due Camere, distintamente.

Pochi dibattiti vi saranno per la prima. Si è rinviata alla legge elettorale il sistema da seguire nell’elezione. Finirà col restare la proporzionale: che – dato il fatto storico della determinazione nella vita pubblica dei partiti di massa – è logica ed inevitabile; e sono del resto i piccoli partiti che hanno interesse ad avere così una rappresentanza, se non altro nella lista nazionale. Mentre l’onorevole Nitti si pente di aver varata la proporzionale nell’altro dopoguerra, io ritengo che, se non vi fosse stata, nell’alta Italia non sarebbero riesciti che socialisti e comunisti, salvo pochi democristiani, e si sarebbe scavato un solco di differenziazione fra Nord e Sud. Ad ogni modo savio è stato il rinvio; in sede di legge elettorale si sceglieranno forme e modi diversi, possibili nella proporzionale.

L’onorevole Nitti ha sollevata una questione sul numero dei membri del Parlamento, secondo il progetto. Troppi, ha detto; in nessun altro paese sono tanti quanti voi proponete! Non è così; ho a disposizione dell’onorevole Nitti un quadro, dal quale risulta che se i parlamentari, i politicians, sono in minor numero negli Stati Uniti (e qualcuno se ne lagna, per il carattere «professionale ed oligarchico» che ne deriva), sono di più in Francia, in Inghilterra ed altrove. L’onorevole Nitti troverà resistenza nei piccoli partiti, come il suo, se vorrà ridurre il numero. Siamo ad ogni modo d’accordo: non troppi; nel suo vivido discorso l’amico Conti ne ha detto le ragioni.

Quanti? La seconda Sottocommissione proponeva un deputato ogni 100 mila abitanti o frazione superiore a 50 mila; sarebbero da 450 a 500 deputati. In Commissione plenaria la cifra fu diminuita ad 80 mila e 40 mila abitanti; diverrebbero da 550 a 600 deputati. Un emendamento vuole risalir su, a 120 mila e 60 mila; si scenderebbe, in correlazione, a 350-400 deputati. Si noti che questi risultati valgono per la prima Assemblea; aumenteranno in seguito, i deputati, secondo i futuri censimenti, nella prolifica Italia.

A voi la scelta; forse la cifra intermedia è la buona.

Passiamo alla seconda Camera; che presenta le maggiori difficoltà; ed a dir vero non vi è soltanto indecisione in parecchi partiti, ma anche nei singoli cervelli sulla soluzione da adottare.

Liberiamo il terreno dalle questioni minori. Il nome. La seconda Sottocommissione l’aveva lasciato in bianco, per la riluttanza a cogliere anche nel solo nome l’eredità del Senato regio e fascista. Riuscii, in adunanza dei Settantacinque, a far passare «Camera dei senatori»; di più non sarebbe stato possibile; e non era designazione «mostruosa» (quanti mostri vede la fantasia di Nitti!); perché fa risaltare, meglio di Senato, l’origine elettiva; e poi – perdonatemi – non mi piace la prosopopea dei nomi collegati, come accentua Nitti, alla grandezza antica; mi viene qualche volte voglia di ripetere: «chi ci libererà dai greci e da romani?»; ed egli stesso, l’onorevole Nitti, ci ha insegnato che il Senato di Roma era così diverso da questo nostro, che veniamo a formare. Comunque sia, non credo che noi costituenti ci tireremo per un nome i capelli. Sia pure: «Senato della Repubblica».

Numero dei senatori. Ricordiamoci: non troppi. Il progetto ne assegna uno per 200.000 o frazione superiore a 100.000. Sarebbero 250 senatori; e con l’aggiunta di 5 per ogni Regione si arriverebbe verso i 300. È opinione abbastanza diffusa, io riferisco, che 500 deputati e 300 senatori (meno che nell’ex Regno) sono una cifra attendibile.

Età. Il progetto propone che pel Senato – chiamiamolo pure così – l’elettorato attivo sia portato a 25 anni, ed il passivo a 35. Il collega Preti protesta perché si tagliano e si lasciano fuori dei diritti elettorali categorie di cittadini. Ma bisogna pure che se il nome di Senato o Camera dei senatori, deve aver qualche senso, bisogna – anche senza arrivare ai vecchioni – mettere una certa differenza di età. Tant’è che, per gli eleggibili, emendamenti portano il limite a 40 anni. Per conto mio, malgrado l’eco fascista degli sguaiati e funesti canti di giovinezza, sono per andar incontro ai giovani; e non dico con Croce che il loro diritto è di diventare vecchi. Sono la forza a cui affidiamo il nuovo Stato. Ma non mi sembra che sia offesa ed eresia chiedere, per una seconda Camera, un modesto livello di maturità e d’esperienza più alto.

Condizione per diventare senatori: essere nati o domiciliati nella Regione dove saranno eletti. La condizione si era ispirata all’impronta regionale che si vuol dare, in qualche modo, ai senatori; ma ha sollevato dubbi ed opposizioni, non sembrando logico né giusto escludere dall’eleggibilità chi, senza esservi nato o senza avervi domicilio, ha vincoli con una Regione, ed è ritenuto degno di rappresentarla.

Categorie nelle quali debbono essere scelti i senatori. Trovate nel progetto un elenco, piuttosto eterogeneo, che taluno ha battezzato per «bazar». Quante fatiche, ahimè, richiese l’arrivarvi! Fu, in origine, nella seconda Sottocommissione, uno sforzo di adattare la tesi della rappresentanza organica alle critiche che le erano rivolte; si pensi di lasciare le categorie professionali, e di andare al collegio unico. Avvenne quella che Condorelli chiamerebbe «eterogenesi dei fini»; ossia si raggiunsero, per strada, diversi effetti. Le categorie perdettero l’impronta originaria; e diventarono il… bazar di svariata natura; così che – se una qualificazione potrebbe essere opportuna per la nomina a senatori – la scelta delle categorie non sembra a molti felice. Fioccano le critiche: si dice da sinistra che i ceti operai troverebbero sbarrata la via; e che per certi casi – i consiglieri comunali e provinciali – non sarà possibile, con la parentesi fascista, mettere assieme il quadriennio richiesto. Si vuole d’altra parte includere anche i decorati al valore della guerra 1914-18; non soltanto di quella 1943-46; che in ogni modo, si dice, dovrebbero passare alle disposizioni transitorie. Questioni tutte, più o meno piccole, che deciderete a loro luogo, se non prevarrà la proposta di Preti e di altri di togliere via, senz’altro, il «bazar».

Vi sono, sempre per la seconda Camera, due altre questioni pregiudiziali, prima di affrontare la più vera e maggiore. L’una è se una quota di senatori, il terzo, come dice il progetto, sia riservato alla elezione da parte dei Consigli regionali. Si oppongono gli antiregionalisti, che non si adattano al fatto compiuto dell’ente Regione, già entrato nel testo costituzionale; e motivano la loro particolare opposizione a questo punto col rilievo che la composizione del Senato diverrebbe un «fritto misto», e si determinerebbe una sperequazione per la non egualmente proporzionale rappresentanza assegnata alle Regioni. Sia lecito a tale riguardo rinviare alla discussione dell’apposito articolo; non mancano d’altra parte emendamenti che sopprimerebbero i 5 senatori attribuiti ad ogni Regione in più della quota proporzionale che le spetta in base alla sua popolazione.

Prescindendo per ora da ciò, sta di fatto – rispondono i sostenitori della rappresentazione regionale – che introdotta la figura delle Regioni nell’ordinamento italiano, non si può non tenerne conto anche per la composizione del Senato. Senza arrivare a dire con l’onorevole Condorelli che il sistema regionale da noi adottato è un sistema federale.

CONDORELLI. Ho detto «cripto»…

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. …E sia, ma federalista non è; ed anche il semplice Stato regionale, come lo ha chiamato Ambrosini, può giustificare questa modesta partecipazione degli organi costituiti nella Regione alla formazione di un ramo del Parlamento, che potrà così funzionare più efficacemente da coordinatore e mediatore fra gli interessi dei nuovissimi enti, da cui l’amico Conti tanto attende per il rinnovamento anche spirituale dell’Italia.

Tolta la quota pei Consigli regionali, restano i due terzi al sistema più generale di designazione. Ma si prospetta un’altra assegnazione di quota speciale. Si chiede da più parti che un nucleo di senatori sia sottratto al sistema normale di elezioni; e si fa sfilare una serie di soluzioni diverse, risalendo a criteri che si seguono in diversi paesi. Ecco la gamma di ipotesi. Vi è l’elezione d’una parte del Senato dalla Camera dei deputati; vi è una forma parziale di cooptazione esercitata dallo stesso Senato; vi è l’entrata di diritto nel Senato di chi riveste certe cariche od ha dati requisiti; vi è la nomina riservata al Capo dello Stato di un certo numero di Senatori. Questi senatori extra possono essere vitalizi, o designati per una sola legislatura, salvo riconferma.

Siffatta casistica si riflette in emendamenti presentati od annunciati: che contemplano una quota di senatori di diritto (Preziosi); lasciati alla libera scelta del Capo dello Stato (Russo Perez); nominati dal Capo dello Stato fra date categorie (Rubilli, Di Gloria, Macrelli). Prevale il criterio di aprir le porte del Senato ad uomini che hanno rivestito alte cariche (Presidenza della Repubblica, delle Camere, del Consiglio, più volte Ministri) o sono stati deputati per più legislature; né si sottoporrebbero più alle dure fatiche d’una campagna elettorale, mentre gioverebbe al Paese che la loro competenza ed esperienza non mancasse nel Parlamento.

Riferisco i motivi addotti a favore di questo nucleo di senatori extra. Altri motivi si adducono in contrario: che ammettendo un’eccezione, più o meno larga, si snatura la sostanza elettiva del Senato; si pongono in essere stridenti disparità di membri vitalizi e di membri temporanei di una stessa Camera; si fa – io riferisco – un «pasticcio», per mere considerazioni personali.

Da fedele notaio, avverto che, per attenuare le obbiezioni, si fa avanti la proposta (di Persico e di altri) di una norma transitoria, che ammetterebbe l’immissione d’un gruppo di senatori di diritto – per anzianità politica e parlamentare – soltanto per il primo Senato da formarsi dopo la Costituzione, quando, d’altra parte, non si potrà ancora addivenire alle designazioni dei Consigli regionali.

Basta con le minori questioni che pur daranno luogo a dibattito, ed io dovevo incanalarlo.

Per il Senato – detratte le quote accennate – vi è l’esigenza che il modo di nomina sia l’elezione; se no verrebbe meno il lineamento del nuovo Stato democratico. E, posta la ragione che giustifica l’esistenza di una seconda Camera, vi è pur l’esigenza che non sia un doppione assoluto dell’altra; se no, si farebbe più presto a sommare gli eletti ed a metterli dentro una sola aula. Altr’è che la differenza sia radicale o attenuata; anche in quest’ultimo caso può giovare un separato e successivo esame degli atti legislativi. Ma doppione non sia!

All’elezione si offrono, come vie maestre, due metodi: il suffragio diretto e l’indiretto. Dopo una non breve oscillazione di idee, la Commissione dei Settantacinque, de guerre lasse, finì con l’accettare il sistema del suffragio universale diretto, con le sole differenze dalla prima Camera dell’età diversa per gli elettori e per eleggibili, e con la qualificazione (il cosiddetto bazar) delle categorie alle quali si deve appartenere per diventare senatori. Non dirò tuttavia che molti – forse i più – siano rimasti definitivamente persuasi. Rampollano i dubbi e la ricerca di altre soluzioni.

Fu respinta invece, in seno ai Settantacinque, la proposta Perassi di ricorrere ad una elezione di secondo grado, da parte di grandi elettori designati a suffragio universale. Si obbiettò che questo più lungo processo era inutile, e preferibile l’elezione diretta. Al che si potrebbe rispondere che piena identità non vi è, e che una riunione d’elettori di primo grado può prestarsi, meglio che una votazione immediata e definitiva di massa, a concordare una buona scelta. Sarebbe un vantaggio…

RUSSO PEREZ. Vantaggio delle camarille…

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. …Fino ad un certo punto; ma io accenno al vantaggio che vi potrebbe essere in accordi che temperassero il più acceso partitismo del suffragio diretto.

Ad ogni modo i due metodi, puri e nudi, del suffragio diretto o indiretto si prestano a più complesse determinazioni. Ed han dato luogo, di fatti, a nuovi congegni, che tengon ora il campo delle proposte, e si esprimono nei tre più dibattuti sistemi della rappresentanza organica, dell’elezione da parte dei Consigli comunali, del collegio uninominale.

La rappresentanza organica – sostenuta dai democratici cristiani, e non da essi soltanto, almeno in passato – è la rappresentanza degli interessi; non meramente professionali ed economici, ma anche culturali e spirituali; non si traduce nel professionismo puro od in un rigido classismo; implica un concetto più largo di rappresentanza, che Piccioni molto abilmente ha richiamato da un ordine del giorno Einaudi nella seconda Sottocommissione, delle «forze vive» del Paese. Accanto alla rappresentanza, che si addice alla prima Camera, dell’individuo come tale, «dell’uomo tutt’intero» (come io scrivevo tanti anni fa), sta una rappresentanza che non è tanto di gruppi quanto di uomini, degli uomini stessi sorpresi da una doppia fotografia della realtà, che è sempre una sola; ma qui l’uomo appunto è colto concretamente, organicamente, nelle particolari forme di sua attività.

Questo è il concetto base della rappresentanza organica; che trova un fierissimo handicap nei ricordi dell’ordinamento corporativo, e desta i «residuati» di una ripugnanza profonda contro il fascismo; del quale la rappresentanza d’interessi (come tante altre cose) non è pensiero originale; anzi è un’idea che esso ha carpita da correnti anteriori di movimento etico-sociale, sovrattutto e non solo, di impronta cattolica; e le ha deformate ed esagerate nel suo grottesco corporativismo.

Si spiega così come contro l’attuale proposta della rappresentanza organica nella formazione del Senato si leva l’opposizione quasi generale degli altri settori dell’Assemblea; ed i socialisti e comunisti sono i primi ad accentuare un reciso diniego. Affermano che un tale genere di rappresentanza (o pseudo rappresentanza) ferisce l’idea in sé del suffragio universale, che deve essere indiscriminato; ed intacca sul principio che abbiamo scritto nella nostra Costituzione, nel senso che il voto deve essere «personale ed eguale». La rappresentanza di interessi, si afferma, è antiegualitaria ed antidemocratica; è l’espressione naturale delle tendenze retrive, e l’antitesi dello sforzo che è in atto di rinnovazione sociale. La condanna non potrebbe essere più aspra; quale la ho sentita in quest’Aula da Preti, da La Rocca, da altri.

Ai quali han ribattuto Ambrosini, Clerici, Mortati; e specialmente Piccioni ha messo in luce che, anche nella rappresentanza degli interessi, l’elezione viene dal popolo; e che il suffragio universale non deve essere soltanto indistinto; bisogna captare altre fonti e forme rappresentative della vita economica. Una rappresentanza d’interessi non trattiene; spinge a riforme sociali; e posta a base del Senato, concorre, dice Piccioni, a garantire meglio l’equilibrio e l’integrazione dei poteri, e assicurare maggior competenza tecnica e maturità d’esperienza, a mantenere una più ferma stabilità di Governi.

Per verità, a prescindere dalle ragioni hinc inde dedotte, comprendo la diffidenza e le ostilità dei liberali – sebbene anche Ruffini abbia accolta l’idea della rappresentanza organica nel Senato; la comprendo meglio di quella dei socialisti, che in passato ebbero diverso atteggiamento. Poiché mi sono occupato di questi problemi nel 1906 – quarant’anni fa, onorevoli colleghi – e poiché non rinnego il mio pensiero d’allora – desidero ricordare che anche in seno ai democratici ed ai socialisti (fin da allora parlavo di «democrazia del lavoro») si pensava alla rappresentanza di interessi come ad uno sbocco del movimento in cammino. E quando nel 1919, sottosegretario del lavoro, impostai la questione della riforma di quel Consiglio nazionale, risposero le organizzazioni operaie e la loro Confederazione generale, spingendosi, nel sostenere la rappresentanza organica, al di là dei cancelli del Consiglio nazionale del lavoro; e chiedendo che il Senato regio fosse sostituito da una seconda Camera sulle basi delle forze vive e dei veri interessi del Paese. Vedo su quei banchi l’onorevole D’Aragona: pensa ancora come una volta?

In sostanza l’«abisso» e la inconciliabile antitesi, che si è denunciata, non esiste; tant’è vero che socialisti e comunisti continuano a propugnare, per il Consiglio nazionale del lavoro, un sistema di rappresentanza d’interessi, che i democratici cristiani vogliono introdurre anche nel Senato. La differenza ha certamente una sua portata; ma dove è l’«abisso»?

Per la riforma del Senato nel senso indicato vi è un argomento, sul quale vorrei richiamare la vostra attenzione. Nel suo veramente largo e notevole discorso l’onorevole Clerici ha notato che si deve cercar di vincere il discredito e l’indifferenza che ormai circonda il Parlamento. Vorrei esprimere l’argomento in forma più netta; e rilevare che – se il Parlamento appare «vuoto di contenuto» ad un osservatore come Mario Ferrara – è perché i problemi più vitali e profondi della nazione si trattano e si risolvono al di fuori. Sono le Confederazioni economiche, e soprattutto quella del lavoro, che conducono e decidono le questioni più gravi, fuori di qui. Se fosse possibile inserire nel Senato tali forze, con una loro rappresentanza diretta, tutto il Parlamento acquisterebbe maggior contenuto e prestigio.

La difficoltà sta nella realizzazione; ed anche Piccioni lo riconosce; ma crede che, ammesso il principio, non sarà impossibile tracciare uno schema abbastanza concreto. Avrei preferito che questo fosse abbozzato prima, per far accettare il principio. L’ordine del giorno Piccioni accenna una formula che all’atto pratico non sarebbe facile attuare e potrebbe dar luogo a controversie ed a soluzioni diverse, specialmente per quanto concerne il riferimento al criterio del numero, temperato dalla qualificazione del lavoro.

Non è facile neppure la enucleazione e la determinazione dei grandi rami della rappresentanza d’interessi. Fu tentata più volte; applicata in certo modo anche alla Consulta; studiata durante i lavori della nostra Commissione da Tosato e da Mortati. Siamo d’accordo; anch’io ho fatto i miei saggi: potrebbero essere sei grandi categorie: agricoltura, industria, commercio, cultura, professioni libere, pubblici impiegati. La maggior difficoltà è nella «dosatura» e nella assegnazione dei posti fra le categorie; e più ancora, all’interno di esse, dove s’affaccia la «classe», fra imprenditori ed operai.

Temo che la riforma non sia matura. I democratici cristiani vorrebbero affermare il principio nella Costituzione, e rinviarne l’attivazione a quando sarà convenientemente preparata. Alcuni si accontenterebbero, ad esperimento graduale, di una «quota» di senatori eletti in rappresentanza d’interessi. Ho l’impressione che non calcolino sul successo della loro proposta; che forse non manca di preoccuparli per i possibili risultati di siffatte elezioni nei riguardi del loro partito.

È da ritenere che ripiegheranno, in subordinato, sul sistema di far eleggere il grosso dei senatori dai consiglieri comunali. Sistema, essi dicono, che offre una categoria non improvvisata di elettori di primo grado, ed un punto solido di riferimento ad interessi concreti; completando in certo modo il criterio della rappresentanza di un terzo agli enti regionali. Obbiezioni contrapposte; anzitutto un dilemma; o si dà lo stesso numero di rappresentanti ad ogni Comune, quale si sia la sua popolazione, ed allora due Rocca Cannuccia soverchiano Roma; o si assegnano al Comune voti in proporzione dei suoi abitanti, ed allora perché questo «inutile giro?». I sostenitori dell’elezione da parte dei Comuni sfuggono al dilemma, proponendo di stabilire alcune – ad esempio quattro – classi di Comuni con diverso numero di voti; con che, rispondono gli altri, i Comuni rurali prevarrebbero sempre sugli urbani; e ciò può gradire ad alcuni, per una «maggior stabilità del Paese», non ad altri che vi scorgono una ingiusta sperequazione. È stato pure osservato che, col dare questo compito ai consiglieri dei Comuni, si porta ancor più nelle elezioni di queste amministrazioni locali uno stampo politico, che è meno vivo, finora, nei Comuni minuscoli.

Mi pare di essere stato obbiettivo nel riassumere le opposte ragioni. Lo sarò anche pel collegio uninominale; che sarebbe una proposta di specificazione del sistema, adottato nel progetto, di suffragio diretto ed universale.

Sono pel collegio uninominale, almeno nel Senato, coloro che ne hanno la nostalgia anche per la Camera dei deputati, e pensano potersi resistere meglio col suo mezzo all’ondata dei partiti di massa (Rubilli, Russo Perez). È notevole che, d’altro lato, ai liberali ed ai qualunquisti vadano incontro i comunisti, che abbandonano la loro rigida tesi di una assoluta uniformità nel suffragio, e, mantenendo ferma la proporzionale nella prima Camera, scoprono i vantaggi del collegio uninominale, se applicato soltanto al Senato. Consistono questi vantaggi in ciò che, evitando il doppione fra le due Camere, si adoperano forme diverse di selezione per la scelta dei rappresentanti del popolo; e – mentre la proporzionale conserva la sua efficacia nel campo della prima Camera e consente l’affermazione dei partiti, anche i più piccoli, con ogni loro caratteristica – dà per altro campo, con l’elezione del Senato, modo, non solo di tener presente il valore personale dei candidati, ma di adempiere un compito altrettanto necessario che quello della proporzionale, cioè delineare, con la spinta alle concentrazioni ed alle alleanze, l’avvicinamento alla determinazione di due o tre grandi correnti, tra cui conviene che, come avviene nei paesi più adusati alla vita politica, si avvicendi il potere. A quest’ultimo effetto conviene che si ricorra al ballottaggio.

Tale è il ragionamento dei sostenitori del collegio uninominale, che pensano di utilizzare ed armonizzare vantaggiosamente due sistemi diversi, con una specie di divisione del lavoro nelle due Camere. Le obiezioni sono vive; e manifestano meraviglia che un sistema, giudicato ormai anacronistico e superato per l’elezione dei deputati, diventi efficace e desiderabile per l’elezione dei senatori. La coesistenza dei due sistemi appare contradittoria ed inammissibile; e si afferma che non è fondata la speranza degli attesi vantaggi. Né deve nascondersi che la prospettiva di render necessari i blocchi agisce, coi possibili riflessi immediati, sull’atteggiamento che prendono, ora, i partiti dell’Assemblea nella questione sollevata.

Vari partiti non si sono ancora decisi; e qualcuno affaccia il desiderio che, conservando nella Costituzione la norma generica, quale è nel progetto, pel suffragio universale diretto, si rinvii ad una legge elettorale, come si fa per la proporzionale nella prima Camera, la possibilità di introdurre per la seconda il collegio uninominale.

Mi sembra di aver così esaurito i temi concernenti il Senato. Una parola sui rapporti fra le due Camere. Alla tesi che – lo vedemmo – vorrebbe una Camera sola con poteri di deliberazione, si oppone l’altra che tiene ad una piena ed assoluta parità, che si afferma conseguenza logica del principio bicamerale.

Il collega Tosato ha sostenuto con vigore tale posizione; ed ha invocato perfino Stalin che, in sede di dichiarazioni per la sua Costituzione, fu molto… ortodosso: ad esempio quando respingeva dal testo costituzionale le aspirazioni avveniristiche, contro i metodi di Weimar; e si capisce, infatti non ne aveva bisogno di fronte ad una già conquistata realtà; ed anche la bicameralità piena senza eccezioni è difesa da Stalin, sul che forse influisce anche la struttura federale della Russia sovietica.

Chi non vuole la parità perfetta osserva che essa non esiste ormai, più spesso per norma costituzionale, ed in ogni caso dì fatto, in alcun altro paese. Anche in Italia vi era la precedenza della prima Camera in materia finanziaria. E chi non ricorda la più vasta riforma Lloyd George del 1911? È vero, si obbietta, ma si trattava allora d’una seconda Camera denomina regia; oggi si trovano tutt’e due sopra uno stesso piano che le istituisce su base di elezioni; ed anche questo è vero ma – riferisco le controbbiezioni – più Costituzioni attuali non mantengono egual peso a Camere tutte due elettive.

Se si intacca il criterio rigido della parità, bisogna precisare in che cosa consista la differenza di attribuzioni e di efficacia. Ritornerà poi probabilmente in Assemblea il problema dei conflitti fra i due rami del Parlamento. L’onorevole Terracini aveva proposto, in seduta dei Settantacinque, di adottare un sistema, concretamente formulato, che ammetteva il riesame nei dissensi sopra il testo d’una legge; ed in determinati casi stabiliva la prevalenza della prima sull’altra Camera. Il congegno (al quale io personalmente inclinavo) venne respinto; e si ritornò ad una originaria proposta per la quale, nel disaccordo fra i due rami del Parlamento sopra una legge si prevede la – facoltativa ma più macchinosa – potestà del Capo dello Stato di indire il referendum popolare. L’onorevole Fuschini risolleva ora la questione, riproponendo la prevalenza della prima Camera, ma non escludendo neppure il possibile ricorso alla via del referendum.

Veniamo ora ad un capo del Titolo primo, meno vistoso, tecnico più che politico, di vivo ed attuale interesse: la formazione delle leggi. Si profilano problemi, che un giurista direbbe «eleganti» e che hanno ad un tempo importanza pratica altissima, perché implicano la possibilità del funzionamento parlamentare, e della vita stessa dello Stato.

Sono tre problemi. Il primo concerne il lavoro interno delle Camere. Il rilievo da me fatto più volte – e sembrò a taluno sconvenienza ed eresia – che il Parlamento è oggi incapace di legiferare, è riecheggiato in bocca di quasi tutti gli oratori. D’accordo tutti nel rilevare che, non per manchevolezza di uomini, ma per l’inevitabile processo di amplificazione dei compiti dello Stato e pel numero smisurato che ne deriva delle norme legislative, non si riesce a farle esaminare ed approvare dalle due Camere. Hanno svolto questo punto specialmente gli onorevoli Preti e Condorelli; e l’onorevole Clerici, rincalzato dall’onorevole Conti, ha esposto con dati statistici impressionanti la «disfunzione» legislativa che si riscontra nel Parlamento.

Si cerca il rimedio nel metodo di lavoro; e si propone che – mentre il progetto di Costituzione all’articolo 69 prevede l’istituzione eccezionale, volta per volta, di speciali commissioni per l’esame, non per l’approvazione finale, d’un disegno di legge – si adotti invece, in via permanente e regolare, il sistema della divisione d’ogni Camera in Commissioni cui sarebbe deferito in sostanza l’ordinario compito legislativo, come si faceva con la Camera dei fasci e delle corporazioni. Non basta, lo ripeto, la mala eredità del fascismo a far respingere un congegno, se è buono. Non si può ora entrare in dettagli sulle norme da stabilire sia pei casi obbligatori, in cui discussione e decisione dovrebbero riservarsi a tutta la Camera, sia per la facoltà di richiamare all’approvazione finale di questa i disegni di legge presentati dal Governo (ciò che è previsto nella legge che regola i lavori di quest’Assemblea Costituente). Tutto ciò sarà da vedere a suo tempo. Si suggerisce, intanto, di aprir la via ad opportune soluzioni, e di introdurre nella Costituzione una formula intermedia fra quella restrittiva dell’attuale progetto e l’altra troppo assoluta e rigida della sistematica abdicazione da parte dell’intera Camera nelle mani delle Commissioni. Si può, evitando correttamente di caricare troppo il testo costituzionale, rinviare al Regolamento delle Camere i casi e le forme in cui esame ed approvazione dei disegni di legge siano delegate a Commissioni anche permanenti.

Non si creda tuttavia che, col funzionamento delle Commissioni, si possa integralmente risolvere le difficoltà del sopra lavoro legislativo. Non sono da escludere altre vie. Ed ecco il secondo problema: oltre a migliorare il lavoro interno, resta la possibilità della delega ad organi esterni. Con una felice formula Terracini, l’articolo 74 del progetto dice che l’esercizio della funzione legislativa può essere delegato al Governo previa determinazione di principî e criteri direttivi, e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti. È stato osservato, durante l’odierna discussione, che bisognerebbe forse chiarire la possibilità di una delega più larga di poteri durante la guerra.

Vi sono ormai altre vie di delega della funzione legislativa, oltre che al Governo. Abbiamo, nel titolo sulla Regione, riconosciuto, come vera e propria facoltà costituzionale, una legislazione, diciamo così, di secondo grado, nei limiti dei principî stabiliti da leggi dello Stato, al nuovo Ente regionale. Nell’articolo, accolto in massima, pel Consiglio nazionale del lavoro, si parla di possibili deleghe e norme di valore legislativo. Siamo in cammino verso una deflazione o decentramento legislativo, che richiede avvedimento e cautele, per non intaccare la sovranità dello Stato e la sua posizione suprema nella formazione delle leggi; ma è un portato inevitabile dello sviluppo avvenuto nello Stato stesso.

Il terzo problema è dei provvedimenti d’urgenza e dei decreti-legge. Il progetto ne tace. «Voluta lacuna» dice Codacci Pisanelli; e logicamente Condorelli interpreta come negata facoltà al Governo di emettere atti di tal genere. Così si è voluto anche dalla Costituente francese. Ma no, si obbietta; col divieto (tanto più nella forma del silenzio) non si sbarrano le porte ai decreti-legge; anzi se ne determina l’arbitrio e l’abuso. Meglio, dice Crispo, porre dei limiti; e Preti parla di «esagerata fobia» dei decreti-legge.

Che fare dunque? Il Comitato dei 18 per la redazione della Costituzione inclina, sia pure senza deliberazione formale, ad ammettere in casi di assoluta necessità il decreto-legge, con le limitazioni più rigorose, ma più pratiche, che siano possibili. Come prestabilire quei casi? In via di indicazione od in via di esclusione? L’onorevole Mortati li restringerebbe alla guerra ed ai decreti catenaccio; pel rimanente, egli dice, il Governo emanerà misure eccezionali, quando siano indispensabili; ed il Parlamento concederà, all’inglese, «bill di indennità». Si ricadrebbe così, in paesi meno educati politicamente, alle tolleranze ed alle sfrenatezze del passato. Meglio cercare di prevedere e limitare i casi della legislazione d’urgenza, e di precisare i modi di rapido intervento per la ratifica parlamentare. Al qual riguardo si potrebbe riprendere una proposta, caduta in Commissione, per una Giunta permanente mista di membri delle due Camere (o dei due Uffici riuniti di Presidenza) che si dovrebbe tempestivamente pronunciare sui divisati atti d’urgenza. Se non si accetta ciò, sarà da stabilire il termine – ad dies – in cui le Camere potranno, con gli attuali mezzi di comunicazione, essere immediatamente convocate.

Spero di avervi messo sotto gli occhi gli aspetti molteplici della fatica di Sisifo, che è ora la formazione delle leggi. Mi permetto di aggiungere che proprio qui, in questa discussione di cui si dice tanto male, vengono messi a fuoco temi che si impongono ormai al futuro ordinamento legislativo ed alla meditazione scientifica. Parlandone testé con uno dei più alti giuristi italiani, Ugo Forti, questi ne è restato impressionato, e mi ha detto che ne avrebbe fatto oggetto di una prolusione all’Ateneo napoletano. È il tema della molteplicità e della gerarchia delle norme legislative.

Non è una boutade quanto ho affermato più volte nell’Aula: che ormai fra legge e regolamenti non vi è più chiara distinzione. Un tempo le leggi le faceva solo il Parlamento, ed i regolamenti solo il Governo; e sembrava che tutto andasse a posto. Oggi la funzione legislativa si estende ad altri organi, sia pure subordinatamente; e si hanno nuove specificazioni nel campo delle leggi. È tutta una scala: sta in alto la Costituzione; potrebbero sopra un secondo scalino stare le cosiddette leggi di valore costituzionale (di cui discuteremo a suo tempo l’ammissibilità o no); segue la grande categoria delle leggi ordinarie; alle quali succedono le leggi delegate; e poi i decreti-legge; né alcune norme di regolamento, ad esempio dei cosiddetti regolamenti indipendenti, mancano di efficacia legislativa. Sarà da esaminare pur la questione dei regolamenti in generale, per cui taluno rievoca l’articolo 6 dello Statuto albertino. Un novum della nostra Costituzione sarà il tipo di legge regionale, e di legge delegata ad altri organi. Non posso essere, in questo rapido excursus, scientificamente rigoroso. Non spetta al testo costituzionale definire quesiti e formulazioni di carattere dottrinale. Ma dovremo tener presente uno schema, e considerare i riflessi che si possono avere per i controlli e le recisioni di alcune delle accennate categorie di norme legislative. È della scienza il compito di elaborare tutta la materia; noi le diamo la spinta e l’impulso.

Rapidi accenni, ora, al referendum, che entra nella Costituzione democratica della Repubblica italiana. È, accanto all’elezione del Parlamento, la seconda emanazione fondamentale della volontà popolare. Espressione piena di democrazia; sua guarentigia; democrazia diretta; così è esaltato il referendum. Non sono mancate tuttavia riserve e dubbi, da parte di rappresentanti della estrema sinistra, che dovrebbero essere ideologicamente fedeli alla esplicazione integrale di sovranità del popolo, ma si preoccupano di sminuire, col sottoporla a referendum, la potestà continuativa e preminente, per non dire totalitaria, che vagheggiano nel Parlamento. Il referendum va bene, dice Preti; ma le norme del progetto bisogna semplificarle. Non facciamo del referendum, aggiunge Corbi, uno strumento ingombrante e ritardatore, facciamone un uso sobrio ed intelligente. Di Gloria ammonisce che può diventar pericoloso, per l’inesperienza politica del popolo.

Al referendum non si può rinunciare. È una delle conquiste della nostra Costituzione. Ne rivedremo, se occorre, le norme d’applicazione. Il progetto, oltre alla facoltà cui può ricorrere il Capo dello Stato nei contrasti fra le due Camere per una legge, prevede due forme di referendum: una sospensiva, quasi di temporaneo veto, per l’entrata in vigore d’una legge, appena approvata, ed un’altra di abrogazione di leggi già in vigore da due anni. La prima forma ha sollevato dubbi, anche nell’onorevole Grassi, che ha nella sua giovinezza studiato ed esaltato il referendum. Rimando agli emendamenti discussioni più minute.

Poco tempo mi rimane per parlare del Capo dello Stato; che pur meriterebbe, nella sua figura, un discorso più ampio.

La Commissione ha respinto la forma del governo presidenziale di tipo americano, dove il Capo dello Stato è il Capo del Governo, ossia di tutto il potere esecutivo. Forma che ha fatto buona prova al Nord, pessima al Sud America. E non sembra possa essere oggetto di importazione in Europa, dove si è storicamente sviluppato il sistema di Governo parlamentare o di gabinetto; e prescindendo da ogni altra considerazione può anche essere necessario modificarlo ed integrarlo; ma sarebbe imperdonabile imprudenza sradicarlo ed abbandonarlo, nel procedere alla ricostruzione del nuovo Stato repubblicano. Tanto più, d’altro lato, non è possibile trapiantare da noi il tipo direttoriale o di praesidium, che è in sostanza una spersonalizzazione della presidenza, e non ha da noi le condizioni ed i presupposti che lo consentono altrove.

Il Capo dello Stato non deve essere, dunque, Capo del Governo; ma ciò non esclude a priori che possa essere eletto, direttamente, dal popolo. Non ho nascosto il mio pensiero personale al riguardo. So di avere con me, per l’elezione popolare, parlamentari di primo piano, Orlando, De Gasperi, Saragat; ma siamo in definitiva esigua minoranza; e ci vorrebbe un miracolo, se questa soluzione dovesse prevalere.

L’onorevole Tosato ha detto che l’elezione presidenziale da parte del popolo non è possibile da noi, perché i partiti sono troppo divisi, e non vi è l’avvicendamento di due soli, che dà al Presidente americano, per l’esercizio dei suoi poteri, salde basi nel partito vincitore. Certamente da noi le cose sono diverse, ma è proprio la discrasia, la polverizzazione, l’oscillante incertezza dei partiti – ed il fatto che il più degli italiani son fuori partito – a rendere opportuno il ricorso all’elezione popolare, perché il Capo dello Stato abbia l’autorità ed il prestigio, nell’instabilità dei Governi e nella mutevolezza dei partiti, di rappresentare qualcosa di più solido e più alto. L’immagine del pilone caduto, da cui mi sono mosso ed è motivo ricorrente del mio discorso, induce all’elezione popolare, per sostituire, in quanto è democraticamente e repubblicanamente ammissibile, quel vecchio pilone.

La formidabile obbiezione, che prevarrà qui, è il pericolo del cesarismo, del bonapartismo, dell’hitlerismo. Consento con Tosato che questo pericolo non è legato proprio all’elezione presidenziale, anziché da parte delle Camere. Sono fenomeni di ben più ampia base; terremoti che travolgono ogni anteriore ordinamento costituzionale; ed il voto del popolo è un post, non un prius. Ma insomma lo spettro della dittatura e la possibilità che si possa aprire il varco con l’elezione del popolo, spaventano i più; né chi pur ammette dittatura di Parlamento vuol contrapporle la forza autonoma di un Capo dello Stato. Se io pensassi che il cesarismo fosse sensibilmente favorito dall’elezione di popolo non sosterrei questa, in modo alcuno. Ma penso che il pericolo non è tanto aggravato, in confronto all’elezione di Parlamento, da contrappesare i vantaggi di autorità e di consolidamento del Capo dello Stato, che vengono dalla più ampia e diretta designazione. Mi sono quindi concesso – perdonate – un pur inutile gesto.

Il progetto stabilisce, per la nomina appunto del Presidente della Repubblica, un voto qualificato delle Camere riunite in Assemblea Nazionale, con l’aggiunta di due delegati di ciascun Consiglio regionale; piccolo numero di aggregati – meno di 50 – che non peserà sulla scelta da parte dell’Assemblea; e che ha soltanto un valore simbolico; alterando – e ciò non mi piace – la linearità del metodo e dell’istituto. Si è accennato alla convenienza di collegi misti più larghi; e vi sono in altre Costituzioni. A me sembra più logico adottare l’uno o l’altro sistema – elezione dal popolo tutto o dalla sola Assemblea Nazionale – senza ibride contaminazioni.

Importante come, e più, della nomina del Presidente della Repubblica, è il contenuto e l’estensione dei suoi poteri. Il progetto elenca all’articolo 83 alcuni compiti fondamentali; ma altri ve ne sono, menzionati a loro luogo, ed hanno anche maggiore rilievo: la nomina (e revoca) del Governo; la facoltà del ricorso al referendum nei conflitti legislativi fra le due Camere; e – ultima ma più forte di tutte – la facoltà di sciogliere il Parlamento.

Per quanto concerne l’elenco dell’articolo 83, Condorelli contesta che il Presidente della Repubblica possa rappresentare l’unità dello Stato. Conosco la sua nostalgia monarchica, ma chiedo al suo ingegno giuridico e filosofico perché mai il popolo non possa affidare elettivamente (anche in secondo grado, pel tramite del Parlamento) ad una persona il diritto ed il dovere di rappresentare lo Stato.

Secondo il progetto, il Presidente della Repubblica promulga, non sanziona le leggi. L’istituto della sanzione si comprendeva meglio quando il re era considerato come il terzo ramo del Parlamento. È meno ammissibile ora; e del resto – se si crede di concedere al Capo dello Stato, nel caso di suo dissenso con le Camere sopra una legge, la facoltà di chiederne il riesame, ed eventualmente di ricorrere al referendum – facoltà che gli è riconosciuta in caso di dissenso legislativo fra le due Camere – ciò si potrebbe fare, anche attenendoci al solo compito della promulgazione.

Il Presidente, per l’articolo 83, nomina i funzionari dello Stato, non in tutti i gradi, ma in quelli indicati dalla legge: chiara espressione che vince la preoccupazione dell’onorevole Nitti, che vorrebbe limitare tale intervento ai gradi più alti.

Da parti diverse, e con non eguali intenti, Orlando, Condorelli, La Rocca non vedono di buon occhio che il Capo dello Stato abbia il comando dell’esercito, ma ciò inerisce alla sua stessa funzione; avviene in tanti altri paesi; ed è garanzia che tale funzione non spetti ad un generale, ma al grande moderatore dello Stato. Sugli altri punti dell’articolo 83 nessun contrario rilievo.

È stato osservato, fuori di qui, che in complesso il Presidente della Repubblica italiana avrebbe meno poteri che in Francia, dove può convocare e presiedere il Consiglio dei Ministri, rivolgere messaggi alle Camere e chiedere il riesame delle leggi. Non sono per mio conto favorevole al primo punto, perché le funzioni di Capo dello Stato e di Capo del Governo vanno ben distinte; mentre mi sembra che nulla vieti, anche nel silenzio della Costituzione, l’invio di messaggi al Parlamento. Abbiamo già posta la possibilità di concedere al Presidente della Repubblica una potestà sospensiva, per far riesaminare le leggi.

L’affermazione della minor ampiezza di poteri nella nostra di fronte alla Costituzione francese risulta poi definitivamente inesatta, quando si tenga conto che in Francia il Capo dello Stato non ha la facoltà di sciogliere le Camere; disposizione di tale importanza che, mi pare d’averlo accennato, induce Mortati a dire il nostro tipo di Repubblica semiparlamentare.

Il Presidente della Repubblica italiana non sarà un fantoccio, come teme Orlando, in uno degli impeti appassionati della sua superba giovinezza mentale. Codacci Pisanelli dice che ha poche funzioni, e bisogna aggiungerne altre; La Rocca che ne ha troppe, e bisogna toglierne. Nella mia relazione scritta al progetto ho, insistendo sulla figura del Capo dello Stato, cercato di metterla in luce; e non voglio ripetermi. La sua è una magistratura di persuasione, di equilibrio. Egli è il grande moderatore e regolatore dei poteri dello Stato. Il capo spirituale, più che il capo materiale, della vita comune. È un ruolo altissimo; certamente il più alto; né occorrono a ciò personalità piuttosto mediocri, come insiste l’onorevole Nitti; ed anche l’onorevole Clerici, che ha voluto citare il cardinale Bentivoglio al riguardo dei papi. No; l’esempio attuale, pel Capo della Chiesa e per quello dello Stato, smentisce l’asserto che non stiano bene a tal posto uomini di elevatissima statura e di eccezionale capacità. Le funzioni di Capo dello Stato sono diverse da quelle di Capo del Governo; e possono richiedere speciali attitudini; è opportuno che il Presidente della Repubblica sia, per temperamento e per abito, un po’ al di su della mischia; ma non fantoccio; no; né come carica né come persona.

Poche parole mi restano per il Governo; che deve essere – non sono mancate pur qui voci in tal senso – un Governo forte. Non già nel senso consacrato dal fascismo di una priorità dell’esecutivo sul legislativo, che riaffiora oggi in qualche aspirazione di costituzionalisti, specialmente francesi. No; senza arrivare alla dittatura del Parlamento tutto, la democrazia esige una prevalenza del Parlamento nel quadro di uno Stato di diritto. Ma ciò non vuol dire debolezza e precarietà di Governi; e l’esecutivo deve avere – lo riconosce almeno teoricamente anche l’onorevole Gullo – una sua autonomia. L’esecutivo deve essere fondato sulle leggi, che pongono il limite della sua attività; ma nella vita dello Stato, come in quella dei singoli, l’azione e l’iniziativa hanno il loro giuoco ed il loro campo. Un Governo, che sia ombra vana e commesso puro e semplice del Parlamento, non potrebbe dirigere e guidare, come gli spetta, la cosa pubblica.

A simili fini mira il progetto; e ferma due punti, che sono contestati. Si vuol col primo evitare la eccessiva instabilità dei Governi (la Francia ne ebbe un centinaio in cinquanta anni). Soltanto Fuschini non terne il malanno di una così estrema mutevolezza; e dice che, in fondo, non vi era coi grandi parlamentari del passato; che torneranno anch’essi; ed allora tutto andrà bene. (Purtroppo, però, Giolitti nella sua ultima prova non riuscì affatto; ciò che mostra come influisca l’ambiente). Uno sforzo di affidare anche a nuovi istituti una maggiore durevolezza di gabinetto non sembra trascurabile. Il progetto di Costituzione dà vita all’istituto della fiducia e della sfiducia da parte dell’Assemblea Nazionale. Appena formato, un Governo deve a questa chiedere la fiducia; ed ha diritto di appellarsi all’Assemblea contro il voto di sfiducia di una sola Camera.

Rubilli e Fuschini impugnano la efficacia di questo congegno; e fanno rilievi meritevoli di attenzione: come riuscirà un Governo a tenersi in sella se, pur avendo racimolato una maggioranza di stretta misura nell’Assemblea Nazionale, una delle due Camere continuerà a votargli contro ed a rendergli impossibile la vita? Per camminare – ha esclamato in una sua caustica interruzione Fabbri – bisogna avere due gambe, non una sola. L’istituto è stato difeso da Tosato, che ha riconosciuto la necessità di abiti e metodi nuovi negli atteggiamenti di fronte ai Governi. La questione è riaperta; ed anche se si dovesse abbandonare l’espediente del progetto, bisognerebbe ricorrere a qualcosa d’altro, almeno per evitar le sorprese ed i cambiamenti bruschi.

A critiche ha pur dato luogo un altro punto del progetto, che introduce la figura del Primo Ministro; né vi è da scandalizzarsi, perché è ormai cosa realizzata, di fatto, dovunque, in ogni Stato a regime parlamentare e di gabinetto; e non si è che tradotto il fatto in un articolo, del resto prudente e misurato, di Costituzione. L’onorevole La Rocca protesta; ed è arrivato persino a contestare il potere di coordinamento dell’attività dei Ministri. Senza coordinamento come potrebbe funzionare un Gabinetto? Gullo trova contradittorio ed insostenibile quanto dice l’articolo 89 sulla responsabilità del Primo Ministro per la politica generale del Governo e per la responsabilità collegiale dei Ministri per gli atti del Consiglio. Non so vedere l’illogicità; è necessario che dell’indirizzo politico risponda più specialmente un Capo; ma se i Ministri rimangono nel Governo, e prendono insieme certe deliberazioni, è giusto che assumano anch’essi la loro responsabilità. Anziché assurda, la formulazione mi appare piuttosto felice.

Il Gabinetto deve avere chi lo dirige; se no sarebbe il caos. E – ripetiamolo ancora una volta – il Governo non può essere «il Comitato della maggioranza», come disse Kelsen, senza rendersi conto delle conseguenze che ne avrebbero tratte La Rocca ed altri. Il Governo deve avere una maggioranza; ma è l’esecutivo non di un solo partito, bensì di tutto il popolo e dello Stato. Onorevoli colleghi che mi seguite con tanta attenzione, e forse vi ho stancati…

Voci. No, no.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. …siamo alla fine. Agli ultimi tratti di questa parte della Costituzione. Dopo che del Governo, il progetto parla dell’amministrazione, che è non staccata ma distinta dal Governo, ha problemi e funzioni proprie; e forse, a mio avviso personale, meriterebbe qualche disposizione più ampia. Abbiamo creduto di fare cosa buona, facendo nel progetto menzione degli organi ausiliari del Governo, e possono in certo senso esserlo anche del Parlamento; organi ausiliari che, senza essere strettamente costituzionali, hanno importanza tale da trovar posto nella Costituzione. Ci pareva opportuno inquadrare e dare un moderato risalto a questi «corpi», che l’hanno nella realtà, e non sempre nell’opinione.

Non abbiamo avuto fortuna. Nitti ha trovato che il Consiglio economico nazionale è una mostruosità. Gullo ha sparato a palle infuocate contro il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti.

Il Consiglio economico previsto nel progetto esiste in quasi tutti i paesi; ed in molte Costituzioni. La Costituente italiana ha inoltre votato, in via di massima, di istituire un Consiglio nazionale del lavoro, salvo coordinarlo ed unificarlo col Consiglio economico. Ne parleremo all’articolo 92; e sono convinto che in definitiva anche Nitti non farà una inutile opposizione a ciò che è richiesto dallo spirito dei tempi e dal movimento operaio.

Ringrazio Gullo di avermi messo fuori di causa, pel Consiglio di Stato, dicendo troppo cortesemente che, se io fossi eterno, non sorgerebbe il pericolo. Posso così parlare fuori del caso personale, con piena obbiettività. Conosco il valore e la coltura di Gullo; ma – poiché non posso attribuirgli il partito preso di screditare e sconvolgere, negli organi cui è affidata la regolarità amministrativa, i fondamenti dello Stato – debbo altamente meravigliarmi che, per cattiva informazione o per incomprensione, nessuna delle sue affermazioni abbia il menomo fondamento.

La sua tesi-base è che Consiglio di Stato e Corte dei Conti non sono organi costituzionali. Via dunque dalla Costituzione! Preoccupazione un po’ strana per un comunista, quando Di Vittorio ha proposto il Consiglio del lavoro, ed altri comunisti volevano far entrare nel progetto tanta roba. Via da una Costituzione, dove ha avuto cittadinanza l’artigianato…

Una voce. Ed il paesaggio!

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. …sì, anche il paesaggio! Senza arrivare a queste deformazioni, ripeto: «organo costituzionale» è un concetto scientifico, che elaborerà la dottrina; noi costituenti possiamo mettere nella Costituzione ciò che ci sembra necessario ed opportuno.

L’onorevole Gullo ha detto che di Consiglio di Stato e di Corte dei Conti non si parla nella Costituzione inglese (si è dimenticato che non c’è una Costituzione inglese) né in nessuna altra. Ho qui a sua disposizione un elenco per dimostrare inesatta la sua affermazione. L’inconveniente di cui Gullo si lamenta è che, messi nella Costituzione questi istituti, non si potrà modificarli che per revisione costituzionale. Per vero, il profilo fermato nel testo è così generale ed elastico che consente svolgimenti ben larghi alla legge ordinaria. Se si volesse distruggere gli istituti e toglierne i controlli essenziali (ad esempio con un colpo di mano d’un Governo e d’una maggioranza corrotta) è bene ed è democratico che si segua la più meditata e cauta via della revisione costituzionale. Non lo dimentichi l’onorevole Gullo: questi istituti sono sorti come presidio di libertà.

Ma egli non si limita all’eccezione di extracostituzionalità; considera Consiglio di Stato e Corte dei Conti come congegni ingombranti, ritardatari, antidemocratici; il che parrebbe rispondere alla concezione comunista che il Parlamento è tutto, e non sono ammessi freni e contrappesi; lo prego però di tener presente – altra informazione che gli è mancata – come i suoi compagni francesi, per negare la seconda Camera, hanno invocato e dato rilievo ai corpi ausiliari e consultivi, fra cui questi due.

L’onorevole Gullo vede specialmente nel Consiglio di Stato un pericolo pubblico, un covo di invadenza, all’agguato per un più lauto «pranzo»; si intende di competenza; ma che brutta frase, onorevole Gullo, per servitori dello Stato, fra i più degni e più alti di grado, che con la loro paga faticano a metter insieme il pranzo e la cena! L’onorevole Gullo si vale, per le sue accuse, di un documento che fa onore al Consiglio di Stato; una relazione che Gullo, come Guardasigilli, ha chiesto alla magistratura ordinaria – quella straordinaria del Consiglio di Stato ha creduto doveroso di redigere, per un opportuno contributo alla riforma dello Stato. Due incriminazioni. La prima è che il Consiglio di Stato vuole usurpare la competenza legislativa, rubandola al Parlamento. Sapete quale è la grave colpa? Il Consiglio di Stato si è offerto di collaborare alla preparazione delle leggi. Tutti si lagnano dello scarso tecnicismo e delle improvvisazioni – non coordinate – dei disegni di legge. Nell’Inghilterra il Parlamento stesso chiede aiuti; vi è nell’aula di Westminster un banco di funzionari-legali, che danno forma e precisione alle disposizioni deliberate. Da noi la legge sul Consiglio di Stato prevede già che il Governo possa chiedere il parere del Consiglio sui disegni di legge. La relazione incriminata suggerisce che si esamini l’opportunità di ciò che del resto è avvenuto già di fatto – anche recentemente – quando Governi, di cui faceva parte l’onorevole Gullo, han chiesto al Consiglio di Stato di predisporre qualche disegno di legge. Che delitto è che, invece dell’opera di un burocrate di Ministero, si affidi in dati casi tale compito ad un Corpo di più larga ed esperta competenza di tecnica legislativa! Badate bene; il Consiglio di Stato ha sottolineato che il Governo deve essere pienamente libero di dargli o no siffatti incarichi. Si è permesso soltanto – quale delitto! – di rilevare che, come è già obbligatorio sentire il parere del Consiglio sui regolamenti, lo sia anche per i decreti legislativi ed i decreti-legge; l’estensione potrà essere o no accettata, ma è evidentemente rivolta a tutelare le libertà ed i diritti dei cittadini.

Secondo titolo di accusa; nel dannato documento il Consiglio di Stato… denuncia la Corte dei Conti e vuole, per certi compiti, sostituirsi ad essa. Quanta fantasia ha l’onorevole Gullo! Il Consiglio di Stato nel brano incriminato osserva che il controllo di legittimità che spetta alla Corte dei conti sugli atti amministrativi non può, attraverso l’eccesso di potere, esercitarsi sul merito dei provvedimenti; se no si avrebbe un’efficacia rallentatrice. Tutto qui; l’onorevole Gullo non ha capito che il rilievo difende appunto l’attività del Governo, ed in tal senso si rivolge… contro lo stesso Consiglio di Stato.

Il quale – altra accusa di Gullo – non vuole assorbire le funzioni della futura Corte di garanzie costituzionali: tant’è che nella relazione ne invoca la istituzione! Ma basta ormai con rilievi così insostenibili! Una cosa soltanto voglio ricordare a Gullo, che la formulazione che non gli piace: «organo di consulenza giuridico-amministrativa e di giustizia nell’amministrazione» è bellissima, e risale allo Spaventa; ed ebbe l’adesione entusiasta dell’estrema sinistra, perché tendeva ad arginare abusi di parte opposta; perché era rivendicazione e difesa delle minoranze e dei diritti dei cittadini. Se la giustizia nell’amministrazione debba implicare una competenza giurisdizionale del Consiglio di Stato, è tesi cui hanno aderito nella Commissione i comunisti; ed è accolta nel progetto; ne parleremo a suo luogo. Qui voglio dichiarare – ed interpreto il senso della Costituzione – che sono necessari i controlli, per assicurare la legalità e la convenienza degli atti dell’Amministrazione; che tale compito non può essere esercitato dal Parlamento, quando non basta neppure a legiferare; né può essere affidato ad un organo in mano del Governo, senza garanzie di autonomia ed indipendenza, che deve avere il Consiglio di Stato. L’onorevole Terracini accennò nella Commissione che i suoi membri potrebbero essere nominati dal Parlamento. No; perché l’autonomia ed indipendenza devono esservi anche di fronte al parlamentarismo; ma fu proposto che alla scelta dei consiglieri di Stato dovessero assentire gli Uffici di Presidenza delle due Camere. Si va incontro a giuste esigenze. Si resisterà, con tutte le forze del nuovo Stato repubblicano, alle tendenze che volessero, con lo scardinare i congegni amministrativi, aprire la via al disordine ed allo sfacelo.

Ho finito. Mettiamoci ora tutti, di buona volontà, a discutere in dettaglio e concretare gli articoli di questi tre Titoli del progetto. Non vi nascondo anch’io un senso di tristezza pel modo in cui si sono riaperti i nostri lavori, proprio su quella parte che tutti chiamano la «vera» Costituzione. Si è passato da un eccesso all’altro; da una pioggia di minuti dibattiti e di interventi copiosi da parte dei costituenti a segni di assenteismo e disinteresse nell’Aula, nei partiti, nella stampa, nell’opinione. Le cose probabilmente muteranno quando si presenterà, sugli emendamenti, qualche aspetto gladiatorio e pettegolo di contrasto fra partiti. Intanto anche questi non si sono svegliati, e non hanno dato formulazioni precise alle loro tendenze. Il Comitato fa appello alla responsabilità dei capi Gruppo, di tutti i membri dell’Assemblea, dei rappresentanti della stampa. Ciò che importa è che si ravvivi nel Paese la coscienza dell’importanza che ha la formazione d’una Carta costituzionale: più importanza d’una scaramuccia personale e di una tattica di crisi. Occorre un interesse non superficiale, ma serio e profondo; come vi è stato in Francia, durante i lavori di quella Costituente. Mi auguro che il disinteresse attuale, da noi, sia dovuto ad un’eclissi temporanea, dopo il fascismo, e non ad una più radicale mancanza di educazione politica.

Noi dobbiamo ancora far molto; la mia stessa esposizione vi avrà dato l’impressione del numero e della gravità dei problemi che ci resta da risolvere; ho voluto inquadrarli nel loro insieme, perché possano essere affrontati più rapidamente; e – se vorremo – potremo perfettamente concludere in tempo, entro l’anno, i nostri lavori.

Capiterà, più ancora della prima parte, che si verificheranno in questa incroci ed incontri svariati e talvolta impensati fra partiti. Io invoco, una volta ancora, la concordia sostanziale al di sopra dei necessari dissensi. Gullo ha parlato di «compromessi deteriori», come se i suoi ne fossero sempre privi. Ripeto una volta ancora che il compromesso è indispensabile e «sacro», lo ha dichiarato un puro, Gandhi; perché fare vuol dire adattarsi; ed è lo spirito totalitario, non il liberale che nega il compromesso. Se non volete usare la parola «compromesso», ricorrete a quella che mi suggerisce l’amico Perassi; e viene da Cattaneo, il quale diceva che ogni legge è una «transazione» fra interessi ed idee diversi. Dobbiamo salvare le idealità essenziali, ed irriducibili, che sono in ciascuno di noi la ragione stessa del nostro pensiero e la nostra dignità di vita; ma ciò è possibile – e l’ho detto più volte – quando si verifichi un incontro fra le posizioni fondamentali dello spirito, che muovono le varie correnti e partiti. La Costituzione, e con essa la Repubblica, sarà poi una cosa salda se fra gli «immortali principî» dei vecchi democratici, i diritti sacri e naturali dei cristiani, le rivendicazioni dei partiti di lavoro, si riscontrerà la coincidenza di alcune idealità trascendenti e comuni; che non elimineranno le lotte; consentiranno la convivenza e la collaborazione. Un critico ha scritto che nella nostra Costituzione si sentono echi del «Credo» e della «Marsigliese»; non vi è un abisso fra il «Sermone della montagna» e la «Dichiarazione dei diritti dell’uomo», ed io vorrei, se il critico lo consente, aggiungere anche un’eco del «Canto dei lavoratori», perché neppure il «Manifesto dei comunisti» contrasta con le altre due altissime manifestazioni. È bensì necessario che non sia un centone, ma una sintesi, la transazione di Cattaneo che scende alle comuni fondamenta del pensiero e della azione.

La nostra Costituzione non pretende di esprimere la sintesi nuova; è tutt’altro che perfetta; è piena di difetti; anch’io ne ho rilevati e non sono sempre riuscito dove desideravo. Ma sarebbe ora di smettere l’abitudine italiana di dir male di noi stessi; di gridare, ciascuno di noi, che questa Costituzione è un orrore. Di Costituzioni belle al mondo non ce ne sono molte; l’inglese non è scritta; l’americana e la svizzera non sono imitabili da noi, la nuova francese (quella del 1875, non era una Costituzione, ma un coacervo di cinque leggi) è notevole; ma non è un capolavoro; non è dopo tutto superiore a questa che stiamo fabbricando. Mentre noi diciamo male di noi stessi, si alzano voci di studiosi stranieri che considerano con maggior attenzione il nostro lavoro; e trovano che, malgrado le sue pecche, è una cosa seria, non indegna del popolo italiano. Ho avuto molte amarezze, ma – lo ripeto ancora – sarei lieto di chiudere la mia vita politica dirigendo i lavori della Costituzione italiana. (Vivissimi, generali applausi – Moltissime congratulazioni).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione generale sopra i primi tre Titoli della seconda parte del progetto di Costituzione, e rinvio ad altra seduta la votazione degli ordini del giorno e l’esame degli articoli.

Sull’ordine dei lavori.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Monticelli e Moro hanno presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, considerata la urgenza di procedere alla approvazione del terzo comma del primo articolo delle Disposizioni transitorie, decide di sottoporne la discussione e la votazione alla prima seduta in materia costituzionale».

L’onorevole Monticelli ha facoltà di svolgerlo.

MONTICELLI. Stamane, in sede di dichiarazione di voto, a nome del Gruppo democratico cristiano, il collega onorevole Moro ha precisato che da parte nostra non vi era nessuna difficoltà perché si procedesse, al più presto possibile, alla discussione e votazione del terzo comma dell’articolo 1 delle Disposizioni transitorie del progetto di Costituzione, che riguarda le limitazioni temporanee alla eleggibilità ed al diritto del voto. Conseguentemente a questa richiesta del collega Moro, è stato presentato dall’onorevole Moro e da me un ordine del giorno che l’onorevole Presidente ha letto.

Ragioni di ordine di lavori non hanno consentito che questa sera si potesse subito discutere quest’ordine del giorno. Torniamo a pregare, quindi, l’onorevole Presidente che voglia fissare al più presto la discussione e votazione di questo comma, a dimostrazione che da parte nostra non soltanto non si è cercato in alcun modo, col voto di stamani, di dilazionare la votazione dell’articolo 47, ma che la votazione di stamani ha avuto un preciso e chiaro significato giuridico, al quale ci vogliamo esclusivamente riportare.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Io debbo dichiarare che non potrei in alcun modo, per quanto mi riguarda personalmente, aderire alla richiesta dei colleghi di cui testé l’onorevole Presidente ci ha letto l’ordine del giorno.

Stamani abbiamo assistito, con una certa sorpresa, alla presa di posizione dell’onorevole Moro con una proposta sospensiva, la quale suonava stridente contrasto con quella assunta in modo molto chiaro e dal Relatore della Commissione e dallo stesso rappresentante del. Governo. Comunque possa essere giudicata quella presa di posizione della Democrazia cristiana (personalmente io non la giudico bene), io non credo che dopo quella posizione noi si sia in qualsiasi modo impegnati a portare alla prossima discussione di questa Assemblea la discussione dell’articolo 1 delle norme transitorie, prima di tutto perché la sospensione di quello che discutevamo stamani ha sorpreso parecchi degli stessi colleghi di quel Gruppo, in secondo luogo perché noi non siamo affatto impegnati da quella norma transitoria. Io credo – me lo auguro come democratico, e credo che con me se lo augurino tutti i democratici in quest’Aula, perché se non siamo una grande assemblea storica, tuttavia questa Assemblea è nella sua immensa maggioranza ancora antifascista, per la democrazia e per la libertà d’Italia – io credo che noi, prima che questa nostra Carta costituzionale sia definitiva, cioè prima del 31 dicembre, possiamo darci, e attraverso l’opera legislativa di questa Assemblea, e attraverso l’opera esecutiva del Governo (che io mi auguro non sia sempre lo stesso), alcune realizzazioni democratiche che realmente garantiscano la democrazia. Ed allora potremmo anche votare la norma transitoria e partire da un criterio di maggiore larghezza; ma è innanzi tutto doveroso che questa Assemblea compia alcuni atti che siano perfettamente chiari nella volontà di realizzazione democratica del Paese. (Commenti).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Da parte nostra non c’è nessuna difficoltà ad accogliere la proposta dell’onorevole Moro. Anzi ricordo che sono stato io il primo a ricordare, con una mia parentesi, la possibilità di stralciare l’articolo primo delle Disposizioni transitorie, e discuterlo con precedenza assoluta su tutte le altre norme, che ancora debbono essere discusse e approvate.

Chiedo soltanto all’onorevole Moro se non abbia difficoltà a sostituire una parola. Mi pare che il suo ordine del giorno dica: «Considerata l’urgenza di procedere alla approvazione»; direi invece: «di procedere alla discussione». (Commenti).

MORO. Accettiamo la proposta dell’onorevole Russo Perez

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, è forse opportuno richiamare concisamente la questione, perché può essere che qualcuno dei presenti non l’abbia immediatamente alla mente. Stamane, dovendosi discutere il seguito dell’articolo 47 del progetto di legge sull’elettorato attivo, l’onorevole Russo Perez ha presentato una richiesta di sospensiva nei confronti degli ultimi paragrafi dell’articolo stesso, richiamandosi alla disposizione dell’articolo 45 del testo costituzionale già approvato dall’Assemblea, e (tuttavia non ancora definitivo, perché il progetto di Costituzione nel suo complesso non è stato approvato ancora) a tenore del quale: «Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi che abbiano raggiunto la maggiore età».

Intorno a questa proposta dell’onorevole Russo Perez si è svolta una discussione piuttosto lunga, la quale si è conclusa con una votazione che ha approvata la sospensiva.

Gli onorevoli Moro e Monticelli, facendo una dichiarazione di voto in proposito, avevano dichiarato che il Gruppo democratico cristiano avrebbe votato la sospensiva con l’intesa che nella prima seduta riservata alla Costituzione venisse posto in discussione la norma transitoria. È appunto in esecuzione di questo impegno che l’onorevole Moro e l’onorevole Monticelli hanno presentato stasera questa proposta. Io desidero soltanto fare presente che, in assenza di una votazione della norma transitoria, l’esame del progetto di legge sull’elettorato attivo sarebbe arrestato e, pertanto, non potrebbe essere completato nelle decisioni. Ciò potrebbe portare a gravi conseguenze ed inconvenienti in ordine al lavoro preparatorio delle future elezioni.

Questa è la situazione di fatto.

Si è adesso aggiunta la proposta degli onorevoli Moro e Monticelli. Se nessuno chiede la parola, pongo in votazione questa proposta.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Ho chiesto la parola per chiarire che l’Assemblea non si deve ritenere legata… (Commenti)

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, l’Assemblea è impegnata ad una votazione.

LUSSU. Però io credo che la sospensiva si debba interpretare come sospensiva per oggi. Finito oggi si riprende la discussione. (Commenti).

PRESIDENTE. All’obiezione sollevata dall’onorevole Lussu posso rispondere ricordando il testo della proposta di sospensiva presentata stamane dall’onorevole Russo Perez. Mi sembra del resto che anche la semplice lettura del resoconto sommario chiarisca come la interpretazione dell’onorevole Lussu non sia accettabile. Dice il resoconto sommario:

«Ritiene – l’onorevole Russo Perez – che si debba sospendere la discussione sull’emendamento Schiavetti, per riprenderla quando si tratterà dell’articolo primo delle norme transitorie, ecc.».

Quindi, non si è trattato di sospendere per la seduta di stamane, ma di sospendere fino a quando non si sia deciso in merito alla norma transitoria. A ciò si è impegnata l’Assemblea quando ha votato la sospensiva.

Se i colleghi ritengono che si debba rapidamente sciogliere la condizione sospensiva per continuare la discussione del progetto di legge sull’elettorato, occorre porre al più presto all’ordine del giorno il terzo comma dell’articolo 1 delle norme transitorie; se dovessero ritenere, invece, che si possa attendere, allora non porremo all’ordine del giorno l’esame della norma transitoria, ma attenderemo, per esaminarla, la fine dei lavori dell’Assemblea Costituente.

UBERTI, Relatore. È impossibile!

PRESIDENTE. Faccio presente che ciò significherebbe procrastinare l’entrata in applicazione della legge sull’elettorato, con tutte le conseguenze che ne derivano.

LA ROCCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA ROCCA. Mi pare che questa questione non possa essere risolta stasera, data l’assenza di gran parte dell’Assemblea… (Rumori – Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole La Rocca, lei fa una proposta formale di sospensiva sulla decisione in merito alla proposta Moro Monticelli?

LA ROCCA. Io credo che sarebbe meglio rinviare a martedì la decisione di questa questione (Commenti al centro). Ma, comunque, non insisto.

PRESIDENTE. Sta bene. Possiamo allora passare senz’altro alla votazione della proposta degli onorevoli Moro e Monticelli, la cui approvazione ci porrebbe l’obbligo di mettere all’ordine del giorno della prima seduta dedicata al seguito della discussione sul progetto di Costituzione il terzo comma della prima norma transitoria del progetto stesso. Così chiarita la questione, pongo in votazione la proposta degli onorevoli Moro e Monticelli.

(È approvata).

Resta allora inteso che nella prima seduta dedicata all’esame dei problemi costituzionali discuteremo sul terzo comma della prima norma transitoria, aprendo così una breve parentesi nella discussione sui primi tre titoli della seconda parte del progetto di Costituzione. Ciò avverrà probabilmente nella seduta di martedì mattina; ma l’ordine del giorno della seduta di martedì verrà stabilito in quella di lunedì.

RUSSO PEREZ. E domani mattina?

PRESIDENTE. Onorevole Russo Perez, lei sa che, di solito, la mattina non si procede all’esame dei problemi costituzionali: lei mi chiederà allora: e perché martedì prossimo invece sì?

Perché nella seduta pomeridiana dello stesso martedì avrà inizio, come lei sa, la discussione intorno alla mozione di sfiducia al Governo e allora l’esame del progetto di Costituzione verrà trasportato alle sedute antimeridiane. E poi il sabato, lei lo sa, ha sempre una mattinata di lavori, dirò, approssimativi.

Interpellanza e interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che è pervenuta alla Presidenza la seguente interpellanza con richiesta di urgenza:

«Al Ministro della difesa, sulla situazione venutasi a creare con la riammissione in servizio permanente effettivo degli ufficiali che furono Sottosegretari di Stato per l’aeronautica con la repubblica fascista; e sulle gravi sperequazioni createsi con l’applicazione della legge sullo sfollamento.

«Nobile».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

CINGOLANI, Ministro della difesa. Risponderò nella seduta di lunedì prossimo.

PRESIDENTE. Sono inoltre pervenute le seguenti interrogazioni con richiesta di urgenza:

«Al Ministro dell’interno, sulle misure disciplinari che egli intende prendere nei confronti degli ufficiali e funzionari della polizia celere e della pubblica sicurezza, che hanno tollerato senza intervenire il canto di inni fascisti da parte di gruppi faziosi in Roma, i giorni 17 e 18 settembre, rispettivamente in Piazza Ungheria e al Foro Traiano.

«Pajetta Giuliano, Lussu, Giua, Pressinotti, D’Onofrio, Minio, Barontini Ilio, Zanardi, Macrelli, Gasparotto, Vernocchi».

«Al Ministro dei trasporti, per sapere se intenda prendere urgenti provvedimenti per ottenere che molti Comuni della Sardegna, ora completamente isolati, siano allacciati alle linee pubbliche automobilistiche.

«Mastino Pietro, Lussu, Abozzi, Giua, Murgia, Mannironi, Corsi».

«Al Ministro della marina mercantile, per sapere quale criterio intenda seguire nella assegnazione del terzo lotto disponibile delle navi Liberty; ed in particolare se non ritenga almeno questa volta, dopo aver sodisfatto largamente le esigenze degli armatori del Nord, di dovere assegnare una delle navi alla Sardegna, che ha estremo bisogno di mezzi adeguati per le esigenze sempre crescenti del traffico marittimo.

«Mannironi, Mastino Pietro, Lussu, Mastino Gesumino, Carboni Enrico, Chieffi, Murgia».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

CINGOLANI, Ministro della difesa. Interesserò i Ministri competenti affinché facciano conoscere quando intendano rispondere.

Sui lavori delle Commissioni permanenti per l’esame dei disegni di legge.

PRESIDENTE. Adesso vorrei rivolgere una preghiera ai membri dell’Assemblea. Stamane la terza Commissione permanente per l’esame dei disegni di legge non ha potuto tenere seduta, e neanche ieri, per la mancanza del numero legale. Ora, bisogna che gli onorevoli colleghi tengano presente che vi è una disposizione, votata dall’Assemblea stessa, a tenore della quale i progetti di legge avviati dal Governo alle Commissioni permanenti devono essere esaminati entro un determinato termine, scaduto il quale il Governo è autorizzato a darvi corso anche senza avviso.

Se le sedute delle Commissioni permanenti vanno deserte, si annulla quella forma di controllo che l’Assemblea ha ritenuto di dover esercitare sul Governo, decidendolo con una disposizione che ha costituito, in fondo, una modificazione della stessa legge istitutiva dell’Assemblea. Sarebbe opportuno che, essendoci attribuiti questo diritto, al diritto dessimo corso e lo esercitassimo, e cioè sarebbe bene che nelle Commissioni permanenti non si verificasse troppo frequentemente l’assenza del numero legale con l’impossibilità conseguente di tenere sedute regolari.

MASTINO PIETRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MASTINO PIETRO. Sono membro della terza Commissione e tengo a spiegare all’onorevole nostro Presidente ed agli onorevoli colleghi che la nostra Commissione non si è potuta riunire non per mancanza del numero legale, in quanto il numero non importava, ma per l’assenza del Ministro, il quale aveva chiesto di essere personalmente sentito, dovendosi discutere la riforma dei consorzi agrari – legge fondamentale gravissima – per la quale era necessario avere dal Ministro schiarimenti e precisazioni; e il Ministro stesso aveva riconosciuto questa necessità. Il Ministro, d’altra parte, era pienamente giustificato nella sua assenza, in quanto era impegnato, come tutti sanno, nel tentativo di conciliazione della vertenza dei braccianti con gli agrari del Nord d’Italia.

Ritengo, quindi, di poter affermare che la terza Commissione è pienamente giustificata se non ha potuto tenere le sue sedute.

Sull’ordine del giorno.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, stabiliamo l’ordine del giorno per la seduta di domani. Domani è sabato, quindi si terrà una sola seduta, quella mattutina, che sarà completamente dedicata allo svolgimento di interrogazioni.

Avevamo detto di dedicare quaranta minuti di ogni seduta mattutina alle interrogazioni; nel corso di questa settimana ciò non è stato possibile; cerchiamo quindi di recuperare il tempo mancato dedicando alle interrogazioni tutta la seduta di domani mattina.

Elencherò le interrogazioni che saranno poste all’ordine del giorno. Eventualmente, se vi sono dei colleghi presenti che desiderano che le interrogazioni da essi presentate vengano poste all’ordine del giorno della seduta di domattina, lo dicano.

Vi sono anzitutto due interrogazioni dell’onorevole Riccio Stefano al Ministro dei lavori pubblici; un’interrogazione dell’onorevole Gaetano Martino al Presidente del Consiglio; un’interrogazione dell’onorevole Schiavetti e di altri al Ministro della difesa; un’interrogazione dell’onorevole Valiani al Presidente del Consiglio dei Ministri; un’interrogazione dell’onorevole Di Giovanni al Ministro del lavoro; un’interrogazione dell’onorevole Di Fausto al Governo in generale; un’interrogazione dell’onorevole Bettiol al Ministro della pubblica istruzione; un’interrogazione dell’onorevole Colitto al Ministro dell’agricoltura; dell’onorevole Gotelli Angela al Ministro dei trasporti; dell’onorevole Terranova al Ministro della marina mercantile; dell’onorevole Marinaro al Presidente del Consiglio dei Ministri; dell’onorevole Colitto al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri delle finanze e tesoro; un’interrogazione dell’onorevole Zuccarini al Ministro delle finanze; dell’onorevole Persico al Ministro di grazia e giustizia; dell’onorevole Laconi al Presidente del Consiglio dei Ministri; dell’onorevole Faralli al Ministro della marina mercantile; dell’onorevole Caroleo al Ministro dei trasporti; dell’onorevole Caso al Ministro dei lavori pubblici; dell’onorevole Numeroso al Ministro della difesa.

MASTINO PIETRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MASTINO PIETRO. Se il Presidente crede che ci sia possibilità di porre in questo ordine del giorno qualche altra interrogazione, chiederei di poter discutere domani quella che ho presentato stasera con carattere di urgenza, relativa ai Comuni della Sardegna non allacciati con nessun mezzo e completamente isolati.

PRESIDENTE. Bisogna che il Governo accetti la richiesta di urgenza. Prego il Governo di esprimersi in proposito.

CINGOLANI, Ministro della difesa. Non posso in questo sostituirmi al collega che dovrebbe rispondere. Credo che se il Presidente parteciperà al Ministro il desiderio dell’interrogante, il Ministro certamente farà conoscere il suo avviso.

PRESIDENTE. Procurerò di far pervenire in serata al Ministro dei trasporti la richiesta dell’onorevole interrogante.

TONETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONETTI. Il Ministro dell’interno aveva detto di essere pronto a rispondere ad una mia interrogazione urgente. Vorrei che fosse fissata la data della risposta del Governo.

PRESIDENTE. Il Sottosegretario onorevole Marazza, che è pronto a dare la risposta, ha fatto sapere che partirà questa sera e che fino a giovedì prossimo non sarà di ritorno.

Si potrà decidere in merito alla sua interrogazione dopo il ritorno del Sottosegretario di Stato per l’interno.

La seduta di domani, riservata alle interrogazioni, è fissata per le 10.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri della pubblica istruzione e degli affari esteri, per sapere quali misure intenda prendere il Governo per impedire che il celebre Collegio di Spagna a Bologna, istituzione antichissima autonoma per studenti spagnoli, che si rechino a studiare nell’Università di Bologna, non divenga un centro di propaganda franchista in contrasto con le direttive di politica estera del Governo italiano, e con evidente pericolo per l’ordine pubblico. E se non ritenga invece di favorire a che esso possa accogliere, per quanto può riguardare il Governo italiano, studenti universitari repubblicani spagnoli profughi dalla Spagna.

«Dozza, Zanardi, Tega, Grazia, Bernini, Colombi Arturo».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della marina mercantile, per sapere quali provvedimenti – d’accordo col Ministro degli affari esteri e col Ministro dei trasporti, ognuno entro i limiti delle proprie attribuzioni e competenze – intenda con ogni urgenza prendere allo scopo di restituire dignità, importanza e specialmente lavoro a quel porto di Brindisi, il quale, dopo aver rappresentato un anello principale nella catena dei traffici e delle comunicazioni internazionali, oggi – senza nulla aver perduto dei suoi pregi naturali, della sua importanza geografica, della sua attrezzatura, della sua efficienza ricettiva e della capacità tecnica delle proprie maestranze, attualmente inerti – si è visto, con comprensibile mortificazione e danno, escluso dalla partecipazione al, sia pur modesto, bottino di traffici e comunicazioni, al quale hanno invece partecipato gli altri porti prevalentemente, ed al solito, settentrionali.

«In maniera particolare sarebbe sperabile che al troppo negletto porto di Brindisi attracchino, in modo periodico, piroscafi di grano e di carbone.

«Lagravinese Pasquale, Rodi, La Gravinese Nicola, Ayroldi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere i provvedimenti che si intendono adottare per combattere il tragico problema della disoccupazione nella provincia di Napoli.

«Mazza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non ritenga opportuno estendere ai contadini dell’Italia meridionale l’amnistia già concessa a quelli del Centro-Nord per i fatti avvenuti in occasione dell’occupazione e della concessione delle terre incolte o insufficientemente coltivate.

«Silipo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’agricoltura e foreste e dell’industria e commercio, per sapere se non ritengano opportuno dare disposizioni agli Ispettorati provinciali dell’agricoltura e ai Comitati provinciali prezzi, affinché venga controllato se la misura dell’aumento, apportato di propria iniziativa dai privati venditori di acqua di irrigazione, è equo e fondato.

«I prezzi ora praticati dai proprietari di cavi in provincia di Pavia sono, in taluni casi, anche di sessanta volte superiori ai prezzi dell’anteguerra; soprattutto è riprovevole il fatto che a tali aumenti si giunga talvolta con richieste perentorie nei confronti specialmente dei coltivatori diretti, ai quali si minaccia la sospensione della fornitura, qualora la richiesta patronale fosse ricusata o discussa.

«Il prefetto della provincia di Pavia, nella primavera del 1946, emise un decreto con il quale il prezzo dell’acqua irrigua era fissato a sei volte il prezzo del 1936, creando peraltro una Commissione conciliatrice per i casi discutibili; ma tale misura, e specie la seconda, non ebbe poi pratico seguito. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ferreri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se non sia possibile consentire ai laureati, che abbiano superato il 26° anno di età e che aspirino a partecipare ai corsi allievi ufficiali dell’esercito, di ritardare la presentazione alle armi fino a quando non saranno riaperti i corsi suddetti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Martino Gaetano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro del tesoro, per conoscere quali provvidenze siano allo studio per assicurare la necessaria assistenza continuativa alla infelice categoria dei ciechi, ravvisandosi inadeguata la legislazione esistente per soccorrerli, inadeguata anche per garantire una occupazione redditizia ai rieducati. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ferrarese»

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se non ritenga opportuno, al fine di un maggior incremento di produzione granaria per la prossima annata, di provvedere immediatamente:

  1. a) perché ai coltivatori non autosufficienti e agli autosufficienti con quintali 1,80 sia consentito di prelevare il seme senza cambio;
  2. b) per quanto riguarda la provincia di Alessandria, di elevare a 52.000 quintali il contingente di grano da esonerare per seme. Ciò per due ragioni: la prima, per avere grano da seme sufficiente da distribuire anche alle categorie sopramenzionate; la seconda, per un atto di giustizia verso coloro che hanno coltivato e conservato il grano in spiga fino a stagione avanzata per portarlo a una maggiore maturazione e che, pur avendo la dichiarazione di idoneità, si vedono esclusi per la ridotta quantità dal contingente stabilito.

«Da notarsi che senza loro colpa sono privati perfino del diritto del premio di sollecito conferimento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bellato».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali ragioni impediscono che siano appaltati i lavori della strada Trignina (77) in provincia di Campobasso, per la quale sono stati stanziati i fondi necessari sin dal maggio scorso.

«Il ritardo, assolutamente ingiustificato, è stato già di grave danno perché, col giungere dell’inverno, sarà impossibile, a causa del maltempo, eseguire i lavori.

«La Trignina (n. 77) è strada di importanza vitale per la zona dell’Alto Molise, ottenendosi con essa, dopo oltre 60 anni di attesa, la possibilità di comunicazioni dirette con gli Abruzzi.

«L’esecuzione dei lavori è, adunque, di particolare urgenza ed ogni indugio è quanto mai dannoso. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Camposarcuno».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se risponde a verità quanto è stato dichiarato al giornale Il Globo del 21 agosto 1947, n. 195, dal sindaco di Napoli, e cioè che sarebbero state superate presso il Ministero dei lavori pubblici le difficoltà sorte da parte di Enti della provincia di Campobasso in merito alla distrazione delle acque del fiume Biferno, che dovrebbero alimentare, con quelle del Torano, l’acquedotto sussidiario di Napoli.

«In merito all’importante argomento fu presentata una interrogazione alla quale il Ministro dette risposta il 7 luglio scorso, assicurando che le ragioni addotte dagli interroganti contro l’eventuale distrazione delle acque del Biferno dal Molise erano fondate e da lui condivise.

«Non trovano, adunque, logica spiegazione le affermazioni del sindaco di Napoli riportate dal giornale indicato.

«Si ricorda ancora una volta quanto è stato già segnalato insistentemente al Ministro e cioè che l’acquedotto sussidiario di Napoli può essere alimentato senza distrarre le acque del Biferno, ma utilizzando razionalmente le acque del Volturno, altro fiume molisano, già sfruttato a favore di Napoli.

«Le acque del Biferno – unica residua risorsa idrica della Regione – non devono essere tolte, neanche parzialmente, al Molise, ove oltre ottanta comuni sono sprovvisti di acqua, ove sono pianure da irrigare, centrali elettriche da alimentare, zone malariche da bonificare. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Camposarcuno, Ciampitti, Colitto, Morelli Renato».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.20.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 10:

Interrogazioni.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 19 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccxxv.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 19 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali (Seguito della discussione):

Russo Perez

Schiavetti

Uberti, Relatore

Presidente

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Cianca

Bellavista

Togliatti

Mastino Pietro

Condorelli

Moro

La seduta comincia alle 11.

MAZZA, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali.

Riprendendo la discussione su questo disegno di legge occorre esaminare l’alinea h) dell’emendamento proposto dall’onorevole Schiavetti all’articolo 47:

«h) qualsiasi carica politica del partito fascista repubblicano».

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare per mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevoli colleghi, il primo comma dell’articolo 45 del progetto di Costituzione, articolo già approvato dall’Assemblea, stabilisce che: «Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi, al raggiungimento della maggiore età». Vi è poi un altro articolo, del quale ancora non abbiamo discusso, cioè la prima disposizione finale e transitoria, che così dice:

«È proibita la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.

«La disposizione dell’articolo 56 della Costituzione per l’eleggibilità a Senatore non è applicabile ai ministri, sottosegretari, deputati e consiglieri nazionali fascisti.

«Sono stabilite con legge limitazioni temporanee alla eleggibilità e al diritto di voto per responsabilità fasciste».

Richiamo l’attenzione dell’Assemblea sopra la norma contenuta nell’ultimo comma. Noi dobbiamo ancora discutere questo problema, cioè se le leggi possano limitare, anche temporaneamente, l’eleggibilità ed il diritto di voto per responsabilità fasciste.

È, quindi, opportuno che dell’emendamento Schiavetti si torni a parlare soltanto quando saremo chiamati a discutere il terzo comma della prima disposizione finale e transitoria del progetto di Costituzione.

PRESIDENTE. Onorevole Russo Perez, come conclude?

RUSSO PEREZ. Che si sospenda la discussione sull’emendamento Schiavetti, e che di esso si torni a parlare quando discuteremo del terzo comma della prima disposizione finale e transitoria. L’ho già detto e mi pare che sia molto semplice.

PRESIDENTE. Onorevole Russo Perez, sarebbe stato più semplice che ella avesse sollevato la questione all’inizio della discussione, perché la sua proposta di sospensiva riguarda non solo la lettera dell’emendamento Schiavetti che oggi è in discussione, ma tutte le disposizioni dell’articolo 47, non soltanto del testo Schiavetti, ma anche del progetto del Governo e di quello della Commissione.

RUSSO PEREZ. Signor Presidente, riconosco che ella ha in parte ragione, nel senso che, se l’idea fosse venuta prima a me o a qualche altro dei colleghi, sarebbe stato meglio; ma questo non significa che io non abbia ragione nel chiedere che venga rimandata la discussione.

PRESIDENTE. Ella mi insegna che si tratta di una proposta di sospensiva, avanzata durante il corso della discussione. A tenore del Regolamento non può essere presentata da un singolo deputato, ma occorrono quindici firme.

LUSSU. Chiedo che si continui nella discussione.

RUSSO PEREZ. Domando se vi sono quindici deputati che appoggino la mia proposta. Il Regolamento stabilisce che non c’è bisogno di una dichiarazione scritta, purché colui che fa la proposta dichiari di avere con sé ed abbia effettivamente quindici deputati disposti a farla propria.

PRESIDENTE. Le faccio osservare che ella è in errore.

RUSSO PEREZ. Io non ho nulla da osservare, se non chiedere che la proposta sia passata ai voti. Forse ho torto perché ho ragione!

PRESIDENTE. Non le mie idee vanno rispettate, ma il Regolamento. È vero che si può sostituire alle firme anche l’atto materiale e semplice della presenza dei consenzienti, ma solo per materie tassativamente indicate. Quando invece si tratta di una sospensiva, il Regolamento chiede, e le ragioni sono intuibili, che la proposta sia presentata per iscritto, con le firme di quindici deputati.

RUSSO PEREZ. La presenteremo.

PRESIDENTE. Durante il tempo che ella impiegherà per raccogliere le quindici firme, la discussione deve continuare.

Passiamo alla lettera h) dell’emendamento dell’onorevole Schiavetti, del quale do nuovamente lettura:

«h) qualsiasi carica politica del partito fascista repubblicano».

Questa parte dell’emendamento si riferisce ad una disposizione già approvata dall’Assemblea e che porta la lettera e) nello stesso articolo 47, del seguente tenore: «le medesime cariche di cui alle lettere precedenti, durante la pseudo repubblica sociale».

Chiedo all’onorevole Schiavetti se nonostante l’Assemblea abbia già proceduto all’approvazione di questa norma, insista nell’emendamento.

SCHIAVETTI. Insisto.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Relatore ad esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione aveva esplicitamente posto l’esclusione dal voto di tutti coloro che avevano ricoperto le stesse cariche previste nei commi approvati. Non può accettare la dizione «qualsiasi» per la sua imprecisione, per la sua vaghezza, mentre in norme come questa occorre una esatta delimitazione. Ritiene poi di dover richiamare l’attenzione dell’Assemblea sulle conseguenze possibili, sugli arbitri cui una tale norma affidata a commissioni locali può dar luogo. Per esempio, vi sono di quelli che, pur avendo ricoperto la carica di podestà nel periodo della repubblica sociale, sono stati poi eletti sindaci democraticamente: fatto che s’è verificato in tutti i partiti. Si tratta, per lo più, di persone che, durante il periodo del fascismo pseudo repubblicano, hanno creduto di adoperarsi in qualche modo per rendere meno aspra l’occupazione del tedesco, per difendere le popolazioni. Chi è stato nel Nord durante l’occupazione tedesca comprende esattamente questa mia osservazione.

Il voler, quindi, stabilire che l’aver ricoperto in quel tempo la carica di podestà faccia perdere il diritto di voto vorrebbe dire non solo mettere in crisi tante amministrazioni comunali, ma anche commettere ingiustizia. Per questi motivi che sono un riflesso del criterio fondamentale che ha animato la Commissione questa deve respingere anche questo ulteriore emendamento Schiavetti.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Sottosegretario per l’interno a esprimere il parere del Governo.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo si associa al parere della Commissione.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la lettera h) dell’emendamento Schiavetti, di cui è stata data già lettura.

(Segue la votazione per alzata e seduta).

Non essendo possibile stabilire con precisione l’esito della votazione, procediamo per divisione alla votazione della lettera h) dell’emendamento.

(È approvata).

Comunico all’Assemblea che è stata presentata dagli onorevoli Russo Perez, De Maria, Bencivenga, Mazza, Colitto, Coppi, Di Fausto, Gullo, Bellavista, Bonino, Rodinò Mario, Lagravinese Pasquale, Bergamini, Rodi, Coppi, De Maria e Ayroldi una richiesta di sospensiva della discussione dell’articolo 47.

Apro la discussione avvertendo che possono parteciparvi soltanto due oratori in favore, compreso uno dei proponenti, e due contro.

MAZZONI. Ma l’articolo 47 è in parte già votato, quindi non si può chiedere la sospensiva.

PRESIDENTE. La sospensiva, una volta votata, vale per la parte dell’articolo che non è stata approvata, perché non si può con una sospensiva distruggere i risultati di votazioni già avvenute.

CIANCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIANCA. Io intendo tutto il valore politico di questa richiesta (Commenti a destra) e mi duole che il Regolamento non consenta di proseguire in questo dibattito, consenta cioè di prendere in esame la proposta di sospensiva, perché se questa avvenisse noi chiederemmo la votazione per appello nominale (Interruzioni – Commenti a destra) e legheremmo così a una responsabilità precisa tutti coloro che votassero per la sospensiva. (Proteste a destra).

Ripeto, appare assurdo, non ad ogni spirito politico ma ad ogni uomo di buon senso, che possa essere chiesta in questo momento la sospensiva su di un articolo il quale è stato già discusso ed in notevole parte approvato. L’articolo è una unità organica di cui ogni parte condiziona ed integra l’altra. Se il Regolamento consentisse di sollevare eccezioni di questo genere, vorrebbe dire che nessuna discussione parlamentare sarebbe più concepibile e potrebbe essere condotta a compimento.

Quindi io dico che la Presidenza non può mettere in discussione la richiesta formulata, con uno spirito politico di cui prendiamo atto, dall’onorevole Russo Perez e dai suoi colleghi. (Approvazioni – Rumori – Commenti).

RUSSO PEREZ. Con uno spirito giuridico, non politico.

BELLAVISTA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. Io non ho nulla da insegnare all’ufficio di Presidenza, maestro e donno di regolamenti, che si regolerà secondo il Regolamento, piaccia o no all’onorevole Cianca.

A quest’ultimo però devo confessare che io condivido l’apprezzamento sullo spirito politico che c’è, senza dubbio, nella richiesta di sospensiva ma non precisamente quello che l’onorevole Cianca crede di intravedere. Un altro, e ve lo dico subito, stretto parente dello spirito politico c’è e si chiama spirito giuridico, che pare abbia disertato quel settore dell’Assemblea. Ma noi lo ricondurremo a voi, con vostra buona pace. C’è spirito politico e giuridico per la sospensiva della parte non approvata dell’articolo 47 per una ragione semplicissima…

Una voce a sinistra. Littori!

BELLAVISTA. A chi? Ma se io ho una preoccupazione altruistica? Potrei ad esempio insorgere in difesa del vostro Mario Alicata, direttore comunista della «Voce» di Napoli, littore «emerito di molto merito».

Una voce a sinistra. Non guardiamo se si deve salvare questo o quello. È una norma generale.

BELLAVISTA. Ma è soprattutto la preoccupazione di quell’elemento sistematico della legge che ci consiglia la sospensiva. Nelle disposizioni finali e transitorie della Costituzione è chiaramente stabilito che la legge limita temporaneamente l’eleggibilità e il diritto di voto per responsabilità fascista. Quello che noi chiediamo è di mettere, per necessità sistematica – irrinunciabile, se si vogliono fare leggi buone e perfette – in relazione il terzo comma della prima delle disposizioni finali e transitorie con il resto dell’articolo 47. Sospendere non significa certo rigettare o rifiutare; e nella sospensiva non c’è altro spirito politico che quello che fa alzare i giuristi a parlare, perché le leggi siano degne del loro nome e della buona tradizione giuridica italiana. (Applausi a destra – Rumori a sinistra – Commenti).

SCHIAVETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Vorrei anzitutto conoscere quale sarebbe la sorte degli emendamenti già approvati da questa Assemblea nel caso, per noi assurdo, che fosse approvata la sospensiva.

BELLAVISTA. Sono stati già approvati!

SCHIAVETTI. Allora noi abbiamo una sospensiva di questo genere: colpisce alcune categorie e non colpisce altre che sono legate alle prime.

Secondo me la proposta di sospensiva si può fare, ma della discussione e non già della votazione, come dice l’articolo 93 del Regolamento che parla esclusivamente della discussione. Ma io credo che ormai noi siamo in sede di votazione e non di discussione; quindi la richiesta dell’onorevole Russo Perez non è da accogliere. (Commenti).

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. In mezzo a questo dibattito vivace vorrei dire una parola serena. Noi stiamo approvando una legge che è stata distaccata dalla legge elettorale passiva perché c’è la necessità di procedere alla revisione delle liste elettorali. Il decreto-legge del 28 settembre 1944, n. 247, non prevede la compilazione delle liste elettorali, ma soltanto la loro revisione; oggi abbiamo ancora unicamente le liste elettorali che sono state adoperate per il 2 giugno. Tutte quante le revisioni che sono necessarie da allora ad oggi non si possono fare se non si approva questa legge. Se si vogliono fare nella primavera prossima le elezioni, per tutto il congegno dei termini per rivedere le liste, è necessario che entro brevi giorni abbia ad essere approvata la legge, senza della quale non si possono rivedere le liste.

Non ci rimane da votare che in merito alla lettera q) e all’ultimo capoverso dell’emendamento Schiavetti. Mi sembra che in questa situazione sia molto meglio procedere nelle votazioni. La sospensiva non farebbe che ritardare l’approvazione di tutta la legge, provocando quindi l’impossibilità della revisione delle liste. Avrei capito se si fosse voluto lo stralcio dell’articolo 47; ma non comprendo come oggi si possa fare. L’onorevole Bencivenga aveva proposto la soppressione. Avrebbe potuto essere proposta la sospensiva finché non fossero state approvate le norme transitorie di cui nella Costituzione, ma bisognava che fosse stata posta all’inizio dell’esame dell’articolo 47. Ma si osserva che questo articolo potrebbe poi risultare in contrasto con la Costituzione. Vuol dire che, se, per ipotesi, quando si discuteranno le norme transitorie della Costituzione, l’Assemblea venisse nella deliberazione di non ammettere alcuna disposizione che escluda dal diritto di voto, è evidente che allora cadrebbe la norma posta in questa legge all’articolo 47. Ma il ritardo nell’approvazione della legge renderebbe impossibili nella primavera prossima le elezioni cori le liste rettificate.

PRESIDENTE. L’onorevole Marazza, Sottosegretario per l’interno, ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo si rimette alla decisione dell’Assemblea; però non può non associarsi alle considerazioni della Commissione, in quanto una eventuale sospensiva ritarderebbe in tale misura la revisione delle liste, che si dovrebbe escludere fin da ora la possibilità di convocare i comizi elettorali per la primavera prossima.

PRESIDENTE. Domando all’onorevole Russo Perez di precisare il termine di scadenza della sospensiva. Se ho compreso bene il suo concetto, la sospensiva dovrebbe durare fino al momento in cui non si fosse discusso la disposizione transitoria della Costituzione che ha attinenza con la disposizione di cui si discute.

RUSSO PEREZ. Chi vieta all’Assemblea – anche perché si dimostri che non vi è nella mia proposta quello spirito politico a cui accennava l’onorevole Cianca – di anticipare la discussione su di una norma transitoria?

PRESIDENTE. Allora, è da intendere che sia sospesa la discussione dell’articolo 47 fino a che l’Assemblea non si sia pronunciata sulla norma transitoria ricordata dall’onorevole Russo Perez.

È bene che l’Assemblea tenga presente la portata della sospensiva.

TOGLIATTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Su questo argomento non posso concedere la parola a nessuno, perché già due oratori hanno parlato in favore e due contro.

Quindi, onorevole Togliatti, potrò concederle la parola solo per dichiarazione di voto.

Pongo in votazione la proposta di sospensiva della discussione sull’articolo 47, con la intesa che questa sospensiva vale fino al momento in cui l’Assemblea avrà deciso in merito alla norma transitoria ricordata dall’onorevole Russo Perez.

L’onorevole Togliatti ha facoltà di parlare per dichiarazione di voto.

TOGLIATTI. Premetto che condivido l’opinione di quei colleghi, i quali trovano strano, dato anche ciò che il Regolamento prevede, che si addivenga a un voto di sospensiva a metà discussione di un articolo.

 

Voci. Votato un articolo, la discussione è chiusa.

TOGLIATTI. Lascio alla Presidenza di decidere la questione.

Nel merito della questione desidero precisare i motivi per i quali il Gruppo parlamentare comunista voterà contro la sospensiva. Credo quindi di essere perfettamente nel Regolamento e di avere diritto alla parola.

Prima di tutto ritengo pertinenti gli argomenti esposti testé dal Relatore della Commissione, onorevole Uberti. Non si può ritardare indefinitamente l’approvazione di questi articoli. Abbiamo bisogno di risolvere rapidamente questa questione per poter fare le liste elettorali. Mi pare che questo solo argomento parli contro la sospensiva, qualunque sia la posizione che si può avere nei riguardi delle proposte che si stanno discutendo.

Desidero però esprimere un’opinione anche sul merito e qui debbo dire che nel nostro gruppo molti colleghi pensano che parecchie delle misure che sono state proposte e che abbiamo in parte approvato ed in parte respinto, particolarmente le proposte dell’onorevole Schiavetti, siano misure molto severe. E ne spiegherò il perché.

Una voce a destra. Le avete votate!

TOGLIATTI. Sì, le abbiamo votate. La severità consiste nel fatto che era possibile prevedere in questo campo una linea differente, di maggiore generosità ed ampiezza, una linea che andasse nella direzione di quell’opera di conciliazione e di pacificazione, che credo siamo nella maggioranza in questa Assemblea ad auspicare e che noi comunisti auspichiamo con la stessa sincerità con cui l’auspicano altri partiti e colleghi di altri settori. (Rumori a destra). Però, onorevoli colleghi, una linea di maggiore generosità e di maggiore ampiezza, un indirizzo per la conciliazione e la pacificazione nei confronti soprattutto di coloro che furono esponenti, direi dei gradi medi o più bassi, dell’abominevole regime fascista, presuppone da parte del fascismo come tale, senza «neo», un disarmo. Questa è la condizione preliminare e prima perché sia possibile una politica di generosità e di conciliazione. Ma quando vediamo che l’avversario, anziché disarmare, approfitta anche di quelle prove tanto grandi di generosità, che abbiamo dato nei suoi confronti, per discendere di nuovo in campo con le sue stesse posizioni e per condurre con le stesse armi di ieri la stessa lotta che ieri condusse – e che ci ha portato dove ci ha portato – allora, signori, siamo costretti a dire che qui vi è un equivoco, un errore, un travisamento delle posizioni. Qui si sorprende la nostra buona fede. (Applausi a sinistra). Abbiamo saputo che ieri il Presidente del Consiglio ha ricevuto una delegazione di cittadini italiani della provincia di Gorizia, delle regioni recentemente ritornate all’Italia dalla temporanea occupazione alleata. Ebbene, questa delegazione è andata a riferire, come verrà riferito anche in quest’Assemblea, che il passaggio all’amministrazione italiana ha significato uno scatenamento di violenze fasciste (Vivi rumori a destra) esattamente uguali a quelle esercitate nel 1919, 1920 e 1921 e in quelle regioni e in tutta Italia contro le organizzazioni dei lavoratori e le organizzazioni democratiche… (Rumori e proteste a destra – Interruzioni dell’onorevole Pajetta Giuliano). In quelle città e in quei villaggi sono state assaltate, saccheggiate ed incendiate le sedi dei partiti democratici. (Interruzioni e rumori a destra).

Sì, signori. E se in quei partiti democratici sono iscritti dei cittadini italiani di nazionalità non italiana…

Voci a destra. Basta, basta!

TOGLIATTI. Finché sto alla tribuna parlo. Questo è il mio diritto.

Voci a destra. È una dichiarazione di voto!

TOGLIATTI. Se iscritti a quelle associazioni democratiche e a quei partiti democratici sono dei cittadini italiani di nazionalità non italiana, questo è un motivo perché noi ancora più rigorosamente rispettiamo nei loro confronti tutte le libertà. (Interruzioni e commenti a destra). La realtà è che voi (Indica la destra) non avete imparato niente dalla esperienza. (Applausi a sinistra – Vive interruzioni a destra). Se noi vi lasciassimo fare voi trascinereste l’Italia un’altra volta. (Applausi a sinistra – Proteste a destra).

PRESIDENTE. Onorevole Togliatti, permetta. Se il Regolamento non stabilisce nessun limite massimo per le dichiarazioni di voto, dice però che queste devono consistere in una pura e succinta spiegazione del voto.

TOGLIATTI. …per la via in cui l’avete trascinata oppure l’avete lasciata trascinare. Ieri, ancora, per le strade di Roma, nei comizi indetti da fascisti, si sono cantati inni fascisti e si procede con metodi fascisti.

Concludo la mia dichiarazione di voto: nel momento in cui assistiamo a questa ripresa di virulenza fascista, in questo momento, anche se nel fondo noi avessimo potuto auspicare una legge la quale desse prova di maggiore generosità e non contenesse disposizioni così severe, in questo momento non possiamo che aderire a questo emendamento e respingere la proposta di sospensiva, che viene avanzata da quella parte. (Indica la destra). (Applausi a sinistra – Commenti).

MASTINO PIETRO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MASTINO PIETRO. Onorevoli colleghi, io non posso avere la pretesa, parlando per mio conto personale, di portare in questa Assemblea una nota che sia esclusivamente politica, ma intendo ricordare la questione della interpretazione dell’articolo 93, nel senso che quelle ragioni formali che a mio avviso si devono opporre a che sia posta in votazione la sospensiva…

PRESIDENTE. Scusi, onorevole Mastino Pietro. Le ho dato la parola per dichiarazione di voto; quindi ella non può dire altro che le ragioni che la portano a votare contro o in favore.

MASTINO PIETRO. Io voterò contro la sospensiva e dicevo che le ragioni di forma, per me diventano di sostanza, ed è per ciò che io do il voto contrario alla sospensiva. Sarebbe superfluo precisare all’Assemblea come una cosa sia discutere ed altra cosa votare una legge. L’articolo 93 quando prevede la possibilità di una sospensiva, la prevede solo nel caso della discussione della legge. L’onorevole Presidente ha però tenuto a chiarire che, se anche noi abbiamo discusso la legge, non abbiamo però ancora discusso l’emendamento, di modo che, secondo l’apparente sua interpretazione, noi saremmo sempre in campo di discussione. Questo, a sommesso mio avviso, non è esatto, perché l’articolo 93 quando parla di discussione che dà luogo a possibilità di sospensiva, parla di discussione sulla legge, non di discussione sugli emendamenti. E noi siamo nel pieno della votazione. La discussione della legge è già superata. Per arrivare ad una diversa interpretazione, dovrei supporre, da parte dei compilatori del Regolamento, l’ignoranza di una cosa così chiara: la diversità tra discussione da un lato e votazione dall’altro.

Questa ragione di forma diventa quindi di sostanza e mi consiglia a votare contro la sospensiva a meno che il Presidente non crederà che spetti a lui, nella sua qualità, di decidere, non mettendo neanche in votazione la sospensiva. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Fo ancora osservare all’onorevole Mastino che la proposta di sospensiva si riferisce all’intero articolo 47 di cui è in corso la discussione.

CONDORELLI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Onorevoli colleghi! Sono tre mesi che noi abbiamo approvato l’articolo 45 della Costituzione nel quale è affermato: «Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi che hanno raggiunto la maggiore età». Questa è ormai una norma costituzionale del nostro Paese, per nostra volontà. Ancora la norma costituzionale che dà al legislatore la possibilità di creare delle eccezioni a questo principio non è stata approvata. Noi dunque, mentre siamo in iter di formazione della Costituzione, cominciamo a violarla in modo flagrante e patente. Deploriamo di esserci accorti di ciò soltanto quando era in corso l’approvazione dell’articolo 47. (Interruzioni a sinistra).

Ce ne siamo accorti sufficientemente in tempo però, per dare alla Nazione la sensazione che se noi siamo i formatori di questa Costituzione ne siamo ancora in questo momento i vigili custodi. È una esigenza necessaria di diritto, di politica costituzionale, sospendere la discussione di questo articolo di legge.

E non vi è nessun argomento regolamentare che ci potrebbe fermare su questa via. Non si dica che noi sospendiamo a metà l’approvazione di una norma. Un articolo di legge (questo è ovvio per chi si intende di legge) può contenere infinite norme; tante sono le norme quanti sono i precetti.

Qui vi è una serie di precetti che potrebbe giungere all’infinito, cioè sino a dove arriverà la fantasia dell’onorevole Schiavetti. Noi ci possiamo e ci vogliamo dunque fermare a questo punto. Io non sono sicuro dell’esito di questo voto; temo che questo voto darà ancora una volta la prova della scarsa sensibilità giuridica e politica di questa Assemblea. (Rumori a sinistra).

Comunque, io protesto sin da adesso contro l’eventuale risultato di un voto contrario e dico al popolo italiano (Rumori a sinistra) che male ha posto la sua volontà di restaurazione del diritto in mano a dei rappresentanti che violano la Costituzione nel momento stesso in cui la formano. (Applausi a destra – Rumori a sinistra).

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Io vorrei affrontare la questione brevissimamente, al di fuori di ogni faziosità politica e soltanto dal punto di vista giuridico e dell’opportunità.

Effettivamente, noi finora, nel lavoro costituzionale, ci siamo occupati del diritto di voto in una disposizione nella quale è detto che limitazioni non possono essere stabilite se non in conseguenza di sentenza civile o di condanna penale, e poi si è aggiunto per indegnità morale, allo scopo di comprendere talune categorie tradizionalmente escluse dal diritto di voto.

È prevista poi, tra le disposizioni transitorie e finali, una norma, la quale stabilisce limitazioni temporanee da fissarsi per legge alla eleggibilità e al diritto di voto, per responsabilità fasciste.

Quindi, fino a questo momento la Costituente ha espresso la sua volontà nel senso di sottrarre le categorie degli elettori al possibile arbitrio di una legge futura, stabilendo in modo preciso quali sono le cause in presenza delle quali il diritto di voto può essere sospeso. Evidentemente la disposizione transitoria aveva una sua ragion d’essere in relazione ad una situazione politica contingente, in vista della quale stabiliva un’eccezione a quel principio.

Ora, discutendo noi questa legge e non avendo ancora approvato questa disposizione transitoria, ci poniamo in qualche modo in contrasto con la volontà che, fino a questo momento e senza esclusione di nuove deliberazioni a complemento, la Costituente ha espresso.

Certamente, se la sospensiva volesse significare un rinvio sine die o, per lo meno, alle calende greche, della discussione della legge, si andrebbe incontro ad inconvenienti non soltanto di carattere politico – come è possibile intendere – ma anche di carattere pratico, data l’urgenza della redazione delle liste elettorali.

Ed allora io dico: spogliamo la questione di ogni carattere politico e mettiamoci d’accordo. Io faccio questa formale proposta: la Costituente stabilisca di affrontare la votazione e la discussione di questa norma transitoria nella prima seduta dedicata alla materia costituzionale.

RUSSO PEREZ. L’ho detto anche io!

MORO. Poiché la materia costituzionale è all’ordine del giorno, noi non abbiamo nessuna difficoltà a stabilire ciò. Si potrebbe rimandare alla seduta di domani e così potremmo tranquillizzare ogni scrupolo e sodisfare ogni esigenza. (Rumori a sinistra).

SCHIAVETTI. Una proposta in sede di dichiarazione di voto! (Commenti).

MORO. Quindi, per rispondere all’onorevole Schiavetti, io dico che noi votiamo in favore della sospensiva a questa condizione precisa, che la norma transitoria venga in discussione nella prima seduta dedicata alla materia costituzionale. (Applausi al centro e a destra – Commenti).

RUSSO PEREZ. E così cade la speculazione politica dell’onorevole Togliatti!

PRESIDENTE. Onorevole Moro, è evidente che qualora l’Assemblea approvasse la sospensiva, l’Assemblea stessa, in sede di Costituzione, avrebbe facoltà e diritto di fissare anche immediatamente la discussione della norma transitoria.

Con questo chiarimento, ed intendendosi che la sospensione dura fino a che non sia stata decisa l’approvazione o meno della norma transitoria più volte ricordata, pongo in votazione la proposta di sospensiva. (Commenti a sinistra).

(Dopo prova e controprova e votazione per divisione, la proposta è approvata).

Sì intende che l’Assemblea potrà anche oggi stesso in sede di discussione sulla Costituzione decidere di passare senz’altro all’esame dell’articolo 1 delle Disposizioni Transitorie.

Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

La seduta termina alle 12.15.

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 18 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXIV.

SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 18 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Sul processo verbale:

Sforza, Ministro degli affari esteri

Rodinò Mario

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Gullo Fausto

Mortati

Sui lavori dell’Assemblea:

Presidente

Gavina

Piccioni

Silipo

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La sedata comincia alle 16.

MAZZA, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Dopo il mio breve discorso sulle relazioni fra i partiti di massa e la burocrazia, avrei voluto, in seguito ad una impressione, erronea per fortuna, che alcuni colleghi ebbero di una mia frase su certi uomini politici del Mezzogiorno, domandare la parola sul processo verbale del giorno dopo per chiarire il mio pensiero. Purtroppo, gravi affari di Stato mi trattennero al Ministero degli esteri e non potei intervenire. Sono quindi grato al mio collega ed amico onorevole Mario Rodinò, che ieri chiese che io chiarissi il mio pensiero, perché ciò mi dà la possibilità oggi d’intervenire sul processo verbale. Io mi rendo perfettamente conto che quando si vuol parlare con estrema brevità, come sempre faccio in questa Assemblea, perché credo nella necessità di affrettare i nostri dibattiti, si corre il rischio di essere a volte fraintesi, tanto più che l’improvvisazione è spesso una infida compagna. Ma poiché si tratta di chiarire il mio pensiero circa il Mezzogiorno, è evidente che, essendovi stata una interpretazione, ripeto per fortuna erronea, potrei non essere creduto in parola se oggi mi sbracciassi qui in espressioni e giudizi più conformi al mio pensiero, ma dei quali si potrebbe pensare che sono l’effetto di un equivoco di cui sarei in parte responsabile. Quindi preferisco non far parlare me stesso oggi, ma me stesso nel 1946, quando, come scrittore d’un libro, che pubblicai a Milano e dove è un capitolo sul Mezzogiorno e sul Settentrione, dissi fra l’altro – non abbiano paura i colleghi che vanità di autore mi faccia leggere a lungo: – «Tocca a noi italiani del Nord ricordare e far ricordare a tutti che è il Mezzogiorno che ha dato all’Italia i più puri eroi dello spirito; che è il Mezzogiorno che ci ha dato i primi e i più eletti martiri del nostro Risorgimento con gli impiccati della Repubblica del 1799; che dalle loro ceneri uscirono vendicatori gli Spaventa, i Settembrini, i De Sanctis e tanti altri. Per parte mia – e questa è profonda impressione del mio spirito – se non fosse che la mia dimora fra Bari, Salerno e Napoli nel 1943-44 fu resa più lunga dalla troppo lenta tattica militare, per cui l’Italia pagò con città distrutte la cecità e le idee fisse di certi governanti stranieri, io benedirei il cielo di essere rimasto un paio d’anni in mezzo ad una civiltà tanto più raffinata della nostra». E più oltre: «La lotta dei Lombardi contro le paludi della pianura del Po durò quattro o cinque secoli, ma finirono col trionfare e fecero della loro terra una delle regioni più ricche d’Europa. Nel Mezzogiorno il lavoro è più eroico, perché deve rinnovarsi costantemente, salvo in due o tre casi privilegiati, un po’ dappertutto, come sulle pendici del Vesuvio, dove dopo ogni eruzione bisogna ripiantare dal nulla le viti. La lotta del meridionale italiano con la sua terra è uno dei più nobili esempi di resistenza umana; ma è muta e non è gesticolante; ed è per questo che i giornali e la letteratura propagandistica ne tacciono». Potrei continuare a lungo; ma tutti hanno capito quanto profonda sia la mia devozione per il Mezzogiorno. Aggiungerò una cosa, che è utile si sappia: che questi sono i miei giudizi come uomo privato e come modesto scrittore. Ma ben più importante è che io possa dire, come Ministro degli esteri, che stimo inconcepibile un rinascimento, una trasformazione, una estensione della forza e della influenza morale e materiale dell’Italia nel mondo, che non riconoscano come loro necessaria condizione primordiale la ricostruzione, la resurrezione, lo sviluppo crescente di tutta la vita italiana del Mezzogiorno; senza questa è inutile che noi pensiamo di poter diventare un giorno il grande Paese che giustamente speriamo di diventare. (Applausi).

RODINÒ MARIO. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RODINÒ MARIO. Desidero ringraziare l’onorevole Sforza per i chiarimenti, le dichiarazioni e le citazioni, da lui forniti a questa Assemblea.

Son sicuro che le parole che egli ha pronunziato saranno apprese con soddisfazione da tutti i napoletani e da tutti i meridionali, che troppo spesso si vedono misconosciuti e che, ricordando che il Conte Sforza è autorevole membro del Governo in carica, spereranno ancora una volta che la situazione meridionale sarà affrontata e che i problemi di Napoli e del Mezzogiorno, eternamente urgenti, eternamente insolubili, eternamente incompresi, saranno finalmente portati sul piano di una pratica realizzazione.

Voglio fare un brevissimo richiamo. Ho avuto occasione pochi giorni fa di leggere un discorso, che l’onorevole Colajanni, nel 1901, 46 anni fa, pronunziò alla Camera dei deputati nell’interesse del Mezzogiorno. Ebbene, leggendo quel discorso fatto 46 anni fa, alcune di quelle argomentazioni mi son sembrate ancora così vive, così palpitanti, così rispondenti alle effettive, condizioni di squilibrio che tuttora persistono, che vi assicuro, onorevoli colleghi, che quel discorso, per la sua massima parte, potrebbe esser riletto oggi in quest’Aula non come una riesumazione, ma come una realtà contingente. Quarantasei anni sono molti, anche per la vita di una Nazione e vorrei chiudere questo brevissimo incidente, prendendo l’occasione per dichiarare ancora una volta nell’Assemblea nazionale italiana che il problema del Mezzogiorno è il problema dell’avvenire d’Italia e che, finché esso non sarà risolto, come solo può esserlo, con unità di intenti e con realtà di giustizia, noi costruiremo sul vuoto!

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Posso aggiungere una sola parola, non sul processo verbale, ma come continuazione del mio pensiero.

Stamattina stessa ho dato istruzioni nei negoziati tra l’Italia e gli Stati Uniti che si faccia ogni sforzo per escludere la divisione in due categorie degli italiani, che come uomo del Nord io sento come un’offesa. Nelle statistiche americane si scrive: italiani del Nord e italiani del Sud. Ero umiliato, come italiano del Nord, perché mi sentivo distaccato da alcuni uomini, fra i più nobili rappresentanti dell’Italia, che erano appunto uomini del Sud. (Applausi).

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca; Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana. Prego l’onorevole Segretario di dare lettura dell’ordine del giorno presentato dall’onorevole Gullo Fausto.

MAZZA, ff. Segretario, legge:

«L’Assemblea Costituente,

premesso che la divisione dei poteri dello Stato non può significare in un ordinamento veramente democratico se non distinzione delle funzioni armonicamente operanti, nel quadro unitario dei poteri stessi, perché l’attività dello Stato, nei suoi vari aspetti, si esplichi sempre nel rispetto assoluto della sovranità e della volontà del popolo;

afferma la necessità che il potere esecutivo venga organizzato nella Costituzione in modo che esso tragga la sua necessaria autorità soltanto dalla volontà popolare manifestata attraverso la concessione della fiducia da parte della Camera dei Deputati».

PRESIDENTE. L’onorevole Gullo Fausto ha facoltà di svolgere il suo ordine del giorno.

GULLO FAUSTO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi! Questa che si discute oggi è la parte della Costituzione che indubbiamente mostra in maniera più manifesta quale sia stato il contrasto delle divergenti opinioni e come le norme che noi oggi esaminiamo siano spesso il risultato di un compromesso. E si sa che spesse volte nei compromessi si riesce a realizzare i soli svantaggi, essendo costretti a lasciare da parte i vantaggi delle varie e contrastanti soluzioni. Io non vorrò – perché la cosa richiederebbe un tempo molto maggiore di quello concessomi – fare, alla stregua di tale premessa, un esame analitico di tutta la parte che oggi esaminiamo e discutiamo. Mi limiterò a brevi accenni, con più speciale riferimento al potere esecutivo, non senza aver presenti le parole, oltre modo significative, che si leggono nel rapporto del Thouret alla Convenzione francese: «Quando, dopo un lungo dispotismo, una Nazione si sveglia e si costituisce, il suo principale nemico in questa situazione è allora il potere esecutivo».

Evidentemente, il potere esecutivo ha sugli altri poteri dello Stato il vantaggio della continuità della sua azione e quindi la possibilità maggiore di varcare i limiti segnati alla sua attività. Ma un principio deve essere ben fermo in una Costituzione che si ispira ai principî della democrazia parlamentare, e cioè che non vi può essere autorità di Governo la quale non tragga i motivi e le ragioni della sua esistenza il più direttamente possibile dalla sovranità popolare.

Vi è un’esigenza che noi riconosciamo, una esigenza resa più acuta dagli ultimi avvenimenti della storia non soltanto d’Italia ma di tutte le Nazioni democratiche, quella, cioè, della stabilità del Governo, cui incombe il pericolo delle frequenti crisi, che turbano così profondamente la vita economica, politica e sociale del Paese. Ed è stato giustamente osservato da vari oratori che non è precisamente il mezzo migliore e più efficace di assicurare la stabilità del Governo quello di far ricorso ad accorgimenti, dirò così, esteriori, quasi che essa possa essere il risultato di un meccanismo più o meno ben congegnato. La continuità del Governo, per quanto possa costituire un’esigenza di primo piano nella vita della Nazione, non può non accompagnarsi a quella necessità di cui parlavo poc’anzi, e cioè che il Governo tragga la sua autorità dalla sovranità popolare, perché in tanto il Governo democratico è pienamente legittimo, in quanto nella sua attività non si stacchi mai da essa, che è l’unica fonte da cui trae il suo potere e la sua autorità.

Ora, come il presente progetto ha conciliato questa duplice esigenza? A questa domanda è legata senz’altro la principale questione, che si risolve affermando che il Governo può assicurarsi di avere con sé la sovranità popolare solo attraverso l’ottenuta fiducia da parte dei rappresentanti del popolo, cioè da parte di coloro che sono i legittimi rappresentanti della volontà e quindi della sovranità popolare.

Ma è appunto qui che viene ad inserirsi l’altra grossa questione, quella cioè del Senato. Nel momento in cui si stabilì di accogliere il sistema bicamerale, ci si è trovati di fronte ad una serie di problemi. Ed è proprio nella soluzione di tali problemi che più si nota il compromesso cui ha fatto ricorso la Commissione dei Settantacinque per cercare, come dicevo, di conciliare le contrastanti opinioni.

Superando, e di molto, i limiti segnati dalle norme contenute nel progetto, si è a lungo, in questo dibattito, parlato del Senato. Si è affermato prevalentemente che fosse necessario creare una Camera diversa dalla Camera dei deputati, al fine d’evitare un inutile doppione. Una Camera diversa, una Camera, cioè, che ripeta i suoi poteri da altra fonte da quella da cui li ripete la Camera dei deputati. Ma è intuitivo che questa fonte, per quanto diversa, non può non immedesimarsi anche essa in una manifestazione della volontà e della sovranità popolare.

La Commissione ha pensato ad un ordinamento di carattere regionale, ma anche qui vien fuori il compromesso e un compromesso strano, perché il progetto pensa che sia sufficiente, perché si abbia un’Assemblea elettiva di tipo regionalistico, segnare in una norma che i rappresentanti debbono essere nati o domiciliati nella Regione. Norma quanto mai strana, della quale non si riesce ad intendere il significato.

Quasi non sia concepibile, come invece è nel fatto che parecchi, per esempio, dei più appassionati meridionalisti non sono del Mezzogiorno d’Italia, ma di altre regioni. Senza dire che, di fronte a quell’esigenza unitaria che deve essere alla base di tutto l’ordinamento dello Stato, non è né opportuno né simpatico porre questa limitazione.

Ma basta poi ciò a creare un’Assemblea politica di tipo regionalistico? E, nel porre tale domanda, ho presente l’altra norma che fissa cinque rappresentanti per ogni Regione, oltre quelli eletti dai Consigli regionali in proporzione degli abitanti.

Come si manifesta questo speciale carattere che si vuole imprimere alla Camera dei Senatori?

È opportuno a questo proposito ricordare che nello stesso progetto è detto che anche i senatori, come i deputati, rappresentano non il collegio che li elegge, ma tutta la Nazione. E allora?

Qualche oratore, ricordo l’onorevole Piccioni, ha parlato della opportunità che si dia al Senato un altro carattere, un carattere di rappresentanza di categorie, a base di interessi. Ma, sia il Senato a carattere regionalistico, sia a carattere rappresentativo di categorie di interessi, sorge qui un problema che non si è affrontato e che è questo: non v’è, in una democrazia parlamentare, possibilità per un’Assemblea politica, quale è la Camera dei deputati e quale si vorrebbe che fosse il Senato, che non sorga dal popolo indiscriminatamente considerato.

Quando si crea una qualche discriminazione e in base ad essa si istituisce un’Assemblea di tipo regionalistico oppure di tipo, diciamo così, corporativistico, si farà tutto meno che una Assemblea politica, si snaturerà il concetto stesso di sovranità, che non può non identificarsi nel popolo indiscriminatamente inteso.

Con ciò non si vuol negare l’esistenza dei contrastanti interessi, i quali hanno il loro proprio campo d’azione al di fuori dell’Assemblea, nelle varie organizzazioni, operaie, padronali, professionali, ecc. L’Assemblea politica, nel momento in cui viene costituita, vuol essere qualche cosa che trascende i singoli interessi, siano essi di carattere regionalistico o professionale. Non è concepibile un’Assemblea politica che si informi a criteri particolaristici. Ma il più grave è che, essendosi voluto fare del Senato, nonostante tutto, un’Assemblea politica, si è riconosciuto anche a questa Assemblea la possibilità e la facoltà di concedere o non concedere la fiducia al Governo. Col progetto, insomma, vengono concessi pari diritti alla Camera dei deputati e a quella dei senatori.

Avendo così disciplinato ed organizzato questa delicata materia, la Commissione si è trovata senz’altro nella condizione di prevedere una continuità di contrasti, una continuità di attriti fra queste due Assemblee fornite di pari poteri.

Mi duole che non sia presente l’onorevole Nitti. Egli non si spiegava, nel suo discorso dell’altro giorno, come mai la Commissione dei Settantacinque avesse organizzato, a fianco di queste due Camere, una terza Camera, l’Assemblea Nazionale. L’Assemblea Nazionale è la risultante necessaria dell’organizzazione delle due Camere, quella dei deputati e quella dei senatori. Nel momento in cui la Commissione ha creato le due Camere con pari diritti, con pari facoltà, è sorta senz’altro la facile previsione del contrasto e quindi del marasma, della stasi nella macchina statale. Da qui la necessità di creare un organo, attraverso il quale comporre e superare il contrasto. Si sarebbe indotti a pensare che col progetto si sia avuto cura di creare i pericoli, per avere la soddisfazione di avvisare nello stesso tempo ai mezzi per ovviarvi.

Create le due Camere, necessariamente doveva venir fuori questa terza che siede fra le due da arbitra, appunto per comporre i ben facilmente prevedibili contrasti.

Ma non è questo soltanto il pericolo: il pericolo è che un Senato così formato, con tali poteri, possa addirittura capovolgere il giudizio dato dalla Camera dei deputati, che è quella che veramente, direttamente rappresenta la volontà e la sovranità del popolo.

Né vale obiettare che nell’Assemblea Nazionale la Camera dei deputati ha la prevalenza del numero.

È un argomento che va fino ad un certo punto, perché appunto può accadere questo: che una considerevole minoranza della Camera dei deputati, può, unita ad una maggioranza di membri della seconda Camera, avere la prevalenza. Ma non si creano in tal modo elementi perturbatori della vita politica dello Stato?

Che cosa accadrà, onorevoli colleghi, quando la Camera dei deputati avrà negato la fiducia al Governo, se, in seno all’Assemblea Nazionale, mediante un piccolo scarto di voti, la fiducia al Governo verrà invece concessa? Potrà allora concepirsi un Governo rivestito dell’autorità e del prestigio che deve assolutamente avere? Che cosa noi pensiamo di potere attribuire, sotto l’aspetto del valore politico e costituzionale, al voto opposto che può venir fuori dall’Assemblea Nazionale, rispetto a quello che è stato dato precedentemente dalla prima Camera? Del voto dato cioè da quella Assemblea Nazionale cui parteciperebbe, ripeto, un Senato improntato, nella sua costituzione, ad un carattere regionalistico o, peggio ancora, ad un carattere corporativistico?

Come può concepirsi che l’unilaterale atteggiamento di interessi particolaristici possa e debba avere un peso decisivo contro il volere della Camera dei deputati, la quale più direttamente rappresenta la volontà di tutto il Paese?

E ciò ha condotto manifestamente il progetto anche ad un altro inconveniente: i suoi redattori si sono cioè trovati di fronte al problema della responsabilità ministeriale. Il Governo deve essere responsabile. Era stato già sancito nell’articolo 85, nella norma cioè con cui si fissa l’irresponsabilità del Capo dello Stato, che sono i Ministri competenti ad assumere la responsabilità dei suoi atti.

Ma si è creduto di ripetere la norma nell’articolo 89. Che cosa si è voluto significare con tale ripetizione?

Questo interrogativo ci porta a domandarci se esista in Italia, stando alla Costituzione che noi andiamo creando, il Consiglio dei Ministri, o se esso invece debba considerarsi superato. Si badi infatti che, ove pure si legga con la maggior attenzione il progetto, non si riuscirà a comprendere con chiarezza se la Commissione ha creduto che il Consiglio dei Ministri debba ancora continuare ad avere la sua funzione e quindi ad esistere, o se abbia invece creduto meglio di condensare la responsabilità ministeriale nella figura del Primo Ministro, venendo a ricalcare, sotto questo riguardo, le orme della legislazione fascista.

Il fascismo, del resto, non aveva fatto in questo se non dare sistemazione giuridica ad un’assodata tradizione, che conferiva un particolare prestigio ed una particolare autorità alla figura del Presidente del Consiglio. Ora, è sembrato che la Commissione abbia voluto riprendere, in certo modo, questa sistemazione giuridica data dal fascismo alla figura del Primo Ministro, ed ha stabilito che il Governo della Repubblica è composto dal Primo Ministro, il quale – dice poi l’articolo 89 – dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Ma nello stesso articolo 89 si legge subito dopo che «i Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri». Ma, insomma, vi è ancora il Consiglio dei Ministri o non vi è più? Perché, se vi è il Consiglio dei Ministri, la figura del Capo del Governo, del Presidente del Consiglio, così come sorge dal progetto, non ha una sua giustificazione, in quanto la responsabilità del Consiglio dei Ministri, la responsabilità cioè collegiale, esclude una responsabilità propria in tal senso del Capo del Governo. Ma se si resta, invece, fermi alla prima parte dell’articolo 89 («Il Primo Ministro dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile») non si può non escludere invece la responsabilità collegiale, dato che tale responsabilità viene ad essere condensata e riassunta nella figura del Primo Ministro.

Anche qui è evidente il compromesso.

Parlando del potere esecutivo, intendo soprattutto soffermarmi – ed è il punto centrale di questo mio modestissimo discorso – sulla veramente strana anomalia contenuta nell’articolo 93 del progetto. Invito gli onorevoli colleghi a valutare in tutta la sua importanza questo articolo 93. Un Governo non dirà mai in una maniera aperta: «io faccio a meno del consenso popolare». Anche Mussolini diceva di governare col consenso del popolo. Non vi è stato e non vi sarà mai un Governo che dirà il contrario; non sono però mancati i Governi che hanno esercitato la loro attività e la loro autorità contro la volontà e la sovranità popolare. E si sono serviti a tal fine di vari mezzi e vari strumenti che essi hanno inserito accortamente nel meccanismo costituzionale, tentacoli idonei a contestare la usurpata autorità illegittima. L’articolo 93 crea appunto due strumenti di tal genere: esso infatti disciplina costituzionalmente, ossia inserisce nella Costituzione due istituti: il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti. È un fatto nuovo; non v’è Costituzione al mondo che contenga la disciplina di questi due istituti…

TOSATO. Non è esatto.

GULLO FAUSTO. …uno, istituto di consulenza giuridico-amministrativa, e l’altro, istituto di consulenza e accertamento contabile. Sono due strumenti della cui necessità nella vita nazionale ognuno di noi può essere più o meno convinto; ma, insomma, non sono, non vogliono essere, non possono essere due istituti costituzionali.

Basti citare la Costituzione dell’Inghilterra. L’Inghilterra non conosce la Corte dei Conti, in quanto il controllo finanziario contabile è manifestazione diretta della Camera dei Comuni, la quale, ad ogni principio di legislatura, costituisce speciali Commissioni che fanno in pratica quello che da noi fa la Corte dei Conti.

Non è dunque una necessità di natura e di indole costituzionale, così come non è una necessità di natura costituzionale il Consiglio di Stato, quel Consiglio di Stato che – dobbiamo dirlo – a differenza della Corte dei Conti, non ha sul serio una brillante origine democratica. Il Consiglio di Stato nacque come Consiglio personale del monarca assoluto. La sola Costituzione che disciplini il Consiglio di Stato è quella del 1799, la Costituzione – chiamiamola così – di Buonaparte Primo Console. Essa, a fianco del Senato, del Tribunato, del Corpo legislativo, e dei consoli poneva il Consiglio di Stato. Vi fu chi vide senz’altro l’enorme pericolo di questa introduzione e lo denunciò; ma naturalmente la volontà preponderante di Bonaparte ne ebbe ragione. Entrato nella Costituzione quasi di straforo il Consiglio di Stato, divenne senz’altro l’organo più importante nella vita dello Stato. Esso continua a vivere anche nella Costituzione di Napoleone non più Primo Console, ma imperatore, e diviene il pilastro della tirannia bonapartista.

E perché soprattutto? Perché al Consiglio di Stato fu affidato uno dei compiti più gelosi e più delicati del meccanismo costituzionale: fu affidato il compito di studiare e formulare le leggi da presentare all’Assemblea legislativa.

Il pericolo contenuto nell’articolo 93 è nel fatto che si è voluto dare una disciplina costituzionale ai due istituti – Consiglio di Stato e Corte dei Conti – portando alla conseguenza che domani, quando una Camera legislativa voglia modificare in questo punto l’ordinamento dello Stato, dovrà necessariamente seguire la speciale procedura richiesta per la modificazione della Costituzione.

Ma oltre questo, altri e più seri pericoli esistono. Non è inopportuno ricordare, a questo proposito, quanto sia forte lo spirito di corpo, del Consiglio di Stato, quello spirito di corpo che il manuale del perfetto caporale dice, sì, essere un sentimento apprezzabile, ma di cui bisogna paventare e temere le esasperazioni.

A tal fine può essere molto utile leggere una pubblicazione fatta proprio a cura del Consiglio di Stato, e che è opera di una Commissione di cui era Presidente l’onorevole Ruini.

Badate, io non avrei paura della cosa, se potessi ipotizzare un Ruini eterno Presidente del Consiglio di Stato. Dell’onorevole Ruini ognuno di noi sa quanto egli sia poco invadente, e non ci sarebbe dunque pericolo. Ma noi dobbiamo pensare anche ai successori di lui.

Bene, nella relazione che questa Commissione ha redatto e con la quale si rivolge appunto ai costituenti perché meditino sull’importanza del Consiglio di Stato, ricordando che il Consiglio di Stato è «organo di consulenza giuridico-amministrativa del Governo e del Parlamento», si afferma che tale consulenza si svolge in una cerchia ristretta, e che è necessario che questa cerchia venga allargata.

Proprio quello che contribuì a creare la enorme potenza del Consiglio di Stato nella Costituzione napoleonica, ossia lo studio e la formazione delle leggi, è ciò che viene chiesto dalla relazione.

Si dice in questa relazione: «i controlli dovrebbero esercitarsi prima della definitiva deliberazione del Consiglio dei Ministri autorizzando la presentazione al Parlamento.

«In realtà su un atto del potere esecutivo, il parere relativo di carattere giuridico-amministrativo da allegarsi obbligatoriamente al disegno potrebbe costituire importante elemento per la discussione e l’esame in seno al Parlamento».

In definitiva si chiede di attribuire al Consiglio di Stato l’importantissimo compito di studiare e di preparare i progetti di legge che il Governo dovrà presentare alla Camera.

Questo non significa altro se non assumere la parte più importante dell’attività legislativa dello Stato.

Ora, quando dovesse essere approvato questo articolo 93, il quale, al Consiglio di Stato, quale organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione, attribuisce rilevanza costituzionale, ci si troverebbe senz’altro di fronte ad un fatto certo, e cioè ad un Consiglio di Stato il quale accamperebbe il suo diritto di esercitare un’azione decisiva nella formazione delle leggi, preparando e formulando i relativi progetti da sottoporre all’esame ed all’approvazione dell’Assemblea.

Ma vi è di più: il Consiglio di Stato afferma anche che: «Un esame sostanziale potrebbe innanzi tutto riguardare la costituzionalità delle norme amministrative».

Ecco come gradualmente, creato il varco, tutto finisce per passare attraverso il Consiglio di Stato. Non basteranno una Camera dei Deputati, un Senato, un’Assemblea nazionale, un Consiglio economico, tutta una varietà di assemblee deliberanti. Il Consiglio di Stato, quale organo di consulenza giuridico-amministrativa, vuole avocare a sé anche la facoltà di esaminare la costituzionalità delle leggi.

È inutile che creiamo una o due Camere, che diamo questa o quest’altra composizione particolare alla seconda Camera. Condensiamo tutto nel Consiglio di Stato e facciamone l’organo accentratore di tutta l’attività politica della Nazione. La democrazia si identifica nel Consiglio di Stato!

E ciò dico senza soffermarmi su quella che è l’esperienza di ognuno di noi che è stato al Governo in questi ultimi tempi. Si dice dagli amatori del bel tempo andato che una volta occorreva riunire le Gazzette Ufficiali di parecchie annate per fare un volume possibile. Invece ora quei buoni, antichi tempi sono passati: vi è un diluvio, una valanga, una tempesta di leggi. Non ho tanta tenerezza per il buon tempo passato. La verità è che allora la vita, nella sua semplicità e linearità, non richiedeva che un numero esiguo di norme legislative.

Ora invece la vita, nella sua complessità e fluidità, determina un mutamento continuo di situazioni e di rapporti per cui non si riesce a contenere tutto questo complesso di attività sociali nello schema fragile di poche disposizioni di legge. Occorre una ricca, abbondante legislazione che si rinnovi non più a distanza di decenni o di anni, ma a distanza di mesi.

È la situazione che sta alla base della legge, che crea la legge e che, modificandosi richiede una legge diversa. Ora, coloro che sono stati Ministri in questo tumultuoso periodo hanno tratto dalla loro pratica ministeriale questa convinzione: che questi istituti, Consiglio di Stato e Corte dei Conti, frequentemente si palesano non più fonti di illuminati consigli ma cause di ostacoli insormontabili, sia per il complicato meccanismo che è loro proprio e che naturalmente porta alla conseguenza di un’azione che si svolge lentamente e faticosamente, sia anche per uno spirito conservatore che di solito li anima e che fa ad essi vedere con diffidenza ogni innovazione legislativa che scava profondamente nella vita della Nazione, pur se essa costituisca la premessa del rinnovamento che tutti quanti diciamo di desiderare. Ora, immettendo nella Costituzione il Consiglio di Stato, si dà ad esso la possibilità di esercitare un’influenza di molto maggior rilevanza nella vita dello Stato.

C’è da pensare con nostalgia financo al Senato di nomina regia. Può apparire senza altro come una istituzione rivoluzionaria. Ma non solo il Consiglio di Stato viene organizzato costituzionalmente, ma anche la Corte dei Conti.

Ho già detto che l’Inghilterra non ha un istituto che sia simile alla nostra Corte dei Conti, in quanto il riscontro contabile-finanziario è considerato una delle prerogative più gelose della Camera bassa. E anche in ciò il progetto contiene una ingiustificata innovazione: marcia a ritroso finanche di fronte allo Statuto albertino, il quale sanciva una superiorità, sul terreno finanziario, della Camera popolare; qui è cancellata, perché, anche di fronte a ciò, le due Camere hanno uguali poteri.

La Corte dei Conti, dicevo, è istituto di riscontro contabile e finanziario. Ma anch’essa tende ad allargare il suo campo d’attività, non senza suscitare contrasti impreveduti.

A proposito di contrasti ho già parlato di quelli facilmente prevedibili tra le due Camere, quando ad esse si conceda parità di poteri. Ed io noto con soddisfazione come ieri l’onorevole Fuschini, conscio di tale pericolo, ha affermato senz’altro la necessità, per la salvezza stessa dello Stato democratico, che la Camera dei Deputati abbia la prevalenza su quella dei Senatori.

Ma altri contrasti si profilano inserendo nella Costituzione il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti. La Corte dei Conti mira anch’essa ad allargare di molto i confini della sua competenza, non vuole arrestarsi al mero riscontro contabile e finanziario, vuole andare oltre; tanto oltre, che in questa relazione del Consiglio di Stato – è quanto mai interessante, invito i colleghi a procurarsela – la Commissione dice: «Pur senza volere ora interferire nella soluzione dei problemi concernenti la Corte dei Conti, sembra potersi riconoscere col generale consenso che quell’alto controllo non debba costituire un duplicato e vada in ogni modo ricondotto alla sua vera natura finanziario-contabile ed a questi limitati fini di merito, di mera osservanza della legge, secondo le stesse possibilità e la competenza dell’organo, reagendo alla ben nota tendenza della Corte stessa ad estendere il proprio compito (questa estensione va ad invadere proprio il campo, cui il Consiglio di Stato tiene gelosamente) al campo a lei estraneo dell’esame del buon uso delle norme di legge, invadendo così addirittura talora l’apprezzamento del merito amministrativo, con effetti sempre rallentatori e raramente correttivi dell’azione dell’Amministrazione dello Stato». Quando si è letto questo periodo, ci si domanda: come mai il Presidente della Commissione, che ha redatto questa relazione, e che è nello stesso tempo il Presidente della Commissione dei Settantacinque, può, nonostante ciò, ritenere giusto ed opportuno inserire nella Costituzione la Corte dei Conti, la quale dimostra di sapere il fatto suo, mettendo in pericolo proprio il campo che il Consiglio di Stato vuole tutto riservato a sé?

E il contrasto sorge fin da ora, quando ancora, cioè, i due istituti non sono dichiarati costituzionali; lasciate che venga approvato l’articolo 93, e vedrete cosa verrà fuori, con un Consiglio di Stato che vuole addirittura essere il domino dell’attività legislativa, con la formulazione e l’esame della costituzionalità delle leggi, e con una Corte dei Conti, la quale, secondo quanto afferma lo stesso Consiglio di Stato, cerca di decampare dai suoi limiti e di andare ben oltre.

Occorre senz’altro affermare che questa norma va esclusa dalla Costituzione. Vedo in questa un pericolo maggiore che in qualche altra norma, magari più sonora e rumorosa. La Costituzione deve essere tale da assicurare alfine al nostro Paese un Governo veramente democratico, che attinga direttamente cioè, e sempre, la sua forza e la sua autorità dalla volontà e dalla sovranità del popolo. Esaminato sotto questo profilo, ritengo che l’articolo 93 costituisca un serio pericolo per lo sviluppo democratico del nostro Paese.

Alcuni di noi pensavano, sì, ad una riforma dei due istituti, ma in senso perfettamente opposto. Pensavano, se mai, a svuotarli di parecchie attribuzioni e facoltà che, in parte per virtù di legge e in parte per virtù di consuetudine, essi son venuti assumendo. Nessuno di noi pensava di dare all’attività di questi istituti una sfera più ampia di attribuzioni, tanto meno di farne istituti costituzionali. E ciò vale anche per il Consiglio di Stato come organo di tutela e di giustizia della Nazione. Ebbene anche limitando l’esame all’aspetto giurisdizionale dell’attività del Consiglio di Stato, in cui molti di noi possono concordare (la giustizia amministrativa affidata al Consiglio di Stato ha oramai una lunga tradizione, che può essere valutata senz’altro favorevolmente), non possiamo tuttavia non considerare come importanti correnti ci siano nel pensiero giuridico moderno che tendono all’unificazione in un solo organo di tutta l’attività giurisdizionale dello Stato. Le varie relazioni presentate dalla Magistratura alla Costituente, sia come ordine sia come associazione, tutte sostengono la necessità di accentrare nell’organo della Magistratura ordinaria tutta l’attività giurisdizionale dello Stato. Tralasciamo di esaminare se è giusto ed opportuno che qualche giudice speciale – presa questa parola nel suo significato tecnico, non nel senso deteriore – sopravviva ancora, data la complessità stessa della vita moderna e la moltiplicazione delle sue attività, a giudicare le quali si richiedono competenze specifiche. Può essere giusto ed opportuno che vi siano giudici speciali; ma d’altro canto non si può contestare, come ho detto, che vi è un’autorevole corrente a favore della unicità dell’organo giurisdizionale. E se domani l’Assemblea legislativa riterrà di aderire a tale corrente giuridica, si troverà di fronte una norma costituzionale da modificare e, quindi, nella necessità di mettere in discussione la Costituzione per inserire in essa norme diverse in quanto suggerite da criteri diversi.

E così è per l’altra attività del Consiglio di Stato, quale organo di consulenza giuridico-amministrativa, anch’esso soggetto alla possibilità di una organizzazione diversa o a quella addirittura della soppressione. Senonché questo è pur l’aspetto meno importante della questione; quello più grave è che noi, inserendo nella Costituzione questi due istituti, creiamo (è bene affermarlo con chiarezza e fermezza) degli ostacoli a che il Paese si rinnovi alfine democraticamente, a che sorga sul serio, sulle rovine del fascismo e della guerra, un’Italia nuova che ubbidisca soltanto ad una sola necessità, ad una sola superiore e sovrana esigenza: che sia rispettata, sempre e dovunque, la volontà del popolo. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Essendo stati illustrati i vari ordini del giorno, ha facoltà di parlare uno dei Relatori, l’onorevole Mortati.

MORTATI, Relatore. Parlo come correlatore della Commissione dei Settantacinque sul titolo dedicato al Parlamento, allo scopo di formulare alcune osservazioni sui rilievi che sono stati mossi qui, in sede di discussione generale, a questa parte del progetto, e per accennare io stesso ad alcune critiche, naturalmente uniformandomi allo spirito del progetto, al quale ho dato la mia opera e la mia approvazione.

Un tema obbligato di esame in questa materia è naturalmente quello del bicameralismo. Io non mi fermerò a riesaminare ancora le ragioni che possono confortare la tesi che sostiene l’esigenza del sistema bicamerale, o a ribattere le obiezioni sollevate. Vorrei semplicemente rilevare alcune impostazioni troppo astratte che sono state formulate qua dentro a sostegno della tesi contraria al bicameralismo. Proprio adesso abbiamo sentito, dall’onorevole Gullo, ripetere ancora una volta la tesi secondo la quale non è possibile pensare ad un regime bicamerale, in quanto la unicità della volontà popolare non tollera che questa si esplichi mediante molteplici modi di manifestazione. Mi pare che non ci possa essere un punto di vista più astratto di questo, che considera un popolo sempre e necessariamente come unità indifferenziata, che contesta sub specie aeternitatis, la possibilità di un bicameralismo, indipendentemente da quelle che possono essere le condizioni dei vari paesi nelle varie epoche storiche. Come tutti sanno, questa è una posizione di pensiero di origine illuministica, che fu assunta dalle Costituzioni rivoluzionarie francesi costruite sulla base di una struttura sociale resa omogenea dall’esclusione dalla vita politica, sotto diverse forme, dell’antica nobiltà e del popolo non fornito di censo. Come pensare di poter dare validità universale ad un’ideologia così strettamente condizionata a particolari condizioni storiche?

Inficiata dalla stessa astrattezza è anche l’eccezione che si vorrebbe porre a questa regola, secondo quanto è stato qui ripetutamente affermato: quella che sarebbe costituita dallo Stato federale. Non c’è nulla di più inesatto di questo. Non è affatto vero che nello Stato federale ci sia un’esigenza istituzionale interna ad esso, che porti ad esigere due forme di rappresentanza popolare, quella dello Stato nel suo complesso e quella dei singoli Stati membri, e ciò perché nello Stato federale, una volta che esso sia formato, l’ultima istanza, il potere supremo, viene ad essere costituito non dai singoli Stati ma da tutto il popolo nella sua unità indifferenziata. Ed è a questo organo costituito dal popolo che si affida la funzione della revisione costituzionale.

Se negli Stati federali, di norma (ma non sempre, perché abbiamo esempi di Stati federali in cui non c’è duplicità di Camere parlamentari, come nella Costituzione tedesca di Weimar, in cui c’è uno Stato federale, o per lo meno largamente decentrato, con decentramento garantito costituzionalmente, e dove tuttavia non esiste una seconda Camera, concorrente alla formazione delle leggi tale non potendosi ritenere il Reichsrat), vi è una duplicità di rappresentanza parlamentare, ciò avviene non per una esigenza intrinseca, essenziale a questa struttura statale, ma per ragioni di opportunità, perché essendovi differenziazioni costituite dai singoli Stati, differenziazioni di interessi, si ritiene opportuno che queste differenziazioni siano riflesse nell’organo supremo dello Stato, nel potere legislativo. Quindi la ragione che giustifica negli Stati federali la doppia Camera è una ragione che va oltre l’ambito di applicazione che riceve dalla Costituzione, cioè che è applicabile al di là di questo ambito, perché l’esigenza che la promuove è più vasta di quella che non sia costituita dai bisogni organizzativi dello Stato federale.

Si è dagli avversari del bicameralismo citato anche l’esempio inglese; si è detto che l’Inghilterra ha in realtà una sola Camera, essendo stata la Camera dei Lords, dopo la riforma del 1911, svuotata dell’antico potere, pari ordinata rispetto ai Comuni. Ma anche questa osservazione pecca di astrattezza, e ciò perché, anzitutto, non tiene conto di quello che, al di là dei poteri giuridici, è il valore morale della Camera dei Lords, trascura cioè la rilevanza politica delle sue deliberazioni; perché inoltre non tiene conto della esistenza di larghe correnti dell’opinione pubblica inglese, le quali agitano il problema della riforma della Camera dei Lords, appunto per aumentarne l’efficienza di fronte all’altra Assemblea, ed in terzo luogo non considera il complesso di fattori di varia natura che in Inghilterra influiscono a temperare l’azione della prima Camera, i suoi eventuali abusi e quindi rendono meno sentita la esigenza di una seconda Camera. Non si pensa che, fra l’altro, in Inghilterra si verifica l’inserzione nello Stato delle forze organizzate del lavoro, le quali non pongono delle istanze sovvertitrici dell’ordine costituito e del metodo democratico, ma trovano la loro espressione ed il mezzo di assunzione di una diretta responsabilità politica nel partito politico che li rappresenta. Informate ad una considerazione anch’essa, secondo me, non strettamente aderente alle esigenze veramente essenziali di una seconda Camera sono altresì alcune delle giustificazioni che si vogliono addurre a sostegno dell’introduzione di tale istituto. Questo può dirsi dell’opinione, che abbiamo inteso affermare anche qui dentro, secondo cui la seconda Camera risponde al bisogno di porre dei freni, dei limiti, di esercitare una azione ritardatrice e di ripensamento dell’azione della prima Camera. Senza dubbio questa azione ritardatrice è importante, ma non può assumersi come l’essenza, la vera ragione d’essere del sistema bicamerale. Infatti questa azione ritardatrice, questo freno, questo ripensamento, questa riflessione si potrebbero ottenere con altri mezzi, e sono state infatti ottenute in certi ordinamenti con altri mezzi, o con la istituzione di certe magistrature speciali, l’eforato, il tribunato, ecc., o ancora mediante l’obbligo fatto alla Camera unica di ritornare sulle sue deliberazioni, imponendo cioè ad essa una duplice deliberazione ad intervallo di tempo. Se si vuole identificare l’esigenza veramente essenziale che giustifichi il costituirsi di un sistema bicamerale bisogna rintracciarla altrove, e precisamente nel bisogno dell’integrazione del suffragio. Bisogna chiedersi in altri termini se, data una determinata struttura sociale, questa struttura sia sufficientemente espressa e rispecchiata nella Camera unica, bisogna porsi il problema del modo di attuare la massima possibile efficienza rappresentativa nel Parlamento, in modo che esso rispecchi fedelmente gli interessi della Nazione in tutta la loro varietà e complessità. Problema fondamentale questo dell’organizzazione della rappresentanza politica, da cui dipendono le sorti della democrazia moderna.

Poiché è dalla dimostrazione della possibilità di collegare lo Stato con la società nel mondo contemporaneo, divenuto così vario, complesso ed eterogeneo, è da questa dimostrazione data sul terreno della realtà, che si potrà smentire la tesi che vede lo Stato di massa organizzabile solo in funzione di un regime totalitario.

Ora, come ricercare se sia raggiunta questa pienezza di efficienza rappresentativa? Non astrattamente, non in base ad idee preconcette, ad apriorismi, ma in base a considerazioni desunte dalla realtà di un singolo paese. Considerazioni che devono, in primo luogo, muovere dall’esame della forma del Governo, dal tipo del regime instaurato, poiché è dalla funzione che il Parlamento deve adempiere nel regime che devono argomentarsi le esigenze della sua organizzazione.

In secondo luogo, questa pienezza di efficienza rappresentativa bisogna desumerla dalla struttura politica e sociale del Paese in un determinato momento storico ed, insieme, dai compiti che si attribuiscono allo Stato.

Ora, per quanto riguarda il primo punto, cioè il tipo di regime, bisogna osservare che esso, da noi, secondo quanto risulta dal progetto in esame, non si conforma al tipo di regime parlamentare puro, ma invece realizza un tipo di regime parlamentare misto, o semidiretto. E ciò per l’esistenza di due istituti: lo scioglimento ed il referendum, i quali si inseriscono nel congegno costituzionale precisamente allo scopo di far sì che il popolo non sia una istanza pura e semplice di preposizione dei titolari della Camera rappresentativa, ma divenga invece un organo di decisione politica, organo di ultima istanza, chiamato a risolvere i conflitti che sorgono fra gli altri organi costituzionali e a dire la sua parola decisiva quando si presentino questioni di vasto rilievo politico.

Quindi, questo tipo di regime, in quanto esige dal popolo pronunce di merito politico, importa, più ancora che altre forme, la ricerca delle strutture migliori per l’organizzazione del corpo elettorale, le forme, cioè, più idonee a riflettere convinzioni e volizioni, a collegarle con interessi stabili e reali, che siano il meno possibile frutto di improvvisazioni o di impulsi irriflessivi e momentanei.

Se si passa poi all’altro criterio orientativo della ricerca delle migliori strutture rappresentative, cioè alla composizione sociale dello Stato ed ai compiti che esso si assume, sono da prendere in considerazione insieme alle condizioni generali proprie di tutti gli Stati moderni, quelle particolari del nostro Paese.

Non mi fermerò qui ad illustrare problemi e situazioni, che sono a tutti noti: mi limiterò a ricordare che gli aspetti speciali del problema organizzativo degli Stati moderni derivano da tre fatti. Anzitutto, dall’allargamento del suffragio, che nel nostro paese ha fatto passare il corpo elettorale da mezzo milione qual era nel 1870 a 25-28 milioni; ciò che dà vita ad una differenza non solo quantitativa, ma qualitativa, perché determina una trasformazione profonda e sostanziale tale da far sorgere problemi assolutamente nuovi di organizzazione.

In secondo luogo, dall’ampliamento dei compiti statali, i quali sono passati dalla pura e semplice conservazione dell’ordine pubblico ad interventi sempre più penetranti nel campo dei rapporti economico-sociali.

Infine, dal fenomeno associazionistico, che ha alimentato la formazione di organismi così potenti da porsi come competitori dello Stato e da metterne in pericolo l’esistenza. Si è parlato a proposito di tale fenomeno di un nuovo feudalesimo, che ha rotto la vecchia unità statale, quale si era formata nel mondo moderno, ed ha fatto venir meno la esclusività e pienezza della sua sovranità.

Ora il problema fondamentale è precisamente di ordinare queste masse ingenti di cittadini, in modo che i loro interventi siano consapevoli; di inserire nello Stato gli organismi sociali senza che perdano la loro libertà e spontaneità di azione; ed infine, di ottenere che gli interventi nel campo economico e sociale da parte dello Stato, sempre più sollecitati dalla pressione di tali masse, siano quanto più possibile aderenti agli interessi generali e sottratti agli influssi egoistici di gruppi limitati.

A questi problemi comuni a tutti gli Stati moderni si aggiungono per l’Italia quelli che sorgono dalla sua struttura geografica ed economica. L’Italia è infatti il Paese forse più differenziato che ci sia in Europa, e ciò per un complesso di ragioni di carattere storico, nonché di condizioni di ordine ambientale ed economico-sociale.

Ora, posti i termini della questione della seconda Camera nel modo che ho fatto, come si deve risolvere il quesito proposto sulla più piena ed integrale forma di rappresentanza politica? Attraverso quali mezzi si ritiene di poter realizzare in effetti tale pienezza di rappresentanza? Basta una sola Camera ad esprimerla? Che una sola Camera non basti si potrebbe desumere anche dal semplice fatto della riforma regionale; riforma che è stata ormai approvata dall’Assemblea e che deve essere presa come base per derivarne tutte quelle ulteriori conseguenze che in essa sono implicite, soprattutto con riferimento all’organizzazione del potere legislativo.

La riforma regionale non sarebbe infatti completa, essa anzi sarebbe, a mio avviso, frustrata nei motivi e negli intendimenti che ne hanno informato l’istituzione, sarebbe deviata dalle finalità politiche che l’hanno promossa, se non trovasse il suo svolgimento e la sua più propria applicazione nell’ordinamento del Parlamento, nel dar vita ad una forma specifica di rappresentanza politica.

Questa esigenza è stata ieri molto perspicuamente affermata dall’onorevole Condorelli ed io credo opportuno ora ribadirla, ponendo in più chiaro rilievo questa necessità di trasportare negli organi costituzionali del potere legislativo un riflesso dell’ordinamento regionale.

È questo, onorevoli colleghi, uno dei punti meno compresi, forse anche da alcuni di coloro che hanno voluto la riforma regionale, ma tuttavia dei più essenziali per la vitalità del sistema posto in essere: ed è per questa ragione che io ritengo opportuno soffermarmici brevemente. Con la creazione delle Regioni non si sono infatti voluti tanto risolvere dei problemi generici di educazione politica o di garanzia delle libertà. Sono questi dei fini importanti indubbiamente, ma non sono, a mio avviso, gli essenziali della riforma regionale.

Con tale riforma si è invece soprattutto inteso di promuovere e sollecitare l’organizzazione dei grandi gruppi di interessi omogenei nel loro interno dal punto di vista territoriale e sociale, e differenziati dagli altri per le diverse condizioni storiche, geografiche, economiche, allo scopo di far pervenire le voci più chiare e genuine di questi interessi all’atto delle deliberazioni di politica generale, sicché tali deliberazioni risultassero il più possibile aderenti alla varietà dei bisogni reali di tutta la società.

E, nel promuovere l’attuazione di tale intento, si è voluto tenere presente soprattutto il Mezzogiorno, la parte d’Italia cioè meno progredita rispetto alle altre, onde sollecitare in essa una più efficiente coscienza politica, ed in tal modo dare ad essa maggior peso nell’attività statale.

Messi in chiaro tali intenti, è facile comprendere come siano state cagione di sorpresa e siano apparse frutto di incomprensione le accuse che alla riforma regionale sono venute da uomini politici del Sud – ricordo, fra le altre, quella mossa dall’onorevole Gullo – secondo cui quella riforma veniva a seppellire le speranze del Mezzogiorno e veniva a negare o a compromettere gli affidamenti di soluzione del problema meridionale.

Deve invece essere riaffermato che chi ha patrocinato la riforma non è mai caduto nell’errore di ritenere che il problema meridionale si dovesse risolvere nell’ambito delle singole Regioni cui viene concessa l’autonomia. Noi sappiamo bene che i problemi meridionali si possono risolvere solo sul piano nazionale, nell’ambito della politica generale dello Stato, in occasione delle decisioni in materia di politica doganale, tributaria, agraria, dei trasporti, degli scambi internazionali, della stessa politica estera.

Ma, appunto per questo, noi pensiamo che sia necessario conferire alle Regioni più arretrate la possibilità di raggiungere, attraverso l’organizzazione regionale, una coscienza più piena dei loro problemi, dei loro bisogni unitariamente intesi, per poterli rappresentare al centro con quella maggior forza che viene dalla loro visione integrale e dalla loro organizzazione.

Donde l’esigenza di dare alle Regioni una voce specifica nel Parlamento, di fare cioè delle Regioni non già delle pure e semplici circoscrizioni elettorali, bensì un centro unitario di interessi organizzati da far valere unitariamente ed in modo istituzionale. Donde ancora quelle altre particolarità organizzative che appaiono nel progetto che, anche dalle finalità che si sono chiarite, possono lasciare perplessi. Così si dica della correzione all’equivalenza dei suffragi, che si è voluta realizzare attraverso l’attribuzione di un numero fisso di senatori per ogni Regione, all’infuori della loro consistenza demografica, correzione che dai suoi proponenti è stata pensata appunto in funzione del potenziamento politico del Mezzogiorno meno esteso e meno popoloso del Nord. Sicché, se è apparso spiegabile l’intervento di alcuni comunisti contro il Senato regionale, è stato invece ragione di sorpresa vedere un autonomista e un meridionalista come l’onorevole Lussu muovere in breccia contro di esso, negando così questa prima ed essenziale funzione che un Senato regionale può esercitare in Italia, per conseguire una maggiore perequazione di trattamento, ed una più rapida valorizzazione politica del Sud.

Le osservazioni fatte in principio a proposito dell’organizzazione dello Stato federale confermano quanto adesso ho detto per le Regioni, essendovi piena analogia fra i due casi; essendo cioè, pur nella differenza dei due tipi di ordinamento, comune l’esigenza ad una specifica rappresentanza degli interessi differenziati, cui si conferisce un proprio rilievo costituzionale. Ma ora è da chiedersi: potrebbe attuarsi efficacemente tale collegamento organico fra Regioni e Stato se le Regioni intervenissero negli organi centrali come entità indifferenziate? L’esigenza che si è prospettata non sarebbe che assai imperfettamente soddisfatta se la rappresentanza regionale non riflettesse l’effettivo aspetto economico-sociale delle singole Regioni, le articolazioni e nervature di ognuna di esse, se non ne riflettesse la fisionomia specifica.

Posto il caposaldo del Senato regionale, sono dati anche certi elementi più specifici per la soluzione del problema della sua composizione e della sua differenziazione dalla prima Camera. Il punto di vista assunto consente di mostrare la incongruità delle proposte che sono state fatte per attuare questa differenziazione. Tale incongruità si palesa chiaramente per quanto riguarda il collegio uninominale, che viene raccogliendo suffragi anche da parte di alcuni settori di questa Camera, da cui non si sarebbero sospettate iniziative di questo genere. Il collegio uninominale, dal punto di vista territoriale, è troppo ristretto per poter fornire la base per una rappresentanza di interessi locali; evidentemente esso non potrebbe portare al Parlamento che voci di interessi troppo ristretti per assumere rilevanza politica. D’altra parte, le speranze riposte da alcuni nel ritorno al collegio uninominale sembrano anacronistiche, perché le benemerenze attribuite ad esso sono da limitare al funzionamento passato, mentre si deve tenere conto della enorme trasformazione che sì è venuta verificando nella organizzazione della vita politica, e che farebbe funzionare il sistema uninominale in un modo completamente diverso da quello esperimentato nel secolo scorso, o ai primi di questo.

Non mi pare neanche che sia il caso di ricorrere al collegio uninominale allo scopo di attuare una maggiore e migliore selezione di uomini. Anzitutto, non è vero – e lo ha osservato qui l’altro giorno anche l’onorevole Sforza – che si debba addebitare al rigetto del suffragio uninominale la decadenza qualitativa nella composizione del Parlamento. Se questa decadenza c’è stata – e dovrebbe essere discusso se è vero – sarebbe da accertare se non sia da addebitare invece ad altri fattori. L’onorevole Sforza esattamente ricordava l’effetto negativo che sulla selezione di uomini rappresentativi ha esercitato la guerra. Le guerre moderne attuano una selezione a rovescio, differentemente da quanto avveniva per le guerre passate, in cui gli eserciti venivano reclutati soprattutto su base professionale, quando non c’era l’obbligo di tutti i cittadini alla prestazione del servizio militare. Mutata questa situazione, ripeto, le guerre sono venute a dare luogo ad una selezione a rovescio; e quindi anche nel campo delle capacità politiche vi è stata una riduzione di elementi utilizzabili.

D’altra parte è assurdo pensare che le scelte dei candidati fatte dai partiti nelle elezioni a scrutinio di lista non siano dirette da intenti selettivi. Evidentemente, è interesse dei partiti, specialmente dei grandi partiti, che non sono formazioni sottoposte a fluttuazioni e a vita contingente, ma hanno vita duratura, di scegliere gli uomini migliori.

Ma, a prescindere da ciò, ed in ogni caso, il collegio uninominale, come ho detto, non soddisferebbe a quella esigenza, della quale ho parlato come necessaria per la composizione della seconda Camera, che è l’integrazione del suffragio attraverso l’acquisizione e la rappresentanza di tutti quegli interessi particolari che valgano a riprodurre negli organi legislativi la fisionomia, il volto delle varie parti di questa nostra Nazione, così varia e così composita.

E allora quale altro criterio si potrebbe far valere per realizzare una tale rappresentanza? Bisogna trovare questo criterio, non solo, ma iscriverlo nella Costituzione.

Da questo punto di vista si può affermare l’esistenza di una lacuna nell’articolo 55 del progetto, che non differenzia abbastanza le due Camere. Questa esigenza di differenziazione è necessaria in un sistema bicamerale, perché ha carattere costituzionale la posizione di quei principî che, appunto perché valgono a determinare la diversa fisonomia delle due Camere, costituiscono la ragion d’essere del bicameralismo ed assicurano la funzionalità del regime in un senso anziché in un altro.

Quindi, il fatto che la Costituzione non demarchi questa distinzione, costituisce una lacuna alla quale bisogna ovviare introducendo almeno il principio fondamentale di organizzazione della seconda Camera.

Quale deve essere questo criterio per corrispondere alle esigenze di cui ho parlato?

È dalla constatazione dalla impossibilità di trovare un’altra soluzione che soddisfi ad esse che è nata la proposta, presentata dai democristiani, di fare del Senato regionale una rappresentanza di interessi professionali. Proposta di fronte alla quale altri partiti si sono irrigiditi in pregiudiziali, in fini, di non ricevere, senza mai compiere alcun tentativo di collaborazione per il superamento delle difficoltà che il sistema proposto presenta, e che sono anche gravi, ma che non rappresentano un ostacolo insormontabile.

Le obiezioni che si sono a questo proposito fatte non sono serie e sono state confutate da altri. Il discorso pronunciato ieri dall’onorevole Piccioni ha dato una dimostrazione abbastanza esauriente della loro infondatezza.

Così, il dire che i partiti esauriscono tutta la funzione rappresentativa è una affermazione che, almeno in Italia, in questo momento storico, deve ritenersi infondata. E noi, uomini di partito, dobbiamo avere il coraggio di affermare che questo non è vero e non corrisponde alla coscienza diffusa nel Paese. I partiti riflettono in Italia lo stato di scarsa educazione politica del nostro popolo, mancano di salde tradizioni di attaccamento agli ideali di libertà, raccolgono un’infima minoranza della popolazione, mentre la gran massa è estranea ad essi e non vive la loro vita. Donde deriva fra l’altro la tendenza dei partiti al dogmatismo ed alle generalizzazioni, che può fare intendere falsamente e togliere loro di rispecchiare i bisogni reali del Paese. I partiti, inoltre, non riescono ancora ad esprimere una aristocrazia di valori tecnici e politici capaci di far fronte ai compiti sempre difficili e specializzati dello Stato.

Del resto, questi riconoscimenti, queste constatazioni coraggiose ma doverose della realtà denunciata, non mancano, ed anche da parte non sospetta. Ricordo per esempio una lettera aperta che è stata diffusa qualche mese fa a firma dell’onorevole Riccardo Lombardi, con la quale si incitava la Confederazione generale del lavoro ad assumere la direzione della politica del nostro Paese. In ciò era chiara anzitutto l’ammissione della insufficienza dei partiti ai compiti che dovrebbero essere i loro specifici; e dall’altro lato, la constatazione del distacco fra la posizione di fatto e quella di diritto rivestita dall’organismo a cui si riferiva l’onorevole Lombardi.

Si è obiettato ancora (e ce n’è traccia nell’ordine del giorno dell’onorevole Giolitti), che la forma di rappresentanza professionale sarebbe conservatrice e reazionaria.

Ma anche questa è una affermazione troppo astratta e perciò infondata se presa in questa sua genericità. Che storicamente questa forma di rappresentanza sia stata fatta valere con intenti reazionari è una constatazione fondamentalmente esatta. Si possono ricordare, fra i tanti esempi che si potrebbero addurre, i tentativi fatti da Bismarck nell’intento precisamente di attuare una monarchia costituzionale sulla base di una rappresentanza di ceti, un tentativo che effettivamente corrispondeva ad intenti reazionari o conservatori. E, oltre che nella prassi politica, tale orientamento è palese anche nella maggior parte delle fonti dottrinali in materia.

Ora, nessuno di noi pensa (e credo che ripugni a tutti attribuirci intenzioni di questo genere) di voler creare una rappresentanza politica professionale con scopi reazionari. Nessuno di noi vuole fare della seconda Camera qualcosa di simile al cavallo attaccato in senso opposto alla direzione del carro, secondo l’immagine di Franklin. Se si volesse tradurre il nostro pensiero con una analoga raffigurazione si dovrebbe pensare alle due Camere come a due cavalli attaccati nello stesso verso, forniti di capacità e di attitudini diverse, l’uno più adatto alla corsa, l’altro più idoneo alle salite scoscese, e quindi ad un insieme di attitudini complementari capaci di dare al carro dello Stato un ritmo regolare ed ordinato.

Oggi, nel mondo contemporaneo, nello spirito della nostra Costituzione che è diretta a dar vita ad una Repubblica fondata sul lavoro, nessuno potrebbe seriamente pensare di far concorrere forze che non si basino su questo fattore e che non mirino a potenziare il lavoro nelle sue varie forme, nessuno penserebbe a dare a tale rappresentanza una origine non elettiva da parte di tutti gli appartenenti alle varie attività produttive. E per quanto riguarda l’obiezione rivolta a questa forma di rappresentanza secondo cui essa, contenendo necessariamente un elemento di deviazione del suffragio universale, darebbe luogo ad una istituzione non democratica, si può rispondere che secondo il criterio da noi assunto, il peso da attribuire ai vari gruppi rappresentati dovrebbe corrispondere alla efficienza numerica degli appartenenti ad essi, con quelle eventuali deviazioni, che potranno farsi nei singoli casi, secondo quanto è espresso nell’ordine del giorno Piccioni. Questa eventuale, e in ogni caso tenue rettifica, fatta in considerazione del lavoro qualificato, non è arbitraria, come si dice, ma risponde alla convinzione della coscienza collettiva contemporanea che attribuisce una presunzione di maggiore capacità a forme di attività che implicano una maggiore preparazione e alle quali è connesso un maggior grado di responsabilità. In ogni modo, è da osservare che questa valutazione, questa attribuzione di un peso specifico alle varie categorie, dovrebbe essere compiuta dalle forze politiche dominanti, che la dovranno determinare attraverso intese fra di loro, onde adeguarla nel modo più esatto alla realtà sociale. Naturalmente non è da pensare che riforme di questo genere possano realizzarsi e trovare il loro assetto soddisfacente tutto ad un tratto; ciò dovrà avvenire per tentativi, attraverso una serie di successive approssimazioni. Bisogna però mettersi decisamente per la via tracciata e così solo si potrà raggiungere la massima possibile perfezione.

Si può accennare infine all’ultima obiezione che si suole addurre e che è stata addotta anche ieri dall’onorevole Giolitti: quella della insuscettibilità di queste organizzazione di categoria ad assurgere alla visione di interessi generali, essendo per loro natura legati ad una visione parziale e limitata dei problemi politici, e quindi incapaci ad assurgere alla considerazione di interessi sintetici, riassuntivi, quali quelli che devono offrire il contenuto alle deliberazioni del Parlamento. Ma contro questa affermazione è anzitutto da allegare quanto risulta dalla esperienza concreta, che mostra come queste forze agiscano di fatto nel campo politico. Non si tratterebbe perciò di trasformare la situazione esistente, ma se mai semplicemente di regolare questa situazione, di far sì che l’influenza politica, esercitata da queste forze in via di fatto, sia giuridicamente regolamentata, ed esse assumano la responsabilità dei loro interventi nel campo politico.

Esaminando poi la questione da un punto di vista più ampio, è da rilevare tutta la inesattezza della tesi che pensa ad escludere carattere politico all’azione di gruppi sociali rivolta alla tutela di interessi economici, poiché invece non esiste questione economica, anche la più modesta, che non incida sulla politica. È necessario che le forze sociali, i gruppi professionali che invocano certe provvidenze, certe forme di tutela, certi interventi dello Stato, siano messi in condizioni di valutare le ripercussioni politiche di queste loro richieste e di considerarle nel complesso degli interessi collettivi. D’altra parte, l’interesse generale di cui i partiti si dicono portatori non è qualche cosa di bello e fatto, non sorge in virtù del potere carismatico di alcuni capi ma dal confluire, dal dibattersi, dall’urtarsi di interessi contrastanti. Ed è ben noto che anche in partiti (come quello socialista) che presumono di rappresentare e tutelare l’insieme degli interessi di certe collettività, si determinano prevalenze di alcuni di questi a danno di altri, meno efficienti dal punto di vista della loro capacità a farsi valere. Si rende perciò necessario dare a tutti i gruppi sociali la possibilità di assumere consapevolezza dei loro bisogni e educarli a farli valere sul piano politico. La sintesi che ne risulterà sarà più piena e più aderente alla realtà sociale.

Bisogna altresì ricordare che ad influire sulle categorie economiche, nel senso di indurle a trascendere la visione troppo gretta o egoistica dei loro interessi particolari, valgono in primo luogo l’organizzazione stessa del suffragio professionale che deve tendere decisamente ad operare delle sintesi progressive, in modo da elevare, attraverso passaggi successivi, dalla base più vasta, a rappresentanze più ristrette, a vere aristocrazie che valgano a depurare questi interessi dagli aspetti troppo particolaristici che rivestono alla loro origine. In secondo luogo si deve pensare che nella formazione di un Senato di categoria dovrebbero intervenire non solo elementi di derivazione dai gruppi economici, ma anche categorie professionali non economiche, che potranno meglio valutare gli interessi della generalità, gli interessi dei consumatori, e quindi agire come elemento equilibratore. Bisogna altresì tener presente che la rappresentanza professionale non è destinata a soppiantare quella dei partiti, ma ad integrarla; e da essa dovranno derivare utili scambi ed influenze, che varranno a dare ai partiti il senso della concretezza ed ai rappresentanti delle categorie il senso della politicità.

Quindi, a me pare che approvare l’ordine del giorno Piccioni, che contiene dei lineamenti così rassicuranti circa le intenzioni della Democrazia cristiana in ordine a questa riforma che afferma, delle direttive le quali potranno svolgersi in progresso di tempo con piena aderenza alla realtà sociale italiana, significa incamminarsi verso la sola via che potrà dare alla rappresentanza politica la sua piena espressione, e costituire la giustificazione più esatta e più integrale dell’istituzione della seconda Camera, dando alla nostra Costituzione un’impronta di modernità, ed avviando lo Stato al migliore adempimento dei suoi nuovi compiti ed all’attuazione di una vera democrazia. Mostrarsi contrari, potrebbe interpretarsi come voler mantenere la massa elettorale allo stato amorfo e indifferenziato, onde poterla usare quale strumento docile di azione politica, eliminando la valorizzazione nel campo politico degli enti, che sono la grande realtà contemporanea, e nei quali l’uomo riesce ad acquistare il senso dell’individualità, nei vari aspetti che la compongono, e ad affermare l’esperienza della solidarietà con gli uomini legati a lui dalla stessa sorte.

Quanto si è detto sulla struttura da dare all’ordinamento bicamerale e circa i fini integrativi della rappresentanza da assegnare alla seconda Camera vale a giustificare il perché di certe affermazioni che si leggono nella Costituzione; e anzitutto vale a giustificare il perché della parità delle due Camere. La parità è suggerita, e vorrei dire, imposta, dalle esigenze che si sono dette. Una Camera regionale, che deve riflettere gli interessi regionali nella varietà dei loro aspetti, non potrebbe realizzare i compiti che sono ad essa assegnati se non fosse posta in condizioni di parità rispetto all’altra. Parità imposta dall’uguale efficacia rappresentativa, che deriva alle due Camere dalla uguale origine popolare, dal carattere di reciproca integrazione che esse vengono a rivestire. Non sarebbe possibile predeterminare a priori un loro diverso peso politico. Questa diversità potrà affermarsi attraverso la prassi avvenire, che potrà precisamente determinare in modo stabile, o di volta in volta, una maggiore influenza dell’una rispetto all’altra e quindi corrispondentemente una maggiore remissività dell’una all’altra. Ma pregiudicare la questione, cioè volere a priori imporre un peso diverso, significa precludere possibilità di svolgimento utili, derivabili da questa posizione di originaria parità giuridica delle due Camere.

Si potrebbe anche aggiungere che questa posizione di parità può essere utilmente impiegata allo scopo di contribuire a determinare una maggiore stabilità del Governo. Ma questo è tema che non tratterò, perché lo svolgerà il collega onorevole Tosato.

Dovrò fare ora un breve cenno alla questione delle categorie degli eleggibili,contro cui sono state rivolte critiche varie.

Anzitutto si può osservare che la determinazione di categorie di eleggibili ha la sua ragion d’essere, indipendentemente dalla forma di rappresentanza che si presceglie. Quindi, anche se non si dovesse accettare la proposta, da noi formulata, della rappresentanza di interessi (per cui evidentemente le categorie di eleggibili verrebbero ad acquistare una significazione particolare, e che implicherebbe una predeterminazione della proporzione numerica degli eleggibili nelle varie categorie), rimarrebbe sempre utile la predeterminazione di categorie, intesa come vincolo posto agli elettori nella scelta dei loro rappresentanti al Senato. Essa ha una sua ovvia ragion di essere, in quanto attraverso essa si vuole attuare una selezione dei rappresentanti capace di dare alla seconda Camera un maggiore tecnicismo, garantendo una maggiore preparazione dei suoi componenti.

Si possono fare delle critiche al modo concreto con cui queste categorie sono state formulate. Non mi fermerò analiticamente su di esse. Osservo che alcune sono troppo estese. Si può convenire facilmente in questa affermazione, quando si pensi ai consiglieri comunali, pei quali si è disposto che basta la permanenza nella carica per quattro anni, cioè per la durata di una sola elezione, ed anche in piccolissimi comuni, per acquistare titolo a senatore. L’esperienza acquisita con la copertura di questo ufficio è insufficiente a documentare una specifica attitudine al compito che si viene ad assumere con la elezione a senatore. Così viceversa ci sono delle restrizioni, che potrebbero eliminarsi.

Si potrebbe, per esempio, pensare ad aggiungere una categoria di cittadini, forniti di meriti eccezionali, di benemerenze particolari, che naturalmente dovrebbero essere poi oggetto di esame da parte del Senato stesso in sede di verifica dei poteri, onde valutare, nel caso concreto, l’esistenza delle benemerenze stesse, nel grado richiesto, come avveniva per analoga categoria nel vecchio Senato, secondo la prassi instauratasi.

Un’osservazione vorrei fare per quanto riguarda la proposta formulata in alcuni emendamenti di affidare al Capo dello Stato la nomina di alcuni dei componenti del Senato, secondo una percentuale più o meno piccola.

Non penso che sia opportuno mettersi per questa via. Se si affida al Capo dello Stato la nomina di uomini di capacità eccezionali, di straordinarie benemerenze, evidentemente a questa nomina non si potrebbe dare il carattere dì nomina temporanea, ma di nomina a vita.

In questo modo si verrebbe ad alterare più o meno sensibilmente la fisionomia politica della Camera, quale esce dalla elezione.

Se invece la nomina in parola avvenisse in via temporanea, essa, dovendo avvenire col concorso del Governo in carica, si risolverebbe in un premio ad uno dei gruppi di cui fosse espressione il Governo stesso, con il risultato di alterare la fisionomia e la proporzione delle forze politiche, quali sono espresse dal voto.

Quindi, anche per questo riguardo, penso che sia opportuno conservare la struttura del progetto, sia dal punto di vista del mantenimento delle categorie, se pure opportunamente rivedute, sia dal punto di vista nella esclusione di ogni intervento del Capo dello Stato nella nomina (pochi o molti essi siano) dei membri del Senato stesso. Questi cenni riassuntivi mi pare possano essere sufficienti per quanto riguarda la parte organizzativa del Senato.

Vorrei fare ora alcune osservazioni riferentisi al Parlamento considerato nella sua funzionalità. È stato osservato da parte comunista che il procedimento relativo al funzionamento legislativo è troppo lento e tale da impedire e pregiudicare quella rapidità e quella snellezza di azione legislativa, che sembra ed è effettivamente, senza dubbio, necessaria per corrispondere alle esigenze di uno Stato moderno. L’onorevole Corbi ieri ci ha fatto addirittura una descrizione apocalittica di quanto potrebbe avvenire in base alle disposizioni contenute nel progetto. Potrebbe darsi il caso – egli ha detto – che per una intera legislatura non si fosse in condizione di legiferare. L’onorevole Corbi è caduto in qualche distrazione ed ha dimenticato alcune disposizioni del progetto. Ma prima di rilevare queste omissioni, che inficiano l’esattezza delle sue previsioni, vorrei mettere in evidenza la forma mentale che sembra presiedere a queste critiche. È una forma mentis che rispecchia e riproduce una impostazione analoga a quella data alla critica fatta al bicameralismo ed alla concezione di una seconda Camera che non attingesse direttamente dal popolo indifferenziato la sua origine. Si dice anche che qualsiasi complicazione di procedura nella formazione delle leggi proposte dalla maggioranza numerica espressa in un certo momento dalla volontà popolare costituisce una remora dannosa. Ora, il punto di vista da cui queste osservazioni partono può essere pericoloso, perché quando si comincia a vedere in ogni elaborazione accurata della legge un danno, e a considerare tale ogni forma di ripensamento, di accertamento della effettiva rispondenza della legge proposta ai bisogni reali, si corre il rischio di finire con il considerare una remora la stessa esistenza della legge: cioè si trova che è una remora il fatto di un atto di predeterminazione generale e astratta posta all’attività concreta, degli organi dello Stato. Si corre cioè il rischio di invocare ad un certo momento il fine politico di un dato regime come l’elemento capace di arrestare in pratica il funzionamento della legge, autorizzandosi l’interprete a non osservare la legge, in quanto ritenga nei singoli casi che essa contraddica al fine politico da cui lo Stato è mosso. È un’esperienza che tutti ricordiamo. Sappiamo in quali Stati si è realizzato questo processo, che ha portato dalla semplificazione del processo legislativo fino alla negazione del valore della predeterminazione generale ed astratta, che noi invece consideriamo come necessaria garanzia della libertà dei cittadini e procedimento essenziale per dare all’azione dello Stato carattere di legalità. Nessuna meraviglia per tali posizioni mentali. Sappiamo che in certe epoche storiche il processo di trasformazione è così violento da non tollerare l’ostacolo che può essere costituito dalla legge. Ma bisogna intendersi: se riteniamo di essere effettivamente in una di tali epoche dobbiamo rinunciare a fare una Costituzione o dobbiamo per lo meno rinunciare a farla nel senso verso il quale ci siamo finora messi. Se invece si ritiene che siamo in una situazione storica in cui è possibile un ordinamento democratico, allora è necessario predisporre un procedimento legislativo in cui intervengano tutte le forze, i congegni e gli organi che appaiono opportuni per dare all’attività legislativa, alle riforme che attraverso essa sono realizzabili, la garanzia della necessaria ponderazione e per assicurare loro il concorso di tutte le forze democratiche, ed, in ultima istanza, del popolo nella sua unità.

Queste considerazioni di carattere generale non vogliono significare oblio delle esigenze caratteristiche dolio Stato moderno, esigenze che derivano dalle due circostanze, che ho ricordato, cioè dall’ampliarsi dell’intervento statale, estendentesi ad attività prima precluse allo Stato, e dal tecnicizzarsi progressivo della legislazione.

Ora a queste esigenze il progetto ha tentato di provvedere con l’attuazione di varie forme di decentramento legislativo: decentramento regionale, decentramento affidato alle Commissioni legislative, decentramento affidato al Governo. Trascuro per il momento il decentramento relativo alla Regione e mi fermo sugli altri due.

Il decentramento alle Commissioni, che è stato oggetto di particolare esame da parte degli oratori che sono intervenuti nella discussione, è previsto nell’articolo 69. Questo articolo considera in realtà due ipotesi diverse e presenta una procedura che potrebbe chiamarsi abbreviata ed un’altra che invece ha propriamente carattere decentrato.

Vi è stata una proposta dell’onorevole Rubilli di sopprimere l’articolo 69, nella considerazione che esso contiene una materia propria del Regolamento. Ora, a me non pare esatta questa critica dell’onorevole Rubilli. Innanzi tutto, per quanto riguarda la procedura che ho chiamato abbreviata, cioè la procedura di urgenza, la sua inserzione nella Costituzione ha questo scopo: di imporre al futuro Parlamento l’adozione di un procedimento del genere, cioè escludere che si possa lasciare all’arbitrio del Parlamento di adottarlo o non. Nell’attuale nostro Regolamento è prevista, sia pure in forma incompleta, questa procedura abbreviata. Ma il futuro Regolamento della Camera potrebbe anche non adottarla; quindi l’inserzione nella Costituzione della disposizione criticata vuole renderla obbligatoria, e come tale non può ritenersi superflua.

Per quanto poi riguarda la procedura decentrata, cioè la possibilità di deferire alle Commissioni non il semplice esame preliminare del progetto, ma un più ampio intervento in esso, la sua previsione nella Costituzione è necessaria perché evidentemente non si potrebbe modificare il procedimento normale, prescritto dal primo comma dell’articolo 69, se non si stabilisse, nella Costituzione stessa, l’autorizzazione a derogare ad esso.

Quindi, la proposta dell’onorevole Rubilli non è accettabile, dato l’evidente rilievo costituzionale sia dell’una che dell’altra disposizione.

Vi sono state altre critiche all’articolo 69, nel senso di ritenere insufficienti le disposizioni adottate, e di patrocinare l’ampliamento dei poteri delle Commissioni. Ieri questa tesi è stata con molto acume affermata dall’onorevole Condorelli, e prima un accenno lo aveva fatto l’onorevole Preti. Mi pare che l’onorevole Condorelli abbia affermata la opportunità di ritornare al sistema che era stato adottato nella legge del 1938, cioè fare una ripartizione di competenza fra Commissioni e plenum attribuendo alle une e all’altro una competenza distinta secondo la materia.

Io non credo che questa proposta sia da adottare; non lo credo perché vi sono riforme, vi sono progetti di legge che sotto l’apparenza di una modesta importanza, possono in particolari momenti assumere un valore, una qualificazione politica rilevante, sicché il sottrarli alla conoscenza dell’Assemblea potrebbe riuscire poco utile.

Invece, il sistema adottato dalla Commissione mi pare che sia il più pregevole ed il più raccomandabile. È un sistema che lascia alla discrezionalità delle Camere di accertare, di volta in volta, l’opportunità. di ricorrere a questo procedimento decentrato. Quindi, deve precedere una delibazione da parte della Camera, del contenuto del progetto in relazione al momento politico, all’importanza che esso assume in una determinata situazione. Potrebbe essere oggetto del futuro Regolamento delle Camere che questa attività delibativa delle Camere, per giudicare dell’opportunità del rinvio alle Commissioni, sia resa più facile attraverso la costituzione di un organo che abbia il compito di riferire intorno ad essa. Secondo il progetto, è il Governo, oppure il singolo proponente, in caso di iniziativa parlamentare, che richiede il deferimento alle Commissioni. Ci si può chiedere: chi riferisce su questo punto? Per semplificare la procedura e per evitare che si vada alle Commissioni, che dovrebbero riferire circa l’opportunità del deferimento, mi pare che sarebbe opportuno ricorrere ad un organo speciale. Io penserei ad un organo, che comincia a funzionare di fatto anche da noi, e che dovrebbe trovare una menzione espressa nel futuro Regolamento della Camera: il Consiglio dei Presidenti, istituto che c’è in altri regolamenti parlamentari, e che è formato non solo dall’Ufficio di presidenza della Camera, ma dai Presidenti dei vari gruppi parlamentari. Esso potrebbe essere bene qualificato, in quanto rappresentativo di tutti i partiti presenti alla Camera, ad esercitare il compito di riferire alla Camera circa l’opportunità del deferimento alle Commissioni delle leggi che non presentino una importanza tale da richiedere la discussione e l’approvazione da parte della Camera in seduta plenaria.

Si potrebbero fare delle critiche al modo come è congegnato l’articolo 69. Si potrebbe osservare questo: che le Camere per l’articolo 69 vengono ad assumere la responsabilità dell’approvazione, senza però che essa sorga sulla base di una discussione; cioè esse dovrebbero approvare delle leggi che non hanno discusso e su riferimento alla semplice relazione da parte delle Commissioni che le hanno esaminate e discusse. Questo inconveniente è in primo luogo temperato dal fatto che l’articolo 69 consente delle dichiarazioni di voto. Intorno a queste dichiarazioni di voto c’è da fare un rilievo formale, per il fatto che la legge, secondo lo stesso articolo 69, deve essere votata a scrutinio segreto cioè con un procedimento di votazione, che non può consentire dichiarazioni atte a scoprire l’orientamento dei singoli votanti. Vi sarebbe perciò una deroga al principio della incompatibilità fra lo scrutinio segreto e la dichiarazione di voto. È una osservazione formale di scarsa importanza, ma che meritava di essere rilevata, perché non apparisse come una involontaria disarmonia dell’articolo stesso.

Ma c’è l’osservazione sostanziale formulata: che la Camera verrebbe ad assumere la responsabilità di un progetto che essa non ha esaminato. L’obiezione può essere, se non vinta, per lo meno attenuata dalla considerazione che nelle Commissioni sono rappresentati proporzionalmente i vari gruppi della Camera, e c’è quindi un riflesso perfetto della composizione politica di questa. Penso che non si possa andare oltre, e perciò non si possa aderire alle proposte degli onorevoli Preti e Condorelli, perché le Commissioni hanno due difetti: anzitutto che sono corpi per loro natura specializzati e quindi risentono del difetto della eccessiva specializzazione; in secondo luogo sono corpi che agiscono in segreto, e quindi senza la garanzia e il vantaggio della pubblicità. A questo secondo inconveniente si potrebbe però ovviare attraverso l’obbligo della pubblicazione dei verbali delle Commissioni non solo da comunicare ai membri della Camera che devono approvarne le deliberazioni, ma da rendere di pubblica ragione con la loro inserzione negli atti parlamentari, in modo che tutti ne possano prendere visione.

Se nei limiti già visti il decentramento alle Commissioni può rendere utili servizi e può facilitare il compimento dei lavori legislativi, non si deve dimenticare che spetta alla Camera, nella sua pienezza, la responsabilità dell’assunzione in proprio della parte più rilevante del lavoro legislativo. Se è vero che l’attività legislativa del plenum, come ci mostra anche l’esperienza di questa nostra Assemblea, incontra ostacoli è da prevedere e da sperare che tali ostacoli siano superati dalla disciplina dei partiti, disciplina che è ancora insufficiente, ma che si può perfezionare, e che deve condurre ad ottenere che alle sedute intervengano i membri più competenti nelle singole materie in discussione e intervengano con quella disciplina, assiduità e temperanza che precisamente sono imposte dalla gravità del compito affidato.

Un altro punto al quale devo fare accenno brevemente, ma che è di notevole importanza, e che potrebbe trovare qualche menzione nella Costituzione, è quello relativo al problema del coordinamento finale delle leggi approvate alle Camere.

Sarebbe opportuno che questo problema fosse affrontato, perché dalla natura stessa delle Assemblee, specie se molto numerose, possono derivare, nella votazione dei singoli articoli, delle disarmonie capaci di compromettere l’unità sistematica della legge, e rendere difficile ed incerta l’interpretazione. Sarebbe quindi opportuno prevedere e trovare il congegno adatto per evitarle. È un’esigenza di certezza del diritto, di cui non possiamo disinteressarci.

Quanto al decentramento legislativo attuato con delegazione del potere legiferante in senso formale al Governo, di cui si occupa l’articolo 74, non sono state sollevate critiche. Mi pare che esso possa soddisfare, soprattutto per l’inserzione che è stata fatta della predeterminazione dei criteri direttivi da parte della Camera, diretta a temperare l’arbitrio del Governo nello svolgimento della attività delegata.

C’è stata una proposta dell’onorevole Crispo di sopprimere l’ultimo comma dell’articolo 74, relativo all’estensione a questi decreti legislativi delle norme riguardanti il referendum, ed il controllo di costituzionalità delle leggi. Ma mi pare che le considerazioni poste a sostegno della proposta non siano soddisfacenti, né persuasive.

Per quanto riguarda il referendum, mi pare che non vi sia ragione di impedire quegli interventi popolari stabiliti per le leggi formali; non mi pare che l’intervento del popolo debba essere precluso per il fatto che non vi sia stata richiesta del medesimo sulla legge di delegazione, in quanto può darsi benissimo che la legge di delegazione non incontri ostacolo da parte del popolo, o dei gruppi che potrebbero promuovere la richiesta del referendum, e che invece il suo svolgimento dia luogo ad una richiesta del genere.

In ogni caso, rimarrebbe sempre in piedi l’ipotesi del referendum abrogativo, e non si capisce perché si possa chiedere l’abrogazione dì una legge e non invece quella di un decreto legislativo emesso dal Governo.

Anche per quanto riguarda il controllo di costituzionalità, non si vede perché si dovrebbe sottrarre il decreto legislativo a questo sindacato: se mai, vi sarebbero ragioni di più per richiederlo. L’onorevole Crispo ha osservato che non spetta alla Corte costituzionale di valutare la corrispondenza tra le direttive poste dal Parlamento nella legge di delegazione e l’attuazione che di queste direttive il Governo abbia fatto.

Anzitutto, si può osservare che, anche ammesso che non spetti alla Corte costituzionale un tale sindacato, non viene meno l’esigenza di questo, potendo esso adempiere ad un’altra funzione: quella del controllo della costituzionalità, sia formale che sostanziale, delle disposizioni del decreto stesso. Rimane quindi dimostrata la necessità, e non solo l’opportunità, di mantenere in piedi queste disposizioni proposte dalla Commissione.

Dovrei ora fermarmi brevemente sui decreti-legge. Per i decreti-legge, com’è noto, il progetto di Costituzione tace, ed allora si è domandato: questo silenzio cosa significa? Significa divieto del loro impiego, oppure significa un’implicita loro ammissione, o un volere lasciare impregiudicata la questione? A mio avviso, non c’è dubbio che il silenzio significa divieto. In una Costituzione che, come fa la nostra, applica il principio della separazione dei poteri – con buona pace dell’onorevole La Rocca – in una Costituzione di carattere rigido, come quella che risulta dal progetto, e che ammette un controllo di costituzionalità delle leggi, non è dubbio che il silenzio circa la competenza del Governo ad emanare decreti di urgenza con efficacia legislativa importi un divieto.

Si potrebbe pensare il contrario considerando la necessità come fonte autonoma di diritto. Ma qui – senza ingolfarmi in una discussione di carattere teorico – vorrei osservare che, anche ammesso che la necessità si possa invocare come fonte, bisognerebbe dimostrare che l’organo abilitato ad accertare l’esistenza della necessità, nei singoli casi, possa essere il potere giudiziario.

Evidentemente, non si può giungere a questa conclusione, perché quando parliamo di necessità come fonte non ci riferiamo ad una necessità astratta, ci riferiamo a quella che giustamente è stata chiamata istituzionale, cioè inerente ai fini dell’istituzione dello Stato, da valutare in un determinato momento, in una determinata contingenza politica. Evidentemente questa necessità relativa a certi fini politici non può essere accertata dall’autorità giudiziaria, la quale non può perciò invocarla né presumerla esistente. L’autorità giudiziaria deve quindi negare validità al provvedimento legislativo del Governo che la ponesse a suo fondamento.

Vi sono senza dubbio dei casi nei quali si può ritenere che la previsione dell’ammissibilità dei decreti-legge sia necessaria. Sorge, a questo proposito, spontaneo pensare al caso della guerra. Caso che, in sede di Commissione, fu considerato, e per il quale si pensava di formulare un articolo ad hoc, che doveva sostenere le varie ipotesi di deroga a disposizioni normali. Fu poi forse per una mera dimenticanza che non si dette corso alla proposta; ma ad essa si potrà molto facilmente ovviare.

All’infuori di questo caso della guerra, e forse altresì di quello dei decreti catenaccio, non mi pare che la decretazione di urgenza debba essere consentita. L’esperienza ha infatti dimostrato come qualsiasi tentativo di regolamentazione e di disciplina dell’emissione dei decreti-legge sia stata sempre esiziale, e non soltanto sotto il regime fascista. Essa ingenera da una parte la tentazione da parte del Governo di abusarne per la più rapida realizzazione dei fini della sua politica; dall’altra parte, vorrei dire, eccita la condiscendenza del Parlamento, il quale tende a scaricarsi dei compiti di sua spettanza.

La impossibilità di stabilire limiti rigidi (e quindi suscettibili di un efficace sindacato giudiziario), accompagnata ai fenomeni di psicologia politica accennati, portano fatalmente ad una invadenza dell’esecutivo in quelli che sono i precipui poteri del legislativo. Invadenza dell’esecutivo significa predominio della burocrazia nella formazione della legge, per la quale essa non ha, oltre che la responsabilità politica, neppure la preparazione tecnica necessaria.

D’altronde è da osservare che, nei tempi in cui viviamo, nel secolo della radio e dell’aeroplano, si rende possibile provvedere ad una rapida convocazione del Parlamento quando ciò sia richiesto dall’urgenza di disciplinare per legge qualche materia. Può ammettersi che in casi eccezionalissimi si palesi impossibile provvedere neanche con queste convocazioni e procedura di urgenza, ma allora non sarà grave né pericoloso lasciare che il Governo emani, sotto la sua precisa responsabilità, i provvedimenti necessari, i quali verrebbero ad assumere un’efficacia di fatto. La responsabilità così assunta dal Governo per queste violazioni della Costituzione dovrebbe essere sanata attraverso la presentazione dei cosiddetti «bill di indennità».

A me pare quindi che, salve le tenui eccezioni cui ho fatto ora cenno, il riaffermare l’assoluto divieto del decreto-legge sia cosa saggia ed opportuna, e non contrastante con le esigenze di uno Stato moderno.

Passo ora ad una osservazione che non è stata fatta, ma che mi pare di un certo rilievo, e sulla quale non posso quindi astenermi dal richiamare la vostra attenzione: intendo alludere alla questione della molteplicità delle fonti legislative. È innegabile, onorevoli colleghi, che di fronte a questa molteplicità si rimane alquanto perplessi. Lo Stato moderno, certamente, esige una maggiore varietà di forme adatte ai suoi molteplici compiti. Ma bisogna evitare l’eccesso, atto ad ingenerare incertezza nel diritto. Nell’ordinamento che si va approvando vi sono, oltre le leggi regionali, per quanto riguarda l’attività legislativa che promana direttamente dallo Stato, anzitutto le leggi costituzionali.

Qualcuno ha pensato, accanto a queste leggi di valore costituzionale, a leggi cioè che senza essere costituzionali avrebbero valore-costituzionale, come quelle che si riferiscono all’approvazione dello statuto delle Regioni con ordinamento speciale, o per la disciplina dell’attività finanziaria delle Regioni, ecc. Io penso che questa differenziazione non esiste; quando la Costituzione parla di leggi costituzionali in questa materia, io ritengo che si voglia riferire ad un unico tipo di leggi, per le quale si esige una speciale procedura di formazione.

Vi sono poi delle leggi che si potrebbero chiamare semi-costituzionali. L’unico esempio è dato dall’articolo 95, il quale prescrive che in materia di ordinamento giudiziario e di istituzione di tribunali speciali occorre che intervenga nell’approvazione delle leggi stesse una maggioranza qualificata, e precisamente la maggioranza assoluta. Ora, a me pare che questa categoria di leggi non si giustifichi, non trovi nessun addentellato nel sistema e porti ad una complicazione che non è utile. Perciò mi auguro che questa disposizione, venuta per l’iniziativa isolata di una Sottocommissione, scompaia dal testo della Costituzione.

Poi vi sono altre fonti, che citerò tanto per elencarle, per mostrare la complessità assunta dalla nostra Costituzione in materia. Vi sono le leggi emesse dal Parlamento, quando esso legifera da solo, le leggi del Parlamento quando esso legifera insieme al popolo, che interviene attraverso il referendum, le leggi formate dal concorso di un solo ramo del Parlamento e del popolo, ciò che si verifica in caso di conflitto fra le due Camere, quando una Camera si rifiuta di approvare e si ricorre al referendum popolare, e il referendum approva il deliberato della prima Camera.

Poi vi sono le leggi dell’Assemblea Nazionale, ma veramente queste si riducono ad una sola, nell’ipotesi dell’amnistia, perché gli altri interventi di detto organo riguardano casi non di attività legislativa, ma amministrativa o politica.

Un breve cenno devo fare, per finire, sul referendum, che è stato oggetto delle critiche di un collega di parte comunista, l’onorevole Corbi.

Vorrei osservare che queste critiche comuniste all’istituto del referendum peccano di contraddittorietà, in vario senso. Anzitutto sono contradittorie con l’affermazione, ripetutamente fatta dai colleghi di parte comunista, a proposito della seconda Camera, che i partiti esauriscono tutta la realtà politica, perché la riflettono fedelmente. Pare strano che, se il partito rappresenta e rispecchia fedelmente nel Parlamento la realtà politica, si consideri poi come contrastante con l’attività legislativa parlamentare l’appello al popolo. Tale appello dovrebbe confermare l’operato dei partiti, se è vero che v’è questa corrispondenza perfetta. Ma a me pare che vi sia una contraddizione ancora più grave rispetto al principio della sovranità popolare quale è inteso dai comunisti, e che trova la sua piena realizzazione nella legge del numero, nel dogma della metà più uno. Se c’è un istituto che realizzi al massimo questo principio, è precisamente il referendum, che corregge a tal riguardo l’istituto della rappresentanza proporzionale, in quanto si attua attraverso la maggioranza; cioè con l’adozione del principio maggioritario.

Se il referendum assume come sua base lo stretto principio maggioritario, nel quale si ritiene realizzarsi nel modo più pieno la sovranità popolare, si dovrebbe considerarlo come l’istituto più democratico, e non invece incontrare l’opposizione da chi sia partito da quelle premesse.

Si è osservato – ed è una vecchia accusa – che il referendum rompe l’unità dell’azione governativa, crea una frattura, una discontinuità, introduce degli elementi che potrebbero non armonizzare con la politica generale del Governo. E questa affermazione potrebbe trovare conferma anche positiva, ad esempio, nella Svizzera, patria di origine e campo sperimentale del referendum, che offre frequenti esempi di disegni di legge presentati d’accordo da tutti i partiti, che poi incontrano l’opposizione popolare espressa nel referendum. Vi sarebbe, quindi, la constatazione di questo fenomeno della mancata saldatura tra popolo e rappresentanza parlamentare, e della disarmonia conseguente nello svolgimento di una data politica da parte degli organi costituzionali.

Ma io ritengo che è proprio la constatazione di questo fenomeno che giustifica l’istituto del referendum. È però ovvio che questo deve essere considerato differentemente, a seconda che si attua in un sistema parlamentare puro o in un sistema parlamentare che, in virtù dell’istituto dello scioglimento della Camera, si richiama ad elementi di democrazia diretta, perché lo scioglimento importa il deferimento all’arbitrato popolare di determinate controversie o questioni costituzionali. Il referendum è precisamente sulla stessa linea, risponde alle stesse esigenze e tende alla stessa finalità dello scioglimento: e quindi un regime che ammette questo, non può considerare ad esso ripugnante il referendum, che invece in certo modo lo completa.

Ritornando a quanto dicevo, osservo che precisamente la constatazione di uno scarto fra partiti e opinione pubblica viene a giustificare ancora di più l’adozione di questo istituto, perché questo contrasto fra rappresentanti e rappresentati può significare o una deficienza dei primi o una deficienza dei secondi. O sono i primi che interpretano male la volontà popolare e i bisogni reali del popolo, e allora è giusto che la loro attività sia arrestata dal popolo; o è il popolo che è scarsamente educato, e allora è ai partiti che si deve imputare tale situazione, ed il rimedio non può essere quello di escludere il popolo, bensì di eccitare il suo spirito politico, la sua sensibilità ai problemi politici, la sua capacità di intendere gli interessi generali, il che è compito specifico dei partiti, che non possono rigettare i mezzi per facilitare il raggiungimento di tali fini.

Proprio a ciò giova la politicizzazione degli interessi nei quali il popolo vive la sua vita di ogni giorno; ed è anche col servirsi delle varie associazioni spontanee e col loro inserirle nella vita politica che si può agevolare la sensibilità popolare alla voce degli interessi collettivi.

Il referendum è in sostanza una garanzia di libertà, in quanto può preservare da riforme non sentite o affrettate, ma non può certamente pregiudicare l’adozione di quelle che rispondano alla coscienza collettiva. Perché dovrebbe impedire in Italia le riforme sociali, l’attuazione per esempio della riforma agraria, come diceva ieri l’onorevole Corbi? Affermazioni di questo genere non si capiscono perché, o queste riforme incontrano l’opposizione delle masse, e allora giustamente dovrebbero essere impedite, o sono aderenti a bisogni sentiti dalla maggioranza, e allora il referendum non può agire sul loro esplicarsi.

In pratica, la stessa difficoltà di attuazione del referendum in un organismo così complesso come è un grande Stato moderno, si pone come un ostacolo di fatto al suo impiego frequente. C’è una remora precisamente nella difficoltà di mettere in moto una macchina così complicata. La importanza del referendum sta, dunque, più nell’azione potenziale che può esercitare col frenare le tentazioni di intemperanza dei partiti al potere, col renderli più meditativi circa la convenienza delle riforme proposte in confronto ai bisogni del popolo, che non nel suo impiego effettivo.

Non sono esatte, poi, le critiche dell’onorevole Corbi e la visione catastrofica che ha affacciato, secondo cui un’intera legislatura potrebbe essere arrestata nella sua azione. L’onorevole Corbi ha dimenticato quelle disposizioni del progetto di Costituzione per cui la dichiarazione d’urgenza da parte del Parlamento vale ad impedire l’adozione del referendum. Effettivamente, basta dichiarare urgente una legge, anche senza la maggioranza dei due terzi, perché l’adozione del referendum sia impedita e quindi la legge possa avere il suo corso normale.

Per concludere, vorrei fare poi qualche osservazione sul modo come il referendum è stato congegnato. Vorrei osservare che le critiche che sono state fatte all’iniziativa popolare non sono persuasive. Si è detto che 50 mila elettori (tanti sono quelli che dovrebbero promuovere l’iniziativa legislativa) potrebbero facilmente trovare almeno un deputato che faccia propria la proposta. Ma io osservo che il valore politico dell’iniziativa di un solo deputato è infinitamente minore di quello rivestito dall’iniziativa di 50 mila cittadini. Quindi, mi pare che, sotto questo aspetto, sia opportuno conservare questo istituto.

Dei dubbi possono sorgere, e sono stati formulati, circa il referendum nel caso di conflitti fra le due Camere.

E le critiche sono state promosse da taluni, come l’onorevole Fuschini, i quali partono dal contestare la possibilità di una posizione di parità delle due Camere. Ma siccome si è sostenuto da parte mia che questa posizione di parità non solo è opportuna ma è necessaria (perché è la condizione perché il bicameralismo, così come è concepito da noi, funzioni), cade la possibilità di dare la prevalenza ad una delle Camere e quindi è necessario che questo conflitto sia portato al popolo. Non potrebbe essere portato, secondo me, utilmente neanche all’Assemblea Nazionale, perché il trasferire all’Assemblea Nazionale compiti che non sono di direttiva politica, ma legislativi, traviserebbe la fisionomia che si è voluta dare a questo istituto. Quindi, anche per questo punto, è opportuno conservare la disposizione del progetto. Sola ragione di dubbio potrebbe essere se sia opportuno in questo caso subordinare l’adozione del referendum alla richiesta della Camera che è rimasta in minoranza, la cui approvazione cioè di un disegno di legge non ha avuto l’adesione dell’altra.

Più gravi incertezze sono sollevate dal referendum sospensivo, cioè dalla facoltà data al popolo di chiedere la sospensione dell’entrata in vigore di una legge, in attesa del referendum. I dubbi, come dicevo, sembrano giustificati non tanto dall’osservazione che ciò ritarda l’entrata in vigore della legge, ma dal fatto che la ritarda per l’intervento di un numero esiguo di cittadini. Tale ritardo, però, specie poi quando si tenga presente il correttivo dell’urgenza di cui ho parlato, non è una cosa straordinaria. Noi abbiamo esempi analoghi in altre legislazioni. Per esempio la Costituzione di Weimar ammetteva la possibilità che un terzo, cioè una minoranza dei membri del Reichstag, chiedesse ed ottenesse la sospensione per due mesi dell’entrata in vigore di una legge. È una garanzia accordata alle minoranze, che può non ritenersi inopportuna.

Ma l’obiezione più grave da fare a questo istituto è quello dell’incertezza che potrebbe ingenerare nel diritto, incertezza che deriva dalla necessità di procedere a più pubblicazioni perché la legge deve essere pubblicata nel momento dell’approvazione delle due Camere. Poi interviene il periodo di sospensione in attesa che si possa promuovere la procedura di referendum; e poi bisognerebbe naturalmente fare una seconda pubblicazione quando la legge fosse definitivamente approvata. Ora questa molteplicità di pubblicazioni potrebbe ingenerare dubbi da parte dei cittadini, e sotto questo aspetto a me pare che si dovrebbe riflettere anche sopra la norma in parola. Forse si potrebbe rinunciare a tale specie di referendum, ma solo a patto di modificare l’ultimo comma di questo articolo 74 che, nel consentire l’abrogazione della legge con referendum, pone la condizione che essa sia in vigore da almeno due anni. Se sopprimessimo questo termine di due anni, cioè se il referendum potesse chiedersi ed attuarsi subito dopo l’entrata in vigore della legge, allora la conservazione dell’istituto del referendum sospensivo potrebbe apparire meno rilevante.

E così ho finito. Nel corso di questa discussione sono state rivolte accuse varie a questa parte del progetto. Si è detto da taluni che qui dentro c’è un centone di disposizioni prese qua e là dalle varie Costituzioni. Purtroppo è difficile fare qualche cosa che non trovi precedenti nel passato. Avviene quasi sempre che, quando si crede di aver fatto una scoperta, poi si accerta che quella stessa cosa era stata già trovata, magari duemila anni prima di Cristo, in Cina.

Questa constatazione è una salutare scuola di mortificazione del nostro orgoglio.

Comunque, si può affermare che questo progetto è l’opera di persone che hanno lavorato con grande fervore e passione e si sono sforzate di creare, non delle costruzioni tecnicamente perfette, bensì uno strumento adatto al nostro Paese, con riferimento alle sue esigenze di oggi, onde avviarlo ad una democrazia sostanziale, radicata nella coscienza e fondata sull’interesse, fattiva e operosa della più gran parte dei cittadini.

Formulo l’augurio che uno stesso fervore da parte dell’Assemblea, rivolto a migliorare il canovaccio tracciato, giovi a dare vita ad un Parlamento che, arricchito di efficienza rappresentativa per il concorso di tutte le forze vitali della Nazione e razionalizzato nei suoi congegni e nella sua procedura, promuova ed accompagni la resurrezione e l’ascesa della Patria. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alla seduta pomeridiana di domani, nella quale parleranno i Relatori onorevoli Conti e Tosato, e il Presidente della Commissione onorevole Ruini.

Sui lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. La seduta antimeridiana di domani si inizierà alle 11, anziché alle 10, in considerazione del fatto che nella prima mattina si riuniscono alcune Commissioni.

Per ciò che riguarda le interrogazioni, esse saranno svolte nella seduta antimeridiana di sabato prossimo, se domattina l’Assemblea concluderà l’esame della legge sull’elettorato attivo; altrimenti saranno svolte nella seduta pomeridiana di lunedì.

GAVINA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GAVINA. Ieri si era rimasti d’accordo con il Ministro Segni nel senso di discutere nella seduta antimeridiana di domani l’interpellanza da me presentata a nome del Partito comunista; e la Presidenza era d’accordo.

PRESIDENTE. Mi sembra che l’accordo sia intervenuto nel senso di fissare lo svolgimento di questa interpellanza nella prima seduta riservata alle interrogazioni e alle interpellanze. L’Ufficio di Presidenza ritiene che fino a quando non sarà stata esaurita la discussione del disegno di legge sull’elettorato attivo non sia opportuno distrarre tempo per la discussione di interrogazioni e tanto meno di interpellanze, le quali ultime occupano un tempo maggiore.

PICCIONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PICCIONI. Desidero che sia precisato questo punto: sabato si tiene soltanto seduta antimeridiana; questa seduta sarà dedicata o alle interrogazioni o al seguito della discussione della legge elettorale, se questa non sarà esaurita domani; e non già alla discussione del progetto di Costituzione.

PRESIDENTE. La discussione del progetto di Costituzione sarà probabilmente rinviata, dopo la seduta pomeridiana di domani, a martedì prossimo.

SILIPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SILIPO. L’onorevole Tupini si è dichiarato disposto a discutere un’interpellanza da me presentata lunedì nel pomeriggio; pertanto, chiedo che essa sia iscritta all’ordine del giorno della seduta di lunedì.

PRESIDENTE. Ella sa che l’ordine del giorno di una seduta non si può fissare che nella seduta immediatamente precedente. La seduta pomeridiana di domani sarà dedicata al seguito della discussione del progetto di Costituzione; parleranno gli onorevoli Conti, Tosato e Ruini. Poi la discussione potrà essere rinviata a martedì, dovendosi procedere alla votazione degli ordini del giorno, che occuperà del tempo.

Concludendo: domani, nella seduta antimeridiana alle ore 11, seguito della discussione della legge sull’elettorato attivo; nella seduta pomeridiana, alle ore 16, seguito della discussione del progetto di Costituzione; sabato mattina, se nella seduta antimeridiana di domani avremo esaurito la discussione della legge elettorale, ci occuperemo di interpellanze e di interrogazioni; altrimenti, queste saranno discusse nella seduta pomeridiana di lunedì.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’interno e del tesoro, per conoscere se non intendano adottare per gli alti funzionari collocati a riposo senza aver raggiunto i limiti necessari al godimento della pensione, lo stesso trattamento usato dal Ministero degli affari esteri in favore di alcuni funzionari, e cioè la corresponsione una tantum di una somma pari a due annualità di stipendio.

«Cifaldi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per sapere se non ritenga opportuno recedere dalla decisione di non accogliere la legittima richiesta dei segretari degli istituti medi, i quali da tempo hanno chiesto il passaggio dal gruppo C, in cui ingiustamente si trovano, al gruppo B, e ciò per porre fine ad una condizione di inferiorità ingiustificabile.

«L’interrogante fa notare che il Ministro della pubblica istruzione, interrogato, ha riconosciuto giusta l’aspirazione della categoria ed ha dichiarato che aveva predisposto uno schema di provvedimento inteso a migliorarne la carriera, nel quale era incluso l’inquadramento del personale, di cui si parla, nel gruppo B, ma che il Ministro del tesoro non aveva dato il proprio assenso.

«Silipo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere quanto di vero ci sia nelle informazioni di certa stampa circa aggressioni avvenute in questi giorni nella zona ritornata alla Madre Patria.

«Bettiol».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, circa due disposizioni contenute nel decreto 14 luglio 1947, che bandisce concorsi per cattedre negli istituti governativi di istruzione media, e più particolarmente circa i paragrafi 4 e 9.

«L’una (comma d) del paragrafo 4), che è ripetizione di un articolo transitorio – l’articolo 38 – della legge 19 gennaio 1942, n. 86, legge Bottai sulle scuole non regie, e con cui si ridà nuova transitorietà ad un articolo transitorio nel 1942, mirando a favorire insegnanti, già favoriti, in quanto, senza i titoli indispensabili, hanno potuto per anni insegnare, riduce logicamente il numero dei posti a cui potrebbero aspirare insegnanti non ecclesiastici e penetra in un campo da cui sarebbe bene si tenesse lontano; l’altra disposizione (paragrafo 9) conferisce al Ministro la facoltà di negare a chicchessia – fuori dei casi previsti in commi precedenti – «l’ammissione ai concorsi a cattedre con decreto non motivato ed insindacabile».

«Ora l’interrogante, pur supponendo nell’onorevole Ministro senso indubbio di onestà e di giustizia, desidera sapere a quali casi intenda alludere e quale legge a lui assegni questa larga facoltà, che egli ritiene non potrebbe mai esser concessa ad un Ministro.

«Poiché il termine del concorso scade il 30 settembre, l’interrogante prega l’onorevole Ministro a voler dargli risposta prima di tale data.

«Longhena».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non ritenga opportuno e utile allo sviluppo delle bonifiche nel Mezzogiorno di Italia e nelle Isole il facilitare i finanziamenti ai Consorzi all’uopo costituiti, anche da parte di Enti di credito e di privati risparmiatori, col concedere la garanzia ai mutui, che detti Consorzi contrarrebbero per l’esecuzione di progetti, debitamente approvati dal Comitato provinciale di bonifica e dal Genio civile.

«Ciò al fine di far concorrere il capitale privato accanto ai finanziamenti dello Stato ad un’opera economica e sociale di interesse generale, qual è la bonifica, e per accelerare il ritmo dei lavori secondo il voto espresso dal Convegno di Napoli per le trasformazioni fondiarie, tenutosi nell’ottobre 1946. L’interrogante ritiene che i Consorzi possano agevolmente contrarre mutui, qualora questi godano di privilegi ipotecari sui terreni bonificati, nel caso che lo Stato non garantisca la quota dovuta dai Consorzi nelle opere finanziate dallo Stato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica), per sapere quali provvedimenti intenda prendere, in via definitiva, contro l’impresa appaltatrice del mantenimento dei reduci tubercolotici nel sanatorio antitubercolare di Chiaravalle Centrale (Catanzaro), la quale, nonostante le ispezioni governative, le proteste del Comitato regionale della Croce Rossa, delle famiglie e del pubblico e i reclami dei ricoverati, continua, per fini speculativi, nel cattivo trattamento di questi, la cui spesa grava sul bilancio dello Stato.

«L’interrogante fa presente di avere svolto all’Assemblea Costituente, nella seduta del 18 marzo 1947, una interrogazione in merito e di avere avuto, anche per iscritto, assicurazione della Presidenza del Consiglio di un intervento pronto ed efficace.

«Con grave delusione dell’interrogante, degli ammalati e del pubblico, il maltrattamento dei ricoverati è continuato, tanto che il Comitato regionale della Croce Rossa, nella persona della sua ispettrice, ha rinnovato la sua protesta.

«Poiché trattasi di reduci, che nel servizio militare contrassero il male, di cui oggi sono afflitti, e che dalla Nazione non possono essere abbandonati a se stessi ed a una illecita speculazione, che, perfino ostenta i cumulati profitti, fra l’indignazione generale, l’interrogante chiede che sia posto fine a un simile stato di cose col rilevare l’impresa dalla gestione, con provvedimento d’imperio, ed affidare questa al Comitato della Croce Rossa Italiana. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri del tesoro e delle finanze, per conoscere se non ritengano opportuno ed urgente che i fabbricati distrutti o danneggiati da eventi bellici siano resi esenti dall’imposta progressiva sul patrimonio – per la quale è imminente, da parte dei proprietari, l’obbligo della denunzia – e ciò in considerazione che per questi fabbricati il reddito, quando non è del tutto cessato, è stato abbondantemente assorbito – e lo sarà ancora per molti anni – dai gravi oneri imposti dalla ricostruzione, ai quali lo Stato non partecipa che per determinate aliquote, in rapporto al reddito del contribuente. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bonino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’Africa italiana, delle finanze e del tesoro, per sapere se non ritengano immorale ed inumano il trattamento ancora riservato ai reduci e profughi d’Africa ai quali, rientrati in Italia, si applica il cambio di lire 72 per ogni sterlina risultante a loro credito, credito che è frutto di inenarrabili sacrifici e rinunce, e ciò in stridente contrasto del cambio ufficiale della sterlina ed ancor più di quello del mercato libero. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bonino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei lavori pubblici e del tesoro, per sapere se non ritengano doveroso – a fronte delle enormi distruzioni subite dai fabbricati dell’Istituto delle case popolari di Messina – integrare con ulteriore stanziamento il contributo concesso con decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato, n. 359 dell’8 agosto 1947, tenuto presente che l’Istituto autonomo non è in condizioni di contrarre con un ente finanziatore un mutuo a lunga scadenza ed a tasso sopportabile per procurarsi i rimanenti 285 milioni indispensabili per realizzare le costruzioni, cui sono destinati i fondi già stanziati. Ciò in considerazione che alla distanza di quasi 40 anni dal terremoto 1908 non è ancora ultimato lo sbaraccamento, tanto che sussistono oltre 2000 baracche in pessime condizioni, anti-igieniche, nelle quali vivono circa 10 mila persone in attesa che un Governo democratico provveda. Ciò anche perché lo sbaraccamento di Messina è tuttora impegnativo per lo Stato, che seguita a percepire le addizionali in base alla legge del gennaio 1909. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bonino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’Africa italiana, del tesoro e delle finanze, per sapere le ragioni per cui ai profughi d’Africa, attraverso procedure defatiganti e dispendiose, s’è fino ad oggi procrastinato il pagamento del risarcimento dei danni subiti per il forzato abbandono dei propri beni d’Africa, dove s’erano recati a svolgere opera di civiltà.

«Se non ritengano opportuno accelerare – con un ufficio stralcio convenientemente organizzato – queste procedure, anche in considerazione del lungo tempo già trascorso e della continua svalutazione della moneta a causa della quale gli interessati finirebbero, in un lontano avvenire, con l’incassare una percentuale dei propri crediti irrisoria e tale da non consentir loro di riprendere o iniziare qualsiasi attività.

«Se non ritengano ancora opportuno – per accelerare la riammissione nel processo produttivo nazionale dei profughi di Africa – di disporre un congruo acconto da pagarsi salvo conguaglio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bonino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se intenda ripristinare la pretura del comune di Montefusco (Avellino).

«L’interrogante ritiene che detto ripristino possa e debba precedere quello delle altre sedi soppresse dal fascismo, per le quali è noto che il Ministero della giustizia ha proposto invano al Ministero del tesoro la ricostituzione.

«Infatti a favore del ripristino della sede di Montefusco dovrebbero giocare due ordini d i fattori:

1°) politico, perché la sede fu soppressa per consentire al capo della polizia fascista Bocchini di istituire la pretura nel suo paese di origine, San Giorgio del Sannio;

2°) umanitario, perché attualmente i cittadini di Montefusco sono sottoposti alla giurisdizione del Tribunale di Benevento, pur facendo parte della provincia di Avellino, cosicché sono costretti a servirsi di mezzi di trasporto divergenti, raddoppiando le spese e aumentando le difficoltà.

«L’interrogante confida pertanto in un provvedimento isolato che ponga fine allo stato di disagio creato dalla mancata coincidenza della circoscrizione giudiziaria con quella amministrativa. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sullo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per conoscere quale azione intendano svolgere per definire, una buona volta e con sollecitudine, la posizione penale, e per ciò stesso amministrativa, del sindaco del comune di Taurasi (Avellino) dottor Caggiano Marciano.

«L’interrogante ritiene che non dovrebbe esser lecito all’autorità giudiziaria lasciar passare tanti mesi prima di emettere un giudizio sulla imputabilità del dottor Caggiano, contro il quale da tempo sono state sporte documentate denunzie di reati vari e gravi da parte tanto di privati quanto di autorità.

«La Procura generale della Corte di appello di Napoli, non pronunciandosi con la celerità che la questione richiede, è infatti moralmente responsabile dello stato di eccitazione, di disordine, e talora anche di fisica violenza, che si è determinato nel piccolo centro, ove il sindaco Caggiano è ormai impopolare tra la maggioranza dei cittadini, che attendono che egli abbia il giusto guiderdone della sua scorretta condotta morale ed amministrativa. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sullo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’interno, per conoscere se, nell’applicazione del secondo comma, di cui all’articolo 29 del decreto legislativo 12 ottobre 1945, n. 669, sulla disciplina delle locazioni degli immobili urbani, non creda opportuno, come sembra all’interrogante, dar disposizioni perché, nei confronti dei perseguitati politici e razziali (nonché dei partigiani), si tenga conto della pratica impossibilità in cui questi si trovavano ad acquistare immobili prima del 24 marzo 1942, talché la disposizione contenuta nel detto comma sia, per costoro, dichiarata non applicabile, (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Arcangeli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se siano in elaborazione provvedimenti relativi alla ricostituzione di una speciale polizia di frontiera e alla sistemazione militare-professionale ed amministrativa del personale già in servizio permanente effettivo nella ex milizia confinaria, specialità che, per lo svolgimento del suo particolare servizio d’istituto, era alle dirette dipendenze di impiego del Ministero dell’interno.

«In caso affermativo, l’interrogante desidera sapere se è nelle previsioni del Ministro l’esame della possibilità di un eventuale riassorbimento e reimpiego del suddetto personale specializzato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Fabriani».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 18.40.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali. (16).

Alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 18 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXIII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 18 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Sul processo verbale:

Russo Perez

Disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali (Seguito della discussione):

Presidente

Moro

Schiavetti

Uberti, Relatore

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Russo Perez

Negarville

Taviani

Votazione nominale:

Presidente

Risultato della votazione nominale:

Presidente

La seduta comincia alle 11.

COVELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

Sul processo verbale.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevoli colleghi, mi avvalgo del Regolamento per prendere la parola sul processo verbale, onde chiarire un mio pensiero quale risulterebbe da quel documento. Il pensiero espresso ieri da me con qualche interruzione e con delle precise dichiarazioni, credo che fosse molto chiaro.

Io chiesi perché mai fosse stata scelta la data del gennaio 1925 e non la data del novembre 1922. Intendevo fare il rimprovero, a molti fieri «antifascisti della prima ora» e dei sempre presenti in quest’aula, di avere escluso quel periodo nel quale essi fecero atto di adesione al regime… Che Mussolini fosse un dittatore non fu scoperto solo nel gennaio 1925! La marcia su Roma non aveva detto nulla a costoro? E l’approvazione della legge sui pieni poteri?! E quando Mussolini qui, in quest’aula «sorda e grigia» (così qualificata da lui), disse che avrebbe potuto fare di essa un bivacco dei suoi manipoli, io non ero presente, ma so che di tutta quella selva di uomini uno solo ebbe il coraggio di gridare: «Viva il Parlamento!». Fu Modigliani. Onore a lui, il quale ha diritto di essere qualificato un antifascista di sempre; e non soltanto voi delle sinistre, ma anche noi delle destre abbiamo il dovere di onorarlo come un uomo che è stato sempre fedele al suo pensiero. Ma tanti fieri antifascisti di oggi, come quel mio amico Dante Veroni, che ha tutto l’aspetto di un cavaliere spagnolo (Si ride), e credo che abbia la coscienza per lo meno abbastanza conservatrice quanto il suo nobile aspetto, che ha proposto persino l’inasprimento di codeste disposizioni!…

VERONI. Ma se è stato approvato!

RUSSO PEREZ. Prego l’amico Veroni, che stimo, di non insistere in proposte di codesto genere… Si ricordi che nel suo collegio c’era quel tale Visocchi, che, se non fosse stata approvata la sua proposta di ieri, potrebbe essere nuovamente candidato.

Innalziamoci al disopra di ciò. Ho presa la parola perché sventuratamente la mia ironia non è stata compresa nemmeno dai nostri giornali. È stata semi compresa dal redattore dell’Unità, che ha scritto: «Russo Perez con un sorriso amaro…». Ho detto semi compreso, perché il mio sorriso non era «amaro» ma leggermente ironico. Ad evitare equivoci, affinché qualcuno non si ostini a fingere di capire che io abbia, ieri, fatto quella proposta sul serio, sia detto ancora una volta e ben chiaro che io ed i miei colleghi di Gruppo abbiamo votato e voteremo contro tutte le esclusioni, non per spirito fascista o antifascista, ma perché siamo contro ogni persecuzione improducente e perché è necessario che una buona volta si ponga fine a questa catena di violenze (Rumori a sinistra), ed i miei colleghi della sinistra dovrebbero pensare che, se ci sarà, domani, un Governo reazionario, esso potrà approvare un’altra legge in cui si dica che quelli che hanno votato ora per l’esclusione dall’elettorato di alcune categorie di fascisti sono a loro volta esclusi dal diritto di elettorato attivo e passivo… (Vivi rumori a sinistra). Faccio osservare un’altra cosa: io comprenderei che si escludessero dal diritto di eleggibilità coloro che si ritiene abbiano peccato, perché essere nominati deputati o senatori è certamente un privilegio; ma quello di votare è un dovere, dato che la legge pone una sanzione per gli astensionisti, sul cui certificato penale si scrive: non ha votato. Quindi voi impedite ad alcuni, a molti cittadini, l’esercizio di un dovere. Stando così le cose, perché non impedite loro di andare sotto le armi, perché anche quello è un dovere?!

Per queste ragioni voteremo contro, perché noi vogliamo un’opera di pacificazione ed auspichiamo ardentemente quel giorno in cui la madre del partigiano ucciso e la madre del fascista ucciso si ricongiungano a pregare sulla tomba dei loro cari. (Applausi a destra – Vivi rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali. (16).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sul disegno di legge:

Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali. (16).

Chiedo all’onorevole Moro se insiste nella domanda di appello nominale avanzata ieri.

MORO. Mi dispiace di dover insistere nella richiesta di appello nominale.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Schiavetti se insiste nel suo emendamento.

SCHIAVETTI. Insisto, ma per disincagliare la discussione, proporrei di rimandare a più tardi la votazione di questa lettera f) che ha suscitato tanti contrasti, e di continuare con l’esame dell’articolo, per guadagnare tempo.

PRESIDENTE. Se non vi sono obiezioni, si può accogliere la proposta dell’onorevole Schiavetti di accantonare la votazione sulla lettera f), restando d’accordo che l’appello nominale, chiesto ieri, non è stato finora ritirato.

MORO. Sono d’accordo.

(Così rimane stabilito).

PRESIDENTE. Allora continuiamo l’esame dell’art colo 47.

Relativamente alla lettera f) in discussione, è stato presentato un emendamento aggiuntivo dagli onorevole Crispo e Rubilli del seguente tenore:

«Aggiungere alla lettera f):

«f-bis) la condizione dei senatori, per i quali fu emessa sentenza di annullamento del pronunciato dell’Alta Corte di giustizia, dovrà essere riesaminata a seguito del giudizio di rinvio».

Chiedo agli onorevoli Crispo e Rubilli se, dato il legame stretto che unisce questa aggiunta all’emendamento Schiavetti, non ritengano opportuno di accantonare anche l’esame di questo emendamento.

CRISPO. Sta bene.

(Così rimane stabilito).

PRESIDENTE. Passiamo alla lettera g), che è del seguente tenore:

«g) consigliere nazionale».

La pongo in votazione.

(È approvata).

Passiamo alla lettera h), che è del seguente tenore:

«h) membro del tribunale speciale per la difesa dello Stato o membro dei tribunali straordinari della pseudo repubblica sociale».

La pongo in votazione.

(È approvata)

Passiamo alla lettera i), che, nel testo governativo, è del seguente tenore:

«i) prefetto o questore nominati per titoli fascisti e capo di provincia».

La Commissione ha presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere, dopo le parole: capo di provincia le seguenti: o questore nominato per gli stessi titoli dalla pseudo repubblica sociale».

Avverto che identico emendamento è stato proposto dall’onorevole Schiavetti con la lettera o). Se nessuno domanda la parola pongo in votazione la lettera i) emendata ai sensi della proposta della Commissione, accettata dal Governo, e che assorbe l’emendamento Schiavetti.

(È approvata).

Passiamo alla lettera l) del testo governativo, che è del seguente tenore:

«l) ufficiale generale od ufficiale superiore della milizia volontaria sicurezza nazionale in servizio permanente retribuito, eccettuati gli addetti ai servizi religiosi, sanitari, assistenziali e gli appartenenti alle legioni libiche, alla milizia ferroviaria, postelegrafonica, universitaria, alla G.I.L., alla D.I.C.A.T. e Da. Cos., nonché alla milizia forestale, stradale e portuaria».

A questa lettera è stato proposto un emendamento dall’onorevole Schiavetti secondo il quale si aggiunge la categoria dei «moschettieri del duce» e si estende l’esclusione a tutti gli ufficiali della milizia in genere, mentre il progetto del governo limita l’esclusione agli ufficiali generali e quelli superiori.

SCHIAVETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Questa disposizione da me proposta è presa dalla legge elettorale per le elezioni alla Costituente.

PRESIDENTE. La frase «in servizio permanente retribuito» è comune al testo del Governo e all’emendamento Schiavetti.

Prego l’onorevole Relatore di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione che aveva approvato un suo emendamento ha poi deliberato di accettare il nuovo testo governativo. Non può accettare l’emendamento dell’onorevole Schiavetti per tutte le ragioni che furono già da me esposte, in quanto tende ad estendere le esclusioni ad un eccessivo numero di persone, anche a quelle che non sono gli elementi motori del passato regime (partito, governo, parlamento), con il duplice danno di diminuire il valore del provvedimento verso gli autentici responsabili, i veri capi, e di far solidarizzare con questi gli elementi periferici, meno responsabili. Per la categoria dei «moschettieri del duce» è poi assai difficile rintracciarne gli appartenenti.

PRESIDENTE. Chiedo il parere del Governo sull’emendamento.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo si associa a quanto ha detto l’onorevole Uberti: tanto la Commissione, quindi, che il Governo si oppongono a questa estensione.

PRESIDENTE. Questo emendamento dell’onorevole Schiavetti darà luogo a due votazioni perché, come l’Assemblea ha udito, la prima parte riguarda l’inclusione della categoria dei «moschettieri del duce», mentre l’altra riguarda l’estensione della norma a tutti gli ufficiali della milizia.

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Dichiaro che voteremo a favore dell’esclusione dal diritto di voto per la categoria dei «moschettieri del duce», mentre invece voteremo contro per quanto riguarda l’estensione della sanzione a tutti gli ufficiali della milizia.

PRESIDENTE. Sta bene. Pongo in votazione la privazione del diritto di voto per la categoria dei «moschettieri del duce».

(È approvata).

Passiamo ora a votare l’altra parte dell’emendamento dell’onorevole Schiavetti, del seguente tenore: «ufficiale della milizia volontaria sicurezza nazionale in servizio permanente retribuito».

L’Assemblea tenga presente che tutto il resto dell’articolo è invariato.

(Dopo prova e controprova e votazione per divisione, non è approvata).

Ricordo agli onorevoli colleghi che l’inclusione dei «moschettieri del duce» è stata già approvata. Cosicché pongo in votazione la lettera l) nel testo proposto dal Governo, che, con l’aggiunta dei «moschettieri del duce» risulta così formulata:

  1. l) «moschettiere del duce, ufficiale generale ed ufficiale superiore della milizia volontaria sicurezza nazionale in servizio permanente retribuito, eccettuati gli addetti ai servizi religiosi, sanitari, assistenziali e gli appartenenti alle legioni libiche, alla milizia ferroviaria, postelegrafonica, universitaria, alla G.I.L., alla D.I.C.A.T. e Da. Cos., nonché alla milizia forestale, stradale e portuaria».

(È approvata).

Passiamo alla lettera aggiuntiva f) dell’onorevole Shiavetti:

«f) ispettore o ispettrice federale, eccettuati coloro che abbiano esercitato funzioni esclusivamente amministrative».

Su questa aggiunta domando il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. Se l’onorevole Schiavetti, che fa parte della Commissione, avesse sottoposto la sua proposta, almeno nell’ultima seduta di tre giorni fa, sarebbe stato possibile al Relatore di riferire la deliberazione della Commissione. Tuttavia devo rilevare che ci troviamo di fronte ad un emendamento sul quale la Commissione non ha potuto esprimere esplicitamente il suo parere, e che in ogni modo si scosta talmente dal criterio che ha ispirato la Commissione nel redigere il suo testo, che essa non può non respingerlo. Alle sinistre, che ritengono di porre norme di maggiore severità, rilevo che invece gli emendamenti dell’onorevole Schiavetti rappresentano, con le sue estensioni, un’attenuazione del valore della primitiva norma stabilita dalla Commissione. Perciò, interpretando lo spirito che ha animato la Commissione nello stabilire il suo testo, non posso che dichiararmi contrario.

PRESIDENTE. Chiedo l’opinione del Governo.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo non accetta la lettera f) dell’emendamento Schiavetti.

PRESIDENTE. Metto in votazione la lettera f) dell’emendamento Schiavetti, del seguente tenore:

«f) ispettore o ispettrice federale, eccettuati coloro che abbiano esercitato funzioni esclusivamente amministrative».

(Dopo prova e controprova, è approvata – Proteste al centro e a destra).

Voci. Il computo non è esatto!

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, faccio loro presente che la Presidenza non proclama il risultato della votazione se non quando tutti i Segretari, rappresentanti vari partiti, si sono messi d’accordo sull’esito della votazione. (Commenti al centro e a destra). L’Assemblea comprende che procedere ad un’altra votazione sarebbe addirittura arbitrario. (Rumori e proteste al centro e a destra).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Signor Presidente, non vi è dubbio che se i Segretari hanno sbagliato… (Vivi rumori a sinistra). Ad ogni modo il parere espresso da tutta l’Assemblea impone una revisione della votazione con altro sistema. (Proteste a sinistra).

PAJETTA GIULIANO. Ma quale Assemblea?!

PRESIDENTE. Onorevole Russo Perez, non saprei proprio come accontentarla.

RUSSO PEREZ. Signor Presidente, io dico questo: democrazia! democrazia! (Vivi rumori a sinistra).

PAJETTA GIULIANO. Lei parla di democrazia! (Rumori in tutti i settori – Interruzioni).

RUSSO PEREZ. Facciamo la politica in gaiezza, come diceva San Francesco. Perché siete così feroci?

L’Assemblea impugna la votazione! (Rumori a sinistra).

PAJETTA GIULIANO. Quale Assemblea? È lei forse l’Assemblea?

RUSSO PEREZ. Ci dica almeno i risultati numerici, signor Presidente! (Rumori a sinistra – Interruzioni).

PRESIDENTE. Onorevole Russo Perez, le do lettura dell’articolo del Regolamento.

RUSSO PEREZ. Lo conosco! Gliene faccio grazia.

PRESIDENTE. Onorevole Russo Perez, chiunque deve convenire che il Presidente, anche se volesse, non potrebbe condiscendere in questo caso al suo desiderio neppure se fosse espresso dall’Assemblea! (Rumori al centro e a destra).

RUSSO PEREZ. Non sono d’accordo. (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. L’articolo 103 dispone: «Il voto per alzata e seduta è soggetto a riprova, se c’è chi la richieda prima della proclamazione. Il Presidente e i Segretari decidono del risultato della prova e della riprova, che possono ripetersi; se rimane ancora dubbio, si procede per divisione».

RUSSO PEREZ. E la riprova?

Una voce a sinistra. C’è stata. (Interruzioni – Commenti).

NEGARVILLE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NEGARVILLE. Quando poco fa è stato respinto il primo emendamento dell’onorevole Schiavetti, io ho avuto l’impressione, con i conti che ho fatto, che le cose non erano tanto chiare; ma mi sono guardato bene dal contestare la proclamazione del Presidente. Mi pare che introducendo, nelle nostre votazioni, un precedente di questo genere, tutti i deputati avrebbero diritto di far ripetere una votazione. Se poi teniamo conto del fatto che vi sono degli spostamenti di persone, di gente che è nei corridoi e che non è stata presente, e che potrebbe essere presente adesso, noi potremmo avere un risultato differente, sempre se il Presidente accondiscendesse ad una nuova votazione, cosa che è contraria al Regolamento. Il risultato differente da quello proclamato minorerebbe l’autorità della Presidenza, che proclama solo dopo aver consultato i Segretari.

Ora, io mi oppongo alla ripetizione della votazione, perché è contraria al Regolamento e perché costituirebbe un precedente che tornerebbe a discredito dell’Assemblea. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Quando si parla di riprova, ci si riferisce ad una nuova votazione per alzata e seduta. Quando il risultato rimanga dubbio, allora soltanto si procede per divisione. Ma l’Ufficio di Presidenza è stato unanime nel valutare l’esito della votazione, dopo che gli onorevoli Segretari hanno col massimo scrupolo controllato i voti nella prova e nella riprova.

Prego quindi i colleghi di non voler creare difficoltà ai nostri lavori con pretese che non hanno alcun fondamento nel Regolamento, anzi, che vi sono contrarie. Ripeto che, dopo fatta la votazione per alzata di mano, si è fatta la riprova della votazione per alzata e seduta. I Segretari sono stati concordi nell’accertamento del risultato.

Il Presidente ha proclamato questo risultato. Questo è il suo compito.

Se mi è lecito aggiungere qualche cosa di personale, dirò che io sono uso a non seguire neppure il conteggio per rimettermi interamente all’opinione dei Segretari, che ho sempre constatato concorde.

Sono sicuro di mantenermi sempre, come è mio stretto dovere di Presidente, al di sopra della mischia. (Applausi a sinistra e al centro).

Segue la lettera g) dell’emendamento Schiavetti, del seguente tenore:

«g) segretario politico del fascio o segretaria del fascio femminile di comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti (censimento 1936)».

Chiedo al Relatore di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. L’emendamento non fa che riprodurre il primitivo testo governativo. La Commissione all’unanimità ha deliberato di sopprimerlo. Non capisco perché adesso lo si voglia riprendere. La soppressione fu approvata anche dai commissari comunisti.

TAVIANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Chiedo la votazione per appello nominale sulla lettera g) dell’emendamento Schiavetti.

PRESIDENTE. L’onorevole Taviani ha avanzato richiesta di appello nominale. Chiedo, a norma dell’articolo 97 del Regolamento, se è appoggiata da quindici deputati.

(È appoggiata).

Votazione nominale.

PRESIDENTE. Procediamo alla votazione per appello nominale, sulla lettera g) dell’emendamento dell’onorevole Schiavetti, testé letto.

Estraggo a sorte il nome del deputato dal quale comincerà la chiama.

(Segue il sorteggio).

Comincerà dall’onorevole Ruggieri.

Si faccia la chiama.

Hanno risposto sì:

Allegato – Amadei – Amendola – Arata – Assennato – Azzi.

Baldassari – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basile – Basso – Bei Adele – Bellusci – Bianchi Bianca – Bibolotti – Bocconi –Bonomelli – Bruni.

Cacciatore – Cairo – Canevari – Caporali – Carboni Angelo – Carpano Maglioli – Cevolotto – Chiarini – Chiostergi – Cianca – Colombi Arturo – Corbi – Corsi – Cosattini – Costa – Costantini – Cremaschi Olindo.

De Filpo – De Mercurio – De Michelis Paolo – Di Giovanni – Donati – D’Onofrio.

Fantuzzi – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fedeli Armando – Ferrari Giacomo – Fietta – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Foa – Fogagnolo – Fornara.

Gallico Spano Nadia – Gasparotto – Gavina – Gervasi – Ghidetti – Giacometti – Giolitti – Giua – Grazia Verenin – Grieco – Gullo Fausto.

Iotti Nilde.

Jacometti.

Laconi – Lami Starnuti – Landi – La Rocca – Lizzadri – Lombardi Riccardo – Longhena – Longo – Lozza – Luisetti – Lussu.

Macrelli – Magnani – Magrin – Malagugini – Maltagliati – Marchesi – Mariani Enrico – Massola – Mastino Pietro – Mazzoni – Merighi – Merlin Angelina – Mezzadra – Minella Angiola – Minio – Molè – Momigliano – Morandi – Moranino – Moscatelli – Musolino.

Negarville – Nenni – Nobile Umberto – Nobili Oro.

Pacciardi – Pajetta Gian Carlo – Pajetta Giuliano – Pera – Persico – Piemonte – Pieri Gino – Pratolongo – Pressinotti – Priolo.

Reale Eugenio – Ricci Giuseppe – Romita – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Ruggeri Luigi.

Saccenti – Salerno – Sansone – Sapienza – Sardiello – Schiavetti – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Secchia – Silipo – Simonini – Spallicci – Stampacchia – Stella.

Targetti – Tega – Togliatti – Tomba – Tonello – Tonetti – Treves.

Vernocchi – Veroni – Vigorelli – Villani.

Zanardi – Zappelli.

Hanno risposto no:

Abozzi – Adonnino – Alberti – Aldisio – Arcaini – Arcangeli.

Bacciconi – Balduzzi – Baracco – Bastianetto – Bellato – Belotti – Bencivenga – Benedettini – Bergamini – Bertola – Bertone – Bettiol – Bianchini Laura – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bubbio – Burato.

Caccuri – Caiati – Camposarcuno – Candela – Cappa Paolo – Cappi Giuseppe – Cappugi – Capua – Carbonari – Carboni Enrico – Carignani – Caronia – Carratelli – Castelli Avolio – Cavalli – Chatrian – Chieffi – Ciampitti – Ciccolungo – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Colitto – Colombo Emilio – Condorelli – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbino – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo.

Del Curto – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Michele Luigi – De Palma – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Dossetti.

Ermini.

Fabbri – Fabriani – Ferrario Celestino – Ferreri – Foresi – Franceschi – Fuschini.

Galati – Garlato – Giacchero – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Gronchi – Guariento – Guerrieri Filippo – Guidi Cingolani Angela.

Jervolino.

Lagravinese Pasquale – La Pira – Lazzati – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier.

Malvestiti – Mannironi – Marazza – Marconi – Martinelli – Mastino Gesumino – Mattarella – Mazza – Medi Enrico – Merlin Umberto – Miccolis – Monticelli – Montini – Morelli Luigi – Moro – Mortati – Murdaca – Murgia.

Nicotra Maria – Notarianni – Numeroso.

Pallastrelli – Pecorari – Perlingieri – Perugi – Piccioni – Pignedoli – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Raimondi – Rapelli – Restagno – Riccio Stefano – Rivera – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Roselli – Rubilli – Rumor – Russo Perez.

Saggin – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sartor – Scalfaro – Schiratti – Scoca – Spataro – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Taviani – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valmarana – Venditti – Viale – Vicentini – Villabruna.

Zerbi.

Si è astenuto:

Conti.

Sono in congedo:

Badini Confalonieri.

Campilli – Canepa – Caso.

Dominedò.

Geuna – Giannini – Gullo Rocco.

Jacini.

La Gravinese Nicola – La Malfa – Lucifero.

Micheli – Montemartini.

Paolucci – Parri – Perrone Capano.

Tremelloni – Tumminelli.

Zotta.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione ed invito gli onorevoli Segretari a procedere al computo dei voti.

(Gli onorevoli Segretari procedono al computo dei voti).

Risultato della votazione nominale.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione per appello nominale:

Presenti                  309

Votanti                   308

Maggioranza           155

Hanno risposto      146

Hanno risposto no   162

Astenuto                   1

(L’Assemblea non approva).

Il seguito della discussione è rinviato alla seduta antimeridiana di domani. Nella seduta pomeridiana di oggi sarà fissata l’ora d’inizio.

La seduta termina alle 13.15.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 17 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 17 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Sul processo verbale:

Rodinò Mario

Presidente

Codacci Pisanelli

Comunicazioni del Presidente:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Macrelli

Condorelli

Piccioni

Fuschini

Giolitti

Corbi

Interrogazione e interpellanza con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

DE VITA, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

RODINÒ MARIO. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RODINÒ MARIO. Credo di interpretare il pensiero di molti deputati che in questa Assemblea rappresentano le popolazioni meridionali, pregando lei, signor Presidente, affinché – data l’assenza dell’onorevole Sforza – voglia invitarlo a precisare e specificare che cosa egli nel suo discorso di ieri ha inteso di dire quando, dopo aver fatto richiamo all’assenza dell’onorevole Porzio dall’Aula, ha parlato di lunga corruzione degli uomini del Sud. A me sembra sommamente desiderabile ed opportuno che ogni sapore offensivo, ogni più lontana ombra di dubbio venga tolta a quelle parole, così poco opportune, perché offesa a delle popolazioni, le quali, mi sembra, hanno per il loro equilibrio, per la loro adattabilità e per il loro attaccamento al Paese, meritato più e meglio dell’apprezzamento dell’onorevole Sforza.

Data l’assenza dell’onorevole Sforza, prego lei, signor Presidente, di farsi interprete di questi sentimenti, che – ripeto – so condivisi da molti colleghi che rappresentano qui il Meridione d’Italia.

PRESIDENTE. Onorevole Rodinò, io non posso intervenire per eccitare l’onorevole Sforza a fare le dichiarazioni ch’ella desidera, ma poiché le sue parole chiarissime e cortesi sono registrate a verbale, l’onorevole Sforza ne prenderà visione, e si regolerà come crederà.

CODACCI PISANELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CODACCI PISANELLI. Ho chiesto di parlare sul processo verbale, anzitutto per esprimere quanto ha già espresso il collega Rodinò; e quindi non ho che da associarmi alle sue parole e a quelle del Presidente. Ritengo che il Ministro degli esteri sia andato oltre il suo pensiero, come egli spiegherà.

In secondo luogo – e non so se questo possa riferirsi al processo verbale, in quanto è anche questione di caso personale – debbo rilevare che non mi sembra corretto che sui giornali vengano pubblicati i resoconti relativi alle nostre sedute segrete.

Ho chiesto di parlare, in quanto la questione mi riguarda personalmente, perché leggendo l’Unità di stamane ho rilevato – e mi permetto di farlo presente – che vi si trova un appunto relativo alla nostra seduta segreta di ieri sera. Io non avrei mai esposto le conclusioni cui noi siamo giunti, se non fossero state rese pubbliche in questa maniera. Si legge tra l’altro:

«L’onorevole Codacci Pisanelli (d. c. riempiva quindi di sé la seduta con un discorso definito nobile, in cui, affermando di voler mantenere integro il patrimonio morale lasciatogli dagli avi, si dichiarava contrario a qualsiasi aumento di indennità. Dalla sinistra gli si faceva notare che, probabilmente egli alludeva al proprio patrimonio materiale, ammontante, a quanto si dice, a svariati miliardi.

«La Camera approvava quindi l’aumento delle indennità secondo la proposta discriminante fra ricchi e poveri, presentata da Scoccimarro: partiva quindi da sinistra una osservazione poco rispettosa sulla «integrità» dell’onorevole Codacci.

«Tutto sembrava finito, ma ancora si notava nella Camera un movimento di diffuso nervosismo. Destre e centro parlavano concitatamente e proponevano di riporre in votazione la proposta Scoccimarro: il che veniva fatto col risultato che la proposta veniva questa volta bocciata. L’aumento d’indennità verrà così corrisposto finalmente anche al miliardario Codacci Pisanelli».

Poiché non ho nulla da nascondere, ritengo opportuno far presente che il patrimonio lasciato dai miei genitori è costituito da 78 ettari di terreno e una casa, terreno che essi hanno lasciato ai loro undici figli, di cui sono stato tutore.

Quindi prendano atto gli informatori dell’Unità, che tanta correttezza dimostrano, che non sarò nemmeno toccato dall’imposta patrimoniale, perché la quota di ciascuno non raggiunge il minimo previsto dalla legge.

Questo tengo a far presente. E se non ho risposto all’accusa contro la mia integrità, è stato perché potevo ben dire a chi l’ha scagliata, cioè al capo del più disciplinato partito d’Italia: da che pulpito viene la predica!

Ho accennato alla terra. Non ho accennato alla casa, alla casa che, con il suo lavoro, mio padre ha potuto lasciare a noi perché, se qualcuno dei figli avesse voluto dedicarsi poi all’attività politica, non avrebbe dovuto approfittare della sua posizione di governo per farsi assegnare come abitazione ville… di Federzoni.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che gli onorevoli De Falco, Puoti e Vilardi non fanno più parte del Gruppo parlamentare dell’Uomo qualunque ed hanno chiesto di essere iscritti al Gruppo misto.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Passiamo allo svolgimento degli ordini del giorno.

Il primo è quello dell’onorevole Macrelli, del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente,

considerata la convenienza del sistema bicamerale;

ritenuto che – in coerenza con l’adozione dell’ordinamento regionale – la seconda Camera deve essere eletta su base regionale;

delibera

che il Senato della Repubblica sia costituito secondo i seguenti criteri:

1°) a ciascuna Regione sia attribuito, oltre ad un numero fisso di cinque senatori, un senatore per duecentomila abitanti;

2°) un terzo dei senatori assegnati a ciascuna Regione sia eletto dal Consiglio regionale ed il resto a suffragio universale;

3°) sia attribuita al Presidente della Repubblica la nomina di un ristretto numero di senatori (10-15);

4°) per l’eleggibilità a senatore sia fissata l’età di 40 anni;

5°) la libertà di scelta dei senatori non sia limitata mediante indicazione di categorie».

L’onorevole Macrelli ha facoltà di svolgere il suo ordine del giorno.

MACRELLI. Onorevoli colleghi, il mio ordine del giorno è così chiaro e preciso che credo non abbia bisogno di molte parole a commento.

Premessa naturale e logica, derivante del resto dai principî morali e politici cui si inspira la dottrina del partito repubblicano, è l’affermazione della convenienza, starei per dire, della necessità, del sistema bicamerale.

D’altro lato, non può disconoscersi che la tendenza comune a quasi tutte le Costituzioni moderne è ed è stata quella di affidare il potere legislativo a due Camere, anche se alcune hanno voluto dare una maggiore preminenza alla Camera dei Deputati in confronto alla seconda Assemblea.

Noi crediamo però che – data la natura e le finalità del potere legislativo – debba affermarsi la piena parità di poteri dei due rami del Parlamento.

Uguaglianza di diritti e di doveri per l’una e per l’altra Assemblea: è questione di giustizia civile, morale, politica.

Altra affermazione di principio contenuta nel mio ordine del giorno è quella che del resto noi abbiamo consacrato nella legge costituzionale. Noi abbiamo creduto di dare una nuova struttura e quindi una nuova fisionomia, un nuovo volto caratteristico alla Repubblica italiana nata dal libero voto e dalla libera coscienza popolare il 2 giugno 1946, attraverso la ripartizione della Nazione italiana in Regioni: principio, questo, nettamente democratico e starei per dire rivoluzionario. Quindi era opportuno, era politicamente esatto che noi per la seconda Camera fissassimo questo criterio della base regionale, ed io penso e credo che l’Assemblea Costituente sarà unanime o quasi nel riconsacrare quanto del resto aveva accettato la Commissione dei 75.

Leggo infatti nella relazione dell’onorevole Presidente Ruini queste parole: «Nella molteplice gamma delle varie soluzioni la Commissione è stata quasi unanime nello stabilire che la seconda Camera debba avere base regionale in rapporto alla nuova struttura che viene introdotta in Italia con la creazione dell’ente Regione».

Le Regioni quindi dovranno avere (noi accettiamo quello che la Commissione ha proposto) ciascuna un numero fisso di 5 senatori ed un senatore per 200 mila abitanti, e saranno i Consigli regionali a nominare almeno un terzo dei senatori. Ma è legittima la domanda che tutti quanti noi ci siamo posti ed alla quale abbiamo cercato di dare, a seconda del punto di vista politico da cui partivamo, una risposta aderente alla realtà, alle necessità del momento ed anche alla nostra fede: e per gli altri due terzi come si provvede?

Le soluzioni prospettate in seno alla Commissione furono varie, come varie sono state quelle che altri colleghi hanno esposto all’Assemblea. Certo noi avremmo voluto affermare una nostra idea, una idea che risponde a quelle che sono le condizioni particolari, speciali della vita politica italiana in relazione anche a quelle che sono state le norme ormai segnate nella Carta costituzionale attraverso le discussioni che abbiamo fatto e attraverso gli articoli che abbiamo approvato.

Un nostro valoroso collega, appartenente al Gruppo repubblicano, ebbe a contrapporre il nostro pensiero a quella che era stata la proposta venuta, se non erro, dai rappresentanti di un grande partito, il democristiano, i quali avevano accennato alla possibilità che il Senato fosse l’espressione della volontà dei Consigli comunali o dei collegi di consiglieri comunali.

Il collega Perassi, a questo proposito, pensava – insieme a noi, naturalmente – che invece questa delega per la nomina dei Senatori fosse affidata ai rappresentati eletti a suffragio universale in ciascun mandamento o circondario della Regione, scelti fra gli elettori iscritti nei Comuni, del mandamento o del circondario, in proporzione agli abitanti, secondo le modalità determinate dalla legge. Badate, non è un principio nuovo: è stato accolto anche in altre legislazioni, in altre Costituzioni. Le nostre Commissioni hanno creduto di superare questa proposta. Con ogni probabilità, in sede di emendamento, dovremo ritornare sul problema ed allora discuteremo; ognuno esprimerà la propria idea e l’Assemblea emetterà la sua decisione.

Aggiungo di più: noi avremmo preferito anche non dimenticare l’altra tendenza comune alle legislazioni moderne, quella cioè di assicurare una rappresentanza degli interessi economici. Dopo la prima guerra mondiale quasi tutti gli Stati si sono indirizzati verso questa tendenza. Se voi guardate alla lontana America, agli Stati Uniti – questa grande repubblica democratica – voi trovate, per esempio, persino che la Camera di commercio (dico la Camera di commercio) in un certo senso è considerata quasi come la terza Camera del Congresso, in cui altri organismi professionali, sindacali, culturali, hanno un’importanza veramente considerevole nell’opera legislativa. Ma noi abbiamo compreso le opposizioni, abbiamo sentito e sentiamo le difficoltà.

La stessa relazione della Commissione dei Settantacinque segna in proposito le seguenti parole: «la difficoltà di organizzare i necessari congegni e di ottenere una «dosatura» fra le varie categorie rappresentate ha consigliato la Commissione (e la Commissione consiglia noi) di accettare quel testo che è sottoposto al nostro esame ed alla nostra eventuale approvazione».

Gli altri due terzi del Senato dunque saranno eletti a suffragio universale e naturalmente, aggiungiamo noi, col sistema proporzionale. Noi abbiamo assistito in questi ultimi giorni ad una schermaglia fra il collega Lussu e l’eminente collega Porzio a proposito del collegio uninominale.

Mi si dice anche che qualche partito d’importanza nazionale, nel senso materiale della parola, e cioè partito di massa, abbia intenzione di insistere sul principio del collegio uninominale a proposito della nomina dei senatori.

Finora nessun emendamento, a questo proposito, è stato presentato, che io sappia. Sarà presentato a suo tempo e discuteremo allora la questione.

Fin da questo momento io vi dico che noi siamo contrari al sistema di elezione col collegio uninominale.

Il sistema poteva essere comodo ed utile, vorrei dire aderente alla realtà, in altri tempi, quando la democrazia, la vera democrazia, quella che noi intendiamo veramente espressione della coscienza e della maturità del popolo italiano, era semplicemente un mito, quando le elezioni costituivano soltanto la espressione, la vittoria, in certi casi, delle caste e delle classi. Oggi il Paese ha assunto altra fisionomia; dopo la prima e la seconda guerra, dopo il tormento sofferto, l’anima del popolo è ben diversa; i lavoratori sono entrati in pieno nella vita politica, nella vita nazionale, ormai sono diventati gli arbitri, devono essere gli arbitri della vita del nostro Paese. Ed è bene, allora, che anche i partiti, i quali sono espressione della coscienza popolare, dicano alta la loro parola, soprattutto quando si tratti di nominare i rappresentanti di un popolo nelle future Assemblee legislative, le quali dovranno continuare l’opera, che noi modestamente ma tenacemente abbiamo perseguito.

Quindi, non collegio uninominale, ma suffragio universale col sistema della proporzionale, sistema di democrazia e di giustizia, civile e politica.

Ma, nonostante queste mie parole, che vi potranno sembrare espressione dell’animo di un uomo un po’ idealista e sentimentale, il quale non dimentica la tradizione del partito cui appartiene, nel mio ordine del giorno ho segnato un’altra cosa, che non dovrà, io penso, portare un senso di meraviglia in voi, onorevoli colleghi.

All’articolo 55 del progetto di Costituzione si parla di Camera dei senatori. Io mi associo alle osservazioni e alle proteste fatte ieri dall’onorevole Nitti. Perché Camera dei senatori? C’è una tradizione italiana, romana e latina; c’è l’affermazione della volontà di tutti i popoli in materia costituzionale. Si è parlato sempre di Camera dei deputati, ma si è parlato anche sempre di Senato, e allora perché vogliamo proprio noi, in questa nostra nuova Costituzione, nella Costituzione della Repubblica italiana, parlare di Camera dei Senatori? Parliamo dunque di Senato e di Senato della Repubblica.

Dicevo dunque: la seconda Camera, il Senato della Repubblica, sia costituito secondo i seguenti criteri: 1°) a ciascuna Regione sia attribuito, oltre ad un numero fisso di 5 senatori, un senatore per 200.000 abitanti; 2°) un terzo dei senatori assegnati a ciascuna Regione, sia eletto dal Consiglio regionale ed il resto a suffragio universale. Ho detto in proposito il mio pensiero succintamente, tralasciando i particolari. Il Regolamento fissa in venti minuti il limite di tempo per svolgere un ordine del giorno. Mentre parlo guardo sempre il quadrante dell’orologio, ed ora stanno per scoccare i venti minuti e l’illustre Presidente sta per interrompermi, sebbene appartenga al mio Gruppo. (Si ride).

Onorevoli colleghi, nell’ordine del giorno c’è una proposta che credo finirete per approvare, anche se non è in relazione a quello che vi ho detto prima: sia attribuita al Presidente della Repubblica la nomina di un ristretto numero di senatori. Per acquietare poi le coscienze timorate di qualche collega o di molti colleghi, ho posto tra parentesi due cifre: 10-15. Deciderete voi, ma io ho voluto affermare il principio, soprattutto per una ragione: se per l’articolo 86 del progetto di Costituzione il Presidente della Repubblica nomina il Primo Ministro e, su proposta di quest’ultimo, nomina i Ministri, io penso che a maggior ragione egli possa avere il diritto di scegliere alcuni senatori.

Badate che io pongo questa mia proposta in relazione all’ultima parte dell’articolo 56 del progetto, la quale comprende una elencazione di categorie di persone tra le quali debbono essere scelti i senatori. Se guardate l’ultima parte del mio ordine del giorno troverete che io chiedo sia lasciata piena libertà di scelta per gli elettori; quindi nessuna indicazione di categorie; la nomina dei senatori non deve avere limiti di sorta. Noi pensiamo che i cittadini italiani possano e debbano nominarsi i loro rappresentanti secondo la loro coscienza e la loro fede, starei per aggiungere anche secondo il loro interesse. Ma la legge, e soprattutto la legge costituzionale, dopo aver affermato quei principî etico-politici, che noi già abbiamo consacrato, non può né deve porre limiti di nessuna specie.

Orbene se voi rileggete la confusa elencazione dell’articolo 56 (che non è, badate, solo indicativa, ma è tassativa), voi vedrete che esiste una lacuna, alla quale si è accennato incidentalmente anche stamattina in una discussione molto vivace svoltasi nell’Assemblea, ed è una lacuna a cui possiamo ovviare soltanto con la proposta che vi abbiamo fatto; noi pensiamo cioè che ad un certo momento il Presidente della Repubblica, cioè la più alta autorità dello Stato, possa scegliere alcuni senatori, almeno fra coloro che onorano la Patria con alte benemerenze scientifiche ed artistiche.

Leggete l’articolo 56, onorevoli colleghi, e guardate le categorie in elenco. Potremmo fare della critica e della facile critica, non dico demagogica, ma una critica che porterebbe alle mie parole il vostro consenso. Io mi fermo alla prima parte, ove è l’accenno ai decorati al valore nella guerra di liberazione 1943-45. E quelli della guerra 1915-18? Signori, io appartengo ad un partito, che ha dato dei volontari nelle Argonne ed in Serbia, nel Carso e nell’Isonzo: dovunque hanno pagato col loro sangue. Questi sono dimenticati. La guerra del 1915-18 non esiste per i nostri legislatori, non esiste per la Commissione dei Settantacinque.

Ora, noi non vogliamo qui stabilire rapporti tra categoria e categoria, tra persona e persona, tra classe e classe. Ecco perché, per una ragione superiore morale, diciamo: nessuna limitazione, nessuna elencazione.

L’articolo 56 deve parlare soltanto della composizione della Camera dei senatori o, meglio, del Senato della Repubblica, senza fissare limiti, senza stabilire norme per le categorie da cui i senatori si devono scegliere. E poi affidando al Presidente della Repubblica la prerogativa cui accenna il mio ordine del giorno, pensiamo di non urtare contro il principio della sovranità popolare; pensiamo anzi di dare una più alta espressione all’autorità, alla dignità del Capo dello Stato ed anche un maggior prestigio alla seconda Assemblea legislativa della Repubblica italiana. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Condorelli ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

affermata la necessità di uno Stato libero e forte, di un potere legislativo idoneo al sufficiente esercizio della sua funzione, di organi adatti ad assicurare l’equilibrio e la stabilità della vita costituzionale,

passa all’ordine del giorno».

Ha facoltà di svolgerlo.

CONDORELLI. Onorevoli colleghi, io appartengo alla non esigua schiera di coloro che, sebbene non sia di moda, hanno un profondo rispetto per la legge costituzionale che andiamo a sostituire, profondo rispetto per quella legge costituzionale che espresse il regime, l’ordinamento sotto il quale l’Italia, già divisa, serva dello straniero, poté assurgere all’unità, e nel giro di mezzo secolo divenire una grande democrazia protagonista di storia.

Io perciò con grande timore e tremore mi accosto a quella legge per osservarne le ragioni di conservazione e le ragioni di modificazione. Ma pur avendo uno stato d’animo simile, al cospetto di quella veneranda Carta costituzionale che ha retto il mio Paese per quasi un secolo, riconosco tuttavia che in essa, nel corso del processo costituzionale che si era svolto nel nostro Paese verso la fine del secolo scorso e poi nel primo ventennio del presente, si erano determinati tre difetti sostanziali, difetti per altro comuni a tutte le Costituzioni di quel tipo.

Il primo difetto è la inadeguatezza del potere legislativo alla sua funzione; il secondo è quello che sembra fatale, della instabilità del Governo; il terzo è quello di una disfunzione, di una incapacità che hanno questi apparati costituzionali ad esprimere delle garanzie sufficienti, adatte ad assicurare l’equilibrio e la stabilità della stessa vita costituzionale.

Io esaminerò, col consenso del Presidente, partitamente questi tre difetti. Cercherò di individuare i rimedi affrontati dal progetto contro di essi e li valuterò criticamente anche al fine di presentare qualche precisa proposta.

Il primo difetto è indiscutibile. I Parlamenti sono ormai divenuti incapaci alla funzione legislativa. Se qualcheduno fuori di qui potrebbe avere dubbi in proposito qua dentro nessuno potrebbe averne. E la ragione è ovvia: senza pensare ad una decadenza dei Parlamenti (eppure ci si potrebbe pensare), bisogna pur riconoscere che lo Stato nell’epoca moderna ha allargato immensamente la cerchia dei suoi fini e perciò della sua attività e perciò anche delle leggi che devono regolare questa attività in quanto diretta ai fini più varî. Perciò quel fenomeno che fu detto di elefantiasi legislativa, che esattamente non è elefantiasi perché non è una disfunzione, è la necessità di una più vasta, di un’immensa, di una ciclopica funzione. Lo Stato deve legiferare costantemente nella vita di oggi ed è evidente che non vi può essere Parlamento che possa seguire questo moto così veloce della legiferazione. L’onorevole Clerici nel suo notevolissimo discorso ci ha dato delle cifre, cifre assai significative, che tutti quanti conoscevamo se non nella esattezza numerica, nella evidenza del fenomeno.

I Parlamenti non possono assolvere tutti i loro compiti legislativi ed allora è chiaro che i Parlamenti così come sono costituiti sono incapaci a legiferare.

Che rimedio si era trovato? Il rimedio si era trovato sotto il precedente regime costituzionale: le deleghe legislative sempre più vaste, e i decreti-legge. Dico subito che erano espedienti. Malgrado lodevoli sforzi della dottrina, non era facile dimostrare che la delega legislativa ed il decreto-legge potessero andare d’accordo con la lettera dello Statuto. Ma c’era la necessità, l’impossibilità di fare diversamente, e, giustificati sotto formula scientifica più o meno esatta, avevano prestato un fondamento giuridico a questa realtà di fatto inoppugnabile.

Che cosa si è fatto nel progetto? Si è fatto, anzi si è progettato, il nobile tentativo di restituire integralmente ai Parlamenti la funzione legislativa, al punto che si prevedono soltanto le deleghe legislative, ma per casi e tempi determinati, escludendo perciò, implicitamente, le deleghe generali e si escludono, col silenzio, i decreti-legge. Si discuterà forse dai futuri, se il progetto passerà, se e come il decreto-legge è stato abolito.

Io penso che formalmente sarebbe abolito, perché quando la nuova legge non prevede un istituto già esistente, già riconosciuto e regolato con legge, bisogna dire che, col totale riordinamento della materia, ha voluto abolire quell’istituto. Ma sono sicuro che la prassi prima, la dottrina poi, ridaranno vita al decreto-legge, perché non è possibile farne a meno.

Ed allora, tanto vale prevederlo senz’altro: prevediamo il decreto-legge e discipliniamolo in modo che non si possano verificare degli abusi. Prevediamo che in caso di guerra, di pubblica calamità, in materia fiscale, quando vi sia grave pericolo di un ritardo, il Governo ha la facoltà di emettere norme giuridiche aventi valore di legge, salvo la presentazione al Parlamento entro un brevissimo termine.

E poi, bisogna finalmente decidersi ad adottare un sistema attraverso il quale i Parlamenti possono salvare la loro funzione legislativa: quello delle commissioni. I Parlamenti in seduta plenaria non possono legiferare; possono legiferare soltanto quelle poche volte in cui è proprio necessario legiferare in questa forma. Ma io non vedo quale esigenza di democrazia si oppone a che leggi ordinarie, leggi che non presentino un profondo interesse politico o costituzionale, possano essere votate da commissioni costituite proporzionalmente alla formazione dei vari partiti rappresentati in un Parlamento.

Si potrebbe anche stabilire una serie di materie nelle quali non è possibile adottare questo sistema: nella serie rientrerebbero certamente la materia costituzionale, la materia fiscale e la legge di approvazione del bilancio.

Si potrebbe anche stabilire che, ove nelle commissioni non si raggiungessero certe maggioranze, vi fosse la possibilità di un esame plenario-da parte della Camera. Ma, indubbiamente, il sistema ordinario di formazione della legge deve essere quello delle commissioni, altrimenti il Parlamento, per voler molto fare, per voler rivendicare a sé la funzione legislativa, la perderà totalmente.

Un’altra deficienza, come accennavo, nel nostro ordinamento costituzionale, è stata quella dell’instabilità dei governi. È inutile illustrarla; è risaputa, anzi si può dire che è questa la crisi permanente di un certo tipo di Stati.

Ora, certamente, i redattori del progetto si sono preoccupati di questo inconveniente ed hanno avvisato per combatterlo dei sistemi, o meglio dei piccoli accorgimenti. E trovo strano che si sia financo protestato perché si è stabilito che per presentare una mozione di sfiducia è necessaria l’adesione di tanti deputati che costituiscano il quarto dei componenti la Camera. Io penso che una mozione che abbia un qualsiasi fondamento, che abbia una qualsiasi rispondenza alla situazione obiettiva delle cose e che abbia anche una rispondenza a quelle che possono essere le speranze di una sua affermazione, troverà facilmente un quarto dei deputati che vi aderiscano; non si muove all’attacco di un Governo se non si è perlomeno sicuri, in partenza, dell’adesione della quarta parte dei deputati. Poi, strada facendo, si potranno trovare gli altri; ma che all’inizio di un’azione di questo genere non si possa disporre di questo quarto, può essere prova della capricciosità, della tatticità inutile di una mozione, ed è giusto che essa non sorga a turbare la vita del Paese.

Un altro accorgimento che si è escogitato è quello del diritto di appello che avrebbe il Governo all’Assemblea Nazionale; ove, infatti, non si volesse rassegnare al voto di sfiducia di una delle Camere, un articolo del progetto prevede che il Governo possa appellarsi all’Assemblea Nazionale, cioè ai due rami del Parlamento riuniti. Questo accorgimento è veramente discutibile, perché tutto dipende da come sarà formato il Senato: vogliamo chiamarlo senz’altro così perché è pensabile che la nuova denominazione avrà la vita stessa del progetto. Se infatti si parla di senatori, è chiaro che vi debba essere un Senato, senza del quale non vi potrebbero essere i senatori.

Tutto dipende dunque, dicevo, da come questo Senato sarà formato. Se questo Senato sarà, come è stato previsto nel progetto, quasi un doppione della Camera dei Deputati, nulla di male che queste due Camere, come dicevano i pubblicisti del Cinquecento, si raccozzino insieme. In fondo, c’è da supporre che isolatamente ognuna delle due Camere voterebbe come voterà il complesso delle due insieme, perché lo schieramento delle forze nei due rami del Parlamento sarà pressappoco eguale.

Se però si introducessero alcuni o molti dei criteri di nomina dei senatori che si vanno proponendo, talché il Senato non sarebbe, nella sua composizione, omogeneo con l’altra Camera, questo raccozzamento non sarebbe possibile perché non si possono sommare valori eterogenei. È chiaro infatti che la rappresentatività della volontà espressa dalla Camera dei Deputati eletta a suffragio popolare non sarebbe omologa con la rappresentatività della volontà espressa da questo corpo che non è completamente elettivo e comunque non poggiato sul suffragio universale.

Io non posso per altro riconoscere che questi accorgimenti abbiano risoluto il problema: al contrario, questo grave problema della instabilità dei Governi rimane aperto. Saranno probabilmente i futuri legislatori che lo potranno risolvere o forse, lo potrà il costume politico. Si sarebbe potuto pensare ad un Capo del Governo eletto o dal popolo direttamente o dalla Camera elettiva: eletto per un determinato numero di anni. Ma allora sarebbe stata necessaria l’esistenza di un Capo dello Stato – se non si fosse voluto arrivare ad una repubblica presidenziale, perché in Italia questa è da tutti generalmente esclusa – di un Capo dello Stato, dicevo, che avesse tali poteri da poter garantire la stabilità della Costituzione di fronte al grande vigore del Capo del Governo che potrebbe divenire pericoloso per l’equilibrio della Costituzione. Ma non sono riforme, queste, che entrino nell’orizzonte attuale della nostra politica. Il problema, ripeto, rimane insoluto e temo che sia la tabe che comincerà a rodere il nostro edificio costituzionale nel momento stesso in cui lo facciamo nascere. Noi ci dobbiamo dichiarare impotenti, o per lo meno constatare che il progetto, per il sistema adottato, è impotente a risolvere questo, che era forse il problema più importante della Costituzione. Sarà stata colpa più degli eventi che degli uomini, ma il fatto, obiettivamente, è certamente questo: il popolo italiano si attendeva soprattutto un Governo stabile, un Governo che governasse. Da questa Costituzione, fondata per giunta sul suffragio universale proporzionale – parlo essenzialmente del proporzionale – non potranno venir fuori in nessun caso dei Governi stabili che possano esplicare una duratura, e così solo efficace, attività. Chi diventa Ministro, prima che si impossessi delle fila dell’Amministrazione, deve prepararsi a sgombrare i cassetti e a lasciare il posto al successore.

Vi è poi il terzo difetto, che il progetto ha ereditato in pieno dalla Costituzione precedente, così come si era conformata nell’ultimo periodo della nostra vita pubblica: quello dell’instabilità e del disquilibrio della nostra vita costituzionale. È da tutti risaputo che la Costituzione albertina aveva predisposto un sistema rappresentativo puro, che viceversa fu immediatamente applicato come un sistema rappresentativo parlamentare. Le spiegazioni dottrinali dell’instaurazione di questo diverso sistema sono varie, ma sulla diagnosi non vi è dubbio; vorrei dire, sulla classificazione di questo sistema. Indubbiamente si era instaurato in Italia un sistema rappresentativo parlamentare nel quale domina questa caratteristica: la preminenza del Parlamento nella direzione della vita politica del Paese. Il Parlamento, anzi, la Camera elettiva, è chiamata a stabilire l’indirizzo della politica dello Stato e del Governo, e a sorvegliarne l’applicazione. Il Senato, la Corona, che prima erano elementi costitutivi della volontà statuale a titolo uguale, per lo meno nella teorica dello Statuto, colla Camera elettiva, si trasformarono da elementi frontistanti, cooperanti alla pari, in elementi di controllo, in vere e proprie garanzie costituzionali, dirette proprio a garantire la stabilità e l’equilibrio della vita costituzionale; ma l’indirizzo, la volontà decisiva, era certamente la volontà della Camera dei deputati.

Ora, è curioso guardare e le origini e il movimento e la direzione e i risultati ottenuti da questa evoluzione del principio democratico. Avvenne che proprio per l’azione del principio democratico vennero a mano a mano vuotandosi di potere quegli altri due organi che dovevano funzionare da controllo; ed allora mancarono quelle tali garanzie di stabilità che la legge pure avvisava. E sarebbe bastato – come bastò – che un partito o il capo di un partito, si impossessasse in un modo qualsiasi della maggioranza parlamentare, perché la Costituzione venisse immediatamente trasformata, perché lo Stato libero e costituzionale tramontasse da noi. È noto come ciò avvenne: la dittatura in Italia non fu instaurata con la marcia su Roma, e su questo siamo tutti d’accordo; ed io sostengo che non fu neanche instaurata nel gennaio 1925, fu instaurata con la legge elettorale del 1923, con quella legge elettorale che consegnò la Camera dei Deputati e per sempre, al partito fascista.

Che cosa potevano fare le garanzie costituzionali di fronte ad un simile voto della Camera dei deputati, che era Camera eletta nel 1921, in piena democrazia, con sistemi democratici? E il Senato avrebbe potuto dire no a quella legge, o lo avrebbe potuto dire la corona?

Evidentemente tutto ciò era fuori di ogni possibilità, non solo politica ma giuridica, proprio perché le garanzie di stabilità della nostra vita costituzionale erano state cancellate dallo svolgimento avuto dal processo della democrazia. E non è la prima volta che, dando luogo ad un fenomeno di eterogenesi dei fini, le tendenze verso una certa meta raggiungono meta assolutamente opposta.

Che cosa ci sarebbe voluto per impedire tutto ciò? Una Costituzione rigida ed un organo capace, non soltanto in diritto ma anche di fatto, di farla rispettare, un organo che avesse il potere non solo giuridico, ma anche reale, di fare rispettare la Costituzione.

Viceversa noi avevamo che un postulato della democrazia, in nome della libertà, era appunto la Costituzione flessibile; che un altro postulato della democrazia era la riduzione del potere regio e l’accentuarsi invece del potere proveniente dalla base, proveniente dal popolo.

Allora voi vedete come proprio due conquiste della democrazia furono la causa del seppellimento della democrazia in Italia.

Ora, noi che cosa abbiamo fatto di fronte a questa dura lezione della storia? Abbiamo avvisato le garanzie costituzionali, dirette ad affermare la stabilità di questa Costituzione, che pure abbiamo fatta e voluta rigida? A me pare assolutamente di no.

Io non ripeterò qui, perché lo sciuperei, quello che disse il comune maestro Vittorio Emanuele Orlando in un discorso pronunciato in quest’Aula in sede di discussione generale sulla Costituzione. Egli vi ha dimostrato con l’evidenza come, data questa Costituzione, noi marciamo con la massima facilità verso un totalitarismo; perché in sostanza questa Camera dei deputati è espressione del popolo (ed è giusto che lo sia), ma essa non trova nessun contrappeso nel Senato che pur si è voluto (si è adottato il bicameralismo, proprio per questa ragione); ma il Senato non potrà assumere nessuna funzione equilibratrice perché è composto su per giù come la camera dei Deputati, in esso si agitano le stesse forze e le stesse tendenze. Esso, ad un determinato momento, al momento della frana, sarà un materiale che accrescerà la valanga!

Si è provveduto – come si doveva provvedere necessariamente – a porre un Capo dello Stato, che dovrebbe essere un’altra garanzia della Costituzione? Ma sì: intanto esso non ha il prestigio di un re.

Beh, gli amici repubblicani non riconoscono il prestigio di un re, ma le folle, le masse, in genere lo riconoscono. I risultati del recente referendum, che appaiono quasi per metà favorevoli alla monarchia, furono, proprio secondo la tesi repubblicana, effetto del prestigio della monarchia; poiché non li volete attribuire ad un cosciente convincimento monarchico, dovete attribuirli alla sentimentalità delle masse. Indubbiamente sulle masse agisce ed ha sempre agito questo prestigio della monarchia.

Voi, dunque, avete nel progetto un Capo dello Stato che non ha il prestigio della monarchia, e non ha neanche i poteri giuridici sufficienti. Avete detto, nel progetto, che il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale. È un errore giuridico. Non la rappresenta, perché la differenza fra la Monarchia e la Repubblica è proprio questa: che il Re non è rappresentativo di una Camera o di un corpo, mentre invece il Presidente della Repubblica è rappresentativo dell’Assemblea, del corpo che lo elegge. Il Presidente della Repubblica, è rappresentativo dell’Assemblea Nazionale…

Una voce a sinistra. E del popolo…

CONDORELLI. No, secondo il sistema del progetto è rappresentativo soltanto dell’Assemblea, quindi non è affatto rappresentativo dell’unità nazionale. Non la rappresenta dunque giuridicamente e non la rappresenta neanche storicamente, perché evidentemente fra un Presidente della Repubblica e la Nazione manca quel nesso storico ed organico che avvince una dinastia al suo popolo. Non c’è rappresentanza né giuridica né storica. Rimane, quella in discorso, una affermazione vuota che vorrebbe creare il mito, l’aureola attorno alla testa del Capo dello Stato, ma non ci può riuscire. È contro tutta quanta la realtà. Io mi sforzo di mantenermi in un ambiente teorico e scientifico…

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, mi duole che io debba farle osservare, proprio a questo punto, mentre cioè sta facendo propaganda monarchica… che ella ha da tempo superato i venti minuti.

CONDORELLI. Io faccio osservare che mi ero iscritto a parlare prima, poi si chiuse la discussione per quel fenomeno di ghigliottina…

PRESIDENTE. No, onorevole Condorelli, non usi questa espressione. Non erano presenti i deputati iscritti.

CONDORELLI. Non era assolutamente una censura alla Presidenza che volevo fare, signor Presidente. Avvenne di fatto così. Ma ebbi l’assicurazione dalla Presidenza che io avrei potuto svolgere ugualmente il mio pensiero. Del resto non chiedo molto tempo ed assicuro la Camera che sono alla fine.

RUSSO PEREZ. È bene che un Presidente repubblicano conceda più dei venti minuti regolamentari ai monarchici.

CONDORELLI. Dunque io dicevo questo: il Capo dello Stato non ha il prestigio di un monarca, non è niente affatto un rappresentante dell’unità nazionale…

Una voce a sinistra. Che cosa rappresenta?

CONDORELLI. È soltanto un magistrato.

Ha il comando delle Forze armate, ma un comando che non potrà mai esercitare neanche formalmente, neanche in apparenza, per la sua preparazione civile e politica.

Voci. E il re?

CONDORELLI. Lasciamo andare. Comunque l’ascendente che questi re avevano sulle Forze armate era notevolissimo e fu essenziale anche nella guerra di liberazione.

Avete tolto al Capo dello Stato il potere di sanzionare le leggi. Qualcuno con la solita mentalità giacobina, che guarda le cose secondo la logica formale e appunto perché formale non tocca la concretezza delle cose e perciò erra, ci dirà: «ma che cosa è in pratica questa sanzione? Il re non la rifiutava mai». Dio mio! Ma ci sono dei freni repressivi e ci sono dei freni preventivi. Questa sanzione del re, che non poteva mai mancare, era comunque un freno preventivo. Si inducevano le Camere, per lo meno sotto l’aspetto della contingenza politica, a non andare al di là di certi limiti oltre i quali non si poteva sperare la sanzione sovrana. Ed allora questo valeva per limitare il debordamento, se non per impedirlo.

La sanzione affidata al Capo dello Stato potrebbe avere questa funzione. Invece lo si è totalmente estraniato dalla funzione legislativa, che è poi la funzione più augusta dello Stato.

Forse si pensa di poter affidare la funzione di equilibratrice e di garante della Costituzione a quella famosa Corte Costituzionale, che è una delle grandi novità del Progetto. Se c’è qualcuno che s’illude che questa onorata riunione di avvocati, di professori e di magistrati, scelta proprio dal Parlamento che dovrebbe controllare, possa fermare domani un travolgimento costituzionale, io non posso che dolermi e condolermi con lui: è fuori della realtà. Potrà annullare qualche legge di secondaria importanza, così, come qualche tribunale dichiara incostituzionale una legge. D’ora innanzi lo farà questa Corte altissima, il più delle volte per rinvio da parte della magistratura ordinaria; ma credere che essa possa esercitare la funzione di stabilizzatrice della Costituzione è una utopia, è un assurdo.

Credetelo pure, la vita moderna è controsegnata da un fenomeno che io chiamo: Stato di masse, non in senso dispregiativo, ma in senso positivo; perché nell’epoca moderna le masse sono penetrate nella cittadella dello Stato. Ed è bene che sia così, perché da ciò non può non accrescersi la forza dello Stato. Però gli Stati di masse, i partiti di masse, le masse, hanno una tendenza – sociologicamente constatata – a produrre dei dittatori, e questo si dimostra storicamente e logicamente.

Si dimostra storicamente perché tutti i dittatori, da Giulio Cesare a Stalin o Mussolini, sono capi di grandi partiti popolari. Si dimostra logicamente, perché è chiaro che le masse non possono governare direttamente; non possono governare che attraverso il capo che più facilmente si esprime dalle masse, perché trova meno rivali. Viceversa le altre classi, gli altri partiti, si esprimono in oligarchie, che poi sono le avversarie naturali di queste dittature; tanto è vero che queste dittature sorgono abbattendo le oligarchie e cadono sotto il pugnale di Bruto che è espressione non di democrazia ma di oligarchia.

È questa la lotta continua – per legge sociologica – fra dittatura e oligarchia. Tutto sta a creare delle oligarchie, delle «élites» – come direbbe Pareto – legittime, che siano cioè, espressione della volontà e dell’interasse popolare; se no, non c’è altra via che la dittatura. Sono questi dittatori che riescono ad essere e a far credere di essere i ministri dell’interesse del popolo. Quale rimedio c’è? C’è un solo rimedio contro questo fenomeno ricorrente nell’età moderna: il Capo dello Stato che attinga il suo potere non dallo stesso principio da cui lo attinge il capo del partito di massa, ma dalla legge…

Una voce a sinistra. Divina!

CONDORELLI. …dalla legge stessa, dalla legge umana, investito direttamente dalla Costituzione, come ogni re moderno è rex ex lege. Un Capo di Stato, che esprima non un corpo, non un partito, non una massa, ma lo Stato unitariamente inteso, come volontà di diritto, e fornito di poteri reali, adeguati ai poteri formali e giuridici.

Riconosco che questa Camera non poteva creare un Capo dello Stato così fatto. Ma perciò, a mio avviso, ha fallito al suo compito.

Vi sono dei rimedi? No. Vi sono degli attenuativi, dei palliativi, degli espedienti, che suggerisco, così come la mia modesta indagine me li ha potuto suggerire. Appartenendo ad uno schieramento opposto, non avrei nessun interesse a collaborare alla formazione di questo istituto, ma in me grida soprattutto il sentimento di devozione allo Stato; e non posso volere che trionfino i miei ideali politici attraverso una catastrofe. Comunque, io vi suggerisco quello che, secondo il mio sincero convincimento, potrebbe attenuare questo difetto indiscutibile della nostra Costituzione.

Voi credete di non poter attribuire al Capo dello Stato il potere di sanzionare le leggi. Però, indubbiamente, se ne può attribuire uno, che, del resto, è già attribuito, in un certo senso, al Capo dello Stato.

Un articolo del progetto prevede che, quando esista disparere fra le due Camere – perché una respinga o comunque non approvi quello che l’altra ha votato – è possibile che il Capo dello Stato senta il popolo, perché dirima il contrasto verificatosi. Perché non attribuire al Capo dello Stato la facoltà di appellarsi al popolo? Anzi, non di appellarsi (perché non è necessario che ci sia un notamento di censura), di sentire la volontà del popolo, di fronte ad una legge, votata dai due rami del Parlamento, che gli lasci dei dubbi. Sarebbe un correttivo molto efficace; uno di quei tali freni preventivi; avrebbe quasi quella funzione pedagogica, che tante volte abbiamo invocato in questa Costituzione; renderebbe le Camere più attente nella interpretazione della volontà popolare, perché potrebbero temere la sanzione politica dell’annullamento di una legge da esse votata. E non mi pare che la democrazia sarebbe minimamente scalfita da una disposizione di questo genere, perché l’appello è all’origine del potere, è proprio al popolo.

Un altro rimedio è quello del Senato.

È veramente interessante come i partiti, che coscientemente o nel sub-cosciente sono totalitari – ritengo nel sub-cosciente, perché coscientemente totalitario non è nessuno in questa Camera – sono contrari sia ai poteri del Capo dello Stato, che vorrebbero ulteriormente ridotti, sia a questa seconda o prima Camera.

Ora, a mio giudizio, questa seconda Camera ormai non si può più discutere, quale che fossero in partenza le opinioni, perché c’è un fatto compiuto, che è quello delle Regioni. Si dice che in uno Stato federale il Senato è una esigenza di fatto: deve esserci necessariamente. Forse non abbiamo fatto uno stato federale ma soltanto regionale, che però si differenzia dallo stato federale solo per alcune sfumature. Noi non possiamo però, adesso, fare a meno di dare il completamento necessario, quale che sia stato il nostro atteggiamento di fronte al problema delle autonomie regionali, e di approvare necessariamente questa Camera delle Regioni o Senato. E dico che in fondo è anche bene che si sia trovata nel sistema questa ragione per dare una specifica funzione al Senato, che altrimenti forse ne sarebbe stato privo. Il Senato dovrà funzionare essenzialmente come Consiglio, come Camera delle Regioni, perché sarebbe invanito questo ordinamento regionale che si esaurirebbe alla periferia, se non avesse l’organo della sua difesa e della sua direzione proprio nell’organismo costituzionale centrale. Cosa se ne farà questa Regione dell’autonomia in materia di caccia, di pesca, di insegnamento professionale e tecnico, di urbanistica, magari anche in materia finanziaria, quando c’è un articolo 37 della Costituzione già approvato, che dice che con leggi si possono stabilire i programmi economici, cioè si può determinare la politica economica dello Stato?

Tutti noi sappiamo qual è l’origine vera della sperequazione tra regione e regione, tra Nord e Sud: è proprio la politica economica dello Stato. Non vi pare ora provvidenziale che al centro ci sia un elemento che possa autorevolmente intervenire in questa materia? Bisogna, secondo me, visto che le Regioni ci sono, che ci sia proprio per legittima difesa di queste Regioni, proprio nell’ambiente nel quale è necessario difenderle (come ci dimostra una triste esperienza ormai vecchia), questo organo essenzialmente destinato alla difesa economica delle Regioni, più che alla difesa costituzionale. Base regionale, dunque, del Senato, che darà funzione, vigore ed autorità al Senato, che altrimenti non ne avrebbe nessuna. E poi nulla esclude che a questo principio di rappresentanza regionale si possa anche associare il principio della rappresentanza di interessi: potrebbero benissimo essere combinati ed associati. Così avremmo creato un organo che ha funzioni sue, che gli darebbero tono e forza.

Io, onorevoli colleghi, ed ho finito, credetemi, contrariamente a quanto ha pensato il Presidente, sono stato mosso a queste mie osservazioni esclusivamente dal sentimento della devozione al mio Paese, che voglio ordinato in uno Stato libero e forte. È soltanto questo che mi ha diretto ed ha ravvivato questa mia volontà, nel momento in cui per effetto del deposito delle ratifiche che hanno dato un apparente crisma di legalità al protocollo di Parigi, si affondano i ferri di questi moderni Shylock nelle carni vive del popolo italiano. Noi, o colleghi, siamo italiani e proprio per vocazione nazionale, che ebbe sì alta espressione in Giuseppe Mazzini ed in Pasquale Stanislao Mancini, aspiriamo ad un mondo in cui col rispetto di tutte le parti, compresa la nostra, abbia finalmente pace questa umanità martoriata ed abbia fine il calvario della Nazione italiana. Ma se ciò non potesse avvenire, se questo sogno atavico della nostra stirpe non si dovesse verificare, non pensi alcuno che possano stabilmente essere separati da noi i nostri fratelli, quelli che fanno parte organicamente di questa Nazione italiana, che fra qualche anno sarà composta di 50 milioni di uomini, volitivi e coscienti. Noi, di fronte a questa tragedia, abbiamo un dovere preciso: creare uno Stato forte e libero, organizzare una società nazionale giusta e concorde, per la quale sia dolce e santo vivere e morire, potenziare la nostra cultura, ciò che possiamo e dobbiamo, secondo lo spirito universale di San Francesco, di Dante, di Galileo, in modo che si accresca in tutti gli italiani, al di qua ed al di là delle frontiere, l’orgoglio ed il desiderio della Patria. E questo sarà la garanzia del nostro avvenire, il pegno della sola riscossa che noi vogliamo. Incominciamo oggi, creando quello che a noi è demandato: uno Stato libero e forte. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Piccioni ha presentato il seguente ordine del giorno firmato anche dall’onorevole Moro:

«L’Assemblea Costituente,

considerato che l’esistenza di una seconda Camera accanto a quella eletta a suffragio universale indifferenziato risponde alla necessità di integrare la rappresentanza politica, in modo che essa rispecchi la realtà sociale nelle sue varie articolazioni e tutti gli interessi politicamente rilevanti ed assicuri inoltre al lavoro legislativo, divenuto sempre più tecnicamente qualificato, il concorso di speciali competenze,

ritiene

che queste finalità si raggiungono, chiamando a partecipare alla seconda Camera i gruppi, nei quali spontaneamente si ordinano le attività sociali;

che tale rappresentanza deve essere realizzata – secondo un criterio di ripartizione a base territoriale regionale – con metodo democratico, mediante elezioni a doppio grado alle quali concorrano tutti gli appartenenti alle categorie sociali e in modo da promuovere la coordinazione degli interessi dei gruppi con l’interesse generale;

che la ripartizione dei seggi deve obbedire di massima al criterio della proporzione con l’entità numerica delle categorie ed insieme a quello della maggiore responsabilità del lavoro qualificato».

Ha facoltà di svolgerlo.

PICCIONI. Onorevoli colleghi, della vasta materia dei tre Titoli del progetto di Costituzione che sono in discussione, voglio limitarmi a considerare soltanto il problema della seconda Camera che è un problema, come è stato già detto da più parti, per molti aspetti di particolare e vitale importanza per il nuovo ordinamento democratico che noi stiamo costruendo.

Io credo di potervi risparmiare qualsiasi dissertazione intorno alla necessità, alla opportunità e convenienza del sistema bicamerale, perché se è vero che ci fu in seno alla Sottocommissione una discussione piuttosto animata anche a questo riguardo, nella discussione generale, che è avvenuta qui in questi giorni, mi pare che non vi siano state forti opposizioni, se non forse quella dell’onorevole Lussu, il quale mi pare che un po’ improvvisamente si sia convertito al sistema unicamerale.

LUSSU. L’ho sempre sostenuto in sede di Sottocommissione; solo che gli altri erano in maggioranza.

PICCIONI. Mi pareva che nella Sottocommissione fosse stato proposto dall’onorevole Lussu uno speciale ordine del giorno, che prevedeva la seconda Camera come Camera delle Regioni.

LUSSU. Era una proposta subordinata.

PICCIONI. In ogni modo, è inutile polemizzare, mi pare, a questo riguardo poiché le opposizioni si riducono, con tutto il riguardo verso l’onorevole Lussu, a ben poca cosa dal punto di vista della valutazione del progetto medesimo.

Ora, perché si ritenga in una democrazia moderna necessaria anche la seconda Camera, non starò a ripeterlo; lo ha illustrato ieri l’onorevole Ambrosini molto acutamente e lo stesso onorevole Nitti ieri, ed altri, ne hanno parlato.

Le ragioni sostanziali che militano a favore della seconda Camera si possono restringere a queste tre: la prima è quella di garantire l’equilibrio ed una certa integrazione del potere e della funzionalità della prima Camera; la seconda è quella di concorrere con una più ponderata competenza tecnica ed una maggiore maturità di esperienza alla elaborazione legislativa; la terza è quella di contribuire in qualche modo a risolvere il delicato problema di una maggiore stabilità del Governo parlamentare.

Ora, se si tengono presenti queste tre ragioni fondamentali, bisogna d’altra parte cercare di comporre, di formare la seconda Camera in modo tale che le ragioni che la giustificano trovino una seria applicazione, altrimenti, se non si riesce a dare alla Camera una composizione ed una funzionalità tale che possa seriamente rispondere a queste necessità sostanziali, si ricade in quello che si voleva evitare in partenza, cioè nell’aggravare in certo modo il difetto della Camera unica. Ed il criterio quindi che ci deve orientare nell’indagine, nell’esame della composizione della seconda Camera è precisamente questo: di non ricadere in un bis in idem della prima. Le difficoltà, evidentemente, ci sono e numerose, specialmente in un ordinamento che vuole essere genuinamente, autenticamente democratico. Non bisogna tuttavia farsi impressionare troppo dalle difficoltà medesime per ricadere, con un certo semplicismo e con una certa facilità, nel modo di composizione della prima Camera applicato anche alla seconda.

A me pare che dopo le lunghe discussioni che si sono avute in seno alla seconda Sottocommissione ed alla Commissione dei Settantacinque, per quanto si sia cercato di affrontare le difficoltà di una diversa, di una più differenziata formazione della seconda Camera, ci si sia poi lasciati impressionare, per ricadere, come è detto nel progetto, presso a poco nello stesso modo di formazione della prima Camera.

Ora, io ripeto quello che, con scarsa fortuna, avevamo detto in seno alla seconda Sottocommissione: che tenuta presente la necessità di un sano ordinamento democratico, di un ordinamento democratico non inteso in senso astratto, formalistico, che abbia come fondamento il suffragio universale che si esprime nella prima Camera, non ci si deve rifiutare di integrare il suffragio universale stesso con quelle altre forme di rappresentatività della struttura sociale moderna che hanno un peso forte, decisivo nella vita della collettività, dal punto di vista sociale ed anche dal punto di vista politico. Il suffragio universale va integrato attraverso una forma rappresentativa della stessa volontà popolare, non intesa come somma delle volontà individuali – così come è stato sempre inteso il suffragio universale ed i suoi risultati – ma come espressione di una volontà più organica, sia pure del popolo, veramente operante nella vita nazionale, volontà organica che si inquadra in certi gruppi, in certi nuclei, in certe categorie, che portano un peso veramente decisivo nella funzionalità della vita collettiva e nell’evoluzione stessa della vita sociale, dal punto di vista economico, dal punto di vista morale e politico.

Con questo, noi diciamo che per la seconda Camera (per non ripetere sempre questa parola è meglio parlare di Senato, perché, come giustamente osservava l’onorevole Nitti, non ha senso, ha un senso un po’ forzato il nome di Camera dei senatori da contrapporre alla Camera dei deputati, perché si sa cosa voglia dire Camera dei deputati, ma non si capirebbe quello che vorrebbe dire Camera dei senatori, in quanto senatore viene da Senato), noi proponevamo, non come affermazione di un principio programmatico nostro – ciò che può avere un po’ allarmato taluno dei nostri amici di altri partiti – ma come espressione di una esigenza sociale moderna, di costituire il Senato come rappresentativo di interessi politicamente rilevanti, interessi che si esprimono attraverso certe categorie sociali che hanno un peso decisivo nella vita collettiva.

Tutto questo da alcuni è stato inteso come non so quale tentativo di conservazione sociale ed economica, da altri come una riviviscenza appena larvata del corporativismo fascista.

L’accusa di conservatorismo economico e sociale è del tutto infondata. Io ho qui la relazione che per la riforma del Senato fece Francesco Ruffini insieme ad altri illustri senatori nel 1919-20, quando si sentiva, fin d’allora, la necessità di dare al Senato una funzionalità ed una rispondenza con le esigenze della vita moderna, che anche allora il Senato aveva scarsamente mostrato di possedere. Ebbene, in questa stessa relazione fatta da un eminente rappresentante del liberalismo italiano come Francesco Ruffini, vi sono due o tre capitoli che parlano della riforma del Senato dal punto di vista della rappresentanza degli interessi e delle categorie. E non è una trovata – per quanto altissimo e nobilissimo fosse l’ingegno di Ruffini – ma in detta relazione si rifà accuratamente la storia di tutti gli studi, di tutta la letteratura vastissima che in materia si era venuta sviluppando negli ultimi anni precedenti al regime fascista.

Ebbene, la riforma del Senato o la costituzione di una seconda Camera, concepita come espressione rappresentativa di interessi socialmente e politicamente rilevanti, era un postulato delle sinistre più avanzate e democratiche: ricorse recentissimamente qui, fra gli altri, il nome di Vandervelde che mi pare sia stato il Capo del socialismo belga. Ed anche in Italia ci fu un ordine del giorno dell’onorevole Vigna, se non isbaglio, socialista, il quale affermava la necessità, per procedere ad un rinnovamento delle strutture legislative costituzionali, di inserire nel Senato le rappresentanze di interessi.

Sicché, anche tenendo presente questo precedente, l’accusa di reminiscenze corporativistiche non ha ragion d’essere. Io arrivo anzi a dire che, se non avessimo dovuto affrontare lo sciagurato ventennio fascista, la riforma del Senato sarebbe probabilmente avvenuta lo stesso; e sarebbe avvenuta per la spinta delle forze più rappresentativamente democratiche del nostro Paese.

Il fascismo non ha avuto, del resto, che l’adulterazione della rappresentanza degli interessi. Basta pensare che l’organizzazione corporativistica fascista rispondeva ad uno schema, visto astrattamente, dall’alto, in funzione del totalitarismo fascista e veniva applicata, realizzata, imposta dall’alto, senza che fosse minimamente tenuto conto di quella che è la germinazione spontanea delle varie categorie, del loro concatenarsi nella vita sociale ed economica e della loro capacità di esprimersi per avere una rappresentanza adeguata; basta, dicevo, tenere presente tutto ciò per comprendere e per concludere che l’accusa di corporativismo mossa ad una impostazione di questo genere è del tutto campata in aria. E non bisogna, onorevoli colleghi, lasciarsi troppo trascinare da quelli che sono i residuati che operano certo nel subcosciente più di quanto non si creda, i residuati di stati d’animo che avevano, sì, una giustificazione genuina e profonda di fronte alla dittatura fascista, ma che bisogna però superare, che bisogna staccare dalla nostra coscienza per poter guardare veramente in faccia la realtà, per poter stabilire quello che autenticamente si può in pratica costruire per la democrazia italiana.

Ora, noi riteniamo in pratica che questa differenziazione della seconda Camera rispetto alla prima, sia l’unica differenziazione veramente seria, sia l’unica differenziazione veramente solida che sia possibile. Noi possiamo esaminare insieme tutte le altre forme escogitate più o meno al riguardo. E, nell’iter che questa discussione ebbe in seno alla seconda Sottocommissione, noi partimmo proprio da un ordine del giorno firmato dall’onorevole Einaudi, e che fu poi approvato, nel quale si invocava appunto la costituzione della seconda Camera in questo senso.

Passammo poi attraverso la camera delle Regioni per un quarto d’ora – non è durata di più – la Camera rappresentante dei Comuni e degli altri enti locali; e abbiamo finito col ricadere in quella formulazione che è contenuta nel progetto di Costituzione, che in fondo, tranne per quel terzo lasciato all’elezione dei Consigli regionali, risponde esattamente a quello che è il meccanismo e la formazione di istituti democratici.

Ora, questa prima impostazione trovò la Commissione concorde in questo senso, perché la seconda Sottocommissione così si espresse in un suo ordine del giorno: «Riconosciuta la necessità dell’istituzione di una seconda Camera, al fine di dare completezza di espressione politica a tutte le forze vive della società nazionale, passa all’esame del sistema del rapporto tra le due Camere e al modo di composizione di ciascuna».

Quindi, lo scopo è segnato chiaramente; ed è quello di dare espressione viva, espressione completa alle forze vive ed operanti della Nazione. Ora, le forze vive alle quali si riferiva il concetto di questo ordine del giorno si sono ridotte a che cosa? Si sono ridotte al suffragio universale diretto. Non è certo questo il concetto al quale ci si riferiva, e non è certo questa la determinazione che possa in qualche modo differenziare una Camera dall’altra.

Lo so qual è l’obiezione maggiore che viene fatta a questo riguardo, ed è quella che, in fondo, fece deviare poi il lavoro della seconda Sottocommissione, per andare in cerca di qualche altro modo e di qualche altra possibilità. L’obiezione maggiore che viene fatta è quella della pratica realizzazione di una visione di questo genere, di una concezione della seconda Camera, come quella a cui io mi sono riferito.

Ma qui io vorrei premettere che lo sforzo non è stato veramente eccessivo da parte di nessuno di noi per trovare una soluzione pratica, concreta, delle difficoltà, alle quali ci si riferisce. Ieri l’onorevole Ambrosini citava, per esempio, quello che era stato fatto, per quanto sotto una visione leggermente diversa, trattandosi di un organo essenzialmente consultivo, dalla Costituzione di Weimar.

Ma io dico, praticamente, quando si siano identificate le sette, otto, nove maggiori categorie che sono effettivamente quelle rappresentative dei maggiori interessi, delle maggiori attività sociali, nelle quali si articola la vita collettiva, per esempio: industria, commercio, agricoltura, istruzione o corpi accademici vari, libere professioni e arti, artigianato – se non si crede di poterlo includere in un’altra di queste categorie – ceti impiegatizi; e si riesca a prospettarsi quella che è, sotto il profilo economico e sociale, la dinamicità della vita moderna, attraverso queste espressioni più salienti e più rilevanti; quando si sia fatto questo e si sia risolto l’altro problema, a cui noi non intendiamo minimamente sfuggire, di identificare la posizione del lavoro e dei lavoratori, o intesa come categoria o come categorie per sé stanti o operanti nell’ambito di ciascuna categoria, associando l’espressione dell’uno o dell’altro termine che operano nel processo produttivo, mi pare che si abbia davanti a sé il quadro di quelle che sono le maggiori e più operanti attività sociali della vita del Paese.

E quando, per il rapporto nei confronti di ciascuna categoria, si tenga presente – come è detto in un inciso del mio ordine del giorno che è stato interpretato, mi pare, un po’ troppo rigorosamente – una certa proporzionalità col numero delle categorie, come ho detto, e con la maggiore responsabilità del lavoro qualificato (due fattori, due elementi che devono giocare concordemente e non disgiuntamente per poter arrivare all’espressione di un equilibrio economico che ha in se stesso gli elementi di un equilibrio sociale), mi pare che non sia un problema assolutamente insolubile quello di realizzare la rappresentanza di tali categorie.

Per esempio (per fare una esemplificazione ancor più concreta e, direi, più visibile), la struttura della seconda Camera, così concepita, secondo il nostro modo di vedere, dovrebbe trovare veramente la sua ambientazione nell’orbita della Regione.

Ma quando, in ciascuna Regione si siano definite (e questo il Consiglio regionale lo può fare, perché ha tutte le legittimità democratiche per farlo), quali sono le categorie produttive predominanti nell’ambito della Regione stessa, ed in rapporto alla popolazione si stabilisca quanti devono essere i rappresentanti delle varie categorie, non rimane da risolvere che il problema dell’elezione dei senatori stessi.

Su questa elezione mi riservo di presentare, a conclusione della discussione generale un progetto completo, se il principio formulato nel mio ordine del giorno sarà accolto. Come può essere fatta tale elezione? Le soluzioni sono diverse. C’è chi prevede i collegi di categoria, che direttamente nominano il rappresentante di categoria. C’è chi – come me – in maniera forse più pratica, pensa che i rappresentanti di categoria possono limitarsi alla designazione, per esempio, di una terna per ciascuna categoria, lasciando al Consiglio Regionale l’ultimo atto della scelta, nella elezione dei vari rappresentanti.

Può sembrare, esposto in questo modo, un progetto piuttosto complicato e farraginoso, ma tale non è, se si considera realisticamente secondo le varie fasi attraverso le quali il progetto stesso si esaurisce o si perfeziona.

Comunque, questa è una questione di attuazione pratica che da nessuno può essere ritenuta insolubile. Basta applicarsi e trovare il modo e il verso di risolverla praticamente. Quel che più conta e più vale è decidere se, nella composizione della seconda Camera, deve essere veramente realizzato un principio di rappresentatività democratica diversa dalla rappresentatività data esclusivamente dal suffragio universale.

E se questo principio si accetta, evidentemente la sua realizzazione effettiva non trova altra forma concreta ed aderente alle necessità ed all’esigenza della vita sociale al di fuori della rappresentanza d’interessi. Oggi, quelli che sono gli interessi veri della vita nazionale sono prementi e pressanti e giocano anche nella vita politica, tanto che non si può credere di tenerli fuori dalle aule legislative o dai poteri dello Stato. Mentre se, accanto alla genuina rappresentanza politica della prima Camera voi vorrete una seconda Camera che, senza ferire il principio della sovranità popolare, senza contraddire il principio dell’investitura da parte della volontà popolare, perché questa delle categorie è altresì volontà popolare come quella del suffragio universale, svolga la sua azione, si potrà avere un quadro armonico di quelle che sono le vedute di carattere generale che sono rappresentate anche dalle ideologie dei singoli partiti, ma anche l’espressione di questi interessi concreti, economici, culturali, sociali e politici.

Le competenze non sono invenzione di nessuno. Le competenze sono un fatto reale, sociale, effettivo e non si può prescindere da esse proprio nel campo della massima espressione della volontà collettiva. Ora, attraverso un congegno di questo genere, evidentemente anche questo problema potrebbe essere avviato ad una soluzione. Io non voglio naturalmente esagerare in nessun modo e ritengo che l’applicazione di una visione strutturale della seconda Camera, come quella che io ho cercato di delinearvi, difficilmente può trovare una applicazione immediata, perché presuppone evidentemente un enorme lavoro di organizzazione, di ordinamento di categorie, di interessi che, in questo dopoguerra, in questo dopo disfatta, è reso ancor più difficoltoso. Si potrebbe ricorrere oggi soltanto alla Confederazione generale del lavoro e ad altre Confederazioni di imprenditori di lavoro, ma esse non esauriscono il quadro delle attività sociali e non sociali.

Bisogna dunque prevedere un certo periodo di tempo per il quale e nel quale questa «categorizzazione», diciamo, possa essere realizzata con una certa spontaneità e secondo certe direttive, ai fini, appunto, della composizione della seconda Camera.

Cosa sarebbe, per esempio, indispensabile in maniera assoluta? L’anagrafe delle categorie, almeno questa: avere l’anagrafe per dire quali sono le maggiori categorie, come si differenziano fra di loro, e potere, su questa concludere praticamente il sistema della realizzazione della loro rappresentanza. Questo è elemento indispensabile, e saremmo avventati noi stessi se volessimo sostenere che siamo oggi in condizioni di poter realizzare una struttura della seconda Camera come quella alla quale mi sono riferito. Però, è importante aver sollevato il problema in questa sede. Se il principio viene accettato e se si possono determinare, insieme con il principio, le direttive generali entro le quali si prevede che in un non lontano domani una riforma di questo genere possa essere attuata, questo dà un valore nuovo, moderno, socialmente più aderente alle condizioni della vita moderna, alla nuova Costituzione che stiamo approvando.

PRESIDENTE. Onorevole Piccioni, la prego di voler concludere.

PICCIONI. Ho finito. Io penso, in contrasto con molti altri, che l’ordinamento regionale – quali che possano essere le difficoltà nelle quali si viene muovendo o si andrà movendo – sia una riforma che rinnovi veramente la funzionalità dello Stato democratico italiano. Io penso che il Senato, concepito come noi lo concepiamo e come ci siamo sforzati di delineare nell’ordine del giorno che ho presentato, completerebbe questo rinnovamento, in senso democratico e in senso sociale, della nuova democrazia italiana. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Fuschini ha presentato un ordine del giorno del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente

afferma la necessità che il Parlamento sia costituito da due Camere, delle quali la prima rappresenti, attraverso il suffragio universale diretto e la rappresentanza proporzionale dei partiti, o correnti politiche, gli interessi generali della Nazione, e la seconda, mediante un suffragio organico a doppio grado, rappresenti gli interessi territoriali ed economici a base regionale;

riconosce l’opportunità che le Camere possano riunirsi in Assemblea Nazionale e deliberare esclusivamente sui seguenti casi:

  1. a) nomina del Presidente della Repubblica e sua messa in istato di accusa;
  2. b) conferimento di maggiori poteri al Governo in caso di guerra;

ritiene che alle Camere siano assegnati uguali poteri per svolgere i rispettivi compiti, restando peraltro stabilito che, in caso di contrasto fra le loro deliberazioni, esperiti appositi accorgimenti procedurali, abbia la prevalenza la decisione della prima Camera, fermo il ricorso al referendum popolare».

Ha facoltà di svolgerlo.

FUSCHINI. Onorevoli colleghi, la prima parte dell’ordine del giorno da me presentato è stata già sviluppata, in questo momento, dal collega onorevole Piccioni con quella perspicacia che lo distingue; e nei passati giorni i colleghi onorevoli Clerici, Codacci Pisanelli e Ambrosini avevano pur essi insistito sull’opportunità che la seconda Camera sia costituita in base alle categorie di interessi di carattere economico. Nel mio ordine del giorno accenno anche agli interessi territoriali. Non vi è bisogno di spendere parole su questa distinzione perché già nell’articolo 55 del progetto di Costituzione abbiamo affermato che la seconda Camera deve rappresentare anche gli interessi territoriali, allorquando abbiamo stabilito che ad ogni Regione sia data la rappresentanza speciale di cinque Senatori e quindi abbiamo manifestato il proposito che gli interessi locali, nella nuova organizzazione dello Stato, siano rappresentati da individui specificamente scelti dai Consigli regionali.

Non credo che su questo punto vi sia dissenso in altri settori; perché numerosi rappresentanti di altri settori hanno accettato il principio della rappresentanza degli interessi territoriali. Quando si è discusso, nella Sottocommissione e nella Commissione dei settantacinque sulla opportunità che gli interessi locali fossero rappresentati, non solo siamo arrivati alla rappresentanza delle Regioni, ma vi è stata persino la proposta che la seconda Camera fosse nominata attraverso un sistema elettorale che ha la caratteristica precipua di esprimere gli interessi locali, quale è il sistema del collegio uninominale.

Non voglio attardarmi, ripeto, su questo punto, perché ritengo che l’Assemblea abbia ormai tutti gli elementi per potere prendere la sua decisione al riguardo, in modo che la formazione della seconda Camera rispecchi una differenziazione di espressioni popolari, che non sia identica alla manifestazione delle espressioni popolari, che si hanno nella formazione della prima Camera. Perché è fuori dubbio che, se ormai la maggioranza dell’Assemblea accetta il principio del bicameralismo, mi pare anche concorde nel ritenere che la seconda Camera debba essere diversa nella sua origine, nella sua formazione, dalla prima; altrimenti, noi avremmo un bis in idem, che non porterebbe nessun vantaggio nella elaborazione delle leggi e nella costituzione dei Governi.

Ora, avendo accettato il principio del bicameralismo, ci dobbiamo domandare se esso sia stato rispettato nel progetto di Costituzione.

Io ritengo che nel progetto vi sia una novità di gran peso politico, che merita di essere considerata attentamente: il funzionamento delle due Camere unite in Assemblea Nazionale, su cui voglio richiamare l’attenzione degli onorevoli colleghi.

Se voi esaminate attentamente il progetto, vi trovate di fronte non ad un semplice regolamento della riunione delle due Camere, ma di fronte alla creazione di una vera e propria terza Camera. Siamo di fronte ad una forma di unicameralismo, se non di tricameralismo. Ritengo che questa sia una deviazione dal sistema bicamerale e che questa deviazione vada corretta, per evitare che quest’Assemblea Nazionale si sostituisca e si sovrapponga al libero svolgimento dei lavori delle due Camere separate.

L’articolo 61, infatti, dice che «l’Assemblea Nazionale deve adottare un proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi membri». La Camera dei deputati e il Senato avranno un loro regolamento proprio, ma anche un regolamento proprio dovrà avere l’Assemblea Nazionale. È questo il dato di fatto più notevole che caratterizza ogni Assemblea organizzata.

La Presidenza di questa terza Assemblea da chi sarà tenuta? Lunga discussione vi è stata su questo punto nella seconda Sottocommissione, e l’articolo 60 ha stabilito che, a turno, la Presidenza dell’Assemblea Nazionale sarà tenuta ora dal Presidente della Camera dei deputati, ora dal Presidente della Camera dei senatori. Costituirà un proprio ufficio e la stessa Assemblea Nazionale, come le due Camere, potrà deliberare di riunirsi persino in Comitato segreto. Quindi vi sono, nelle disposizioni del progetto, delle norme che fanno apparire l’Assemblea Nazionale come una terza vera e ben distinta Assemblea.

Le sue funzioni sono molteplici e di diversa importanza. Per esempio, gravissima disposizione questa: che le funzioni del Presidente della Repubblica, quando non potranno essere esercitate direttamente dal Presidente stesso potranno essere esercitate dal Presidente dell’Assemblea Nazionale. Così, quando si debba procedere alla nomina del Presidente della Repubblica, tocca al Presidente dell’Assemblea di indire la convocazione delle Camere.

L’Assemblea Nazionale è dunque un organo di maggiore e più viva rilevanza di quel che non siano la Camera dei deputati ed il Senato stesso. Ma vi è ancora di più, vi è un delicato momento della vita politica del Parlamento nel quale si è voluto inserire l’intervento dell’Assemblea Nazionale. L’articolo 87 stabilisce che, una volta costituitosi un Governo, questo Governo deve presentarsi all’Assemblea Nazionale e «ottenere con voto nominale ed a maggioranza assoluta dei componenti» la fiducia dell’Assemblea stessa. L’articolo 88 poi completa e dilata questa disposizione, cioè stabilisce che, in seguito al voto di sfiducia dato da una Camera, se il Governo non intende dimettersi, può ricorrere in appello all’Assemblea Nazionale. Ora io ritengo che questo, dal punto di vista parlamentare e dal punto di vista politico, sia un grave errore che potrà portare gravi conseguenze di carattere politico. Non credo, onorevoli colleghi, che la stabilità del Governo possa realizzarsi con questo espediente giuridico.

Le crisi ministeriali, sono state frequenti in passato nel nostro Paese, ma sono state meno frequenti che in altri Paesi di carattere parlamentare, come la Francia. Si vorrebbe limitarle, e ciò è plausibile, ma non credo che si possa ciò ottenere con questo espediente, e far sì che un Governo, colpito da un voto di sfiducia di una Camera, possa rimarginare la ferita al suo prestigio col fare riunire tutte e due le Camere. È un’illusione, perché evidentemente, siccome Camera e Senato avranno posizioni numeriche di carattere completamente diverso, le loro deliberazioni unitarie, per quanto si voglia fare e stabilire, saranno sempre influenzate dalla prevalenza di quelle correnti politiche che si verificheranno in ogni Camera. Qualunque sia il modo di formare il Senato, rimane per me indubbio che il Senato, dal punto di vista politico, rispecchierà molto da vicino la distribuzione dei seggi della Camera dei deputati.

Ora, in questa situazione è evidente che anche andando davanti ad Un’Assemblea Nazionale, la maggioranza che si è stabilita per dare o negare la fiducia al Governo in una Camera non si modificherà gran che nella Assemblea Nazionale, anche senza rilevare che la prima Camera, che ha un numero di membri molto superiore alla seconda, avrà sempre la possibilità di prevalere. Si tratta quindi, a mio avviso, di un meccanismo inutile, che affatica il sistema parlamentare e lo svolgimento della vita politica del Paese, che non può trarre vantaggio dalle ripetizioni di discussioni che posso considerare in precedenza assolutamente inoperanti. Del resto, non si creda di poter creare la stabilità di Governo con degli espedienti di carattere giuridico costituzionale, o di carattere parlamentare. È bene certamente studiare i mezzi per impedire voti di sfiducia promossi di sorpresa. Nel decreto del 16 marzo 1946 è stato già stabilito che, presentata una mozione di sfiducia, questa non può essere discussa immediatamente, ma si lascia al Governo la facoltà di rispondere entro quarantotto ore, e occorre che la mozione stessa riporti la maggioranza assoluta dei suffragi dei componenti l’Assemblea. Questa disposizione si è dimostrata già efficace e opportuna, per la prima parte, come abbiamo tutti potuto constatare a proposito della mozione di sfiducia presentata dall’onorevole Nenni.

Ora, questo mi sembra sufficiente perché nelle Camere si possa impedire una discussione improvvisa che sfoci in un voto di sfiducia. Ma questa disposizione, che riguarda la nostra Assemblea Costituente, può essere riprodotta nel progetto di Costituzione, e potrà essere meglio precisata nei regolamenti delle rispettive Camere.

Del resto, egregi colleghi, il problema della stabilità del Governo non è un problema di carattere giuridico, ma è un problema di carattere politico. Da che cosa deriva questa instabilità del Governo? Deriva, secondo me, da due fenomeni.

Il primo fenomeno si riferisce alla composizione e, direi, al frazionamento dei partiti. Il frazionamento dei partiti non è un fenomeno che sia sorto a causa del sistema proporzionale, ma è la risultante – permettete che lo dica – della ineducazione politica in cui si trova il nostro Paese; tanto è vero che non si è ancora ben compreso che il sistema del Governo democratico si fonda su una maggioranza alla quale si oppone una minoranza che occorre rispettare con grande senso di responsabilità e di equilibrio, che i gruppi acquistano lentamente con la quotidiana esperienza delle esigenze parlamentari.

Ammesso anche che la proporzionale possa aver accentuato questo frazionamento, lo ha però accentuato in bene, perché ha consentito che ogni forma di ideologia o corrente politica possa avere la sua rappresentanza nel Parlamento. Manca inoltre, oggi, lo spirito per la formazione dei Governi, manca cioè lo spirito di coalizione fra i partiti. Perché questo spirito di coalizione dei partiti possa sorgere è necessario fare molti esperimenti, e non bisogna rammaricarsi troppo se della instabilità così detta dei Governi stiamo dando troppe prove. Certamente, con un sistema parlamentare veramente operante si potrà eliminare quello che accade oggi, che ogni tre mesi vi è bisogno di fare una nuova combinazione ministeriale. Questo dipende da un elemento straordinario, di carattere assolutamente eccezionale, che vi è nella disposizione di legge, con la quale si deferisce al Governo ogni potere legislativo.

Ora, il potere legislativo essendo quasi per intero nelle mani del Governo, è evidente che ciò provoca frequenti reazioni in coloro che non partecipano alla formazione delle leggi. Ma questa situazione non si potrà ripetere quando si sarà in un regime di normalità costituzionale, che si attuerà con la distinzione del potere esecutivo dal potere legislativo.

In passato questa distinzione era esattamente osservata. La divisione dei poteri, che si dice essere una teoria caduta, nel campo degli studi costituzionalisti, io credo che abbia ancora, nella pratica, la sua necessità di vita e di rispetto. Noi dobbiamo rispettare ed informare tutta l’attività collettiva politica a questo principio fondamentale: che il potere legislativo dove essere ben distinto, come diceva ieri l’onorevole Ambrosini, dal potere esecutivo. E se il potere legislativo informa di sé e domina per certi riflessi la situazione del potere esecutivo, ben distinte sono le loro funzioni. Il potere legislativo troverà sempre la possibilità di esprimere la sua volontà nell’esame, nelle reiezioni o nelle approvazioni dei disegni di legge e potrà così dare al potere esecutivo, anche in fatto di legislazione, una sua direttiva e una sua volontà.

Il secondo fatto che influisce sulla instabilità del Governo è indubbiamente quello degli uomini chiamati come capi partito o capi di maggioranze a formare il Governo.

Nella nostra storia parlamentare e politica si avverte facilmente che quando vi sono stati degli uomini forti, degli uomini di grande prestigio nazionale, allora la stabilità dei Governi si è avuta senza grandi difficoltà. Se voi aveste la volontà di verificare e studiare, come ho avuto occasione di fare in altri tempi, le crisi che si sono manifestate durante il periodo della vita di Cavour e della sua attività politica, potreste constatare che Cavour ha governato l’Italia (salvo interruzioni di breve durata, di pochi mesi, interruzioni atte a dare riposo a questo grande Capo di Governo) per oltre 9 anni.

De Pretis, altro uomo politico che dal 1876 detenne le sinistre di allora, ha governato il Paese per più di undici anni, salvo una breve interruzione dei tre Ministeri Cairoli, che nel complesso tennero il Governo per poco più di due anni.

Se venite poi vicino a noi, troverete che la presenza di Giolitti diede al nostro Paese una stabilità di Governo che nel suo complesso può essere considerato di 10 anni, con interruzioni intermedie di piccoli Ministeri; Ministeri, si diceva allora, di luogotenenza che durano ciascuno pochi mesi.

RUBILLI. Ma quegli uomini non rinascono. Bisogna adattarsi con quelli che ci sono e quindi trovare altri mezzi.

FUSCHINI. Non è detto che l’Italia sia talmente esaurita da non portare alla ribalta della vita parlamentare e politica uomini di valore. Bisogna dunque, a mio avviso, tener conto che la stabilità del Governo dipende anche da quegli uomini capaci ed avveduti che sappiano realizzare il consenso dei partiti e ottenere per il loro prestigio, per la loro autorità, per la loro capacità, la fiducia del Parlamento e del Paese.

Questi uomini non potranno non sorgere anche da questa Assemblea e dalle Camere che sorgeranno dopo l’approvazione della nuova Costituzione. Ci sono già virtualmente: capi dei partiti che saranno chiamati a diventare una volta o l’altra capi di maggioranze mediante la coalizione di partiti diversi.

Ed è a queste coalizioni che si dovrà dare assistenza e che bisognerà sorreggere con grande senso di responsabilità e lealtà da parte dei gruppi che le formeranno, non dimostrandosi troppo frettolosi nell’attendere i risultati che esse potranno dare. Non bisogna credere che in due o tre mesi possa essere attuato un programma, non bisogna credere che in poche settimane un Governo possa esprimere un indirizzo politico.

Non intendo fare critiche ad alcuno in questo istante; le mie modeste osservazioni tendono soltanto a dimostrare che la stabilità del Governo non dipende da disposizioni di regolamento parlamentare o da disposizioni della Costituzione, ma dipende, nel suo complesso, dall’educazione politica che sapranno dimostrare i partiti nella loro attività parlamentare.

Concludendo questa parte del mio breve discorso, mi sia lecito affermare che la creazione di un’Assemblea Nazionale quale terzo organo del nuovo Parlamento non è affatto necessaria e può presentare delle incognite che ne danneggeranno il regolare funzionamento.

Io quindi mi attengo, perché è l’esperienza che lo insegna, al puro sistema bicameralista, sicuro che questo bicameralismo potrà funzionare veramente da equilibratore della vita dello Stato, sia in senso politico, sia in senso sociale.

È necessario tener fermo questo sistema, anche perché il creare una terza Assemblea – come diceva ieri molto saggiamente l’onorevole Nitti – richiederà una sede, richiederà una presidenza, richiederà dei funzionari, richiederà delle spese; perché voi non potrete pretendere che tutta la sua organizzazione, tanto delicata, possa farsi o dalla Camera o dal Senato. Se deve essere una cosa distinta, deve avere anche la sua autonomia, dal punto di vista amministrativo e burocratico.

Si potrà però mantenerla – secondo il mio ordine del giorno – soltanto per la nomina del Presidente della Repubblica, qualora la Camera addivenga alla nomina del Presidente della Repubblica in forma parlamentare, anziché con elezione diretta da parte del popolo. Se dovessi dichiarare la mia personale preferenza a questo ultimo riguardo, dichiarerei di essere favorevole alla forma parlamentare della nomina del Presidente della Repubblica. Ma se la maggioranza volesse invece che la nomina del Presidente della Repubblica fosse decisa dal voto del popolo, io non oserò oppormi. È evidente allora che la necessità dell’Assemblea Nazionale per la nomina del Presidente della Repubblica non avrebbe più ragione di essere. E potrebbe cadere allora anche l’altro caso nel quale ho ammesso che l’Assemblea Nazionale possa essere utile nei momenti difficili e gravi, in cui la Patria venisse trascinata contro sua volontà, per situazioni internazionali, a dichiarare la guerra. In questo caso l’Assemblea Nazionale potrebbe essere chiamata, non dico a deliberare la dichiarazione di guerra, perché oggi, nella pratica, si è veduto che non vi sono più tali dichiarazioni, ma per stabilire quali debbano essere i poteri da conferirsi al Governo responsabile per il periodo della guerra.

Mi permetto di fare un’ultima osservazione ed ho finito. Abbiamo discusso molto se le due Camere debbano avere poteri identici o meno; io sono convinto a questo riguardo che occorra una gradazione la quale stabilisca che, in caso di conflitto per l’approvazione di una determinata legge o di una determinata deliberazione, fra la prima e la seconda Camera, la prevalenza spetti alla Camera che rappresenta gli interessi generali del Paese, come noi riteniamo e vogliamo che sia la Camera dei deputati.

La prevalenza della Camera dei deputati sul Senato trova la sua ragion d’essere nella realtà storica che ci ha accompagnato sin qui, nonostante che la situazione sia stata diversa: realtà storica che ci insegna che il Senato ha tenuto sempre verso la Camera dei deputati un atteggiamento riguardoso e condiscendente. Molte vie, d’altronde, vi saranno sempre per risolvere i conflitti e eliminare le frizioni che potranno sorgere fra le due Camere; ma deve in ogni modo essere affermato nella Costituzione il principio della prevalenza della prima Camera sulla seconda.

Siccome però in pari tempo si è inserito nel progetto di Costituzione l’appello al popolo attraverso il referendum, ritengo opportuno che ciò non sia dimenticato e perciò, proponendo una preminenza della prima Camera sulla seconda, ammetto che resti salvo sempre il ricorso al referendum.

Mi lusingo che queste mie proposte possano essere accolte da tutti i colleghi perché esse rispecchiano, a mio parere, l’interesse che tutti abbiamo al buon funzionamento del futuro Parlamento.

Onorevoli colleghi, lasciatemi formulare un augurio, quello cioè che la Costituzione che dovrà essere definitivamente conclusa, non oltre il 31 dicembre – ultimo limite della nostra capacità politica e giuridica – sia una Costituzione che possa garantire il rispetto della legge e il consolidamento della Repubblica. (Vivi applausi al centro – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Giolitti ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

considerato che la II Parte della Costituzione deve fondare un ordinamento della Repubblica tale da garantire la realizzazione del sistema di diritti e doveri sanciti nella I Parte e tale da sodisfare ai due requisiti essenziali della democraticità e della efficienza delle istituzioni parlamentari;

ritiene che la seconda Camera debba trarre origine dalla volontà direttamente espressa dall’intero corpo elettorale, secondo un sistema che permetta il miglior apprezzamento dei requisiti personali;

afferma che una seconda Camera di tipo corporativo sarebbe contraria allo sviluppo e al funzionamento delle istituzioni parlamentari in senso veramente democratico e moderno;

afferma altresì che una seconda Camera di tipo regionalistico si giustificherebbe solo ove le autonomie regionali avessero quel carattere federalistico che non è stato accolto nella Costituzione;

delibera che la seconda Camera venga eletta a suffragio universale col sistema uninominale e in base a determinati requisiti per l’elettorato passivo, tali però da non incidere sul carattere democratico della Camera stessa e da assicurarne la composizione più adeguata ai suoi fini».

Ha facoltà di svolgerlo.

GIOLITTI. Onorevoli colleghi, mi capita qualche volta – e penso sia capitato ad altri colleghi miei coetanei – di sentirmi dire: «Come, deputato, lei così giovane?». Quasi che in Parlamento sia sconveniente starci senza barba bianca. Orbene, mi pare che questa associazione di idee – conformista e conservatrice – tra Parlamento e barba bianca si sia insinuata anche in qualche parte del nostro progetto di Costituzione, perché, se esaminiamo questa sezione prima del Titolo primo della seconda parte del Progetto stesso, non vi riscontriamo il minimo sforzo di ringiovanire le nostre istituzioni parlamentari, di adeguarle cioè alla esigenze moderne della vita politica.

In sostanza, io credo che né il modo di formazione della seconda Camera né la natura dei suoi poteri, così come sono configurati nel progetto di Costituzione, valgano ad indicarci quella che è l’esigenza funzionale, in senso moderno, alla quale la seconda Camera deve rispondere. Dirò ancora di più: mi pare che il modo di composizione della seconda Camera, previsto in questi articoli 55 è 56 del progetto, non sodisfi neanche a quelle esigenze fondamentali di democraticità e di efficienza cui, a nostro avviso, devono rispondere le istituzioni nelle quali si concreta l’ordinamento della Repubblica.

Mi pare che queste due esigenze siano i criteri fondamentali in base ai quali noi dobbiamo giudicare questa seconda parte del progetto di Costituzione. È appunto per questa ragione, perché mi sembra che il progetto non sodisfi pienamente a queste esigenze che riteniamo essenziali, che ho presentato, anche a nome del mio Gruppo, l’ordine del giorno che mi propongo di illustrare con la massima concisione.

Come è noto, il mio partito in linea di principio è favorevole al sistema unicamerale, appunto perché lo ritiene più rispondente a quelle esigenze di democraticità e di efficienza di cui ho detto ora, e anche perché lo ritiene più rispondente a quelle che sono, direi, le premesse contenute nella prima parte, già approvata, della Costituzione. Perché io credo che nell’esame di questa seconda parte non dobbiamo mai perder di vista la prima parte che abbiamo già approvata, con la quale abbiamo garantito certi diritti; e qui ora, con l’ordinamento della Repubblica, dobbiamo fornire gli strumenti adeguati perché tali diritti possano trovare pratica realizzazione. Quindi nella critica del progetto di Costituzione – critiche che noi vogliamo evidentemente costruttive – deve esserci anche di guida questo criterio delia sua rispondenza alia prima parte della Costituzione già approvata.

Ora, nonostante quella nostra posizione di principio alla quale ho accennato, favorevole al sistema unicamerale, noi abbiamo accettato il sistema bicamerale, in quanto abbiamo ritenuto sostanzialmente valida, nelle condizioni attuali del nostro Paese, l’esigenza di una maggiore ponderazione nell’opera legislativa.

Meno valida, invece, riteniamo l’esigenza, diciamo così, regionalistica, alla quale, secondo alcuni, dovrebbe rispondere la seconda Camera, perché, a nostro avviso, essa si giustificherebbe solo ove le autonomie regionali avessero quel carattere federalistico che non è stato accolto nel progetto di Costituzione. Quantunque di diverso avviso si sia manifestato il collega Condorelli, di fatto il progetto di Costituzione – e fortunatamente, secondo noi – non ha accolto in nessuna misura un’impostazione federalistica delle autonomie regionali. E d’altra parte pensiamo che anche in pratica una base regionalistica per la composizione della seconda Camera varrebbe proprio in quanto si accetti in pieno il criterio federalistico; allora si avrebbe ragione di stabilire un numero fisso per Regione, e allora il sistema sarebbe semplice e praticamente di facile applicazione; mentre se noi cerchiamo di inserire e di conciliare questo sistema, questa base regionalistica nella composizione della seconda Camera, con altri requisiti, ne vien fuori quel miscuglio ibrido che troviamo formulato nell’articolo 55, dove poi, praticamente, il tentativo di dare una base regionale alla Camera dei senatori viene frustrato non foss’altro che da quella disposizione secondo la quale nessuna Regione può avere un numero di senatori maggiore del numero dei deputati.

Quella che noi nettamente respingiamo è l’idea di fare della seconda Camera una rappresentanza, diciamo, di tipo corporativo. La respingiamo non soltanto per l’impossibilità di una sua attuazione pratica, ma anche in mancanza (come ha del resto ammesso l’onorevole Piccioni) di un’anagrafe professionale e per il crescente numero di categorie professionali in relazione al continuo sviluppo della divisione del lavoro. E allora si vede che di fronte a queste difficoltà di attuazione pratica si ricorre a sistemi che poi non sodisfano completamente; queste idee, che possono anche apparire suggestive, non riescono a trovare pratica applicazione e soluzione. Quando si parla di questa rappresentanza di interessi di categoria, ci si muove in una sfera di concetti giuridici e politici che possono avere aspetti suggestivi e interessanti; ma quando scendiamo all’attuazione pratica, incontriamo difficoltà. E nessuno degli oratori che ha sostenuto questa tesi ha risposto alle obiezioni di carattere pratico.

Ora, noi non dubitiamo affatto della lealtà delle intenzioni di chi propugna questo sistema della rappresentanza d’interessi, ma vediamo che di fatto sotto quella proposta si può profilare il pericolo di un ritorno anche larvato a quella che era la Camera dei fasci e delle corporazioni. Non voglio, ripeto, avanzare alcun dubbio sulle intenzioni, ma formulare una critica sulle conseguenze di fatto che possono derivare dall’accettazione di una simile proposta; perché, di fatto, una rappresentanza degli interessi di categoria mi sembra non possa venire ad avere altro scopo che la difesa di determinati interessi, giacché tutti gli interessi di categoria, a nostro avviso, si trovano già rappresentati in forma politica nella prima Camera, attraverso i partiti, i quali, nella società in cui viviamo, sono i soli che possano tradurre sul piano politico nazionale e generale i particolari interessi economici, perché possono dare a questi una forma politica, che è quella che deve trovare espressione in una rappresentanza politica. Ché se invece si vogliono far valere solamente esigenze di carattere tecnico, allora si sia coerenti e si faccia di questa rappresentanza di interessi di categoria un corpo tecnico e non politico: se ne faccia un Consiglio della Repubblica, per esempio; ma se ha da essere un corpo politico, deve sodisfare a esigenze politiche e soprattutto deve dare forma politica agli interessi che rappresenta.

Ma non soltanto per queste ragioni noi siamo contro questa cosiddetta rappresentanza di interessi di categoria. Siamo contrari anche perché ci sembra che essa venga ad incrinare il principio fondamentale sancito nella nostra Costituzione, e in parte già approvato: il principio della sovranità popolare. Ci sembra che la determinazione delle categorie non potrebbe essere che arbitraria e artificiosa e tale appare proprio dagli argomenti con cui è stata sostenuta quella tesi. E così pure arbitraria sarebbe la determinazione dei limiti e delle modalità dell’elettorato attivo e passivo, a meno che si intenda rispettare rigorosamente la proporzione numerica delle diverse categorie. Ma anche qui è difficile in pratica mantenere questo rigoroso rispetto della proporzionalità numerica, e d’altra parte vediamo che in tutte le proposte che sono state fatte la proporzionalità numerica è stata sempre affiancata (per citare le espressioni dell’onorevole Piccioni) dal peso d’una maggiore responsabilità del lavoro qualificato. Quindi, c’è un certo dosaggio che si viene a fare fra il peso numerico delle categorie e il peso economico di certi interessi, dosaggio che non può essere altro che arbitrario e che, a nostro avviso, rischia di ledere la sovranità popolare. Perciò mi sembra che questa proposta della rappresentanza della seconda Camera non soddisfi all’esigenza di democraticità delle istituzioni parlamentari.

Mi sembra però anche che essa finisca col nuocere all’efficienza di queste istituzioni, perché la rappresentanza di interessi di categoria non offre in sé un principio di integrazione proprio, tale da superare la netta differenziazione fra i vari gruppi di interessi che in una rappresentanza di questo tipo vengono assunti nella loro immediatezza. E d’altra parte anche qui vi è una obbiezione pratica. Evidentemente un simile tipo di rappresentanza è inconciliabile o difficilmente conciliabile con il principio della decisione a maggioranza; ma l’applicazione del principio della decisione all’unanimità o dell’accordo delle categorie di volta in volta specificatamente interessate a ogni determinato problema trova grandi difficoltà di applicazione pratica.

Il fatto è, onorevoli colleghi, che a nostro avviso i gruppi professionali non possono sostituire né integrare i partiti. Sono i partiti, secondo noi, che viceversa permettono precisamente l’integrazione degli interessi di categoria e la loro mediazione con l’interesse generale.

Ma abbandoniamo il terreno della teoria e guardiamo all’esperienza. C’è stata una esperienza nel campo di queste Camere di tipo corporativo. Che cosa ci insegna a questo proposito l’esperienza più o meno recente? Io, appunto per non lasciare il minimo dubbio che possa sorgere da me un sospetto sulle buone intenzioni e sulla perfetta lealtà di coloro che hanno sostenuto questa tesi, voglio semplicemente rispondere citando le parole del Kelsen (dall’opera Vom Wesen und Wert der Demokratie). Il Kelsen, dopo aver criticato a fondo sul piano teorico la cosiddetta rappresentanza d’interessi, conclude in questi termini: «Non vi è da stupirsi che l’organizzazione corporativa non abbia servito che ad uno o a vari gruppi per stabilire il loro predominio sugli altri; cosicché è lecito presumere che la rivendicazione recentemente di nuovo formulata d’introdurre una organizzazione corporativa, non manifesta tanto il bisogno di una partecipazione organica di tutti i gruppi professionali alla formazione della volontà statale, quanto piuttosto la volontà di potenza di certi gruppi d’interessi ai quali la Costituzione democratica non sembra più offrire possibilità di successo politico. Non è degno di nota il fatto che una simile rappresentanza venga richiesta, nel campo borghese, proprio nel momento in cui si presenta la possibilità che il proletariato, finora minoranza, conquisti la maggioranza, e che il parlamentarismo democratico minacci di ritrovarsi contro quel gruppo al quale aveva finora assicurato il predominio politico?».

L’esigenza dunque che ci fa ritenere opportuna una seconda Camera è quella di una maggiore ponderazione e competenza nell’opera legislativa, tale da realizzare al tempo stesso una piena efficienza ed una assoluta democraticità dell’istituto parlamentare. In altri termini, a noi sembra che, se accogliendo il suggestivo ammonimento di Giorgio Washington, vogliamo predisporre quel piattino sul quale versare il thè troppo bollente che potrebbe prepararci la prima Camera, dobbiamo però evitare di incorrere nell’obbiezione di Beniamino Franklin, il quale citava l’esempio dei due cavalli che tirano in opposte direzioni. Ora mi sembra, come dicevo, che il progetto di Costituzione negli articoli che esaminiamo non sodisfi pienamente a siffatte esigenze. Perché? Quali sono le critiche che faccio a questa parte del progetto? Voglio fare anzitutto una osservazione. A me sembra che tutto quello che nelle norme regolanti la composizione dei poteri della seconda Camera non concorra a sodisfare le esigenze che ho prima indicato, costituisce sempre, in ultima analisi, il residuo di un altro movente – antidemocratico – che è all’origine storica della seconda Camera: porre un freno alla sovranità popolare, per un senso di sfiducia nel popolo, per salvaguardare le prerogative della monarchia o i privilegi di determinate classi o ceti, a seconda dei casi che si sono presentati nella storia; e credo che di questi residui il progetto ne contenga non pochi.

Altri colleghi hanno fatto una critica a fondo nell’articolo 55, che è appunto quello nel quale si compendiano tutte queste questioni. Ricordo le critiche dei colleghi Preti e Giacometti a proposito del limite di 25 anni per l’elettorato attivo, del numero fisso di senatori per regione, delle categorie di eleggibili, delle elezioni di secondo grado per due terzi dei senatori attraverso i Consigli regionali, e via dicendo. Evidentemente questo è un miscuglio di disposizioni riflettenti tendenze diverse spesso contrastanti. Ho sentito, a proposito di questo articolo 55, il collega Codacci Pisanelli dire che in questo modo si verrebbe a riprodurre nella seconda Camera la composizione politica della prima. Mi permetta il collega di osservargli che così egli dimostra di voler battere ancora quella strada di cui il Lees-Smith, nella sua classica opera sulle seconde Camere, ha da tempo mostrato l’errore, la strada per cui si vorrebbe sottrarre la seconda Camera all’influenza dei partiti, quasi a farne uno strumento per costringere la prima Camera a una maggiore aderenza a quello che si pretende essere, al di fuori dei partiti, lo stato d’animo dell’opinione pubblica. Ora, qui mi pare che siamo di fronte al solito misconoscimento dei partiti, della funzione democratica dei partiti. Così ci si inoltra in un vicolo cieco, perché la strada giusta e realistica è un’altra: riconoscere la funzione democratica ed ineliminabile che i partiti hanno assunto nella vita politica moderna; e su questa base del riconoscimento della funzione essenziale dei partiti affrontare realisticamente il problema della seconda Camera perché essa risponda, appunto, alle esigenze di una moderna democrazia parlamentare. Anzi, per noi, il fatto che la composizione politica della seconda Camera venga a corrispondere a quella della prima costituisce un pregio e non un difetto, perché questo significa che la seconda Camera corrisponde evidentemente a quella che è la volontà popolare che si esprime nella forma più diretta, attraverso il suffragio universale nell’elezione dei membri della prima Camera. Noi critichiamo il progetto proprio perché ci sembra non conduca a un tale risultato, risultato che del resto gli studi e le esperienze più recenti dimostrano essere un presupposto essenziale. Così, per esempio, nella Costituzione norvegese che ha dato ottima prova da oltre centotrenta anni; così nella famosa Conferenza Bryce del 1917, per la riforma della Camera Alta in Inghilterra, dove si proponeva che i membri della seconda Camera venissero scelti dalla prima proprio per garantire questa, se non identità, per lo meno corrispondenza di conformazione politica fra le due Camere. Non so perché la seconda Sottocommissione non abbia considerato più attentamente queste soluzioni, che hanno carattere molto moderno e pratico.

Non è ora il momento di riproporre soluzioni di questo genere, che ci farebbero risalire molto indietro nella discussione. La proposta concreta, intorno alla quale si è orientato il mio Gruppo, è precisamente quella formulata nel mio ordine del giorno: elezione della seconda Camera a suffragio universale col sistema uninominale, in base a determinati requisiti di eleggibilità, riprendendo la proposta avanzata, in sede di Sottocommissione, dall’onorevole Grassi, mi pare. Del resto, una proposta di questo tipo si avvicina molto all’idea fondamentale espressa da Cavour nel suo scritto, del 1848, sulla riforma del Senato, dove egli proponeva appunto che il Senato derivasse da una elezione popolare, ma non identica nel modo a quella della prima Camera.

A nostro avviso, il sistema uninominale consente una scelta secondo le qualità, le attitudini e le competenze personali; inoltre, consente di mantenere un più stretto legame fra eletto e interessi locali degli elettori. Ci sembra, quindi, rispondere, per questi aspetti, alle esigenze cui riteniamo debba rispondere la composizione di una seconda Camera democratica ed efficiente.

Il suffragio universale è anche esso, evidentemente, una condizione assoluta non solo di democraticità, ma di efficienza; perché il ricorso al suffragio universale per la elezione della seconda Camera ne garantisce la composizione corrispondente a quella della prima ed elimina o riduce le cause di eventuale conflitto tra le due Camere. D’altronde, solo nel caso di elezione a suffragio universale è ammissibile un conflitto inter pares tra le due Camere; perché, se la seconda Camera non derivasse dal suffragio universale, un eventuale conflitto non potrebbe non essere risolto, a priori, a vantaggio della prima Camera. Nel caso di divergenza fra due Camere, che traggano origine diversa per la diversa composizione del corpo elettorale, il conflitto può diventare grave e insanabile intorno a questioni politiche fondamentali. L’onorevole Einaudi, nella seconda Sottocommissione, volle dimostrare i vantaggi di conflitti tra le due Camere, anche frequenti. Se in linea teorica questa tesi può essere suggestiva, ritengo che, di fronte ai problemi urgenti e gravi che si porranno al Parlamento italiano, si rischi, a lasciar fermentare i germi di possibili conflitti, di scardinare l’istituto parlamentare e di evocare l’azione diretta. Allora, altro che esigenze di ponderazione e di riflessione nella formazione delle leggi! Se non garantiamo la massima efficienza dell’istituto parlamentare, rischiamo veramente di far prendere la decisione dalla piazza. Ed in certi casi questo rischio potrebbe verificarsi ove accettassimo l’ipotesi del referendum, come soluzione di eventuali conflitti.

Dunque, la elezione a suffragio universale della seconda Camera è anche questione di efficienza, ed essa non incide per nulla sulla funzione essenziale della seconda Camera che è quella di obbligare la prima Camera ad un riesame del disegno di legge secondo emendamenti e proposte conformi ai principî fondamentali ai quali si ispira la legge stessa, e non alla rinuncia a quelle finalità politiche essenziali, perché questo rivelerebbe un contrasto politico fondamentale, inammissibile, perché sostanzialmente contradittorio alla unicità della fonte dalla quale le due Camere traggono origine e forza.

Onorevoli colleghi! Si parla molto di crisi dello Stato moderno ed anche da noi, in Italia, si sente sposso lamentare la decadenza del senso dello Stato. È certo che il delicato sistema dell’equilibrio dei poteri sul quale i regimi parlamentari da oltre un secolo e mezzo si sono poggiati, ha spesso scricchiolato sotto il peso di nuovi problemi, quali lo sviluppo tecnico della vita moderna, la formazione dei monopoli capitalistici, l’avvento delle masse nella vita politica e, di conseguenza, la formazione dei grandi partiti democratici: le istituzioni parlamentari hanno subìto la prova più dura di fronte a questi compiti nuovi. Già dalla metà del secolo XIX si trovano i segni del discredito dei Parlamenti in seno all’opinione pubblica. Tutti abbiamo visto come l’aumentata potenza della stampa, il peso dei congressi dei partiti e delle grandi organizzazioni di massa abbiano diminuito l’autorità e il prestigio del Parlamento. Ora, se nella nuova Costituzione vogliamo gettare le basi di una moderna repubblica democratica in Italia, dobbiamo anzitutto preoccuparci di rafforzare il Parlamento e di innalzarne l’autorità e il prestigio. Come possiamo assolvere a questo compito? Limitando forse quelle altre libertà e forme di espressione, di associazione e di rappresentanza? Ma questo sarebbe antidemocratico ed in contrasto col progredire stesso della storia. Dobbiamo proporci di dar vita ad un Parlamento veramente democratico ed efficiente. Questa è la via da seguire. Questo del Parlamento è precisamente, secondo me, il banco di prova della nuova Costituzione. Per questo dobbiamo mettere da parte gli interessi di partito, di classe e di ceto, perché qui sono in giuoco gli interessi stessi e le sorti della democrazia parlamentare. Ci pensino coloro che se ne proclamano i più strenui fautori. Noi non consideriamo la democrazia parlamentare come l’ultima e perfetta forma di democrazia, tuttavia la riteniamo la più adeguata alle condizioni attuali del nostro Paese. Questa democrazia parlamentare noi vogliamo rafforzare in Italia, ed a questo precisamente tende l’ordine del giorno che ho svolto e che ho presentato anche a nome del mio Gruppo. Tutte le nostre proposte tendono sinceramente e lealmente a questo scopo: edificare in Italia una solida, moderna, progressiva Repubblica democratica parlamentare. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Corbi ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

considerato che la procedura prevista nel progetto di Costituzione per la formazione delle leggi comporta necessariamente ritardi e conflitti pregiudizievoli al buon esercizio della funzione legislativa, ritiene:

1°) che i conflitti delle due Camere debbano essere limitati e risolti nell’ambito del Parlamento, con la prevalenza del voto della prima Camera;

2°) che la procedura prevista per la formazione delle leggi sia opportunamente modificata in modo da assicurare la tempestività e certezza della norma».

Ha facoltà di svolgerlo.

CORBI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il mio ordine del giorno è stato originato dalla preoccupazione che i cittadini italiani, leggendo la nuova Costituzione, non abbiano a ripetersi ancora una volta: fatta la legge, trovato l’inganno. Perché potrebbe avvalorarsi il sospetto legittimo che la prima parte della Costituzione, che contiene indubbiamente innovazioni profonde nel campo sociale, economico e politico della nostra vita nazionale, voglia poi essere praticamente elusa con la seconda parte; in quanto che gli organi che dovrebbero assicurare la realizzazione di queste innovazioni e i progressi fatti in campo costituzionale non li permettano, non li rendano possibili.

Ed altra preoccupazione mia è quella che lo stesso istituto parlamentare tragga discredito dal fatto che la sua funzionalità e la sua efficienza sono compromesse da un sistema macchinoso, qualche volta confuso, ove i poteri che si dànno all’una e all’altra Camera non sono sempre fissati per accelerare il processo legislativo e per emettere norme chiare e che abbiano efficacia tempestiva.

Quale era il compito dei Settantacinque? Indubbiamente era quello di darci uno strumento legislativo rispondente alle esigenze di uno Stato moderno, il quale si caratterizza appunto per la sua nuova socialità, per il potenziamento dello Stato e per le nuove attribuzioni del potere legislativo.

È certo che oggi uno Stato moderno deve adempiere a compiti ed a funzioni molto più gravosi di quelli di un secolo fa, all’inizio, cioè, dei regimi, parlamentari. Oggi il potere esecutivo ed il potere legislativo devono preoccuparsi di cose che prima invece erano affidate al fruttuoso dinamismo di una classe dirigente la quale aveva di fronte a sé grandi possibilità, ma che oggi invece, per ragioni che sono nelle cose, non è più in condizione di poter garantire lo sviluppo democratico e progressivo della vita sociale; per cui è necessario che intervenga lo Stato a coordinare, regolare e disciplinare. Lo vediamo ogni giorno: per il carovita, per i braccianti, per i metallurgici, ecc.

Nuovi e maggiori sono quindi i compiti di uno Stato moderno, e, per corrispondere alle esigenze dei tempi, il Parlamento deve essere un organo il quale possa efficacemente, tempestivamente dare norme che regolino la vita in tutti i campi.

In sostanza, noi avevamo bisogno di un ordinamento dello Stato che fosse il più democratico ed efficiente, e tale cioè che non pregiudicasse o non potesse mai, in qualsiasi modo, venire a ledere o a compromettere quei principî che erano stati già stabiliti nella prima parte di questa Costituzione.

Risponde il progetto in esame alla esigenza esposta? Non sembra. Io ho avuto l’impressione, leggendo la seconda parte della Costituzione, che vi siano delle incongruenze, qualche volta perfino dei paradossi, ed anche qualche innocente finzione. Vi sono articoli che minacciano di appesantire tutta l’attività legislativa, per cui si corre il rischio che nessuna legge sia possibile rendere esecutiva. E credo che ciò sia dovuto al fatto che si è voluto appiccicare al vecchio il nuovo, perché il vecchio e il nuovo non hanno trovato la necessaria armonizzazione; perché, come diceva poco fa il collega Giolitti, si è avuta sempre la preoccupazione di garantire gli interessi di alcune classi con danno del popolo.

Anche quando si parla di referendum e si mostra affanno nel ricercare qualcosa che possa far dire che questa Costituzione è Costituzione moderna e democratica; poiché l’intenzione è tradita dagli attributi dati alla seconda Camera, dalla procedura che si suggerisce per la formulazione delle leggi. In un certo punto si parla di iniziativa popolare. È questa una di quelle innocenti finzioni di cui prima parlavo ma contro di essa non lancerò nessuno strale. Lasciamo pure in questo testo costituzionale quella parte dell’articolo 68 che suona così: «Il popolo ha sempre l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno 50.000 elettori, di un disegno redatto in articoli». È proprio indispensabile? Serve a qualche cosa? Io non credo. Non credo perché ci sarà sempre un deputato che, forse ai soli fini elettorali, arriverà prima di 50.000 elettori a proporre un disegno di legge. Ad ogni modo non è questo il difetto grave della Costituzione; perciò, ripeto, lasciamo stare. Ma ci sono ben altre innocenze. Innocenze? Il referendum! Io premetto di non essere un avversario dichiarato del referendum, anzi credo che il referendum possa essere uno strumento utile quando se ne fa un uso parsimonioso, il che però non mi sembra avvenga secondo quanto è proposto nel progetto.

Esaminiamo un po’ quale dovrebbe essere il curriculum di un disegno di legge secondo la procedura prevista. Temo che si possa arrivare ad un assurdo: che in cinque anni (dico un paradosso) nessuna legge esca dal Parlamento italiano. Perché? Supponiamo, colleghi, che un deputato e un senatore propongano un disegno di legge. I due disegni di legge vertono sulla stessa materia, ma differiscono in qualche cosa: nella sostanza o in altro. Ebbene, le due Camere si riuniranno ciascuna per conto proprio per discutere, formulare, rendere la legge completa nei suoi articoli; e passeranno (siamo generosi), se si tratterà di una legge importante, con tutto l’altro lavoro che vi sarà da fare, due mesi per l’esame in sede di Commissione; perché ormai l’esperienza ci dimostra che c’è bisogno di tempo quando si tratta di leggi anche non molto importanti e decisive.

A un determinato momento le due leggi, pronte, verranno portate in discussione e si dovrà pure esaminare quali di queste due leggi debba avere la precedenza o se sia possibile fonderle in una per rivolgere l’esame delle due Camere su uno solo di questi disegni di legge. E può passare (e voglio essere generoso) un mese per le trattative che ci saranno tra le due Camere e per la discussione che ne seguirà. Ad un certo momento si raggiunge l’accordo e uno dei due disegni di legge, supponiamo quello della prima Camera, va all’esame della seconda Camera. Può verificarsi benissimo il fatto previsto dal testo della Costituzione: e cioè che la seconda Camera lasci passare tre mesi e non risponda.

Allora il Presidente della Repubblica chiederà alla seconda Camera che si pronunzi. Passeranno due mesi e, se la seconda Camera non sarà del parere della prima, si avranno due posizioni diverse, quella della prima e quella della seconda Camera.

In questo caso cosa accadrà? Il Presidente della Repubblica ha il diritto di indire il referendum, ma può anche non pronunciarsi, perché l’articolo 70 dice che il Presidente ha facoltà di indire il referendum, ma non vi è tenuto a rigore di termini. Quindi, il Presidente della Repubblica non si pronuncia e questa legge rimane sospesa. Oppure, il Presidente indice il referendum. Il referendum, allora, richiederà – non voglio dire molto – almeno tre mesi, per la preparazione tecnica necessaria e per i comizi, nei quali tutti i partiti vorranno dire la propria. Il referendum si fa e respinge la legge. Sono passati quindi dieci mesi e ancora la legge non si è fatta; dieci mesi, ma possono essere anche più.

Facciamo ora il caso più favorevole: che la legge si faccia, perché le due Camere si trovano d’accordo. Però accade (è un caso che può molto facilmente verificarsi) che questa legge non venga approvata con la maggioranza dei due terzi, ed allora 50 mila elettori sono in diritto di chiedere il referendum. Si fa il referendum, che decide per il sì o per il no; ma questo referendum, a sua volta, non è valido perché ad esso non hanno preso parte i due quinti degli elettori.

Mi sembra che si possa davvero concludere che questo è il sistema per non fare le leggi.

Io riscontro queste manchevolezze ed addebito queste gravi deficienze all’ordinamento che si è voluto dare all’istituto parlamentare, al volere la seconda Camera dotata di certi poteri. Non dirò qui nessuna parola per dimostrare non solo la inutilità del Senato, ma anche la ingiustificata insistenza con la quale lo si richiede.

Altri oratori hanno avuto occasione di parlare prima di me contro l’istituzione della seconda Camera, ed io mi rimetto a quanto essi hanno detto. Ma ormai – diciamocelo francamente – la seconda Camera è cosa scontata. Anzi, posso dire che qualche argomentazione ha convinto anche noi sulla utilità che oggi in Italia, per la situazione particolare che attraversiamo – dopo tanti anni ci siamo reincamminati sulla strada della democrazia e perciò dobbiamo procedere attentamente, con molto giudizio – la seconda Camera possa avere una funzione utile; però facciamo in modo che questa seconda Camera sia veramente utile, che non sia di intralcio. Perché non adottiamo il sistema approvato dalla Costituente francese? Voi sapete come questo sistema sia chiaro, sia lineare, e soprattutto come esso consenta una spedita opera legislativa. Con questo sistema, su cui non vorrò dilungarmi perché ciascun collega ben lo conosce, avviene che le Camere hanno ambedue il diritto di iniziativa; ma quando sorgono conflitti, qualora la seconda Camera, ad esempio, sia in disaccordo con la prima, la legge ritorna alla prima Camera e questa, in seconda lettura, ove confermi a maggioranza assoluta il suo primo parere, determina l’esecutività della legge, la quale diviene così operante.

Si tratta, in sostanza, di quanto diceva poc’anzi l’onorevole Fuschini, ed io accetto pienamente questa parte del suo ordine del giorno perché io apprezzo lo sforzo che egli fa perché le due Camere non vengano configurate in modo da annullarsi vicendevolmente nel loro compito.

Ed inoltre, una volta adottata la seconda Camera, si cerchi di farla funzionare secondo criteri più pratici, direi, ed anche più moderni. Per qual motivo, ad esempio, l’approvazione dei bilanci deve essere materia demandata alla seconda Camera? Ma non è questa competenza specifica della prima Camera e soltanto di essa? Non è questa forse la giustificazione storica dell’assemblea elettiva della Camera dei deputati? È questa, del resto, prerogativa esclusiva della prima Camera in varie Costituzioni: nella francese, nell’argentina, nella canadese, nella jugoslava, nella polacca e in quelle di vari altri Paesi.

Si convenga che la materia finanziaria è la chiave del potere esecutivo e che è la prima Camera quella che rispecchia meglio le esigenze del Paese. Per la possibilità che hanno i componenti della prima Camera di avvertire le reali esigenze del Paese nella contingenza del momento politico, per la stessa vita che i suoi membri conducono a contatto diretto con gli operai, con i contadini, con gli impiegati, ecc., la Camera dei deputati meglio risponde allo scopo.

Così dicasi per quanto riguarda l’amnistia, fatto squisitamente politico, che indubbiamente la prima Camera può meglio giudicare, e per il diritto di inchiesta; così per la fiducia al Governo, ad evitare, in questo caso, quei facili conflitti che possono verificarsi.

Io ho citato, onorevoli colleghi, alcuni casi in cui indubbiamente la prima Camera ha senz’altro, direi, non dei diritti, ma dei doveri maggiori che non la seconda nei confronti del Paese e del Governo. Altre circostanze poi possono sorgere numerosissime, e per questo appunto è utile e necessario adottare quanto proponeva poc’anzi l’onorevole Fuschini, che cioè, in ciascun caso, ove sorgano conflitti fra le due Camere, sia in definitiva la prima quella che decide.

E mi consenta l’onorevole Presidente di dire ancora qualche cosa sull’istituto del referendum. Io ne ho sentito qui fare i più grandi elogi; ho sentito dall’onorevole Preti che il referendum è una garanzia democratica, è un correttivo dello strapotere dei partiti, equivale alla democrazia diretta. Sono d’accordo in gran parte, ma solo in parte, perché il referendum, se non è bene utilizzato, può diventare un espediente ostruzionistico con maschera democratica. L’articolo 72 ce lo conferma. E quell’esempio che poco fa io avevo fatto della povera e grama vita che dovrebbe fare un disegno di legge per vedersi bocciato dopo tanto tempo di travagliato cammino, sta a dimostrare proprio che il referendum può servire a tutti coloro i quali hanno interesse acché una legge fondamentale – la riforma agraria, ad esempio – non abbia a passare mai; una legge sulla nazionalizzazione delle industrie o delle banche non possa venire in Italia, come invece viene in Inghilterra.

Con questo articolo 72, poi, si dà un potere enorme ai grandi partiti, ai partiti di massa – e sono io a dirlo, membro di un partito di massa – perché i grandi partiti saranno arbitri della situazione. Sarà facile per un grande partito riuscire ad ottenere le firme necessarie per far indire il referendum ogni qual volta ad esso parrà. E, d’altra parte, sarà difficile che una legge possa passare a maggioranza di due terzi, o, meglio, possono darsi molti casi in cui questa esigenza non venga soddisfatta. E allora le leggi, per quanto bene elaborate, per quanto studiate, ponderate, non diverranno esecutive. E poi, non notate una incongruenza? Si vuole la seconda Camera come un organo di maggiore riflessione e di maggiore competenza; però, ad un certo momento, ci si dimentica assolutamente di questa maggiore competenza, di questa riflessione, e allora l’esito di tutto un lungo dibattito dipenderà non dallo studio, dalla riflessione, dal senso di responsabilità dei legislatori, ma dal partito il quale è più attrezzato dal punto di vista della propaganda, dei mezzi, e che potrà nel Paese con facilità anche prospettare una legge per quello che non è, interpretare una legge come non dovrebbe essere interpretata: in altri termini, si rende possibile ingannare così gli elettori, perché ci si può servire anche della peggiore demagogia nell’illustrare una legge alle popolazioni che debbono pronunciarsi con un referendum.

L’esito di un referendum non sarebbe, quindi, altro che la volontà dei partiti più forti, i quali possono imporre, per i mezzi, per la forza che hanno, la loro volontà al Paese. Pensino a questo quei deputati che appartengono ai partiti delle minoranze: le minoranze non avrebbero più nessuna funzione nella vita parlamentare se non quella di protestare; ma le proteste non fruttano molto.

E ancora vorrei dire – per rispondere all’onorevole Preti – che il referendum non è la democrazia diretta, perché la democrazia diretta ha proprie istanze, una propria prassi, è qualcosa che si svolge, si articola, si forma in una maniera completamente diversa. Dico queste cose, perché non si confonda il referendum con la democrazia diretta, che noi rivendichiamo e ci poniamo come obiettivo da raggiungere.

E, infine, del referendum si vuole dire che è un correttivo – per taluni sarebbe un correttivo – dello strapotere dei partiti.

Ma questo ormai non si ammette più, non può essere più ritenuto valido questo argomento oggi!

E vi cito le parole – non sono parole mie, ma parole di un uomo che certo non poteva essere tacciato di simpatie per le sinistre – vi cito le parole di Garlanda, deputato e giornalista, che scriveva: «Gli Italiani non hanno ancora capito che Governo parlamentare vuol dire Governo di partito. Essi non si sono ancora resi conto che tutti quelli che vogliono che un certo numero di idee prevalgano nel Governo del loro paese, devono iscriversi ad un partito che si faccia propugnatore di quelle idee».

Mi sembra che queste parole possano oggi utilmente ripetersi. Ed è certo che i partiti sono oggi la rappresentanza più autorevole e qualificata, sono una realtà della nostra vita democratica; e parlare di strapotere dei partiti significa parlare di strapotere della democrazia, perciò credo, in ultima analisi, sia un non senso parlare di strapotere dei partiti in regime democratico. E sono convinto che se in Italia noi avessimo avuto anche nei vecchi Parlamenti, anche nei primi Parlamenti dello Stato italiano, dei partiti con chiara fisonomia e con chiari programmi, non avremmo assistito a quel trasformismo parlamentare che è tanto nociuto al Paese e che, anche se involontariamente, ha aperto la strada a quel regime che oggi, in questa Costituzione, noi vogliamo condannare.

Infine, il referendum – così come è previsto in questo testo costituzionale – può venire a turbare l’unità dell’indirizzo politico ed a paralizzare di conseguenza l’azione governativa e parlamentare. Si pensi che un Governo può veder passare una legge, la quale è condizione di altre leggi, ma che, rimanendo sola, avulsa da quelle altre che dovrebbero invece essere approvate, non ha ragione di essere: ragion per cui il Governo si troverebbe ad un certo momento nella impossibilità di assolvere il suo programma e le sue funzioni.

Voglio richiamare la vostra attenzione, onorevoli colleghi, su questo fatto: il referendum può scavare solchi profondi fra Regione e Regione, specialmente quando una legge riguardi questioni economiche, quando cioè una legge può favorire gli interessi industriali di alcune Regioni d’Italia ma può pregiudicare gli interessi di altre Regioni che hanno una economia diversa. E allora noi assisteremmo ad una lotta spietata fra Regione e Regione, perché, se la legge, nel quadro generale dell’economia nazionale, è buona e giusta, perché il legislatore la vede con più lontana prospettiva, però, colui che è chiamato a decidere immediatamente, e non ha possibilità né capacità di un più ampio giudizio, può dare un voto dettato non dagli interessi nazionali ma da motivi immediati e contingenti, con grave danno di tutto il Paese.

Dunque il referendum può diventare una arma pericolosa e nociva.

Io non so quanto ci sia di vero e non faccio mio quanto ha pubblicato un giornale che ho qui; è stato scritto e pubblicato di una certa circolare vaticana, del febbraio di quest’anno.

PRESIDENTE. Onorevole Corbi, devo avvertirla che ella ha ormai superato i limiti di tempo consentiti per lo svolgimento degli ordini del giorno.

CORBI. Sarò brevissimo. Del resto la citazione che devo fare è breve.

UBERTI. Da dove l’ha presa?

CORBI. Lei potrà poi anche smentire.

PRESIDENTE. Onorevole Corbi, continui a parlare; le raccomando però la brevità.

CORBI. La circolare suona così: «In linea di massima il progetto risponde sufficientemente allo spirito cristiano; tuttavia potrebbero verificarsi situazioni di fronte alle quali si impone una tempestiva presa di posizione. Non mancherà il centro di seguire gli avvenimenti, pronto a lanciare l’appello alla periferia per quelle manifestazioni di consenso di massa necessarie in regime democratico per suffragare la legittimità delle richieste. Occorre al riguardo predisporre alla periferia opportuni apparati per l’organizzazione tempestiva di liberi referendum».

UBERTI. Ma da dove l’ha presa?

PRESIDENTE. Onorevole Uberti, non interrompa.

CORBI. Onorevole Uberti, è forse stato lei a redigerla come uomo di Azione cattolica? Parla per fatto personale?

Che cosa potrebbe accadere se questa circolare fosse vera? Che uno Stato straniero deciderebbe delle leggi che in Italia si possono e non si possono fare. Questa è la conseguenza di quanto ho letto. (Commenti).

Poiché, onorevole Presidente, ella è stata già generosa nel concedermi qualche minuto in più, con grande rincrescimento dell’onorevole Uberti, la pace del quale non voglio più turbare, concludo dicendo che ho ascoltato con interesse quanto ha detto l’onorevole Condorelli quando ha parlato della necessità di assicurare al Parlamento una funzionalità più sicura di quanto questo progetto preveda.

Io mi auguro che l’articolo 69 nei successivi ordinamenti interni del Parlamento venga applicato e che le Commissioni (si studierà poi come farle funzionare) abbiano effettivamente maggiori poteri onde assicurare una maggiore possibilità nel legiferare e riparare a quegli inconvenienti che notiamo in questa Assemblea Costituente, dove si è in troppi a discutere e dove spesso, come accade in questo caso, vi sono anche deputati i quali si fanno richiamare dal Presidente per aver superato i limiti di tempo consentili. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani.

Interrogazione e interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Pratolongo e Scoccimarro hanno presentato la seguente interrogazione con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti siano stati presi o si intenda prendere per garantire le istituzioni democratiche e le libertà dei cittadini nella provincia di Gorizia contro le aggressioni e violenze scatenate da provocatori nazionalisti e fascisti a danno di italiani e sloveni e delle organizzazioni democratiche; e per l’arresto e la punizione dei responsabili dei gravi fatti accaduti nei giorni scorsi».

Interesserò i Ministri interrogati affinché facciano sapere, possibilmente domani, quando intendano rispondere.

È stata presentata la seguente interpellanza con richiesta di svolgimento urgente:

«Al Ministro della pubblica istruzione, per conoscere i motivi che lo hanno indotto:

  1. a) a riservare ai maestri elementari provvisori reduci, combattenti ecc., un numero di posti inferiore a quello accantonato per legge in seguito al concorso del 1942, e a non riservare agli stessi la metà dei posti resisi disponibili dal 6 gennaio 1942 fino al 15 aprile 1946, data della legale cessazione dello stato di guerra;
  2. b) a non avvalersi della facoltà concessagli dall’articolo 7 del decreto legislativo 26 marzo 1946, n. 141, che gli consentiva l’assegnazione dei posti riservati mediante concorso per soli titoli fino al 31 dicembre 1946;
  3. c) a riservare agli insegnanti medi combattenti, reduci, ecc., un numero di posti inferiore di ben 736 a quello dei posti accantonati nei concorsi di cui ai decreti ministeriali 18 febbraio 1941 e 28 dicembre 1942, senza peraltro mettere a concorso la metà dei posti resisi vacanti dal 1942 al 1947;
  4. d) per sapere, infine, se non creda opportuno rielaborare il bando di concorso pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 158 del 14 luglio 1947, accogliendo le richieste degli insegnanti elementari e medi reduci, combattenti, ecc., contenute nell’ordine del giorno votato dal Congresso del giugno del corrente anno.

«Pignatari, Longhena, Caporali, Carboni, Vigorelli, Villani, Persico, Reale, Crispo, Filippini, Preti, Lami Starnuti, Zanardi, Paris».

Interesserò il Ministro della pubblica istruzione affinché voglia far conoscere, possibilmente entro domani, quando intenda rispondere a questa interpellanza.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

DE VITA, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se non ritenga giusto equiparare le case coloniche a quelle dei centri urbani ai fini del contributo statale per danni bellici. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mazzei».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere quale è lo stato attuale dei servizi sanitari della Sicilia e per conoscere i motivi per i quali, dopo ben quattro anni dalla liberazione dell’Isola, non si sia provveduto a regolarizzare, con l’invio di un medico provinciale di ruolo, la direzione dei servizi sanitari della provincia di Catania, che risulta ancora nelle mani di un incaricato provvisorio ed estraneo all’Amministrazione sanitaria.

Chiede altresì di conoscere se è vero e da chi e per quali motivi venne impedito di prendere possesso dell’Ufficio provinciale di sanità pubblica di Catania, al dottor Giuseppe Musumarra, medico provinciale di ruolo, ivi destinato con ordinanza del 1° marzo 1944 del Ministero dell’interno. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sapienza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere quali motivi abbiano indotto i Ministri competenti all’esonero della ricchezza mobile C-2 e complementare sui redditi di lavoro, soltanto per gli impiegati statali, escludendo dal beneficio la restante parte dei lavoratori che costituisce la maggioranza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sapienza».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dei lavori pubblici e del tesoro, per conoscere se non credano di concerto procedere all’emanazione di un decreto che preveda, in analogia a quanto è stato fatto da parte del Ministro delle poste e delle telecomunicazioni per la estensione della rete telefonica, un fondo speciale, eventualmente da ripartirsi in più esercizi finanziari, per provvedere all’impianto di illuminazione elettrica nei comuni (o nelle borgate superiori a 1000 abitanti) che ne sono sforniti e che non hanno risorse economiche tali da poter direttamente finanziare i relativi lavori.

«Il provvedimento, che si impone in una Nazione civile, nell’anno di grazia 1947, e che non avrebbe in realtà bisogno di sostenitori, potrebbe, a differenza del decreto 30 giugno 1947, n. 783, sulla rete telefonica, estendersi a tutto il Paese senza limitarlo all’Italia meridionale. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta),

«Sullo, Lettieri, Giordani, Mazza, Mattarella, Castelli Avolio, Codacci Pisanelli, BUBBIO, CASSIANI, Trimarchi, De Caro Gerardo, Galati, Rodinò Ugo».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno trasmesse ai Ministri competenti per la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.54.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e revisione annuale delle liste elettorali. (16).

Alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 17 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXI.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 17 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Congedo:

Presidente

Disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali (Seguito della discussione):

Presidente

Bencivenga

Coppi

Scelba, Ministro dell’interno

Uberti, Relatore

Lussu

Schiavetti

Crispo

Laconi

Russo Perez

Fabbri

Rubilli

Priolo

Fogagnolo

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

Bubbio

Gasparotto

Moscatelli

Cianca

Moro

Micheli

Gronchi

Votazione nominale:

Presidente

La sedata comincia alle 11.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Zotta.

(È concesso).

Seguito della discussione del disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali. (16).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sul disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali. (16).

Chiedo all’onorevole Bencivenga se mantiene il suo emendamento soppressivo dell’articolo 47, di cui ieri non poté concludersi la votazione per mancanza di numero legale.

BENCIVENGA. Mantengo l’emendamento, che rappresenta il pensiero politico del mio Gruppo, ma non insisto nella richiesta di appello nominale.

PRESIDENTE. Allora pongo in votazione per alzata di mano l’emendamento dell’onorevole Bencivenga, che propone la soppressione dell’articolo 47.

(Dopo prova e controprova, l’emendamento non è approvato).

Passiamo all’emendamento già svolto dell’onorevole Coppi. Se ne dia lettura.

AMADEI, Segretario, legge:

«Sostituire il primo comma col seguente: «Oltre i casi previsti dall’articolo 2 non sono elettori, per il periodo rispettivamente sottoindicato, coloro i quali hanno ricoperto le seguenti cariche:

  1. – Per vent’anni:
  2. a) segretario o vicesegretario del partito fascista;
  3. b) membro del gran consiglio del fascismo;
  4. c) le stesse cariche nel partito fascista repubblicano;
  5. d) ministro o sottosegretario dello pseudo governo fascista repubblicano;
  6. e) componente del direttorio nazionale e del consiglio nazionale del partito fascista repubblicano.
  7. – Per dieci anni:
  8. a) ministro o sottosegretario di Stato dei governi fascisti in carica dal 3 gennaio 1923;
  9. b) membro del tribunale speciale per la difesa dello Stato;
  10. c) segretario politico federale del partito fascista repubblicano;
  11. d) componente del direttorio nazionale o del consiglio nazionale del partito fascista.

III. – Per cinque anni:

  1. a) segretario politico federale del partito fascista dopo il 3 gennaio 1925;
  2. b) deputato o senatore che dopo il 3 gennaio 1925 abbia votato leggi fondamentali intese a mantenere in vita il regime fascista;
  3. c) prefetto o questore nominato per titoli fascisti;
  4. d) ufficiale generale della milizia volontaria sicurezza nazionale;
  5. e) ufficiale generale o superiore che abbia prestato servizio effettivo nelle forze armate della pseudo repubblica sociale; ufficiali di pari grado della guardia nazionale repubblicana, delle brigate nere, dei reparti speciali di polizia politica della pseudo repubblica sociale;
  6. f) consigliere nazionale».

PRESIDENTE. Onorevole Coppi, ella insiste nel suo emendamento?

COPPI. Dichiaro di non insistere nell’emendamento che ho proposto. Ritengo che i criteri ai quali si ispira il mio emendamento potranno trovare sede forse più opportuna quando discuteremo dell’elettorato passivo. Mi riservo però, ove il corso della discussione lo imponga, di insistere su taluni dei criteri ai quali il mio emendamento si ispira.

PRESIDENTE. Vi è poi l’emendamento presentato dagli onorevoli Schiavetti, Lussu, Cianca, Tega, Chiostergi, Vernocchi, Giua, Fornara. Se ne dia lettura.

AMADEI, Segretario, legge:

«Sostituire il primo comma con i due seguenti:

«Oltre i casi previsti dall’articolo 2 non sono elettori per dieci anni coloro i quali hanno ricoperto le seguenti cariche:

  1. a) segretario o vicesegretario del partito fascista;
  2. b) membro del gran consiglio del fascismo;
  3. c) componente del direttorio nazionale o del consiglio nazionale del partito fascista;
  4. d) ispettore nazionale o ispettrice nazionale delle organizzazioni femminili del partito fascista;
  5. e) segretario o vicesegretario federale (o carica equipollente) sin dalla prima organizzazione del partito fascista; fiduciaria o vicefiduciaria delle federazioni dei fasci femminili;.
  6. f) ispettore o ispettrice federale, eccettuati coloro che abbiano esercitato funzioni esclusivamente amministrative;
  7. g) segretario politico del fascio o segretaria del fascio femminile di comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti (censimento 1936);
  8. h) qualsiasi carica politica del partito fascista repubblicano;
  9. i) consigliere nazionale;
  10. l) deputato che, dopo il 3 gennaio 1925, abbia votato leggi fondamentali intese a mantenere in vigore il regime fascista; senatore che sia stato dichiarato decaduto dall’Alta Corte o che, pur non essendo stato dichiarato decaduto, abbia partecipato all’approvazione delle leggi di cui sopra o dei loro principî informativi;
  11. m) ministro o sottosegretario di Stato dei governi fascisti in carica o nominati dal 3 gennaio 1925;
  12. n) membro del tribunale speciale per la difesa dello Stato o membro dei tribunali straordinari della pseudo repubblica sociale;
  13. o) prefetto o questore nominati per titoli fascisti; capo della provincia o questore nominati dal governo della pseudo repubblica sociale;
  14. p) «moschettiere del duce», ufficiale della milizia volontaria sicurezza nazionale, in servizio permanente retribuito, eccettuati gli addetti ai servizi religiosi, sanitari, assistenziali e gli appartenenti alle legioni libiche, alle milizie ferroviaria, postelegrafonica, universitaria, alla G.I.L., alla D.I.C.A.T. e Da. Cos., nonché alla milizia forestale, stradale e portuaria;
  15. q) ufficiale che abbia prestato effettivo servizio nelle forze armate della pseudo repubblica sociale, ufficiale della guardia nazionale repubblicana, o componente delle brigate nere, delle legioni autonome e dei reparti speciali di polizia politica della pseudo repubblica sociale.

«Sono eccettuati dalla privazione dei diritto elettorale coloro che siano dichiarati non punibili ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 7 del decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159, e coloro che, prima del 10 giugno 1940, abbiano assunto un deciso atteggiamento contro il fascismo».

PRESIDENTE. Questo emendamento stabilisce anzitutto il principio della sospensione dall’esercizio del diritto elettorale portata a dieci anni invece che a cinque, come propone il progetto governativo.

Credo, quindi, che sia necessario prima mettere in votazione questa determinazione del termine di dieci anni; poi porrò ai voti i vari commi dell’emendamento che si riferiscono alle categorie da sospendere dall’esercizio del diritto elettorale.

Il pensiero sia del Governo che della Commissione è già stato manifestato sopra tutto l’emendamento nella passata seduta. Ad ogni modo, invito il Governo ad esprimere il suo parere sull’emendamento Schiavetti, limitatamente alla proposta di elevare a dieci anni il periodo di sospensione dall’esercizio del diritto elettorale.

SCELBA, Ministro dell’interno. Mi rimetto allo dichiarazioni già fatte.

PRESIDENTE. Cioè contro l’emendamento.

SCELBA, Ministro dell’interno. Sì, contro l’emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. Vorrei pregare l’onorevole Schiavetti di non insistere su questo suo emendamento, perché evidentemente egli stesso, che ha partecipato alla discussione in seno alla Commissione, sa che l’emendamento della Commissione va considerato nel suo complesso organico, e che si è arrivati a stabilire il termine di cinque anni come termine transattivo tra le varie proposte, e che, d’altra parte, non si basa, come il primitivo testo del Governo, sulle pronunce precedenti, ma si basa sull’impostazione di una norma oggettiva, svincolata da tutte le pronunce fatte, per modo che ha obiettivamente un valore morale oggettivo maggiore. Tanto è vero che tutti quelli che avevano sostenuto un parere diverso, come l’onorevole La Rocca, e lo stesso onorevole Schiavetti, sono arrivati ad accettare questa proposta transattiva, che è stata presa alla unanimità. Vuol dire che in futuro, quando vi sarà una nuova legge elettorale, se la situazione fosse per esigere un numero maggiore di anni, potrà sempre esser fatto.

Quindi è molto meglio che rimaniamo sopra la deliberazione già presa, senza arrivare ad una estensione che non recherebbe alcun vantaggio maggiore di quello che è stato già proposto nel testo della Commissione, deliberato, ripeto, concordemente e col consenso dello stesso onorevole Schiavetti.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Siccome anch’io ho firmato l’emendamento dell’onorevole Schiavetti convinto di fare una cosa estremamente seria e moralizzatrice, sono obbligato a difenderlo. Se ho ben capito, il collega onorevole Uberti ha limitato il suo intervento alla questione dei cinque anni e dei dieci anni. Se si limitasse solamente a questa questione, potremmo anche facilmente andare d’accordo perché, evidentemente, il riesame che noi ci proponiamo di fare fra dieci anni, lo faremo fra cinque anni, ma su tutte le altre questioni l’emendamento Schiavetti non va ritirato.

Io ho presentato un emendamento per cui gli ufficiali volontari nella guerra contro il popolo spagnolo siano compresi nella categoria degli esclusi. È stato rilevato dall’onorevole Ministro dell’interno, che pur aderisce in linea di massima, che praticamente questo creerebbe delle complicazioni. Limito la mia constatazione solo a questo punto. Vi è un lato umano, va bene, ma vi è anche un lato politico. Devo ricordare ai colleghi che, quando ero Ministro, sostenni la necessità che le famiglie povere dei volontari caduti in Spagna, anche fascisti, dovessero essere aiutate perché non può cadere su di esse una sanzione.

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, scusi: in questo momento si parlava dell’emendamento Schiavetti, mentre lei parla del suo emendamento.

LUSSU. Parlo del mio emendamento per non prendere la parola due volte. È questione di risparmio di tempo. Del resto, finisco subito.

Il criterio che noi sostenevamo va limitato, non ai volontari in Spagna, ma agli ufficiali volontari, in senso, quindi, restrittivo, ed è un criterio che comporta una sanzione politica morale. Quando io ho sostenuto che le famiglie dei Caduti hanno diritto alla pensione, evidentemente era una questione morale, ma il criterio politico va mantenuto, perché dobbiamo moralizzare la ripresa democratica dello stato e così per i punti dell’emendamento Schiavetti che sono punti essenziali che vogliono marcare un indirizzo politico e morale.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Schiavetti se insiste nella sua proposta di elevare a dieci anni il periodo di sospensione dell’esercizio del diritto elettorale.

SCHIAVETTI. Insisto.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento Schiavetti limitatamente alla determinazione del periodo di sospensione dall’esercizio del diritto elettorale che, secondo questo emendamento, viene portato a dieci anni.

(Dopo prova e controprova, è approvato).

Passiamo alla votazione dell’elenco compreso nell’articolo 47.

L’Assemblea si renderà conto della necessità assoluta di procedere alla votazione lettera per lettera, perché a ciascuna lettera possono essere stati portati emendamenti, e inoltre vi possono essere dei deputati favorevoli a una lettera e contrari ad un’altra.

Pongo in votazione la lettera a) dell’articolo 47 del nuovo testo proposto dal Governo, del seguente tenore:

«a) segretario o vicesegretario del partito fascista».

(È approvata).

Pongo in votazione la lettera b) del seguente tenore:

«b) membro del gran consiglio del fascismo»;

(È approvata).

Pongo in votazione la lettera c) del seguente tenore:

«c) componente del direttorio nazionale o del consiglio nazionale del partito fascista».

(È approvata).

Prima di passare alla lettera d) del testo, sarà opportuno mettere in votazione la lettera d) dell’emendamento Schiavetti che è del seguente tenore:

«d) ispettore nazionale o ispettrice nazionale delle organizzazioni femminili del partito fascista».

Su questo sarà opportuno che la Commissione esprima il suo parere.

UBERTI, Relatore. È una questione di carattere generale, perché tutti gli emendamenti proposti dall’onorevole Schiavetti rappresentano un’altra situazione. Egli ha ripreso l’elenco delle esclusioni che era nella legge elettorale fatta per la Costituente; ma, in quell’occasione, si era voluti essere particolarmente severi, in quanto che si trattava di costituire l’Assemblea che doveva deliberare circa l’ordinamento e gli istituti del nuovo Stato democratico e antitotalitario.

Oggi, invece, vi è una situazione diversa, in quanto si tratta di eleggere il Parlamento di carattere ordinario. Vi è poi una ragione essenziale e ben più profonda, che cioè prima vi era l’esame di merito da parte delle Commissioni, mentre ora si deve stabilire una norma obiettiva per la quale colui che ha coperto quella determinata carica, indipendentemente da qualsiasi atteggiamento posteriore, per il solo fatto di aver coperto quella carica viene escluso dal diritto di voto. Se noi ora ammettiamo questi elenchi con la disposizione messa in testa all’articolo 47 (che, cioè, qualunque sia l’atteggiamento preso ed altri atteggiamenti collaterali, il solo fatto di aver coperto quella carica comporta l’esclusione dal voto), evidentemente facciamo una disposizione che è molto più rigorosa che non quella stabilita con la legge per la Costituente, perché, in base alla legge per la Costituente, le Commissioni comunali e quelle mandamentali potevano entrare nel merito. Qui, invece, per poter ovviare ad una della maggiori ingiustizie che si sono realizzate, per cui talvolta colui che aveva maggiori responsabilità, attraverso influenze e conoscenza di membri della Commissione, è riuscito a svincolarsi dalle sanzioni la Commissione ha voluto stabilire invece una norma obiettiva, assoluta, che cioè nessuna Commissione possa intervenire nel merito a discriminare.

Perciò è necessario, avendo modificato il criterio fondamentale della norma, arrivare a stabilire solamente le maggiori cariche per le quali si presume – indipendentemente da quelli che possano essere stati i modi di svolgimento di quelle attività – che chi le ha ricoperte ha assunto responsabilità determinati per la vita del passato regime. Dato questo criterio fondamentalmente diverso, che è stato posto dalla Commissione, ritengo che non possa essere sostenuto il criterio di estendere le esclusioni secondo la proposta fatta dall’onorevole Schiavetti. Se noi esaminiamo il merito, certo tutte queste categorie possono comprendere dei responsabili, ma con responsabilità di grado diverso, per cui si rende doverosa una indagine di merito, anziché andare a stabilire quello che si è voluto fare dalla Commissione, che cioè, indipendentemente da ogni altra attività, per il solo fatto di aver coperto quella carica, si presume una responsabilità assoluta. Vorrei perciò ancora pregare l’onorevole Schiavetti di non insistere nella sua elencazione, perché, diversamente, noi faremmo certamente una norma infinitamente più grave che non quella stabilita per la Costituente (Approvazioni a sinistra). Voi volete fare una norma più grave, ma in questo modo si può andare incontro a gravissime ingiustizie, poiché molte Commissioni hanno trovato naturale e perfettamente giusto di poter fare queste discriminazioni. Ora, poiché il carattere della norma oggi è profondamente diverso, almeno come è stata proposta dalla Commissione, questa ad unanimità, aveva deciso di respingere tutti questi emendamenti. (Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Come l’Assemblea ha compreso, si tratta non di un emendamento, ma di un’aggiunta, cioè si indica un’altra categoria di sospesi dall’esercizio del diritto elettorale. La dizione precisa è questa: d) ispettore nazionale o ispettrice nazionale delle organizzazioni femminili del partito fascista.

La pongo in votazione.

(Dopo prova e controprova, è approvata).

Passiamo alla lettera d), del testo governativo:

«d) segretario politico federale del partito fascista».

A questa lettera è stato presentato il seguente emendamento dall’onorevole Schiavetti, lettera e) del suo testo:

«e) segretario o vicesegretario federale (o carica equipollente) sin dalla prima organizzazione del partito fascista; fiduciaria o vicefiduciaria delle federazioni dei fasci femminili».

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Nell’emendamento Schiavetti bisognerebbe dire al plurale: «o cariche equipollenti». Si tratta, evidentemente, di un errore di stampa.

PRESIDENTE. Sta bene: si dirà: «o cariche equipollenti».

Chiedo all’onorevole Relatore il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione aveva espresso parere contrario. Se adesso i Commissari votano differentemente, il Relatore non può che dire che la Commissione aveva approvato un testo diverso e perciò la Commissione, come tale, non può che riaffermare la sua precedente deliberazione contraria, non senza far rilevare, per il valore dell’opera dalle Commissioni parlamentari, il fatto di atteggiamenti di taluni commissari, diversi in sede di Commissione e in Assemblea.

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Vorrei sapere dalla cortesia del presentatore dell’emendamento quali dovrebbero essere le «cariche equipollenti», per intendere il concetto dell’emendamento.

PRESIDENTE. Io non ho la competenza specifica in materia e, quindi, do la parola all’onorevole Lussu.

LUSSU. Significa questo: nel testo è detto: «Segretario o Vicesegretario federale». Queste due cariche sono venute in un secondo tempo, quando le cariche venivano dall’alto; prima di questo secondo tempo queste cariche erano elettive, ma esplicavano la stessa funzione. Quindi, «cariche equipollenti» significa tanto del primo, quanto del secondo tempo. (Commenti).

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento dell’onorevole Schiavetti con la correzione: «o cariche equipollenti».

(È approvato).

Pongo in votazione l’emendamento dell’onorevole Veroni, del seguente tenore:

«Alla lettera d) sostituire le parole: del partito fascista, con le seguenti: e componenti del direttorio federale del partito fascista».

(Dopo prova e controprova, è approvato).

Pongo in votazione la lettera e) nel testo governativo:

«e) le medesime cariche di cui alle lettere precedenti, durante la pseudo repubblica sociale»;

(È approvata).

SCHIAVETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Credo che molti colleghi non abbiano capito il valore della norma votata. Il Governo, secondo appare dal testo, si limita ad escludere dal diritto elettorale soltanto le massime cariche del Partito fascista repubblicano.

UBERTI, Relatore. No. Non è esatto. Le medesime cariche già indicate.

SCHIAVETTI. Ma le medesime dei commi precedenti, quelle indicate alle lettere a), b), c), d), quindi le massime cariche.

PRESIDENTE. Quando si dice «le medesime cariche» è chiaro che ci si riferisce a tutte quelle che sono state indicate in precedenza nell’articolo. Ora, in base alla votazione dell’Assemblea, sono state richiamate anche quelle indicate nei suoi emendamenti aggiuntivi.

SCHIAVETTI. Non mi pare.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. L’onorevole Schiavetti ha presentato un emendamento in cui non soltanto le cariche che sono indicate qui, ma tutte quelle conferite dalla repubblica sociale, senza distinzione, portano all’esclusione dal voto. L’emendamento Schiavetti, quindi, ha un’estensione infinitamente più larga di quello del Governo.

PRESIDENTE. Permetta, onorevole Laconi: lei ha perfettamente ragione, ma noi metteremo in votazione prima il testo del Governo, giacché abbiamo deciso, per semplicità di votazione, di regolarci in modo da esaurire prima le votazioni sopra le proposte del disegno di legge, poi quelle relative alle proposte contenute negli emendamenti aggiuntivi.

Pongo in votazione la lettera f) del testo governativo:

«Ministro o sottosegretario di Stato dei governi fascisti in carica o nominati dal 3 gennaio 1925».

(È approvata).

È stato presentato dalla Commissione un emendamento aggiuntivo del seguente tenore:

«Aggiungere dopo la lettera f) la seguente:

«f-bis) deputati che dopo il 3 gennaio 1925 abbiano votato leggi o mozioni intese a mantenere in vita il regime fascista; i senatori nelle stesse condizioni, eccetto quelli discriminati dall’Alta Corte di giustizia».

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Perché non portare il termine addirittura al novembre 1922?

UBERTI, Relatore. Che senso ha il novembre del 1922? Da dove viene fuori questa data?

Voci. Che c’entra il novembre del 1922?

RUSSO PEREZ. Io intendevo richiamare l’attenzione dell’Assemblea sulla stranezza della data proposta dalla Commissione, per la quale l’appoggio dato al regime anteriormente ad essa non conta nulla…

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Io sono contrario all’emendamento, perché l’articolo, quale è proposto, comprende un elenco di cariche precise e se non risulta da altre proposte di modificazioni che io ignoro, o da altre varianti, che pure ignoro, tutte le categorie di cariche che sono indicate nel progetto di articolo concernono degli elementi precisi di obiettività, di modo che una Commissione comunale ha gli elementi di fatto necessari per vedere se si verifichi o no l’ipotesi che uno abbia ricoperto una determinata carica. E fino a quando si tratta di un giudizio che concerne un fatto accertabile nei suoi elementi costitutivi, queste Commissioni comunali hanno la competenza e la possibilità di fare accertamenti e constatazioni in conformità al vero. Facendoli in difformità, le decisioni sarebbero emendabili in base ad elementi precisi di fatto. Ma quando, invece, con l’emendamento suggerito dalla Commissione, si entra nell’apprezzamento della natura di un voto per sapere se quel determinato deputato o quel determinato senatore ha, col proprio voto, contribuito al mantenimento del regime fascista, ecc., si entra in un campo strettamente soggettivo di valutazione e si esce completamente da tutta quella che è l’economia dei casi esemplificati nella legge, per cui dal rilievo di una circostanza di fatto si sconfina in un apprezzamento di carattere assolutamente soggettivo e personale, che per sua natura mi pare non possa essere affidato ad una Commissione eletta da un qualsiasi Consiglio comunale in uno degli ottomila comuni d’Italia.

Mi pare di molta gravità questa considerazione, perché l’adozione dell’emendamento altererebbe tutta l’economia dell’articolo e tutte le caratteristiche delle categorie che sono state indicate.

RUBILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Ho chiesto di parlare per una dichiarazione di voto, anche a nome dei colleghi liberali, per quello che riflette i senatori che si vorrebbero escludere dalle liste elettorali.

La questione non ha grande importanza, trattandosi di un numero limitato di persone, ma deve essere richiamata su di essa l’attenzione dell’Assemblea dal punto di vista giuridico, perché bisogna tener conto anche del pronunciato della Corte di cassazione. (Interruzioni a sinistra).

Una voce a sinistra. Quale pronunciato?

RUBILLI. Un momento; lasciate che spieghi il mio concetto; poi l’approverete o non l’approverete; ma permettetemi di esporlo con precisione. (Commenti). Per ora almeno io non voglio nemmeno occuparmi di proposito della questione di merito, per esaminare se sia giusta o meno la sanzione proposta. E dovrebbe sempre ritenersi giusta solo sino ad un certo punto, perché, secondo noi liberali, dovrebbe bastare l’ineleggibilità. Una disposizione di legge in tal senso potrebbe essere più che sufficiente; ma dire che non debbono essere nemmeno iscritti come elettori nelle liste elettorali, coloro che pure hanno rivestito la carica di senatori in verità mi pare troppo. (Interruzioni a sinistra). In questo modo si arriverebbe ad un eccesso. Per esempio, se fossero viventi oggi Marconi e Puccini, sarebbero esclusi anche dalla facoltà di votare. (Commenti a sinistra). Sarebbe proprio un’odiosa esagerazione. Almeno il diritto al voto non dovrebbe mai essere negato a chi è incorso solo in responsabilità politiche, sia pure di non lieve entità.

Comunque, della questione di merito potremo parlare più tardi e forse anche di qui ad un momento. Sotto il profilo giuridico io ricordo ora, che i senatori vennero sottoposti ad un rigoroso giudizio sull’opera che avevano spiegato durante il regime fascista; di molti, perciò, si pronunziò la decadenza, ma poi è sopraggiunta una sentenza della Corte di cassazione che ha annullato i provvedimenti che all’uopo si credette di adottare.

Una voce a sinistra. Nella forma.

RUBILLI. Nella forma, sia pure, ma basta la forma, basta il vizio procedurale, basta anche la mancanza di motivazione perché una sentenza non sia più valida. Ora, noi non ci sentiamo in grado di sopprimere anche la Corte di cassazione, come l’altro giorno, con una semplice battuta, è stato demolito il Consiglio di Stato, affermandosi che nonostante dei funzionari sottoposti a giudizio di epurazione abbiano visto regolarmente accolto in Consiglio di Stato il ricorso cui avevano diritto, saranno egualmente cacciati dalla pubblica amministrazione. Sono questi dei criteri rivoluzionari ai quali non possiamo in alcun modo aderire. Una sanzione qualsiasi, anche di semplice non iscrizione nelle liste elettorali, non può mai derivare da un provvedimento che non è definitivo. Occorrerà prima comunque ripetere un giudizio, e regolare dopo la sentenza della Corte di cassazione la sorte dei singoli senatori.

Non dite che qui si tratta soltanto di applicare un criterio politico, perché anche quello che venne prima valutato e sino alla Corte di cassazione è un criterio politico. In un’Assemblea legislativa, che non è un semplice comizio, non deve sorgere uno stridente, inconciliabile conflitto con le nostre supreme libere istituzioni.

Le leggi in base alle quali si emisero pronunziati di epurazione non vennero fatte né dalla Consulta né da altra Assemblea, ma proprio da quegli uomini che oggi non vorrebbero rispettarle! Se in queste leggi che pure hanno un carattere esclusivamente politico essi posero la facoltà di ricorrere, per i funzionari, al Consiglio di Stato, e, per i senatori, alla Cassazione, occorre che questa facoltà sia legalmente ed efficacemente esercitata.

Per queste considerazioni noi votiamo contro la sanzione per cui si vorrebbe l’esclusione dalle liste elettorali dei senatori di cui è stata pronunciata la decadenza, rimettendoci al pronunciato della Corte di cassazione (Commenti a sinistra), ed aspettando perciò che si giunga ad una soluzione definitiva con mezzi legali. (Commenti a sinistra).

Voci a sinistra. Ai voti!

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Insieme ai miei compagni di Gruppo, voterò contro l’emendamento aggiuntivo proposto dalla Commissione così come abbiamo già votato e voteremo contro tutte le norme che tendono ad eliminare dalla massa elettorale delle persone, che rimangono vive ed operanti e delle quali sì può pensare che, mediante codeste norme persecutorie, diventeranno più fasciste di prima.

Ho voluto fare questa dichiarazione di voto perché qualcuno potrebbe avere interesse a mostrare di credere che io avessi fatto sul serio quella proposta di retrodatazione al novembre 1922.

Voci a sinistra. Si voti!

PRESIDENTE. Evidentemente è il Presidente che, più di ogni altro, ha interesse a che la votazione proceda con speditezza, quindi, se non passo subito alla votazione, ci deve essere un qualche impedimento; in questo momento è stato presentato dal Governo il seguente emendamento:

«Deputati eletti dopo il 3 gennaio 1925 e senatori, tranne coloro che sono stati discriminati dall’Alta Corte di giustizia o che non furono ad essa deferiti».

L’onorevole Ministro dell’interno ha facoltà di svolgere l’emendamento.

SCELBA, Ministro dell’interno. L’emendamento proposto dal Governo colpisce, con la sanzione della sospensione del diritto elettorale, tutti i deputati eletti dopo il 3 gennaio 1925, così come è proposto anche dall’emendamento dell’onorevole Schiavetti, nonché tutti i senatori.

Si fa eccezione unicamente per i senatori che non furono deferiti all’Alta Corte di giustizia, perché il loro antifascismo fu ritenuto assolutamente indiscusso e indiscutibile, o coloro che furono discriminati dall’Alta Corte.

Questo emendamento comprende nella sanzione i senatori di cui si è parlato l’altro giorno, cioè quelli per i quali c’è stato un pronunciato della Cassazione.

L’emendamento dell’onorevole Schiavetti, che tende a colpire con la sanzione della perdita del diritto elettorale i senatori che abbiano votato mozioni o leggi fondamentali del regime fascista, pecca di deficienza, perché non è precisato quali siano queste leggi fondamentali, non è precisato chi dovrebbe giudicare dell’attività politica di così alti rappresentanti politici quali i senatori, che, per legge, possono essere giudicati esclusivamente dal corpo di cui facevano parte, mentre adesso il giudizio verrebbe rimesso a delle semplici Commissioni comunali e questa possibilità mi pare veramente una mostruosità giuridica. Dal punto di vista pratico mi pare poi, che non possiamo affidare un giudizio implicante una valutazione politica a delle semplici Commissioni comunali, giudizio che una legge precedente dello Stato aveva rimesso all’Alta Corte costituita dal Governo, perché il Governo sentiva l’esigenza politica e morale che la valutazione dell’attività di questi senatori fosse fatta da un organo adatto. Per evitare questo, l’emendamento del Governo fissa delle categorie, cioè dice che tutti i senatori sono colpiti dalla perdita del diritto elettorale eccezion fatta per due categorie: 1°) la categoria dei senatori che non furono mai deferiti all’Alto commissario per l’epurazione ed all’Alta Corte di giustizia perché dichiaratamente antifascisti. Mi pare che questa eccezione sia fin troppo ovvia; 2°) i senatori che sono stati espressamente discriminati dall’Alta Corte; perché non possiamo rimettere in discussione il giudizio già fissato da una magistratura creata appositamente dal Governo per giudicare la condotta politica di questi senatori. Ora, se una magistratura a carattere eccezionale speciale ha deciso che questi senatori non collaborarono con il fascismo, che questi senatori non apportarono un contributo al regime fascista, noi non possiamo mettere in discussione il giudicato di essa, affidando una nuova decisione ad una semplice commissione comunale.

Questo mi pare che la nostra Assemblea non potrebbe assolutamente accettarlo senza mettere in discussione i principî fondamentali del diritto. Io insisterei, quindi, su questo emendamento che non pregiudica nessun elemento politico, perché sancisce, in un certo senso, il principio della colpevolezza di tutti i senatori, salvo due categorie, la cui attività antifascista o la cui mancanza di apporti al regime fascista sono state accertate dall’Alta Corte.

PRESIDENTE. Chiedo al Relatore il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La proposta della Commissione, specialmente per quanto riguarda l’ultima aggiunta relativa ai senatori che non furono deferiti all’Alta Corte, implica solamente l’ammissione al voto di quei dieci senatori che l’Alto Commissariato non deferì all’Alta Corte e che furono membri della Consulta Nazionale: Benedetto Croce, Einaudi, Bergamini, De Nicola, ed altri che fecero già parte della Consulta Nazionale. Pertanto, è necessaria questa aggiunta.

C’è una nuova modifica apportata dal Governo, che a me sembra sia decisamente opportuna per questa considerazione: perché, mentre per i senatori attraverso l’elenco dei discriminati dell’Alta Corte e di quelli non deferiti si arriva alla certezza di quelli esclusi dal diritto di voto, ben diversamente accade quando si debbano stabilire quali siano le leggi fondamentali intese a mantenere in vita il regime fascista. È oggettivamente difficile esigere l’elenco di quelle che si considerano leggi fondamentali fasciste, lo è anche maggiormente, anche per l’inadeguatezza dell’organo, se tale giudizio dovesse rimanere affidato a Commissioni comunali o mandamentali.

Ora, per i deputati si era invece lasciata la formula: «I deputati che dopo il 3 gennaio 1925 abbiano votate leggi e mozioni intese a mantenere in vita il regime fascista», perché non si trovava una formula giuridica più concreta e precisa; perché, per esempio, la dizione «oppositori nell’Aula», era di difficile interpretazione. Adesso con la formula proposta: «I deputati eletti dopo il 3 gennaio 1925», si vengono a colpire tutti i deputati eletti nel 1929 quando nell’Aula non c’era neanche l’opposizione. (Interruzioni a sinistra – Commenti). Se non si lascia che il relatore esprima l’opinione e informi delle decisioni della Commissione, rinunzio a parlare. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non si può impedire al Relatore di esprimere il parere della Commissione. La prego, onorevole Uberti, di voler continuare.

UBERTI, Relatore. La relazione che ho fatta e che è stampata, fu approvata all’unanimità, per cui non comprendo perché oggi, la mia illustrazione trovi tanti oppositori.

Ora, la formula della Commissione che è: «I deputati che dopo il 3 gennaio 1925 abbiano votato leggi, ecc.», presuppone un giudizio di merito da parte delle Commissioni comunali. Come fanno le Commissioni comunali a fare questo accertamento? Per i senatori, il nuovo regime aveva nominato un’Alta Corte che ha esaminato nel merito. Possiamo noi seriamente demandare alle Commissioni comunali e mandamentali una simile indagine? Vi sono dei comuni ed anche dei mandamenti dove non vi sarà neanche la possibilità di consultare gli Atti parlamentari. Tutte le Commissioni comunali dovrebbero venire a Roma per consultare gli Atti parlamentari, per prendere nota di coloro che votarono o no le leggi fasciste. Vi sarebbero poi, una infinità di decisioni diverse, perché una Commissione comunale potrebbe essere severissima ed un’altra indulgente. Quindi, si stabilirebbero delle sperequazioni nei giudicati. Ora, se fosse possibile arrivare a trovare una formula di carattere oggettivo, anche per i deputati, sarebbe molto meglio. Però, vorrei esprimere al Governo una osservazione.

Adottando la formula: «deputati eletti dopo il 3 gennaio 1925» si vengono ad escludere tutti i deputati eletti nel 1924, che facevano parte della lista fascista. Si potrebbe eventualmente dire: «tranne i deputati eletti nel 1924, facenti parte della lista fascista». Sarebbe per lo meno una norma obiettiva, alla quale si potrebbe riferirsi. Altrimenti, escluderemmo tutti i deputati eletti nel 1924, i quali possono non essere stati rieletti nel 1929. (Interruzioni a sinistra).

Se sono stati eletti nel listone, hanno votato evidentemente anche le leggi fasciste.

PRESIDENTE. Sicché, la Commissione propone un emendamento all’emendamento del Governo?

LIBERTI, Relatore. La Commissione desidera sentire se il Governo accetta la proposta.

SCELBA, Ministro dell’interno. Il Governo accetta.

PRIOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PRIOLO. Concordo perfettamente con quello che ha detto l’onorevole Uberti. Piuttosto che indagare su chi ha votato o meno una legge fondamentale, è preferibile stabilire dei punti fermi. Per i senatori, siamo di accordo: i discriminati sono discriminati.

Voci a sinistra. No; ed i discriminati non giustamente?

PRIOLO. Per i deputati possiamo riferirci alle elezioni capestro, quelle del 6 aprile 1924: allora, dopo una battaglia accesa, dirò di più sanguinosa (candidati uccisi, bastonati, ecc.), gli antifascisti dei vari partiti di opposizione, eletti, fummo un centinaio circa. Tutti gli altri deputati, i fascisti, costituivano una massa eterogenea, minacciosa, una canea ignobile ed urlante: ora bisogna che a costoro, che hanno prostituito il Parlamento, venga applicata una sanzione morale: la loro identificazione è facilissima, perché basta leggere i nomi dei componenti la XXVII legislatura. (Approvazioni a sinistra).

SCHIAVETTI, Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Per quel che riguarda in genere i senatori, la data 3 gennaio 1925 ha valore storico inconfondibile.

Per i senatori che, a nostro parere, sono stati ingiustamente discriminati dall’Alta Corte di giustizia, ritengo oneste le preoccupazioni sollevate da molte parti, di non affidare a Commissioni comunali e provinciali le decisioni sopra casi così delicati, lontani dal loro ambiente. Questi casi potrebbero essere deferiti ad una commissione parlamentare – da indicare in altro articolo – la quale potrebbe facilmente indagare quali senatori hanno votato le leggi fondamentali.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Prego gli onorevoli colleghi di rinunciare agli. emendamenti e di attenersi al testo proposto dalla Commissione. Ho sentito dall’onorevole Uberti che su tale testo ci fu l’unanimità; quindi tutti i settori furono d’accordo.

L’onorevole Priolo cerca dei punti fermi e crede di averli trovati. Non credo che ci siano punti fermi in materia così fluttuante. Egli vuole escludere, per esempio, soltanto i deputati candidati della lista fascista. E quegli altri, che, appartenendo ad altre liste, collaborarono col Governo, non dovrebbero essere esclusi? Non collaborarono forse con atti rilevanti all’affermazione del regime, onorevole Priolo? Non fate distinzioni, perché si entra in un campo molto pericoloso. Lasciate le cose così come stanno. S’intende, che noi voteremo contro, anche così come stanno.

PRIOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PRIOLO. Propongo che da coloro i quali furono eletti nel 1924 siano esclusi quelli che fecero la secessione aventiniana (ed è logico), il gruppo di oppositori nell’Aula e quelli che non giurarono. Infatti abbiamo avuto alcuni, che furono eletti, ma non vennero e non giurarono. Escludiamo questi tre gruppi, ed a tutti gli altri applichiamo la sanzione. (Approvazioni).

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Propongo che dopo la parola «deputato», siano aggiunte le parole: «consiglieri nazionali».

PRESIDENTE. Le faccio osservare che i consiglieri nazionali sono già compresi in una lettera a parte, vale a dire nella lettera g) del testo proposto dal Governo.

Onorevole Uberti, intende presentare un emendamento al testo del Governo?

UBERTI, Relatore. Attendiamo la proposta dell’onorevole Priolo.

PRIOLO. Sto cercando di redigerlo in maniera concreta e possibilmente di accordo con la Commissione. (Approvazioni al centro).

UBERTI, Relatore. Non si può improvvisare un emendamento in materia tanto delicata. D’altra parte non vorrei che apparisse come un emendamento mio personale.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Onorevoli colleghi, avendo fatto parte della Commissione parlamentare elettorale ed avendo seguito tutta la discussione che ci fu in quella occasione, io posso riassumere all’Assemblea alcuni concetti fondamentali. Il principio che fu accettato da tutti all’unanimità fu quello di escludere deputati e senatori che comunque avessero preso parte e partecipato a rafforzare, con le loro leggi e la loro attività, il regime fascista.

Per quello che si riferisce ai deputati, non c’è dubbio che, adottando la formula suggerita dall’onorevole Priolo, si viene a precisare che tutti coloro che furono eletti nel 1924 – tranne quelli che furono dichiarati decaduti, o perché presero parte alla secessione aventiniana, o perché preventivamente non giurarono e non vollero intervenire in quella Assemblea, e quelli che furono oppositori nell’Aula (e sappiamo quali sono perché poi furono dichiarati consultori nazionali) – appartennero al regime fascista. Quindi, noi possiamo benissimo da queste tre esclusioni (aventiniani, e sappiamo quali sono; quelli che non giurarono, e li conosciamo perché furono pochi; ed oppositori nell’Aula, e li conosciamo perché furono dichiarati successivamente consultori nazionali), dichiarare tutti gli altri sotto la sanzione.

Per quanto riguarda i senatori, la situazione è anche per me più chiara. Per i senatori vi è stata una legge che li deferì all’Alta Corte di giustizia. Vi furono dei senatori non deferiti in quanto l’Alto Commissario ritenne che quei senatori, che poi furono in tutto dieci o dodici, fossero indubbiamente antifascisti, figure esemplari della vita del Paese. Un esempio è dato dall’onorevole Bergamini.

Su questo punto, quindi, abbiamo la sicurezza che essi non parteciparono all’attività del regime fascista.

In secondo luogo, abbiamo una lista certa, ossia ci furono dei senatori che furono deferiti all’Alta Corte di giustizia e l’Alta Corte li discriminò. Sono circa ottanta, per cui in totale si arriva ad un centinaio.

Non posso prendere in esame quelli che oggi hanno ottenuto dalla Cassazione l’annullamento della decisione dell’Alta Corte di giustizia perché io, non come Ministro guardasigilli, ma come cittadino, ritengo che quella sentenza non può avere valore, poiché attraverso delle capziosità è arrivata ad annullare una decisione, non tenendo presente che manca l’organo che dovrebbe riprendere l’esame nel merito, per cui questi signori in seguito ad essa ritornano nel Senato. Ed oltre i trentadue che, in questo modo, hanno avuto annullata la decisione dell’Alta Corte di giustizia, ci sono altri 150 ricorsi. Quindi, non è possibile; anzi noi presenteremo subito una legge all’Assemblea in cui dichiareremo che è sciolto il Senato perché furono dichiarate cessate le sue funzioni, ma ha continuato la sua attività in altre materie, come nella materia giurisdizionale. Quindi, noi dichiareremo decaduto il Senato. (Applausi).

RUBILLI. Ma questa legge non c’è ancora!

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. La faremo. E siccome la legge precedente stabilisce che la posizione giuridica dei senatori deve essere regolata dalla Costituente, noi diciamo che daremo, salva l’approvazione dell’Assemblea, il titolo onorifico di senatore e l’indennità ferroviaria soltanto a quelli che non furono rinviati all’Alta Corte di giustizia e a quelli che dall’Alta Corte di giustizia furono discriminati, appunto per mettere una barriera a quella che può essere una nuova invasione di senatori. (Applausi a sinistra).

RUBILLI. Siamo d’accordo, ma ci vuole una legge.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Sarà una legge che presenterò alla vostra approvazione. Potremo mettere questo anche nella legge elettorale, cioè esclusi quelli che non furono deferiti all’Alta Corte di giustizia perché notoriamente antifascisti o quelli che l’Alta Corte di giustizia, che fu l’organo chiamato ad esaminare se questi senatori avessero votato o no le leggi fasciste, ha già esaminato. Non possiamo tornare su un giudizio già pronunciato.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Relatore di esprimere il suo parere sul punto di vista dell’onorevole Ministro di grazia e giustizia.

UBERTI, Relatore. Dopo la dichiarazione del Ministro Grassi, la quale, in sostanza, aderisce alla proposta Priolo, come Relatore della Commissione, d’accordo anche con un altro membro della Commissione, onorevole De Michelis, abbiamo presentato un emendamento il quale corrisponde a questo criterio obiettivo.

PRESIDENTE. Si dia lettura dell’emendamento presentato dagli onorevoli Uberti, Priolo e De Michelis.

AM AD EI, Segretario, legge:

«Deputati eletti dopo il 3 gennaio 1925 e quelli eletti il 6 aprile 1924, eccetto, per questi ultimi, i deputati dichiarati decaduti perché aventiniani, quelli che non giurarono e quelli che fecero parte dell’opposizione nell’Aula».

BUBBIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BUBBIO. L’onorevole Priolo ha dichiarato che, come elemento discretivo per l’ultima categoria, sarebbe stato assunto il fatto della nomina alla Consulta.

Ora, sta di fatto che qualche deputato, che non ha votato le leggi fasciste, non venne nominato nella Consulta.

Non vorrei che la carenza di questo elemento bastasse per farlo decadere. Quindi non è criterio discretivo l’essere nominato consultore, è il fatto di essersi schierato all’opposizione nell’Aula.

PRIOLO. L’onorevole Bubbio ha perfettamente ragione.

PRESIDENTE. Faccio rilevare all’onorevole Bubbio che l’aver fatto parte della Consulta non figura più nell’emendamento come elemento discretivo.

GASPAROTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO. Mi dichiaro favorevole al testo originario della Commissione per quanto riguarda la prima parte, e cioè quella che delibera la decadenza dal mandato elettorale a coloro che dopo il 3 gennaio 1925, abbiano votato leggi e mozioni intese a mantenere il regime fascista.

Per i senatori parleremo dopo. Mi dichiaro favorevole perché, prima di tutto, questa data 3 gennaio 1925 è già acquisita. nella nostra storia parlamentare, come, ha detto l’onorevole Schiavetti, e trova riferimento nei testi votati dal Governo, e dalla Consulta precedentemente accettati; secondariamente (e questo è l’argomento più delicato, particolarmente rivolto all’onorevole Priolo) noi ritornando sulle elezioni, che furono relativamente libere, del 1924, veniamo a ferire il principio del suffragio popolare.

Qualunque siano i deputati eletti dal popolo, essi sono legittimamente investiti del mandato e su questo mandato non è lecito discutere. Abbiamo invece il diritto di giudicare la condotta di quei deputati che, comunque scelti dal popolo dopo la data del 3 gennaio, abbiano votato mozioni o leggi che hanno ferito le guarentigie parlamentari. Quindi giudico giuridicamente e politicamente esatto il testo adottato originariamente dalla Commissione.

RUSSO PEREZ. E quelli che prima di quella data votarono i pieni poteri non concorsero con atti rilevanti a dar vita al regime? (Commenti).

GASPAROTTO. Notate, colleghi, che io non sono fazioso; pur avendo qualche motivo di risentimento non sono fazioso…

RUSSO PEREZ. È questa legge che è faziosa!

GASPAROTTO. …voto tranquillamente queste restrizioni, perché, l’ultima parte dell’emendamento Schiavetti porta una norma di alta equità, perché dice che da tutti questi casi di privazione del diritto di voto sono eccettuati coloro che non sono stati dichiarati punibili ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 7 del decreto legislativo 27 luglio 1944 e coloro che prima del 10 giugno 1940 abbiano assunto un deciso atteggiamento contro il fascismo. Perché dobbiamo conoscere, ed io che non sono stato mai fascista lo riconosco per primo, che ci furono fascisti in buona fede, i quali ad un certo momento si sono liberamente ravveduti e sono passati a netta opposizione.

UBERTI, Relatore. Però hanno collaborato col fascismo! (Commenti).

GASPAROTTO. Quindi, mi sento tranquillo, di fronte all’ultima parte dell’emendamento Schiavetti.

Per quanto riguarda invece i senatori, siamo perfettamente d’accordo che ci deve essere l’eccezione per quelli discriminati dall’Alta Corte di giustizia. Ma se però fra questi vi sono coloro che hanno effettivamente sostenuto il regime fino all’ultimo momento – e ciò può essere rilevato dagli appelli nominali e dagli atti parlamentari. – costoro possono essere esclusi e dichiarati immeritevoli di appartenere al corpo elettorale.

PRIOLO. Io non concordo affatto con quello che ha detto l’onorevole Gasparotti: la Camera eletta il 6 aprile 1924 fu la Camera più ferocemente fascista. (Applausi – Commenti).

Voci. Matteotti! Matteotti!

PRESIDENTE. Possiamo ora procedere alla votazione della lettera: f-bis). Per la parte riguardante i deputati pongo in votazione l’emendamento proposto dagli onorevoli Uberti, Priolo e De Michelis:

«deputati eletti dopo il 3 gennaio 1925 e quelli eletti il 6 aprile 1924, eccetto, per questi ultimi, i deputati dichiarati decaduti perché aventiniani, quelli che non giurarono e quelli che fecero parte dell’opposizione nell’Aula».

(È approvato).

Pongo in votazione la seconda, parte della lettera f-bis):

«senatori, eccetto quelli discriminati dall’Alta Corte di giustizia e quelli non deferiti all’Alta Corte di giustizia».

Una voce. Si potrebbe dire: «non deferiti alla stessa».

PRESIDENTE. Nel coordinamento si potranno vedere questi emendamenti formali: meglio del resto un eccesso piuttosto che un difetto di indicazione.

(Dopo prova e controprova, è approvata).

SCHIAVETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Ritengo che debba restare inteso che la parte del mio emendamento che parla dei senatori è di carattere aggiuntivo e non ha quindi a che vedere con ciò che abbiamo votato ora. Si tratta di un’eccezione all’eccezione. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Schiavetti, la questione sarà risolta quando ella chiederà, come ha diritto, che sia messo in votazione il suo emendamento; ma, come prima impressione, mi pare che non si possa condividere la sua opinione.

SCHIAVETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Non credo di essere in errore, poiché faccio rilevare che l’eccezione testé votata è fatta anche nel mio emendamento. Ad essa però è aggiunta un’altra cosa: ed è su quest’altra cosa appunto che dovrà pronunciarsi l’Assemblea.

MOSCATELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MOSCATELLI. Mi pare che si sia fatta confusione: io domando che venga fatta una votazione separata per i senatori che non sono stati deferiti all’Alta Corte e per quelli che dall’Alta Corte sono stati discriminati.

PRESIDENTE. La sua richiesta, onorevole Moscatelli, non può essere accolta, perché la parte dell’emendamento di cui lei parla è stata già votata.

Chiedo ora all’onorevole Schiavetti quale parte del suo emendamento vuole che sia messa ai voti.

SCHIAVETTI. Questa: «o che, pur non essendo stato dichiarato decaduto, abbia partecipato all’approvazione delle leggi di cui sopra o dei loro principî informativi».

Per cui tutto l’emendamento risulterebbe del seguente tenore:

«f-bis) deputato che, solo il 3 gennaio 1925, abbia votato leggi fondamentali intese la mantenere in vigore il regime fascista; senatore che sia stato dichiarato decaduto dall’Alta Corte o che, pur non essendo stato dichiarato decaduto, abbia partecipato all’approvazione delle leggi di cui sopra o dei loro principî informativi».

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Vorrei semplicemente chiarire un po’ la situazione. Mi pare che si è votato dopo aver stabilito questo concetto: che i senatori tutti devono essere compresi in questa disposizione, facendo queste due eccezioni: i senatori i quali non furono deferiti, e quelli che, deferiti, furono discriminati dall’Alta Corte di giustizia. Siccome abbiamo già stabilito questo principio, l’Assemblea non può tornare sopra tale decisione con un’altra proposizione che li escluderebbe. È il Regolamento che si oppone. Il Regolamento si oppone anche a che si metta in votazione un’altra proposizione, la quale sarebbe in contraddizione con quello che abbiamo votato.

SCHIAVETTI. Non è in contraddizione.

UBERTI. Relatore. È in contraddizione aperta.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Se mi si permette, è in contraddizione, perché l’effetto di questa votazione è che i senatori discriminati hanno diritto ad essere inclusi nelle liste elettorali. Ora, se essi hanno questo diritto, in base ad una votazione che abbiamo fatta, non è possibile stabilire un’altra proposizione che avrebbe comunque un effetto diverso. Questo, per la forma; e la forma è sostanza nella vita parlamentare, perché non si può tornare su una votazione già fatta.

Ma, ad ogni modo, voglio tranquillizzare – (Interruzione dell’on. Cianca) onorevole Cianca, lei dirà poi tutta la sua opinione – anche sulla sostanza dell’emendamento. Quando ho chiesto e vi ho proposto questa formula, essa aveva anche questo significato: siccome l’Alta Corte di giustizia ha esaminato questi senatori proprio da questi punti di vista delle votazioni che hanno fatto durante quel periodo, per sostenere il regime fascista, ed ha pronunciato una decisione, la quale deve far stato (in quanto si tratta di un organo giurisdizionale ad hoc che l’ha adottata), non possiamo tornare su questa questione con altre determinazioni, di forma incerta, tanto più che dobbiamo dare il senso della certezza del diritto e ci siamo sforzati di darlo in questa maniera, dicendo che tutti i senatori sono esclusi dal diritto elettorale, tranne queste due categorie.

Quindi, sia per la sostanza che per la forma, che costituiscono preclusione ad ogni emendamento, credo che la nuova proposta non possa essere presa in considerazione.

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. È evidente che all’emendamento Schiavetti si oppone la deliberazione già adottata, perché con essa si è voluto proprio escludere un esame di merito da parte delle Commissioni mandamentali e comunali, e abbiamo cercato, invece, di arrivare ad una precisazione obbiettiva tale che si potrebbe individuare addirittura l’elenco di coloro che sono ammessi al voto.

Quindi, la proposta dell’onorevole Schiavetti è proprio in antitesi con la deliberazione già votata.

CIANCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIANCA. L’onorevole Guardasigilli mi consentirà di fargli rilevare che la sua eccezione di forma non è fondata.

L’onorevole Schiavetti ha presentato un emendamento, nel quale è detto che sono esclusi dalla sospensione del diritto di voto quei senatori i quali siano stati discriminati dall’Alta Corte di giustizia, purché non abbiano partecipato alla votazione di leggi fondamentali del regime fascista. Si tratta, cioè, di sancire il criterio a cui si è riferito in principio l’onorevole Grassi; criterio di carattere politico, che ha valore fondamentale indicativo in una legge, la quale tende a stabilire delle sanzioni di carattere politico.

Ora, che l’Alta Corte abbia pronunciato delle sentenze che hanno discriminato alcuni senatori, non è un fatto che contrasti con l’elemento obiettivo addotto durante la discussione dall’onorevole Schiavetti, il quale, essendo andato in Senato ed avendo compulsato gli atti parlamentari di quella Assemblea, ha stabilito che alcuni senatori, discriminati dall’Alta Corte di giustizia, avevano dato voto favorevole alle leggi fondamentali del fascismo.

Io ho assistito con legittimo stupore allo strano succedersi di emendamenti su emendamenti tra loro contradittori, proposti dal Governo. La legge che stiamo esaminando è una legge di carattere politico. Non sarebbe concepibile che noi colpissimo con la sanzione della sospensione elettorale delle categorie di secondo ordine e che facessimo sfuggire a questa sanzione politica uomini di alta responsabilità fascista. (Vivi applausi a sinistra).

Il Governo ha detto, per bocca dell’onorevole Grassi, che il criterio che lo aveva animato era precisamente quello di colpire uomini che, nell’esercizio del loro mandato politico, avevano assunto responsabilità precise di fronte al fascismo. Ora, questo criterio è precisamente riaffermato nell’emendamento Schiavetti; il quale, pur accettando che devono essere esentati dalla sospensione del voto i senatori discriminati dall’Alta Corte, stabilisce un’eccezione che è piena di significato politico e dà un senso a tutta la legge: una sanzione per coloro che risulta abbiano votato a favore delle leggi fondamentali del fascismo. (Applausi a sinistra).

Una voce a sinistra. Ai voti l’emendamento Schiavetti.

RUSSO PEREZ. Non è un’aggiunta, è una modificazione.

UBERTI, Relatore. L’emendamento Schiavetti non si può votare (Commenti a sinistra), perché non si possono votare due proposizioni contradittorie. La votazione testé fatta esclude l’aggiunta dell’onorevole Schiavetti.

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Il parere mio e del mio Gruppo è che l’emendamento dell’onorevole Schiavetti non possa essere messo ai voti; e in ciò mi associo alle ragioni espresse molto chiaramente dai Ministro Guardasigilli.

In effetti, quando è stata votata la parte precedente dell’articolo, è stata votata con questo intento e con questo spirito: che essa concludesse la materia. (Commenti – Interruzioni a sinistra).

Una voce a sinistra. No!

MORO. Sarebbe stato opportuno che queste riserve, invece che dopo, fossero state fatte prima.

Da parte nostra s’intendeva concludere la materia, che finiva col punto. E mi pare chiaro che con ciò s’intendesse esaurita questa parte della discussione.

Comunque, anche se l’Assemblea dovesse ritenere, col suo voto, che l’emendamento Schiavetti debba essere posto ai voti, nella sostanza io esprimo il dissenso del nostro Gruppo da quel punto di vista. Innanzi tutto con quest’emendamento si viene a togliere quel carattere di oggettività che si è cercato di dare a questa norma, allo scopo di evitare che si riprendessero infinite discussioni, contestazioni e contro contestazioni. Ci si è fermati così ad alcune qualifiche oggettivamente riconoscibili. Ora, ciò è indispensabile, se si vuole rendere questa legge praticamente attuabile nel corso dei prossimi mesi con quella certezza di diritto che è indispensabile per dare al popolo italiano la sensazione della giustizia.

Qui noi ci troviamo invece di fronte al tentativo di dar vita ad un nuovo giudizio di merito e quindi alla necessità di creare un organo idoneo il quale riveda le deliberazioni di una Corte che fu creata da un Governo democratico e giudicò sempre riscuotendo la fiducia di quell’ordinamento politico dal quale aveva preso vita. Io non escludo, certo, perché tutti commettiamo degli errori, che anche l’Alta Corte di giustizia abbia commesso degli errori. Dice l’onorevole Schiavetti di aver fatto accertamenti particolari ed io non metto in dubbio che abbia potuto accertare elementi tali che avrebbero dovuto condurre ad un diverso giudizio. Potrebbe darsi però che l’Alta Corte avesse ritenuto di giudicare in quel modo sulla base di una complessa valutazione, perché non si giudica mai su punti particolari, ma sempre in una visione di insieme. Comunque ci troviamo di fronte ad una decisione definitiva di un organo democratico e noi in questa sede non possiamo ritornare su questa decisione, facendo un’eccezione all’eccezione, alla quale si potrebbe fare poi l’altra eccezione prevista dall’ultimo comma dell’emendamento Schiavetti, perché eventualmente questi senatori potrebbero essere esclusi dalla sanzione in base all’ultima disposizione che, nel suo senso di giustizia e di opportunità, l’onorevole Schiavetti ha creduto di proporvi. Quindi si vede come ragioni di opportunità consiglino di fermarsi a questo punto, ritenendo conclusa la materia con le deliberazioni che abbiamo prese (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Concordo con quanto ha detto l’onorevole Moro (Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Schiavetti chiede che sia messa in votazione la sua proposta di aggiungere all’articolo approvato le eccezioni alle eccezioni e cioè, secondo un testo definitivo, aggiungere, dopo le parole «discriminati dall’Alta Corte di giustizia», le altre: «senatori purché non abbiano partecipato all’approvazione di leggi fondamentali intese a mantenere in vigore il regime fascista o dei loro principî informativi». Questa è la richiesta che fa l’onorevole Schiavetti. Data la natura della questione, che io mi limito a qualificare discutibile dal lato regolamentare, credo opportuno interrogare l’Assemblea sopra la facoltà che l’onorevole Schiavetti abbia o non di chiedere che l’Assemblea si pronunci sopra il suo emendamento aggiuntivo.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare per mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevoli colleghi, sono i miei ricordi universitari che mi costringono a pregare la Presidenza di non mettere ai voti la proposta Schiavetti. Non può essere messa ai voti perché in contradizione stridente con la norma che già abbiamo approvata (Interruzioni a sinistra); signor Presidente, non soltanto perché, secondo quanto disse or ora un collega: «lo spirito della norma votata era che con quella si esaurisse la materia», ma perché sostanzialmente noi abbiamo stabilito che una determinata categoria di senatori abbia il diritto elettorale. Quando si viene a votare la proposta Schiavetti, noi per questa categoria, dopo avere stabilito che tutti, dal primo all’ultimo, hanno diritto di voto, verremmo a stabilire che alcuni di essi non lo avranno più. (Rumori a sinistra) È così! È evidente!

Chiunque ha studiato il diritto – studiato comprendendolo – non può che essere d’accordo con me. (Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. La Presidenza ha deciso d’interrogare l’Assemblea sul diritto che competa o meno all’onorevole Schiavetti che il suo emendamento venga posto ai voti.

Pongo pertanto ai voti la proposta di mettere in votazione l’emendamento Schiavetti.

MICHELI. Chiedo l’appello nominale (Commenti animati a sinistra).

PRESIDENTE. Le faccio osservare, onorevole Micheli, che ella ha chiesto l’appello nominale dopo che io avevo già indetto la votazione. (Commenti – Rumori prolungati – Richiami del Presidente).

MICHELI. Ho chiesto l’appello nominale in tempo utile.

PRESIDENTE. Io ho l’assoluta certezza che la votazione era già stata indetta. Ella non vorrà insistere nella sua richiesta, che è in antitesi con il Regolamento. Mi appello quindi alla sua lealtà. (Commenti).

MICHELI. Anch’io chiedo un appello; ma il mio è un appello nominale. (Rumori a sinistra). Voi (Accenna a sinistra) avete paura dell’appello nominale. (Commenti – Rumori a sinistra). Siete pavidi e timorosi. Opporsi a una votazione nominale non è democratico. Io l’ho chiesta in tempo opportuno.

PRESIDENTE. Onorevole Micheli, visto che la mia opinione non è per lei sufficiente, leggo il Regolamento; spero che ella gli darà fede più che alla mia parola; Al terzo comma dell’articolo 97, il Regolamento dice: «La domanda deve essere formulata al momento in cui il Presidente, chiusa la discussione, dichiara di doversi passare ai voti e prima che egli abbia invitato la Camera a votare».

L’onorevole Micheli, del resto, non perde nulla nella sostanza del suo diritto, perché, quando l’Assemblea passerà alla votazione sull’emendamento Schiavetti, egli potrà chiedere su di esso l’appello nominale.

Pongo in votazione la proposta di procedere alla votazione dell’emendamento Schiavetti.

(Dopo prova e controprova, è approvata).

Dovrò ora porre ai voti l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Schiavetti, tendente ad inserire, dopo le parole: «eccetto quelli discriminati dall’Alta Corte di giustizia», le altre: «purché non abbiano partecipato all’approvazione di leggi fondamentali intese a mantenere in vigore il regime fascista o dei loro principî informativi».

Seguono poi le parole: «e quelli non deferiti all’Alta Corte di giustizia».

Su questo emendamento è stata chiesta la votazione per appello nominale dagli onorevoli Micheli, Moro, Salvatore, Nicotra, Restagno, Conci, Rodinò Ugo, Roselli, Carignani, Marconi, Zaccagnini, Turco, Monticelli, Taviani, Cimenti, Carratelli.

GRONCHI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Desidero, per chiarezza di posizione politica, insistere sul fatto che la nostra opposizione all’emendamento dell’onorevole Schiavetti non ha alcun motivo particolare o personale. (Commenti animati a sinistra). Inutile che voi sogghignate: noi ci esprimiamo da galantuomini, quali abbiamo diritto di essere ritenuti. (Applausi al centro – Commenti a sinistra). Nel vostro che io chiamerei parossismo di parzialità politica, in certi momenti, voi non vi accorgete che noi qui stiamo discreditando, ad uno ad uno, gli organi creati dalla nuova democrazia. (Applausi al centro). L’Alta Corte di giustizia è uno di questi perché, se io non m’inganno, l’Alta Corte di giustizia non è un reliquato del regime fascista, ma è una creazione del nuovo regime. Oggi, noi, in fondo, andiamo a rivedere ciò che l’Alta Corte ha fatto, discreditandone il prestigio di fronte all’opinione pubblica. A voi ed al vostro equilibrio giudicare se politicamente questo sia utile. Noi pensiamo di no. Ed è per questa affermazione di principio che noi votiamo contro l’emendamento dell’onorevole Schiavetti. (Applausi al centro).

Votazione per appello nominale.

PRESIDENTE. Procediamo alla votazione per appello nominale sull’emendamento proposto dall’onorevole Schiavetti.

Estraggo a sorte il nome del deputato dal quale incomincerà la chiama.

Comincerà dall’onorevole Martino Enrico. Si faccia la chiama.

AMADEI, Segretario, fa la chiama.

Rispondono sì:

Allegato – Amadei – Amendola – Arata – Assennato – Azzi.

Bargagna – Barontini Ilio – Basso – Bei Adele – Bellusci – Bianchi Bianca Bibolotti – Bonfantini – Bonomelli – Bosi – Bruni.

Cacciatore – Carpano Maglioli – Cartìa – Cevolotto – Chiaramello – Chiostergi – Cianca – Colombi Arturo – Corbi – Corsi – Cosattini – Costa – Costantini – Cremaschi Olindo.

D’Aragona – De Filpo – Della Seta – De Vita – Di Giovanni – Di Vittorio – D’Onofrio.

Fantuzzi – Faralli – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fiore Fiorentino – Fioritto – Fornara.

Gallico Spano Nadia – Gasparotto – Gavina – Gervasi – Ghidetti – Giacometti – Giolitti – Giua – Grieco – Gullo Fausto.

Iotti Nilde.

Jacometti.

Laconi – Lami Starnuti – La Rocca – Lizzadri –Lombardi Riccardo – Longo –Lozza – Luisetti – Lussu.

Magrassi – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Mancini – Marchesi – Mariani Enrico – Massola – Mastino Pietro – Merlin Angelina – Mezzadra – Minella Angiola – Minio – Momigliano – Montagnana Rita – Morandi – Moranino – Moscatelli.

Nasi – Negarville – Nenni – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Novella.

Pajetta Gian Carlo – Paris – Pastore Raffaele – Pera – Persico – Pesenti – Piemonte – Pistoia – Platone – Pratolongo – Pressinotti – Priolo.

Reale Eugenio – Ricci Giuseppe – Romita – Rossi Maria Maddalena – Roveda – Ruggeri Luigi.

Saccenti – Sansone –Santi – Sapienza – Schiavetti – Scoccimarro – Secchia – Sereni – Silipo – Stampacchia.

Targetti – Tega – Togliatti – Tonello – Tonetti – Treves.

Valiani – Vernocchi – Veroni – Villani.

Zanardi – Zappelli.

Rispondono no:

Abozzi – Alberti – Aldisio – Arcaini.

Bacciconi – Balduzzi – Baracco – Bellato – Belotti – Bertola – Bertone – Bettiol – Bianchini Laura – Bovetti – Bozzi – Bubbio.

Camposarcuno – Candela – Cappi Giuseppe – Carboni Enrico – Caroleo – Caronia – Castelli Avolio – Chieffi – Clampitti – Ciccolungo – Cifaldi – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombo Emilio – Conci Elisabetta – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbino – Corsanego – Cremaschi Carlo.

De Caro Gerardo – Del Curto – De Maria – De Michele Luigi – De Palma – De Unterrichter Maria.

Ermini.

Fabbri – Fabriani – Ferrario Celestino – Ferreri – Firrao – Foresi – Franceschini.

Gabrieli – Galati – Giacchèro – Giordani – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Gronchi.

Jervolino.

Lazzati – Lettieri – Lizier.

Malvestiti – Mannironi – Marazza – Marconi – Martinelli – Mastino Gesumino – Mattartela – Mazza – Medi Enrico – Merlin Umberto – Micheli – Monticelli – Montini – Moro – Murgia.

Nicotra Maria – Notarianni.

Pallastrelli – Pastore Giulio – Petrilli – Piccioni – Pignedoli – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo.

Raimondi – Reale Vito – Restagno – Rivera – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Romano – Roselli – Rubilli.

Salvatore – Sampietro – Sartor – Scalfaro – Scelba – Schiratti – Stella – Sullo Fiorentino.

Taviani – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Tosato – Tosi – Trimarchi – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valmarana – Viale – Vicentini – Villabruna.

Zerbi.

Si è astenuto:

Conti.

Sono in congedo:

Badint Confalonieri – Bastiarìetto.

Campilli – Canepa – Caso – Cotellessa.

Dominedò.

Foa.

Geuna – Giannini – Guidi Cingolani.

Jacini.

Lagravinese Nicola – La Malfa – Lucifero.

Montemartini.

Paolucci – Parri – Perrone Capano.

Tremelloni – Tumminelli.

Zotta.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione nominale. Prego gli onorevoli Segretari di procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Comunico che l’Assemblea non è in numero legale per deliberare.

I nomi dei deputati assenti senza regolare congedo saranno pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale.

La seduta è sciolta e l’Assemblea è riconvocata per domani alle ore 11 per riprendere lo svolgimento del suo ordine del giorno.

La seduta termina alle 13.45.

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 16 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccxx.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 16 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Ambrosini

Nitti

Sforza

Rodinò Mario

Presidente

Interrogazione e interpellanza con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Riunione in Comitato segreto:

Presidente

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Ambrosini. Ne ha facoltà.

AMBROSINI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, l’aver riassunto in una discussione generale i tre Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione impone la necessità di riguardarli nel complesso.

I dispareri, che si erano manifestati nella seconda Sottocommissione e nella Commissione dei Settantacinque, si sono riaffacciati una questa Assemblea, e si riferiscono in modo direi attenuato alla formazione ed alle attribuzioni dell’esecutivo (Capo dello Stato e Governo) ed, in modo più deciso, alla composizione dell’organo legislativo. Nell’impostazione generale, da qualche collega con semplici accenni e da qualche altro esplicitamente e con insistenza, come ad esempio dall’onorevole La Rocca, è stato posto in discussione uno dei problemi fondamentali di tutto l’ordinamento dello Stato moderno, il principio della separazione o della distinzione dei poteri, assumendosi che si tratta di un principio che deve ritenersi tramontato e comunque non più utile e rispondente alle esigenze della vita politica odierna.

Io mi permetto subito di osservare che forse c’è un equivoco nella interpretazione del principio, giacché ritengo che, se esso viene giustamente valutato secondo le ragioni che ne causarono la formulazione e secondo lo spirito col quale ha agito e continua ad agire (e necessariamente deve essere da noi mantenuto, come in sostanza è mantenuto dal nostro progetto di Costituzione), gli equivoci e le critiche qui pronunciate dall’onorevole La Rocca e da altri egregi colleghi possano, se non scomparire, per lo meno risultarne di molto attenuati.

In sostanza, per quanto non parlasse esplicitamente sullo stesso punto, forse alla identica direttiva critica generale si orientava l’appassionato discorso ieri pronunziato dall’onorevole Lussu, quando, parlando dell’organo legislativo, egli diceva che il sistema bicamerale non solo è inutile, ma che è dannoso, nocivo, e che bisogna assolutamente arrivare (anzi egli la proponeva in modo esplicito) alla sua abolizione. Faceva in qualche modo riscontro a quanto l’altro ieri aveva detto l’onorevole La Rocca quando nella fine del suo discorso egli si rammaricava che la nostra situazione politica non fosse ancora arrivata al punto di maturità tale da consentire delle Assemblee legislative ed esecutive ad un tempo.

Ora, per quanto il progetto di Costituzione sia abbastanza chiaro in proposito, e non sarebbe quindi necessario aggiungere parola per diradare dubbi, pur tuttavia io credo opportuno che la chiarezza assoluta sia stabilita o ristabilita su questo punto basilare per tutta l’organizzazione politica dello Stato.

Questa chiarificazione è tanto più opportuna in quanto del problema si parlò a lungo nella seconda Sezione della seconda Sottocommissione a proposito dell’ordinamento della Magistratura e del potere dei giudici. Furono allora sollevate delle questioni ed avanzate delle critiche che possono connettersi con l’argomento fondamentale del quale stiamo ora occupandoci.

Perché il principio della così detta separazione dei poteri non deve considerarsi tramontato? perché continua ad essere attuale? perché deve essere mantenuto? Il motivo fondamentale l’aveva in sostanza indicato Aristotile, dal punto di vista generalissimo, quando osservava che l’animo umano è soggetto e pervaso dalle passioni, e quindi è meglio, per quanto è possibile, di affidare il regolamento delle cose, più che agli uomini, alle norme giuridiche, alla legge. Altri pensatori ripresero l’argomento; Montesquieu lo sviluppò in pieno, guardando alla Costituzione inglese e al meccanismo concreto col quale le libertà degli individui si erano affermate e potevano continuare ad esistere, ed elevandosi a considerazioni che non hanno in nulla perduto di valore e di efficacia anche nell’epoca attuale. Egli diceva che un’esperienza eterna dimostra che ogni uomo che ha il potere è portato ad abusarne e quindi non v’è altro rimedio per evitare gli abusi che quello di limitare l’esercizio del potere: il potere freni il potere. Dalla distinzione delle funzioni fondamentali dello Stato (legislativa, così detta esecutiva, giurisdizionale) si passa alla distinzione degli organi ai quali attribuire ognuna di queste tre funzioni.

L’organo legislativo fa la legge, detta cioè le norme giuridiche che debbono presiedere ai rapporti degli individui e dei gruppi fra loro e con lo Stato; norme con carattere di astrattezza e di generalità; l’organo esecutivo esplica gli atti di governo e di amministrazione con riferimento a casi e a situazioni concrete; l’organo giurisdizionale commina le pene ai trasgressori della legge penale e risolve le controversie civili nei casi particolari in cui gli interessati eccitano lo svolgimento della sua funzione.

Ognuno di questi tre organi, di questi tre poteri deve esercitare la sua funzione in modo indipendente. Se l’organo esecutivo avesse la facoltà di cambiare nei casi particolari la legge, di elevarsi a legislatore, sarebbe influenzato dalla considerazione del caso particolare e potrebbe èssere indotto a cambiare la norma giuridica obbedendo a sentimenti di simpatia o antipatia, a pressioni di interessi, a valutazione instabile dello stesso bene pubblico. Gli inconvenienti e i danni sarebbero più gravi ed addirittura irreparabili se una tale facoltà potesse venire esercitata dall’autorità giudiziaria.

I diritti degli individui e degli enti sarebbero sottratti all’impero delle norme giuridiche prestabilite ed abbandonati alla discrezione o all’arbitrio dell’autorità. Non si avrebbe la certezza del diritto né la sua garanzia; la libertà dei cittadini sarebbe minacciata. Per mantenere la certezza del diritto e la libertà dei cittadini occorre tenere fermo il principio della distinzione dei poteri, dell’attribuzione cioè delle funzioni fondamentali dello Stato ad organi diversi, indipendenti nell’esercizio della propria funzione.

È qui, onorevoli colleghi, che sta l’essenza, la vera portata della teoria della divisione dei poteri. Alcuni di quelli che la combattono portano la questione all’esasperazione, all’assurdo, prospettando una divisione meccanica dei poteri che non è stata né può èssere propugnata da alcuno.

Occorre dunque precisare che non si tratta di disarticolare lo Stato attribuendo la sovranità a poteri distinti, isolati e privi di qualsiasi collegamento. Non v’è contrasto fra i due principî proclamati dalla rivoluzione americana prima e poi dalla rivoluzione francese nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, fra il principio cioè della sovranità nazionale unica e l’altro della separazione dei poteri. L’articolo 16 di tale Dichiarazione dice che nella società dove non vi è il principio della separazione dei poteri non vi è Costituzione, cioè non vi è libertà. È la ripetizione di quello che aveva detto Montesquieu; ma che deve essere interpretato non rigidamente, come non rigidamente fu interpretato nel paese dove il principio della separazione è più decisamente affermato, negli Stati Uniti d’America. Infatti, se è vero che vi è una distinzione – che si dice netta – tra legislativo, esecutivo e giudiziario, è pur vero che vi sono delle interferenze fra tali poteri. Il Presidente, capo e padrone effettivo dell’esecutivo, ha una influenza indiretta sulla legislatura e deve mettersi in rapporto con le Camere per attuare la sua politica, specie nel campo finanziario. I Ministri o più propriamente i Segretari di Stato, cioè del Presidente, non possono essere tratti dalle Camere e non hanno ingresso nelle Camere e non sono responsabili di fronte ad esse; ma mantengono ugualmente con esse i contatti e la collaborazione partecipando alle sedute delle Commissioni parlamentari. E d’altra parte il legislativo, per mezzo di una delle sue branche, del Senato, partecipa a funzioni esecutive vere e proprie, essendo chiamato ad approvare la nomina dei Segretari di Stato, degli ambasciatori, dei giudici della Corte suprema fatta dal Presidente e ad approvare i trattati internazionali dal Presidente conclusi.

Quindi, il principio contro il quale si levano di tanto in tanto voci così appassionate, non è stato mai inteso né tanto meno applicato in modo rigido. E allora, se si interpreta giustamente, eliminando le esagerazioni, si vede che esso è giusto; che è opportuno ed anzi necessario che venga mantenuto, sia pur implicitamente come fa il nostro progetto della Costituzione, perché in modo concreto siano garantiti quei diritti che abbiamo affermati nella prima parte della Costituzione.

Non neghiamo che in periodi non normali, in periodi agitati, in periodi rivoluzionari, il principio della separazione può subire delle eclissi. È la forza delle cose: i limiti e freni suaccennati non possono esistere. Quindi non deve far meraviglia che da alcuni decenni, da varie parti, si tira a palle infuocate contro tale principio, ritenendolo sorpassato e, per giunta, ingiusto e dannoso. Ma quando si deve stabilire un ordinamento politico basato su situazioni normalizzate, quando si devono dettare norme intese a garantire lo svolgimento delle libertà, l’assetto equilibrato della società e dello Stato, allora è evidente che il principio che poteva ritenersi eclissato debba riprendere tutto il suo prestigio e tutta la sua forza.

Onorevoli colleghi, basterebbe una prova per tutte per dimostrare che il vecchio Montesquieu è più vivo di prima e che le sue parole hanno sapore della più grande attualità.

MANCINI. È questione di gusti.

AMBROSINI. Guardate la Costituzione dell’U.R.S.S., la Costituzione staliniana del 1936, guardate il Titolo che si riferisce alla Magistratura. Basterebbe soffermarsi sull’articolo 112 che testualmente dice: «I giudici sono indipendenti ed obbediscono soltanto alla legge».

Io credo che non sia necessario insistere su questo punto, che fu discusso avanti alla seconda Sezione della seconda Sottocommissione, e che potrà tornare in discussione quando ci occuperemo dell’ordinamento giudiziario.

Basterà qualche breve accenno. Credo opportuno dire che, parlando dell’argomento, non intendo riferirmi a situazioni del passato o del presente, ma guardare all’assetto avvenire. Bisogna essere cauti. Quando si dice che l’autorità giudiziaria deve adeguarsi alle correnti democratiche, occorre precisare tassativamente quello che si vuole, e comunque occorre evitare di spingere questo corpo, questa autorità, questo potere (si chiami come si vuole) verso una via che può essere pericolosa per tutti!

Perché, onorevoli colleghi, non è giusto dire, come facendogliene un appunto, che il magistrato è conservatore. Egli deve in un certo senso essere conservatore, nel senso che egli deve ubbidire alla legge, applicare la legge. Spetta ai corpi legislativi di segnare le norme giuridiche e di cambiare le leggi quando siano ingiuste o inapplicabili, od anche soltanto non rispondenti alla psicologia del popolo.

Il potere legislativo acquista così la preponderanza di fronte agli altri poteri; col che si evita quella differenziazione rigida e quella assoluta eguaglianza dei tre poteri, a cui per arrivare all’assurdo e al paradossale accennano taluni critici della teorica in questione.

Circa poi la rispondenza delle norme legislative alla psicologia del popolo nei vari momenti storici, cade acconcio richiamare quello che osservò Solone quando, rispondendo a certe critiche, disse che nell’elaborare la Costituzione, aveva tenuto conto dei pregiudizi del suo popolo.

Non c’è da farsi illusioni: nessuna legge costituzionale o ordinaria può avere vigore se non va incontro ai desideri, alle aspirazioni del popolo, se, in qualche modo, non è in armonia con la sua volontà, col suo sentimento. È opportuno aggiungere che, quando le leggi sono inapplicabili, sono ingiuste o si dimostrano inopportune, non deve affidarsi ai magistrati il compito terribile di raddrizzarle. Cominciando col fare il bene, essi possono deviare ed esercitare un simile potere in modo arbitrario.

Quando una legge esiste, gli organi dell’esecutivo, sia negli atti di governo che in quelli dell’amministrazione, e più ancora gli organi del potere giudiziario devono uniformarsi alla legge. Senza questo, noi potremmo parlare di diritti e di libertà, ma, siatene sicuri, non ci sarebbe certezza di diritto, non ci sarebbe garanzia di libertà, né nei singoli cittadini, né nei gruppi sociali; il che causerebbe danno non solo agli interessati, ma a tutta la società e porterebbe al disgregamento dello Stato! (Applausi).

Passiamo a parlare in modo specifico del potere legislativo. Lo spirito animatore del principio della separazione dei poteri influisce anche nella questione relativa alla divisione o meno dell’organo legislativo in due Camere? In sostanza, affermato il principio dell’unicità della sovranità, si vorrebbe che unico fosse l’organo che ne eserciti le funzioni.

Si può in proposito citare per tutti quanto nel secolo scorso argomentò Armand Marrast sostenendo la necessità di una Camera unica:

«La sovranità è una, la Nazione è una, la volontà nazionale è una» diceva l’assertore della unicità dell’Assemblea.

«Come dunque si vorrebbe che la delegazione della sovranità non fosse unica?».

Riguardando dal punto di vista concreto il gioco delle forze politiche, aggiungeva: «Se voi mettete una Camera accanto all’altra, voi arriverete ad uno di questi due risultati: o le Camere sono d’accordo ed allora una doppia discussione, un doppio voto non servono a nulla, e possono nuocere ritardando la legge; oppure sono in disaccordo, come avverrà più spesso, ed allora avrete stabilito una lotta negli alti poteri dello Stato.

«Le due Camere sono, dunque, un principio di disordine. Da questa lotta una delle Camere uscirà necessariamente indebolita».

Ora, è evidente che una qualche ragione c’è in questa argomentazione. Ma dobbiamo domandarci se essa è tale da portare fatalmente alla conseguenza della necessità di una sola Camera.

Gli inconvenienti lamentati indubbiamente esistono – sarebbe da ciechi negarli – ma sono proprio tali da distoglierci dal seguire quel sistema bicamerale, che ci è tramandato dalla tradizione, che continua ad essere sostenuto da scrittori e da uomini politici, sia pure per motivi diversi? Il più illustre dei nostri colleghi, l’onorevole Orlando, nella prefazione ad un libro apprezzabile sul Senato di un giovane, Giorgio Tupini, dopo di avere esposto i motivi di dubbio, ha finito per professarsi favorevole all’istituzione di una seconda Camera.

Passando ad esaminare più concretamente la questione, vediamo quali sono le ragioni che hanno sempre indotto pensatori ed uomini politici a propugnare la necessità di una seconda Camera e che hanno spinto i costituenti ad adottarla.

Sono varie. Si è qui parlato della funzione specifica del Senato come corpo tecnico sperimentato e tecnicamente più preparato per la migliore redazione delle leggi. Non occorre insistervi.

Dirò appresso, parlando della composizione del Senato, di un altro scopo specifico a cui esso dovrebbe assolvere come corpo composto, anche solo parzialmente, da rappresentanti diretti delle varie categorie della produzione, da una rappresentanza cioè che andrebbe ad integrare quella che si trova nella Camera dei deputati, per rispecchiare e dar voce e peso specifico a tutte le forze che compongono la struttura della società.

Ma anzitutto il Senato è stato sempre riguardato come un’Assemblea destinata alla maggiore ponderazione, come un corpo chiamato a frenare le generose impazienze che eventualmente si manifestino in modo precipitato nella prima Camera.

L’onorevole La Rocca l’altro ieri si riferiva a Cavour per rammentare la sua non adesione al sistema albertino di costituzione del Senato. Ma è necessario completare l’accenno al pensiero di Cavour: «vogliamo costituire (egli diceva) la gran macchina politica in modo che l’impulso acceleratore sia combinato con la forza moderatrice; vogliamo, accanto la molla che spinge, il pendolo che regola e rende il moto uniforme».

Forse questa proporzione può sembrare di maniera, ma il concetto è ben chiaro, e si riattacca al principio della necessità del freno, del contrappeso che è opportuno che ci sia in uno stesso potere, nel legislativo, dividendolo in due branche, in due Camere, che assicurino l’equilibrio ed evitino eventuali dannose intemperanze. Può considerarsi ancora oggi di attualità quanto, in proposito, scrisse nel 1788 uno degli uomini illuminati e democratici del nuovo mondo, rivolgendosi ai suoi concittadini di New York per chiedere l’approvazione della Costituzione di Filadelfia anche riguardo all’istituzione del Senato. Egli diceva: «Ad un popolo così poco accecato dai pregiudizi e non corrotto da lusinghe quale quello a cui mi rivolgo, io non esiterò ad aggiungere che una tale istituzione può essere talvolta necessaria allo stesso popolo contro i suoi temporanei errori e delusioni. Come il freddo e deliberato giudizio della comunità deve in tutti i regimi liberi prevalere in definitiva sulle vedute dei suoi dirigenti, così vi sono particolari momenti nei pubblici affari nei quali il popolo, stimolato da qualche irregolare passione e da qualche illecito vantaggio, o ingannato dall’artificiosa opera di uomini interessati, può chiedere misure che esso stesso dovrebbe dopo lamentare o condannare.

«In tali momenti critici come sarà salutare l’interferenza di qualche temperato e rispettabile corpo di cittadini, che sospenda il lancio della freccia che colpirebbe il popolo, fino a quando la ragione, la giustizia e la verità possano riguadagnare la loro autorità sopra lo sviato spirito pubblico!».

L’insegnamento e l’ammonimento possono servire anche a noi.

Mi diranno alcuni colleghi: «ma se è ormai stabilito che una seconda Camera verrà istituita, perché attardarsi a parlarne ancora per sostenerla?».

Rispondo subito: perché è bene che venga istituita con una votazione senza sottintesi, non tiepidamente e con rassegnazione come se si trattasse di un errore che non si può evitare e di accettare o subire il Senato come un male inevitabile, ma volenterosamente, con convinzione e con la sicurezza che l’istituzione della seconda Camera sarà utile al Paese. Il Senato nascerà così con maggiore prestigio e potrà nel modo più adeguato assolvere al compito che gli è assegnato dalla Costituzione.

Come deve essere composto il Senato? Naturalmente, qui vengono i maggiori contrasti. Ma, prima di addentrarmi nell’argomento, accenno anzitutto a quello sollevato specialmente dall’onorevole Rubilli, il quale chiedeva nientemeno che il Senato fosse composto dallo stesso numero dei membri della prima Camera.

RUBILLI. Con diminuzione di questi, essendo elettiva l’una e l’altra. Quando il Senato era di nomina regia, si comprendeva che il numero dei componenti fosse inferiore a quello della Camera dei Deputati; ma, essendo ora tutte e due le Camere elettive, perché non equipararle per numero e per importanza? Quattrocento l’una e quattrocento l’altra.

AMBROSINI. Data la sua precisazione, il mio dissenso si attenua soltanto, ma non scompare.

Tutto sommato, sono completamente d’accordo con quanto l’onorevole Conti, nella seconda Sottocommissione, tassativamente disse riguardo al numero dei componenti del l’Assemblea, giacché ritengo che il Senato, appunto per la sua natura speciale, debba essere composto di un numero di membri inferiore a quello della Camera dei deputati.

L’altro punto, sul quale pregiudizialmente io mi permetto di dire una parola, è quello che riguarda la stabilità del Senato. Noto l’assenso dell’onorevole De Michelis, il quale l’altro giorno me ne aveva parlato.

La questione venne posta nella seconda Sottocommissione ed ha continuato a formare oggetto di discussione e di meditazione.

Onorevoli colleghi, occorre, specialmente nella mutevole vita moderna, che ci sia una qualche àncora, un qualche punto di stabilità. La mutevolezza nella composizione delle Assemblee si ripercuote sulla mutevolezza della legislazione; e la mutevolezza della legislazione finisce per turbare gravemente gli interessi del popolo e specialmente la visuale generale che all’interno ed all’estero deve aversi della politica dello Stato.

Per assicurare questa stabilità tanti legislatori hanno ritenuto opportuno che, mentre la prima Camera si muti completamente, a periodi determinati e prima dello scadere della sua vita ordinaria in caso di scioglimento, la seconda Camera abbia un’esistenza continuativa da mantenersi a mezzo di rinnovamenti periodici soltanto parziali. Ci sono seconde Camere che durano sei, otto, dieci anni. C’è il sistema di rinnovarle per metà o per un terzo o per un quarto. La misura è questione di dettaglio; si può scegliere qualsiasi sistema; ma ritengo opportuno, utile, quasi necessario, appunto in considerazione del succedersi continuo degli eventi della vita moderna, che si affermi una certa stabilità nella vita di uno degli organi legislativi.

Noi questa stabilità potremmo riuscire ad averla quando istituissimo un Senato che duri in permanenza, rinnovandosi non compietamente, ma solo parzialmente a data fissa.

Si avrebbero così due vantaggi: quello della stabilità e l’altro inerente alla ripresa di contatto, per mezzo del rinnovamento parziale, con la pubblica opinione e col corpo elettorale, qualunque sarà per essere.

Passiamo alla composizione del Senato. Anche qui le legislazioni ci offrono svariati esempi. I diversi sistemi, che sono stati escogitati dagli studiosi e dai legislatori, non hanno lasciato contento nessuno. Ed è naturale, giacché è impossibile arrivare a raggiungere la perfezione. Io non andrò ad elencare i diversi sistemi, perché all’ora in cui siamo arrivati e nell’aspettativa dei discorsi degli onorevoli Nitti e Sforza, è opportuno stringere ed andare avanti rapidamente. Quindi mi limiterò a sottoporre all’Assemblea quelle considerazioni che possono giustificare la richiesta della composizione di un Senato sulla base di un sistema misto.

L’Assemblea sa che il Gruppo al quale ho l’onore di appartenere, oltre ad altri Gruppi di questa Camera, ha sostenuto e sostiene il principio che suole chiamarsi della «rappresentanza degli interessi». È una espressione poco simpatica e spesso non è adeguata. È bene dire subito che quando noi parliamo di rappresentanza degli interessi, non intendiamo affatto riferirci a sistemi di classi, a metodi e sistemi come quelli che vi erano nella Germania o nell’Austria fino al 1918. Noi intendiamo riferirci agli interessi, alle forze vive del Paese, alla produzione, al lavoro in tutte le sue manifestazioni, con particolare riguardo (come dirà l’onorevole Piccioni nel suo ordine del giorno) alle forze del lavoro qualificato ed intellettuale. Noi cioè affermiamo che, mentre in quello che si chiama parlamento politico c’è la rappresentanza politica delle ideologie dei cittadini indifferenziati, raggruppati per settori elettorali dal punto di vista territoriale, ci debba essere una seconda Camera nella quale abbiano posto, anche limitatamente, le rappresentanze di quelle forze sociali che per il congegno elettorale non arrivano a trovar ingresso nella Camera dei Deputati. Questa Camera, fondata sui partiti, non basta. Ne occorre una altra composta in modo da rispecchiare la volontà delle organizzazioni economiche e sociali, culturali e lavoratrici in genere.

Si dice in contrario, che una tale rappresentanza specifica non è necessaria in quanto tali forze hanno già modo di farsi valere per mezzo dei partiti. Ciò può in parte ammettersi, ma non basta.

I partiti si basano sulle ideologie, partono da alte vedute di insieme, da un proprio modo di vedere e di sentire le cose della Nazione ed anche del mondo, da una propria Weltanschauung, che necessariamente porta a riguardare da quell’alto punto di vista le cose particolari piegandole al raggiungimento degli scopi supremi segnati nel programma del partito.

Ma oltre alla necessità di indirizzare la società sulla scia della grande luce delle ideologie, si appalesa opportuno sentire la voce dei singoli interessi particolari, si appalesa opportuno che questi, come tali, riescano ad avere una propria rappresentanza, che acquistino la possibilità di dire il proprio pensiero, non solo per la maggiore competenza che sicuramente metterebbero nell’esprimerlo, ma anche per la responsabilità che direttamente ne assumerebbero.

LUSSU. Può citarci un esempio di interessi non rappresentati qui dentro? Gli ufficiali in congedo…

AMBROSINI. Onorevole Lussu, lei sa come io seguo i suoi slanci con ammirazione ed affetto, ma, mi perdoni, la sua domanda non è giusta. Un esempio? Agricoltura, commercio, industria, trasporti terrestri, marittimi ed aerei. Come rappresentante degli agricoltori qui chi c’è? Quali saranno quando la futura Assemblea dovrà discutere della riforma agraria? Fatalmente l’agricolture, che appartiene al partito o parla per il partito, deve non solo tener conto delle vedute del partito ma subordinare tutte le esigenze particolari della sua categoria alle esigenze generali del partito, oppure propugnarle obliquamente, prospettandole sotto la vernice dell’interesse di partito. Onorevole Lussu, ciò lei lo ha detto varie volte nella seconda Sottocommissione, quando parlava di interessi a volte obliqui che si fanno valere attraverso ai partiti.

Ma non sarebbe molto meglio, molto più giusto che ci siano rappresentanti speciali che dicano apertamente e tassativamente quello che è l’interesse della propria categoria?

Una voce a sinistra. Questo è corporativismo.

AMBROSINI. Non è esattamente corporativismo della maniera alla quale vi riferite. Preciso subito. Innanzi tutto, permettetemi, non si chiede di stabilire su questa sola base tutta la composizione dell’Assemblea. Noi chiediamo che un settore di essa venga destinato alle rappresentanze delle categorie. Così finalmente noi sapremmo dai rappresentanti degli agricoltori, dai grandi proprietari ai medi i proprietari e ai piccoli coltivatori, quale è il loro punto di vista specifico specie nelle riforme che dovranno farsi.

Ma quale male ne deriva? Lussu, tu lo dicesti l’altra volta ed altri egregi collegi come te. Rispondo alle vostre obiezioni. C’è il pericolo, dite, che l’Assemblea si trasformi in una Assemblea di interessi che lottano per soverchiarsi, con la conseguenza che i componenti, i rappresentanti di un gruppo la vincano sugli altri e impongano la propria tirannia, oppure che non si riesca a stabilire la supremazia di alcun gruppo né ad arrivare ad una comune soluzione, col che si avrebbe il disordine e il caos. Ma questo può avvenire, avviene anche con i partiti, specie sul piano internazionale. Non devo dirlo a voi. Lo sapete bene (la tragedia della guerra lo insegna), mentre sulla base degli interessi, discutendo al tavolino, sarebbe facile accordarsi, all’inverso difficilissimo diventa l’accordo quando entrano in gioco le ideologie; le guerre più terribili e feroci sono state le guerre di ideologia.

Il pericolo che prospettate è quindi di molto esagerato, e comunque diventa infondato quando si ammetta nell’Assemblea soltanto una qualche rappresentanza limitata delle forze della produzione e del lavoro. Non ne verrebbe alcun danno. Si avrebbe il vantaggio di sapere apertamente quello che desidera la categoria. C’è inoltre da tenere conto del fatto, che facendo parte di un’Assemblea, i rappresentanti delle singole categorie saranno influenzati da quella che è l’aria generale che si respira nell’Assemblea e sentiranno quindi l’opportunità di indirizzare le loro richieste in modo da non urtare in maniera violenta contro gli interessi delle altre categorie e da adattarle all’interesse generale del Paese.

Comunque sarà l’Assemblea che finirà per decidere con la sua responsabilità, guardando e valutando tutti i vari interessi particolari in vista dell’interesse generale della Nazione.

Quindi l’inconveniente al quale si accenna non esiste o può ridursi al minimo, giacché è il congegno stesso di funzionamento dell’Assemblea che riduce gli eccessi e ristabilisce l’equilibrio.

Ci sono altre obiezioni.

Nella seconda Sottocommissione, quando si discusse questo argomento (che ci prese per tanto tempo), a un certo punto anche gli onorevoli Lussu, Laconi, Grieco e Paolo Rossi si mostrarono per lo meno impressionati e propensi a pigliare in considerazione la nostra proposta, ma prospettando altri dubbi ed inconvenienti, che secondo loro renderebbero il sistema praticamente inattuabile.

L’onorevole Paolo Rossi obiettò che è difficile fare l’elenco delle categorie. Un po’ l’obiezione, che onorevole Lussu mi ha fatto ora: difficile stabilire quali sono le categorie. E poi che è ancora più difficile distribuire fra le varie categorie quel determinato numero di seggi che verrebbe assegnato ai rappresentanti delle categorie.

Risposi allora ampiamente e rispondo ora brevemente perché il tempo incalza e sono anch’io ansioso di sentire la parola dell’onorevole Nitti, rispondo che le obiezioni possono agevolmente venire risolte, e che comunque non sono insuperabili. In proposito abbiamo l’esempio di molte legislazioni. Non vi parlo di quelle vigenti prima del 1918 nella Germania e nell’Austria, dove c’era la rappresentanza per classi; non vi parlo nemmeno di quelle alle quali accennò il collega Clerici quando parlò delle prime Costituzioni italiane dell’800, che sostanzialmente non facevano che copiare la Costituzione francese voluta da Napoleone; ma faccio richiamo ai sistemi adottati nei tempi recenti. Io le ho qui tutte elencate; non vi annoierò con una indicazione specifica. I libri ne parlano ampiamente, e possono essere consultati con facilità. L’argomento non è affatto nuovo giacché se ne è sempre parlato quando è venuta in discussione l’organizzazione del lavoro, verso la fine del secolo scorso e nel nostro secolo, quando le classi lavoratrici specialmente hanno pensato, attraverso alle proprie organizzazioni, ad entrare nel vivo delle forze dello Stato e ad arrivare – non con la rivoluzione, ma attraverso forme legali, con la costituzione di corpi consultivi e deliberativi formati dai rappresentanti delle varie categorie – ad arrivare alla conquista del potere. Come può dirsi che ci siano difficoltà su questo punto? Si pensi che non in Italia ma in quasi tutti i paesi del mondo si sono costituiti tali organi consultivi. Non mi si risponderà certo che l’ostacolo esiste soltanto quando si tratta di costituire un corpo che si chiami per avventura Senato, e che non esiste più quando si tratta di costituire un altro corpo che si chiami Consiglio Superiore del lavoro o Consiglio dell’economia o altro? (Commenti a sinistra).

Gli inconvenienti e le obiezioni sarebbero perfettamente uguali.

Ora, se è stato trovato il modo di superare quelle obiezioni, di risolvere quegli inconvenienti, per i Consigli del lavoro ed i Consigli economici, lo stesso o identici sistemi possono seguirsi per organizzare un altro corpo da chiamare Senato.

Faccio richiamo ad una sola legislazione, alla Costituzione di Weimar, la tanto deprecata Costituzione di Weimar, a proposito della quale proprio potrebbe dirsi che è stata ingiustamente criticata per il fatto che non resistette che poco. Ma, onorevoli colleghi, quando c’è un uragano non c’è ombrello che salvi dalla pioggia, e quando c’è terremoto non ci sono case asismiche che resistano allo scuotimento della terra; ora, la Costituzione di Weimar non resse perché non solo ci fu un uragano, ma un terremoto. Tuttavia se noi dobbiamo giudicare, dobbiamo guardare alle situazioni normali.

Bene, la Costituzione di Weimar in quel famoso articolo 165, col quale si istituiva il Consiglio economico del Reich, che rappresentava una transazione tra il sistema occidentale dei parlamenti ed il sistema sovietico dei consigli, in quell’articolo 165 affermò il principio a cui noi facevamo richiamo nella seconda Sottocommissione e che continuiamo avanti a quest’Assemblea a propugnare, sia pur limitatamente, cioè non per la composizione di tutto il Senato, ma solo per una parte di esso. Anche all’Assemblea di Weimar furono fatte le stesse obiezioni al sistema di composizione del Consiglio, giacché le obiezioni non derivano dallo spirito cervellotico dell’uno e dell’altro deputato, ma vengono dalla natura delle cose. Ma è dalla stessa natura che sono suggeriti i rimedi. L’articolo 165 affermò il principio; l’attuazione fu rimessa alla legge speciale. Lo stesso potremmo fare noi.

Come fu composto il Consiglio economico del Reich nel primo tempo con una legge di carattere provvisorio? Fu costituito con un totale di 326 membri, così distribuiti fra le categorie: 68 rappresentanti dell’agricoltura e delle foreste, 68 dell’industria, 44 del commercio, banche e istituti di assicurazione, 34 delle imprese di trasporto, 36 del piccolo commercio e della piccola industria, 30 dei consumatori (comuni, associazioni di consumatori e organizzazioni femminili), 16 dei funzionari e delle professioni liberali, e di altre 24 persone nominate dal Governo.

Avvenuta la distribuzione dei seggi fra le varie categorie, sorse la questione se questi rappresentanti dovessero essere nominati sul piano nazionale o su quello regionale, sorse cioè la stessa obiezione che fu sollevata nella seconda Sottocommissione e che si affaccia anche qui all’Assemblea. Ma la questione fu bene risolta per la formazione di quel Consiglio economico, come bene potrebbe essere risolta da noi per il Senato.

Ma si presenta un’altra obiezione, che ugualmente potrà essere superata. Avanti alla seconda Sottocommissione il collega onorevole Paolo Rossi obiettò: «Ma, in questo modo, voi cristallizzerete la situazione». No, risposi e rispondo, noi non cristallizzeremmo la situazione perché domani potrà benissimo procedersi alla revisione delle categorie prese in considerazione e dei posti prima assegnati a ciascuna categoria.

Se è così – e così è – perché respingere la nostra proposta?

Fu detto nella seconda Sottocommissione e numerose volte ripetuto anche in questa Assemblea, che si tratterebbe di un sistema antidemocratico. Mi si permetta, onorevoli colleghi, che io risponda a una simile obiezione, come dire, candidamente: confesso infatti che io provo una certa esitazione quando sento dire che si tratta di un sistema antidemocratico.

Ma, onorevoli colleghi, un sistema è antidemocratico o per l’obietto o per l’intenzione la quale lo determina. Ora, io credo su questo punto di poter parlare non solo a nome mio personale, ma a nome di tutto il Gruppo al quale ho l’onore di appartenere, quando vi dico che non v’è in noi la minima idea che un tale sistema sia determinato da spirito antidemocratico, e tanto meno che possa funzionare in modo antidemocratico. Noi siamo ben lontani dal volere che la Camera dei deputati sia diminuita nel suo prestigio e nel suo potere; noi vogliamo semplicemente integrarla con l’adozione di un sistema il quale risponda a quelle tali necessità cui abbiamo dianzi accennato.

Quindi credeteci, noi parliamo con lealtà assoluta, in noi non c’è il minimo recondito pensiero che una simile riforma possa portare a conseguenze antidemocratiche.

Ma c’è di più: l’ho detto in varie occasioni. La proposta riforma tende ad attuare una più perfetta democrazia, a completare la rappresentanza che è nella Camera dei deputati, giacché la rappresentanza delle categorie dovrebbe venire ugualmente formata per mezzo delle elezioni. Per altro, tenetelo presente, da qual parte sono venute, nel secolo scorso e nell’attuale, proposte simile alla nostra? Sono venute principalmente da quelli che si chiamavano partiti estremi: nel 1919 da noi, dalla Confederazione italiana dei lavoratori e dalla Confederazione generale del lavoro.

Nella seconda Sottocommissione – permettetemi, onorevoli colleghi, che vi dica che non fu per un motivo polemico (credetemi, non amo la polemica), ma per dimostrare il mio assunto – io mi riferii, fra gli altri, leggendone vari passi, ad un discorso dell’onorevole Cabrini. No, Cabrini non era, né può certamente passare per antidemocratico. Non rileggerò qui il discorso, che è consacrato nei verbali della seconda Sottocommissione, e che si trova per altro nei resoconti della Camera del 1919. Cabrini chiedeva in quel discorso la trasformazione del Senato in un corpo di rappresentanze professionali. L’onorevole Paolo Rossi ribatté allora subito che Cabrini era un soreliano. Gli risposi e ripeto che non occorre fare simili indagini. L’interessante è stabilire che non si trattava certo di un reazionario. Aggiungo che l’onorevole Cabrini si faceva allora eco del pensiero esplicitamente manifestato dalla Confederazione generale del lavoro nel maggio del 1919; la quale Confederazione ritornò nell’ottobre dello stesso anno sull’argomento con un voto esplicito indirizzato al Ministro dell’industria e del commercio.

C’è un aureo libro – mi consentirà l’onorevole Meuccio Ruini che io lo citi – pubblicato nel 1920, dal titolo II Consiglio nazionale del lavoro, nel quale egli, che fin dal 1906 aveva propugnato il sistema del quale ci occupiamo, riporta con assennati commenti il testo delle richieste della Confederazione generale del lavoro.

È proprio istruttivo; ed è istruttivo non solo per dimostrare che la nostra è una richiesta nient’affatto antidemocratica, ma anche per la sostanza delle considerazioni che in quel testo sono limpidamente enunciate. Nel voto della Confederazione generale del lavoro si chiede «che tutta la materia legislativa riguardante il lavoro venga affidata ad un organismo costituito con la rappresentanza delle classi lavoratrici, delle categorie professionali, con l’intenzione di sottrarre completamente alla Camera elettiva il suo diritto di interloquire nella formazione di leggi, che, pur interessando solamente certe categorie, involvono la politica finanziaria ed economica dello Stato». Nella motivazione del voto si prospettano quasi tutti gli argomenti che noi abbiamo illustrati per sostenere la nostra richiesta di riforma. Non leggo per non prendere altro tempo. Mi limito a notare che la Confederazione proponeva che il Consiglio nazionale del lavoro, trasformandosi da corpo consultivo in corpo deliberante, venisse composto dai rappresentanti di tutte le classi e categorie.

In quel tempo c’era il progetto di riforma del Senato. Il grande maestro e uomo politico di prim’ordine che, con tutta la signorilità dei suoi modi e la benevolenza del suo tratto, aveva una fermezza veramente eroica, Francesco Ruffini, relatore al Senato su questo progetto, aveva presentato delle proposte concrete per riformare una parte del Senato proprio sulla base sulla quale noi ci soffermiamo; la Confederazione generale del lavoro andò più avanti, chiedendo nell’ottobre 1919 addirittura la soppressione del Senato e la sostituzione di tale Assemblea con l’Assemblea composta dai rappresentanti delle categorie.

LUSSU. Ma venti anni fa era in auge il biplano, oggi è in auge il monoplano. È la stessa questione.

AMBROSINI. Raccolgo la interruzione e ringrazio l’onorevole Lussu. E allora, caro Lussu, non si tratta (perché ho detto, egregi, onorevoli colleghi, che noi dobbiamo esaminare con assoluta obiettività i problemi), non si tratta di inconvenienti insuperabili, ma di una questione di principio, e di una questione più generale di principio, che riguarda non la composizione del Senato – se si parla di monoplano – ma l’Assemblea unica; si tratta di un’obiezione che tende a scuotere quello che deve essere uno dei pilastri della Costituzione, e che il nostro progetto ha accettato in pieno, cioè il sistema bicamerale.

Passo ad un altro punto sul quale la seconda Sottocommissione si soffermò ed è opportuno che anche qui noi ci soffermiamo, per vedere se è possibile ricorrere ad un altro sistema allo scopo di formare, anche in parte, il Senato su una base diversa da quella della Camera.

La vita del Paese, oltre che sulle ideologie, oltre che sugli interessi delle forze vive della produzione (si è tanto irriso riguardo a questa espressione «forze vive della produzione»; ma sapete dove si trova questa espressione? proprio nel voto della Confederazione generale del lavoro dell’ottobre del 1919), la vita del Paese si basa anche sugli interessi territoriali, delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni. Se ne discusse tanto nella seconda Sottocommissione! E l’illustre Presidente (che allora era l’onorevole Terracini) sospese e rinviò per tre volte le sedute per dar modo ai vari gruppi di intendersi. E si era arrivati ad un’intesa, sulla base appunto della rappresentanza degli interessi territoriali; intesa che poi solo parzialmente resistette alle nuove critiche. Resistette solo riguardo alla rappresentanza da attribuire alle Regioni. La soluzione concordata è qui stata sottoposta a nuove critiche. Io ritengo che la rappresentanza delle Regioni come tali debba essere mantenuta, dal momento che noi abbiamo adottato l’ordinamento regionale per tutto lo Stato. Mi rendo conto (voi lo sapete: io che ho propugnato la riforma regionale, sono stato sempre tassativamente, nettamente contrario al sistema federale), io mi rendo quindi conto delle obiezioni che si muovono all’attribuzione di un numero uguale di senatori ad ogni Regione, perché una tale attribuzione costituisce uno dei tratti caratteristici del sistema federale; ma ritengo che ciò non possa portare alla soppressione delle rappresentanze regionali. Alle Regioni, come tali, deve assegnarsi una propria rappresentanza, comunque costituita. È, ripeto, una conseguenza logica di quanto abbiamo stabilito adottando l’ordinamento regionale.

Andiamo alla rappresentanza degli interessi territoriali dei Comuni. La seconda Sottocommissione l’aveva ammessa. Le discussioni e le critiche riferentisi specialmente ai criteri di attuazione di questo tipo di rappresentanza portarono poi alla scelta di un altro progetto. È opportuno riprendere qui l’esame del problema. I precedenti della legislazione francese del 1875 e del 1884 possono servirci di guida. La legge del 1875 aveva costituito un collegio dipartimentale, provinciale, composto oltre che dei deputati e dei consiglieri generali e di circondario, di delegati eletti, uno per ogni Consiglio comunale. Parigi ebbe un solo delegato come il più piccolo Comune della Francia. Le critiche furono gravi. Gambetta qualificò il Senato come il Gran Consiglio dei Comuni rurali.

Nel 1884 si fece la riforma, adeguandosi la distribuzione del numero dei delegati comunali fra i Comuni a seconda della relativa importanza. Noi potremmo, se vogliamo arrivare ad applicare il principio egualitario fino alle ultime conseguenze, adottare il sistema di attribuire ai Consigli comunali la potestà di eleggere un numero di delegati direttamente proporzionato al numero degli elettori o al numero della popolazione. Riguardo alla composizione del Senato aggiungo infine (senza soffermarmi sulla proposta perché altri colleghi ne hanno parlato) che ritengo opportuno che una percentuale, per quanto minima, dovrebbe essere lasciata alla nomina del Capo dello Stato, o essere affidata all’elezione della Camera dei deputati, o, in ogni caso, essere confidata allo stesso Senato col sistema della cooptazione. Riassumendo: io sarei per la composizione di un Senato su base mista: della rappresentanza degli interessi delle categorie della produzione intesa nel senso più vasto, e della rappresentanza degli interessi territoriali delle Regioni e dei Comuni, integrando le due rappresentanze con un numero di senatori nominati dal Presidente della Repubblica.

Egregi colleghi, io devo fare qualche altra considerazione sul potere esecutivo e sul sistema dei rapporti fra legislativo ed esecutivo. Indubbiamente, la forma di Governo è determinata dal sistema dei rapporti tra questi due poteri. Dirò subito, andando senz’altro quasi alla conclusione, senza darne la dimostrazione perché il tempo incalza, che non propendo per nulla, che anzi sono completamente contrario, a quella tendenza, che pur debolmente è stata manifestata in questa Assemblea, per il sistema direttoriale, tipo Svizzera, e che non sono nemmeno favorevole al sistema presidenziale. Non intendo con questo secondo riferimento pregiudicare la questione del sistema di nomina del Capo dello Stato. Credo opportuno notare in proposito che, se per avventura quest’Assemblea venisse nella decisione che il Capo dello Stato debba essere eletto direttamente dal popolo, ciò non importerebbe affatto adozione del sistema presidenziale, perché questo sistema è caratterizzato non dal fatto che il Presidente è eletto dal popolo, ma dal fatto che il Capo dello Stato è contemporaneamente Capo del Governo, e che i Ministri sono nominati dal Capo dello Stato e sono soltanto di fronte a lui responsabili, talché non entra per nulla in gioco il meccanismo di voti di fiducia o di sfiducia da parte delle Camere. È evidente che noi, per mille ragioni, non potremmo accettare un tale sistema.

E allora non resta altro che adottare il sistema parlamentare. Ma anche qui bisogna intenderci. C’è un regime parlamentare classico, quello inglese, che ora si è trasformato perché il Primo Ministro, che resta – come fu chiamato – il re senza corona, il vero domino dell’esecutivo, se è sempre nominato dal Capo dello Stato, sostanzialmente è indicato dal corpo elettorale nelle elezioni generali, dal cui risultato si vede subito chi deve essere nominato primo Ministro. Il Governo, il Gabinetto, da questi formato, ha in massima il carattere unitario e omogeneo, e può quindi essere stabile.

Ora non possiamo illuderci, egregi colleghi, di adottare un tale sistema, perché esso presuppone due grandi partiti, uno di maggioranza e l’altro di minoranza, che convogliano le forze politiche del paese. È un congegno, che non corrisponde affatto alle nostre condizioni. Del regime parlamentare, nelle sue linee essenziali, noi possiamo mantenere alcuni pilastri fondamentali. Sforziamoci di creare un potere esecutivo forte; altrimenti è la democrazia stessa che viene messa in pericolo. Per avere un potere esecutivo forte è anzitutto necessario avere un Capo dello Stato che non sia soltanto un simbolo. Da varie parti, nella dottrina, nel mondo politico e in alcune Costituzioni dell’altro dopo guerra, si seguì quel sistema della così detta razionalizzazione del regime parlamentare, che in fondo non è altro che una trasformazione profonda di esso realizzantesi con la diminuzione dei poteri e della figura del Capo dello Stato. Questa Magistratura deve essere dotata di poteri adeguati al suo altissimo compito.

Nessuno abbia paura di questi poteri del Capo dello Stato; non abbia paura anche perché egli non può esercitarli di suo proprio arbitrio e da solo.

Il regime parlamentare è un congegno così delicato e difficile che farebbe perdere la testa a quegli studiosi che volessero classificarlo con una formula semplice e lineare. Per questo gli inglesi si limitano a descriverne le particolarità. Nel regime parlamentare l’esecutivo è un organo complesso composto del Capo dello Stato e del Governo; il quale Governo poi a sua volta è composto del primo Ministro e degli altri Ministri; e tutto questo organo deve funzionare come un congegno di orologeria, in armonia e d’accordo, perché altrimenti il sistema non funziona e salta in aria.

Il congegno è molto delicato e difficile, ma è il congegno, che solo, nelle circostanze del mondo attuale, specie da noi, può garantire la libertà al popolo e nello stesso tempo la energia e la continuità dell’esecutivo.

Alcune Costituzioni dell’altro dopo guerra diminuirono, anche formalmente, i poteri del Capo dello Stato, attribuendoli al Governo, e lasciando a lui soltanto alcuni poteri tassativamente indicati nella Costituzione. No! Il Capo dello Stato deve partecipare a tutta l’attività dell’esecutivo in base al congegno proprio del regime parlamentare classico.

Secondo: bisogna evitare che la posizione del Capo dello Stato sia resa instabile, non solo in diritto – il che fa il nostro progetto di Costituzione – ma anche in via di fatto – il che noi dobbiamo raccomandare alle future Assemblee legislative, perché nel funzionamento della macchina parlamentare e dell’esecutivo non ricorrano a quegli espedienti, che possano indurre o costringere il Capo dello Stato alle dimissioni, come varie volte avvenne in Francia, sotto la terza Repubblica, con tutte le conseguenze che gli storici hanno constatato. (Interruzioni a sinistra). Il Capo dello Stato non ha propria volontà esclusiva. Inconvenienti ce ne sono in tutti i sistemi. Qualsiasi sistema potrebbe essere sottoposto a numerosissime critiche. Bisogna vedere fra i vari inconvenienti quale è il minore.

Ebbene, secondo il nostro modesto modo di vedere, la stabilità del Capo dello Stato è un bene, che supera gli eventuali inconvenienti; anche perché – siccome il Capo dello Stato non può agire per volontà particolaristica individuale, ma deve adeguare la sua volontà a quella del Governo, il quale a sua volta non può restare in carica se non con la fiducia delle Camere – praticamente è impossibile la dittatura, praticamente sono le Camere ad avere la direttiva e la bussola dello Stato. Vero è che il Capo dello Stato può sciogliere le Camere; ma deve essere d’accordo col Governo. Ed in questo caso nessuno ha da lamentarsi, perché è il corpo elettorale, che in definitiva, nell’esercizio della sua sovranità, deciderà, tracciando le direttive al nuovo Governo, alle quali direttive il Capo dello Stato deve uniformarsi.

Veniamo alla composizione del Governo, ultimo punto al quale devo accennare. Non faccio alcun riferimento a situazioni esistenti o del passato; guardiamo all’avvenire. La questione della stabilità del Governo è da noi ardua come quella della quadratura del circolo. Non abbiamo forze sufficienti a fare questa quadratura; né potremmo – e sarebbe male, a mio modo di vedere – con norme pretenziose dettate nella Costituzione, volere disciplinare eventi, che non sono disciplinabili.

Ho sentito l’altro ieri il collega onorevole Rubilli attaccare la proporzionale, addebitando ad essa la instabilità dei Governi. Si giudichi come si vuole il sistema della proporzionale; ma questa colpa non le si può dare, perché le valutazioni statistiche mostrano che col sistema del collegio uninominale la carta politica riusciva e riuscirebbe così variopinta di partiti, come col sistema della proporzionale. Se il Paese è molto frazionato, non c’è sistema elettorale che riesca a creare artificialmente pochi partiti e tanto meno due soli partiti. Vorrei anche osservare che altri inconvenienti, lamentati dall’onorevole Lussu riguardo al collegio uninominale, purtroppo non può dirsi che siano scomparsi dopo l’adozione di altri sistemi.

Adunque, è impossibile che da un Parlamento composto di molti partiti possa sorgere un Governo omogeneo, formato da un partito che abbia la maggioranza assoluta. Ed allora che fare? Era stata affacciata la proposta di un sistema presidenziale di Governo consistente nell’elezione da parte delle Camere del Capo del Governo per la durata di un minimo di due anni; ne parlammo al principio col collega onorevole Tosato e con altri. Ma la proposta era inaccettabile. Si tratterebbe di una specie di sistema presidenziale ridotto, ed avente come perno il Capo del Governo e non il Capo dello Stato. Respingendo il sistema nei riguardi del Capo dello Stato, è logico che non si può accettarlo nemmeno per il Capo del Governo.

A quale altro sistema ricorrere adunque per avere un Governo omogeneo? Ad un Governo di minoranza o di maggioranza relativa? Ma questo, se è possibile e necessario in periodi di emergenza, non è possibile sicuramente in periodi normali.

Ed allora, egregi colleghi, è bene che riconosciamo esplicitamente che fino a quando permane questa situazione, cioè della divisione del Paese in tante correnti politiche, è impossibile, qualsiasi sistema elettorale si scelga, che si arrivi ad avere nel Parlamento un partito di maggioranza assoluta, e che è quindi impossibile arrivare alla costituzione di un Governo omogeneo.

Non c’è che il Governo di coalizione. Se è così, occorre ricorrere a correttivi che però non possono scriversi nella legge, ma che debbono affidarsi solo al costume politico e al generale senso di responsabilità.

È successo finora, per necessità contingenti delle quali diedero spiegazione vari autorevoli colleghi di questa Assemblea, è successo che partiti partecipanti al Governo di coalizione criticassero od oppugnassero provvedimenti deliberati dal Governo del quale coi propri esponenti essi facevano parte. Si è detto che ciò era inevitabile perché i partiti, perdendo quasi la libertà di opposizione nel seno del Governo, erano costretti a riprenderla e ad esercitarla nel paese. Non è qui il caso di soffermarsi sul passato; ma è il caso di affermare che ciò non dovrebbe ripetersi per l’avvenire. Si, caro Conti: dobbiamo affidarci al costume, al nostro senso di responsabilità, al patriottismo e al senso di responsabilità di tutto il popolo, delle classi dirigenti e specie di coloro che saranno eletti nelle future Assemblee legislative.

Siccome nelle circostanze dell’epoca attuale non è possibile altra forma di Governo che quella del Governo di coalizione, sarà indispensabile – se non si vuole sabotare scientemente o inconsapevolmente il funzionamento del Governo – che i partiti i quali si accordano su un minimo di programma nell’entrare a far parte del Gabinetto, si comportino in conseguenza coerentemente agli impegni presi. Se l’impegno diventasse pesante dovrebbero lasciare la coalizione, non sabotarla.

Naturalmente nessuna norma costituzionale può disciplinare questa materia. Dobbiamo affidarci al costume, onorevoli colleghi, in questa materia noi non possiamo che affermare un’esigenza fondamentale per la vita del Paese ed invocare la buona volontà e la cooperazione dei partiti, che sono tutti legati, come tutti indistintamente, individui e gruppi senza alcuna esclusione siamo legati, alla stessa sorte della Nazione.

Noi abbiamo bisogno, nel grave periodo che attraversiamo, nel caos internazionale e nell’immenso disagio interno del Paese, di un Governo che sia stabile e forte, di un Governo che assicuri la continuità e l’efficienza della politica dello Stato, di un Governo che permetta al popolo di risollevarsi dalle rovine, di un Governo che dimostri all’estero la dignità di questa sacra Patria, dell’Italia, che pur oggi, torturata, dilaniata ed offesa nel suo corpo fisico, sente di avere un’anima che può affrontare tutte le tempeste e può ancora dire al mondo una parola di armonia, di equilibrio e di pace nell’interesse nostro e di tutti gli altri. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nitti. Ne ha facoltà.

NITTI. Io intendo limitarmi a poche osservazioni sui titoli I, II, III di questa parte del progetto di Costituzione. Siamo ora veramente nella Costituzione. Finora abbiamo parlato di tutto, tranne che della Costituzione. Forse per questo la Camera era prima molto più affollata (varietas delectat), ed ora è diventata deserta. È forse anche per caso che io trovo oggi un certo numero di ascoltatori!

Ora si discute la vera Costituzione. Sinora, discorsi vani, anche di oratori facondi, che hanno detto tante cose, ma non hanno parlato della Costituzione. Costituzione è quell’insieme di disposizioni che regolano l’ordinamento dello Stato. Dell’ordinamento dello Stato non si è finora mai parlato; ora incominciamo a parlarne ed entriamo in un ordine di considerazioni e di studi che riguardano la vita del Paese.

Però la discussione incomincia tardi. Noi abbiamo davanti a noi brevissimo tempo, ed in questo brevissimo tempo dobbiamo fare troppe cose, che sono di gran lunga più complesse e difficili di quelle che abbiamo discusso finora.

Abbiamo davanti a noi la limitazione del tempo: noi dobbiamo aver finito il nostro lavoro per il 31 dicembre. Io sono stato il responsabile del suggerimento della data del 31 dicembre. Fra le proteste dell’onorevole Nenni e l’indignazione di alcuni che trovavano quasi sconveniente prorogare il termine che la legge non prevedeva e si scandalizzarono. Ma poi anche quelli che dicevano non volere ciò che io volevo, consentirono a piegarsi davanti alla necessità. Si era perduto troppo tempo e si doveva riparare al tempo perduto. Ma ora, non io e non forse altri, credo, oserà chiedere un’altra proroga. Noi dobbiamo, per il 31 dicembre, avere esaurito il nostro compito. Quindi, lavoro difficilissimo, perché adesso viene quella parte della nostra Costituzione che è soggetta ad una maggiore cura dei dettagli e che dovrebbe essere esaminata con ogni serietà. Finora abbiamo parlato di tante cose inutili: rinuncia alla guerra di conquista (quando siamo in difficoltà di difendere noi stessi), garantire ospitalità a tutti coloro che si trovano a disagio nei loro paesi! Abbiamo promesso al popolo italiano tante cose, troppe cose che non saremo in condizione di fare o di dare e tutto questo in articoli di Costituzione! Adesso non si può divagare né perdere tempo e si deve discutere seriamente e in dettaglio, senza nuove fantasie, gli articoli che riguardano la vita fondamentale del nostro Paese. Ora, dunque, occorre che non solo discutiamo con calma e serenamente, ma che discutiamo senza preconcetti, non in quanto non vi siano grandi affermazioni di principî da farsi. Dobbiamo fare brevemente, nel termine di tre mesi, disposizioni che richiedono attenta osservazione e cura di dettagli. Io voglio limitarmi a fare una serie di osservazioni e più che altro una serie di domande.

Io avvertii già nei due discorsi del 10 aprile e dell’8 maggio le difficoltà contro cui ci saremmo urtati nel fare la Costituzione nella parte essenziale. Quello che mi sorprende in questo Titolo della Costituzione è la sovrabbondanza e lo spirito di uniformità. Si è avuto cura di aumentare tutte le istituzioni fino all’iperbole. Bisognava ridurre il più possibile, si è aumentato il più possibile. Il legislatore (questa volta è difficile dirlo perché parecchi sono stati i legislatori; non si può parlare della mens legis, della mente del legislatore), i legislatori di diversa origine, animati da diverse passioni, hanno voluto mettere una parte di loro stessi, e tutto è finito spesso in un compromesso che toglie efficacia. Ora, due cose mi sorprendono come osservazione generale su questa parte: la prima è un eccesso di dilatazione, un desiderio di aumentare, e l’altra è l’uniformità. Tutto è stato soggetto, in questa Costituzione, alla dilatazione e alla uniformità. Ciò è caratteristica soltanto italiana, perché in nessun Paese esiste l’ipertrofia dei titoli e delle funzioni. Qui, se si dice: la Camera dei Deputati dura 5 anni, si deve ammettere che anche il Senato dura 5 anni. Non c’è nessuna ragione perché duri anch’esso 5 anni. Ma se non si accetta la stessa durata, pare che si offenda, come si dice, la democrazia. La democrazia è messa in tutte le cose, sopra tutto in quelle in cui non entra affatto. Troppa uniformità da un lato e dall’altra la sovrabbondanza di funzioni. Se mi permettete, siamo quasi nella situazione delicata in cui si trovano gli operai di molte fabbriche, in cui si trovano gli impiegati di molti uffici. Si sono ammessi come operai anche molti che non sono e di cui non è bisogno, non perché erano necessari, ma perché bisognava dare loro una occupazione. In alcune fabbriche, su tre operai solo due lavorano; in molti uffici su tre impiegati non so se due lavorano. Forse sì, forse no. Ma nessuno oserebbe mandarli via e nessuno osa, perché, per ragione di pace sociale si è creduto necessario metterli dentro. Ora qui si sono create e si creano molte diverse situazioni per cui bisogna aumentare in tutti i modi il numero dei legislatori.

Vi assicuro, e non dico queste parole a caso, che in nessun paese di Europa e in nessun grande paese di America, si è fatto tanto cattivo uso del numero per regolare la vita dello Stato, quanto se ne fa in Italia.

Se ora esaminiamo i Titoli che sono sottomessi alla nostra indagine, questo è il primo fatto che colpisce.

Cominciamo dalle Camere legislative. È venuta, prima di tutto, la grande disputa: una Camera o due Camere. Non so perché si diceva che le democrazie volevano una Camera, che molta parte della democrazia non ammetteva la seconda Camera. Io non conoscevo questa legge della democrazia, e non mi so spiegare perché l’invenzione delle due Camere non è stato un fatto di volontà conservatrice, è stato un fatto determinato da lunghe vicende della storia e voluta dalla democrazia. Una cosa però sappiamo ed è che i paesi che hanno avuto una sola Camera sono sempre precipitati nel caos o nelle tirannie. E questo è accaduto dovunque: non vi è nessun Paese che abbia potuto reggere al disastro di una sola Camera…

LUSSU. Roma per duemila anni.

NITTI. La ringrazio. Roma durò solo mille anni. La vera Roma fino all’ultimo degli imperatori aveva speciali ordinamenti, per cui i poteri del Senato e delle Magistrature si compensavano e si completavano. Roma aveva un ordinamento del tutto diverso. Il Senato aveva un grande potere, ma che era limitato dal potere delle alte Magistrature e dal potere dei tribuni della plebe. E il Senato era limitato nel suo funzionamento dalla stessa sua formazione. Il Senato era un’Assemblea conservatrice, che aveva un suo speciale ordinamento e che doveva assoggettarsi ad esso con rigida disciplina. Roma non è materia di confronto con nessuno dei paesi moderni. Aveva la provvida istituzione della dittatura. Vicino alle grandi Magistrature, quando le cose andavano male, era il Senato stesso che decideva di andar via e che conferiva tutti i poteri ad un dittatore, che, in generale, durava solo qualche settimana, al massimo eccezionalmente fino a sei mesi. La istituzione della dittatura dette buona prova, finché non venne un uomo senza scrupoli, che fu Mario (che non so perché le democrazie trattano con tanto rispetto) che deformò la dittatura. Prima di Mario nessuno aveva prorogato la dittatura oltre il breve termine di qualche mese. La dittatura era la grande istituzione democratica ed il grande correttivo degli errori dell’Assemblea parlamentare. Ma noi non conosciamo nessun paese moderno che abbia fatto la prova di un Governo che sia durato a lungo con una sola Camera, sopra tutto se si tratti di un paese latino, e non dico di razza latina, come si dice sempre a sproposito, perché non esistono razze latine, ma paesi di razze diverse e che sono di lingua e di civiltà latina, e però hanno una fusione in certe tendenze generali dello spirito.

Ora, Roma antica aveva per disposizione naturale del popolo attitudini politiche eccezionali. Non aveva la nostra impulsività e quando arrivava al correttivo o alla dittatura era perché le lotte, che il Senato non poteva eliminare, richiedevano eccezionale rimedio.

I Romani avevano il concetto e il sentimento dello Stato e della sua continuità: non facevano niente in maniera impulsiva. Davano gli onori del trionfo anche al generale vinto se credevano che egli avesse agito con coraggio e con competenza. Roma sapeva vincere e durare: nella guerra di Spagna durò 198 anni e non si stancò mai. La continuità era nel carattere del popolo: noi quando siamo andati in Libia, abbiamo preteso lo stesso anno di arrivare nell’interno; i romani per arrivare nell’interno hanno atteso oltre un secolo.

I Romani, come tutti i veri popoli conquistatori, avevano il senso della continuità. Ora, non si farà mai un paese ordinato con una unica Camera: si possono avere costituzionalmente le forme più diverse; ma mai si potrà stabilire che vi sia una Camera unica. Badate che la caduta recente della Repubblica di Spagna, cui è seguita la dittatura, è dipesa proprio dall’aver adottato una unica Camera.

Io ho molto conosciuto (veniva spesso da me a Parigi) il Presidente di quell’Assemblea, Santiago Alba. Veniva con lui qualche volta il capo dei conservatori Sanchez Guerra, uomo austero e nemico della dittatura. Ho scritto la prefazione al libro di Santiago Alba sulle dittature. Alba mi diceva: la Repubblica spagnuola era destinata a perire, perché aveva una sola Camera e non poteva avere ordine. E aveva una sola Camera perché i conservatori, volendo fare opposizione e ostruzionismo al movimento democratico, si allontanarono e non votarono quando si dovette decidere della seconda Camera.

Tutto andò male, e allora non fu possibile avere un’Assemblea seria, e sopra tutto moderata. Si ebbe un’Assemblea unica, che passò di errore in errore, dopo di che a causa o con il pretesto dell’assassinio di un deputato che non fu punito, vi fu una violenta reazione che fini nella dittatura militare.

Non bisogna considerare la seconda Camera come un ornamento costituzionale. La seconda Camera è una necessità. Nel progetto di Costituzione è ammessa. Abbiamo cominciato però con offenderla, perché nel nostro progetto che esaminiamo, il nostro Senato ha avuto un nome sconcio: è chiamato «Camera del Senato». E chi ha pensato a un simile orrore, non dirò errore? Ma come! «Senato» è un nome glorioso. In tutte le strade di Roma troviamo ancora scritto Senatus Populusque Romanus. Nell’America stessa la seconda Camera si chiama Senato; tutti i grandi popoli che hanno voluto costituire un’Assemblea hanno cercato di chiamarla Senato. Il più grande tragico, Shakespeare, ammiratore di Roma e incurante delle precisazioni della storia, attribuisce a tutti i grandi popoli, a cominciare da Atene, un Senato.

Perché poi questo errore? Forse perché qualcuno di quelli che hanno preparato il progetto di Costituzione ha letto che in Inghilterra c’è una Camera dei Comuni e una Camera di Lords. Ma lì è tutt’altra cosa! Quelle non sono due Assemblee create dal popolo: sono due Assemblee che vivono da tanti secoli, l’una in origine rappresentativa della nobiltà terriera e della ricchezza fondiaria, l’altra rappresentativa del commercio delle città e dei traffici. E l’una è sempre vissuta indipendente dall’altra; e ciascuna ha avuto una sua formazione storica e giuridica: spesso in lotta con il sovrano.

Con mia sorpresa, mi trovo di fronte a un fatto nuovo, a una proposta che mi ha vivamente sbalordito: noi abbiamo o siamo minacciati di avere un organismo senza storia e senza serietà che si chiama «Assemblea Nazionale». Non mi sarei aspettato mai una simile sorpresa. Che cosa è e che cosa può essere l’Assemblea nazionale? Nei tempi normali, noi chiamiamo «Assemblea nazionale» in Francia come in Italia la riunione per un sol giorno o per due quando le due Camere si riuniscono nella sala di una di esse per un argomento che richiede l’intervento di entrambe. In Italia si riunivano a Montecitorio perché l’Aula del Senato era troppo piccola.

Ma quando si riunivano? Si riunivano in Italia all’inizio della nuova legislatura, quando il sovrano, pronunziato il discorso della Corona, assisteva al giuramento dei deputati. Io stesso ho presieduto la prima riunione della XIX legislatura. Era cosa di un giorno, anzi di poche ore. Si riunivano senatori e deputati e poi non si riunivano più mai, se non per speciale evento come l’apertura di una nuova sessione. Chi avesse creduto cristallizzare la riunione, che doveva avere la durata di un giorno, in un’Assemblea permanente con funzioni proprie e sede propria sarebbe stato considerato pazzo.

Ora, e questo è sbalorditivo ed è unico al mondo, si vuol creare un’Assemblea Nazionale permanente, enorme e assurda, che non esiste in nessun paese del mondo, perché non ha ragione di esistere; perché, o sopprime una delle due Camere, o le sopprime tutte e due. Che cos’è quest’Assemblea Nazionale che, come dicevo, è unica ed è contemplata dagli articoli 60, 61, 74 e 75 del progetto di Costituzione e che, siccome non affrontano la questione, ma la presentano in tante forme, non dànno l’idea che si tratta di una nuova Camera, che è del tutto diversa, che ha funzioni diverse e che si sovrappone alle altre ed ha poteri permanenti.

Non è qui il caso di avere dubbiezza, perché l’onorevole Ruini stesso, il Relatore, ci toglie ogni dubbio. Egli non ha esitato a dirlo anche lealmente: si tratta di una nuova Camera che, naturalmente, dovrà avere i suoi uffici, la sua sede, i suoi mezzi di vita. Noi faremo una terza Camera, la quale sarà una riunione delle due Camere che esistono, ma non avrà un suo scopo e quindi è ridicolo che abbia la sua funzione. È vero che il disegno di legge le attribuisce funzioni ipotetiche. Sarà, si dice, come un Consiglio superiore della Nazione. E che cos’è questo Consiglio superiore? L’onorevole Ruini ha avuto forse qualche dubbiezza, e l’ha risoluta senza scrupolo. Questa Camera diventa, egli ha detto, in un certo senso: «un istituto nuovo che la nostra Carta introduce: l’Assemblea Nazionale, e Cioè il Parlamento che funziona a Camere riunite per atti di singolare importanza, come l’elezione del Presidente della Repubblica, l’espressione di fiducia e sfiducia al Governo, le deliberazioni della mobilitazione generale e dell’entrata in guerra – tutte cose che si fanno in un giorno – e così – fatto nuovo e strano – dell’amnistia e dell’indulto (la cui attribuzione al Parlamento costituisce, un novum della Costituzione), infine la designazione di chi deve far parte di organi rilevanti nell’ordinamento dello Stato, quali il Consiglio Superiore della Magistratura e la Corte costituzionale. Pur serbando la bicameralità, si pongono le basi di una trattazione unitaria dei problemi fondamentali».

Ma la trattazione unitaria si è sempre fatta: Montecitorio e Palazzo Madama, sede del Senato, sono a qualche centinaio di metri di distanza. Bastava un usciere per fare arrivare gli atti dall’una all’altra Camera, senza inutile solennità. Non vi è ragione, quindi, di fare nientemeno che un’Assemblea Nazionale! E poi, sul serio, vogliamo far discutere alla Assemblea Nazionale – la quale è più che una sola Camera: sono due Camere – provvedimenti come l’indulto e l’amnistia? È prudente, è saggio, è utile? E che cosa deve fare questa Assemblea? Se non ha lavoro, deve crearselo.

Potete ben immaginare quale numero di uffici, quale folla di funzionari! E questa cosiddetta Assemblea Nazionale, con la Camera e il Senato riuniti, sarebbe composta di circa mille persone. Dovendo avere sede propria, dovrebbe avere assai più di mille partecipanti. Nessun palazzo di Roma può contenere una così enorme accolta di legislatori in forma duplicata. Occorrerebbe, se l’Assemblea avesse carattere permanente e non finisse nel giorno stesso in cui è convocata, tutta una situazione nuova.

Questa Camera non ha scopo di esistere, non ha modo di esistere, non deve esistere! E la solennità sua stessa sarebbe inutile spesa in questo momento in cui tutte le spese devono essere ridotte. Sarebbe dissipazione enorme per la cosa più inutile.

Abbiamo noi veramente necessità di creare questa nuova Camera? E perché tanti legislatori e anche in funzione duplice?

Sapete ciò che sorprende quando si esaminano i nostri ordinamenti? Noi vogliamo avere più uomini che devono fare le leggi che non ne abbiano tutti gli altri paesi del mondo. Vogliamo, creando adesso una Camera enorme, un Senato enorme, riunirli e vogliamo fare dell’unione di tutte e due le Assemblee un’Assemblea enorme, un’Assemblea Superiore, che è senza precedenti in qualunque paese del mondo e che si presta solo al ridicolo.

Noi potevamo fare al più un deputato per ogni duecentomila abitanti, o se vi piace, almeno per ogni centocinquantamila. Noi vogliamo fare invece un deputato per ogni ottantamila abitanti. Vi pare che non sia un eccessivo numero?

Ora, se vi piace, vi leggerò quello che è negli altri paesi, anche nei più grandi di noi. Noi pretendiamo che, siccome vi è una numerosissima Camera dei deputati, dobbiamo fare un numerosissimo Senato o, come si dice per offesa Camera dei senatori. E allora siamo andati a dire che vi sono per ogni Regione (si calcola tutto; io non sono d’accordo, ma voi siete in questa via, che sulla base delle Regioni si debba fare tutto, e si è pure di accordo, nel seno di qualche partito di massa, che bisogna fare un Senato).

Quindi, si vogliono dare nientemeno che ad ogni Regione cinque senatori, numero fisso – e poi un senatore per ogni duecento mila abitanti.

Sapete l’America quanti senatori ha per ogni Stato? Due. E noi facciamo di queste acrobazie, e noi pretendiamo di fare delle Assemblee serie che si reggano su questa base! E accadrà dei legislatori come della nostra moneta, che più ne emettiamo e più diminuisce di valore; più aumenta il numero dei nostri legislatori e più essi diminuiranno di serietà e di prestigio!

Io vi do l’esempio del più grande paese del nostro tempo: gli Stati Uniti d’America. Gli americani si può amarli, si può non amarli, ma in materia politica ci presentano un fatto unico nel mondo moderno. Questi Stati Uniti, che si presentano veramente come un paese così potente, sono nella loro vita costituzionale di una continuità e di una stabilità impressionante! Dal 1787 essi sono sempre allo stesso posto. Hanno cambiato tutte le forme di vita, son passati dalla vita pastorale primitiva alla grande industria, da paese di ricchezza pastorale e agricola a paese di sconfinata ricchezza, ma hanno sempre la stessa legge costituzionale e la forza della Costituzione non è mai variata, e non è mai diminuito il suo prestigio.

L’Osservatore Romano (di cui sono lettore) non so perché ha ricordato spesso che nello spazio di 150 anni la Francia è il paese che ha mutato 13 Costituzioni: solo la Spagna può pretendere di averla superata.

Gli Stati Uniti dal 1787 non hanno mutato mai la Costituzione. La Costituzione americana, profondamente democratica, veramente democratica, che ha creato la rivoluzione francese; la stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 non è che la riproduzione integrale dello Statuto che fecero gli emigrati in America. Erano i perseguitati dalla tirannia della religione ufficiale che giungendo in America si fecero uno Statuto per regolare i loro rapporti sulla nuova terra e quello Statuto divenne la carta della democrazia moderna.

Ora, se non abbiamo un modello di Costituzione da imitare, guardiamo piuttosto agli Stati Uniti che ad altri paesi: naturalmente mutatis mutandis in ordine di grandezza e di tempo. Noi dobbiamo guardare verso l’ordinamento costituzionale che ha meglio resistito a tutte le bufere.

Quanti sono i legislatori degli Stati Uniti? Negli Stati Uniti vi sono 96 senatori. Siano grandi o piccoli Stati, devono avere tutti come plenipotenziari nello Stato centrale lo stesso numero di rappresentanti, due per ogni Stato, e nessuno ha mai preteso più di due rappresentanti.

E quale è il numero dei deputati? Noi pretendiamo che se il Senato duri cinque anni, la Camera deve durare cinque anni, e le due Camere devono essere regolate allo stesso modo, ciò che è non solo inutile ma anche dannoso. Democrazia non vuol dire uniformità.

Quindi, quale è l’ordinamento degli Stati Uniti? Gli Stati Uniti hanno una Camera dei Rappresentanti (noi diciamo Camera dei Deputati) che dura due anni perché è una Camera eletta direttamente dal popolo e si vuole dia la viva sensazione del paese. Quindi la Camera si rinnova ogni due anni. Si può sapere ciò che il paese pensa e desidera e saperlo a brevi intervalli.

E quanti sono i Senatori? Sono 96. I Deputati invece sono 435, cioè assai meno di noi, della nostra Costituente. Dunque noi abbiamo meno di un terzo degli abitanti degli Stati Uniti (e non vi faccio il paragone di potenza e di ricchezza) e siamo qui dentro molto più numerosi dei rappresentanti degli Stati Uniti che sono soltanto 435.

Quanto dura il Presidente della Repubblica? Dura quattro anni; quindi con la durata delle Assemblee nessuna uniformità. La democrazia non richiede uniformità; spesso anche l’esclude.

Negli Stati Uniti dunque la Camera dei Rappresentanti è rinnovata ogni due anni, il Presidente della Repubblica dura quattro anni ed i Senatori durano sei anni e si rinnovano ogni due anni di un terzo. Il Senato dunque non si scioglie. Questo è altro errore in questo progetto di Costituzione che ci presentate. Si può sciogliere la Camera e nello stesso modo il Senato? No, il Senato in America non si scioglie mai. Anche in Francia non si scioglieva il Senato. Quale era in Francia la situazione? La Francia aveva una Camera che durava quattro anni, aveva un Presidente della Repubblica che durava sette anni (periodo per me troppo lungo) e aveva poi un Senato che durava nove anni e si rinnovava di un terzo ogni tre anni. Voi dire che per avere la democrazia bisogna avere le stesse leggi. No, le stesse leggi si può averle nel loro contenuto politico essenziale, non già nella loro forma e nel loro funzionamento.

Ora, dunque, noi ci troviamo di fronte alla grande potenza americana che ha 531 deputati e senatori: meno di quanti noi siamo qui in questa sala della Costituente. Non credo che questo esempio sia privo d’importanza. Si tratta del Paese che ha creato la democrazia. La democrazia è una creazione americana, e l’America è stata la prima Repubblica del mondo veramente democratica.

Il Senato deve essere la seconda Camera, e va concepito quale è nella sua reale funzione. Ora, nel Progetto, mi trovo di fronte a una serie di questioni di cui non trovo la spiegazione. Come deve essere eletto da noi il Senato? Qui vi è una cosa che m’imbarazza: non vi sono solo disposizioni riguardanti l’elettorato del Senato, vi sono anche le disposizioni per le categorie degli eleggibili. Chi sono gli eleggibili? È una novità piuttosto spiacevole. Con che diritto fissiamo quelli che devono essere gli eleggibili? Perché fissiamo addirittura le liste degli eleggibili? L’età: 35 anni. Bisognerebbe arrivare per lo meno a 40. La stessa parola «Senato» (i patres) dice che non erano dei giovani senatori. Ma vi è la categoria degli eleggibili che mi imbarazza e per cui trovo la cosa anche più strana. Noi non abbiamo il diritto di fissare queste categorie. Noi non facciamo un Senato economico e professionale; allora si spiegherebbero le categorie. Ma volendo lasciare al Senato il carattere di Assemblea politica non si spiega perché dovremmo indicare chi è eleggibile. Se noi volessimo entrare nell’idea di Senato e di Camera a fondo sindacale o corporativo od a fondo censitario, me lo spiegherei. Ma ora, con che diritto facciamo categorie chiuse?

Qualche volta si cade anche nell’irragionevole.

Trovo, per esempio, che, anche prima di fissare le categorie degli eleggibili, la prima eleggibile, vi è una disposizione che mi sbalordisce e deve essere un errore: è quella secondo cui agli elettori si impone di essere nati o domiciliati nella regione. Nessuno di noi può essere eletto senatore se non è nato o domiciliato nella Regione. Cosa grave, perché è una limitazione assurda e inspiegabile. Se non si è nati bisogna andarsi a domiciliare. Ma chi, in un Paese libero, concede queste limitazioni territoriali? Si può concepire maggiore stravaganza? Si può arrivare, come in America, perfino a togliere il diritto di voto ai cittadini della Capitale. La Capitale deve essere fuori contestazione; non vi devono essere vere lotte politiche. La Capitale deve rappresentare il luogo dove tutti si possono incontrare serenamente al di fuori dei partiti. Non conosco le ultime disposizioni al riguardo. I cittadini di Washington non erano né elettori né eleggibili. Questa idea è entrata anche nei singoli Stati. Lo Stato di New York non ha per capitale New York, ma Albany, che in paragone è una piccola città. E così sull’Oceano Pacifico vi è la grandissima città di San Francisco; ebbene, la capitale dello Stato della California è Sacramento.

Dunque, si possono imporre limitazioni, se vi sono ragioni di diritto e scopo di utilità pubblica. Ma perché i candidati devono essere nati o domiciliati nella Regione dove vogliono essere eletti? Non lo trovo né logico né conveniente.

Poi vi sono le categorie di eleggibili. Non vi devo negare la mia sorpresa. Con tutto il rispetto che ho per i partigiani e per i combattenti contro il Fascismo, trovo però molto strano che la prima categoria degli eleggibili è rappresentata dai decorati al valore della guerra di liberazione 1943-45. Ora, a queste categorie di persone si possono rendere tutti gli onori, ma come si può creare questa categoria a parte? Come si può ammettere una misura di questo genere, che non sia estesa a tutti i decorati di guerra, i quali hanno tanto sacrificio sostenuto? Come si può rinchiudersi nel breve periodo 1943-45, quale che sia lo scopo e la dignità? Ammesso che si voglia tenere conto dell’elemento del valore in qualche categoria, non possiamo considerare soltanto il valore militare, ma anche il valore civile. Se vogliamo costituire una categoria di privilegiati, quella dei decorati al valore, possiamo dire che tutti i decorati al valore civile e militare sono eleggibili. Perciò, senza mancare affatto di riguardo verso i partigiani, mi pare che si faccia atto di giustizia e di dignità nel considerare tutti coloro, che hanno dato il loro sangue e messo la loro vita a servizio della Patria.

Bisogna poi cominciare col rivedere il nome di Camera dei senatori e trovare il mezzo di distinzione.

Dobbiamo dare alla Camera e al Senato gli stessi diritti; ogni limitazione dell’uno o dell’altro è ingiusta. Nello stesso Statuto albertino le leggi di carattere finanziario devono essere sottoposte prima alla Camera dei deputati, come Camera eletta a suffragio più largo. Non possiamo negare lo stesso diritto al Senato. In che stabilire la differenza?

Prima di tutto nell’elettorato. Io credo, non vi scandalizzate, che ciò che vogliamo fare in materia di Regioni non durerà. Voi siete tutti in gran parte per le Regioni; non lo sarete a lungo di fronte ai risultati della forma attuale di suffragio e di elezione. Io credo invece che bisogna ritornare, mediante un processo di revisione, alla realtà, cioè a un sistema più logico. Non so se la proporzionale, di cui è mia la colpa originaria, abbia dato buona prova. Devo riconoscere che sono stato io che ho messo il primo nome alla legge della proporzionale. Non prevedevo le esagerazioni e le deformazioni che sono sopravvenute. Le conseguenze sono estese a tutte le amministrazioni che non funzionano più, perché con la proporzionale non hanno modo di ordinarsi e di formare gruppi omogeni che abbiano maggioranza. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la democrazia, che può esistere con qualunque forma elettorale e non è legata all’una o all’altra.

Mi chiedo se non sia il caso di procedere ad una revisione di questa materia, e ciò voglio sottoporre al parere e alla decisione dei miei amici democratici cristiani, «le quadrate legioni», come direbbe Mussolini (Si ride), che impongono il rispetto, a parte tutte le altre considerazioni, per il numero e, quando riesce loro, per la disciplina. Ora, le quadrate legioni considerino se proprio conviene loro di spingere a tutti i costi la proporzionale o non volere piuttosto che almeno una Camera sia eletta col collegio uninominale. Noi potremmo ottenere, poiché il collegio uninominale si presta meglio alla scelta dei candidati, che esso renderebbe ancora dei servigi. Noi ci ostiniamo: tante cose, che crediamo durevoli, non lo sono: noi siamo in continua mutazione. (Interruzione dell’onorevole Piccioni). Anche le nostre Assemblee sono un po’ come le sabbie mobili del deserto. Non sappiamo più quelli che sono i partiti, che si uniscono e si disuniscono, annunziando nuove formazioni e nuove eliminazioni (Interruzione dell’onorevole Piccioni): ed allora ci dobbiamo preparare a molte mutazioni. Basta osservare le cose da vicino.

Ed ora vengo ad un piccolo argomento. Noi abbiamo visto che con il nostro progetto di Costituzione vi sarà, oltre alle due Camere legislative, quella Assemblea – che spero non vi sarà perché non ha ragion d’essere – che riunisce il tutto, ed è cioè molto vicino al nulla.

Una voce al centro. Non c’è nemmeno il locale!

NITTI. Sì, non c’è nemmeno il locale! Accanto a queste grandi formazioni ve ne è qualcuna piccolina, perché infatti accanto a queste due Camere, a una nuova grandissima Camera si forma un camerino (Si ride), di cui ho trovato notizia piuttosto reticente e riservata anche nelle parole del Relatore.

In alcuni paesi si è fatta un’agitazione per avere camere professionali o di carattere economico, e si voleva in alcuni che la seconda Camera avesse carattere sindacale ed economico. Vi erano i conservatori che la volevano in un senso, mentre i rivoluzionari aspiravano a qualcosa di sindacale che preludesse a formazioni sindacaliste. Poiché in Italia non si nega nulla a nessuno (si vuole un posto in Parlamento e lo si dà, si vuole una mutazione, la si dà), c’è insomma molta condiscendenza, si è detto: perché non diamo posto anche a questa Camera? Ed allora hanno osato proporre un camerino specifico in cui questa novissima Camera è ospitata provvisoriamente, ma si dice (e lo dice anche il Relatore) che questa Camera può rendere ancora qualche servizio (quale?) ma che poi si dovrà vedere come darle un assetto, con un’apposita legge. Rimandiamo tutto a leggi future, cercando ipotecare il futuro.

Anche qui vi sono le Regioni che comandano. In fondo, si vuole che il Senato sia formato dalle Regioni. Ma poi vi è una certa incertezza nel determinare queste cose. Molti rimangono nell’indeterminato proprio quando bisogna invece avere soprattutto la precisione.

Ora, viene l’ultima parte dell’argomento che noi dobbiamo trattare e che riguarda il Capo dello Stato. Noi ci siamo tanto preoccupati del Capo dello Stato, ma soltanto per perdere tempo alcuni giorni, per stabilire quale forma di giuramento dovevamo stabilire per il Capo dello Stato. In verità, io trovavo quella discussione piuttosto inutile, perché il Capo provvisorio dello Stato non poteva prestare giuramento ad una Costituzione che non esiste, e noi prestando giuramento a lui, avremmo prestato giuramento alla Costituzione che non avevamo fatto. Quindi, la questione si è spenta perché non aveva importanza.

Capo dello Stato. Come nominarlo? Anche adesso che si parla del Capo dello Stato si sente parlare anche di Regioni, quelle regioni che non abbiamo fatto, che non so se faremo e so ancor meno se potranno vivere. Scusate la sincerità, e non vi offendete: siete veramente sicuri? Io non lo sono. Quanto tempo occorrerebbe se non avessimo i prefetti di quelle provincie che volevate abolire, e che non avete abolito. Abbiamo conservato l’equivoco della Regione e mantenuto la Provincia, il Comune, e si è pensato anche all’idea di restaurare i circondari; così noi distruggevamo da una parte ciò che volevamo far sorgere dall’altra.

Riportiamoci alla Sicilia: siete ben sicuri che la prova delle Regioni sia riuscita? (Interruzione dell’onorevole Piccioni). Siete ben sicuri che non avrete urti che possano essere fatali non soltanto all’unità, ma alla solidità dello Stato? Io non ho prevenzioni. La prima volta che quasi ragazzo fui eletto deputato, fui eletto anche in Sicilia. Mi è rimasto sempre impresso il grande sentimento di cordialità per quel paese che non mi conosceva e che mi eleggeva, e pensate se non ne parli con rispetto. Siete sicuri che con la Sicilia ci intenderemo presto? Siete sicuri che noi potremo dare alla Sicilia ciò che essa vuole? Siete voi sicuri che queste Regioni che noi creiamo al confine d’Italia, dove vi sono popolazioni incerte e che non lavorano in favore dell’Italia, siete sicuri che resteremo uniti con la stessa unità di sentimento, con la stessa fede patriottica? Io non so. Molte cose dovremo modificare e molte mutare.

E veniamo all’argomento del Capo dello Stato. Il Presidente della Repubblica è un personaggio che ha grande importanza, perché egli viene a rappresentare, in questo divagare di passioni e torbido periodo che viene, e non potremo evitare, la persona che deve significare lo spirito di unione e di solidarietà nazionale.

Noi dobbiamo desiderare che il Presidente della Repubblica abbia il necessario prestigio. Signori, io non credo che la Repubblica corra pericolo se noi siamo uomini prudenti, savi e non esageriamo. Le monarchie in Europa non sono morte ora, sono morte il 1919. La guerra solo crea le rivoluzioni. Non vi sono state nei tempi nostri rivoluzioni senza guerre, né guerre senza rivoluzioni. Il vecchio Eraclito diceva profonda verità quando affermava che la guerra è la sola cosa che crea e distrugge. Noi saremmo ancora con l’impero d’Austria, con l’impero germanico, con gli czar se non ci fosse stata la guerra del 1914!

Scusate voi socialisti che io dica tutto il mio pensiero. Voi siete qui a causa della guerra; i socialisti germanici, cioè i veri marxisti cantavano inni al tempo di Guglielmo per cui bisognava opporsi alla guerra e piuttosto fare la rivoluzione che la guerra. Poi non la fecero mai la rivoluzione. La rivoluzione è venuta dalla guerra. L’Europa prima della guerra era sotto il dominio di quattro grandi imperi che disponevano dei quattro quinti dell’Europa del continente: la Russia, l’Austria Ungheria, la Germania e la Turchia. Tutti i quattro grandi imperi si sono sfasciati per effetto della guerra.

Non esiste ora un solo Stato monarchico sul loro territorio.

L’Inghilterra stessa fuori del continente può oramai considerarsi come una immensa unione di repubbliche presiedute da un re.

Dovunque sono soltanto repubbliche. La guerra ha tutto sovvertito. Credete che le monarchie, che le grandi monarchie che sono cadute ritornino? Credete che ciò possa avvenire in tempo prossimo e senza rivolgimenti? Nessuno sa. Ma non osservate che in Europa, dopo di allora, quando erano cadute le grandi monarchie continentali, erano rimaste solo due monarchie di secondo ordine: non la potenza dei quattro grandi imperi scomparsi. Erano rimaste l’Italia e la Spagna. Ora le monarchie sono cadute anche in Italia e in Spagna. E se è caduta in Spagna, nello Stato più clericale di Europa che esiste, dove c’è un dittatore che sarebbe anche lieto di ristabilire la monarchia per uscire senza violenza dalle sue difficoltà, vuol dire che la restaurazione delle monarchie è veramente difficile. (Approvazioni).

BENEDETTINI. Non credo. (Commenti).

NITTI. Io non credo in Italia al pericolo delle monarchie, a meno che non si facciano tali serie di errori, di assurdità, di persecuzioni o di violenze da creare un movimento monarchico irresistibile che ora non esiste.

BENEDETTINI. Esiste. (Si ride – Commenti).

FUSCHINI. Non è un pericolo, è una cosa allegra. (Commenti).

NITTI. Noi abbiamo la Repubblica e naturalmente dobbiamo avere un Presidente della Repubblica. Vedo anche dalle discussioni che si sono fatte a proposito della elezione del mio antico amico De Nicola che con l’idea di repubblica si unisce senza volere il costume monarchico. Si discuteva quale palazzo si dovesse assegnare al Presidente della Repubblica italiana come residenza, il Palazzo del Quirinale o qualche cosa di simile; quali assegni speciali dovesse avere. Per farne che cosa? Egli si è regolato assai bene rinunciando.

Io ora vi prego di considerare che nel mondo di antiche repubbliche non esistono veramente che gli Stati Uniti d’America e la Svizzera, che non hanno mai avuto da lungo tempo crisi di libertà. Prima della guerra del 1919 in Europa non esistevano che due repubbliche, la Francia e la Svizzera, non ne esistevano altre. Rimangono però rispettabili monarchie oltre che in Inghilterra, in Olanda, in Belgio e sopra tutto nei Paesi Scandinavi. Io le ho visitate. I sovrani scandinavi sono uomini seri, e ho avuto con loro rapporti cordiali e dignitosi. Queste monarchie sono così serie che non hanno avversari. Il Re Cristiano di Danimarca mi parlava ancora con tono socialista e con le tendenze di un convinto, tanto che gli feci alcune modeste osservazioni e gli dissi che tale linguaggio non mi pareva reale, ma piuttosto avveniristico.

Ora credete che questo cammino della vita e della storia possano cambiare? Per noi la questione nel momento attuale non è monarchia o repubblica, ma è di fare una solida e onesta repubblica, perché se ci discreditiamo noi stessi, facciamo male alla causa nella quale diciamo di credere. Quindi, niente diffidenze, ma cuore saldo e volontà ferrea, per difendere le istituzioni che abbiamo creato, senza inventare pericoli immaginari e tremare a ogni stormire di fronda. Le cose morte non risorgono! (Applausi). Nessuno minaccia la repubblica seriamente: se vi sono minacce vengono dagli stessi repubblicani, per spirito di diffidenza, per rinnovato desiderio di persecuzioni e non spento desiderio di lotte civili.

Quali sono i tipi di repubblica? Non abbiamo noi nel mondo, ormai, che la grande repubblica americana, con tutti gli errori, le corruzioni, il dinamismo popolare, con le sue intemperanze, i suoi eccessi di vitalità, che ha superato tutte le ore più difficili ed è uscita più potente nella sua struttura.

Ora, quale è la Costituzione della repubblica americana? La repubblica americana elegge il suo presidente, il quale è capo dell’esecutivo. Non vi sono ministri, ma segretari del presidente; e quindi il presidente rappresenta tutto lo Stato ed è, in generale, dotato del più grande ascendente. Nessuna fastosità. Noi, quando parliamo del Presidente della Repubblica, pensiamo subito alla dignità della presidenza o agli assegni quasi reali da attribuirgli.

Fatevi dire le indennità degli altri Presidenti.

Il Presidente della Repubblica degli Stati Uniti, che è a capo del paese più ricco, quanto ha avuto e quanto ha di assegno? Aveva prima della guerra del 1914 appena 50.000 dollari l’anno, aumentati durante la guerra a 75.000. Ora non so di quanto sia stato aumentato l’assegno e se sia aumentato; ma comunque la sua misura è molto inferiore a quella che ciascuno può pensare in Europa.

Gli stessi re del passato prossimo nei paesi nordici non avevano quel grande appannaggio che molti di voi credono…

CONTI. Soltanto il nostro si trattava bene…

NITTI. Parlando del nostro, l’assegno della Corona in Italia, la dotazione detta «lista civile» secondo lo Statuto albertino è fissata all’avvento al trono di ogni nuovo sovrano e per la durata di tutta la vita del sovrano stesso. Ora io che ho natura di ricercatore, andavo a sfogliare tutti i documenti che nella discussione parlamentare potessero illuminarmi. Trovai che nell’ordinamento inglese il re d’Inghilterra non può disporre dei fondi che la «lista civile» gli accorda se non nella misura consentita dai differenti capitoli del bilancio della lista stessa.

Quindi la lista civile inglese ha capitoli differenti: il Parlamento dà i fondi che sono distribuiti secondo stabilisce il Parlamento: tanto per la rappresentanza, tanto per la vita interna della Corte, tanto per beneficenza, ecc.

Quando andai alla Camera dei deputati feci questa proposta: ero molto giovane e credevo ancora che gli argomenti svolti fossero sempre efficienti. Non voglio, dissi, che sia diminuita la lista civile del sovrano ma desidero soltanto che, come in Inghilterra, la nostra lista civile sia divisa in capitoli e che la spesa sia regolata conseguentemente. Ma la mia proposta sembrò stravagante ai conservatori, sembrò quasi che io parlassi come un rivoluzionario. E allora io non fui eletto a fare parte della Commissione; fu eletto il mio concittadino onorevole Torraca, che era un conservatore vecchio tipo e desiderava, se possibile, aumentare la lista civile senza nulla discutere.

Ma ora, ora dunque in America e tanto più nella disordinata Europa, non vi sono grandi assegni ai Capi di Stato e tanto meno in paesi repubblicani.

E la Svizzera? La Svizzera in questo momento sembra il paese più ricco, o almeno quello che ha con la Svezia la migliore situazione monetaria d’Europa. Ebbene, sapete voi chi è anzitutto oggi il Presidente della Repubblica in Isvizzera? La Svizzera ha un ordinamento speciale, per cui sette individui votati dell’Assemblea Nazionale prendono il potere e diventano Ministri. Uno dei sette è a turno Presidente della Repubblica e vi è un vicepresidente che gli succede nell’anno seguente. Il Presidente della Repubblica è quindi un personaggio modesto, il quale aveva – non so se in questi ultimi tempi in tale assegno vi sia stata modificazione – appena duemila franchi oltre il modesto stipendio di Ministro.

Una voce a sinistra. Ora ne ha cinquemila.

NITTI. Bene, ora ne ha cinquemila: troverete ad ogni modo che è una cifra veramente modesta. Quando il Presidente della Repubblica Svizzera ha necessità di spese eccezionali è il Consiglio nazionale che ne decide sempre nei limiti di grande modestia.

In Francia bisogna sempre ricordare che la Costituzione del 1875 fu scritta da monarchici e che la forma repubblicana fu decisa quasi per caso, da un solo voto di un deputato ignoto. Ma anche in Francia il Presidente non ha più un assegno molto elevato.

La Francia era incerta. La maggioranza era monarchica. Fu repubblica dopo il 1870 quando la grande maggioranza voleva la monarchia. Ma i monarchici erano divisi fra legittimisti (conte di Chambord) e organisti, e i bonapartisti non erano concordi.

Sarebbe prevalsa la monarchia legittimista se non vi fosse stata la ostinazione del conte di Chambord, che la bandiera dovesse essere non più il tricolore, ma la bandiera con i gigli, cosa che offese tutti i patrioti e gli uomini che venivano dalla rivoluzione.

In quasi tutti i paesi repubblicani la difficoltà è di trovare presidenti che abbiano qualità superiori. La mediocrità è spesso conseguenza della democrazia, che vive di gelosie e diffida degli uomini superiori.

Dopo Thiers in Francia venne MacMahon, generale ben lontano dalla grandezza, e dopo di lui Grévy, avvocato modesto che fu eletto per la seconda volta e dovette poi dimettersi per lo scandalo di suo genero Wilson che vendeva le decorazioni della Legion d’Onore.

Le tre grandi personalità della Repubblica francese: Gambetta, vero creatore della Repubblica, Ferry, creatore dell’impero, e Clemenceau che ebbe il maggior merito della vittoria del 1918, non furono mai eletti, e a Clemenceau fu preferito Deschanel!

Anche negli Stati Uniti non sarà sempre facile, perché bisogna sfuggire alla tentazione di sfoggiare tutto ciò che rappresenta la vanità della forma esteriore monarchica e non far cadere la scelta su uomini troppo mediocri.

In Italia non vi è solo il pericolo di uomini che si credono adatti a tutte le cose e sono pronti a sacrificarsi per servire lo Stato in posizioni molto onorevoli, ma vi sono sempre partiti disposti a elevare i loro uomini più insignificanti ai posti più elevati.

Perché il Presidente possa essere veramente devoto alla Costituzione e ne sia il vigile custode, bisogna prima di tutto che noi gli diamo tale Costituzione saggia e moderata e realistica che egli possa difenderla sinceramente.

Finora abbiamo lavorato troppo male in questo senso. La Costituzione che prepariamo non è l’ideale. Gran parte cadrà. Ma la parte che ora noi elaboriamo, e che è la sola essenziale, siamo ancora in tempo di fare in modo conveniente, se vi toglieremo tante vane e inutili cose che si pretendono possano esservi introdotte.

Riusciremo? Dopo avere perduto tanto tempo senza lavorare seriamente, nel breve spazio di tempo che ci rimane riusciremo se agiremo con oculata prudenza e con saggezza.

Non ci sono consentiti troppi nuovi errori dopo tanti che se ne sono fatti.

Con il 31 dicembre il nostro mandato, anche dopo le proroghe, sarà finito.

Sono stato io che mi sono assunto la responsabilità della proroga al 31 dicembre e che ne ho per la prima volta parlato e sostenni l’assurdità di proroghe troppo brevi. Speravo in un lavoro efficiente e forse devo constatare che la proroga era necessaria, ma noi non abbiamo fatto cose troppo efficaci, pur tenendo troppe sedute.

Ma ora niente più proroghe.

Esaurito bene o male e certo più male che bene il nostro mandato, dobbiamo ora lasciare posto ai nostri successori, che certo rivedranno ciò che noi abbiamo fatto. Come ho ripetuto più volte è impossibile che la Costituzione da noi preparata non sia completamente riveduta.

Quando potranno essere fatte le nuove elezioni? In aprile o più probabilmente in giugno.

Credo che voi non ignoriate i risultati dei lavori fatti al Ministero dell’interno. Si crede che anche l’Assemblea esaurendo i suoi lavori a fine dicembre, le elezioni non si potranno fare che in giugno.

Il terribile equivoco delle Regioni sarà al massimo del disordine. Vi saranno veramente le Regioni in efficienza e avranno modo di funzionare? In realtà solo attraverso le prefetture e i prefetti la macchina dello Stato potrà ancora funzionare.

E vi sono problemi ancora più gravi e urgenti.

Lo Stato è lungamente vissuto sulla unione di partiti al Governo. Ora un solo partito ne è la base destando le inevitabili gelosie degli altri e contrasti profondi. Il Governo dispone incontrastato di tutta la finanza, cioè di tutte le risorse della nazione, essendo parte grandissima del reddito nazionale assorbita dallo Stato.

Come regolare la situazione entro il 31 dicembre e come fare le elezioni, in un periodo di grandi difficoltà e di inevitabili conflitti?

Non sappiamo con quale animo e vorrei dire con quale fiducia il pubblico potrà andare alle elezioni.

Credete che sia anche utile consultarlo con referendum e sapere ciò che pensa della Costituzione che abbiamo preparato?

In Francia ciò si è fatto. Forse in Francia il popolo ha più lunga tradizione di libertà e maggiore sensibilità politica.

Si potrà o si dovrà fare il referendum in Italia?

FUSCHINI. Era prestabilito che si facesse il referendum.

NITTI. Io credo che il referendum si dovrebbe fare e che vi sono anche impegni per farlo. Ma è inutile agitare proposte senza prevederne il risultato. So che alcuni partiti sono, se anche non lo manifestano, favorevoli, altri contrari. Potremo noi escluderlo decisamente senza avere alcuna dubbiezza? Vorrei sapere soprattutto fin da ora che cosa pensano i democristiani e che cosa pensano comunisti e socialisti, perché di questi due grossi movimenti sarà la responsabilità. Fare le proposte di referendum senza che vi sia l’adesione degli uni e degli altri, o almeno degli uni, dei più numerosi, mi pare un salto nel buio. Ad ogni modo è bene che su questa materia tutti si pronuncino lealmente e coraggiosamente. Troppe cose io ancora dovrei dire e mi riserbo in parte dire sugli articoli.

Io non ho voluto farvi un discorso politico, come vedete; io ho voluto esprimervi delle dubbiezze. Vi prego di riflettere su alcune cose che vi ho dette. Considerate che io sono al di fuori e al disopra di ogni vanità; che non ho aspirazioni, che non ho alcuna passione di parte, ma solo la fede in una unione nazionale per la difesa contro le minacce che pesano sul nostro Paese.

L’Italia non ha mai da secoli attraversato ore di così grande pericolo, né mai è stata minacciata nella sua stessa esistenza come ora.

Occorre una comune volontà di salvezza. Altra volta ho detto che l’Italia è una fortezza assediata. O tutti cadiamo o tutti ci salviamo: io spero che tutti ci salveremo. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Sforza. Ne ha facoltà.

SFORZA. Onorevoli colleghi, sarò brevissimo, non solo per la tarda ora, ma perché stimo – a meno che non si abbiano argomenti profondissimi da svolgere – che noi dobbiamo provare il nostro desiderio di finire presto facendo discorsi della maggiore possibile brevità.

Se non ho chiesto di parlare che all’ultimo momento è perché ho sperato fino all’ultimo che qualcheduno di noi sottoponesse all’Assemblea il problema di cui ora vi intratterrò. Se non sbaglio, esso non è stato toccato finora dai colleghi. Dico se non sbaglio, perché, mentre è di moda dire tanto male dell’Assemblea Costituente, io confesso che, quando ho il tempo di leggere i resoconti sommari, sono sovente ammirato dell’acutezza e della profondità di vedute che dall’una parte e dall’altra della Camera si esprimono. Ma la mia vita è così dura e sono così pieno di occupazioni che non sono sicuro di aver letto tutti quanti i resoconti sommari. Credo quindi dover mio attirare l’attenzione dell’Assemblea su un punto che mi sta a cuore, pur conscio come sono che, non essendo io né un tecnico della scienza politica né un professore famoso, tutto quello che potrò dire non sarà che il risultato della mia lunga se pur modesta esperienza personale dei fatti e delle loro cause.

A me sembra che è vano parlare di Camera alta o di monocameralismo, di Assemblea suprema o no, di poteri più o meno diretti del Presidente della Repubblica; quando noi facciamo una Costituzione, cerchiamo di fare quanto è possibile, quanto è in nostro potere, ma ben sappiamo che l’avvenire del nostro Paese non dipende dalla perfezione degli articoli che compileremo, ma dipende dagli uomini. E noi purtroppo ci vediamo in questa situazione, che in Italia diminuiscono gli uomini di alto valore politico e morale; così del resto accadde anche dopo l’altra guerra; chi di voi si trovò in quest’Aula nel 1919-20 come me, avrebbe voluto vedere fra noi dieci o venti amici intimi di cui conoscevamo il valore; ohimè, eran sepolti sul Carso, e noi pagammo con una carenza di uomini anche la scarsa difesa che facemmo all’attacco fascista.

Quindi è inutile perseguire la creazione la più cristallina e la più scientifica degli articoli della Costituzione se noi non cerchiamo anche di creare pel pochissimo che possiamo le vie psicologiche, umane, morali, che creino un personale politico il quale, sia con una Costituzione mediocre sia con una Costituzione perfetta, faccia il suo dovere verso l’Italia, verso la Repubblica italiana, verso l’Europa.

Si è parlato qui di varie Costituzioni. Io voglio confessarvi la mia ignoranza: non ho mai letto la Costituzione di Weimar, ma tutti gli statisti e costituzionalisti con cui parlai nel triste periodo dal 1920 al 1930, tutti mi hanno detto che era la meraviglia delle meraviglie. Bastò che un maresciallo traditore fosse Presidente della Repubblica, bastò che un pagliaccio epilettico terrorizzasse questo Presidente della Repubblica, perché la più bella delle Costituzioni cadesse come una pera marcia. Quindi dobbiamo fare gli uomini che abbiano il sentimento del dovere verso la patria everso la democrazia.

Io credo che posso in brevissimi momenti indicarvi uno dei casi che mi è venuto in risalto leggendo il progetto. All’art. 56, sesto capoverso, vedo che «possono essere nominati membri del senato, i magistrati e i funzionari dello Stato e di altre pubbliche amministrazioni di grado non inferiore, ecc., ecc.». È su questo punto che io voglio attirare la attenzione dell’Assemblea, aggiungendo che il pericolo che vedo pel Senato lo vedrei egualmente per la Camera. E perché?

Ve lo dirò rapidamente; e poi avrò assolto il mio compito e la mia coscienza sarà tranquilla.

Eccovi la prova della vanità relativa di tanti discorsi sulle Costituzioni; uno dei problemi massimi della nostra vita politica è fissato in un articolo non scritto: la costituzione dei grandi partiti di massa. Che sia un bene, che sia un male; che il bene sia maggiore del male, che il male sia maggiore del bene, questo non ci riguarda.

Ora noi siamo nel periodo dei partiti di massa anche se, grazie a Dio, esistono altresì alcuni partiti, come quello dalle cui file vi parlo, partiti che hanno una fiamma viva individualistica e feconda che sarà a volte preziosa nelle lotte fra i grandi giganti.

Questo noi dobbiamo tenere presente per il bene dei partiti di massa, per il bene della Repubblica italiana e per il bene della nostra vita morale: che più forti sono i partiti di massa, più influenti sono i partiti di massa e più indipendente, più sacrosantamente indipendente, più impervia ad ogni pressione e corruzione deve essere l’amministrazione pubblica: altrimenti si scenderà rapidamente al livello dei più bassi e corrotti paesi del mondo.

Badate, sia ben chiaro che dicendo questo non son mosso dalla menoma avversione verso i partiti di massa: constato che sono un fatto di storia naturale, constato che per lungo tempo esisteranno, constato (non c’è l’amico Porzio ed allora oserò dirlo), pensando alla prolungata se pur rara corruzione di certi «galantuomini» del Sud…

MAZZA. Noi potremmo pensare a quelli del Nord.

SFORZA. …che i partiti di massa possono portare le discussioni a un livello di concetti morali invece che d’interessi materiali. Pensando che i partiti di massa possono fare questa cosa meravigliosa, ricostituire, rinsaldare al massimo l’unità nazionale, anche morale, dalle Alpi alla Sicilia, sono convinto che i partiti di massa potranno nel complesso fare più bene che male alla cosa pubblica, ma ad una condizione: che non diventino a turno, secondo che il fato delle elezioni darà loro il potere, i proprietari discrezionali dell’amministrazione pubblica. E quando io vedo che si propone dalla Costituzione attuale (trovandoci noi in un lungo e, spero, felicemente lungo periodo di partiti di massa) la elezione di numerosi funzionari – senza neppure la fissazione di un numerus clausus – mi domando: com’è che non si vede il pericolo di tutto ciò? È vero che circa il personale della nostra burocrazia, con cui da mesi e mesi sono in contatto, sia con quella del mio Ministero sia di altri, io posso ben testimoniare, checché si sia detto e malgrado le corruzioni del fascismo e della guerra, che essa continua, nei suoi alti gradi e anche nei gradi minori, ad essere veramente uno degli elementi più rispettabili della nostra vita pubblica.

Ma come osar di offrir loro una troppo grossa tentazione? Per un impiegato, per un professore di università, anche prima del fascismo, entrare nel Senato era come entrare nell’empireo prima della morte, era una gioia suprema. Ma allora non c’erano partiti di massa; come i nostri funzionari potrebbero oggi essere eletti se non dopo essere stati accettati nella lista di un grande partito di massa al quale essi dovranno aver prima dato prove indubbie di devozione, forse di cieca obbedienza?

Pensate soprattutto alla formazione dei funzionari in Italia. Il funzionario è per buona parte figlio di funzionario, non ha, come noi tutti qui abbiamo, una regione, una città, un gruppo di villaggi, che sono la vita della nostra vita, che sanno come siamo nati e cresciuti, che hanno fede in noi. Per moltissimi funzionari il ricordo natio è una sede di Prefettura o Intendenza di finanza o di Tribunale, da Cuneo a Caltanissetta. Essi non hanno quasi mai un legame speciale, una regione o circoscrizione, che li vorrebbe eleggere. Come potranno essere eletti? Essi non potranno essere eletti che attraverso la protezione di un grande partito di massa, a cui essi vorranno bensì opporre il sentimento del loro dovere e la loro coscienza intatta; ma sapete come van le cose. Quando si comincia con una prima concessione, è la via insaponata che porta alle scivolate più impreviste.

I partiti. Io mi auguro che da noi i partiti di massa diventino così forti, così sicuri della loro coscienza e delle loro virtù morali e politiche, che non avranno nessun bisogno di farsi per tali guise una clientela. Sono stati citati poc’anzi molti episodi della vita politica dell’Europa e del mondo. Io vi voglio citare una sola cosa. Quali sono – credo che nessuno possa negarlo, quale che sia la sua dottrina politica – le due più potenti ed efficienti democrazie esistenti attualmente nel mondo, nel mondo almeno che concepisce l’esistenza di più partiti? Sono gli Stati Uniti d’America e la Gran Bretagna; sono anche paesi che hanno i partiti più specificamente divisi. Quali partiti di massa più forti che il partito democratico ed il partito repubblicano agli Stati Uniti? Quali partiti più grandi in Inghilterra che il formidabile partito laburista ed il partito unionista o conservatore?

Ebbene, questi due paesi hanno un Gabinetto, in cui il posto più modesto, il posto che nessuno desidera, è quello di Ministro dell’interno. Se conoscete qualche amico all’Ambasciata britannica o americana a Roma, domandategli a bruciapelo chi è il Ministro dell’interno del suo paese. Egli si gratterà la testa e risponderà: non lo so; non ne ho sentito parlare.

Questa è la vera atmosfera di democrazia pura, alta e forte, che permette di accettare anche tutti i funzionari dell’interno nel gruppo dei candidati, perché non vi sono prebende da sperare, non vi sono atti di corruzione da temere. Purtroppo, in Italia, a questo punto ancora non ci siamo; non certo perché si sia da meno, ma perché siamo troppo poveri.

Badate, io ho detto che i nostri funzionari, data la fame che soffrono, sono ancora in parte veramente eroici. E gli uomini politici, che cercano di dare la colpa ai funzionari, allontanano da sé una responsabilità, che probabilmente pesa su di loro.

Ricordo, mesi fa, l’onorevole Scoccimarro da quel banco, essendo Ministro delle finanze, dichiarò ufficialmente che egli era ammirato dell’onestà, della spartana austerità dei maggiori funzionari del Ministero delle finanze. Chi, come voi, come me, ricorda i tempi avanti al 1914, sa bene che degli uomini come Luciolli alle finanze, Brofferio al tesoro, Vigliani all’interno, Malvano e poi Contarmi agli esteri, erano veramente dei tipici servitori dello Stato, che giorno e notte non pensavano che allo Stato. Questi tipi di uomini noi possiamo ancora ricostituire per l’Italia; e se possiamo, dobbiamo. Ma noi non dobbiamo domandare l’impossibile e quindi non dobbiamo domandare ai funzionari che vogliamo elevare all’alto rango dei nomi che ho citato, non possiamo permetterci di dire loro: badate, se vi mettete con quel partito o con quel tal altro, diventerete senatori, deputati e con ciò tanti vantaggi. Questo è proporre l’immoralità a coloro che vorremmo siano onesti, che vorrebbero essere onesti. Certe prebende, certi vantaggi e certi alti premi noi dobbiamo senza dubbio creare pei funzionari, anche al di fuori della loro carriera; perché no la Corte Suprema? Ma non il Parlamento, almeno finché l’Italia non sia arrivata a quel grado di elevazione a cui sono giunti, insieme colla prosperità, i due grandi paesi in cui nessuno sa chi è il Ministro dell’interno. Ricordatevi che l’onestà della burocrazia domani si giudicherà unicamente a questa stregua: dal suo grado di indipendenza dai partiti, questi nuovi sovrani del periodo attuale; e ricordiamoci anche che i partiti possono e debbono guadagnare prestigio alle loro dottrine, alle loro forze, con larghi programmi di riforma sia lenta sia rapida, ma non certo attraverso maneggi di influenze, mezzi meschini e subdoli che possono bensì giovare per un’elezione, ma che alla lunga colpirebbero di morte coloro che li usano. Noi dobbiamo desiderare forti i partiti, ed io mi auguro in un certo senso che tutti siano forti, perché la storia non è che il ricamo di cui tutti i partiti sono i fili, per ostili che siano fra di loro. Sì, dobbiamo desiderare anche la forza morale del partito che ci è opposto, perché questo rialzerà noi stessi, rialzando l’insieme della vita pubblica. E dobbiamo far sentire e ricordare ai partiti che o vinceranno per le loro grandi idee morali, ché se vincessero unicamente con capziose manovre di accaparramenti di funzionari, i loro trionfi saranno frutti di cenere e tosco.. (Applausi al centro).

RODINÒ MARIO. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Indichi il fatto personale.

RODINÒ MARIO. Desidererei che l’oratore precedente, l’onorevole Sforza, specificasse perché ha inteso di poter dire, in assenza dell’onorevole Porzio, che poteva elencare tra le cause di una decadenza e di una crisi italiana la progressiva corruzione del Mezzogiorno.

PRESIDENTE. Non vedo in ciò materia per un fatto personale, e perciò non le posso dare la parola.

SFORZA. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ho escluso che sussista un fatto personale per l’onorevole Rodinò. Lei non ha, dunque, ragione di rispondere.

SFORZA. Supporre che io possa giudicare così il Mezzogiorno è offesa personale. L’onorevole Rodinò ha completamente frainteso il mio pensiero.

MAZZA. Il Mezzogiorno l’ha già giudicata!

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non aprano in una maniera tanto inopportuna la discussione su un problema di così alta importanza.

Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 16. Avranno la parola i presentatori di ordini del giorno e gli onorevoli Relatori. Domani si terrà seduta anche alle 11, in seguito alla constatata mancanza di numero legale nella seduta di questa mattina, per il seguito della discussione del disegno di legge sull’elettorato attivo.

Interrogazione e interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. È pervenuta alla Presidenza la seguente interrogazione con richiesta di risposta urgente:

«Ai Ministri dell’interno e della difesa, per conoscere quali provvedimenti intendono finalmente adottare in ordine al seguente fatto, già dall’interrogante portato alla diretta conoscenza dell’onorevole Ministro della difesa fin dal 9 giugno 1947, senza ottenere a tutt’oggi evasione:

«Il 20 maggio 1947, in Treviso, un capitano della Divisione «Folgore», al comando di un reparto di soldati armati di mitra, occupava, espellendone il proprietario, una casa sita in Treviso, via Canova, di proprietà Pagnossin Giuseppe. Non vi erano stati, e del resto non potevano legittimamente essere emessi, provvedimenti di requisizione dell’immobile e, tra gli altri, lo stesso sindaco di Treviso, onorevole Antonio Ferrarese, aveva preavvertito l’ufficiale in oggetto della illegittimità della preannunciata azione violenta.

«Nella casa in tale modo avuta libera si installò il Comando della Divisione «Folgore», che tuttora (9 settembre 1947) la occupa e la usa direttamente concorrendo nella persistente violazione del diritto e delle numerose disposizioni di legge, le quali assicurano l’inviolabilità del domicilio privato (articolo 8-bis della nuova Costituzione!) ed imporrebbero alle autorità costituite della Repubblica italiana di intervenire in difesa del diritto e della legge, tra l’altro imponendo a chicchessia il ripristino immediato della situazione giuridica preesistente all’infrazione oltre la punizione a termini di legge dell’autore di essa.

«Per il fatto suddetto è in corso azione penale, presso il Tribunale militare di Padova.

«Costantini».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Interesserò i Ministri dell’interno e della difesa perché facciano sapere quando intendano rispondere.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Ministro di grazia e giustizia di far presente ai Ministri dell’interno e della difesa che probabilmente la seduta antimeridiana di giovedì prossimo sarà dedicata allo svolgimento delle interrogazioni e che pertanto in questa seduta potrebbe essere svolta anche l’interrogazione dell’onorevole Costantini.

È stata presentata anche la seguente interpellanza con richiesta di svolgimento urgente:

«Ai Ministri dei lavori pubblici e del tesoro, per conoscere i motivi per i quali nulla di sostanzialmente concreto sia stato fatto a favore di coloro che sono rimasti senza tetto in seguito al terremoto dell’11 maggio scorso in Calabria.

«Gli interpellanti chiedono che, essendo la necessità di trovare e di applicare provvedimenti a sollievo di tante miserie tale da non consentire ulteriori dilazioni, la presente interpellanza sia discussa con carattere d’urgenza.

«Silipo, Gullo Fausto, Musolino, Mancini, Sardielllo, Priolo, Caroleo, Mazzei».

Chiedo il Governo quando intenda rispondere.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Interesserò i Ministri dei lavori pubblici e del tesoro perché facciano sapere quando intendano rispondere.

Riunione in Comitato segreto.

PRESIDENTE. Ricordo che fra dieci minuti l’Assemblea si riunirà in Comitato segreto.

Interrogazioni e interpellanza

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, sul funzionamento dell’Ufficio pensioni nel suo Ministero, nel quale due subalterni dell’Università di Pavia sono stati collocati regolarmente a riposo e non hanno avuto liquidata né pensione, né buonuscita due anni dopo cessato il servizio.

«Montemartini».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del commercio con l’estero e della marina mercantile, per conoscere i motivi che hanno determinato l’emanazione del decreto ministeriale 6 agosto 1947, con cui si limitano, così gravemente da praticamente sopprimerle, le agevolazioni concesse agli armatori con l’articolo 3 del decreto ministeriale 20 agosto 1946.

«Salvatore».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere ì motivi che hanno provocato lo scioglimento della prima Commissione di maturità classica del liceo governativo di Acireale.

«Marchesi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non ritenga opportuno, nella imminenza delle semine, di emanare un decreto col quale si stabilisca la obbligatorietà di una congrua percentuale di terreni da coltivare a grano; obbligo cui non debba sottrarsi alcun proprietario, tranne i piccolissimi.

«Tale obbligo, naturalmente integrato dalla corresponsione di un equo prezzo rimunerativo del cereale, corrisponde al desiderio di numerosi lavoratori del Modenese che si sono già favorevolmente espressi in convegni sindacali e politici. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Merighi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri dell’interno, della difesa, del tesoro, dei lavori pubblici e di grazia e giustizia, per conoscere quali provvedimenti siano stati adottati e quali altri intendano adottare per provvedere, colla urgenza reclamata dalla imminente stagione delle piogge e del freddo, alla riparazione dei danni provocati dalle paurose esplosioni verificatesi la sera del 31 luglio 1947 nel polverificio «Vulcania» in agro di Montichiari (Brescia), in cui erano, altresì, costituiti depositi di esplosivo per conto del l’Amministrazione militare, a causa delle quali, se fortunatamente non si sono lamentate vittime umane, in vasto raggio esteso a più comuni sono stati rovinati edifici pubblici (chiese, scuole, asili, ospedali) e parecchie centinaia di case private, con scoperchiamento di tetti, sradicamento e distruzione di porte e di infissi, lesioni gravi ai muri e frantumamento di vetri, per un complessivo ammontare di danni di circa lire 500.000.000; e per conoscere se non siano allo studio, per essere quanto prima attuate, nuove norme, in sostituzione delle vigenti, rivelatesi insufficienti anche altrove, intese a garantire persone e cose dai danni derivanti dall’esercizio di industrie così pericolose. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bulloni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della marina mercantile, per conoscere se non reputi necessario ed urgente disporre che, nell’itinerario Napoli-Siracusa-Malta-Tripoli, della motonave Città di Messina venga incluso lo scalo nel porto di Reggio Calabria, onde servire tutta la Calabria, sia per il movimento dei viaggiatori che per il trasporto delle merci e della posta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Priolo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se – in mancanza di una legge analoga a quella del 2 ottobre 1919, n. 1853, per la sistemazione in organico dei segretari comunali reggenti nominati durante lo stato di guerra – non ritenga equo che i segretari comunali reggenti e provvisori senza patente (legge 1° settembre 1940, n. 1488), i quali abbiano prestato per oltre un triennio lodevole servizio, vengano almeno ammessi alla prova di esami per l’abilitazione alle funzioni di segretario comunale, sostituendo il servizio prestato al titolo di studio (licenza media superiore) richiesto dall’articolo 175 della legge comunale e provinciale 27 giugno 1942, n. 851. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mazzei».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del tesoro e della pubblica istruzione, per conoscere le ragioni le quali determinano la trattenuta del 2 per cento eseguita dallo Stato sulle pensioni miste degli insegnanti, anche relativamente alla quota a carico di enti pubblici diversi dello Stato; per conoscere, altresì, i motivi per i quali con telegramma 15 luglio 1947, n. 210053/142617, del Ministero del tesoro, inoltrato alle Delegazioni provinciali del tesoro, venivano esclusi dal benefìcio degli anticipi accordati alle pensioni dirette ed indirette, i titolari di pensioni miste, anche se essi, in base alle disposizioni del regolamento organico dell’Amministrazione dalla quale dipendevano, avevano diritto ad un trattamento pari a quello degli insegnanti statali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Costantini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali provvedimenti intende adottare allo scopo di eliminare un grave inconveniente che si verifica, con frequenti ricorrenze annuali e particolarmente nel più cruciale dei periodi della campagna irrigatoria, a danno dell’agricoltura del comprensorio irriguo del Consorzio Canale della Vittoria nella provincia di Treviso onde con il repentino abbassarsi, sotto il limite della competenza, della portata del Piave a Nervesa viene a mancare, nella vasta plaga, la possibilità dell’irrigazione già difficoltosa anche con la portata di diritto.

«Quanto sopra, tenendo conto che la chiave di volta del problema sta nella tempestività della regolazione degli scarichi a Soverzene, dei quali è responsabile e beneficiaria la Società adriatica di elettricità, la quale è tenuta, a norma del disciplinare di concessione, a ridurre la propria derivazione per l’invaso del Lago di Santa Croce, onde assicurare le competenze ai Consorzi di irrigazione, e altresì nell’impedire fattivamente le abusive derivazioni, talvolta cospicue, operate a mezzo di vistose opere di sbarramento e deviazione del filone del Piave; compito questo che dovrebbe essere con cura espletato dagli Uffici del Genio civile interessati al bacino imbrifero del Piave. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Costantini».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere quali precise disposizioni siano state impartite in favore dei piccoli produttori diretti, che non produssero grano a sufficienza per gli usi familiari e per gli agricoltori sinistrati dalla tempesta, perché sia dato in tempo utile il grano per la semina. Gli interroganti fanno presente che qualora il detto grano da semina non fosse messo a disposizione di codesti benemeriti coltivatori, molti appezzamenti di terreno non sarebbero seminati, e questo con grave danno per la produzione e per l’interesse nazionale. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Scotti Alessandro, Grilli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non ritengano necessario, in ossequio al più elementare spirito di democrazia, provvedere a modificare sollecitamente l’articolo 25 del testo unico della legge comunale e provinciale del 1934, il quale determinala composizione della Giunta provinciale amministrativa (sede amministrativa) in dieci membri, dei quali soltanto quattro sono designati dalla rappresentanza provinciale e gli altri sei sono funzionari governativi, per modo che questi ultimi dominano costantemente nelle decisioni con assoluta irrisione di ogni principio di effettiva democrazia, cioè di rispetto della volontà popolare.

«La norma suddetta, di marca tipicamente fascista, ha modificato le precedenti leggi comunali e provinciali, in virtù delle quali i membri governativi erano tre – compreso il prefetto – e quattro i membri elettivi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Costantini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere:

1°) l’ammontare della spesa sostenuta dall’Amministrazione ferroviaria per l’elargizione del cosiddetto «premio della ricostruzione» fatto ad una esigua parte del personale ferroviario;

2°) i criteri seguiti nella distribuzione di detto premio e in base a quali probanti accertamenti sia avvenuta la scelta del personale gratificato;

3°) se nella attribuzione del premio non vi sia alcun atto arbitrario del Ministero dei trasporti e in caso affermativo quali provvedimenti intenda adottare a carico dei responsabili di un ingiustificabile sperpero, mentre si accusano ristrettezze finanziarie e deficit di bilancio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Giua».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se il Governo non ritenga opportuno e necessario prorogare al 31 ottobre 1947 il termine per la presentazione delle denunce per l’imposta patrimoniale progressiva.

«Il testo delle disposizioni in materia è stato pubblicato solo il 4 settembre corrente e quindi il mantenimento del termine del 30 settembre 1947 – oltre a causare notevolissimo aggravio ai contribuenti senza vantaggio alcuno per l’Amministrazione – rappresenta un vero e proprio svisamento delle intenzioni della Costituente, la quale quando nel luglio 1947 approvò il testo delle nuove disposizioni pensò accordare ai contribuenti un congruo termine per le denunce nella evidente e fondata previsione che la pubblicazione della legge avrebbe seguito di pochi giorni l’approvazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Aldisio».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della marina mercantile, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per migliorare i servizi marittimi con la Sardegna e particolarmente quelli della linea Olbia-Civitavecchia, i quali sono dei tutto insufficienti ed inadatti alle necessità del traffico. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Mastino Gesumino, Carboni Enrico».

«I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se e quali provvedimenti intendano adottare di fronte all’allarmante moltiplicarsi dei disastri edilizi, e se non credano giunta l’ora di prendere in considerazione le proposte che i vari organi del Consiglio nazionale delle ricerche hanno ripetutamente formulate per un miglioramento della tecnica delle costruzioni – proposte che sono state fino ad ora rese vane dalla resistenza passiva della burocrazia e dall’ostinato rifiuto del Tesoro a concedere quel minimo di mezzi finanziari che sarebbero stati necessari per la loro attuazione.

«Colonnetti, Giacchero, Firrao, Di Fausto».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 19.30.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e revisione annuale delle liste elettorali. (16).

Alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 16 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXIX.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 16 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali (Seguito della discussione):

Presidente

Votazione nominale:

Presidente

La seduta comincia alle 11.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali. (16).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale dele liste elettorali. (16).

Ricordo all’Assemblea che dobbiamo concludere l’esame dell’articolo 47.

Nell’ultima seduta sono stati illustrati tutti gli emendamenti presentati, sui quali si sono anche pronunciati il Governo e la Commissione. Si deve quindi procedere ora alla votazione dei vari emendamenti, fra i quali ha la precedenza quello dell’onorevole Bencivenga, in quanto trattasi di emendamento soppressivo dell’intero articolo. Qualora questo emendamento non sia approvato, si passerà alla votazione dell’emendamento dell’onorevole Fabbri, in quanto è parzialmente soppressivo. Successivamente si passerà alla votazione dell’emendamento Coppi, dato che stabilisce un criterio diverso sul periodo della sospensiva del diritto elettorale. Mentre, infatti, il progetto governativo, approvato dalla Commissione, stabilisce un unico periodo, l’emendamento Coppi stabilisce il principio di una divisione in tre periodi della sospensione del diritto elettorale. Quindi sarà necessario che prima l’Assemblea voti sopra l’accettazione o meno di questo principio, e poi passi alla votazione degli altri emendamenti.

Altro emendamento è quello dell’onorevole Schiavetti, il quale determina il periodo di sospensiva in misura maggiore di quello stabilito dal Governo.

Passiamo, quindi, alla votazione dell’emendamento Bencivenga che dispone appunto la soppressione dell’articolo 47.

Su questa votazione è stato chiesto l’appello nominale dagli onorevoli. Bencivenga, Lagravinese Pasquale, Miccolis, Mazza, Russo Perez, Venditti, Abozzi, Rodinò Mario, Mastroianni, Caroleo, Colitto, Castiglia, Fabbri, Bergamini e Capua.

Votazione nominale.

PRESIDENTE. Procediamo alla votazione per appello nominale. Estraggo a sorte il nome del deputato dal quale avrà inizio la chiama.

(Segue il sorteggio).

Comincerà dall’onorevole Merlin Umberto.

Si faccia la chiama.

AMADEI, Segretario, fa la chiama.

Hanno risposto sì:

Abozzi.

Bencivenga – Bergamini.

Capua – Caroleo – Castiglia – Colitto – Condorelli.

Fabbri.

Lagravinese Pasquale.

Mastrojanni – Mazza – Miccolis.

Perugi.

Rodinò Mario – Russo Perez.

Venditti.

Hanno risposto no:

Adonnino – Alberti – Aldisio – Amadei – Arata.

Bacciconi – Balduzzi – Baracco – Barontini Ilio – Bei Adele – Bellusci – Bernini Ferdinando – Bertone – Bettiol – Bianchi Bianca – Bianchini Laura – Bibo- lotti – Bocconi – Bonomelli – Bruni – Bulloni Pietro.

Cairo – Calosso – Camposarcuno – Candela – Canevari – Caporali – Cappi Giuseppe – Cappugi – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carpano Maglioli – Cartìa – Castelli Avolio – Cevolotto – Chatrian – Chiaramello – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cingolani Mario – Clerici – Codacci Pisanelli – Colombo Emilio – Colonnetti – Conci Elisabetta – Coppi Alessandro – Corsi – Cosattini – Cremaschi Olindo – Crispo.

De Filpo – Del Curto – Della Seta – De Maria – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Giovanni – Donati.

Facchinetti – Faccio – Fantuzzi – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fietta – Filippini – Fiorentino – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschini.

Gabrieli – Gallico Spano Nadia – Gavina – Giua – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grilli – Guerrieri Filippo – Gullo Piocco.

Laconi – Lami Starnuti – La Rocca – Lizier – Lizzadri – Longhena – Longo – Luisetti – Lussu.

Macrelli – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mancini – Mannironi – Marchesi – Martinelli – Massola – Mastino Gesumino – Mastino Pietro – Mattarella – Mazzoni – Merighi – Micheli – Minio – Molinelli – Momigliano – Morandi – Morini – Moro – Moscatelli – Murgia.

Nasi – Nenni – Nobili Tito Oro – Notarianni.

Pacciardi – Pallastrelli – Paris – Pastore Raffaele – Pecorari – Pera – Perassi – Persico – Pesenti – Piccioni – Piemonte – Pignatari – Platone – Priolo.

Reale Eugenio – Reale Vito – Ricci Giuseppe – Rivera – Romano – Romita – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Rubilli – Ruggeri Luigi – Ruggiero Carlo.

Saccenti – Salvatore – Sampietro – Santi – Sapienza – Saragat – Sardiello – Scelba – Schiavetti – Scoccimarro – Secchia – Silipo – Simonini – Spallicci – Stampacchia – Sullo Fiorentino.

Targetti – Taviani – Tega – Titomanlio Vittoria – Tonello – Tonetti – Treves – Trimarchi – Turco.

Uberti.

Valenti – Valiani – Vernocchi – Veroni – Vicentini – Villani.

Zaccagnini – Zanardi – Zappelli – Zerbi – Zuccarini.

Si sono astenuti:

Conti.

Schiratti.

Sono in congedo:

Badini Confalonieri – Bastianetto – Bertola.

Campilli – Canepa – Caso – Cotellessa.

Dominedò.

Foa.

Gasparotto – Geuna – Giannini – Guidi Cingolani.

Jacini.

La Gravinese Nicola – La Malfa – Lucifero.

Montemartini – Morelli Luigi.

Paolucci – Parri – Perrone Capano.

Quarello.

Storchi.

Tosi – Tremelloni – Tumminelli.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione e invito gli onorevoli segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli segretari numerano i voti).

Comunico che dalla numerazione dei voti risulta che l’Assemblea non è in numero legale per deliberare.

I nomi dei deputati assenti senza regolare congedo saranno pubblicali nella Gazzetta Ufficiale.

La seduta è sciolta e l’Assemblea è riconvocata per domani alle ore 11 per riprendere lo svolgimento del suo ordine del giorno.

Rimane ferma la convocazione per il pomeriggio di oggi alle ore 16 per il seguito della discussione del progetto di Costituzione.

La seduta termina alle 12.