Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 17 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 17 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Sul processo verbale:

Rodinò Mario

Presidente

Codacci Pisanelli

Comunicazioni del Presidente:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Macrelli

Condorelli

Piccioni

Fuschini

Giolitti

Corbi

Interrogazione e interpellanza con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

DE VITA, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

RODINÒ MARIO. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RODINÒ MARIO. Credo di interpretare il pensiero di molti deputati che in questa Assemblea rappresentano le popolazioni meridionali, pregando lei, signor Presidente, affinché – data l’assenza dell’onorevole Sforza – voglia invitarlo a precisare e specificare che cosa egli nel suo discorso di ieri ha inteso di dire quando, dopo aver fatto richiamo all’assenza dell’onorevole Porzio dall’Aula, ha parlato di lunga corruzione degli uomini del Sud. A me sembra sommamente desiderabile ed opportuno che ogni sapore offensivo, ogni più lontana ombra di dubbio venga tolta a quelle parole, così poco opportune, perché offesa a delle popolazioni, le quali, mi sembra, hanno per il loro equilibrio, per la loro adattabilità e per il loro attaccamento al Paese, meritato più e meglio dell’apprezzamento dell’onorevole Sforza.

Data l’assenza dell’onorevole Sforza, prego lei, signor Presidente, di farsi interprete di questi sentimenti, che – ripeto – so condivisi da molti colleghi che rappresentano qui il Meridione d’Italia.

PRESIDENTE. Onorevole Rodinò, io non posso intervenire per eccitare l’onorevole Sforza a fare le dichiarazioni ch’ella desidera, ma poiché le sue parole chiarissime e cortesi sono registrate a verbale, l’onorevole Sforza ne prenderà visione, e si regolerà come crederà.

CODACCI PISANELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CODACCI PISANELLI. Ho chiesto di parlare sul processo verbale, anzitutto per esprimere quanto ha già espresso il collega Rodinò; e quindi non ho che da associarmi alle sue parole e a quelle del Presidente. Ritengo che il Ministro degli esteri sia andato oltre il suo pensiero, come egli spiegherà.

In secondo luogo – e non so se questo possa riferirsi al processo verbale, in quanto è anche questione di caso personale – debbo rilevare che non mi sembra corretto che sui giornali vengano pubblicati i resoconti relativi alle nostre sedute segrete.

Ho chiesto di parlare, in quanto la questione mi riguarda personalmente, perché leggendo l’Unità di stamane ho rilevato – e mi permetto di farlo presente – che vi si trova un appunto relativo alla nostra seduta segreta di ieri sera. Io non avrei mai esposto le conclusioni cui noi siamo giunti, se non fossero state rese pubbliche in questa maniera. Si legge tra l’altro:

«L’onorevole Codacci Pisanelli (d. c. riempiva quindi di sé la seduta con un discorso definito nobile, in cui, affermando di voler mantenere integro il patrimonio morale lasciatogli dagli avi, si dichiarava contrario a qualsiasi aumento di indennità. Dalla sinistra gli si faceva notare che, probabilmente egli alludeva al proprio patrimonio materiale, ammontante, a quanto si dice, a svariati miliardi.

«La Camera approvava quindi l’aumento delle indennità secondo la proposta discriminante fra ricchi e poveri, presentata da Scoccimarro: partiva quindi da sinistra una osservazione poco rispettosa sulla «integrità» dell’onorevole Codacci.

«Tutto sembrava finito, ma ancora si notava nella Camera un movimento di diffuso nervosismo. Destre e centro parlavano concitatamente e proponevano di riporre in votazione la proposta Scoccimarro: il che veniva fatto col risultato che la proposta veniva questa volta bocciata. L’aumento d’indennità verrà così corrisposto finalmente anche al miliardario Codacci Pisanelli».

Poiché non ho nulla da nascondere, ritengo opportuno far presente che il patrimonio lasciato dai miei genitori è costituito da 78 ettari di terreno e una casa, terreno che essi hanno lasciato ai loro undici figli, di cui sono stato tutore.

Quindi prendano atto gli informatori dell’Unità, che tanta correttezza dimostrano, che non sarò nemmeno toccato dall’imposta patrimoniale, perché la quota di ciascuno non raggiunge il minimo previsto dalla legge.

Questo tengo a far presente. E se non ho risposto all’accusa contro la mia integrità, è stato perché potevo ben dire a chi l’ha scagliata, cioè al capo del più disciplinato partito d’Italia: da che pulpito viene la predica!

Ho accennato alla terra. Non ho accennato alla casa, alla casa che, con il suo lavoro, mio padre ha potuto lasciare a noi perché, se qualcuno dei figli avesse voluto dedicarsi poi all’attività politica, non avrebbe dovuto approfittare della sua posizione di governo per farsi assegnare come abitazione ville… di Federzoni.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che gli onorevoli De Falco, Puoti e Vilardi non fanno più parte del Gruppo parlamentare dell’Uomo qualunque ed hanno chiesto di essere iscritti al Gruppo misto.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Passiamo allo svolgimento degli ordini del giorno.

Il primo è quello dell’onorevole Macrelli, del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente,

considerata la convenienza del sistema bicamerale;

ritenuto che – in coerenza con l’adozione dell’ordinamento regionale – la seconda Camera deve essere eletta su base regionale;

delibera

che il Senato della Repubblica sia costituito secondo i seguenti criteri:

1°) a ciascuna Regione sia attribuito, oltre ad un numero fisso di cinque senatori, un senatore per duecentomila abitanti;

2°) un terzo dei senatori assegnati a ciascuna Regione sia eletto dal Consiglio regionale ed il resto a suffragio universale;

3°) sia attribuita al Presidente della Repubblica la nomina di un ristretto numero di senatori (10-15);

4°) per l’eleggibilità a senatore sia fissata l’età di 40 anni;

5°) la libertà di scelta dei senatori non sia limitata mediante indicazione di categorie».

L’onorevole Macrelli ha facoltà di svolgere il suo ordine del giorno.

MACRELLI. Onorevoli colleghi, il mio ordine del giorno è così chiaro e preciso che credo non abbia bisogno di molte parole a commento.

Premessa naturale e logica, derivante del resto dai principî morali e politici cui si inspira la dottrina del partito repubblicano, è l’affermazione della convenienza, starei per dire, della necessità, del sistema bicamerale.

D’altro lato, non può disconoscersi che la tendenza comune a quasi tutte le Costituzioni moderne è ed è stata quella di affidare il potere legislativo a due Camere, anche se alcune hanno voluto dare una maggiore preminenza alla Camera dei Deputati in confronto alla seconda Assemblea.

Noi crediamo però che – data la natura e le finalità del potere legislativo – debba affermarsi la piena parità di poteri dei due rami del Parlamento.

Uguaglianza di diritti e di doveri per l’una e per l’altra Assemblea: è questione di giustizia civile, morale, politica.

Altra affermazione di principio contenuta nel mio ordine del giorno è quella che del resto noi abbiamo consacrato nella legge costituzionale. Noi abbiamo creduto di dare una nuova struttura e quindi una nuova fisionomia, un nuovo volto caratteristico alla Repubblica italiana nata dal libero voto e dalla libera coscienza popolare il 2 giugno 1946, attraverso la ripartizione della Nazione italiana in Regioni: principio, questo, nettamente democratico e starei per dire rivoluzionario. Quindi era opportuno, era politicamente esatto che noi per la seconda Camera fissassimo questo criterio della base regionale, ed io penso e credo che l’Assemblea Costituente sarà unanime o quasi nel riconsacrare quanto del resto aveva accettato la Commissione dei 75.

Leggo infatti nella relazione dell’onorevole Presidente Ruini queste parole: «Nella molteplice gamma delle varie soluzioni la Commissione è stata quasi unanime nello stabilire che la seconda Camera debba avere base regionale in rapporto alla nuova struttura che viene introdotta in Italia con la creazione dell’ente Regione».

Le Regioni quindi dovranno avere (noi accettiamo quello che la Commissione ha proposto) ciascuna un numero fisso di 5 senatori ed un senatore per 200 mila abitanti, e saranno i Consigli regionali a nominare almeno un terzo dei senatori. Ma è legittima la domanda che tutti quanti noi ci siamo posti ed alla quale abbiamo cercato di dare, a seconda del punto di vista politico da cui partivamo, una risposta aderente alla realtà, alle necessità del momento ed anche alla nostra fede: e per gli altri due terzi come si provvede?

Le soluzioni prospettate in seno alla Commissione furono varie, come varie sono state quelle che altri colleghi hanno esposto all’Assemblea. Certo noi avremmo voluto affermare una nostra idea, una idea che risponde a quelle che sono le condizioni particolari, speciali della vita politica italiana in relazione anche a quelle che sono state le norme ormai segnate nella Carta costituzionale attraverso le discussioni che abbiamo fatto e attraverso gli articoli che abbiamo approvato.

Un nostro valoroso collega, appartenente al Gruppo repubblicano, ebbe a contrapporre il nostro pensiero a quella che era stata la proposta venuta, se non erro, dai rappresentanti di un grande partito, il democristiano, i quali avevano accennato alla possibilità che il Senato fosse l’espressione della volontà dei Consigli comunali o dei collegi di consiglieri comunali.

Il collega Perassi, a questo proposito, pensava – insieme a noi, naturalmente – che invece questa delega per la nomina dei Senatori fosse affidata ai rappresentati eletti a suffragio universale in ciascun mandamento o circondario della Regione, scelti fra gli elettori iscritti nei Comuni, del mandamento o del circondario, in proporzione agli abitanti, secondo le modalità determinate dalla legge. Badate, non è un principio nuovo: è stato accolto anche in altre legislazioni, in altre Costituzioni. Le nostre Commissioni hanno creduto di superare questa proposta. Con ogni probabilità, in sede di emendamento, dovremo ritornare sul problema ed allora discuteremo; ognuno esprimerà la propria idea e l’Assemblea emetterà la sua decisione.

Aggiungo di più: noi avremmo preferito anche non dimenticare l’altra tendenza comune alle legislazioni moderne, quella cioè di assicurare una rappresentanza degli interessi economici. Dopo la prima guerra mondiale quasi tutti gli Stati si sono indirizzati verso questa tendenza. Se voi guardate alla lontana America, agli Stati Uniti – questa grande repubblica democratica – voi trovate, per esempio, persino che la Camera di commercio (dico la Camera di commercio) in un certo senso è considerata quasi come la terza Camera del Congresso, in cui altri organismi professionali, sindacali, culturali, hanno un’importanza veramente considerevole nell’opera legislativa. Ma noi abbiamo compreso le opposizioni, abbiamo sentito e sentiamo le difficoltà.

La stessa relazione della Commissione dei Settantacinque segna in proposito le seguenti parole: «la difficoltà di organizzare i necessari congegni e di ottenere una «dosatura» fra le varie categorie rappresentate ha consigliato la Commissione (e la Commissione consiglia noi) di accettare quel testo che è sottoposto al nostro esame ed alla nostra eventuale approvazione».

Gli altri due terzi del Senato dunque saranno eletti a suffragio universale e naturalmente, aggiungiamo noi, col sistema proporzionale. Noi abbiamo assistito in questi ultimi giorni ad una schermaglia fra il collega Lussu e l’eminente collega Porzio a proposito del collegio uninominale.

Mi si dice anche che qualche partito d’importanza nazionale, nel senso materiale della parola, e cioè partito di massa, abbia intenzione di insistere sul principio del collegio uninominale a proposito della nomina dei senatori.

Finora nessun emendamento, a questo proposito, è stato presentato, che io sappia. Sarà presentato a suo tempo e discuteremo allora la questione.

Fin da questo momento io vi dico che noi siamo contrari al sistema di elezione col collegio uninominale.

Il sistema poteva essere comodo ed utile, vorrei dire aderente alla realtà, in altri tempi, quando la democrazia, la vera democrazia, quella che noi intendiamo veramente espressione della coscienza e della maturità del popolo italiano, era semplicemente un mito, quando le elezioni costituivano soltanto la espressione, la vittoria, in certi casi, delle caste e delle classi. Oggi il Paese ha assunto altra fisionomia; dopo la prima e la seconda guerra, dopo il tormento sofferto, l’anima del popolo è ben diversa; i lavoratori sono entrati in pieno nella vita politica, nella vita nazionale, ormai sono diventati gli arbitri, devono essere gli arbitri della vita del nostro Paese. Ed è bene, allora, che anche i partiti, i quali sono espressione della coscienza popolare, dicano alta la loro parola, soprattutto quando si tratti di nominare i rappresentanti di un popolo nelle future Assemblee legislative, le quali dovranno continuare l’opera, che noi modestamente ma tenacemente abbiamo perseguito.

Quindi, non collegio uninominale, ma suffragio universale col sistema della proporzionale, sistema di democrazia e di giustizia, civile e politica.

Ma, nonostante queste mie parole, che vi potranno sembrare espressione dell’animo di un uomo un po’ idealista e sentimentale, il quale non dimentica la tradizione del partito cui appartiene, nel mio ordine del giorno ho segnato un’altra cosa, che non dovrà, io penso, portare un senso di meraviglia in voi, onorevoli colleghi.

All’articolo 55 del progetto di Costituzione si parla di Camera dei senatori. Io mi associo alle osservazioni e alle proteste fatte ieri dall’onorevole Nitti. Perché Camera dei senatori? C’è una tradizione italiana, romana e latina; c’è l’affermazione della volontà di tutti i popoli in materia costituzionale. Si è parlato sempre di Camera dei deputati, ma si è parlato anche sempre di Senato, e allora perché vogliamo proprio noi, in questa nostra nuova Costituzione, nella Costituzione della Repubblica italiana, parlare di Camera dei Senatori? Parliamo dunque di Senato e di Senato della Repubblica.

Dicevo dunque: la seconda Camera, il Senato della Repubblica, sia costituito secondo i seguenti criteri: 1°) a ciascuna Regione sia attribuito, oltre ad un numero fisso di 5 senatori, un senatore per 200.000 abitanti; 2°) un terzo dei senatori assegnati a ciascuna Regione, sia eletto dal Consiglio regionale ed il resto a suffragio universale. Ho detto in proposito il mio pensiero succintamente, tralasciando i particolari. Il Regolamento fissa in venti minuti il limite di tempo per svolgere un ordine del giorno. Mentre parlo guardo sempre il quadrante dell’orologio, ed ora stanno per scoccare i venti minuti e l’illustre Presidente sta per interrompermi, sebbene appartenga al mio Gruppo. (Si ride).

Onorevoli colleghi, nell’ordine del giorno c’è una proposta che credo finirete per approvare, anche se non è in relazione a quello che vi ho detto prima: sia attribuita al Presidente della Repubblica la nomina di un ristretto numero di senatori. Per acquietare poi le coscienze timorate di qualche collega o di molti colleghi, ho posto tra parentesi due cifre: 10-15. Deciderete voi, ma io ho voluto affermare il principio, soprattutto per una ragione: se per l’articolo 86 del progetto di Costituzione il Presidente della Repubblica nomina il Primo Ministro e, su proposta di quest’ultimo, nomina i Ministri, io penso che a maggior ragione egli possa avere il diritto di scegliere alcuni senatori.

Badate che io pongo questa mia proposta in relazione all’ultima parte dell’articolo 56 del progetto, la quale comprende una elencazione di categorie di persone tra le quali debbono essere scelti i senatori. Se guardate l’ultima parte del mio ordine del giorno troverete che io chiedo sia lasciata piena libertà di scelta per gli elettori; quindi nessuna indicazione di categorie; la nomina dei senatori non deve avere limiti di sorta. Noi pensiamo che i cittadini italiani possano e debbano nominarsi i loro rappresentanti secondo la loro coscienza e la loro fede, starei per aggiungere anche secondo il loro interesse. Ma la legge, e soprattutto la legge costituzionale, dopo aver affermato quei principî etico-politici, che noi già abbiamo consacrato, non può né deve porre limiti di nessuna specie.

Orbene se voi rileggete la confusa elencazione dell’articolo 56 (che non è, badate, solo indicativa, ma è tassativa), voi vedrete che esiste una lacuna, alla quale si è accennato incidentalmente anche stamattina in una discussione molto vivace svoltasi nell’Assemblea, ed è una lacuna a cui possiamo ovviare soltanto con la proposta che vi abbiamo fatto; noi pensiamo cioè che ad un certo momento il Presidente della Repubblica, cioè la più alta autorità dello Stato, possa scegliere alcuni senatori, almeno fra coloro che onorano la Patria con alte benemerenze scientifiche ed artistiche.

Leggete l’articolo 56, onorevoli colleghi, e guardate le categorie in elenco. Potremmo fare della critica e della facile critica, non dico demagogica, ma una critica che porterebbe alle mie parole il vostro consenso. Io mi fermo alla prima parte, ove è l’accenno ai decorati al valore nella guerra di liberazione 1943-45. E quelli della guerra 1915-18? Signori, io appartengo ad un partito, che ha dato dei volontari nelle Argonne ed in Serbia, nel Carso e nell’Isonzo: dovunque hanno pagato col loro sangue. Questi sono dimenticati. La guerra del 1915-18 non esiste per i nostri legislatori, non esiste per la Commissione dei Settantacinque.

Ora, noi non vogliamo qui stabilire rapporti tra categoria e categoria, tra persona e persona, tra classe e classe. Ecco perché, per una ragione superiore morale, diciamo: nessuna limitazione, nessuna elencazione.

L’articolo 56 deve parlare soltanto della composizione della Camera dei senatori o, meglio, del Senato della Repubblica, senza fissare limiti, senza stabilire norme per le categorie da cui i senatori si devono scegliere. E poi affidando al Presidente della Repubblica la prerogativa cui accenna il mio ordine del giorno, pensiamo di non urtare contro il principio della sovranità popolare; pensiamo anzi di dare una più alta espressione all’autorità, alla dignità del Capo dello Stato ed anche un maggior prestigio alla seconda Assemblea legislativa della Repubblica italiana. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Condorelli ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

affermata la necessità di uno Stato libero e forte, di un potere legislativo idoneo al sufficiente esercizio della sua funzione, di organi adatti ad assicurare l’equilibrio e la stabilità della vita costituzionale,

passa all’ordine del giorno».

Ha facoltà di svolgerlo.

CONDORELLI. Onorevoli colleghi, io appartengo alla non esigua schiera di coloro che, sebbene non sia di moda, hanno un profondo rispetto per la legge costituzionale che andiamo a sostituire, profondo rispetto per quella legge costituzionale che espresse il regime, l’ordinamento sotto il quale l’Italia, già divisa, serva dello straniero, poté assurgere all’unità, e nel giro di mezzo secolo divenire una grande democrazia protagonista di storia.

Io perciò con grande timore e tremore mi accosto a quella legge per osservarne le ragioni di conservazione e le ragioni di modificazione. Ma pur avendo uno stato d’animo simile, al cospetto di quella veneranda Carta costituzionale che ha retto il mio Paese per quasi un secolo, riconosco tuttavia che in essa, nel corso del processo costituzionale che si era svolto nel nostro Paese verso la fine del secolo scorso e poi nel primo ventennio del presente, si erano determinati tre difetti sostanziali, difetti per altro comuni a tutte le Costituzioni di quel tipo.

Il primo difetto è la inadeguatezza del potere legislativo alla sua funzione; il secondo è quello che sembra fatale, della instabilità del Governo; il terzo è quello di una disfunzione, di una incapacità che hanno questi apparati costituzionali ad esprimere delle garanzie sufficienti, adatte ad assicurare l’equilibrio e la stabilità della stessa vita costituzionale.

Io esaminerò, col consenso del Presidente, partitamente questi tre difetti. Cercherò di individuare i rimedi affrontati dal progetto contro di essi e li valuterò criticamente anche al fine di presentare qualche precisa proposta.

Il primo difetto è indiscutibile. I Parlamenti sono ormai divenuti incapaci alla funzione legislativa. Se qualcheduno fuori di qui potrebbe avere dubbi in proposito qua dentro nessuno potrebbe averne. E la ragione è ovvia: senza pensare ad una decadenza dei Parlamenti (eppure ci si potrebbe pensare), bisogna pur riconoscere che lo Stato nell’epoca moderna ha allargato immensamente la cerchia dei suoi fini e perciò della sua attività e perciò anche delle leggi che devono regolare questa attività in quanto diretta ai fini più varî. Perciò quel fenomeno che fu detto di elefantiasi legislativa, che esattamente non è elefantiasi perché non è una disfunzione, è la necessità di una più vasta, di un’immensa, di una ciclopica funzione. Lo Stato deve legiferare costantemente nella vita di oggi ed è evidente che non vi può essere Parlamento che possa seguire questo moto così veloce della legiferazione. L’onorevole Clerici nel suo notevolissimo discorso ci ha dato delle cifre, cifre assai significative, che tutti quanti conoscevamo se non nella esattezza numerica, nella evidenza del fenomeno.

I Parlamenti non possono assolvere tutti i loro compiti legislativi ed allora è chiaro che i Parlamenti così come sono costituiti sono incapaci a legiferare.

Che rimedio si era trovato? Il rimedio si era trovato sotto il precedente regime costituzionale: le deleghe legislative sempre più vaste, e i decreti-legge. Dico subito che erano espedienti. Malgrado lodevoli sforzi della dottrina, non era facile dimostrare che la delega legislativa ed il decreto-legge potessero andare d’accordo con la lettera dello Statuto. Ma c’era la necessità, l’impossibilità di fare diversamente, e, giustificati sotto formula scientifica più o meno esatta, avevano prestato un fondamento giuridico a questa realtà di fatto inoppugnabile.

Che cosa si è fatto nel progetto? Si è fatto, anzi si è progettato, il nobile tentativo di restituire integralmente ai Parlamenti la funzione legislativa, al punto che si prevedono soltanto le deleghe legislative, ma per casi e tempi determinati, escludendo perciò, implicitamente, le deleghe generali e si escludono, col silenzio, i decreti-legge. Si discuterà forse dai futuri, se il progetto passerà, se e come il decreto-legge è stato abolito.

Io penso che formalmente sarebbe abolito, perché quando la nuova legge non prevede un istituto già esistente, già riconosciuto e regolato con legge, bisogna dire che, col totale riordinamento della materia, ha voluto abolire quell’istituto. Ma sono sicuro che la prassi prima, la dottrina poi, ridaranno vita al decreto-legge, perché non è possibile farne a meno.

Ed allora, tanto vale prevederlo senz’altro: prevediamo il decreto-legge e discipliniamolo in modo che non si possano verificare degli abusi. Prevediamo che in caso di guerra, di pubblica calamità, in materia fiscale, quando vi sia grave pericolo di un ritardo, il Governo ha la facoltà di emettere norme giuridiche aventi valore di legge, salvo la presentazione al Parlamento entro un brevissimo termine.

E poi, bisogna finalmente decidersi ad adottare un sistema attraverso il quale i Parlamenti possono salvare la loro funzione legislativa: quello delle commissioni. I Parlamenti in seduta plenaria non possono legiferare; possono legiferare soltanto quelle poche volte in cui è proprio necessario legiferare in questa forma. Ma io non vedo quale esigenza di democrazia si oppone a che leggi ordinarie, leggi che non presentino un profondo interesse politico o costituzionale, possano essere votate da commissioni costituite proporzionalmente alla formazione dei vari partiti rappresentati in un Parlamento.

Si potrebbe anche stabilire una serie di materie nelle quali non è possibile adottare questo sistema: nella serie rientrerebbero certamente la materia costituzionale, la materia fiscale e la legge di approvazione del bilancio.

Si potrebbe anche stabilire che, ove nelle commissioni non si raggiungessero certe maggioranze, vi fosse la possibilità di un esame plenario-da parte della Camera. Ma, indubbiamente, il sistema ordinario di formazione della legge deve essere quello delle commissioni, altrimenti il Parlamento, per voler molto fare, per voler rivendicare a sé la funzione legislativa, la perderà totalmente.

Un’altra deficienza, come accennavo, nel nostro ordinamento costituzionale, è stata quella dell’instabilità dei governi. È inutile illustrarla; è risaputa, anzi si può dire che è questa la crisi permanente di un certo tipo di Stati.

Ora, certamente, i redattori del progetto si sono preoccupati di questo inconveniente ed hanno avvisato per combatterlo dei sistemi, o meglio dei piccoli accorgimenti. E trovo strano che si sia financo protestato perché si è stabilito che per presentare una mozione di sfiducia è necessaria l’adesione di tanti deputati che costituiscano il quarto dei componenti la Camera. Io penso che una mozione che abbia un qualsiasi fondamento, che abbia una qualsiasi rispondenza alla situazione obiettiva delle cose e che abbia anche una rispondenza a quelle che possono essere le speranze di una sua affermazione, troverà facilmente un quarto dei deputati che vi aderiscano; non si muove all’attacco di un Governo se non si è perlomeno sicuri, in partenza, dell’adesione della quarta parte dei deputati. Poi, strada facendo, si potranno trovare gli altri; ma che all’inizio di un’azione di questo genere non si possa disporre di questo quarto, può essere prova della capricciosità, della tatticità inutile di una mozione, ed è giusto che essa non sorga a turbare la vita del Paese.

Un altro accorgimento che si è escogitato è quello del diritto di appello che avrebbe il Governo all’Assemblea Nazionale; ove, infatti, non si volesse rassegnare al voto di sfiducia di una delle Camere, un articolo del progetto prevede che il Governo possa appellarsi all’Assemblea Nazionale, cioè ai due rami del Parlamento riuniti. Questo accorgimento è veramente discutibile, perché tutto dipende da come sarà formato il Senato: vogliamo chiamarlo senz’altro così perché è pensabile che la nuova denominazione avrà la vita stessa del progetto. Se infatti si parla di senatori, è chiaro che vi debba essere un Senato, senza del quale non vi potrebbero essere i senatori.

Tutto dipende dunque, dicevo, da come questo Senato sarà formato. Se questo Senato sarà, come è stato previsto nel progetto, quasi un doppione della Camera dei Deputati, nulla di male che queste due Camere, come dicevano i pubblicisti del Cinquecento, si raccozzino insieme. In fondo, c’è da supporre che isolatamente ognuna delle due Camere voterebbe come voterà il complesso delle due insieme, perché lo schieramento delle forze nei due rami del Parlamento sarà pressappoco eguale.

Se però si introducessero alcuni o molti dei criteri di nomina dei senatori che si vanno proponendo, talché il Senato non sarebbe, nella sua composizione, omogeneo con l’altra Camera, questo raccozzamento non sarebbe possibile perché non si possono sommare valori eterogenei. È chiaro infatti che la rappresentatività della volontà espressa dalla Camera dei Deputati eletta a suffragio popolare non sarebbe omologa con la rappresentatività della volontà espressa da questo corpo che non è completamente elettivo e comunque non poggiato sul suffragio universale.

Io non posso per altro riconoscere che questi accorgimenti abbiano risoluto il problema: al contrario, questo grave problema della instabilità dei Governi rimane aperto. Saranno probabilmente i futuri legislatori che lo potranno risolvere o forse, lo potrà il costume politico. Si sarebbe potuto pensare ad un Capo del Governo eletto o dal popolo direttamente o dalla Camera elettiva: eletto per un determinato numero di anni. Ma allora sarebbe stata necessaria l’esistenza di un Capo dello Stato – se non si fosse voluto arrivare ad una repubblica presidenziale, perché in Italia questa è da tutti generalmente esclusa – di un Capo dello Stato, dicevo, che avesse tali poteri da poter garantire la stabilità della Costituzione di fronte al grande vigore del Capo del Governo che potrebbe divenire pericoloso per l’equilibrio della Costituzione. Ma non sono riforme, queste, che entrino nell’orizzonte attuale della nostra politica. Il problema, ripeto, rimane insoluto e temo che sia la tabe che comincerà a rodere il nostro edificio costituzionale nel momento stesso in cui lo facciamo nascere. Noi ci dobbiamo dichiarare impotenti, o per lo meno constatare che il progetto, per il sistema adottato, è impotente a risolvere questo, che era forse il problema più importante della Costituzione. Sarà stata colpa più degli eventi che degli uomini, ma il fatto, obiettivamente, è certamente questo: il popolo italiano si attendeva soprattutto un Governo stabile, un Governo che governasse. Da questa Costituzione, fondata per giunta sul suffragio universale proporzionale – parlo essenzialmente del proporzionale – non potranno venir fuori in nessun caso dei Governi stabili che possano esplicare una duratura, e così solo efficace, attività. Chi diventa Ministro, prima che si impossessi delle fila dell’Amministrazione, deve prepararsi a sgombrare i cassetti e a lasciare il posto al successore.

Vi è poi il terzo difetto, che il progetto ha ereditato in pieno dalla Costituzione precedente, così come si era conformata nell’ultimo periodo della nostra vita pubblica: quello dell’instabilità e del disquilibrio della nostra vita costituzionale. È da tutti risaputo che la Costituzione albertina aveva predisposto un sistema rappresentativo puro, che viceversa fu immediatamente applicato come un sistema rappresentativo parlamentare. Le spiegazioni dottrinali dell’instaurazione di questo diverso sistema sono varie, ma sulla diagnosi non vi è dubbio; vorrei dire, sulla classificazione di questo sistema. Indubbiamente si era instaurato in Italia un sistema rappresentativo parlamentare nel quale domina questa caratteristica: la preminenza del Parlamento nella direzione della vita politica del Paese. Il Parlamento, anzi, la Camera elettiva, è chiamata a stabilire l’indirizzo della politica dello Stato e del Governo, e a sorvegliarne l’applicazione. Il Senato, la Corona, che prima erano elementi costitutivi della volontà statuale a titolo uguale, per lo meno nella teorica dello Statuto, colla Camera elettiva, si trasformarono da elementi frontistanti, cooperanti alla pari, in elementi di controllo, in vere e proprie garanzie costituzionali, dirette proprio a garantire la stabilità e l’equilibrio della vita costituzionale; ma l’indirizzo, la volontà decisiva, era certamente la volontà della Camera dei deputati.

Ora, è curioso guardare e le origini e il movimento e la direzione e i risultati ottenuti da questa evoluzione del principio democratico. Avvenne che proprio per l’azione del principio democratico vennero a mano a mano vuotandosi di potere quegli altri due organi che dovevano funzionare da controllo; ed allora mancarono quelle tali garanzie di stabilità che la legge pure avvisava. E sarebbe bastato – come bastò – che un partito o il capo di un partito, si impossessasse in un modo qualsiasi della maggioranza parlamentare, perché la Costituzione venisse immediatamente trasformata, perché lo Stato libero e costituzionale tramontasse da noi. È noto come ciò avvenne: la dittatura in Italia non fu instaurata con la marcia su Roma, e su questo siamo tutti d’accordo; ed io sostengo che non fu neanche instaurata nel gennaio 1925, fu instaurata con la legge elettorale del 1923, con quella legge elettorale che consegnò la Camera dei Deputati e per sempre, al partito fascista.

Che cosa potevano fare le garanzie costituzionali di fronte ad un simile voto della Camera dei deputati, che era Camera eletta nel 1921, in piena democrazia, con sistemi democratici? E il Senato avrebbe potuto dire no a quella legge, o lo avrebbe potuto dire la corona?

Evidentemente tutto ciò era fuori di ogni possibilità, non solo politica ma giuridica, proprio perché le garanzie di stabilità della nostra vita costituzionale erano state cancellate dallo svolgimento avuto dal processo della democrazia. E non è la prima volta che, dando luogo ad un fenomeno di eterogenesi dei fini, le tendenze verso una certa meta raggiungono meta assolutamente opposta.

Che cosa ci sarebbe voluto per impedire tutto ciò? Una Costituzione rigida ed un organo capace, non soltanto in diritto ma anche di fatto, di farla rispettare, un organo che avesse il potere non solo giuridico, ma anche reale, di fare rispettare la Costituzione.

Viceversa noi avevamo che un postulato della democrazia, in nome della libertà, era appunto la Costituzione flessibile; che un altro postulato della democrazia era la riduzione del potere regio e l’accentuarsi invece del potere proveniente dalla base, proveniente dal popolo.

Allora voi vedete come proprio due conquiste della democrazia furono la causa del seppellimento della democrazia in Italia.

Ora, noi che cosa abbiamo fatto di fronte a questa dura lezione della storia? Abbiamo avvisato le garanzie costituzionali, dirette ad affermare la stabilità di questa Costituzione, che pure abbiamo fatta e voluta rigida? A me pare assolutamente di no.

Io non ripeterò qui, perché lo sciuperei, quello che disse il comune maestro Vittorio Emanuele Orlando in un discorso pronunciato in quest’Aula in sede di discussione generale sulla Costituzione. Egli vi ha dimostrato con l’evidenza come, data questa Costituzione, noi marciamo con la massima facilità verso un totalitarismo; perché in sostanza questa Camera dei deputati è espressione del popolo (ed è giusto che lo sia), ma essa non trova nessun contrappeso nel Senato che pur si è voluto (si è adottato il bicameralismo, proprio per questa ragione); ma il Senato non potrà assumere nessuna funzione equilibratrice perché è composto su per giù come la camera dei Deputati, in esso si agitano le stesse forze e le stesse tendenze. Esso, ad un determinato momento, al momento della frana, sarà un materiale che accrescerà la valanga!

Si è provveduto – come si doveva provvedere necessariamente – a porre un Capo dello Stato, che dovrebbe essere un’altra garanzia della Costituzione? Ma sì: intanto esso non ha il prestigio di un re.

Beh, gli amici repubblicani non riconoscono il prestigio di un re, ma le folle, le masse, in genere lo riconoscono. I risultati del recente referendum, che appaiono quasi per metà favorevoli alla monarchia, furono, proprio secondo la tesi repubblicana, effetto del prestigio della monarchia; poiché non li volete attribuire ad un cosciente convincimento monarchico, dovete attribuirli alla sentimentalità delle masse. Indubbiamente sulle masse agisce ed ha sempre agito questo prestigio della monarchia.

Voi, dunque, avete nel progetto un Capo dello Stato che non ha il prestigio della monarchia, e non ha neanche i poteri giuridici sufficienti. Avete detto, nel progetto, che il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale. È un errore giuridico. Non la rappresenta, perché la differenza fra la Monarchia e la Repubblica è proprio questa: che il Re non è rappresentativo di una Camera o di un corpo, mentre invece il Presidente della Repubblica è rappresentativo dell’Assemblea, del corpo che lo elegge. Il Presidente della Repubblica, è rappresentativo dell’Assemblea Nazionale…

Una voce a sinistra. E del popolo…

CONDORELLI. No, secondo il sistema del progetto è rappresentativo soltanto dell’Assemblea, quindi non è affatto rappresentativo dell’unità nazionale. Non la rappresenta dunque giuridicamente e non la rappresenta neanche storicamente, perché evidentemente fra un Presidente della Repubblica e la Nazione manca quel nesso storico ed organico che avvince una dinastia al suo popolo. Non c’è rappresentanza né giuridica né storica. Rimane, quella in discorso, una affermazione vuota che vorrebbe creare il mito, l’aureola attorno alla testa del Capo dello Stato, ma non ci può riuscire. È contro tutta quanta la realtà. Io mi sforzo di mantenermi in un ambiente teorico e scientifico…

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, mi duole che io debba farle osservare, proprio a questo punto, mentre cioè sta facendo propaganda monarchica… che ella ha da tempo superato i venti minuti.

CONDORELLI. Io faccio osservare che mi ero iscritto a parlare prima, poi si chiuse la discussione per quel fenomeno di ghigliottina…

PRESIDENTE. No, onorevole Condorelli, non usi questa espressione. Non erano presenti i deputati iscritti.

CONDORELLI. Non era assolutamente una censura alla Presidenza che volevo fare, signor Presidente. Avvenne di fatto così. Ma ebbi l’assicurazione dalla Presidenza che io avrei potuto svolgere ugualmente il mio pensiero. Del resto non chiedo molto tempo ed assicuro la Camera che sono alla fine.

RUSSO PEREZ. È bene che un Presidente repubblicano conceda più dei venti minuti regolamentari ai monarchici.

CONDORELLI. Dunque io dicevo questo: il Capo dello Stato non ha il prestigio di un monarca, non è niente affatto un rappresentante dell’unità nazionale…

Una voce a sinistra. Che cosa rappresenta?

CONDORELLI. È soltanto un magistrato.

Ha il comando delle Forze armate, ma un comando che non potrà mai esercitare neanche formalmente, neanche in apparenza, per la sua preparazione civile e politica.

Voci. E il re?

CONDORELLI. Lasciamo andare. Comunque l’ascendente che questi re avevano sulle Forze armate era notevolissimo e fu essenziale anche nella guerra di liberazione.

Avete tolto al Capo dello Stato il potere di sanzionare le leggi. Qualcuno con la solita mentalità giacobina, che guarda le cose secondo la logica formale e appunto perché formale non tocca la concretezza delle cose e perciò erra, ci dirà: «ma che cosa è in pratica questa sanzione? Il re non la rifiutava mai». Dio mio! Ma ci sono dei freni repressivi e ci sono dei freni preventivi. Questa sanzione del re, che non poteva mai mancare, era comunque un freno preventivo. Si inducevano le Camere, per lo meno sotto l’aspetto della contingenza politica, a non andare al di là di certi limiti oltre i quali non si poteva sperare la sanzione sovrana. Ed allora questo valeva per limitare il debordamento, se non per impedirlo.

La sanzione affidata al Capo dello Stato potrebbe avere questa funzione. Invece lo si è totalmente estraniato dalla funzione legislativa, che è poi la funzione più augusta dello Stato.

Forse si pensa di poter affidare la funzione di equilibratrice e di garante della Costituzione a quella famosa Corte Costituzionale, che è una delle grandi novità del Progetto. Se c’è qualcuno che s’illude che questa onorata riunione di avvocati, di professori e di magistrati, scelta proprio dal Parlamento che dovrebbe controllare, possa fermare domani un travolgimento costituzionale, io non posso che dolermi e condolermi con lui: è fuori della realtà. Potrà annullare qualche legge di secondaria importanza, così, come qualche tribunale dichiara incostituzionale una legge. D’ora innanzi lo farà questa Corte altissima, il più delle volte per rinvio da parte della magistratura ordinaria; ma credere che essa possa esercitare la funzione di stabilizzatrice della Costituzione è una utopia, è un assurdo.

Credetelo pure, la vita moderna è controsegnata da un fenomeno che io chiamo: Stato di masse, non in senso dispregiativo, ma in senso positivo; perché nell’epoca moderna le masse sono penetrate nella cittadella dello Stato. Ed è bene che sia così, perché da ciò non può non accrescersi la forza dello Stato. Però gli Stati di masse, i partiti di masse, le masse, hanno una tendenza – sociologicamente constatata – a produrre dei dittatori, e questo si dimostra storicamente e logicamente.

Si dimostra storicamente perché tutti i dittatori, da Giulio Cesare a Stalin o Mussolini, sono capi di grandi partiti popolari. Si dimostra logicamente, perché è chiaro che le masse non possono governare direttamente; non possono governare che attraverso il capo che più facilmente si esprime dalle masse, perché trova meno rivali. Viceversa le altre classi, gli altri partiti, si esprimono in oligarchie, che poi sono le avversarie naturali di queste dittature; tanto è vero che queste dittature sorgono abbattendo le oligarchie e cadono sotto il pugnale di Bruto che è espressione non di democrazia ma di oligarchia.

È questa la lotta continua – per legge sociologica – fra dittatura e oligarchia. Tutto sta a creare delle oligarchie, delle «élites» – come direbbe Pareto – legittime, che siano cioè, espressione della volontà e dell’interasse popolare; se no, non c’è altra via che la dittatura. Sono questi dittatori che riescono ad essere e a far credere di essere i ministri dell’interesse del popolo. Quale rimedio c’è? C’è un solo rimedio contro questo fenomeno ricorrente nell’età moderna: il Capo dello Stato che attinga il suo potere non dallo stesso principio da cui lo attinge il capo del partito di massa, ma dalla legge…

Una voce a sinistra. Divina!

CONDORELLI. …dalla legge stessa, dalla legge umana, investito direttamente dalla Costituzione, come ogni re moderno è rex ex lege. Un Capo di Stato, che esprima non un corpo, non un partito, non una massa, ma lo Stato unitariamente inteso, come volontà di diritto, e fornito di poteri reali, adeguati ai poteri formali e giuridici.

Riconosco che questa Camera non poteva creare un Capo dello Stato così fatto. Ma perciò, a mio avviso, ha fallito al suo compito.

Vi sono dei rimedi? No. Vi sono degli attenuativi, dei palliativi, degli espedienti, che suggerisco, così come la mia modesta indagine me li ha potuto suggerire. Appartenendo ad uno schieramento opposto, non avrei nessun interesse a collaborare alla formazione di questo istituto, ma in me grida soprattutto il sentimento di devozione allo Stato; e non posso volere che trionfino i miei ideali politici attraverso una catastrofe. Comunque, io vi suggerisco quello che, secondo il mio sincero convincimento, potrebbe attenuare questo difetto indiscutibile della nostra Costituzione.

Voi credete di non poter attribuire al Capo dello Stato il potere di sanzionare le leggi. Però, indubbiamente, se ne può attribuire uno, che, del resto, è già attribuito, in un certo senso, al Capo dello Stato.

Un articolo del progetto prevede che, quando esista disparere fra le due Camere – perché una respinga o comunque non approvi quello che l’altra ha votato – è possibile che il Capo dello Stato senta il popolo, perché dirima il contrasto verificatosi. Perché non attribuire al Capo dello Stato la facoltà di appellarsi al popolo? Anzi, non di appellarsi (perché non è necessario che ci sia un notamento di censura), di sentire la volontà del popolo, di fronte ad una legge, votata dai due rami del Parlamento, che gli lasci dei dubbi. Sarebbe un correttivo molto efficace; uno di quei tali freni preventivi; avrebbe quasi quella funzione pedagogica, che tante volte abbiamo invocato in questa Costituzione; renderebbe le Camere più attente nella interpretazione della volontà popolare, perché potrebbero temere la sanzione politica dell’annullamento di una legge da esse votata. E non mi pare che la democrazia sarebbe minimamente scalfita da una disposizione di questo genere, perché l’appello è all’origine del potere, è proprio al popolo.

Un altro rimedio è quello del Senato.

È veramente interessante come i partiti, che coscientemente o nel sub-cosciente sono totalitari – ritengo nel sub-cosciente, perché coscientemente totalitario non è nessuno in questa Camera – sono contrari sia ai poteri del Capo dello Stato, che vorrebbero ulteriormente ridotti, sia a questa seconda o prima Camera.

Ora, a mio giudizio, questa seconda Camera ormai non si può più discutere, quale che fossero in partenza le opinioni, perché c’è un fatto compiuto, che è quello delle Regioni. Si dice che in uno Stato federale il Senato è una esigenza di fatto: deve esserci necessariamente. Forse non abbiamo fatto uno stato federale ma soltanto regionale, che però si differenzia dallo stato federale solo per alcune sfumature. Noi non possiamo però, adesso, fare a meno di dare il completamento necessario, quale che sia stato il nostro atteggiamento di fronte al problema delle autonomie regionali, e di approvare necessariamente questa Camera delle Regioni o Senato. E dico che in fondo è anche bene che si sia trovata nel sistema questa ragione per dare una specifica funzione al Senato, che altrimenti forse ne sarebbe stato privo. Il Senato dovrà funzionare essenzialmente come Consiglio, come Camera delle Regioni, perché sarebbe invanito questo ordinamento regionale che si esaurirebbe alla periferia, se non avesse l’organo della sua difesa e della sua direzione proprio nell’organismo costituzionale centrale. Cosa se ne farà questa Regione dell’autonomia in materia di caccia, di pesca, di insegnamento professionale e tecnico, di urbanistica, magari anche in materia finanziaria, quando c’è un articolo 37 della Costituzione già approvato, che dice che con leggi si possono stabilire i programmi economici, cioè si può determinare la politica economica dello Stato?

Tutti noi sappiamo qual è l’origine vera della sperequazione tra regione e regione, tra Nord e Sud: è proprio la politica economica dello Stato. Non vi pare ora provvidenziale che al centro ci sia un elemento che possa autorevolmente intervenire in questa materia? Bisogna, secondo me, visto che le Regioni ci sono, che ci sia proprio per legittima difesa di queste Regioni, proprio nell’ambiente nel quale è necessario difenderle (come ci dimostra una triste esperienza ormai vecchia), questo organo essenzialmente destinato alla difesa economica delle Regioni, più che alla difesa costituzionale. Base regionale, dunque, del Senato, che darà funzione, vigore ed autorità al Senato, che altrimenti non ne avrebbe nessuna. E poi nulla esclude che a questo principio di rappresentanza regionale si possa anche associare il principio della rappresentanza di interessi: potrebbero benissimo essere combinati ed associati. Così avremmo creato un organo che ha funzioni sue, che gli darebbero tono e forza.

Io, onorevoli colleghi, ed ho finito, credetemi, contrariamente a quanto ha pensato il Presidente, sono stato mosso a queste mie osservazioni esclusivamente dal sentimento della devozione al mio Paese, che voglio ordinato in uno Stato libero e forte. È soltanto questo che mi ha diretto ed ha ravvivato questa mia volontà, nel momento in cui per effetto del deposito delle ratifiche che hanno dato un apparente crisma di legalità al protocollo di Parigi, si affondano i ferri di questi moderni Shylock nelle carni vive del popolo italiano. Noi, o colleghi, siamo italiani e proprio per vocazione nazionale, che ebbe sì alta espressione in Giuseppe Mazzini ed in Pasquale Stanislao Mancini, aspiriamo ad un mondo in cui col rispetto di tutte le parti, compresa la nostra, abbia finalmente pace questa umanità martoriata ed abbia fine il calvario della Nazione italiana. Ma se ciò non potesse avvenire, se questo sogno atavico della nostra stirpe non si dovesse verificare, non pensi alcuno che possano stabilmente essere separati da noi i nostri fratelli, quelli che fanno parte organicamente di questa Nazione italiana, che fra qualche anno sarà composta di 50 milioni di uomini, volitivi e coscienti. Noi, di fronte a questa tragedia, abbiamo un dovere preciso: creare uno Stato forte e libero, organizzare una società nazionale giusta e concorde, per la quale sia dolce e santo vivere e morire, potenziare la nostra cultura, ciò che possiamo e dobbiamo, secondo lo spirito universale di San Francesco, di Dante, di Galileo, in modo che si accresca in tutti gli italiani, al di qua ed al di là delle frontiere, l’orgoglio ed il desiderio della Patria. E questo sarà la garanzia del nostro avvenire, il pegno della sola riscossa che noi vogliamo. Incominciamo oggi, creando quello che a noi è demandato: uno Stato libero e forte. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Piccioni ha presentato il seguente ordine del giorno firmato anche dall’onorevole Moro:

«L’Assemblea Costituente,

considerato che l’esistenza di una seconda Camera accanto a quella eletta a suffragio universale indifferenziato risponde alla necessità di integrare la rappresentanza politica, in modo che essa rispecchi la realtà sociale nelle sue varie articolazioni e tutti gli interessi politicamente rilevanti ed assicuri inoltre al lavoro legislativo, divenuto sempre più tecnicamente qualificato, il concorso di speciali competenze,

ritiene

che queste finalità si raggiungono, chiamando a partecipare alla seconda Camera i gruppi, nei quali spontaneamente si ordinano le attività sociali;

che tale rappresentanza deve essere realizzata – secondo un criterio di ripartizione a base territoriale regionale – con metodo democratico, mediante elezioni a doppio grado alle quali concorrano tutti gli appartenenti alle categorie sociali e in modo da promuovere la coordinazione degli interessi dei gruppi con l’interesse generale;

che la ripartizione dei seggi deve obbedire di massima al criterio della proporzione con l’entità numerica delle categorie ed insieme a quello della maggiore responsabilità del lavoro qualificato».

Ha facoltà di svolgerlo.

PICCIONI. Onorevoli colleghi, della vasta materia dei tre Titoli del progetto di Costituzione che sono in discussione, voglio limitarmi a considerare soltanto il problema della seconda Camera che è un problema, come è stato già detto da più parti, per molti aspetti di particolare e vitale importanza per il nuovo ordinamento democratico che noi stiamo costruendo.

Io credo di potervi risparmiare qualsiasi dissertazione intorno alla necessità, alla opportunità e convenienza del sistema bicamerale, perché se è vero che ci fu in seno alla Sottocommissione una discussione piuttosto animata anche a questo riguardo, nella discussione generale, che è avvenuta qui in questi giorni, mi pare che non vi siano state forti opposizioni, se non forse quella dell’onorevole Lussu, il quale mi pare che un po’ improvvisamente si sia convertito al sistema unicamerale.

LUSSU. L’ho sempre sostenuto in sede di Sottocommissione; solo che gli altri erano in maggioranza.

PICCIONI. Mi pareva che nella Sottocommissione fosse stato proposto dall’onorevole Lussu uno speciale ordine del giorno, che prevedeva la seconda Camera come Camera delle Regioni.

LUSSU. Era una proposta subordinata.

PICCIONI. In ogni modo, è inutile polemizzare, mi pare, a questo riguardo poiché le opposizioni si riducono, con tutto il riguardo verso l’onorevole Lussu, a ben poca cosa dal punto di vista della valutazione del progetto medesimo.

Ora, perché si ritenga in una democrazia moderna necessaria anche la seconda Camera, non starò a ripeterlo; lo ha illustrato ieri l’onorevole Ambrosini molto acutamente e lo stesso onorevole Nitti ieri, ed altri, ne hanno parlato.

Le ragioni sostanziali che militano a favore della seconda Camera si possono restringere a queste tre: la prima è quella di garantire l’equilibrio ed una certa integrazione del potere e della funzionalità della prima Camera; la seconda è quella di concorrere con una più ponderata competenza tecnica ed una maggiore maturità di esperienza alla elaborazione legislativa; la terza è quella di contribuire in qualche modo a risolvere il delicato problema di una maggiore stabilità del Governo parlamentare.

Ora, se si tengono presenti queste tre ragioni fondamentali, bisogna d’altra parte cercare di comporre, di formare la seconda Camera in modo tale che le ragioni che la giustificano trovino una seria applicazione, altrimenti, se non si riesce a dare alla Camera una composizione ed una funzionalità tale che possa seriamente rispondere a queste necessità sostanziali, si ricade in quello che si voleva evitare in partenza, cioè nell’aggravare in certo modo il difetto della Camera unica. Ed il criterio quindi che ci deve orientare nell’indagine, nell’esame della composizione della seconda Camera è precisamente questo: di non ricadere in un bis in idem della prima. Le difficoltà, evidentemente, ci sono e numerose, specialmente in un ordinamento che vuole essere genuinamente, autenticamente democratico. Non bisogna tuttavia farsi impressionare troppo dalle difficoltà medesime per ricadere, con un certo semplicismo e con una certa facilità, nel modo di composizione della prima Camera applicato anche alla seconda.

A me pare che dopo le lunghe discussioni che si sono avute in seno alla seconda Sottocommissione ed alla Commissione dei Settantacinque, per quanto si sia cercato di affrontare le difficoltà di una diversa, di una più differenziata formazione della seconda Camera, ci si sia poi lasciati impressionare, per ricadere, come è detto nel progetto, presso a poco nello stesso modo di formazione della prima Camera.

Ora, io ripeto quello che, con scarsa fortuna, avevamo detto in seno alla seconda Sottocommissione: che tenuta presente la necessità di un sano ordinamento democratico, di un ordinamento democratico non inteso in senso astratto, formalistico, che abbia come fondamento il suffragio universale che si esprime nella prima Camera, non ci si deve rifiutare di integrare il suffragio universale stesso con quelle altre forme di rappresentatività della struttura sociale moderna che hanno un peso forte, decisivo nella vita della collettività, dal punto di vista sociale ed anche dal punto di vista politico. Il suffragio universale va integrato attraverso una forma rappresentativa della stessa volontà popolare, non intesa come somma delle volontà individuali – così come è stato sempre inteso il suffragio universale ed i suoi risultati – ma come espressione di una volontà più organica, sia pure del popolo, veramente operante nella vita nazionale, volontà organica che si inquadra in certi gruppi, in certi nuclei, in certe categorie, che portano un peso veramente decisivo nella funzionalità della vita collettiva e nell’evoluzione stessa della vita sociale, dal punto di vista economico, dal punto di vista morale e politico.

Con questo, noi diciamo che per la seconda Camera (per non ripetere sempre questa parola è meglio parlare di Senato, perché, come giustamente osservava l’onorevole Nitti, non ha senso, ha un senso un po’ forzato il nome di Camera dei senatori da contrapporre alla Camera dei deputati, perché si sa cosa voglia dire Camera dei deputati, ma non si capirebbe quello che vorrebbe dire Camera dei senatori, in quanto senatore viene da Senato), noi proponevamo, non come affermazione di un principio programmatico nostro – ciò che può avere un po’ allarmato taluno dei nostri amici di altri partiti – ma come espressione di una esigenza sociale moderna, di costituire il Senato come rappresentativo di interessi politicamente rilevanti, interessi che si esprimono attraverso certe categorie sociali che hanno un peso decisivo nella vita collettiva.

Tutto questo da alcuni è stato inteso come non so quale tentativo di conservazione sociale ed economica, da altri come una riviviscenza appena larvata del corporativismo fascista.

L’accusa di conservatorismo economico e sociale è del tutto infondata. Io ho qui la relazione che per la riforma del Senato fece Francesco Ruffini insieme ad altri illustri senatori nel 1919-20, quando si sentiva, fin d’allora, la necessità di dare al Senato una funzionalità ed una rispondenza con le esigenze della vita moderna, che anche allora il Senato aveva scarsamente mostrato di possedere. Ebbene, in questa stessa relazione fatta da un eminente rappresentante del liberalismo italiano come Francesco Ruffini, vi sono due o tre capitoli che parlano della riforma del Senato dal punto di vista della rappresentanza degli interessi e delle categorie. E non è una trovata – per quanto altissimo e nobilissimo fosse l’ingegno di Ruffini – ma in detta relazione si rifà accuratamente la storia di tutti gli studi, di tutta la letteratura vastissima che in materia si era venuta sviluppando negli ultimi anni precedenti al regime fascista.

Ebbene, la riforma del Senato o la costituzione di una seconda Camera, concepita come espressione rappresentativa di interessi socialmente e politicamente rilevanti, era un postulato delle sinistre più avanzate e democratiche: ricorse recentissimamente qui, fra gli altri, il nome di Vandervelde che mi pare sia stato il Capo del socialismo belga. Ed anche in Italia ci fu un ordine del giorno dell’onorevole Vigna, se non isbaglio, socialista, il quale affermava la necessità, per procedere ad un rinnovamento delle strutture legislative costituzionali, di inserire nel Senato le rappresentanze di interessi.

Sicché, anche tenendo presente questo precedente, l’accusa di reminiscenze corporativistiche non ha ragion d’essere. Io arrivo anzi a dire che, se non avessimo dovuto affrontare lo sciagurato ventennio fascista, la riforma del Senato sarebbe probabilmente avvenuta lo stesso; e sarebbe avvenuta per la spinta delle forze più rappresentativamente democratiche del nostro Paese.

Il fascismo non ha avuto, del resto, che l’adulterazione della rappresentanza degli interessi. Basta pensare che l’organizzazione corporativistica fascista rispondeva ad uno schema, visto astrattamente, dall’alto, in funzione del totalitarismo fascista e veniva applicata, realizzata, imposta dall’alto, senza che fosse minimamente tenuto conto di quella che è la germinazione spontanea delle varie categorie, del loro concatenarsi nella vita sociale ed economica e della loro capacità di esprimersi per avere una rappresentanza adeguata; basta, dicevo, tenere presente tutto ciò per comprendere e per concludere che l’accusa di corporativismo mossa ad una impostazione di questo genere è del tutto campata in aria. E non bisogna, onorevoli colleghi, lasciarsi troppo trascinare da quelli che sono i residuati che operano certo nel subcosciente più di quanto non si creda, i residuati di stati d’animo che avevano, sì, una giustificazione genuina e profonda di fronte alla dittatura fascista, ma che bisogna però superare, che bisogna staccare dalla nostra coscienza per poter guardare veramente in faccia la realtà, per poter stabilire quello che autenticamente si può in pratica costruire per la democrazia italiana.

Ora, noi riteniamo in pratica che questa differenziazione della seconda Camera rispetto alla prima, sia l’unica differenziazione veramente seria, sia l’unica differenziazione veramente solida che sia possibile. Noi possiamo esaminare insieme tutte le altre forme escogitate più o meno al riguardo. E, nell’iter che questa discussione ebbe in seno alla seconda Sottocommissione, noi partimmo proprio da un ordine del giorno firmato dall’onorevole Einaudi, e che fu poi approvato, nel quale si invocava appunto la costituzione della seconda Camera in questo senso.

Passammo poi attraverso la camera delle Regioni per un quarto d’ora – non è durata di più – la Camera rappresentante dei Comuni e degli altri enti locali; e abbiamo finito col ricadere in quella formulazione che è contenuta nel progetto di Costituzione, che in fondo, tranne per quel terzo lasciato all’elezione dei Consigli regionali, risponde esattamente a quello che è il meccanismo e la formazione di istituti democratici.

Ora, questa prima impostazione trovò la Commissione concorde in questo senso, perché la seconda Sottocommissione così si espresse in un suo ordine del giorno: «Riconosciuta la necessità dell’istituzione di una seconda Camera, al fine di dare completezza di espressione politica a tutte le forze vive della società nazionale, passa all’esame del sistema del rapporto tra le due Camere e al modo di composizione di ciascuna».

Quindi, lo scopo è segnato chiaramente; ed è quello di dare espressione viva, espressione completa alle forze vive ed operanti della Nazione. Ora, le forze vive alle quali si riferiva il concetto di questo ordine del giorno si sono ridotte a che cosa? Si sono ridotte al suffragio universale diretto. Non è certo questo il concetto al quale ci si riferiva, e non è certo questa la determinazione che possa in qualche modo differenziare una Camera dall’altra.

Lo so qual è l’obiezione maggiore che viene fatta a questo riguardo, ed è quella che, in fondo, fece deviare poi il lavoro della seconda Sottocommissione, per andare in cerca di qualche altro modo e di qualche altra possibilità. L’obiezione maggiore che viene fatta è quella della pratica realizzazione di una visione di questo genere, di una concezione della seconda Camera, come quella a cui io mi sono riferito.

Ma qui io vorrei premettere che lo sforzo non è stato veramente eccessivo da parte di nessuno di noi per trovare una soluzione pratica, concreta, delle difficoltà, alle quali ci si riferisce. Ieri l’onorevole Ambrosini citava, per esempio, quello che era stato fatto, per quanto sotto una visione leggermente diversa, trattandosi di un organo essenzialmente consultivo, dalla Costituzione di Weimar.

Ma io dico, praticamente, quando si siano identificate le sette, otto, nove maggiori categorie che sono effettivamente quelle rappresentative dei maggiori interessi, delle maggiori attività sociali, nelle quali si articola la vita collettiva, per esempio: industria, commercio, agricoltura, istruzione o corpi accademici vari, libere professioni e arti, artigianato – se non si crede di poterlo includere in un’altra di queste categorie – ceti impiegatizi; e si riesca a prospettarsi quella che è, sotto il profilo economico e sociale, la dinamicità della vita moderna, attraverso queste espressioni più salienti e più rilevanti; quando si sia fatto questo e si sia risolto l’altro problema, a cui noi non intendiamo minimamente sfuggire, di identificare la posizione del lavoro e dei lavoratori, o intesa come categoria o come categorie per sé stanti o operanti nell’ambito di ciascuna categoria, associando l’espressione dell’uno o dell’altro termine che operano nel processo produttivo, mi pare che si abbia davanti a sé il quadro di quelle che sono le maggiori e più operanti attività sociali della vita del Paese.

E quando, per il rapporto nei confronti di ciascuna categoria, si tenga presente – come è detto in un inciso del mio ordine del giorno che è stato interpretato, mi pare, un po’ troppo rigorosamente – una certa proporzionalità col numero delle categorie, come ho detto, e con la maggiore responsabilità del lavoro qualificato (due fattori, due elementi che devono giocare concordemente e non disgiuntamente per poter arrivare all’espressione di un equilibrio economico che ha in se stesso gli elementi di un equilibrio sociale), mi pare che non sia un problema assolutamente insolubile quello di realizzare la rappresentanza di tali categorie.

Per esempio (per fare una esemplificazione ancor più concreta e, direi, più visibile), la struttura della seconda Camera, così concepita, secondo il nostro modo di vedere, dovrebbe trovare veramente la sua ambientazione nell’orbita della Regione.

Ma quando, in ciascuna Regione si siano definite (e questo il Consiglio regionale lo può fare, perché ha tutte le legittimità democratiche per farlo), quali sono le categorie produttive predominanti nell’ambito della Regione stessa, ed in rapporto alla popolazione si stabilisca quanti devono essere i rappresentanti delle varie categorie, non rimane da risolvere che il problema dell’elezione dei senatori stessi.

Su questa elezione mi riservo di presentare, a conclusione della discussione generale un progetto completo, se il principio formulato nel mio ordine del giorno sarà accolto. Come può essere fatta tale elezione? Le soluzioni sono diverse. C’è chi prevede i collegi di categoria, che direttamente nominano il rappresentante di categoria. C’è chi – come me – in maniera forse più pratica, pensa che i rappresentanti di categoria possono limitarsi alla designazione, per esempio, di una terna per ciascuna categoria, lasciando al Consiglio Regionale l’ultimo atto della scelta, nella elezione dei vari rappresentanti.

Può sembrare, esposto in questo modo, un progetto piuttosto complicato e farraginoso, ma tale non è, se si considera realisticamente secondo le varie fasi attraverso le quali il progetto stesso si esaurisce o si perfeziona.

Comunque, questa è una questione di attuazione pratica che da nessuno può essere ritenuta insolubile. Basta applicarsi e trovare il modo e il verso di risolverla praticamente. Quel che più conta e più vale è decidere se, nella composizione della seconda Camera, deve essere veramente realizzato un principio di rappresentatività democratica diversa dalla rappresentatività data esclusivamente dal suffragio universale.

E se questo principio si accetta, evidentemente la sua realizzazione effettiva non trova altra forma concreta ed aderente alle necessità ed all’esigenza della vita sociale al di fuori della rappresentanza d’interessi. Oggi, quelli che sono gli interessi veri della vita nazionale sono prementi e pressanti e giocano anche nella vita politica, tanto che non si può credere di tenerli fuori dalle aule legislative o dai poteri dello Stato. Mentre se, accanto alla genuina rappresentanza politica della prima Camera voi vorrete una seconda Camera che, senza ferire il principio della sovranità popolare, senza contraddire il principio dell’investitura da parte della volontà popolare, perché questa delle categorie è altresì volontà popolare come quella del suffragio universale, svolga la sua azione, si potrà avere un quadro armonico di quelle che sono le vedute di carattere generale che sono rappresentate anche dalle ideologie dei singoli partiti, ma anche l’espressione di questi interessi concreti, economici, culturali, sociali e politici.

Le competenze non sono invenzione di nessuno. Le competenze sono un fatto reale, sociale, effettivo e non si può prescindere da esse proprio nel campo della massima espressione della volontà collettiva. Ora, attraverso un congegno di questo genere, evidentemente anche questo problema potrebbe essere avviato ad una soluzione. Io non voglio naturalmente esagerare in nessun modo e ritengo che l’applicazione di una visione strutturale della seconda Camera, come quella che io ho cercato di delinearvi, difficilmente può trovare una applicazione immediata, perché presuppone evidentemente un enorme lavoro di organizzazione, di ordinamento di categorie, di interessi che, in questo dopoguerra, in questo dopo disfatta, è reso ancor più difficoltoso. Si potrebbe ricorrere oggi soltanto alla Confederazione generale del lavoro e ad altre Confederazioni di imprenditori di lavoro, ma esse non esauriscono il quadro delle attività sociali e non sociali.

Bisogna dunque prevedere un certo periodo di tempo per il quale e nel quale questa «categorizzazione», diciamo, possa essere realizzata con una certa spontaneità e secondo certe direttive, ai fini, appunto, della composizione della seconda Camera.

Cosa sarebbe, per esempio, indispensabile in maniera assoluta? L’anagrafe delle categorie, almeno questa: avere l’anagrafe per dire quali sono le maggiori categorie, come si differenziano fra di loro, e potere, su questa concludere praticamente il sistema della realizzazione della loro rappresentanza. Questo è elemento indispensabile, e saremmo avventati noi stessi se volessimo sostenere che siamo oggi in condizioni di poter realizzare una struttura della seconda Camera come quella alla quale mi sono riferito. Però, è importante aver sollevato il problema in questa sede. Se il principio viene accettato e se si possono determinare, insieme con il principio, le direttive generali entro le quali si prevede che in un non lontano domani una riforma di questo genere possa essere attuata, questo dà un valore nuovo, moderno, socialmente più aderente alle condizioni della vita moderna, alla nuova Costituzione che stiamo approvando.

PRESIDENTE. Onorevole Piccioni, la prego di voler concludere.

PICCIONI. Ho finito. Io penso, in contrasto con molti altri, che l’ordinamento regionale – quali che possano essere le difficoltà nelle quali si viene muovendo o si andrà movendo – sia una riforma che rinnovi veramente la funzionalità dello Stato democratico italiano. Io penso che il Senato, concepito come noi lo concepiamo e come ci siamo sforzati di delineare nell’ordine del giorno che ho presentato, completerebbe questo rinnovamento, in senso democratico e in senso sociale, della nuova democrazia italiana. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Fuschini ha presentato un ordine del giorno del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente

afferma la necessità che il Parlamento sia costituito da due Camere, delle quali la prima rappresenti, attraverso il suffragio universale diretto e la rappresentanza proporzionale dei partiti, o correnti politiche, gli interessi generali della Nazione, e la seconda, mediante un suffragio organico a doppio grado, rappresenti gli interessi territoriali ed economici a base regionale;

riconosce l’opportunità che le Camere possano riunirsi in Assemblea Nazionale e deliberare esclusivamente sui seguenti casi:

  1. a) nomina del Presidente della Repubblica e sua messa in istato di accusa;
  2. b) conferimento di maggiori poteri al Governo in caso di guerra;

ritiene che alle Camere siano assegnati uguali poteri per svolgere i rispettivi compiti, restando peraltro stabilito che, in caso di contrasto fra le loro deliberazioni, esperiti appositi accorgimenti procedurali, abbia la prevalenza la decisione della prima Camera, fermo il ricorso al referendum popolare».

Ha facoltà di svolgerlo.

FUSCHINI. Onorevoli colleghi, la prima parte dell’ordine del giorno da me presentato è stata già sviluppata, in questo momento, dal collega onorevole Piccioni con quella perspicacia che lo distingue; e nei passati giorni i colleghi onorevoli Clerici, Codacci Pisanelli e Ambrosini avevano pur essi insistito sull’opportunità che la seconda Camera sia costituita in base alle categorie di interessi di carattere economico. Nel mio ordine del giorno accenno anche agli interessi territoriali. Non vi è bisogno di spendere parole su questa distinzione perché già nell’articolo 55 del progetto di Costituzione abbiamo affermato che la seconda Camera deve rappresentare anche gli interessi territoriali, allorquando abbiamo stabilito che ad ogni Regione sia data la rappresentanza speciale di cinque Senatori e quindi abbiamo manifestato il proposito che gli interessi locali, nella nuova organizzazione dello Stato, siano rappresentati da individui specificamente scelti dai Consigli regionali.

Non credo che su questo punto vi sia dissenso in altri settori; perché numerosi rappresentanti di altri settori hanno accettato il principio della rappresentanza degli interessi territoriali. Quando si è discusso, nella Sottocommissione e nella Commissione dei settantacinque sulla opportunità che gli interessi locali fossero rappresentati, non solo siamo arrivati alla rappresentanza delle Regioni, ma vi è stata persino la proposta che la seconda Camera fosse nominata attraverso un sistema elettorale che ha la caratteristica precipua di esprimere gli interessi locali, quale è il sistema del collegio uninominale.

Non voglio attardarmi, ripeto, su questo punto, perché ritengo che l’Assemblea abbia ormai tutti gli elementi per potere prendere la sua decisione al riguardo, in modo che la formazione della seconda Camera rispecchi una differenziazione di espressioni popolari, che non sia identica alla manifestazione delle espressioni popolari, che si hanno nella formazione della prima Camera. Perché è fuori dubbio che, se ormai la maggioranza dell’Assemblea accetta il principio del bicameralismo, mi pare anche concorde nel ritenere che la seconda Camera debba essere diversa nella sua origine, nella sua formazione, dalla prima; altrimenti, noi avremmo un bis in idem, che non porterebbe nessun vantaggio nella elaborazione delle leggi e nella costituzione dei Governi.

Ora, avendo accettato il principio del bicameralismo, ci dobbiamo domandare se esso sia stato rispettato nel progetto di Costituzione.

Io ritengo che nel progetto vi sia una novità di gran peso politico, che merita di essere considerata attentamente: il funzionamento delle due Camere unite in Assemblea Nazionale, su cui voglio richiamare l’attenzione degli onorevoli colleghi.

Se voi esaminate attentamente il progetto, vi trovate di fronte non ad un semplice regolamento della riunione delle due Camere, ma di fronte alla creazione di una vera e propria terza Camera. Siamo di fronte ad una forma di unicameralismo, se non di tricameralismo. Ritengo che questa sia una deviazione dal sistema bicamerale e che questa deviazione vada corretta, per evitare che quest’Assemblea Nazionale si sostituisca e si sovrapponga al libero svolgimento dei lavori delle due Camere separate.

L’articolo 61, infatti, dice che «l’Assemblea Nazionale deve adottare un proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi membri». La Camera dei deputati e il Senato avranno un loro regolamento proprio, ma anche un regolamento proprio dovrà avere l’Assemblea Nazionale. È questo il dato di fatto più notevole che caratterizza ogni Assemblea organizzata.

La Presidenza di questa terza Assemblea da chi sarà tenuta? Lunga discussione vi è stata su questo punto nella seconda Sottocommissione, e l’articolo 60 ha stabilito che, a turno, la Presidenza dell’Assemblea Nazionale sarà tenuta ora dal Presidente della Camera dei deputati, ora dal Presidente della Camera dei senatori. Costituirà un proprio ufficio e la stessa Assemblea Nazionale, come le due Camere, potrà deliberare di riunirsi persino in Comitato segreto. Quindi vi sono, nelle disposizioni del progetto, delle norme che fanno apparire l’Assemblea Nazionale come una terza vera e ben distinta Assemblea.

Le sue funzioni sono molteplici e di diversa importanza. Per esempio, gravissima disposizione questa: che le funzioni del Presidente della Repubblica, quando non potranno essere esercitate direttamente dal Presidente stesso potranno essere esercitate dal Presidente dell’Assemblea Nazionale. Così, quando si debba procedere alla nomina del Presidente della Repubblica, tocca al Presidente dell’Assemblea di indire la convocazione delle Camere.

L’Assemblea Nazionale è dunque un organo di maggiore e più viva rilevanza di quel che non siano la Camera dei deputati ed il Senato stesso. Ma vi è ancora di più, vi è un delicato momento della vita politica del Parlamento nel quale si è voluto inserire l’intervento dell’Assemblea Nazionale. L’articolo 87 stabilisce che, una volta costituitosi un Governo, questo Governo deve presentarsi all’Assemblea Nazionale e «ottenere con voto nominale ed a maggioranza assoluta dei componenti» la fiducia dell’Assemblea stessa. L’articolo 88 poi completa e dilata questa disposizione, cioè stabilisce che, in seguito al voto di sfiducia dato da una Camera, se il Governo non intende dimettersi, può ricorrere in appello all’Assemblea Nazionale. Ora io ritengo che questo, dal punto di vista parlamentare e dal punto di vista politico, sia un grave errore che potrà portare gravi conseguenze di carattere politico. Non credo, onorevoli colleghi, che la stabilità del Governo possa realizzarsi con questo espediente giuridico.

Le crisi ministeriali, sono state frequenti in passato nel nostro Paese, ma sono state meno frequenti che in altri Paesi di carattere parlamentare, come la Francia. Si vorrebbe limitarle, e ciò è plausibile, ma non credo che si possa ciò ottenere con questo espediente, e far sì che un Governo, colpito da un voto di sfiducia di una Camera, possa rimarginare la ferita al suo prestigio col fare riunire tutte e due le Camere. È un’illusione, perché evidentemente, siccome Camera e Senato avranno posizioni numeriche di carattere completamente diverso, le loro deliberazioni unitarie, per quanto si voglia fare e stabilire, saranno sempre influenzate dalla prevalenza di quelle correnti politiche che si verificheranno in ogni Camera. Qualunque sia il modo di formare il Senato, rimane per me indubbio che il Senato, dal punto di vista politico, rispecchierà molto da vicino la distribuzione dei seggi della Camera dei deputati.

Ora, in questa situazione è evidente che anche andando davanti ad Un’Assemblea Nazionale, la maggioranza che si è stabilita per dare o negare la fiducia al Governo in una Camera non si modificherà gran che nella Assemblea Nazionale, anche senza rilevare che la prima Camera, che ha un numero di membri molto superiore alla seconda, avrà sempre la possibilità di prevalere. Si tratta quindi, a mio avviso, di un meccanismo inutile, che affatica il sistema parlamentare e lo svolgimento della vita politica del Paese, che non può trarre vantaggio dalle ripetizioni di discussioni che posso considerare in precedenza assolutamente inoperanti. Del resto, non si creda di poter creare la stabilità di Governo con degli espedienti di carattere giuridico costituzionale, o di carattere parlamentare. È bene certamente studiare i mezzi per impedire voti di sfiducia promossi di sorpresa. Nel decreto del 16 marzo 1946 è stato già stabilito che, presentata una mozione di sfiducia, questa non può essere discussa immediatamente, ma si lascia al Governo la facoltà di rispondere entro quarantotto ore, e occorre che la mozione stessa riporti la maggioranza assoluta dei suffragi dei componenti l’Assemblea. Questa disposizione si è dimostrata già efficace e opportuna, per la prima parte, come abbiamo tutti potuto constatare a proposito della mozione di sfiducia presentata dall’onorevole Nenni.

Ora, questo mi sembra sufficiente perché nelle Camere si possa impedire una discussione improvvisa che sfoci in un voto di sfiducia. Ma questa disposizione, che riguarda la nostra Assemblea Costituente, può essere riprodotta nel progetto di Costituzione, e potrà essere meglio precisata nei regolamenti delle rispettive Camere.

Del resto, egregi colleghi, il problema della stabilità del Governo non è un problema di carattere giuridico, ma è un problema di carattere politico. Da che cosa deriva questa instabilità del Governo? Deriva, secondo me, da due fenomeni.

Il primo fenomeno si riferisce alla composizione e, direi, al frazionamento dei partiti. Il frazionamento dei partiti non è un fenomeno che sia sorto a causa del sistema proporzionale, ma è la risultante – permettete che lo dica – della ineducazione politica in cui si trova il nostro Paese; tanto è vero che non si è ancora ben compreso che il sistema del Governo democratico si fonda su una maggioranza alla quale si oppone una minoranza che occorre rispettare con grande senso di responsabilità e di equilibrio, che i gruppi acquistano lentamente con la quotidiana esperienza delle esigenze parlamentari.

Ammesso anche che la proporzionale possa aver accentuato questo frazionamento, lo ha però accentuato in bene, perché ha consentito che ogni forma di ideologia o corrente politica possa avere la sua rappresentanza nel Parlamento. Manca inoltre, oggi, lo spirito per la formazione dei Governi, manca cioè lo spirito di coalizione fra i partiti. Perché questo spirito di coalizione dei partiti possa sorgere è necessario fare molti esperimenti, e non bisogna rammaricarsi troppo se della instabilità così detta dei Governi stiamo dando troppe prove. Certamente, con un sistema parlamentare veramente operante si potrà eliminare quello che accade oggi, che ogni tre mesi vi è bisogno di fare una nuova combinazione ministeriale. Questo dipende da un elemento straordinario, di carattere assolutamente eccezionale, che vi è nella disposizione di legge, con la quale si deferisce al Governo ogni potere legislativo.

Ora, il potere legislativo essendo quasi per intero nelle mani del Governo, è evidente che ciò provoca frequenti reazioni in coloro che non partecipano alla formazione delle leggi. Ma questa situazione non si potrà ripetere quando si sarà in un regime di normalità costituzionale, che si attuerà con la distinzione del potere esecutivo dal potere legislativo.

In passato questa distinzione era esattamente osservata. La divisione dei poteri, che si dice essere una teoria caduta, nel campo degli studi costituzionalisti, io credo che abbia ancora, nella pratica, la sua necessità di vita e di rispetto. Noi dobbiamo rispettare ed informare tutta l’attività collettiva politica a questo principio fondamentale: che il potere legislativo dove essere ben distinto, come diceva ieri l’onorevole Ambrosini, dal potere esecutivo. E se il potere legislativo informa di sé e domina per certi riflessi la situazione del potere esecutivo, ben distinte sono le loro funzioni. Il potere legislativo troverà sempre la possibilità di esprimere la sua volontà nell’esame, nelle reiezioni o nelle approvazioni dei disegni di legge e potrà così dare al potere esecutivo, anche in fatto di legislazione, una sua direttiva e una sua volontà.

Il secondo fatto che influisce sulla instabilità del Governo è indubbiamente quello degli uomini chiamati come capi partito o capi di maggioranze a formare il Governo.

Nella nostra storia parlamentare e politica si avverte facilmente che quando vi sono stati degli uomini forti, degli uomini di grande prestigio nazionale, allora la stabilità dei Governi si è avuta senza grandi difficoltà. Se voi aveste la volontà di verificare e studiare, come ho avuto occasione di fare in altri tempi, le crisi che si sono manifestate durante il periodo della vita di Cavour e della sua attività politica, potreste constatare che Cavour ha governato l’Italia (salvo interruzioni di breve durata, di pochi mesi, interruzioni atte a dare riposo a questo grande Capo di Governo) per oltre 9 anni.

De Pretis, altro uomo politico che dal 1876 detenne le sinistre di allora, ha governato il Paese per più di undici anni, salvo una breve interruzione dei tre Ministeri Cairoli, che nel complesso tennero il Governo per poco più di due anni.

Se venite poi vicino a noi, troverete che la presenza di Giolitti diede al nostro Paese una stabilità di Governo che nel suo complesso può essere considerato di 10 anni, con interruzioni intermedie di piccoli Ministeri; Ministeri, si diceva allora, di luogotenenza che durano ciascuno pochi mesi.

RUBILLI. Ma quegli uomini non rinascono. Bisogna adattarsi con quelli che ci sono e quindi trovare altri mezzi.

FUSCHINI. Non è detto che l’Italia sia talmente esaurita da non portare alla ribalta della vita parlamentare e politica uomini di valore. Bisogna dunque, a mio avviso, tener conto che la stabilità del Governo dipende anche da quegli uomini capaci ed avveduti che sappiano realizzare il consenso dei partiti e ottenere per il loro prestigio, per la loro autorità, per la loro capacità, la fiducia del Parlamento e del Paese.

Questi uomini non potranno non sorgere anche da questa Assemblea e dalle Camere che sorgeranno dopo l’approvazione della nuova Costituzione. Ci sono già virtualmente: capi dei partiti che saranno chiamati a diventare una volta o l’altra capi di maggioranze mediante la coalizione di partiti diversi.

Ed è a queste coalizioni che si dovrà dare assistenza e che bisognerà sorreggere con grande senso di responsabilità e lealtà da parte dei gruppi che le formeranno, non dimostrandosi troppo frettolosi nell’attendere i risultati che esse potranno dare. Non bisogna credere che in due o tre mesi possa essere attuato un programma, non bisogna credere che in poche settimane un Governo possa esprimere un indirizzo politico.

Non intendo fare critiche ad alcuno in questo istante; le mie modeste osservazioni tendono soltanto a dimostrare che la stabilità del Governo non dipende da disposizioni di regolamento parlamentare o da disposizioni della Costituzione, ma dipende, nel suo complesso, dall’educazione politica che sapranno dimostrare i partiti nella loro attività parlamentare.

Concludendo questa parte del mio breve discorso, mi sia lecito affermare che la creazione di un’Assemblea Nazionale quale terzo organo del nuovo Parlamento non è affatto necessaria e può presentare delle incognite che ne danneggeranno il regolare funzionamento.

Io quindi mi attengo, perché è l’esperienza che lo insegna, al puro sistema bicameralista, sicuro che questo bicameralismo potrà funzionare veramente da equilibratore della vita dello Stato, sia in senso politico, sia in senso sociale.

È necessario tener fermo questo sistema, anche perché il creare una terza Assemblea – come diceva ieri molto saggiamente l’onorevole Nitti – richiederà una sede, richiederà una presidenza, richiederà dei funzionari, richiederà delle spese; perché voi non potrete pretendere che tutta la sua organizzazione, tanto delicata, possa farsi o dalla Camera o dal Senato. Se deve essere una cosa distinta, deve avere anche la sua autonomia, dal punto di vista amministrativo e burocratico.

Si potrà però mantenerla – secondo il mio ordine del giorno – soltanto per la nomina del Presidente della Repubblica, qualora la Camera addivenga alla nomina del Presidente della Repubblica in forma parlamentare, anziché con elezione diretta da parte del popolo. Se dovessi dichiarare la mia personale preferenza a questo ultimo riguardo, dichiarerei di essere favorevole alla forma parlamentare della nomina del Presidente della Repubblica. Ma se la maggioranza volesse invece che la nomina del Presidente della Repubblica fosse decisa dal voto del popolo, io non oserò oppormi. È evidente allora che la necessità dell’Assemblea Nazionale per la nomina del Presidente della Repubblica non avrebbe più ragione di essere. E potrebbe cadere allora anche l’altro caso nel quale ho ammesso che l’Assemblea Nazionale possa essere utile nei momenti difficili e gravi, in cui la Patria venisse trascinata contro sua volontà, per situazioni internazionali, a dichiarare la guerra. In questo caso l’Assemblea Nazionale potrebbe essere chiamata, non dico a deliberare la dichiarazione di guerra, perché oggi, nella pratica, si è veduto che non vi sono più tali dichiarazioni, ma per stabilire quali debbano essere i poteri da conferirsi al Governo responsabile per il periodo della guerra.

Mi permetto di fare un’ultima osservazione ed ho finito. Abbiamo discusso molto se le due Camere debbano avere poteri identici o meno; io sono convinto a questo riguardo che occorra una gradazione la quale stabilisca che, in caso di conflitto per l’approvazione di una determinata legge o di una determinata deliberazione, fra la prima e la seconda Camera, la prevalenza spetti alla Camera che rappresenta gli interessi generali del Paese, come noi riteniamo e vogliamo che sia la Camera dei deputati.

La prevalenza della Camera dei deputati sul Senato trova la sua ragion d’essere nella realtà storica che ci ha accompagnato sin qui, nonostante che la situazione sia stata diversa: realtà storica che ci insegna che il Senato ha tenuto sempre verso la Camera dei deputati un atteggiamento riguardoso e condiscendente. Molte vie, d’altronde, vi saranno sempre per risolvere i conflitti e eliminare le frizioni che potranno sorgere fra le due Camere; ma deve in ogni modo essere affermato nella Costituzione il principio della prevalenza della prima Camera sulla seconda.

Siccome però in pari tempo si è inserito nel progetto di Costituzione l’appello al popolo attraverso il referendum, ritengo opportuno che ciò non sia dimenticato e perciò, proponendo una preminenza della prima Camera sulla seconda, ammetto che resti salvo sempre il ricorso al referendum.

Mi lusingo che queste mie proposte possano essere accolte da tutti i colleghi perché esse rispecchiano, a mio parere, l’interesse che tutti abbiamo al buon funzionamento del futuro Parlamento.

Onorevoli colleghi, lasciatemi formulare un augurio, quello cioè che la Costituzione che dovrà essere definitivamente conclusa, non oltre il 31 dicembre – ultimo limite della nostra capacità politica e giuridica – sia una Costituzione che possa garantire il rispetto della legge e il consolidamento della Repubblica. (Vivi applausi al centro – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Giolitti ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

considerato che la II Parte della Costituzione deve fondare un ordinamento della Repubblica tale da garantire la realizzazione del sistema di diritti e doveri sanciti nella I Parte e tale da sodisfare ai due requisiti essenziali della democraticità e della efficienza delle istituzioni parlamentari;

ritiene che la seconda Camera debba trarre origine dalla volontà direttamente espressa dall’intero corpo elettorale, secondo un sistema che permetta il miglior apprezzamento dei requisiti personali;

afferma che una seconda Camera di tipo corporativo sarebbe contraria allo sviluppo e al funzionamento delle istituzioni parlamentari in senso veramente democratico e moderno;

afferma altresì che una seconda Camera di tipo regionalistico si giustificherebbe solo ove le autonomie regionali avessero quel carattere federalistico che non è stato accolto nella Costituzione;

delibera che la seconda Camera venga eletta a suffragio universale col sistema uninominale e in base a determinati requisiti per l’elettorato passivo, tali però da non incidere sul carattere democratico della Camera stessa e da assicurarne la composizione più adeguata ai suoi fini».

Ha facoltà di svolgerlo.

GIOLITTI. Onorevoli colleghi, mi capita qualche volta – e penso sia capitato ad altri colleghi miei coetanei – di sentirmi dire: «Come, deputato, lei così giovane?». Quasi che in Parlamento sia sconveniente starci senza barba bianca. Orbene, mi pare che questa associazione di idee – conformista e conservatrice – tra Parlamento e barba bianca si sia insinuata anche in qualche parte del nostro progetto di Costituzione, perché, se esaminiamo questa sezione prima del Titolo primo della seconda parte del Progetto stesso, non vi riscontriamo il minimo sforzo di ringiovanire le nostre istituzioni parlamentari, di adeguarle cioè alla esigenze moderne della vita politica.

In sostanza, io credo che né il modo di formazione della seconda Camera né la natura dei suoi poteri, così come sono configurati nel progetto di Costituzione, valgano ad indicarci quella che è l’esigenza funzionale, in senso moderno, alla quale la seconda Camera deve rispondere. Dirò ancora di più: mi pare che il modo di composizione della seconda Camera, previsto in questi articoli 55 è 56 del progetto, non sodisfi neanche a quelle esigenze fondamentali di democraticità e di efficienza cui, a nostro avviso, devono rispondere le istituzioni nelle quali si concreta l’ordinamento della Repubblica.

Mi pare che queste due esigenze siano i criteri fondamentali in base ai quali noi dobbiamo giudicare questa seconda parte del progetto di Costituzione. È appunto per questa ragione, perché mi sembra che il progetto non sodisfi pienamente a queste esigenze che riteniamo essenziali, che ho presentato, anche a nome del mio Gruppo, l’ordine del giorno che mi propongo di illustrare con la massima concisione.

Come è noto, il mio partito in linea di principio è favorevole al sistema unicamerale, appunto perché lo ritiene più rispondente a quelle esigenze di democraticità e di efficienza di cui ho detto ora, e anche perché lo ritiene più rispondente a quelle che sono, direi, le premesse contenute nella prima parte, già approvata, della Costituzione. Perché io credo che nell’esame di questa seconda parte non dobbiamo mai perder di vista la prima parte che abbiamo già approvata, con la quale abbiamo garantito certi diritti; e qui ora, con l’ordinamento della Repubblica, dobbiamo fornire gli strumenti adeguati perché tali diritti possano trovare pratica realizzazione. Quindi nella critica del progetto di Costituzione – critiche che noi vogliamo evidentemente costruttive – deve esserci anche di guida questo criterio delia sua rispondenza alia prima parte della Costituzione già approvata.

Ora, nonostante quella nostra posizione di principio alla quale ho accennato, favorevole al sistema unicamerale, noi abbiamo accettato il sistema bicamerale, in quanto abbiamo ritenuto sostanzialmente valida, nelle condizioni attuali del nostro Paese, l’esigenza di una maggiore ponderazione nell’opera legislativa.

Meno valida, invece, riteniamo l’esigenza, diciamo così, regionalistica, alla quale, secondo alcuni, dovrebbe rispondere la seconda Camera, perché, a nostro avviso, essa si giustificherebbe solo ove le autonomie regionali avessero quel carattere federalistico che non è stato accolto nel progetto di Costituzione. Quantunque di diverso avviso si sia manifestato il collega Condorelli, di fatto il progetto di Costituzione – e fortunatamente, secondo noi – non ha accolto in nessuna misura un’impostazione federalistica delle autonomie regionali. E d’altra parte pensiamo che anche in pratica una base regionalistica per la composizione della seconda Camera varrebbe proprio in quanto si accetti in pieno il criterio federalistico; allora si avrebbe ragione di stabilire un numero fisso per Regione, e allora il sistema sarebbe semplice e praticamente di facile applicazione; mentre se noi cerchiamo di inserire e di conciliare questo sistema, questa base regionalistica nella composizione della seconda Camera, con altri requisiti, ne vien fuori quel miscuglio ibrido che troviamo formulato nell’articolo 55, dove poi, praticamente, il tentativo di dare una base regionale alla Camera dei senatori viene frustrato non foss’altro che da quella disposizione secondo la quale nessuna Regione può avere un numero di senatori maggiore del numero dei deputati.

Quella che noi nettamente respingiamo è l’idea di fare della seconda Camera una rappresentanza, diciamo, di tipo corporativo. La respingiamo non soltanto per l’impossibilità di una sua attuazione pratica, ma anche in mancanza (come ha del resto ammesso l’onorevole Piccioni) di un’anagrafe professionale e per il crescente numero di categorie professionali in relazione al continuo sviluppo della divisione del lavoro. E allora si vede che di fronte a queste difficoltà di attuazione pratica si ricorre a sistemi che poi non sodisfano completamente; queste idee, che possono anche apparire suggestive, non riescono a trovare pratica applicazione e soluzione. Quando si parla di questa rappresentanza di interessi di categoria, ci si muove in una sfera di concetti giuridici e politici che possono avere aspetti suggestivi e interessanti; ma quando scendiamo all’attuazione pratica, incontriamo difficoltà. E nessuno degli oratori che ha sostenuto questa tesi ha risposto alle obiezioni di carattere pratico.

Ora, noi non dubitiamo affatto della lealtà delle intenzioni di chi propugna questo sistema della rappresentanza d’interessi, ma vediamo che di fatto sotto quella proposta si può profilare il pericolo di un ritorno anche larvato a quella che era la Camera dei fasci e delle corporazioni. Non voglio, ripeto, avanzare alcun dubbio sulle intenzioni, ma formulare una critica sulle conseguenze di fatto che possono derivare dall’accettazione di una simile proposta; perché, di fatto, una rappresentanza degli interessi di categoria mi sembra non possa venire ad avere altro scopo che la difesa di determinati interessi, giacché tutti gli interessi di categoria, a nostro avviso, si trovano già rappresentati in forma politica nella prima Camera, attraverso i partiti, i quali, nella società in cui viviamo, sono i soli che possano tradurre sul piano politico nazionale e generale i particolari interessi economici, perché possono dare a questi una forma politica, che è quella che deve trovare espressione in una rappresentanza politica. Ché se invece si vogliono far valere solamente esigenze di carattere tecnico, allora si sia coerenti e si faccia di questa rappresentanza di interessi di categoria un corpo tecnico e non politico: se ne faccia un Consiglio della Repubblica, per esempio; ma se ha da essere un corpo politico, deve sodisfare a esigenze politiche e soprattutto deve dare forma politica agli interessi che rappresenta.

Ma non soltanto per queste ragioni noi siamo contro questa cosiddetta rappresentanza di interessi di categoria. Siamo contrari anche perché ci sembra che essa venga ad incrinare il principio fondamentale sancito nella nostra Costituzione, e in parte già approvato: il principio della sovranità popolare. Ci sembra che la determinazione delle categorie non potrebbe essere che arbitraria e artificiosa e tale appare proprio dagli argomenti con cui è stata sostenuta quella tesi. E così pure arbitraria sarebbe la determinazione dei limiti e delle modalità dell’elettorato attivo e passivo, a meno che si intenda rispettare rigorosamente la proporzione numerica delle diverse categorie. Ma anche qui è difficile in pratica mantenere questo rigoroso rispetto della proporzionalità numerica, e d’altra parte vediamo che in tutte le proposte che sono state fatte la proporzionalità numerica è stata sempre affiancata (per citare le espressioni dell’onorevole Piccioni) dal peso d’una maggiore responsabilità del lavoro qualificato. Quindi, c’è un certo dosaggio che si viene a fare fra il peso numerico delle categorie e il peso economico di certi interessi, dosaggio che non può essere altro che arbitrario e che, a nostro avviso, rischia di ledere la sovranità popolare. Perciò mi sembra che questa proposta della rappresentanza della seconda Camera non soddisfi all’esigenza di democraticità delle istituzioni parlamentari.

Mi sembra però anche che essa finisca col nuocere all’efficienza di queste istituzioni, perché la rappresentanza di interessi di categoria non offre in sé un principio di integrazione proprio, tale da superare la netta differenziazione fra i vari gruppi di interessi che in una rappresentanza di questo tipo vengono assunti nella loro immediatezza. E d’altra parte anche qui vi è una obbiezione pratica. Evidentemente un simile tipo di rappresentanza è inconciliabile o difficilmente conciliabile con il principio della decisione a maggioranza; ma l’applicazione del principio della decisione all’unanimità o dell’accordo delle categorie di volta in volta specificatamente interessate a ogni determinato problema trova grandi difficoltà di applicazione pratica.

Il fatto è, onorevoli colleghi, che a nostro avviso i gruppi professionali non possono sostituire né integrare i partiti. Sono i partiti, secondo noi, che viceversa permettono precisamente l’integrazione degli interessi di categoria e la loro mediazione con l’interesse generale.

Ma abbandoniamo il terreno della teoria e guardiamo all’esperienza. C’è stata una esperienza nel campo di queste Camere di tipo corporativo. Che cosa ci insegna a questo proposito l’esperienza più o meno recente? Io, appunto per non lasciare il minimo dubbio che possa sorgere da me un sospetto sulle buone intenzioni e sulla perfetta lealtà di coloro che hanno sostenuto questa tesi, voglio semplicemente rispondere citando le parole del Kelsen (dall’opera Vom Wesen und Wert der Demokratie). Il Kelsen, dopo aver criticato a fondo sul piano teorico la cosiddetta rappresentanza d’interessi, conclude in questi termini: «Non vi è da stupirsi che l’organizzazione corporativa non abbia servito che ad uno o a vari gruppi per stabilire il loro predominio sugli altri; cosicché è lecito presumere che la rivendicazione recentemente di nuovo formulata d’introdurre una organizzazione corporativa, non manifesta tanto il bisogno di una partecipazione organica di tutti i gruppi professionali alla formazione della volontà statale, quanto piuttosto la volontà di potenza di certi gruppi d’interessi ai quali la Costituzione democratica non sembra più offrire possibilità di successo politico. Non è degno di nota il fatto che una simile rappresentanza venga richiesta, nel campo borghese, proprio nel momento in cui si presenta la possibilità che il proletariato, finora minoranza, conquisti la maggioranza, e che il parlamentarismo democratico minacci di ritrovarsi contro quel gruppo al quale aveva finora assicurato il predominio politico?».

L’esigenza dunque che ci fa ritenere opportuna una seconda Camera è quella di una maggiore ponderazione e competenza nell’opera legislativa, tale da realizzare al tempo stesso una piena efficienza ed una assoluta democraticità dell’istituto parlamentare. In altri termini, a noi sembra che, se accogliendo il suggestivo ammonimento di Giorgio Washington, vogliamo predisporre quel piattino sul quale versare il thè troppo bollente che potrebbe prepararci la prima Camera, dobbiamo però evitare di incorrere nell’obbiezione di Beniamino Franklin, il quale citava l’esempio dei due cavalli che tirano in opposte direzioni. Ora mi sembra, come dicevo, che il progetto di Costituzione negli articoli che esaminiamo non sodisfi pienamente a siffatte esigenze. Perché? Quali sono le critiche che faccio a questa parte del progetto? Voglio fare anzitutto una osservazione. A me sembra che tutto quello che nelle norme regolanti la composizione dei poteri della seconda Camera non concorra a sodisfare le esigenze che ho prima indicato, costituisce sempre, in ultima analisi, il residuo di un altro movente – antidemocratico – che è all’origine storica della seconda Camera: porre un freno alla sovranità popolare, per un senso di sfiducia nel popolo, per salvaguardare le prerogative della monarchia o i privilegi di determinate classi o ceti, a seconda dei casi che si sono presentati nella storia; e credo che di questi residui il progetto ne contenga non pochi.

Altri colleghi hanno fatto una critica a fondo nell’articolo 55, che è appunto quello nel quale si compendiano tutte queste questioni. Ricordo le critiche dei colleghi Preti e Giacometti a proposito del limite di 25 anni per l’elettorato attivo, del numero fisso di senatori per regione, delle categorie di eleggibili, delle elezioni di secondo grado per due terzi dei senatori attraverso i Consigli regionali, e via dicendo. Evidentemente questo è un miscuglio di disposizioni riflettenti tendenze diverse spesso contrastanti. Ho sentito, a proposito di questo articolo 55, il collega Codacci Pisanelli dire che in questo modo si verrebbe a riprodurre nella seconda Camera la composizione politica della prima. Mi permetta il collega di osservargli che così egli dimostra di voler battere ancora quella strada di cui il Lees-Smith, nella sua classica opera sulle seconde Camere, ha da tempo mostrato l’errore, la strada per cui si vorrebbe sottrarre la seconda Camera all’influenza dei partiti, quasi a farne uno strumento per costringere la prima Camera a una maggiore aderenza a quello che si pretende essere, al di fuori dei partiti, lo stato d’animo dell’opinione pubblica. Ora, qui mi pare che siamo di fronte al solito misconoscimento dei partiti, della funzione democratica dei partiti. Così ci si inoltra in un vicolo cieco, perché la strada giusta e realistica è un’altra: riconoscere la funzione democratica ed ineliminabile che i partiti hanno assunto nella vita politica moderna; e su questa base del riconoscimento della funzione essenziale dei partiti affrontare realisticamente il problema della seconda Camera perché essa risponda, appunto, alle esigenze di una moderna democrazia parlamentare. Anzi, per noi, il fatto che la composizione politica della seconda Camera venga a corrispondere a quella della prima costituisce un pregio e non un difetto, perché questo significa che la seconda Camera corrisponde evidentemente a quella che è la volontà popolare che si esprime nella forma più diretta, attraverso il suffragio universale nell’elezione dei membri della prima Camera. Noi critichiamo il progetto proprio perché ci sembra non conduca a un tale risultato, risultato che del resto gli studi e le esperienze più recenti dimostrano essere un presupposto essenziale. Così, per esempio, nella Costituzione norvegese che ha dato ottima prova da oltre centotrenta anni; così nella famosa Conferenza Bryce del 1917, per la riforma della Camera Alta in Inghilterra, dove si proponeva che i membri della seconda Camera venissero scelti dalla prima proprio per garantire questa, se non identità, per lo meno corrispondenza di conformazione politica fra le due Camere. Non so perché la seconda Sottocommissione non abbia considerato più attentamente queste soluzioni, che hanno carattere molto moderno e pratico.

Non è ora il momento di riproporre soluzioni di questo genere, che ci farebbero risalire molto indietro nella discussione. La proposta concreta, intorno alla quale si è orientato il mio Gruppo, è precisamente quella formulata nel mio ordine del giorno: elezione della seconda Camera a suffragio universale col sistema uninominale, in base a determinati requisiti di eleggibilità, riprendendo la proposta avanzata, in sede di Sottocommissione, dall’onorevole Grassi, mi pare. Del resto, una proposta di questo tipo si avvicina molto all’idea fondamentale espressa da Cavour nel suo scritto, del 1848, sulla riforma del Senato, dove egli proponeva appunto che il Senato derivasse da una elezione popolare, ma non identica nel modo a quella della prima Camera.

A nostro avviso, il sistema uninominale consente una scelta secondo le qualità, le attitudini e le competenze personali; inoltre, consente di mantenere un più stretto legame fra eletto e interessi locali degli elettori. Ci sembra, quindi, rispondere, per questi aspetti, alle esigenze cui riteniamo debba rispondere la composizione di una seconda Camera democratica ed efficiente.

Il suffragio universale è anche esso, evidentemente, una condizione assoluta non solo di democraticità, ma di efficienza; perché il ricorso al suffragio universale per la elezione della seconda Camera ne garantisce la composizione corrispondente a quella della prima ed elimina o riduce le cause di eventuale conflitto tra le due Camere. D’altronde, solo nel caso di elezione a suffragio universale è ammissibile un conflitto inter pares tra le due Camere; perché, se la seconda Camera non derivasse dal suffragio universale, un eventuale conflitto non potrebbe non essere risolto, a priori, a vantaggio della prima Camera. Nel caso di divergenza fra due Camere, che traggano origine diversa per la diversa composizione del corpo elettorale, il conflitto può diventare grave e insanabile intorno a questioni politiche fondamentali. L’onorevole Einaudi, nella seconda Sottocommissione, volle dimostrare i vantaggi di conflitti tra le due Camere, anche frequenti. Se in linea teorica questa tesi può essere suggestiva, ritengo che, di fronte ai problemi urgenti e gravi che si porranno al Parlamento italiano, si rischi, a lasciar fermentare i germi di possibili conflitti, di scardinare l’istituto parlamentare e di evocare l’azione diretta. Allora, altro che esigenze di ponderazione e di riflessione nella formazione delle leggi! Se non garantiamo la massima efficienza dell’istituto parlamentare, rischiamo veramente di far prendere la decisione dalla piazza. Ed in certi casi questo rischio potrebbe verificarsi ove accettassimo l’ipotesi del referendum, come soluzione di eventuali conflitti.

Dunque, la elezione a suffragio universale della seconda Camera è anche questione di efficienza, ed essa non incide per nulla sulla funzione essenziale della seconda Camera che è quella di obbligare la prima Camera ad un riesame del disegno di legge secondo emendamenti e proposte conformi ai principî fondamentali ai quali si ispira la legge stessa, e non alla rinuncia a quelle finalità politiche essenziali, perché questo rivelerebbe un contrasto politico fondamentale, inammissibile, perché sostanzialmente contradittorio alla unicità della fonte dalla quale le due Camere traggono origine e forza.

Onorevoli colleghi! Si parla molto di crisi dello Stato moderno ed anche da noi, in Italia, si sente sposso lamentare la decadenza del senso dello Stato. È certo che il delicato sistema dell’equilibrio dei poteri sul quale i regimi parlamentari da oltre un secolo e mezzo si sono poggiati, ha spesso scricchiolato sotto il peso di nuovi problemi, quali lo sviluppo tecnico della vita moderna, la formazione dei monopoli capitalistici, l’avvento delle masse nella vita politica e, di conseguenza, la formazione dei grandi partiti democratici: le istituzioni parlamentari hanno subìto la prova più dura di fronte a questi compiti nuovi. Già dalla metà del secolo XIX si trovano i segni del discredito dei Parlamenti in seno all’opinione pubblica. Tutti abbiamo visto come l’aumentata potenza della stampa, il peso dei congressi dei partiti e delle grandi organizzazioni di massa abbiano diminuito l’autorità e il prestigio del Parlamento. Ora, se nella nuova Costituzione vogliamo gettare le basi di una moderna repubblica democratica in Italia, dobbiamo anzitutto preoccuparci di rafforzare il Parlamento e di innalzarne l’autorità e il prestigio. Come possiamo assolvere a questo compito? Limitando forse quelle altre libertà e forme di espressione, di associazione e di rappresentanza? Ma questo sarebbe antidemocratico ed in contrasto col progredire stesso della storia. Dobbiamo proporci di dar vita ad un Parlamento veramente democratico ed efficiente. Questa è la via da seguire. Questo del Parlamento è precisamente, secondo me, il banco di prova della nuova Costituzione. Per questo dobbiamo mettere da parte gli interessi di partito, di classe e di ceto, perché qui sono in giuoco gli interessi stessi e le sorti della democrazia parlamentare. Ci pensino coloro che se ne proclamano i più strenui fautori. Noi non consideriamo la democrazia parlamentare come l’ultima e perfetta forma di democrazia, tuttavia la riteniamo la più adeguata alle condizioni attuali del nostro Paese. Questa democrazia parlamentare noi vogliamo rafforzare in Italia, ed a questo precisamente tende l’ordine del giorno che ho svolto e che ho presentato anche a nome del mio Gruppo. Tutte le nostre proposte tendono sinceramente e lealmente a questo scopo: edificare in Italia una solida, moderna, progressiva Repubblica democratica parlamentare. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Corbi ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

considerato che la procedura prevista nel progetto di Costituzione per la formazione delle leggi comporta necessariamente ritardi e conflitti pregiudizievoli al buon esercizio della funzione legislativa, ritiene:

1°) che i conflitti delle due Camere debbano essere limitati e risolti nell’ambito del Parlamento, con la prevalenza del voto della prima Camera;

2°) che la procedura prevista per la formazione delle leggi sia opportunamente modificata in modo da assicurare la tempestività e certezza della norma».

Ha facoltà di svolgerlo.

CORBI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il mio ordine del giorno è stato originato dalla preoccupazione che i cittadini italiani, leggendo la nuova Costituzione, non abbiano a ripetersi ancora una volta: fatta la legge, trovato l’inganno. Perché potrebbe avvalorarsi il sospetto legittimo che la prima parte della Costituzione, che contiene indubbiamente innovazioni profonde nel campo sociale, economico e politico della nostra vita nazionale, voglia poi essere praticamente elusa con la seconda parte; in quanto che gli organi che dovrebbero assicurare la realizzazione di queste innovazioni e i progressi fatti in campo costituzionale non li permettano, non li rendano possibili.

Ed altra preoccupazione mia è quella che lo stesso istituto parlamentare tragga discredito dal fatto che la sua funzionalità e la sua efficienza sono compromesse da un sistema macchinoso, qualche volta confuso, ove i poteri che si dànno all’una e all’altra Camera non sono sempre fissati per accelerare il processo legislativo e per emettere norme chiare e che abbiano efficacia tempestiva.

Quale era il compito dei Settantacinque? Indubbiamente era quello di darci uno strumento legislativo rispondente alle esigenze di uno Stato moderno, il quale si caratterizza appunto per la sua nuova socialità, per il potenziamento dello Stato e per le nuove attribuzioni del potere legislativo.

È certo che oggi uno Stato moderno deve adempiere a compiti ed a funzioni molto più gravosi di quelli di un secolo fa, all’inizio, cioè, dei regimi, parlamentari. Oggi il potere esecutivo ed il potere legislativo devono preoccuparsi di cose che prima invece erano affidate al fruttuoso dinamismo di una classe dirigente la quale aveva di fronte a sé grandi possibilità, ma che oggi invece, per ragioni che sono nelle cose, non è più in condizione di poter garantire lo sviluppo democratico e progressivo della vita sociale; per cui è necessario che intervenga lo Stato a coordinare, regolare e disciplinare. Lo vediamo ogni giorno: per il carovita, per i braccianti, per i metallurgici, ecc.

Nuovi e maggiori sono quindi i compiti di uno Stato moderno, e, per corrispondere alle esigenze dei tempi, il Parlamento deve essere un organo il quale possa efficacemente, tempestivamente dare norme che regolino la vita in tutti i campi.

In sostanza, noi avevamo bisogno di un ordinamento dello Stato che fosse il più democratico ed efficiente, e tale cioè che non pregiudicasse o non potesse mai, in qualsiasi modo, venire a ledere o a compromettere quei principî che erano stati già stabiliti nella prima parte di questa Costituzione.

Risponde il progetto in esame alla esigenza esposta? Non sembra. Io ho avuto l’impressione, leggendo la seconda parte della Costituzione, che vi siano delle incongruenze, qualche volta perfino dei paradossi, ed anche qualche innocente finzione. Vi sono articoli che minacciano di appesantire tutta l’attività legislativa, per cui si corre il rischio che nessuna legge sia possibile rendere esecutiva. E credo che ciò sia dovuto al fatto che si è voluto appiccicare al vecchio il nuovo, perché il vecchio e il nuovo non hanno trovato la necessaria armonizzazione; perché, come diceva poco fa il collega Giolitti, si è avuta sempre la preoccupazione di garantire gli interessi di alcune classi con danno del popolo.

Anche quando si parla di referendum e si mostra affanno nel ricercare qualcosa che possa far dire che questa Costituzione è Costituzione moderna e democratica; poiché l’intenzione è tradita dagli attributi dati alla seconda Camera, dalla procedura che si suggerisce per la formulazione delle leggi. In un certo punto si parla di iniziativa popolare. È questa una di quelle innocenti finzioni di cui prima parlavo ma contro di essa non lancerò nessuno strale. Lasciamo pure in questo testo costituzionale quella parte dell’articolo 68 che suona così: «Il popolo ha sempre l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno 50.000 elettori, di un disegno redatto in articoli». È proprio indispensabile? Serve a qualche cosa? Io non credo. Non credo perché ci sarà sempre un deputato che, forse ai soli fini elettorali, arriverà prima di 50.000 elettori a proporre un disegno di legge. Ad ogni modo non è questo il difetto grave della Costituzione; perciò, ripeto, lasciamo stare. Ma ci sono ben altre innocenze. Innocenze? Il referendum! Io premetto di non essere un avversario dichiarato del referendum, anzi credo che il referendum possa essere uno strumento utile quando se ne fa un uso parsimonioso, il che però non mi sembra avvenga secondo quanto è proposto nel progetto.

Esaminiamo un po’ quale dovrebbe essere il curriculum di un disegno di legge secondo la procedura prevista. Temo che si possa arrivare ad un assurdo: che in cinque anni (dico un paradosso) nessuna legge esca dal Parlamento italiano. Perché? Supponiamo, colleghi, che un deputato e un senatore propongano un disegno di legge. I due disegni di legge vertono sulla stessa materia, ma differiscono in qualche cosa: nella sostanza o in altro. Ebbene, le due Camere si riuniranno ciascuna per conto proprio per discutere, formulare, rendere la legge completa nei suoi articoli; e passeranno (siamo generosi), se si tratterà di una legge importante, con tutto l’altro lavoro che vi sarà da fare, due mesi per l’esame in sede di Commissione; perché ormai l’esperienza ci dimostra che c’è bisogno di tempo quando si tratta di leggi anche non molto importanti e decisive.

A un determinato momento le due leggi, pronte, verranno portate in discussione e si dovrà pure esaminare quali di queste due leggi debba avere la precedenza o se sia possibile fonderle in una per rivolgere l’esame delle due Camere su uno solo di questi disegni di legge. E può passare (e voglio essere generoso) un mese per le trattative che ci saranno tra le due Camere e per la discussione che ne seguirà. Ad un certo momento si raggiunge l’accordo e uno dei due disegni di legge, supponiamo quello della prima Camera, va all’esame della seconda Camera. Può verificarsi benissimo il fatto previsto dal testo della Costituzione: e cioè che la seconda Camera lasci passare tre mesi e non risponda.

Allora il Presidente della Repubblica chiederà alla seconda Camera che si pronunzi. Passeranno due mesi e, se la seconda Camera non sarà del parere della prima, si avranno due posizioni diverse, quella della prima e quella della seconda Camera.

In questo caso cosa accadrà? Il Presidente della Repubblica ha il diritto di indire il referendum, ma può anche non pronunciarsi, perché l’articolo 70 dice che il Presidente ha facoltà di indire il referendum, ma non vi è tenuto a rigore di termini. Quindi, il Presidente della Repubblica non si pronuncia e questa legge rimane sospesa. Oppure, il Presidente indice il referendum. Il referendum, allora, richiederà – non voglio dire molto – almeno tre mesi, per la preparazione tecnica necessaria e per i comizi, nei quali tutti i partiti vorranno dire la propria. Il referendum si fa e respinge la legge. Sono passati quindi dieci mesi e ancora la legge non si è fatta; dieci mesi, ma possono essere anche più.

Facciamo ora il caso più favorevole: che la legge si faccia, perché le due Camere si trovano d’accordo. Però accade (è un caso che può molto facilmente verificarsi) che questa legge non venga approvata con la maggioranza dei due terzi, ed allora 50 mila elettori sono in diritto di chiedere il referendum. Si fa il referendum, che decide per il sì o per il no; ma questo referendum, a sua volta, non è valido perché ad esso non hanno preso parte i due quinti degli elettori.

Mi sembra che si possa davvero concludere che questo è il sistema per non fare le leggi.

Io riscontro queste manchevolezze ed addebito queste gravi deficienze all’ordinamento che si è voluto dare all’istituto parlamentare, al volere la seconda Camera dotata di certi poteri. Non dirò qui nessuna parola per dimostrare non solo la inutilità del Senato, ma anche la ingiustificata insistenza con la quale lo si richiede.

Altri oratori hanno avuto occasione di parlare prima di me contro l’istituzione della seconda Camera, ed io mi rimetto a quanto essi hanno detto. Ma ormai – diciamocelo francamente – la seconda Camera è cosa scontata. Anzi, posso dire che qualche argomentazione ha convinto anche noi sulla utilità che oggi in Italia, per la situazione particolare che attraversiamo – dopo tanti anni ci siamo reincamminati sulla strada della democrazia e perciò dobbiamo procedere attentamente, con molto giudizio – la seconda Camera possa avere una funzione utile; però facciamo in modo che questa seconda Camera sia veramente utile, che non sia di intralcio. Perché non adottiamo il sistema approvato dalla Costituente francese? Voi sapete come questo sistema sia chiaro, sia lineare, e soprattutto come esso consenta una spedita opera legislativa. Con questo sistema, su cui non vorrò dilungarmi perché ciascun collega ben lo conosce, avviene che le Camere hanno ambedue il diritto di iniziativa; ma quando sorgono conflitti, qualora la seconda Camera, ad esempio, sia in disaccordo con la prima, la legge ritorna alla prima Camera e questa, in seconda lettura, ove confermi a maggioranza assoluta il suo primo parere, determina l’esecutività della legge, la quale diviene così operante.

Si tratta, in sostanza, di quanto diceva poc’anzi l’onorevole Fuschini, ed io accetto pienamente questa parte del suo ordine del giorno perché io apprezzo lo sforzo che egli fa perché le due Camere non vengano configurate in modo da annullarsi vicendevolmente nel loro compito.

Ed inoltre, una volta adottata la seconda Camera, si cerchi di farla funzionare secondo criteri più pratici, direi, ed anche più moderni. Per qual motivo, ad esempio, l’approvazione dei bilanci deve essere materia demandata alla seconda Camera? Ma non è questa competenza specifica della prima Camera e soltanto di essa? Non è questa forse la giustificazione storica dell’assemblea elettiva della Camera dei deputati? È questa, del resto, prerogativa esclusiva della prima Camera in varie Costituzioni: nella francese, nell’argentina, nella canadese, nella jugoslava, nella polacca e in quelle di vari altri Paesi.

Si convenga che la materia finanziaria è la chiave del potere esecutivo e che è la prima Camera quella che rispecchia meglio le esigenze del Paese. Per la possibilità che hanno i componenti della prima Camera di avvertire le reali esigenze del Paese nella contingenza del momento politico, per la stessa vita che i suoi membri conducono a contatto diretto con gli operai, con i contadini, con gli impiegati, ecc., la Camera dei deputati meglio risponde allo scopo.

Così dicasi per quanto riguarda l’amnistia, fatto squisitamente politico, che indubbiamente la prima Camera può meglio giudicare, e per il diritto di inchiesta; così per la fiducia al Governo, ad evitare, in questo caso, quei facili conflitti che possono verificarsi.

Io ho citato, onorevoli colleghi, alcuni casi in cui indubbiamente la prima Camera ha senz’altro, direi, non dei diritti, ma dei doveri maggiori che non la seconda nei confronti del Paese e del Governo. Altre circostanze poi possono sorgere numerosissime, e per questo appunto è utile e necessario adottare quanto proponeva poc’anzi l’onorevole Fuschini, che cioè, in ciascun caso, ove sorgano conflitti fra le due Camere, sia in definitiva la prima quella che decide.

E mi consenta l’onorevole Presidente di dire ancora qualche cosa sull’istituto del referendum. Io ne ho sentito qui fare i più grandi elogi; ho sentito dall’onorevole Preti che il referendum è una garanzia democratica, è un correttivo dello strapotere dei partiti, equivale alla democrazia diretta. Sono d’accordo in gran parte, ma solo in parte, perché il referendum, se non è bene utilizzato, può diventare un espediente ostruzionistico con maschera democratica. L’articolo 72 ce lo conferma. E quell’esempio che poco fa io avevo fatto della povera e grama vita che dovrebbe fare un disegno di legge per vedersi bocciato dopo tanto tempo di travagliato cammino, sta a dimostrare proprio che il referendum può servire a tutti coloro i quali hanno interesse acché una legge fondamentale – la riforma agraria, ad esempio – non abbia a passare mai; una legge sulla nazionalizzazione delle industrie o delle banche non possa venire in Italia, come invece viene in Inghilterra.

Con questo articolo 72, poi, si dà un potere enorme ai grandi partiti, ai partiti di massa – e sono io a dirlo, membro di un partito di massa – perché i grandi partiti saranno arbitri della situazione. Sarà facile per un grande partito riuscire ad ottenere le firme necessarie per far indire il referendum ogni qual volta ad esso parrà. E, d’altra parte, sarà difficile che una legge possa passare a maggioranza di due terzi, o, meglio, possono darsi molti casi in cui questa esigenza non venga soddisfatta. E allora le leggi, per quanto bene elaborate, per quanto studiate, ponderate, non diverranno esecutive. E poi, non notate una incongruenza? Si vuole la seconda Camera come un organo di maggiore riflessione e di maggiore competenza; però, ad un certo momento, ci si dimentica assolutamente di questa maggiore competenza, di questa riflessione, e allora l’esito di tutto un lungo dibattito dipenderà non dallo studio, dalla riflessione, dal senso di responsabilità dei legislatori, ma dal partito il quale è più attrezzato dal punto di vista della propaganda, dei mezzi, e che potrà nel Paese con facilità anche prospettare una legge per quello che non è, interpretare una legge come non dovrebbe essere interpretata: in altri termini, si rende possibile ingannare così gli elettori, perché ci si può servire anche della peggiore demagogia nell’illustrare una legge alle popolazioni che debbono pronunciarsi con un referendum.

L’esito di un referendum non sarebbe, quindi, altro che la volontà dei partiti più forti, i quali possono imporre, per i mezzi, per la forza che hanno, la loro volontà al Paese. Pensino a questo quei deputati che appartengono ai partiti delle minoranze: le minoranze non avrebbero più nessuna funzione nella vita parlamentare se non quella di protestare; ma le proteste non fruttano molto.

E ancora vorrei dire – per rispondere all’onorevole Preti – che il referendum non è la democrazia diretta, perché la democrazia diretta ha proprie istanze, una propria prassi, è qualcosa che si svolge, si articola, si forma in una maniera completamente diversa. Dico queste cose, perché non si confonda il referendum con la democrazia diretta, che noi rivendichiamo e ci poniamo come obiettivo da raggiungere.

E, infine, del referendum si vuole dire che è un correttivo – per taluni sarebbe un correttivo – dello strapotere dei partiti.

Ma questo ormai non si ammette più, non può essere più ritenuto valido questo argomento oggi!

E vi cito le parole – non sono parole mie, ma parole di un uomo che certo non poteva essere tacciato di simpatie per le sinistre – vi cito le parole di Garlanda, deputato e giornalista, che scriveva: «Gli Italiani non hanno ancora capito che Governo parlamentare vuol dire Governo di partito. Essi non si sono ancora resi conto che tutti quelli che vogliono che un certo numero di idee prevalgano nel Governo del loro paese, devono iscriversi ad un partito che si faccia propugnatore di quelle idee».

Mi sembra che queste parole possano oggi utilmente ripetersi. Ed è certo che i partiti sono oggi la rappresentanza più autorevole e qualificata, sono una realtà della nostra vita democratica; e parlare di strapotere dei partiti significa parlare di strapotere della democrazia, perciò credo, in ultima analisi, sia un non senso parlare di strapotere dei partiti in regime democratico. E sono convinto che se in Italia noi avessimo avuto anche nei vecchi Parlamenti, anche nei primi Parlamenti dello Stato italiano, dei partiti con chiara fisonomia e con chiari programmi, non avremmo assistito a quel trasformismo parlamentare che è tanto nociuto al Paese e che, anche se involontariamente, ha aperto la strada a quel regime che oggi, in questa Costituzione, noi vogliamo condannare.

Infine, il referendum – così come è previsto in questo testo costituzionale – può venire a turbare l’unità dell’indirizzo politico ed a paralizzare di conseguenza l’azione governativa e parlamentare. Si pensi che un Governo può veder passare una legge, la quale è condizione di altre leggi, ma che, rimanendo sola, avulsa da quelle altre che dovrebbero invece essere approvate, non ha ragione di essere: ragion per cui il Governo si troverebbe ad un certo momento nella impossibilità di assolvere il suo programma e le sue funzioni.

Voglio richiamare la vostra attenzione, onorevoli colleghi, su questo fatto: il referendum può scavare solchi profondi fra Regione e Regione, specialmente quando una legge riguardi questioni economiche, quando cioè una legge può favorire gli interessi industriali di alcune Regioni d’Italia ma può pregiudicare gli interessi di altre Regioni che hanno una economia diversa. E allora noi assisteremmo ad una lotta spietata fra Regione e Regione, perché, se la legge, nel quadro generale dell’economia nazionale, è buona e giusta, perché il legislatore la vede con più lontana prospettiva, però, colui che è chiamato a decidere immediatamente, e non ha possibilità né capacità di un più ampio giudizio, può dare un voto dettato non dagli interessi nazionali ma da motivi immediati e contingenti, con grave danno di tutto il Paese.

Dunque il referendum può diventare una arma pericolosa e nociva.

Io non so quanto ci sia di vero e non faccio mio quanto ha pubblicato un giornale che ho qui; è stato scritto e pubblicato di una certa circolare vaticana, del febbraio di quest’anno.

PRESIDENTE. Onorevole Corbi, devo avvertirla che ella ha ormai superato i limiti di tempo consentiti per lo svolgimento degli ordini del giorno.

CORBI. Sarò brevissimo. Del resto la citazione che devo fare è breve.

UBERTI. Da dove l’ha presa?

CORBI. Lei potrà poi anche smentire.

PRESIDENTE. Onorevole Corbi, continui a parlare; le raccomando però la brevità.

CORBI. La circolare suona così: «In linea di massima il progetto risponde sufficientemente allo spirito cristiano; tuttavia potrebbero verificarsi situazioni di fronte alle quali si impone una tempestiva presa di posizione. Non mancherà il centro di seguire gli avvenimenti, pronto a lanciare l’appello alla periferia per quelle manifestazioni di consenso di massa necessarie in regime democratico per suffragare la legittimità delle richieste. Occorre al riguardo predisporre alla periferia opportuni apparati per l’organizzazione tempestiva di liberi referendum».

UBERTI. Ma da dove l’ha presa?

PRESIDENTE. Onorevole Uberti, non interrompa.

CORBI. Onorevole Uberti, è forse stato lei a redigerla come uomo di Azione cattolica? Parla per fatto personale?

Che cosa potrebbe accadere se questa circolare fosse vera? Che uno Stato straniero deciderebbe delle leggi che in Italia si possono e non si possono fare. Questa è la conseguenza di quanto ho letto. (Commenti).

Poiché, onorevole Presidente, ella è stata già generosa nel concedermi qualche minuto in più, con grande rincrescimento dell’onorevole Uberti, la pace del quale non voglio più turbare, concludo dicendo che ho ascoltato con interesse quanto ha detto l’onorevole Condorelli quando ha parlato della necessità di assicurare al Parlamento una funzionalità più sicura di quanto questo progetto preveda.

Io mi auguro che l’articolo 69 nei successivi ordinamenti interni del Parlamento venga applicato e che le Commissioni (si studierà poi come farle funzionare) abbiano effettivamente maggiori poteri onde assicurare una maggiore possibilità nel legiferare e riparare a quegli inconvenienti che notiamo in questa Assemblea Costituente, dove si è in troppi a discutere e dove spesso, come accade in questo caso, vi sono anche deputati i quali si fanno richiamare dal Presidente per aver superato i limiti di tempo consentili. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani.

Interrogazione e interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Pratolongo e Scoccimarro hanno presentato la seguente interrogazione con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti siano stati presi o si intenda prendere per garantire le istituzioni democratiche e le libertà dei cittadini nella provincia di Gorizia contro le aggressioni e violenze scatenate da provocatori nazionalisti e fascisti a danno di italiani e sloveni e delle organizzazioni democratiche; e per l’arresto e la punizione dei responsabili dei gravi fatti accaduti nei giorni scorsi».

Interesserò i Ministri interrogati affinché facciano sapere, possibilmente domani, quando intendano rispondere.

È stata presentata la seguente interpellanza con richiesta di svolgimento urgente:

«Al Ministro della pubblica istruzione, per conoscere i motivi che lo hanno indotto:

  1. a) a riservare ai maestri elementari provvisori reduci, combattenti ecc., un numero di posti inferiore a quello accantonato per legge in seguito al concorso del 1942, e a non riservare agli stessi la metà dei posti resisi disponibili dal 6 gennaio 1942 fino al 15 aprile 1946, data della legale cessazione dello stato di guerra;
  2. b) a non avvalersi della facoltà concessagli dall’articolo 7 del decreto legislativo 26 marzo 1946, n. 141, che gli consentiva l’assegnazione dei posti riservati mediante concorso per soli titoli fino al 31 dicembre 1946;
  3. c) a riservare agli insegnanti medi combattenti, reduci, ecc., un numero di posti inferiore di ben 736 a quello dei posti accantonati nei concorsi di cui ai decreti ministeriali 18 febbraio 1941 e 28 dicembre 1942, senza peraltro mettere a concorso la metà dei posti resisi vacanti dal 1942 al 1947;
  4. d) per sapere, infine, se non creda opportuno rielaborare il bando di concorso pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 158 del 14 luglio 1947, accogliendo le richieste degli insegnanti elementari e medi reduci, combattenti, ecc., contenute nell’ordine del giorno votato dal Congresso del giugno del corrente anno.

«Pignatari, Longhena, Caporali, Carboni, Vigorelli, Villani, Persico, Reale, Crispo, Filippini, Preti, Lami Starnuti, Zanardi, Paris».

Interesserò il Ministro della pubblica istruzione affinché voglia far conoscere, possibilmente entro domani, quando intenda rispondere a questa interpellanza.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

DE VITA, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se non ritenga giusto equiparare le case coloniche a quelle dei centri urbani ai fini del contributo statale per danni bellici. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mazzei».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere quale è lo stato attuale dei servizi sanitari della Sicilia e per conoscere i motivi per i quali, dopo ben quattro anni dalla liberazione dell’Isola, non si sia provveduto a regolarizzare, con l’invio di un medico provinciale di ruolo, la direzione dei servizi sanitari della provincia di Catania, che risulta ancora nelle mani di un incaricato provvisorio ed estraneo all’Amministrazione sanitaria.

Chiede altresì di conoscere se è vero e da chi e per quali motivi venne impedito di prendere possesso dell’Ufficio provinciale di sanità pubblica di Catania, al dottor Giuseppe Musumarra, medico provinciale di ruolo, ivi destinato con ordinanza del 1° marzo 1944 del Ministero dell’interno. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sapienza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere quali motivi abbiano indotto i Ministri competenti all’esonero della ricchezza mobile C-2 e complementare sui redditi di lavoro, soltanto per gli impiegati statali, escludendo dal beneficio la restante parte dei lavoratori che costituisce la maggioranza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sapienza».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dei lavori pubblici e del tesoro, per conoscere se non credano di concerto procedere all’emanazione di un decreto che preveda, in analogia a quanto è stato fatto da parte del Ministro delle poste e delle telecomunicazioni per la estensione della rete telefonica, un fondo speciale, eventualmente da ripartirsi in più esercizi finanziari, per provvedere all’impianto di illuminazione elettrica nei comuni (o nelle borgate superiori a 1000 abitanti) che ne sono sforniti e che non hanno risorse economiche tali da poter direttamente finanziare i relativi lavori.

«Il provvedimento, che si impone in una Nazione civile, nell’anno di grazia 1947, e che non avrebbe in realtà bisogno di sostenitori, potrebbe, a differenza del decreto 30 giugno 1947, n. 783, sulla rete telefonica, estendersi a tutto il Paese senza limitarlo all’Italia meridionale. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta),

«Sullo, Lettieri, Giordani, Mazza, Mattarella, Castelli Avolio, Codacci Pisanelli, BUBBIO, CASSIANI, Trimarchi, De Caro Gerardo, Galati, Rodinò Ugo».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno trasmesse ai Ministri competenti per la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.54.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e revisione annuale delle liste elettorali. (16).

Alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.