Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 7 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

cxv.

SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 7 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Della Seta                                                                                                       

Taviani                                                                                                             

Di Vittorio                                                                                                       

Merighi                                                                                                             

Spallicci                                                                                                          

Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione                                                 

Cairo                                                                                                                

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Pella, Sottosegretario di Stato per le finanze                                                       

Dominedò                                                                                                         

Perugi                                                                                                               

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo l’onorevole Gortani.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale sul Titolo III del progetto.

È iscritto a parlare l’onorevole Della Seta. Ne ha facoltà.

DELLA SETA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, a prescindere dalla specifica valutazione dei singoli articoli, certo questo Titolo III è quello che più conferisce al progetto di Costituzione la nota della modernità. Nota comune ad altre costituzioni di altri paesi d’Europa.

Dopo i rapporti civili ed i rapporti etico-sociali, i rapporti economici. Si è consacrata, in questo progetto, la indissolubile connessione tra l’ordinamento economico e l’ordinamento politico. Si è riconosciuto che se è vero che solo in un regime democratico è dato potere attuare una democrazia del lavoro, è altrettanto vero che la democrazia sarebbe una forma politica priva di contenuto se per essa, quale mezzo atto al fine, non si attuassero riforme realizzanti la giustizia sociale. La repubblica per la repubblica non ha significato alcuno. La figura del cittadino è ormai mutata. Il cittadino non è tale solo in quanto gode di speciali diritti politici, di speciali libertà costituzionali; è tale anche in quanto lavoratore, in quanto cooperatore, come singolo o come associato, al benessere economico della Nazione.

Ho ascoltato, ieri, in quest’Aula, da parte di un collega socialista, rievocare, con commossi accenti, i tempi nei quali quanto oggi è consacrato nel progetto veniva considerato, se non delitto, una grande utopia. Noi repubblicani comprendiamo una tale commozione e la compartecipiamo. Potremmo domandarvi se, resi oggi più sereni e più conoscitori delle nostre dottrine, se voi, dico, socialisti, riconoscete infine, alla vostra volta, che la scuola repubblicana – un Mazzini, un Cattaneo, un Pisacane, un Bovio – una qualche pagina, divinatrice e rivendicatrice, ha scritto sul problema sociale; se riconoscete che le prime nostre consociazioni operaie sono pur state, in Italia, le prime libere organizzazioni di lavoratori. Ma, al di sopra di questi reciproci nostalgici compiacimenti di parte, preferisco, in questo progetto, in questo documento, cogliere la testimonianza di un grande ammaestramento della storia: date rivendicazioni, se oneste, se giuste, non possono, contro tutte le incomprensioni, contro tutti gli egoismi, non possono, lentamente, ma ineluttabilmente, non vedere il giorno dell’auspicato trionfo.

Tralascio, per amore di brevità, talune considerazioni di ordine estrinseco.

Dovrei rilevare una qualche espressione o una qualche norma pleonastica. Occorre proprio, come all’articolo 38, specificare quali economici i beni che appartengono allo Stato, ad enti od a privati? Ed è proprio necessario ricordare in una Costituzione, come si ricorda con l’articolo 37, che ogni attività economica, privata o pubblica, deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali e al benessere collettivo? Né manca una qualche espressione troppo vaga, come quando, nell’articolo 32, si afferma che la retribuzione deve essere adeguata alla necessità di una esistenza libera e dignitosa. Chi sarà il giudice della libertà e della dignità? Criteri morali che, tutto al più, possono relegarsi in un preambolo, ma non essere consacrati lì dove, in una Costituzione, rigidamente si parla di rapporti economici. E non mi domando se, per la esigenza di una più organica sistematica, non sarebbe stato più opportuno raggruppare tutte quelle norme che accennano alle previdenze e alle provvidenze dello Stato, anziché disseminarle, come sono, nel Titolo secondo e nel terzo di questa prima parte del progetto.

Quanto al principio direttivo, cui si è conformata, nel progetto, la disciplina dei rapporti economici, esso non poteva non essere il risultato di un compromesso. Diciamo compromesso non nel senso dispregiativo della parola; ma come espressione logica e storica della risultante media tra le due forze in contrasto. C’è, innegabilmente, la tendenza a porre, in primo piano, di fronte al datore di lavoro, la figura del lavoratore; ma, come negazione delle due soluzioni estreme, dell’assoluto liberalismo individualistico e dell’assoluto totalitarismo collettivistico, si è voluto armonizzare la esigenza di dare il debito valore ai diritti dell’individuo e della iniziativa privata con le esigenze della economia associata e disciplinata, senza escludere, quando il reale benessere della Nazione lo reclami, lo stesso vigile e tempestivo intervento dello Stato.

Ma entriamo nel merito. L’articolo 31 sancisce il diritto al lavoro. Diritto incontestabile, in quanto è il diritto alla vita. Non ad altra fonte l’uomo, normalmente, può attingere per garantire la propria esistenza, se non al lavoro, al lavoro concepito né, come su taluni banchi ho inteso, quale un’espiazione propiziatoria, né, come in regime capitalistico, quale una merce qualsiasi; ma al lavoro eticamente concepito come affermazione della personalità; come primo vincolo di solidarietà nell’opera collettiva; come contributo al benessere materiale e, per esso, indirettamente, anche al bene morale dell’umana consociazione.

Ma, bisogna riconoscerlo, così come consacrato nella Costituzione, questo diritto al lavoro, se non è quel diritto astratto nel quale caddero il Locke e il Montesquieu e Louis Blanc (droit au travail) e la stessa Costituzione francese del 1848, certo rimane come un diritto potenziale, dato che oggi nessuna azione giuridica è dato al cittadino di potere esplicare, sia verso un altro cittadino, sia verso lo Stato; e dato che un rapporto esiste tra la domanda del lavoro (Stato) e l’offerta del lavoro (diritto al lavoro); e dato che la domanda dipende dalle risorse naturali e dal capitale esistente.

Se interpretato alla lettera, questo diritto al lavoro rimarrebbe nella Costituzione come una promessa che lo Stato non può mantenere; promessa pericolosissima. Può rimanere nella Costituzione come un diritto potenziale, cioè come un diritto – e Mazzini e Marx videro profondamente questo – come un diritto che solo potrà avere un concreto riconoscimento quando sarà superato l’attuale ordinamento economico ancora imperniato non sull’associazionismo, ma sull’individualismo capitalistico. Oggi, per non illudere con promesse che non possono essere mantenute, basterebbe forse che fosse detto nella Costituzione: la Repubblica promuove quelle condizioni onde il cittadino, nel lavoro, possa trovare l’equa e dignitosa garanzia della propria esistenza.

Nel secondo comma dell’articolo 31 si afferma, dopo il diritto al lavoro, il dovere del lavoro. Noi vorremmo, in verità, che la società fosse così sanamente costituita da far sentire il lavoro più come una gioia che come un dovere. Ma di fronte alle possibili evasioni è bene ribadire questo dovere. Un dovere, certo, la di cui consapevolezza deriva più da una tempestiva e saggia educazione, che non da un articolo della Costituzione. Ma la norma non poteva non essere consacrata. Se vi sono coloro che vorrebbero lavorare, ma non possono, in quanto non trovano lavoro, subendo i rischi e i danni della disoccupazione, non pochi, purtroppo, in ogni classe sociale, sono coloro che potrebbero lavorare ma non vogliono, per pigrizia innata, per amore dell’ozio, per tendenza al parassitismo. Ora, come non è ammessa la libertà dell’ignoranza e perciò, sino ad una certa età, vi è la obbligatorietà della istruzione, così non è ammessa la libertà dell’ozio e perciò, conforme alle proprie attitudini, vi è il dovere del lavoro. In vera democrazia non v’è che una classe, la classe dei lavoratori. Lavoratori del braccio o della mente, ma lavoratori tutti, tutti contribuenti, con la propria opera, al bene supremo della Nazione. Chi non lavora non mangia, ha detto Paolo ed è ripetuto nella Costituzione sovietica. Noi, con espressione meno grossolana, amiamo ripetere col Maestro: chi non lavora non ha diritto alla vita.

Ma l’adempimento di questo dovere del lavoro può essere la condizione per l’esercizio dei diritti politici?

Il terzo comma dell’articolo 31 risponde recisamente, affermativamente. Noi apprezziamo il valore morale della norma. Il cittadino che alla società, col proprio lavoro, non dà alcun contributo, pone se stesso al bando dalla società di cui è parte. Ma un senso di giustizia impone la massima cautela. Vi sono i vecchi, i malati, gli invalidi, i disoccupati. Sarebbe ingiusto togliere a questi, per il solo fatto materiale del non lavorare, l’esercizio dei diritti politici.

Non ricorderemo che questo terzo comma dell’articolo 31 contrasta con l’articolo 45 del progetto, lì dove si afferma che, essendo il voto un dovere civico e morale, nessuna eccezione al diritto di voto può ammettersi se non per incapacità civile o sentenza penale; ma non si può non far presente che domani il divieto dell’articolo 31 potrebbe divenire, più che un pretesto, un’arma nelle mani del potere esecutivo per limitare, a scopo reazionario, il diritto dell’elettorato e dell’eleggibilità. Bisogna dunque o sopprimere – e sarebbe meglio – questo terzo comma ovvero meglio precisarlo formulandolo: l’adempimento di questo dovere, per chi ne ha la capacità e la possibilità, è condizione per l’esercizio dei diritti politici. Ma noi, ripetiamo, siamo per la soppressione pura e semplice.

Sorvolo sugli articoli 32, 33 e 34. La equa retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro; il diritto del lavoratore al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite; il diritto della donna lavoratrice ad avere, a parità di lavoro – e di rendimento io aggiungerei – le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore; e tutte le previdenze e le provvidenze sociali per gli inabili al lavoro e per chi non ha mezzi necessari alla vita e per i casi di infermità, invalidità, vecchiaia e involontaria disoccupazione, sono queste tutte norme che ormai tendono a far parte della legislazione sociale di ogni paese civile. Sarebbe davvero auspicabile, pel nostro Paese, un codice del lavoro, degno della comprensione che la giusta causa dei lavoratori ha ormai raggiunto tra noi, non solo nei partiti della democrazia, ma anche nelle classi più consapevoli e responsabili.

Abbiamo bisogno di manifestare la nostra piena adesione alla libertà delle organizzazioni sindacali, sancita nell’articolo 35? Negarla sarebbe negare, nel campo sociale, quel diritto di libera associazione che, già nell’articolo 13, è stato riconosciuto per tutti i cittadini.

È libertà tanto per i datori di lavoro, come per i lavoratori; è libertà di poter costituire più sindacati anche per una medesima categoria; è soprattutto libertà interna, come attuazione di una interna democrazia, nel senso che sia permessa agli associati la libera scelta dei dirigenti senza subire la imposizione degli elementi delegati dai partiti.

Noi non condividiamo la preoccupazione che qualche collega socialista ha manifestato circa l’obbligo della registrazione per quei sindacati che intendono assumere una vera personalità giuridica. Ci rendiamo conto, psicologicamente, di questa preoccupazione. Dopo il regime dittatoriale, non poteva non diffondersi uno stato di insofferenza verso lo Stato, di cui si teme la invadenza soffocatrice, una invadenza che, nel caso specifico, tenderebbe a inceppare la vita del sindacato sotto una forma, più o meno larvata, di corporativismo. Comprendiamo tutto questo; ma non possiamo non far presente che, quando diciamo Stato, noi intendiamo uno Stato realmente repubblicano; uno Stato che non può, in tutti i gangli della vita sociale, non portare lo spirito di una sana democrazia; uno Stato quindi che, col riconoscimento, attraverso la registrazione dei sindacati, non vuol menomare, minimamente, l’autonomia interna dei sindacati, ma si propone anzi di più valorizzarli e potenziarli, ad essi conferendo una piena personalità giuridica. Libere associazioni di lavoratori in libero Stato vigilante e cooperante, questa per noi, nel campo sociale, la formula della vera democrazia.

Per quanto riguarda lo sciopero consacrato, nell’articolo 36, come un diritto dei lavoratori, esso è un diritto incontestabile. In sé e per sé esso è un ricorso alla forza; ma, spogliato ormai di quelle forme violenti onde, negli anni lontani, si caratterizzò quando si attuò, esso oggi è una forma civile di lotta per la emancipazione del lavoro.

Si potrebbe discutere se lo sciopero, non essendo, un vero e proprio diritto naturale, ma un mezzo, un metodo di lotta, non ritrovi, pel riconoscimento, la sua propria sede in una legge, in un codice del lavoro, anziché nella Costituzione. È facile rispondere che ciò che con una legge si riconosce può con altra legge essere abrogato; e un nuovo vento di reazione potrebbe domani far considerare lo sciopero come in regime fascista fu considerato, cioè non come diritto, ma come delitto.

Un qualche collega ha voluto fare la distinzione tra sciopero economico e sciopero politico, ammettendo il primo, non legittimando il secondo. Vana distinzione. Ogni sciopero, in quanto astensione dal lavoro, è un fatto essenzialmente economico; ma diverso può esserne il fine. Normalmente si lotta, con lo sciopero, per talune rivendicazioni economiche; ma ciò non toglie che lo sciopero, ad una data ora, possa prefiggersi una data finalità politica. E non saremo noi davvero che lo respingeremo per usarlo, con la debita circospezione, come una valida arma dì lotta in difesa delle pubbliche libertà e contro ogni possibile reazione.

Tutti i lavoratori, si legge nel testo, hanno diritto di sciopero. Tutti? Anche i funzionari dello Stato? Anche gli addetti ai pubblici servizi? Punto oggi molto controverso.

Quanto ai pubblici funzionari, non saprei nascondere il mio grande senso di disagio quando apprendo, ad esempio, il minacciato sciopero dei magistrati o lo sciopero degli insegnanti. Sarà la mia forse una mentalità arretrata, ma così è. È un disagio il mio che non vuol essere, semplicemente, preoccupazione e deplorazione per l’astensione da alte funzioni inerenti alla vita dello Stato, ma è anche condanna di un ordinamento statale, il quale, profittando di un tradizionale dignitoso riserbo di una categoria benemerita di lavoratori, non sa assicurare a questi lavoratori, mentre tanto e tanto in altri campi si sperpera, un trattamento economico adeguato alle funzioni che esercitano e soprattutto alle mutate condizioni di vita. Non bisogna troppo abusare della dignitosa pazienza altrui. La corda a lungo tesa si spezza.

Quanto agli addetti a dati pubblici servizi io sono contro lo sciopero, recisamente. Comprendo lo sciopero dei tramvieri, non comprendo lo sciopero degli infermieri. Date prestazioni di opera implicano grande spirito di sacrificio ed alto senso di responsabilità. Il che non significa che questi lavoratori non debbano essere tutelati nei loro diritti. Io arriverei a concepire, in loro difesa, uno sciopero di solidarietà di altre categorie di lavoratori. Ma certi pubblici servizi, per senso di umanità, non debbono essere abbandonati. Non si può concepire uno sciopero degli infermieri o dei farmacisti. Hanno scioperato una volta anche i becchini. Stavo per dire che talvolta scioperano anche… i deputati (Ilarità).

Concludendo, si deve riconoscere per i lavoratori il diritto di sciopero, ma come un diritto il cui esercizio dai dirigenti responsabili deve essere severamente vigilato e disciplinato. Un diritto ad ogni modo, cui, come extrema ratio, si dovrebbe ricorrere solo dopo un tentativo di conciliazione, dopo il ricorso ad un arbitrato.

DI VITTORIO. Si fa sempre.

DELLA SETA. Concordiamo pienamente col testo della Commissione – articolo 38 – per quanto concerne il diritto di proprietà. Da un lato il riconoscimento di questo diritto che, affermazione pur esso della personalità sul mondo della materia, non può non essere legittimo quando frutto di un lavoro compiuto; dall’altro tutti quei limiti che della funzione sociale della proprietà sono il riconoscimento. Nell’interesse dello Stato i limiti alla successione legittima e testamentaria. Da parte dello Stato, per pubblico interesse, la espropriazione, salvo indennizzo, della proprietà privata.

Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, molto opportunamente l’articolo 41 che, per un più logico coordinamento, dovrebbe seguire l’articolo 38, pone in rilievo i possibili vincoli alla proprietà privata terriera. Questa non può essere illimitata nella estensione, non può sottrarsi ad una eventuale necessaria opera di bonifica, non può essere abbandonata incolta, mantenendo, senza trasformazione, il latifondo e ostacolando quanto invece è da favorire, cioè la piccola e media proprietà.

Per quanto riguarda l’attività produttrice, ben si trovano, nel progetto, riconosciute le tre forme: la iniziativa privata individuale (art. 39); la iniziativa privata collettiva, cioè, la cooperazione (art. 42); nonché la iniziativa esclusivamente. collettiva, cioè la socializzazione (art. 40).

Noi repubblicani siamo troppo assertori di libertà, per non apprezzare, pur nel campo economico, il valore della iniziativa privata, che altro limite non può avere se non il pubblico interesse. E troppo, conforme agli insegnamenti del Maestro, siamo stati e siamo, sempre, caldi fautori del cooperativismo, per non aderire a questa forma, morale e moralizzatrice, dell’attività produttrice e per la quale l’opportuna vigilanza dello Stato – vigilanza diciamo e non tutela – non può limitare quella interna autonomia che è la condizione prima del suo retto funzionamento e del suo sviluppo. Se un qualche riserbo noi abbiamo è per la socializzazione. Riserbo diciamo e non preconcetta avversione. Noi non neghiamo che un qualche complesso industriale possa, per il pubblico interesse, essere socializzato; ma questa socializzazione deve essere suggerita, caso per caso, dalla esperienza e non obbedire ad un piano prestabilito di una radicale e totalitaria pianificazione. In questa pianificazione il cittadino lavoratore e produttore perde pur l’ombra della sua personalità. Molto apprezziamo perciò la grande sobrietà con la quale l’articolo 40 è stato formulato.

Ed apprezziamo anche la sobrietà con la quale è stato formulato l’articolo 43. Si riconosce per esso ai lavoratori il diritto di partecipare alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera, non precisando se a titolo deliberativo o consultivo, tutto rinviando alla disciplina della legge. Anche a prescindere dal carattere superaziendale che taluni di questi consigli vanno assumendo, certo questi consigli di gestione, specie se, come si dovrebbe, si ammettono gli operai alla partecipazione degli utili, segnano un passo notevole per la pacificazione e la collaborazione tra le classi, per quanto, bisogna non dimenticarlo, essi segnano se non una fase, e non l’ultima, nella lotta, ormai secolare, per la emancipazione del lavoro.

Salvo tutte le modalità specifiche, con le quali la legge dovrà precisarla, è superfluo dire che, anche per i riflessi sullo stesso movimento cooperativistico, aderiamo in pieno alla norma sancita nell’articolo 44 e per la quale la Repubblica affida a sé stessa la tutela del risparmio, nonché la disciplina, il coordinamento e il controllo sull’esercizio del credito.

Ho finito. Mi si permetta, a conclusione, un piccolo rilievo. Si dice, all’articolo 41, che la legge intende anche promuovere la elevazione professionale dei lavoratori. Giusta esigenza cui già accennai quando parlai del problema della scuola. Ma questa esigenza non si limita alla elevazione professionale; essa, non meno imperiosa, anzi fondamentale, è anche un’esigenza, attraverso una sana educazione, di elevazione morale. Occorrono scuole, scuole per il popolo, che si prefiggano questa alta funzione educatrice. Da una maggiore educazione morale, che non può non portare ad un senso più raffinato del giusto e dell’onesto, l’operaio non solo trarrà una maggiore consapevolezza ed una disciplina maggiore nella stessa causa per cui, a proprio vantaggio, combatte; non solo si spoglierà, gradualmente, di ogni egoismo di classe e apprenderà, senza odio, quale sia il significato vero delle parole borghese e antiborghese; ma sarà portato soprattutto, a sentire ed a comprendere che la soluzione, conforme a giustizia, del problema sociale non è fine a se stessa; che la vera emancipazione dei lavoratori si avrà quando, assicurate dignitose condizioni economiche di esistenza, anche il lavoratore potrà vivere la vera vita, quella vita che non può essere il privilegio di pochi eletti, quella vita per cui l’uomo è veramente uomo, quella vita onde l’uomo conforta e innalza se stesso alla luce nobilitante dello spirito. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Taviani. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, è lecito, io credo, anche più che giustificato, dubitare della utilità di questa discussione generale. Tuttavia dal momento che essa c’è, mi sia consentito adempiere al compito di precisare il punto di vista del Gruppo democristiano a proposito del Titolo III. Il punto di vista del nostro Gruppo deriva logicamente dalla risposta che cercherò di dare alle critiche che a questo Titolo sono state rivolte.

Una prima critica è affiorata nella discussione in Aula, e ancora più fuori dell’Aula; questo Titolo costituirebbe il risultato di un compromesso. Ora io mi appello all’onorevole Presidente della terza Sottocommissione, che ha elaborato le norme di questo Titolo; mi appello a tutti i Commissari. Non mai una volta le formulazioni si fondarono sul compromesso. Qualche volta esse sono state deliberate con voto di maggioranza; qualche altra volta, anzi spesso, ad unanimità o col voto dei rappresentanti dei maggiori partiti. Sempre esse hanno rappresentato un punto di incontro, non mai c’è stato un deteriore baratto su una proposizione o su una frase o su una parola. Tanto è vero che quando il voto non è stato unanime, le divergenze, più che politiche, sono state spesso tecniche, e si sono visti votare diversamente un socialista da un altro socialista, un democristiano da un altro democristiano, e anche – incredibile, ma vero – un comunista votare in modo diverso da un altro comunista.

Questo per quanto riguarda la forma; per quanto concerne la sostanza, io credo – e cercherò brevemente di dimostrarlo – che il Titolo III costituisca un complesso di norme che, superando l’impostazione individualistica del problema economico, pone le premesse della riforma sociale, senza peraltro fissare degli schemi precostituiti e rigidi, che potrebbero diventare incompatibili con lo sviluppo della tecnica e dell’economia.

Un secondo ordine di critiche riguarda particolarmente alcune norme che si ritengono vane o superflue o, comunque, non adatte ad un testo costituzionale. Ha già risposto ad esse il collega onorevole Dominedò nella seduta dell’altra sera, quando ha acutamente dimostrato come si possano dare delle norme, anche non immediatamente azionabili, che pure mantengano il loro valore: norme per il legislatore futuro. Esse costituiscono il grande binario su cui dovrà incamminarsi la legge.

Più grave è una terza critica. Questo Titolo è stato visto addirittura come l’espressione di una concezione statolatrica, soffocatrice della persona umana. Ci aspettavamo – mi aspettavo – questa critica dai colleghi di parte liberale, tenaci assertori del principio della libertà, come unico principio della realtà economica. E invece il discorso, veramente notevole, dell’onorevole Cortese, ha rivelato un liberalismo sensibile alle esigenze di giustizia sociale, un liberalismo più simile a quello del grande espositore della dottrina liberale: lo Stuart Mill, che non al rigido schematismo, al fanatismo rigido del Bastiat.

A questo fanatismo rigido si sono invece avvicinate le impostazioni dei colleghi di parte qualunquista. L’onorevole Maffìoli ha parlato addirittura di una statomania; più serenamente l’onorevole Colitto si è ricondotto a un ordine naturale dell’economia, che invano la legge, lo Stato cercherebbero, attraverso questo Titolo, di disciplinare e di orientare.

Ora, a questo proposito è bene intenderci: c’è una concezione tipica del mondo economico che ha prevalso nella dottrina e, solo in parte, nella prassi del secolo scorso: la concezione naturalistica per cui i fenomeni economici si dispiegano secondo leggi naturali e inderogabili, a cui invano l’uomo cercherebbe di opporsi. Per esempio, parlando del latifondo, un oratore di parte qualunquista ha detto che esso scompare naturalmente, senza bisogno di leggi, a mano a mano che si sviluppa l’economia. Ora, io potrei rispondergli con una citazione dell’Enfantin, celebre discepolo di Saint Simon, uno degli autori dell’Esposizione della dottrina sansimoniana. Centotrenta anni fa questo antesignano di non poche riforme sociali contemporanee scriveva presso a poco così: «Certo, senza bisogno di leggi, ogni squilibrio si appiana con lo sviluppo dell’economia. Certo, tutto finisce per livellarsi. Ma – mirabile conclusione questa! – finché non si è compiuto il livellamento, che faremo noi delle migliaia di uomini affamati? Li consoleranno i nostri ragionamenti? Sopporteranno essi con pazienza, solo perché i calcoli statistici dimostrano che entro un certo numero di anni l’economia si sviluppa naturalmente, ed essi allora potranno avere del pane?»

No, non non siamo statomani e neppure idolatri del toro impazzito che, secondo la pittoresca immagine dell’onorevole Maffioli, sarebbe lo Stato quale affiora dal Titolo III. Noi anzi riteniamo che l’ordinamento sociale dell’economia abbia proprio il risultato opposto a quello che temono i nostalgici o i maniaci del liberalismo a ogni costo; solo un ordinamento sociale, infatti, può evitare lo slittamento verso lo Stato totalitario, cui fatalmente finisce per condurre il non regolato esercizio delle libertà individuali. Come non seguiamo la concezione naturalistica dell’economia, così non crediamo neppure che tutto possa ottenere lo Stato come volontà legislatrice ed esecutrice. Tra i due principî, quello naturalistico – per cui l’economia si svolge spontaneamente sotto l’impulso delle sole forze individuali – ed il volontaristico – per cui tutto si riconduce all’autorità dello Stato – c’è un terzo modo di concepire la vita economica, il modo di chi pur tenendo conto delle resistenze naturali e della forza dell’interesse individuale o privato, postuli un inquadramento, un indirizzo sociale dell’economia.

Ci conforta, a questo proposito, l’esperienza del mondo economico contemporaneo. Non soltanto negli Stati totalitari, ma anche negli Stati democratici oggi si orienta socialmente l’economia: anche, e precipuamente, in quegli Stati che si portano a modello della democrazia: Nord America e Inghilterra.

Qualcuno potrà obbiettare che oggi si sta peggio di quanto non si stesse un secolo fa, nel secolo liberale e liberista. Ma questa affermazione può essere esatta, solo se riferita alle classi borghesi; non è esatta, se riferita al proletariato industriale e al proletariato agrario. Comunque, donde ha tratto origine la stessa triste realtà di oggi e la triste realtà del fascismo di ieri se non dal mondo che ha voluto risolvere unicamente nell’individuo la fonte di tutti i diritti e di tutte le libertà?

L’orientamento sociale dell’economia ha proprio lo scopo di tutelare la persona umana, anzi le persone umane. Ma – si dirà – chi ci garantisce che gli organismi sociali non esorbitino da questo loro compito? Ce lo garantisce l’ordinamento democratico dello Stato. Che, se l’ordinamento democratico dovesse venire a cessare, stia pur certo, onorevole Maffioli, che, anche senza il Titolo III, vedremmo veramente scatenarsi il toro impazzito dello Stato e soffocare la persona umana. Non è il liberalismo puro, non l’accettazione supina del cosidetto ordine naturale economico che possono garantire la democrazia. Essi porterebbero fatalmente al totalitarismo. Per garantire durevolmente la democrazia vano sarebbe ricorrere all’unica forza dell’individuo. Non c’è altro mezzo (ci ammonisce la lezione dell’esperienza) che articolare la democrazia nelle collettività intermedie: democrazia organica sul piano politico e solidarismo sul piano economico.

Fra i due termini, quali risultano dall’impostazione del Rousseau, individualismo e statalismo, c’è una terza via: quella della economia associata, dell’orientamento sociale dell’economia.

Questa via fu sempre battuta dalla scuola sociale cristiana. Su questa via abbiamo cercato di indirizzare il Titolo III.

Se poi qualcuno volesse mascherare le sue critiche dietro motivi tecnici o produttivistici, ma in realtà celasse null’altro che interessi, allora potremmo rispondergli con la grande frase di uno dei più illustri spiriti della democrazia americana, l’arcivescovo di Quebec: «Il secolo XX o sarà il secolo delle riforme sociali o sarà il secolo del sovversivismo!».

Da questa impostazione risulta chiara la posizione del nostro Gruppo riguardo ai diversi articoli. Non c’è il tempo (e sarebbe inutile ripetizione, perché altri miei colleghi hanno già parlato sui singoli articoli) di compiere un esame approfondito.

Mi soffermerò sul diritto al lavoro.

Di esso si è detto: perché inserirlo nella Costituzione? Ciò non significa postulare una totale pianificazione dell’economia? Non pare. Questa norma dice precisamente che, nei suoi interventi nell’economia, lo Stato deve tener presente soprattutto una mèta: assicurare il lavoro, perseguire una politica economica di pieno impiego.

Un altro punto: il diritto di sciopero. Anche qui il nostro pensiero sgorga logicamente dalle posizioni generali che ho cercato di precisare. In uno Stato perfettamente capace di realizzare la giustizia non dovrebbe esservi lo sciopero. Di questo siete convinti anche voi, colleghi comunisti; soltanto che, per voi, questo Stato perfetto già esiste ed in esso difatti è proibito il diritto di sciopero.

Per noi è lecito supporre che sia almeno, più difficile di quanto voi non riteniate, realizzare su questa terra una tale perfezione. Nell’ipotesi che essa per ora non esista, o che addirittura non possa esistere, resta a vedere se la Costituzione deve tener conto di quello che è un aspetto patologico della vita economico-sociale. Ecco perché comprendiamo benissimo quello che è stato detto testé dall’onorevole Della Seta. È il caso, egli si è chiesto e si chiede qualcuno, anche fra noi, di inserire questo diritto nella Costituzione? Esso non è altro che la logica derivazione del diritto alla legittima difesa, non è che una triste necessaria conseguenza di un rapporto di forza, lo ha detto testé l’onorevole Della Seta, fra capitale e lavoro. Qualcuno, più drasticamente, parla addirittura di una legge della foresta. Ora, lo Stato può sopportare, può comprendere che ciò si verifichi, che i lavoratori abbiano il diritto di difendersi, ma può apparire vano, inutile, superfluo intervenire a codificare o disciplinare dei rapporti di forza. Noi credevamo che questa fosse la vostra tesi (Si rivolge a sinistra) e dovrebbe esserlo, logicamente.

Noi non riteniamo peraltro, data la nostra concezione realistica, che questa tesi si debba senz’altro accettare. Noi riteniamo che la Costituzione possa e debba parlare del diritto di sciopero, non debba ignorare la facoltà dello sciopero, ma, intendiamoci, riteniamo che questa facoltà debba esercitarsi nell’ambito delle leggi. Tutti gli altri diritti, sanciti e riconosciuti in questo Titolo, anche il diritto di proprietà privata, che è diritto naturale, anche il diritto di iniziativa personale, il diritto al lavoro, il diritto all’assistenza, tutti vengono ricondotti alla legge che li regola, li disciplina e li determina. Perché non si dovrebbe fare lo stesso anche per il diritto di sciopero?

Se noi dovessimo entrare nel merito – e già ne ha parlato ieri l’onorevole Belotti – potremmo prendere in considerazione lo sciopero nel caso dei servizi pubblici, nel qual caso concordiamo con le osservazioni dell’onorevole Della Seta. Senonché pare ingenuo ritenere che vi possa essere una categoria di persone che debba scioperare in luogo di coloro che sono adibiti ai servizi pubblici, quasi che vi siano degli addetti al servizio di sciopero! Particolarmente significativa è poi la condizione dei pubblici ufficiali, per i quali, secondo l’espressione paradossale dell’onorevole Molè, si verificherebbe il caso dello Stato che sciopera contro lo Stato. Noi non avremmo nulla in contrario all’articolo della prima Sottocommissione, dove si entra nel merito per quanto concerne le modalità di questo diritto. Se non si ritiene di dover entrare nel merito, noi possiamo aderire ad una dizione simile a quella della Costituzione francese.

Per l’articolo 38, si è detto da qualcuno che, dopo aver affermato e riconosciuto il diritto naturale di proprietà privata, viene a negarla con dei limiti e delle norme.

Non è così: c’è un diritto naturale di proprietà privata, ma, oltre al diritto naturale della proprietà privata, c’è anche il diritto di tutti all’uso dei beni. Ambedue sono diritti naturali e fondamentali nell’ordine economico della società. Non si può negare né l’uno né l’altro. Ed allora abbiamo che, fissato il principio del diritto generale astratto della proprietà privata, la legge positiva lo deve concretare e determinare con norme specifiche, con dei limiti che tengano conto anche del diritto di tutti all’uso comune dei beni. Perciò all’articolo 38 è detto che la legge, nel determinare modalità e limiti, tiene conto di un duplice ordine di scopi: la funzione sociale della proprietà e la possibilità per tutti di accedervi, sicché la proprietà non sia un privilegio di poche persone, ma sia invece un diritto di tutte le persone umane.

Dell’articolo 40 l’onorevole Della Seta ha lodato la sobrietà, ed effettivamente esso non vuole precludere alcuna delle nuove formule di soluzione dei problemi industriali, che possono affiorare dallo sviluppo della tecnica e della economia. Anche noi aderiremmo ad un eventuale emendamento, che fissasse meglio lo scopo dell’intervento dello Stato per una socializzazione o nazionalizzazione, che non si limitasse al solo aspetto di coordinare le attività economiche, ma lo riferisse più ampiamente al bene comune, o, se si vuole, all’utilità generale; cioè che solo al fine dell’utilità generale la legge possa riservare o trasferire la proprietà di singoli beni o di categorie di beni alla comunità.

Questi non sono che alcuni aspetti di dettaglio che ho voluto citare come conseguenze logiche della nostra impostazione del problema sociale e della nostra posizione dinanzi al Titolo III. Certo si potrà indubbiamente modificare nei dettagli questa o quella norma in sede di votazione; ma, nel complesso, noi riteniamo di poter accettare l’impostazione di questo Titolo III, alla cui stesura gli uomini della Democrazia cristiana hanno apportato un così vasto ed efficace contributo; sappiamo di rispondere così al mandato che abbiamo ricevuto dagli elettori.

Noi risponderemo col nostro voto all’impegno di formulare una Costituzione che, conservando integre le tradizioni morali e religiose del nostro popolo, ponga le premesse giuridiche di quella evoluzione sociale che deve realizzarsi nell’ordine, nella legge e nella libertà.

Noi crediamo in questa evoluzione sociale; noi crediamo che essa possa e debba realizzarsi col metodo democratico e nell’ambito della civiltà cristiana. (Vivi applausi al centro).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Di Vittorio. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. Onorevoli colleghi, noi, di questa parte dell’Assemblea, difendiamo, nel suo complesso, il Titolo III del progetto di Costituzione; lo difendiamo malgrado che non ci nascondiamo alcuni lati deboli, e malgrado che riteniamo necessarie alcune precisazioni su alcuni articoli del Titolo stesso. Noi crediamo che questo Titolo sia il più originale, quello che più degli altri caratterizza la Costituzione italiana e che, perciò, respingerlo o vuotarlo del suo contenuto reale, del suo contenuto positivo, significherebbe non corrispondere alle più vive aspettative delle masse lavoratrici italiane. Con questo Titolo del progetto di Costituzione la nuova democrazia italiana esce finalmente dall’ambito ristretto, troppo ristretto, della politica pura per penetrare nel campo dell’economia, nel campo dei rapporti sociali, per apportarvi un minimo di giustizia sociale e per sancire i nuovi diritti conquistati dai lavoratori italiani.

Oggi non bastano più i diritti puramente politici, i diritti del cittadino: una Costituzione moderna, che voglia corrispondere alle esigenze vitali del popolo, deve riconoscere e sancire i diritti del lavoro, che è la fonte della vita, e deve riconoscere i diritti di coloro che ne sono gli artefici, i diritti, cioè, dei lavoratori.

Ogni nuova Costituzione segna una tappa nella evoluzione storica di un paese, e ciò che deve caratterizzare la tappa attuale dell’evoluzione storica dell’Italia deve essere appunto un tentativo concreto della democrazia italiana di affondare le proprie radici nell’economia e di democratizzare, nella misura del possibile, tenendo conto della realtà concreta, delle possibilità effettive, i gangli vitali del Paese, fra i quali sono – in primo luogo – le fabbriche, le aziende produttive in generale.

Per questa esigenza la nuova Costituzione non può tener conto soltanto della situazione presente: essa deve partire dalla base solida della situazione attuale, di ciò che è acquisito; ma deve anche proiettarsi in un prossimo futuro e tracciare ai futuri legislatori una prospettiva politica e storica verso la quale intendiamo indirizzare il nostro Paese.

Perciò noi ci meravigliamo delle meraviglie che abbiamo sentito esprimere da nostri colleghi su alcuni degli articoli essenziali di questo Titolo.

Ho sentito, l’altro giorno, l’onorevole Nitti chiedersi stupito come potrà fare la Repubblica italiana per assicurare il diritto al lavoro, per assicurare a ciascun lavoratore una retribuzione adeguata al lavoro compiuto ed alla qualità del lavoro. Evidentemente, se ci dovessimo basare esclusivamente sulla situazione attuale, in cui si può dire che nessun lavoratore abbia ancora una giusta retribuzione, si dovrebbe essere imbarazzati a dare una risposta all’onorevole Nitti. Ma noi lavoriamo per uscire da questa situazione di sconvolgimento economico e di miseria. Vogliamo riorganizzare una nuova vita dell’Italia, vogliamo creare una situazione normale nella quale deve essere possibile al legislatore di determinare, anche per legge, il modo per garantire il godimento dei diritti che sono riconosciuti in questo Titolo della nostra Costituzione.

Ciò che è importante, è che tutta la vita nazionale e tutte le attività dello Stato siano dirette a riorganizzare l’economia italiana e la nostra vita sociale, in modo da tendere a garantire effettivamente il diritto al lavoro come diritto alla vita e a garantire gli altri diritti che vengono riconosciuti ai lavoratori con questo Titolo del progetto di Costituzione.

Del resto, quei colleghi che partono dal presupposto dell’impossibilità concreta per la Repubblica italiana di garantire al lavoratore il godimento di quei diritti, partono dal preconcetto della immutabilità dei rapporti economici e sociali attuali. Questa pretesa immutabilità è assurda. La società è cosa vivente e, come tale, è cosa dinamica, in continua evoluzione. È evidente che se i rapporti economici e sociali vigenti ancora oggi dovessero rimanere immutati, tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori, e non soltanto in questo Titolo del progetto, sarebbero vaghe parole. Il valore del riconoscimento di questi diritti nella Costituzione consiste appunto nel fatto che noi ci proponiamo di determinare tali mutamenti nei rapporti economici e sociali, da rendere realizzabili questi diritti per i lavoratori. È per questo che è importante e necessario che questi diritti siano sanciti nella Costituzione. È una illusione vana quella di determinati ceti sociali, retrivi e reazionari, come quelli della plutocrazia e della grande proprietà terriera, di voler fermare il quadrante della storia, di voler credere che la democrazia debba consistere esclusivamente nel riconoscimento dei diritti del cittadino, fermandosi così ai risultati della grande Rivoluzione francese.

Il mondo evolve; i diritti esclusivamente politici, i diritti del cittadino non bastano più. Bisogna garantire l’esistenza al lavoratore come artefice fondamentale della vita di ogni società civile, di ogni società organizzata.

Il fascismo ha voluto rappresentare nella nostra, come in altre società nazionali, appunto il tentativo estremo di impedire questa evoluzione della democrazia dal campo puramente politico al campo economico e sociale; ha voluto significare l’estremo tentativo di impedire alle giovani e vigorose forze del lavoro di avanzare alla conquista di altri diritti; ha voluto impedire alle masse lavoratrici di realizzare nuove conquiste che garantissero un’esistenza meno misera, meno meschina e più degna ai lavoratori. Ma noi abbiamo visto che, malgrado la grandiosità dei mezzi che sono stati impiegati in questo tentativo, esso non è riuscito, perché non poteva riuscire, perché le leggi della evoluzione sociale sono incoercibili. E si è vista una cosa ancor più grave: che questi tentativi dei ceti reazionari della nostra società non sono costati oppressione, miseria e sangue soltanto ai lavoratori, come alcuni si erano illusi e desideravano che fosse. Il fascismo, nel suo proposito di arrestare il progresso sociale, si è risolto in una catastrofe di tutta la Nazione ed è costato sangue e miseria all’intero popolo italiano.

Perciò bisogna che il processo di evoluzione sociale si svolga normalmente e si svolga liberamente, senza impedimenti artificiali da parte delle classi privilegiate, che sono abbarbicate ai loro antichi consolidati privilegi e che, per cercare di conservare questi privilegi e di sopravvivere come strati dirigenti della società, ricorrono a tutti i mezzi, compreso quello di condurre l’intero Paese alla catastrofe.

L’esperienza storica ha dimostrato che determinati ceti, determinate classi sociali in tanto possono assurgere e mantenersi alla direzione della società, in quanto i loro interessi coincidano con gli interessi generali della società e, quindi, in quanto essi siano, abbiano la coscienza di essere e sappiano essere i rappresentanti degli interessi generali e degli ideali della Nazione del popolo.

Ora credo che nessuno in questa Assemblea possa affermare che i ceti plutocratici, i ceti latifondisti, i ceti monopolistici dell’economia del Paese abbiano interessi che coincidano o che possano identificarsi con l’interesse generale della Nazione e che possano rappresentarne gli ideali.

Il Titolo III del progetto di Costituzione, attraverso i suoi vari articoli, pone la base di principio per la liquidazione di alcuni istituti, di alcuni rapporti economici e sociali, che sono stati storicamente condannati e sono divenuti, nella loro essenza, antisociali e perciò antinazionali.

Su che cosa si appunta in modo particolare la critica agli articoli essenziali di questo Titolo: all’articolo che pone la base di principio di una riforma agraria, a quello che pone la base di principio della nazionalizzazione di alcuni monopoli economici e di alcune industrie chiave, che sono fondamentali per lo sviluppo della economia nazionale?

Ebbene, signori, il latifondo che esiste ancora largamente nel nostro Paese, specialmente nel Mezzogiorno e nelle isole, non è altro che un residuo dell’antico regime feudale, non è che espressione di arretratezza e di miseria. Il latifondo deve essere eliminato perché in tal modo si elimina l’arretratezza della nostra agricoltura, si elimina la miseria dei nostri braccianti e dei nostri piccoli contadini: e non soltanto nel Mezzogiorno, ma anche in altre regioni d’Italia.

Ebbene, questo Titolo pone le basi di una riforma la quale è un presupposto essenziale per operare una profonda trasformazione fondiaria, che è indispensabile al nostro Paese. È indispensabile per ottenere una maggiore produzione delle nostre terre, un maggior impiego di mano d’opera, per ottenere più grano, più prodotti agricoli, e quindi anche un maggiore benessere, più scuole e un superiore livello di civiltà per il nostro popolo lavoratore.

I monopoli economici, la cui realizzazione scandalizza ancora qualcuno anche nella nostra Assemblea, non hanno nessuna funzione socialmente utile. Sono i monopoli economici che anche nel nostro Paese sono giunti a limitare artificialmente la produzione e in molti Paesi sono giunti a distruggere anche quantità di prodotti per mantenerne elevati i prezzi, mentre una parte notevole delle masse lavoratrici e popolari non aveva la possibilità di accedere a quei prodotti, di cui avrebbe avuto estremo bisogno. Bisogna liberare la nostra economia nazionale dai monopoli e dal latifondo per riuscire a realizzare le premesse di una rinascita economica ed effettiva del nostro Paese ed anche di un profondo rinnovamento democratico dell’Italia. Bisogna persuadersi, onorevoli colleghi, che nelle masse popolari del nostro Paese è penetrata profondamente la coscienza che i diritti esclusivamente politici non bastano più; è penetrata la coscienza della necessità della realizzazione delle riforme sociali di struttura della economia, che sono la sola garanzia effettiva e positiva del godimento dei buoni diritti che la Carta costituzionale riconoscerà ai lavoratori italiani.

Certo, il processo di realizzazione di queste riforme di giustizia sociale, alla quale ho appena accennato, non può essere evitato con misure artificiali; è un processo che deve inevitabilmente compiersi. E, data la sua inevitabilità (poiché risponde a esigenze fondamentali di vita e di progresso del Paese), la questione che si pone davanti alla coscienza pubblica è quella di sapere come questo processo sarà compiuto. Attraverso le vie legali, pacificamente, ordinatamente? O attraverso scontri violenti che possono degenerare nella guerra civile e portare nuovi lutti al nostro popolo, che ne ha già patiti fin troppi? Io credo che ogni tentativo diretto o a respingere l’insieme del Titolo III del nostro progetto di Costituzione o a vuotarlo del suo contenuto effettivo significherebbe lasciare la via aperta alla soluzione più deprecabile per il nostro Paese; significherebbe incoraggiare quei ceti latifondisti, i quali si armano e che ancora recentemente in Sicilia hanno funestato il nostro Paese con l’assassinio vile e barbarico di ben dieci lavoratori; significherebbe lasciare adito ai ceti storicamente superati, ma che non vogliono adattarsi alle esigenze di progresso della nostra vita nazionale, a continuare in una resistenza armata la quale non potrebbe che provocare nuovi lutti e forse nuove miserie al nostro Paese. Il Titolo III in fondo si preoccupa di dare una soluzione legale, ordinata a questo processo e al suo compimento. Perciò noi raccomandiamo che esso sia approvato dall’Assemblea.

Permettete, onorevoli colleghi, che io insista un momento sull’articolo 35 del nostro progetto di Costituzione, che pone in modo sintetico la base di principio del nuovo ordinamento sindacale italiano. Già altri colleghi hanno sottolineato i principî generali ai quali si ispira questo nuovo ordinamento: in primo luogo, la libertà nel campo sindacale. Perciò il nuovo sindacato è concepito come una organizzazione libera dei lavoratori, una organizzazione alla quale si accede volontariamente, nella quale il pagamento dei contributi sia volontario. Tutto l’ordinamento sindacale si ispira a questo principio di libertà, di indipendenza del sindacato, di autonomia del movimento sindacale dei lavoratori.

Ho sentito testé l’onorevole Della Seta lamentare il fatto che si esprimano alcuni sospetti verso la stessa registrazione dei sindacati, perché si temerebbe che una dipendenza qualsiasi dei sindacati dallo Stato potrebbe menomarne la libertà d’azione: l’onorevole Della Seta osservava che se ciò era giusto nei confronti di uno Stato fascista, non è giusto nei confronti di uno Stato democratico repubblicano. Comprendo ed apprezzo la natura dell’osservazione dell’onorevole Della Seta. Infatti per noi fra uno Stato fascista e uno Stato democratico; fra uno Stato reazionario e uno Stato democratico e repubblicano vi è una profonda differenza e l’atteggiamento dei lavoratori nei confronti dell’uno o dell’altro tipo di Stato è molto differente e in molti casi anche opposto. Però per noi è una questione di principio. È una necessità per i lavoratori che la loro organizzazione sindacale, lo strumento fondamentale della difesa dei propri interessi e della conquista di nuovi diritti nel campo economico e sociale, sia completamente autonoma e completamente libera da ogni ingerenza statale.

MAZZA. E politica.

DI VITTORIO. Da ogni ingerenza statale e da ogni ingerenza politica.

Ma quando noi, tenendo conto della tradizione che si è stabilita nel nostro Paese, abbiamo voluto affermare che il riconoscimento giuridico dei sindacati non deve implicare una dipendenza dei sindacati stessi dallo Stato, non abbiamo voluto esprimere nessuna diffidenza verso lo Stato democratico repubblicano; tanto è ciò vero, che nello statuto della Confederazione generale italiana del lavoro è affermato nettamente il principio che i sindacati, oltre a difendere gli interessi economici dei lavoratori, si preoccupano anche della difesa delle libertà democratiche e della Repubblica.

Perciò, nessun sospetto dei lavoratori verso lo Stato democratico e repubblicano; ma noi crediamo che la esigenza dell’autonomia e dell’indipendenza completa dei sindacati rispetto ai poteri dello Stato non sia incompatibile col rispetto che i lavoratori hanno verso lo Stato democratico, ed anzi con la loro volontà di impiegare tutti i mezzi a loro disposizione per difendere lo Stato democratico contro qualsiasi assalto o tentativo di assalto reazionario e monarchico.

In questo stesso articolo è affermato il principio della obbligatorietà dei contratti di lavoro. Io desidero per un momento attirare l’attenzione dei colleghi sulla necessità di questa obbligatorietà.

I sindacati sono abbastanza forti per tutelare efficacemente gl’interessi dei lavoratori, per ottenere la stipulazione di contratti collettivi, che, nei limiti delle possibilità reali, sodisfino le loro esigenze. Però, ci si trova molto spesso di fronte a dei datori di lavoro tanto egoisti e tanto antisociali, da non volere riconoscere nemmeno i contratti di lavoro, che sono stipulati liberamente fra le organizzazioni dei datori di lavoro e le organizzazioni dei lavoratori.

In questo caso, l’organizzazione dei lavoratori non ha che un mezzo, per far valere il proprio diritto: l’agitazione, lo sciopero, la lotta contro quel datore di lavoro egoista che si rifiuta di accogliere i giusti diritti dei lavoratori. E, naturalmente, siccome il numero di questi datori di lavoro non è così esiguo, come si porrebbe pensare, ciò ci porterebbe a dover scatenare una serie di agitazioni e di lotte che noi vogliamo evitare al nostro Paese.

Attualmente, il datore di lavoro, che non voglia rispettare i contratti (o che non voglia più rispettarli, se ad un certo momento li trova poco convenienti o se, sotto la pressione della disoccupazione, viene ad ottenere l’offerta di lavoratori affamati, a condizioni inferiori a quelle stabilite nei contratti di lavoro), dichiara che il contratto stipulato fra le due organizzazioni non lo impegna personalmente – o perché non è socio o perché, se lo era, si è dimesso –; quindi egli non avrebbe nessun obbligo di osservarlo.

Questa disposizione, sancita nell’articolo 35 della Costituzione e che verrà, naturalmente, come tutti i principî sanciti dalla Costituzione, regolata da una legge, eviterà queste agitazioni, dando efficacia di legge ai contratti di lavoro, e quindi obbligando anche quei datori di lavoro egoisti, antisociali, ai quali ho accennato, a rispettare i contratti collettivi come le leggi sociali.

Noi, per completare questo ordinamento sindacale basato sulla libertà e sull’indipendenza dei sindacati, proporremo un articolo aggiuntivo, col quale vorremmo affermare il principio che nel nostro Paese il mondo del lavoro organizzato, il movimento sindacale, deve avere un posto importante nella stessa struttura dello Stato e deve avere la possibilità di esercitare un’influenza nel senso dell’evoluzione sociale ed economica del nostro Paese. Noi vorremmo che fosse costituito un Consiglio nazionale del lavoro, con ramificazioni regionali e provinciali – in qualche caso, anche locali – elettivo…

MAZZA. Sì, dall’alto.

DI VITTORIO. …non un organismo burocratico dello Stato. E il compito di questo Consiglio nazionale dovrebbe essere quello di promuovere una legislazione sociale progressiva aderente alle esigenze economiche del nostro Paese. E a questo Consiglio dovrebbero essere sottoposte preventivamente, per il voto consultivo, tutte le leggi di carattere sociale che dovrebbero andare al Consiglio dei Ministri…

MAZZA. Un secondo Stato!

DI VITTORIO. …tutti i provvedimenti di carattere sociale da passare al Consiglio dei Ministri e all’Assemblea legislativa. Inoltre questo ente dovrebbe avere la possibilità di far osservare i contratti di lavoro e le leggi sociali e di esercitare a questo scopo il relativo controllo.

Intendiamoci bene, questo ente dovrebbe essere composto di tutte le classi interessate al processo della produzione; ma bisognerebbe finirla con un concetto invalso in numerosi ambienti e già idealizzato dal fascismo: il concetto della pariteticità della rappresentanza degli interessi rispettivamente dei lavoratori e dei datori di lavoro. Noi riteniamo che non sia democratico, che non sia giusto mettere sullo stesso piano interessi di carattere collettivo, di carattere generale, sociale, nazionale, con interessi di carattere privato e di carattere egoistico; come non è giusto porre sullo stesso piano interessi riguardanti, per esempio, mille cittadini e interessi che rappresentano invece le aspirazioni di un milione di cittadini. Noi comprendiamo anche la funzione che ha il capitale, la funzione che ha l’iniziativa privata negli attuali rapporti economici e sociali, ma possiamo desiderare che negli organi rappresentativi dello Stato democratico le rappresentanze siano costituite su base democratica, cioè sulla base del numero degli interessati da una parte e dall’altra. Noi domandiamo inoltre che i rappresentanti del Consiglio nazionale, come dei consigli regionali e provinciali, siano eletti dalle categorie interessate e non siano di nomina governativa, perché, anche se la nomina viene da parte di un Governo democratico, l’istituto avrà sempre un carattere burocratico e mai democratico.

Permettetemi ora di dire poche parole sulla questione più dibattuta di questa Assemblea: la questione del diritto di sciopero. Numerosi colleghi hanno detto: è proprio necessario sancire il diritto di sciopero nella Costituzione? Anche l’onorevole Della Seta si domandava poco fa: non sarebbe sufficiente che una legge ordinaria dello Stato togliesse il divieto del diritto di sciopero? Noi riteniamo che ciò non sarebbe sufficiente. L’onorevole Nitti, l’altro giorno, domandava in quale altra Costituzione è sancito il diritto di sciopero e perché lo dovremmo sancire proprio noi in Italia. Vi è una risposta a questa domanda dell’onorevole Nitti. Noi non possiamo prescindere dal fatto che in Italia, per circa 20 anni, il diritto di sciopero è stato negato. Lo sciopero era considerato un crimine, un delitto punito dalla legge, e noi usciamo dal regime che aveva reso lo sciopero un crimine. Evidentemente in altri Paesi democratici, che non hanno avuto la lunga parentesi del fascismo, il diritto di sciopero è un diritto così naturale, che è superfluo sancirlo nella Costituzione, perché ormai è entrato nel costume e nella vita nazionale e più nessuno lo pone in discussione.

BENEDETTINI. Più nessuno? Tutti lo mettiamo in discussione! (Rumori a sinistra).

DI VITTORIO. Ma io ho detto in altri paesi democratici…

BENEDETTINI. Come in Russia per esempio! (Commenti).

DI VITTORIO. Voi siete un prolungamento del passato! (Applausi a sinistra).

Una voce a destra. C’è in Russia diritto di sciopero? (Commenti).

DI VITTORIO. A proposito di questa interruzione, devo osservare che si dice comunemente, anche in questa Assemblea, che in Russia è proibito lo sciopero, non esiste il diritto di sciopero; ma questo non è vero, in Russia non vi è più lo sciopero perché non vi sono più i rapporti sociali che vi sono qui. (Commenti a destra).

Una voce a destra. Il fascismo diceva la stessa cosa!

DI VITTORIO. La ragione, dicevo, è molto semplice.

In Russia è stato abolito per sempre lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo; non vi è più nessuno, in Russia, che si arricchisca sul lavoro degli altri e che sfrutti il lavoro degli altri, e quindi lo sciopero non c’è più perché è venuta a mancare la causa stessa dello sciopero, che è lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti.

Una voce a destra. Ma c’è lo Stato. (Commenti Interruzioni a sinistra).

PRESIDENTE. Prosegua, onorevole Di Vittorio.

DI VITTORIO. Allora, onorevole Nitti, la necessità di inserire nella nostra Costituzione il diritto di sciopero deriva appunto dal fatto che usciamo dal fascismo. Si vuole creare una contrapposizione netta fra la nuova democrazia italiana ed il fascismo, specialmente col riconoscimento di questo diritto fondamentale del proletariato e di tutti i lavoratori: il diritto di sciopero, che è una delle principali conquiste del movimento operaio moderno, è una delle armi essenziali di difesa nel mondo del lavoro, e fa parte dell’integrità e della libertà della persona umana.

Perciò, noi riteniamo che sia indispensabile che questo diritto rimanga sancito nella nuova Costituzione della Repubblica italiana.

È stato osservato ancora che non si specifica se si tratti di sciopero economico o di sciopero politico. Signori, qui si tratta di riconoscere il diritto di sciopero. La natura ed il carattere dello sciopero deve derivare dalla volontà collettiva dei lavoratori che, in un determinato momento, credono necessario scioperare. Lo sciopero, ordinariamente, ha carattere economico: tende alla difesa di interessi immediati e concreti dei lavoratori, alla conquista di nuovi diritti nel campo del lavoro. Ma vi è anche lo sciopero politico, vi è anche lo sciopero di solidarietà. E nessuno deve scandalizzarsi se si dichiara democratico lo sciopero politico, perché, nella storia del movimento operaio italiano e mondiale, vi sono numerosi esempi di scioperi politici, che sono riusciti a salvare la democrazia, e ad impedire l’avvento violento della reazione al potere. Basterebbe ricordare lo sciopero generale in Germania del 1920 contro il putsch del generale Von Kappler; lo sciopero generale del 1934 in Francia, quando il movimento fascista delle Queues de feu aveva organizzato l’assalto al Parlamento per dare un colpo mortale alla democrazia e impossessarsi del potere. È stato lo sciopero generale degli operai e dei lavoratori tutti di Parigi e della Francia che ha impedito ai fascisti francesi di prendere il potere. Peccato che non siamo riusciti in Italia, nel 1922, a fare altrettanto. Il nostro Paese sarebbe stato salvato, fra l’altro, dall’abisso in cui è precipitato. (Applausi a sinistra).

BENEDETTINI. Quali erano i fascisti francesi, onorevole Di Vittorio? (Commenti Interruzioni a sinistra).

DI VITTORIO. Onorevole Benedettini, c’erano le Queues de feu del colonnello Laroque ed i nazionalisti monarchici destinati nel mondo moderno ad essere fascisti dappertutto.

Ma, sulla questione del diritto di sciopero, la maggioranza dell’Assemblea, così come la grande maggioranza della Commissione dei settantacinque, è evidentemente favorevole, in linea generale.

Un dissenso, specialmente fra noi di questa parte dell’Assemblea e gli amici democristiani, sorge sulla estensione di questo diritto.

Gli amici democristiani e, ciò che mi meraviglia, anche l’onorevole Della Seta del Gruppo repubblicano sono per la limitazione del diritto di sciopero; per escludere dal diritto di sciopero i lavoratori dei servizi pubblici, i lavoratori cioè statali ed i lavoratori di determinate produzioni da determinarsi, e ciò per difendere contro lo sciopero eventuale i diritti della collettività.

Su questo punto si è fatta anche molta retorica: si è parlato dell’eventuale sciopero dei medici, degli infermieri del manicomio, dei farmacisti, delle levatrici, dei becchini e di tante altre cose del genere.

È evidente, onorevoli colleghi, che in ogni regolamento ed in ogni manifestazione della vita vi può essere qualche cosa di assurdo, spingendo fino alle ultime conseguenze teoriche ogni posizione. Io ricordo che, quando, ancora ragazzo, cominciavo a lavorare nel movimento sindacale del mio paese, ci si batteva per le otto ore di lavoro; ricordo che una delle osservazioni più comuni, quella che aveva ottenuto il maggior successo contro la nozione delle otto ore di lavoro, anzi, contro il principio della determinazione delle otto ore di lavoro era questa, abbastanza ridicola: come fa il cliente che si trova dal barbiere allo scoccare delle otto ore con mezza barba fatta? Andrà in giro con l’altra mezza barba non fatta? Ed i reazionari di quel tempo credevano di aver fatto una osservazione così interessante e definitiva da dover scoraggiare i lavoratori nell’insistere nella richiesta della determinazione delle otto ore di lavoro.

Si rassomigliano molto a questa osservazione altre osservazioni che ho sentito fare a proposito del diritto di sciopero per i funzionari e per i lavoratori dei pubblici servizi. È evidente che il movimento sindacale, che in alcune regioni, ed in alcune zone in particolare rappresenta la maggioranza del popolo, non è insensibile allo sciopero dei servizi pubblici; perché gli stessi lavoratori organizzati nei sindacati sono i primi ad essere danneggiati da determinati scioperi di determinati servizi pubblici: per esempio, lo sciopero dei tranvieri, dei ferrovieri ecc. Perciò i lavoratori organizzati nei sindacati si preoccupano a che non vi siano scioperi, che possano danneggiare altri lavoratori e possano avere delle conseguenze negative nella vita nazionale del Paese. Ma evitare lo sciopero nei servizi pubblici, quando è una esigenza effettiva della vita collettiva della Nazione, deve essere il prodotto spontaneo della libera volontà dei lavoratori interessati e non una imposizione violenta che venga dalla legge. Tanto è ciò vero, che lo statuto della Confederazione del lavoro, lo statuto che i lavoratori si sono dati essi, liberamente, senza nessuna ingerenza governativa, stabilisce tassativamente una remora allo sciopero dei servizi pubblici, se volete, un’autolimitazione. Cosa dice lo statuto della Confederazione? «I lavoratori dei servizi pubblici, prima di effettuare uno sciopero, devono avere l’autorizzazione del Comitato direttivo della Confederazione del lavoro», cioè dell’organo centrale dirigente che rappresenta non l’una o l’altra categoria dei lavoratori, ma l’insieme dei lavoratori italiani, cioè una parte notevole della collettività nazionale.

Del resto, i lavoratori dello Stato e degli altri enti parastatali o enti locali stanno dando e hanno dato tante e tali prove, non solo della loro maturità sindacale, ma del loro altissimo senso civico, che veramente, da parte dell’Assemblea Costituente, negare di sancire nella Carta costituzionale il diritto di sciopero significherebbe compensare troppo male il loro senso di civismo. Non ho bisogno di spendere molte parole: tutti qui sappiamo quanto siano gravi oggi le condizioni economiche dei lavoratori statali e anche di lavoratori sottoposti a lavoro pesante e sfibrante come i ferrovieri, come i postelegrafonici; ciò è vero anche per tutte le categorie statali, compresi i maestri, i professori, i magistrati, i funzionari di ogni grado. Ebbene, malgrado questa situazione di estremo disagio, malgrado che il Governo si sia sentito nella necessità di rispondere «no» per un certo tempo ad alcune rivendicazioni minime più che giustificate – e riconosciute giustificate dallo stesso Governo – da parte dei lavoratori, non abbiamo avuto degli scioperi nel nostro Paese. Quando, per esempio, di fronte ai ferrovieri, molti dei quali invocano dalla Confederazione del lavoro la facoltà di scioperare per far valere le proprie rivendicazioni più che giustificate, da parte di altri ferrovieri e della Confederazione del lavoro si è fatto osservare che oggi uno sciopero delle ferrovie metterebbe in pericolo intere popolazioni che hanno l’approvvigionamento di 24 o 48 ore e che, mancando gli approvvigionamenti, a causa dello sciopero delle ferrovie, intere popolazioni resterebbero senza pane, i ferrovieri, come i postelegrafonici, come tutti gli altri lavoratori dello Stato, pure in condizioni di fame, di miseria atroce, non hanno scioperato, dando una prova grandiosa – per me – del loro spirito civico e del loro senso di solidarietà con gli interessi generali della Nazione e del popolo italiano (Vivi applausi a sinistra).

Volete proprio compensare adesso questo atteggiamento dei lavoratori statali, parastatali e degli enti locali di fronte agli interessi del Paese con un diniego del diritto di sciopero? Che cosa significherebbe questo?

BELOTTI. Non è un diniego. Si tratta di disciplinare il diritto di sciopero. (Commenti Rumori all’estrema sinistra).

DI VITTORIO. Ciò significherebbe che l’Assemblea Costituente non avrebbe fiducia nel senso civico e nello spirito di abnegazione dei lavoratori dello Stato ed avrebbe fiducia invece dei poteri dello Stato, in leggi dello Stato che con mezzi coercitivi dovrebbero impedire lo sciopero.

Signori, se non temessi di annoiarvi, potrei citarvi dei dati dai quali risulta che in tutti i Paesi, fino a quando il diritto di sciopero è stato negato, ostacolato, limitato o disciplinato come dice l’onorevole collega (che è, poi, la stessa cosa), gli scioperi sono stati più numerosi e più violenti. Quando invece il diritto di sciopero è stato largamente riconosciuto ai lavoratori, gli scioperi sono stati di numero inferiore ed hanno avuto sempre un carattere più normale e meno violento.

Questo deve valere anche per i lavoratori dello Stato.

In ultimo vorrei fare una semplice osservazione: i lavoratori dello Stato, i funzionari di ogni grado, in grande maggioranza laureati, i quali nella loro maggioranza non sono orientati verso principî di carattere estremista, sono tutti, dico tutti, assolutamente unanimi nel rivendicare il diritto di sciopero, e parlo di lavoratori che nessuno qui e fuori di qui avrebbe il diritto di accusare di mania scioperaiola, perché non hanno mai scioperato.

Ma tutti questi lavoratori, compresi i lavoratori democratici cristiani, i lavoratori liberali e ce ne sono anche alcuni qualunquisti, tutti in seno ai sindacati sono unanimi nel rivendicare il diritto di sciopero perché, signori, ci sono molti dissensi su questa questione nella Costituente, nella stampa, nei circoli più o meno ben pensanti, ma in seno alle masse lavoratrici non vi è nessuna discussione in materia. Tutti i lavoratori approvano unanimemente il diritto di sciopero esteso a tutti i lavoratori.

Perciò noi domandiamo all’Assemblea Costituente di avere fiducia nelle masse lavoratrici, nel popolo lavoratore. Un Governo democratico deve essere e deve sentirsi così legato alla massa operaia e alla classe lavoratrice in generale da non avere nessun timore, nessuno! Se uno sciopero può avere conseguenze negative deprecabili per la vita del Paese, lasciate che gli stessi lavoratori lo apprezzino e la loro rinunzia allo sciopero sia il prodotto di una libera volontà dell’uomo direttamente e collettivamente interessato e non il prodotto di una coercizione, di una legge, di una imposizione che proviene dall’alto!

BELOTTI. C’è l’esempio della Russia! (Vive proteste a sinistra).

DI VITTORIO. L’ho già detto, ma sento la necessità di ripetere al collega che ha interrotto che in Russia c’è il diritto di sciopero come tutti gli altri diritti; soltanto, gli operai non fanno oggi lo sciopero, perché lo farebbero contro se stessi, lo farebbero contro il loro stesso interesse, poiché in Russia ognuno lavora. (Commenti Interruzioni al centro e a destra).

Sarebbe molto utile che si cominciasse ad imparare che cosa è la Russia, che cosa c’è in Russia! (Commenti Interruzioni a destra e al centro).

PRESIDENTE. Prego i colleghi di non interrompere. Onorevole Di Vittorio, prosegua il suo discorso.

DI VITTORIO. Onorevoli colleghi, io credo che la maggioranza dell’Assemblea, come già nella Commissione dei settantacinque, vorrà approvare nel suo complesso il Titolo III del progetto di Costituzione, ivi compreso il diritto di sciopero puro e semplice, così come è stato redatto, senza restrizioni, compiendo in tal modo un gesto di fiducia cosciente e consapevole verso le masse lavoratrici. E credo che così facendo Assemblea Costituente risponderà alle più vive aspettative delle masse lavoratrici italiane, le quali auspicano di realizzare, nell’ordine, nella calma, nella legalità i nuovi diritti che hanno già di fatto conquistato e le riforme strutturali, sociali, che sono indispensabili per aprire al nostro Paese un’era di tranquillità, di benessere e di pace, che deve permettere ai lavoratori italiani, manuali ed intellettuali, cioè alla grande maggioranza del popolo, di conquistare un livello superiore di benessere e un più alto grado di civiltà. (Vivi applausi a sinistra Congratulazioni).

Presidenza del Vicepresidente TARGETTI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Merighi. Ne ha facoltà.

MERIGHI. Confesso di essere un po’ titubante a parlare, innanzitutto perché sento profonda la responsabilità che abbiamo tutti di abbreviare la discussione. È un senso di autodisciplina che giustamente è stato invocato e che io seguo, e mi limiterò per questo a rapidi accenni.

Mi fermerò soprattutto a parlare dell’articolo 34.

Sono poi titubante anche per questo fatto, che l’intervento dei medici, quando si parlò dell’articolo 26, non fu – dirò così – eccessivamente brillante, soprattutto per l’accoglienza che la Commissione e l’Assemblea stessa hanno fatto alle loro proposte.

Forse su queste questioni che interessano un pochino la categoria dei medici, sulle questioni sanitarie del Paese, incombe la disgrazia che incombe sulla categoria dei medici stessi. I medici, in fondo, voi lo sapete, sono delle persone molto desiderabili, ma tanto più sono desiderabili, tanto più sono soggetti alle critiche, ai frizzi, ai lazzi della stessa popolazione che si serve dell’opera loro.

Forse quindi questa disgraziata qualità dei medici si riflette anche un po’ sulle questioni sanitarie, specialmente durante questo periodo in cui pare che molte altre questioni siano più utili e pressanti.

Ma se consideriamo attentamente, non possiamo fare astrazione, in qualsiasi circostanza della nostra vita sociale, dal contributo che deve venire dalle categorie sanitarie e ancor più dalla scienza medica.

Ma se sono titubante a parlare, per le dette ragioni, sono tuttavia questa volta confortato da un fatto: che oggi non sono soltanto i medici socialisti a portare qui il loro pensiero, ma con noi vi è anche una categoria di altre persone che attualmente hanno grande importanza nella vita sociale: gli organizzatori socialisti. Non vi faccia meraviglia questa simbiosi, come si direbbe in termine biologico, questa associazione. Vi ricordo che proprio nel Parlamento nazionale, sul principio di questo secolo, un grande medico, un grande ingegno di scienziato e nello stesso tempo mente aperta a tutti i problemi nazionali e dell’arte, Guido Baccelli, che tenne alto il decoro del Parlamento e del Governo, concepì e volle la medicina sociale. Ricordo a tutti che i primi saggi di legislazione sociale furono ispirati precisamente dai medici. Cito, a suo onore ed a sua memoria, l’esempio di Angelo Celli, intimamente socialista, e di Nicola Badaloni. Altri vi sarebbero ancora. Dunque la nostra non è un’associazione improvvisata, magari a scopo di tattica parlamentare: è una cosa insita nella sostanza della nostra vita, una cosa insita nei problemi sociali, che medici e sindacalisti possano trovarsi d’accordo a studiare e risolvere tali problemi nell’interesse della collettività.

Io vorrei pregare l’amico Ghidini, valoroso presidente della terza Sottocommissione, che ha studiato il tema «problemi economici» ed ha tanto senno e tanta competenza giuridica e contemporaneamente tanto senso sociale, di voler porre la sua attenzione in questo momento a quanto verrò ad esporre. Indubbiamente è da ricordare questo: che tanto i rapporti etico-sociali, quanto i rapporti economici, che noi andiamo a sanzionare nella nostra Costituzione, dovranno subire forse profonde modificazioni, attraverso le leggi che saranno destinate a stabilire questi rapporti. Indubbiamente però questi titoli devono essere fissati nella nostra Costituzione, se non altro come diritti potenziali della nostra società. E per abbreviare, io vengo direttamente alle questioni di cui più particolarmente mi interesso, e cioè alle questioni che sono conglobate nell’articolo 34. La Commissione ha redatto un articolo in questo senso: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari alla vita ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale». Nessuna discussione in proposito.

Però a noi pare che questo comma primo dell’articolo 34 trovi la sua sede migliore o all’articolo 31 o all’articolo 32, in quanto che l’articolo 31 stabilisce il diritto ed il dovere al lavoro. Per converso, quindi, sembra conveniente stabilire anche quella che è la contropartita di questo diritto e di questo dovere. Quando un cittadino non può ottemperare a questo dovere e non può esercitare il diritto, interviene la società, che, qualora il cittadino sia inabile e sprovvisto dei mezzi, deve provvedere al suo mantenimento ed alla sua assistenza. Quindi non è per proporre una modifica che crediamo opportuno togliere questo comma, ma perché vorremmo piuttosto passarlo all’articolo 31, come sede più naturale. Dove noi ci differenziamo nel concepire l’assistenza che verrebbe sanzionata nei successivi commi dell’articolo 34, è nel punto ove si dice: «I lavoratori, in ragione del lavoro che prestano, hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».

Anzitutto, faremmo eccezione in questo. Cosa vuol dire «in ragione del lavoro che prestano, hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati?».

Se i mezzi devono essere adeguati per vivere, indubbiamente non si può tener conto del lavoro prestato; potrebbe essere il lavoro di un minorato e quindi minimo.

Ecco perché proporremmo che fosse soppresso l’inciso «in ragione del lavoro che prestano»; e proporremmo una formulazione in cui si dicesse che il lavoratore ha diritto ad avere assicurati i mezzi necessari alla vita e le cure sanitarie.

L’articolo 26 dice: «La Repubblica tutela la salute, promuove l’igiene e garantisce cure gratuite agli indigenti».

Se i colleghi ricordano, proprio io ho sostenuto che non si dovrebbe parlare di indigenti, perché la società deve assicurare le cure e la prevenzione a tutti i cittadini. Quindi, noi insistiamo su questo fatto: che, oltre ai mezzi per la vita, siano assicurate le cure sanitarie; se si parla di invalidità e vecchiaia, indubbiamente è necessario pensare anche alle cure di questi malanni.

Quindi, proporremmo quest’altra formulazione del comma:

«Il lavoratore ha diritto di avere assicurati i mezzi necessari alla vita e le cure sanitarie per sé e per la famiglia, nei casi di malattia, di disoccupazione involontaria, d’infortunio, d’invalidità, vecchiaia». Ed aggiungiamo un concetto, che forse farà rabbrividire qualcuno: «ed in caso di morte la famiglia ha diritto alla pensione».

Indubbiamente, questo diritto alla pensione riguarda la categoria di lavoratori che restano privati del sostegno e che si troverebbero quindi nella impossibilità di trovare i mezzi di sussistenza.

Sta bene che la parte prima dice che la società assicura al lavoratore i mezzi necessari alla vita, ma come faremmo ad estendere queste provvidenze ai familiari dei lavoratori morti o per malattia o per infortunio?

D’altra parte, una provvidenza del genere penso non inciderebbe fortemente sulle nostre finanze, ed a questo proposito torna opportuna la notizia che ho rilevata oggi dai giornali: che, cioè, la Confederazione generale del lavoro intende creare un fondo di solidarietà per gli assicurati dell’Istituto di previdenza sociale che non hanno diritto a pensione.

È un principio che dobbiamo accogliere immediatamente e che sono lieto di aver prevenuto ed esteso con la presentazione di questa aggiunta all’articolo in parola.

D’altra parte, faccio appello ai colleghi che ieri in quest’Aula, nella discussione di questo Titolo, hanno ricordato la convenienza e la necessità che ancora esista una carità. Questo noi facciamo, se stabiliamo il principio delle pensioni e della loro reversibilità alle vedove ed agli orfani.

Noi indubbiamente con queste pensioni reversibili verremo a sollevare tanti istituti, orfanotrofi, case di riposo e altre istituzioni che sono con grande difficoltà sostenute dagli enti pubblici e che debbono fare spesso appello alla carità. Noi non vogliamo discutere il concetto della carità, nobilissimo sentimento che troverà sempre in tutti i tempi la possibilità della sua esplicazione. Ma quanto meno dovremo fare appello alla carità per aver fatto appello alla solidarietà sociale, tanto più saremo profondamente lieti.

Poi noi avremmo aggiunto un altro comma che dice così: «I cittadini i quali per infermità congenita o acquisita sono inabili al lavoro ma possono con una rieducazione professionale adatta essere resi idonei a un particolare lavoro, hanno diritto a questa rieducazione e successiva immissione al lavoro». È un principio altamente sociale. Oggi credo che questa rieducazione al lavoro sia soltanto goduta dagli infortunati sul lavoro: ma vi sono tanti altri individui, tanti altri esseri, per usare una parola più generica, che si possono trovare minorati profondamente nella loro capacità lavorativa. Ricordiamo, per dare un esempio solo, i malati di poliomielite anteriore, che restano paralizzati o semi paralizzati ad un arto. Oggigiorno non trovano assistenza, oltre le cure mediche, spesse volte inutili, e non hanno possibilità di occuparsi perché è mancata una conveniente rieducazione e l’indirizzo ad un lavoro utile per foro e per la società. Chiediamo quindi il diritto alla rieducazione, pensando anche alle infermità congenite. Ci sono venuti in questi giorni appelli pressanti, profondamente commoventi, da parte dei ciechi. Non possiamo abbandonare questi disgraziati, anche quelli che sono ciechi nati. Noi sappiamo che possono, per l’acuirsi profondo, intensissimo di tutti gli altri loro sensi, essere utilizzati in lavori convenienti anche delicatissimi. La società deve facilitare questa immissione dei ciechi nelle forze produttive della Nazione rispondendo così, non solo all’appello dei ciechi stessi, ma ad un senso profondo di solidarietà umana. Onorevoli colleghi, ci siamo resi conto, noi medici e organizzatori sindacali, delle difficoltà finanziarie per applicare questi principî. Perciò siamo entrati in un concetto che non è nuovo; che fu ribadito molte volte e che è questo: dobbiamo riprendere, per risolvere i problemi dell’assistenza sociale, quella idea dell’assicurazione generale contro le malattie. Non è un concetto rivoluzionario. Io vi ricordo, egregi colleghi (mi dispiace che non sia qui presente l’onorevole Labriola allora Ministro del lavoro), che nel 1922 a seguito di un congresso delle Camere del Lavoro italiane tenuto a Trieste si reclamò, da parte degli operai organizzati, l’assicurazione generale obbligatoria contro le malattie. La Federazione degli ordini dei medici studiò allora un progetto di assicurazione contro le malattie, d’accordo con l’organizzazione sindacale e tutte le categorie mediche (e non fu una cosa facile mettere d’accordo le varie categorie dei medici); e questo progetto fu consegnato all’onorevole Labriola che lo accolse: lo stesso Presidente del Consiglio Giolitti lo approvò e se non fosse arrivato il fascismo probabilmente quel progetto sarebbe stato varato e sarebbe oggi una conquista su cui avremmo potuto contare.

L’assicurazione generale contro le malattie dal punto di vista economico inciderà grandemente sulle nostre finanze? Noi non lo crediamo. Se pensiamo alle spese enormi, che aumentano paurosamente giorno per giorno, sostenute, non dirò solo dagli istituti e dagli enti assicurativi che noi conosciamo, ma dai Comuni e dalle Congregazioni di carità per l’assistenza sanitaria, in fatto di spedalizzazioni, in fatto di sussidi per cure, in fatto di medicinali, troviamo cifre iperboliche, oserei dire pazzesche. Consolidando queste spese su un piano preciso e stabilendo una tassa proporzionale al reddito dei cittadini, noi potremmo risolvere, anzi risolveremmo senza dubbio, il problema dell’assistenza domiciliare ed il problema dell’assistenza ospedaliera e di ogni altra provvidenza. Anche il problema ospedaliero grava fortemente sulle nostre responsabilità civiche. Noi risolveremmo tanti problemi. E, badate, non è una semplice ipotesi che si faccia qui in questo momento, e per iniziativa di noi pochi. È da qualche giorno che il Gruppo medico parlamentare ha raccolto delle risposte ad un referendum proposto a tutte le categorie dei medici italiani. Vi assicuro che tutte le risposte sono concordi nello stabilire questo principio: che bisogna passare allo studio e all’applicazione di un sistema di assicurazioni contro le malattie, per cui naturalmente non vi siano più dispersioni, non vi siano più incongruenze, e vi sia una protezione maggiore, accanto all’assistenza medica, sanitaria e previdenziale attuale e che formi un tutto veramente completo ed organico.

Poi viene l’ultimo comma:

«All’assistenza ed alla previdenza provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato». Siamo d’accordo. Ma qui permettete, egregi colleghi, e permettano i membri della Commissione, che io ritorni sopra un argomento che ho già trattato a proposito della discussione dell’articolo 26, argomento che era già stato sostenuto precedentemente dal collega Caronia, ma la cui proposta fu dallo stesso ritirata. Io avevo aderito alla proposta dell’onorevole Caronia e non potei quindi, ritirandola egli, riproporre la questione. La riprendiamo oggi. Noi sappiamo che questi istituti di assistenza e di previdenza – e io direi anche con una parola più generica: questi istituti di protezione sociale – sono molteplici. E infatti la Commissione stessa, ricordando quanto già esiste, ha detto: «provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato». Noi riprendiamo la questione del coordinamento di questi istituti, tanto più che, se in realtà si dovesse applicare il principio dell’assicurazione generale obbligatoria contro le malattie, noi avremmo la necessità assoluta di un organo tecnico propulsore e coordinatore di queste istituzioni vecchie e nuove. Dal lato amministrativo, siamo d’accordo che dovrebbero amministrarsi a parte. E badate che in questa concezione di coordinamento dal lato tecnico e di separazione dei servizi tecnici da quelli amministrativi, sono entrati già anche molti di coloro che sono a capo delle attuali istituzioni mutualistiche, le quali oggi, per converso, subordinano purtroppo il lato tecnico, grandemente più importante, alle funzioni amministrative. Noi domandiamo – e insistiamo su questo punto – che tutti questi organi, privati o dello Stato, mutualistici, previdenziali, assicurativi a scopo sanitario siano coordinati dal lato tecnico da un unico organo autonomo indipendente.

Anche in questo punto troviamo consenziente la generalità delle categorie interessate, in prima linea i medici. Esse trovano che non si possono realizzare molte cose se non c’è un coordinamento nel campo dell’assistenza sociale, dell’igiene, della previdenza e della prevenzione. Al giorno d’oggi ad esempio non è assolutamente possibile organizzare o dar corso a provvedimenti sanitari senza passare attraverso la burocrazia delle Prefetture. Non si può dare corso a provvedimenti di carattere generale a favore della collettività, perché l’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica urta ora contro l’uno ora contro l’altro organismo, dipendente da altra amministrazione statale.

In proposito posso citare questo fatto. Durante e dopo la guerra, mentre l’Alto Commissariato per la Sanità pubblica faceva tutto il possibile per disinfestare e per disinfettare – facilitato in questo compito anche dagli aiuti dell’U.N.R.R.A. e dell’America – ci si era accorti che i vagoni delle ferrovie erano infestati da cimici e pidocchi. Si voleva intervenire, ma la Direzione sanitaria delle ferrovie non lo permise perché voleva fare da sé, ed i vagoni continuarono a circolare con cimici e pidocchi. Se noi vogliamo costruire o rinnovare ad esempio un ospedale, non possiamo perché gli aiuti, i consensi, le approvazioni necessarie, sono divisi almeno in tre Ministeri: il Ministero dell’interno, innanzitutto, poi, se questo ospedale avesse funzione didattica, come potranno avere tutti gli ospedali di una certa entità, il Ministero della pubblica istruzione, ed infine il Ministero dei lavori pubblici. Mettete d’accordo tre Ministeri sulla approvazione del progetto e vedrete quando si costruirà l’ospedale! Per questo insistiamo sulla nostra proposta. Noi non vogliamo togliere a nessuno la facoltà di iniziativa sulle vie del miglioramento civile, ma intensificare l’opera e dare precise direttive tecniche per non avere dispersioni ed interferenze. Io vedo in questo momento, avanti a me, spuntare il sorriso ironico dell’onorevole Nitti. (Interruzione dell’onorevole Nitti). Mi perdoni, onorevole Nitti, ma oltre al sorriso che rivedo si rinnova nel mio animo, tristemente, il ricordo del suo nero scetticismo di fronte alle possibilità di questa nuova Repubblica: di fronte alle affermazioni di questo statuto che vogliamo dare alla nostra Repubblica in cui crediamo. Noi vogliamo pensare – e non saremmo socialisti se non lo facessimo – vogliamo pensare all’avvenire. Ci lasci, onorevole Nitti, e con lei tutti quelli che non credono, ci lasci illuminare questa Costituzione con un raggio di fede; che non sarà una gran fede nelle nostre modeste possibilità scientifiche, ma sarà però, ed è, una grande fede nella nostra missione di medici e di organizzatori socialisti. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Spallicci. Ne ha facoltà.

SPALLICCI. Vorrei, onorevoli colleghi, richiamare la distratta attenzione di questa Assemblea su di un argomento che è stato tema di diuturne discussioni entro quest’Aula. Noi medici non abbiamo avuto la presunzione di interloquire in materia di diritto e ci siamo imposti il silenzio ossequenti al vecchio aforisma ne sutor ultra crepidam, anche se la crepida nel caso nostro non era il modesto prodotto del calzolaio ma la nobile medicina sociale.

Noi, onorevoli colleghi, abbiamo sostituito alla figura del civis la figura del lavoratore, abbiamo rinunciato quasi a quella che era una figura così cara ai nostri nonni repubblicani, quella del cittadino; abbiamo tolto quasi dalla comunità della civitas l’uomo per introdurlo nella casa del lavoro, e questa vorremmo consacrare come un tempio.

Io vorrei intrattenervi sull’articolo 33, che parla della protezione del lavoro della donna. Ha dei precedenti illustri quest’articolo. Il collega Merighi, un momento fa, ha accennato agli illustri medici Baccelli e Badaloni. Io potrei dirvi anche che vi è qualcuno che precede questi eminenti assertori della medicina sociale: vi è Agostino Bertani, ad esempio, il quale fece tesoro di quanto Alberto Mario, che pure non era medico, aveva cercato nel suo Polesine, lui così ansioso e così preoccupato dello stato di pauperismo in cui viveva il bracciantato agricolo del suo paese.

Perché, la medicina sociale è antica, per lo meno quanto l’unità d’Italia: risale al 1870-71. Il progetto di legge di Alfredo Baccelli, che riassume quello del ministro Carcano, è del 1902. Si diceva allora, con parole che sembrano modernissime, chela donna e il fanciullo inferiore ai dodici anni, dovevano essere sottratti ai lavori delle cave, delle miniere, delle gallerie sotterranee. Doveva la donna avere dei benefìci quando era in istato di gravidanza: essere dispensata dal lavoro un mese prima e fruire di un altro mese di riposo dopo il parto. In più, erano già istituite da allora le sale di allattamento negli opifici, vi era il libretto sanitario in cui il medico doveva certificare della sanità e dell’attitudine al lavoro dell’operaia. Per cui, nel 1906, all’Assemblea della Convenzione internazionale di Berna, l’Italia non si presentò impreparata. Aveva già, a suo onore, preso tutti questi provvedimenti legislativi cui ho accennato.

Era, dunque, superata fin da allora quella resistenza da parte degli industriali che non intendevano, ansiosi soltanto del rendimento della produzione, fare quelle concessioni al proletariato femminile; era sopita la contesa tra costoro e gli altri, che erano più intenti a guardare la prole delle donne lavoratrici. Data da allora una nuova legge riguardante l’assicurazione della maternità che, se non erro, è andata in vigore dal 1910, una assicurazione obbligatoria con la creazione di una Cassa di maternità, che dava una indennità alle operaie per quel mese che precede e segue il parto.

Il Codice entra così a far parte della Costituzione, è stato detto, ma vi entra quando già è entrato, per una legge umana e umanitaria, nel nostro costume. Quindi è dovere ed è compito della nostra Carta costituzionale sancire questo in un articolo, e dobbiamo per questo essere grati alla Commissione che vi ha provveduto egregiamente.

Guardiamo la situazione delle donne lavoratrici nelle grandi città e negli stabilimenti, quando la sirena ha lanciato il suo grido d’allarme, che non è più quello della minaccia dal cielo, ma il richiamo della officina, e questo grido di sirena ci ricorda un pochino la sensazione di brivido che ne provava lo Zola: era per lui la voce scatenata dell’industrialismo, questo Dio Moloch, che faceva passare un bramito famelico sulle folle minerarie di «Germinal».

Ebbene, la donna si allontana e resta vuota la casa. Nella casa rimangono soli eredi, orfani temporanei, i figli, e c’è soltanto la scala polverosa delle grandi case delle nostre città, e c’è il pianerottolo, dove si raccolgono i bimbi, ma vicino alla scala ed al pianerottolo c’è la strada, e questa è cattiva consigliera per i bimbi. Quando la madre ritornerà, troverà dei bimbi più sudici, più riottosi e più insolenti; tornerà o sul mezzogiorno, se la mensa aziendale lo permette, oppure alla sera. Ed alle volte può darsi che questa donna ritorni per un periodo più lungo, ritorni perché il medico ha prescritto un congedo, perché ha formulato una diagnosi. È una lavoratrice degli stabilimenti poligrafici, ad esempio, è una lavoratrice dove si impastano delle vernici a smalto, dove ci sono dei composti piombiferi, con oltre il 2 per cento di piombo, è una lavoratrice della ceramica, delle terraglie, della vetrificazione, delle stoviglie, o è una lavoratrice del caucciù piombifero, ed allora la donna tradisce già nel suo pallore terreo la malattia, la intossicazione da piombo, cioè il saturnismo, per cui presenta quell’alito dolciastro caratteristico dell’intossicazione del piombo, e l’orletto grigio gengivale che corona la radice dentaria, che sono per noi medici i sintomi peculiari della malattia..

E non soltanto la madre attempata, ma anche la madre giovane, anche la nubile può essere condannata alla sterilità ed alla morte per intossicazione da piombo, per saturnismo; può essere anche condannata ad avere un allattamento così scarso da dover alimentare così malamente la prole da essere costretta poi a sostituire il seno materno con quelle alimentazioni artificiali che sono causa di così impressionante mortalità infantile. Ma questo non avviene soltanto nello stabilimento (ed io non ho intenzione di sfogliare davanti a voi un testo di patologia del lavoro): ma è opportuno che accenni ad una malattia delle risaie, alla leptospirosi. C’è in provincia di Vercelli, che è la provincia maggiormente risicola di tutta Italia, l’affluenza di circa 200 mila mondine da altre provincie, in momenti prestabiliti. Ebbene, questa malattia, che porta delle lesioni epatiche e renali, si contrae nelle risaie; le mondariso, non per il primo anno ma in una serie di anni successivi, vanno incontro a questa malattia che è data da un parassita che vive a spese del topo e del ratto da dove passa nelle acque dolci correnti o ferme delle risaie. Malattia che può compromettere non solo la salute delle madri, ma anche la salute della prole.

Qui la donna è la vittima del lavoro. Non a questa, noi potremmo dire: «donna, la causa è in te, piangi te stessa» come alle donne della grassa e magra borghesia, che si vanno intossicando, alle volte, con delle biacche, dei cosmetici fatti da manipolatori di frodo, o che cercano una tinta per imbiondire la loro chioma nera o annerire la canuta e che possono andare incontro ad analoghi malanni, o ad altre infine che si sono date con sfrenata baldanza al fumo, cercando di superare in questo anche l’uomo, e vanno incontro a malattie che sembravano un triste privilegio del maschio: l’ulcera gastrica e duodenale e anche l’angina pectoris.

Le vittime che noi commiseriamo e che vorremmo strappare al loro triste destino sono da un’altra parte.

Madre operaia, noi condividiamo la tua amarezza. Anche colla tutela sanitaria, anche col lavoro non affaticante e in ambiente non malsano tu devi affidare il bambino al nido, all’asilo. Sono le provvidenze della società materna. Garantisco io, ella ti dice, e tu ringrazi la custode, l’assistente, l’infermiera in camice bianco che farà le tue veci durante la tua assenza. O non dissero un tempo: siano i bambini posti sotto la cura di un collegio di magistrati e affidati ad apposite governanti in un alloggio comune? Questo indicava Platone.

Questa è provvidenza e assistenza sociale del nostro tempo. Non è il crudele allontanamento della madre cui non sarà più dato riconoscere il figlio, come si pretendeva in quella repubblica fuori della realtà e talvolta anche fuori dell’umanità, ma è pure una parentesi di rinuncia al governo dei figlioli che si ripete sei volte alla settimana durante le ore di lavoro.

Noi, adunque, inseriamo nella nostra Carta costituzionale questo articolo, che io vedo completato da un emendamento non mio, ma al quale sottoscrivo perché pone l’accento sulla funzione materna della donna, un emendamento che porta la firma della onorevole Federici Maria e dell’onorevole Medi, il quale dice:

«Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e materna».

L’onorevole Di Vittorio ha detto che la nostra Costituzione dovrà essere temporanea, perché egli auspica una nuova Costituzione in un ordinamento sociale migliore, che non sia questo. Può darsi che noi non siamo completamente d’accordo in ciò che egli intende per nuovo ordine sociale, ma non importa.

DI VITTORIO. Ho detto che la Costituzione si deve proiettare nel prossimo futuro, non che ne dobbiamo fare un’altra.

SPALLICCI. Ad ogni modo, auguriamoci che la donna, in avvenire, possa essere sottratta allo stabilimento, all’officina e sia riportata nella sua funzione vera di donna. Possa il clima economico, il clima morale e sociale essere così elevato nel nostro Paese da permettere che la casa risuoni ancora di faccende e, magari, del ticchettio della macchina da cucire, cioè che alla donna sia realmente riservato e riconsacrato il suo compito di «angelo della famiglia» come disse il nostro Maestro.

Una voce a sinistra. Bel tempo che fu!

SPALLICCI. E che tornerà; noi dobbiamo realmente guardare nel futuro, vogliamo proiettarci, come diceva l’onorevole Di Vittorio, nel futuro e avere fede in questa affermazione lirica. Così la vide il Maestro nostro, un quasi Jacopo Ortis nella vita, a cui furono negati un volto sorridente di donna ed il volto clemente della Patria; Egli è fermo nella sua spoglia sottratta alla dissoluzione sul colle di Staglieno, accanto alle ossa della Madre, nella sua sosta mortale. Così vorremmo sentire l’occhio non vitreo della salma imbalsamata, ma vivo e brillante sotto l’arco maestoso della fronte di uno spirito immortale, volto su di noi, entro quest’Aula semideserta, sulla nostra Costituzione, a incoraggiamento e a monito, come a indicare: andate e dite una parola di fede, di bontà e di umanità al popolo italiano che pallido, esangue, allucinato, sta riprendendo la via che la guerra ingiusta gli aveva fatto smarrire e che sta per rinnovare il prodigio leggendario dell’araba fenice: risorgere dalle proprie ceneri e riprendere la sua strada e la sua missione di libera Nazione fra le consorelle della libera Europa. (Applausi).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE; Non essendovi altri iscritti a parlare, dichiaro chiusa la discussione generale.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Ghidini, a nome della Commissione.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Io, per verità, onorevoli colleghi, avrei rinunciato volentieri a prendere la parola in questo scorcio di seduta, non tanto perché la Camera sia oramai quasi deserta, quanto perché non ne trovo la necessità.

Se parlo, lo faccio, come dicono i civilisti, per ottemperare al regolamento; per chiudere la discussione di carattere generale e venire più presto che sia possibile agli emendamenti dei diversi articoli che sono stati proposti alla vostra considerazione.

Dico che mi pare inutile parlare perché quasi tutti gli oratori che si sono diffusi in questa discussione di carattere generale hanno discusso gli articoli e illustrato i loro emendamenti o soppressivi o aggiuntivi o modificativi della forma o della sostanza. In massima parte la discussione ha vertito sugli emendamenti, e quindi mi riservo di rispondere in questa sede, sentita l’opinione dei colleghi di Commissione sia per una ragione di delicatezza nei loro riguardi sia perché è l’opinione della Commissione che io devo riferire e non la mia.

Dovendo parlare in questo momento io mi debbo limitare a discutere le osservazioni di carattere generale e fondamentale che furono mosse al Titolo III del progetto.

E mentre la discussione generale è stata sobria e limitata debbo invece constatare che gli emendamenti proposti sono assai numerosi, ed è facile immaginare che aumenteranno ancora fino a comporre un grosso fascicolo, tanto da far pensare che il Titolo abbia suscitato nell’animo degli onorevoli colleghi una infinità di dubbi e di dissensi mentre al contrario si deve constatare, in base alla stessa discussione, che essa non poteva essere più calma e più serena e che l’Assemblea è sostanzialmente d’accordo colla Commissione. Eppure si tratta di un Titolo che è forse più interessante di ogni altro poiché riguarda una materia nuova in gran parte e certamente innovatrice, più o meno, a seconda dell’ampiezza maggiore o minore colla quale verranno interpretate le sue disposizioni, e perché tratta di interessi che toccano vivamente la sensibilità di tutti gli italiani. Un nostro Grande ebbe a dire che è facile mandare gli italiani sulle barricate a compiervi anche il sacrificio della vita, ma che è molto difficile indurli a mettere fuori una lira. Naturalmente, egli parlava della lira di un tempo!

Ripeto: questioni di carattere generale quasi non ne sono state fatte, molte invece di carattere particolare e colla maggiore serenità, salvo che nel tema dello sciopero. Ma anche in tema di sciopero non direi che esista un vero dissenso. Vi sono divergenza di vedute e differenza di temperamenti; ma si può dire che l’Assemblea è unanime almeno sulla convenienza di affermare nella Costituzione il diritto di sciopero. Solo dal Gruppo qualunquista è venuto un emendamento, quello dell’onorevole Giannini, in cui si dice che l’articolo 36 deve essere sostituito col seguente: «Lo sciopero e la serrata sono vietati. I conflitti del lavoro devono essere regolati dalla legge».

È forse questo l’unico emendamento che contrasti in pieno uno dei principî consacrati nella Carta costituzionale. Tutti gli altri rappresentano limitazioni o ampliamenti delle varie disposizioni del Titolo senza negarne però la essenza fondamentale.

Il solo che abbia portato la discussione in un campo veramente generale e fondamentale è stato l’onorevole Maffioli che ha posto a base del suo ragionamento una concezione dello Stato profondamente diversa da quelle che ha animato la parola de’ suoi stessi colleghi. Infatti è certo che non tutti i suoi amici accedono all’opinione da lui espressa. Egli in sostanza professa la concezione dello Stato agnostico; dello Stato che non deve intervenire nel campo economico; che lascia completamente libera l’iniziativa privata; dello Stato che non agisce come elemento attivo di coordinazione, di controllo e di propulsione del fatto economico, ma piuttosto come gendarme dell’ordine esteriore, di quell’ordine dietro il quale si riparano il privilegio di pochi, la miseria di molti e la ingiustizia per tutti.

Ma l’onorevole Maffioli stesso ha sentito tutta l’anacronisticità dal suo pensiero tanto che a un certo punto (se ho ben compreso) ha soggiunto, per temperarne l’asprezza, che bisogna impedire il formarsi del supercapitalismo. Ma egli non si è accorto che in tal modo contradiceva alle sue stesse premesse. Se si lascia libero sfogo alla legge della libera concorrenza e alla libera iniziativa animata solo dal fine del profitto personale, si arriva pur sempre al supercapitalismo e così a quelle conseguenze che lo stesso onorevole Maffioli depreca, fra le quali primeggia la guerra tremenda che fu la rovina di tanti popoli.

A conforto comune devo tuttavia rilevare che l’onorevole Maffioli ha espresso un’opinione personale. Io devo pensare che egli non abbia parlato in nome del Gruppo al quale appartiene poiché un altro deputato del Fronte dell’uomo qualunque, altrettanto autorevole, l’onorevole Colitto, a proposito dei consigli di gestione, contro cui l’onorevole Maffioli è partito con lancia in resta, ha dettato questo emendamento testuale: «I lavoratori hanno diritto di partecipare nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera per cooperare allo sviluppo tecnico ed economico di esse».

Il che vuol dire che l’onorevole Colitto non solo non vuole allontanare i lavoratori, ma vuole che essi collaborino allo sviluppo e all’incremento tecnico dell’azienda. Egli dunque non trova nulla di catastrofico nella creazione di questi consigli.

Una voce al centro. Le due tesi non sono in contrasto.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Non tutti adunque sono dell’opinione dell’onorevole Maffioli, e penso che la concezione dello Stato che egli ha posto a base della sua discussione non sarà accolta neppure dalla maggioranza del suo Gruppo.

Tutti più o meno ammettono l’intervento dello Stato nel settore economico: tutti ammettono che lo Stato debba controllare e coordinare le iniziative economiche. Sarà questione di limiti: si va da coloro che si lanciano verso l’avvenire con tutta la foga della loro aspirazione verso l’ideale della giustizia sociale a coloro che camminano più lenti, segnando il passo, come i liberali, ma che pure camminano. Soltanto l’onorevole Maffioli si è fermato sugli spalti dell’antico liberismo, come se in cento anni nessun passo in avanti avesse compiuto la evoluzione sociale.

Lo stesso onorevole Cortese ammette l’intervento dello Stato. Ma io non voglio portare la discussione in questo campo di natura dottrinale. Non voglio tramutare questa Aula in un’accademia o in una sfida di conferenze. Gli onorevoli colleghi avrebbero bene il diritto di lasciarmi parlare agli scanni vuoti.

Tanto meno sarebbe necessario perché altri onorevoli colleghi ne hanno, più o meno, parlato. Ne ha parlato, in linea prevalentemente teorica, l’onorevole Malvestiti, e ne ha parlato in un lucido discorso più aderente al testo l’onorevole Dominedò. Ne hanno parlato anche gli onorevoli Bosi, Montagnana. e Tega. Non sono tutti d’accordo nei particolari ma lo sono nel concetto fondamentale. L’onorevole Dominedò ha sostenuto che il Titolo III del nostro progetto di Costituzione rappresenta un tentativo di conciliazione dei diritti della persona coi diritti della collettività. Con questa affermazione dell’onorevole Dominedò, condivisa dagli stessi comunisti pei quali ha parlato l’onorevole Di Vittorio, si esclude il giudizio espresso dall’onorevole Maffioli e che un giorno espresse anche l’onorevole Capua quando ebbe la malinconica idea di emigrare all’estero e, peggio ancora, di voler portare ai nostri morti la notizia che «la nostra Patria è vile». Tanto lei, onorevole Capua, era persuaso che questo fosse un titolo socialcomunista!

CAPUA. Lei ha interpretato male la questione sul discorso della Patria. Era un altro concetto, che non riguardava questo Titolo. Non per chiarire questo concetto che dei sta ripetendo, ho detto questo. Molti deputati da me interpellati personalmente sarebbero stati ben lieti di addivenire alla decisione di portare poi questa Costituzione al referendum popolare. Su questo concetto ho inserito questa frase, non sul terzo Titolo, che stiamo discutendo.

GHIDINI. Presidente della terza Sottocommissione. Sta bene. Se è così, come Ella dice, vuol dire che l’isolamento della tesi Maffioli è veramente completo. La verità ad ogni modo è questa: che il nostro non è un progetto socialista. Io potrei dolermi, data la mia fede antica e costante, che tale non sia. Ma, ripeto, non è un progetto social-comunista. Come diceva l’onorevole Taviani poco fa, il nostro non è neppure un progetto di compromesso; non abbiamo voluto combinare le nostre idee con altre diverse od opposte. Se ci fossimo battuti sul campo delle ideologie, saremmo ancora a discutere, perché nessuno di noi avrebbe mortificato la propria fede e il proprio programma. Noi piuttosto, volendo fare una cosa realistica e pratica, checché ne pensi l’onorevole Nitti, abbiamo creduto di dovere adattare le disposizioni del Titolo alle condizioni dell’economia del Paese: a quelle che attualmente esistono ed anche a quelle che già si delineano in modo chiaro e sicuro nell’orizzonte politico ed economico del Paese, appunto perché la Carta costituzionale non registra soltanto il passato o il presente ma deve anche additare le vie dell’avvenire. Che questa non sia una Carta veramente socialista, ma una Carta che piuttosto renda possibile il progresso civile del Paese e consenta alla classe lavoratrice la realizzazione delle sue più legittime e profonde rivendicazioni, lo dimostra tutto il tessuto di questo, lasciatemelo dire, organico Titolo III del progetto di Costituzione.

È possibile parlare di un progetto social-comunista quando si afferma all’articolo 38 che la proprietà privata è assicurata e garantita e all’articolo 39 che l’iniziativa privata è libera?

Non è dunque un progetto social-comunista. È vero che sono affermati vincoli e limiti al diritto di proprietà. Ci sono limiti, perché non si vuole che si formino delle grandi concentrazioni di proprietà che sottraggono all’iniziativa privata grandi strati di produttori e costituiscono a un tempo delle potenze economiche tali che, se anche potessero condurre ad un grado di produttività più elevato, portano altresì a quella potenza politica che, non avendo altro intento che il vantaggio patrimoniale privato, disconosce e travolge gli interessi materiali, morali e politici della collettività scatenando quelle conflagrazioni che ci hanno portato alla miseria attuale.

Noi invece vogliamo che la proprietà si conformi alla sua funzione sociale. Del resto non è cosa nuova se tale concetto è affermato anche nel Codice civile fascista. Non è che io voglia mutuare questo concetto dal fascismo, per quanto, se c’è una cosa buona, io non abbia difficoltà ad accoglierla dovunque provenga perché la mia intransigenza non arriva fino alla cecità. Ma il concetto esisteva anche prima del fascismo ed esiste in tutte le legislazioni del mondo civile.

Quando l’onorevole Maffioli si lamenta dei vincoli posti alla proprietà, egli deve pensare che vincoli ci sono sempre stati. Sarà questione di limiti, e il nostro progetto non dice se questi vincoli dovranno essere più o meno gravi. Essi sono già nel nostro Codice civile per quanto riguarda la bonifica integrale; ci sono vincoli idrogeologici, vincoli al fine del rimboschimento e della sistemazione delle terre; per evitare che sia compromesso il regime delle acque, ecc., e nessuno ha mai sognato di avere in questo modo abolito la proprietà, o che i vincoli siano tali da condurre alla paralisi dell’iniziativa privata.

L’onorevole Maffioli ha parlato anche (mi permetta che insista ancora sulle sue osservazioni, onorevole Maffioli, non solo per deferenza ma anche perché ella è stato il solo che veramente abbia portato la questione sopra un campo di indole generale) di altri vincoli, ad esempio dell’espropriazione. Ma basterà che gli ricordi la legge del 1865. Egli ha parlato anche del diritto successorio, lamentando che nel Progetto si alluda ad eventuali diritti dello Stato sulle eredità come se nella nostra legislazione civile, non solo in quella mussoliniana, ma anche in quelle anteriori al fascismo non esistesse già la disposizione che, quando un Tizio muore «intestato» e non vi è parente entro il sesto grado, la proprietà è devoluta allo Stato, il quale diventa così erede legittimo. E poi, indipendentemente da questa disposizione, non va dimenticata la tassa di successione, che in effetti non è una tassa perché non è proporzionata alla spesa del servizio ma un vero e proprio prelievo sul capitale: potrei aggiungere, se non temessi di spaventare ancora di più il collega, che nulla di strano ci sarebbe se questo prelievo che oggi è fatto in denaro domani venisse fatto piuttosto in natura. Concludendo io vorrei persuadere lo stesso onorevole Maffioli che non si trova di fronte a una cosa tanto paurosa come egli crede, ma che si tratta piuttosto di un progetto semplicemente ma indubbiamente progressivo. È un progetto che tende a sbarrare la via al passato regressivo e reazionario e contemporaneamente ad aprire la strada all’avvenire, cioè al progresso, alle profonde riforme, agraria, industriale e bancaria, che qui non vengono affermate, o codificate sotto forma di norma cogente, ma delle quali vengono poste le premesse in base alle quali il legislatore futuro, cioè la volontà popolare futura, possa attuare queste riforme creatrici della auspicata giustizia sociale.

A questo punto mi pare di avere esaurito la discussione di carattere generale e mi restano solo alcune critiche di carattere tecnico alle quali alludo rapidissimamente per non dilungarmi. Si dice: ci sono delle norme che non hanno rigore giuridico; sono quelle che dovrebbero essere tolte dal testo definitivamente, oppure confinate in quella specie di limbo che è il preambolo. A questa pretesa abbiamo già risposto con tale copia di argomenti che è perfettamente inutile che vi insistiamo. Il diritto al lavoro è un diritto potenziale, come ha avvertito esattamente l’onorevole Ruini nella sua relazione, in base al quale si vuole impegnare vivamente lo Stato ad attuare l’esigenza fondamentale del popolo italiano di lavorare. D’altra parte mi preme rilevare che l’obbligo dello Stato è circoscritto entro un limite preciso, mediante l’inciso «promuove condizioni per rendere effettivo questo diritto».

La terza Sottocommissione aveva proposto un inciso diverso «predispone i mezzi per il suo godimento». Era più drastico, ma parve eccessivo; parve che potesse andare oltre le effettive possibilità e fosse come un promettere troppo in confronto di quanto si poteva mantenere. Si è così adottata una dizione che limita entro questo confine di ragione e di piena attuabilità il diritto al lavoro, quel diritto che splende, direi, nella nostra Costituzione come una stella fulgidissima.

Debbo poi dire dell’obiezione mossa dall’onorevole Cortese nel suo acuto ed equilibrato discorso (grande dote per un oratore è quella dell’equilibrio), che cioè in tutti questi articoli sono indicati dei limiti e delle condizioni senza però precisarne la portata in guisa che l’iniziativa privata, ignara del suo futuro destino, ne sarebbe paralizzata con danno grave della produzione. Rispondo all’onorevole Cortese che la sua preoccupazione è eccessiva e che d’altra parte non è possibile raggiungere quella sicurezza assoluta cui egli aspira se non a patto di arrestare del tutto il movimento evolutivo dell’economia nazionale. Occorrerebbe la staticità del fatto economico e allora – siamo perfettamente d’accordo – la sicurezza dell’iniziativa privata sarebbe assoluta. Ma siccome – piaccia o non piaccia all’onorevole Cortese e a me – il mondo cammina indipendentemente dalla nostra volontà (Approvazioni a sinistra), bisogna che ci adattiamo. Ma c’è un’altra verità che balza agli occhi: quando si procede ad una innovazione, ad una trasformazione, qualunque essa sia, il risultato non può essere mai completamente positivo e perfetto. Non si può costruire senza demolire; e la demolizione rappresenta sempre un danno; ma in tal caso si tratta di fare un bilancio dell’attivo e del passivo. Si tratta cioè di non rinunziare al progresso anche se deve costare qualche sacrificio o qualche rinunzia.

E un’ultima verità si impone a chi legga attentamente il Titolo. Qualsiasi innovazione o trasformazione in esso preconizzata od avviata dovrà avvenire sempre e soltanto attraverso la legge. Questa condizione, posta come un denominatore comune a tutte le disposizioni, ci affida che il legislatore futuro saprà adattarne l’applicazione alle esigenze del tempo e che lo svolgimento del fatto economico si attuerà con quella gradualità, sia pure intensa, che è garanzia di libertà. Del resto non potevamo in questa Carta costituzionale fissare esattamente limiti e condizioni, ciò supponendo la conoscenza esatta del mondo di domani. Ma noi purtroppo non siamo profeti e non possiamo immaginare con sicurezza il futuro; tanto più perché ci troviamo in un momento di transizione e di instabilità generale, e in un Paese che – purtroppo – non ha indipendenza economica. È una verità dolorosa che non possiamo negare. In una situazione come questa non potevamo che segnare un indirizzo generale confidando nella saggezza del popolo italiano e in un domani migliore. (Applausi a sinistra).

L’ultima obiezione di carattere generale è che il Titolo non altro sarebbe che un tessuto di lucenti promesse. Ho ancora nell’orecchio le parole senza speranza dell’onorevole Nitti: parole che, dall’alto della sua personalità di scienziato e di uomo politico, ci sono cadute sul cuore con la crudele insistenza di un gelido stillicidio. Altri all’inizio della discussione generalissima ha parlato perfino di frode, d’inganno, di beffa.

Potrei rispondere, se fosse vero, che l’inganno e la beffa risalgono al tempo della lotta elettorale quando tutti i partiti lanciarono programmi nei quali, senza distinzione, erano fatte queste promesse. I nostri più aspri censori non avrebbero quindi il diritto di parlare. Ma l’inganno e la beffa non sono veri e non lo furono mai. (Commenti).

Non tutto si potrà raggiungere oggi; siamo d’accordo. Ma se noi pretendessimo di fare una Costituzione limitata a quanto si può fare oggi stesso dovremmo toglierò dal progetto tutta la prima parte, quella cioè dei diritti politici, civili ed economici, poiché nessuno di essi potrebbe resistere alla situazione desolante in cui ci troviamo. Dovremmo ridurre la Carta costituzionale alla sola seconda parte, all’ordinamento politico del Paese, componendo così un bel palazzo, di ampie e magnifiche sale, ma vuoto e deserto e senza l’eco di questa voce potente di popolo anelante alla giustizia sociale. Io penso, con convinzione serena, che non tutto potremo dare oggi al lavoratore italiano. Gliene daremo oggi una parte, un’altra domani. Ma gli daremo contemporaneamente una grande e non illusoria speranza, tale che rafforzi il suo spirito nel duro cammino della resurrezione e che gli dia l’energia, veramente divina, di uscire dal baratro in cui l’ha gettato la follia più criminale che ricordi la storia dei popoli, per rifare la sua Italia, indubbiamente più bella di prima, nella luce e nella gloria di una civiltà superiore. (Vivissimi applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È così terminata la discussione generale sul Titolo terzo della prima parte del progetto di Costituzione. Dobbiamo ora passare all’esame degli emendamenti.

Gli onorevoli Tremelloni e Cairo hanno proposto di premettere all’articolo 30 il seguente:

«Allo Stato compete la rilevazione costante e tempestiva dei dati riferentisi alla vita economica della Repubblica. Esso provvede a diffonderne la conoscenza».

L’onorevole Cairo ha facoltà di svolgere questa proposta.

CAIRO. Onorevoli colleghi, l’emendamento presentato dal collega Tremelloni e firmato anche da me potrebbe apparire una proposta che non riguarda strettamente materia di carattere costituzionale. È parso tuttavia ai presentatori necessario premettere al Titolo in esame questa esigenza, che è di mero carattere economico e sociale.

Tutti i popoli civili, da molto tempo, attingono i dati necessari alla propria economia da rilevazioni statistiche rigorose. Noi, purtroppo, non abbiamo organizzazioni statistiche di tale importanza e di tale rigore da poterci mettere in concorrenza con quelli che sono gli istituti statistici di altri popoli. E se la statistica serve, come è noto, a tutte le attività scientifiche e a tutte le attività sociali, è specialmente ai rapporti economici che essa deve essere rivolta.

Il nostro emendamento vorrebbe affermare il principio che non è possibile parlare di rapporti economici è di rapporti sociali se lo Stato, se il popolo, se la Nazione non sono in grado di controllare rigorosamente, direi quotidianamente, ora per ora, la propria vita, se non mettono la mano al polso della propria attività economica. E, badate: è sembrato ai presentatori che questo fosse un argomento di carattere costituzionale in quanto è di carattere primordiale, rappresenta la premessa indispensabile per qualsiasi sviluppo economico della nostra civiltà e per conoscere quale è il punto della nostra attività e della nostra vita economica.

Col nostro emendamento non si parla solamente di un obbligo dello Stato di provvedere alla istituzione di questi istituti e di operare le relative rilevazioni di carattere statistico. Si aggiunge l’obbligo dello Stato della divulgazione, della diffusione di questi dati, della conoscenza quindi di questi dati estesa a tutti i cittadini. Ora, quando noi siamo di fronte a delle agitazioni di carattere economico, quando siamo di fronte a delle questioni di carattere economico nazionale, che interessano larghi strati di produttori, di lavoratori ecc., noi vediamo che molto spesso certi movimenti, certi atteggiamenti, sono dovuti al fatto che non sempre queste correnti di produttori, queste masse agitate e convulse folle, conoscono le condizioni e quindi i limiti delle possibilità di queste loro aspirazioni e agitazioni. È la mancanza del dato economico quella che talvolta induce anche a dei conflitti sociali che sembrano ingiustificati.

Ora, noi vogliamo con questo affermare un principio che sembrerà non strettamente costituzionale, secondo il concetto giuridico, non ortodosso, ma che sembra a noi costituzionale per il carattere primordiale, fondamentale, imprescindibile che è contenuto nell’affermazione da noi proposta.

Il volere che lo Stato prenda finalmente sul serio l’importanza della statistica economica, e faccia propaganda continua ed effettiva di questa statistica, e faccia conoscere gli italiani nel campo economico e sociale, in questa Italia la quale è tanto diversa, che tante volte non si conosce nemmeno, che alla vigilia della discussione sulle circoscrizioni regionali, non sa ancora se deve essere molteplice o se deve essere una, il far conoscere questi dati agli italiani e farli conoscere attraverso un obbligo imposto dallo Stato, vuol dire, a mio avviso, affermare un principio di necessità fondamentale.

Io non so quale accoglienza potrà essere fatta dai giuristi a questa affermazione che sembra eterodossa. Noi abbiamo il piacere di avere compiuto il nostro dovere, quello di richiamare l’attenzione della massima Assemblea della Nazione su questa deficienza del nostro Stato, la deficienza di una reale organizzazione di istituti statistici che siano controllati e che abbiano nello Stato, non soltanto un tutore, ma un forte e valido ausilio di carattere nazionale. (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 15.

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente.

PRESIDENTE. Comunico che sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’agricoltura e foreste, per conoscere le ragioni per cui il Governo non ha ancora convertito in legge il lodo De Gasperi, provvedimento di assoluta urgenza, soprattutto nella imminenza del raccolto.

«Macrelli».

«Al Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se non ritenga oltremodo necessario – anche per alleviare la grave disoccupazione specialmente delle zone di Corato, Andria, Minervino, Barletta, Canosa – disporre subito l’inizio dei lavori dell’autostrada Bari-Napoli, che fra l’altro tanto vantaggio apporterebbe allo sviluppo dei rapporti commerciali fra le due regioni.

«Caccuri, Monterisi».

«Al Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere quando intenda portare all’esame dell’Assemblea Costituente il disegno di legge relativo al risarcimento dei danni di guerra, problema di interesse nazionale, la cui soluzione non può essere ulteriormente dilazionata.

«De Mercurio, Morini, Paolucci, Camangi, Reale Vito, Bernabei, De Vita, Cairo, Rodinò Mario, Abozzi, Carboni».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

PELLA, Sottosegretario di Stato per le finanze. Darò notizia di tali interrogazioni ai Ministri competenti affinché comunichino quando intendono rispondere.

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. Chiedo quando il Governo intenda rispondere ad una interrogazione da tempo presentata, riguardante la traduzione in legge del progetto di riforma dei consorzi agrari.

PRESIDENTE. Avverto che una delle prossime sedute antimeridiane sarà completamente dedicata alle interrogazioni delle quali il Governo ha riconosciuto l’urgenza.

PERUGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERUGI. Vorrei sollecitare dal Ministro della difesa la risposta alla mia interrogazione sul compenso per il lavoro straordinario agli ufficiali e civili.

PRESIDENTE. Farò presente al Ministro competente tale richiesta.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se non crede opportuno rivedere i criteri coi quali è stato stabilito il tesseramento differenziale annonario, poiché i criteri adottati per la suddivisione dei cittadini danneggiano gravemente le categorie impiegatizie, creando una ingiustificata sperequazione tra queste e gli operai, colpendo in modo particolare gli impiegati, che hanno carico di famiglia.

«L’interrogante chiede che il tesseramento differenziato e preferenziale venga modificato nel senso che il limite di reddito per l’appartenenza alla categoria A, venga elevato a lire 35.000, nette di tasse, assegni familiari, imposte, diarie e militari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mariani Francesco».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delie finanze e del tesoro, per sapere se non ritenga opportuno disporre perché sia reso praticamente possibile il pagamento dell’acconto per i danni di guerra (mobilio) alle famiglie dei militari irreperibili, per procedere al quale pagamento si richiede attualmente la dichiarazione di morte presunta con i conseguenti ulteriori adempimenti di legge.

«Per ottenere tale dichiarazione occorre una procedura che, oltre ad essere lunga, è anche notevolmente costosa, per cui il più delle volte l’acconto dovrebbe essere quasi completamente impiegato per far fronte alla spesa relativa e si chiede pertanto se il Ministro non ritenga fissare invece una procedura analoga a quella stabilita dal Ministero della difesa per il pagamento alle famiglie degli assegni dovuti ai militari irreperibili. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Camangi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere le ragioni che lo hanno indotto ad abbandonare il progetto di costituzione dell’Istituto regionale riscossione imposte dirette per la Sicilia, progetto che, instradando su una via moderna e tecnicamente più perfezionata il sistema di riscossione delle imposte dirette, garantiva gli interessi della Amministrazione finanziaria ed assicurava armonicamente la stabilità di occupazione della classe esattoriale, e per sapere se non ritenga opportuno di riprendere il progetto stesso, in vista dei cennati vantaggi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Dugoni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non creda opportuno e doveroso, considerato il rilevante numero di reduci regolarmente iscritti alle sessioni ordinarie del 1941 e seguenti (chiamati alle armi con le classi di leva 1921, 1922 e 1923) che non hanno potuto usufruire di alcuna sessione straordinaria perché non ancora rientrati dalla prigionia o perché rimpatriati in minorate condizioni di salute, e quindi bisognevoli di cure e lungo riposo, indire una sessione di esami di ammissione, promozione, idoneità, licenza ed abilitazione presso gli istituti di istruzione media di ogni ordine e grado. Il movente della richiesta va ricercato nel fatto che numerosi reduci, in ispecie quelli della prigionia, non essendosi potuti dedicare allo studio subito dopo il rimpatrio a causa delle malattie contratte in cattività, e non avendo di conseguenza potuto fruire delle sessioni straordinarie precedentemente indette, verrebbero a trovarsi in condizioni di disparità nei confronti di coloro che hanno già beneficiato di tale concessione. Il caso ha carattere di urgenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cotellessa».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della difesa e delle finanze e tesoro, per sapere quale azione concorde essi ritengono di svolgere in merito al provvedimento relativo all’avanzamento degli ufficiali provenienti dai primi tenenti dei carabinieri, di fanteria e di amministrazione.

«Il provvedimento che da un anno si dibatte in cavillose, anguste pastoie burocratiche tra l’Amministrazione dell’esercito e la Ragioneria generale:

  1. a) rappresenta un atto di giustizia con il quale si vuole riparare ad una lesione del diritto sofferta da questi ufficiali e restaurare quella morale dei quadri stabilita dalle sane leggi del passato e sovvertita dall’arbitrio fascista. Atto di giustizia perché questi ufficiali, già combattenti del Grappa e del Piave, dopo trent’anni di spalline, si sono visti raggiungere ed anche scavalcare da ufficiali ben più giovani di loro e dei quali furono superiori od istruttori, in violazione della precisa finalità della legge di avanzamento (articolo 140).

«Su questa anormale situazione il Consiglio di Stato si è espresso, de jure condendo, nel senso che la materia trattata dall’articolo 140 della legge 9 maggio 1940, n. 370, merita, così come ha convenuto il Ministro della difesa, di essere completata con quelle disposizioni esecutive che possano eliminare le verificatesi sperequazioni di carriera;

  1. b) risponde a superiore esigenza della Amministrazione militare, la quale intende, in questa fase di riorganizzazione delle Forze armate, avvalersi dell’opera di questi ufficiali, di provato valore e di particolare esperienza.

«Il fatto che il Ministro responsabile insiste nella presentazione del provvedimento significa che esiste effettivamente l’intima correlazione tra il provvedimento stesso e l’esigenza dell’Amministrazione;

  1. c) tende a promuovere i provenienti dai primi tenenti: al grado di maggiori, gli attuali capitani ai carabinieri e di amministrazione; al grado di tenente colonnello gli attuali maggiori di fanteria, in modo da ovviare anche alla disparità di trattamento venuta a crearsi con l’aumento dei limiti di età disposto per gli ufficiali dei carabinieri con il decreto legislativo 26 agosto 1945, n. 659, perché col provvedimento in questione si assicura un quasi uguale provvedimento ai fini della permanenza in servizio di detti ufficiali e cioè: sino al 52° anno di età i maggiori di fanteria che dovranno essere promossi tenenti colonnelli e sino al 53° anno di età i capitani dei carabinieri e di amministrazione che dovranno essere promossi maggiori;
  2. d) non costituisce sensibile aggravio finanziario per l’erario perché non dà titolo a corresponsione di arretrati, né comporta eccessivo aumento degli emolumenti perché gli ufficiali in questione – il cui numero è peraltro assai esiguo – percepiscono già, per la loro anzianità di servizio, le indennità del grado superiore. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Perrone Capano».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.45.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 7 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXIV.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 7 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TUPINI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

                                                                                                                          

Fogagnolo                                                                                                       

Lucifero                                                                                                           

Maffi                                                                                                                

Rescigno                                                                                                           

Vernocchi, Relatore                                                                                          

Pera                                                                                                                  

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza

del Consiglio dei Ministri                                                                                    

                                                                                                                          

Tonello                                                                                                            

Giannini                                                                                                            

Giua                                                                                                                  

Andreotti                                                                                                        

Persico                                                                                                             

Corbi                                                                                                                

Uberti                                                                                                               

Russo Perez                                                                                                      

Ponti                                                                                                                 

La Malfa                                                                                                          

Nobile                                                                                                               

Proia                                                                                                                 

Cianca                                                                                                              

Gronchi                                                                                                            

Cevolotto                                                                                                        

Bennani                                                                                                            

Filippini                                                                                                             

Siles                                                                                                                  

Di Gloria                                                                                                          

Cifaldi                                                                                                              

Ruggiero Carlo                                                                                               

Bertone                                                                                                            

Preziosi                                                                                                            

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri             

Meda                                                                                                                 

La seduta comincia alle 10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Mannironi e Tambroni Armaroli.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale. (12)

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale.

Riprendiamo la discussione al momento in cui nella seduta antimeridiana di ieri fu chiesta la verifica del numero legale in sede di votazione dell’emendamento soppressivo dell’articolo 4, presentato dall’onorevole Fogagnolo.

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Per ritirare il suo emendamento o per dichiarazione di voto?

FOGAGNOLO. Signor Presidente, io chiedo se ella non ritenga opportuno di rinviare la votazione di un articolo di tanta importanza come quello all’ordine del giorno, dato l’esiguno numero di deputati presenti nell’aula.

PRESIDENTE. Onorevole Fogagnolo, mi dispiace di non poter aderire alla sua richiesta. Mi unisco a lei nel dire, sicuro di interpretare il pensiero dei presenti, che è estremamente deplorevole che l’Assemblea sia così scarsa di presenti nel momento in cui si discute una legge di tanta importanza come quella all’ordine del giorno. Dovrò quindi, a meno che l’onorevole Fogagnolo od altri non facciano una proposta formale, a norma del Regolamento, mettere ai voti l’emendamento soppressivo dell’articolo 4.

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Ieri ho chiesto la verifica del numero legale per la gravità del peso finanziario che verrebbe al bilancio se l’articolo 4 fosse approvato, e ciò anche in rapporto alla particolare gravità della situazione economica del Paese.

Oggi, se avessi voluto chiedere nuovamente questa verifica, non l’avrei potuto fare perché quando sono entrato in Aula i deputati presenti erano appena quattro; quindi non avrei potuto raccogliere le dieci firme necessarie alla richiesta.

Comunque, dichiaro fin da ora che voterò contro l’articolo e prego l’Assemblea, anzi i pochi presenti (perché di Assemblea non si può parlare se siamo in così pochi), di riflettere se in trenta persone si può votare una disposizione di questo genere.

Suggerisco quindi che, per un senso di responsabilità, si voti tutti contro, per non assumere in così pochi una così grande responsabilità.

MAFFI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MAFFI. Siamo in pochi per prendere una risoluzione in merito a quest’articolo che ha grande importanza. Proporrei una sospensiva.

RESCIGNO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RESCIGNO. Onorevole Presidente, devo confessare candidamente che non mi sono ancora formato un concetto preciso su questo disegno di legge. Ho sentito oratori di varie parti discutere con un certo accanimento. Ho avuto anche l’impressione che dietro queste discussioni vi fossero tesi contrastanti, anzi interessi contrastanti. Avrei desiderato che il Relatore ci avesse detto con grande precisione e con grande chiarezza quale sia l’effettivo impegno finanziario che lo Stato assume con questo disegno di legge.

Perciò sarei d’avviso anch’io che si sospendesse per un po’ la seduta e si chiarissero i termini di questo disegno di legge, affinché noi possiamo votarlo con sicura e perfetta coscienza.

PRESIDENTE. Onorevole Rescigno, credo che ella voglia essere illuminata dall’onorevole Relatore sulla portata del voto che si appresta a dare. Potremmo consentire ad accogliere la sua richiesta pregando l’onorevole Relatore di volerla illuminare, senza per altro togliere la seduta: il che permetterà nel frattempo ai deputati che non sono presenti in questo momento nell’Aula di intervenire alla seduta.

Intanto ricordo che l’articolo 4 in discussione è del seguente tenore:

«Per ogni film nazionale di lunghezza superiore ai 2000 metri presentato all’Ufficio centrale per la cinematografia per il nulla osta di proiezione in pubblico, dopo l’entrata in vigore della presente legge, e la cui prima proiezione nelle sale cinematografiche italiane si effettui prima del 31 dicembre 1949, è concesso al produttore un contributo pari al 12 per cento dell’introito lordo degli spettacoli, nei quali il film nazionale sia stato proiettato per un periodo di quattro anni dalla data della prima proiezione in pubblico.

«Una ulteriore quota del 6 per cento dell’introito suddetto e per lo stesso periodo di tempo verrà assegnata a titolo di premio ai films che ne siano riconosciuti meritevoli per il loro valore culturale ed artistico dal comitato tecnico di cui al successivo articolo 13.

«L’introito sul quale vengono liquidati i contributi di cui al presente articolo è determinato dalla Società italiana autori ed editori sulla base degli incassi accertati per il pagamento dei diritti erariali.

«Per le modalità di pagamento dei contributi suddetti valgono le norme stabilite dal regio decreto 20 ottobre 1939, n. 2237».

Prego l’onorevole Relatore di illustrare la portata finanziaria di questo articolo.

VERNOCCHI, Relatore. Rispondo con dati che mi sono stati forniti dall’Ufficio centrale della cinematografia; non ho dati di carattere personale da aggiungere e mi limito quindi a fare questa enunciazione perché non vorrei che vi fosse qualcuno che pensasse che nel sostenere questo progetto di legge io avessi degli interessi particolari da difendere. (Commenti).

Ora desidero prima comunicare all’Assemblea che il disegno di legge è stato esaminato non solo dalla Commissione paritetica nominata dal Governo, ma fu esaminato da una Commissione particolare del tripartito; e vi erano rappresentanti socialisti, prima della nostra scissione, quando eravamo tutti uniti nel vecchio Partito socialista.

Una voce. Chi erano?

VERNOCCHI, Relatore. Erano degli addetti al cinematografo; non erano certamente degli uomini al di fuori del cinema: erano dei registi, dei montatori, dei tecnici; ma non erano uomini politici. Vi erano rappresentanti del Partito comunista e rappresentanti del Partito democratico cristiano; e furono proprio i rappresentanti del sindacato dei lavoratori, che parteciparono a quella riunione, a chiedere l’aumento dal 10 al 12, dal 4 al 6. Questa è la verità incontestabile. Io non devo e non voglio dilungarmi su queste posizioni di fatto. Vi dirò solo che nel 1946, in base agli incassi del film italiano, l’aggravio dello Stato si aggirò sui 200 milioni; nel 1947, con la previsione del doppio degli incassi, l’aggravio dello Stato sarà di 400 o di 500 milioni. Questo mi è stato confermato ieri sera dal capo dell’Ufficio centrale della cinematografia.

FOGAGNOLO. Chi è questo capo dell’Ufficio centrale della cinematografia?

VERNOCCHI, Relatore. Il dottor Calvino. Vi dirò anche che vi sono delle determinate ragioni che hanno consigliato queste provvidenze a favore della produzione cinematografica.

Bisogna tener presenti gli aumenti dal 1942 ad oggi. Per esempio gli incassi dei cinema nel 1942 erano 1, oggi vi è la proporzione da 1 a 10, mentre il costo di produzione dei film è aumentato di proporzione da 1 a 20. La pellicola, la stampa, il materiale da costruzione è aumentato 30 volte dal 1942, i salari sono aumentati nella proporzione dall’1 al 25. Vi è stato, poi, un inasprimento fiscale sul prezzo dei biglietti di incasso dei cinematografi che non si è verificato in nessuna altra nazione del mondo. Perché, mentre altrove si aggira intorno al 20 %, in Italia, dal 1942, è salito dal 15 % al 50 %. Una incidenza veramente notevole ed eccezionale, che ha dei riflessi anche sulla produzione. Che cosa c’è ancora? Questo: per il 1947 l’incasso lordo dei soli film italiani può essere preventivato in 4 miliardi di lire. Poiché al produttore non ritorna dallo sfruttamento che un 10 % dell’incasso, si può calcolare che i produttori realizzeranno dai proventi del noleggio circa 400 milioni. A quanto può invece calcolarsi la somma impiegata nei film prodotti? Computando per circa 58 film annui una media di 30 milioni di spesa per ogni film, la somma totale impiegata si aggira su un miliardo e 500 milioni. Ammettendo, con un’empirica approssimazione, che le vendite all’estero possono dare al produttore altri 400 milioni di introiti, gli introiti globali assommano a 800 milioni. Restano quindi 700 milioni per coprire il deficit. Ecco perché, allo stato attuale delle cose, la Commissione incaricata di studiare il problema ha proposto quelle determinate provvidenze contenute nel disegno di legge in esame proprio per colmare questo deficit, altrimenti la produzione italiana sarebbe definitivamente soffocata. Questi sono i dati, onorevoli colleghi. Non sono stati inventati da me, lo ripeto, ma provengono dall’Ufficio centrale della cinematografia che ha le statistiche precise; ed è stato in virtù di questi determinati elementi, i quali furono a suo tempo consegnati alla Commissione che studiava il problema, che, proprio il sindacato dei lavoratori, attraverso i suoi rappresentanti, ha proposto che il contributo fosse elevato dal 10 al 12 %. Ma io vorrei farvi un’altra proposta, nel senso che fossero mantenute soltanto le condizioni della vecchia legge; io accederei anche al desiderio, espresso da alcuni colleghi, di togliere dalla legge i benefici dell’articolo 4, purché codesti colleghi siano disposti ad elevare a 94 giorni l’obbligo di programmazione dei film italiani. Se voi siete disposti a fare questo, l’industria avrà la possibilità di programmare i suoi film nei circuiti italiani ed avrà anche maggiore probabilità di salvarsi.

FOGAGNOLO. Anche cento giorni, ma niente soldi dello Stato.

VERNOCCHI, Relatore. Ma bisogna dire una parola chiara: vi sono gli esercenti, particolarmente, e vi sono interessi stranieri che ostacolano questo nostro provvedimento. (Approvazioni).

Se noi non riusciamo a ottenere il contingente allo schermo, è perché vi sono questi particolari interessi che ostacolano e non sono questi gli interessi particolari del produttore, e meno che mai gli interessi dei lavoratori.

Vi è questa ostilità tenace, onorevoli colleghi. Ma attraverso questa azione contro l’articolo 4 bisogna scoprire un’altra azione, diretta a sabotare la legge; non si vuole – e questo è il punto importante – consentire che vi sia un contingente allo schermo di neanche 60 giorni, perché questo dà fastidio non solo all’esercizio italiano, ma dà fastidio soprattutto alle case americane che sono qui, in Italia, rappresentate. (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

PERA. Fuori i nomi di chi li rappresenta!

VERNOCCHI, Relatore. Ho detto: qui, in Italia. Non mi ha capito; non penso nemmeno che lei sia uno di quei tali rappresentanti. (Proteste dell’onorevole Pera).

PRESIDENTE. Onorevole Pera, mi pare che sia stata sufficiente la spiegazione.

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio ha chiesto di aggiungere alcune considerazioni a quelle del Relatore. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Aggiungerei queste considerazioni: che il Governo non ha nulla in contrario, anzi è ben lieto di accettare la soppressione dell’aumento di premio o di compenso portata dall’articolo 4 di questa legge, il quale premio o contributo è in questa legge elevato dal 10 al 12 per cento, mentre il premio per i film migliori è elevato dal 4 al 6 per cento. Io vorrei che tutti i colleghi – un collega dei banchi del centro, del mio gruppo, ha dichiarato di non aver ancora capito bene il senso di questa legge – tenessero presente che questa legge non viene a concedere il 12 per cento degli incassi, ecc. come contributo e il 6 per cento come premio; ma in realtà non fa altro che maggiorare da 10 a 12 il contributo e da 4 a 6 il premio. Quindi, quando si parla del 12 per cento, come se questa legge portasse ai produttori di film un contributo straordinario del 12 per cento, si dice una cosa errata, perché la differenza fra la nuova e la legge in vigore è solo dal 10 al 12 e dal 4 al 6 per cento.

FOGAGNOLO. Ma col 10 per cento precedente non c’era l’obbligo della programmazione.

CAPPA, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Io non l’ho mai interrotta quando lei parlava. Mi lasci parlare, per favore.

PRESIDENTE. Onorevole Fogagnolo, la prego di non interrompere. Ha diritto di parlare dopo.

CAPPA, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. A puro titolo di chiarimento dichiaro che sono ben lieto di accogliere la proposta del Presidente della Commissione, e cioè di sopprimere la maggiorazione di contributo e di premio che l’articolo 4 porta. Del resto, nelle riunioni che sono state fatte per la preparazione della legge cui sono intervenuto, ho sostenuto e di fronte ai produttori e di fronte alle rappresentanze sindacali delle maestranze la tesi della maggiore economia da parte dello Stato, e le domande che erano molto forti sono state contenute negli attuali limiti precisamente per l’azione svolta da me. Il collega onorevole Vernocchi lo può attestare. Però dice e propone il collega Vernocchi che in compenso sia elevato il numero dei giorni riservati alla programmazione di film nazionali determinati in sessanta all’anno. Ho già detto l’altro giorno che io non riterrei conveniente di maggiorare le giornate riservate ai film nazionali, perché in questo momento non ritengo – questo almeno informano i tecnici – che la produzione nazionale sia tale da poter efficacemente coprire un numero maggiore dei sessanta giorni che noi abbiamo stabilito. Dobbiamo solo, per ora, augurarci che la produzione nazionale, anche per l’economia della valuta, possa migliorare e dare film in numero tale e di qualità tale da consentire una maggiore programmazione riservata ai film nazionali.

In questo momento non ritengo che questa produzione corrisponda a questa necessità, pertanto ieri dissi che accettavo la seconda parte dell’emendamento proposto dall’onorevole Giannini, col quale era consentito alla Presidenza del Consiglio di maggiorare questo numero di giorni riservato nel caso in cui la produzione nazionale possa dare affidamento di corrispondervi. Per conto mio approvo la proposta del Relatore di sopprimere l’aumento dal 10 al 12 per cento per quanto riguarda i contributi e dal 4 al 6 per cento per quanto concerne i premi. Così vengono sollevati da ogni preoccupazione i colleghi oppositori ed il dissenso mi sembra superato. Resta da definire la parte dei giorni riservati alla programmazione dei film italiani. Credo infine che l’Assemblea sarà, ormai, d’accordo sulla opportunità della legge nell’interesse della cinematografia nazionale e delle stesse nostre maestranze, e darà modo di riorganizzare i vari uffici dell’ex Ministero della cultura popolare di cui quelli della Cinematografia sono parte assai importante.

RESCIGNO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Onorevole Rescigno, mi sembra che possano bastare i chiarimenti or ora forniti dal Relatore e dal Governo. Comunque ne ha facoltà.

RESCIGNO. Ringrazio il Relatore ed il rappresentante del Governo, e ritengo che la soluzione migliore sia di elevare a 94 i giorni destinati per ogni anno alla proiezione di film nazionali (Commenti), perché mi sembra che questa soluzione veramente incoraggi, non solo l’industria nazionale, ma soprattutto la cultura e l’arte nazionale. Esprimo poi il voto che leggi di questo genere, per l’avvenire, effettivamente passino per la Commissione di finanza, giacché la loro importanza è impegnativa, anche se esse comportino un aggravio soltanto di mezzo miliardo.

PRESIDENTE. Le ricordo, Onorevole Rescigno, che, quando vengono fatte delle proposte, non possono essere prese in considerazione se non sono presentate con emendamenti. La prego, quindi, di presentare un emendamento con la firma di almeno dieci colleghi che l’appoggino.

FOGAGNOLO. Chiedo di fare una dichiarazione sulla soppressione dell’articolo 4.

PRESIDENTE. Ma lei, onorevole Fogagnolo, ha già parlato ieri!

FOGAGNOLO. Signor Presidente, mi consenta di dire qualche cosa su questo punto anche oggi, perché ieri i Deputati presenti erano pochissimi (Commenti).

PRESIDENTE. Sta bene. Ha facoltà di parlare.

FOGAGNOLO. Quel che hanno detto il Relatore e l’onorevole Cappa dimostra come fossi nel vero ieri mattina allorché sostenevo che dovevamo senz’altro sopprimere l’articolo 4 perché qui si discute una questione che non tutti i colleghi hanno ancora compreso. Noi abbiamo in vigore una legge che dà il 10 per cento sugli incassi lordi ai produttori di film nazionali. Con la nuova legge si vuol elevare questo contributo al 12 per cento, e in più si vuole accordare la programmazione obbligatoria! Qui si vuole avere «botte piena e moglie ubriaca». Ora, dobbiamo noi sacrificare i quattrini dello Stato a favore dei produttori, quando possiamo aiutarli molto di più senza gravare l’erario? Il problema, egregi colleghi, è tutto qui.

Ieri il collega Bertone è intervenuto, colla autorità che gli deriva dalla sua personalità, appunto per opporsi alla votazione di questo articolo 4. Esaminiamo l’articolo 4. Così come è, l’aumento del contributo che si corrisponde ai produttori nazionali – è noto che si tratta di contributo del 12 per cento non sull’incasso dello Stato attraverso l’imposta, ma sull’incasso lordo – tenetelo bene presente, lo deve pagare lo Stato, perché le tassazioni vanno quasi totalmente a favore dei comuni.

Si tratta di mettere a carico dello Stato un onere di centinaia e centinaia di milioni, mentre possiamo aiutare meglio e di più la produzione nazionale. La produzione nazionale, compagno Vernocchi, come si protegge? Lo abbiamo detto ieri, ed il Presidente mi consenta di ripeterlo, perché ritengo che quando i colleghi si saranno impadroniti della materia voteranno con maggiore coscienza. Qui si tratta di trovare il sistema di venire incontro alla produzione nazionale per evitare che la produzione straniera rovini ogni iniziativa nazionale. Sul fatto di aiutare la produzione nazionale noi siamo d’accordo, ma incominciate proprio voi, organismi statali, a mettere a disposizione della produzione nazionale quei 140 cinematografi di prima visione che sono proprietà dello Stato e che tenete aperti per gli americani. Aprite questi cinematografi a favore della produzione nazionale. Questo è il problema che nessuno cerca di capire. Noi abbiamo 140 cinematografi che possono assicurare la produzione nazionale e sono di proprietà dello Stato. Basta un ordine dell’onorevole Cappa perché si spalanchino le porte alla produzione nazionale.

Noi sappiamo che i nostri produttori fanno dei grandi sacrifici per produrre un film. Noi sappiamo che i nostri produttori quando vanno a bussare alle porte dell’ENIC, che potrebbe automaticamente assicurare 140 passaggi, trovano le porte sbarrate, perché forse i funzionari dell’ENIC hanno interessi inconfessabili per dare la preferenza ai film americani. E noi, da questi banchi, non abbiamo il diritto di protestare contro indirizzi che vanno a danno della produzione nazionale ed in favore degli americani? È questo che dobbiamo esaminare ed è per questo che ieri avevo proposto la nomina di un Comitato parlamentare perché portasse in quest’Aula proposte pratiche e concrete. Non bisogna venire in quest’Aula per far passare di soppiatto un progetto di legge che è venuto fuori… cinematograficamente! Ha detto l’onorevole Cappa che questo progetto di legge lo ha studiato. Lo studî finché vuole, ma senza l’aiuto dei tecnici non si risolvE niente. Bisogna seguire un altro sistema perché quello seguito finora è fuori della legalità. (Interruzione dell’onorevole Cappa).

Questo progetto è arrivato alla prima Commissione. Ebbene, io mi rivolgo a qualche membro, se c’è in quest’Aula, per chiedergli se è stato discusso. L’onorevole Tonello del mio gruppo, che faceva parte della Commissione, parlando con l’onorevole Vernocchi, sabato scorso, quando siamo usciti di qui, ha detto: «onorevole Vernocchi, non conosco niente di questo progetto di legge». Vernocchi ha risposto di avere avuto mandato di fiducia dalla Commissione. Ebbene, la relazione Vernocchi è stata presentata alla Presidenza della Costituente senza che sia stata letta in Commissione. Perché questo? La Commissione di finanza non ha visto il progetto prima che venisse alla Costituente. Il Governo poteva farla da sé, la legge. Perché non l’ha fatta? (Commenti). Perché nessuno si vuole prendere la responsabilità di un provvedimento che coinvolge interessi di milioni e milioni; e non è giusto scaricare la responsabilità sulla Assemblea Costituente.

L’Assemblea Costituente ha il diritto di protestare contro questo sistema, ed io ritengo che sia da esaminare la proposta che ho fatto ieri: nominare un comitato di parlamentari tecnici che prendano in mano questa materia e studino il sistema con cui venire in aiuto alla nostra cinematografia. Questo si può incominciare a far subito, anche da domani, se c’è la buona volontà del Governo. Basta che l’onorevole Cappa chiami nel suo gabinetto i rappresentanti dell’ENIC e dica loro: «A incominciare da domani, i contratti che avete firmato con gli americani, vi autorizzo ad annullarli». (Commenti – Proteste al centro e a destra). Così avremo fatto una cosa utile senza toccare il denaro dello Stato.

TONELLO. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. La prego di indicarlo, onorevole Tonello.

TONELLO. Sono stato chiamato in causa dall’onorevole Fogagnolo e devo dare una risposta.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.

TONELLO. Fo parte della prima Commissione e so che venne in esame questo disegno di legge, ma so anche che una discussione esauriente nella nostra Commissione non vi fu mai, per colpa di nessuno, in quanto gli orari attuali delle sedute ci danno appena un’ora di tempo per potere esaminare, alle volte, pacchi addirittura di progetti. Del resto, avevo sentito che Relatore era stato proposto il mio compagno, anche di fede politica, onorevole Vernocchi. Dichiaro che in quel momento, come adesso, ebbi ed ho la massima fiducia nel compagno Vernocchi e che non feci nessuna obiezione quando a lui venne affidata la relazione.

CAPPA, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo all’Assemblea se sia giusto che si creino tante difficoltà a questa legge che è venuta all’Assemblea dopo uno studio da parte degli uffici competenti, delle maestranze, delle rappresentanze di categoria, dopo essere poi passata alla discussione del Consiglio dei Ministri, dopo che il Consiglio dei Ministri l’ha mandata all’Assemblea Costituente e dopo che la Presidenza dell’Assemblea Costituente l’ha mandata alla Commissione. Il Governo non è per nulla criticabile. Insomma dopo cinque sedute che se ne discute, io mi domando se è lecito che si lancino quasi dei sospetti, come se qui vi fossero degli interessi occulti da parte del Relatore e da parte del Governo, che stiamo a patrocinare. Noi crediamo di servire solamente gli interessi dell’industria cinematografica nazionale. Quando l’onorevole Fogagnolo rimprovera il Governo di non essersi assunto la responsabilità di varare questo decreto con la massima urgenza, fa torto all’Assemblea e non è giusto che attacchi il Governo. (Interruzioni dell’onorevole Fogagnolo). Il Governo avrebbe potuto benissimo, a norma del regolamento vigente, varare il decreto senza inviarlo all’Assemblea Costituente. Ma esso ha ritenuto, per un riguardo all’Assemblea come in generale fa, salvo che per i provvedimenti della massima urgenza, di mandare il progetto all’esame dell’Assemblea, e l’ha trasmesso alla Presidenza, la quale Presidenza ha ritenuto di mandarlo alla prima Commissione e non alla Commissione delle finanze. Il Governo non poteva influire su questo. La Commissione ha esaminato il progetto; non so in quale modo. Certo è che il decreto è ritornato al Consiglio dei Ministri ed il Consiglio dei Ministri l’ha rinviato all’Assemblea con le modifiche del caso che erano state suggerite. Io non so come più correttamente potesse comportarsi il Governo. (Interruzione dell’onorevole Fogagnolo).

PRESIDENTE. Onorevole Fogagnolo, smetta di interrompere, altrimenti dovrò richiamarla all’ordine.

CAPPA, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ora io vi domando che cosa possa giustificare o spiegare questa atmosfera di sospetto e perché si stanno lanciando delle accuse con tanta leggerezza, proprio su questa legge che ha seguito il corso più regolare rispetto al controllo parlamentare e proprio dopo che da cinque giorni tanto e liberamente se ne discute. Ritengo che tutto questo sia ingiusto. Ed allora, ho diritto di chiedermi: quali interessi ci sono per impedire che la legge sia varata? (Approvazioni al centro e a destra). Perché, in realtà, non è l’articolo 4 né il 5 che aumenta il premio, in lieve misura del resto, alla produzione nazionale che forse suscita e muove questa opposizione. Del resto la proposta dell’onorevole Vernocchi, di sopprimere l’aumento percentuale del premio e del contributo fa tranquilli tutti coloro che avevano preoccupazioni per il bilancio dello Stato. Ma, in realtà l’opposizione a questa legge viene dal fatto che essa obbliga gli esercenti di sale cinematografiche ad assicurare un minimo di giornate di rappresentazione ai film nazionali. La opposizione viene tutta da questo fatto che ne è la sostanza. Pertanto prego l’Assemblea, dopo tante discussioni, di adottare finalmente una decisione, anche perché sia possibile, attraverso la Costituzione dell’Ufficio centrale e della Commissione centrale cinematografica, di dare un ordinamento completo all’attività dell’industria nazionale. Ripeto, i maggiori oneri fiscali già contemplati, con la soppressione dell’aumento dal 10 al 12 e dal 4 al 6 per cento, sono completamente esauriti. Non resta in questa legge nessun ulteriore aggravio al bilancio dello Stato. (Applausi al centro).

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, debbo essere anzitutto grato all’onorevole Fogagnolo per aver parlato di tante cose nelle sue dichiarazioni. Con ciò egli ha creato anche un diritto per me, perché la legge è uguale per tutti.

PRESIDENTE. Giustissimo, onorevole Giannini.

GIANNINI. Ed allora io credo di rispondere ad un affettuoso rimprovero fattomi al riguardo dall’onorevole Lussu l’altro giorno, allorché mi diceva che il mio torto consisteva nel fatto di non avere parlato per due ore su questo argomento.

Bisogna che io ricordi anzitutto all’onorevole Fogagnolo come ci siamo conosciuti, e che ne informi la Camera, perché è molto interessante: io ho avuto l’onore di lavorare per conto dell’onorevole Fogagnolo e di essere da lui pagato, quindici o sedici anni fa. Egli allora era un ricco commerciante di pellicole, importatore e noleggiatore di film.

FOGAGNOLO. Non è vero.

GIANNINI. Come, non è vero? Mi ha pagato, io ho mangiato il suo pane, e la ringrazio, ma è bene che qui sia stabilito molto chiaro che io, che sembro difendere gli interessi della mia categoria e degli industriali, sono un lavoratore, e che lei, quando faceva il cinematografo, si è servito di me come lavoratore ed era un industriale, tanto è vero che mi ha pagato. Mettiamo quindi queste cose a posto. (Commenti).

Inoltre, è stata gettata su questa legge una voce di sospetto, che non fa onore all’Assemblea, come corpo politico, né ai singoli uomini politici che si sono interessati di essa.

Allora, io sono costretto a dirvi questo: che lo Stato non ha nessun aggravio, perché quello che si dà all’industria cinematografica italiana è una parte della tassa erariale ricavata dalla proiezione del film italiano. Poiché questo linguaggio può sembrare astruso a molti colleghi, mi spiegherò meglio: quando si proietta un film si paga un biglietto; l’importo di questo biglietto è, per una parte, destinato al cinematografo, intendendosi per cinematografo sia la sala di proiezione, sia la produzione ed il noleggio del film, e per un’altra parte è destinata allo Stato. Questa tassa ché si paga su tutte le pellicole, è vero, è in sostanza il contributo che lo Stato preleva per il fatto commerciale, industriale e fiscale derivante dalla proiezione di un film: né più e né meno della tassa che si preleva sulla fabbricazione delle stoffe, delle penne stilografiche, sulla pubblicità che noi facciamo sui giornali; è una tassa che il Governo impone sulla proiezione. Ora, queste provvidenze che si chiedono per l’industria cinematografica – e non già per gli industriali, come già ho avuto l’onore di spiegare e come rispiegherò – queste provvidenze consistono nel distrarre parte di questa tassa che lo Stato prende sulla proiezione delle pellicole italiane e nel destinarla al maggiore incremento della fabbricazione di pellicole.

Non è, dunque, che lo Stato attinga a suoi privati tesori questo che deve dare all’industria cinematografica; tutto l’onere dello Stato si riduce a rinunziare ad una parte di questa tassa… (Commenti a sinistra).

FOGAGNOLO. Ma dell’introito lordo.

GIANNINI: Dell’introito lordo, certo; come potrebbe essere dell’introito netto? Non si tratta, quindi, di togliere il pane dalla bocca dei bambini italiani per nutrire i grandi magnati della cinematografia: scusate, ma io ci tengo a precisare questo. Ho trascorso tutta la vita – e l’ottimo Fogagnolo lo sa – per i miei bambini ed oggi ho anche una nipotina. Se si trattasse di levare un tozzo di pane ai bambini per darlo ai magnati della cinematografia, stia tranquillo l’amico Fogagnolo che io mi opporrei con tutte le mie forze.

Ma vi è, oltre a ciò, un altro fatto importantissimo. Intendo dire che questa legge non serve, come si è detto, ad ingrassare gli industriali; io ieri ho sentito dire persino che noi vogliamo sovvenzionare gli industriali stranieri: ma, cari signori, amici, onorevoli colleghi, avversari e non avversari, sul serio c’è qui qualcuno il quale creda che noi possiamo sovvenzionare la cinematografia americana? Ma non facciamo ridere!

Rientrando dunque in quello che è stato il rimprovero dell’onorevole Lussu, io chiedo il permesso di spiegare – non più di tre o quattro minuti – una caratteristica scena cinematografica che è stata fatta da me. Immaginate, onorevoli colleghi, una scala a chiocciola vista verticalmente; è una scala a chiocciola di ferro che ha i gradini traforati e quindi trasparenti, limitati da una ringhiera larga, attraverso la quale è visibile l’azione che si svolge su questa scala a chiocciola.

Tenete presente che questa scala è vista verticalmente. Si tratta di un film poliziesco: su questa scala si svolgono, naturalmente, varie visioni. Passa innanzi tutto una fanciulla; e questa fanciulla, come tutte le fanciulle, ha delle belle estremità inferiori: non dico gambe, per non offendere gli amici democristiani; (Si ride).

Su questa scala passa, dunque, questa fanciulla; e passa, naturalmente, a passo di fanciulla, cioè rapidamente. Ma su questa scala avviene poi un delitto. E allora, alla fine del film, noi rivediamo la scala, ma vediamo l’assassino che sale la scala, piano piano, perché deve commettere l’assassinio, e quindi con ritmo diverso.

Signori, questa scena con la fanciulla e l’assassino, che comprende non più di 50 metri di pellicola; oggi viene a costare più di 2 milioni. E vi spiego perché.

Per cinematografare la scena della fanciulla occorre una postazione di luce verticale che deve illuminare tutta l’altezza di questa scala a chiocciola, che sarà di 25-30 metri. Quindi deve essere una postazione di luce a giorno, festosa, per seguire il piedino della fanciulla. Ci vuole una luce stabile ed occorrono delle ore di tempo, delle prove, delle controprove ed un consumo enorme di elettricità e di pellicola. Noi abbiamo però bisogno di un’altra luce par il passo dell’assassino, ossia di una luce cupa. Allora bisogna fare una postazione elettrica diversa, avere un nuovo consumo, avere un nuovo spreco di pellicola, una nuova costruzione. Ma voi non vi domandate come si fa per seguire con la macchina da presa la ragazza e l’assassino che salgono. In sostanza voi vedete lo schermo che è sempre immobile, sulla parete del cinema; ma per ottenere l’illusione della fanciulla e dell’assassino che salgono occorre che la macchina da presa segua il movimento dei due attori, per mezzo di un ascensore. Ed allora, accanto alla scala vista verticalmente, voi dovrete avere un impianto di ascensore fatto appositamente, ascensore che voi non vedete.

FOGAGNOLO. Ma tutto questo non c’entra con l’articolo 4!

GIANNINI. Nemmeno quello che ha detto lei c’entrava: una volta per uno non fa male a nessuno!

La velocità con cui sale la fanciulla è diversa dalla velocità con cui sale l’assassino, quindi abbiamo bisogno di un ascensore che salga a velocità variabile. Quindi occorrono delle resistenze.

Questa scena viene a costare, come vi ho detto, più di 2 milioni. Ora se questa scena capita al grande industriale americano, grande industriale collegato con il grande produttore straniero, francese o inglese, viene fatta con molta facilità; ma se capita al piccolo produttore isolato, quale potrei essere io – (amico Fogagnolo, io sono pronto a confessare questo interesse: io potrei essere un piccolo produttore isolato, e credo che non ci sia niente di male, e lei stesso potrebbe assicurare che farei anche bene) – il piccolo produttore isolato non si può permettere di affrontare né questa, né altre spese. Ed è questa tutta la questione. Con la riversibilità del premio noi ci proponiamo di giovare al produttore isolato, non alle grandi organizzazioni le quali impiegano in un film settanta, cento milioni, sopperendo col denaro alla mancanza di ingegno.

Io non mi sono permesso di dire che l’appassionata difesa dello Stato e dei bambini italiani che ci sono entrambi cari, oggi disgraziatamente, per rincontro di circostanze certamente fortuite, si identifica con gli interessi attuali della cinematografia americana. Non capisco perché il sospetto contrario debba essere avventato su di noi che siamo lavoratori del cinematografo, amico Fogagnolo, e lei lo sa per averci visto lavorare e per essere rimasto contento del nostro lavoro. Questo non è giusto, mentre ci si batte per fare approvare una legge che, io le ricordo, ho avuto dagli operai, dalle maestranze e dai tecnici cinematografici, domenica scorsa, il mandato di far di tutto per far approvare. Quindi la difesa che noi facciamo di questa legge, noi dell’«Uomo Qualunque», è una difesa che scaturisce dall’adunata delle maestranze, dai tecnici e dagli operai iscritti al partito comunista e alla C.G.I.L. che si è tenuta al teatro «Quattro Fontane». È in nome di questa gente che vuole lavorare che noi parliamo, non certo in nome degli industriali i quali – e l’onorevole Fogagnolo lo sa benissimo – non hanno bisogno di leggi per fare ì loro film, perché quando il grande industriale italiano si è messo d’accordo col grande industriale americano fa il film in tutto il mondo, e oggi conquista il mercato dell’America meridionale (spero che lei lo sappia questo) e lo conquista appunto perché si mettono d’accordo grandi interessi capitalistici italiani con grandi interessi capitalistici degli Stati Uniti, allo scopo di sfruttare quel mercato quasi vergine.

Io invito, concludendo, l’Assemblea a volere approvare questa legge nella sua formulazione, sia pur difettosa, e a non renderla ancor più difettosa; perché la difesa di essa è fatta unicamente in pro del produttore isolato – che è un lavoratore – e dei lavoratori.

Non nego che gli industriali potranno giovarsene, ma non sarebbe possibile che non se ne giovassero. Noi non possiamo, per impedire che una categoria abbia un vantaggio, togliere questo vantaggio a tutte le altre categorie!

E termino invitando gli amici di quella parte dell’Assemblea (Accenna alla sinistra) a volerci considerare un po’ più fraternamente. Noi siamo della brava gente, anche se comprendiamo i problemi tecnici in un modo meno sommario di quello con il quale essi hanno capito questo progetto sulla cinematografia. (Applausi a destra).

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Voglio soltanto rettificare un’affermazione del collega Giannini in ordine ai rapporti intercorsi fra noi. Il collega Giannini o non sa, o non ricorda, o ignorava fin d’allora che io rappresentavo gli interessi della Gaumont Film e che quando son venuto a Roma nel 1930 per il famoso Ente nazionale della cinematografia – dove ho trovato certi filibustieri, qualcuno dei quali oggi è ancora a galla e sta organizzando la biennale di Venezia e i festival cinematografici – e quando noi abbiamo mandato un milione e mezzo per rilevare il pacchetto di azioni che il Ministro Bottai non ha consegnato, io non rappresentavo i miei interessi, ma gli interessi di coloro che mi avevano mandato.

GIANNINI. Rappresentare la Gaumont non significa rappresentare gli operai; significa rappresentare una società con un miliardo di capitale.

FOGAGNOLO. Quando i francesi sono venuti in Italia con la Gaumont io ero un dipendente della Gaumont e ho conosciuto attraverso questa i problemi cinematografici.

GIUA. Con i tuoi interessi passati avresti fatto bene a non parlare!

FOGAGNOLO. Ma che interessi! Io ero un dipendente di una casa cinematografica e non c’è niente di male ad essere un dipendente. Non ero un padrone. Mettiamo le cose a posto! (Commenti – Interruzioni a sinistra).

PRESIDENTE. Prosegua, onorevole Fogagnolo.

FOGAGNOLO. Il collega Giannini ha cercato di fare una lezione di regìa, che credo sia estranea alla discussione che stiamo facendo. Per quello che riguarda il modo come lavorano gli americani ed il modo come lavorano gli italiani, ciò non fa che confermare quello che ho detto precedentemente.

ANDREOTTI. Ma questo non è fatto personale.

PRESIDENTE. Onorevole Andreotti, sono io a tutelare l’ordine della discussione. Onorevole Fogagnolo tenga conto che lei ha impegnato la sopportazione dell’Assemblea per quasi tutte le sedute nelle quali si è discusso questo argomento. Ella sa di non potermi rimproverare di non essere stato con lei cortese; però nel momento in cui avverto l’impazienza dell’Assemblea, la prego di fare appello alla sua sensibilità e di non costringermi a domandarle con insistenza di non abusare ancora della sopportazione dei colleghi.

FOGAGNOLO. Non credo di essere nel novero di quei deputati che hanno la mania di parlare, perché in otto mesi non ho mai chiesto la parola. Se in un problema tecnico che conosco e del quale gli altri colleghi, in grande maggioranza, hanno dimostrato di non aver conoscenza, sono intervenuto, credo che ciò sia giusto. E siccome non rappresento nessun interesse, né ho sospettato nessuno di rappresentare altri interessi, respingo il pensiero che io possa aver parlato per creare dei sospetti intorno ad alcune persone.

GIANNINI. Lei ha parlato di interessi di miliardi.

FOGAGNOLO. Io ho suggerito il modo col quale si può intervenire a favore della industria nazionale senza intaccare il patrimonio dello Stato.

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Onorevoli colleghi, sono completamente estraneo a questo dibattito e non ho seguito le precedenti tornate nelle quali il progetto si è discusso. Però ho letto i resoconti ed ho visto che gli onorevoli Einaudi, Corbino e Bertone hanno espresso le loro riserve su questa legge.

GIANNINI. Le abbiamo controbattute.

PERSICO. E siccome sono tre autorità in materia finanziaria, stimate da tutta l’Assemblea, ritengo che le loro osservazioni debbano avere un certo peso. Però accetto in parte l’invito dell’onorevole Giannini. Cerchiamo di uscire da questa situazione; cerchiamo soprattutto di non danneggiare l’interesse delle classi lavoratrici: allora mi sembra che si potrebbe fare una proposta intermedia. Vi è già un decreto luogotenenziale 5 ottobre 1945 che dà un contributo (non uno sgravio, perché questa parola non la capisco). Sono contributi che lo Stato oggi dà, versamenti del 10 o del 4 per cento a titolo di contributo o di premio, che ora si vogliono portare rispettivamente al 12 e al 6 per cento. Lasciamo le cose come stanno. Non c’è ragione che in questo momento lo Stato, che si trova in condizioni di estremo deficit finanziario, assuma un nuovo onere che, secondo alcuni calcoli, essendo protratto per quattro anni, porterebbe a circa quattro miliardi di spesa.

Però è anche giusto che ci sia una tutela per i produttori di film italiani, perché noi siamo d’accordo anche col Relatore, onorevole Vernocchi, che questa industria, che ha una enorme importanza morale e mondiale, perché serve di propaganda di un certo Paese, di un certo popolo, di una certa civiltà, sia aiutata nei limiti del possibile e allora credo che la soluzione potrebbe essere questa: abbinare la discussione dell’articolo 4 con quella dell’articolo 7. Per l’articolo 7 vedo che vi sono emendamenti concordanti, uno del collega Fogagnolo, uno dell’onorevole Giannini con molte firme ed altri i quali propongono di portare da quindici a venti giorni per trimestre la programmazione obbligatoria.

GIANNINI. Ma non basta più se non si ha il 2 per cento.

PERSICO. Dovrebbe bastare il poter portare a 80 giorni annui invece che a 60 la programmazione obbligatoria. Dice l’onorevole Giannini, non basta; noi ci dobbiamo preoccupare di fare una buona legge, che divida il male a metà, che divida equamente il malcontento, per adoperare una frase storica, perché, come ha osservato l’onorevole Proia, la produzione italiana non sarebbe sufficiente ad alimentare per 90 giorni la programmazione di film italiani. Non ci sarebbero né i film sufficienti, né soprattutto la qualità dei film. Un film mediocre per 3-4 sere consecutive si può proiettare, ma non più; allora portiamo il termine a 80 giorni. In questo modo i produttori italiani avranno il vantaggio dell’obbligatorietà di 80 proiezioni ogni anno, che è già una serie sufficiente di proiezioni, perché nei piccoli paesi i film si fanno di domenica soltanto o nei giorni festivi, quindi 80 giorni è già un termine molto elevato. Si ritorni per il resto alla legge del 1945, cioè lasciando l’onere dello Stato quale è attualmente, senza aggiungere un centesimo. E, senza dire che stiamo qui a proteggere né interessi di conduttori di sale, né interessi di grandi industriali americani, cerchiamo di varare la legge senza ulteriori difficoltà. Questa è la modesta proposta che io faccio all’Assemblea.

CORBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBI. Onorevoli colleghi, forse la materia di cui oggi si discute spiega il perché a volte si sia usato il tono della drammaticità e qualche volta invece quello comico come si è compiaciuto fare il collega Giannini. A noi sembra che l’articolo proposto non meriti quelle preoccupazioni e quel tono che rischiano di far apparire una parte dell’Assemblea composta da dilapidatori del patrimonio dello Stato, e un’altra da vigili custodi del pubblico bene. L’argomento, credo, debba essere esaminato con più calma e con maggior senso di rispetto per tutti. Noi non siamo troppo esperti in materia; e credo che nel mio gruppo non ci sia alcuno che possa vantare la competenza di cui altri – siamo lieti di constatarlo – sono ampiamente forniti. In questioni cinematografiche, in questioni di produzione, contributi, premi e interessi esteri siamo profani; in tutta questa ridda di milioni noi ci sentiamo estranei e nessun interesse certo ci muove, se non quello di far rivivere la nostra industria cinematografica.

È un fatto che non dovrebbe meravigliare se in questa circostanza gli interessi di alcune categorie di lavoratori, cioè di quelli del cinematografo, coincidono con gli interessi degli industriali. Siamo in una situazione economica tale per cui queste cose possono verificarsi; soprattutto la situazione economica attuale lo spiega. È avvenuto che rappresentanti di organizzazioni sindacali si sono più volte riuniti con rappresentanti tecnici, con produttori, con industriali di cinema, esaminando e discutendo a fondo questa questione, e sono addivenuti ad una conclusione: la necessità di prendere dei provvedimenti solleciti – purtroppo non sono stati così solleciti come si auguravano gli interessati – perché l’industria cinematografica italiana rinasca, non solo per dare lavoro a centomila persone, ma anche per ridare una dignità alla nostra arte cinematografica che in Italia ha tutte le possibilità di affermarsi e di svilupparsi con beneficio della nostra educazione artistica e con benefìcio anche del nostro prestigio e dei nostri affari con altri Paesi.

Si è proposto e si è detto che a risollevare le sorti della cinematografia italiana potrebbero bastare i provvedimenti contenuti nell’articolo 7, cioè il contingentamento allo schermo. Però – e solo questo ci consiglia di parlare in difesa di questo articolo – vi sono stati dei registi, degli operatori, dei tecnici, dei lavoratori del cinematografo, i quali hanno detto: «badate che soltanto il contingentamento, a nostro parere, non basta; noi siamo convinti che gli industriali italiani non si sentirebbero incoraggiati ad investire delle considerevoli somme nel cinematografo se essi non venissero anche assistiti con i contributi e con i premi; perché la concorrenza della cinematografia americana non troverebbe un ostacolo sufficiente nel contingentamento, dati i mezzi di cui essa dispone e dato il costo dei film. Si verificherebbe quindi questo in Italia: che dei probabili produttori italiani troverebbero più conveniente investire considerevoli somme in altre attività di carattere non produttivistico, ma esclusivamente speculativo; e la nostra cinematografia non avrebbe nessuna possibilità di rinascere e di svilupparsi.

Io credo che si tratti dunque, per la situazione particolare che noi oggi attraversiamo, di incoraggiare degli investimenti – con senso realistico – verso attività produttivistiche, e di sottrarne quanto più è possibile da tutte quelle altre che non sono attività economiche sane, ma che aggravano la nostra situazione economica e finanziaria.

L’onorevole Vernocchi, Relatore, ci diceva che nel 1946 sono stati concessi duecento milioni per contributi ai produttori, e si prevede che per il 1947 si possa arrivare ai 500 milioni, dato il numero maggiore di film che saranno prodotti in Italia. Ebbene, io credo che questo aumento non rappresenti una cifra che possa significare la rovina di bilancio dello Stato; ma anzi credo che, verificandosi, un tale aumento significherebbe anche che la nostra produzione è aumentata e con essa è cresciuto il reddito nazionale, che altre centinaia e migliaia di lavoratori avrebbero trovato lavoro e pane nella cinematografia. Io credo che questo provvedimento non lo si debba considerare solo per le centinaia di milioni che costa allo Stato, ma che occorra valutarne anche l’utilità economica e vedere se esso può comportare nuove possibilità di lavoro e di reddito, non solo per gli industriali, ma anche per altri lavoratori ed altri cittadini che esplicano un’attività più o meno direttamente connessa alla cinematografia. Sono state fatte altre proposte dall’onorevole Cappa che potrebbero essere prese in considerazione perché tendono a ridurre – e considerevolmente mi sembra – i contributi ed i premi. Io credo che su questa questione, sulla misura dei premi e dei contributi, si possa trovare la via dell’accordo. (Interruzioni).

Ad ogni modo c’è un’altra proposta, che concerne l’emendamento proposto da me e da altri colleghi; esso vuole sottoporre alla vostra attenzione l’opportunità di ridurre dal 12 all’8 per cento i contributi ed elevare invece dal 6 al 10 per cento i premi. Perché questo? Credo che con questo emendamento si raggiungeranno due scopi: innanzitutto un minore aggravio per lo Stato, perché i film premiati saranno molto minori del totale dei film prodotti, poi si spronerebbe a migliorare la qualità dei film prodotti in Italia. Così si garantisce nello stesso tempo lo sviluppo quantitativo dei film e se ne migliora la qualità. Credo che ci sia bisogno di questo perché, purtroppo, ci sono soltanto rari casi che attestano che la nostra cinematografia può fare e fare molto bene. Ma anche questi casi ci sono di conforto: infatti sono state programmate di recente alcune pellicole che onorano la cinematografia italiana e stanno a dimostrare che ove lo Stato incoraggi, assista ed aiuti questi nostri bravi registi e tecnici, la cinematografia italiana non avrà nulla da invidiare a certe cinematografie che pur valendosi di mezzi considerevolissimi inviano in Italia – come ha detto l’altra volta giustamente il collega Bibolotti – oppure degne di una popolazione di colore. Con i provvedimenti che noi approviamo, si incoraggia la cinematografia e gli industriali, i quali si sa vogliono pur fare i loro affari; ed è significativo che questa proposta sia da noi condivisa: noi guardiamo realisticamente la situazione, e ci facciamo sostenitori, in questa occasione, anche degli interessi degli industriali e dei produttori, perché sappiamo che allo stato delle cose non si può fare a meno di essi pur ricostruire più in fretta il Paese e risollevarlo dall’abisso in cui è stato condotto.

Con questo, onorevoli colleghi, concludo, e voglio invitare l’altra parte dell’Assemblea a riflettere. Io sono certo che un punto di accordo giusto e realistico si potrà trovare, a meno che noi, nella nostra ingenuità, non si comprenda che ci sono degli interessi nascosti e che non si possono confessare (Commenti – Interruzioni), il che spiegherebbe perché tanto ostruzionismo su una questione così semplice (Approvazioni a sinistra – Commenti).

PERA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERA. Sento il dovere di dire ancora qualche parola, perché sono stato l’iniziatore di questo attacco a fondo contro la legge sulla cinematografia. E poiché dal banco del Governo, come dai banchi comunisti ove pare siano espresse oggi le teorie di un tempo del nazionalista Enrico Corradini, si parla di interessi inconfessabili, io ho il dovere di dire all’Assemblea quale è stata l’impostazione nostra: noi ci siamo posti unicamente dal punto di vista della difesa delle finanze dello Stato. Il conforto che mi è venuto dagli onorevoli Bertone, Einaudi e Corbino, quando ho sostenuto l’assurdità o per lo meno la grande stranezza di una legge che incide così profondamente sul bilancio dello Stato, senza passare per la Commissione finanziaria, dico, l’appoggio che mi è stato dato da questi tre indiscutibili competenti, conforta quello che io dicevo, e cioè i motivi della validità della protesta. Noi non difendiamo degli interessi che sono stati invece apertamente difesi in altri banchi; noi abbiamo detto: difendiamo le finanze dello Stato, e tengo subito a dichiarare che, quando noi abbiamo parlato di riesame e di rielaborazione della legge di fronte alla Commissione finanziaria, era perché in quella sede potessero essere portate delle altre proposte capaci di difendere la cinematografia italiana senza intaccare così profondamente gli interessi dello Stato.

Per quanto riguarda i film stranieri, io dico: mettete le tasse di doppiaggio sui film stranieri come si fa in altri paesi! Difendete così la produzione nazionale, senza far pagare allo Stato dei contributi così vistosi!

Per quanto concerne la programmazione obbligatoria, noi abbiamo detto fin dall’inizio che eravamo favorevoli a questa programmazione obbligatoria. Ed allora? Già l’ho detto nel mio primo discorso: poiché esisteva un accordo fra esercenti ed industriali, non era neppure antiliberale sancire per legge questo accordo. In queste condizioni bisogna fare alcune osservazioni: anzitutto perché siamo insorti? Per la stranezza della presentazione: noi abbiamo visto passare di fronte alla Commissione finanziaria il progetto di legge per i senza tetto, ed abbiamo impiegato dei mesi a discutere questa legge. Era una legge di tragica urgenza, ma era giusto che la Commissione finanziaria dicesse la sua parola in proposito. Ora, questa legge doveva tanto più passare di fronte alla Commissione finanziaria in quanto vi è una legge dell’ottobre 1945 la quale tutela, nella misura che oggi è accettata dal Governo e dallo stesso Relatore, gli interessi della cinematografia italiana. Poteva, quindi, benissimo per questa legge, seguirsi la stessa procedura perché non vi era quella urgenza che invece esisteva per altre leggi, che pur passarono al vaglio della. Commissione finanziaria.

Vi è un’altra osservazione da fare, sempre sulla stranezza con la quale questa legge è stata presentata. Ho sentito questa mattina ripetere dall’onorevole Giannini che si tratta di sgravio fiscale. Ma non si tratta invece per niente di sgravio fiscale. Fino al 29 marzo ultimo scorso, caso mai, prima che fosse emanato il decreto che trasferiva ai comuni l’importo globale della tassa erariale sui cinematografi, si poteva parlare ancora di una partita di giro. Da una parte lo Stato introitava quattro miliardi circa per tutti i film nazionali e stranieri e, dall’altra parte, dava una sovvenzione, non come sgravio fiscale, ma su una percentuale sugli incassi lordi.

Ma, a partire dal 29 marzo scorso, non vi è neppure più questa contropartita nel settore cinematografico; non vi è più niente: vi è un effettivo esborso da parte del Tesoro il quale, invece di essere prefissato, è adeguato ad una percentuale sugli incassi lordi.

GIANNINI. Non mi pare.

PERA. È evidente allora che non si può parlare di sgravio fiscale, ma si deve parlare di un vero ed effettivo contributo.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ma la legge dice appunto contributo, non sgravio fiscale,

PERA. Gli onorevoli Vernocchi e Giannini parlano invece di sgravio fiscale ed io rispondevo all’onorevole Giannini, il quale questa mattina parlava nuovamente di sgravio fiscale, mentre invece si tratta al contrario di un aggravio fiscale.

Io posso concordare con l’onorevole Corbi quando afferma che si potrebbero studiare – ma, aggiungo, in sede di Commissione – degli accorgimenti per stabilire un limite a queste sovvenzioni. Egli ha ragione quando afferma che, invece di dare il dieci per cento di sovvenzione, in conformità della misura fissata dalla precedente legge, si potrebbe dare invece il sei o il sette o l’otto per cento, ed aumentare se mai l’importo del premio, per favorire appunto i film della migliore produzione.

Ma, da ultimo, debbo anche rispondere alle obiezioni che sono state fatte, da diversi settori, dagli onorevoli colleghi e che concernono la preoccupazione relativa agli interessi dei lavoratori. Io l’ho detto sin dall’inizio: quando si tratta di proteggere gli interessi degli industriali, non sono gli interessi di questi che si prospettano, ma sono gli interessi dei lavoratori che sono portati avanti. Credevo che la difesa degli industriali dovesse venire dai banchi di destra e non dai banchi dei comunisti.

UBERTI. Ma continua a dire le stesse cose! (Commenti).

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Questo è ostruzionismo. (Commenti).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare per mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Onorevole Russo Perez, la prego di non insistere. In sede di discussione degli articoli ciascuno può parlare quanto desidera.

UBERTI. Anche ripetendo sempre le stesse cose?

PRESIDENTE. Il Presidente deve rispettare il diritto alla parola di tutti; spetta a chi parla di interpretare lo stato d’animo dell’Assemblea.

Continui, onorevole Pera.

PERA. Premesso che vi è la legge dell’ottobre 1945 che protegge l’industria cinematografica con contribuzioni del 10 per cento più il 4 per cento di premio, premesso che noi accettiamo la programmazione dei 60 giorni, io credo indispensabile che venga portata e studiata la nuova legge di fronte alla Commissione finanziaria. L’ho già detto e lo ripeto, perché ho dovuto ripeterlo in quanto è stata sviata la discussione.

Noi accettiamo sino ad una nuova legge la permanenza della protezione nel senso indicato dalla legge 5 ottobre 1945 con la programmazione obbligatoria conforme a quanto ha indicato l’onorevole Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, col numero dei giorni che egli ha indicato e cioè di sessanta giorni all’anno.

PONTI. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PONTI. Ho chiesto di parlare per fatto personale in seguito all’accenno fatto dall’onorevole Fogagnolo con la frase: «i soliti filibustieri organizzano la Biennale», e il fatto personale consiste in questo: che il primo filibustiere sarei io come Commissario della Biennale.

Ora, francamente, non ho capito cosa intendeva dire l’onorevole Fogagnolo. Se l’onorevole Fogagnolo ha inteso dire che alla Biennale (non parlo del Commissario, perché per lo meno lui è una persona nuova) ci sono ancora quelli che organizzavano precedentemente la Mostra del Cinema, devo smentirlo per il fatto semplicissimo che sono mutati. Però sento il dovere di dire in coscienza che le persone che organizzavano la Biennale precedentemente (e lo dico perché non è il caso di fare una questione politica, anche se le persone che erano a quel posto durante il fascismo potevano essere fasciste o favorite dal fascismo), non sono state mai dei filibustieri. Se l’espressione deve intendersi come la intendo io, protesto contro la leggerezza con cui la frase è stata pronunciata dall’onorevole Fogagnolo; perché in queste cose bisogna essere precisi, e se in una Assemblea solenne come la Costituente lanciamo delle accuse, abbiamo il dovere di essere bene informati: non è serio né democratico esprimere frasi che possono avere risonanza nazionale contro un ente che è stato anche nel passato una organizzazione seria! Io, che sono stato antifascista e ho combattuto contro il fascismo tutta la mia vita, sento il dovere di affermare che la Biennale, anche in periodo fascista, è stata una organizzazione seria.

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGNAGNOLO. L’onorevole Ponti, giustamente, si è preoccupato di una frase da me pronunziata e che lui attribuisce a leggerezza se non ci fossero in essa delle verità. Ed allora devo precisare.

Ho letto sui giornali di Venezia che fra gli organizzatori della Biennale e della Mostra cinematografica c’è un ex deputato fascista che io ho qualificato filibustiere, dicendone anche le ragioni.

Una voce. Il nome!

FOGAGNOLO. Questo ex deputato fascista si chiama Barattolo. Io non so se quello che hanno pubblicato i giornali sia vero, ma mi riferivo semplicemente alla pubblicazione dei giornali. Nel 1930 l’allora deputato Barattolo si era fatto dare gratis da Bottai un pacchetto di azioni dell’Ente nazionale della cinematografia di cui Bottai aveva già rilasciato opzione alla Gaumont per un milione e mezzo di franchi. Dopo di che Barattolo lo offerse per lo stesso prezzo alla Gaumont. Risulta inoltre dai giornali che questo ex deputato Barattolo è uno di coloro che a Venezia l’anno scorso organizzò la Mostra cinematografica. Questo fatto mi dà diritto di denunciarlo pubblicamente all’Assemblea. Non si tratta quindi di nessuna leggerezza, ma si tratta di denunciare e di precisare questi fatti e di evitare che tornino a galla questi relitti del fascismo.

PONTI. Chiedo di parlare per rispondere all’onorevole Fogagnolo.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PONTI. Sono sodisfatto nel senso che l’onorevole Fogagnolo ha chiarito il suo pensiero.

Per quanto riguarda l’ex deputato Barattolo, posso assicurare che egli non fa assolutamente parte dell’organizzazione della Biennale. Però devo dire, per chiarimento, che altrimenti sembrerebbe tutto quanto falso ed inventato, che nei primi mesi subito dopo la liberazione, cioè due anni fa, è stata costituita a Venezia una Commissione di studio, che non aveva niente a che fare con la Biennale, per la preparazione e l’organizzazione della Mostra cinematografica, ed in questa Commissione di studio era stato chiamato l’ex deputato Barattolo in quanto era un industriale del cinema locale. Questa Commissione, che ha studiato ed ha presentato una relazione al comune di Venezia, è cessata ancor prima della manifestazione cinematografica dell’anno scorso, la quale è stata assunta in pieno ed esclusivamente dalla Biennale, che non ha mai avuto niente a che fare con il Barattolo.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Relatore. Ne ha facoltà.

VERNOCCHI, Relatore. Non voglio ripetere quello che ho detto prima, perché ho fatto un’analisi precisa di quella che è la produzione del nostro Paese in questo momento e se ho chiesto di parlare è in seguito all’intervento del collega Fogagnolo, il quale ha fatto alcuni appunti alla prima Commissione dinanzi alla quale non si sarebbe fatta la discussione e non si sarebbe letta la relazione da me presentata. Devo informare l’onorevole Fogagnolo che la Commissione discusse il disegno di legge e mi nominò Relatore, in quanto ero favorevole ad esso. Mi dette il mandato di fiducia perché, ripeto, ero favorevole al disegno di legge e tutta la Commissione si era espressa favorevolmente.

Per quanto si riferisce all’altra obiezione, la colpa non è mia se questa legge non è stata sottoposta all’esame dalla seconda Commissione.

Ad ogni modo, mi duole che non sia presente l’onorevole Gronchi perché egli rispose ad una mia precisa richiesta, che la seconda Commissione non aveva alcuna obiezione da fare.

Questo per ristabilire la verità. Ma il collega Fogagnolo ha fatto due affermazioni che rivestono una particolare gravità; ed è su queste che io mi devo soffermare, anche se non riguardano particolarmente la legge. Sono affermazioni che, quando si levano da una tribuna così alta come la tribuna parlamentare, devono essere o affermate con documentazione oppure smentite. La prima è dovuta, evidentemente, ad informazioni errate. Io parlo come componente del Consiglio di amministrazione dell’Enic, ente che chiamerei indirettamente parastatale. Come Presidente dell’Istituto Luce posseggo la quasi totalità del pacchetto azionario dell’Enic, ed ho il dovere ed anche il diritto di dire che il collega Fogagnolo è stato male informato. Credo che l’Enic sia il solo proprietario di esercizi cinematografici che abbia messo fino ad oggi per oltre 100 giorni all’anno il suo circuito a disposizione della produzione italiana. Questa è la verità che a me consta in maniera positiva. Purtroppo lo ha messo a disposizione anche di quei film non meritevoli ai quali qui si è accennato. Se l’Enic è, sia pure indirettamente, un ente parastatale, deve, proprio per questa ragione, indiscriminatamente, accettare nei suoi cinema tutta la produzione, anche se è scadente? Ma se seguisse questo sistema l’Enic sarebbe condannato a sicura morte. Bisogna, bensì, che l’Enic dia alla produzione italiana il suo circuito, ma deve stimolare la produzione di qualità; deve cercare i soggetti pregiudizialmente eccellenti, affidarli a soggettisti italiani capaci, cercarsi la buona produzione, e mai può accettare che tutta la produzione (anche quella scadente e immeritevole) invada il suo circuito.

Poi, l’onorevole Fogagnolo ha fatto un’altra dichiarazione che è veramente grave ed è quella che si riferisce ai «filibustieri dell’Enic» che prendono le mance; ai funzionari dell’Enic che servono la cinematografia americana dietro compenso. Orbene, onorevole Fogagnolo, quando si porta un’accusa di questo genere in questa Aula occorre essere sicuri, occorre avere le prove e occorre soprattutto, se si hanno queste prove, informare quei galantuomini che fanno parte del Consiglio di amministrazione dell’Enic per metterli in grado di prendere provvedimenti immediati contro quei funzionari che risultano disonesti.

Una voce. È una voce diffusa.

VERNOCCHI, Relatore. La voce diffusa circola da tempo, ma non siamo mai riusciti a concretare una prova a carico di costoro. E badate che noi saremmo felici di poter concretare questa prova, per liberarci di uomini disonesti, per epurare l’ambiente. Ma io sostengo che questi informatori, che vengono a riferire all’orecchio, senza dati precisi, devono essere allontanati o invitati a precisare.

LA MALFA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA. Non intendo assolutamente entrare nel merito; devo però chiarire che la seconda Commissione non è stata mai interpellata circa il provvedimento. Non ho altro da aggiungere.

PRESIDENTE. È stata presentata in questo momento la seguente proposta:

«Per le difficoltà prospettate a proposito dell’articolo 4, che comporta l’erogazione di contributi da parte dello Stato senza che la seconda Commissione dei decreti legge abbia espresso il proprio parere, i sottoscritti propongono il rinvio del disegno di legge alle Commissioni riunite, prima e seconda, per l’esame delle questioni finanziarie connesse col decreto.

«Spallicci, Cianca, Di Gloria, Ruggiero, Lami Starnuti, Merighi, Filippini, Zanardi, Paris, Pera, Canevari, Taddia, Bennani, Bocconi».

Devo far osservare all’Assemblea che questa proposta ripropone, in termini diversi, ma sostanzialmente più lati, la sospensiva, che già fu rigettata, in una precedente votazione, dall’Assemblea.

Ad ogni modo procedo all’appello dei proponenti.

(Segue l’appello).

Poiché risulta che solo otto dei proponenti sono presenti, dichiaro che la proposta non può, anche per questa ragione, essere posta in votazione.

Procediamo alla votazione della proposta di soppressione dell’articolo 4 presentata dall’onorevole Fogagnolo.

NOBILE. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILE. Voto contro perché, sopprimendo l’articolo 4, secondo me, rimane in piedi il decreto del 1945, col quale si dànno ugualmente questi contributi, mentre ritengo, e insieme con me tutti gli amici di questo settore, che occorra apportare le variazioni che sono concretate in un emendamento che ho presentato alla Presidenza.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Vorrei chiarire l’equivoco cui si può andare incontro: se si approva la soppressione dell’articolo 4, non si può proporre poi il ritorno alla vecchia legge.

PRESIDENTE; Pongo ai voti la soppressione dell’articolo 4.

(Non è approvata).

Procediamo dunque all’esame degli emendamenti. Gli onorevoli Fogagnolo, Pera, Taddei, Canevarli, Persico, Di Gloria, Caldera, Filippini, hanno proposto il seguente emendamento:

Al primo comma, alle parole: è concesso al produttore, sostituire le altre: verrà devoluto dallo Stato a favore degli Enti comunali di assistenza.

L’onorevole Fogagnolo ha facoltà di svolgerlo.

FOGAGNOLO. La reiezione della proposta soppressiva comporta di necessità l’esame e la votazione dell’articolo 4. Senza ripetere tutto quello che si è detto, io ritengo che, data l’impostazione che abbiamo data alla discussione, dato che siamo tutti d’accordo per concedere l’imposizione della programmazione di film nazionali – ed è quello che desiderano i produttori – dato che il secondo comma dell’emendamento presentato stabilisce di dare il 6 per cento alla produzione nazionale, che è già largamente aiutata (Interruzioni a destra – Proteste)…

GIANNINI. Ma così si ripetono sempre le stesse cose. Fra dieci giorni saremo ancora qui a discutere questa legge!

PRESIDENTE. Onorevole Giannini, ognuno ha il diritto di esporre il proprio pensiero, ed io devo tutelare questo diritto.

FOGAGNOLO. …penso che l’emendamento debba essere accettato.

PRESIDENTE. Chiedo il parere della Commissione.

VERNOCCHI, Relatore. Faccio notare ai proponenti che vi è – come hanno accennato già alcuni onorevoli colleghi – una proposta di legge del 29 marzo per assegnare il 40 per cento degli introiti delle tasse sui cinematografi ai comuni. Quindi mi pare che sia inutile dare un altro 12 per cento ai comuni stessi. Con l’approvazione di questo emendamento noi daremo il 52 per cento ai comuni sulle tasse erariali percepite dallo Stato sui cinematografi, e mi pare che sia un po’ troppo.

PERSICO. Cioè denari dello Stato.

VERNOCCHI, Relatore. Non ritengo, poi, che questo emendamento abbia un nesso con questa nostra legge. Mi sono già dichiarato favorevole, prima ancora che parlasse l’onorevole Persico, al ritorno alla legge del 1945, e su questo insisto che l’Assemblea si pronunci.

PRESIDENTE. L’onorevole Cappa ha facoltà di esprimere il suo avviso.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei Ministri. Non accetto l’emendamento dell’onorevole Fogagnolo. Questo è ostruzionismo. (Proteste dell’onorevole Fogagnolo).

PRESIDENTE. Onorevole Fogagnolo, ella mantiene l’emendamento?

FOGAGNOLO. Lo ritiro.

PRESIDENTE. L’onorevole Nobile ha proposto di ridurre dal 12 all’8 per cento il contributo per tutti i film nazionali e di aumentare dal 6 al 10 per cento il contributo per i film meritevoli.

L’onorevole Nobile ha facoltà di svolgere questo emendamento.

NOBILE. Che l’industria cinematografica italiana debba essere incoraggiata non vi è alcun dubbio, e credo che a nessuno potrà venire in mente di voler sopprimere quel contributo che i vigenti decreti già concedono a questa industria. Però il problema essenziale, a mio avviso, è questo: di stimolare la buona produzione, quella artistica, anche perché noi possiamo alla fine, un giorno, liberarci di tanta zavorra che viene da fuori, e diventare a nostra volta esportatori di film. Vi sono state preoccupazioni di carattere finanziario. Questi emendamenti proposti tendono precisamente ad apportare, non un aggravio bensì uno sgravio al bilancio statale, ad incoraggiare la buona produzione, quella artistica. La riduzione dal 10 per cento attuale all’8 per cento non è notevole; ma dato che i film oggi premiati rappresentano, come assicura l’onorevole Vernocchi, una piccola percentuale, evidentemente questo permetterebbe di poter decrescere notevolmente il premio ai buoni film.

PRESIDENTE. Chiedo il parere della Commissione.

VERNOCCHI, Relatore. Non avrei difficoltà ad accettare questo emendamento; desidererei, però, sentire il parere del Governo. Penso che premiare il film di qualità sia nell’interesse di tutti.

GIANNINI. Ma così si premia il grande produttore, il capitalista, non il piccolo produttore!

VERNOCCHI, Relatore. Anch’io penso che così si premierebbe il grande produttore e non le piccole cooperative di registi e di operai, che fanno film con modeste risorse.

PRESIDENTE. Chiedo il parere del Governo.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’emendamento Nobile ha qualche lato che varrebbe raccomandarlo, ma faccio presente all’Assemblea che è stato affermato che il contributo del 10 per cento, assicurato a tutta la produzione, è troppo basso. Se riduciamo all’8 per cento, forse limitiamo la possibilità d’iniziativa degli industriali e delle maestranze cinematografiche italiane. In un secondo tempio, quando la produzione si potrà migliorare, potremo ancora limitare il premio di contributo di produzione, e accrescere, di converso, il premio ai film migliori. Ma in questo primo tempo mi pare più conveniente quel che è stabilito dal progetto: e cioè di lasciare il contributo del 10 per cento in favore di tutti i film, allo scopo di stimolare la produzione, conservando invariato questo contributo. Faccio ancora una volta presente che, riducendo il contributo proposto nel progetto dal 12 al 10 per cento, attualmente in vigore, nessuna preoccupazione finanziaria può più sussistere. Accolgo pertanto la riduzione al 10 per cento ed insisto perché il primo comma sia approvato così come è nel testo del disegno con questa sola variante.

PRESIDENTE. Onorevole Nobile, ella mantiene l’emendamento?

NOBILE. Rinunzio.

PRESIDENTE. L’onorevole Proia ha proposto il seguente emendamento già svolto:

«Al prima comma, sostituire alle parole: dopo l’entrata in vigore della presente legge, le parole: dopo il 1° gennaio 1947».

Onorevole Proia, lo mantiene?

PROIA. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Pongo ai voti il primo comma dell’articolo 4 con la modifica accettata dal Governo e dalla Commissione, di ridurre il contributo dello Stato dal 12 al 10 per cento:

«Per ogni film nazionale di lunghezza superiore ai 2000 metri presentato all’Ufficio centrale per la cinematografia per il nulla osta di proiezione in pubblico, dopo l’entrata in vigore della presente legge, e la cui prima proiezione nelle sale cinematografiche italiane si effettui prima del 31 dicembre 1949, è concesso al produttore un contributo pari al 10 per cento dell’introito lordo degli spettacoli nei quali in film nazionale sia stato proiettato per un periodo di quattro anni dalla data della prima proiezione in pubblico».

(È approvato).

Passiamo al secondo comma:

«Una ulteriore quota del 6 per cento dell’introito suddetto e per lo stesso periodo di tempo verrà assegnata a titolo di premio ai film che ne siano riconosciuti meritevoli per il loro valore culturale ed artistico dal Comitato tecnico di cui al successivo articolo 13».

A questo comma sono stati presentati tre emendamenti. L’onorevole Nobile ha proposto di aumentare dal 6 al 10 per cento il premio per i film meritevoli; l’onorevole Persico ha proposto di ridurlo, invece, dal 6 al 4 per cento; infine l’onorevole Giannini ha proposto di aumentarlo dal 6 all’8 per cento.

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. L’emendamento al secondo comma da me proposto è connesso con quello di cui al primo comma, cioè riguarda il ritorno al decreto del 5 ottobre 1945. Dichiaro che non posso aderire alla proposta dell’onorevole Nobile, di stabilire il 6 per cento come premio, portando il contributo al 10 per cento; perché questo premio andrebbe a vantaggio delle grandi case produttrici, le quali soltanto sono in grado di fare dei film di eccezionale importanza e di eccezionale valore artistico e quindi meritevoli del premio, mentre lo scopo è quello di incoraggiare i piccoli produttori isolati, dando loro un contributo che ormai abbiamo mantenuto nei limiti del 10 per cento. Non c’è ragione di far gravare sull’erario un maggior esborso unicamente per aiutare i grandi produttori che non ne hanno bisogno.

Prego quindi l’onorevole Nobile di non insistere sul suo emendamento.

PRESIDENTE. Dei tre emendamenti al secondo comma quello che più si discosta dal progetto e che di conseguenza ha il diritto di priorità nella votazione, è quello dell’onorevole Nobile, al quale chiedo se insiste.

NOBILE. Insisto nell’emendamento, perché non è per niente vero che si venga a premiare così la grande industria, perché anche i piccoli produttori, quando abbiano capacità artistica, vengono ad essere premiati.

PRESIDENTE. Prego la Commissione di dichiarare il suo avviso al riguardo.

VERNOCCHI, Relatore. La Commissione non lo accetta.

PRESIDENTE. E il Governo?

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Anche il Governo è contrario.

PRESIDENTE. Passiamo allora alla votazione dell’emendamento Nobile.

CIANCA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIANCA. Io proposi una prima volta la sospensiva per ragioni che illustrai all’Assemblea; ora, quello che è avvenuto oggi in quest’Aula mi ha più che mai convinto che tali ragioni erano giuste e fondate.

PRESIDENTE. Onorevole Cianca, stia alla dichiarazione di voto.

CIANCA. Onorevole Presidente, voglia ascoltarmi e si convincerà che la mia motivazione è assolutamente pertinente.

Qui si è parlato di urti di interessi da parte della Commissione; si è parlato, da parte del Governo, di interessi inconfessabili.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. No, io non ho detto questo.

CIANCA. Lo ha detto. Ora, di fronte a questa atmosfera che è stata creata, che l’onorevole Cappa ha ritenuto artificiosa, ma che indubbiamente esiste, alla mia coscienza di persona estranea agli interessi che si è dichiarato essere in gioco si impone la necessità di interrogare l’organo parlamentare che abbiamo costituito a difesa dei nostri diritti e della nostra responsabilità: la Commissione di finanza. In difetto di ogni parere da parte della Commissione competente, io dichiaro di trovarmi in coscienza nell’impossibilità di votare e pertanto mi astengo.

GIANNINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Noi dichiariamo di votare a favore dell’emendamento presentato dall’onorevole Nobile. Qualora non fosse approvato, manteniamo il nostro.

LUCIFERO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Dichiaro che mi associo pienamente alle dichiarazioni e alla conclusione dell’onorevole Cianca e pertanto mi astengo.

GRONCHI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Dichiaro di associarmi alle dichiarazioni fatte dagli onorevoli Lucifero e Cianca.

CEVOLOTTO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Mi associo anch’io.

BENNANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BENNANI. Mi associo anch’io.

FILIPPINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FILIPPINI. Dichiaro di astenermi.

SILES. Chiedo di parlare per. dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SILES. Mi associo anch’io alle dichiarazioni dell’onorevole Cianca e degli altri colleghi.

DI GLORIA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI GLORIA. Mi associo anch’io.

CIFALDI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIFALDI. Dichiarò di astenermi.

RUGGIERO CARLO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUGGIERO CARLO. Dichiaro di astenermi.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento dell’onorevole Nobile che tende a elevare dal 6 al 10 per cento il contributo di cui al secondo comma dell’articolo 4.

(Dopo prova e controprova, non è approvato).

Passiamo all’emendamento dell’onorevole Giannini, il quale ha proposto che la quota sia elevata dal 6 all’8 per cento.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Desidero dare ragione, brevemente, dell’emendamento. Questo premio non va ai grandi industriali, ai succhioni, ai polipi che stanno attaccati alle tasche dello Stato. È questa la ragione per cui da parte dei comunisti è partita la proposta maggiore, a cui ci siamo associati. Questo premia principalmente il produttore isolato, perché il grande produttore, dati i suoi mezzi, dati i suoi capitali, è sempre in grado di fare il film migliore. Quindi, con questo premio si intende incoraggiare il produttore isolato, la cooperativa, coloro che possono – associandosi – procedere alla produzione di film. Niente altro che questo.

PRESIDENTE. Chiedo il parere della Commissione.

VERNOCCHI, Relatore. Sono contrario perché su questo particolare la Commissione paritetica e poi la Commissione interpartiti si sono notevolmente soffermate ed hanno giudicato equo il 6 per cento. Non c’è, quindi, ragione di aumentare né di diminuire. È bene mantenere il testo della legge.

PRESIDENTE. Chiedo il parere del Governo.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Governo è contrario.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento Giannini tendente a portare dal 6 all’8 per cento il premio di cui al secondo comma dell’articolo 4.

(Non è approvato).

Passiamo all’emendamento dell’onorevole Persico con il quale si propone di ridurre dal 6 al 4 per cento il premio di cui al secondo comma dell’articolo 4. Qual è il parere del Relatore?

VERNOCCHI, Relatore. Sono contrario.

PRESIDENTE. Ed il Governo?

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Governo è contrario.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento Persico.

(Non è approvato).

Pongo ai voti il secondo comma del testo dell’articolo 4 di cui do ancora lettura:

«Una ulteriore quota del 6 per cento dell’introito suddetto e per lo stesso periodo di tempo verrà assegnata a titolo di premio ai film che ne siano riconosciuti meritevoli per il loro valore culturale ed artistico dal comitato tecnico di cui al successivo articolo 13».

(È approvato).

L’onorevole Bertone ha proposto un emendamento consistente nell’introdurre come terzo comma di questo articolo il terzo comma dell’articolo 6 del decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1945, n. 678. Tale comma aggiuntivo sarebbe formulato (con una modificazione di cifra per ragioni di coordinamento) così:

«Le quote previste dai commi precedenti sono ridotte alla metà se il film nazionale venga proiettato nello stesso spettacolo insieme ad altro film di lunghezza superiore ai 2000 metri; sono ridotte del 40 per cento se venga proiettato con l’aggiunta di un avanspettacolo teatrale».

L’onorevole Bertone ha facoltà di svolgere l’emendamento.

BERTONE. Se il film nazionale viene proiettato solo, è giusto e logico che incassi quel 10 per cento di premio che gli è stato concesso; ma se il film viene proiettato con altri film o con degli avanspettacoli, è evidente che l’introito lordo sì riferisce non soltanto al film proiettato, ma a quello che con il film viene congiunto è perciò bisogna fare una distinzione fra il caso in cui il film viene proiettato solo e il caso in cui viene proiettato con altri film o altre produzioni. Ora questa distinzione esisteva nel decreto legislativo del 5 ottobre 1945, n. 678, sul quale, a mio giudizio, si è passato con soverchia disinvoltura perché conteneva disposizioni delle quali alcune indubbiamente migliori di quelle che abbiamo discusso e votate. Ora in questo decreto legislativo del 5 ottobre 1945 vi è questa disposizione: «Le quote previste dai commi precedenti (che sono eguali a quelle che oggi abbiamo votato) sono ridotte alla metà se il film nazionale venga proiettato nello stesso spettacolo insieme ad altro film di lunghezza superiore ai 1800 metri (sono stati portati a duemila); sono ridotte del 40 per cento se venga proiettato con l’aggiunta di un avanspettacolo teatrale». Mi pare logico che questa disposizione sia introdotta anche in questa legge, perché non è giusto che la quota che viene prelevata sull’introito lordo dello spettacolo venga attribuita interamente al film che ha costituito soltanto un terzo od una metà dello spettacolo. Anche desidererei che fosse un po’ meglio chiarita dalla Commissione e dal Governo una questione: chi è che paga e come vanno pagati questi contributi. Perché in questa legge è stata variata un po’ la forma del contributo ed il modo con cui viene pagato e da chi viene pagato. Nel decreto del 1945 era scritto testualmente: «è concessa a favore del produttore, in via eccezionale, una quota del 10 per cento dell’introito lordo degli spettacoli». Quindi se le parole hanno un valore chi pagava questa quota del 10 per cento era la sala cinematografica: era il prodotto lordo della serata. Viceversa, nel progetto attuale, la formula: «una quota del 10 per cento dell’introito lordo degli spettacoli», è stata variata in questo modo: «un contributo pari al 12 per cento dell’introito lordo degli spettacoli». Quindi vi è qualcuno che paga una quota pari a questo 12 per cento. Ora sappiamo che questa quota la deve pagare lo Stato. Non è uno sgravio fiscale; è un vero contributo che lo Stato pagherà con la propria borsa e col proprio denaro. Io avrei desiderato, in proposito, qualche chiarimento della Commissione e del Governo specialmente sulla portata finanziaria di questo onere.

Si è accennato prima a 200 milioni e poi a 400-500. La verità è che nessun dato preciso ci è stato fornito. Insisto intanto che sia approvato dall’Assemblea l’emendamento aggiuntivo – chiamiamolo così – che ho proposto, per cui quando il film nazionale viene proiettato solo, la quota sia proporzionata in quella misura che era già stata prevista dal decreto 5 ottobre 1945.

PREZIOSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PREZIOSI. L’emendamento dell’onorevole Bertone potrebbe avere una sua importanza e potrebbe essere accolto dall’Assemblea solo qualora si parlasse di film italiano proiettato insieme con un film straniero, perché allora il proprietario del cinematografo potrebbe fare una speculazione nel senso che sarebbe il film straniero un po’ la parte centrale dello spettacolo e attraverso questo escamotage potrebbe impadronirsi di quel tale contributo dello Stato. Ma non sono d’accordo con l’onorevole Bertone, quando dice che bisogna ridurre il contributo dello Stato, nel caso che ci sia un avanspettacolo. Così l’onorevole Bertone mette una specie di ostacolo alla possibilità, già così tristemente ridotta, di dar lavoro all’enorme categoria di artisti dell’avanspettacolo. (Interruzioni – Commenti).

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Noi aderiamo all’emendamento Bertone per facilità e comodità di discussione, per quanto esso possa portare a delle sorprese, che mi lasciano perplesso, come persona, per quello che potrà avvenire per l’industria dell’avanspettacolo, la quale è un’industria molto fiorente, che impiega una grandissima quantità di artisti, non precisamente di primissimo ordine, ma che hanno diritto a vivere anche loro. È probabile che questo emendamento porti quindi a delle ripercussioni nell’industria dell’avanspettacolo. Comunque, nella perplessità nella quale ci troviamo, nell’impossibilità di potere esaminare a fondo l’emendamento, noi lo accettiamo senz’altro, perché pensiamo che proposto dall’onorevole Bertone non può essere stato elaborato con leggerezza, e, tutto sommato, non danneggia poi l’industria del film, in quanto, corretto l’unico errore che vi era, quello dei 1800 metri, bisognerebbe supporre che degli industriali cinematografici, degli esercenti di sale, vogliano andare a procurarsi appositamente un film straniero, a scapito di un film italiano, al solo scopo odioso di contrastare il film italiano senza un beneficio personale. Questo mi sembra assurdo; quindi aderisco all’emendamento Bertone.

PRESIDENTE. Qual è il pensiero della Commissione?

VERNOCCHI, Relatore. Accetto l’emendamento dell’onorevole Bertone, perché appunto non credo che vi possa essere un danno per l’avanspettacolo, in quanto vi sono determinati locali dove è già stabilito l’avanspettacolo come norma costante.

PRESIDENTE. Quale è il parere del Governo?

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Accetto.

PRESIDENTE. Pongo ai voti il comma aggiuntivo – eventualmente terzo nel testo definitivo – proposto dall’onorevole Bertone ed accettato dalla Commissione e dal Governo:

«Le quote previste dai commi precedenti sono ridotte alla metà se il film nazionale venga proiettato nello stesso spettacolo insieme ad altro film di lunghezza superiore ai 2000 metri; sono ridotte del 40 per cento se venga proiettato con l’aggiunta di un avanspettacolo teatrale».

(È approvato).

Pongo in votazione il terzo comma del progetto – quarto nel testo definitivo – per il quale non è stato proposto nessun emendamento:

«L’introito sul quale vengono liquidati i contributi di cui al presente articolo è determinato dalla Società italiana autori ed editori sulla base degli incassi accertati per il pagamento dei diritti erariali».

(È approvato).

Pongo in votazione l’ultimo comma:

«Per le modalità di pagamento dei contributi suddetti valgono le norme stabilite dal regio decreto 20 ottobre 1939, n. 2237».

(È approvato).

L’articolo 4, nel suo complesso, resta, pertanto, così approvato:

«Per ogni film nazionale di lunghezza superiore ai 2000 metri presentato all’Ufficio centrale per la cinematografia per il nulla osta di proiezione in pubblico, dopo l’entrata in vigore della presente legge, e la cui prima proiezione nelle sale cinematografiche italiane si effettui prima del 31 dicembre 1949, è concesso al produttore un contributo pari al 10 per cento dell’introito lordo degli spettacoli nei quali il film nazionale sia stato proiettato per un periodo di quattro anni dalla data della prima proiezione in pubblico.

«Una ulteriore quota del 6 per cento dell’introito suddetto e per lo stesso periodo di tempo verrà assegnata a titolo di premio ai film che ne siano riconosciuti meritevoli per il loro valore culturale ed artistico dal comitato tecnico di cui al successivo articolo 13.

«Le quote previste dai commi precedenti sono ridotte alla metà se il film nazionale venga proiettato nello stesso spettacolo insieme ad altro film di lunghezza superiore ai 2000 metri; sono ridotte del 40 per cento se venga proiettato con l’aggiunta di un avanspettacolo teatrale.

«L’introito sul quale vengono liquidati i contributi di cui al presente articolo è determinato dalla Società italiana autori ed editori sulla base degli incassi accertati per il pagamento dei diritti erariali.

«Per le modalità di pagamento dei contributi suddetti valgono le norme stabilite dal regio decreto 20 ottobre 1939, n. 2237».

Passiamo all’articolo 5:

«È concesso a favore dei film nazionali a carattere documentario di lunghezza superiore ai 250 metri ed inferiore ai 2000 metri presentati all’Ufficio centrale per la cinematografia per il nulla osta di proiezione in pubblico entro i limiti di tempo previsti dal precedente articolo 4 un contributo pari al 3 per cento dell’introito lordo degli spettacoli nei quali i film suddetti sono stati proiettati, per un periodo di anni quattro dalla prima proiezione in pubblico.

«Il contributo suddetto è concesso alle imprese produttrici soltanto per i film documentari, regolarmente iscritti nel registro cinematografico, che ne siano riconosciuti meritevoli dal Comitato tecnico di cui al successivo articolo 13.

«È concesso, altresì, a favore dei produttori di film nazionali di attualità di lunghezza superiore ai 150 metri un contributo pari al 4 per cento dell’introito lordo degli spettacoli nei quali i film stessi sono stati proiettati, per un periodo di sei mesi dalla prima proiezione in pubblico.

«Per l’accertamento della nazionalità dei film di attualità valgono le norme di cui al precedente articolo 3. Non potrà tuttavia essere considerata nazionale l’edizione italiana di giornali di attualità prodotti all’estero da case cinematografiche estere, anche se contengono avvenimenti girati in Italia nella lunghezza prevista per i film di attualità nazionale. In nessun caso potranno essere considerati nazionali i film di attualità che portano la stessa marca di produzione di case cinematografiche estere».

Avverto che l’onorevole Fogagnolo ha proposto la soppressione di questo articolo. Chiedo al proponente se vi insiste.

FOGAGNOLO. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Pongo pertanto in votazione il primo comma:

«È concesso a favore dei film nazionali a carattere documentario di lunghezza superiore ai 250 metri ed inferiore ai 2000 metri presentati all’Ufficio centrale per la cinematografia per il nulla osta di proiezione in pubblico entro i limiti di tempo previsti dal precedente articolo 4 un contributo pari al 3 per cento dell’introito lordo degli spettacoli nei quali i film suddetti sono stati proiettati, per un periodo di anni quattro dalla prima proiezione in pubblico».

(È approvato).

Passiamo al secondo comma:

«Il contributo suddetto è concesso alle imprese produttrici soltanto per i film documentari, regolarmente iscritti nel registro cinematografico, che ne siano riconosciuti meritevoli dal Comitato tecnico di cui al successivo articolo 13».

Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Passiamo al terzo comma:

«È concesso, altresì, a favore dei produttori di film nazionali di attualità di lunghezza superiore ai 150 metri un contributo pari al 4 per cento dell’introito lordo degli spettacoli nei quali i film stessi sono stati proiettati, per un periodo di sei mesi dalla prima proiezione in pubblico».

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Dare un contributo del 4 per cento sugli incassi lordi per un filmetto di 150 metri, quando abbiamo tanto discusso se dare o non dare il 10 per cento alle pellicole superiori ai duemila metri, che comportano una spesa di diecine e diecine di milioni, mi pare veramente una cosa esagerata: infatti il 4 per cento per un film di 150 metri corrisponderebbe al 30 per cento sugli incassi per i film di duemila metri. Ridurrei pertanto il contributo al 2 per cento.

TONELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Io lascerei il contributo invariato nella misura del 4 per cento.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Effettivamente il minimo di lunghezza di 150 metri mi sembra troppo basso e lo porterei a 250 metri.

PRESIDENTE. Allora è d’accordo con l’onorevole Fogagnolo?

GIANNINI. Questa volta, sì.

PRESIDENTE. Il parere della Commissione?

VERNOCCHI, Relatore. Fo notare all’onorevole Giannini che i film di attualità, i cosiddetti «giornali», non sono mai superiori ai 150-200 metri. Praticamente, se fosse approvato il suo emendamento, tutti i film di attualità sarebbero esclusi, e rientrerebbero nei «documentari» del comma primo.

GIANNINI. Allora sarei d’accordo di ridurre il contributo al 2 per cento.

PRESIDENTE. Onorevole Vernocchi, ha inteso la seconda proposta? È d’accordo anche lei di ridurre il contributo al 2 per cento, lasciando il metraggio invariato?

VERNOCCHI, Relatore. Sono d’accordo.

PRESIDENTE. Qual è il parere del Governo?

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Previdenza del Consiglia dei Ministri. Accetto l’emendamento.

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Mi pare enorme concedere un contributo, anche se del 2 per cento, sull’introito lordo della serata ad un film di 150 metri, la cui proiezione durerà due o tre minuti al massimo. Per queste ragioni voterò contro.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento, accettato dalla Commissione e dal Governo, di ridurre dal 4 al 2 per cento il contributo sull’incasso lordo a favore dei produttori di film nazionali di attualità.

(È approvato).

Pongo in votazione il terzo comma con l’emendamento testé approvato.

(È approvato).

Passiamo all’ultimo comma:

«Per l’accertamento della nazionalità dei film di attualità valgono le norme di cui al precedente articolo 3. Non potrà tuttavia essere considerata nazionale l’edizione italiana di giornali di attualità prodotti all’estero da case cinematografiche estere, anche se contengono avvenimenti girati in Italia nella lunghezza prevista per i film di attualità nazionale. In nessun caso potranno essere considerati nazionali i film di attualità che portano la stessa marca di produzione di case cinematografiche estere».

Lo pongo ai voti:

(È approvato).

L’articolo 5 risulta pertanto, nel suo complesso, così approvato:

«È concesso a favore dei film nazionali a carattere documentario di lunghezza superiore ai 250 metri ed inferiore ai 2000 metri presentati all’Ufficio centrale per la cinematografia per il nulla osta di proiezione in pubblico entro i limiti di tempo previsti dal precedente articolo 4 un contributo pari al 3 per cento dell’introito lordo degli spettacoli nei quali i film suddetti sono stati proiettati, per un periodo di anni quattro dalla prima proiezione in pubblico.

«Il contributo suddetto è concesso alle imprese produttrici soltanto per i film documentari, regolarmente iscritti nel registro cinematografico, che ne siano riconosciuti meritevoli dal Comitato tecnico di cui al successivo articolo 13.

«È concesso, altresì, a favore dei produttori di film nazionali di attualità di lunghezza superiore ai 150 metri un contributo pari al 2 per cento dell’introito lordo degli spettacoli nei quali i film stessi sono stati proiettati, per un periodo di sei mesi dalla prima proiezione in pubblico.

«Per l’accertamento della nazionalità dei film di attualità valgono le norme di cui al precedente articolo 3. Non potrà tuttavia essere considerata nazionale l’edizione italiana di giornali di attualità prodotti all’estero da case cinematografiche estere, anche se contengono avvenimenti girati in Italia nella lunghezza prevista per i film di attualità nazionale. In nessun caso potranno essere considerati nazionali i film di attualità che portano la stessa marca di produzione di case cinematografiche estere».

Passiamo all’articolo 6:

«Un fondo pari all’1 per cento dell’introito lordo degli spettacoli nei quali siano stati proiettati film nazionali, è devoluto annualmente per la concessione di sovvenzioni a favore di manifestazioni o iniziative inerenti allo sviluppo artistico e culturale del cinema, nonché alle relazioni per l’incremento degli scambi cinematografici con l’estero».

«Le sovvenzioni suddette potranno essere concesse, sentito il parere della Commissione consultiva di cui all’articolo 12, soltanto a favore delle manifestazioni cinematografiche debitamente autorizzate dall’Ufficio centrale per la cinematografia ed organizzate da enti pubblici, comitati ed associazioni di categoria, o culturali, allo scopo di documentare i progressi tecnici ed artistici dell’attività cinematografica e di promuoverne lo sviluppo.

«Sul fondo suddetto potranno essere concesse, inoltre, sovvenzioni a favore di enti pubblici aventi per scopo la diffusione e il perfezionamento tecnico ed artistico della cinematografia mediante ricerche, studi, esperimenti, la formazione di nuovi quadri tecnici ed artistici, nonché la previdenza ed assistenza ai lavoratori del cinema».

Avverto che l’onorevole Fogagnolo ha proposto la soppressione di questo articolo.

Chiedo al proponente se vi insiste.

FOGAGNOLO. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo 6 testé letto.

(È approvato).

Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta antimeridiana.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate alcune interrogazioni con richiesta d’urgenza. La prima è degli onorevoli Di Gloria, Cairo, Persico e Zanardi:

«Al Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per sapere se non ritenga doveroso aiutare con provvidenze precise e definitive la categoria dei ciechi civili, a favore dei quali dovrebbe essere concessa una congrua pensione o per lo meno dovrebbe essere assicurata una più vasta opera di assistenza sociale attraverso la costruzione di case di riposo e l’estensione della legge sul collocamento obbligatorio in posti idonei presso le varie amministrazioni».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il problema che ha originato questa interrogazione è stato recentemente esaminato da un’apposita Commissione. Il Governo sarà quindi in grado di rispondere quanto prima.

PRESIDENTE. Altra interrogazione è stata presentata dagli onorevoli Mariani Francesco, Lombardi Carlo e Leone Francesco:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Ministro del lavoro e previdenza sociale, per conoscere le ragioni per le quali non è stato ancora emesso il decreto che stabilisce gli assegni familiari per l’agricoltura. La mancanza di questo provvedimento ha prodotto una grave agitazione tra i contadini in alcune parti d’Italia. È noto che gli assegni familiari oggi corrisposti a questi lavoratori (lire 1,20 per la moglie; lire 1 per ogni figlio a carico e lire 0,80 per i genitori a carico) sono così irrisori, per cui l’emanazione del provvedimento riveste carattere di estrema urgenza».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il provvedimento invocato dagli onorevoli interroganti è all’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri, che lo esaminerà in una prossima seduta. Il Governo sarà, quindi, presto in grado di rispondere esaurientemente all’interrogazione.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione presentata dall’onorevole Rodinò Mario:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti sono stati presi contro i responsabili della devastazione e del saccheggio della sede del Fronte liberale democratico dell’Uomo qualunque di Civita Castellana».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Governo si riserva di precisare la data.

MEDA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MEDA. Con altri colleghi presentai circa venti giorni fa al Ministero del tesoro un’interrogazione per sapere che intendesse fare il Governo per disciplinare le borse valori. Chiesi per tale interrogazione il carattere d’urgenza.

Non posso pensare che il Governo non attribuisca carattere di urgenza a tale problema. Preferisco ritenere che la mancata risposta dipenda da una involontaria dimenticanza. Mi permetto pertanto richiedere nuovamente gli attesi chiarimenti.

PRESIDENTE. Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiederò al Ministro competente più precise notizie, comunicandogli il desiderio dell’onorevole interrogante.

La seduta termina alle 12.50.

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 6 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 6 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

 

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Cassiani                                                                                                            

Cairo                                                                                                                

Belotti                                                                                                             

Montagnana Mario                                                                                        

Medi                                                                                                                  

Terranova                                                                                                       

Bosi                                                                                                                   

Bruni                                                                                                                

Villani                                                                                                             

Murgia                                                                                                             

Presentazione di un disegno di legge:

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste                                                     

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo l’onorevole Lussu.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale del Titolo terzo.

È iscritto a parlare l’onorevole Cassiani. Ne ha facoltà.

CASSIANI. Onorevoli colleghi, su questa parte del progetto di Costituzione, che a me appare come la più significativa e la più aderente alla realtà dell’ora, io intendo, a titolo personale, fare qualche osservazione che non ripeta gli argomenti già detti da altri colleghi dell’Assemblea e che rifletta alcune esigenze nel campo sociale del progresso e in quello scottante della produzione, attraverso le nude formule della Carta Costituzionale.

L’articolo 41 regola i rapporti e i vincoli da imporre alla proprietà terriera privata. Sono forse questi i principî più significativi fra quanti ne contiene il Titolo III. Si profilano nell’articolo 41 gli elementi di quella riforma agraria che dovrà realizzarsi in un domani – che noi ci auguriamo sia prossimo – attraverso istituti di diritto pubblico. L’articolo 41 ha un significato non dubbio, onorevoli colleghi: esso dice che lo Stato, nel momento in cui sorge, tende l’orecchio alle istanze delle classi meno abbienti, dal cui confuso tumulto partono voci che indicano problemi sociali da affrontare e da risolvere.

Quando l’Italia avrà varato la sua riforma agraria, io penso che avrà fatto sempre meno di quel che hanno fatto i Paesi più progrediti di Europa. In Italia si sono sempre colpite la piccola e la media proprietà terriera e si è lasciata insoluta, attraverso una forma strana di tenacia abulica, il problema della grande proprietà terriera. Fuori di questa Aula, contro le norme delle quali ci occupiamo, si sono avanzate critiche aspre, qualche volta dettate dal timore del peggio, tal altra da uno stato che dirò di paura opaca, tal altra ancora da preoccupazioni legittime in rapporto a quello che può essere il processo produttivo. Preoccupazioni, queste ultime, che lo smembramento delle grandi fortune sia causa di rallentamento e di disgregazione del processo produttivo.

Evidentemente nella visione panoramica del problema, che è così vasto e ha radici così profonde, io penso che qualche volta si confonde l’aspetto giuridico con l’aspetto economico del problema, si confonde la proprietà dei beni con la gestione di essi, e, d’altro canto, si dimentica che non c’è un tipo di azienda preferibile in senso assoluto, in rapporto all’estensione ed all’organizzazione, sotto l’aspetto sociale ed economico. Certo è che lo sviluppo dell’attività trasformatrice dei prodotti agricoli non è riservato alle grandi aziende, pur essendo ad esse legato in parte il processo produttivo. Ma, dicevo, nell’esame panoramico del problema mi pare si confonda assai spesso l’aspetto giuridico con quello economico. Qui, infatti, non si tratta di tagliuzzare ciecamente la terra e distribuirla a pezzi: qui si tratta di stabilire una serie di rapporti nuovi che vadano dalla proprietà alla gestione fino alle forme più avanzate della compartecipazione. In questo è la complessità del problema ed è questa la difficoltà della soluzione.

Aggiungo che c’è un problema sussidiario che diventa, per così dire, primario, nella materia dell’articolo 41. Perché il latifondo si abolisca, perché la proprietà terriera subisca una modifica, che cosa è necessario? È necessaria un’opera di trasformazione fondiaria, una legislazione che riconosca e renda possibile, direi fisicamente possibile, la vita associata del lavoro e del capitale, tutte le volte che questo sia utile al processo produttivo e quindi all’economia nazionale. Questi due concetti potranno essere enunciati, con la collaborazione dell’Assemblea, attraverso gli articoli 41 e 42 del progetto, dicendo all’articolo 41 che «il latifondo, comunque condotto e coltivato è suscettibile di utili trasformazioni fondiarie e di appoderamento e che la trasformazione e l’appoderamento sono obbligatori»; e dicendo all’articolo 42 che «lo Stato riconosce la libera vita associata del lavoro».

Per quanto riguarda l’articolo 41, all’osservatore, anche il più disattento, si presentano domande che reclamano una risposta e dubbi che attendono di essere placati. Che cosa vuol dire abolizione del latifondo? E ancora: si avanzano dubbi sul significato della parola. Non è chi non sappia che nel linguaggio tecnico ed economico la parola latifondo non vuol dire una qualunque estensione di terra, ma vuol dire invece un’estensione di terra che sia in istato di arretratezza dal punto di vista della coltura e in rapporto alla possibilità di trasformazione fondiaria di essa, tanto che si arriva a questa conclusione: che può essere latifondo la media estensione di terra e può non esserlo la vasta estensione di terra.

L’interrogativo potrà avere una certa risposta e il dubbio potrà essere placato soltanto a patto di una specificazione dell’articolo 41 e anche, a mio parere, di un ampio respiro, dirò così, di interpretazione dell’articolo 42, il quale contiene principî che concorrono a rendere efficienti i principî dell’articolo 41 il significato – cioè – di una cooperazione che nasca e si sviluppi liberamente, come ha detto l’altro ieri in quest’Aula il collega Dominedò: liberamente, ma su alcune premesse di vita, che io chiamerò fisica, premesse di vita che lo Stato deve costituire. Perché non bisogna dimenticare, onorevoli colleghi, che la cooperazione non è certo la forma dei popoli più poveri e meno progrediti: è, al contrario, la cooperazione, espressione, naturale, direi quasi istintiva, dei popoli che non sono poveri e che sono anche istruiti.

Ebbene, in Italia c’è un esempio che è sotto gli occhi di tutti: la differenza enorme tra la cooperazione nell’Italia Settentrionale e nell’Italia Meridionale. Dimentichiamo per un momento, onorevoli colleghi, gli sforzi dei nostri partiti: quella è un’altra cosa; ma la cooperazione, nei tempi che potremmo chiamare prefascisti, nell’Italia Settentrionale era sviluppatissima, mentre nell’Italia Meridionale languiva anche nelle sue forme più semplici, più elementari, anche nei casi di cooperative di consumo o di cooperative costituite perché i contadini avessero potuto vendere i prodotti della propria terra.

Non si può pensare seriamente, onorevoli colleghi, che con le leggi con cui si enuncia il principio – non certamente nuovo – della quotizzazione del latifondo, si possono creare meccanicamente, dirò così, coltivatori diretti o liberi cooperatori. È forse opera troppo lenta attendere la redenzione agraria di un Paese come l’Italia dall’associazione di capitali, che tante volte non ci sono, di coscienze offuscate dalla povertà o dall’ignoranza, se lo Stato, senza iugulare – beninteso – in qualunque modo la libertà della cooperazione, non si rendesse vigile promotore nella Costituzione di quelle che io pocanzi ho chiamato le premesse di vita fisica, perché la cooperazione nasca e si sviluppi.

Solo una grande riforma economica può preservare l’Italia sociale e l’Italia politica.

Chi sa che non si possa riprendere, in omaggio all’articolo 41 e in omaggio all’articolo 42, con le opportune modifiche, quel vecchio progetto che l’onorevole Maggiorino Ferraris sostenne fin dal 1900, con altezza di pensiero e magistero di parola, secondo il quale sarebbero costituite le unioni agrarie mandamentali collegate in unioni regionali e queste in una unione nazionale, con vita autonoma, sorretta dalle eccedenze delle casse postali, avente la funzione del credito in natura ai piccoli e medi agricoltori, che potrebbero, perciò, riunirsi in cooperative di produzione avendo la sicurezza della base sulla quale muoversi.

Chi sa che non sia il caso di imitare, più semplicemente, quelle casse regionali di credito agrario mutuo che nella Repubblica francese operarono tanto bene a vantaggio della piccola e della media proprietà terriera: anche la istituzione di quelle casse potrebbe essere collegata allo sviluppo di una rete di cooperative di produzione e contribuire, perciò, a rendere efficiente e non soltanto teorico il contenuto degli articoli 41 e 42 del progetto di Costituzione.

Potrebbero contribuire questi o altri mezzi, questi o altri accorgimenti, a non rendere teorico il contenuto degli articoli 41 e 42.

Chi sa che non sia giunto il momento di affrontare con serietà – attraverso l’idea lanciata da Maggiorino Ferraris o attraverso il modello francese o attraverso, come dicevo, quelle altre vie che il legislatore di domani potrà indicare – il problema della terra nell’Italia Meridionale, che in tanto può essere risolto in quanto si affronti il problema della vita collettiva del lavoro.

Suggerendo le modifiche all’articolo 41, io non posso non pensare, onorevoli colleghi, al mio Mezzogiorno – né con ciò io evado, onorevole Presidente, dal chiuso ambito del tema che mi sono imposto. Non evado: il latifondo è una piaga dell’Italia Meridionale e, più precisamente, del centro-meridione. È quindi l’esperienza di vita del Mezzogiorno che mi suggerisce i provvedimenti che ho proposto.

Suggerendo quelle modifiche, io debbo dire che, quando si parla del latifondo dell’Italia Meridionale, si suole pensare a terre che diventeranno opime nel momento stesso della quotizzazione. Ebbene: non c’è niente di più inesatto, non c’è niente di più lontano dalla realtà obiettiva. Si tratta spesso di rocce, qualche volta di sabbia, tal altra di acquitrini.

Per rendere possibile la bonifica agraria, premessa indispensabile allo spezzettamento e all’appoderamento del latifondo, occorre modificare la natura stessa del terreno, ricorrendo ad opere costose è complesse, nelle quali lo Stato potrà concorrere solo a patto che venga sorretto da speciali cooperative di produzione. Opinioni erronee sono quelle di coloro i quali persistono a credere i lavoratori del Mezzogiorno, agricoltori e braccianti, tutti neghittosi, tutti incapaci di trarre dalla loro terra – che sarebbe, secondo questi osservatori superficiali, un vero eden – quei copiosi frutti che il sole del Mezzogiorno dovrebbe consentire (anche quando non piove per dieci mesi e il periodo della vegetazione diventa più breve in Basilicata e in Calabria che non nella nordica Scandinavia). Si presenta quindi, evidentemente, un problema complesso di trasformazione fondiaria, per la quale io propongo che lo Stato si impegni nella Costituzione, ma propongo altresì che si impegnino i privati, mettendoli dinanzi allo spettro dell’espropriazione.

L’impegno da parte dei privati proprietari dei latifondi a me pare indispensabile non solo per un’evidente ragione di principio, che non è il caso di illustrare ad un’Assemblea come questa, ma anche perché mai come oggi le condizioni dello Stato italiano si sono trovate ad essere così poco idonee all’estensione e all’accrescimento della produzione delle desolate plaghe del Mezzogiorno, di quelle plaghe, cioè, per cui dovrebbe in definitiva trovare applicazione il principio sancito nell’articolo 42.

L’Italia soffre, sì, del travaglio di una crisi che forse è priva di precedenti storici, ma soffre anche a cagione della crescente, naturale pressione di una grandissima minoranza di cittadini, i cui interessi non dico che siano in contrasto, ma sono certo diversi e lontani dagli interessi dall’enorme maggioranza dei cittadini, che è costituita dai lavoratori della terra (Applausi).

Per questo io penso una cosa amara, onorevoli colleghi, amarissima per me che sono meridionale e meridionalista convinto: penso che i problemi del Mezzogiorno non siano mai stati tanto lontani dalla soluzione come oggi. Io vorrei interrogare ad uno ad uno i colleghi di ogni parte della Camera: una volta tanto, al di sopra dei partiti, io penso che ci troveremmo tutti d’accordo.

Per questo io credo all’urgenza e alla inevitabilità di una riforma come quella alla quale ho accennato, sia pure nella maniera vaga che mi è consentita dal fatto che parlo in sede di discussione di un progetto di Costituzione e non di un progetto di legge. Certo è che una Costituzione, onorevoli colleghi – altri di me più autorevoli in quest’Aula l’hanno detto – non può prescindere dalla realtà.

Non si dimentichi, a tale riguardo, che in Italia soltanto 16 milioni di ettari, su 28 di superficie agraria e forestale, sono allo stato coltivati, cioè meritevoli di essere coltivati dallo Stato. È evidente che non si può varare una Costituzione dove è scritto, noi diciamo semplicemente (altri dicono invece semplicisticamente), che la legge abolisce il latifondo. Non dimentichiamo, onorevoli colleghi, che accanto al pericolo grave di ingannare la massa enorme dei braccianti agricoli italiani, si profila un pericolo altrettanto grave per il caso che una salda organizzazione economica ed agraria non dovesse in un domani imminente sorreggere e rendere effettivo il principio che si enuncia nell’articolo 41: il pericolo cioè che nel nostro Paese si costituisca una miserevole economia di stato lontana dal grande gioco internazionale, lontana dalle grandi vie che sono percorse dai Paesi che innegabilmente rappresentano una buona parte del mondo.

È evidente che se i prodotti della nostra agricoltura vorranno sostenere la concorrenza straniera, sul piano dell’importazione e su quello dell’esportazione, in Italia bisogna pure avere aziende agricole rette e regolate dalle più moderne leggi economiche. Non c’è dubbio, onorevoli colleghi, sulla necessità di una riforma agraria che sia anzitutto una riforma costituzionale. Dico riforma agraria costituzionale, perché soltanto attraverso il perfezionamento del processo produttivo e la conseguente riduzione dei costi, noi arriveremo a toccare il bersaglio, arriveremo cioè alla conclusione di poter veramente immettere la massa lavoratrice italiana nel processo di produzione.

Una cosa è certa, se vogliamo che l’Assemblea con tranquillità approvi le modifiche che a me pare il caso reclami l’articolo 41 nel suo spirito profondamente innovatore di tutto un sistema: la necessità, cioè, di assicurare l’efficienza tecnica di coloro i quali dovranno essere domani i proprietari o i gestori – la necessità, comunque, di non incidere sul processo produttivo attraverso la vaghezza di formule che mal si comprendono in una Carta costituzionale, e che evidentemente domani non potrebbero essere consentite nella parola della legge.

Complessità di problemi, dunque, e difficoltà di rimedi, sulle quali, mi permetto di richiamare tutta quanta la vigile attenzione dell’Assemblea, perché non è chi non veda come il facile principio della quotizzazione al quale si informarono tutte le leggi agrarie, dai Gracchi in poi, continuerà ad apparire come una pagina, e non certo la più originale, del libro dei sogni, fino a quando non si arriverà a creare la struttura di una vera organizzazione economica che sia il i substrato, la spina dorsale di una concreta riforma agraria.

E io concludo: concludo semplicemente dicendo, onorevoli colleghi, che se la Carta Costituzionale deve contenere affermazioni di principio nell’agitato campo della funzione sociale della proprietà, è necessario, è indispensabile che in essa siano contenute le premesse di quella riforma che dovrà esser fatta con alto intendimento perché risponda al comando collettivo della coscienza pubblica, perché non crei delusioni e, con le delusioni, non mortifichi il credito popolare verso la democrazia e verso le istituzioni che la realizzano. (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nobili Tito Oro. Poiché non è presente, decade dall’iscrizione.

È iscritto a parlare l’onorevole Cairo. Ne ha facoltà.

CAIRO. Onorevoli colleghi, il Titolo del progetto sottoposto al nostro esame meriterebbe un ampio svolgimento, un discorso che io non saprei fare e che non voglio fare anche per rendere omaggio a quella volontà di accelerare i nostri lavori che ha trovato consenzienti tutti, anche in questo settore, sia pure attraverso qualche dissenso di metodo e di forma.

Io parlerò brevemente, anche perché noi riteniamo che la materia di questi articoli sia materia di cui noi di questi banchi possiamo rivendicare la paternità storica come socialisti, perché comprende e compendia tutto il travaglio della nostra attività di pensiero e di azione.

Sarò anche schematico e semplice, perché io sento di dovere rendere omaggio così ai colleghi della Commissione che hanno elaborato questo complesso di articoli che è veramente armonico ed organico e che rappresenta, mi si consenta di dirlo, una rarità anche per il testo del nostro progetto. Questa lode io sento di dover dare con tutta sincerità ai Commissari, a questi nostri colleghi che hanno diligentemente redatto questo complesso armonico di articoli.

Tuttavia, nella necessità ed urgenza di far presto, l’Assemblea non dovrà dimenticare, e sono certo che non dimenticherà, che questo capitolo del nostro progetto costituzionale è, per così dire, la pietra angolare dell’erigendo edificio costituzionale, è la base fondamentale di tutta la Costituzione. Sarà quello che la caratterizza e la consolida, perché anche oggi noi ubbidiamo, trattando di questo Titolo, ad un’istanza, ad un’esigenza che abbiamo sentito subito alle soglie dei nostri lavori, quando nell’articolo primo abbiamo proclamato che la Repubblica italiana sarà, solamente se sarà fondata sul lavoro, se sarà una Repubblica di lavoratori. È per assolvere veramente e schiettamente a questa promessa, che noi abbiamo fatto a noi stessi, (come per celebrare la consacrazione di un alto principio generale) che noi dovremmo rendere questo principio generale sempre più attuabile, sempre più facile, dovremmo far sì che questa materia divenga una realtà viva e vivente.

Esiste in questa materia un pericolo, il pericolo di essere generici, vaghi, di essere troppo impegnativi; è una materia che seduce e noi dovremmo invece evitare di essere vaghi e generici, anche a costo di accontentarci solamente di affermare, con alcuni principî fondamentali la nostra volontà che effettivamente la Repubblica divenga Repubblica di lavoratori: volontà e principî che dovranno concorrere a costituire un complesso di istituzioni del nuovo diritto sociale ed economico italiano.

Ed entrerò subito nel vivo degli articoli che esaminerò in modo semplice e schematico.

L’articolo 30 – vado subito al capoverso – sancisce il principio della solidarietà internazionale del lavoro, principio che noi abbiamo sempre affermato ed oggi sentiamo di affermare con maggiore tenacia e con maggiore entusiasmo. Però, a questo principio, a mio modesto avviso, si dovrebbe dare più netto rilievo, più netto e più alto rilievo, perché questa solidarietà internazionale del lavoro è, com’è noto, una delle potenti leve della nostra civiltà moderna, starei per dire l’unica potente leva della civiltà moderna, è, per noi italiani in particolare e per il mondo intero la salvezza, la salvezza della pace.

Su altri banchi è stata fatta eco a quella dichiarazione di Filadelfia che, nel sedicesimo Congresso dell’organizzazione internazionale del lavoro, affermava i principî fondamentali di questa solidarietà dei lavoratori. Ebbene, è stato presentato un emendamento che io firmai, proposto dal collega Tremelloni, nel quale si chiede che, qui, all’articolo 30, si affermi che l’Italia aderisce alle dichiarazioni di Filadelfia del maggio-aprile 1944. Queste dichiarazioni sono in gran parte versate in questo nostro Titolo del progetto di Costituzione, ma non sarà vano riaffermare, con un gesto, questa nostra solidarietà internazionale del lavoro, perché io ritengo che dalla nostra Costituzione i richiami alla nostra posizione internazionale non siano vani; che non sia stata vana la coraggiosa affermazione che noi abbiamo fatto nel proemio, quando abbiamo stabilito che siamo pronti a sacrificare in parte la nostra stessa sovranità purché sorga finalmente una Confederazione di Stati europei o mondiali.

Ora io ritengo che questo sentimento di solidarietà internazionale debba vibrare nella nostra Costituzione ed essere espresso qui, in questo capoverso, capoverso dove si dice che la Repubblica promuove e favorisce gli accordi internazionali per affermare e regolare i diritti del lavoro. Aggiungerei, in conformità ad altro emendamento proposto, i diritti alla libera circolazione dei lavoratori (io direi: trasferimento dei lavoratori). E qui cadrebbe opportuno anche il richiamo di quell’articolo 10 riguardante le dichiarazioni, che nella seduta dell’11, se non erro, l’Assemblea ha voluto trasferire a questo Titolo. Ed io ripeto: in questo articolo dovrebbe essere compresa quella parte di articolo 10 che riguarda l’emigrazione, e completerei dicendo che «l’emigrazione è tutelata, è protetta dallo Stato». Noi italiani dobbiamo insistere su tale punto che è condizione della nostra stessa esistenza economica. Dell’articolo 31 non posso che osservare questo: è bene affermare il diritto ed il dovere del lavoro, questo duplice aspetto di un unico precetto etico e sociale. Solamente là dove si dice: «ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività od una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta», parrebbe a me (lo do come suggerimento alla Commissione) che fosse più utile usare la parola «attitudine» piuttosto che «possibilità»; poiché mentre in «possibilità» c’è qualche cosa di soggettivo e di potestativo – un giudizio che il cittadino dà delle proprie possibilità – «nelle attitudini» c’è qualcosa di obiettivo, di più efficace è di reale.

Nell’articolo 31 c’è un principio sul quale noi siamo perfettamente consenzienti. È un principio nuovo: quello che subordina l’esercizio dei diritti politici all’adempimento del dovere di lavorare. Nessuna riserva in linea generale ed astratta su questo principio da parte nostra, se non per quanto attiene all’articolo 45. È una questione di coordinamento. Voi sapete che l’articolo 45, nel trattare dei rapporti politici, dice: l’esercizio è dovere civile e morale e non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto. Se noi stabiliremo in questo capoverso qualche opportuna eccezione, sarà bene.

All’articolo 34 si stabilisce il diritto del lavoratore al mantenimento e all’assistenza sociale. Ora il diritto al mantenimento sembra a me che possa essere ritenuto troppo impegnativo da un lato e troppo restrittivo dall’altro. Meglio si sarebbe fatto usando la dizione: «diritto all’assistenza economica, e sociale»; e nel capoverso dove si parla di istituti e organi predisposti e integrati dallo Stato, invece, di mantenere un’espressione così generica, ritengo sarebbe meglio stabilire: «organi pubblici», in quanto solamente l’organo pubblico deve e può, con le dovute garanzie, amministrare l’assistenza e la previdenza.

E venendo all’articolo 37 mi pare si sia di fronte ad una di quelle tali definizioni giuridiche che sono sempre pericolose. Non dobbiamo cercare di creare imbarazzi all’organo futuro che dovrà legiferare. Quando ripetiamo una definizione come questa: «ogni attività economica, privata o pubblica, deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali ed al benessere collettivo», definiamo l’economia in modo… lapalissiano – dirò io che non sono un economista. Ogni attività economica che sia degna di questo nome, non può tendere che al soddisfacimento di un bisogno, vuoi individuale, vuoi pubblico. E per il concetto che si è voluto esprimere nell’articolo stesso, secondo me, basterebbe esprimerlo così: «la legge determina i controlli necessari perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate ai fini sociali». E così all’articolo 38, onorevoli colleghi, dove si enuncia che «la proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad Enti od a privati». Per la prima definizione mi pare che debbano soccorrere i principî comuni del diritto, poiché il diritto non mi pare conosca altra proprietà che non sia pubblica o privata. Sembra, quindi, pleonastico questo modo di esprimersi del nostro progetto di Costituzione. Ma il punto specialmente controverso, a mio avviso, dovrebbe essere quello in cui si parla di Enti. «I beni economici appartengono allo Stato, ad Enti o a privati». Il valore della parola Ente è molto generico e oscuro, e a me sembra che tale espressione abbia un significato incerto e incerto profilo giuridico. Ora i beni economici devono appartenere, a mio avviso, allo Stato o al privato, e la soppressione di questa parola sarebbe senz’altro consigliabile. All’articolo 37, e perdonatemi se ritorno ancora sui miei passi, è detto che «ogni attività economica, privata o pubblica, deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali e al benessere collettivo». Si riproduce, anzi si anticipa in forma positiva il principio che è già stabilito nell’articolo 39, dove si dice che «l’iniziativa privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

Ma, questi due concetti rappresentano due forme di un concetto unico, cioè il concetto che l’iniziativa economica non può mai contrastare con l’utilità sociale. Ora basta affermarlo in un punto solo, sia pure nella forma negativa che è la forma proibitiva; quindi solamente all’articolo 39, a mio avviso, dovrebbe rimanere questa espressione. Un principio nuovo, un principio che trova senz’altro i nostri consensi, un principio programmato da noi e da altri partiti è quello che è esposto nell’articolo 40 riguardante l’espropriazione. Però anche qui, come in altre disposizioni, il desiderio del dettaglio, che è un po’ l’afflizione di questa nostra Costituzione, il desiderio della disposizione più precisa, più dettagliata, desiderio che contrasta col carattere stesso della Costituzione, che, a mio avviso, dovrebbe essere qualche cosa di fondamentale, ma di lapidario nella sua fondamentalità, il desiderio della elencazione svigorisce un po’ l’affermazione del principio. Si dice all’articolo 40 «per coordinare le attività economiche la legge riserva originariamente o trasferisce con espropriazione, salvo indennizzo allo Stato, agli Enti pubblici od a comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed hanno carattere di preminente interesse generale».

Ora, dicevo, questa elencazione delle categorie, a mio avviso, riduce il vigore della affermazione di principio e l’elenco potrebbe essere ritenuto anche tassativo. Infatti, mi pare giusto osservare che grandi complessi industriali potrebbero tentare così di sfuggire alle categorie previste, accampando di non versare in situazioni di monopolio a carattere di preminente interesse generale. E allora, a mio avviso, sarebbe stato molto meglio stabilire trattarsi in questo caso di imprese a carattere di grandi complessi produttivi, senza affermare che essi debbano versare in determinate condizioni.

Ma l’articolo 40 mi conduce anche per associazione di idee – se non fosse solo per successione di articoli – all’articolo 41, che è stato testé egregiamente illustrato con calore di parola dal collega che mi ha preceduto. Vi si parla del riscatto delle terre.

Noto subito – e mi pare lacuna degna di rilievo – che, mentre nell’articolo 40 si parla, sia pure genericamente, di comunità di lavoratori come successori delle attività economiche espropriate, all’articolo 41 non si parla né di comunità di lavoratori, né di cooperative là dove si parla di esproprio di terra, cioè, là dove mi sembra anche più indicato che la successione venga raccolta, specialmente dalle organizzazioni cooperative. Ora, notata questa insufficienza, questo oblio che riguarda proprio quelle cooperative di cui poi vedremo all’articolo 42, io penso che sarebbe utile introdurre nell’articolo l’espresso richiamo al movimento cooperativo. All’articolo 41 si rispecchiano idee – o per lo meno vi sono riflesse idee – che non sono completamente nostre. Basterà rilevare che l’abolizione del latifondo e la limitazione dell’estensione della proprietà fondiaria non deve portare, a nostro avviso, allo spezzettamento per creare ad ogni costo e artifiziosamente la piccola proprietà. Noi siamo per quella piccola proprietà, che oggi è così com’è, come eredità del passato; ma noi non crediamo che il latifondo debba scindersi in una miriade di piccoli proprietari con sicuri effetti antieconomici e antisociali; perché, a nostro avviso, un solo scopo ha questo intervento statale, questo intervento della società verso la proprietà privata indegna, verso la proprietà privata che non ha adempiuto alla funzione sociale che le è propria: e questo compito è il razionale sfruttamento della terra; è l’optimum dell’impiego della mano d’opera; è l’optimum della produzione. È lamento amaro che in questo articolo 41 non si sia ricordata almeno, se non la cooperazione, la comunità soggettiva di cui si parla all’articolo 40.

Vedete, io vado rapidamente, perché credo che la migliore delle vie per raggiungere l’auspicato acceleramento dei lavori non sia quella di sopprimere la parola del collega, ma di pretendere che il collega autodisciplini la propria. E corro per questo all’articolo 42. Noto in esso una lacuna grave. In questo articolo si parla della cooperazione, ma non della mutualità, che della cooperazione è uno degli elementi intrinseci o per lo meno coadiuvanti. E finalmente, all’articolo 43, sono prospettati i consigli di gestione.

Il consiglio di gestione è indubbiamente una conquista sociale che occupa di sé tutto il nostro mondo delle polemiche, delle battaglie politiche ed economiche. Nel consiglio di gestione io ravviso l’incarnazione di quei principî astratti che noi abbiamo sempre e saldamente affermato; una delle prime realizzazioni concrete, delle prime valorizzazioni, diremo, pratiche di quei principî.

Però anche a questo proposito io muovo questa, che non è una censura, ma un’osservazione. Si dice che i lavoratori hanno il diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende «ove prestano la loro opera».

A questo inciso di carattere terminale io eccepirei qualcosa. C’è, secondo me, in questa limitazione, il grave pericolo che si voglia unicamente prevedere i consigli di gestione sul tipo di quelli che già esistono è che spesso, siamo sinceri, si risolvono in una lustra per gli operai.

A mio avviso, bisogna lasciare aperta al legislatore futuro la maniera di affermare che i consigli di gestione abbiano competenza per tutto l’ambito della produzione, magari anche sul piano regionale e nazionale, anche se dovessero soltanto contentarsi di un incarico di statistica piuttosto che di un illusorio controllo delle aziende. Dare questo più ampio respiro significa dare efficacia a questo istituto nuovo.

Col consiglio di gestione si chiude questo Titolo della nostra Costituzione, quasi come con un augurio.

Io ho finito la mia rapida rassegna, onorevoli colleghi. Mi permetto solamente, consentitemi, di aggiungere alcune parole al presentarsi di questo auspicio che è rappresentato dal consiglio di gestione: la strada che è appena additata in questi principî sociali ed economici di cui parla la nostra Costituzione è la lunga strada maestra sulla quale s’incammina tutta la civiltà moderna.

Facciamo sì che questa strada non sia soltanto lastricata di buone intenzioni perché, se così fosse, essa ci porterebbe non al progresso, ma alla rovina, alla perdita della democrazia e della stessa libertà. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Belotti. Ne ha facoltà.

BELOTTI. Onorevoli colleghi, un semplice sguardo panoramico ai 15 articoli ordinati sotto il Titolo terzo del progetto di Costituzione è sufficiente a convincere che i primi tre articoli già approvati, della nuova Carta Costituzionale, non sono che il preludio di quell’effettivo rinnovamento costituzionale in senso sociale che costituisce l’aspirazione più viva e universale di tutti i popoli in questo tormentoso dopoguerra, afflitto da tanti interrogativi.

La disciplina dei rapporti economico-sociali è, ormai, un dato caratteristico delle Costituzioni contemporanee.

Nella seduta 25 ottobre 1946 della Commissione plenaria per la redazione del Progetto di Costituzione, l’onorevole Calamandrei sostenne che una Carta Costituzionale deve contenere soltanto norme giuridiche in senso stretto, capaci quindi di far nascere nel cittadino il diritto di invocare il rispetto delle pattuizioni per via di tribunali. Per conseguenza, secondo il Calamandrei, tutto quanto non costituisce una fonte creativa di istituti pubblici e di organi dello Stato, o non rappresenta una formula enunciativa di diritti in ogni momento rivendicabili, avrebbe dovuto essere escluso da una Costituzione vera e propria. Al massimo, avrebbe potuto figurare «ogni enunciazione generale di finalità etico-politiche… in un sobrio e sintetico preambolo», secondo l’ordine del giorno presentato dallo stesso Calamandrei nella successiva seduta 28 novembre e fatto proprio dall’onorevole Lussu. Ma, dopo matura discussione, la Commissione plenaria a buon diritto respinse l’eccezione Calamandrei ed il relativo ordine del giorno. La maggioranza dei Settantacinque risultò concorde nel reputare di sostanziale importanza ciò che il Calamandrei aveva testualmente definito materia di «auguri da preambolo».

A conforto della tesi prevalsa nella Commissione plenaria sta la documentazione offerta dal più recente diritto costituzionale comparato.

Si è discusso, in dottrina, se l’ordinamento sociale sia o meno materia propria di una Costituzione.

Anche in dottrina, comunque, l’opinione prevalente è per l’affermativa. L’ordinamento costituzionale, infatti, non deve soltanto disciplinare la struttura degli organi esercitanti la sovranità, ma altresì la funzionalità di essi, nonché i rapporti fondamentali tra lo Stato e i vari soggetti giuridici. Una Costituzione, cioè, non può limitarsi a rispecchiare la struttura dei vari organi dello Stato in fase statica, ma altresì, e, in certo senso, prevalentemente, contenere le grandi direttrici del loro momento dinamico, ossia la disciplina giuridica della loro attività.

Come le Costituzioni dell’Ottocento, il secolo della grande esperienza liberale, hanno realizzato la conquista di far rientrare nella materia costituzionale le cosidette «libertà politiche», ossia i diritti soggettivi pubblici individuali di fronte allo Stato, così le Costituzioni contemporanee estendono la conquista all’ordinamento fondamentale dei diritti e dei doveri di collaborazione sociale, che avranno sviluppo nella legislazione sociale ordinaria. L’esperienza, si può dire mondiale, del secolo scorso e dei primi decennî di questo nostro martoriato Novecento, ha largamente dimostrato che la libertà civile, la dignità della persona, l’uguaglianza giuridica e i diritti politici, conquiste importantissime del mondo moderno, rimangono parole prive di concreta efficacia se non sono integrate e potenziate da riforme economiche e sociali che diano al cittadino la capacità effettiva di valersi di quelle conquiste.

Non si tratta esattamente, come taluno afferma, solo di un «allungamento della lista dei diritti individuali»: è da rilevare, anzi, che l’estensione dei testi costituzionali ai problemi economici e sociali, con la dichiarazione dei cosidetti «diritti sociali ed economici» dell’uomo-cittadino, comporta una limitazione di certi diritti individuali finora ritenuti intangibili: ad esempio del diritto di proprietà; presupponendo, nel contempo, la diretta ingerenza dell’attività pubblica nell’economia del Paese e l’allargamento della sfera d’azione di enti intermedi tra il singolo e lo Stato, con conseguente limitazione della libertà di agire dell’uomo-cittadino.

Pur non accettando la concezione del materialismo storico, non v’ha, oggi, chi non accolga la definizione di «era economica», data dal Sombart all’epoca nostra. Nessuna Costituzione può, ormai, ignorare il peso premente dell’economia sociale, né evitare di inserirne la forza nei congegni costituzionali dello Stato.

Fare dello Stato, oggi, un escluso dall’arena delle forze economiche individuali, dalla funzione di arbitro regolatore della produzione, un assente di fronte agli imperativi della giustizia sociale, significa predestinarlo, sin dall’inizio, all’abdicazione.

Il nuovo Stato Repubblicano italiano, così com’è configurato nella Carta costituzionale, non è più un assente di fronte agli imperativi della giustizia sociale, non è più un escluso dall’arena delle competizioni economiche. La produzione, ma soprattutto il settore nevralgico, il fattore preminente dell’ordine sociale: la distribuzione della ricchezza prodotta, non sono più totalmente abbandonati alla capacità di difesa e di offesa dei singoli.

Tutto il Titolo terzo del Progetto consacra e concreta il principio che alla base dell’ordine sociale, fonte e condizione di armonie economiche, va posto non il solo principio dell’utile, ma il preminente principio di giustizia.

Quando, come nel secolo della grande esperienza liberale, si esclude ogni arbitro, si abolisce ogni freno nella gara delle competizioni economiche, avviene l’inevitabile: vince il più forte. La neutralità dello Stato, in tal caso, è abdicazione e suicidio.

Ma c’è un articolo, onorevoli colleghi, c’è un articolo del Titolo III del Progetto, l’articolo 36, che io non esito a definire più liberale dei liberali. Esso, dettando testualmente: «tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero», sancisce una libertà di sciopero illimitata, senza temperamenti e senza disciplina di legge. È vero che nella relazione del Presidente della Commissione plenaria, onorevole Ruini, è affermato che «la dichiarazione pura e semplice del diritto di sciopero è prevalsa sulle altre tesi» perché «si è con ciò voluto affermare più vigorosamente, e senza restrizioni, quel diritto, ma non si è escluso dai sostenitori della tesi prevalente che la legge possa provvedere alla sua applicazione».

Allora io mi chiedo e chiedo alla Commissione quali sono le ragioni per cui si è voluto deliberatamente escludere dal testo dell’articolo in esame questo esplicito rinvio alla legge, questo riferimento alla disciplina giuridica ordinaria. Faccio peraltro rilevare alla Commissione che, una volta varato l’articolo 36 così com’è configurato nel Progetto, una qualunque limitazione all’esercizio del diritto di sciopero che il legislatore futuro ritenesse indispensabile, potrebbe, anzi, dovrebbe essere impugnata come incostituzionale avanti l’apposita Corte.

Non esiste, nel Progetto, alcun altro diritto di libertà proclamato senza limiti, e senza condizioni come questo.

Non esiste, ch’io sappia, alcun paradigma del genere in nessuna Costituzione democratica contemporanea. La stessa recentissima Costituzione francese ammette il diritto di sciopero, sì, ma «nell’ambito delle leggi che lo regolano». (Le droit de grève s’exerce dans le cadre des lois qui le réglementent).

L’antinomia tra libertà e autorità non può, non deve essere risolta con l’eliminazione di uno dei termini. La nostra Costituzione vuol rappresentare una soluzione dell’eterna antinomia, ma una soluzione in senso autenticamente democratico, che salvi la libertà individuale senza sopprimere l’autorità dello Stato, concepita come esigenza e come presidio del bene comune della collettività nazionale.

A nulla varrebbe, onorevoli colleghi, aver garantito nella Costituzione l’intervento dello Stato come arbitro superiore, nella contesa economica, a tutela degli economicamente deboli, quando a questi ultimi fosse contemporaneamente consentito il ricorso all’autodifesa, «senza eccezioni e limitazioni».

Onorevoli colleghi, io non ignoro che lo sciopero è stato un mezzo, una leva potentissima per la rivendicazione del diritto alla vita e per la elevazione dei ceti più umili.

E appunto per questo che, nonostante ogni contraria parvenza di diritto, sono contrario alla correlativa libertà di serrata, ossia alla rappresaglia dei datori di lavoro, i quali non sono sullo stesso piano dei lavoratori e combattono con armi impari, non per il diritto alla vita, e con potere di resistenza assolutamente non comparabile a quello dei lavoratori. Ammettere il diritto di serrata significa togliere all’impresa il carattere di fatto sociale, sancito nel progetto di Costituzione, e sottrarla, praticamente, all’obbligo di dare lavoro. L’unico vero diritto di resistenza da parte dei datori di lavoro si identifica col bene comune della collettività nazionale, quel bene comune che costituisce l’obiettivo principe, anzi, la ragion d’essere dello Stato. Ma non possiamo ignorare, per contro, che il bene comune costituisce un limite anche all’esercizio del diritto di sciopero. Per essere obiettivi bisogna riconoscere che anche lo stato di inferiorità e di miseria dei lavoratori è un danno per la collettività. Quando dico «un limite», non intendo dire «la confisca». C’è chi sostiene che ammettere lo sciopero significhi riconoscere implicitamente l’incapacità dello Stato a tutelare la giustizia nei confronti dei lavoratori e degli stessi datori di lavoro. C’è del vero in questa tesi.

In uno Stato perfetto – è fuori dubbio – non dovrebbero esserci scioperi. Per voi, onorevoli colleghi di parte comunista, lo Stato perfetto esiste: la Russia Sovietica: e là, infatti, lo sciopero è proibito.

Lo sciopero, nella storia, non figura come fine a se stesso: appare come azione strumentale di difesa e di conquista, in funzione degli interessi economici e sociali dei lavoratori organizzati. E questo suo carattere di strumentalità complica, in certo senso, il problema della sua impostazione dottrinaria; poiché, se lo sciopero non è lo scopo da raggiungere, ma un metodo di azione, altri metodi teoricamente idonei al conseguimento delle medesime finalità possono essere considerati in sua vece.

Il metodo pubblicistico presuppone la superiorità assoluta dello Stato sulle classi e postula la capacità dello Stato a dirigere la dinamica sociale, esercitando un intervento sovrano nei rapporti interclassistici. È il metodo fascista (e nazista), tendente a risolvere i conflitti sociali con un ferreo ordinamento giuridico, attraverso speciali organi rappresentativi e giurisdizionali (magistratura del lavoro).

La configurazione dello sciopero nell’ordinamento sovietico è affine solo in apparenza alla concezione fascista. In realtà, la fondamentale divergenza risiede nel fatto che lo Stato perfetto non è più fondato su una collaborazione interclassistica imposta dall’alto, ma sulla dittatura del proletariato.

Nella concezione marxista lo sciopero, come atto di guerra sociale, è ritenuto legittimo fino alla estromissione delle classi non proletarie. Una volta che lo Stato proletario ha riassunte in sé le funzioni dell’imprenditore, del capitalista e del datore di lavoro, lo sciopero viene ad essere fatalmente configurabile come un atto di ribellione, di disfattismo e di sabotaggio della produzione, base di potenza dello Stato proletario. Nell’ambito di una società marxista, è assurdo considerare più oltre lo sciopero come un diritto, come una conquista dei lavoratori.

I partiti marxisti considerano lo sciopero come efficacissimo metodo, come macchina rivoluzionaria, come strumento della lotta di classe nell’ambito della cosiddetta «società borghese», al fine specifico di operarne lo scardinamento.

In un ordinamento come quello configurato nella nostra Costituzione, che non è liberale in quanto prevede interventi statali nell’economia a salvaguardia del bene comune e dei diritti degli economicamente deboli, mentre la serrata diventa un controsenso, lo sciopero può essere, senza dubbio, uno stimolo efficace.

Ma, abbandonato a se stesso, può costituire un pericolo di sovvertimento della struttura dello Stato e delle stesse garanzie sancite dalla Carta costituzionale.

Il riconoscimento del diritto di sciopero può a taluno fondatamente apparire come implicito riconoscimento che, nonostante il contenuto sociale della nostra Costituzione, lo Stato continuerà a soggiacere alla potenza capitalistica ed alla conseguente incapacità di rendere giustizia ai lavoratori.

Si può obiettare, a questo proposito, che pretendere l’intervento della burocrazia statale in ogni singolo caso di difesa del lavoratore o di una delle infinite categorie di lavoratori di fronte a ingordi datori di lavoro, può apparire eccessivo e comunque non intonato al proposito di snellire, anziché ingigantire, l’apparato burocratico per alleviarne la tradizionale lentezza funzionale. Comunque lo sciopero è e rimane un fatto patologico della vita economica e sociale. Le febbri e le convulsioni sociali sono indici di uno squilibrio che minaccia le stesse basi della convivenza civile. Non solo sulla febbre, ma soprattutto sullo squilibrio deve agire lo Stato. Il legislatore futuro, anche in relazione agli orientamenti internazionali in materia, deve poter disciplinare l’esercizio del diritto di sciopero, in relazione alla possibilità di rendere prontamente giustizia ai lavoratori. Anche per questo, l’ancoraggio del diritto di sciopero alla legge appare assolutamente indispensabile.

Un’altra notevole eccezione mossa alla possibilità e soprattutto all’efficacia di una disciplina giuridica dello sciopero, è che si tratta, nella fattispecie, di un atto, un rapporto di forza che è assurdo pretendere di contenere nell’ambito della legalità. Di diverso parere è stata la Costituente francese. Ma in questa tesi può esserci un equivoco. Non tutti gli scioperi degenerano in violenze alla proprietà e alle persone. Notiamo anzi che, col progredire della coscienza sindacale, della maturità civica e del senso di solidarietà, gli abusi non sono più così temibili come nel passato. Altro è l’uso ed altro l’abuso di un diritto.

Si discute, oggi, dai giuristi, se si tratti, nella fattispecie, a seconda dei casi, di illecito civile, laddove sia considerato penalmente non perseguibile, oppure, sempre a seconda dei casi, di libertà (anziché di diritto) di sciopero.

Anche in giurisprudenza è controverso se lo sciopero rappresenti effettivamente la violazione di un contratto (il contratto di lavoro), o non piuttosto una temporanea interruzione di lavoro che non costituisce, per sé, la rottura unilaterale di un impegno contrattuale consensualmente e bilateralmente stabilito. In realtà l’intenzione dell’operaio scioperante, di regola, non è di rompere ogni suo rapporto col datore di lavoro, per impegnarsi con la concorrenza. Tuttavia, anche se lo sciopero effettivamente rappresentasse, in determinati casi, una vera e propria rottura contrattuale, bisogna aver presente che di fronte al diritto di vivere con dignità di persona umana impallidisce ogni formula del diritto positivo. Sia che si tratti di «diritto di libertà», oppure di «diritto riflesso», ossia scaturente da un diritto violato, è il movente dello sciopero quello che permette di giudicare, volta a volta, della sua legittimità.

Ma una valutazione obiettiva non può essere fatta da una parte in causa. Di qui la necessità che il legislatore intervenga, prescrivendo per ogni caso modalità preventive e tentativi di conciliazione e di arbitrato. Io non condivido, onorevoli colleghi, né l’opinione di Achille Loria, secondo il quale lo sciopero «è un atto in ogni caso ed in ogni tempo appieno legittimo», né l’opposta concezione reazionaria, secondo la quale esso non sarebbe che «il parricida nato dalla libertà di lavoro».

Lo sciupio, infatti, non è che il diniego di prestare ad altri ciò che è proprio: l’operosità delle proprie braccia e della propria intelligenza. Se il rifiuto isolato del lavoro è un atto intrinsecamente lecito, non può divenire, per se stesso, illecito quando è collettivamente concertato e simultaneamente realizzato, perché il moltiplicarsi degli atti non muta la loro intrinseca natura.

Questa verità così elementare è stata negata dalla Rivoluzione Francese, che pure aveva innalzato sulle sue roventi bandiere il trittico rubato da Rousseau al messaggio cristiano: liberté, egalité, fraternité.

Una voce a sinistra. Non c’era la bandiera rossa allora: è venuta dopo.

BELOTTI. Il famoso decreto Le Chapelier, del 14 giugno 1791, stabiliva:

«Si des citoyens attachés aux mêmes professions, arts et mêtiers prenaient des déliberations, ou faisaient entre eux des conventions tendant à refuser de concert ou à n’accorder qu’à un prix déterminé le secours de leur industrie ou de leur travaux, les dites délibérations et conventions sont déclarées inconstitutionnelles, attentatoires à la liberté et à la déclaration des droits de l’homme et de nul effet».

Questo decreto-capestro per la libertà di associazione, di coalizione e di sciopero, nato sotto l’insegna della liberté in odio ai vincolismi corporativi dell’Evo Medio, non ha potuto impedire, lungo l’Ottocento, che centinaia di milioni di lavoratori di ogni fede religiosa e di ogni opinione politica, fatti uniti e potenti dalle forze dell’associazione e della organizzazione, muovessero, attraverso una serie imponente di battaglie e di conquiste, verso il «risorgimento del lavoro», verso l’ideale della giustizia per il lavoro, inteso come nuovo protagonista della storia e come unità di misura del valore umano.

Certo, anche un atto individuale lecito, quando, simultaneamente compiuto da una collettività concertata, arreca un grave danno alla vita collettiva, può divenire illecito. Vedremo, alla fine, un’applicazione di questo principio. Ecco un altro motivo a favore dell’ancoraggio del diritto di sciopero alla legge.

Infine, l’esercizio, l’uso del diritto di sciopero può sconfinare nell’abuso, trasformandosi più o meno facilmente, a seconda del grado di incandescenza delle folle scioperanti esasperate dalla resistenza padronale, da diritto in vero e proprio delitto. Alludo al sabotaggio, al boicottaggio, alla violenta repressione del crumiraggio, alle multiformi esplosioni cui la belva umana, fatta cieca dall’odio, talvolta irresistibilmente s’abbandona.

È possibile pensare ad una neutralità della Repubblica Italiana, «Repubblica democratica, fondata sul lavoro» (art. 1 della Costituzione), Repubblica che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2), Repubblica che s’impegna a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dell’Italia» (art. 3), Repubblica che pone a base un’economia regolata da interventi statali (tutto il Titolo III), di fronte all’unica autodifesa di classe riconosciuta dalla Costituzione?

È possibile ammettere che, mentre folle di lavoratori scendono in campo, una Repubblica cosiffatta stia semplicemente ad attendere, come i Cesari nel circo, le sorti della lotta tra i gladiatori?

Io mi rifiuto di ammetterlo, onorevoli colleghi, e penso di non essere il solo in questa Assemblea. Scorrendo la lunga serie delle proposte di emendamento all’articolo 36, rilevo che molti colleghi affacciano una soluzione radicale del controverso problema, chiedendo la soppressione del lacunoso articolo, in armonia con lo sfortunato ordine del giorno della terza Sottocommissione, secondo il quale detta Sottocommissione, «ritenuto urgente e indispensabile che una legge riconosca il diritto di sciopero dei lavoratori, abrogando i divieti fascisti in materia, non ritiene necessario che la materia sia regolata dalla Carta Costituzionale». Io sono di diverso avviso. Si potrà discutere sulla libertà di sciopero, sui limiti e le forme di esercizio, ma, una volta ammesso il principio, non mi pare consigliabile ignorare completamente nella Costituzione un dato di fatto di tale importanza e pericolosità da costituire, se totalmente incontrollato, una seria minaccia per tutto il «piano regolatore» fissato nella Costituzione.

È di capitale importanza, a mio avviso, stabilire in via pregiudiziale che «il diritto di sciopero può essere esercitato solo nell’ambito delle leggi che lo regolano».

Ma il semplice rinvio alla legge, come nella Costituzione francese, non mi pare del tutto soddisfacente. Noi Costituenti abbiamo il compito e la responsabilità di tracciare le grandi direttrici, con la legge delle leggi, al futuro legislatore.

La prima Sottocommissione, presieduta dall’onorevole Tupini, aveva proposto, per l’articolo 36, un comma aggiuntivo (poi respinto dalla Commissione plenaria), del seguente tenore: «La legge regola le modalità di esercizio dello sciopero, unicamente per quanto attiene:

  1. a) alla procedura di proclamazione;
  2. b) all’esperimento preventivo di tentativi di conciliazione;
  3. c) al mantenimento dei servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva».

Nonostante che nella Commissione plenaria abbia prevalso la tesi del diritto di sciopero incondizionato, io rimango fermo nella fiducia che l’Assemblea vorrà riservare alle eccezioni a suo tempo sollevate dalla prima Sottocommissione e da me oggi modestamente ribadite, tutta la considerazione che esse meritano.

In particolare, ritengo che le invocate garanzie di carattere costituzionale debbano riguardare:

1°) la salvaguardia del metodo democratico nella decisione, in sede sindacale, di ricorso allo sciopero;

2°) il preventivo esperimento di tentativi di conciliazione e di arbitrato (non obbligatorio);

3°) la facoltà al futuro legislatore di stabilire delle particolari limitazioni all’esercizio del diritto di sciopero in momenti eccezionali per la vita della Nazione;

4°) la rinunzia all’esercizio del diritto di sciopero e il ricorso ad arbitrato obbligatorio per i pubblici funzionari e i lavoratori addetti ai servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva:

5°) il divieto di sciopero generale politico.

Mi limito, per difetto di tempo, ad un sobrio commento dei punti 1°), 4°) e 5°), in quanto il punto 2°) ha già trovato sviluppo nel mio discorso, e il punto 3°) è di una tale evidenza da rendere superfluo ogni commento.

La salvaguardia del metodo democratico nella decisione collettiva di ricorso allo sciopero dovrebbe consistere, a mio avviso, nella votazione libera e segreta degli iscritti ai sindacati di categoria regolarmente registrati. Sarebbe, inoltre, consigliabile la fissazione di una speciale maggioranza, in quanto la decisione verrebbe, in pratica, per forza di cose, ad essere ritenuta operante e vincolativa anche nei confronti dei non iscritti al sindacato. Il crumiraggio è un fenomeno che non può e non deve essere ignorato, perché incide direttamente sui diritti di libertà dei cittadini-lavoratori.

Onorevoli colleghi: la vexata quaestio della legittimità o non dello sciopero degli addetti ai servizi pubblici comunque essenziali alla vita collettiva, merita un attento riesame da parte della Assemblea.

L’onorevole Di Vittorio, relatore sul tema del diritto di sciopero in seno alla terza Sottocommissione, si è battuto con foga di sindacalista per la sua estensione tout-court a tutti i cittadini senza eccezione, e quindi anche agli addetti ai servizi essenziali alla collettività.

I suoi due maggiori cavalli di battaglia contro il diniego della libertà di sciopero ai funzionari addetti a tali servizi e contro il correlativo ricorso all’istituto dell’arbitrato obbligatorio, sono:

  1. a) che non si deve creare una categoria di cittadini minorati rispetto a tutti gli altri;
  2. b) che bisogna che lo Stato democratico dimostri fiducia nel senso di autodisciplina e di autolimitazione di tutte indistintamente le masse lavoratrici.

Onorevoli colleghi: a parte il fatto che io non vedo, forse, in tutta la sua portata, la minorazione dell’arbitrato obbligatorio, in quanto lo penso strumento di giustizia volto anche contro lo Stato quando esso si comporta verso i suoi più vicini collaboratori alla stessa guisa del più miope dei conservatori, mi permetto di sottoporre alla vostra considerazione questo quesito: «Nella peggiore delle ipotesi, è preferibile la minorazione di una ridotta aliquota di cittadini, o la (sia pure transitoria) paralisi funzionale dello Stato?».

La risposta non può essere dubbia.

L’opinione pubblica è spesso solidale con le folle di lavoratori che incrociano, fieri, le braccia e sfidano la potenza padronale. Ma quando il turbine s’abbatte sulle ruote insostituibili paralizzando la vita sociale, le adesioni popolari svaniscono e i lavoratori di ogni categoria, sotto il peso delle conseguenze, tramutano l’osanna in imprecazione.

L’argomento che lo Stato deve limitarsi ad avere illimitata fiducia, a recitare l’atto di fede nei suoi collaboratori d’ogni ordine e grado burocratico, mi sembra suscettibile d’essere ritorto con facilità.

I funzionari, i lavoratori, i collaboratori per primi debbono aver fiducia nello Stato. Onorevoli colleghi di parte comunista, io sarei tentato di chiedervi: «Ma che aspettate ad aver fiducia in questa nostra giovane Repubblica Italiana «fondata sul lavoro»: aspettate forse che sia sovietizzata?» (Rumori – Interruzioni all’estrema sinistra). L’ultima garanzia costituzionale dovrebbe consistere nell’espresso divieto dello sciopero generale politico.

Già, solo a proposito dello sciopero generale come espressione di solidarietà economica tra lavoratori, la nota Rivista socialista Critica Sociale (giugno 1910), ammoniva:

«Tali scioperi, più che giovare agli scioperanti, li danneggiano, perché mutano gli operai solidali, che potrebbero sussidiare lo sciopero, in altrettanti concorrenti al sussidio di sciopero. Né è raro che gli scioperi di solidarietà giovino invece agli imprenditori che direttamente colpiscono, permettendo loro di smerciare, a prezzi rimuneratori, grosse riserve di merci invendute, il cui accumulo ne deprimeva il valore».

Onorevoli colleghi: ammettere la legalità dello sciopero generale politico significa rendere invalida, già in partenza, la nostra Costituzione, significa riconoscere ad una parte di cittadini il diritto di rendere carenti l’autorità, il prestigio, l’attività dello Stato e di ricorrere all’autogiustizia in materia non più sindacale, ma politica, ossia in una materia che, appunto perché tale, deve rimanere soggetta alla disciplina dello Stato.

Onorevoli colleghi, io credo che nessuno di noi faccia finta di credere alla Costituzione che stiamo elaborando e scavi, nel contempo, segretamente la fossa alla nostra comune fatica, alla nostra creatura destinata ad essere – speriamo per lungo tempo – custode e vindice della libertà democratica riconquistata, col suo martirio, dal popolo italiano! (Vivi applausi al centro – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Montagnana Mario. Ne ha facoltà.

MONTAGNANA MARIO. Il Titolo III del progetto di Costituzione, che stiamo in questo momento discutendo, e che si riferisce ai rapporti economici, è senza dubbio uno dei più importanti del Progetto. Anche più importante, io ritengo, di quelli che abbiamo discusso e approvato nei giorni scorsi e che pure hanno richiamato su di sé, in modo vivissimo, l’attenzione e l’interesse dell’Assemblea Costituente e della pubblica opinione.

Le «disposizioni generali», gli articoli sui rapporti civili e sui rapporti etico-sociali, per quanto importantissimi, potrebbero però restare lettera morta se la nuova Costituzione non contenesse, per quanto riguarda i cosiddetti rapporti economici, degli articoli, delle disposizioni tali da assicurare un miglioramento decisivo delle condizioni dei lavoratori – vale a dire della stragrande maggioranza del popolo italiano – e, nel tempo stesso, un miglioramento decisivo della situazione economica generale del paese.

Non è possibile infatti concepire un paese progredito, avanzato dal punto di vista politico, dal punto di vista dei rapporti civili e dal punto di vista dei rapporti etico-sociali, se in tale paese continuano a sussistere dei rapporti economici arretrati e se si negano ai lavoratori – cioè, ancora una volta, alla stragrande maggioranza del popolo – i loro diritti fondamentali.

E d’altro lato – ed anche per questo io voglio sottolinearne l’importanza – il Titolo che noi stiamo discutendo e i singoli articoli che esso contiene, rappresentano, secondo me, la parte più nuova e più moderna del progetto di Costituzione. È questa, senza dubbio, la parte che differenzia in modo più caratteristico il progetto di Costituzione della giovane Repubblica italiana, nata dalle sofferenze e dall’eroismo dei lavoratori, da tutte le Costituzioni democratiche del secolo scorso, e, in maniera particolare, dallo Statuto Albertino, prodotto di un’epoca ormai per sempre superata.

Io non sarò qui a esaminare i singoli articoli del Titolo III del progetto. Non lo farò perché me ne mancherebbe il tempo, e non lo farò, anche, perché non è questo il mio compito.

Mi limiterò quindi ad alcune osservazioni di carattere generale.

Noi comunisti, anzi, noi partiti dei lavoratori, avevamo proposto che l’articolo primo della nuova Costituzione affermasse che l’Italia è una repubblica democratica di lavoratori. Tale proposta è stata respinta. Ma è stata tuttavia votata una formulazione che, pur non soddisfacendoci completamente, noi abbiamo accettato: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».

Si deve ora dimostrare, nella formulazione dei singoli articoli del Titolo III, che si occupa in modo specifico dei problemi del lavoro e dei diritti dei lavoratori, che non si tratta di vane parole; che non si tratta di un «contentino» dato, nel primo articolo della Costituzione, alle masse lavoratrici, ma che realmente i rappresentanti della Nazione nell’Assemblea Costituente sono coscienti di quella che è la funzione del lavoro e dei lavoratori nella nuova Italia democratica e intendono dare ai lavoratori tutta l’importanza e tutto il peso che essi realmente hanno nella vita del Paese.

Sarà questo il mezzo più sicuro per assicurare all’Italia un lungo periodo di progresso politico, economico e sociale; il mezzo più sicuro per evitare contrasti violenti, per evitare lotte e conflitti che nessuno di noi vuole e che sarebbero contrari agli interessi fondamentali della Nazione.

A questi principî si sono senza dubbio ispirati gli onorevoli colleghi che hanno preparato questa parte del Progetto la quale ha, nelle sue linee generali, quantunque non in tutti i suoi particolari, alcuni dei quali dovranno essere senza dubbio modificati e migliorati, la nostra approvazione.

Ed ha, l’insieme di questo Titolo, la nostra approvazione di massima anche perché esso ha indubbiamente una sua struttura logica conseguente, dato che ogni parte di esso deriva, per così dire, da quella che la precede, e le fornisce i mezzi per la propria realizzazione.

La prima parte, i primi cinque articoli del Titolo sanciscono, come è noto, i principali diritti dei lavoratori, uomini e donne: diritto al lavoro, diritto ad una retribuzione adeguata e alle ferie, diritto all’assistenza sociale in caso di invalidità, d’infortunio, di malattia, di vecchiaia e di disoccupazione involontaria, diritti della donna e della madre lavoratrice.

In questo modo il lavoro e i diritti dei lavoratori entrano, quali fattori essenziali della vita della Nazione, nella legislazione italiana, non più da qualche porticina aperta da singole leggi strappate volta a volta con la lotta, ma dalla grande porta della Carta fondamentale della Repubblica.

È questo un avvenimento storico che nessuno – e noi meno di qualsiasi altro – può sottovalutare e che varrebbe da solo a dimostrare che la lotta eroica dei lavoratori italiani contro i tedeschi e contro i fascisti ha dato i suoi frutti, anche sul terreno sociale.

Ma quali mezzi, quali strumenti assicureranno, nella pratica, ai lavoratori la realizzazione e la difesa di questi diritti?

Soltanto la saggezza – che alle volte potrebbe anche venir meno, come insegna la storia – dei datori del lavoro, dei governi e dei magistrati?

No. Gli strumenti che assicurano la realizzazione e la difesa di questi diritti sono le organizzazioni sindacali, sono i contratti collettivi, è il diritto di sciopero per tutti i lavoratori, di cui si occupano gli articoli 35 e 36 del progetto di Costituzione.

Ma non basta. Né la saggezza di chi sta in alto, né la forza organizzata di chi sta in basso sarebbero sufficienti a realizzare per i milioni di lavoratori italiani quei sacrosanti diritti di cui parlano i primi articoli del Titolo III del progetto di Costituzione. Non per nulla, due anni dopo la liberazione totale dell’Italia e quasi un anno dopo il 2 giugno, parecchi di questi diritti non hanno ancora avuto, purtroppo, neppure l’inizio di una realizzazione.

Molte, troppe cose, anche per quanto riguarda i diritti dei lavoratori, procedono, specialmente nel Mezzogiorno, press’a poco come prima, poiché molti di questi diritti, riconosciuti dalle leggi e dai contratti di lavoro, non vengono in alcun modo rispettati. In molte, in troppe aziende industriali ed agricole, il padrone viola sfacciatamente le leggi ed i contratti e vuole continuare a disporre, e di fatto dispone, nella sua azienda, di un potere assoluto, totalitario, sfruttando ed opprimendo vergognosamente le maestranze.

La realtà si è che la condizione per la realizzazione dell’insieme dei diritti dei lavoratori stabiliti dal Titolo terzo, è una profonda trasformazione della struttura economica di tutto il Paese, ed è, in primo luogo, l’organizzazione di tutta l’economia nazionale su basi nuove, le quali impediscano ai gruppi plutocratici – reazionari per la loro stessa natura – di potere ancora una volta decidere delle sorti dell’Italia, e quindi del popolo, e frenare – tanto nel campo industriale quanto nel campo agricolo – lo sviluppo economico della Nazione.

È assurdo infatti pensare che possano diventare realtà, per tutti i lavoratori italiani, il diritto al lavoro, il diritto a una giusta retribuzione, il diritto a un’assistenza sociale completa, e così via, fino a quando la vita economica sarà retta secondo i vecchi principî del liberalismo e fino a quando piccoli gruppi di privilegiati potranno fare prevalere, in molti campi, i loro interessi particolari contro gli interessi delle grandi masse lavoratrici.

Ed è assurdo pensare che questi diritti possano diventare realtà, per tutti i lavoratori italiani, fino a quando la struttura economica della società – basata sugli interessi e sui privilegi di una piccola minoranza la quale non vede, nella produzione, altro scopo ed altro obbiettivo che il mantenimento di questi interessi e di questi privilegi – impedisca lo sviluppo rapido e, vorrei dire, impetuoso della produzione e quindi della ricchezza generale dell’Italia.

Di qui, per conseguenza, la necessità di alcune riforme strutturali della economia nazionale, senza le quali i bellissimi – anche se non perfetti in ogni particolare – articoli 30, 31, 32, 33 e 34 del progetto di Costituzione correrebbero il rischio di avere press’a poco la stessa efficacia e gli stessi risultati pratici, per i lavoratori, che ha avuto la famosa Carta del lavoro di mussoliniana memoria.

Ed hanno compreso questa necessità, almeno in una certa misura, gli estensori del Titolo III del progetto di Costituzione, i cui ultimi articoli tendono infatti – anche se, secondo noi, con troppa prudenza – a dare un nuovo indirizzo alla attività economica di tutto il Paese.

Essenziali, da questo punto di vista, sono gli articoli 40, 41, 42 e 43 del Progetto.

Il primo di questi articoli prevede, come è noto, la nazionalizzazione di determinate imprese. Il secondo prevede, tra l’altro, la fissazione di limiti di estensione della proprietà terriera, l’abolizione del latifondo e l’aiuto alla piccola e media proprietà. Il terzo, riconoscendo la funzione sociale della cooperazione, tende a favorirne l’incremento. E l’ultimo, infine, prevede, nelle aziende, i Consigli di gestione, vale a dire la partecipazione alla direzione delle aziende stesse dei lavoratori che vi prestano la loro opera.

Qui, veramente, entriamo nel vivo della questione ed affrontiamo i problemi fondamentali, decisivi, per l’avvenire del nostro paese.

Se, fino a ieri, nella direzione della economia italiana, il lavoro non aveva alcun peso, mentre invece, secondo la legge, i diritti della proprietà e della ricchezza non conoscevano quasi alcun limite, con la nuova Costituzione il lavoro diventa la base stessa della società e della Repubblica, e i diritti, i privilegi della proprietà, della ricchezza, del danaro, vengono fissati entro determinati limiti stabiliti dalla legge, affinché essi non siano in contrasto con gli interessi generali della Nazione.

Permettete che io mi soffermi brevemente su quest’ultimo punto.

Quando noi comunisti abbiamo chiesto e chiediamo una riforma della nostra industria, che ponga fine alle situazioni di monopolio, avevamo e abbiamo sì, in vista gli interessi particolari, di classe, dei lavoratori, i quali subiscono le funeste conseguenze dei monopoli e come prestatori d’opera e come consumatori. E avevamo e abbiamo pure in vista la necessità di colpire i gruppi privilegiati responsabili del fascismo, in modo da togliere loro la possibilità di imporre una altra volta all’Italia i loro propositi reazionari e imperialistici. Ma avevamo e abbiamo pure in vista la necessità impellente di aumentare e di migliorare la produzione industriale dell’intera Nazione, dato che tanto la teoria quanto l’esperienza italiana e internazionale dimostrano che le condizioni di monopolio e l’assenza di una partecipazione dei lavoratori alla direzione delle aziende rappresentano un gravissimo ostacolo allo sviluppo e al miglioramento della produzione. Noi vogliamo la nazionalizzazione di alcune grandi imprese monopolistiche e vogliamo i Consigli di gestione nelle aziende per migliorare le condizioni morali e materiali dei lavoratori occupati in tali imprese e in tali aziende, ma vogliamo questo, anche e soprattutto, affinché dalle nostre fabbriche escano più macchine, più prodotti chimici e tessili, e così via; affinché le nostre aziende elettriche possano fornire più energia al Paese; affinché tutta l’Italia abbia più prodotti industriali nazionali a sua disposizione e possa perciò, tra l’altro, esportare una parte importante di questi prodotti in modo di non dovere mai più mancare, come oggi, del necessario; in modo di non dovere mai più, come oggi avviene, quasi chiedere l’elemosina a dei Paesi stranieri per impedire che milioni di suoi figli muoiano di freddo, di fame, di miseria.

E quando noi comunisti abbiamo chiesto e chiediamo una riforma agraria la quale fissi dei limiti alla proprietà terriera, abolisca il latifondo e protegga i piccoli e medi proprietari agricoli, noi avevamo e abbiamo in vista gli interessi particolari, di classe, dei lavoratori che subiscono le funeste conseguenze dell’attuale stato di cose e come prestatori d’opera e come consumatori. Avevamo e abbiamo pure in vista la necessità di colpire, anche su questo terreno, i gruppi privilegiati responsabili del fascismo e accaniti sostenitori, oggi come ieri, della oppressione e dello sfruttamento delle masse popolari. Ma avevamo e abbiamo pure in vista la necessità impellente di aumentare e di migliorare la produzione agricola di tutta la Nazione, dato che l’esperienza ha dimostrato, e ogni giorno conferma, che l’esistenza del latifondo e di rapporti di tipo feudale nelle campagne e, dall’altro lato, la mancanza di protezione della piccola e media proprietà terriera rappresentano un gravissimo ostacolo al miglioramento e all’aumento della produzione agricola. Noi vogliamo l’abolizione del latifondo, i Consigli di gestione nelle grandi aziende agricole e la protezione dei piccoli e medi proprietari per migliorare le condizioni morali e materiali dei lavoratori delle campagne, ma anche e soprattutto affinché il nostro suolo, nel suo insieme, dia più grano, più fieno, più barbabietole, e così via. Vogliamo questo affinché tutta l’Italia abbia più prodotti agricoli a sua disposizione; affinché essa possa limitare, in questo campo, le proprie importazioni e nutrire meglio, nel tempo stesso, tutti i suoi figli e difenderne con più efficacia la salute che è, tra tutti i beni materiali, il bene più prezioso.

Così, ancora una volta e con estrema evidenza, gli interessi delle masse lavoratrici si identificano, coincidono e si confondono con gli interessi generali della Nazione. Così, ancora una volta e con estrema evidenza, coloro i quali si oppongono alla realizzazione dei diritti dei lavoratori dimostrano di voler porre i propri interessi e i propri privilegi di classe, al di sopra e contro gli interessi dell’Italia.

Per queste ragioni, onorevoli colleghi, noi accettiamo, nelle sue linee generali, l’insieme del Titolo III del progetto di Costituzione.

Ma proprio per queste stesse ragioni, che sono, in un tempo, di classe, vale a dire nell’interesse dei lavoratori, e nazionali, vale a dire nell’interesse di tutto il paese; proprio per queste stesse ragioni noi non possiamo tacere le manchevolezze, le debolezze del Progetto né rinunciare a fare tutto il possibile, con il nostro intervento, per eliminarle.

Io non voglio, già l’ho detto, scendere in questioni e in critiche particolari, di dettaglio, anche se importanti. Altri compagni del mio gruppo lo faranno, nella discussione generale, nella discussione dei singoli articoli e con la presentazione di alcuni emendamenti.

Quello, però, che non posso fare a meno di rilevare parlando su questo argomento, si è che l’insieme delle riforme strutturali che il Progetto prevede, e la stessa istituzione, pur così importante, dei Consigli di Gestione, non potrebbero assolvere pienamente ai loro scopi – e mi riferisco soprattutto agli scopi di carattere nazionale ai quali ho or ora accennato – se la stessa Costituzione non stabilisse la necessità dell’«intervento dello Stato per coordinare e dirigere l’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione secondo un piano che dia il massimo di rendimento per la collettività».

E, del resto, senza un tale intervento e senza un tale piano, il diritto di lavoro per tutti, vale a dire la eliminazione del tragico problema della disoccupazione, continuerebbe ad essere, inevitabilmente, soltanto una vana promessa, continuerebbe ad essere null’altro che una vera e propria chimera.

Accettare il principio delle riforme strutturali della nostra economia e la creazione dei Consigli di gestione, e respingere l’intervento dello Stato nell’attività produttiva dei singoli, e un suo piano d’insieme per quanto si riferisce alla produzione, mi sembra quasi un non senso e in ogni caso una grave contraddizione.

Riconosciuto – come di fatto è riconosciuto nel Titolo III del progetto di Costituzione – che devono essere considerati come superati, con l’evolversi della società, tanto la vecchia concezione del diritto romano di proprietà quanto i principî del liberalismo che a questa concezione, in sostanza, aderiscono; riconosciuto questo, come è possibile negare allo Stato – espressione della collettività, espressione di tutto il popolo – il diritto di intervenire per controllare e coordinare, secondo un piano, le iniziative dei singoli, nell’interesse della collettività, nell’interesse di tutto il popolo?

Non si tratta qui di una realizzazione di carattere socialista, anche se tutte le proposte avanzate da noi comunisti, su questo terreno, nella prima Sottocommissione, si muovono, come ha rilevato lo stesso onorevole Togliatti nella sua relazione sull’argomento, nella direzione generale di una trasformazione economica socialista.

Altre Costituzioni, di paesi tutt’altro che socialisti, e misure pratiche già realizzate o in via di realizzazione, in questi stessi paesi – basti pensare a quanto avviene in Francia e Inghilterra – rappresentano dei passi ben più audaci e ben più grandi di quello che noi proponiamo, per quanto riguarda l’intervento dello Stato nella produzione e, in generale, nella vita economica del Paese.

L’intervento dello Stato nel campo produttivo, sulla base di un piano, quale noi lo proponiamo, non abolisce, non distrugge, non riduce neppure entro limiti ristretti l’iniziativa dei privati, e tanto meno il loro diritto di proprietà.

Noi vogliamo, che la proprietà personale dei cittadini – purché non venga usata in modo contrario all’interesse sociale – sia, assieme al risparmio, tutelata dalla legge, e vogliamo pure che l’iniziativa dei privati – purché venga indirizzata nell’interesse della Nazione – sia aiutata e sollecitata.

Ma tra queste affermazioni e l’affermazione della necessità di un piano economico, non esiste contraddizione alcuna, né formale né sostanziale, poiché le une e l’altra affermazione tendono in sostanza ad un unico scopo: assicurare il benessere e l’indipendenza economica del Paese con l’aumento della produzione.

Ogni giorno maggiormente il popolo sente nella sua carne, sente attraverso le proprie sofferenze, le conseguenze funeste di una economia in gran parte abbandonata a se stessa, il che provoca lo sperpero e la inutilizzazione di ricchezze immense e di immense energie.

Basta pensare alle quantità enormi di generi voluttuari, superflui che vengono prodotti, mentre milioni di italiani mancano dello stretto necessario. Basta pensare ai capitali che vengono investiti per degli scopi di pura speculazione, mentre manca il danaro per la ricostruzione. Basta pensare, soprattutto, ai milioni di disoccupati, ai milioni di braccia inutilizzate, mentre il paese ha tanto bisogno di lavoro per ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto.

Nessuno ha mai protestato – perché sarebbe stato assurdo protestare – contro l’intervento dello Stato nel campo della produzione in tempo di guerra. Si è sempre riconosciuto questo intervento come un intervento giusto, perché inevitabile. Ognuno ha compreso, in tempo di guerra – e non mi riferisco soltanto all’ultima guerra – che l’abbandonare completamente la produzione all’arbitrio dei singoli, senza un piano, senza un controllo e senza una coordinazione, avrebbe significato andare incontro ad una sicura disfatta.

E perché dunque dovremmo respingere l’intervento dello Stato, ed un suo piano economico, ora che il nostro Paese è chiamato a combattere e a vincere un’aspra, dura e lunga battaglia sul terreno della ricostruzione e per la conquista del benessere e della indipendenza economica?

Osservate chi sono coloro che si oppongono a tale intervento, coloro che si scandalizzano al sentire parlare di un piano economico. Quasi sempre voi riconoscerete in essi – anche se si tratta di persone oneste e in buona fede, anche se si tratta di luminari della scienza e della politica – degli elementi su cui pesa la responsabilità di non aver saputo o voluto impedire l’ascesa al potere del fascismo.

Noi possiamo avere e abbiamo realmente per alcuni almeno di questi uomini, il rispetto, cui essi hanno diritto per la loro dirittura personale e anche per la loro età veneranda.

Ma non possiamo ascoltare i loro consigli, i loro funesti presagi e i loro anatemi.

Possiamo avere per alcuni di essi rispetto e considerazione, ma diciamo loro: «Non sbarrate la strada alle nuove energie e ai nuovi metodi che sono i soli che corrispondano alle necessità dell’attuale periodo. Siamo nell’anno 1947, e quello che poteva forse essere giusto 40 o 50 anni or sono è ora profondamente sbagliato. Voi credete, sostenendo le vostre vecchie teorie, di difendere gli interessi del Paese, ma in realtà quello che difendete oggi, anche se non ne avete coscienza, è l’interesse di un pugno di plutocrati e di speculatori, contro gli interessi del popolo e contro gli interessi della Patria. Lasciate perciò libero il cammino alle giovani forze, alle forze del lavoro che avanzano e che rappresentano l’avvenire dell’Italia».

Io non ho alcun dubbio, onorevoli colleghi, che la maggioranza dell’Assemblea Costituente, che è costituita dai rappresentanti di grandi partiti di massa, condividerà questa nostra fiducia nelle forze del lavoro e darà la prova, accettando, se non ogni parola, almeno lo spirito a cui sono ispirati gli emendamenti del gruppo comunista ai vari articoli del Titolo III del progetto di Costituzione, di aver tratto dalle tragiche esperienze del passato tutti i necessari insegnamenti.

Guai se noi ci aggrappassimo a un passato ormai morto, e morto, purtroppo, senza beltà e senza gloria. Guai per l’Italia se al lavoro non venisse riconosciuto, nella Costituzione e nella vita di ogni giorno, l’altissimo posto che gli assegna la storia. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Medi. Ne ha facoltà.

MEDI. Un doloroso spettacolo si presenta ai nostri occhi. Per le vie e le città della nostra terra un numero sterminato di bimbi soffre le conseguenze di una tragedia che essi non hanno voluto. Una società che si era economicamente costituita ed ha approfondito le ricerche del sapere e della scienza per poter preparare agli uomini un miglior avvenire, non ha fatto altro (non vogliamo ora eseguire un processo) che creare a questa povera umanità nuovi dolori e nuove tragedie.

Oggi in Italia contiamo più di diecimila bimbi mutilati orrendamente dalla guerra. Oggi contiamo nella nostra terra decine di migliaia di orfani, senza casa, senza rifugio, senza focolare e senza speranza. Da questa tragedia deriva alla società, come tale, un terribile senso di responsabilità e di riparazione. È l’organismo sociale che è mancato alla sua altissima funzione. Quando la società si è organizzata, aveva di fronte la responsabilità del bene comune, del bene di tutti i cittadini: questo bene non lo ha integralmente realizzato. Ora, dunque, responsabile primo di questi dolori e di queste lacrime deve essere l’organismo sociale che deve procedere alla riparazione e alla reintegrazione di questo mondo del dolore e della miseria.

Ma c’è ancora di più, c’è un dovere di ordine della società. Quando noi andiamo nelle grandi città, soprattutto nel Mezzogiorno, assistiamo ad una condizione di miseria paurosa; migliaia, e decine di migliaia di famiglie che non hanno di che sostenersi; quando si va per le vie di Palermo e di Napoli e si vedono queste povere famiglie nei tuguri, lasciati appena in piedi dalle bombe e dalle catastrofi della guerra, quando si vedono sull’unico giaciglio sei, sette, otto persone a dormire, ci vien fatto di domandarci: ma la società a che cosa pensa, come crede di risolvere questo grande problema di redenzione?

Noi stiamo parlando, qua dentro, di democrazia, di ricostruzione, ma mi sembra che il concetto di democrazia, cioè di potenza di popolo, consista proprio in questo, nel sollevare questo popolo, nel sollevarlo intellettualmente e materialmente, nel sollevarlo anima per anima, cuore per cuore, intelligenza per intelligenza, ma anche corpo per corpo, e dolore per dolore. È quindi un dovere della società democratica venire incontro a questo mondo che lacrima, venirgli incontro e tirarlo fuori dalla miseria. Noi vediamo che in una città come Palermo vi sono circa 60 mila persone, che non hanno come vivere, anzi vivono mangiando la propria miseria, perché il destino della miseria è questo: la miseria mangia e consuma se stessa, il dolore mangia e consuma se stesso. Quando ci si trova di fronte a queste situazioni in cui la spina dorsale della speranza sembra spezzata, in cui queste famiglie non hanno più la forza per potersi levare, ci vien fatto di domandare se la società avverte che si sta perpetrando un delitto abbandonandole e che noi abbiamo il dovere di sollevare questi nostri fratelli.

Ecco perché è nell’interesse stesso del vivere sociale che queste masse e queste categorie vengano sollevate, rimesse in un ordine, in una disciplina di vita, in una possibilità di respirare. È un interesse della società, è una necessità quella di andare incontro a costoro. Noi abbiamo di fronte lo spettacolo di categorie che per la loro stessa natura, non per propria colpa, non possono redimersi da sé. Guardate a tanti bambini, vecchi, disoccupati, minorati del lavoro o della guerra, gente cioè che ha dato il proprio contributo, che ha ben meritato della società, che ha dato tutto quello che poteva dare, e che ad un certo momento si trova paralizzata. È un dovere nostro venire incontro ad essi con tutte le forze possibili, è dovere di tutti noi sentire questo appello della sofferenza. Ed allora la Costituzione nostra, che è una Costituzione di democratica libertà, cioè anche di liberazione dalla schiavitù della miseria, pone degli articoli che mettono lo Stato, la struttura della Repubblica di fronte a questo mondo che deve essere sollevato. Fra questi articoli ve n’è uno in particolare, l’articolo 34, che la Commissione ha così formulato: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari di vita, ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale».

Questo articolo dice molto, ma io ho pensato di dare ad esso un senso ancora più alto e più generale. Noi ci troviamo di fronte al cittadino, il quale deve provvedere alla propria vita ma, per circostanze che non dipendono dalla sua specifica volontà (quindi non colpevole) questo cittadino, ripeto, o per ragioni di lavoro, o per ragioni di natura, o per ragioni di disposizioni, per disgrazia, per età, per malattia, in un certo momento può trovarsi nella impossibilità di provvedere alla propria vita. Amici, basta dire questo: che il cittadino si trova nella impossibilità di provvedere alla propria vita. Di gente che muore di fame ce n’è, ma a rigore di termini ce n’è poca, una donna, un bambino, un vecchio che sta morendo lo troviamo qualche volta nelle nostre città del meridione, sui gradini della Chiesa. Questi dimenticati della società, che alla società fanno il processo della morte noi li troviamo, ma sono casi rarissimi. La nostra preoccupazione non si deve esaurire al semplice fatto di vivo o non vivo. Abbiamo il dovere altissimo di rimettere l’uomo nella sua dignità di uomo, altrimenti che società andiamo costruendo? Una società di relitti, di pezzi di barca sfasciati che cercano invano di arrivare al porto. Di qui il compito di rimettere questo uomo nella dignità di uomo, farlo ridiventare uomo. Viene il sospetto che talvolta la società tratti le bestie molto meglio dell’uomo. Alcune bestie sono trattate in stalle scientificamente curate, e tenute molto meglio di migliaia di bimbi, uomini, donne che vivono nel letargo e nella miseria. Questa non è una società né saggiamente né umanamente organizzata. Il lasciar morire qualcuno è un delitto simile all’omicidio, l’assomiglia molto, non dico che sia la stessa cosa, ma socialmente parlando è forse la stessa cosa. E io dico, mi si permetta qua dentro, a tante persone che hanno creduto di fare il proprio dovere solo perché una volta, per la strada, a un povero che tende la mano, hanno buttato 5 o 10 lire: questo non è compiere il proprio dovere. Mettere la mano nelle tasche non basta. Non basta, fare questa semplice carità spicciola, bisogna che questo sentimento fraterno prenda la nostra anima. La società che dobbiamo costituire non è una società di elemosina, è una società di corrispondenza di cuori, in modo che il dolore del mio fratello diventi il mio dolore, la miseria del mio fratello diventi la mia miseria, le lacrime del mio fratello diventino le mie lacrime. Bisogna che l’azzurro della mia gioia sia sempre tinto pittorescamente dalla nube del dolore del fratello che mi sta accanto. Invece non si fa che una società, un aggregato di uomini che si odiano e si sopprimono l’uno con l’altro. Credo che se ci fosse nel nostro senso umano della vita questa pena soavissima della pena altrui, cari amici di destra e di sinistra, tanti problemi economici, tante rivoluzioni sociali, sarebbero risolte da una legge che parte dalla profondità della coscienza senza una imposizione di forza. Questa è la nostra legge e speriamo sia non solo problema di costituzione, ma di ricostituzione vitale del nostro popolo e della nostra dignità.

Ecco perché questo grido che sale non deve procurare il senso della disperazione, ma il senso della attenzione. Non deve essere un grido che faccia suscitare ribellione di cuori ma speranza che le menti e le intelligenze finalmente si intendano e il dolore non sia causa di nuovi dolori e di nuove guerre, ma di un fraterno abbraccio che spiani le vie della pace e della ricostruzione. Perciò, con questo concetto, io ho proposto un emendamento molto semplice che rientra nello spirito della Commissione, ma che vuol esprimere questa sensibilità umana e dignitosa.

«Ogni cittadino che non abbia la possibilità di provvedere alla propria esistenza, conforme alla dignità umana, ha diritto ad adeguate forme di assistenza».

Insisto su quella piccola parentesi «conforme alla dignità umana»; è necessario rimettere l’uomo nella dignità, ridargli nella dignità la libertà, e la libertà nell’ordine; ricostruire il pilastro della vita civile. Noi ci troviamo di fronte quindi alla società impegnata come tale, impegnata in tutti gli individui, in ogni persona, in ogni essere umano, impegnata in un’assistenza che parte dal basso; ogni cittadino, ripeto, ha questa responsabilità come uomo, e, se crede in una Fede superiore, anche come cristiano; altrimenti è un cristiano per modo di dire e non è degno di stare sotto questa grande luce e questa grande insegna.

E allora, amici, ognuno collabori a far sorgere il senso della solidarietà umana, della carità, della assistenza da tutte le parti; si moltiplichino le opere, vengano i germi dell’amore, si creino organizzazioni poderose; e allora vedremo assistiti i vecchi, gli orfani, i poveri, gli ammalati, i derelitti, in una complessità così varia, così generale, così intima, così aderente che veramente ci farà dire che l’uomo non è poi tanto cattivo. Quando tante volte sentiamo, anche in quest’Aula e fuori, che l’umanità è cattiva, che gli uomini sono imbestialiti; cari colleghi, non è vero. Noi tutti assistiamo ad una dedizione di carità così generosa che veramente commuove i nostri cuori.

E allora, qual è il dovere che la società organizzata e le autorità si impongono per inquadrare la società tutta nel cammino migliore? Il dovere è quello di aiutare, di favorire, di venire incontro, di guidare, di promuovere. Anche lo Stato organizzerà la sua opera fondamentale di assistenza e previdenza; e dall’altro lato verrà incontro a tutte quelle iniziative sane, corrette, oneste che cercano di raccogliere dalle mani di chi più ha quel bene in eccesso, quel superest che sia dato a coloro che ne abbiano meno.

In questa idea, in questo concetto è redatto anche il secondo comma dell’emendamento: «Lo Stato promuove e favorisce – come sarà pubblicato nella nuova edizione degli emendamenti presentati da me e dalla signora Federici – l’assistenza e la previdenza sociale».

E questo, o amici, è un capitolo che veramente ci deve confortare nella nostra ripresa e nel nostro programma. E che la Costituzione sancisca questo principio mi sembra una norma altissima che ci dà un senso di serenità per il domani, ci dà un senso di luce nuova che deve schiudere le vie ad un’intesa comune fra tutti quanti i fratelli. Altrimenti, se vogliamo bloccare il senso umano della vita in rigide forme di legge, non potremmo far altro che leggi che uccidono lo spirito e non libere sensibilità che avvicinano e fanno insieme palpitare tutti i nostri cuori.

Vorremmo che da questa Assemblea uscisse una risposta all’appello di tanti dolori e di tante lacrime. Vorremmo dire una parola di conforto a tutti questi bimbi scarni e derelitti, a queste mamme che giorno per giorno si logorano per cercare un pezzo di pane, a questi poveri papà disoccupati che ogni sera tornano a casa e ai bimbi che chiedono del pane devono con pietosa bugia dire che questo pane è arrivato, ma in realtà non c’è.

Vorremmo che da questa Assemblea fosse detta una grande parola: la Repubblica italiana nasce sentendo questa responsabilità; è una società più umana e più ampia che si vede aprire il corso dei secoli; siamo in una epoca innovatrice e rinnovata. Le guerre portano con sé tanti dolori, ma sono anche richiami della provvidenza per tutte le classi sociali. E allora invochiamo da questa Assemblea, attraverso la nostra Costituzione, una parola che scenda a confortare e a sollevare tutte le classi, che sia ammonimento a tutti quelli che hanno, di dare liberamente, con generosità e dedizione, conforme a quella legge superiore che impone loro di dare quello che superest. La vita non è accentramento di personalità, ma dedizione del proprio essere alla chiamata dei fratelli. Una società così composta e costituita nelle sue leggi interne ed esterne può sorridere ad un’alba nuova di pace e di libertà. Per questo si leva dai nostri banchi questo sereno sguardo verso il domani, questa sicurezza che l’esempio dato dal popolo italiano serva di insegnamento per il mondo: che i grandi problemi della vita si risolvono per le vie dell’amore e della carità che affratellano i popoli e li incamminano sereni per la via del domani. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Terranova. Ne ha facoltà.

TERRANOVA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, di questo Titolo III che riguarda argomenti di tanto interesse, sarei indotto a dire ampiamente, più forse per esperienza umana, che non per studio approfondito. Ma rischierei di dilungarmi troppo, dopo che tante autorevoli voci si sono fin qui levate per illustrare l’ampia materia. Permettano, quindi, che del Titolo III soffermi la loro attenzione soltanto sull’articolo 34. Il primo comma di tale articolo introduce un principio la cui portata è di grandissimo rilievo. Esso afferma cioè, il diritto per ogni cittadino, inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari alla vita, d’essere mantenuto ed assistito. Ed affermare un diritto significa assumersi l’impegno di renderlo effettivo ed operante. Approvando questo comma, quindi, ci si assume un impegno di una immensa portata. Lo assumiamo noi, che ne prendiamo l’iniziativa e la responsabilità; lo assume lo Stato al quale è demandato l’obbligo ed in gran parte l’onere di sodisfarlo. L’ultimo comma dell’articolo infatti dichiara che all’assistenza, oltre che alla previdenza, provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato. È evidente che con una siffatta affermazione tutta l’assistenza verrebbe statizzata, solo allo Stato incombendo insieme l’onore di predisporla e l’onere della spesa. Di tutte le altre forme di assistenza e di beneficenza non si fa cenno. La dizione dell’ultimo comma non lascia dubbi al riguardo: «istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato». Se si fosse detto che gli organi sono predisposti od integrati dallo Stato, il riferimento ad altri organi ed enti di assistenza, fuori dell’orbita dello Stato, sarebbe stato evidente; si sarebbe supposto cioè l’esistenza di istituti che pur non essendo predisposti dallo Stato, tuttavia fruirebbero dell’aiuto dello Stato medesimo per integrare i fondi necessari alla loro finalità caritativa. È chiaro pertanto l’esplicito intendimento di abolire o, quanto meno, di lasciare fuori di ogni tutela le varie forme di assistenza privata e di beneficenza comunque alimentate da istituzioni non statali. Ora noi, onorevoli colleghi, abbiamo il dovere di chiederci: è utile un siffatto criterio? È giusto?

C’è una questione pratica, concreta, immediatamente tangibile che va esaminata, ed è questa: lo Stato ha i mezzi, ha la possibilità per assumersi un così grande impegno, per garantire l’esecuzione di un’attività assistenziale che abbraccia numerosi settori, che include forme molteplici e che esige una spesa enorme?

Io so che da qualche settore di questa Assemblea mi si obietterà che, in uno Stato socialmente bene ordinato, i mezzi e le possibilità per tali provvidenze devono esserci; e che, d’altronde, in un ordinamento economico diverso dall’attuale, non vi sarà posto che soltanto per un’assistenza specifica determinata da circostanze prevedibili e rapportata a un regime assicurativo sociale e comunque gestito dallo Stato. Io non mi soffermerò ad esaminare se una simile ipotesi sia realizzabile. Rilevo soltanto che il tipo di Stato e di società, in cui quella ipotesi dovrebbe verificarsi, non sono indubbiamente lo Stato italiano e la società italiana quali stiamo costruendo. La Costituzione, che quest’Assemblea sta predisponendo per il popolo italiano uscito dalla duplice catastrofe della dittatura e della guerra, sarà una Costituzione senza dubbio di grande respiro sociale. Ma essa non darà luogo ad uno Stato socialista. Anche se, come è auspicabile, gli articoli 31 e 32 di questo testo costituzionale troveranno piena attuazione, e tutti i cittadini avranno la possibilità di lavorare, traendo dal loro lavoro la remunerazione adeguata ed anche se sarà effettuato un ampio sistema di assicurazioni sociali, che consenta a tutti i lavoratori il giusto e necessario trattamento in caso di bisogno; ebbene, resteranno ancora vastissimi margini di bisogni inappagati; resteranno da assistere numerose categorie di indigenti di ogni età e di ogni condizione. A gran parte di tale assistenza lo Stato potrà direttamente ed indirettamente far fronte con istituzioni e con opere, con iniziative e con provvidenze o già in atto o da attuare successivamente; ma lo Stato non potrà affrontare tutte le forme di assistenza che i diversi bisogni umani determinano. Non lo potrà, perché non ne avrebbe gli organi ed i mezzi; non lo dovrà neppure perché si sostituirebbe a quelle attività assistenziali, che la beneficenza privata svolge con tanto fervore e con così devoto sentimento di solidarietà umana.

Il problema non è nuovo; né io ho la pretesa di esporne qui i termini che costituiscono ampia materia storica e giuridica di polemica e di discussione. Mi basterà appena ricordare che la tendenza accentratrice dello Stato in tema di beneficenza e di assistenza non è recente. Ma finché si tratti di organizzare, disciplinare e controllare le istituzioni di beneficenza sorte dalla volontà e dai mezzi dei privati si può anche riconoscere, entro certi limiti, l’opportunità dell’intervento statale. I malumori che la legge Crispi suscitò in molti ambienti cattolici non sono ancora del tutto dissipati. E certo, la legge Crispi del 1890 sottoponendo a regime di controllo le istituzioni di beneficenza indubbiamente limitò molte di tali istituzioni, ne ostacolò talvolta gli sviluppi, frenò iniziative ed assopì energie benefiche. Tuttavia quella legge ha avuto i suoi aspetti buoni: ha operato un coordinamento degli istituti, ne ha disciplinato l’attività, ne ha consentito il controllo, talvolta ne ha permesso utili integrazioni.

Ma, invece, di fronte all’enunciato dell’articolo 34 del progetto di Costituzione c’è da restare alquanto perplessi. È evidente che, con l’ultimo comma di quest’articolo, non ci sarebbe più nemmeno l’ombra di autonomia per tali istituzioni. La legge Crispi queste istituzioni lasciava in vita, riconoscendole come enti pubblici, o comunque morali. Col presente comma invece questi enti verrebbero assorbiti dallo Stato.

E se questo è che si vuole, lo si dica esplicitamente. Ma volendosi dare allo Stato tutta la responsabilità e tutto l’onere dell’assistenza, noi abbiamo il dovere di dire che si commette un grandissimo errore oltre che una ingiustizia. Lo Stato, almeno da noi in Italia, dove la tradizione della privata beneficenza è gloriosa, se assorbisse le espressioni di questa beneficenza correrebbe il rischio di vedere appassite istituzioni fiorenti ed illustri. Noi infatti dobbiamo considerare il problema non soltanto nei riguardi della beneficenza legale, della beneficenza cioè che è effettuata da istituzioni create dallo Stato, o da istituzioni private, considerate tuttavia pubbliche per i fini che si propongono; ma il problema va specialmente considerato in relazione ad altra forma di beneficenza e quella più generosa, più schietta, che la legge del 1890 non ha, giustamente, disciplinata, perché sarebbe stato assurdo disciplinare.

Quest’altra forma di beneficenza viene designata nei testi col nome di beneficenza ordinaria o facoltativa. Essa comprende migliaia di istituti, di organizzazioni filantropiche, di congregazioni religiose, che svolgono un lavoro assiduo, diffuso, profondo. Decine di migliaia di persone, laiche e religiose, vi prodigano intelligenza, capacità, esperienza, senso umano di abnegazione. Nessuno, penso, crederà che quest’altra forma di beneficenza sia di irrilevante portata. La verità infatti è che essa eguaglia, nella sua portata materiate, l’assistenza legale. Secondo i dati statistici ufficiali di prima della guerra, per la beneficenza legale in Italia si erogava annualmente la somma di un miliardo di lire all’incirca. Ebbene, secondo gli stessi dati, la somma complessiva erogata dai vari enti per la beneficenza privata non era inferiore; taluni, anzi, ritengono che fosse persino superiore. Si tratta, dunque, di un patrimonio cospicuo, vastissimo che non può essere disconosciuto.

Si potrebbe prospettare l’idea di mantenere nell’orbita della beneficenza legale un tale patrimonio, incamerando i beni degli enti che esercitano la beneficenza privata; o, quanto meno, che lo Stato intervenga per incanalarlo nella beneficenza pubblica.

Ma quali sarebbero le conseguenze di una simile eventuale determinazione?

Quei beni, quegli istituti, quei patrimoni, che oggi la beneficenza privata destina al soccorso dei poveri, degli indigenti, degli inabili, degli afflitti, non sono tutti incamerabili e nemmeno disciplinabili. Essi sono il frutto di una spontanea e spesso immediata volontà di bene da parte di coloro che il bene concepiscono come solidarietà nel bisogno; essi sono la espressione di un sentimento che la legge normale non può disciplinare, perché parte dal cuore, parte da quel sovrannaturale impulso degli uomini a ritrovarsi affratellati nell’ora del dolore. Quel sentimento ha un nome e questo nome è carità. Pronunciamola pure questa parola, che molte teorie considerano vecchia e senza più valore; pronunciamola con rispetto, con devozione, con venerazione. La beneficenza legale, la beneficenza organizzata indubbiamente ha una sua grande funzione, sociale da assolvere. Ma la carità assolve due funzioni di pari se non di maggiore importanza.

Da un lato essa va incontro ai poveri, ai derelitti, con occhio più vigile di quanto la beneficenza legale non possa avere, perché penetra nelle case e perfino nei cuori. D’altro lato essa adempie, in chi la compie, ad un grande, sublime dovere: il dovere di rendersi utili agli altri, di unificarsi in comune sorte al prossimo, come diceva Tertulliano, secondo lo spirito del comune Padre.

Questo dovere rende la carità virtù e virtù sovrannaturale; rende la carità non più elemosina ma misericordia e cioè sentimento di pietà e di affratellamento, volontà di dare agli altri, uscendo da sé, dimenticando se stessi. Io non dirò con Pascal che la legge della carità basti a regolare la repubblica cristiana più di tutte le leggi politiche. Non chiederò neppure che nel nuovo testo costituzionale si faccia cenno dalla carità; e sarebbe d’altronde inutile, perché nessuna legge e nessun codice che non stiano nell’anima potrebbero mai sancire un principio, che trascende gli uomini.

Ma poiché dalla carità sono sorte, sorgono e sorgeranno sempre opere di bene, le quali sono concrete manifestazioni di solidarietà, di assistenza, di umana giustizia, è opportuno ed è necessario che tali opere possano liberamente continuare ad esplicare la loro azione caritativa e benefica; è soprattutto indispensabile che esse non vengano direttamente od indirettamente compromesse od annullate. L’assistenza, che nello Stato italiano rinnovato, dovrà venir concessa ai bisognosi, dovrà, dunque, poggiare essenzialmente su tre pilastri: quello della carità privata o, se più piace, della beneficenza facoltativa; quello della beneficenza esercitata da istituzioni sorte da private iniziative e da private iniziative sostenute, ma tuttavia disciplinata, ordinata e controllata dallo Stato; e quello degli enti pubblici.

Alla stregua di questi criteri, la dizione del terzo comma dell’articolo 34 va pertanto modificata. Propongo che tale emendamento sia così redatto: «All’assistenza ed alla previdenza provvedono istituti ed organi predisposti od integrati dallo Stato, il quale, per altro, favorisce le sane iniziative della privata beneficenza».

Mi duole di proporre un’aggiunta ad un testo, che è giudicato già abbastanza lungo. Ma, proprio perché molte cose son dette in questo testo, ritengo che sarebbe ingiusto non far cenno della beneficenza, intesa in tutte le sue espressioni di pietà è di solidarietà umana: un cenno, infine, di carità e di amore, anche come vaticinio di una società migliore in cui cristianamente ci si senta meno nemici e più fratelli; ci si senta più vicini a Dio, perché, come ha detto l’apostolo Giovanni, Dio è carità e chi sta nella carità sta in Dio e Dio in lui. (Applausi al centro e a destra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bosi. Ne ha facoltà.

BOSI. Con l’inizio della discussione sul Titolo III mi pare che sia riconosciuto da tutti gli oratori che entriamo nella parte della Costituzione la più vitale e la più necessaria, almeno attraverso tutti i riconoscimenti dati. Già all’inizio della discussione, nell’indicare quali dovevano essere le caratteristiche della nuova Costituzione, si è riconosciuto che bisognava che anzitutto essa fosse adeguata a quella che è la situazione italiana, in modo da non costituire una sovrapposizione inutile in quella che è la vita sociale ed economica del Paese e che, nello stesso tempo, fossero riconosciute nella Costituzione le necessità vive della nostra vita italiana, in modo da permettere a queste necessità di essere soddisfatte. Sono necessità di trasformazioni della nostra società le quali devono avvenire, perché sono richieste, perché sono pronte: non si tratta di trasformazioni le quali sieno rimaste soltanto nella testa di qualche teorico, di qualche sognatore, ma trasformazioni che sono indicate da tutto il travaglio della nostra vita sociale.

È bene perciò che nella Costituzione, queste trasformazioni necessarie siano riconosciute e sia aperta la strada alla loro realizzazione. Da parte di tutti coloro che hanno partecipato alla discussione, da parte di tutti coloro che oggi in Italia si interessano dei problemi del nostro Paese, nei partiti politici, in tutte le correnti, c’è un riconoscimento fondamentale, che è quello delle aspirazioni e delle necessità dei lavoratori.

Caratteristica essenziale della nostra Costituzione – e del resto non soltanto della nostra – sarà quella di dare un riconoscimento e una possibilità di soddisfazione di queste necessità e, nello stesso tempo, di dare la possibilità di estrinsecarsi democraticamente a quel rinnovamento della nostra società che noi abbiamo effettivamente incominciato contro la forma di società e di Stato che esisteva prima.

È necessario qui non dimenticare che tutte le affermazioni della nostra Costituzione vengono in sostanza a rinnovare le garanzie per gli individui della società italiana e, in modo particolare, per la possibilità di sviluppo della personalità umana, che erano state negate dal regime che ci ha preceduto.

Questa affermazione della personalità umana, che è qualche cosa di complesso, inizia dal riconoscimento di quelli che sono i diritti civili e politici degli italiani, ma deve essere completata, perché questi diritti civili e politici possano essere affermati ed effettivamente sanciti, dalla affermazione di quelli che possiamo chiamare i diritti di possibilità di sviluppo della personalità con la pienezza di possibilità economica.

Non c’è possibilità di sancire determinati diritti, se l’individuo che deve esercitarli non ha di fatto la pienezza delle sue possibilità economiche. Ora, la parte che noi oggi discutiamo è volta soprattutto ad affermare queste possibilità; se noi non lo comprendiamo, se noi cioè, dopo aver negato il regime precedente, attraverso l’affermazione dei diritti politici e civili degli uomini, non lo neghiamo anche togliendo quelle imitazioni che esistevano, durante il regime stesso, all’esercizio dei diritti civili e politici, noi non negheremo mai completamente quel regime.

Questa è una questione fondamentale che dobbiamo affermare; e allora, quando parliamo della tutela dei lavoratori e dei cittadini in generale – ma soprattutto dei lavoratori – noi teniamo conto di quella che è una necessità essenziale della nostra società, quella cioè di porre la grande massa dei cittadini italiani in condizione di esercitare i loro diritti.

Tutto si riassomma in ciò. Noi non possiamo pensare alla Costituzione italiana, la quale viene ad affermare una necessità da tutti riconosciuta, senza che in essa vi sia l’affermazione di questi diritti particolari.

È grave che qualche volta si senta qua dentro negare questi diritti o che, per lo meno, si pensi a difficoltà di ordine materiale per la loro esplicazione. Le difficoltà pratiche si supereranno facilmente se ci sarà questo indirizzo per cui le necessità immediate dei lavoratori in generale siano assicurate dallo Stato, il quale entra anche nella determinazione dell’economia e delle attività necessarie ad assicurarla.

Non è dunque una difficoltà materiale che osta a questo riconoscimento, perché non si tratta soltanto di fare della carità: nei diritti già riconosciuti e che riconosceremo, c’è un’affermazione che ha la sua importanza e che spiega perché noi vediamo che questi diritti possono essere tutelati: il diritto al lavoro, l’intervento dello Stato nell’ordinamento delle attività economiche in modo che queste rispondano alle necessità sociali. È evidentemente su questa strada che noi ci metteremo per assicurare l’altra parte dei diritti, la tutela e l’assistenza dei lavoratori. Sarebbe infatti un assurdo pensare allo Stato il quale tuteli i lavoratori in un ordinamento economico simile a quello vigente. Su questo sono d’accordo con i colleghi che mi hanno preceduto.

Ma noi dobbiamo vedere la Carta costituzionale nel suo complesso, ed allora vediamo anche la possibilità di porre le condizioni per realizzare quelle affermazioni che sono contenute nel Titolo terzo per quanto riguarda i diritti del lavoratore. Ma quando noi parliamo di continuare e di ampliare la trasformazione della nostra vita sociale italiana, dopo aver trasformata e democratizzata la nostra vita, quando affermiamo veramente i diritti di tutti i cittadini e parliamo di una trasformazione economica, mi pare che noi dobbiamo tener conto di una cosa necessaria e cioè che le trasformazioni economiche non vengono fatte soltanto attraverso le leggi: le trasformazioni economiche e sociali avvengono per quelle che sono le forze interne della società. Gli uomini, quando lavorano, producono e trasformano continuamente le condizioni stesse di produzione. E dobbiamo tener conto di un’altra cosa e cioè che se la legge, se la Costituzione, se quelle che sono le regole che influiscono e nello stesso tempo reggono la vita civile non sono tali da permettere le trasformazioni che si hanno già naturalmente nella società, queste trasformazioni si imporranno egualmente e si imporranno attraverso degli urti violenti, attraverso dei conflitti.

Ora io penso che debba essere compito della nostra Costituzione creare le condizioni per cui le trasformazioni avvengano per via democratica, e avvengano senza urti; dobbiamo lasciare cioè aperta la strada per le trasformazioni che sono già in atto e si completeranno nella nostra società. Se la democrazia deve essere vera democrazia, la volontà degli individui, che ad un certo momento si impadronisce di verità che sono create dallo sviluppo della società, deve manifestarsi e per manifestarsi deve trovare le condizioni adatte per la sua realizzazione attraverso quella che è la vita normale della società, attraverso la vita politica, attraverso quindi le regole generali che sono contenute nella Costituzione e che devono permettere queste trasformazioni. Mi pare che nella Costituzione questa strada aperta verso l’avvenire in molti casi sia stata osservata, ed è bene che questo sia, perché altrimenti i problemi sociali che urgono e che tutti quanti riconoscono anche quando li negano, dovrebbero trovare un’altra strada per affermarsi. Credo che nessuno di noi voglia questo e che tutti vogliamo che la trasformazione avvenga per via democratica, per via regolare, nell’ambito della Costituzione e che le stesse variazioni nella Costituzione, se saranno necessarie, possano avvenire per questa strada regolare e democratica.

Ora, in Italia le necessità di trasformazioni sono diverse, ma mi pare che noi non dobbiamo dimenticare che una trasformazione soprattutto è necessaria: quella che deve portare tutta l’Italia ad essere nelle stesse condizioni di capacità produttiva e quindi di elevazione civile e di elevazione morale. Necessità, quindi, di unificare il nostro Paese. Lasciate a me, che non sono meridionale, ricordare che c’è un problema di questo genere in Italia, molto profondo, molto urgente. In Italia noi abbiamo delle diversità di condizioni economiche. Soprattutto nel campo dell’agricoltura, abbiamo dei problemi da risolvere in questo campo che vanno affrontati. Io ho sentito parlare qui, e sentiremo parlarne ancora, del problema della riforma agraria, ed ho sentito porre dei dubbi o delle riserve sulle trasformazioni che sono necessarie in Italia, che tutti quanti riconoscono necessarie, anche coloro che negano la possibilità e la necessità per la Costituzione italiana di intervenire nel campo della proprietà terriera. Anche costoro avvertono che le trasformazioni sono necessarie. Soltanto vorrebbero lasciarle al normale sviluppo che si ha nella società quando le forze economiche agiscono.

Io penso che oggi non sia più il caso di aspettare. Se si parla di riforma agraria in Italia è perché c’è la dimostrazione più che provata che questa trasformazione nel campo agrario non si è prodotta da sé, che oggi c’è un distacco che va accentuandosi, per quanto riguarda le condizioni agricole, fra il nord e il centro-sud dell’Italia. Ora questo ha una sua ragione, ha origini che bisogna andare a toccare e che la Costituzione fa bene ad indicare, indicando nello stesso tempo i mezzi per ovviare a queste difficoltà.

Se in Italia ci troviamo di fronte a questi problemi è per una ragione molto semplice: è che la trasformazione sociale è avvenuta nel nord e non nel sud. Basta studiare la storia d’Italia. Basta vedere oggi le condizioni in cui si vive nell’Italia centro-meridionale, condizioni simili a quelle di 50 o 100 anni fa, per cui c’è effettivamente un ristagno politico e sociale in quelle regioni.

Le cause sono facili ad identificarsi: nell’Italia meridionale noi, onorevoli colleghi, non abbiamo avuto quella evoluzione che c’è stata invece in altre regioni italiane.

Il fatto della terra a disposizione di coloro che posseggono dei capitali, e che sono disposti ad impiegarli nella terra, si è verificato solamente nel Nord. Nell’Italia meridionale questo non lo abbiamo avuto. Nell’Italia meridionale noi siamo ancora oggi nelle condizioni del possesso feudale o quasi. Anche se l’estensione della proprietà, quali che siano oggi i dati del Catasto, può sembrare più o meno diversa, le condizioni sono sempre quelle.

Ora, bisogna prendere misure adatte in modo da mettere l’Italia centrale e meridionale nelle stesse condizioni del Nord. Non si tratta di fare la rivoluzione socialista in questo campo; mi si permetta di dirlo. La Costituzione non vuole farla. Vuole semplicemente ciò che l’articolo chiaramente propone: mettere l’Italia centro-meridionale nelle stesse condizioni del Nord, cioè dare la possibilità all’impresa capitalistica di svilupparsi anche nel Mezzogiorno italiano. Per far questo bisogna che la proprietà, quale si presenta oggi, sia cambiata, e prima di tutto bisogna aprire la strada agli elementi che possono portare la trasformazione. Le condizioni naturali valgono, ma valgono per tutti i Paesi e le regioni. Vi sono anche altrove difficoltà di ordine naturale, ma il fenomeno a cui assistiamo nell’Italia meridionale è che sulla terra non si vede il capitale, il reddito non si reimpiega nella terra, ma va a finire altrove. Manca questa capacità dei proprietari della terra di trasformare le loro aziende, di cambiare quella che è la natura del terreno, la natura della regione. Ora, la limitazione posta alla proprietà c’è, ma la limitazione dovrà servire allo scopo, ed a noi non deve destare preoccupazione il dilemma: che cosa seguirà a questa limitazione della proprietà? Chi saranno i nuovi proprietari? È evidente che il problema si pone e andrà posto, io spero, in senso realistico. Non bisogna avere prevenzioni né per l’una né per l’altra forma di proprietà. È evidente che parlando di media e di piccola proprietà, parlando di piccola proprietà e di cooperativa, non è possibile stabilire a priori quali siano gli ambienti adatti per l’una o per l’altra.

Certo, nell’Italia meridionale, insieme a questa particolare forma di proprietà, c’è anche un particolare ambiente.

Parlare di cooperative nell’Italia meridionale, nel senso inteso nel Nord, è certamente cosa che esce dalla mentalità degli stessi contadini meridionali. Abituati a vivere in un ambiente, dove domina l’egoismo più assoluto, essi non possono avere piena cognizione della cooperazione, cioè della solidarietà, nel senso dell’azione in comune. Quando si istituiscono cooperative nell’Italia meridionale, si assegnano loro le terre e queste vengono spezzettate, evidentemente ciò significa che non si apprezza il lavoro in comune. È già qualche cosa se quei soci comprano collettivamente le sementi e i concimi; è una forma iniziale di solidarietà che si manifesta. Sta in noi aiutarla, ed è bene che qualche articolo della Costituzione parli di aiuto alle cooperative.

Non credo che si debba porre il problema di sostituire le grandi imprese con le cooperative; andremmo fluori della realtà umana. Ci sono gli uomini che creano; è nostro dovere educarli e mettere a loro disposizione i mezzi, perché essi possano comprendere la forza dell’azione in comune. Non possiamo, naturalmente, pretendere che, dall’oggi al domani, con un decreto legge, essi cambino mentalità.

In altre regioni le cooperative potranno sostituire con vantaggio le grandi proprietà attuali. Ma il problema del latifondo va affrontato nel senso realistico: non si può paternalisticamente imporre all’uomo quello che egli non è in grado di comprendere.

Già, oggi, noi creiamo le basi per la trasformazione. Pensiamo che in molte zone la piccola proprietà è oggi, e lo sarà per un certo tempo, la forza fondamentale per questa trasformazione. Abbiamo già prove concrete di quello che possa fare il contadino, quando egli è proprietario della terra. Se noi diamo ai contadini la terra, siamo sicuri che in vastissime zone del nostro Paese si avrà l’elevazione dei lavoratori e la trasformazione delle condizioni della mostra agricoltura. C’è chi ha posto in evidenza il fatto che, nelle zone latifondistiche dell’Italia meridionale, le necessità tecniche sono di importanza fondamentale, tanto da rendere necessario fare prima la bonifica e poi la riforma agraria.

Noi non siamo di questo parere. Sarebbe assurdo proseguire per una strada che si è dimostrata fallace. Infatti, nelle zone latifondistiche i lavori di bonifica iniziati sono finiti nel nulla: strade che vanno alla malora perché nessuno vi passa, case costruite che stanno crollando perché i proprietari non ne usufruiscono, dopo aver riscosso i contributi per la loro costruzione, e non vogliono consegnarle ai lavoratori.

Noi pensiamo che il problema principale ed iniziale sia quello della trasformazione sociale: risolviamo prima il problema sociale della proprietà e poi l’aiuto dello Stato vada a vantaggio dei lavoratori.

Non neghiamo la necessità di trasformazione del latifondo: c’è bisogno di strade, di acquedotti, di case, di una infinità di lavori. Ma questi lavori lo Stato non dovrà farli nell’interesse dei proprietari attuali, ma nell’interesse di quei lavoratori che saranno immessi nella proprietà della terra. Ecco come il problema va risolto. E allora riconosciamo le difficoltà, ma soprattutto questa: che nessuna bonifica, nessuna vera trasformazione avrà valore efficace nel tempo se non servirà ad una classe nuova la quale voglia effettivamente – perché essa è l’artefice della produzione – servirsi della trasformazione e della bonifica. Abbiamo oggi troppi esempi di possidenti della terra che non soltanto non pensano alla bonifica, ma neppure a coltivare con i metodi dettati dai primi passi della tecnica agraria le loro terre. Si pirla di terre pietrose, argillose, deserte, nude.

È vero; ci sono queste situazioni, ma noi vediamo ed abbiamo visto che, là dove si sono impiegati capitali, le terre possono essere trasformate. Invece che cosa si fa? Si fa quella che è un’opera di sabotaggio alla produzione nazionale. Basta andare in questi giorni nella Capitanata per vedere che i campi di grano non sono campi di grano, ma campi di fiori e di mala erba piantata in mezzo al grano, perché questo non si è pulito. Questo è il problema che si pone.

Oggi le classi che detengono la grande proprietà dimostrano di non volersene servire nell’interesse collettivo; dimostrano che vogliono servirsi delle loro proprietà per il loro interesse individuale, e qualche volta per colpire l’interesse collettivo. Questa è la questione che noi dobbiamo porci quando si parlerà nella Costituzione di colpire i monopoli. La grande proprietà è un monopolio che impedisce non soltanto la possibilità di possedere a milioni di lavoratori, ma impedisce la possibilità di svilupparsi a tutta l’economia nazionale.

Andate a parlare di trasformazione, di bonifiche, e vi risponderanno come hanno risposto a noi in qualche caso: «la bonifica è una bella cosa, i vostri piani sono ottimi; ma io nella mia terra faccio quello che mi pare è non voglio sentire parlare di trasformazioni». Di fronte ad una casta di questo genere, dobbiamo riconoscere che l’affermazione della Carta costituzionale, per cui la Repubblica combatterà i monopoli, è una necessità per la società italiana e per lo sviluppo della società futura, perché non possiamo dimenticare che nella Carta costituzionale devono essere inserite le norme di vita sociale di tutto il popolo italiano, norme di vita civile e politica che dovranno mettere il popolo italiano in grado di elevarsi effettivamente; e dobbiamo anche pensare che metà della nostra popolazione vive nelle campagne, e se non c’è aumento della produzione non possiamo alimentare metà del popolo italiano. Non possiamo mandare milioni di contadini a lavorare nelle fabbriche, né mandarli all’estero o farli morire sulle terre che non riescono a coltivare. Dobbiamo pensare allo sviluppo della nostra agricoltura che vorrà dire possibilità di dare pane al popolo italiano. Questo si avrà soltanto con una riforma agraria che tolga alla grande proprietà il monopolio della terra. Quindi bisogna mettere in condizione i lavoratori di potersi rendere padroni della loro vita e rendersi capaci di aiutare assieme agli altri lavoratori, lo sviluppo del nostro Paese. E, guardate, quando si parla di riforma agraria, è bene dirlo, non si pensi soltanto alla limitazione dell’estensione della proprietà. Io penso che in Italia, e specie nell’Italia centro-meridionale, vi sono altri problemi di riforma che vanno risolti, non limitando l’estensione della proprietà, ma modificando i patti che sono una vergogna per il nostro Paese e sono ancora peggiori dei patti medioevali di schiavitù. Bisogna che il lavoratore abbia il frutto effettivo del suo lavoro senza negare alla proprietà la rendita. Quindi riforma agraria vuol dire anche riforma dei patti agrari. Noi dobbiamo fare che in Italia non ci sia più la possibilità che la terra sia veramente, come è stata per il passato, il più proficuo impiego di capitale, perché il lavoratore dell’agricoltura è il lavoratore più sfruttato, che non ha avuto nessuna assicurazione di avere un minimo sociale di vita e di essere trattato come uomo.

Oggi basta andare a vedere nell’Italia meridionale quali sono le condizioni dei lavoratori per accertarsi che questo non è stato fatto.

Vi sono delle parole nell’articolo 41, le quali possono far credere che sia possibile intervenire e limitare la proprietà fondiaria nel suo strapotere e nella sua estensione nei confronti del lavoratore. Se questo non basta e non verrà riconosciuto, sarà presentato un emendamento, perché si riconosca che la tutela dei lavoratori e dei contadini italiani non sarà possibile senza una riforma agraria.

I lavoratori della terra devono essere messi nelle stesse condizioni dei lavoratori delle altre categorie, devono godere il frutto del loro lavoro, devono essere messi in condizioni di avere i benefici che hanno le altre categorie, non devono essere soffocati da patti che sono di schiavitù.

Quindi è bene che nella Costituzione ci sia il riconoscimento di queste necessità di trasformazione della nostra economia, altrimenti noi non costituiremo veramente una repubblica democratica, non condurremo a fondo la lotta contro le condizioni sociali, che ci hanno portato, prima alla perdita delle libertà politiche e poi al disastro.

Nella Costituzione, questo problema deve essere risolto.

Bisogna anche pensare a qualche altra questione per quanto riguarda i lavoratori dell’agricoltura, perché quando noi parliamo della libertà sindacale e della libertà di sciopero, rileviamo che qualcuno ha voluto pensare di limitare queste libertà. Non dobbiamo dimenticare e non dimentichiamo che i lavoratori dall’agricoltura in questo periodo di tempo hanno dimostrato di avere il senso delle loro responsabilità nei confronti della comunità e della economia nazionale. Scioperi su vasta scala non ve ne sono stati. I lavoratori hanno rinunziato a quello che è un diritto generalmente riconosciuto, il diritto di sciopero. Vi sono stati solamente casi sporadici di sciopero dei lavoratori dell’agricoltura, malgrado le condizioni in cui essi vivono.

Ebbene, io penso che bisogna fare un’aggiunta alla Costituzione, perché oggi la lotta sindacale in Italia non si svolge più soltanto sulla base dello sciopero o sulla base delle trattative sindacali, ma ha un’altra base: i lavoratori della terra hanno la responsabilità della produzione, perché se in una fabbrica si impedisce o si ferma il lavoro per una settimana, si può riguadagnare il tempo perduto con il lavoro straordinario o con altri mezzi, mentre invece nell’agricoltura fare lo sciopero per una settimana, in qualche caso – noi lo sappiamo per l’esperienza del passato – vuol dire rovinare il raccolto, impedire i lavori necessari ad ottenere il raccolto. I lavoratori della terra oggi hanno rinunziato a fare lo sciopero; però, quando hanno voluto servirsi di altre armi, di altri mezzi di lotta, per sostenere lo loro ragioni, senza danneggiare la produzione, sono stati colpiti, allora io penso che il diritto di sciopero, che vale per i lavoratori dell’industria e per tutte le altre categorie di lavoratori, che vale in qualche caso per i lavoratori dell’agricoltura, debba essere concretizzato col diritto dei lavoratori dell’agricoltura a servirsi di altri mezzi, tali che assicurino il loro diritto alla giusta ricompensa del lavoro prestato. Noi presenteremo anche su questo argomento un emendamento.

Ad ogni modo, concludendo, io penso che non v’è dubbio sulla necessità di intervenire nel futuro, servendoci di quelli che sono i mezzi che la Costituzione ci deve dare nell’agricoltura italiana. Dove essere uno dei compiti riconosciuti da tutti, perché noi potremo avere la nostra società nazionale prospera economicamente, soltanto quando avremo tolto gli impedimenti che ci sono e avremo contribuito allo sviluppo di quella metà della nostra economia costituita dall’agricoltura italiana. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bruni. Ne ha facoltà.

BRUNI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. «La proprietà privata è riconosciuta e garantita»; la legge avrà cura di «renderla accessibile a tutti»; la legge «aiuta la piccola e la media proprietà…».

Questo è il linguaggio, che tiene il nostro progetto di Costituzione nei riguardi della proprietà, negli articoli 38 e 41.

Su queste affermazioni c’è una osservazione fondamentale da fare: che è riconsacrato, in forma solenne, il pilastro su cui si regge l’attuale ordinamento economico capitalistico; l’istituto della proprietà privata dei mezzi di produzione.

Mancano, in tutte queste formule del Progetto, degli impegni precisi ed inequivocabili diretti a mutare realmente e durevolmente quel tradizionale istituto. Naturalmente una Costituzione non può essere un Codice di leggi o una raccolta di decreti. Ma è anche passato il tempo in cui le Costituzioni venivano considerate come una nuda elencazione di astratti principî etici e filosofici. Nel nostro progetto di Costituzione si resta ancora troppo nell’indeterminato. Naturalmente, della proprietà il progetto sancisce l’essenziale valore sociale; e non c’è dubbio che si facciano intervenire le ragioni del bene comune per regolamentarla ed eventualmente limitarla. Del resto non c’è Carta costituzionale moderna che manchi di cotali affermazioni oramai largamente acquisite alla coscienza dei contemporanei. Bisogna riconoscere che c’è n’è voluto perché anche filosofi e teologi universalmente riconoscessero il carattere essenzialmente sociale della proprietà. Ma anche questa verità mi pare ormai definitivamente acquisita. Nel 1941, in un memorabile documento pontificio, con dizione chiara ed inequivocabile, si fissò il concetto che il diritto originario e primigenio in economia è il diritto che tutti gli uomini posseggono di usare dei beni materiali. E si aggiungeva, di conseguenza, che questo diritto d’uso, questo «comunismo d’uso», come anche s’esprime certa terminologia di scrittori cattolici, domina tutti gli altri diritti in economia: il diritto di proprietà privata, di scambio e commercio e il diritto di intervento dei pubblici poteri nell’ambito dei beni economici. In altre parole, questi diritti sono secondari rispetto all’altro che è principale. In altre parole il diritto di proprietà, chiunque lo detenga, il diritto di scambio e commercio, il diritto che ha lo Stato di intervenire in materia economica, devono essere intesi in essenziale funzione del diritto, il solo veramente originario e primigenio, posseduto da tutti gli uomini di usare dei beni materiali. Questa posizione è importante in quanto supera la tradizionale e tipicamente pagana concezione di sacra ed assoluta reverenza verso il diritto di proprietà privata dei mezzi di produzione. E non è mancato tra filosofi e teologi cattolici chi, una volta acquisito tale concetto (del resto tutt’altro che moderno nella tradizione cristiana) si sia auspicato un ordinamento economico analogo a quello che io, onorevoli colleghi, vi propongo, nelle sue linee generali, coi miei tre articoli sostitutivi. Del resto, mi lusingo che la concezione economica fissata nei miei tre articoli possa essere accettata da tutti coloro che intendono abolire il regime capitalistico. Essa vuol essere un superamento, e non una negazione pura e semplice, di quella economia auspicata da tante altre direzioni e con reiterati richiami, specie da un secolo a questa parte.

Com’è noto, da un secolo a questa parte, specie per merito del movimento socialista, una lotta accanita si è ingaggiata contro il sistema capitalistico. I movimenti socialisti hanno però essenzialmente avuto il torto di combattere la loro santa ribellione a nome di una filosofia che non poteva essere accettata da tutti, a nome di una concezione dell’uomo che mortificava l’uomo in ciò che ha di più alto e di più prezioso, hanno avuto il torto di affidare, sia pure in via provvisoria, l’auspicato riordinamento economico, ad una formula statalista. E così avvenne che tali movimenti non furono in grado di convincere tutte le masse diseredate e finirono per esporre il loro fianco a delle critiche, che furono sfruttate onestamente e disonestamente, ma che in definitiva intralciarono la loro azione.

I cristiano-sociali d’Italia, che io rappresento, in questa Assemblea, hanno dato vita nel 1941 ad un nuovo tipo di socialismo, personalista e comunitario, non legato ad alcuna particolare ideologia, ma solo alla ideologia di tutti, che è costituita dalle regole della morale naturale e dai diritti naturali dell’uomo. E solo perché ebbero coscienza del grado di eroismo che occorreva per attuarlo, intesero fare esplicito appello, con la loro etichetta, ai valori, ai costumi, alle energie del popolo cristiano.

Gli odierni partiti delle grandi masse lavoratrici: democristiani, socialisti e comunisti, non si sono trovati ancora una volta d’accordo in una formula chiaramente decisiva su questo problema.

Eppure, interpreti come dovrebbero essere di queste masse, io dovrei supporre che i tre partiti (che assieme raccolsero circa 17 milioni di voti) avrebbero potuto trovare l’unione sopra un punto: sulla liquidazione del sistema capitalistico. Non l’hanno fatto. Il Progetto parla chiaro.

Né si può dire che un’operazione di tal genere, non fosse nella esigenza delle masse, che dicono di rappresentare. Direi che le masse hanno votato per loro, perché una tale operazione fosse portata a termine.

Non credo di poter essere smentito nell’affermare ciò che affermo. Si obietterà che i tre partiti, uniti nel fine da raggiungere, non si sono poi trovati d’accordo nei mezzi da mettere in opera per conseguirlo. Ma non è avvenuto così. In realtà è mancata questa stessa volontà del fine. Se ci fosse stata, essa doveva anzitutto manifestarsi, per divenire efficace, nel partito più forte. L’iniziativa doveva partire dalla Democrazia Cristiana. La Democrazia Cristiana, forte di 8 milioni di voti, forte di 207 deputati, cui è toccata la ventura della direzione del Governo e di tutte, o quasi, le Commissioni governative; che è riuscita ad imprimere in larga misura le sue direttive a tutto il progetto di Costituzione, la Democrazia Cristiana, dico, com’è che non è anche riuscita ad inaugurare una nuova politica economica, quella politica promessa alle masse in tempo di elezioni, radicalmente anticapitalistica?

Una sola scusa avrebbe la Democrazia Cristiana da addurre a sua giustificazione, ed è che socialisti e comunisti abbiano avuto paura di seguirla in questa sua iniziativa rivoluzionaria che, certo, poteva essere realizzata, volendo, in condizioni di piena legalità, essendo oltre 420 i rappresentanti dichiarati delle masse lavoratrici.

Ma non è qui il caso di perdersi in recriminazioni inutili.

Mi sia tuttavia permesso di osservare che le aspettative della grandissima maggioranza del popolo italiano, in questo suo periodo di dopo fascismo e di dopo guerra, sono andate deluse, proprio in un campo dove erano state concepite le maggiori speranze.

A tali speranze permettetemi di rendere, onorevoli colleghi, un omaggio di principio, altro non potendo fare, con questo mio intervento.

Con i miei tre articoli (sostitutivi degli articoli che vanno dal 38 al 43 del progetto di Costituzione) permettetemi di rendere testimonianza, in campo economico, ai principî di libertà, di eguaglianza, di giustizia e di fratellanza, che il Vangelo di Cristo ha reso particolarmente operanti nel mondo.

Questi articoli vogliono essere i pilastri di un nuovo ordinamento economico, avente un carattere, allo stesso tempo, personalista e comunitario.

La concezione economica dei cristiano-sociali ubbidisce ad un motivo fondamentale, ch’essi ritrovano anche nel Discorso della Montagna.

Essa è veramente l’economia dei «poveri in spirito», educativa del «distacco».

I cristiano-sociali sanno che, per vivere una vita ad altezza di uomo, non giova essere «ricco», cioè, possedere il superfluo; e non giova essere «misero», cioè mancare del necessario. Giova essere «poveri».

Solo la condizione del «povero», cioè di colui che si trova in una condizione di mediocrità economica, può facilitare l’esercizio della tanto necessaria virtù del «distacco».

Si tratta di separarsi dal «superfluo», e non limitarsi, nella ricchezza, a sospirare il «distacco».

In via ordinaria occorre essere poveri per poter divenire «poveri in spirito», vale a dire, per potersi arricchire di umanità.

Non si pone la questione di «negare» l’enorme valore che, per la vita dell’uomo, hanno i fattori economici.

È questione di attrarre questi beni nell’orbita dello spirito. Non è questione d’instaurare il «monopolio», ma il «primato» dello spirituale.

La sociologia dei cristiano-sociali è diretta ad eliminare la ricchezza privata, come anche ad eliminare la miseria.

Non è nemica della ricchezza e del fasto in se stessi, e perciò li riserva alla comunità e agli usi e alle manifestazioni comunitarie; ai privati riserva una condizione di mediocrità economica, come la più adatta all’esercizio della virtù.

Ecco in qual senso la sociologia dei cristiano-sociali vuol essere educativa del distacco.

Intende, perciò, legare le cose all’individuo il meno possibile, perché l’uomo possa meglio emergere dalle cose, e meglio servire il suo trascendente destino.

Ed ecco perché questa sociologia cerca di rompere il legame più pericoloso che l’uomo è tentato di stringere con le cose: quel legame che vorrebbe quasi imprigionarlo alla radice di esse: ai mezzi e agli strumenti stessi della produzione.

Vuole sganciarlo dall’ossessione di questo tipo di possesso, e non gli dice: sei «padrone»; ma gli dice: sei «amministratore», procuratore e dispensatore di beni; oppure: non possiederai da solo, ma assieme ad altri, a molti altri, perché ti possa essere più facilmente presente che il tuo possesso è un servizio e che il tuo destino non vale tutto il mondo delle cose sensibili. La natura umana è così fatta che non conviene tentare l’individuo, collegarlo alle cose con una formula troppo stretta come quella rappresentata dal diritto di proprietà privata dei mezzi di produzione.

Il mio primo articolo sostitutivo è stato concepito con questa preoccupazione e dice: «Il diritto di proprietà dei mezzi di produzione è esclusivamente esercitato dalla comunità nazionale attraverso le sue strutture di democrazia decentrata e qualificata, e subordinatamente agli interessi della comunità internazionale. Lo Stato e gli altri enti pubblici rientrano in questo esercizio limitatamente alla loro funzione di difesa e di coordinamento del bene comune». In questo ordinamento della proprietà la maggiore attenzione deve essere posta perché esso non naufraghi (e sottolineo questa parola) nel collettivismo di Stato. A tale scopo il secondo comma del mio articolo limita l’intervento dello Stato e degli altri enti pubblici esplicitamente alla loro «funzione di difesa e di coordinamento del bene comune», che è la loro specifica funzione, la sola legittima in tutti i campi sociali. Dunque non si tratta, repetita iuvant, di sostituire all’attuale sistema capitalistico un sistema collettivistico in cui la proprietà dei mezzi di produzione e la gestione dei mezzi economici è affidata direttamente e integralmente allo Stato. Non si vuole sostituire una servitù – quella del capitale privato – ad un’altra servitù: quella del capitale di Stato. L’ordinamento personalista e comunitario dell’economia non potrà servire i fini umani che intende servire – la dignità e la libertà della persona – se non nel clima e nella struttura di un regime politico di democrazia decentrata, diretta, qualificata, integrata.

È in questo clima, ed è soltanto in questo clima, ed in tali strutture, che va inserito l’ordinamento economico tratteggiato nei miei articoli sostitutivi. Al di fuori di tali strutture, verso le quali pare che, del resto, vada la nostra Costituzione, questo ordinamento economico non potrebbe raggiungere il suo scopo. Esso viene dalla democrazia più autentica, ed è la democrazia più autentica e concreta, tanto diversa dalla forma demoliberale, accentratrice e parlamentaristica – ancien regime – da cui dobbiamo ancora liberarci. Il regolamento del diritto di proprietà, delineato nei miei articoli, è inteso a fare tutti dei proprietari nell’unico modo possibile: facendo tutti comproprietari, e cioè, solidali nella proprietà.

Capitale e lavoro nelle stesse mani: ecco un altro «slogan» molto corrente. Ebbene, ditemi se esiste un altro modo di realizzare tale principio, giusto in se stesso, al di fuori del regolamento comunitario. Per la reale e concreta salvaguardia della libertà e dignità dell’uomo – che è sociale per natura – la proprietà dei mezzi di produzione deve divenire comunitaria, e deve rimanere individuale la sola proprietà dei beni d’uso. Nel mio articolo sostitutivo non manca la consacrazione del concetto che, anche in materia economica, l’autorità della comunità nazionale non è assoluta, e che un dovere di coordinamento e di subordinazione la lega alla sorte delle altre comunità, nazionali e statuali. Il che è perfettamente conforme all’articolo 6, già votato, della nostra Costituzione.

Tutta la ricchezza della nazione italiana qualunque ne sia il proprietario, dev’essere intesa in essenziale funzione di uso per tutta la famiglia umana. È un principio che non deve mancare nella nostra Carta.

Somma attenzione dev’essere posta al «diritto di gestione» ch’è intimamente legato, benché distinto, al diritto di proprietà dei mezzi di produzione.

Il diritto di gestione di una determinata azienda spetta, innanzi tutto, ai lavoratori di quell’azienda. Ma anche qui deve intervenire il principio comunitario. A seconda dei settori economici sono chiamati a concorrervi le diverse rappresentanze ed organismi politici, economici, sindacali, tenuto conto della loro specifica competenza.

Determinare ciò dovrà essere frutto di amorosa elaborazione da parte del futuro legislatore. Si tratta di costruire tutto un nuovo edificio, dove non può agire esclusivamente il principio della democrazia formale e puramente numerica e quantitativa, ma bensì questo principio armonizzato con quello della democrazia concreta e qualificata, dove i valori morali e tecnici dei singoli possano avere il loro giusto riconoscimento, ed essere messi al servizio del bene comune.

L’articolo sostitutivo, relativo alle gestioni, suona così:

«I lavoratori di un determinato ciclo produttivo acquistano il diritto a gestire la loro azienda. A seconda dei settori economici, esso viene esercitato col concorso, più o meno diritto, dello Stato, delle regioni, dei municipi, dei sindacati, o di altri enti più direttamente interessati.

Nell’ambito del bene comune, le piccole gestioni di tipo individuale e familiare, potranno avere carattere vitalizio con diritto di successione».

In un ordinamento economico ciò che non deve assolutamente mancare è l’assicurazione che tutti i cittadini, che in un modo qualsiasi si rendano utili alla società, possano usufruire dei beni materiali. In altre parole, noi non possiamo alienare nessuno dalla «proprietà d’uso». Solo questo tipo di proprietà privata è veramente sacro ed inalienabile, perché soltanto esso è legato strettamente alla libertà e dignità dell’uomo, e al suo diritto alla vita.

Alla salvaguardia di questo diritto provvede il terzo ed ultimo articolo sostitutivo, da me proposto, che dice:

«La proprietà dei beni d’uso è assicurata dalla Repubblica a tutti i lavoratori, proporzionatamente alla quantità e qualità del lavoro di ciascuno, e con riguardo delle persone a carico».

Prima di chiudere, mi sia permesso, onorevoli colleghi, fare alcune precisazioni. Da quanto ho detto, sia chiaro che i cristiano-sociali non sono interclassisti; il loro ordinamento economico non importa una forma qualsiasi di associazione tra capitalisti e lavoratori. Non è una forma di collaborazione di classe che essi propugnano. Nel loro ordinamento i soli soggetti di economia sono i lavoratori. È una società di lavoratori che essi propugnano, dove non ci sia più posto per il «mio» e per il «tuo», se non nel campo dei beni d’uso; e dove ci sia soltanto il «nostro», nel campo dei mezzi della produzione.

La formula del capitalismo privato è producente di pochi proprietari e di molti proletari. La formula del socialismo di Stato non sposta quella capitalistica, in quanto, in concreto, anch’essa è producente di pochi proprietari, impersonati nel capo del partito unico, nella direzione del partito unico, e nei funzionari dello Stato, e l’immensa folla dei proletari, dei nullatenenti, e dei nullavalenti politicamente.

La formula dei cristiano-sociali (formula ad un tempo personalista e comunitaria) è la sola veramente rivoluzionaria dell’attuale regime capitalistico di economia classista, in quanto è la sola che è innovatrice di una situazione umana.

PRESIDENTE. Non essendo presenti gli onorevoli Crispo e Molè, decadono dall’iscrizione.

È iscritto a parlare l’onorevole Villani. Ne ha facoltà.

VILLANI. Non ritengo di dover fare un discorso. Mi limiterò ad una brevissima dichiarazione. Nessuno dei Titoli del progetto di Costituzione si presta come questo a lunghe dissertazioni interessanti, anche, ma in ogni caso tali da poter ritardare le conclusioni a cui noi vogliamo giungere. Ora, poiché non abbiamo affatto l’intenzione di fare opera ostruzionistica in questa discussione, intendiamo dare la più chiara dimostrazione che, quando l’altro giorno difendevamo i principî ai quali ci siamo richiamati come un diritto essenziale di questa Assemblea, non avevamo l’intenzione di sabotare la discussione.

Pur avendo diritto di parlare e avendo anche non poche considerazioni da aggiungere a quelle lucide e interessanti dell’amico onorevole Cairo, rinunzio a partecipare alla discussione generale, riservandomi di intervenire in sede di emendamenti.

PRESIDENTE. É iscritto a parlare l’onorevole Murgia. Ne ha facoltà.

MURGIA. Onorevoli colleghi, su questo titolo limiterò la mia discussione al problema dello sciopero; problema grave per la cui soluzione si esige il maggiore coraggio da parte dell’Assemblea. Il popolo italiano attende in questo momento che si dia una soluzione al problema; una soluzione che concilii le esigenze della giustizia con la necessaria autorità dello Stato. Io trovo il problema dello sciopero strettamente connesso al problema dello Stato e alla ragione stessa di essere dello Stato. Che cosa è infatti lo Stato? Quale è il suo fine? Lo Stato è un insieme di enti, di organi attraverso cui esplica la sua attività, attività che ha il fine di fornire la società di determinati servizi che vanno da quelli immediati, imprescindibili della vita fisica a quelli superiori della istruzione, della sicurezza e della giustizia. Ma cotesta attività, a sua volta, è esplicata da un determinato numero di persone, numero relativamente piccolo, in una nazione come la nostra, dove poche centinaia di migliaia di persone sono al servizio di 45 milioni di cittadini. È chiaro che ove la loro attività si arresti, si arresta la vita stessa dello Stato. Per un momento cioè lo Stato scompare e riappare la umanità in cui la società organizzata non esisteva appunto perché non esisteva lo Stato.

Lo Stato ha, perciò, due doveri fondamentali: uno verso la società alla quale in nessun momento, mai, deve fare mancare i servizi indispensabili alla sua vita; l’altro verso il personale preposto alla sua attività; dovere che si concreta nell’assicurare a tale personale un adeguato trattamento economico. Ma accade talvolta ai dipendenti dello Stato quel che più spesso accade ai dipendenti delle imprese private: sorgono controversie per le mutate condizioni di vita, si chiedono aumenti di stipendi o di salari. E se lo Stato o le imprese resistono, eccoci alla vertenza. Come risolverla? In un modo solo: con giustizia!

Ma è qui che il problema diventa drammatico perché esso si identifica in un conflitto fra la Giustizia e la Forza per il mezzo di risoluzione adoperato: lo sciopero.

Vediamo ora quale è il fine dello sciopero. Dovrebbe essere la rivendicazione di un diritto economico, un mezzo per ottenere giustizia. Ma se questo è il solo e vero fine – e non dovrebbe esservene un altro – noi diciamo: se fosse possibile trovare un altro mezzo diverso dallo sciopero che procurasse giustizia senza i danni dello sciopero, è logico che noi cotesto mezzo dovremmo preferire. Quali obiezioni infatti si potrebbero ragionevolmente muovere? Non c’è altra alternativa: o affermare che non si ha fiducia in nessun altro mezzo all’infuori dello sciopero, o confessare che i fini che si perseguono con esso sono anche di altra natura.

Ma poiché è ovvio che non si confesseranno mai cotesti altri fini, si affermerà che non si ha fiducia in alcun organo di giustizia della società. Senonché è troppo evidente la non serietà di cotesta affermazione. Sarebbe seria infatti solo se si pretendesse che il collegio dei giudici di tale organo, fosse costituito da datori di lavoro o comunque appartenenti a categorie interessate. Ma poiché questo non è, come si potrebbe sostenere con serietà che nel nostro Paese che, fra l’altro, è il più povero di capitalisti e di ricchi – in quanto ben pochi possono vivere senza lavorare o senza integrare col lavoro altri redditi naturali – non sarebbe possibile costituire un collegio di galantuomini, di uomini d’onore, capaci di rendere un equo giudizio? Non sarebbe questo un insulto, all’onore di tutto un popolo e ai suoi magistrati che hanno una tradizione di gloriosa probità? Se adunque cotesta possibilità c’è, la logica impone che la risoluzione delle vertenze sindacali debba essere sottratta all’arbitrio delle parti e non debba avvenire altrimenti che attraverso un organo di giustizia, da creare appositamente, vietando i mezzi di reciproca offesa e difesa così dannosi economicamente e così antigiuridici quali sono lo sciopero e la serrata, che devono essere cancellati dal progetto di Costituzione.

Eppure, nonostante quanto ho detto, per quanto sembri strano, oggi l’articolo 36, se non si creasse un organo di giustizia sindacale non potrebbe essere cancellato o quanto meno la sua cancellazione non sarebbe pienamente, per tutti i casi, giustificata. Oggi lo sciopero appare legittimo; ma perché? Per due ragioni: primo, perché non esiste una legge positiva che lo vieti, secondo, per una ragione più sostanziale e cioè perché non esiste nella nostra società un organo di giustizia statale per la risoluzione delle vertenze sindacali. Avviene perciò che i lavoratori si trovino, per questo aspetto, nelle condizioni in cui si trovavano gli individui per la risoluzione delle loro vertenze private quando non esisteva ancora lo Stato, quando non esistevano i tribunali, per cui erano costretti a farsi giustizia da sé. Si può dire che la ragione più forte che ha determinato la creazione dello Stato è stata senza dubbio la esigenza di far cessare la giustizia privata, causa di tanto danno e di tanto dolore alla prima umanità!

Ma oggi può lo Stato, di fronte a vertenze che investono interessi di centinaia di migliaia di lavoratori, incrociare le braccia e assistere impassibile a queste immense rivolte che sommuovono da cima a fondo la sua stessa vita? Io dico di no. Lo Stato che è stato costretto, per mantenere la pace, a istituire organi di giustizia per le vertenze individuali private e persino per le vertenze fra gli impiegati e la pubblica Amministrazione, a maggior ragione deve creare un organo di giustizia che sia alto sopra l’interesse delle parti per la risoluzione delle vertenze collettive.

La missione suprema dello Stato secondo Platone è la giustizia; la giustizia intesa come armonia la quale nei rapporti sociali consiste nel componimento dei contrasti che sorgono dal seno stesso della vita la quale nel suo divenire non è altro che perpetuo contrasto, perpetuo componimento di essi e perpetuo rinascente contrasto verso forme di vita sempre più alte. E questa è anche oggi la missione ideale e sarà sempre la missione eterna dello Stato. Ove da essa si devii, si devia dalla grande luminosa strada maestra; se si contende allo Stato il diritto che esso solo, sovranamente, ha di rendere giustizia e tale diritto, si arroghino i cittadini od altri enti che rappresentino organizzazioni collettive, si intacca il principio che impera su tutto il diritto: cioè che è vietato a tutti farsi ragione da sé. E lo sciopero, che cosa è? Forse un organo di giustizia! È un mezzo di farsi ragione da sé come lo è la serrata che ugualmente condanno. (Rumori).

Una voce a sinistra. Vada a parlare così nelle fabbriche.

MURGIA. Nelle fabbriche andate voi a parlare per mettere concordia!

Una voce a sinistra. Demagoghi in piazza e qui reazionari.

MURGIA. Lei non ha nemmeno il senso della dignità di quest’aula… (Rumori). I demagoghi siete voi e da comizio rionale per giunta. (Rumori).

PRESIDENTE. Onorevole Murgia, non esprima giudizi sui suoi colleghi.

MURGIA. È l’interruttore che deve avere il massimo rispetto per l’oratore che parla.

PRESIDENTE. Hanno interrotto, ma non hanno adoperato fino a questo momento espressioni offensive. Si sono limitati…

Una voce a destra. Si sono limitati a chiamarlo reazionario. Cosa volete di più?

PRESIDENTE. Si sono limitati a far presente al collega che parla che egli non conosceva l’ambiente di fabbrica. Questa è l’osservazione che io ho udito, e che tutti hanno udito.

MICHELI. Non è stato così, signor Presidente. Io ero vicino, e posso affermare che è stata un’altra l’intonazione che ha dato il collega che ha interrotto.

PRESIDENTE. La risposta è stata esagerata. Il richiamarsi alla mancanza di dignità di tutto un settore di questa Assemblea mi pare sia stata una ritorsione esagerata.

MICHELI. Effettivamente aveva detto dell’altro.

PRESIDENTE. Onorevole Murgia, riprenda il suo discorso.

MURGIA. Dopo quanto ho detto, quale deve essere dunque la decisione della nostra Assemblea sull’articolo 36? In esso il diritto di sciopero è affermato in tutta la sua assolutezza; comprende cioè non solo il diritto di sciopero dei lavoratori delle imprese private, ma anche quello dei pubblici impiegati, dei servizi pubblici, di pubblica utilità e persino lo sciopero generale politico. Fermiamo un momento la nostra attenzione sulla portata di tale articolo.

Cominciamo dallo sciopero degli statali. Ammettere che è lecito il diritto di sciopero da parte degli statali e addetti ai servizi pubblici significa ammettere che è lecito da parte di mezzo milione di persone privare una Nazione di 45 milioni di cittadini dei beni indispensabili alla sua vita a cominciare dall’acqua che beviamo – pensate a uno sciopero dei fontanieri – della luce – pensate a uno sciopero degli elettricisti – della difesa e incolumità individuale dei cittadini e della tutela, dei loro diritti – pensate a uno sciopero degli agenti della forza pubblica e dei funzionari della giustizia e tanti altri addetti – a indispensabili servizi – sarebbe insomma il caos e la fine dello Stato. (Interruzioni a sinistra – Commenti).

Quindi non so se vi possa essere una persona che sostenga con serietà che da parte del personale dello Stato e di altri servizi pubblici si possa, per un momento solo, pensare a una follia criminale di quel genere (Rumori vivissimi a sinistra) come si possa privare la collettività di servizi che debbono esserle costantemente assicurati: diversamente è la fine dello Stato.

Assurdo quindi e come tale inammissibile lo sciopero degli statali.

E lo sciopero politico? È ovvio, esso è ancora più assurdo, più dannoso, senza ombra di giustificazione per difesa di diritti di classe, più dannoso perché comprende non solo gli statali, ma tutti indistintamente i lavoratori statali e non statali. Non ho fatto una affermazione gratuita interpretando così l’articolo 36 come comprensivo anche dello sciopero politico. Non prevedevo che avrei dovuto parlare questa sera perché il mio nome era il 22° della lista degli inscritti a parlare e non ho qua, perciò, né appunti né la relazione dell’onorevole Di Vittorio circa lo sciopero, relazione dove si afferma la legittimità dello sciopero politico. Qui è dunque non solo svelato, ma affermato nel modo più crudo il motivo di quel dubbio che esprimevo all’inizio della mia discussione e cioè che lo sciopero non viene usato come solo mezzo per risolvere e difendere interessi di categoria, ma come mezzo di forza per risolvere con la forza vertenze anche di altra natura. (Rumori vivissimi).

Quindi se questo sciopero dovesse essere dichiarato legittimo ciò significherebbe che è legittimo da parte anche dei più indispensabili dipendenti statali non solo interrompere la funzione dello Stato, ma privare lo Stato dei mezzi più diretti della sua difesa. Immaginate uno sciopero degli agenti della forza pubblica – che pure sono compresi fra gli statali – ed immaginate che vengano attaccati i poteri dello Stato. Chi li difenderà? Quei mezzi non verrebbero adoperati a difesa dello Stato ma per abbattere lo Stato (Rumori vivissimi – Interruzioni all’estrema sinistra).

PRESIDENTE. Onorevole Murgia, prosegua il suo discorso. Il suo compito non è di rispondere ad ogni interruzione. L’interruzione può recare disturbo, ma non costituisce un impegno a rispondere. A quanto pare, l’onorevole Murgia ritiene che ogni obiezione debba ricevere la sua risposta, tanto è vero che quando non riesce a cogliere il significato delle interruzioni, si ferma e chiede che gli si ripeta. Mi pare che questo sia un modo di svolgimento dei suoi concetti che non ne facilita la comprensione, ed è per questo che le consiglierei, onorevole Murgia, quando non riesce a cogliere le interruzioni, di proseguire nel suo discorso. È implicito che le interruzioni in genere devono essere evitate. Ma a questo proposito mi pare che nessun settore dell’Assemblea abbia il diritto di fare rimproveri speciali ad altri.

MURGIA. Continuando, io vorrei, se il tempo me lo consentisse, fermarmi ancora su questo importantissimo punto per dimostrare che anche lo Stato ultramoderno – quale è definito lo Stato sovietico – condannava, e condanna lo sciopero; sciopero che fino al 1927 era punito con la morte! (Vivissime interruzioni a sinistra). E se voi, dell’estrema sinistra, doveste conquistare il potere, voi per primi abolireste il cosidetto diritto di sciopero! (Interruzioni a sinistra – Approvazioni a destra).

Sì, onorevoli colleghi, non credo, perché mi sembra troppo ovvio, di dover illustrare ulteriormente questi concetti. Le forze che sono preposte all’ordine della società devono essere costantemente poste sotto la diretta ed esclusiva autorità dello Stato, del Capo dello Stato, del Capo del Governo e di tutte le altre autorità e non già della Confederazione generale del lavoro. Diversamente è la fine inevitabile dell’ordine e il caos in un Nazione civile. (Interruzioni a sinistra).

Detto questo che cosa dunque sostituire allo sciopero e alla serrata? Per tutte le vertenze come ho detto prima, la soluzione logica, razionale, dovrebbe essere la creazione d’un organo di giustizia statale. È questo, allo stato attuale, possibile, per tutti i lavoratori? Per ragioni contingenti, in questo momento, per tutti, no. Ma deve essere istituito per tutti gli statali e per gli addetti ai servizi pubblici. In ogni caso, in via subordinata, deve essere istituito quanto meno un arbitrato obbligatorio le cui decisioni siano vincolatrici per le parti. Ad esso devono essere sottoposte – essendo vietato lo sciopero – le loro vertenze. Ma quali devono essere accolte? Tutte le richieste o solo quelle giuste? È ovvio, solo quelle giuste. E il giudice? Il giudice non può essere né la parte interessata, né i datori di lavoro, né i lavoratori, né i loro rappresentanti, che sono costituiti dagli organi sindacali. La giustizia, da quando esiste il mondo, è concepita come qualche cosa che trascende gli interessi e i contrasti delle parti e li compone ed è augusta e rispettabile perché pura di interessi e di frodi.

Per questo noi postuliamo, in questo momento in cui lo Stato è sbattuto dai flutti di continui scioperi che rendono impossibile la vita e ci procurano il disprezzo o per lo meno la diffidenza dello straniero (Interruzioni vivissime a sinistra), che ci nega i mezzi per la nostra indispensabile ripresa (Interruzioni a sinistra), la creazione di una Costituzione sulle cui basi lo Stato sia stabile e saldo. Diversamente la Costituzione non sarà longeva, sarà una Costituzione che avrà i giorni contati, i giorni che saranno decretati dalla Confederazione generale del lavoro la quale potrà stabilire a suo senno la data in cui questo Stato deve essere spazzato. (Vivi applausi a destra e al centro – Interruzioni e commenti a sinistra).

GIANNINI. Non si può nemmeno applaudire? Imparate qualche cosa! (Accenna a sinistra).

MURGIA. Fermo restando quanto ho detto circa lo sciopero degli statali e il modo di risolvere legalmente le loro vertenze, vediamo quale atteggiamento debba tenere lo Stato nei confronti dei lavoratori non addetti ai servizi pubblici. È ammessa l’astensione pura e semplice dal lavoro? Io dico che questo è il diritto primo ed eterno dell’uomo che lo porta dalla nascita, è coevo della sua esistenza; ma nello sciopero noi distinguiamo due momenti; uno iniziale, pacifico che dura finché durano i mezzi economici per sostenere cotesta astensione, mezzi modesti, necessariamente modesti per un lavoratore esauriti i quali si ha l’alternativa inesorabile: o arrendersi e riprendere il lavoro, o l’insurrezione violenta. Triste alternativa perché qualche volta ciò significa arrendersi alla ingiustizia, ma, non essendovi un organo di giustizia, non c’è via di scampo. E allora dicevo, quale deve essere l’atteggiamento, dello Stato? Deve reprimere la violenza o lasciare che essa faccia le sue vittime? Quale è il compito essenziale, naturale dello Stato? È il mantenimento della pace sociale; diversamente esso perde il diritto e la ragione di essere. Ma come, con che mezzi interverrà lo Stato?

Finché si tratta di una infrazione ad una legge civile o penale da parte dell’individuo singolo o di un piccolo gruppo di individui, esso ha la forza di dominare e signoreggiare la situazione; ma di fronte a uno sciopero gigantesco che mobiliti centinaia di migliaia o milioni di lavoratori, lo Stato, di fronte alla violenza ha indubbiamente il diritto, anzi il dovere di reprimerla, ma ha la forza per farlo? Questo è il punto. La forza, signori, lo Stato non l’ha. Quindi come vi sono nella scienza del diritto penale quelli che si chiamano i reati di pericolo, qui vi è una ipotesi anche più grave; lo Stato deve essere lungimirante e, su questa materia non occorre esserlo troppo per ipotizzare una situazione del genere. Lo Stato, in previsione di questo fatto, deve premunirsi dalla violenza e renderne il verificarsi impossibile. Se manca a cotesto dovere, manca al principale dovere verso la società che lo ha espresso e che da essa è concettualmente distinto. Lo Stato deve fare giustizia per i lavoratori? Sì – questa è una esigenza suprema ed inderogabile perché risponde al bisogno più profondo dello spirito umano – ma per sodisfarla deve creare un organo di giustizia, è indispensabile ed inevitabile che questo crei: chiamatelo arbitrato o tribunale del lavoro…

Una voce a sinistra. Tribunale speciale. (Rumori).

MURGIA. Quella è una specialità vostra. (Rumori vivissimi).

GIANNINI. Tribunale del lavoro, non tribunale speciale.

MURGIA. È difficile continuare con questi rumori. Noi qui discutiamo dello sciopero da un punto di vista razionale, non politico per quanto con la politica esso sia strettamente connesso.

È necessario, affinché la Costituzione possa avere una base salda, che sia rimossa questa mina formidabile che è insediata nella Costituzione come il suo nemico e che è costituita dallo sciopero che potrebbe far saltare lo Stato.

Onorevoli colleghi, avviandomi alla conclusione, non è possibile immaginare né al presente, né nel futuro una convivenza pacifica ed ordinata, se non rimuoviamo questo ostacolo fondamentale. Unitamente al collega ed amico onorevole Belotti, abbiamo formulato un emendamento che, se contiene il divieto assoluto di sciopero degli statali, addetti ai servizi pubblici e sciopero generale politico imponendo la risoluzione delle vertenza con arbitrato obbligatorio, per gli altri lavoratori subordina lo sciopero alla sua approvazione a maggioranza di due terzi da parte dei votanti e con sistema di votazione libera e segreta (Rumori a sinistra); esigenza questa che è legittimata dal fatto che non solo in questo modo s’interpreta genuinamente la volontà dei lavoratori inscritti al sindacato, ma anche dal fatto che gli inscritti rappresentano sì e no il quarto dei lavoratori d’Italia.

Quindi, poiché lo sciopero ha forza praticamente vincolatrice ed obbligatoria anche nei confronti degli altri tre quarti degli inscritti, è necessario che da parte dei votanti vi sia una maggioranza dell’ampiezza predetta. Così, in questo modo, non si viene a disconoscere con l’emendamento il principio dello sciopero, che in linea di massima io non ammetto – parlo a nome mio personale e non del gruppo cui appartengo – nemmeno per i lavoratori delle aziende private, ma al quale accedo come ripiego; sì, solo come ripiego perché uno sciopero deciso anche a maggioranza dei due terzi dimostra solo che è voluto da tale maggioranza, ma non dimostra con ciò necessariamente che sia giusto. La giustizia è un’altra cosa. Ragioni di prudenza, però, in questo momento di esasperazione resa più acuta dal moltiplicarsi delle difficoltà, consigliano che non si arrivi a un divieto assoluto di sciopero per tutti, perché ciò potrebbe destare una troppo ampia rivolta e anche perché, oltre che per le predette ragioni, non si vuole, da parte di certi settori, andare contro le aspirazioni buone o non buone di una classe che deve dare il voto domani.

Quindi limitatamente a questa categoria di lavoratori è opportuno onorevoli colleghi che voi accogliate la proposta contenuta nell’emendamento che, mentre non intacca il principio dello sciopero porta un contributo alla necessaria armonia e concordia sociale, indispensabile per la nostra rinascita, ed evita quei potenti contrasti che potrebbero mettere in forse la vita dello Stato. (Vivi applausi al centro e a destra).

Presentazione di un disegno di legge.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Ho l’onore di presentare il disegno di legge concernente norme per l’istituzione dell’Opera di valorizzazione della Sila.

PRESIDENTE. Do atto all’onorevole Ministro dell’agricoltura e delle foreste della presentazione di questo disegno di legge. Sarà trasmesso alla Commissione competente.

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione sul progetto di Costituzione. Non essendo presente l’onorevole Castelli Edgardo, decade dall’iscrizione.

È iscritto a parlare l’onorevole Tega. Ne ha facoltà.

TEGA. Onorevoli colleghi, consentite ad un vecchio organizzatore di lavoratori agricoli di esprimere il suo parere sull’articolo 35 di questa Costituzione nel Titolo che più particolarmente riguarda i diritti e la partecipazione della classe operaia alla gestione della società. In merito agli altri articoli dello stesso Titolo nulla avrei da eccepire, anzi sono particolarmente grato all’illustre Presidente e all’intera Commissione dei Settantacinque per i principî che hanno affermati e consacrati nel loro Progetto e per le parole veramente degne con cui nella relazione hanno rafforzato questi principî. Quando si dice che «non si protegge» il lavoro che è forza essenziale della società, per me socialista questa dichiarazione ha un valore fondamentale, in quanto fa giustizia di tutte le forme viete di paternalismo che, con il confidare alla saggezza o al capriccio o alla contingente opportunità politica di regime la facoltà di erogare concessioni e provvidenze ai lavoratori, tendevano e tendono a creare strani e artificiosi vincoli tra la massa operaia ed il potere esecutivo ed in definitiva a consolidare quella condizione d’inferiorità e quella convinzione di debolezza e di soggezione che è contro la realtà vera dei rapporti sociali e contribuisce purtroppo ad ostacolare l’educazione della classe lavoratrice. Così pure è bello che nella relazione alla Costituente si sia riaffermato il principio di San Paolo: «chi non lavora non mangia» il quale sancisce un elementare dovere per tutti i cittadini e pone il lavoro come base fondamentale della nuova organizzazione sociale, elimina ogni distinzione tra i lavoratori del braccio e quelli del pensiero e sancisce nel modo più concreto l’eguaglianza piena e senza riserve della donna che, come l’uomo, partecipa al grande travaglio del progresso umano.

Non ci si venga a dire che, dato lo stato di sviluppo ormai raggiunto dalla nostra civiltà, e soprattutto date le alte benemerenze conquistate dalla classe operaia nella lotta disperata per l’indipendenza della Patria, questi diritti, fra i quali il più importante è il diritto dello sciopero, cioè la legittima difesa del lavoro, siano così acquisiti alla coscienza universale che basterebbe al riguardo la loro indicazione nel preambolo, piuttosto che immetterli come parte integrante nel testo della Costituzione del nostro Paese.

No, o signori; a parte il fatto che i diritti sociali sono proprio quelli che costituiscono l’elemento peculiare e direi la nota caratteristica della nostra Repubblica, essi troppe volte e per troppo tempo sono stati indegnamente violati e calpestati dal potere esecutivo e da un regime che ha voluto perfino cancellarne il ricordo.

E d’altra parte anche prima dell’insurrezione capitalistica che aveva tentato di distruggere e in realtà aveva distrutto, negli istituti, se non nella coscienza della Nazione, questi diritti sociali, anche nel periodo pre-fascista ogni qualvolta la classe dominante credeva possibile di attentare alla libera esistenza delle organizzazioni operaie, lo ha fatto senza scrupoli e senza preoccuparsi neppure della reazione inevitabile che la violazione di un diritto provoca con irresistibile immediatezza.

Il diritto di organizzazione e quello di sciopero, superato il periodo della incomprensione e della contestazione furibonda da parte di tutti i ceti, fin dal 1904 si erano conquistati ormai la cittadinanza nella vita politica e sociale del nostro Paese. E pure nel 1916, in piena guerra, quando cioè i lavoratori compivano il massimo sforzo e il più grande sacrificio per difendere il territorio nazionale minacciato e per assicurare la vita economica della Nazione, il Governo, che allora era più che mai l’espressione della classe dominante e ne interpretava pedissequamente i propositi reazionari, volle approfittare del momento in cui la forza prevaleva sul diritto, per ordinare che fosse negato il sussidio alle famiglie dei richiamati alle armi, i cui membri risultassero iscritti alle organizzazioni operaie.

Non è solo un mio ricordo personale, ma qui in quest’aula sono tuttora molti vecchi ed autorevoli parlamentari che ricorderanno al pari di me la tempestosa discussione che ne seguì, e nella quale l’appassionata protesta dell’onorevole Modigliani ebbe ragione sulle reticenti e cavillose giustificazioni del Governo.

Non è dunque ozioso e inutile l’inserimento di questi articoli nel testo della Costituzione della Repubblica italiana, non solo perché una eventuale offensiva contro il movimento operaio sia considerata un delitto contro la maestà della legge fondamentale dello Stato, ma anche e soprattutto perché questi diritti, una volta codificati, rendono più pensosi e consapevoli – e lo dovrebbe considerare l’oratore che mi ha preceduto – coloro i quali, dal loro riconoscimento ed esercizio traggono la ragione prima della loro permanente attività e responsabilità nella vita della Nazione e nell’accordo che devono recare al consolidamento e sviluppo della collettività sociale. E voi avete pronunciato delle parole violente, avete espresso dei dubbi catastrofici, addirittura apocalittici. Signori, voi avete visto invece, e varie volte avete potuto constatare in questo travagliatissimo periodo di emergenza, quante volte la Confederazione generale italiana del lavoro, appunto perché ha ormai la piena consapevolezza di essere parte integrante della Nazione, ha saputo e potuto trattenere e imbrigliare manifestazioni che, pur essendo giustificate dalla situazione veramente critica e intollerabile di varie categorie di lavoratori, costituivano tuttavia un pericolo al processo di faticosa ricostruzione della vita politica ed economica del nostro Paese. (Interruzioni a destra).

Però, mentre sono non solamente solidale, ma addirittura riconoscente ai legislatori di questa nostra Costituzione per tutto il complesso delle rivendicazioni sociali che hanno voluto consacrare in questo terzo Titolo, non posso accettare, nell’attuale dizione, l’articolo 35 che a mio modo di vedere è contraddittorio e oscuro per non dire ambiguo e può fornire alla futura Assemblea legislativa argomento e pretesto per eventuali amplificazioni che rendono completamente nulla la sua affermazione di principio o compromettono la stessa funzione morale e sociale del sindacato operaio. L’articolo 35 infatti comincia con la solenne dichiarazione che «L’organizzazione sindacale è libera», ma nel secondo capoverso corregge questa affermazione aggiungendo che «non può essere imposto al sindacato altro obbligo che la registrazione presso uffici locali e centrali, secondo le norme di legge» e continua con altre specificazioni di personalità giuridica dei sindacati e dei contratti collettivi con efficacia obbligatoria, ecc., il che in sostanza, seppure in forma confusa e reticente, viene a consentire un intervento permanente dello Stato, suscettibile di pericolosi sviluppi per la stessa libertà così recisamente proclamata nel primo capoverso. Ora, in questa delicatissima materia, bisogna essere chiari e precisi. Che cosa significa quell’obbligo di registrazione dei sindacati presso gli uffici governativi? Possiamo noi, per la stessa serietà dello Stato, credere effettivamente che, nel campo sindacale, la sua opera si riduca al semplice meccanismo della registrazione? A quale guazzabuglio prelude quella personalità giuridica che può essere reclamata contemporaneamente dai sindacati operai e dagli organismi padronali e quali rapporti si verrebbero a stabilire tra gli enti giuridici dei lavoratori statali e lo Stato stesso, che da un lato è l’espressione di tutti gli interessi della collettività e dall’altro è un datore di lavoro?

Perché si ha tanta premura di dare un riconoscimento governativo alle istituzioni operaie che sono – e non possono essere altro – che associazioni di fatto? Io temo che dietro queste caute, prudenti formule, che in sostanza non dicono nulla, ma fanno prevedere qualche cosa di non perfettamente democratico, si nasconda il proposito di lasciare alla futura Assemblea legislativa uno spiraglio aperto per introdurre tutto il pericoloso bagaglio del corporativismo, di cui in taluni ceti è troppo vivo il ricordo e cocente la nostalgia.

Ora, è bene parlarci chiaro su questo argomento. Io penso che talune correnti della pubblica opinione – e lo ha dimostrato l’oratore che mi ha preceduto – non conoscono neppure i sindacati operai, se non per quello che ne ha sempre detto una stampa interessata, la quale aveva ed ha bisogno di mantenere nella pubblica opinione nei loro riguardi quel concetto di elementi perturbatori a distruttori, che si tramanda dal tempo in cui eravamo scomunicati e maledetti.

UBERTI. Che cosa c’entra? Scomunicati?

TEGA. È vero, amico Uberti, scomunicati a suon di campane.

Manca purtroppo in Italia una letteratura sociale veramente italiana che, magari a puro titolo informativo, divulghi le origini, gli sforzi, i sacrifici delle organizzazioni operaie, non già per assicurare solo un po’ di pane e di libertà ai lavoratori, ma per inserirli sempre più profondamente nel vasto e complicato processo della produzione nazionale.

Si parla ad esempio degli uffici di collocamento come di tanti magazzini di merce-lavoro a cui i proprietari accedono per richiedere la mano d’opera sufficiente ai bisogni della loro azienda e nulla più. Ma se questa è la funzione puramente meccanica degli uffici del lavoro governativi, permettetemi, signori, di dichiararvi in piena e sicura coscienza che gli uffici di collocamento di classe sono tutt’altra cosa. Innanzi tutto, e questo che sto per dirvi rende praticamente pleonastico ed inutile il capoverso dell’articolo 35 che si riferisce all’efficacia obbligatoria dei contratti collettivi, innanzi tutto il Comitato comunale delle organizzazioni operaie, cui fanno capo tutte le leghe di mestiere del comune, assume nella loro totalità i lavori di ogni azienda agricola, impegnandosi a compierli nel termine prescritto ed a perfetta regola d’arte. Ne consegue che, mentre dal Comitato comunale per assolvere degnamente a tale impegno, scaturisce un complesso di cooperative di lavoro in cui il mondo operaio è tenuto a produrre di più e meglio dell’iniziativa privata, dal canto suo l’ufficio di collocamento di classe è obbligato a disimpegnare un duplice compito tecnico e morale: il primo è quello di provvedere sempre più meticolosamente alla specializzazione delle maestranze, soprattutto per promuovere la trasformazione della conduzione dei fondi da coltura estensiva a coltura intensiva.

Il secondo compito dell’ufficio di collocamento, che ha un valore insuperabile di solidarietà umana e di tranquillità sociale, è quello di adeguare le giornate lavorative alla esigenza di ciascuna famiglia, in modo che a fine di anno queste abbiano guadagnato in proporzione dei loro bisogni. Ciò che induce i giovani operai ad affinare la loro intelligenza e a perfezionare la loro capacità per agevolare il proprio collocamento e vi dirò che tale funzione classista ha dato sempre così promettenti risultati, che molti proprietari, superate le prime giustificabili ritrosie, (per non poter più essi stessi scegliere i loro operai) hanno superato l’orgoglio di essere i soli dirigenti delle proprie aziende e non solo hanno volentieri stipulato i contratti globali di lavoro col Comitato comunale delle organizzazioni operaie, ma hanno desistito dall’adoperare macchine proprie in quanto non guadagnavano in tempestività, tempo e perfezione di lavoro, ed hanno affidato alle cooperative operaie anche la prima lavorazione dei loro prodotti. Quest’opera completa di educazione sociale e di alto senso di responsabilità, ha dato i suoi frutti. Voi, che applaudite a piene mani ogni volta che si lancia uno strale contro le organizzazioni operaie, non conoscete o fingete di non conoscere, tanto nel campo nazionale, quanto in quello assai più vasto della solidarietà umana, che, quando nel 1916 l’agraria reclamò dal Governo una maggiorazione del prezzo di imperio del riso, furono proprio i Comitati comunali delle organizzazioni operaie che, con la documentazione dei conti colturali, dimostrarono allo Stato che il prezzo allora praticato era più che sufficiente per garantire onesti profitti alla proprietà privata. Nel tempo stesso le organizzazioni operaie costituivano i loro asili infantili per la raccolta e l’educazione dei figli del popolo e, per tutto il periodo della guerra 1915-18, aprirono questi asili a tutti i figli dei richiamati, senza distinzione di parte, e più tardi ivi raccolsero come pegno di rinnovata fraternità dei popoli, i bimbi di Vienna, riaffermando nella realtà il principio della classe operaia di tutti i paesi, di una pacifica e solidale intesa internazionale. Ci si dice che la registrazione dei sindacati e dei loro organismi cooperativi è per essi stessi anche una garanzia di sicurezza, in quanto li pone sotto l’egida della legge comune e dell’autorità dello Stato. Noi lo neghiamo e con noi lo nega la realtà storica di recentissimi avvenimenti.

Quando si disfrenò in tutta la sua vandalica violenza la reazione agraria, esisteva nella regione emiliana tutta una fitta rete di cooperative, la maggior parte riconosciute e registrate, le altre fiorenti ugualmente, quantunque fossero rimaste cooperative di fatto. Orbene, tutti questi enti senza alcuna discriminazione e così pure le case del popolo, le associazioni di mutuo soccorso, e le altre similari, furono ugualmente saccheggiate, dilapidate e distrutte. A nulla servì dunque la loro personalità giuridica, a nulla la loro registrazione negli albi governativi.

La realtà è, o signori, che l’epicentro della lotta tra l’umanità lavoratrice e la classe capitalistica si era spostata, dal campo della resistenza, a quello della produzione. Noi dimostravamo nel fatto, attraverso le nostre istituzioni intimamente collegate tra di loro e sorrette da un unico spirito e da una sola finalità, che la grande proprietà agricola non soltanto era ormai ingombrante e inutile, ma costituiva, come costituisce, un ostacolo all’incremento e al disciplinamento della produzione, alla trasformazione dell’industria agricola del nostro Paese. Di fronte alla concorrenza vittoriosa dei nostri organismi collettivi contro la speculazione privata, concorrenza che invadeva tutti i campi, da quello della quantità e qualità dei prodotti, attraverso l’opera infaticabile e bonificatrice delle nostre cooperative agricole, a quello del lavoro e del consumo, l’agraria sentì la frenetica necessità di violare la legge, ogni legge civile ed umana e sfrenò il terrore fascista nelle nostre campagne. Non dunque lo spauracchio di violente espropriazioni, non la preoccupazione di esperimenti bolscevichi, ma la considerazione meditata e fredda di stroncare la legittima e civile concorrenza del movimento operaio nelle sue realistiche manifestazioni, feconde per tutti, ma pericolose per il privilegio capitalistico, indusse i padroni della terra all’incendio, all’omicidio e al saccheggio. Ed è per questo che fu cercato a morte il sindaco di Bologna che, con l’istituzione dell’ente autonomo dei consumi, limitando le speculazioni dei bottegai, durante il primo conflitto mondiale, aveva salvaguardato il pane del popolo ed il salario del povero, è per questo che noi organizzatori socialisti, comunisti, repubblicani e democristiani, fummo caricati di randellate e cacciati in galera.

Ma non certo le nostre personali sofferenze, sebbene la distruzione di queste istituzioni di civiltà del nostro proletariato, ci hanno aperto un solco nell’anima, e, con l’esperienza di un recente passato, ci hanno insegnato ad essere non solo diffidenti, ma a respingere tutto ciò che non è chiaro e che insinua pericolose e tutt’altro che protettive intrusioni. Voi non avete veduto l’orda degli agrari, scortata e fiancheggiata dalla cavalleria e dalla polizia, abbattersi contro le nostre modeste sedi, infrangere le bussole e le vetrine, ed uscirne stringendosi al petto come trofeo di vittoria le nostre pentole di terracotta, il pezzo di lardo o di formaggio, i poveri commestibili della gente del lavoro. Voi non avete veduto trascinato a torme a colpi di randello e tra canti osceni, il nostro bestiame, che era il vanto di tutta la provincia e che fu venduto all’incanto in un simulacro di pubblica asta, come preda di guerra strappata al nemico. Voi non avete veduto il nostro bel macchinario agricolo che abbandonando i nostri villaggi con l’urlo rauco sembrava salutare per l’ultima volta gli operai, i quali, assediati nelle loro case, piangevano il loro patrimonio distrutto. (Approvazioni). Voi non avete assistito all’incendio dei nostri spacci e dei nostri uffici, al rogo della povera mobilia dell’apostolo e maestro del cooperativismo emiliano, Massarenti Giuseppe (Applausi) cui il fascismo riservava la più atroce e terribile delle morti, quella morale e civile con una condanna di pazzia che ancora offende la nostra umanità e la nostra civiltà.

So bene che oggi si tentano postume spiegazioni, con inqualificabili pretesti, so bene che tale scempio del patrimonio collettivo di un popolo, sebbene ammesso dal Governo, non ha ancora la giusta e doverosa riparazione con la restituzione almeno del maltolto, tante volte promessa, ma certamente ostacolata dall’agraria. So bene che si fanno circolare denunce quasi sempre anonime ed accuse tendenti per lo meno a soprassedere a quell’atto di giustizia riparatrice che i cooperatori italiani da troppo tempo attendono. Ma noi da questi banchi dichiariamo tranquillamente di essere sempre disposti a discutere con chiunque senza limiti di tempo o di spazio, tutta la situazione agricola emiliana, da quando gli agrari impegnavano con minacce il Governo a rispettare le loro «riserve di caccia e di pesca» mentre i lavoratori affrontavano la cavalleria per reclamare la bonificazione delle terre paludose, fino all’epoca presente, in cui, mentre in talune regioni dove si ostenta la defunta monarchia come simbolo della Patria e i raccolti si disperdono nei mille rigagnoli sotterranei della borsa nera e quasi mai raggiungono gli ammassi, nella regione emiliana, dove da tempo la Repubblica si identifica con la Nazione i granai del popolo hanno dato e danno i più lusinghieri risultati.

Signori, non vi fate sorprendere dagli avvenimenti ascoltando troppo le vociferazioni di chi è interessato a nascondervi la realtà. L’agraria è in disfacimento appunto perché si ostina a conservare la mentalità di una volta, propria di coloro che la dirigono, i quali hanno fatto la loro fortuna, da fattori e guardiani che erano, usurpando le terre degli antichi proprietari, con i mezzi più illeciti fino a provocare artificiose agitazioni operaie. La maggior parte degli agricoltori che ama la terra e vuole fermamente la trasformazione agricola e la collaborazione proficua con la classe lavoratrice, abbandona il vecchio organismo padronale ed affluisce nelle file dell’Upra, nuova associazione di rinnovamento agricolo, la quale vuol portare un po’ di luce, di progresso, e di moralità su tutto l’ambiente e soprattutto su certi organismi nazionali, come il Consorzio canapa, che è infeudato ad un esiguo gruppo di speculatori e di funzionari, cui sta a cuore il particolare profitto, non l’armonico vantaggio e la difesa dello Stato e delle categorie interessate.

Onorevoli colleghi, lasciate che le organizzazioni operaie crescano e si sviluppino in piena autonomia. Questa spontanea catena di solidarietà che vincola gli organismi di resistenza con quella della cooperazione di classe, può rappresentare la salvezza comune. La resistenza afferma e realizza i diritti del lavoro, la cooperazione li consolida e ne estende i vantaggi a tutta la collettività. Non abbiate timori e preoccupazioni che noi possiamo eventualmente abusare di questa nostra autonomia. Noi abbiamo sempre amato e difeso tutte le libertà. Due sole saranno sempre da noi combattute ad oltranza: la libertà di non lavorare la terra e l’altra di pugnalare alle spalle i compagni di lavoro. Siano dunque liberi i sindacati, senza obbligo di registrazione e senza interventi che ne spengano l’anima e l’impulso vivificatore. Ed allora senza paternalismi governativi che potrebbero tutt’al più giustificare una deplorevole inerzia ed una più che deplorevole aspettazione messianica, voi vedrete sorgere dal basso, dalle masse operaie, gli elementi fondamentali e costruttori della civiltà del lavoro e della società socialista. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato alla seduta pomeridiana di domani.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta d’urgenza:

«Ai Ministri dell’interno e della difesa, per conoscere se sono informati delle preoccupanti proporzioni prese dal fenomeno dell’abigeato in Capitanata e specialmente nel Gargano e quali provvedimenti urgenti intendono adottare perché trovino necessaria difesa gli allevamenti, già decimati dalla guerra, ed in via di eliminazione per evidente necessità di evitare perdite ingenti di bestiame e continuo pericolo per la vita dei lavoratori, preposti alla loro custodia nelle minacciate campagne.

«Miccolis, Rodi, Ajroldi, De Caro, Trulli».

«Al Ministro della marina mercantile, per conoscere come si intenda venire incontro alle giuste necessità dei marittimi disoccupati, spesso domiciliati in centri, marittimi di piccola entità, nei quali rappresentano un’altissima percentuale della popolazione valida con la creazione di tragiche situazioni locali (Torre del Greco, Camogli, Vico Equense, ecc., ecc.).

«Si domanda altresì l’istituzione di un turno nazionale di imbarco per la perequazione di particolari situazioni di privilegio per il Nord e di disagio per il Sud e la concessione di un sussidio continuativo e soddisfacente ai marittimi disoccupati, data la loro impossibilità di procacciarsi lavoro per il blocco dei licenziamenti, la condizione delle industrie e la loro unica attitudine ai lavori marittimi.

«Mazza».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere quali provvedimenti intenda di adottare per risolvere senza indugio il problema della disoccupazione in funzione della produzione.

«De Martino, Corsanego, Colitto, Dominedò, Mastino Gesumino, Romano, Bozzi, Cappi, Firrao, Notarianni».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, per avere delucidazioni sull’arresto del sindaco di Roccaforte del Greco (Reggio Calabria) avvenuto giorni or sono, in seguito ad ordine del tenente dei carabinieri di Mélito Porto Salvo, perché il predetto sindaco, nella sua qualità di ufficiale di pubblica sicurezza, impedì ad un carabiniere di malmenare un ragazzo sulla pubblica via del paese e perché si è rifiutato di firmare un verbale contenente false asserzioni.

«Per sapere se tale arresto, nella persona del capo di un comune, senza autorizzazione del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, a norma dell’articolo 51 in relazione all’articolo 22 della legge vigente comunale e provinciale testo unico 1934, non debba essere immediatamente revocato e seguito da un provvedimento disciplinare o giudiziario a carico dell’ufficiale dei carabinieri predetto, che valga a restaurare la dignità offesa di un sindaco, e perché valga ad imporre il rispetto della rappresentanza democratica popolare, anch’essa gravemente offesa.

«Musolino, Silipo, Priolo».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Ministro dell’interno, per sapere;

1°) se abbiano notizia dei gravi sistematici soprusi impunemente perpetrati da elementi faziosi a danno del settimanale indipendente di opposizione La Verità, del quale sono riusciti ad impedire con mezzi intimidatori la pubblicazione e la diffusione prima a Torino, successivamente a Cuneo, e ultimamente a Como, ove era stata trasferita la stampa del detto settimanale, dopo le sopraffazioni subite nelle regioni piemontesi;

2°) se siano a conoscenza che il questore di Como, cedendo a pressioni intimidatrici abbia all’ultimo momento disposto la distruzione dei piombi preparati per la stampa del detto settimanale, imponendo al suo direttore ed ai redattori di allontanarsi immediatamente da quella città sotto minaccia di arresto;

3°) quali provvedimenti abbiano assunto, od intendano assumere, al fine di assicurare la pubblicazione e la diffusione del summentovato settimanale.

«Vlllabruna, Badini Confalonieri».

Darò notizia di queste interrogazioni ai Ministri competenti chiedendo loro quando intendano rispondere.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se e come intenda una buona volta risolvere l’incresciosa situazione del comune di Mirabella Eclano, il cui Consiglio da più di otto mesi, con grave danno dell’amministrazione, venne arbitrariamente sospeso contro ogni norma di legalità e contro ogni principio di sana democrazia.

«Rubilli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere:

1°) perché mai tutti i treni di collegamento tra Roma, Milano e le Puglie, giunti a Bari divengono lentissimi e perdono la caratteristica di rapidi o direttissimi, quasi che le provincie della estrema Puglia non siano esse pure provincie italiane e il naturale capolinea non sia Lecce, come lo fu sempre per il passato;

2°) perché le carrozze con letti da Milano a Roma per le Puglie, non proseguano fino a Lecce, dai cui cittadini sono per la maggior parte normalmente occupate;

3°) perché le carrozze in genere non vengono sottoposte a più accurata manutenzione, pulizia, decoro, e siano ridotte in condizioni pietose, con grave danno per il capitale ferroviario del Paese e della decenza nazionale; cosa che non richiede alcuno sforzo speciale di ricostruzione, ma soltanto maggiore zelo da parte dell’Amministrazione delle ferrovie. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cicerone».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non ritenga, nella imminenza della sistemazione, mediante concorso per titoli, dei maestri provvisori idonei, di tener presente la situazione in cui verranno a trovarsi gli insegnanti titolari di quinta, idonei dell’ultimo concorso per la prima categoria, accordando ad essi l’assoluta precedenza nei trasferimenti nella grande sede o riservando una percentuale dei posti messi a trasferimento, come stabilito per altre categorie, assicurando in tal caso l’assorbimento totale della graduatoria nel tempo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mazza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quando sarà provveduto all’effettivo pagamento dell’importo, relativo alle borse di studio, assegnate dall’ex Ministero dell’assistenza post-bellica agli universitari reduci di Napoli, tenendo presente che il versamento venne promesso per il mese di gennaio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Mercurio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere quali siano stati i motivi che hanno determinato le inopportune disposizioni concernenti gli assegni familiari, di cui al decreto legislativo n. 479 del 18 settembre 1946, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 4 gennaio 1947, in base alle quali vengono esclusi dal benefìcio degli assegni quei lavoratori, i cui genitori abbiano per retribuzione proventi complessivi di lire 3500 mensili per due genitori e lire 2000 per un sol genitore.

«L’interrogante chiede di sapere se il Ministro ritenga che con simili proventi possano dei pensionati, le cui tragiche e disastrose condizioni sono ben note, fare a meno del concorso negli alimenti da parte dei figliuoli e se questi debbano concorrere al mantenimento dei genitori senza ricevere alcun corrispettivo, sia pure minimo, dalla Cassa unica per gli assegni familiari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Mercurio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se sia a conoscenza che in Ostuni (Brindisi) la ex casa Balilla è stata concessa in uso ad una quasi privata attività, mentre è priva di locali adeguati la scuola tecnica, che da gran tempo chiede una adatta sede. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ayroldi».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.5.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

Seguito della discussione del disegno di legge:

Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale (12).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 6 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 6 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TUPINI

INDICE

 

Disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                                

Fogagnolo                                                                                                       

Balduzzi                                                                                                           

Vernocchi, Relatore                                                                                                  

Pera                                                                                                                  

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio                               

Giannini                                                                                                            

Corbi                                                                                                                

Proia                                                                                                                 

Bubbio                                                                                                                

Tonello                                                                                                            

Bertone                                                                                                            

Preziosi                                                                                                            

Di Vittorio                                                                                                       

Lucifero                                                                                                           

Presentazione di relazioni:

Persico                                                                                                             

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale (12).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale.

È iscritto a parlare l’onorevole Fogagnolo. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Onorevoli colleghi, nella discussione di sabato, quando si è trattato di mettere in votazione la sospensiva, sono venute fuori due cose buone: la dichiarazione dell’onorevole Einaudi, il quale si è proclamato laico in materia cinematografica, e quella dell’onorevole Cappa, il quale ha fatto coro all’onorevole Einaudi dichiarandosi a sua volta laico. Io ritengo che in questa Assemblea, anche se fossero presenti tutti i membri dell’Assemblea stessa, una stragrande maggioranza, non dico la totalità, sarebbe laica: su 556 membri dell’Assemblea, io penso, che a proclamare non laici sei membri, sarebbe tutto quello che si potrebbe fare.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Sì, ma abbiamo studiato il problema.

FOGAGNOLO. Non è una cosa che s’impara studiando, onorevole Cappa. Bisogna aver avuto nella vita la disgrazia di esserci caduti dentro e allora si potrebbe dire di conoscere cos’è questa industria, che in certi paesi esiste ed in altri non esiste. Ora, noi corriamo il rischio di avallare con la incompetenza della stragrande maggioranza dell’Assemblea un provvedimento del quale mi permetto fare una critica benevola, non ostruzionistica, come qualcuno di quelli che erano presenti alla seduta di sabato poteva pensare. Non ho nessuna ragione di fare dell’ostruzionismo, ma credo sia obbligo da parte di ogni Deputato che conosce la materia di dire in che cosa consista il problema della cinematografia, se questo problema è sentito, e come è sentito. Io sono sicuro che quando avrò finito, e spero di finire in breve di parlare di questo argomento (d’altra parte siamo così pochi che credo possiamo trattarlo un poco familiarmente) ed avrò esposto in che cosa consistano le varie necessità della cinematografia italiana, potremo forse aggiustare la nostra opinione in modo da venire non ad un concordato, ad una transazione, ad un compromesso, ma da giustificare fra di noi il provvedimento che io propongo.

In sostanza, che cosa domandano i produttori di pellicole italiane (che non sono industriali)? Essi domandano di essere protetti nell’attività che svolgono e che si ripromettono di intensificare. Domandano due cose: che lo Stato versi ai film nazionali un contributo pari al 12 per cento dell’incasso lordo; inoltre che per i film migliori, giudicati tali da una di queste Commissioni, (c’è qui un provvedimento che evidentemente è opera di burocrati; io non credo che sia opera dell’onorevole Cappa: glielo avranno sottoposto; ma lo studio di questo provvedimento legislativo non può essere che frutto della mentalità dei burocrati) sia versato un ulteriore 2 per cento dell’incasso lordo. Notate che con queste cifre si raggiungono centinaia e centinaia di milioni, senza tener presente il secondo punto, che è molto più importante del primo, quello cioè di stabilire l’obbligo degli esercenti cinematografici di programmare per quindici giorni ogni trimestre solo film nazionali.

L’onorevole Giannini è arrivato a proporre venti giorni, e siccome egli conosce questo problema, sa che, portando a 20 giorni i quindici proposti dalla Commissione, si può arrivare ad un risultato notevole dal punto di vista protettivo dei produttori cinematografici. Infatti, per arrivare a distribuire questi quattrini dello Stato ed a fissare questa obbligatorietà di programmazione, si è creato un provvedimento che è mastodontico, se pensiamo che si sono previsti in questo provvedimento legislativo ben tre organismi: l’ufficio centrale per la cinematografia, il Comitato tecnico, la Commissione consultiva. Ci sono inoltre due Commissioni di primo e secondo grado.

Si è dimenticato che c’è un modo di incoraggiare la produzione cinematografica nazionale, ma che ha bisogno di essere studiato ed io mi auguro venga attuato: è la messa a disposizione del film nazionale del circuito ENIC. L’altro giorno, un collega, avendomi sentito parlare di circuito ENIC, mi domandò che cosa fosse. Si tratta, come gli risposi, di un circuito di sale cinematografiche. Secondo il Relatore, sono 140 sale, tutte di prima visione, che potrebbero benissimo servire ad aiutare maggiormente la diffusione del film italiano, se questo Ente, che è un Ente di proprietà dello Stato, fosse stato utilizzato allo scopo.

I nostri produttori di film hanno sempre chiesto che nel circuito delle sale ENIC fosse data la preferenza ai film nazionali; ma invece che cosa si è avuto? Ecco il punto della questione che è necessario sviscerare, per quello che poi io proporrò come articolo aggiuntivo. In tutti i paesi i circuiti servono per il film nazionale; solo in Italia si assiste a questo spettacolo indecoroso che il circuito dell’ENIC, di proprietà dello Stato, rifiuta i contratti di programmazione di film nazionali e viene tenuto a disposizione dei signori americani. Perché? Perché i nostri produttori, già stremati nelle loro possibilità, non sono in grado di elargire mance o compensi per avere le date di programmazione. Gli americani, che hanno centinaia e centinaia di film disponibili, si dice che tirino fuori centinaia di migliaia di lire e qualche volta milioni, per avere buoni contratti di programmazione e buone date di passaggio automatico in un circuito di 140 sale.

Qualcuno, che non conosce il problema, ha detto che da noi si vuole essere contro la produzione nazionale, a favore dei film americani. Noi non siamo per nessun provvedimento che possa creare oneri notevoli allo Stato, ma riconosciamo che sia giusto dar da vivere ai lavoratori del cinema, a coloro che producono, che non hanno forse altre attività da svolgere, come lavoro, all’infuori di queste. Ma noi desideriamo che il Governo, che può e deve dare, anche se fino ad oggi non ha mai dato, le istruzioni necessarie ai preposti all’Ente nazionale della cinematografia, dia ordini categorici, perché questo sistema abbia a cessare. Sta bene dire: «Noi non vogliamo il film italiano nel nostro circuito ENIC, perché sappiamo che il pubblico, quando si tratta di film italiani, non va al cinematografo»; ma perché volete, voi che possedete un ente dipendente dallo Stato, per favorire il film straniero, obbligare lo Stato a intervenire con centinaia di milioni l’anno a favore della cinematografia italiana, mentre avete l’obbligo per primi di aiutarla col circuito di sale a vostra disposizione?

Questo è un problema grave, onorevole Cappa. Ho parlato dell’ENIC; mi si permetta ora di dire un’altra cosa, in cui spero di trovare consenzienti i due competenti che siedono nel banco di fronte e nel banco di centro. Le attività dell’ENIC sono diverse; mentre la sua attività dovrebbe essere unica. L’ENIC ha un’attività di noleggio. Ebbene, io vorrei sentire da un competente se ritiene giusto che l’Ente nazionale incassi e guadagni quattrini facendo la proiezione delle pellicole nel suo circuito e poi li consumi esercitando un’attività di noleggio che non rientra assolutamente nei suoi compiti. I noleggiatori esistono in Italia e bisogna lasciare che il noleggio lo facciano i noleggiatori, non l’ente di proprietà dello Stato. Si vede poi che corte viene fatta all’ENIC da parte degli americani per poter mettere su di esso una ipoteca e se qualche volta non è stata messa, non è merito certamente degli uomini di Governo, ma è merito di quella stampa cinematografica, la quale ha cercato di porre subito in vista il pericolo che questo circuito italiano cadesse in mani americane.

Onorevole Cappa, la polemica dei 75 milioni lei la conosce come la conosco io: si è tentato di portare da parte di una società americana, credo la Fox, 75 milioni nelle attività dall’ENIC, per fare dei film, in collaborazione, il che praticamente voleva dire che le sale di proiezione dell’ENIC non sarebbero mai state a disposizione dei film italiani. Domandi all’onorevole Proia…

VERNOCCHI, Relatore. Ma come è andato a finire il contratto con la Fox?

FOGAGNOLO. È andato per aria.

VERNOCCHI, Relatore. E chi l’ha mandato per aria? Il sottoscritto! Deve essere completo nell’esposizione!

FOGAGNOLO. Se mi lasciava finire, lo dicevo! Ebbene, quando si è fatto quel tentativo, lei, onorevole Vernocchi, sa bene che, se non fosse stato possibile impedirlo, noi oggi assisteremmo ad un circuito dell’ENIC in mano degli americani!

Con una situazione così balorda come è quella di oggi, quando ho sentito il collega Pera parlare, come ha fatto l’altro giorno, di sessanta industriali, mi è sembrata talmente grossa, per quel che mi risulta, che non sono nemmeno intervenuto ad interromperlo. Ho detto soltanto: mi sembra un’esagerazione! L’onorevole Proia, Presidente dell’Associazione, ha detto che gli industriali attualmente in attività sono dieci appena. Cinquanta si sono bruciati le ali e sono ancora iscritti all’Associazione, perché a questa bisogna iscriversi quando si decide di fare una pellicola; senza l’iscrizione non si può andare alla Sezione del credito cinematografico a prendere i quattrini! Di questi sessanta inscritti, soltanto dieci sono rimasti in vita. Cosa vuol dire questo? Vuoi dire che cinquanta sono caduti nella rete tesa a certi vecchi barbogi che hanno un po’ di quattrini e qualche velleità erotica. (Commenti). Vuol dire anche che si convincono certi individui ad improvvisarsi industriali, e vi è tutta una coorte di faccendieri che, una volta adocchiato il merlo, non lo lascia più finché non lo mette in gabbia. Si ricorre a tutti i mezzi, compresi gli inviti a pranzo, ed a pranzo ci sono le future dive, o le semi-dive, a seconda dei gradi acquistati con l’ausilio di certa stampa cinematografica, e poi si combina di fare il provino…

GIANNINI. Queste dive a cui lei allude hanno anche doti personali e non è solo la stampa…

FOGAGNOLO. Questo è vero, ma io ho detto le future dive, non già quelle laureatesi tali. Io parlo di decine e centinaia di ragazze illuse che, quando vedono la loro fotografia su un giornale cinematografico e si dice loro che sono fotogeniche, specie quando sono invitate a fare il provino davanti a questi industriali improvvisati, si creano molte illusioni! Sappiamo bene come vanno certe cose. Ebbene, di questi industriali io ne conosco molti che si sono bruciati le ali. Andate a dire a tutta questa gente che ora c’è la nuova legge sulla cinematografia! Essi non verranno più. Accanto a questi ci sono industriali capaci e sani, ed è a favore di questi, io ritengo che sia giusto emanare dei provvedimenti per proteggere la loro sana attività.

Esaminiamo dunque la situazione esistente, prima di addentrarci a fare l’esame di questo disegno di legge. Attualmente il film nazionale prende il 10 per cento; con questa legge noi lo vogliamo portare al 12 per cento. Io ritengo che con questo 2 per cento di differenza non ci sarà neppure un film di più, se non si introduce l’obbligo della programmazione. Si tratta sempre di una imposizione, e noi sappiamo fino a che punto sia democratica una imposizione. Perché, se c’è un film buono, anche se esso è italiano, gli esercenti lo cercano egualmente e sono lieti di programmarlo nelle loro sale. Gli esercenti chiedono di dare film che aumentino l’afflusso del pubblico, e se entriamo nell’idea di approvare l’articolo 7 sulla obbligatorietà, io sono del parere dell’onorevole Giannini: dare quindici giorni o darne venti è lo stesso. Difendono di più 20 giorni che 15, e se il nostro scopo è quello di difendere gli industriali che producono film nazionali, preferisco che siano 20 giorni ogni trimestre, e non 15.

Per quanto riguarda il lavoro che verrà dato ai lavoratori della cinematografia, con questo provvedimento, se ne sono sparate di grosse. C’è tutto di cinematografico in quello che si è detto! Abbiamo sentito il Relatore parlare di cinque miliardi! Io penso che non saranno più di 4999!… I successi di «Roma Città Aperta» sono stati meritati, ma una rondine non fa primavera. Non veniamo a dire ora, come ha detto l’onorevole Arata, che il film nazionale si impone sui mercati mondiali. Qui sono state fatte appunto queste affermazioni. Ora, il film nazionale ha avuto la fortuna di qualche pellicola che è riuscita a varcare la frontiera, ma non illudiamoci di fare arrivare in Italia milioni di dollari e di sterline esportando la nostra produzione. Il primo giudice della bontà di un film è il pubblico, e ci sono molti che quando sentono parlare di film italiani non vanno nemmeno al cinema. Poi ci vanno, se i primi che sono andati a vedere la pellicola dicono che è buona. Così è avvenuto per il film «I promessi sposi». Tante volte capita che un film non è buono, ma diventa passabile, perché lo scrittore che ha preparato il dialogo ha saputo mettere qualche battuta felice, o perché vi è qualche attore buono. Ma da questo ad illuderci di potere fare la concorrenza ai film americani e inglesi non è nemmeno da pensarci. Non bisogna che esageriamo, come non si deve esagerare dicendo che con questa legge faremo lavorare centomila persone. È tutto cinematografico questo! Dove sono le centomila persone che lavorano nel film? Nel film lavorano i creatori dello scenario, gli sceneggiatori, gli architetti che preparano le scene, il falegname, le comparse e gli artisti.

Una voce al centro. Lavorano anche i carpentieri, i sarti e i parrucchieri.

FOGAGNOLO. Comunque, e voglio essere largo, potranno lavorare cinquecento, al massimo mille persone, ma non di più.

VERNOCCHI, Relatore. Gli iscritti ai sindacati in tutta Italia sono trentacinque mila.

FOGAGNOLO. Lasci stare gli iscritti al sindacato. In essi sono compresi i dipendenti delle sale cinematografiche, del noleggio, ecc. Occorre far lavorare quelli che effettivamente lavorano nella produzione del film. Su cento film, se in uno solo lavorano cento persone è anche troppo. Per affermare che dopo questa legge lavoreranno centomila persone, bisognerebbe dimostrare che ci sono pronti almeno cento produttori, provvisti già di uno scenario col quale far lavorare mille lavoratori per ogni film!

Non si devono dire queste cose e bisogna vagliare bene queste informazioni. Io sono stato quattro anni alla indipendenza di una grande casa francese, e ne ho viste di queste cose! Ad un amico che voleva lanciare ad ogni costo delle artiste, che poi erano delle sue amichette, io rispondevo: ma se avete di queste debolezze, comperate loro un appartamento, un gioiello e non illudetele di diventare artiste!

Non si può dire che ci sono centomila persone che aspettano questa legge per lavorare, e nemmeno che ve ne siano quarantamila come ho sentito dire da un’altra parte.

In sostanza, onorevoli colleghi, il problema della cinematografia è molto complesso e potremmo perdere altrettante giornate quante ne stiamo impiegando a discutere la Costituzione, se volessimo esaminare tutti i suoi aspetti: è un problema vasto e difficile, che non basta studiare, ma che bisogna vivere, come dicevo all’onorevole Cappa.

Ora io vorrei fare una proposta, cioè quella di limitare il provvedimento che stiamo esaminando al solo articolo 7, dove viene stabilito l’obbligo di programmazione del film nazionale, portando i quindici giorni a venti giorni. Quindi, niente creazione di enti nuovi, niente commissioni, perché se incominciamo a creare una nuova burocrazia di Stato per l’industria cinematografica, non faremo altro che sciupare quattrini. Nel frattempo lasciare in vigore, per le percentuali, la legge del 1945.

La riesamineremo, la questione della creazione del nuovo organismo direttivo della cinematografia italiana, ma non creiamo un Comitato centrale, e poi un altro organo tecnico e poi tre Commissioni e poi altre due Commissioni; e tutto questo per quei dieci o venti film che la nostra industria ci potrà dare per ora! Io ritengo che, se noi diamo agli industriali del cinematografo un provvedimento che li tranquillizzi circa l’obbligo di programmazione nelle sale, per venti giorni a trimestre, della loro produzione, e lasciamo a loro quei quattrini che prendono già con la legge esistente, li faremo felici, ma non avremmo fatto una cosa completa; viceversa è su questo provvedimento che io ritengo di trovare consenzienti tutti: cerchiamo di effettuare un concreto ordinamento della cinematografia italiana in relazione agli enormi capitali che lo Stato ha messo in questi enti che non rispondono più allo scopo, che sono stati creati dal fascismo, ma che possono svolgere ancora un’attività utile nell’interesse della cinematografia.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Abbiamo studiato per mesi e mesi.

FOGAGNOLO. Ma qui è questione di tecnica e non di studio. Io, a conclusione, presento questa proposta: sopprimere gli articoli dall’uno al sei; mantenere l’articolo 7 così riformato: «A decorrere dall’entrata in vigore della presente legge, gli esercenti di sale cinematografiche debbono riservare venti giorni per ciascun trimestre alla proiezione di film nazionali, cioè prodotti interamente in Italia, e di lunghezza superiore ai duemila metri.

«Per i locali ad attività saltuaria il numero delle giornate di spettacolo riservate alla proiezione dei film viene proporzionalmente ridotto. Sono esclusi dal beneficio di cui la presente legge, i film sprovvisti dei requisiti minimi, del valore artistico, tecnico e commerciale. Apposita Commissione sarà nominata dal Presidente del Consiglio dei Ministri per provvedere a tale esclusione».

Sopprimere l’articolo 8, lasciando l’articolo 9; e sopprimere poi gli articoli 10, 11, 12 sostituendo l’articolo 13 col seguente:

«La Commissione di cui all’articolo precedente (quella nominata dal Presidente del Consiglio per provvedere alla esclusione di film non degni) sarà composta da un rappresentante del Ministero della pubblica istruzione (Belle arti), da un rappresentante del Ministero dell’industria, da un rappresentante dei lavoratori del cinematografo, da un rappresentante dei noleggiatori di pellicole (sono le persone che dovranno dare il loro giudizio) e da un rappresentante degli industriali cinematografici».

Gli articoli dal 14 al 17 dovrebbero essere soppressi.

Presento poi un articolo aggiuntivo: «Con successivo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri sarà nominato un Comitato parlamentare tecnico, cui sia affidato l’esame di tutti i problemi della cinematografia italiana in relazione anche alle attività svolte da enti cui sono legati interessi patrimoniali dello Stato. Detto Comitato presenterà alla prima Commissione permanente le sue proposte di un provvedimento legislativo sull’ordinamento dell’industria cinematografica nazionale».

In questa maniera noi avremo dato agli industriali, presieduti dall’onorevole Proia, il provvedimento che essi attendono e che darà loro la possibilità di avere l’assoluta tranquillità circa la proiezione dei loro film, ma non avremo impegnato lo Stato, con tanta leggerezza e con tanta incoscienza, a tirar fuori altre centinaia di milioni prima che sia esaminato tutto il problema nel quale lo Stato ha tanto interesse.

Faremo una legge che fissi anche i premi, ma non affidiamoci ai funzionari, affidiamoci ai tecnici. Tecnici ve ne sono in tutti i settori dell’Assemblea, ed allora non credo che faremo delle cose mal fatte, o incomplete, come quelle che ci vengono presentate. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Balduzzi. Ne ha facoltà.

BALDUZZI. Onorevoli colleghi, l’onorevole Pera, nel suo intervento di sabato a favore della sospensiva della discussione del disegno di legge all’ordine del giorno, ha, fra l’altro, fatto cenno alla Sezione autonoma per il Credito cinematografico, istituita per legge presso la Banca nazionale del lavoro, ed ha detto testualmente: «Il produttore cinematografico non ha bisogno di disporre di grandi capitali, in quanto lo Stato, continuando la protezione instaurata dal passato regime, gli assicura il credito cinematografico imposto alla Banca nazionale del lavoro, la cui dotazione verrebbe incrementata di ulteriori 150 milioni, se voi approvate la legge».

Ha soggiunto che le sovvenzioni alle industrie, discutibili in tempi normali, sono un’ingiuria oggi che la limitazione dei mezzi impedisce una politica di lavori pubblici che valga a sollevare la disoccupazione. Ed accennando all’ulteriore partecipazione del Tesoro dello Stato, di cui all’articolo 11 del disegno di legge in esame, ha lasciato – me lo consenta il collega – una penosa impressione, come se si trattasse di capitali erogati a fondo perduto o comunque di gestione deficitaria. Orbene, sulla scorta di documenti inoppugnabili, sento il dovere di precisare che la Sezione autonoma per il Credito cinematografico è stata costituita alla fine del 1935, per promuovere l’incremento dell’industria cinematografica nazionale; alla medesima venne assegnato un fondo di dotazione di 20 milioni di lire, costituito per metà da una compartecipazione del Tesoro dello Stato da versarsi in 5 uguali rate annuali, e per metà da un apporto della Banca nazionale del lavoro, da versarsi in due rate annuali.

Tale fondo fu successivamente accresciuto nel 1939, con le partecipazioni, in complessivi 20 milioni di lire, dell’Istituto nazionale delle assicurazioni e dell’Istituto della previdenza sociale, nonché, nel 1941, con ulteriori apporti dello Stato e della Banca nazionale del lavoro.

Ho sott’occhi la situazione dei conti al 31 marzo 1947, dalla quale rilevo che l’entità attuale del fondo di dotazione è di lire 146.853.853, di cui lo Stato e la Banca nazionale del lavoro debbono ancora versare 12 milioni di lire.

Con questa modesta disponibilità, la Sezione cinematografica, nei dieci anni della sua attività, ha concesso finanziamenti al settore cinematografico italiano per un complessivo importo di oltre un miliardo e trecento milioni di lire, subendo perdite tanto minime da non raggiungere la media comune prevista nelle normali operazioni bancarie.

Difatti, fino al 31 dicembre 1946, le sofferenze ammortizzate non raggiungono i quattro milioni, mentre, oltre ai dividendi annualmente corrisposti ai partecipanti – nel 1946, l’utile netto è stato di 8 milioni di lire ed il dividendo del 5 per cento – sono state costituite riserve ordinarie e straordinarie per circa 30 milioni, e ciò malgrado il tenue tasso applicato ai fidi, in conformità alla legge istitutiva della Sezione, la quale peraltro opera esclusivamente nell’ambito del settore cinematografico, e con il solo fondo di dotazione integrato dagli appoggi finanziari ad essa concessi dalla Banca nazionale del lavoro, le cui anticipazioni, a fine esercizio 1946, residuavano a lire 17.528.442,85. Ciò deriva essenzialmente dalla struttura organica della Sezione e dal basso costo dei servizi, essendo le spese generali limitate al puro indispensabile, del che va data lode alla Direzione ed al personale della Banca.

L’esposizione in essere al 31 dicembre 1946 in 256 milioni, è rappresentata da finanziamenti alla nuova produzione cinematografica, operazioni assistite da valide garanzie che ne assicurano il buon fine.

Durante l’esercizio 1946, sono stati deliberati prestiti per un ammontare complessivo di 325 milioni di lire, dei quali 278 milioni alla produzione è stata infatti finanziata la produzione di 23 film spettacolari…

PERA. Ma io non ho mai attaccato la Banca del lavoro.

BALDUZZI. …e di 17 cortometraggi – 40 milioni alle attività collaterali e 7 milioni in favore di sale cinematografiche.

L’industria cinematografica nazionale, sia nel campo della produzione, commercio e sfruttamento di pellicole, nonché nell’esercizio delle sale cinematografiche, ha trovato nella funzione creditizia della Sezione, un valido appoggio di sviluppo e potenziamento, sia nel mercato interno che in quello estero, con evidenti, sensibili benefici per il bilancio dello Stato.

Sarebbe pertanto augurabile che lo Stato potesse sempre erogare i suoi capitali – il che purtroppo non può essere – con beneficio pari a quello che ritrae dalla partecipazione anzi detta.

La svalutazione monetaria, le aumentate esigenze dell’industria cinematografica, rendono inadeguato alla funzione della Sezione l’attuale fondo di dotazione, il che giustifica l’aumento previsto dall’articolo 11 del disegno di legge in discussione; fondo della cui utilizzazione, in rapporto alle peculiari caratteristiche dell’industria cinematografica e, particolarmente, del settore operante nel campo della produzione di film, va in gran parte a beneficiare la massa dei lavoratori addetti a questo importante settore, ove si pensi che il costo, medio di produzione di un film è rappresentato per circa il 70 per cento da compensi spettanti a tecnici, attori, comparse, impiegati, elettricisti ed operai in genere, come potrei dimostrare in base ai dati che desumo dal preventivo di spesa a mie mani per il film «Certosa di Parma».

Concludo, sottolineando, che il fondo di dotazione, anziché rappresentare una gestione passiva, è fonte di lucro per lo Stato non soltanto per la rimunerazione del capitale conseguita come partecipante e per il consolidamento del fondo di riserva della Sezione, ma anche per il provento d’imposte e tasse a carico della Sezione medesima, il cui saldo è salito dal 31 dicembre 1945 al 31 dicembre 1946 da lire 1.469.489,60 a lire 3.086.878,80, senza poi contare che per Statuto – in caso di messa in liquidazione della Sezione – il residuo netto del patrimonio della Sezione, dopo che siano state sodisfatte le quote della Banca nazionale del lavoro e degli altri Istituti partecipanti, sarà devoluto al Tesoro dello Stato, e pertanto tralasciando di lumeggiare le finalità educative e protettive dell’industria cinematografica nazionale del disegno di legge, autorevolmente illustrate dalle relazioni e dai precedenti oratori, raccomando l’approvazione del progetto.

PRESIDENTE. Non essendovi altri oratori inscritti a parlare, dichiaro chiusa la discussione generale, riservando la facoltà di parlare all’onorevole Relatore e al Governo.

L’onorevole Relatore ha facoltà di parlare.

VERNOCCHI, Relatore. Onorevoli colleghi. Quando si iniziò la discussione di questo disegno di legge ebbi quasi il timore che la discussione non fosse che un colloquio a tre, fra l’onorevole Proia, me come relatore, e il rappresentante del Governo. Mi autorizzava a credere questo, il disinteresse assoluto confermato anche stamani dall’assenza della grande maggioranza dei componenti l’Assemblea. Ma poi, subito, nella prima seduta, noi abbiamo visto, per l’intervento di alcuni colleghi, che si voleva approfondire l’esame di questo disegno di legge, si voleva discutere con cognizione di causa, tanto è vero che il collega Giannini chiese una breve sospensiva di qualche giorno per essere in grado di affrontare il problema. Poi le successive riunioni hanno dimostrato anche una certa vivacità, forse eccessiva, nella discussione, vivacità che si è conclusa con un tentativo di sospensione della legge. Gli è che io ho la persuasione che non occorra una speciale competenza tecnica per esaminare questo disegno di legge; occorre soltanto una valutazione pregiudiziale: se debba, cioè, esistere e prosperare l’industria cinematografica nel nostro Paese o se non debba esistere; se l’Italia debba o non debba avere il suo cinema adatto alla psicologia del suo popolo, adatto al clima democratico repubblicano del nostro Paese; se si debba o non si debba dare la dimostrazione che in Italia esistono soggettisti, sceneggiatori, registi, attori, maestranze specializzate che non sono inferiori a quelli di nessun’altra Nazione; se, infine, noi riteniamo che il film nazionale di qualità, particolarmente improntato a quella che è la psicologia del nostro popolo, diversa dalla psicologia degli altri Paesi, debba, attraverso d’esportazione, esercitare quelle determinate influenze, sia nel campo psicologico, sia nel campo finanziario, che vanno a favore della nostra Nazione. E per far questo occorre soltanto un vigile senso politico, una concezione meno miope dell’industria e dei suoi riflessi, e particolarmente una concezione precisa di quella che può essere, l’importanza della cinematografia per il nostro Paese.

Ora, io mi trovo in una situazione molto strana, e direi che la mia posizione potrebbe sembrare non conseguente a quelle che sono le mie idee, visto che alcuni compagni e colleghi della sinistra sono contrari al disegno di legge. Se io mi fossi preoccupato esclusivamente della protezione dell’industriale nella compilazione e nella difesa di questo disegno di legge, forse gli amici di sinistra avrebbero ragione di elevare verso di me il loro giusto rimprovero. Ma nella formulazione della legge noi abbiamo tenuto presente esclusivamente la difesa dell’industria cinematografica per i suoi riflessi morali e sociali, e, soprattutto, la difesa del lavoro italiano.

E, caro Fogagnolo, non è esatto quello che tu affermi, che sono pochi coloro i quali vivono dell’industria cinematografica. Ti dirò che vi sono 35 mila iscritti al sindacato dei lavoratori.

FOGAGNOLO. Ho detto: non sono centomila.

VERNOCCHI, Relatore. E vi sono circa 100 mila persone che vivono ai margini della cinematografia, e questa massa occorre considerare particolarmente. Vi è, quindi, un ingente numero di lavoratori che, il giorno in cui la produzione cinematografica sarà sviluppata, avrà la possibilità di trovar lavoro. Ecco il motivo iniziale, fondamentale, del nostro intervento nella redazione della legge, del nostro intervento come rappresentanti dei lavoratori.

Ma è opportuno fare un po’ la storia di questa legge, perché il collega Pera ha parlato di voci non completamente disinteressate è questa sua affermazione, sia pure ipotetica, potrebbe gettare un’ombra su coloro che si sono occupati della redazione della legge.

Ora, chi conosce me personalmente sa che non ho mai avuto rapporti di nessuna specie con industriali e non ho mai servito interessi particolari.

PERA. Che gli industriali siano disinteressati, questo no!

VERNOCCHI, Relatore. Ciò non mi riguarda. Ma la legge e la storia della compilazione della legge dimostrano che non è soltanto una questione che riguarda gli industriali, ma è soprattutto un problema che riguarda i lavoratori. E allora è opportuno rifarci al passato: due anni or sono, l’allora Sottosegretario alla Presidenza, avvocato Libonati, dette vita ad una Commissione paritetica per l’esame del problema cinematografico del nostro Paese. Di questa Commissione facevano parte alcuni funzionari dei Ministeri, nonché rappresentanti dell’esercizio e della produzione, e rappresentanti dei lavoratori.

La prima cosa concreta fatta da questa Commissione paritetica fu l’abolizione delle leggi fasciste. Quindi non si può più dire che esistano ancora le leggi monopolistiche del fascismo, perché quelle furono proprio abrogate in quella prima riunione della Commissione paritetica. Ma questa Commissione paritetica si preoccupò di dare un ordinamento alla cinematografia dopo la liberazione di Roma e si preoccupò soprattutto di dare possibilità a questa industria di rinascere.

Colleghi, io credo che voi non abbiate una concezione precisa ed esatta di quella che è stata l’influenza distruttiva della guerra nella cinematografia del nostro Paese. L’industria cinematografica del nostro Paese ha risentito maggiormente della guerra per una ragione politica ed economica insieme; questa: perché i nostri amici alleati, e specialmente gli americani, avevano l’interesse particolare di distruggere l’industria cinematografica italiana. L’abbiamo visto quando, alla liberazione delle varie città, si sono presentati, immediatamente dietro le forze armate, carri pieni di scatole di pellicole che sono state imposte a tutti i cinematografi, per orientare il pubblico italiano attraverso il cinema come essi volevano e come serviva alla loro politica. Questa è la verità pregiudiziale e teniamone conto, perché proprio l’America insegna a noi qualche cosa in questo settore. La nostra industria cinematografica era completamente distrutta; bisognava risollevarla, tenerla per mano, guidarla, e darle la possibilità di riprendere la sua azione; perché, se un Paese non possiede una industria cinematografica efficiente, non ha alcuna possibilità di penetrazione psicologica, innanzi tutto nelle proprie masse, ed indirettamente, nelle masse degli altri Paesi, almeno per dimostrare lo sforzo di ricostruzione compiuto dal popolo in questo momento.

Questa legge ha avuto queste vicende: formulata diverse volte; preparata diverse volte; portata fin sulla soglia del Consiglio dei Ministri, improvvisamente si fermava. E noi non sappiamo quali pressioni recondite riuscissero ad ottenere questo risultato! Ma un bel giorno, dopo una, lunga riunione – era sottosegretario, amico Cappa, il tuo predecessore, Arpesani – riuscimmo a mettere insieme un progetto di legge che garantiva l’obbligatorietà per 84 giorni all’anno del film italiano nei cinematografi italiani. Arpesani, d’accordo con noi; gli uffici centrali della cinematografia, concordi. Il giorno dopo vi fu il Consiglio dei Ministri: ebbene, invece della legge preparata dalla Commissione paritetica, venne fuori il decreto del 1945, n. 678, che noi tutti conosciamo, sostanzialmente modificato, perché, da quel decreto, era sparita tutta la parte che si riferiva al contingente dello schermo. Che cosa era avvenuto, onorevoli colleghi? Era avvenuto che nella sera, nella notte, forse, l’ammiraglio Stone aveva presentato una nota particolare del suo Governo per impedire che quella legge, che stabiliva l’obbligatorietà del film italiano sugli schermi italiani, fosse approvata dal Governo italiano. Bisogna dire le verità come sono, onorevoli colleghi!

GIANNINI. È la verità.

VERNOCCHI, Relatore. Ed ecco le conseguenze di queste inframmettenze straniere. Ecco perché noi avevamo il dovere di difendere la nostra industria cinematografica ed avevamo anche il dovere di reagire contro tentativi monopolistici dell’industria straniera, la quale aveva già invaso i nostri mercati e voleva mantenerli ad ogni costo.

La vera importanza del disegno di legge è costituita dall’obbligatorietà. Se noi avessimo la possibilità di programmare obbligatoriamente nei nostri cinema, come in Francia, e negli altri Paesi, cento giorni, centocinque giorni, in libertà assoluta, allora noi non avremmo bisogno di assegnare all’industria determinate provvidenze. La verità è che non siamo riusciti nemmeno ad ottenere che la nostra proposta di ottantaquattro giorni all’anno, che è stata ripresa dall’onorevole Giannini in questo momento, fosse varata. E l’onorevole Cappa sa che cosa abbiamo dovuto fare perché gli ottantaquattro giorni fossero accettati. Anche lui, che era a capo di questa Commissione, ha dovuto subire, non dico determinate influenze, ma reazioni da parte proprio dell’esercizio italiano, il quale, abituato ai lauti guadagni col film americano, abituato a seguire quella parte deteriore del popolo italiano che vitupera tutto ciò che è nazionale e frutto del lavoro italiano ed esalta tutto ciò che è straniero, l’esercizio italiano, ripeto, si è sempre opposto a che fosse garantita la possibilità di vita al film italiano. Oh! voi dite che i film italiani sono tutti deplorevoli per mancanza di qualità artistica…

Una, voce a sinistra. Non è vero!

VERNOCCHI, Relatore. Non è vero. Voi affermate che solo un film italiano, o qualche film italiano è andato all’estero. Io vi dirò che non è così. I film italiani, che dimostrano soprattutto i danni apportati all’Italia dalla guerra, che dimostrano la nostra partecipazione alla guerra di liberazione, che mettono in evidenza il nostro sacrificio e lo sforzo di ricostruzione compiuto per la elevazione morale del nostro Paese, hanno avuto un successo immenso. Teniamo presente il successo dei film «Roma città aperta», «Il sole sorge ancora», «Sciuscià», acquistati immediatamente dai noleggiatori stranieri e riconosciamo che sono questi film che hanno dato fiducia al produttore per l’avvenire e l’incoraggiamento a fare nuovi film. «Il sole sorge ancora» non è di un industriale, è dell’A.N.P.I., dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, la quale attraverso il guadagno che ha realizzato con questo film sta in questo momento girando nelle campagne del Ravennate un altro film che dimostra la partecipazione dell’Italia alla guerra di liberazione e la sua volontà di elevarsi dalla depressione morale in cui è caduta. Questo conferma quello che si è detto la volta scorsa da alcuni colleghi che ripudiavano i grossi complessi industriali e mettevano in evidenza la possibilità della costituzione di cooperative per la produzione dei film, cooperative di lavoratori preoccupati soltanto di dare all’Italia una produzione cinematografica sana e soprattutto morale. Ecco il problema nella sua vera essenza. E se difendiamo questo disegno di legge lo facciamo proprio per questi suoi presupposti che sono di carattere morale e sociale. Come è fatto il disegno di legge? Non è quello che avevamo proposto noi. Innanzi tutto l’articolo 2 istituisce l’Ufficio centrale. Questo Ufficio centrale sa troppo di vecchia direzione generale della cinematografia.

Credo sia opportuno accettare l’emendamento Di Vittorio che dà possibilità alla Commissione consultiva di affiancare questo ufficio centrale e di togliere anche molti sospetti di incapacità o peggio. Istituisce determinate Commissioni. L’articolo 12 istituisce una Commissione consultiva della quale fanno parte rappresentanti dei Ministeri interessati e rappresentanti degli industriali e dei lavoratori. Vi sono degli emendamenti che completano queste Commissioni e che io accetto completamente.

L’articolo 13 è quello che ci fa pensare di più, perché così come è formulato con la maggioranza dei rappresentanti dei varî ministeri economici e finanziarî non garantisce la possibilità che effettivamente il giudizio sul merito, sulla qualità, possa essere un giudizio efficiente ed equo.

Una Commissione ristretta per giudicare un numeroso quantitativo di film può dare origine anche a sospetti, perché è molto più facile corrompere un piccolo numero di persone ed è, invece, molto difficile riuscire a corromperne un numero notevole. Ecco perché è opportuno elevare il numero dei rappresentanti dei lavoratori, elevare quello dei rappresentanti degli industriali, immettere il rappresentante dell’esercizio, ma anche il rappresentante dei lavoratori dell’esercizio, cioè dei lavoratori dei cinematografi…

GIANNINI. Accettiamo anche questo.

VERNOCCHI, Relatore. …per evitare la possibilità di rendere questo Comitato tecnico troppo burocratico, quindi inferiore ai suoi compiti particolari e delicati.

Vi sono le Commissioni di censura; sono al plurale perché sono più di una, perché è ovvio che queste Commissioni che devono visionare centinaia di film debbono essere numerose. Una sola Commissione non avrebbe la possibilità, pur rimanendo nella sala di proiezione dal mattino fino a notte, di vedere tutti i film e giudicare con coscienza.

Poi vi sono le provvidenze. Le provvidenze, vi dicevo prima, potrebbero essere evitate, se avessimo il coraggio di imporre la obbligatorietà dei film italiani per un maggior numero di giornate nei nostri cinematografi. Ma siccome questo non è possibile per la reazione dell’esercizio, già manifestata parecchie volte, dobbiamo accontentarci di quanto il disegno di legge dispone, o al massimo aumentare il periodo, se l’Assemblea lo crederà, ed io dichiaro fin da ora di accettare i 20 giorni ogni trimestre con provvidenze di carattere finanziario.

Onorevoli colleghi, lo Stato non elargisce nulla del suo. Lo scorso anno, su un incasso di circa due miliardi, ha dato al cinematografo italiano duecento milioni. Quest’anno, con un incasso raddoppiato darà il doppio; ma non sono i miliardi di cui parlava l’onorevole Pera; e non vi è ragione che il provvedimento possa influire negativamente sul decreto che è stato in questi giorni esaminato dal Consiglio dei Ministri inteso ad assegnare ai comuni italiani i proventi delle tasse erariali sui cinematografi.

Quattrocento milioni su quattro miliardi di introiti non sono che una piccolissima parte di quello che lo Stato ha guadagnato attraverso i cinematografi. E del resto così è in tutti gli Stati; perché se non vi sono quelle determinate provvidenze stabilite dall’articolo che noi esaminiamo, vi sono altre provvidenze forse superiori; vi sono le tasse di doppiaggio che, dovunque, sono fortissime ed impediscono ai film stranieri di entrare se non pagano questo notevole pedaggio; vi sono i contingenti allo schermo molto più elevati di quello stabilito dalla nostra legge; vi sono, come in America, dove la legge sembra più liberale, ma invece è più rigida, gruppi finanziari attorno all’industria cinematografica – 8 in tutto – i quali hanno influenze anche sulla politica del loro paese e che controllano l’80 per cento delle sale, e quindi hanno la possibilità di garantire la programmazione dei loro film.

E non parliamo della Russia che ha una cinematografia statale; non parliamo della Romania, della Cecoslovacchia, della Francia, dove soprattutto in questo momento si cerca di creare proprio quelle bardature statali alle quali qui si è accennato per condannarle, le quali hanno una importanza particolare, in quanto costituiscono le basi per la pianificazione di una industria cinematografica nazionale. Io credo che non si possano elevare accuse di protezionismo contro questa legge, se noi esaminiamo particolarmente quello che gli altri Stati hanno fatto. Dovunque, vi dicevo, vi sono leggi proiettive del cinematografo: gli è perché negli altri Stati si conosce l’importanza politica, psicologica, sociale, del cinematografo; si conosce il potere di penetrazione psicologica, non soltanto nel proprio popolo, ma anche nei popoli degli altri paesi. Dovreste tener presente che l’America, prima di vincere la guerra con le armi, l’ha vinta col cinematografo, per l’influenza che il film americano ha sempre esercitato sulle folle di tutti i paesi del mondo.

È una protezione necessaria, perché non si può passare immediatamente da un regime strettamente, rigidamente monopolistico ad un regime di assoluta libertà. Occorre che noi procediamo per gradi, ed occorre immettere nella legge determinate clausole che diano la possibilità di revocare o di rivedere di anno in anno quelle che sono le condizioni che noi oggi abbiamo poste nella legge stessa. Non sarà sempre così; il primo anno, quando l’industria è ancora bambina e deve crescere, noi daremo determinate provvidenze; il secondo anno vedremo quali saranno le condizioni di questa industria dopo un anno di vita e giudicheremo se dovremo mantenere, o se dovremo diminuire o se dovremo abolire addirittura questi provvedimenti. Ecco perché io accetto l’emendamento Giannini a questo proposito. Per raggiungere il fine, che noi speriamo e ci auguriamo che si realizzi, che, cioè, ad un determinato momento non vi siano più protezioni, non vi siano più aiuti, ma vi sia libertà completa, perché il film italiano nel nostro Paese si sarà affermato nei confronti di tutti gli altri film di produzione e di importazione straniera, di quei film che sono veramente una paccottiglia, di quei film che esprimono una psicologia che è completamente diversa dalla nostra e che noi dobbiamo combattere, perché noi italiani particolarmente, dopo il fascismo e dopo la guerra, ci troviamo in un periodo di depressione morale che deve meritare tutta la nostra attenzione. E abbiamo bisogno di servirci proprio dello strumento più efficace di penetrazione in mezzo alle masse della cinematografia, per cercare di sollevare la morale del nostro popolo, per cercare di impedire che questa situazione dolorosa si incancrenisca e che la prostituzione e la delinquenza ogni giorno più aumentino invece che diminuire. Questo è uno dei compiti del cinematografo, onorevoli colleghi, perché non vi è arte, in Italia, nel mondo, che sia più efficace del cinematografo. La poesia, la musica, la pittura parlano al pubblico ristretto, che si presuppone abbia già una base di educazione; il cinematografo, invece, rompe tutte le barriere, arriva a tutte le masse, anche le più incolte, parla al cuore e parla agli occhi; dice quello che il libro e il giornale non dicono; è analisi e sintesi nello stesso tempo; muove e commuove gli animi. L’Italia non può in nessuna maniera privarsi del suo cinematografo, di un cinematografo nazionale, senza andare incontro alla possibilità di perdere la sua indipendenza spirituale. (Applausi).

PERA. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Indichi il fatto personale.

PERA. Dovrei rettificare alcune cifre.

PRESIDENTE. Questo non costituisce un fatto personale. Onorevole Pera, se non è per fatto personale, la prego di non insistere nel chiedere di parlare, e rivolgo la stessa preghiera a tutti gli onorevoli colleghi.

L’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di parlare.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Sarò brevissimo, sia perché il Relatore ha già diffusamente difeso la legge, sia perché ho già spiegato, nell’ultima seduta, invitando l’Assemblea a respingere la domanda di rinvio, le ragioni per cui il Governo ha presentato questa legge. Dovrei inutilmente ripetermi. Per la verità tengo a confermare che il disegno di legge non è stato improvvisazione di laici, ma è stato preparato, come ha ricordato l’onorevole Vernocchi, attraverso discussioni, studi e, talora, anche contrasti di tecnici, di rappresentanti di varie correnti ed interessi. Questa legge, che viene una seconda volta all’Assemblea Costituente, ha mirato ad organizzare, da un lato, gli uffici della cinematografia che facevano parte del soppresso Ministero della cultura popolare – poi Sottosegretariato stampa e spettacoli – dall’altro, a creare una Commissione consultiva che possa prendere in esame i vari problemi della cinematografia nel nostro Paese. Alcuni avrebbero voluto che fosse creato un Sottosegretariato della cinematografia e dello spettacolo. Io ho ritenuto opportuno non creare nuove, complesse e costose organizzazioni, ma nello stesso tempo ho sentito la necessità assoluta di organizzare gli uffici della cinematografia in modo che possano tenere le redini di tutto quanto interessi la cinematografia in Italia. Per questo ho ritenuto opportuno costituire una Commissione consultiva; non una grande Commissione consultiva composta di una quantità di rappresentanti che si sarebbero riuniti poche volte all’anno facendo molte chiacchiere e nulla concludendo, ma una commissione ristretta che possa, su richiesta del Sottosegretario da cui l’ufficio dipende, esaminare e discutere tutti i problemi che hanno connessione o riferimento con l’attività e la produzione della cinematografia del nostro Paese. Mi compiaccio dell’ampia discussione che l’Assemblea ha voluto fare di questa legge. Penso che fra i nostri colleghi realmente i competenti sulla cinematografia saranno aumentati di numero con la discussione che si sta svolgendo: e non sarà stata cosa inutile. Ma raccomando all’Assemblea di voler venire ad una conclusione. Se ci sono differenze di vedute, le risolveremo articolo per articolo su ciascuno dei vari punti fondamentali. Ancora una parola su ciò che riguarda i giorni da riservare alla programmazione di film italiani. Creda, onorevole Pera, che questo lato del problema è stato largamente studiato ed il Governo ha tenuto conto dei contrastanti interessi.

Io ho resistito in parte alle domande dei produttori nazionali che volevano vedersi assegnare un maggior numero di giorni riservati alla programmazione dei film nazionali. E non l’ho fatto certo – mi rivolgo soprattutto all’onorevole Giannini e all’onorevole Proia – per fare opposizione ai desiderata dei produttori nazionali, ma perché ho ritenuto non essere conveniente creare intorno alla produzione nazionale un ambiente chiuso, ristretto di protezione tale da impedire l’eccitamento che può venire dalla libera concorrenza e migliorare e progredire la produzione dei nostri film. A me sembra che attualmente innovando, come innoviamo, in questa legge con la istituzione di una quantità di giorni riservati alla cinematografia nazionale noi già facciamo un passo in avanti. Stabiliamo e teniamo fermi questi sessanta giorni. Non esageriamo, per non dare alla produzione nazionale la sensazione di non aver bisogno di migliorare, mentre invece da molte parti vengono le critiche, e non poche, sui film nazionali, in quanto si afferma che essi sono inferiori alla produzione straniera.

Si potrebbe trovare anche su questo una via di conciliazione. Vi è un emendamento dell’onorevole Giannini il quale vorrebbe portare i giorni riservati da quindici giorni al trimestre, cioè 60 all’anno, a 20 al trimestre, cioè 80 giorni all’anno. Ma un altro emendamento all’articolo 7 del collega Giannini dice che «Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il parere della Commissione consultiva, potrà essere variato, di anno in anno, il numero delle giornate da riservare ai film nazionali, in relazione alla variazione della quantità e qualità della produzione cinematografica nazionale dell’anno». Io non avrei nulla in contrario ad accogliere questo emendamento, mentre sinceramente penso che non sia opportuno accogliere il primo emendamento dello stesso onorevole Giannini, che porta da 15 a 20 giorni le rappresentazioni riservate alla produzione nazionale.

Articolo per articolo noi potremo esaminare i varî emendamenti che sono stati proposti. Non ho nulla in contrario, per quanto riguarda la costituzione della Commissione centrale, ad accogliere l’emendamento col quale alla Commissione centrale consultiva si aggiunge un rappresentante del Ministero per il commercio con l’estero. Appare opportuna l’inclusione, in quanto i problemi della cinematografia nazionale implicano l’esame di molte questioni che possono aver rapporto con l’introduzione in Italia di film, e, quindi, con i problemi della valuta.

Naturalmente, sono contrario alla proposta del collega Fogagnolo. Non si risolverebbe niente in questo modo e noi non faremmo che rinviare il problema. Purtroppo, tutto quello che riguarda l’eredità del vecchio Ministero della cultura popolare importa un succedersi di questioni e di polemiche. Anche nell’organizzazione del turismo, reclamata insistentemente da quando la guerra è finita, si trovano ostacoli acché qualcosa di vivo si crei. Sembra che da tutte le parti sorgano contestazioni; vi sono, forse, interessi e punti di vista diversi. Questa del cinematografo è intanto una partita che noi risolviamo e sistemiamo delle molte che furono le attribuzioni del Ministero soppresso.

Io sono convinto che se noi nominassimo un’altra Commissione, sia pure con rappresentanti parlamentari, allorché questa Commissione – chissà quando del resto – portasse dinanzi alla Assemblea, o prima davanti al Consiglio dei Ministri, le sue proposte, saremmo di nuovo daccapo a discutere, ed intanto nulla si farebbe. Invece, attraverso la costituzione del proposto ufficio centrale, attraverso la costituzione della Commissione consultiva, io penso che realmente un passo in avanti si possa fare pel riordinamento completo della cinematografia del nostro Paese.

Presentazione di relazioni.

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Mi onoro di presentare la relazione della Commissione per i trattati internazionali sul disegno di legge concernente l’approvazione dell’accordo concluso a Parigi il 10 settembre 1946 tra il Governo italiano e quello egiziano circa il risarcimento dei danni subiti dall’Egitto per effetto di operazioni militari.

Presento inoltre, a nome dell’onorevole Jacini, la relazione della stessa Commissione sul disegno di legge concernente la partecipazione dell’Italia alla F.A.O.

PRESIDENTE. Queste relazioni saranno stampate e distribuite.

Si riprende la discussione del disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione degli articoli del disegno di legge sull’ordinamento dell’industria cinematografica, nazionale.

L’onorevole Fogagnolo ha proposto la soppressione dei primi sei articoli. Ora, a norma di Regolamento, gli articoli devono essere esaminati singolarmente. Pertanto la proposta di soppressione, se mantenuta, sarà votata articolo per articolo.

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Io credo, onorevole Presidente, che la proposta da me fatta, cioè di limitare la discussione del progetto all’articolo 7 con la soppressione dei primi sei articoli, abbia il diritto di precedenza, perché se l’Assemblea dovesse votarla, gli articoli dall’uno al 6 non si esaminerebbero più. Quindi non è articolo per articolo che io ritengo si debba votare. Ho proposto di sopprimere dall’articolo 1 all’articolo 6 e di rifare il testo, cioè ho proposto un nuovo testo all’articolo 7. Se la mia proposta dovesse essere approvata, perciò, dall’articolo 1 all’articolo 6 non ci sarebbe più bisogno di discutere e pertanto la mia preposta dovrebbe avere la precedenza. Ed a questo proposito, riferendomi a quanto hanno detto l’onorevole Cappa ed il relatore, mi permetto di richiamare vivamente l’attenzione dell’Assemblea sull’importanza della proposta che ho fatto. Sarebbe mio desiderio sentire il parere dell’onorevole Proia e dell’onorevole Giannini, sull’opportunità o meno di limitare per il momento l’attività protettrice di questa legge alla sola programmazione obbligatoria nelle sale cinematografiche. Evitare quindi di dare anche delle piccole cifre, perché non è che noi diamo con questo provvedimento il 12 per cento su quello che lo Stato incassa: ma diamo un contributo, da parte dello Stato, alle produzioni, pari al 12 per cento degli incassi lordi delle sale cinematografiche!

VERNOCCHI, Relatore. Sì, ma per quel film.

FOGAGNOLO. Naturalmente, ma questo riguarda gli incassi lordi. Ritengo che l’Assemblea non sia matura per esaminare un provvedimento di questo genere, che dovrebbe avere bisogno di uno studio profondo da parte dei competenti. Qui abbiamo un provvedimento che è stato preparato da funzionari. Ora, la mia proposta è di nominare un comitato per tutto ciò che riguarda l’ordinamento generale della cinematografia e di lasciare limitata la discussione a quella parte del progetto che dovrebbe dare all’industria nazionale la possibilità, anzi la certezza, di avere i suoi film programmati. Se noi saremo d’accordo su questo, avremo raggiunto lo scopo che ci dobbiamo prefiggere: cioè quello di assicurare alla produzione cinematografica nazionale la certezza di programmazione. Per tutto il resto (creare tutti questi uffici, tutte queste Commissioni ecc.), lasciamo da parte questi provvedimenti, di cui non si sente la necessità. Per amministrare dei contributi e per fissare dei programmi viene proposto di creare almeno cinque commissioni; ed io trovo che sarebbe un assurdo!

PRESIDENTE. Onorevole Fogagnolo, non insista perché sia messa in votazione la sua proposta soppressiva dei primi sei articoli.

Le faccio osservare che questo sarebbe una specie di controprogetto, che lei propone al progetto del Governo, e che il Governo ha dichiarato di non accettare.

Dobbiamo, pertanto, procedere all’esame dei singoli articoli. Ella avrà diritto di proporre, articolo per articolo, la soppressione.

FOGAGNOLO. Con tutto il rispetto che ho per lei, signor Presidente, mi permetto di dissentire da questa interpretazione.

PRESIDENTE. Passiamo all’esame dell’articolo 1:

«L’esercizio dell’attività di produzione di film è libero.

«Le imprese produttrici debbono denunciare tempestivamente l’inizio di lavorazione del film all’Ufficio centrale per la cinematografia, di cui al seguente articolo 2, fornendo tutti gli elementi necessari per l’accertamento della nazionalità del film».

L’onorevole Fogagnolo ha proposto la soppressione di questo articolo. Onorevole Fogagnolo, insiste sul suo emendamento?

FOGAGNOLO. Insisto.

PRESIDENTE. Prego la Commissione di esprimere il suo avviso al riguardo.

VERNOCCHI, Relatore. La Commissione è contraria.

PRESIDENTE. E il Governo?

CAPPA, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. È contrario.

PRESIDENTE. Metto a partito l’emendamento soppressivo dell’articolo primo presentato dall’onorevole Fogagnolo.

(Non è approvato).

Pongo in votazione l’articolo 1 di cui do nuovamente lettura:

«L’esercizio dell’attività di produzione di film è libero.

«Le imprese produttrici debbono denunciare tempestivamente l’inizio di lavorazione dei film all’Ufficio centrale per la cinematografia, di cui al seguente articolo 2, fornendo tutti gli elementi necessari per l’accertamento della nazionalità del film».

(È approvato).

Segue l’articolo 2:

«È istituito alla diretta dipendenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri un Ufficio centrale per la cinematografia.

«L’Ufficio centrale per la cinematografia:

  1. a) attua le provvidenze stabilite a favore della produzione cinematografica nazionale;
  2. b) accerta la nazionalità dei film;
  3. c) promuove e cura i rapporti concernenti gli scambi cinematografici con l’estero;
  4. d) esercita le attribuzioni demandate allo Stato dalle disposizioni concernenti la vigilanza governativa sulle pellicole cinematografiche;
  5. e) esercita la vigilanza sugli enti, le attività e le manifestazioni cinematografiche aventi carattere d’interesse pubblico;
  6. f) esercita le attribuzioni demandate dalla presente leggo o da altre leggi.

«Hanno sede presso l’Ufficio centrale per la cinematografia le Commissioni previste dalla presente legge, nonché la Commissione tecnica per l’esame delle domande di costruzione e di apertura di nuove sale cinematografiche, di cui alla legge 30 novembre 1939, n. 2100».

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Insisto naturalmente per la soppressione di ognuno dei primi sei articoli; ma protesto per questo sistema di votazione, perché, quando la mia preposta di soppressione è respinta, il Presidente non ha il diritto di dire chequell’articolo è approvato.

PRESIDENTE. Questo non è esatto, onorevole Fogagnolo. Io ho proceduto a una seconda votazione, dopo di aver dato nuovamente lettura dell’articolo 1, che l’Assemblea ha approvato.

L’onorevole Fogagnolo ha proposto la soppressione anche dell’articolo 2. Qual è il pensiero del Relatore?

VERNOCCHI, Relatore. Sono contrario.

PRESIDENTE. E qual è il pensiero del Governo?

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Il Governo è contrario.

GIANNINI. Chiedo di parlare sulla proposta di soppressione.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Desidero chiarire un momento all’onorevole Fogagnolo che la proposta non è stata capita, ma non è sbagliata. Solo ha il torto di essere un’altra legge, ossia una legge nuova sulla cinematografia presentata in un modo magari più snello e magari migliore di quello che è la legge in discussione. Se non che, mentre l’onorevole Fogagnolo presenta questa nuova legge con una giustissima motivazione, ossia, perché ritiene che della legge già presentata e già in discussione, l’Assemblea non abbia una cognizione perfetta, egli pretende che noi approviamo la sua nuova legge che egli ha semplicemente letta rapidamente e che nessuno di noi ha letta. Ciò mi sembra illogico. Ora, se l’Assemblea non è preparata a capire tutti i misteri di una legge che ormai si trascina da un anno, e sull’approvazione della quale sono d’accordo quattro partiti politici, fra i quali alcuni antitetici, come è possibile che l’Assemblea stessa possa immediatamente prendere in considerazione ed in giusto esame la proposta di una nuova legge fatta all’improvviso? Non che sia cattiva, anzi io voglio ammettere che sia migliore, ma ci vorrebbe tempo per studiarla.

FOGAGNOLO. Sono due articoli!

GIANNINI. Non basta. In due articoli si possono mettere tutte le «chiapparelle» di questo mondo. Ora io penso che lei stima la nostra intelligenza e suppone che comprendiamo le «chiapparelle» in un attimo. Invece non tutti siamo intelligenti ed io, per esempio, non ho capito se c’è la «chiapparella». Quindi desidero discutere ed approvare la legge di cui mi sono impadronito, anziché la legge sua, che è certamente migliore, ma che esigerebbe un altro studio che adesso non c’è il tempo di fare.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la soppressione dell’articolo 2 proposta dall’onorevole Fogagnolo.

(Non è approvata).

Allora procediamo alla votazione dell’articolo, comma per comma. Al primo comma dell’articolo 2 non è stato presentato alcun emendamento. Esso è del seguente tenore:

«È istituito alla diretta dipendenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri un Ufficio centrale per la cinematografia».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Passiamo al secondo comma:

«L’Ufficio centrale per la cinematografia:

  1. a) attua le provvidenze stabilite a favore della produzione cinematografica nazionale;
  2. b) accerta la nazionalità dei film;
  3. c) promuove e cura i rapporti concernenti gli scambi cinematografici con l’estero;
  4. d) esercita le attribuzioni demandate allo Stato dalle disposizioni concernenti la vigilanza governativa sulle pellicole cinematografiche;
  5. e) esercita la vigilanza sugli enti, le attività e le manifestazioni cinematografiche aventi carattere d’interesse pubblico;
  6. f) esercita le attribuzioni demandate dalla presente legge e da altre leggi».

A questo comma è stato presentato il seguente emendamento accettato dalla Commissione e dal Governo:

«Dopo le parole: L’Ufficio centrale per la cinematografia, aggiungere: valendosi dell’assistenza della Commissione consultiva, di cui all’articolo 12.

«Di Vittorio, Bernamonti, Bitossi, Maffi, Mezzadra, Pressinotti, Corbi, Fantuzzi».

CORBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBI. L’emendamento è stato già svolto dal collega Di Vittorio. Io insisto nel riproporlo, perché mi sembra una cosa assolutamente logica che l’Ufficio centrale per la cinematografia che si vuole istituire, per i poteri che gli vengono dati, debba avvalersi, per meglio espletare il suo compito, dell’assistenza della Commissione consultiva.

GIANNINI. Ma siamo d’accordo. Tutti abbiamo accettato questo emendamento Di Vittorio.

PROIA. Mi associo.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Di Vittorio.

(È approvato).

Pongo in votazione il secondo comma così modificato:

«L’Ufficio centrale per la cinematografia, valendosi dell’assistenza della Commissione consultiva, di cui all’articolo 12:

  1. a) attua le provvidenze stabilite a favore della produzione cinematografica nazionale;
  2. b) accerta la nazionalità dei film;
  3. c) promuove e cura i rapporti concernenti gli scambi cinematografici con l’estero;
  4. d) esercita le attribuzioni demandate allo Stato dalle disposizioni concernenti lai vigilanza governativa sulle pellicole cinematografiche;
  5. e) esercita la vigilanza sugli enti, le attività e le manifestazioni cinematografiche aventi carattere d’interesse pubblico;
  6. f) esercita le attribuzioni demandate dalla presente legge e da altre leggi».

(È approvato).

Passiamo al terzo comma:

«Hanno sede presso l’Ufficio centrale per la cinematografia le Commissioni previste dalla presente legge, nonché la Commissione tecnica per l’esame delle domande di costruzione e di apertura di nuove sale cinematografiche, di cui alla legge 30 novembre 1939, n. 2100».

A questo comma gli onorevoli Bubbio, Siles, Cappi, Rescigno, Cingolani, Clerici, Guidi, Bellato, Perlingieri hanno proposto di sopprimere le parole: «nonché la Commissione tecnica per l’esame delle domande di costruzione e di apertura di nuove sale cinematografiche, di cui alla legge 30 novembre 1939, n. 2100».

PROIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PROIA. Prego gli onorevoli proponenti di ritirare la proposta soppressiva, perché altrimenti non sapremmo ora come sostituire la Commissione per l’apertura delle nuove sale. Quindi prego nello stesso tempo il Governo di preparare un’altra disposizione sulla sorveglianza dell’esercizio delle sale.

BUBBIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BUBBIO. Questo emendamento non va esaminato da solo, ma in rapporto al seguente ordine del giorno che ho presentato:

«L’Assemblea,

ritenuto che ad evitare centralizzazioni, fonte di spese e di ritardi, sia opportuno demandare a speciali Commissioni regionali tecniche l’esame delle domande di istruzione e di apertura di nuove sale cinematografiche, di cui alla legge 30 novembre 1939, n. 2100,

fa voti perché il Governo provveda alla soppressione della Commissione tecnica centrale ed alla istituzione di Commissioni di carattere regionale».

Possiamo essere d’accordo che fino a quando non sarà soppressa questa Commissione centrale di carattere prevalentemente tecnico essa debba avere una sede; ma intendiamo che il Governo prenda atto del nostro voto e cerchi di attuate il sistema di decentramento regionalistico, nel senso di creare, regione per regione o provincia per provincia, una Commissione per questi permessi di apertura; perché centralizzare vuol dire insabbiare queste pratiche, creare malcontento, sfasare i tempi ed impedire che regionalmente possano essere tutelati interessi locali.

PRESIDENTE. Allora, se ho ben capito, lei ritirerebbe l’emendamento e si limiterebbe a raccomandare, mediante questo ordine del giorno, la soppressione della Commissione tecnica centrale.

BUBBIO. Perfettamente.

PRESIDENTE. Qual è il parere della Commissione?

VERNOCCHI, Relatore. La Commissione non è favorevole neanche all’ordine del giorno, non per una ragione di carattere formale, ma per una ragione di carattere sostanziale: è opportuno che l’ufficio sia centrale per la visione panoramica delle sale italiane e per il coordinamento delle sale stesse, non soltanto, ma perché concedendo ad ogni provincia questa facoltà si formerebbero necessariamente varie commissioni che costano allo Stato e che si presterebbero a determinate influenze che in un piccolo ambiente possono consentire privilegi e particolarismi sempre ingiusti. Con l’ufficio centrale, che non è interessato ad alcun privilegio, avremo la possibilità di rendere giustizia a tutti coloro che intendono aprire delle sale cinematografiche che abbiano i requisiti voluti dalla legge.

PRESIDENTE. Poiché l’onorevole Bubbio ha ritirato il suo emendamento, per quanto attiene all’ordine del giorno, se egli insisterà, lo metteremo ai voti dopo che sarà esaurita la discussione degli articoli.

Pongo in votazione l’ultimo comma dell’articolo 2.

«Hanno sede presso l’Ufficio centrale per la cinematografia le Commissioni previste dalla presente legge, nonché la Commissione tecnica per l’esame delle domande di costruzione e di apertura di nuove sale cinematografiche, di cui alla legge 30 novembre 1939, n. 2100».

(È approvato).

L’articolo 2, nel suo complesso, resta pertanto così formulato:

«È istituito alla diretta dipendenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri un Ufficio centrale per la cinematografia.

«L’Ufficio centrale per la cinematografia, valendosi dell’assistenza della Commissione Consultiva di cui all’articolo 12:

  1. a) attua le provvidenze stabilite a favore della produzione cinematografica nazionale;
  2. b) accerta la nazionalità dei film;
  3. c) promuove e cura i rapporti concernenti gli scambi cinematografici con l’estero;
  4. d) esercita le attribuzioni demandate allo Stato dalle disposizioni concernenti la vigilanza governativa sulle pellicole cinematografiche;
  5. e) esercita la vigilanza sugli enti, le attività e le manifestazioni cinematografiche aventi carattere d’interesse pubblico;
  6. f) esercita le attribuzioni demandate dalla presente legge e da altre leggi.

«Hanno sede presso l’Ufficio centrale per la cinematografia le Commissioni previste dalla presente legge, nonché la Commissione tecnica per l’esame delle domande di costruzione, e di apertura di nuove sale cinematografiche, di cui alla legge 30 novembre 1939, n. 2100».

Passiamo all’articolo 3:

«Sono considerati nazionali, agli effetti della presente legge, i film prodotti in versione originale italiana o in più versioni, di cui una italiana, che siano stati girati prevalentemente in Italia, con personale artistico e tecnico in prevalenza italiano, da imprese appartenenti a cittadini italiani, o, se trattasi di società, quando queste abbiano la sede legale in Italia, capitali ed amministratori in prevalenza italiani e svolgano in Italia la maggior parte delle loro attività.

«La dichiarazione di nazionalità è rilasciata dall’ufficio centrale per la cinematografia, previo accertamento dei requisiti sopra descritti, anche a seguito di ispezioni nei luoghi di lavorazione. A tal fine i funzionari dell’Ufficio centrale, per la cinematografia, all’uopo incaricati, avranno libero accesso negli stabilimenti e in ogni altro luogo di lavorazione dei film».

L’onorevole Fogagnolo ha proposto la soppressione anche di questo articolo. Onorevole Fogagnolo, ella insiste?

FOGAGNOLO. Poiché sullo stesso argomento dovrò intrattenermi a proposito dell’articolo 7, non insisto.

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione del primo comma dell’articolo 3:

«Sono considerati nazionali, agli effetti della presente legge, i film prodotti in versione originale italiana o in più versioni, di cui una italiana, che siano stati girati prevalentemente in Italia, con personale artistico e tecnico in prevalenza italiano, da imprese appartenenti a cittadini italiani, o, se trattasi di società, quando queste abbiano la sede legale in Italia, capitali ed amministratori in prevalenza italiani, e svolgano in Italia la maggior parte delle loro attività».

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Vorrei chiedere il significato della parola: «prevalentemente». È «prevalentemente» quale metraggio, è «prevalentemente» quale scenario, è «prevalentemente» quale spesa sostenuta per il film? Abbiamo una dizione che ha bisogno di una spiegazione: per la mia ignoranza, non per quella degli altri.

PRESIDENTE. Quale è il parere della Commissione?

VERNOCCHI, Relatore. Si vuol dire che il film deve essere girato prevalentemente in Italia: cioè deve avere esterni italiani, interni italiani, con personale artistico in prevalenza italiano.

FOGAGNOLO. Ma «prevalentemente» può anche voler dire che si devono consumare determinati metri di pellicola di scene girate in Italia.

VERNOCCHI, Relatore. Questa è una interpretazione sua.

PRESIDENTE. Ritengo che l’onorevole Fogagnolo possa essere sodisfatto del chiarimento.

Metto ai voti il primo comma dell’articolo 3.

(È approvato).

L’onorevole Proia, dopo il primo comma ha proposto di aggiungere il seguente:

«In via eccezionale potranno essere considerati nazionali i film prodotti in Italia o all’estero da case italiane in regime di compartecipazione artistica, tecnica e finanziaria con le case estere, quando la realizzazione di detti film sia riconosciuta, di volta in volta, di interesse nazionale, ai fini economici ed artistici da parte dell’Ufficio centrale per la cinematografia, sentito il parere del Comitato tecnico, di cui al successivo articolo 13».

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. L’altro giorno, quando si discuteva della proposta sospensiva, ho accennato a questo emendamento, perché da quei banchi ho sentito voci che dicevano: siamo pronti a ritirarlo. Questo per lo meno risulta dal resoconto sommario.

Questo emendamento fa riflettere sulle intenzioni che si potevano avere su quei banchi dall’onorevole Proia e da quelli che la pensano come lui, mentre, viceversa, il Relatore ha dichiarato che, secondo lui, lo scopo di questo provvedimento è quello di aiutare il lavoro italiano. Ciò mi pare che non raccomandi troppo questo emendamento, secondo le intenzioni dell’onorevole Proia e degli industriali da lui protetti. Se dovessimo approvare questo emendamento ci troveremmo di fronte ad un organismo il quale, col pretesto delle circostanze eccezionali, troverebbe la possibilità di dare i quattrini dello Stato e la certezza di programmazione nelle sale a quei film (ecco perché ho parlato prima di «prevalentemente») che sono girati non prevalentemente con mezzi italiani, cioè con prevalenza di materiali, di artisti, di comparse, di tecnici, di carpentieri, di sceneggiatori, ecc. Ma in questa maniera apriamo uno spiraglio ad imbrogliare nella interpretazione della legge, ad ingannare quella che è l’intenzione di coloro che approveranno la legge? Rivive in altri termini la vecchia mentalità cinematografica, di gente di poco scrupolo, di coloro che vorrebbero darci ad intendere che questa legge ha lo scopo di favorire i lavoratori! Invito dunque l’Assemblea a respingere l’emendamento dell’onorevole Proia.

PERA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERA. Mi associo a quanto ha detto l’onorevole Fogagnolo. Già precedentemente ho detto che sono sempre stati gli interessi dei lavoratori che si sono portati innanzi per giustificare l’insieme di questa legge e particolarmente di determinati articoli.

A un determinato momento ho sentito persino parlare, quando si faceva una distinzione tra i grandi e i piccoli produttori, di grandi produttori stranieri che avrebbero potuto venire in Italia per associarsi ai produttori italiani. Ragione di più, dicevo io, per respingere questa sovvenzione. Ma l’emendamento dell’onorevole Proia conferma, come diceva l’onorevole Fogagnolo, in pieno questo pericolo. Mi si lasci dire allora che noi eravamo nel giusto e nel vero quando denunciavamo le intenzioni di certi sostenitori della legge.

Infatti l’emendamento dell’onorevole Proia dice che il beneficio eccezionale, cioè che il beneficio che nessun paese del mondo concede, possa essere dato anche a quei film prodotti in Italia o all’estero, quando abbiano carattere di interesse nazionale.

Come sarebbero protetti gli operai italiani in questo caso?

PROIA. Operai italiani vanno all’estero.

PERA. Scherziamo! Un film prodotto a Hollywood dagli operai italiani! Ma dove andiamo? Bisogna essere seri nelle discussioni! Qui non siamo più seri. Ecco cosa dice l’emendamento:

«…da case italiane in regime di compartecipazione artistica, tecnica e finanziaria con le case estere, quando la realizzazione di detti film sia riconosciuta, di volta in volta, di interesse nazionale».

Dunque quello che preoccupa il presentatore di questo emendamento è la partecipazione finanziaria con case estere. Allora noi verremmo a questo assurdo, a questo grottesco: degli industriali americani sovvenzionati dallo Stato italiano, perché produttori di film di cosidetto interesse nazionale italiano. Io credo che non vi sia bisogno di spendere altre parole perché l’Assemblea rigetti questo emendamento dell’onorevole Proia. Ma io ho tenuto a prendere la parola per fare ancora una volta rilevare che erano giustificati tutte le mie affermazioni e i miei sospetti quando ho parlato nella discussione generale del progetto.

TONELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Io noto che in questo disegno di legge non vi è nemmeno un accenno al film educativo e ai suoi sviluppi.

VERNOCCHI, Relatore. Il documentario è educativo.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Se ne parla in seguito.

TONELLO. E allora basta.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, la discussione di questo emendamento dell’onorevole Proia a me sembra inutile, perché mi sembra inutile l’emendamento. Senza avere le drammatiche preoccupazioni dell’onorevole Pera…

PERA. Sempre dramma, quando si tratta di quattrini.

GIANNINI. …comunque sono d’accordo con lei, e quindi non c’è ragione di inquietarsi…

PERA. Non mi inquieto.

GIANNINI. Sarà puro tono di voce. Dicevo, dunque, che senza avere quelle drammatiche preoccupazioni, vedo in quell’emendamento all’articolo 3 una sola preoccupazione: quella di assicurare la proiezione, in un certo senso coattiva, all’estero mediante la compartecipazione di industriali non italiani. Ma questo è già detto nel primo comma dell’articolo 3 che abbiamo approvato. E allora che bisogno c’è di dire con altre parole quello che già è stato approvato e di dirlo in maniera che in un certo senso possa prestare il fianco a critiche certamente importanti, certamente notevoli e che possono forse dar luogo a sospetti? Quindi la pregherei, onorevole Proia se proprio non glielo ha ordinato il medico (Si ride), di ritirare questo emendamento, perché è inutile e non dà nulla di più di quanto dà il primo comma dell’articolo 3.

PRESIDENTE. Onorevole Proia, ella insiste nell’emendamento?

PROIA. Insisto, ma sopprimendo le parole «o all’estero».

PRESIDENTE. Allora il comma aggiuntivo risulterebbe così formulato:

«In via eccezionale potranno essere considerati nazionali i film prodotti in Italia da case italiane in regime di compartecipazione artistica, tecnica e finanziaria con le case estere, quando la realizzazione di detti film sia riconosciuta, di volta in volta, d’interesse nazionale, ai fini economici ed artistici da parte dell’Ufficio centrale per la cinematografia, sentito il parere del Comitato tecnico, di cui al successivo articolo 13».

CORBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBI. Noi voteremo contro questo emendamento, nonostante la parziale modifica concessa dall’onorevole Proia, la quale ci sembra assolutamente insufficiente. Il collega Bibolotti, nell’illustrare il perché noi eravamo favorevoli all’approvazione di questa legge, ha dichiarato chiaramente che si voleva favorire l’industria cinematografica nazionale ed ha dimostrato sotto vari aspetti come poteva essere favorita. Ma ci sembra che questo emendamento potrebbe venire a costituire una specie di cavallo di… Proia (Si ride) nella legge stessa, perché per altra via si viene a dare a produttori stranieri ciò che loro non compete, con un aggravio da parte dello Stato italiano. È già un aggravio che lo Stato subisce, e noi pensiamo che lo debba subire volentieri quando si tratti di produttori italiani da favorire. (Interruzione dell’onorevole Proia).

È vero che in questo emendamento si dice «in via eccezionale»; ma noi sappiamo che spesso le vie eccezionali diventano abituali. È vero che in questo emendamento si dice «interessi nazionali», però gli interessi nazionali non sempre, purtroppo, sono intesi come tali, e si sa che questo concetto è molto elastico.

Ora, l’onorevole Proia ha proposto di togliere le parole «o all’estero»; però restano, ancora le «case estere»; e quindi il problema non si risolve più. Per questa ragione voteremo contro.

PERA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERA. Se si toglie la questione degli operai all’estero, rimane l’altro pericolo cui ho accennato, cioè la collaborazione finanziaria di case italiane con case estere. È appunto questo, dirò, il punto più delicato. Nell’altro punto eravamo addirittura nel grottesco. Qui è il punto delicato: questa collaborazione di case estere con case italiane, cioè il capitale estero che verrebbe ad essere sovvenzionato nel bilancio italiano.

Io insisto e mi associo all’onorevole Corbi perché sia rigettato l’emendamento proposto dall’onorevole Proia.

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Prego l’onorevole Proia di non insistere, perché se si trattasse di un contributo che dovessero pagare gli spettatori delle sale cinematografiche, la cosa non avrebbe grande importanza, ma qui si tratta di contributi che dà lo Stato; si tratta di sgravi fiscali – come spiega bene la relazione della Commissione – che lo Stato italiano dà a beneficio di qualcuno. Se questo qualcuno è un cittadino italiano, la cosa può essere esaminata con serena obiettività; ma quando si parla di imprese miste di italiani e case estere, senza che si possa precisare a priori la quota di interessenza e di partecipazione della casa estera a quella italiana, veniamo ad una cosa che mi sembra molto anacronistica: cioè che lo Stato italiano debba trarre di tasca propria somme che non si sa ancora di quale entità siano a beneficio di stranieri. Sarei grato al Relatore della Commissione ed al Governo se potessero fornire precisazioni al riguardo sull’entità del contributo che lo Stato dà ai film nazionali.

Una voce. Questo è nel successivo articolo 4.

BERTONE. Per tutte queste considerazioni, già prospettate dall’onorevole Giannini, e tenuto conto che gli interessi italiani sono già sufficientemente tutelati e previsti dall’articolo 3, prego l’onorevole Proia di non insistere nel suo emendamento e, se egli dovesse mantenerlo, dichiaro che voterò contro (Approvazioni).

PRESIDENTE. Su questo emendamento devono ancora parlare molti colleghi. Voglio chiederle, onorevole Proia, se lei si mostra insensibile a queste esortazioni ed insiste nel suo emendamento.

PROIA. Mi rimetto alla Commissione.

PRESIDENTE. Chiedo il parere della Commissione.

VERNOCCHI, Relatore. Il problema è importante. Io sono rimasto perplesso quando ho letto l’emendamento Proia che è troppo vago, e si presta alle speculazioni straniere e naturalmente può indurre alle critiche che sono state mosse dall’onorevole Pera e da altri colleghi. Il problema è importante: per questo, perché sé noi in qualche triodo non eccitiamo la compartecipazione straniera, in Italia non verrà nessuna casa straniera e diminuiremo le possibilità di lavoro ai lavoratori italiani.

GIANNINI. Questo è già specificato nell’articolo 3, là dove dice che «sono considerati nazionali agli effetti della presente legge, i film prodotti in versione originale italiana o in più versioni».

Una voce. Ma questa dizione non è chiara!

VERNOCCHI, Relatore. Io dico che è giusto che questi film fatti in compartecipazione con lo straniero non usufruiscano della protezione concessa da questa legge, ed anzi proporrei questa introduzione: «in via eccezionale potranno essere considerati nazionali, ai fini dell’articolo 7»; cioè del contingente allo schermo e quindi esclusi i benefici di carattere finanziario.

PROIA. Accetto questa modifica.

PRESIDENTE. Onorevole Vernocchi, la prego di proporre un emendamento perché possa essere discusso ed eventualmente messo ai voti.

PREZIOSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PREZIOSI. Ero rimasto perplesso dinanzi all’emendamento presentato dall’onorevole Proia, laddove era mantenuta la parola «o all’estero» perché c’era la possibilità che lo Stato potesse contribuire a quelli che erano film prodotti con capitale straniero; ma quando l’onorevole Proia ha soppresso le parole: «o all’estero» e successivamente l’onorevole Vernocchi ha aggiunto «ai fini dell’articolo 7», a me pare che non ci sia più pericolo, come i colleghi di questa sponda (Accenna alla sinistra) vorrebbero prospettare all’Assemblea che in un certo qual modo si voglia andare contro il contenuto di questa legge, che è quello di proteggere i film italiani. Perché, onorevole Presidente, giustamente l’onorevole Vernocchi dice una cosa semplicissima, che poi ha la sua importanza ai fini della cinematografia italiana: di non impedire, cioè, ai capitali stranieri di affluire in Italia, per partecipare all’industria nazionale del film. Il fatto che capitali stranieri vengano in Italia, il fatto che case italiane possano lavorare in regime di compartecipazione artistica, tecnica e finanziaria con le case estere, favorisce anche l’operaio italiano, perché così è possibile non soltanto fare un numero maggiore di film, ma cointeressare le case straniere che danno i propri capitali anche a case industriali italiane, ed i film italiani potranno essere proiettati sugli schermi stranieri. Tutto ciò significa possibilità maggiore di lavoro per i nostri operai. A me pare che siano venute meno le ragioni invocate contro l’emendamento Proia, e ritengo quindi che possa essere approvato.

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Sono completamente d’accordo con il Relatore nel senso che il problema della produzione in compartecipazione ha una grande importanza, ma soltanto se con questa legge vogliamo dare lavoro ai lavoratori italiani; ma se questa legge dovesse avere un significato diverso e nascosto, allora tiriamo su anche il velo che c’è nell’emendamento Proia. Noi dobbiamo incoraggiare i capitali stranieri a venire in Italia, ma non dobbiamo contribuire col danaro dello Stato a favorire le case straniere.

PROIA. Questo lo togliamo.

FOGAGNOLO. Sono d’accordo, purché vi sia l’esclusione di qualsiasi contributo da parte dello Stato per le case straniere.

CORBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBI. Sono d’accordo con l’onorevole Vernocchi, ma direi: «ai soli fini dell’articolo 7».

PRESIDENTE. La formula sarebbe, quindi, la seguente:

«In via eccezionale potranno essere considerati nazionali, ai soli fini dell’articolo 7, i film prodotti in Italia da case italiane, ecc.».

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE, Ne ha facoltà.

BERTONE. Propongo che si dica: «ai soli fini dell’articolo 7, ed esclusi i contributi di cui agli articoli 4 e 5».

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario di Stato, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Aderisco all’emendamento dell’onorevole Proia, con la aggiunta della frase «ai soli fini dell’articolo 7».

Mi sembra che sia inutile di aggiungere la frase: «esclusi i contributi di cui agli articoli 4 e 5», perché dobbiamo cercare di fare una legge chiara ed evitare che si possa concedere qualche altro vantaggio non compreso negli articoli 4 e 5.

Comunque, giudichi l’Assemblea se sia opportuna raggiunta, che a me sembra superflua.

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Insisto nella formula proposta, in quanto i benefici dell’articolo 7 non escludono quelli degli articoli 4 e 5. Quindi è bene chiarire che sono esclusi i contributi di cui agli articoli 4 e 5.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Proia se è d’accordo sulle modifiche proposte.

PROIA. Sono d’accordo.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta di aggiungere dopo il primo comma dell’articolo 3 il seguente:

«In via eccezionale potranno essere considerati nazionali, ai soli fini dell’articolo 7, ed esclusi i contributi di cui agli articoli 4 e 5, i film prodotti in Italia da case italiane in regime di compartecipazione artistica, tecnica e finanziaria, con le case estere, quando la realizzazione di detti film sia riconosciuta, di volta in volta, di interesse nazionale, ai fini economici ed artistici, da parte dell’Ufficio centrale per la cinematografia, sentito il parere del Comitato tecnico, di cui al successivo articolo 13».

(È approvato).

Passiamo al secondo comma dell’articolo 3:

«La dichiarazione di nazionalità è rilasciata dall’Ufficio centrale per la cinematografia, previo accertamento dei requisiti sopra descritti, anche a seguito di ispezioni nei luoghi di lavorazione. A tal fine i funzionari dell’Ufficio centrale per la cinematografia, all’uopo incaricati, avranno libero accesso negli stabilimenti è in ogni altro luogo di lavorazione dei film».

Pongo ai voti la prima proposizione, per la quale non è stato presentato alcun emendamento:

«La dichiarazione di nazionalità è rilasciata dall’Ufficio centrale per la cinematografia, previo accertamento dei requisiti sopra descritti, anche a seguito di ispezioni nei luoghi di lavorazione».

(È approvata).

Alla seconda proposizione gli onorevoli Di Vittorio, Bernamonti, Bitossi, Maffi, Mezzadra, Pressinotti, Corbi e Fantuzzi, dopo le parole: «per la cinematografia», hanno proposto di aggiungere: «sentito il parere della Commissione consultiva, di cui all’articolo 12, e»

GIANNINI. Vorrei chiedere la ragione di questo emendamento.

DI VITTORIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. La ragione è quella stessa data a proposito del precedente emendamento, che è stato approvato. Poiché questa Commissione è abbastanza larga e sono rappresentati in essa tutti gli interessi, noi riteniamo che sia utile, oltre che democratico, sentire il suo parere anche agli effetti di questo comma, dell’articolo 3.

VERNOCCHI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERNOCCHI, Relatore. Pregherei l’onorevole Di Vittorio di ritirare questo emendamento, perché l’abbiamo già approvato per il secondo articolo e perché, implicitamente, è sempre l’Ufficio centrale, d’accordo con la Commissione consultiva, che deve vigilare sulla attuazione dei vari progetti e, quindi, anche sul riconoscimento della nazionalità.

DI VITTORIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. Dopo questa spiegazione dell’onorevole Relatore, della quale mi dichiaro convinto, ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Sta bene. Pongo ai voti la seconda proposizione del secondo comma dell’articolo 3:

«A tal fine i funzionari dell’Ufficio centrale della cinematografia, all’uopo incaricati, avranno libero accesso negli stabilimenti e in ogni altro luogo di lavorazione dei film».

(È approvata).

L’articolo 3 risulta pertanto nel suo complesso, così approvato:

«Sono considerati nazionali, agli effetti della presente legge, i film prodotti in versione originale italiana o in più versioni, di cui una italiana, che siano stati girati prevalentemente in Italia, con personale artistico e tecnico in prevalenza italiano, da imprese appartenenti a cittadini italiani, o, se trattasi di società, quando queste abbiano la sede legale in Italia, capitali ed amministratori in prevalenza italiani e svolgano in Italia la maggior parte delle loro attività.

«In via eccezionale potranno essere considerati nazionali, ai soli fini dell’articolo 7, ed esclusi i contributi di cui agli articoli 4 e 5, i film prodotti in Italia da case italiane in regime di compartecipazione artistica, tecnica e finanziaria con le case estere, quando la realizzazione di detti film sia riconosciuta, di volta in volta, di interesse nazionale, ai fini economici ed artistici da parte dell’Ufficio centrale per la cinematografia, sentito il parere del Comitato tecnico, di cui al successivo articolo 13.

«La dichiarazione di nazionalità è rilasciata dall’Ufficio centrale per la cinematografia, previo accertamento dei requisiti sopra descritti, anche a seguito di ispezioni nei luoghi di lavorazione. A tal fine i funzionari dell’Ufficio centrale per la cinematografia, all’uopo incaricati, avranno libero accesso negli stabilimenti e in ogni altro luogo di lavorazione dei film».

Passiamo all’articolo 4:

«Per ogni film nazionale di lunghezza superiore ai 2000 metri presentato all’Ufficio centrale per la cinematografia per il nulla osta di proiezione in pubblico, dopo l’entrata in vigore della presente legge, e la cui prima proiezione nelle sale cinematografiche italiane si effettui prima del 31 dicembre 1949, è concesso al produttore un contributo pari al 12 per cento dell’introito lordo degli spettacoli nei quali il film nazionale sia stato proiettato per un periodo di quattro anni dalla data della prima proiezione in pubblico.

«Una ulteriore quota del 6 per cento dell’introito suddetto e per lo stesso periodo di tempo verrà assegnata a titolo di premio ai film che ne siano riconosciuti meritevoli per il loro valore culturale ed artistico dal comitato tecnico di cui al successivo articolo 13.

«L’introito sul quale vengono liquidati i contributi di cui al presente articolo è determinato dalla Società italiana autori ed editori sulla base degli incassi accertati per il pagamento dei diritti erariali.

«Per le modalità di pagamento dei contributi suddetti valgono le norme stabilite dal regio decreto 20 ottobre 1939, n. 2237».

Onorevole Fogagnolo, insiste nella proposta di soppressione?

FOGAGNOLO. Devo ripetere, (perché reperita iuvant, specie in questa materia) le ragioni che dovrebbero consigliare a tutti noi la soppressione di questo articolo.

Intanto, senza presentare la domanda per la verifica del numero legale, mi permetto osservare che una questione così grave, che comporta dei miliardi che lo Stato deve pagare, discuterla in pochi è molto meno bello di quello che sarebbe se si discutesse in molti.

Comunque, richiamo l’attenzione dei colleghi sulla situazione attuale, circa il contributo dello Stato a favore del film nazionale. Oggi vi sono già disposizioni che danno a favore del film nazionale il 10 per cento. Con questo provvedimento lo si vuole portare al 12 per cento. Esistono anche le provvidenze di premio del 4 per cento che si vogliono portare oggi al 6 per cento. Io mi domando se sia morale (è la parola) imporre questa forma antidemocratica di rapporto fra produttori ed esercenti in un momento di penuria finanziaria come quello che attraversiamo; in un momento in cui, come diceva il collega Pera, c’è tanta povera gente che avrebbe bisogno di sussidi e non li trova né presso gli enti comunali di assistenza, né presso gli altri enti creati a questo scopo; nel momento in cui sappiamo quali pressioni siamo costretti a fare ai Ministri che dovrebbero dare qualche soldarello per venire in aiuto dei cittadini e rispondono invece che mancano i mezzi di tesoreria! E qui si tratta di una categoria di persone già beneficiata, non voglio dire eccessivamente, ma con grande larghezza, perché la percentuale non è data sulla somma che l’erario incassa attraverso la tassazione, ma è sull’incasso lordo. Voi sapete cosa vuol dire dare una percentuale sull’incasso lordo a favore di questa produzione che già noi proteggiamo attraverso l’imposizione cinematografica. Si tratta di centinaia e centinaia di milioni che possono essere anche miliardi, perché ho sentito parlare di incassi di 13 miliardi. Vuol dire che, andando avanti di questo passo, spenderemo 1000 lire per andare al cinematografo, se ci vogliamo andare, o le risparmieremo se vorremo stare a casa.

In questo momento mi rivolgo in modo speciale all’onorevole Relatore, più che l’onorevole Cappa, il quale, quando si è trattato di escludere, come l’onorevole Bertone ha suggerito ed io mi sono associato, i benefici a favore dei film in partecipazione, di cui agli articoli 4 e 5, riteneva inutile l’emendamento.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. E lo ritengo ancora.

FOGAGNOLO. Ebbene, io ritengo che lei sbagli, perché conosce poco la mentalità in questa materia.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ma so leggere e scrivere…

FOGAGNOLO. Io le dico che troverà sempre un funzionario… incorruttibile e anche due o tre, che con una strizzata d’occhio saranno capaci di decretare i soldi del Governo a favore di questa produzione che i soldi non merita. (Commenti).

Bisogna non dimenticare in quale periglioso pelago navighiamo quando siamo in questa materia. Ora io mi rivolgo al Relatore, che è anche un tecnico, e domando: ritiene in coscienza, esaminata bene la propria coscienza, che sia necessario per incoraggiare la produzione nazionale, di elevare dal 10 al 12 per cento il contributo dello Stato sugli incassi lordi dei cinematografi? Ritiene in coscienza che noi avremo in Italia un solo film di più prodotto perché abbiamo portato dal 10 al 12 per cento questo contributo?

Io mi permetto di escluderlo, e mi auguro che il nostro Relatore abbia imparato a sufficienza, in quel poco tempo in cui si è occupato di questa materia, che non si aumenta la produzione con questo 2 per cento in più, che comporta milioni e milioni a carico dello Stato, il quale non può pagare per opere di beneficenza e per opere di pubblica utilità, attuando una finanza allegra (scusate la parola) per elargire un contributo oltre quello già enorme che è stato dato.

Io spero che l’onorevole Relatore la pensi come io la penso e sia anche lui, come noi, attaccato all’interesse dello Stato, e pensi anche lui che se c’è qualche briciola ancora del Tesoro dello Stato da poter distribuire, si debba fare un esame di coscienza e vedere se non ci siano dei casi più pietosi di quello degli industriali che vogliono forse essere aiutati un po’ troppo nelle loro iniziative. (Applausi a sinistra).

PERA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERA. Mi associo a quanto ha detto l’onorevole Fogagnolo in relazione all’articolo 4 del disegno di legge. Ho già svolto i motivi d’ordine generale, secondo i quali, a modo di vedere mio e di numerosi altri colleghi, il protezionismo, così come è stato concretizzato in questa legge, dovrebbe essere respinto. Prima di tutto voglio fare constatare una cosa: moralmente possiamo in una cinquantina di deputati presenti, discutere di miliardi che vanno via dalle casse dello Stato? (Approvazioni).

I colleghi del mio Gruppo non erano presenti sino ad ora perché erano occupati in una riunione importante. Comunque, pare a me che quando sono in giuoco somme ingentissime dello Stato, abbiamo il dovere di non prendere delle decisioni così gravi, se non in presenza di un’Assemblea cui partecipi un numero elevato dei suoi membri. Ma vi è una questione ancora: quando si è parlato qui di sussidi, di sovvenzioni speciali, di premi, si è sorvolato e non si è mai detto o confermato quello che ho detto io. All’estero, signori, non esiste un solo paese dove si dia una sovvenzione alle industrie del film. Si è parlato poc’anzi, dall’onorevole Vernocchi, di aiuti alla cinematografia che sono stati dati all’estero, e che sarebbero molto più forti di quelli che noi diamo. Non è vero, nessun paese estero dà una sovvenzione al film nazionale. Questo è importante dirlo, perché stiamo discutendo l’articolo che può costare miliardi allo Stato.

Si è detto: noi abbiamo bisogno di varare questa legge in fretta, perché vi è in essa la programmazione obbligatoria, che non esisteva nella legge precedente. Ora, nella legge precedente mancava evidentemente questo articolo sulla programmazione obbligatoria. Mi si dice però che vi è un accordo fra i produttori italiani (e l’onorevole Proia potrebbe in questo punto darci delle utili informazioni) e gli esercenti, secondo cui questo numero di giorni di programmazione fissato obbligatoriamente, sarebbe stabilito in una convenzione.

Comunque, quando accettiamo il principio della programmazione obbligatoria, così come si è fatto in altri paesi, abbiamo il diritto e il dovere di riflettere molto su questa sovvenzione di cui all’articolo 4. Ed allora io devo, onorevoli colleghi, ritornare su una cosa essenziale: la relazione. Dice, a proposito di questo articolo 4, la relazione dell’onorevole Vernocchi: «L’articolo 4 eleva al 12 per cento lo sgravio fiscale a favore dei produttori di film nazionali». Ora, sgravio fiscale non è, ma è un vero effettivo contributo da parte dello Stato, poiché lo Stato non rinunzia ad incassare delle somme per quanto si riferisce ai film nazionali. È un vero effettivo contributo che lo Stato dà attraverso le sue casse ai produttori nazionali. Quindi, non si può parlare di sgravio, ma si deve parlare di contributo.

Ed allora io dico: si mettano d’accordo l’onorevole Relatore e l’onorevole Proia, che ha una particolare competenza in questo campo, perché egli presiede l’Associazione dei produttori di film. Si è sentito dire dall’onorevole Vernocchi che costerebbe allo Stato 150 milioni. Non è vero, perché il rappresentante autorizzato dei produttori, nel suo discorso, fissa a 560 milioni, secondo lui, il contributo per l’anno 1947.

VERNOCCHI, Relatore. Io ho parlato del 1946, e ho detto 200 milioni.

PERA. Ma noi parliamo di adesso; siamo di fronte alla realtà attuale. Lei ha detto, altra volta, che non si arriva ai 200 milioni. Ora mette in contradizione il relatore con il rappresentante dei produttori, il quale dice, invece: «il costo è 650 milioni». Io non accetto la cifra dell’onorevole Proia. Ho portato nell’altra seduta l’elenco dei film italiani e l’incasso nel 1946. Sono 4 miliardi. Intanto si supera già quella somma. Ma bisogna calcolare lo svilimento della lira. Su questo punto non voglio insistere, essendo tutti d’accordo nell’augurio che questo svilimento non continui; però negli anni successivi sino al 1950 vi saranno altri film che verranno ad aggiungersi a quelli proiettati nel 1946, e poiché saranno osservati dagli esercenti i giorni di programmazione obbligatoria, vi sarà un aumento degli incassi. Pertanto, quando affermo che si può arrivare a miliardi, non dico delle panzane. Quest’anno, sicuro, ci avvicineremo al miliardo. Ma poiché la legge prevede quattro anni di protezionismo per ogni film e poiché voi, sostenitori della legge, dite che bisogna incrementare la produzione nazionale, ne viene come conseguenza che, incrementando la produzione nazionale, maggior numero di film parteciperà al beneficio negli anni prossimi. Durante i quattro anni, noi possiamo prevedere che si tratta appunto di tre o quattro miliardi annuali ai quali possono arrivare i benefici degli industriali per le sovvenzioni da parte dello Stato. E ciò contrariamente, a tutto quello che avviene in tutti i paesi del mondo.

Stamattina abbiamo dovuto levarci in quattro o cinque perché si arrivava persino al punto di far partecipi di questa sovvenzione da parte dello Stato italiano i produttori stranieri. Siamo arrivati a questo punto: questo Paese che va a chiedere l’elemosina al mondo per i suoi bambini darebbe poi i miliardi, se noi non insorgessimo, al produttore straniero. È morale? È giusto che noi approviamo degli articoli di legge che incidono sul bilancio dello Stato? In questo modo, quando il Ministro del tesoro viene a darci una situazione così tragica delle finanze pubbliche? E quando il Presidente del Consiglio viene a dirci: «restrizioni severe sono indispensabili» – ed ha ragione – se vogliamo salvare la lira, la Repubblica, la democrazia? Possiamo buttare il denaro dello Stato in questo momento? Lo Stato non ha un soldo da dare per le fognature di città come Diano Marina che sono state e minacciano di essere funestate da epidemie mentre, per l’approvazione di qualche decina di deputati, darebbe miliardi ai produttori cinematografici.

Noi abbiamo esposto il pericolo di questa legge. L’onorevole Vernocchi ha parlato anche di una necessità assoluta di andare incontro ai produttori. Badate, che è facile arrivare a delle speculazioni. Ci si dice: «Non vi mettete contro gli aiuti agli operai». Ma noi possiamo rispondere che vi sono disgraziatamente in Italia disoccupati in tutti i settori economici, e ciascuno di noi potrebbe venire per la sua circoscrizione ad invocare aiuti dallo Stato.

Quel che noi vogliamo è che non si ritorni sulle direttive della politica fascista, che ha dato i risultati che conosciamo. Noi che siamo in una situazione di mendicanti di fronte all’estero, come possiamo ora, senza suscitare diffidenze e rappresaglie, metterci sulla strada del protezionismo con questa legge?

Questa dunque è la situazione, e pertanto io sono d’accordo con l’onorevole Fogagnolo per chiedere la soppressione dell’articolo 4.

PRESIDENTE. Dobbiamo ora procedere alla votazione dell’emendamento soppressivo dell’articolo 4.

Avverto che hanno chiesto la verifica del numero legale gli onorevoli Lucifero, Pera, Fogagnolo, Fietta, Labriola, Taddia, Benedetti, Vigorelli, Calosso, Facchinetti, Cairo, Ghidini.

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Onorevole Lucifero, soltanto in via eccezionale le concedo di fare una brevissima dichiarazione.

LUCIFERO. Esco ora da una riunione in cui si è esaminata la situazione economica e finanziaria del Paese, che è molto difficile. In queste condizioni ritengo che non si possa, in un’Assemblea poco numerosa, deliberare spese di miliardi.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Segretario a procedere alla chiama per la verifica del numero legale.

SCHIRATTI, Segretario, fa la chiama:

Sono presenti:

Adonnino – Allegato – Amadei – Andreotti – Angelini – Arata – Arcangeli.

Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Basso – Bastianetto – Bellato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedetti – Bennani – Bertola – Bertone – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Binni – Bocconi – Bonomi Paolo – Braschi – Bucci.

Cacciatore – Cairo – Camangi – Campilli – Camposarcuno – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Carbonari – Carignani – Carmagnola – Caronia – Carpano Maglioli – Carratelli – Cavalli – Cevolotto – Chieffi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colombo Emilio – Colonnetti – Conci Elisabetta – Conti – Corbi – Costa – Costantini – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo.

D’Amico Michele – D’Aragona – De Mercurio – De Michele Luigi – De Palma – Dossetti – Dozza – Dugoni.

Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Faralli – Fedeli Aldo – Ferrarese – Ferrario Celestino – Fietta – Filippini – Fiorentino – Firrao – Flecchia – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschi – Fuschini.

Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gavina – Germano – Gervasi – Geuna – Ghidini – Ghislandi – Giacometti – Giannini – Giua – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grazi Enrico – Grazia VereninGronchi – Guariento – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela.

Jacini – Jacometti.

Labriola – Laconi – Landi – Lazzati – Leone Francesco – Lizier – Longhena – Lucifero – Luisetti.

Maffi – Maffioli – Malagugini – Malvestiti – Mancini – Manzini – Marazza – Marconi – Mariani Enrico – Mariani Francesco – Marinaro – Martinelli – Mastino Gesumino – Mattarella – Mattei Teresa – Matteotti Cario – Mazza – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Miccolis – Micheli – Montini – Morini – Musolino – Musotto.

Nicotra Maria.

Pallastrelli – Paris – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pera – Pertini Sandro – Pesenti – Petrilli – Piccioni –Pistoia – Pollastri Elettra – Ponti – Pratolongo – Pressinotti – Preti – Preziosi – Priolo – Proia.

Quarello – Quintieri Adolfo.

Raimondi – Ravagnan – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Rodi – Rodinò Mario – Romano – Rubilli – Russo Perez.

Saccenti – Saggin – Salerno – Salizzoni – Sampietro – Sansone – Scalfaro – SchirattiScoca – Scotti Alessandro – Scotti Francesco – Siles – Spallicci – Spataro – Stella.

Taddia – Taviani – Terranova – Titomanlio Vittoria – Togni – Tomba – Tonello – Tosato – Tosi – Tremelloni – Trimarchi – Tupini.

Uberti.

Valenti – Venditti – Vernocchi – Viale – Vicentini – Vigo – Vigorelli – Vilardi – Villani – Vischioni.

Zaccagnini – Zanardi – Zerbi.

Sono in congedo:

Bernardi – Bettiol – Boldrini – Bordon – Bulloni.

Caldera – Caroleo – Cartia – Cavallotti – Chiostergi – Corsini – Cosattini.

Di Giovanni.

Falchi – Foa.

Grilli – Gullo Rocco.

La Pira – Lombardo Ivan Matteo.

Mastino Pietro – Moro.

Parri – Penna Ottavia.

Rapelli – Roselli – Rumor.

Sardiello – Silone – Simonini.

Treves – Turco.

Vigna.

PRESIDENTE. Comunico che l’Assemblea non è in numero legale per deliberare.

Avverto che, a termini del Regolamento, la seduta è sciolta e si intende convocata, per riprendere la discussione sul disegno di legge, per domani, mercoledì, alle ore 10.

La seduta termina alle 13.35.

POMERIDIANA DI LUNEDÌ 5 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXI.

SEDUTA POMERIDIANA DI LUNEDÌ 5 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE PECORARI

 

INDICE

 

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Per la nomina di una Commissione:

Presidente                                                                                                        

Andreotti                                                                                                        

Persico                                                                                                             

Russo Perez                                                                                                      

Lucifero                                                                                                           

Proposte di aggiunte ai Regolamento della Camera:

Cingolani, Relatore                                                                                          

Presidente                                                                                                        

Molè                                                                                                                 

Macrelli                                                                                                          

Corbino                                                                                                            

Lucifero                                                                                                           

Benedetti                                                                                                         

Rubilli                                                                                                              

Calosso                                                                                                            

Persico                                                                                                             

Labriola                                                                                                          

Cianca                                                                                                              

Condorelli                                                                                                      

Longhena                                                                                                         

Nitti                                                                                                                  

Votazione segreta:

Presidente                                                                                                        

Nomina della Commissione per l’esame delle leggi elettorali:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni ed interpellanza con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Togni, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale                      

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Moro, Novella, Turco e Caldera.

(Sono concessi).

Per la nomina di una Commissione.

PRESIDENTE. Come gli onorevoli colleghi ricordano, il Governo ha presentato all’Assemblea il disegno di legge: «Norme per la disciplina dell’elettorato attivo», che deve considerarsi come l’introduzione alla legge elettorale politica, d’imminente presentazione.

Ritengo che detto disegno debba essere esaminato da una Commissione speciale, la quale esaminerà anche la legge elettorale per riferire all’Assemblea.

Chiedo all’Assemblea come intenda procedere alla nomina di della Commissione speciale.

ANDREOTTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ANDREOTTI. Propongo che la nomina dei membri della Commissione sia deferita al Presidente.

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Mi associo alla proposta dell’onorevole Andreotti.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Il nostro pensiero è concorde: il Presidente merita tutta la nostra fiducia e quindi può bene essergli deferita la nomina della Commissione.

PRESIDENTE. La ringrazio.

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Tengo ad associarmi alla proposta dell’onorevole Andreotti, che corrisponde, fra l’altro, a una vecchia prassi parlamentare.

PRESIDENTE. Allora resta così inteso. Comunicherò all’Assemblea i nomi dei componenti la Commissione.

Proposte di aggiunte al Regolamento della Camera.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Proposte di aggiunte al Regolamento della Camera. (Doc. II, n. 7).

CINGOLANI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CINGOLANI, Relatore. Onorevole Presidente, la Commissione esprime il desiderio che ella, che tanto bene ha presieduto i lavori della Giunta del Regolamento, illustri le proposte.

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Cingolani, del suo invito che dimostra una particolare fiducia nella mia capacità espositiva, che certamente non è superiore alla sua.

Come l’Assemblea ricorda, furono esaminate, nella seduta del 2 maggio, alcune proposte che erano state presentate dagli onorevoli Barbareschi e Scoccimarro, dall’onorevole Persico e dall’onorevole Mortati, relative al modo di prosecuzione dei lavori dell’Assemblea Costituente in rapporto all’esame del progetto di Costituzione. La discussione che ne seguì terminò con l’approvazione di una proposta dell’onorevole Benedetti che invitava la Giunta del Regolamento a proporre le modificazioni da apportare al metodo delle discussioni.

La Giunta del Regolamento ha sentito il dovere di non frapporre indugio e nel giorno immediatamente successivo alla decisione dell’Assemblea si è riunita e ha formulato alcune proposte che sono state distribuite, in tempo dubito, ai membri dell’Assemblea.

Desidero ricordare che l’Assemblea Costituente, al momento del suo insediamento adottò il Regolamento della Camera dei Deputati e che successivamente vi introdusse alcune aggiunte, allorché si pose la questione di investire l’Assemblea stessa di un potere legislativo. In conseguenza sono state istituite Commissioni legislative, alle quali il Governo manda i propri disegni di legge, in maniera che la stessa Assemblea Costituente a mezzo loro decide se il Governo debba emanarli direttamente o se debbano essere rimessi alla competenza dell’Assemblea.

Queste aggiunte al Regolamento sono valide, evidentemente, soltanto per l’Assemblea Costituente, così che la nuova Assemblea legislativa si troverà, al momento in cui sarà eletta e insediata, di fronte al Regolamento della Camera dei Deputati, escluse le modificazioni che l’Assemblea Costituente abbia creduto di introdurvi per scopi specifici del proprio lavoro.

A questo criterio la Giunta del Regolamento si è attenuta; e pertanto, come premessa, occorre affermare che le proposte oggi in esame non sono destinate ad entrare definitivamente nel Regolamento della Camera, ma restano valide solo per l’Assemblea Costituente; perderanno quindi di efficacia nel momento stesso in cui l’Assemblea Costituente avrà terminato i propri lavori.

Le disposizioni che sono proposte mirano per una parte a regolare il modo della discussione indipendentemente dal fatto ch’essa si riferisca al progetto di Costituzione, per l’altra a disciplinare la discussione del progetto stesso; così che mentre le prime, che dirò generiche, potrebbero, ove l’Assemblea lo ritenesse opportuno, valere sia per la discussione del progetto di Costituzione, sia per la discussione di altri provvedimenti legislativi, le altre valgono soltanto per il progetto di Costituzione.

Fra le proposte di carattere generico la prima stabilisce che «i deputati iscritti a parlare, che non rispondono alla chiamata del Presidente, decadono dall’iscrizione. Non è consentita, dopo tale decadenza, una nuova iscrizione per la discussione in corso».

Questa norma ha lo scopo di porre rimedio all’inconveniente frequentemente rilevato di non sapere mai quando sia compiuto l’elenco degli iscritti a parlare. Frequentemente avviene che colleghi iscritti e non presenti nel momento in cui viene ad essi data la facoltà di parlare si iscrivano nuovamente il giorno successivo, trasformando l’elenco degli iscritti in una linea senza fine. Ed è per questo che nella disposizione si stabilisce che oltre a perdere il diritto alla parola, si perde anche quello della reiscrizione, quando la decadenza sia dovuta all’assenza del deputato, nel momento in cui la parola gli viene data.

La seconda disposizione generica stabilisce che «qualora i presentatori di emendamenti prendano la parola nella discussione generale, si intende che essi svolgono in tale sede i loro emendamenti». Questa norma, non appare forse assolutamente necessaria, perché in generale ad essa ci si è attenuti spontaneamente nel corso delle discussioni precedenti. Tuttavia, ad impedire la possibilità di malintesi si è ritenuto opportuno stabilirla, esplicitamente.

Si propone poi che «nessuno può parlare più di dieci minuti per lo svolgimento di emendamenti o per dichiarazioni di voto». Secondo il Regolamento della Camera, adottato dall’Assemblea Costituente, le dichiarazioni di voto devono esser fatte in forma breve e succinta, ma talvolta si sono invece prolungate forse troppo; per questo si è ritenuto di stabilire per esse un preciso limite di tempo.

In ordine alle domande di votazione per appello nominale o per scrutinio segreto, il Regolamento stabilisce che devono recare, le prime, quindici firme; le altre, venti. La Giunta del Regolamento ha ritenuto di dover proporre che si elevi a trenta il numero delle firme richieste, perché questi due modi particolarmente importanti di votazione – che hanno sempre avuto nel passato un carattere politico, e che non devono divenire il modo normale, continuo, immancabile di votazione dei nostri lavori – siano accettati. Trenta firme non sono parse eccessive; erano venti in Assemblee che giungevano a 508 membri; oggi che la nostra Assemblea conta 556 deputati, l’aumento è parso naturale. L’aumento non è proporzionale, ma si è pensato che anche in questo campo si poteva forse applicare la norma della progressività, la quale se vale in campi come quelli finanziari e fiscali, può, per ragioni consimili, essere valida per disposizioni che regolano il lavoro di organo collettivo. Resta valida la disposizione per cui «concorrendo diverse domande, quella dello scrutinio segreto prevale su tutte le altre».

Infine si propone che «in caso di richiesta di accertamento del numero legale, dopo l’inizio dell’appello, i deputati presenti non possano abbandonare l’Aula fino a che l’appello stesso non sia terminato». È chiaro lo scopo a cui tende la norma e reputo perciò inutile illustrarlo. Alcune sere fa abbiamo fatto molte discussioni particolareggiate e interessanti a questo proposito. Le conclusioni cui giungemmo allora, che ad alcuni saranno parse eccessive e ad altri troppo restrittive, rispondevano ad esigenze di carattere morale, nel senso cioè che non si possono presumere presenti all’appello per l’accertamento del numero legale i deputati che non sono presenti nell’Aula, per quanto siano presenti nel palazzo. Da esse insorge però la necessità della norma che ora si propone, della quale i deputati presenti nell’Aula nel momento in cui la richiesta di appello nominale è presentata debbono avvertire la esigenza, essa pure morale.

Queste norme della Giunta del Regolamento per migliorare il metodo generale di discussione dell’Assemblea Costituente tengono presenti molte obiezioni sollevate l’altra sera per la preoccupazione di eccessive limitazioni al diritto di parola o all’ampiezza, di discussione da parte dell’Assemblea Costituente. Tuttavia non potevamo trascurare la necessità di porre ai nostri lavori un certo argine per condurli ad una conclusione tempestiva.

Per ciò che si riferisce alle norme particolari per la discussione del progetto di Costituzione, la Giunta del Regolamento non ha né ignorato la proposta inizialmente presentata da molti colleghi, né le obiezioni sollevate contro di questa. Per quanto riguarda la discussione generale, fu preposto che continuasse partitamente per i due Titoli della prima parte del progetto di Costituzione ancora non esaminati, ma che si facesse una discussione generale unica sulla seconda parte del progetto. Faccio osservare agli onorevoli colleghi che in tal medo non si modificano in senso restrittivo le norme del Regolamento. L’articolo 86 previde infatti la possibilità che la discussione di un progetto di legge sia fatta per parti o per Titolo. Ora noi abbiamo fatto prima una discussione generale su tutto il complesso del progetto di Costituzione, e poi discussioni sui Titoli della prima parte. La mutazione che la Giunta propone, è suggerita dall’esperienza acquisita nel corso dei lavori già compiuti in sede di primo e secondo Titolo del progetto ed in parte sul terzo. In questi le iscrizioni a parlare sono state numerosissime, più numerose forse di quanto la necessità comportasse; tanto è vero che molti iscritti hanno rinunziato a parlare. D’altra parte, frequenti sono state da discorso a discorso le ripetizioni e frequenti anche gli sconfinamenti in materie non strettamente connesse con l’argomento sviluppato. Ed ancora, se abbiamo udito discorsi molto interessanti, frequentemente questi hanno assunto carattere di conferenze utili allo scopo della divulgazione della materia costituzionale, ma, forse, non essenziali e necessarie allo scopo del nostro compito di fare la Costituzione.

Pertanto, si è pensato che una limitazione del numero degli oratori fosse consigliabile. Questa limitazione già era stata proposta dagli onorevoli Barbareschi e Scoccimarro, ma con carattere assoluto, in riferimento ad ogni Gruppo costituito nell’Assemblea. Vorrei qui dire, fra parentesi, che è inevitabile che tutte le disposizioni relative ai lavori parlamentari che si prendono oggi, o che si prenderanno domani – un domani non più dell’Assemblea Costituente, ma dell’Assemblea Legislativa – non solo non ignorino il fatto che l’Assemblea è divisa in Gruppi, ma prendano anzi le loro mosse dalla constatazione della organizzazione dell’Assemblea sulla base di Gruppi. I Gruppi non sono stati creati per capriccio, ma sono un’esigenza di tutte le Assemblee elette in base alla proporzionale. Essi sarebbero degli assurdi in Assemblee elette in base al collegio uninominale, ma diventano una necessità, allorché le elezioni avvengono sul presupposto di forze organizzate nel Paese.

Tuttavia, se i Gruppi sono uguali in quanto elementi strutturali dell’Assemblea, sono poi diversi nella loro entità. E pertanto la Giunta del Regolamento ritiene che se si giunge ad una limitazione degli oratori, tale limitazione deve essere proporzionale alla consistenza numerica dei vari gruppi.

E precisamente nel senso che per i Gruppi che contano un numero superiore a cento iscritti, nella discussione generale relativamente al 3° e 4° titolo della prima parte della Costituzione intervengano al massimo tre oratori; due invece per i gruppi che contano meno di cento iscritti; mentre per la discussione sulla seconda parte della Costituzione, la quale abbraccia una materia molto vasta, si ritiene di stabilire rispettivamente cinque oratori per i primi e tre per i secondi.

Infine la Giunta propone che nell’esame della seconda parte del progetto si proceda con mutamento nell’ordine della materia. Molti colleghi hanno fatto già presente che vi è un problema quasi pregiudiziale all’esame e alle decisioni relative alla struttura generale dello Stato, ed è quello della Regione. Pertanto si propone che questo tema sia il primo ad essere affrontato. Per i rapporti poi che intercedono nel progetto fra Regione e Seconda Camera – che sono parsi inscindibili alla Commissione dei settantacinque – si è ritenuto consigliabile di proporre all’Assemblea che dopo avere esaminato e votato gli articoli relativi alla Regione, l’Assemblea passi agli articoli relativi alla Seconda Camera, riprendendo poi l’ordine delle materie così come esso si presenta nel testo del progetto.

Infine si propone che nella discussione generale, sia dei Titoli della prima parte, che di quelli della seconda, il tempo a disposizione degli oratori sia limitato a mezz’ora.

È parso, dall’esperienza fatta, che mezz’ora sia sufficiente per svolgere esaurientemente i temi che si proporranno d’ora innanzi nella discussione generale, e si è ritenuto opportuno dare alla Presidenza dell’Assemblea il mezzo regolamentare per fare osservare agli oratori questo limite di tempo.

Queste sono le conclusioni alle quali è pervenuta la Giunta del Regolamento. Desidero far presente che tutti i membri della Giunta del Regolamento, che hanno partecipato alle riunioni in cui sono state approvate queste proposte, sono d’accordo su di esse. Degli assenti non posso occuparmi, anche perché essi non si sono preoccupati di fare conoscere il loro avviso nemmeno in successione di tempo, quando hanno avuto sott’occhio le proposte che oggi si discutono.

Così chiarite le proposte che la Giunta del Regolamento presenta, apro su di esse la discussione.

MOLÈ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MOLÈ. Esprimo un pensiero di netta opposizione alle norme restrittive proposte dalla Giunta del Regolamento, e non so nascondere la mia meraviglia leggendo, tra i componenti di questa Giunta, alcuni nomi di uomini politici che dovrebbero bene ricordare la storia dell’istituto parlamentare, che sorse e si affermò in netto contrasto con lo spirito e con la lettera di queste norme.

Io sono d’accordo che sia opportuno limitare il numero degli oratori e accelerare questa discussione: ché dobbiamo cercare di esaurire nel più breve tempo possibile i lavori della Costituzione. Posso anche ammettere che molti interventi sono inutili od oziosi è che qualche volta ascoltiamo delle conferenze generiche o delle disquisizioni dottrinarie che, in altra sede, troverebbero miglior posto.

Ma questo inconveniente dell’inflazionismo verbale, comune a tutto le Assemblee, può e deve essere superato dagli accordi fra i gruppi, attraverso l’autodisciplina di chi parla, e anche dall’autorità del Presidente, che richiama all’argomento l’oratore che ne fuoriesce: non può essere soppresso attraverso la integrale abolizione del diritto di discussione ai danni della massima parte dell’Assemblea, con un giudizio d’inutilità preventiva, che a nessuno, né al Presidente, né alla stessa maggioranza, dell’Assemblea, può competere. Chi ha il diritto di stabilire preventivamente la inutilità di una discussione?

Il giorno in cui con un colpo di maggioranza si potesse dire ad un eletto dal popolo, che rappresenta non solo se stesso e neanche un partito, ma tutta la nazione: «tu non devi parlare perché i tuoi discorsi non sono graditi o i tuoi interventi sono inutili», sarebbe la fine del Parlamento.

Qualche cosa di simile oggi si tenta, per esaurire al più presto i lavori della Costituzione, con la proposta di modificazione – sia pure temporanea – del regolamento, riducendo al minimo il numero degli oratori e predisponendo con rigore cronometrico la durata della loro discussione.

Ebbene, questo pericoloso sistema di modificare continuamente il regolamento dell’Assemblea non si può ammettere. Il Regolamento non si tocca a cuor leggero. È qualche cosa di certo e d’intangibile, come tutte le conquiste della libertà.

Questo presidio delle minoranze, predisposto appunto per tutelare nell’Assemblea i diritti delle minoranze, non può essere, di volta in volta, mutilato, limitato, corretto, a loro danno, in ciò che non piace, o che non torna gradito a quelli che possono essere i pensamenti o voleri della maggioranza. Allora, questo regolamento diventa una lustra: fallisce al suo scopo: non ha nessuna certezza.

Il regolamento dice che chiunque – questo è un principio comune a tutte le Assemblee – chiunque chiede di parlare, può parlare; entro certi limiti prefissati, ha il diritto di parlare.

Ebbene: questo diritto di parola che deve trovare il suo autolimite nel nostro senso di responsabilità, e negli accordi che possiamo prendere liberamente, non può essere soppresso de jure, come ci si propone con questi articoli aggiuntivi, che io rapidamente esaminerò.

«Qualora i presentatori di emendamenti – dice un articolo – prendano la parola nella discussione generale, s’intende sempre che essi svolgono in tale sede i loro emendamenti».

Ma la discussione generale non ha nulla a che fare con la discussione degli emendamenti. Sono due cose assolutamente diverse. La discussione generale riguarda l’insieme del progetto di legge, l’armonia e la unità delle varie disposizioni: viceversa nell’emendamento si ha di mira soltanto la modificazione di una disposizione in ciò che non sembri rispondente nella sostanza o nella forma. Confondere le due discussioni diverse di contenuto e di ampiezza, significa limitare pericolosamente il diritto di esame e di critica.

Ma i due articoli seguenti contengono innovazioni più gravi:

«Le domande di votazione per appello nominale o per scrutinio segreto debbono recare le firme di trenta deputati».

Finora bastavano venti: adesso devono essere trenta deputati. Il sacrificio dei piccoli gruppi è consumato. Ci sono nell’Assemblea gruppi che, anche in due, uniti, non possono esercitare questo diritto. Peggio ancora quanto sancisce l’articolo seguente:

«In caso di richiesta di accertamento del numero legale, dopo l’inizio dell’appello, i deputati presenti non possono più abbandonare l’Aula fino a che l’appello stesso non sia terminato».

Ora, io domando proprio a questa parte dell’Assemblea (Accenna all’estrema sinistra), se ha dimenticato gli episodi gloriosi dell’ostruzionismo – che allora ai partiti dominanti sembrarono atti di violenza, ma che oggi ricordiamo con gratitudine, perché spesso contribuirono a salvare le libertà statutarie (e uno di questi atti di ostruzionismo si verificò appunto in sede di discussione del regolamento, quando l’onorevole Zanardelli, che non era uno scamiciato rivoluzionario, capitanò l’opposizione contro un governo reazionario!) – io domando ai colleghi di estrema sinistra se «vogliono negarci il diritto di ricorrere all’ostruzionismo, qualora ritenessimo che i diritti di Parlamento fossero compromessi. Sarebbe pericoloso, signori, mentre affermiamo il diritto di sciopero, negare alle minoranze il diritto di ostruzionismo, come ultima ratio, nella esplicazione del loro mandato.

Voi siete ora orgogliosi del numero, ma dovreste ricordare che in qualche periodo della vostra vita politica non eravate che un pugno di uomini coraggiosi e decisi, e allora vi sareste opposti, come noi, a questi tentativi di strozzare la discussione.

Qual è poi la sanzione per un deputato che si voglia allontanare dall’aula? Lo si farà forse acciuffare dai carabinieri o – non essendo ciò possibile nell’aula – si incaricheranno i questori Priolo e Mattarella di trattenerlo per le braccia? Ma se io ritengo di dovermi allontanare per impedire la votazione di un certo disegno di legge, che ritengo non sia utile per il Paese, io mi allontano ugualmente. E i giudici di quello che io faccio saranno i miei elettori, il mio partito, la mia coscienza, la coscienza del Paese, non voi. (Applausi).

Ma andiamo avanti. Per i due rimanenti Titoli (Rapporti economici e Rapporti politici) della prima parte del progetto di Costituzione, voi limitate la discussione generale al numero massimo di tre oratori per i gruppi che contino più di cento iscritti e di due oratori per gli altri. Peggio ancora: per i sei Titoli della parte seconda dal progetto, che contengono tutto l’ordinamento della Repubblica, gli oratori non potranno essere più di cinque per i due gruppi numerosi (democristiani e comunisti) e tre per i gruppi minori.

Io qui trovo sancito il nuovo peregrino principio che non ci possa essere un deputato senza gruppo. Il deputato senza gruppo non ha più ragione di esistere. Esistono gruppi, non deputati. Il deputato, in tanto ha ragione di esistere, e diritto di parlare, in quanto glielo permetta il gruppo. Non è più rappresentante della nazione, ma di un partito, se questo gli consenta di rappresentarlo. E io non so come voi possiate risolvere questo problema del diritto alla parola per il così detto gruppo misto, che non è un gruppo omogeneo, che si chiama misto, appunto perché ognuno la pensa in modo diverso dall’altro. I deputati del gruppo misto sono diciannove. Diciannove tendenze diverse. Ora, io domando: che cosa facciamo di costoro, una volta che abbiamo fissato il principio che solo chi esprima il pensiero di un gruppo possa parlare? Questi diciannove colleghi – fra cui alcuni veramente illustri – non rappresentando che se stessi, sono personaggi che non parlano, perché non possono parlare. E allora mandiamoli a casa, in congedo illimitato.

Ma vi dico anche un’altra cosa. C’è in fondo una brillante disposizione aggiuntiva, per cui ogni oratore non può parlare più di mezz’ora. Ora, non vi pare che mezz’ora per le disposizioni normative che costituiscono la Costituzione vera e propria – quelle della parte seconda, relative all’ordinamento della Repubblica – sia un periodo di tempo estremamente breve?

Transeat, fin che si trattava dei principî generali, la parte finalistica, tendenziale della Costituzione, che volevamo destinare al preambolo – ma qui dobbiamo fissare i lineamenti istituzionali del nuovo stato, cioè discutere la Costituzione articolata, la formazione e la struttura degli organi e dei poteri, tutto l’ordinamento della repubblica, norme, competenze, sanzioni.

E noi diamo mezz’ora di tempo a ciascuno degli oratori! Quanti saranno? Cinque per i gruppi che contino un numero superiore a cento iscritti – due soli gruppi, praticamente – e quindi dieci oratori. A questi dieci si aggiungono tre oratori per ciascuno dei gruppi minori: facciamo ventisette. Quindi dieci più ventisette fa diciotto. (Si ride).

PRESIDENTE. Onorevole Molè, l’aritmetica non è un’opinione.

MOLÈ. Signor Presidente, non ho sentito l’interruzione. Sono ossequente ai suoi richiami. Ma prima che si addivenga alla strozzatura dei nostri lavori, mi faccia parlare una volta liberamente. (Ilarità).

PRESIDENTE. Onorevole Molè, io le ho detto solo che l’aritmetica non è un’opinione, riferendomi ai suoi calcoli.

MOLÈ. Ma io volevo dire che, mezz’ora per 37 oratori, fanno 18 ore di discussione. Noi, dunque, in diciotto ore, ci sbrigheremmo, niente di meno, del Capo dello Stato (Si ride), cioè, delle norme che riguardano il Capo dello Stato, il Parlamento, il Governo, la Magistratura, le Regioni, i Comuni, le disposizioni transitorie! Quattro minuti per ciascun argomento e ciascun oratore, per risolvere ognuno di questi problemi, che hanno un’importanza essenziale!

Parliamo, ad esempio, della Regione. Su questo tema, si scontrano le più diverse opinioni; v’è chi pone la Regione contro lo Stato – (ceci tuera cela) –; v’è chi dice che il conferire alla Regione la potestà legislativa primaria rappresenti l’inizio del processo di dissolvimento dello Stato unitario; altri la pensa in modo nettamente opposto. Ma il problema è di importanza vitale per l’avvenire del Paese – e dal prevalere dell’una o dell’altra opinione, dall’adottare l’una o l’altra soluzione, possono dipendere le fortune dell’Italia repubblicana.

Giorni or sono l’onorevole Nitti diceva che – per risolvere il problema delle autonomie regionali – occorre esaminare a fondo il problema dell’autosufficienza finanziaria ed economica delle Regioni, per vedere se gl’istituti che stabiliremo sulla Carta avranno possibilità di vita nella realtà. Di una siffatta discussione volete sbrigarvi in pochi minuti? Ma allora non vi lamentate, o signori, se si dirà che questa è una Costituzione provvisoria, fatta a cottimo, a metro cubo, ad horas. Voi vi contentate di una costituzione come che sia, qualunque essa sia, purché la maggioranza la sanzioni con un voto frettoloso. Non credo che questo giovi alla Repubblica e a noi che ci crediamo. Noi abbiamo interesse che questa Costituzione non abbia un carattere frettoloso di approssimazione, di provvisorietà. Una Costituzione non ha la durata di alcune stagioni o alcuni anni. Deve vivere alteri saeculo: incidere nei bisogni vivi del Paese e anticipare quelle che sono le esigenze dell’avvenire. Pensiamoci.

E soprattutto, con regolamenti capestro, non impediamo de jure la libertà di discussione: de facto mettiamoci d’accordo; discutiamo poco o pochissimo; limitiamo quanto più possiamo il dibattito. Ma non diamo al Paese la sensazione che qui dentro è finita quella che è la norma e la ragione di vita di tutte le Assemblee: che cioè l’ultimo deputato, il più sconosciuto, Ignotus, colui che non ha ancora un nome o una voce emersi dal silenzio o dall’oscurità, colui che rappresenta anche soltanto la sua coscienza, possa esprimere il suo pensiero e dire qualche volta le parole che resteranno nella storia. Quando Andrea Costa entrò in questa Camera, era solo, non aveva gruppo o partito; quando vennero i suoi compagni, forse non erano in dieci. Orbene, tutto l’indirizzo politico italiano negli ultimi cinquanta anni, è dipeso dalla azione di quei dieci, e dei loro continuatori, che incanalarono nel Parlamento la voce delle masse lavoratrici.

Non giochiamo sempre coi numeri, coi grandi numeri. Un solo, qualche volta, vale mille: più di mille, se riassume l’anima del Paese o esprime la coscienza delle moltitudini.

Vogliamo stringere i tempi per mantenere l’impegno di non ricorrere a proroghe non necessarie né vantaggiose? Cerchiamo d’accordo la maniera più conveniente e più dignitosa di risolvere questo problema concreto, ma non diamo lo spettacolo di rinunce mortificanti, accettando ogni cinque minuti modificazioni del regolamento. Il regolamento, che sorge dalla necessità di coesistenza delle maggioranze con le minoranze, è soprattutto il presidio e la guarentigia dei diritti delle minoranze. E le minoranze voteranno contro queste proposte aggiuntive che rappresentano la mutilazione di queste guarentigie, la limitazione della libertà del nostro mandato, aggravando il pericolo che un voto capriccioso di maggioranze possa impedirci l’esercizio pieno del nostro diritto sovrano. Perché qui tutti e ciascuno rappresentiamo la sovranità del popolo, l’unità della Nazione, e tutti, anche l’ignoto, abbiamo diritto di poter dire la nostra libera parola. (Vivi applausi a destra e a sinistra).

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Onorevoli colleghi, noi abbiamo sentito ripetere, anche in questi giorni, che molte disposizioni del regolamento nostro erano state dettate soprattutto per la tutela e per la difesa delle minoranze. Oggi noi assistiamo alla violazione di questo principio. Soprattutto due norme sono gravi, e su di esse ha già richiamato la vostra attenzione il collega Molè.

Una, consentitemi di dirlo, se dovesse essere approvata, costituirebbe una umiliazione per l’Assemblea Costituente, per i rappresentanti del popolo italiano in questa Assemblea: precisamente l’ultima aggiunta provvisoria al Regolamento, nella quale si dice che i deputati presenti nell’aula dopo l’inizio dell’appello non possono più abbandonare l’aula finché l’appello stesso non sia terminato.

Siamo ridotti al sistema scolastico, alla restrizione più completa delle nostre libertà individuali e parlamentari. Sarebbe enorme che l’Assemblea Costituente votasse una disposizione di questo genere, lesiva della dignità e del mandato che ci è stato affidato dal popolo italiano.

Noi facciamo un altro rilievo, che si riferisce alla norma B) per la discussione del progetto di Costituzione.

Onorevoli colleghi, abbiamo quasi esaurito la discussione sulla prima parte del progetto di Costituzione: «diritti e doveri dei cittadini», e voi ricorderete che a questo proposito si era fatta anche una proposta, anzi una serie di proposte, che cioè queste disposizioni, queste norme, potessero far parte di un preambolo alla Costituzione. L’Assemblea sovrana è stata contraria, e va bene; e abbiamo discusso a lungo sulle norme che si riferiscono ai diritti e ai doveri dei cittadini. Ma la vera Costituzione, la «Magna Charta» delle nostre libertà, dovrebbe incominciare oggi e non si è ancora iniziata poiché si deve ancora parlare del Parlamento, del Capo dello Stato, del Governo, della Magistratura, delle Regioni e dei Comuni, delle garanzie costituzionali. Questa è la vera legge Costituzionale, quella che deve dare il nuovo volto e la nuova fisionomia al nostro Paese risorto attraverso il 2 giugno con la proclamazione della Repubblica!

Orbene, volete proprio iugulare oggi la nostra libertà di pensiero, l’espressione dei nostri sentimenti? Proprio oggi?

Intendiamoci: noi siamo d’accordo che bisogna accelerare i tempi. Ma intanto cominciamo col perdere due giorni, perché uno l’abbiamo perduto sabato scorso (Commenti) quando, abbiamo discusso sul Regolamento, quando abbiamo messo in votazione un Ordine del giorno presentato dal collega Rocco Gullo; un’altra giornata perdiamo oggi perché discuteremo indubbiamente fino a questa sera sul Regolamento. E questo in omaggio all’acceleramento dei tempi!

Comunque, andiamo pure avanti. Limitiamo la logorrea degli oratori, limitiamo il tempo a coloro che devono esprimere un pensiero, ma non arriviamo alle esagerazioni! Ognuno dovrà assumere una posizione precisa e soprattutto assumere una responsabilità nell’affrontare e risolvere i problemi costituzionali che dovranno riformare in pieno la vita del nostro Paese.

E allora non si può, onorevoli colleghi, restringere la discussione nel breve termine che è stato fissato dalla norma B). Sono degli argomenti gravi, ponderosi, poderosi, in cui ognuno, non dico ogni gruppo od ogni partito, ma ognuno di noi, avrà il diritto e il dovere di esprimere le proprie idee, ed allora troviamo nell’autodisciplina dei gruppi e dei deputati quelle norme che valgano sì ad accelerare i tempi, che valgano sì ad affrettare le discussioni, ma, badate bene, non mettiamo di fronte a noi i termini fissi, sacramentali di cui abbiamo sentito parlare in questi giorni. Noi non abbiamo preoccupazioni di ordine giuridico e di ordine costituzionale. Ci auguriamo che per il 24 di giugno la Carta costituzionale sia pronta e preparata; se si travalica il limite non si compie nessuna violazione, né di diritto né di Costituzione. Siamo qui a compiere il nostro dovere, e quando si parla e quando si scrive di colpo di Stato a questo proposito, si dice una eresia morale ed una eresia politica: colpo di Stato si può avere e si ha quando si vìolino delle norme di legge per fissarne altre che turbino la vita e sopprimono la libertà del nostro Paese.

Qui, invece, noi vogliamo dare una Costituzione, noi vogliamo dare una legge, noi vogliamo dare una norma di vita: non è colpo di Stato, ma affermazione, invece, della sovranità dello Stato attraverso l’Assemblea Costituente.

Ecco perché, noi, pur accedendo a quelle proposte che si sono fatte e che sono state presentate oggi al nostro esame, daremo voto favorevole a tutte le norme, ad eccezione di quelle due alle quali ho accennato: quella che costituisce una umiliazione per noi come uomini, come cittadini, come deputati rappresentanti del popolo e l’altra che vuole limitare quelli che sono i diritti inalienabili ed imprescrittibili delle minoranze. (Applausi a sinistra).

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Io devo aggiungere solo poche considerazioni a quello che hanno già detto gli onorevoli Molè e Macrelli, e lo farò in tono così, alla buona. Io non credo che vi possa essere nell’animo di nessuno di noi, della maggioranza o della minoranza, il desiderio di intaccare i diritti del Parlamento. Credo che questa intenzione debba essere senz’altro esclusa. Noi siamo qui premuti da un problema che mi pare quello della quadratura del circolo. Noi vogliamo finire il 24 giugno, e poi troviamo che tutte le vie con cui, non dico che si potrebbe finire, ma per cui ci sarebbe la speranza di finire, non corrispondono ai nostri desideri. Quindi al fondo della questione di oggi, ce n’è un’altra molto più grossa, che è la vera, quella che noi abbiamo la paura di affrontare o il desiderio di non affrontare e che, come diceva l’amico Macrelli, ci fa perdere delle giornate, per vedere come possiamo fare per accelerare i lavori col solo risultato di ritardare il raggiungimento della nostra mèta. La questione di fondo è quella se si debba o no finire per il 24 giugno; perché se si venisse nell’ordine di idee di non finire, si dovrebbe sempre trovare qualche accorgimento per snellire alquanto la procedura seguita fino a questo momento, ma si potrebbe andare avanti tranquillamente facendo una buona Costituzione, senza violare la libertà di chicchessia.

Comunque, per restare nei limiti delle proposte che ci vengono prospettate, io vi trovo alcune gravi deficienze e notevoli contraddizioni. Per esempio, la disposizione per la quale i deputati iscritti a parlare, che non rispondono alla chiamata, decadono e non possono reinscriversi, si sarebbe potuta concepire per una discussione generale come quella che abbiamo fatto fino ad ora. Ma in una discussione generale, nella quale il numero degli oratori è limitato ed è, diciamo così, il corrispettivo d’un diritto del gruppo, l’oratore che decade deve essere sostituito dal gruppo o deve poter parlare anche dopo, altrimenti basterebbe che due degli oratori iscritti non prendessero la parola perché coloro, che calcolavano di essere presenti al momento in cui sarebbero stati chiamati, perdano il diritto a parlare. Più grave è la disposizione dell’articolo 4 delle norme provvisorie che vuole aumentare il numero delle firme occorrenti per la richiesta degli appelli nominali e della votazione a scrutinio segreto. Esigere trenta firme per l’una o per l’altra delle due votazioni, significa togliere a molti dei gruppi dell’Assemblea la possibilità di chiedere un appello nominale od una votazione per scrutinio segreto in una parte della Costituzione su cui, per ragioni di carattere politico o di altra natura, questo gruppo ritenga necessario che la votazione per appello nominale o per scrutinio segreto avvenga.

L’ultima disposizione, sulla quale hanno parlato gli onorevoli Molè e Macrelli, è assurda perché non si può concepire che un deputato non possa uscire dall’aula. Finora era contemplato il caso in cui il deputato può essere obbligato ad uscire dall’aula ma era il Presidente che poteva applicare questa misura sotto forma di censura o sanzione. La nuova norma dovrebbe avere il suo corrispettivo nel senso che i deputati che fossero fuori dell’aula non dovrebbero poter entrare. Se intendiamo fotografare la situazione dell’Assemblea in un certo istante, e nessuno può uscire, nessuno deve poter entrare. Allora si arriva all’assurdo, che dei deputati non possono entrare nell’aula non perché siano stati cattivi, non perché siano stati richiamati dal Presidente, non perché abbiano fatto a cazzotti precedentemente, com’è capitato l’altro ieri, ma perché un semplice deputato ha chiesto la constatazione del numero legale. Questa disposizione non si può assolutamente accettare, perché provocherebbe un sovvertimento completo di tutte le tradizioni della vita parlamentare italiana; ed io confido che anche coloro che vorrebbero affrettare la discussione per arrivare ai limiti del 24 giugno, si rendano conto della gravità di una disposizione transitoria che ci trasformerebbe involontariamente in alunni della prima e seconda elementare: perché potrebbe darsi che, durante l’appello per la constatazione del numero legale, qualcuno di noi debba dire come faceva cinquant’anni fa a scuola: «Signora maestra, permette?» e debba alzare il dito della mano. (Ilarità).

Ma vengo alla parte più sostanziale, che è quella che concerne le discussioni generali e che rappresenta un peggioramento della proposta che era stata presentata dall’onorevole Barbareschi, e preparata d’accordo in una riunione dei capi gruppo sotto la guida del nostro Presidente.

Si era venuti allora nell’idea di sopprimere le discussioni generali e lasciarle soltanto alle parti concernenti la Regione e la composizione della seconda Camera. Questa limitazione aveva una logica; ma l’aver voluto portare la discussione generale come prefazione alla seconda parte, fa perdere ogni senso logico, perché non si può immaginare un oratore che debba parlare contemporaneamente delle attribuzioni del Capo dello Stato e della maniera con cui deve essere amministrata la Regione. Non è concepibile affrontare problemi così disparati, così differenti l’uno dall’altro, così vitali agli effetti della futura Costituzione nel termine di mezz’ora, cioè appena in tempo per pronunciare l’esordio di un discorso. Ecco perché la parte concernente la lettera B) per noi è assolutamente inaccettabile. Io vorrei arrivare a qualche cosa di conclusivo, in questo senso: accettiamo le limitazioni proposte dalla lettera A) per il Titolo III e il Titolo IV della discussione; rimandiamo quelle che concernono la lettera B). In questo frattempo dovremo affrontare e risolvere il problema della eventuale proroga dei lavori o il problema di finire in qualsiasi modo e quando avremo preso una decisione nell’uno o nell’altro senso, allora potremo discutere la parte delle proposte relative alla lettera B). Per quello che concerne le norme transitorie, possiamo essere d’accordo su tutto, ma domandiamo che non sia modificato il numero delle firme che occorrono per la richiesta degli appelli nominali e per la votazione a scrutinio segreto e che sia senza altro eliminato quell’articolo 5 delle Disposizioni provvisorie che è contrario ad ogni tradizione parlamentare. (Applausi a destra).

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Onorevoli colleghi, la verità è che nell’associarmi a quanto è stato detto dai tre oratori che mi hanno preceduto, io credo di dover fare una osservazione che è fondamentale in questa discussione. Questa, che sembra una discussione regolamentare, è in fondo una discussione politica cui non si ha il coraggio di dare il suo nome, cioè di discussione politica. Tanto l’onorevole Macrelli, quanto l’onorevole Corbino, hanno accennato al fondo politico costituzionale di questa discussione. E di questo si è già parlato nella precedente occasione. Vorrei dire a questo proposito una sola parola anch’io, e poi verrò al fatto specifico. L’onorevole Orlando, parlando l’altro giorno, accennò all’alternativa di due fallimenti; un fallimento, quello di strozzare la discussione e di fare una Costituzione affrettata, e le conseguenze sarebbero di estrema gravità, perché questa Costituzione nascerebbe provvisoria per il modo della sua nascita indipendentemente anche dal suo contenuto; oppure l’altro fallimento, cioè quello di riconoscere che entro il 24 giugno non si è potuto chiudere la discussione e chiederne la proroga, e disse che preferiva il secondo. Io credo che sia venuto il momento, di fronte a questo dilemma dei due fallimenti, di dire a noi stessi e di dire al Paese una parola onesta: perché fra due fallimenti c’è un non fallimento, c’è il non fallimento dell’uomo onesto, del complesso di uomini onesti, i quali a un certo momento dicono: caro Paese, ci avevi dato un mandato, non lo abbiamo saputo eseguire completamente; chi ci succederà farà la parte che noi non abbiamo fatto. (Commenti al centro). Ad ogni modo, c’è un altro equivoco che bisognava chiarire prima di entrare in questa discussione, che è stato richiamato già più volte, ed oggi dall’onorevole Macrelli; cioè che nessuna decisione è stata presa sul preambolo. La decisione è stata rinviata; la questione è tutt’ora aperta. Quindi non partiamo dal punto di vista che quella proposta sia già stata respinta: la proposta è in piedi e deve essere ancora votata. Noi abbiamo fatto finora una parte della «dichiarazione dei diritti», cioè di quello che in una Costituzione tecnicamente ben fatta è un preambolo.

Ed ora entro nella discussione: ci troviamo di fronte a delle proposte che sono già state analizzate da altri e che sono proposte per lo meno strane, che partono da un altro errore di fondo. E l’errore di fondo è questo: che oggi scompare il deputato, perché è sostituito dal gruppo; cioè c’è l’equivoco del gruppismo. Mi scusi, l’onorevole Presidente, anche lui ha fatto richiamo a questo. Ora è bene intendersi: il deputato è eletto lui, ed è lui che compone il gruppo, e non il gruppo è composto di lui, nel senso che lui sia schiavo del gruppo. In ogni gruppo vi possono essere dei dissidenti, che hanno il diritto e il dovere di parlare. Quindi il fatto che ci siano cinque oratori ufficiali del gruppo non può escludere affatto il diritto di un singolo deputato di quel gruppo di esprimere la propria opinione, che può essere anche diversa da quella dei colleghi del gruppo. Io che vi parlo mi sono trovato più volte in questa situazione, e non ho mai esitato; anzi ho taciuto molte volte, quando altri colleghi del mio gruppo hanno espresso la mia stessa opinione; ho sentito sempre l’imperativo di dover parlare ogni volta che vedevo che fra i colleghi del mio gruppo e me c’era una differenza.

Quindi io credo che questo «gruppismo», dal quale esce poi quel senso di disciplina quasi scolastica, che può portare agli inconvenienti cui accennava l’onorevole Corbino, sia proprio la causa di questi articoli, i quali, visti alla luce di uomini liberi, non sono accettabili. E infatti, non è il mutamento di numero che propone certe differenze sostanziali di Regolamento, perché dai 508 del 1913 e dai 536, se non erro, del 1919 – dopo la riunione delle Terre, allora redente, ed ora in parte nuovamente irredente – ai 556 di oggi, la differenza è minima. La verità è che c’è una concezione che è cambiata, cioè la concezione del deputato responsabile di fronte alla sua coscienza, di fronte al Parlamento, di fronte al Paese, sostituito da un gruppo anonimo, irresponsabile di fronte a sé, di fronte al Parlamento, di fronte al Paese. E questa è la ragione fondamentale per la quale io credo che questi articoli debbano essere respinti, perché questi articoli uccidono, non il diritto delle minoranze – il che significa uccidere la democrazia – ma uccidono il sistema parlamentare basato sulla responsabilità degli uomini, che noi dobbiamo ristabilire in Italia, se vogliamo ristabilire la democrazia.

E una Costituzione discussa in questo modo non può trovare prestigio nemmeno in coloro che non l’hanno discussa, perché non è stato dato loro il modo di discuterla.

Io devo ricordare quello che dissi in un mio precedente intervento: la verità è che c’è chi crede nella Costituzione perché sa che dovrà e vorrà applicarla e ad essa dovrà obbedire; c’è chi non crede nella Costituzione, perché sa che il giorno in cui ne avrà la possibilità, non la rispetterà e la violerà, Regolamenti come questo possono adattarsi soltanto a coloro che appartengono alla seconda categoria. (Applausi a destra).

BENEDETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BENEDETTI. Onorevoli colleghi, io non credo all’efficacia delle proposte di aggiunta al Regolamento, fatte allo scopo di giungere in modo conclusivo alla data del 24 giugno. Non vi credo per una ragione molto semplice: che qualunque cosa si faccia, comunque si accorcino i termini, non saremo in grado di discutere e la Costituzione, e le leggi elettorali, e i Trattati di pace, e la politica finanziaria: discussione, quest’ultima, con tanta insistenza richiesta dal Paese e dall’onorevole Nitti. Non credendo ciò, trovo perfettamente inutile che si perda tempo in queste discussioni. Trovo soprattutto pericoloso, più che inutile, che per rimediare ad un male se ne preparino altri peggiori. Qui noi mettiamo assolutamente in «non cale» i diritti delle minoranze. A me non interessa affatto la limitazione a quindici o venti minuti della facoltà di parlare, onorevole Presidente. Rilevo soltanto che in tutte le Assemblee è stata sempre la tolleranza dei membri dell’Assemblea a limitare più o meno la durata dei discorsi. Io ho sempre sentito che, quando l’Assemblea era stanca di certi argomenti o di certi oratori, bastava la richiesta di chiusura o qualche segno di insofferenza perché la trattazione cessasse. Ma qui si va più lontano: si porta a trenta il numero dei richiedenti per l’appello nominale e per la votazione a scrutinio segreto. Piano piano, aumentando il numero dei richiedenti, si concederà questa facoltà solo ai grandi partiti ed i piccoli partiti non avranno più diritto di chiedere né scrutinio segreto né votazione per appello nominale.

Ma nemmeno questo ha per me grande importanza. Ci viene proposto un altro provvedimento gravissimo, al quale mi oppongo. Agli articoli A) e B) delle norme particolari, si stabilisce un numero di interventi che si riferisce alla composizione dei gruppi organizzati nel seno dell’Assemblea. Fra questi gruppi, ve ne è uno che si chiama «misto» il quale è composto di 14-15 deputati che vi entrano perché non hanno possibilità di cittadinanza negli altri gruppi. Io mi chiedo: ha la Giunta del Regolamento diritto a dimettere d’ufficio dalla carica di deputati tutti coloro che appartengono al gruppo misto? Perché questa è la sostanza delle proposte della Giunta del Regolamento. Io vorrei una risposta precisa a questo quesito; e cioè se i deputati che appartengono al gruppo misto, non avendo diritto alla parola, non sono più investiti del diritto di rappresentanza del popolo in questa Assemblea: in altri termini, se si debbono considerare dimessi, o no, di ufficio dalla carica di deputato. È certo che tutti noi del gruppo misto, non appartenenti ai varî partiti, non avremmo più diritto di parlare se le proposte di aggiunta al Regolamento fossero approvate, il che equivarrebbe a dire che tutti i deputati del gruppo misto verrebbero dimessi d’autorità dalla carica. Signor Presidente, chiedo una risposta precisa, ripeto, su questo punto. Il resto della discussione mi sembra perfettamente inutile, dato che non arriveremo certamente a concludere i nostri lavori alla data del 24 giugno fissata dalla legge.

RUBILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Onorevoli colleghi, sinora si sono pronunziati oratori nettamente contrari alle nuove norme di regolamento che sono proposte. Si potrebbe forse pensare che allora la maggioranza incominci a delinearsi in senso sfavorevole alle dette norme; ma qui non si può mai prevedere con certezza quello che avverrà, e può darsi pure che la votazione abbia un risultato in difformità dalle discussioni che finora abbiamo sentite. Ed allora, prendo la parola per una piccola proposta di modificazione, semplice e concreta. Nel merito della discussione, dal punto di vista generale, di proposito non voglio entrare. Si è insinuato troppo un sospetto, e questo sospetto mi pare che trovi anche un certo sostrato nell’articolo terminativo delle norme regolamentari che prevede la possibilità di una forma di ostruzionismo; si va talora troppo dicendo che coloro i quali vogliono prolungare e approfondire la discussione tendono ad ottenere specialmente la proroga dei lavori parlamentari e della vita dell’Assemblea. Di fronte a questo sospetto, io di proposito, per mia delicatezza, mi astengo dall’intervenire nella discussione generale. Ma dico che se l’Assemblea si pronuncerà in senso favorevole alle norme regolamentari che oggi sono proposte, a me pare indiscutibile che la lettera B) delle norme particolari debba essere modificata, o di molto o di poco, ma insomma deve essere attenuata. Non mi sembra una norma veramente seria. Non mi sembra assolutamente possibile che vi sia una sola discussione generale sulla parte che poi costituisce la vera Costituzione (Parlamento, Capo dello Stato, Governo, Magistratura, Regioni e Comuni, garanzie costituzionali) e che per ogni oratore vi debba essere mezz’ora di tempo a disposizione. Ma una settimana, sul serio, non basterebbe a discutere questi argomenti!

Sul resto, fate quello che volete. Non mi pronuncio e accetto quello che stabilirà l’Assemblea per la modifica del regolamento. Non m’importa niente, si proroghi o non si proroghi la durata dell’Assemblea. Ma faccio appello alla vostra serietà, all’equanimità ed alla coscienza del signor Presidente che dirige i nostri lavori e la nostra Assemblea con tanta autorità da parte sua e con tanto rispetto da parte nostra. Io domando: è una cosa seria questa? Su ciò chiedo una risposta da parte dell’Assemblea.

Bisogna ritenere assolutamente che quello che si propone non è possibile, per due ragioni. Innanzitutto, non si può umanamente ammettere che in mezz’ora si possa dire qualche cosa di concreto e di serio che valga a richiamare l’attenzione dell’Assemblea su questo complesso di argomenti, che sono grandi argomenti e chiedono grande riflessione e grande attenzione. D’altra parte, onorevoli colleghi, l’argomento delle Regioni e quello del Senato a me sembra che debbano essere trattati per sé stessi, isolatamente. Questi sono punti vitali e fondamentali della nostra Costituzione che rappresentano tutta la vita legislativa dell’avvenire, e, per quanto riguarda la Regione, rappresentano una trasformazione completa dello Stato. Ora, è possibile che discussioni di questo genere, di tanta importanza, debbano essere fatte in una forma complessa e caotica, anziché svolgersi distintamente, in modo che ogni capitolo richiami per sé stesso e da solo tutta l’attenzione e tutta la responsabilità (perché è questione di responsabilità, onorevoli colleghi) responsabilità che abbiamo di fronte alla nostra coscienza, ma specialmente di fronte al Paese?

Sono argomenti che debbono dar luogo a dibattiti calmi e sereni, senza limiti di tempo, e vanno convenientemente risolti, senza distrazioni e senza deviazioni, in guisa da non rimanere in alcun modo confusi tra problemi completamente diversi.

Per queste considerazioni, che cioè sia assolutamente impossibile trattare un complesso di argomenti così importanti e così elevati in mezz’ora, ed anche perché quei due argomenti della Regione e della seconda Camera debbono essere trattati ciascuno a parte, isolatamente, per arrivare a quella soluzione che riteniamo più rispondente ai vitali interessi della Nazione, io propongo di fare una rettifica, per lo meno, alla lettera B): facciano l’Assemblea e la Giunta pel Regolamento quello che credono, per quello che riguarda le varie norme presentate, ma per lo meno stabiliscano che vi siano tre discussioni di ordine generale su questo complesso di argomenti sopra indicati, e non una sola. Cioè una discussione che comprenda il Parlamento e la costituzione della seconda Camera, una seconda discussione generale sulla Regione ed i Comuni ed una terza discussione generale che possa eventualmente comprendere argomenti anche importanti, ma senza dubbio non tanto importanti quanto i primi due di cui ho parlato dianzi, e cioè il Capo dello Stato, il Governo e la Magistratura.

Mi pare che almeno questo possa essere accettato, senza il sospetto che si voglia prolungare la vita dell’Assemblea o che si abbiano preoccupazioni elettorali, e tanto meno che si pensi a fare dell’ostruzionismo; una proposta così equa, qualunque sia il risultato della prossima votazione sulle nuove norme regolamentari, non potrebbe mai essere respinta. E se si crede che anche questo sia troppo, si potrebbe ridurre il numero degli oratori su ciascuna di queste tre discussioni generali, cosicché invece di cinque oratori per i gruppi che superano i cento deputati potrebbero esservene tre, ed invece di tre per i gruppi che non superano il numero di cento almeno due, ma insisto specialmente per le tre discussioni generali. Quindi, a prescindere dalla sorte che avranno le altre norme ora proposte, in ogni caso si sopprima o si attenui, per quanto è possibile, quella che annullerebbe o quasi l’adempimento dei più grandi doveri che abbiamo verso di noi e verso la Nazione. (Applausi).

CALOSSO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CALOSSO. Molto prima che nascesse l’idea della «ghigliottina», avevo presentato alla Presidenza una mozione riguardante la tecnica della discussione, che è stata sempre un mio chiodo, fin dall’inizio della Costituente, per cui le mie idee risalgono a prima che ci orientassimo verso la ghigliottina. Un Regolamento di assemblea non è mai una cosa decisiva che faccia o meno riuscire una assemblea; potrà, se mai, determinare il modo con cui truffare questa Assemblea, ma non farla funzionare.

Diceva Balfour, un conservatore, che la Camera dei Comuni, che ha un vecchio Regolamento tirannico, funziona perché i deputati la vogliono far funzionare. Ora, se andiamo al fondo delle cose, la nostra assemblea non funziona perché segretamente non si vuole che la Costituente funzioni. Noi, segretamente, non abbiamo voluto farla funzionare, fin dal primo momento. Quindi, si potrebbe correggere questo con un’azione sulla nostra volontà: non credo che vi sia altro sistema.

Se voi osservate, si tenta di ghigliottinare l’assemblea con un colpo di maggioranza. Ora, è proprio il caso che un’assemblea, che è posta a modello del Paese disorientato da venti anni di dittatura, che deve educare il Paese alla democrazia, in un momento in cui dovremmo darci tutti la mano, sia disciplinata da un Regolamento di maggioranza? Dovrà pur essere, tecnicamente, una maggioranza a votare; ma dovrebbe avere la coscienza altissima di non fare nulla, senza la fondamentale adesione della minoranza.

Notate: i partiti che, in sostanza, hanno pensato a questa ghigliottinatura desiderano segretamente – senza rendersene conto – che la Costituente fallisca, perché hanno desiderato che tutto fallisca.

Ditemi voi quale problema fondamentale non sia fallito, non per circostanze obiettive, ma per una segreta volontà. Guardate il Trattato di pace. Nessuno può negare in quale misura un’ampia discussione, oppure un referendum, avrebbe potuto agire nell’unico modo che si può agire in politica estera da parte di un Paese vinto, cioè sull’opinione pubblica del Paese vincitore. Sarebbe stata utilissima una discussione generale; invece, si è deciso di non tentarla neanche, e quel poco che potevamo fare si è ridotto ad una misura del Governo, che poi un’assemblea dovrà timbrare se avrà tempo; e non l’avrà probabilmente.

Così per il cambio della moneta, per il problema economico; potrei citare problemi molto più minuti, come quello della radio, in cui non costa niente riempire le onde eteree di una propaganda buona, anziché cattiva. Ma che cosa ha fatto il Governo? Anche questo è un problema che dovrebbe riguardare la totalità, ha deciso di abolire la propaganda ed ha obbedito a questa tendenza scettica che domina il Paese, perché siamo stanchi: prima abbiamo avuto Appelius, Ansaldo, Ezio Maria Gray e adesso abbiamo altri imbecilli che ci rompono le scatole.

PRESIDENTE. Onorevole Calosso, sarebbe preferibile che restasse in argomento.

CALOSSO. Tocco il problema nella sua essenza. Comunque lascerò la radio, che serviva ad identificare una segreta volontà di fallimento.

Anche qui siamo allo stesso punto. Ho assistito al nascere della Costituente: è nato prima il Ministero della Costituente, di cui era presidente un uomo che aveva fatto della Costituente la sua passione, la sua vita, perché si deve in notevole misura all’onorevole Pietro Nenni se la Costituente si è fatta. In quel tempo c’era un famoso motto, uno slogan: o la Costituente o il caos. Lui batteva continuamente su questo argomento e nel Ministero continuò la sua azione.

Toccava a me, per caso, essere la sua voce alla radio, e quindi ho seguito il problema. Si vede che avevamo una segreta volontà contraria a quello che dicevamo perché, appena imbastita la Costituente, che cosa si è fatto? Si è tolta alla Costituente ogni facoltà di trattare problemi di struttura e non abbiamo neppure iniziata la Costituzione. Nell’ultimo Titolo che abbiamo discusso siamo quasi arrivati a dire che la gente ha il diritto di mangiare. Cosa ci impediva di dire che la gente aveva il diritto di avere una gallina faraona ogni giorno?

Ci siamo messi, quindi, nella pura situazione giuridica di non fare nulla. Era, del resto, ben naturale che la Costituente, che non poteva trattare problemi sostanziali, fallisse.

E questa segreta volontà di fallimento si manifestò col dare tutti i poteri alla Commissione per la Costituzione. Ora, nel mondo moderno dominato dalla metafisica fascista, si sa che, quando si danno dei poteri all’esecutivo, questo tende ad usurparli.

Che cosa fecero in verità i Settantacinque? Si chiusero quasi nel loro segreto; essi si passavano dei foglietti solenni. Poi si propose, ad un determinato momento, la pubblicazione del bollettino che Nenni aveva iniziato, in modo che il Paese potesse seguire i lavori. Ma noi non si volle e si dovette al Capo dello Stato, onorevole De Nicola, se si ebbe quel minimo di pubblicità a un certo punto.

Per otto mesi, non facemmo nulla; il Paese già protestava nel mese di agosto. Avvenivano dei moti; si diceva: che cosa fa la Costituente? Ci denigravano, con grave danno di questa prima assemblea democratica. E intanto noi andavamo avanti senza far nulla, o svolgendo soltanto interrogazioni, e diventammo impopolari.

Ma intanto si diceva: si vedrà dopo: Ora lo stiamo vedendo: ecco la ghigliottina. Accade come di quei giovinastri che entrano alla stazione ferroviaria senza biglietto: i primi, quando ai cancelli si sentono chiedere i biglietti rispondono: li hanno indietro; mentre l’ultimo fa cenno che li hanno quelli davanti (Si ride). Ora, noi pure abbiamo fatto così: siamo arrivati al punto di presentare il biglietto e non facciamo nulla.

Questa è una barriera di disfattisti; e tutti noi, ed anche lei, Signor Presidente, insieme con noi, stiamo alzando questo gonfalone di disfatta: la Costituente è fallita. Noi diamo questo scandalo.

Perciò ho insistito sulla mia mozione di un mese e mezzo fa; perciò penso che stiamo per fare una cattiva azione e che, se potessimo non farla, sarebbe meglio. Se infatti ciascuno di noi, nella sua sovranità, si decidesse a soprassedere a questa manovra, pur proponendosi ciascuno di contenere la discussione, sarebbe una cosa bella.

Che se proprio questo non si vuol fare, diciamo almeno una parola di sincerità al mondo: la Costituente ha fallito, perché ha voluto fallire.

Una voce a sinistra. Non è vero! Non è vero!

CALOSSO. Io sono molto contento se qualche onorevole Collega dai banchi della sinistra, volesse gentilmente… (Interruzioni – Rumori a sinistra).

Una voce a sinistra. Voi siete dei parolai, come lo eravate nel 1925.

CALOSSO. Ma questa è storia: io mi appello agli stessi uomini che hanno alzato la bandiera della Costituente, al nostro collega onorevole Nenni che ha il merito storico…

CONTI. Ma che Nenni! Siamo stati noi! (Si ride).

PRESIDENTE. Onorevole Calosso, non risponda, la prego, alle interruzioni.

CALOSSO. Dirò adesso qualche cosa, ormai inutile, di quello che avevo l’intenzione di dire un mese e mezzo fa, perché scrissi fin dall’inizio della Costituente che cosa dovevamo fare.

PRESIDENTE. Onorevole Calosso, la sua proposta è stata letta pubblicamente all’Assemblea. Lei era assente.

CALOSSO. Signor Presidente, se permette faccio una critica alla Presidenza…

PRESIDENTE. Lei può fare la critica senza chiedere il permesso.

CALOSSO. Faccio osservare, per esempio, che un giorno io presentai un’interrogazione sulla radio, un’interrogazione apolitica perché tutto ciò che riguarda la radio dovrebbe essere apolitico, ed era firmata da membri di tutti i partiti (Commenti).

Fatta questa interrogazione io domandai: quando verrà in discussione? Mi si rispose: più tardi, più tardi. Dopo cinque mesi, una mattina si lesse l’interrogazione.

Io non c’ero. Vengo tutti i giorni, ma quella mattina non c’ero, e l’interrogazione decadde. Trovo quindi che c’è un errore nel Regolamento. Io avrei dovuto essere per cinque mesi continuamente presente. (Si ride).

PRESIDENTE. Era sufficiente che lei, come certamente fa, leggesse quotidianamente l’ordine del giorno dell’Assemblea, nel quale sono anche indicate le interrogazioni. E l’onorevole Cianca, firmatario, come lei, di quella interrogazione, avendo diligentemente constatato che era all’ordine del giorno di quel giorno, si trovò presente e rispose al Ministro.

CALOSSO. Non credo che sia andata così. Cianca era qui per caso e quindi parlò. Ma come il Governo è avvertito, gentilmente, perché venga a rispondere alle interrogazioni, io penso che anche un membro del Parlamento dovrebbe essere gentilmente avvertito. Perché questa differenza? Ve la dirò io. È la stessa questione della topografia dell’aula. Perché abbiamo al centro il banco del Governo? Perché in un Parlamento si deve sottolineare questa eccezionale differenza fra il Governo e i membri dell’Assemblea? Quale diminuzione di autorità avrebbe il Governo se sedesse sugli stessi banchi nostri? (Commenti).

Una voce. Non siamo a Londra!

CALOSSO. Non siamo né a Londra né a Mosca, e siamo lieti di non essere né a Londra, né a Mosca.

PRESIDENTE. Onorevole Calosso, la prego. Abbiamo un documento sott’occhio da esanimare. Non parliamo adesso dei banchi del Governo.

CALOSSO. No, si parla anche di quelli.

PRESIDENTE. La prego, onorevole Calosso, so ancora leggere l’italiano.

CALOSSO. A me sarebbe sembrato giusto che poiché quest’aula è troppo grande, e ne ho parlato in una mozione…

PRESIDENTE. Onorevole Calosso, la sua mozione non è all’ordine del giorno. Lei propone di dimezzare l’aula: ne parleremo un altro giorno. (Si ride).

CALOSSO. Abbiamo fallito ma non abbiamo dimezzato l’aula. Ma non è questo il punto. Io sostenevo questo punto: che per non perdere tempo la prima cosa importante da fare era di discutere come si doveva discutere e non buttarci tutto sulle spalle e poi fallire.

Ora, sarebbe naturale che per ogni Titolo della Costituzione, per ogni cosa importante, dopo una discussione generale, che certamente dovrebbe essere imbrigliata da noi stessi con pochi oratori, uno o due per gruppo (proposta che fece il signor Presidente e della quale spetta a lei il merito) si fosse arrivati ad un punto in cui da uomini liberi, da gentiluomini… (Interruzioni a sinistra).

PAJETTA GIAN CARLO. Da gentiluomini: è più all’inglese!

CALOSSO. Io sono disposto a prendere dall’Inghilterra e dalla Russia tutto ciò che c’è di buono, onorevole Pajetta!

PRESIDENTE. Onorevole Calosso, faccia comunque la sua proposta.

CALOSSO. Mi lasci parlare, signor Presidente, a mio modo. Io parlo adagio e la Costituente ha fatto in fretta. Ora, deve venire il momento in cui una legge, un Titolo, vanno discussi come si fa in quelle storiche istituzioni che hanno sempre funzionato: per esempio i Comuni. Si discute attorno a un tavolo e ognuno può dire una parola considerandosi un uomo responsabile eletto dalla Nazione, senza fare interruzioni di carattere facinoroso (Accenna a sinistra) ed essendo disposto anche a convincersi della tesi diversa dalla propria. Noi potremo arrivare molto più in fretta così. Io sono disposto a convincermi in ogni istante della tesi dell’avversario.

Perciò sarebbe necessario che ad ogni Titolo, dopo la discussione generale, abbreviata, si tenesse una seduta di Comitato in cui il Presidente fosse una figura teorica, che abdicasse ai suoi poteri e, in un certo senso, si limitasse a tirare le orecchie a qualcuno. Io credo che in questo modo probabilmente rischieremmo di ubbidire al Regolamento, senza scambi di invettive, e finiremmo col fare un colloquio utile dal quale vien fuori la legge. E sarebbe una cosa bella! Non l’abbiamo voluto fare, e non l’abbiamo voluto fare per guadagnar tempo. Ed è questo che mi indigna. L’avessimo almeno voluto fare per perdere tempo; ma l’abbiamo fatto per guadagnar tempo, ed è per guadagnar tempo che noi faticoni abbiamo gridato e insultato (perché anche questo è possibile in questa aula).

E notate: questa fretta in nome della lentezza, questa fretta non intelligente con cui siamo andati adagio, ha già apportato inconvenienti ed altri ancora ne apporterà quando discuteremo delle Regioni, della pace, della neutralità, dell’abolizione della guerra: problemi possibili e pratici, se li tratteremo con la dovuta delicatezza.

Per l’esempio: c’è l’articolo sulla stampa, che è importante, perché si sbandiera molto e i giornali se ne interessano in modo particolare. Ora, perché l’abbiamo approvato? Io ricordo che alzai la mano: «Signor Presidente, non ho capito bene», dissi.

Ora siamo sinceri: chi l’ha approvato? La maggioranza che l’ha votato è pentita, ed in qualche modo se potesse tornare indietro a questo gratuito errore che non ha servito a nessuno, sarebbe ben lieta, perché, in fondo, non è stata reazione o calcolo che ha determinato quel voto. Noi facciamo finta qualche volta di essere troppo furbi per scusare i nostri errori. È stata la fretta. Perciò io rivolgo questo estremo appello, senza pensare, come dice l’onorevole Marchesi, di salvare la mia anima: facciamo una buona Costituzione; pensiamo solo a questo e se sapremo autolimitarci, senza bisogno di catene e di ghigliottine; credo che non impiegheremo molto tempo. Se abbiamo sbagliato un articolo, che cosa faremo quando ci sarà da trattare dei problemi della pace e della guerra? In sostanza vorrei che il corpo elettorale non desse un giudizio negativo su di noi. (Applausi a sinistra).

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Onorevoli colleghi, su questo argomento abbiamo già discusso l’altro giorno e quindi ora potremo stringere. Se le proposte che fa la Giunta del Regolamento vogliono dimostrare che l’ordine del giorno presentato nell’altra seduta dall’onorevole Giannini è praticamente attuabile, la Giunta ha ottenuto completamente il suo scopo.

Che cosa dice Giannini? Che l’Assemblea «deve e può» nel termine stabilito fare la Costituzione, nonché tutte le altre leggi. Io ho fatto un piccolo calcolo. Se si applicasse questo regolamento avremmo 34 oratori a mezz’ora ciascuno nella discussione generale cioè 17 ore; dò mille minuti per le dichiarazioni di voto ed altre mille minuti per gli emendamenti. Sono altre 36 ore. Complessivamente 50. Quindi 10 giorni, per la discussione ed approvazione della Costituzione. Vi pare semplice tutto questo, quando per approvare 39 articoli abbiamo impiegato 2 mesi? È possibile che sia questa la volontà dell’Assemblea eletta per fare la Costituzione; o è una burla che vogliamo fare a noi stessi e dire che la Costituzione rimarrà quella che è stata preparata dalla Commissione e che noi non vogliamo cambiare nemmeno una sillaba. Perché in tal caso basterebbe imbussolare i nomi dei 560 deputati, sceglierne 34 che si riuniscano e decidano, e poi per alzata di mano approvare la Costituzione. Sarebbe forse più semplice…

Quindi è evidente che, come diceva l’onorevole Calamandrei in un famoso discorso, qui il problema è diverso da quello che stiamo discutendo. C’è un problema che stiamo trattando e c’è un altro problema «controluce» che non vogliamo discutere. In fondo, qual è la questione che ci preoccupa di più? Se è possibile oltrepassare il termine fissato del 24 giugno, se è possibile farlo, e se questo sorpassamento non voglia significare invece un attaccamento eccessivo a questo seggio, in quanto molti deputati temono di non tornare alla Camera. (Commenti). Questa è la verità.

Io parlo con molta sincerità. Ma non è vero che il problema si ponga così. Fra i membri più autorevoli del Partito socialista italiano e del Partito comunista il problema è posto nel senso di dover fare le elezioni a ottobre, o al massimo ai primi di novembre. Ed allora la questione si può spostare, dicendo: approviamo la legge elettorale, che è la prima cosa, e di cui invece non sappiamo ancora nulla. Non è arrivata neanche al Consiglio dei Ministri: non sappiamo ancora i criteri che la informeranno, come si voterà e se resterà la proporzionale. Facciamo quindi la legge elettorale, stabiliamo la data delle elezioni e prolunghiamo la Costituente di due mesi o due mesi e mezzo: quanto occorre per arrivare al termine fatale. E allora tutto potremo comodamente discutere. Io non lo esamino questo regolamento capestro, non lo voglio esaminare. Mi pare impossibile che l’Assemblea possa fare un gesto di Origene nel disconoscere la ragione per cui è stata eletta. Ogni volta che si è parlato di qualche altro regolamento si è detto: dobbiamo fare la Costituzione, e non altro. È serio che per mezz’ora possano parlare cinque oratori dei due grandi gruppi, e tre per i gruppi minori? Per l’Unione Democratica Nazionale bisognerà fare una specie di cernita: anzitutto: Grassi, Nitti, Labriola, Porzio ecc. Chi parlerà di costoro? Del gruppo misto: Bergamini, Benedetti, Bruni, che rappresentano un partito; Fabbri, che rappresenta un altro partito; Finocchiaro che rappresenta un terzo partito; Orlando, Patrissi. Chi parlerà? Chi saranno i tre prescelti? Si dovranno mettere in un sacchetto i nomi, e poi estrarli a sorte? È assurdo!…

È possibile, onorevole Presidente? Lei che conosce così bene il progetto di Costituzione, che ne pensa? Siamo al 5 maggio e mancano 40 sedute al 24 giugno. I diritti e doveri dei cittadini potevano benissimo far parte di un preambolo, come nella Costituzione francese. Abbiamo 13 argomenti che dovrebbero essere trattati in unica discussione con cinque o tre oratori per gruppo, cioè con un totale di 34 oratori. Tutti questi tredici argomenti dovrebbero essere discussi in mezz’ora per ciascun oratore: il Parlamento, il sistema bicamerale, la formazione del Senato, la formazione delle leggi, il Capo dello Stato, il Consiglio dei Ministri, la Pubblica Amministrazione, l’Ordinamento giudiziario e le norme sulla giurisdizione, le Regioni ed i Comuni. Di ciò non abbiamo discusso nella parte generalissima, perché l’illustre Presidente osservò che la discussione sulle Regioni si sarebbe fatta nella trattazione generale di questo titolo. Poi le Garanzie costituzionali, la Carta costituzionale, la Revisione della Costituzione, le Disposizioni transitorie e il Preambolo, al quale dobbiamo tornare, infine, nella revisione generale. Come tutto questo si potrà fare con una discussione di 34 oratori con mezz’ora ciascuno, cioè 17 ore in tutto, io me lo domando. E allora quale è il rimedio? L’avevamo trovato l’altro giorno. Forse non è stata opportuna la proposta di mandare alla Giunta per il regolamento la questione, perché gli onorevoli Barbareschi, Scoccimarro, Mastino Gesumino e Grassi avevano fatto una proposta che debitamente emendata poteva anche passare: dicevano i quattro colleghi che la esperienza realizzata nel corso della discussione ci consigliava a stabilire un metodo diverso di discussione. Non si sarebbe scomodato il Regolamento della Camera, che si vorrebbe innovare molto inopportunamente, facendo anche entrare in esso i gruppi parlamentari che non entrarono nemmeno nella nomina delle 4 Commissioni, perché quando si formarono le 4 Commissioni si stabilì che sarebbero state elette dagli Uffici e poi si delegò al Presidente la nomina, ma si disse Uffici non Gruppi. Sulla base dell’ordine del giorno dei quattro autorevoli colleghi, che sembrava concordato tra i partiti, con qualche opportuno emendamento si sarebbe potuto facilmente raggiungere l’accordo; ond’io, senza tediare più a lungo gli onorevoli colleghi, sarei dell’opinione che si potrà eventualmente riprendere la proposta Barbareschi e compagni, ripresentando gli eventuali emendamenti, tra i quali quello modesto che io avevo proposto che serviva essenzialmente allo scopo di affrettare la discussione. Non sarebbe stato un regolamento ghigliottina, né un regolamento capestro, ma un regolamento che sarebbe servito ad affrettare la discussione e avrebbe dimostrata la nostra buona volontà di arrivare al più presto possibile alla conclusione dei nostri lavori.

Limitazione degli iscritti da uno a tre per gruppo, limitazione del tempo per gli emendamenti a non più di 20 minuti per ciascun oratore e a non più di 10 minuti per le dichiarazioni di voto. Con queste proposte io credo che potremmo ugualmente ultimare con una certa rapidità il nostro compito e dare la sensazione al corpo elettorale, che ci ha inviati in quest’Aula per fare una buona Costituzione, ché se anche la Costituzione non riuscirà quella perfetta a cui aspiriamo, abbiamo fatto tutti gli sforzi possibili per adempiere onestamente e coscienziosamente al nostro dovere. (Approvazioni).

LABRIOLA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LABRIOLA. Non parlo certo nelle migliori condizioni, giunto appena adesso da un viaggio. Non crediate che io non mi accorga che ci ripetiamo tutti. Credo sia necessario ripetersi, persino in una Assemblea che impone in me tutto il rispetto possibile; ma ricordo che un pubblicista di parte cattolica, scrivendo in una rivista di alta tenuta culturale, riassumendo un discorso che io feci in questa Assemblea, in questa Aula medesima, al tempo della legge Acerbo che iniziava la dittatura fascista, citava con lode una mia opinione, che ripeterei anche in questa circostanza. E la mia opinione era questa: un giorno le pagine di questi resoconti saranno compulsate da qualcuno e questo qualcuno troverà che in un’Assemblea coartata dal terrore ci fu chi seppe difendere i diritti della Nazione, non i diritti di questa parte o di quella parte politica, ma i diritti della Nazione. Le modifiche al Regolamento proposte dalla Presidenza sono un attentato alla libertà del paese. E prendo la parola, alla bella e meglio, perché il documento resti che qualcuno si oppose. Il mio desiderio più vivo sarebbe che gli anziani di questa Assemblea, non già gli anziani di età, come sono io, ma gli anziani di vecchia esperienza ed uffici ricoperti prendessero la parola, dicessero il loro dissenso. Essi potrebbero a tutti ricordare che il Regolamento della Camera è un documento storico che non si deve alterare. Esso è il risultato di una lotta magnificamente combattuta ai suoi tempi contro coloro che volevano violare la libertà della tribuna e delle discussioni, e fu la lotta condotta da una piccola pattuglia contro una maggioranza reazionaria, la maggioranza di Pelloux. Allora questa piccola minoranza volevano schiacciare; si diceva che si chiacchierava troppo, che si discorreva a perdifiato. Infatti il vecchio Regolamento della Camera permetteva anche di leggere magari dei fogli di annunzi o di estranea letteratura per ore intere e quei deputati si servirono di questo diritto per impedire ad una grossa maggioranza di mettere il bavaglio al paese, o almeno per protrarre la realizzazione di questo delitto. Essi dichiararono che quando si trattava dei diritti della individualità, della persona, della coscienza dei cittadini, delle loro opinioni, su ogni disposizione e su ogni regolamento si doveva passare e il Regolamento della Camera fu il risultato, appunto, di questa lotta. L’ostruzionismo praticato dall’Estrema Sinistra di allora, è rimasto celebre nella memoria delle nostre lotte politiche e parlamentari.

Vi sono certo dei momenti della lotta parlamentare in cui anche l’ostruzionismo, anche la violenza fisica può diventare una necessità per combattere una battaglia che il numero non permette di vincere. E in quell’Assemblea Leonida Bissolati non esitò a gridare: «Abbasso la monarchia; abbasso il re!», perché ebbe la sensazione che dietro il nuovo Regolamento che alla Camera si voleva imporre, vi erano tutte le forze reazionarie del Paese, le quali, in quel momento facevano capo al re. E si combatté, allora. Il capo del Governo di allora si appellò agli elettori e pensò che gli elettori potessero dargli ragione. Quale fu la loro risposta? Un’estrema sinistra triplicata di numero. Era ancora inferiore alla maggioranza; ma il prestigio morale era tutto per essa. Aveva vinto moralmente; e tutti, anche gli oppositori che avevano per sé la quantità del numero, si inchinarono e riconobbero che la vittoria era da quell’altra parte. Si venne ad un compromesso, al quale presero parte Zanardelli e Giolitti, e la Camera si dette un nuovo Regolamento: è il Regolamento che noi abbiamo; un Regolamento che è il risultato di una battaglia, combattuta in nome della libertà. Perché, che cosa valgono le Costituzioni quando non ci sono i deputati per difenderle; e come i deputati possono difenderle se non c’è un Regolamento dell’Assemblea che lo renda possibile? Toccare i diritti di discussione dei deputati nell’Assemblea – sia pure di sterminatamente chiacchierare – significa rendere possibile ogni attentato alle libertà popolari. Ah, questa nostra Assemblea! A quanti tristi spettacoli ci sta abituando: abbiamo voluto creare la libertà, abbiamo voluto creare la democrazia; e il risultato è che la libertà e la democrazia le neghiamo prima di tutto a noi stessi! Sbalordente è questa nostra democrazia!

La colpa del ritardo frapposto nei nostri lavori, è un po’ di tutti; prima di tutto del Governo. Ha male agito quando è venuto davanti all’Assemblea senza un suo progetto di Costituzione. Su un breve progetto di legge avremmo discusso immediatamente; il tempo ci sarebbe stato sicuramente perché tutte le opinioni fossero esposte. Invece si è nominata una grossa Commissione, che era un mezzo Parlamento, e si sa le conseguenze quali sono state. E perché l’Assemblea dovrebbe essa sopportare le conseguenze degli errori altrui? Purtroppo questa Assemblea mostra una facile rassegnazione in molte cose. La situazione finanziaria è tremenda. Vorremmo la discussione; la discussione ci è negata; la discussione è prorogata; non si giunge mai ad ottenere che questo Governo venga davanti a noi. Si tace sulle cose essenziali: si deve dunque sempre tacere?

E dovremmo altresì rinunciare a discutere con l’ampiezza necessaria le questioni che riguardano la Costituzione? Ah no! Io probabilmente non avrò né il modo né la necessità e nemmeno il desiderio di prendere la parola sui Titoli di essa che si debbono ancora discutere. A dire il vero, non credo che valga la pena di troppo insistere su quello che essa possa contenere e la ragione poi in sostanza è questa: che io sono dell’opinione che il diritto costituzionale italiano riconosca il diritto costituente a tutte le Assemblee legislative, e che la futura Camera normale dei deputati potrà esercitare questo diritto costituente, checché la Costituzione da noi fabbricata possa contenere. Ma non parlo per me, parlo per l’esempio che diamo al Paese; e dicevo dianzi e ripeto, perché le ripetizioni in questa discussione sono necessarie: pretendiamo di assicurare con la Costituzione la libertà del Paese, e intanto, la togliamo a noi stessi col Regolamento proposto.

Purtroppo qui si consolida la partitocrazia che in varie circostanze io ho dovuto denunciare all’Assemblea. La volontà dei partiti, come fatto libero e dipendente da conformità ideologiche, è necessaria per il funzionamento della democrazia ed io mi inchino ad essa come una evidente necessità. Ma i partiti non debbono imporre ai loro seguaci quella clericale disciplina che tolga ad essi la propria libertà. E se anche uno solo dei componenti di essi dissente dalle opinioni di tutti gli altri, assicuriamogli la possibilità di esprimere il suo dissenso nell’Assemblea. Io ho paura di questo nuovo Regolamento, perché ho paura delle dittature. Si comincia dal Regolamento dell’Assemblea, e si finisce con la dittatura generale. Meglio l’ostruzionismo…

Una voce a sinistra. Ne fate anche adesso di ostruzionismo!

LABRIOLA. L’ostruzionismo del 1900 iniziò il paese alla libertà. In nome di quel passato chiedo che le disposizioni regolamentari proposte vengano senz’altro respinte. (Applausi).

CIANCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIANCA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, tratterò il tema sul terreno su cui il tema stesso è stato posto. Io non esaminerò la questione relativa alla necessità o possibilità di prorogare i lavori della Costituente, perché tale questione sorgerà al momento opportuno e ciascuno di noi assumerà la propria responsabilità, e noi, ad esempio, svolgeremo una tesi in contrasto con quella enunciata oggi dall’onorevole Lucifero.

Qui si tratta di conciliare l’esigenza della brevità del tempo con l’esigenza della serietà del dibattito. Per quanto riguarda il nostro Gruppo, che dato il numero dei suoi componenti non è chiamato a fare grandi sacrifici, noi abbiamo sempre ammesso la possibilità di disciplinare la discussione in modo che si possa arrivare, nel più breve termine possibile, alle conclusioni. E il Presidente può farmi testimonianza che questa necessità è stata ampiamente riconosciuta da noi nelle riunioni dei presidenti dei Gruppi, di cui la Presidenza ha preso l’iniziativa, quando abbiamo aderito, in linea di massima, all’opportunità di rinunciare alle discussioni generali su alcuni titoli.

Devo dire però che la proposta di modifica del Regolamento che viene oggi sottoposta al nostro esame aggrava la situazione quale appariva dalle proposte dei colleghi Barbareschi e Scoccimarro. Io non insisterò sulle osservazioni che sono state formulate dal collega Corbino e da altri colleghi sull’articolo 5 delle proposte di carattere generale. Mi limiterò soltanto a porre in rilievo la troppo grande differenza, per così dire, di trattamento che viene fatta alla seconda parte della Costituzione in rapporto alla prima parte, perché mentre nella lettera A) si stabilisce che per i titoli riguardanti i rapporti economici ed i rapporti politici ci debba essere una discussione generale, sia pure limitata nel tempo e nel numero degli interventi, per quanto riguarda viceversa la seconda parte, la discussione generale viene decretata in rapporto a tutti e sei i Titoli della seconda parte.

Ora, non ripeterò quello che è stato detto circa l’importanza essenziale della seconda parte della Costituzione. Penso che per abbreviare il dibattito ciascuno di noi si debba imporre di non ripetere quello che viene detto da altri colleghi; penso però che è veramente strano il criterio per effetto del quale soltanto tre oratori per ogni Gruppo dovrebbero occuparsi di tutti e sei i Titoli compresi nella seconda parte, col pericolo che venga applicato anche il terzo articolo delle Disposizioni generali: col pericolo cioè che se qualcuno di questi tre oratori ha presentato degli emendamenti, deve accontentarsi dei trenta minuti che gli sono assegnati dalla lettera C) delle norme particolari, e deve rinunciare allo svolgimento di quegli emendamenti, perché essi si ritengono svolti nella discussione generale.

Per quanto riguarda, dunque, la lettera A) e per quanto riguarda la parte finale della lettera C), cioè la parte relativa al limite di tempo assegnato agli oratori sulla struttura dello Stato, noi siamo contrari all’approvazione delle norme che ci vengono proposte.

Ci domandiamo se non sia possibile arrivare ad una formulazione la quale si avvicini a quella Barbareschi, con alcuni emendamenti che meglio garantiscano non solo il diritto dei deputati costituenti ma anche la serietà delle discussioni. Ecco perché, mentre ci auguriamo che si trovi la possibilità di nuove formule intorno alle quali sia possibile raccogliere il consenso dell’Assemblea, non ci sentiamo, nelle condizioni attuali, di votare le proposte di modifiche che ci sono state presentate.

CONDORELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Prendo la parola per dichiarare il mio dissenso alle proposte di Regolamento presentate alla Costituente. La ragione del mio dissenso è fondamentalmente legale anzi, direi, di carattere costituzionale. È stato avvertito da diversi oratori che allo sfondo di questa questione, che appare una questione di regolamento, c’è invece una questione costituzionale. Ma non mi sembra che la questione costituzionale sia stata esattamente identificata. La questione di diritto costituzionale sorge essenzialmente da un problema di conflitto fra regolamento e legge costituzionale; perché a me sembra che attraverso una modifica di regolamento si vengano a scuotere le basi giuridiche della nostra funzione di deputati e di partecipi al potere legislativo e costituente. Perché io ricordo a me stesso che i momenti della nostra funzione, allorquando si delibera una legge (e qui si delibera una Costituzione) sono due: la discussione ed il voto.

Come non si può in nessun modo limitare la possibilità del voto, così non si può in nessun modo limitare la possibilità della discussione. Noi siamo qui non soltanto per votare ma per discutere; noi abbiamo il preciso dovere di respingere ogni limitazione all’esercizio di questo nostro dovere e diritto di discutere ciò che viene sottoposto alla nostra approvazione. I regolamenti, che sono l’esplicazione dell’autonomia di queste assemblee, trovano un limite appunto in quelli che sono i diritti, le norme di diritto costituzionale. I regolamenti hanno una sola funzione: quella di rendere possibile e di regolare l’esercizio del nostro mandato, l’esercizio della nostra funzione; ma quando questi nostri regolamenti raggiungessero l’effetto di limitare, anzi, addirittura, per certi deputati, di abolire il diritto alla discussione, questi regolamenti sarebbero nettamente incostituzionali. Non sarà certo la mancanza dell’organo che possa dichiarare la incostituzionalità di questo regolamento che ce la farà escludere. La incostituzionalità nasce evidentemente da ciò: che questo regolamento verrebbe a limitare la facoltà di discussione, dell’esercizio della discussione che è un elemento fondamentale e costitutivo dell’esplicazione del nostro mandato. Io suppongo l’ipotesi che un voto unanime dell’Assemblea possa limitare o togliere, sia pure ad un solo deputato, il diritto di parlare quando egli lo ritenga necessario. Ebbene: il regolamento può regolare questo diritto, ma non può scalfirlo, non c’è disposizione di regolamento che possa commettere questa enormità.

Ora, ciò posto, è palese la incostituzionalità di molti degli articoli di regolamento che si sottopongono al nostro giudizio. Si vuole regolare la discussione generale sugli ultimi due Titoli della seconda parte. Qui si cade in quel difetto di incostituzionalità a cui ho già accennato, che si appalesa molto più grave nelle norme con le quali si vuole limitare la discussione della parte seconda. Qui non vi è soltanto la limitazione, ma la negazione del diritto di discutere a 530 deputati su 555, ai quali viene tolto il diritto di parola, cosicché, se un deputato di più di quei tre ammessi per ciascun Gruppo volesse parlare, questi non potrebbe parlare.

E io dichiaro che se questa norma fosse votata dall’Assemblea, chiederei ugualmente la parola, perché sentirei di averne il diritto, in quanto qui mandato col voto degli elettori, e lascerei al Presidente e all’Assemblea la responsabilità di violare questo mio diritto. (Commenti). Ma io eserciterei sempre ed inflessibilmente questo diritto, chiedendo la parola e considererei nient’altro che una violenza il diniego in forza dell’illegale regolamento che si vuole introdurre.

Tutta la Nazione, e particolarmente i posteri, apprenderebbero siffatta norma regolamentare come violatrice dell’esercizio del mandato parlamentare. Forse solo noi, in quest’Aula, che ormai – dopo nove mesi di consorzio – ci conosciamo, possiamo ritenere – come aveva detto poco fa generosamente ma obiettivamente l’onorevole Corbino – che qui non c’è in nessuno la volontà di violare il diritto parlamentare. Ma altro sono le intenzioni, altro è quello che, pure avendo le migliori intenzioni, realmente si pratica.

La violazione del diritto sarebbe palese e, come vi dicevo, sarebbe ancor più palese nelle norme che vogliono limitare la discussione della parte seconda. Perché qui non sarebbe soltanto l’esclusione dalla discussione di 530 o 520 deputati, i quali hanno tutti ugualmente il diritto di parlare solo che lo vogliano, ma vi sarebbe anche l’impossibilità di quei 25 o 35 ammessi a parlare, a parlare effettivamente, perché è impossibile a mente umana – fosse anche quella di uno di quei giureconsulti romani, che avevano la virtù di condensare in poche parole i pensieri più profondi – si trattasse anche di un uomo di quella fatta, di un cervello organizzato in quel modo, non si potrebbe in mezz’ora occuparsi di tutta la Costituzione di uno Stato: sarebbe, in fondo, una irrisione dire ad un deputato: parla, in mezz’ora, della Costituzione di un Paese.

Una simile disposizione, colleghi, rivendicherebbe proprio quell’abatino del ’700 che scrisse un opuscolo intitolato così: «Brevi cenni sull’universo». Una discussione di mezz’ora sulla Costituzione è una irrisione e noi faremmo ridere per molte generazioni coloro che vorranno studiare la storia, della nostra Costituzione.

Una voce a sinistra. Ma ci sono voluti due mesi per gli articoli approvati!

CONDORELLI. Questo non è dipeso, indubbiamente, dalle discussioni generali, ma dall’abbondanza di emendamenti presentati, e non so la responsabilità su chi cada. Sarà dipeso anche da un certo ostruzionismo che abbiamo visto fare poche sere fa, e non so la responsabilità su chi cada. Ma, certo, non vi metterete a posto verso il Paese, verso il quale avevate assunto l’impegno di dargli una Costituzione, strozzando oggi la discussione.

Poi il problema, oltre che giuridico, è un problema essenzialmente politico. Ma il problema giuridico è di tale rilevanza, perché poggia sui cardini stessi dell’ordinamento costituzionale, che non sarebbe necessario scendere ad altro esame.

Tuttavia, esaminiamo la questione anche da un punto di vista politico: queste disposizioni verrebbero da tutti apprese come un mezzo per imbavagliare le minoranze, perché ai partiti che formano la maggioranza parlamentare, che hanno il pregio o il difetto – non voglio discuterlo – di essere conformisti, tre o cinque oratori possono essere anche soverchi, giacché ne basta uno solo. Anzi potrebbero anche fare a meno di parlare, come stasera in questo dibattito: vedo infatti che i partiti di maggioranza non hanno neanche bisogno di parlare.

I colleghi dei grandi partiti organizzati, che hanno il merito, chiamiamolo senz’altro merito, del conformismo possono anche rinunziare ai cinque o ai tre oratori che si sono riservati. La limitazione sarebbe per i partiti di minoranza, che hanno il difetto e l’orgoglio – consentitemi che io lo chiami orgoglio – di consultarsi prima di tutto, con la propria coscienza, per cui può avvenire che il pensiero di un gruppo di venti o anche di dieci deputati sia costituito non da due o da tre punti di vista, ma da venti o da dieci, e tutti rispettabili, perché…

PAJETTA GIAN CARLO. Ci sono anche di quelli che hanno due coscienze.

CONDORELLI. Sì, ci sono di quelli che hanno due coscienze e, sono appunto coloro che uti singuli pensano una cosa e poi, per imposizione del loro Gruppo, ne pensano un’altra.

Io, certo, di coscienza ne ho una sola. Quando essa fosse in opposizione col Gruppo o il Gruppo mi impedisse di manifestare la mia opinione personale, io me ne staccherei: ma il mio Gruppo, proprio perché liberale, non mi impone nulla e ne avete una prova evidente in queste discussioni.

Noi non possiamo limitarci ai tre oratori, senza sentirci menomati nel mandato che abbiamo ricevuto. Se vi sono dieci opinioni diverse, tutte e dieci hanno non il diritto, ma il preciso dovere di farsi udire.

E poi questi gruppi potranno anche essere il diritto costituzionale dell’avvenire. Per ora, e per molto tempo ancora il deputato è il rappresentante della Nazione e non del gruppo. Noi siamo sul punto di consacrare questo principio venerando del nostro diritto costituzionale nella Carta costituzionale. Il deputato è dunque il rappresentante della Nazione e, come tale, esprime il suo pensiero.

Le limitazioni della parola in forza della costituzione in Gruppi sarebbero dunque estrinseche e illegali. Ma vi è anche la questione delle votazioni. Anche per essa, vi sarebbe una palese violazione del diritto delle minoranze: il mio gruppo non potrebbe infatti chieder mai, giusta le nuove disposizioni regolamentari, una votazione a scrutinio segreto perché siamo soltanto ventidue. E ci sarebbero anzi alcuni Gruppi che non potrebbero chiedere neppure la votazione per appello nominale. Vi pare che così sarebbero salvaguardati i diritti delle minoranze?

Ma chi va a ricercare questi particolari, di fronte all’enormità di un regolamento che vorrebbe togliere a un deputato la parte essenziale della sua funzione? Perché la sua funzione, checché si possa pensare da parte di chi appartiene ai gruppi mastodontici, non è tanto di votare, quanto quella di discutere di fronte alla Costituente ed alla Nazione.

Io ho parlato in nome del diritto e in difesa della mia responsabilità perché ritengo che, quando si votasse un regolamento simile, noi avremmo condannato ancora una volta – forse per la terza volta – in sul nascere, lo stesso principio democratico.

Ma vi è una questione di fondo: la questione della durata dei nostri lavori. Di fronte a tale questione, io personalmente, vi dichiaro che sono convinto che i nostri lavori debbono cessare il 24 giugno. E ciò non già per una ragione giuridica, perché è ovvio che non può esistere una legge che non sia suscettiva di abrogazione o modifica. Anche quindi la legge del 16 marzo 1946 potrebbe essere modificata: una legge immodificabile, una legge eterna, fra le cose umane, non c’è. C’è soltanto la legge divina che è eterna. Le leggi civili, le leggi costituzionali sono necessariamente modificabili. Nulla vieta perciò che i nostri lavori possano essere rinviati di un mese o di un anno, quanto crederà la Costituente. Però non bisogna nasconderci che vi sono dei problemi di correttezza politica. Noi sappiamo di aver avuto un mandato, un mandato che è limitato nel tempo. Il mandato qui vale non in senso tecnico e giuridico, ma in senso etico e politico. Noi non possiamo andare al di là di questo mandato. Qual è la conseguenza? Volete una discussione attenta e approfondita; volete che i nostri lavori finiscano il 24 giugno. Secondo me, le due volontà sono perfettamente conciliabili, solo che noi ci decidiamo a fare quello che avremmo dovuto fare: discutere una Costituzione. La Costituzione cominciamo a discuterla oggi, e la Costituzione vera e propria finisce con l’articolo 96. Quando si passa alla pubblica amministrazione, alla autonomia regionale ed ai comuni, alla Magistratura, e via di seguito, non siamo più nella Costituzione. È un’appendice che può esserci e può non esserci. Proseguiamo nei nostri lavori. Se potremo dar fondo a tutto il progetto, bene. Se non ci saremo riusciti, non sarà avvenuto niente di male, purché noi riusciamo ad approvare per intero, quella che effettivamente è la Costituzione, cioè quell’insieme di norme che consentiranno allo Stato italiano di uscire dal provvisorio e di porsi su quelle che, secondo noi, devono essere le sue basi costituzionali. Se il problema dell’autonomia, che è ancora tanto immaturo, come ci ha fatto comprendere in un suo memorabile discorso il Presidente Nitti, e il problema della Magistratura saranno discussi da qui a sei mesi, da qui ad un anno, da un Parlamento che lo farà certamente meglio di noi, non fosse altro perché non soggetto alla tirannia del tempo, non avverrà niente di male. Procediamo nei nostri lavori con la precisa intenzione di creare l’ordinamento dello Stato italiano. Lasciamo al legislatore di completare la Costituzione di queste parti secondarie ed accessorie. Noi possiamo continuare i nostri lavori e nel continuare questi nostri lavori non sarà questione di renderli più sommari, più svelti, più vivaci, più allegri; sarà questione, se mai, di approfondirli.

Questa, o colleghi, è la comune coscienza di tutti coloro fra noi che hanno una certa pratica del diritto. Io, per le mie modeste attività e funzioni di avvocato e professore di diritto, mi accosto quotidianamente alla legge. Io so che le leggi sono delle cose serie e che sono serissime, quando sono leggi costituzionali. Ora, a noi è capitato di vederci tutto in un istante, nel fervore di una discussione, di fronte ad un emendamento impensato sul quale non possiamo avere il tempo di riflettere perché tante volte non è nemmeno scritto, non è nemmeno stampato. Ce lo annuncia il signor Presidente con la sua voce chiara e chiarificante. Ma quando si presenta da me, come avvocato, una persona a sottopormi una clausola contrattuale, io gli dico di passare, per lo meno, l’indomani mattina. E qui invece sono costretto, con grande sofferenza della mia coscienza di giurista, a pronunciarmi seduta stante su una norma costituzionale. Questo, per chi ha sensibilità di giurista, è semplicemente penoso. Non è forse altrettanto penoso per chi non ha questa coscienza di giurista, proprio perché, non conoscendo le leggi, non sa che cosa delicata e immensa una legge sia, anche la più semplice legge. Una legge non si conosce soltanto attraverso le parole, leggendone le righe. I giuristi leggono fra le righe, sotto le righe, dietro le righe. L’interpretazione della legge dà luogo ad un processo tale, di espansione logica che su leggi di dieci articoli si scrivono diecine, centinaia, migliaia di volumi! E noi licenziamo un articolo della Costituzione senza riflettere neanche cinque minuti su un emendamento! È questo lo scandalo che bisogna far cessare, non quello di discutere con la profondità necessaria (e che forse mai raggiungiamo) le norme della nostra Costituzione!

Per queste ragioni, signor Presidente e onorevoli colleghi, io sono irriducibilmente contrario a tutti gli articoli di questo regolamento. (Applausi a destra).

LONGHENA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LONGHENA. Sarò brevissimo, onorevole Presidente. Ho preso la parola non per ripetere quello che ottimamente hanno detto tanti colleghi, ma per esporre a lei, signor Presidente, e alla Giunta del regolamento, uno stato d’animo che è in me e che è forse comune a parecchi colleghi.

Lei sa che la maggior parte di noi è venuta qua con un desiderio immenso di bene, di offrire tutto il tributo di pensiero e di conoscenza. Ma il nostro desiderio è stato fermato quando il suo predecessore, signor Presidente, ha stabilito che la Commissione che doveva preparare il progetto di Costituzione fosse composta proporzionalmente dei rappresentanti dei vari partiti. Quindi, ciò che in fondo gli articoli ultimo e penultimo vorrebbero attuare è già stato attuato, in quanto il progetto che noi discutiamo è il punto d’incontro e di scontro dei vari partiti.

Noi, modesti, credevamo che finalmente fosse arrivata l’ora in cui avessimo potuto portare il contributo dei nostri studi diligentemente fatti in questi tempi e della nostra esperienza.

Il regolamento, egregio Presidente, ci toglie quest’ultima speranza in quanto che riporta fra i partiti e fra i gruppi quelle discussioni che noi avremmo desiderato fossero affiorate spontaneamente qua dentro.

Ad ogni modo io credo che questa mia dichiarazione, che io speravo di non dover fare, esoneri me e quelli che si trovano nella stessa mia condizione di dovere addirittura quasi pentirsi, lasciando questo posto, di non aver dato tutto quello che potevano alla discussione stessa. Il tempo stringe, è vero, ed è necessario che noi facciamo tutto il possibile perché il 24 giugno il Paese sappia che è stato messo il punto all’ultimo articolo della Costituzione. Mi permetta, Presidente, Ella ha un mezzo per accorciare. Glielo suggerisco io, che sono stato molte volte presidente di assemblee. Glielo suggerisco prendendo il Regolamento. All’articolo 83 c’è un piccolo comma che lei dovrebbe fare rispettare rigidamente: «I deputati inscritti per parlare in una discussione potranno leggere il loro discorso, ma la lettura non potrà in nessun caso eccedere la durata di un quarto d’ora».

Permetta che io esprima la mia meraviglia; quando sono venuto qui dentro speravo di udire ottimi discorsi, invece ho assistito ad una continua fila ininterrotta di discorsi ottimi letti, fabbricati a casa, tanto che gli amici della tribuna della stampa hanno addirittura cambiato il nome alla nostra Assemblea: leggimento invece di Parlamento.

 Lo sappiano i colleghi che la parola letta è molto più difficile che la parola detta; è molto più facile saper parlare che saper leggere.

Ella, Presidente, dopo un quarto d’ora fermi l’oratore o faccia quello che mi diceva un collega aver fatto l’onorevole Marcora, che col suo accento lombardo disse: onorevole collega, passi agli stenografi il suo discorso che sarà riprodotto fedelmente.

Ora, chi sa che dopo un quarto d’ora sarà fermato dalla severa parola presidenziale, o fa un discorso che duri precisamente il quarto d’ora fissato o rinuncia, il che avviene più spesso, a parlare, perché molti colleghi hanno scritto magnifici lavori, ma erano lavori diligenti e pensati che potevano essere passati a qualche rivista, senza contare che la cattiva lettura quasi persuade a lasciare questi banchi e ad uscire in più respirabile aere.

Quindi, signor Presidente, affido a lei e alla Giunta per il Regolamento questo mio stato d’animo, questa mia quasi pena; noi siamo venuti qui quasi inutilmente, solo per fare atto di presenza, e quasi alla vigilia della nostra fine, non possiamo dare quel modesto contributo che avremmo voluto dare, che desideravamo dare, che era supremo desiderio di dare accettando modestamente l’incarico commessoci dagli elettori.

Quindi, signor Presidente, applichi questo articolo 83 e penso che l’effetto che produrrà sui colleghi, sarà meraviglioso e superiore ad ogni aspettativa. (Applausi).

NITTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NITTI. Se una ostinata raucedine non mi impedisse di parlare, io vorrei non solo fare una dichiarazione di voto, ma dire apertamente quale sia la mia preoccupazione per ciò che avviene nella nostra Assemblea.

In fondo v’è una sola cosa sotto forme diverse: la materia e la data delle elezioni. Come e quando si faranno? È naturale che un’Assemblea che va verso il suo termine si preoccupi della data delle elezioni. Qui non è l’Assemblea che se ne preoccupa tanto, quanto il Governo o per dir meglio i partiti che sono al Governo. Di fatti, appena io ho accennato alla impossibilità che le elezioni si facciano nel termine che ci è stato prefisso, alcuni rappresentanti dei partiti di massa hanno creduto utile salvare il loro prestigio e più ancora le loro situazioni ed hanno detto: «elezioni ad ogni costo». Signori, le elezioni ad ogni costo sono una illusione; non si faranno, qualunque sia la vostra volontà, qualunque sia la modifica che volete fare al Regolamento, quali che siano le procedure che volete adottare. Le elezioni generali non si faranno nel termine che vi proponete, e la seduta di oggi è la prova delle difficoltà. Se questa seduta dovesse essere definita con una frase si potrebbe definire la «inutile illusione». In modo più efficace ancora si potrebbe definire: «del modo di perdere tempo nella speranza di guadagnare tempo». Difatti oggi che cosa abbiamo discusso? Non l’argomento dei nostri lavori, ma come e in qual modo affrettare i nostri lavori, non già seguendo la via ordinaria ma con regolamento speciale. Cattiva procedura. Quando in questa materia intervengono regolamenti speciali, allora vuol dire che vi è una cattiva causa. Sono troppo vecchio parlamentare per non accorgermene. Quando si ricorre a procedure di questo genere, vuol dire che l’anima dell’Assemblea non è con il proponente. Ora l’Assemblea sente che non è possibile discutere di questi argomenti con serietà. Signori, non abbiamo finora discusso di ciò che è essenziale. Che cosa abbiamo discusso? In tanto tempo, e dopo che una larghissima Commissione aveva esaminato in lungo e in largo tutte le proposte, tutte le innovazioni, tutte le visioni più o meno realizzabili, si è arrivati appena in tempo, nel termine di otto mesi, a proporre lo schema che dovevamo esaminare e che non abbiamo esaminato se non nella parte che meno importa. Che cosa abbiamo esaminato finora? Le Disposizioni generali e i primi due Titoli. Che cosa sono in gran parte? Cose che si potevano quasi tutte sopprimere, che non sono in altre Costituzioni di paesi della nostra civiltà. Molte non hanno a che fare con ogni seria Costituzione: precetti di morale, buoni consigli, espressioni di speranze, espressioni di sentimenti, tendenze avveniristiche: ma niente che riguardi la Costituzione. Adesso, adesso che entriamo nella materia vitale, il Titolo terzo, noi cominciamo a vedere le difficoltà. Vediamo che bisogna riflettere e fare sul serio. Ora, avendo perduto tanto tempo nell’esame dei due primi Titoli e avendo prima divagato su tutto, ora che dobbiamo discutere di cose che riguardano la nostra vita, non solo costituzionale e politica ma la nostra vita strutturale; non solo la vita economica, ma la vita costituzionale dello Stato, avendo finora perduto tanto tempo, ora diciamo: «Bisogna finire ciò che rimane a fare della Costituzione in poche settimane, in tanti giorni ad ogni costo e comunque». Ad ogni costo e comunque; ma come faremo?

Il più grande ed elegante scienziato e filosofo cristiano dei tempi moderni, Pascal, ha detto: «Il silenzio è un tale tormento cui anche i Santi non resistono». Qui non siamo tutti Santi e dovremmo tacere su queste cose; anche chi non è Santo ma che solo si rispetti, non può tacere. Dovremo in qualche quarto d’ora di discussione risolvere problemi che riguardano tutta la vita dello Stato. Siamo ora alla parte che riguarda i rapporti economici. Molti articoli contengono cose di tale gravità che ci spaventano. Noi dovremmo assumere obblighi economici e finanziari che sappiamo fin d’ora che sarebbero cambiali in bianco e non sarebbero mai onorate dal Governo. Non poche disposizioni pretendono fissare per l’avvenire la nostra stessa esistenza economica. Noi le dovremo discutere così sommariamente? E facile in due righe dire: tutti i lavoratori hanno il diritto di sciopero. E quale Costituzione si è mai limitata a una simile banalità e non ha determinato con leggi la difficile materia dei conflitti del lavoro, se ha creduto poterla regolare?

Ditemi voi, ditemi quale Costituzione ha adottato questa formula? Mi direte almeno perché la vogliamo adottare. Quando volete dire che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro, dite cosa giusta. Ma chi è il giudice? Come manterremo gli obblighi che assumete? Se vogliamo sprofondare la Repubblica nel discredito attribuendole una serie di doveri che non può mantenere, si segue la via più adatta. E queste cose enormi volete che accettiamo senza discutere? O discutendole dieci minuti? Vi pare di poterci inabissare senza sapere dove andiamo? E perché dobbiamo fare tutto questo? Perché le elezioni devono avvenire a data fissa a ogni costo. Nessuno mi può dire che fuori di questa vi siano altre ragioni. Non è la prima volta da quando son qui che assisto ad eccitazioni irragionevoli di questo genere. Mi ricordo: una sera alla Consulta, quando si dovette decidere sulla procedura e sulla data delle elezioni e sulla legge elettorale. Non si era fatto nulla. L’onorevole Orlando (Dio gli perdoni; egli sa l’affezione che io ho per lui), l’onorevole Orlando accettò di fare una relazione improvvisata. Non aveva niente di scritto. Si trattava di regolare la nostra stessa esistenza, la legge elettorale. Si era preparato un pessimo e non ragionevole disegno di legge. Ma si voleva votarlo subito per fare le elezioni. Si cominciava a gridare da varie parti: «Chiusura, chiusura». Venne la chiusura. Non ho mai lodato abbastanza il conte Sforza (Ilarità) che presiedeva l’Assemblea e che secondò il movimento. Trovò che era una necessità, la chiusura. Da molte parti si voleva la chiusura. In pochi chiedevamo solo qualche giorno di tempo per discutere almeno i punti principali. No, no, a data fissa bisognava tutto definire. Abbiamo avuto una tale legge elettorale che nessun Paese ci invidia e che nessun Paese imiterà mai. Pessima legge di cui risentiamo le conseguenze. E ora dovremo fare le elezioni con le stesse disposizioni legislative della Costituente. Non è possibile. Bisogna preparare una seria legge elettorale. Ma come si può fare senza aver prima la Costituzione? Avremo ancora lo scrutinio di lista con la proporzionale? Durerà ancora l’infausta minaccia delle regioni? Nulla è ancora definito di quanto riguarda la vita dello Stato. Finora abbiamo fatto tante discussioni inutili, abbiamo perduto tanto tempo per le cose più fatue, come la formula del giuramento al Capo provvisorio dello Stato e per tutti gli articoli didascalici, vere lezioni di diritti e doveri spesso soltanto ingenui, qualche volta anche impegnativi senza sanzione.

Ma dopo aver tanto dissertato «a danno delle cose» come direbbe Dante, giunti al punto di fissare i principî essenziali di una vera Costituzione, per guadagnare il tempo perduto, ci poniamo il dubbio se è meglio non discutere più nulla e fare ora in blocco una serie di rifacimenti che vorrebbero essere una Costituzione.

Per arrivare alle elezioni dunque resta da fare tutto ciò che non abbiamo fatto, cioè tutta la Costituzione nella parte essenziale. Rimane quindi compito non meno grave, tutto quanto riguarda la legge elettorale e le disposizioni che riguardano la seconda Camera e rimangono da fissare tutte le procedure necessarie.

Non si può inventare né precipitare in questa materia e nessuno ci obbliga a mancare di riguardo a noi stessi oltre che alla logica e alla serietà.

Continuiamo dunque con calma e soprattutto seriamente le nostre discussioni.

Io ho la convinzione che qualunque sforzo in senso contrario non impedirà che si discuta. Coloro stessi che sono più rassegnati alla disciplina del partito, comprendono che qui non è il partito soltanto che è in gioco, ma la vita della Nazione; comprendono che quando si parla di libertà, di libertà politica, se noi cominciamo a violare le fondamenta stesse della libertà, noi perdiamo la nostra ragione di esistere. (Approvazioni).

Noi dobbiamo essere fermi in questo proposito di non accettare nulla che strangoli la libertà e nulla che impedisca le nostre libere manifestazioni di volontà.

E però io dichiaro che non voterò queste inutili restrizioni, ma che – anche non abusando della bontà del Presidente – quando si sarà agli articoli, io uno per uno vorrò discuterli e se la mia voce mi consentirà, non mi arresterò. Non è senso di opposizione; come vedete, in questo non vi è opposizione politica. Siamo tutti interessati; vorrei dire cointeressati a difendere le libertà pubbliche, essenziali, ma anche la nostra dignità. Noi non possiamo uscire da quest’Aula con una Costituzione non discussa e che non ha che principî di confusione e promesse e impegni che non possono mantenersi.

Io vi prego, dunque, di votare contro queste disposizioni. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Desidero dire poche parole, non per difendere le proposte, ma per rettificare o chiarire alcune affermazioni che possono lasciare un equivoco in questa discussione. Si potrebbe avere l’impressione da parte di chi ci avesse fino qui ascoltati, che la Giunta del Regolamento per arbitrio abbia presentato oggi queste proposte. Ricordo perciò che nella seduta del 2 maggio, respingendo la proposta dell’onorevole Gullo Rocco di non mutare nulla nell’ordine dei lavori, l’Assemblea ha deciso invece che qualche cosa bisognava mutare; e poi, su proposta dell’onorevole Benedetti, alla unanimità, ha investito della questione la Giunta del Regolamento. Questa non poteva, pertanto, esimersi dal presentare delle proposte modificatrici del Regolamento, perché il mandato conferitole escludeva che potesse ritornare all’Assemblea con il testo del vecchio Regolamento.

La legge dei lavori dell’Assemblea è fatta dall’Assemblea stessa e quando taluno chiede, preoccupatissimo, chi mai può dunque imporre all’Assemblea certe norme, io rispondo: l’Assemblea le impone, perché è certo che né l’esecutivo né il potere giudiziario possono dare un regolamento ad un’Assemblea legislativa, o costituente.

Si tratterà di vedere quale regolamento l’Assemblea ritiene opportuno di darsi. E qui si è invocata di frequente la sua dignità offesa.

Ma come si tutelerebbe meglio la dignità dell’Assemblea se, invece di indignarsi per il tentativo che si fa, magari con qualche limitazione di parola, per agevolarne i lavori, si evitasse che discussioni tanto importanti come quella ad esempio della libertà sindacale avvengano, come ieri l’altro, dinanzi a soli 37 deputati, spersi nei settori! (Commenti).

Ho poi udito il lamento che si muti qui ogni giorno il nostro Regolamento. La verità è invece che è questa la prima volta che si propone e si discute una modificazione del Regolamento della Camera, già adottato come valido ai propri scopi dalla Costituente, ma che col tempo ha dimostrato di richiedere un determinato mutamento.

All’onorevole Calosso, che ha parlato di «ghigliottina», fo osservare che non può davvero usare simile espressione un deputato il quale ha parlato sei volte in quattordici giorni. (Applausi).

Le proposte fatte sono apparse a molti oratori come ispirate a nuovi principî. Ma nel Regolamento la realtà è che questo, che si presenta come quintessenza di un libero ordinamento, reca già agli articoli 51, 57, 66, 86 e 93 limitazioni al numero degli oratori; e coloro che sostengono che ognuno ha diritto di parlare su ogni questione, ogni qualvolta ha da dire qualcosa, avrebbero dovuto chiedere fino all’inizio dei lavori che quelle limitazioni fossero soppresse. Il fatto si è che porre dei limiti agli oratori è il primo mezzo con cui un’Assemblea ordina i propri lavori. Naturalmente, la limitazione deve essere di buon senso, commisurata allo scopo che si vuole raggiungere.

Io difendo le proposte, ma queste possono essere tutte modificate, perché la Giunta per il Regolamento non è che un organo dell’Assemblea, ed a questa compete la decisione.

A coloro che hanno osservato che l’elevazione da quindici a trenta delle firme per la richiesta del voto nominale o segreto impedirebbe a certi Gruppi di valersi di tale diritto, obbietto che esistono nella nostra Assemblea Gruppi, come quelli dell’Unione democratica nazionale e della Democrazia del lavoro, che anche col Regolamento attuale non avrebbero quella possibilità. E tuttavia non si è mai protestato per questo. Vero è che in problemi di questo genere non ha importanza decisiva valutare l’entità numerica dei Gruppi nel loro ambito particolare ristretto, perché la richiesta di appello nominale rappresenta quasi sempre il principio di una coalizione di Gruppi. (Commenti). Ma, a parte ciò, sta di fatto che anche col Regolamento vigente vi è questa condizione di cose, che, secondo i termini che molti hanno adoperato, sarebbe un’ingiustizia, un arbitrio, un sopruso. Ma allora, perché non sollevare prima la questione, non fare prima il rimprovero, ma attendere questa occasione?

Sulla questione posta dall’onorevole Benedetti, osservo che il Gruppo misto è qualcosa di particolare e di speciale: si chiama Gruppo, ma non è un Gruppo, perché nulla lo tiene insieme, se non la necessità di inserire in qualche modo nel sistema dei colleghi che non hanno affinità politiche con alcuno. Orbene, è chiaro che, in assenza di un accordo politico generale, i colleghi del Gruppo misto non possono trovare un rappresentante che parli a nome di tutti.

All’onorevole Corbino, il quale chiede se chi decada per assenza dall’iscrizione a parlare possa essere sostituito da altro collega del suo Gruppo, rispondo che questo è implicito, perché il significato della norma è soltanto questo: che coloro che decadono non possono, dopo un giorno o due, rivendicare il loro diritto di parola; ma, se nel momento in cui essi sono assenti, un collega del Gruppo li sostituisce, nulla vieta che ciò avvenga.

Credo di avere con ciò chiarito i dubbi, senza d’altronde avere comunque pesato sulle decisioni che l’Assemblea prenderà. Desidero però ricordare ancora che mai fino ad oggi è stato dalla Presidenza contestata a nessuno la piena possibilità di parlare ogni qual volta che l’ha chiesto. Ma spesso si dimentica che iscriversi a parlare implica il dovere di essere presenti quando viene il proprio turno.

Aggiungo, ancora, che non è esatta l’asserzione, qui ripetuta, che non si sia data la più ampia conoscenza dei lavori compiuti dalle Sottocommissioni e dalla Commissione dei settantacinque. Questa ha pubblicato circa 300 fascicoli contenenti i resoconti dei suoi lavori, e ogni deputato li ha avuti, e molte centinaia e migliaia di esemplari ne sono stati spediti fuori di Montecitorio e fuori di Roma. Coloro che volevano conoscere il lavoro, cosiddetto clandestino, della Commissione dei settantacinque, ne hanno dunque avuto il modo. E vorrei chiedere ai colleghi che riecheggiano qui critiche tanto ingiuste, quante conferenze abbiano essi fatte ai loro elettori od ai cittadini in generale per popolarizzare ciò che la Commissione dei settantacinque ha fatto e ciò che noi facciamo. Penso, infatti, che i lavori dell’Assemblea non debbano affidarsi, per essere conosciuti, soltanto all’opera meritoria della stampa, ma che i deputati stessi debbano essere i propagandasti dell’attività dell’Assemblea.

Fatte queste precisazioni, avverto che gli onorevoli Bocconi, D’Aragona, Labriola, Bozzi, Canepa, Lucifero, Filippini, Bennani, Persico, Bassano, Cifaldi, Azzi, Villabruna, Della Seta, Martino Gaetano, Spallicci, Lami Starnuti, Vigorelli hanno presentato la seguente proposta:

«L’Assemblea delibera di non passare alla discussione degli articoli».

Su questa proposta è stata chiesta la votazione a scrutinio segreto dagli onorevoli Villabruna, Bassano, Cairo, Zanardi, Cevolotto, Nasi, Canepa, Tremelloni, Canevari, Bennani, Bocconi, Morelli Renato, Porzio, Fietta, Veroni, Badini Confalonieri, Filippini, Paris, Binni, Lami Starnuti, Caporali, Arata.

CINGOLANI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CINGOLANI, Relatore. Premetto che sono in condizioni di parlare solamente a titolo personale.

LUSSU. A norma del Regolamento, non potrebbe parlare a titolo personale; se mai come relatore.

PRESIDENTE. Ella, onorevole Lussu, non ha creduto di intervenire nella discussione.

CINGOLANI, Relatore. Onorevole Lussu, se avesse la bontà di ascoltare le brevissime parole che sto per pronunziare, vedrebbe che non ho l’intenzione di volerle negare il buon diritto che lei aveva di parlare. Dicevo a titolo personale, in questo senso. È bene che l’Assemblea ricordi come è avvenuta la convocazione della Giunta del Regolamento. Unanime è stato il voto dell’Assemblea perché si demandasse al Regolamento il compito di regolare l’andamento della discussione, prima e dopo la votazione dell’ordine del giorno dell’onorevole Gullo Rocco.

La Giunta del Regolamento ha lavorato come meglio poteva, convocando tutti i deputati componenti la Commissione; non è colpa di coloro che sono intervenuti alle due sedute se taluni rappresentanti, autorevoli, qualificati, di gruppi che hanno oggi levato il loro grido per la libertà, non sono intervenuti alle adunanze.

Ho detto, quindi, che parlavo a titolo personale unicamente da questo punto di vista: che sono in grado di esprimere il mio pensiero, che è il pensiero del relatore, ma che non vuole vincolare il pensiero dei colleghi assenti.

Vi dico subito che sono stato sensibilissimo al grido che si è innalzato qui dalle minoranze, da colleghi autorevoli, in difesa della libertà. Io non posso dimenticare quella che è stata l’alba della mia vita politica, quando, nella casa che già ospitò Oberdan, sentivo con cuore commosso il grido che qui durante l’ostruzionismo contro la reazione si innalzava: «Parli Pantano!» ed è rimasto sempre nella mia memoria come un incitamento per la difesa della libertà. Non voglio e non posso contrastare quanto qui si è detto come espressione della coscienza e sensibilità politica di tutti i deputati costituenti, cioè la affermata difesa del diritto delle minoranze. Nessuno di noi ha la volontà nascosta o aperta di sabotare i lavori della Costituente, soprattutto di togliere alle minoranze il loro diritto di parlare, di criticare, di proporre. Questa Assemblea, la Costituente italiana, è composta di cittadini rappresentanti la volontà del Paese e non è un’accolta di truffatori o di truffati, come ha insinuato un oratore che ha parlato poco fa!

Noi ci troviamo in questa condizione: semplicemente vedere come e se si possa regolare la discussione. Non facciamo questione di articoli, né siamo attaccati alle proposte della Giunta. Se non passerà la proposta pregiudiziale di non passare alla discussione degli articoli, noi ci sentiamo di proporre quelle modifiche, anche radicali, che vadano incontro a tutte le proposte che qui sono state fatte per conservare la libertà della parola a tutti i rappresentanti del popolo e, insieme, per facilitare i lavori dell’Assemblea Costituente.

Dico subito che le proposte presentate dall’onorevole Rubilli sono senz’altro accettabili. Forse, quella divisione nei tre punti cui egli ha accennato, per fare tre discussioni generali nella parte seconda, invece di essere come l’onorevole Rubilli ha proposto, una per il Parlamento e il Senato, l’altra per le Regioni e i Comuni, la terza per la restante materia, potrebbe essere diversamente distribuita, con una discussione per le Regioni e il Parlamento, una per il Capo dello Stato e le garanzie costituzionali e la terza per la Magistratura; comunque, questo è un dettaglio.

Possiamo anche senz’altro rinunciare a fissare quel numero di deputati che si riteneva utile stabilire, per i firmatari delle richieste di votazione per appello nominale o per scrutinio segreto, onde dare veramente un significato politico al voto. Questo può sembrare per taluno una menomazione del diritto delle minoranze, e quindi vi rinunciamo.

Devo anche spiegare quello che può apparire, nell’ultimo articolo, un comma lesivo della dignità del deputato, e che ha dato luogo anche a rimarchi scherzosi da parte dell’onorevole Corbino.

Questo articolo è stato proposto ricordando quello che è accaduto in quest’aula, quando fu richiesta la verifica del numero legale. La discussione intorno all’articolo 103-bis ci portò a constatare che mancava al Presidente dell’Assemblea il modo di accertare quanti e quali fossero i deputati nell’aula non partecipanti alla votazione, ma da doversi considerare come presenti, sia pure come astenuti.

Unicamente dunque per questo, e non già per fare una coazione ridicola da scuola elementare a tutti i deputati: del resto, se si ritiene che ciò possa offendere la dignità e la libertà di movimento dei deputati, abbandoniamo anche questa proposta. Quello che è interessante ricordare è che è stato desiderio comune, desiderio di noi tutti, quello di regolamentare la discussione, perché sia più succosa e più stringata.

Attacchiamoci pure dunque all’articolo 83 per limitare il diritto di leggere, come prescrive il Regolamento, soltanto ad un quarto d’ora; facciamo pure appello al senso di responsabilità dei singoli deputati perché auto-limitino la manifestazione del loro pensiero, portando quindi il tempo loro concesso ad un massimo magari anche di quarantacinque minuti: ma non ho bisogno di ricordare che qui siamo stati sempre tutti di questo parere, che abbiamo cioè sempre ravvisato la necessità di stringare la discussione.

Ma oggi si è, ad un certo momento, spostata la questione, facendola slittare sul terreno delle prossime elezioni politiche. Faremo anche questa discussione, ed ogni Gruppo parlamentare, prenderà, a suo tempo, il proprio atteggiamento. Ma, per quanto riguarda noi, Giunta del Regolamento, dirò che noi non volevamo fare per nulla una battaglia politica; il nostro compito è stato molto modesto. Noi intendevamo soltanto cercare, nel quadro della libertà e della dignità della discussione, di proporre all’Assemblea quegli strumenti che essa ci aveva richiesto, perché queste discussioni si rendessero veramente degne dell’oggetto delle nostre premure, delle nostre parole, delle nostre deliberazioni.

Non altro che questo. L’Assemblea è sovrana e noi siamo qui soltanto per obbedire alla volontà dell’Assemblea.

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Procediamo alla votazione a scrutinio segreto sulla seguente proposta:

«L’Assemblea delibera di non passare alla discussione degli articoli».

Si faccia la chiama.

SCHIRATTI, Segretario, fa la chiamata.

(Segue la votazione segreta).

Presidenza del Vicepresidente PECORARI

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione ed invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Hanno preso parte alla votazione:

Adonnino – Alberti – Aldisio – Allegato – Amadei – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arata – Arcangeli – Assennato – Ayroldi.

Badini Confalonieri – Balduzzi – Barbareschi – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basile – Bassano – Basso – Bastianetto – Bazoli – Bei Adele – Bellato– Bellavista – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedetti – Benedettini – Bennani – Benvenuti – Bergamini – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bertola – Bertone – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Binni – Bitossi – Bocconi – Bonino – Bonomelli – Bosco Lucarelli – Bosi – Bozzi – Bruni – Brusasca – Bubbio – Bucci.

Cacciatore – Caccuri – Cairo – Calosso – Campilli – Camposarcuno – Candela – Canepa – Canevari – Caporali – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Caprani – Carboni – Caristia – Carmagnola – Carpano Maglioli – Carratelli – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavallari – Cavalli – Cerreti – Cevolotto – Chatrian – Chiaramello – Chieffi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Colitto – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsi – Cortese – Costa – Costantini – Cotellessa – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo.

Damiani – D’Amico Diego – D’Amico Michele – D’Aragona – De Falco – De Filpo – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Gloria – Di Vittorio – Dominedò – D’Onofrio – Dossetti – Dugoni.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Faralli – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Fietta – Filippini – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Firrao – Flecchia – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini.

Gabrieli – Galati – Galioto – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gasparotto – Gavina – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghidini – Giacometti – Giannini – Giolitti – Giordani – Giua – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Grullo Fausto.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jacini – Jacometti – Jervolino.

Labriola – Laconi – Lagravinese Pasquale – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – Lazzati – Leone Francesco – Lettieri – Li Causi – Lizier – Lombardi Carlo – Lombardi Riccardo – Longhena – Longo – Lopardi – Lozza – Lucifero – Luisetti – Lupis – Lussu.

Macrelli – Maffi – Maffioli – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mancini – Mannironi – Manzini – Marezza – Marconi – Mariani Enrico – Marina Mario – Marinaro – Martino Gaetano – Massini – Massola – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Mattei Teresa – Matteotti Carlo – Mazza – Meda Luigi – Merighi – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minio – Molè – Molinelli – Montagnana Mario – Monticelli – Montini – Morandi – Moranino – Morelli Luigi – Morelli Renato – Morini – Mortati – Moscatelli – Murgia – Musolino – Musotto.

Nasi – Natoli Lamantea – Negarville – Nenni – Nicotra Maria – Nitti – Nobili Oro – Noce Teresa – Notarianni.

Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.

Pajetta Gian Carlo – Pallastrelli – Paratore – Paris – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pat – Pecorari – Pella – Pellegrini – Pera – Perassi – Perrone Capano – Persico – Pertini Sandro – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Pignatari Pignedoli – Pollastrini Elettra – Ponti – Porzio – Pressinotti – Preziosi – Priolo – Proia – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo.

Raimondi – Ravagnan – Reale Eugenio – Reale Vito – Recca – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodinò Mario – Rognoni – Romano – Romita – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Rubilli – Ruggieri Luigi – Ruini – Russo Perez.

Saccenti – Salerno – Salvatore – Sampietro – Scelba – Schiratti – Secchia – Sereni – Siles – Silipo – Spallicci – Spataro – Stampacchia – Stella – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Taviani – Tega – Terranova – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tomba – Tonello – Tonetti – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Tremelloni – Trimarchi – Tupini.

Uberti.

Valenti – Vallone – Valmarana – Vanoni – Varvaro – Vernocchi – Veroni – Viale – Vigo – Vigorelli – Vilardi – Villabruna – Villani – Vinciguerra – Vischioni – Volpe.

Zagari – Zanardi – Zannerini – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

Sono in congedo:

Bernardi – Bettiol – Boldrini – Bordon – Bulloni.

Caldera – Carbonari – Caroleo – Cartia – Cavallotti – Chiostergi – Corsini – Cosattini.

Di Giovanni.

Falchi – Foa.

Grilli – Gullo Rocco.

La Pira – Lombardo Ivan Matteo.

Mastino Pietro – Moro.

Novella.

Parri – Penna Ottavia.

Rapelli – Roselli – Rumor.

Sardiello – Silone – Simonini.

Treves – Turco.

Vigna.

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto:

Presenti e votanti     380

Maggioranza           191

Voti favorevoli        194

Voti contrari            186

(L’Assemblea approva la proposta dell’onorevole Bocconi ed altri).

Resta inteso che nella prosecuzione dei nostri lavori continueremo ad attenerci alle norme del Regolamento, le quali saranno applicate nella maniera più precisa e sarò lieto se nessun collega cercherà di eluderle, sia per quanto ha segnalato l’onorevole Longhena, sia per ogni altra disposizione prevista allo scopo di dare un ordine alla discussione.

Nomina della Commissione per l’esame delle leggi elettorali.

PRESIDENTE. Comunico che, in relazione al mandato conferitomi dall’Assemblea, ho chiamato a far parte della Commissione, che esaminerà le leggi elettorali, gli onorevoli Ambrosini, Bonomi Ivanoe, Cairo, Camposarcuno, De Michelis, Farini, Fuschini, Grassi, Grilli, La Rocca, Lucifero, Malagugini, Marinaro, Mastino Gesumino, Mazzei, Meda, Micheli, Nasi, Piccioni, Ravagnan, Schiavetti, Scoccimarro, Uberti.

Interrogazioni e interpellanza con richiesta di urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta d’urgenza:

«Al Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non intenda procedere al più presto alla convocazione delle Facoltà per la nomina del Consiglio superiore, in sostituzione di quello attuale, le cui funzioni debbono ritenersi cessate.

«Martino Gaetano».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere i provvedimenti che il Governo intende adottare, in via d’urgenza, per lo sviluppo e la difesa delle attività turistiche.

«Macrelli».

«Al Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere se non intenda affrontare e risolvere il gravissimo problema dei pensionati statali riconoscendo loro gli otto decimi dello stipendio, caro-vita e scala mobile, loro spettanti per legge e che loro colleghi di pari grado percepiscono (ad esempio: un funzionario di grado VII al massimo degli scatti riceve come pensione e caro-viveri lire 12.000, mentre, tenendo conto degli otto decimi, dovrebbe percepire lire 16.500. Il collega in attività di servizio riceve lire 19.500). Questi infelici: professori, magistrati, funzionari, muoiono di fame. Con 300 o 400 lire al giorno, detratto affitto ed altre necessità, possono provvedere per un solo misero pasto una volta al giorno.

«Bastianetto».

«Al Ministro dei trasporti, per sapere quali provvedimenti intende prendere d’urgenza perché non siano sospesi i lavori di ricostruzione del ponte ferroviario sul Piave a San Donà di Piave che in questi giorni sono quasi del tutto interrotti per mancanza di cemento e di ferro. Il che sarebbe enorme, dato che da oltre due anni, si promette e ripromette questa ricostruzione vitale per la provincia di Venezia e sempre susseguono nuove difficoltà, per cui è pensabile che ci siano recondite ragioni che non vogliano il traffico in quella linea ferroviaria.

«Bastianetto».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

TOGNI, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale. Il Governo si riserva di comunicare quando potrà rispondere a queste interrogazioni.

PRESIDENTE. Comunico che è stata presentata anche la seguente interpellanza, con richiesta di svolgimento urgente, che sarà posta all’ordine del giorno di una prossima seduta:

«Alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, all’Alto Commissario dell’alimentazione, sulla disciplina della produzione e distribuzione dei prodotti lattiero-caseari delle annate 1944-1945, e particolarmente del formaggio grana; e sui provvedimenti intesi ad indurre l’Associazione lattiero-casearia italiana a consegnare agli enti cooperativi interessati il formaggio grana di cui alle assegnazioni disposte dall’Alto Commissariato dell’alimentazione nel giugno 1946.

«Canevari».

Avverto che domani vi saranno due sedute: una alle 10 e l’altra alle 16.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere il suo pensiero su quanto segue:

1°) con regio decreto legislativo 27 maggio 1946, n. 534, ai professori incaricati delle Università, dei Politecnici e degli altri Istituti di istruzione superiore, che non hanno altra retribuzione a carico dello Stato, fu attribuito un assegno annuo corrispondente allo stipendio iniziale previsto per i dipendenti statali di gruppo A, grado 8°, 9° e 10°, a seconda dei titoli di ciascuno, oltre l’indennità di carovita, relative quote complementari ed ogni altra indennità inerente ai rispettivi gradi.

«Tale trattamento economico doveva avere applicazione dal 1° novembre 1945 e la maggior spesa che l’Università e gli Istituti di istruzione superiore dovevano sostenere in dipendenza di esso era stata posta a carico del bilancio dello Stato (articolo 3).

«Sino ad ora i professori incaricati hanno ricevuto soltanto l’assegno corrisposto dalle singole Università e Istituti di istruzione superiore, ma non hanno ancora percepito la differenza che è a carico dello Stato, e che ammonta, in media, per l’anno 1945-46 a circa lire 120.000.

«I professori incaricati, viste inutili le loro richieste, sono decisi a promuovere causa contro lo Stato per l’adempimento dei suoi obblighi patrimoniali, espressamente risultanti dalla legge 27 maggio 1946, n. 554.

«Lo Stato non deve lasciarsi trascinare in giudizio come un debitore sull’orlo del fallimento e deve provvedere al pagamento;

2°) l’articolo 2 del citato Regio decreto legislativo fa obbligo ai professori incaricati di dedicare al proprio insegnamento almeno sei ore settimanali tra lezioni ed esercitazioni. Poiché in molte facoltà (Giurisprudenza, Lettere, Magistero, Economia e Commercio) i corsi richiedono solo tre ore di lezioni settimanali, il Ministero con circolare 4 febbraio 1947, n. 2145, ha disposto che per l’anno 1946-47 la retribuzione sarà da calcolare in rapporto alla disposizione del detto articolo 2, intendendosi che essa va ridotta di tanti sesti quante sono le ore settimanali rese in meno da ciascun docente tra lezioni ed esercitazioni. La limitazione disposta da questa circolare, se soddisfa a un criterio puramente matematico, nella realtà è ingiusta, perché i professori, oltre alle ore di lezione, dedicano molto tempo all’assistenza degli studenti durante la preparazione delle lauree, alla preparazione delle lezioni ed al progresso scientifico, e tale tempo rimane il medesimo sia che all’insegnamento si dedichino tre ore settimanali oppure sei.

«D’altro lato non è lecito ridurre la retribuzione, che ha carattere alimentare, al di sotto d’un dato minimo. Questo minimo non si avrebbe se la retribuzione fosse ridotta alla metà. Si chiede che la limitazione sia ridotta ad un dodicesimo per ogni ora in meno delle sei e non a un sesto come dispone la circolare ministeriale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Badini Confalonieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per chiedere quali provvedimenti intende prendere, a tutela dei privati e per realizzare la piena giustizia, in rapporto alle terre occupate dall’A.R.A.R. per garantire la immediata restituzione delle zone libere da depositi e la corresponsione di un adeguato canone di occupazione, tenendo presente che per un ettaro viene pagata solo la somma di lire 16.000 annue, mentre la media di rendita è non inferiore alle lire centomila. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Riccio Stefano».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.10.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

 

Alle ore 10:

Seguito della discussione del disegno di legge:

Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale (12).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 5 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CX.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 5 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Svolgimento):

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                                

Togni, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale                      

Ghidetti                                                                                                            

Bernini, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione                                  

Colonnetti                                                                                                       

Canevari                                                                                                          

Cappa, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio                            

Veroni                                                                                                              

Faralli, Sottosegretario di Stato per l’industria                                                  

Assennato, Sottosegretario di Stato per il commercio estero                               

Benedetti                                                                                                         

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro                                                     

Di Vittorio                                                                                                       

Merlin Umberto, Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia                      

Macrelli                                                                                                          

Vigorelli                                                                                                          

Caccuri                                                                                                            

Carpano Maglioli, Sottosegretario di Stato per l’interno                                   

Morini                                                                                                              

Moscatelli, Sottosegretario di Stato per l’assistenza

ai reduci e ai partigiani                                                                                       

Lucifero                                                                                                           

Benedettini                                                                                                      

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

Presidente                                                                                                        

Bernini, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione                                  

Colonnetti                                                                                                       

Miccolis                                                                                                           

Coccia                                                                                                              

Fogagnolo                                                                                                       

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro                                                     

Cianca                                                                                                              

Morini                                                                                                              

Carpano Maglioli, Sottosegretario di Stato per l’interno                                   

La seduta comincia alle 10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Corsini, Caroleo, Di Giovanni, Chiostergi, Sardiello, Carbonari, Gullo Rocco.

(Sono concessi).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Avrei voluto riferire oggi sui risultati ulteriormente acquisiti dall’inchiesta ministeriale relativa ai fatti denunciati in una sua interrogazione dall’onorevole Grilli; ma poiché questi non è presente, mi riservo di farlo in una prossima seduta.

PRESIDENTE. La prima interrogazione all’ordine del giorno è quella dell’onorevole Ghidetti, ai Ministri del lavoro e previdenza sociale, delle finanze e tesoro e degli affari esteri, «per sapere se non ritengano necessario ed urgente rimuovere ogni ostacolo alla emanazione delle tanto attese disposizioni di legge a favore dei lavoratori italiani infortunati sul lavoro in Germania, prima e durante la guerra, creditori presso Istituti assicuratori tedeschi, avendo presente: 1°) che la cessazione dell’invio degli assegni mensili in Italia, a favore degli assicurati da parte della Germania, risale al 1944; 2°) che la più gran parte di questi minorati del lavoro e delle vedove attualmente vivono in condizioni di indigenza impressionante perché il credito, con umana comprensione spontaneamente accordato dai loro fornitori per l’acquisto dell’indispensabile per vivere, essendosi prolungato per anni, in molti casi è venuto a mancare; 3°) che, infine, non vi è ragione alcuna che giustifichi il disinteressamento del Governo della Repubblica verso tanti infelici – calcolati in alcune unità di migliaia – e pertanto si propone venga loro corrisposto un congruo assegno mensile proporzionato anche alla rendita riconosciuta – debitamente accertata sui documenti di riscossione in possesso dei beneficiari – e che si dovrebbe effettuare senza ulteriore indugio, potendo lo Stato italiano ripetere presso gli istituti tedeschi l’anticipo di cui trattasi e garantirsene nella negoziazione del trattato di pace con la Germania».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale ha facoltà di rispondere.

TOGNI, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale. Fin dal settembre 1943, e cioè dall’epoca in cui si rese praticamente impossibile il pagamento da parte degli Istituti assicuratori germanici delle rendite per inabilità permanente o temporanea a mezzo dei vaglia internazionali, l’istituto Nazionale infortuni sul lavoro fu autorizzato a corrispondere acconti sulle competenze dovute.

Si dovette poi far sospendere il pagamento di tali acconti sia per gli inconvenienti verificatisi in materia di documentazione, che per dare una disciplina organica e unitaria alla materia di rilevante e notevole interesse.

Quanto all’assistenza sanitaria, non ha mai avuto soluzione di continuità. Il Ministero del lavoro da tempo ha predisposto uno schema di provvedimento legislativo che fu rimesso all’esame dei Ministeri interessati e cioè finanze, tesoro, affari esteri e grazia e giustizia.

L’elaborazione del testo definitivo dello schema ha richiesto un periodo di tempo abbastanza lungo per la complessità dei problemi da risolvere. Attualmente il testo è stato concordato ed è stato rimesso alla Presidenza del Consiglio perché sia iscritto all’ordine del giorno di uno dei prossimi Consigli dei Ministri.

Sono previste le seguenti prestazioni a carico dell’Istituto Nazionale Infortuni sul lavoro: a) in caso di inabilità permanente, se di grado non inferiore al 50 per cento, o in caso di morte, una rendita, in via provvisoria, secondo le norme del regio decreto 17 agosto 1935, n. 1765, commisurata ai salari annui; b) in caso di inabilità temporanea, e limitatamente alla sua durata, una indennità giornaliera di lire 150 maggiorata di lire 24 per la moglie e di lire 15 per ciascun figlio minore dei 18 anni.

Sono altresì dovute le cure medico-chirurgiche, nonché la protesi di lavoro per tutta la durata dell’inabilità temporanea e anche dopo la guarigione clinica, in quanto occorrano a recuperare la capacità lavorativa. Delle provvidenze di cui sopra possono beneficiare le seguenti categorie di lavoratori infortunatisi in Germania: 1°) quelli per i quali risulta sospesa la corresponsione dei ratei di rendita per infortunio, dovuta da Istituti assicuratori germanici od ex germanici; 2°) quelli che abbiano subito infortuni sul lavoro indennizzabili dagli Istituti predetti, e che non abbiano ancora ottenuto il riconoscimento del diritto agli indennizzi relativi.

PRESIDENTE. L’onorevole Ghidetti ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

GHIDETTI. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario per le precise assicurazioni che ha voluto dare e per l’impegno che viene quindi ad assumere, attraverso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, la Presidenza del Consiglio, dal momento che da questa dipende ormai ottenere l’emanazione del provvedimento.

Prego però l’onorevole Sottosegretario di voler insistere presso la Presidenza, non nella solita maniera formale, ma tenendo conto che ci sono circa cinquemila famiglie in Italia, che dal 1943, precisamente dalla fine del 1943, disseminate un po’ in tutte le provincie del nostro Paese, non hanno alcuna possibilità o provento, assistite dagli Enti comunali di assistenza, per quel poco che possono fare; e per il rimanente sono abbandonate a se stesse. Dal momento che il Governo, come già nella interrogazione era stato indicato, e del resto il Ministero attraverso il congegno che dispone col progetto di decreto già si è posto sulla buona strada, dal momento che il Governo può essere tranquillo perché si tratta di creditori assolutamente solvibili, non tardi oltre nel ridare fiducia ai minorati e alla centinaia di vedove che hanno perduto il loro congiunto infortunato in Germania, in Austria, in Cecoslovacchia; si badi che la più gran parte di questa gente non può più andare avanti nelle condizioni attuali. Gli esercenti che in un primo momento hanno potuto aiutare questa gente, vedendo che lo scoperto aumentava sempre più e nessuno dimostrava volersi occupare di garanzie, hanno dovuto cessare il credito e queste famiglie sono abbandonate a loro stesse. Mi pare che da parte del Governo italiano si debba oggi cercare di far dimenticare il disinteressamento che si è prolungato per troppo tempo; non si creino occasioni e ragioni di screditare il Governo democratico e le istituzioni: in una parola, è necessario non attendere una settimana, un mese, due, tre mesi, perché il decreto passi dalla Presidenza del Consiglio al Consiglio dei Ministri; ma bisogna che in qualche settimana, per dir molto, a questo decreto sia posta la firma e si assicuri così a quella povera gente l’assistenza di cui ha bisogno, di cui ha sacrosanto diritto.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Colonnetti, al Ministro della pubblica istruzione, «per sapere se sia a conoscenza della reazione determinata in tutti gli ambienti solleciti della serietà della scuola, dalla sua circolare n. 6742 del 1° marzo 1947, con cui viene estesa a tutti gli studenti in debito di esame la sessione speciale già predisposta per i soli reduci; e se abbia qualche notizia delle gravi conseguenze che quel provvedimento potrebbe determinare».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione ha facoltà di rispondere.

BERNINI, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione. Per venire in qualche modo incontro a richieste che erano state rivolte da più parti, e segnatamente, da varî Rettori, da associazioni studentesche e da uomini politici, con il provvedimento indicato dall’onorevole interrogante, si è consentito che nel corso della sessione stabilita per il 20 di aprile per gli studenti reduci iscritti agli appositi corsi semestrali, potessero sostenere esami anche gli studenti fuori corso. In base a questa disposizione hanno potuto partecipare alla sessione in parola anche i reduci recentemente rientrati dalla prigionia e già fuori corso per effetto di ufficio, i quali non avevano potuto frequentare i corsi semestrali.

Nelle Università, ove il corso per gli studenti reduci non si era potuto tenere per la mancanza del numero sufficiente di iscritti, si è pure consentito che gli studenti di cui sopra potessero, nel mese di aprile, sostenere ugualmente gli esami; ché altrimenti, si sarebbero trovati in condizioni svantaggiose, in confronto ai loro colleghi nelle Università ove i corsi si erano tenuti.

Ma sia nel primo che nel secondo caso (il concetto è stato ribadito nell’ultima parte della circolare diramata sull’argomento, in data 21 maggio 1947, n. 6742) tutto era rimesso alla prudente discrezionalità delle autorità accademiche.

Si è trattato, in sostanza, di un provvedimento a carattere prettamente eccezionale e transitorio, la cui attuazione è stata rimessa alla discrezione delle autorità accademiche.

Per quanto poi concerne l’ammissione all’esame di cui trattasi anche degli studenti in debito di qualche prova, si deve far presente, fra l’altro, che, dovendosi ripristinare, col nuovo anno accademico 1947-48, la disposizione (sospesa durante il periodo bellico e sino a tutto l’anno accademico 1946-47) secondo la quale lo studente non può essere iscritto all’anno del corso successivo, se non abbia superato gli esami del biennio propedeutico (naturalmente per i corsi di laurea il cui ordinamento prevede l’esistenza di tale biennio) apparve opportuno sistemare definitivamente la posizione degli studenti in debito di esame e particolarmente di quelli appartenenti a corsi di laurea divisi in bienni.

D’altra parte sono stati dati ampi chiarimenti a mezzo di apposito comunicato alla stampa.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

COLONNETTE Signor Presidente, onorevoli colleghi, la mia interrogazione mi era stata suggerita dalla preoccupazione per il grave pregiudizio che alle attività scientifiche ed alla serietà degli studi avrebbe recato una nuova sessione di esami estesa non ai soli reduci, ma a tutti indistintamente gli allievi dei nostri Atenei; preoccupazione che io sapevo e so condivisa da molti e valorosi docenti universitari, così dell’Università di Roma, come di altre Università, e che purtroppo permane anche dopo la risposta dell’onorevole Sottosegretario.

Ma tra il giorno in cui l’interrogazione fu presentata ed oggi, un fatto nuovo è sopravvenuto: l’approvazione da parte dell’Assemblea Costituente di un articolo della Costituzione, in cui si dispone che gli Istituti di alta cultura avranno domani il diritto di darsi autonomi ordinamenti.

Ora, comunque possa quell’articolo essere interpretato, e qualunque siano per essere le leggi che disciplineranno quell’autonomia, una cosa mi par certa, ed è che interventi e concessioni di questo genere da parte del potere esecutivo centrale non saranno più possibili.

La disciplina scolastica verrà nell’avvenire esercitata dalle singole autorità accademiche con libertà e responsabilità ben diverse da quelle che possono essere conferite da una circolare ministeriale; e quelle autorità sapranno che dal modo con cui eserciteranno i loro poteri dipenderanno il prestigio dei loro istituti ed il valore dei titoli che esse rilasceranno.

Il fatto specifico a cui la mia interrogazione si riferiva è quindi oggi da considerarsi come superato per chi nutre, come io nutro, l’intima speranza che l’autonomia universitaria, ponendo fine ad uno stato di cose che è diventato veramente intollerabile, sarà apportatrice di nuovi germi di vita a quello che fu già l’organismo sano e fecondo dell’Università italiana.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Notarianni, al Ministro dei lavori pubblici, «per conoscere se è convinto della necessità urgente, assoluta, della costruzione della strada Valle Agricola-Vairano Scalo (2° tronco), perché da oltre sessant’anni è stato ritenuto di notevolissimo vantaggio il costruire una strada che avvicini allo scalo ferroviario di Caianello (ora Vairano-Scalo) i comuni di Prata Sannita, Pratella, Aliano, Ravescanina, Sant’Angelo d’Alife, Gallo, Letino, Fonte Greca, ecc., e solo nel 1932 si provvide a dare in appalto un primo lotto di lavori, che comprendeva un tratto di strada dal bivio di Ailano al fiume Volturno ed altro dal fiume Volturno allo scalo ferroviario. Ora che il Governo della Repubblica ha messo nel suo programma lavori immediati e questi dovrebbero essere soprattutto per il miglioramento del Mezzogiorno, si nutre ferma speranza che la costruzione del ponte sul Volturno e del secondo tronco della strada Valle Agricola-Vairano Scalo diventerà un fatto compiuto. Ciò è indispensabile per la bonifica di una grande estensione di terreno, che potrebbe produrre più di trentamila quintali di grano ed altri cereali. Si noti che gli abitanti dei comuni cennati per giungere ora allo scalo ferroviario debbono percorrere dai 35 ai 50 chilometri, mentre con la costruzione del tronco in oggetto ne percorrerebbero la metà».

Non essendo presente l’onorevole Notarianni, l’interrogazione si intende decaduta.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Cicerone, al Ministro dei lavori pubblici, «per conoscere se non possa il Governo prendere in esame l’esecuzione del progetto già esistente per la costruzione del doppio binario sulla Foggia-Benevento-Napoli e sulla Bari-Brindisi-Lecce, contribuendo così ad alleviare la disoccupazione in Puglia, che attualmente costa miliardi alle classi abbienti locali, senza che questo denaro sia investito in opere di alcuna utilità».

Non essendo presente l’onorevole Cicerone, l’interrogazione si intende decaduta.

Segue l’interrogazione degli onorevoli Canevari, Di Gloria, Zanardi, ai Ministri del lavoro e previdenza sociale e delle finanze e tesoro, «sulla urgenza dei provvedimenti legislativi da emanare relativamente alla cooperazione. E sui provvedimenti da adottarsi, nel frattempo, perché sia sospesa ogni decisione sulla imposta generale sull’entrata, relativa alla distribuzione dei generi di largo consumo popolare fatta dalle cooperative di consumo senza scopi speculativi ed al fine di operare un’azione calmieratrice nell’interesse generale».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale ha facoltà di rispondere.

TOGNI, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale. Sul primo punto si fa presente che lo schema di disegno di legge portante provvedimenti per la cooperazione è stato da tempo diramato ai dicasteri interessati per ottenerne il necessario concerto. Si è ora provveduto alla redazione di un testo definitivo di tali provvedimenti, che tiene conto, nei limiti del possibile, delle osservazioni fatte in argomento dalle varie Amministrazioni statali e dalle organizzazioni di categoria. Tale testo sarà presentato al più presto al Consiglio dei Ministri, non appena pervenuto il definitivo assenso dei dicasteri interessati.

Come è noto, scopo principale dello schema di decreto è quello di provvedere alla disciplina organica di tutta la materia cooperativa, all’istituzione di un rigoroso servizio di vigilanza che avvenimenti recenti dimostrano sempre più necessario, alla ricostruzione degli organi centrali della cooperazione, distrutti dal fascismo, all’estensione delle funzioni del registro prefettizio, ora limitate alle cooperative ammissibili ai pubblici appalti, a tutte le varie forme di cooperative, al coordinamento e alla riforma della legge sulla cooperazione a mezzo di una speciale Commissione di studio, che dovrà preparare il relativo testo unico.

Notevoli, fra le altre, le disposizioni circa la tutela dell’uso della qualifica di «cooperativa», per la quale si predispongono efficaci sanzioni; i nuovi limiti per il numero dei soci e i valori azionari e le disposizioni che mirano a fare dei consorzi di cooperative per lavori pubblici organismi solidi anche finanziariamente, in relazione alla importanza degli appalti che possono essere loro affidati.

È da rilevarsi inoltre che nel riordinamento delle Commissioni provinciali di vigilanza, come nell’istituzione di quella centrale, si è avuto cura di provvedere a che la maggioranza dei membri sia composta dai cooperatori; e quindi dipenderà principalmente dallo zelo e dalla capacità dei rappresentanti diretti del movimento cooperativo, se gli organi preposti alla disciplina della materia cooperativa potranno svolgere un’azione veramente utile ed efficace.

Quando i provvedimenti proposti avranno ottenuto la sanzione legislativa, il Ministero del lavoro sarà in possesso degli strumenti necessari per poter dare quelle garanzie sul carattere mutualistico dei vari organismi cooperativi che le varie Amministrazioni vanno ad esso richiedendo, come nel caso dell’Amministrazione finanziaria, che a tali garanzie subordina la concessione dell’esonero dal pagamento dell’imposta generale sull’entrata. È evidente che, come l’iscrizione nel registro prefettizio costituisce per l’Amministrazione finanziaria la prova che le cooperative di lavoro ammissibili ai pubblici appalti posseggono i requisiti mutualistici necessari per avere diritto alle agevolazioni fiscali, altrettanto potrà essere stabilito per le cooperative di consumo, una volta che anche per esse il registro prefettizio funzioni.

La questione, in particolare, relativa alla sospensione dell’esazione dell’imposta generale sull’entrata per i trasferimenti di merci effettuati dalle cooperative di consumo, ha formato oggetto di altra interrogazione rivolta dall’onorevole Camangi al Ministro delle finanze; e nella seduta dell’Assemblea Costituente del 27 febbraio ultimo scorso, l’onorevole Pella, per il detto Ministero, dopo aver dichiarato che il dicastero delle finanze è favorevole alla richiesta esenzione limitatamente al passaggio di generi dalla cooperativa ai propri soci, ha negato la possibilità di concedere la richiesta sospensione nell’applicazione del tributo, fino a quando non sia intervenuta la nuova disciplina legislativa che dia le suaccennate garanzie sulla natura mutualistica delle cooperative chiamate a beneficiare dell’esenzione stessa.

Si può annunziare, intanto, fin d’ora che il censimento delle cooperative di consumo indetto dal Ministero del lavoro, testé ultimato, ha dato un complesso di 5.043 cooperative censite, con numero 2.244.416 soci, lire 780.204.092 di capitale, 125.803.062 di riserve, 8168 spacci e circa 30 miliardi di vendite annue. Le cooperative che vendono ai soli soci sono 1856 e rappresentano il 37 per cento del totale.

Bastano queste cifre, anche ristrette ad un solo settore della cooperazione, a dimostrare l’importanza del fenomeno cooperativo e l’opportunità dell’emanazione di norme che valgano a tutelarlo e a disciplinarlo nel migliore interesse dei cooperatori e del Paese.

PRESIDENTE. L’onorevole Canevari ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

CANEVARI. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario di Stato al Ministero del lavoro per la sua risposta, ma sono costretto a dichiararmi non completamente soddisfatto. Sono soddisfatto per l’iniziativa assunta dal Ministero del lavoro, ma non del ritardo che lo stesso Sottosegretario ha denunciato esser frapposto dagli altri dicasteri a dare il proprio parere in merito al disegno di legge che era stato già predisposto dal Ministro D’Aragona ed è stato riveduto dall’attuale Ministro.

Il Ministero riconosce l’importanza delle cooperative di lavoro, anche dal punto di vista finanziario; riconosce l’importanza dei provvedimenti che sono richiesti dal movimento cooperativo di consumo; richieste che doverosamente avrebbero già dovuto essere accolte dal Governo, se è vero, come è stato riconosciuto dallo stesso Ministero del lavoro, che in questo momento tormentoso le cooperative di consumo svolgono una azione sociale di primo ordine.

Perciò io avevo presentato questa interrogazione, allo scopo di richiamare l’attenzione del Governo sul movimento cooperativo e specialmente sul movimento cooperativo di consumo; nella speranza che il Governo dedicasse la sua attenzione a questo movimento; cosa che non ha fatto da due anni a questa parte. Se infatti noi siamo stati allietati da molte promesse, finora non siamo stati onorati da alcun provvedimento.

I provvedimenti sono urgenti, se si pensa che è necessario che sia consentito alle cooperative di poter partecipare in pieno all’opera di ricostruzione del nostro Paese; cosa difficile finché mancheranno i provvedimenti legislativi necessari nel campo della produzione e del lavoro.

Questi provvedimenti sono necessari perché il più danneggiato è proprio il movimento cooperativo dal sorgere e dal pullulare di tante cooperative spurie, di produzione, di lavoro e di consumo.

Abbiamo avuto motivo di interessarci doverosamente di questo argomento, anche in un’interpellanza svolta in questa stessa Assemblea recentemente, in merito a consorzi che hanno avuto la possibilità di sorprendere la buona fede dello stesso Ministro del lavoro.

Sono quindi dolorosamente sorpreso nell’apprendere che, nonostante la diligenza dimostrata dal Ministro Romita di varare questo disegno di legge con la maggiore rapidità possibile, la pratica non si trovi ancora completamente allestita davanti al Consiglio dei Ministri, mentre io avevo avuto affidamento, la settimana scorsa, che tutti i Ministeri interessati avevano risposto, e che la pratica era in attesa di essere esaminata dal Consiglio dei Ministri.

Sono esatti i dati statistici comunicati dal Sottosegretario al lavoro: abbiamo 5.043 cooperative di consumo in Italia, secondo gli ultimi dati raccolti dal Ministero del lavoro, con 2.250.000 soci circa, con un capitale di circa 700 milioni, 126 milioni di riserva, 8.168 spacci, e con circa 30 miliardi di vendite. Non è un movimento quindi da trascurare, e rappresenta un fattore economico e sociale importantissimo nella vita del nostro Paese. Badate che questo è un movimento in gran parte risorto in Italia, ed il fatto che neanche il fascismo sia riuscito a sradicarlo dalla vita economica e sociale del nostro Paese, dimostra che il movimento cooperativo aveva approfondito le sue radici in modo tale ed in modo così poderoso che ha potuto consentire una ripresa in pieno, non appena l’Italia ha potuto rivivere in regime di libertà.

Maggior dovere, dunque, da parte del Governo, di interessarsi della cooperazione. La cooperazione di consumo rappresenta l’unico mezzo di difesa del consumatore in questo momento così difficile della vita economica e sociale del nostro Paese. Ma, senza i provvedimenti legislativi, senza l’intervento del Governo per facilitare il compito della cooperazione, noi potremmo sperare ben poco, perché tutto è lasciato, fino ad oggi, alla nostra iniziativa, alle nostre poche risorse, alla nostra molto buona volontà ed al nostro entusiasmo; ma questo non è sufficiente, perché se è vero che noi non abbiamo mai invocato e non invochiamo dallo Stato nessun intervento e nessun aiuto finanziario a fondo perduto, invochiamo però l’intervento dello Stato, non soltanto in merito alla legislazione, ma in relazione ai provvedimenti che dalla legge deriveranno, anche di ordine finanziario, per facilitare alla cooperazione di lavoro ed alla cooperazione di consumo ogni possibile sviluppo.

Facciamo presente al Governo che, mentre esso è stato così avaro nei nostri riguardi, è stato invece così generosamente largo verso le industrie alle quali ha elargito 60, o più, miliardi che non ritorneranno più nelle Casse dello Stato.

È stato qui ricordato, per l’imposta…

PRESIDENTE. La prego di concludere, onorevole Canevari.

CANEVARL. …per l’imposta generale sull’entrata che il Ministero del tesoro ne ha riconosciuto l’esenzione alle cooperative che vendono ai soli soci. Su questo punto non ci sarebbero discordanze né discussioni ulteriori. Ma lo stesso Ministro delle finanze ha dichiarato, ad una Commissione da noi accompagnata al Ministero il 28 ottobre, che anche per le cooperative che vendono al pubblico sarebbero state consentite delle facilitazioni. Per esse sarebbero state date istruzioni per concordare opportuni abbonamenti relativi alle somme di vendita per l’applicazione della imposta stessa. Debbo ricordare questo perché la risposta del Sottosegretario al lavoro – che fu data anche per conto del Ministero delle finanze – non sia nebulosa come quella data dal Sottosegretario stesso in risposta ad una interrogazione dell’onorevole Camangi. Ricordo che il Ministro Scoccimarro in quella occasione ha emanato un comunicato, in attesa della definitiva emanazione del provvedimento legislativo già approntato dal Ministero del lavoro in ordine alla istituzione del Registro delle cooperative nel quale si precisava: 1°) nell’applicazione della imposta generale sulla entrata, si facesse in modo che non fosse colpita la merce nel passaggio dalla cooperativa al consumatore; 2°) per quanto riguarda le cooperative che vendono ai soli soci, e ai loro consorzi, si dava disposizione agli uffici competenti affinché un solo passaggio della merce fosse tassato; 3°) si prometteva di esaminare la possibilità di estendere alle cooperative le disposizioni emanate a favore degli Enti comunali di consumo. Per quanto riguarda le altre imposte, si sarebbe considerata la possibilità di ulteriori agevolazioni tenendo conto delle finalità perseguite dalle cooperative in questo importante momento.

Ora tutto questo è subordinato all’emanazione del provvedimento per il riconoscimento delle cooperative. Se noi aspettiamo ancora ad emanare tali provvedimenti, al momento di mandarli in vigore molte cooperative saranno scomparse, perché colpite dalla inesorabile azione del fisco. In sostanza, nella mia interrogazione chiedo che, mentre si attende l’emanazione del provvedimento legislativo, i due Ministeri (delle finanze e del lavoro) addivengano ad un accordo perché gli ispettori e i funzionari competenti facciano gli opportuni accertamenti sul movimento e sul funzionamento delle cooperative di consumo. Da questi accertamenti risulterà l’opportunità di sospendere le azioni fiscali in corso e che minacciano la vita stessa della cooperazione. Noi vorremmo che il Ministro almeno ci desse questa assicurazione. Ciò particolarmente chiediamo al Ministero delle finanze perché non sia sacrificato il movimento cooperativistico. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Canevari, Zanardi, Piemonte, Persico, Rossi Paolo, Cairo, Momigliano, Filippini, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per sapere quando potrà essere emanata la legge che consenta alle cooperative, enti mutualistici, comuni, ecc. il ricupero dei beni di cui furono spogliati dal fascismo, e l’indennizzo dei danni causati dalle violenze fasciste.

L’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Si fa presente agli onorevoli interroganti che fin dal dicembre scorso fu presentato dall’allora Ministro Macrelli uno schema di decreto legislativo inteso a consentire alle cooperative il recupero dei beni e il rientro in possesso di tutti i capitali sociali dovuti rinunciare o cedere da cooperative, da organizzazioni politiche e sindacali, da case del popolo e da enti similari su iniziativa e col concorso e favore della organizzazione e delle autorità fasciste. Il provvedimento, che importava talune deroghe al Codice civile, fu trasmesso dal Presidente del Consiglio dei Ministri al Ministero della giustizia e al detto Ministero fu successivamente inviato anche lo schema predisposto dagli onorevoli interroganti ed inviato a sua volta dal Presidente dell’Assemblea Costituente al Presidente del Consiglio.

Il Ministero della giustizia condivideva, in linea di principio, l’esigenza di apprestare gli opportuni provvedimenti per riparare alla situazione di ingiustizia determinata da atti di prepotenza delle organizzazioni e delle autorità fasciste; riteneva però, lo stesso Ministero, necessaria la determinazione dei limiti di tali riparazioni, e prima di esprimere un parere definitivo, richiedeva taluni elementi ai Ministeri interessati. La Presidenza del Consiglio ha già segnalato a detto Ministero, a seguito della presente interrogazione, il 14 aprile ultimo scorso la necessità di una sollecita risposta, ed ha assicurato che farà tutto il possibile perché lo schema di provvedimento possa essere sottoposto al più presto alle deliberazioni del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’onorevole Canevari ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

CANEVARI. Debbo constatare che, dopo quasi un anno, abbiamo ancora una risposta evasiva da parte del Governo.

Nel luglio scorso, in occasione delle discussioni sulle comunicazioni fatte dal Governo, io ho avuto l’onore di presentare, a questo riguardo, un ordine del giorno che è stato accettato dal Presidente del Consiglio come raccomandazione.

Ora, dopo le dichiarazioni da parte del Governo, l’onorevole Macrelli ha presentato, prima di uscire dal Governo, uno schema di disegno di legge, al riguardo (ed io colgo l’occasione per ringraziarlo della sua sollecitudine e della affezione che ha dimostrato anche in quel momento verso il movimento cooperativistico); ma eravamo giunti al 6-7 di febbraio scorso ad una nuova crisi ministeriale, e, nelle sue dichiarazioni, il Presidente del Consiglio non aveva pensato di fare alcun cenno di questo problema davanti all’Assemblea.

Con l’onorevole Villani ed altri presentammo allora un altro ordine del giorno, che il Governo, anche in quell’occasione come nell’occasione precedente, dichiarò, in una forma un po’ più confusa, di prendere in considerazione; onde l’onorevole Piemonte ebbe modo di pubblicare che, se vi è stato uno scandalo in questa Assemblea, non è tanto quello sollevato dall’onorevole Finocchiaro Aprile, quanto quello rappresentato dalla mancata promessa da parte del Governo, impegnato com’era a rendere questa elementare giustizia alle cooperative danneggiate o spogliate dal fascismo; cosicché dopo un anno noi ci troviamo ancora in questa situazione: che il Governo sta studiando.

Ora, io ricordo al Governo che il progetto di legge studiato dall’onorevole Macrelli è stato da noi esaminato attentamente con la collaborazione di una commissione di giuristi, che hanno appunto esaminato la situazione prospettata ed il provvedimento predisposto, apportandovi opportune modificazioni, talune sostanziali. Abbiamo creduto di facilitare, con il nostro studio e la nostra collaborazione, l’opera del governo, vagliando e predisponendo uno schema di disegno di legge che è stato firmato da 52 deputati di ogni settore di questa Camera.

Onorevole Cappa, io vorrei pregarla vivamente di volersi fare interprete presso il governo, della necessità che questa legge sia emanata con tutta urgenza.

Si rifletta che noi riceviamo proteste da tutte le parti d’Italia dalle cooperative che non trovano più le loro sedi perché occupate da altri organismi che con le cooperative non hanno evidentemente niente a che fare.

Se voi invece dimostrate la vostra incapacità di adottare un provvedimento così elementare, così semplice, allora l’opinione pubblica ha ragione di domandarsi che cosa farete di fronte a problemi di maggiore importanza. Molti, appunto, dicono che voi non sapete affrontare le più importanti questioni, perché non sapete risolvere neppure questioni di così facile e di così elementare giustizia.

CAPPA, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Terremo conto.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Veroni, al Ministro dell’interno, «per conoscere se, di fronte alle unanimi proteste della cittadinanza e della stampa, non voglia disporre per Roma la soppressione del Commissariato degli alloggi o non intenda – in ogni caso – di non consentire proroghe alla legge istitutiva che cesserà di aver vigore il 15 aprile prossimo, creando in sostituzione del Commissariato un organismo di più semplice e rapido funzionamento, capace realmente di alleviare la crisi delle abitazioni».

L’onorevole Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Sottosegretario eli Stato per la Presidenza del Consiglio. Sono insorti dei dispareri, anche attraverso le polemiche della stampa, circa la soppressione o meno del Commissariato degli alloggi. Il Governo ha deciso di subordinare ad una apposita inchiesta la decisione da adottare al riguardo.

Per tal motivo, nella seduta dell’11 aprile scorso del Consiglio dei Ministri, è stata deliberata una proroga del termine del funzionamento del Commissariato degli alloggi fino al 31 maggio corrente. Entro tale termine, sarà esaminata l’opportunità di conservare o meno il Commissariato degli alloggi, in base alle risultanze delle inchieste già disposte.

PRESIDENTE. L’onorevole Veroni ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

VERONI. Non posso dichiararmi soddisfatto della risposta dell’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, la quale evidentemente persegue un fine dilatorio. La legge che istituisce il Commissariato degli alloggi, per unanime consenso della stampa e soprattutto per unanime consenso di tutte le classi interessate che particolarmente in Roma sono le classi più povere e disagiate, è evidentemente lesiva dei diritti di libertà e della stessa dignità dei cittadini.

Bisogna dare un ben diverso orientamento alla soluzione dell’assillante problema della ricerca della casa per i senza tetto e al ciò non si potrà arrivare se continuerà ad aver vigore il decreto istitutivo del Commissariato degli alloggi, dimostratosi inefficiente particolarmente nei grandi centri urbani. Basterà ricordare che a Milano si è dovuti arrivare di fatto a sopprimerlo.

La soppressione si reclama anche per Roma, ma non si intende dire, con ciò, che si voglia lasciar libero gioco alla legge della domanda e dell’offerta, nel grave e complesso problema delle abitazioni civili: si vuole semplicemente sostituire l’attuale Commissariato con un ente che sia più schematico e più sbrigativo nella disamina e nella soluzione dei problemi che si riferiscono all’assegnazione degli alloggi in Roma, un ente soprattutto che non abbia l’elefantiasi così spettacolare della burocrazia, come l’ha attualmente il Commissariato tanto discusso e criticato.

Onorevole Sottosegretario, la situazione di Roma è eccezionalmente grave, perché ha riferimento, in modo particolarissimo, a oltre cinquemila famiglie che sono senza tetto e che attualmente sono costrette a passare le notti alla periferia entro grotte, nelle stazioni ferroviarie, nei depositi tranviari, ecc. e sono presso a poco 8-9 mila le persone le quali esigono che sia dato loro un tetto che il Commissariato degli alloggi non può dare perché non ha case a disposizione. Basterà creare un ente schematicamente più sollecito, basterà che la Presidenza del Consiglio dia disposizione, insieme agli altri organi governativi, che siano adibite, per esempio, numerose caserme (come la stampa degli ultimi giorni ha reclamato) ad abitazione per i senza tetto. Vi sono a Roma per lo meno due terzi delle caserme che sono vuote e che possono essere benissimo, con facili accorgimenti, ridotte a piccoli appartamenti da assegnare ai senza tetto. Si è anche esattamente rilevato che molti uffici sono diluiti in vari locali ed in numerosi edifici, mentre potrebbero essere riuniti in pochi locali; allo stesso modo, man mano che gli alleati restituiscono al Governo italiano gli appartamenti da essi requisiti, questi potrebbero passare ai senza tetto. Quindi vi è la maniera di provvedere, purché si abbia la volontà decisa di aiutare tanta misera gente che vive in uno stato veramente vergognoso; cesserebbe così lo spettacolo deplorevole per cui migliaia e migliaia di poveri esseri nella capitale della Repubblica sono costretti a vivere attualmente nelle condizioni più tragiche.

Io penso che il Governo abbia l’improrogabile e stretto dovere di provvedere e pertanto, solo quando ciò sarà fatto, io potrò dichiararmi soddisfatto; oggi sono costretto a ripetere la mia insoddisfazione di fronte alla risposta dell’onorevole Sottosegretario che nulla concede e nulla assicura. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Monticelli e Bardini al Ministro della difesa, «per sapere quali provvedimenti intende prendere onde eliminare la situazione anormale ed insostenibile che si è creata a Siena, in seguito al persistente e non giustificato atteggiamento del comandante di territorio di Firenze generale De Simone, il quale si oppone alla rimozione dei poligoni di tiro di Pescaia, situati nell’abitato della città, costituenti continui pericoli, disturbi e malcontento nei cittadini e rendendo tesi i rapporti tra la popolazione e il nuovo esercito repubblicano italiano. Tali poligoni possono agevolmente essere trasferiti nei poligoni di Petruccio, Montarioso e Pieze al Bozzone, distanti pochi chilometri di ottime strade. La opposizione del generale De Simone è quanto mai inopportuna, in quanto sembrava che lo stesso Ministero della difesa avesse nel passato riconosciuto giustificate le lamentele del pubblico ed avesse deciso la rimozione dei poligoni e tutte le altre autorità italiane ed alleate, civili e militari, si sono espresse, in più occasioni, favorevolmente ai desideri della popolazione».

Non essendo presenti gli onorevoli Monticelli e Bardini, l’interrogazione s’intende decaduta.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Benedetti, ai Ministri del commercio con l’estero, dell’industria e commercio e delle finanze e tesoro «per conoscere: quali ragioni possano aver determinato la riduzione del contingente di carta d’importazione svedese, che, nel corso della discussione del trattato commerciale concluso con la Svezia, era stato previsto in 20.000 quintali per il 1947, mentre in realtà è stato poi ridotto a soli 10.000 quintali; se sia esatta la notizia secondo la quale delle cartiere dell’Alta Italia si rifiutano di versare la tassa pagata da alcune categorie di acquirenti di carta, sotto la voce di «Tasse Ente cellulosa e carta», e se non ravvisino in questo rifiuto un vero e proprio reato di appropriazione indebita che le cartiere commettono nei riguardi di un ente parastatale; quale fondamento abbia la notizia secondo la quale il Ministero dell’industria e commercio si sarebbe reso promotore della soppressione pura e semplice dell’Ente nazionale per la cellulosa e la carta, anziché prendere l’iniziativa di trasformarlo in un organismo atto a svolgere i nuovi compiti imposti dalla grave situazione dalla carta, che potrà essere risolta soltanto con larghi acquisti da effettuarsi sui mercati esteri, valendosi dell’attrezzatura e dei mezzi finanziari di cui dispone l’Ente suddetto».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’industria ha facoltà di rispondere.

FARALLI, Sottosegretario di Stato per l’industria. L’interrogazione dell’onorevole Benedetti contempla tre particolari problemi. Al riguardo si precisa quanto segue:

1°) Nell’accordo commerciale italo-svedese del 24 novembre 1945, entrato in vigore il 1° dicembre 1945, era stato stabilito un contingente semestrale all’importazione di carta di giornale di 15 mila quintali, corrispondente a 850 mila corone svedesi, al prezzo di corone svedesi 57 al quintale. Prima dell’inizio delle trattative fra la delegazione italiana e quella svedese per la rinnovazione dell’accordo di cui trattasi, venne proposto che il contingente in parola fosse fissato nella misura di 20 mila quintali semestrali, pari a circa 1.140.000 corone svedesi, allo scopo di costituire scorte di carta da giornale e di conseguire una diminuzione del prezzo di quella di produzione nazionale.

Successivamente, per la diminuita attività produttiva delle cartiere nazionali, a seguito della carenza di energia elettrica e di combustibile, veniva richiesto dai Ministeri dell’industria e del commercio estero, con fonogramma del 18 novembre ultimo scorso, di interessare la delegazione italiana che si era recata a Stoccolma per le trattative riguardanti la rinnovazione dell’accordo con la Svezia, affinché venisse elevato a 30 mila quintali il contingente semestrale di carta da giornali nel nuovo accordo.

Pertanto gli opportuni chiarimenti in ordine alle riduzioni di 10 mila quintali del contingente di carta da giornale, valide dal 1° dicembre 1946 al 30 novembre 1947, stabilito dal rinnovato accordo italo-svedese, potranno essere forniti dal Ministero del commercio con l’estero a mezzo del collega onorevole Assennato.

2°) Circa il mancato versamento, da parte delle cartiere dell’Alta Italia all’Ente nazionale per la cellulosa e la carta, dei contributi sul fatturato carta da esse riscossi bei confronti di alcune categorie di consumatori di materiale cartaceo, si fa presente che il Ministero dell’industria si è preoccupato da tempo della questione, richiamando diverse volte l’Associazione dei fabbricanti di carta e cartoni e la Confederazione generale dell’industria italiana sull’osservanza, da parte delle cartiere stesse, delle disposizioni di legge vigenti in materia. È stato, anzi, in tale occasione, fatto presente che, persistendo le aziende cartarie nel rifiutare tale versamento, verrebbero ad appropriarsi indebitamente dell’ammontare di un contributo che esse hanno riscosso e che deve essere versato all’Ente sopra indicato, nei confronti del quale agiscono soltanto come depositarie.

Il recupero, da parte dell’Ente per la cellulosa, del contributo in parola e dei relativi interessi di mora, avrebbe potuto essere effettuato mediante remissione di ruoli previsti dalle vigenti disposizioni. A tal fine, però, sarebbe stato necessario condurre a termine vari accertamenti che avrebbero comportato, oltre che varie difficoltà, una notevole spesa. E poiché gli industriali della carta hanno sempre dichiarato che avrebbero provveduto all’integrale versamento delle somme riscosse e accantonate non appena all’Ente fosse stata data una diversa struttura che escludesse l’ingerenza di esso nell’attività di ciascuna cartiera, è stato soprasseduto a procedere d’ufficio all’accertamento e alla riscossione del contributo stesso. A conferma della sua tesi, infatti, l’Associazione dei fabbricanti di carta e cartoni aveva da tempo proposto uno schema di progetto per la trasformazione dell’Ente medesimo.

3°) In ordine alla questione relativa alla sistemazione dell’Ente nazionale per la cellulosa e per la carta, si fa presente che il Ministero dell’industria si è orientato nel senso di addivenire alla liquidazione della passata gestione dell’Ente attraverso la nomina di un liquidatore del patrimonio dell’Ente in parola. L’Ente medesimo sarebbe sostituito con un altro organismo rispondente alle esigenze della nuova situazione politica ed economica.

Pertanto, in relazione anche alle necessità prospettate dalle aziende editrici di giornali e dall’editoria scolastica, detto organismo, magari sotto diversa denominazione, potrebbe svolgere i seguenti compiti ritenuti di grande utilità per il settore industriale:

  1. a) funzioni di carattere agrario intese alla produzione di essenze legnose (principalmente piantine di pioppo) da distribuire agli agricoltori allo scopo di favorire e sviluppare specialmente la coltivazione del pioppo, che riveste una notevole importanza per la industria cartaria (fabbricazione della pastalegno e della cellulosa) e per le altre attività industriali che utilizzano il legno nelle loro lavorazioni (fabbricazione dei legni compensati, degli imballaggi e dei fiammiferi).

Tale attività integratrice e fiancheggiatrice dell’azione del Ministero dell’agricoltura e foreste – oltre a consentire l’attuazione in Italia di un vasto programma di rimboschimento – viene ad assumere un carattere prevalente di utilissima cooperazione con le industrie della carta, della cellulosa e del legno.

  1. b) Funzioni rivolte all’importazione di materiale cartaceo per soddisfare i consumi che rivestono carattere di indispensabilità (fabbisogni di carta delle aziende editoriali giornalistiche e dell’editoria scolastica).

Detta attività, che assume una funzione calmieratrice ed equilibratrice del mercato della carta, viene ad assicurare, su basi eque, regolari e durature, il rifornimento della carta alle aziende editoriali giornalistiche e scolastiche, integrando le inevitabili deficienze stagionali di produzione delle cartiere italiane.

Il nuovo organismo, cui dovrebbe essere devoluto in tutto, o in gran parte, il patrimonio risultante dalla liquidazione dell’Ente cellulosa, non avrebbe facoltà di imporre alcun contributo a carico di industriali o consumatori e non beneficerebbe di sovvenzioni da parte dello Stato.

L’amministrazione di tale organismo sarebbe retta da una Commissione amministratrice – composta solo dai rappresentanti dei Ministeri interessati – e da un Presidente nominato dal Ministero dell’industria e commercio.

Ora il Ministero dell’industria, naturalmente, è disposto ad accogliere anche eventuali suggerimenti che l’editoria scolastica fosse disposta a proporre.

PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato per il commercio con l’estero ha facoltà di rispondere per la parte di sua competenza.

ASSENNATO, Sottosegretario di Stato per il commercio con l’estero. La Delegazione italiana che svolse le trattative a Stoccolma nel novembre 1946 si adoperò attivamente per ottenere un aumento del contingente di cellulosa – previsto nel precedente accordo in tonnellate 30.000 – nonché un aumento del contingente della carta da giornale.

Tali sforzi furono vani, perché da parte svedese si fece presente la impossibilità di accogliere gli aumenti richiesti, data la diminuita disponibilità dei prodotti in questione in Svezia e l’impegno assunto di fornitura di prodotti stessi nei riguardi di altri Paesi.

Pertanto, non solo non ci venne concesso alcun aumento, ma vennero ridotti i contingenti precedenti da 30.000 a 20.000 tonnellate e da 3.000 a 2.000.

Quindi non vi è possibilità di poter avere aumenti.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

BENEDETTI. Ringrazio vivamente i due Sottosegretari delle risposte che mi hanno dato e voglio dire che sono soddisfatto delle buone intenzioni da loro dimostrate. Ma non sono soddisfatto dell’efficacia di quello che hanno messo in essere per ovviare agli inconvenienti da me lamentati.

Sono tre gli argomenti della mia interrogazione, come ha rilevato il Sottosegretario all’industria. Uno riguarda un minor contingente di carta ottenuto negli scambi commerciali con la Svezia. Egli, ha detto che, in sostanza, il minore contingente del 1946 verrà compensato nell’anno 1947 ed il Sottosegretario al commercio ha soggiunto che tutti gli sforzi sono stati fatti perché il contingente fosse mantenuto, anzi aumentato.

La verità è che quanto essi hanno detto è esattissimo. Ma è anche vero che il Governo ha incontrato, nelle trattative con la Svezia, resistenze imprevedute, le quali non sono derivate dalla mancanza di buona volontà loro, ma da un’altra causa: e precisamente dall’ingerenza degli industriali cartari italiani per fare affluire in Italia un minore quantitativo di carta. Questo è il punto essenziale della questione che io ho richiamato, non per scopi scandalistici – ben lontani dal mio intento – ma per ben dimostrare quanto sia necessario che esista un qualche cosa, un Ente che serva a contenere gli appetiti, che sono sempre molti, di certe categorie, le quali si preoccupano – a ragione, dal punto di vista loro egoistico, ma non dell’economia generale – dei loro interessi particolari.

Secondo punto: contributi all’Ente della carta. Anche qui trovo che il Sottosegretario all’industria ha risposto onestamente, e d’altra parte riconosco che egli non ha nessuna responsabilità, perché da poco tempo ricopre la sua carica. Gl’inconvenienti si sono verificati in una gestione precedente. Sta di fatto che l’Ente carta beneficia di un contributo dato dai consumatori della carta, che pagano ai cartai una percentuale dell’uno o due o tre per cento sulle fatture. Tale contributo deve dai cartai essere passato all’Ente carta. Ora che cosa è accaduto? I consumatori hanno pagato tranquillamente questo uno o due o tre per cento – non so quanto sia e non ha importanza la misura, ma il fatto – e gli industriali della carta lo hanno incassato e lo hanno incassato fatturandolo come uno o due o tre per cento di contributo a favore dell’ente carta. E poi se lo sono trattenuto. Le trattenute ammontano a diverse centinaia di milioni che restano nelle casse dei cartai. Credo che quanto io espongo sia perfettamente esatto, onorevole Sottosegretario. Qualcuno ha detto: ma perché questi signori si trattengono del denaro perché non lo passano all’Ente cui spetta?

La risposta è stata esauriente da parte del Sottosegretario all’industria, ma è anche esauriente quello che si dice e che è nella realtà dei fatti. La realtà dei fatti è che i contributi di diverse centinaia di milioni, che spettano all’Ente, restano ancora nelle casse dei cartai. Essi dicono che li verseranno a condizione che l’Ente carta sia liquidato. Non lo vogliono in vita. Così impongono la loro volontà anche al Governo. Il Governo non deve ammettere questo modo di agire degli industriali cartai, siano pure potentissimi, Essi profittano della debolezza vostra. Voi fate una meschina figura di fronte a questi industriali; apparite come i servitori degli industriali cartai. Voi avete il dovere, per il vostro prestigio, d’imporre che adempiano ai loro obblighi. L’onorevole Sottosegretario, credo, sarà d’accordo. Io non lo dico a titolo di biasimo per lei, che ha fatto tutto il possibile in questo senso e gliene do atto volentieri; ma la verità è questa. In ogni settore il Governo si deve far rispettare, e tanto più da coloro che debbono avere più vivo di ogni altro il senso della responsabilità e il dovere di obbedire al Governo, quando il Governo li richiami all’osservanza dei loro obblighi.

Terzo punto: Ente carta. L’Ente carta è stato costituito per venire incontro agli editori, ai consumatori di carta, i quali si trovavano alla mercé di enti monopolistici cartari nazionali. Tutto quello che si dice ora di voler fare a proposito di questo ente, mi pare una cosa abbastanza strana, perché si vuol liquidare un organismo che esiste per costituirne un altro nuovo. E con quali mezzi deve essere costituito il nuovo? È un problema che voi intendete affrontare in modo del tutto nuovo, mentre, modificando l’Ente che esiste, voi lo trovereste già risolto. Ma voi dite che dovete attuare i vostri scopi. Quali sono questi scopi? Io ammiro la buona volontà del Sottosegretario all’industria. Bisogna favorire le piantagioni di pioppelle, la produzione del legno compensato: tutte belle cose, ma che non sono affatto attinenti allo scopo per cui l’Ente carta fu costituito e dovrebbe continuare a vivere. L’Ente deve provvedere a far affluire sul mercato la carta a prezzi non monopolistici, contenendo così gli appetiti degli industriali cartai. Questo è il suo vero scopo. Ora l’Ente che già esiste ha i mezzi per agire: mezzi che sono il patrimonio dell’ente e il denaro indebitamente trattenuto nelle casse degli industriali cartai.

Se voi volete estendere gli scopi dell’Ente, estendeteli. Io sono contrario a tutti questi enti, ma dal momento che quello della carta esiste e si è dimostrato utile, tanto vale mantenerlo, dandogli efficienza secondo il suo scopo originario. Chiedo quindi di limitare gli scopi dell’Ente alla sua primitiva funzione; e che il suo patrimonio sia integrato con quanto agli industriali spetta di dare, obbligandoli a dare regolarmente. E bisogna ricordare che la classe interessata alla tutela da parte dello Stato non è quella degli industriali, ma dei consumatori di carta. Gli industriali non hanno bisogno di aiuto; gli industriali cartai sono un grande complesso monopolistico, che ha miliardi e miliardi. Essi non hanno bisogno dell’aiuto dello Stato. È semplicemente ridicolo pensare a questo. Invece lo Stato deve intervenire per contenere il prepotere degli industriali, e a questo scopo può servire bene l’Ente carta.

Concludo dando atto all’onorevole Sottosegretario della sua perfetta buona volontà, che mi auguro si trasformi in provvedimenti efficienti. E se i provvedimenti saranno tali che soddisfino, io sarò sempre lieto di esprimerle, onorevole Sottosegretario, la mia intera soddisfazione e il mio consenso.

FARALLI, Sottosegretario di Stato per l’industria. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FARALLI, Sottosegretario di Stato per l’industria. Ringrazio l’onorevole Benedetti di quello che ha detto a proposito degli appetiti che si verificano dolorosamente in questi settori industriali e ringrazio l’onorevole Benedetti, perché la constatazione è proprio venuta da quella parte dell’Assemblea. Lo assicuro, d’altra parte, che se può essere vero che quegli appetiti si sono manifestati anche nelle trattative per il nostro trattato di commercio con la Svezia, nelle prossime trattative troveremo il sistema perché quegli appetiti non si manifestino e non si estrinsechino nel modo in cui si sono estrinsecati questa volta.

Per quanto si riferisce alla famosa percentuale che le industrie della carta avrebbero dovuto versare all’Ente della cellulosa, assicuro l’onorevole Benedetti che non vi è stata deficienza né di autorità, né di volontà del Governo nel non avere incassato la percentuale che i consumatori hanno pagato. Si è soltanto rinviato questo incasso, perché sapevamo che la somma esisteva e sapevamo anche che i detentori di questa somma dovevano pagare gli interessi relativi per tutto il tempo che è stata trattenuta e adoperata (Applausi a sinistra). A questo riguardo, quindi, l’onorevole Benedetti può essere tranquillo. Il Ministero dell’industria e quello del tesoro sapranno non soltanto difendere gli interessi dello Stato, ma sapranno assolutamente affermare questo interesse al di sopra di tutti quelli che possono essere gli appetiti dei signori industriali.

Per quello che si riferisce alla organizzazione del nuovo Ente, intendo precisare che non si tratta della costituzione di un nuovo Ente. Noi intendiamo soltanto vedere che cosa è avvenuto nel passato, specialmente nel passato un po’ remoto. Gli onorevoli colleghi sanno come l’Ente della cellulosa, in determinati momenti della tragica vita politica che abbiamo superato, ha servito a determinati scopi. Ora noi, nel determinare la liquidazione del vecchio Ente, intendiamo appunto vedere come e in che maniera l’Ente ha esplicato la propria opera in quel determinato momento. Ma è pacifico che noi possiamo anche mantenere l’Ente nella sua struttura attuale, sveltendolo, modificandolo, perché risponda a quei fini particolarmente sociali cui intendiamo che risponda; perché per noi i giornali e i libri scolastici rappresentano davvero qualche cosa che incide sulla vita sociale di un Paese. È per questo che con l’Ente intendiamo garantire sia i giornali, che i libri scolastici i quali non devono subire, come talvolta e molte volte, anzi, hanno subito in passato, la volontà di quei famosi appetiti cui accennava l’onorevole Benedetti.

A questo riguardo può essere tranquillo il collega Benedetti. Non è dal Ministero dell’industria che potrà arrivare a quei settori una particolare indulgenza. Noi intendiamo riportare un senso di moralità anche nel settore industriale; noi vogliamo che il Paese si rinnovi non soltanto attraverso la sua struttura repubblicana e democratica, ma anche nella sua struttura morale, nella sua struttura civica e il settore, cui accennava il collega Benedetti, è uno di quelli che davvero bisogna rinnovare.

Sia dunque tranquillo il collega Benedetti che da parte del Ministero dell’industria sarà fatto di tutto perché, specialmente nel caso specifico, si attui un provvedimento che dia la sensazione che ci avviamo verso un rinnovamento.

Per quanto si riferisce alla struttura dell’Ente, devo fare presente all’onorevole Benedetti che non si tratta della costituzione di un nuovo Ente burocratico. Quando diciamo che la Commissione amministratrice deve essere formata da rappresentanti dei Ministeri interessati, non diciamo che questi rappresentanti siano dei funzionari; noi intendiamo dire che siano rappresentanti del Ministero, ma possono essere dei tecnici al di sopra della struttura burocratica, non perché noi non abbiamo fiducia nella struttura burocratica, ma soltanto perché vogliamo destinare dei competenti e dei tecnici a quel particolare settore.

Per quello che riguarda l’intromissione di consumatori o di industriali della carta, possiamo accogliere la raccomandazione dell’onorevole Benedetti in questo senso: noi intendiamo, o possiamo intendere, di affiancare alla Commissione amministratrice, responsabile di fronte al Governo dell’amministrazione dell’Ente, una Commissione consultiva, la quale esprima particolarmente la volontà dei consumatori; perché ha ragione l’onorevole Benedetti, non sono i grandi complessi industriali di cartiere che hanno bisogno del Governo. Quei complessi cercano di sfruttare il Governo; ma noi, in questo caso, il Governo non lo faremo sfruttare. È giusto che i rappresentanti dei consumatori della carta, che possono essere gli editori scolastici, gli editori dei giornali, e possono essere anche altri che in genere consumano la carta, come l’artigianato, come gli esercenti –      per quanto la carta che noi intendiamo importare dall’estero non si riferisca a quel settore – abbiamo la possibilità di far parte di una Commissione consultiva a fianco della Commissione amministrativa. Comunque – per concludere – assicuro l’onorevole Benedetti che intendiamo dar vita ad un ente che esprima un rinnovamento morale e un potenziamento dell’industria italiana. (Approvazioni a sinistra).

PRESIDENTE. Seguono le interrogazioni degli onorevoli:

Di Vittorio, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro delle finanze e tesoro, «sull’urgente necessità di adeguare il trattamento economico dei dipendenti statali e degli enti pubblici a quello dei lavoratori delle aziende private, mediante l’accoglimento delle note rivendicazioni minime presentate dalla C.G.I.L.»;

Lizzadri, Mariani Francesco, Carmagnola, Giua, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro delle finanze e tesoro, «per sapere se non credano opportuno provvedere d’urgenza a migliorare le tristi condizioni economiche dei dipendenti statali e degli altri enti pubblici, parificando la scala mobile a quella dei lavoratori delle aziende private e giusta le rivendicazioni minime presentate dalla G.G.I.L.»;

Pastore Giulio, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro delle finanze e tesoro, «per conoscere come il Governo intenda, nel quadro della presente situazione economica, risolvere il dibattuto problema dei dipendenti statali e dei dipendenti dagli altri enti pubblici, in relazione alle richieste dagli stessi avanzate».

Poiché si riferiscono allo stesso argomento, queste interrogazioni possono essere svolte congiuntamente.

Ha facoltà di rispondere l’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. In merito alle proposte interrogazioni debbo ricordare che il Consiglio dei Ministri, nella riunione del 3 corrente, ha deliberato i seguenti miglioramenti economici a favore dei dipendenti statali e dei pensionati:

1°) aumento del 15 per cento, con effetto dal 1° giugno, delle attuali misure degli stipendi, retribuzioni e paghe del personale in attività di servizio;

2°) aumento del 20 per cento, con effetto dal 1° aprile 1947, dell’indennità di carovita e relative quote complementari, per aggiornamento dell’importo dell’indennità stessa in relazione alle variazioni dell’indice del costo dell’alimentazione accertato per il trimestre gennaio-marzo 1947;

3°) aumento dell’assegno di caro-viveri dei pensionati ordinari in ragione di lire 1.000 mensili per i titolari di pensioni dirette, e di lire 600 per i titolari di pensioni indirette; nonché aumento del massimo della pensione, dovuta dopo quarant’anni di servizio, dagli attuali otto decimi ai nove decimi della media triennale dello stipendio pensionabile, e inoltre aumento del 15 per cento sul nuovo importo di pensione, quale viene a risultare dopo l’elevazione di detto massimo a nove decimi. Il che comporta un aumento complessivo del 30 per cento sulla pensione attuale.

I cennati personali fruiranno altresì delle agevolazioni tributarie già previste per i redditi di categoria C-2.

Le stesse provvidenze sono applicabili al personale degli enti pubblici in generale e degli enti parastatali, i quali, peraltro, dovranno fronteggiare il relativo onere con i propri mezzi finanziari, essendo escluso il concorso da parte del bilancio statale.

Con le cennate provvidenze il Governo ritiene di avere imposto al bilancio dello Stato il massimo sforzo finanziario attualmente possibile a favore del personale in attività ed in quiescenza della pubblica Amministrazione.

Per taluni gradi tipici della gerarchia statale le risultanze complessive dei miglioramenti economici sono, al netto, le seguenti:

usciere: lire 3.557 nette mensili; primo archivista o segretario (grado 10°) lire 4.229 nette mensili; Capo sezione (grado 7°) lire 4.833 nette mensili; Direttore generale (grado 4°) lire 6.183 nette mensili.

PRESIDENTE. L’onorevole Di Vittorio ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

DI VITTORIO. Do atto al Governo dello sforzo di buona volontà che ha fatto per adottare i provvedimenti di cui ci ha reso conto, in questo momento, l’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro; però non posso dichiararmi soddisfatto del complesso dei provvedimenti presi in favore degli statali, dei dipendenti degli enti locali e degli enti parastatali, per la loro insufficienza.

La Confederazione del lavoro, come ha dichiarato ieri in un comunicato dato alla stampa, esaminerà in concreto la portata di questi provvedimenti e tratterà col Governo per vedere in quali misure possano essere migliorati, per dare ai lavoratori statali e degli enti locali una soddisfazione parziale delle loro rivendicazioni che ha fatte proprie ed ha appoggiate.

Vorrei richiamare, soprattutto, l’attenzione del Governo e dell’Assemblea Costituente, di fronte al Paese, sulla necessità assoluta e inderogabile di modificare il congegno della scala mobile, applicata agli impiegati dello Stato e degli altri enti pubblici. Con la misura adottata dal Governo si giunge ad attenuare la differenza di trattamento economico tra i lavoratori degli enti pubblici ed i lavoratori delle aziende private; ma siccome l’uno e l’altro settore di lavoratori hanno un congegno differente della scala mobile, che è maggiore per i lavoratori dell’industria privata e minore per i lavoratori dello Stato, è evidente che ogni volta che vi è lo scatto della scala mobile, per gli uni e per gli altri si riproduce e si aggrava successivamente la differenza di trattamento.

Non è umanamente possibile, direi non è materialmente possibile, accettare od anche tollerare che un settore determinato di benemeriti lavoratori dello Stato e di altri enti pubblici sia in condizione inferiore a quella della maggior parte dei lavoratori italiani. Questa condizione di inferiorità influisce sulle possibilità minime di vita dei lavoratori ed è per questo che noi possiamo accogliere, come accogliamo, le misure adottate oggi dal Governo che attenuano questa differenza, ma domandiamo che siano prese ulteriori misure per impedire che le condizioni di vita dei lavoratori si aggravino continuamente, perché ciò non è tollerabile.

Sono sicuro che tanto l’Assemblea Costituente quanto il Paese apprezzino, al giusto grado, la prova di alto senso civico e di responsabilità che hanno dimostrato i lavoratori dello Stato in quest’ultimo periodo. Voglio evitare ogni esagerazione in proposito perché, del resto, si tratta di uno stato di cose a tutti noto. Tutti i lavoratori dello Stato: i ferrovieri, i postelegrafonici, gli operai delle officine dello Stato, gli insegnanti di tutti i gradi, i dipendenti degli enti locali, vivono in condizioni estremamente gravi per il differente congegno della scala mobile cui ho accennato. Queste condizioni si sono sempre più aggravate rispetto a quelle degli altri lavoratori delle aziende private (che pure versano in una situazione tanto meschina). Malgrado questo e malgrado che le loro richieste minime non siano state accolte dal Governo con la sollecitudine necessaria, oltre che desiderabile, tutti questi lavoratori si sono astenuti sino ad ora dal ricorrere allo sciopero, perché questo avrebbe provocato un perturbamento grave nel nostro Paese, specie nelle condizioni economiche generali attuali. Pensate alle conseguenze che avrebbe potuto avere per il nostro Paese lo sciopero: il Sindacato nazionale dei ferrovieri e la Confederazione generale del lavoro sono riusciti ad ottenere dai loro dipendenti di tollerare questa inferiorità ingiustificabile, rinunciando all’arma dello sciopero per riguardo agli interessi generali del Paese.

Bisogna tener conto del senso civico dimostrato dai lavoratori di tutte le categorie e si deve andare incontro alle loro rivendicazioni. È giusto, è necessario che il bilancio dello Stato sia risanato e che sia prima attenuato, e poi eliminato, questo gravoso deficit; ma sarebbe intollerabile ed inumano sacrificare sempre i lavoratori statali e parastatali per raggiungere questo scopo. È ingiusto che siano queste categorie a fornire sempre i mezzi per il risanamento, solo per il semplice fatto che sono le più facili a colpirsi da parte del Governo. Noi crediamo che il Governo debba perseguire il risanamento del bilancio come uno scopo necessario da raggiungere al più presto, ma non colpendo questi lavoratori e aggravando sempre più le loro condizioni economiche. Bisogna che lo Stato si decida a seguire una politica effettivamente democratica, che cioè riesca a far pagare gli abbienti (e ce ne sono in Italia), considerando che vi è una larga categoria di nuovi ricchi, i quali non pagano nulla allo Stato, mentre i vecchi ricchi pagano pochissimo: e che vi sono categorie commerciali che si può dire non paghino imposte. Forse non tutti i colleghi sanno che vi sono dei bar e dei caffè in grandi città come Roma e Milano che pagano una imposta sulla base di entrate lorde di cento lire al giorno, quando si sa che non si può prendere nemmeno un piccolo fattorino o inserviente senza dargli almeno 300, 400 lire al giorno. E come è possibile che queste aziende dimostrino di incassare appena 40 lire al giorno?

Bisogna inoltre dare una migliore organizzazione ai servizi finanziari dello Stato, che non riescono a far pagare. Vi sono uffici delle imposte dirette che non hanno una sede, che non hanno locali per poter lavorare, vi è a Roma un ufficio che va a prendere le sedie in affitto da una chiesa vicina per far sedere i propri funzionari quando debbono lavorare; vi sono degli impiegati che per mancanza di locali devono lavorare a turno; vi sono cose assurde nella nostra amministrazione, e di questa situazione approfittano i possidenti, i grossi commercianti, i grossi industriali, per non pagare le tasse allo Stato. È in quella direzione che lo Stato deve orientarsi per trovare i mezzi necessari a sanare il suo bilancio, non aggravando la miseria dei lavoratori dello Stato.

Perciò noi insistiamo nella richiesta che il Governo provveda a modificare il congegno di applicazione della scala mobile per i dipendenti statali e degli altri enti pubblici, allo scopo di ottenere, non già un livellamento delle condizioni economiche dei lavoratori, che sarebbe impossibile, ma almeno una perequazione approssimativa; poiché, se in Italia il complesso dei lavoratori deve imporsi dei sacrifici nella situazione in cui siamo oggi, è giusto che questi sacrifici siano il più equamente possibile ripartiti tra tutti, e non accentrati su un settore particolare di lavoratori. Questo non è giusto, e tanto l’Assemblea Costituente, quanto il Paese, debbono far sentire al Governo che non è tollerabile questa ingiustizia.

Ma c’è un’altra rivendicazione alla quale debbo accennare: quella della elevazione della esenzione della imposta di ricchezza mobile C-2. Debbo far rilevare ai colleghi l’ironia anche del nome di questa imposta: «ricchezza mobile».

I lavoratori, oggi, che non hanno una remunerazione sufficiente per assicurare i bisogni più indispensabili della loro esistenza, debbono pagare un’imposta di ricchezza mobile, mentre c’è la miseria permanente, c’è la fame fissa, stabile.

Ora, questa esenzione bisogna elevarla almeno alle 280 mila lire, e con uno sforzo di buona volontà e anche di immaginazione, non sarebbe difficile al Ministero del tesoro di trovare altri strati sociali su cui riversare il peso di questa imposta, di cui noi domandiamo che siano liberati tutti i lavoratori e non soltanto quelli dello Stato e degli enti pubblici.

Passo infine a trattare la questione che riguarda i pensionati. Anche su questo punto diamo atto al Governo della prova di buona volontà che ha dato con le misure che sono state adottate. Ma anche questo è un settore molto doloroso; i miglioramenti sono del tutto insufficienti. Bisogna che il Paese sia richiamato alla necessità di compiere uno sforzo collettivo, che è indispensabile per riuscire ad assicurare a quei lavoratori che hanno onestamente lavorato tutta la vita per sé e per la collettività nazionale, non già una vita agiata, perché questo è impossibile – sarebbe illogico domandarlo – ma un minimo di esistenza tollerabile.

Non si può chiedere a questi vecchi lavoratori di soffrire la fame e di sentire il bisogno di umiliarsi sino a tendere la mano. Bisogna fare qualche cosa di più per i pensionati. Bisogna, in modo particolare, assicurare un più sensibile aumento alle pensioni minime, perché il 15 per cento su pensioni irrisorie porta ad un aumento così irrilevante che potrebbe assumere quasi il carattere di un insulto, il che non è certamente nelle intenzioni del Governo. Bisognerà dunque assicurare alle pensioni minime un aumento superiore al 15 e al 25 per cento, che faccia sentire a quei poveretti che lo Stato ha fatto veramente qualche cosa per loro.

Un ultimo punto: chiedo scusa, signor Presidente. Nel comunicato del Governo, è fatto cenno al licenziamento, nel corso dell’anno, del 5 per cento del personale di ruolo e non di ruolo. L’onorevole Sottosegretario non ne ha parlato in questo momento.

CAPPA, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Perché nelle tre interrogazioni non era fatto cenno di ciò.

DI VITTORIO. Gli è che noi non potevamo indovinare le intenzioni del Governo e quindi non lo abbiamo interrogato su questo punto; ma, nel comunicato alla stampa, ne è fatto cenno. Ora, io credo che non si possa parlare, nella situazione presente, di licenziamento di nessuno. Oggi la piaga della disoccupazione è già gravissima per il Paese e lo Stato ha il dovere di compiere i maggiori sforzi possibili per attenuare, per guarire questa piaga, e non già per aggravarla.

Anche, infatti, se contenuti nella misura del 5 per cento, tali licenziamenti aggraverebbero la situazione ed io penso che la cosa è tanto più ingiustificata, in quanto oggi vi sono degli uffici pubblici che mancano di personale. È vero che nella maggior parte dei casi vi è esuberanza di personale; però, onorevole Sottosegretario, lei mi dia atto che, per esempio, negli uffici delle pensioni manca il personale, tanto che non si riesce, in un anno, a risolvere la pratica inerente ad una pensione che varrebbe a risollevare una famiglia rimasta in uno stato di completo abbandono.

Ora, se accade questo, prima di parlare di eventuali licenziamenti, bisogna provvedere a soddisfare le esigenze di questi uffici che debbono rispondere a bisogni vitali della Nazione.

Concludendo, la Confederazione generale del lavoro esaminerà tutti questi problemi e riprenderà le trattative con il Governo, per cercare di ottenere una soluzione soddisfacente. Noi ci auguriamo che il Governo voglia continuare gli sforzi necessari per dare a questi lavoratori la soddisfazione che essi meritano. Questo sarà indispensabile per evitare al Paese perturbamenti nei servizi pubblici che potrebbero avere gravi ripercussioni nella vita della Nazione. La Confederazione non mira ad altro che ad ottenere il minimo indispensabile per assicurare al Paese, nelle contingenze gravi del momento, la maggiore normalità nei servizi pubblici. (Applausi).

PRESIDENTE. Poiché gli altri onorevoli interroganti si associano, io penso, alle dichiarazioni fatte dall’onorevole Di Vittorio, si prosegue nelle interrogazioni.

Segue l’interrogazione degli onorevoli Macrelli, Sardiello, Conti, al Ministro di grazia e giustizia, «per conoscere quali provvedimenti intenda adottare, in via d’urgenza, di fronte allo stato di disagio morale e materiale in cui versa la Magistratura italiana».

Sullo stesso argomento sono state presentate anche due altre interrogazioni:

Vigorelli Cairo, Carboni, Filippini, Fietti, Morini, Persico, Bennani, Corsi, Salerno, Pignatari, Calamandrei, al Ministro di grazia e giustizia, «per sapere se non ritenga doveroso ed urgente risolvere la situazione di persistente agitazione della Magistratura, che è stata accentuata dalla perplessità del Governo e determina un aggravamento del doloroso disagio in cui versano gli Uffici giudiziari; e se a tale fine non reputi equo ed opportuno accogliere senz’altro le legittime aspirazioni morali ed economiche ripetutamente espresse dai rappresentanti dei magistrati italiani»;

Caccuri, Gabrieli, al Ministro di grazia e giustizia, «per conoscere se non sia doveroso accogliere con particolare benevolenza il grido di disperazione dei magistrati d’Italia, decisi a tutto in questo momento fuor che a barattare la giustizia e l’onore, di cui si sentono, oggi più che mai, gelosi tutori».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia ha facoltà di rispondere.

MERLIN UMBERTO, Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia. È la terza volta che nel giro di poche settimane il Governo deve rispondere ad interrogazioni di onorevoli deputati che domandano quali provvidenze si siano prese, o si intendano prendere per risolvere i gravi problemi morali e materiali che angustiano la Magistratura.

Il Governo ne è lieto perché l’interessamento degli onorevoli deputati dimostra la gelosa cura con cui il potere legislativo vuole difendere e, vorrei dire, appoggiare la libertà, l’indipendenza e la dignità del potere giudiziario.

Ho già detto altre volte e ripeto che il problema morale della Magistratura non può essere risolto dal Governo. Verranno fra breve in discussione davanti a questa Assemblea gli articoli del nuovo Statuto che riguardano la Magistratura. Si tratterà di riconoscerne la piena indipendenza (e su questo punto non vi sono dissensi profondi), si tratterà di rispettarne l’autonomia.

Accettare in pieno la teoria di Montesquieu o riconoscere che essa è superata dal tempo? Io non posso pronunciarmi su questo punto arduo e complesso né il Governo lo può fare. Dovrà decidere la Costituente. I magistrati vorrebbero che subito il Governo modificasse il loro ordinamento giuridico, che risale alla legge fascista del 1923. Ma, mentre il Governo ha già fatto molto con la legge Togliatti del 1946, torno a dire che la complessa questione va risolta dalla Costituente, e poiché l’attesa sarà di pochi giorni, pare a me che questo breve rinvio possa essere sopportato con senso di fiducia verso la Costituente eletta dal popolo.

Ma io so benissimo che la questione più grave è quella del pane quotidiano. Io ho già riconosciuto più volte, davanti a questa Assemblea, che la retribuzione di cui gode la Magistratura non è confacente, non tanto alla sua dignità, al suo prestigio e alla sua indipendenza, quanto alle più elementari necessità della vita. Dir questo era un dovere, ma era anche un dovere aggiungere che noi non possiamo venire incontro ai bisogni dei magistrati con della nuova carta sempre più svalutata. Dobbiamo risanare il bilancio, colmare il deficit, avviarlo al pareggio, e solo allora eventuali miglioramenti costituiranno un beneficio reale.

Ora il Governo, da mesi, aveva deliberato un congruo aumento della indennità di toga e un possibile aumento delle ore straordinarie di lavoro. I magistrati non hanno creduto soddisfacenti questi benefici ed hanno chiesto il raddoppio della indennità di toga con un onere per lo Stato, in aggiunta al precedente, di altri trecento milioni. Nel frattempo batteva alle porte del Governo tutta la categoria degli statali e dei parastatali.

Come ha comunicato in questa stessa seduta il collega Petrilli, il Consiglio dei Ministri, l’altro giorno, ha concesso un miglioramento dello stipendio-base del 15 per cento, ha concesso la revisione e l’aumento dell’indennità di carovita e ancora l’aumento del minimo imponibile esente da ricchezza mobile, portandolo a 150 mila lire. Di tali benefici godranno anche i magistrati, il che compenserà quasi completamente l’aumento della indennità di toga da essi domandato. Naturalmente il Governo emanerà il decreto, già predisposto e trasmesso alla Costituente, per cui i benefici generali si aggiungeranno a quelli particolari già concessi.

Io non posso dire nulla più di questo, né fare promesse che il Governo non potrebbe mantenere. Prego gli onorevoli interroganti di considerare:

1°) che tutta questa tragica situazione finanziaria che ci impedisce di fare quello che il nostro cuore vorrebbe è la triste eredità del fascismo;

2°) che noi, a guardar bene in faccia la realtà, siamo, fra i paesi d’Europa, forse uno dei più fortunati;

3°) che, constatando la tragica situazione degli altri, vi è ragione di conforto e si potrà trarre nuovo stimolo a quella unione di tutte le forze, con la quale potremo risalire dall’abisso in cui, per colpa del fascismo, eravamo caduti.

PRESIDENTE. L’onorevole Macrelli ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

MACRELLI. Dico subito che non sono soddisfatto della risposta che ha dato l’onorevole Sottosegretario alla giustizia alla mia interrogazione e prendo proprio lo spunto dall’inizio della sua risposta.

Egli ha detto che per la terza volta, nel giro di poche settimane, il Governo è stato chiamato dall’Assemblea Costituente a rispondere su questo problema grave e delicato.

Se è vero che per tre volte i deputati, rappresentanti del Paese in questa Assemblea, hanno creduto opportuno e doveroso richiamare l’attenzione del Governo e sollecitare le sue provvidenze per la classe dei magistrati, significa che il Governo non ha accettato le voci di appello che venivano da tutti i banchi, da tutti i settori dell’Assemblea, significa che i provvedimenti adottati fino ad oggi non corrispondono a quelle che sono le legittime e modeste aspirazioni della Magistratura italiana.

Quello che ha detto oggi l’onorevole Merlin è, in fondo, quello che aveva già dichiarato nelle precedenti sedute e particolarmente in quella del 12 aprile, quando rispose all’interrogazione dell’onorevole Bertini ed altri; anzi ha peggiorato la situazione aggiungendo cose che a noi hanno fatto una sgradita e penosa impressione. Ha dimenticato di dire innanzitutto, l’onorevole Sottosegretario alla giustizia, che le richieste fatte dalla Magistratura, per quanto riguarda la indennità di toga, erano state sottoposte già all’esame della prima Commissione dell’Assemblea in cui sono rappresentati tutti i partiti e tutte le correnti, prima Commissione in cui si è esaminato il problema anche sotto il profilo economico e finanziario.

Il Governo aveva fissato una indennità di toga in queste cifre: da un minimo di 3437 lire per i gradi 10° ed 11° ad un massimo di 6875 per il grado 1°. La rappresentanza dell’Associazione dei magistrati, sentita, con un atto squisitamente e politicamente democratico, dalla prima Commissione, aveva presentato una proposta che noi crediamo equa: minimo di 8000 e massimo di 15.000 lire, per indennità di toga che la prima Commissione dell’Assemblea aveva accolto in pieno, votando un ordine del giorno, che ne raccomandava l’accettazione.

Il Governo ha risposto con un no categorico e reciso, proprio nella ultima riunione di sabato scorso, se non erro. Ed oggi voi avete sentito, onorevoli colleghi, la risposta che ha dato il Sottosegretario alla Giustizia, il quale ha aggiunto che l’argomento sarà trattato in un altro momento ed in un’altra sede; è quindi un nuovo rinvio di quelle che sono le legittime richieste della Magistratura.

Ma l’onorevole Merlin, o meglio il Governo e soprattutto il Ministero della giustizia, dimentica una certa relazione che pure dovrebbe essere nota, specialmente quando si ha il dovere e l’obbligo di venire davanti all’Assemblea a portare cifre e cose concrete. È una relazione del vostro Ministero, sia pure di altra data: risale abbastanza lontano nel tempo. Le cifre saranno modificate, saranno variate: ma in senso peggiore. La relazione del Ministero della giustizia a proposito del trattamento economico dei magistrati fa questi rilievi che sono sintomatici, eloquentissimi, e sui quali richiamo non solo l’attenzione del Governo, che mi pare sia limitata sotto questo aspetto, ma l’attenzione dell’Assemblea Costituente. Il trattamento economico dei magistrati in Italia è inferiore dal 15,56 per cento al 22,36 per cento rispetto ai funzionari di pubblica sicurezza, dal 12,37 al 25 per cento rispetto agli ufficiali dell’esercito; dal 38 al 40 per cento rispetto agli ufficiali dei carabinieri. La relazione poi fa una statistica in raffronto a quelle che sono le condizioni economico-finanziarie della Magistratura negli altri paesi. Si parla, per esempio, del 19,81 per cento al 38 per cento in meno rispetto all’Olanda; del 28 al 53 per cento in meno rispetto alla Svizzera; e così di seguito. Ma c’è un rilievo grave e importante, ed è questo: che uno stanziamento di 215 milioni (parliamo del 1940) per il personale e per spese di ufficio corrispondeva allora a 460 milioni in cifra tonda, i quali coprivano quasi per intero l’onere complessivo di bilancio.

MERLIN UMBERTO, Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia. Però è superato.

MACRELLI. Lo avete superato in peggio, onorevole Merlin. Fate pure i rapporti dal 1940 al 1947 e voi vedrete – ed è una constatazione di fatto che potete compiere – che il bilancio della giustizia è l’unico bilancio attivo che può permettere ancora al Governo quelle elargizioni e quelle provvidenze che i magistrati richiedono. Ma, aggiunge l’onorevole Sottosegretario: «noi abbiamo dato l’indennità di carica; noi abbiamo aggiunto le ore straordinarie»; le indennità di carica valgono per tutti i funzionari; per le ore straordinarie si è fatto una specie di forfait da 30 a 60 ore, e si è detto: «è già un privilegio, perché i magistrati non hanno un orario di ufficio». Ma, onorevole Merlin, mi rivolgo a lei; lei esercita la professione come me e come altri che hanno firmato le interrogazioni. Noi viviamo continuamente, a contatto quotidiano con i magistrati, soprattutto nelle nostre città di provincia, e sappiamo quale vita conducano: orario di ufficio pesantissimo, udienze civili, udienze penali, istruttorie civili, istruttorie penali e non basta: lavoro a casa nelle ore che dovrebbero dedicarsi alla famiglia, al riposo, allo studio. Le condizioni della Magistratura italiana sono tanto umilianti che noi assistiamo a questo doloroso fenomeno, che non vorrei chiamare fenomeno, perché è la conseguenza delle condizioni in cui vivono i nostri giudici: si verifica un esodo continuo di magistrati che preferiscono affrontare la vita in un’altra maniera: lasciare la toga di magistrato per rivestire quella dell’avvocato o per darsi ad altra professione.

Preoccupiamoci di questo, signori del Governo, e non soltanto dal punto di vista economico, ma soprattutto dal punto di vista morale. Perché la Magistratura non chiede soltanto delle migliori condizioni materiali, ma, innanzi tutto, delle migliori condizioni morali.

Alle ripetute domande risponde oggi il Governo per bocca dall’onorevole Merlin con un «fine di non ricevere»: discuterà l’Assemblea Costituente. Sta bene, discuteremo. Ma quando, e come, e quale soluzione troveremo?

L’onorevole Marlin ha accennato a quel famoso decreto di intonazione e di spirito nettamente fascista che è il decreto dell’11 novembre 1923.

Purtroppo, alla distanza di 24 anni, ancora oggi, in regime democratico repubblicano, nonostante la nuova atmosfera, si mantiene questo decreto che rappresenta la violazione più patente e più profonda dei diritti della Magistratura italiana.

Bisogna che il Governo si convinca, e si convincano i colleghi, che i magistrati non sono i soliti impiegati di cui si è parlato e si parla continuamente. I magistrati fanno parte di un organo speciale, fanno parte di un potere dello Stato. Lasciamo andare la teoria di Montesquieu: esaminiamo il problema così come si presenta al nostro spirito e alla nostra intelligenza. Bisogna cancellare quel decreto, bisogna mettere i magistrati nella condizione di compiere onestamente la loro funzione per il nostro Paese e per la giustizia.

Certo è che quando dal banco del Governo non si sentono soltanto le parole dell’onorevole Merlin, ma anche quelle di un Ministro che ha detto quel che avete sentito l’altro giorno, noi abbiamo il diritto e il dovere di protestare a nome della Magistratura italiana e degli avvocati italiani.

Ricordatevi che se ci sono stati i casi Pilotti, e se anche qualche giudice ha male applicato una amnistia male data e male congegnata, ci sono magistrati, specialmente fra i giovani, che guardano con fiducia alla nuova democrazia della Repubblica italiana. Dobbiamo andare incontro a questi magistrati che difenderanno domani la libertà del nostro Paese attraverso la giustizia. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Vigorelli ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

VIGORELLI. Non ho bisogno di aggiungere altro a quanto ha detto l’amico Macrelli. Desidero soltanto unire la protesta mia e dei compagni che hanno firmato la mia interrogazione, alla protesta dell’onorevole Macrelli. Voglio anche fare testimonianza, come avvocato, che ingiustamente qui dentro si afferma che i magistrati siano reazionari, o siano insensibili a quelle che sono le nuove situazioni determinatesi dopo l’avvento della Repubblica nel nostro Paese.

CLERICI. Lo avete sempre detto voi da quella parte.

VIGORELLI. Io non ho mai detto cose simili e posso assicurare che nessuno del mio Gruppo le ha mai pensate. (Interruzioni).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano.

VIGORELLI. La Magistratura, qui dentro, fino adesso, l’abbiamo sentita ingiuriare soltanto dal banco del Governo e non è esatto che da questi banchi si sia applaudito. (Interruzioni al centro).

Comunque, non soltanto non abbiamo applaudito, ma, per mia voce, il mio gruppo dichiara e ripete la sua protesta contro questo giudizio e invita ancora una volta il Governo a provvedere. La nostra interrogazione chiedeva «se il Governo non ritenga doveroso e urgente risolvere la situazione di persistente agitazione della Magistratura». Ora su questo punto non abbiamo inteso una parola: sicché l’agitazione continuerà, e ancora una volta si dovrà dire che i responsabili non ne saranno i giudici, i quali hanno dimostrato fin qui una grande sopportazione, ma il Governo, che si assume questa ulteriore responsabilità, perché non comprende come, mentre i professori possono dare lezioni private, mentre gli stessi cancellieri e ufficiali giudiziari hanno particolari diritti che ne arrotondano i compensi, mentre tutti gli impiegati in un modo o nell’altro possono migliorare con particolari attività la loro situazione economica, i giudici sono legati materialmente e moralmente al loro ufficio, che per essere il più alto di tutti è anche quello che maggiormente li impegna. Noi chiediamo a questi, che non sono funzionarî come gli altri, di dare l’esempio della dirittura e della comprensione e nel tempo stesso neghiamo loro persino il riconoscimento più semplice ed umano dei loro diritti. Da questi banchi, io desidero che vada alla magistratura italiana l’espressione della nostra cordialità e della nostra solidarietà.

PRESIDENTE. L’onorevole Caccuri ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

CACCURI. È ovvio dire che nemmeno io posso dichiararmi soddisfatto per quanto riguarda le rivendicazioni economiche della magistratura, che praticamente non vede accolte le sue richieste. Vorrei che il Governo si preoccupasse seriamente della insostenibile situazione economica dei magistrati. Vorrei che avesse piena comprensione per questa categoria di funzionari, la sola che non percepisce proventi straordinari, che vive, soltanto dello stipendio, che, per divieto espresso dell’ordinamento giudiziario, non può esplicare alcuna attività lucrativa al di fuori dell’impiego e che pur ha particolari esigenze di dignità e di prestigio per l’esplicazione della sua altissima funzione. Quando invero, onorevoli colleghi, si vede un magistrato, per l’impossibilità di pagare una domestica, andare in giro con la borsa della spesa nei mercati o a pranzare con la famiglia nelle mense popolarissime o peggio ancora con le scarpe rotte e i pantaloni rattoppati nelle aule di udienza, si sente evidentemente menomato il decoro stesso dell’Amministrazione della giustizia e si crea nel contempo, attorno a questa categoria di funzionari che pur nella generalità compie in pieno il proprio dovere, una ingiusta atmosfera di diffidenza e di sospetto. Vorrei pertanto che il Governo affrontasse in pieno e risolvesse il tormentoso problema economico della magistratura, che è problema tutto particolare e che si riflette sull’intero andamento della giustizia. Se esigenze di bilancio non lo consentono, si accolga almeno la richiesta della Cassa per i magistrati, che dovrebbe essere costituita da una particolare tassa di sentenza a carico dei privati, senza alcun aggravio per lo Stato.

E vorrei, nel contempo, onorevoli colleghi, che – come bene ebbe a dire ieri l’altro il collega Scalfaro – anche da questa Aula giungesse l’eco di una parola di fede e di incoraggiamento per quei magistrati che assolvono il loro difficile compito con abnegazione vera; che, pur fra tanta corruttela, si gloriano della loro miseria e sanno tener alta la dignità e l’onore nel diuturno travaglio della vita giudiziaria, anche fra gli spasimi della sofferenza e della fame.

E vorrei ancora che tutti, senza distinzione di partiti, concorressimo sinceramente a mantenere alto il prestigio della magistratura che – credetelo, onorevoli colleghi – compie diuturnamente episodi, spesso ignorati, di vero eroismo, per mantenere fede ad una tradizione di dirittura e di indipendenza e per resistere a tutte le pressioni; di questa magistratura alla quale, onorevoli colleghi, ho anch’io l’onore di appartenere e alla quale la parte sana del popolo italiano, in mezzo a tanto disfacimento morale, guarda ancora oggi con fiducia e con simpatia, guarda come ad un baluardo di libertà e di giustizia, senza cui non vi può essere né civiltà, né Stato, né democrazia degna di questo nome. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Morini e Sampietro, al Governo, «per sapere se è a conoscenza che nelle grotte del Colle Oppio e di Piazza Consolazione vivono numerose famiglie sinistrate in condizioni di vita trogloditica; e per conoscere quali provvedimenti immediati intende prendere per eliminare questa vergogna».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Sono stati eseguiti immediatamente accertamenti sulla situazione segnalata dagli onorevoli interroganti, e posso assicurare che è stato disposto di urgenza che i 59 senza tetto attualmente rifugiati nelle grotte di Piazza della Consolazione e del Colle Oppio vengano, nel giro di pochi giorni, sistemati altrove a cura dell’Ente comunale di assistenza.

PRESIDENTE. L’onorevole Morini ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

MORINI. Mi dichiaro pienamente soddisfatto delle dichiarazioni rese dal rappresentante del Governo, in quanto la rapidità con cui si è agito dimostra che il Governo si è reso conto di una situazione che era assolutamente insostenibile.

PRESIDENTE. Segue un’altra interrogazione dell’onorevole Morini, al Governo, «per conoscere se le disposizioni, in corso di studio e riguardanti il pagamento dei debiti delle formazioni partigiane nel periodo della lotta di liberazione, sono comprensive anche del pagamento dei debiti assunti dai vari C.L.N. provinciali e comunali – regolarmente costituiti – per la lotta di liberazione, nonché per i provvedimenti e gli atti di assistenza ai partigiani ed alle vittime delle rappresaglie nazi-fasciste anche nel periodo immediatamente successivo alla liberazione».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’assistenza ai reduci e ai partigiani ha facoltà di rispondere.

MOSCATELLI, Sottosegretario di Stato per l’assistenza ai reduci e ai partigiani. Lo schema di provvedimento legislativo per la liquidazione, a carico dello Stato, dei debiti contratti dalle formazioni partigiane durante la lotta di liberazione, è stato già elaborato, d’intesa con le varie Amministrazioni interessate. È quindi da prevedere che esso possa essere, tra breve, sottoposto all’approvazione del Consiglio dai Ministri.

L’oggetto del provvedimento è costituito dalle obbligazioni, in danaro o in natura, che i comandanti delle formazioni partigiane dovettero contrarre nel corso della lotta di liberazione, al fine di procacciarsi i mezzi indispensabili per il sostentamento delle formazioni stesse ed in relazione alle molteplici esigenze che si andavano via via manifestando. Il provvedimento non riguarda, invece, le irregolari occupazioni di immobili e gli irregolari od abusivi prelevamenti di cose mobili. Il legislatore è già intervenuto a disciplinare questa materia (decreto legislativo 6 settembre 1946, n. 226) comprendendo tali occupazioni e prelevamenti tra i fatti di guerra, ai fini del risarcimento di danni ad essi conseguiti.

Le disposizioni in corso non contemplano espressamente le obbligazioni che siano state assunte dai Comitati di Liberazione Nazionale per finanziare l’attività partigiana. Ma, naturalmente, se ed in quanto trattisi di somme destinate alle formazioni e impiegate ai fini della lotta di liberazione, le obbligazioni contratte dai Comitati di Liberazione Nazionale non differiscono da quelle che vennero direttamente assunte dai comandanti partigiani. Di conseguenza, i singoli interessati potranno ottenere la liquidazione dei loro conti nei limiti e con le modalità previste dall’emanando provvedimento.

Peraltro, lo schema esclude espressamente da ogni rimborso le prestazioni avvenute in forza di tassazioni disposte dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, dopo il riconoscimento di esso da parte del Governo italiano. Non sarebbe, quindi, ammissibile che lo Stato considerasse oggi come un suo debito le somme o i beni in natura corrisposti in base al suddetto titolo, cioè in adempimento di un dovere tributario.

L’esclusione è fondata sulla considerazione che siffatte prestazioni debbano ritenersi quali contribuzioni imposte da un legittimo organo dello Stato. Tale infatti deve considerarsi il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia nell’ultima fase della guerra, dopo la delega dei poteri che ebbe dal Governo.

Quanto alle obbligazioni assunte per attività di carattere assistenziale, esse potranno rientrare nella sfera del provvedimento in esame, solo quando risultino strettamente collegate ai fini della lotta di liberazione.

PRESIDENTE. L’onorevole Morini ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

MORINI. Contrariamente alla prima interrogazione, non posso dichiararmi per nulla soddisfatto delle dichiarazioni rese dal Governo, e sono convinto che il primo a non essere soddisfatto di questa risposta sia l’onorevole Sottosegretario che mi ha dato la risposta stessa, se si rende conto – e non può non rendersi conto – della situazione che si è venuta a creare e che si trascina da circa due anni.

Il problema che ho sottoposto all’esame del Governo è duplice: estensione del provvedimento che il Governo stava prendendo a favore dei debiti assunti dalle formazioni, anche ai Comitati di liberazione nazionale; estensione di questi provvedimenti oltre la data di liberazione; estensione, quindi, cronologica la seconda, estensione di competenza la prima.

Sul primo punto io mi permetto di far presente che non è sufficiente il dire che si ritiene che anche i debiti dei C.L.N. fino al 25 aprile rientreranno nelle disposizioni che stabiliscono il pagamento dei debiti delle formazioni, in quanto ciò sarà fonte di nuove contestazioni; e se il Governo è in quest’ordine di idee, sarà opportuno che stabilisca espressamente nella norma questa estensione e questa specificazione.

Per quanto riguarda l’altra questione, siamo nettamente di parere opposto. Non è assolutamente possibile fermare al 25 aprile la liquidazione dei debiti dei C.L.N., perché al 25 aprile, per molti C.L.N., è incominciato proprio il periodo in cui sono aumentati i debiti, perché le formazioni partigiane sono scese dalle montagne; si sono sparpagliate nei vari paesi e si sono date alla caccia delle varie formazioni nazifasciste, e i numerosi C.L.N. sono entrati in azione cercando di mantenere e sussidiare queste formazioni. In quel momento si dovettero assumere fortissimi debiti e una parte di questi debiti non sono stati pagati ancora.

In base a quale criterio si può fare distinzione tra azioni compiute prima del 25 aprile ed azioni immediatamente successive al 25 aprile stesso? Non riesco a comprenderlo. Vi furono poi altre forme di assistenza che i C.L.N. hanno dato alle formazioni dei partigiani: assistenza alle famiglie colpite dalle rappresaglie nazifasciste, assistenza ai partigiani stessi nel periodo delicatissimo in cui svestivano la divisa per rientrare nella vita normale borghese ed avevano bisogno almeno di un piccolo aiuto, talora limitato ad un paio di scarpe e ad un vestito perché la maggior parte dei partigiani tornava dalle montagne senza più nemmeno un vestito borghese da indossare.

Se non ci rendiamo conto, e mi rivolgo soprattutto agli uomini che provengono dalla resistenza e che siedono in questa Assemblea, della necessità di impedire ed eliminare l’inconveniente gravissimo di fronte al quale noi oggi ci troviamo – del contrasto cioè tra coloro che, rispondendo alle richieste dei C.L.N., hanno fornito materiali e merci ai partigiani e alle loro varie formazioni, ed i C.L.N. stessi che, talora per calcoli errati delle loro disponibilità, non ebbero più liquidi – se non ci rendiamo conto, ripeto, di questa situazione incresciosa che ha portato, e porta tuttora, a numerose vertenze giudiziarie ancora in corso, vuol dire che non ci rendiamo conto neppure del grave discredito che portiamo al movimento della resistenza, dando così un ben triste esempio.

PRESIDENTE. La prego, onorevole Morini, concluda!

MORINI. Concludo subito signor Presidente: è una questione importante che richiede la particolare attenzione del Governo, i cui poteri sono derivati dal suo padre diretto, il C.L.N., affinché il Governo stesso non si renda colpevole di una grave azione verso questo suo padre. È anche una questione di diritto sostanziale: questi debiti debbono essere assolutamente pagati. Prego l’onorevole Moscatelli di rendersi interprete specialmente presso i membri del Governo che provengono dalla resistenza, affinché venga sollecitata l’emanazione da parte del Governo stesso di questo atto di giustizia. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Lucifero, al Ministro dell’interno «per conoscere per quali ragioni non si sono ancora indette le elezioni comunali nella città di Roma; protraendosi così la anormale situazione che fa sì che, fra tutte le grandi città d’Italia, proprio la Capitale sia la sola a non avere una Amministrazione democraticamente eletta».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Le elezioni amministrative a Roma non si sono potute fino ad oggi fissare perché era in corso la revisione delle liste elettorali. Ultimata la revisione, non vi è ragione tecnica che legittimi il rinvio delle elezioni.

Il Consiglio dei Ministri, come è stato reso noto alla stampa, si è recentemente occupato della questione, data l’importanza di carattere politico che essa riveste, ed ha deciso che le elezioni nel Comune di Roma si tengano entro il mese di giugno, lasciando al Ministro dell’interno di fissare il giorno, in relazione anche alla data della chiusura delle scuole.

PRESIDENTE. L’onorevole Lucifero ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

LUCIFERO. Da quanto ha detto l’onorevole Sottosegretario di Stato potrei creare l’anomalia che finalmente un uomo dell’opposizione si dica soddisfatto delle dichiarazioni del Governo, di cui i partiti governativi non sono soddisfatti mai. Avrei, però gradito che l’onorevole Sottosegretario di Stato ci avesse detto il giorno.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Entro il 20 di giugno.

LUCIFERO. Le buone intenzioni del Consiglio dei Ministri sono come certe cambiali, che alla scadenza si rinnovano. Quindi, il fatto che si dica: «entro giugno», ha un’importanza relativa perché ho sentito dire tante volte: entro maggio, entro giugno ecc., e poi non è mai successo niente. La mia insoddisfazione si limita perciò al fatto che vorrei avere la certezza della data, perché il 7 luglio scade un termine, e quindi le elezioni si debbono fare prima del 7 luglio.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. La sua è una soddisfazione, quindi, con beneficio di inventario.

LUCIFERO. Spero, comunque, che il Governo manterrà, una volta tanto, il suo impegno.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo manterrà il suo impegno.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Benedettini, Miccolis, Cicerone, Fresa, Lagravinese Pasquale, Condorelli, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro della pubblica istruzione, «per sapere per quali motivi il Governo lasci passare intenzionalmente sotto silenzio, e nel Paese, e nelle scuole, e nelle Accademie, e alla R.A.I., e in quello che si chiama «Istituto di studi romani» una data come quella del 21 aprile, in cui cade esattamente e per la prima volta dall’unificazione d’Italia, un centenario (il 27°) della fondazione di Roma. Data che è ricordata in tutto il mondo civile e che appartiene a noi più che agli altri e che non sembra giusto passi inosservata per il solo fatto che il passato regime ne faceva notoriamente oggetto di speculazione politica. Ciò si chiede anche perché risulta che la R.A.I. ha respinto con meschini pretesti ogni tempestiva proposta a che la storica ricorrenza venisse, almeno, segnalata dalle trasmittenti romane».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione ha facoltà di rispondere.

BERNINI, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione. Premesso che, per quanto si riferisce alla mancata segnalazione da parte delle trasmittenti romane di un qualsiasi accenno alla ricorrenza centenaria della fondazione di Roma, la questione esula dalla competenza del Ministero della pubblica istruzione, in quanto, com’è noto, la R.A.I. non fa capo al Ministero stesso; e che, per quanto riguarda le Accademie in genere e l’Istituto di Studi Romani in particolare, trattasi di Enti che, pur dipendendo dal Ministero stesso, agiscono, nel campo delle iniziative del genere, indipendentemente da istruzioni ministeriali, dato il carattere di libertà accademica che loro è particolare, resta l’aspetto strettamente scolastico della questione. A tale proposito si fa presente che, esclusa la possibilità di concedere per la ricorrenza un giorno di vacanza, dato che cadevano nello stesso periodo altri giorni festivi, quali l’anniversario del 25 aprile e la festa del lavoro, si è preferito lasciare le eventuali commemorazioni della ricorrenza alle particolari iniziative dei capi di istituti e dei docenti, senza impartire alcuna esplicita istruzione al riguardo.

Per conto mio, dato che, sia pure modestamente, ho dedicato tutta la mia vita allo studio del latino e dell’antica civiltà latina, madre di tutte le civiltà, ed in particolare della nostra, credo opportuno di poter aggiungere che la libertà e la spontaneità di cui sopra, danno, a mio parere, alla commemorazione della grande data un carattere che tende a differenziarsi, nel modo più reciso, da quella che gli stessi onorevoli interroganti giudicano speculazione politica sul 21 aprile, fatta dal fascismo.

PRESIDENTE. L’onorevole Benedettini ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

BENEDETTINI. Sono dispiacente di dover dichiarare all’onorevole Sottosegretario per la pubblica istruzione che, ovviamente, non posso essere soddisfatto della sua dichiarazione perché, sorpassando pure tutte le considerazioni fatte a proposito delle accademie, della scuola, della R.A.I. alla quale, tra parentesi, mi risulta essere stata data disposizione tassativa perché non si facesse nessun cenno della ricorrenza grandiosa di cui si trattava… (Commenti a sinistra Interruzioni).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano.

BENEDETTINI. …non ritengo sia una giustificazione il fatto che il passato regime poteva fare una speculazione politica di questa data: se la ricorrenza del Natale di Roma appartiene al mondo intero, a maggior ragione appartiene a noi romani che, per la prima volta dall’unificazione d’Italia, abbiamo l’occasione di vedere ricordata qui, nel ventisettesimo centenario, questa ricorrenza.

A parte questo, prego il Governo, se effettivamente si vuole in Italia raggiungere quella pacificazione che significa superamento di tutti i preconcetti, di non permettere che considerazioni di questo genere influiscano nelle determinazioni da prendere, perché, se c’è qualche partito che cerca, con imposizioni e con azioni più o meno dirette, di minacciare lo svolgimento normale dell’attività dello Stato, ne va tenuto profondamente conto. (Commenti a sinistra).

Noi abbiamo visto e sappiamo che oggi il popolo non gradisce queste minacce; il popolo non chiede che siano fatte imposizioni di azioni dirette più o meno, con gli episodî che disgraziatamente abbiamo avuto a deplorare in questi ultimi tempi.

Bisogna riportare la libertà vera in tutti i settori… (Interruzioni a sinistra).

BENEDETTINI. …e dobbiamo volere che anche in questa Assemblea, dove non sempre si può dire quello che si pensa, o per disciplina di partito o per convenienza…

PRESIDENTE. Onorevole Benedettini, ma questo non riguarda la sua interrogazione.

BENEDETTINI. Onorevole Presidente, abbiamo avuto anche qui delle prove di ciò che dico; permetta una parola per rispondere ad alcuni colleghi dell’altra sponda. Qui abbiamo visto, quando si è discussa la questione dell’ordine del giorno dell’onorevole Rocco Gullo…

UBERTI. Che cosa c’entra questo?

BENEDETTINI …mentre ufficialmente l’Assemblea era quasi totalitariamente contraria alla proposta dell’onorevole Gullo, un voto soltanto nello scrutinio segreto ha determinato la disapprovazione dell’ordine del giorno Gullo. (Rumori Proteste a sinistra).

Questo significa che molti non hanno il coraggio di dire apertamente quello che pensano e fra quello che si dice e quello che si fa c’è evidentissimo contrasto. Noi dobbiamo permettere al popolo italiano di esprimersi liberamente al di fuori dalle imposizioni e dalle intimidazioni. Ed io credo e spero che nella prossima Assemblea legislativa venga gente che sia libera da impacci e che abbia il coraggio civile di dire liberamente quello che pensa. Questo vuole il popolo italiano. Non credo quindi che il Governo, accettando un’imposizione più o meno larvata da parte di partiti interessati, abbia fatto bene con il dare ordine che passasse sotto silenzio la data del 21 aprile.

Io mi auguro che i sentimenti di pacificazione siano effettivamente sentiti e, se la guerra civile, come è stato dichiarato… (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Ma questo non ha che fare con la sua interrogazione, onorevole Benedettini.

BENEDETTINI …come è stato dichiarato dai comunisti, e precisamente dal così detto colonnello Valerio, dovrà scoppiare, ed essi non la temono, noi diciamo altamente che tanto meno la temono gli italiani che osano amare la Patria al di sopra dei propri partiti.

Quindi mi auguro che questo sistema della paura sia abbandonato. Noi non abbiamo paura di nessuno. Noi dobbiamo riportarci all’amore e non all’odio, perché gli italiani sono stufi di guerre, di vendette, di sangue, di azioni violente. L’Italia si ricostituirà quando un fronte nazionale unirà tutti gli italiani in amore ed accordo, al di fuori di tutte queste imposizioni che oggi vengono a sfasare anche le cose più belle, come poteva essere quella della ricorrenza del Natale di Roma, al di fuori e al di sopra di ogni questione politica.

PRESIDENTE. È così trascorso il tempo assegnato alle interrogazioni.

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta a d’urgenza:

«Al Ministro dell’interno, per sapere se e quali responsabilità siano state accertate nella gestione dell’amministrazione dell’ospedale «San Carlo» a Potenza di cui sono state clamorosamente denunziate le irregolarità da un suicidio, dall’arresto del direttore amministrativo, da ammanchi per milioni; se non creda urgente, improrogabile, rimuovere l’avvocato Pagliuca dal posto di presidente del Consiglio d’amministrazione, già commissario per oltre tre anni, su cui ricade, con ogni certezza, almeno la responsabilità morale di gravi irregolarità e di rimuoverlo da Presidente della deputazione, che illegittimamente detiene in dispregio della volontà popolare che ha battuto il Pagliuca, prima nelle elezioni amministrative nel proprio mandamento e successivamente nelle elezioni politiche in tutta la regione.

«Reale Vito».

«Al Governo, per sapere in quali modo e con quali mezzi, intenda aiutare il professor Guarnieri affinché la fabbricazione e lo sfruttamento del farmaco anticancerogeno «F A 2» vengano assicurati all’Italia e sottratti, quindi, alla speculazione di gruppi affaristici stranieri.

«Morini, Paris».

«Al Ministro dei trasporti, per conoscere il perché del mancato, promesso miglioramento delle comunicazioni ferroviarie tra la Capitale e le Puglie a partire dal 4 maggio corrente; e se il risentimento di quelle popolazioni meridionali trovi giustificazione nella ormai superata disparità di trattamento fra Nord e Sud.

«Miccolis, Rodi, Perrone Capano, Cicerone, Recca, Reale Vito, Colitto, Caccuri».

«Al Ministro della difesa, per sapere quali provvedimenti intenda prendere onde eliminare la situazione anormale ed insostenibile che si è creata a Siena, in seguito al persistente e non giustificato atteggiamento del comandante di territorio di Firenze generale De Simone, il quale si oppone alla rimozione dei poligoni di tiro di Pescaia, situati nell’abitato della città, costituenti continui pericoli, disturbi e malcontento nei cittadini e rendendo tesi i rapporti tra la popolazione e il nuovo esercito repubblicano italiano. Tali poligoni possono agevolmente essere trasferiti nei poligoni di Petruccio, Montarioso e Pieze al Bozzone, distanti pochi chilometri di ottime strade. La opposizione del generale De Simone è quanto mai inopportuna, in quanto sembrava che lo stesso Ministero della difesa avesse nel passato riconosciuto giustificate le lamentele del pubblico, ed avesse deciso la rimozione dei poligoni, e tutte le altre autorità italiane ed alleate, civili e militari, si sono espresse in più occasioni favorevolmente ai desideri della popolazione.

«Monticelli».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

BERNINI, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione. Il Governo si riserva di far conoscere quando potrà rispondere a queste interrogazioni.

COLONNETTI Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLONNETTI Nella seduta dell’11 aprile ho presentato un’interrogazione al Ministro della pubblica istruzione riguardante i professori universitari, che poneva un problema, parallelo a quello dei magistrati, che in quella seduta era stato discusso dal Sottosegretario Umberto Merlin.

Oggi si è parlato dei magistrati, ma di questa questione dei professori universitari non si è fatto cenno e io non ho avuto alcuna risposta.

Faccio istanza a lei, signor Presidente, perché a quell’interrogazione sia riconosciuto il carattere d’urgenza ed al Sottosegretario per l’istruzione perché, d’accordo col Ministro, voglia farla inserire nell’ordine del giorno della prossima seduta.

BERNINI, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione. Io credo che il Ministro non avrà nulla in contrario perché a questa interrogazione sia riconosciuto il carattere di urgenza.

MICCOLIS. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICCOLIS. C’è un volume di interrogazioni, alcune delle quali sono da considerare anche urgenti e alcune delle quali sono datate fin dal luglio scorso. Io mi azzarderei a proporre che i Ministri competenti vogliano rispondere almeno per iscritto.

PRESIDENTE. Onorevole Miccolis, si possono segnalare quelle ritenute urgenti perché siano iscritte all’ordine del giorno. Le faccio rilevare che nella seduta di stamane ne abbiamo esaurito un notevole numero. Comunque le interrogazioni possono essere ripresentate con richiesta di risposta scritta.

COCCIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COCCIA. Ho presentato da tempo al Presidente del Consiglio e al Ministro del tesoro una interpellanza.

PRESIDENTE. Avverto che una prossima seduta sarà interamente dedicata allo svolgimento delle interpellanze.

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Ho presentato una interrogazione, con richiesta d’urgenza, relativa alla liquidazione delle pensioni di guerra.

PRESIDENTE. In questa materia sono state presentate varie interrogazioni, che saranno raggruppate e poste all’ordine del giorno di una prossima seduta.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Il Governo è pronto a rispondere, nella seduta che sarà fissata per lo svolgimento delle interrogazioni.

CIANCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIANCA. Anch’io ho presentato, con l’onorevole Calamandrei, una interrogazione riguardante i professori universitari. Rivolgerei preghiera all’onorevole Presidenza di volerla considerare urgente.

PRESIDENTE. L’onorevole Colonnetti ha già sottolineato l’urgenza di questo argomento.

BERNINI, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione. Il Governo è pronto a rispondere e attende che l’interrogazione sia posta all’ordine del giorno.

MORINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORINI. Chiedo al Ministro dell’interno quando intende rispondere ad una interrogazione relativa alla «Sisal», dato che tanti milioni ogni settimana invece di andare al «Coni» vanno a detta società.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Risponderò appena l’interrogazione sarà inscritta all’ordine del giorno. C’è un provvedimento legislativo in materia.

La seduta termina alle 12.50.

POMERIDIANA DI SABATO 3 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CIX.

SEDUTA POMERIDIANA DI SABATO 3 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

 

INDICE

Sul processo verbale:

Scalfaro                                                                                                          

Presidente                                                                                                        

Romano                                                                                                            

Caccuri                                                                                                            

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Per il ritorno di Maria Montessori:

De Unterrichter Maria                                                                                  

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Malvestiti                                                                                                       

Cortese                                                                                                            

Colitto                                                                                                             

Maffioli                                                                                                           

Guidi Cingolani Angela Maria                                                                      

Quintieri Quinto                                                                                             

Federici Maria                                                                                                 

Fanfani                                                                                                             

Gabrieli                                                                                                            

Zotta                                                                                                                

Macrelli                                                                                                          

Dominedò                                                                                                         

Sulle modificazioni al Regolamento:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Camposarcuno                                                                                                 

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

SCALFARO. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. A proposito di che?

SCALFARO. Non è per fare una protesta, ma solo per una precisazione come magistrato. Desidero dire due parole soltanto, molto serene e molto oggettive. Non ho alcuna intenzione di fare la benché minima speculazione.

PRESIDENTE. Ne siamo convinti, anche senza questa sua assicurazione; ma ci sono delle cose lecite ed oneste che tuttavia devono aver luogo nella loro sede. Onorevole Scalfaro, in sede di processo verbale lei può chiedere di parlare per fatto personale, cioè quando la sua persona sia stata chiamata in causa. Io so a che cosa ella si riferisce e le parole che vorrebbe dire. Penso che nella discussione sopra il Titolo della Costituzione dedicato alla magistratura da ogni banco dell’Assemblea si leveranno parole che riconosceranno la dignità della magistratura; ma penso anche che né questo sia il momento né questa la sede.

SCALFARO. Io mi inchino di fronte alla dichiarazione e alla volontà del Presidente dell’Assemblea. Ma c’è il fatto personale; sono magistrato. Io chiedo a lei che voglia intendermi; seppur tanto giovane, sono magistrato, e posso trarre a volte qualche minima o grave sofferenza per degli atteggiamenti di questa Assemblea. Se mi si consente di farmene eco, le ripeto, lo farò nel modo più sereno, più leale, più oggettivo possibile.

Qualche settimana addietro in quest’aula, da ogni settore, sono sorte voci di consenso dinanzi a quella che è stata chiamata la sofferenza economica della magistratura, e se ne sono alzate altre in omaggio a quella che è l’onestà, la dignità, la dirittura nell’altezza delle funzioni della magistratura italiana. Ieri, nell’eccitazione – forse giustificata – degli animi, qualche parola non è stata bene intesa o non è stata bene interpretata e può avere determinato un applauso. Qualche accenno, qualche parola o qualche atteggiamento dell’Assemblea potrebbe sembrare – mi si passi il termine – un voto di sfiducia nella magistratura italiana.

Io sono certo, e le dichiarazioni di qualche settimana fa, cui ho fatto cenno, ne sono la prova migliore, che questo non è il voto che esce dall’animo di alcuno dei deputati, dall’estrema sinistra, all’estrema destra.

Da pochi anni io porto una toga che mi ha insegnato a intendere attraverso le mie familiari sofferenze, le sofferenze di tanti miei fratelli detenuti, processati, condannati; ed ho avuto la ventura, la cristiana ventura, di accompagnare più d’uno a cadere sotto il piombo della fucilazione per esecuzione di sentenza di corte d’Assise.

Ma mi si consenta di dire che tutti i colleghi che ho conosciuti, a qualsiasi ideologia essi credessero, iscritti o non a partiti politici, io li ho sempre visti al di sopra di tutto e innanzitutto magistrati, al servizio di questo grande ideale di giustizia! E così li videro coloro che attendevano da essi giustizia, o dalla loro giustizia, pur nei termini più dolorosi, erano stati colpiti

A costoro potrebbe andare forse un qualsiasi voto di sfiducia di questa Assemblea?

Per questo io mi permetto di chiedere che da quest’aula sorga una voce che sia di riconoscimento a tanto lavoro fecondo, a tanto immane sacrificio, a questa ricerca diuturna di verità, nella sofferenza di una coscienza che cerca affannosamente la verità, che intende un dolore, una passione, che tende all’affermazione vera, reale e profonda della giustizia.

Per questo io chiedo che questo grido si alzi a conforto di tanti magistrati. Ah!, ve ne sono, non sarò io a difendere i magistrati, che non meritino difesa; vi sono magistrati, che possono essere attaccati, criticati, giudicati forse. Ma dover nostro è circoscrivere, delimitare, mai generalizzare.

Di questo, sono certo, tutti mi daranno atto con quella generosa comprensione, con la quale mi si è dato atto, quando altra volta ho parlato sul problema economico della magistratura.

Che se alla base della democrazia due colonne stanno, entrambi salde, la libertà e la giustizia, la prima trova anzitutto difesa in questo Parlamento, la giustizia ha da trovare difesa nello sforzo quotidiano d’una magistratura onesta, ma libera.

Questo è l’augurio che esce dall’ultimo dei magistrati.

Se ho detto questo, signor Presidente, onorevoli colleghi, io non credo di averlo detto per difendere la magistratura, mi si passi, non è atto di superbia; l’ho detto, certo, per difendere un principio di democrazia, che è quanto dire difendere, indegnamente sì, ma difendere l’Italia. (Applausi).

ROMANO. Chiedo di parlare sullo stesso argomento.

PRESIDENTE. Per un dovere morale ho dato la parola al nostro collega onorevole Scalfaro; ma avevo sottolineato che questa non era la sede per riprendere una discussione, che avrà al suo momento la sua ampiezza.

D’altra parte, se ogni gruppo organizzato della nostra società nazionale, nel momento in cui è posto in causa in una discussione politica della nostra Assemblea, dovesse o potesse prendere posizione, direttamente, attraverso la sua rappresentanza parlamentare, il carattere della discussione e la funzione stessa dell’Assemblea sarebbero alterate.

Ritengo, per questo, che la dichiarazione dell’onorevole Scalfaro risponda sufficientemente all’esigenza che anche lei avverte, e penso che non sia il caso di aggiungere altre parole sullo stesso argomento.

ROMANO. Mi associo all’onorevole Scalfaro.

CACCURI. Anch’io mi associo.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati Rossi Paolo e Mastino Pietro.

(Sono concessi).

Per il ritorno in Italia di Maria Montessori.

DE UNTERRICHTER MARIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE UNTERRICHTER MARIA. Onorevoli colleghi, in quest’ora, in cui l’Italia tenta il suo massimo sforzo per rivivere nella libertà e nella pace, torna fra noi Maria Montessori.

Dal mondo, dove ha portato una favilla del genio italiano, dove in molti Paesi di tutti i continenti ha divulgato in scuole e società di studio il suo metodo ed il suo pensiero, questa donna ritorna alla sua terra.

Già altra volta si parlò di lei da questi banchi, quando il 7 marzo 1916 l’onorevole Bertolini illustrava alla Camera italiana «le discussioni, i plausi e le applicazioni assai numerose e autorevoli che stava ottenendo all’estero questa riforma prettamente italiana» e ne auspicava l’introduzione nella scuola italiana per l’elevazione non solo intellettuale, ma morale e fisica delle nuove generazioni.

Anche il fascismo un giorno, con abile speculazione d’imperio, riconobbe quale forza fosse Maria Montessori, ambasciatrice geniale di civiltà umana e italiana.

Ma come nella Germania di Hitler, così nell’Italia schiava, un metodo educativo, che ha per base lo sviluppo armonico della personalità umana nella libertà, non aveva senso, costituiva anzi un focolare d’infezione che conveniva energicamente sopprimere. Di questo il fascismo si accorse presto.

Maria Montessori riprese la via dell’esilio e in Italia le sue opere morirono lentamente private di respiro.

Il Governo di un’Italia libera la richiama oggi nel suo Paese, perché aiuti nell’opera di rinnovamento della nostra gioventù e della nostra scuola: dà così a questa donna, che è medico ed educatore, la possibilità di chinarsi sui nostri dolori e di aiutarci attivamente a sanarli: di questo, a nome dei bimbi d’Italia, che noi pure pensiamo di rappresentare qui dentro, esprimiamo al Governo ed al Ministero della pubblica istruzione viva gratitudine.

Maria Montessori è per noi donne italiane anche una geniale guida nei nostri nuovi compiti politici.

Chi non avesse troppa fiducia nell’attiva collaborazione della donna alla vita sociale, guardi a questa donna.

Essa rivolge i suoi occhi pensosi di giovane scienziata al fanciullo e riconosce in questa meravigliosa creatura di Dio la leva su cui ricostruire il mondo.

Parte libera alla ricerca di umane verità, senza asservirsi a preconcetti, a fazioni, a pregiudizi sociali, e arriva a scoprire che il bambino racchiude in sé stesso un segreto di vita, capace di far sollevare un velo sui misteri dell’anima umana.

Maria Montessori è una donna isolata che parla, che forse interpreta genialmente quello che altri prima di lei hanno preparato e pensato, ma il suo metodo, anche se qualche volta combattuto, trova in ogni continente, in ogni razza umana, dei seguaci attivi ed entusiasti. Segno evidente che, nelle sue linee essenziali, si basa su quel filone di verità naturali che collegano tutti gli uomini.

Questa donna italiana è stata capace di polarizzare attorno al suo nome l’interesse del mondo con la sola forza di una vita genialmente spesa nel lavoro e nella ricerca, in un campo, come quello educativo, in cui la donna è particolarmente chiamata ad operare.

Non è questa una testimonianza felice delle possibilità di azione della donna italiana?

Attenta osservatrice degli orientamenti e sviluppi della società, Maria Montessori concilia nella sua dottrina e nella sua opera la libertà individuale e i doveri della vita sociale che sono comuni a ogni essere umano.

Su questo sviluppo integrale dell’uomo essa fonda la sua indefessa opera per la pace del mondo.

Molto si parla di pace in quest’ora nei congressi femminili internazionali di ogni tendenza politica.

Anche noi abbiamo una ferma fiducia nell’opera che la donna con pieni diritti politici potrà – purtroppo non sempre a breve scadenza – ma tuttavia sempre efficacemente svolgere a favore della pace.

Ma poche donne, forse nessuna, abbiamo sentito affrontare il problema della pace del mondo con occhio limpido, abituato all’indagine scientifica e con cuore di donna, illuminato dall’amore, come Maria Montessori.

Hanno le sue parole scritte prima dell’attuale conflitto un sapore di profezia: la guerra – diceva Maria Montessori – non può portare più nessuna utilità materiale.

Infatti noi abbiamo già visto nella guerra mondiale – ed era la prima – che i vincitori non si sono sentiti rinforzati e beneficati dalla vittoria come avveniva nei tempi passati per le nazioni vincitrici: ma un fenomeno tutto nuovo si è verificato. I popoli vinti sono diventati un pericolo, un peso, un ostacolo per i vincitori, i quali si sono dovuti occupare per rialzare i vinti, per aiutarli. In quanto un popolo di vinti è oggi una malattia per l’umanità intera.

Queste verità, che Maria Montessori ha indagate e divulgate con le sue conferenze e la sua azione, noi ora le viviamo in una realtà dura.

A lei, che ricostruendo l’uomo nel bimbo ha già attivamente concorso a creare una pietra angolare per la pace del mondo, va in questo momento anche il saluto della Costituente italiana, dove, ridando alla nostra Patria un volto di vera democrazia, si riedifica per il nostro popolo una vita più umana e più buona. (Applausi al centro).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: «Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana».

In attesa che la Giunta del Regolamento presenti le sue proposte all’Assemblea, in merito al futuro svolgimento dei lavori, iniziamo l’esame del Titolo terzo, secondo le norme che abbiamo seguito per l’esame dei titoli precedenti del progetto.

Apro la discussione generale sul Titolo terzo: «Rapporti economici».

Il primo iscritto a parlare è l’onorevole Malvestiti. Ne ha facoltà.

MALVESTITI. Onorevoli colleghi, non è ormai una affermazione peregrina dire che il terzo Titolo del progetto di Costituzione, che tratta dei rapporti economici, ne è la parte più nuova, più moderna, direi addirittura più rivoluzionaria, senza paura della definizione, perché sono le cose che importano e non i nomi delle cose.

E poi, se è vero che le Costituzioni nascono nei momenti drammatici della vita dei popoli, vuol dire anche che risolvono una soluzione di continuità, che gettano un ponte fra un passato, davanti al quale si è aperta una voragine, e un avvenire che già urge coi suoi palpiti di luce.

Davanti alle Costituzioni dell’Ottocento l’uomo del nostro tempo si pone alcuni interrogativi, che sono un grande e tragico processo a tutta una civiltà. Con un enorme stupore egli si chiede come è potuto avvenire che le grandi parole di libertà, di uguaglianza, di fraternità, riecheggiate nelle aule più solenni, promesse dalla labbra più degne, garantite dalla più sicura volontà, santificata con una così vasta testimonianza di sangue, non abbiano risparmiato all’Europa e al mondo – non abbiamo risparmiato all’uomo – l’orrore, la contradizione, l’infamia della prima e della seconda guerra europea: e come necessitino di essere ancora proclamate e difese come preziosi, ma fragilissimi beni.

Domande alle quali noi stessi stiamo dando una risposta concreta e costruttiva con questa nostra Costituzione, che dovrà dire sino a che punto la nostra critica è stata severa, onesta, disinteressata: se abbiamo avuto il coraggio della diagnosi e se abbiamo il coraggio della cura.

E mi permetta qui di ricordare che molto grave è stata l’accusa mossa dall’onorevole Togliatti nella seduta dell’11 marzo, proprio a proposito del Titolo che stiamo esaminando, quando non ha temuto di dire che si è talvolta seguito il metodo del compromesso deteriore, lavorando non più sulle idee e sui principî, ma sulle parole, togliendo una parola per metterne un’altra la quale direbbe approssimativamente lo stesso, ma fa meno paura, oppure può essere interpretata in un altro modo: sostituendo, insomma, la confusione alla chiarezza. «Tutti gli articoli relativi ai diritti sociali – ha detto testualmente l’onorevole Togliatti – sono stati rielaborati con questo deteriore spirito di compromesso verbale».

Io non so sino a che punto tutto questo risponda alla più precisa verità – perché v’è anche un metodo di solliciter doucement les textes che forse l’onorevole Togliatti non ignora –; ma so che v’è almeno una condizione alla quale dobbiamo obbedire, se siamo degli uomini politici cui il Paese ha affidato un grande compito; se siamo dei galantuomini: ed è di sapere che cosa vogliamo.

Su una constatazione noi dobbiamo almeno essere d’accordo: che il divorzio fra politica ed economia è assurdo: che il sistema economico deve creare le condizioni di possibilità di esercizio della libertà politica; che le prerogative individuali sono illusorie per chi non è in grado di risolvere il problema del pane quotidiano.

Processo al capitalismo? Direi qualche cosa di più direi processo ad una libertà che della vera libertà non aveva che un volto menzognero, perché aveva soltanto garantito la libera sopraffazione gabellata per libera concorrenza; lo sfruttamento tra le classi e tra i popoli; l’insopportabile costo umano della produzione; il caos dei prezzi.

Ora, si può, sia pure benevolmente, sorridere del candido richiamo del nostro La Pira al carattere cristiano della nostra Costituzione; ma non si deve dimenticare che il processo al liberalismo, alla sua filosofia e alle sue origini storiche – il processo che noi stessi stiamo facendo e che dobbiamo portare fino in fondo – è stato inventato alcuni secoli or sono – dai giorni stessi di Lutero – dalla Chiesa cattolica.

E permettetemi anche di dire che si capirà poco della Democrazia cristiana – il che potrebbe non essere un gran male – ma si capirà ancor meno del nostro tempo – il che, più ancora che un delitto, è un errore – se non ci si renderà conto che la democrazia cristiana in tutto il mondo, forte delle sue tradizioni e della sua dottrina sociale, non ritiene affatto che non si debba tentare di raddrizzare l’ingiustizia sociale con altri mezzi che non siano la carità e rifiuta nel modo più sicuro, più perentorio, più impegnativo, di essere l’estremo baluardo del privilegio economico.

Dunque, prima di tutto, il processo alla falsa libertà – dico, a ragion veduta, falsa più che incompleta – e il processo al feudalesimo economico che garantisce il carattere beneficamente e pacificamente rivoluzionario della nostra Carta costituzionale.

Quali sono gli aspetti basilari del capitalismo? L’appropriazione privata dei mezzi di produzione, la concorrenza e la ricerca del profitto.

L’economia politica apriva ad alcune conclusioni universali: che l’utilità marginale determina l’impiego più economico dei beni e dello stesso lavoro, e che in un’economia di mercato i prezzi rappresentano il vero valore: delle cose e dei servizi.

Da queste premesse alla conclusione che, dunque, il processo di distribuzione e di ripartizione risulta equo, il passo è sin troppo breve.

Gli economisti non contestano che il profitto sorge dalla potenza produttiva del lavoro, ma affermano che la ripartizione non è un aspetto della produzione.

Vi è un grosso equivoco all’origine filosofica delle loro ricerche, ed è quel loro credere all’ordine naturale delle cose, quel giurare sulla «natura» ignorandone il Creatore e l’Ordinatore, e i suoi moniti e le sue leggi. Quando si troveranno alle prese coi moralisti, essi ripeteranno sempre con mite, ma invincibile ostinazione, il loro «eppur si muove». Partiti da alcune affrettate ipotesi, arrivano rapidamente a constatazioni d’uniformità che sono confortate dall’esperienza; queste constatazioni di uniformità sono leggi; queste leggi sono dunque della natura. Lo stesso Marx, che pur pretende di postulare un elemento di giustizia assolutamente estraneo alle sue premesse filosofiche, non riesce a liberarsi dal feticismo del fatto: è l’economia a schiavi che genera una certa religione, una certa morale, un certo diritto, una certa politica; non sono la religione, la morale, il diritto, la politica che determinano o che trasformano alla radice la economia a schiavi. Primum purgari gridano gli economisti; la vostra legge morale ha torto se il fatto le dà torto; in ogni caso è un elemento estraneo, disturbatore. Non vedono che la legge economica è dell’uomo e che, se l’uomo tende sempre più ad assomigliare al brutale manichino dell’egoismo – l’homo oeconomicus – teorizzato ed isolato dalle necessità dell’indagine; se le deduzioni teoretiche sono confortate dall’esperienza, ciò vuol soltanto dire che questa esperienza si riferisce a un mondo – il nostro mondo – completamente sradicato dalla sua matrice cristiana. Soltanto, o quasi soltanto, lo Stuart Mill, fra gli economisti liberali, si avvede che almeno le leggi della distribuzione sono dovute in parte alle istituzioni degli uomini, ed avverte che i lavoratori non sarebbero disposti a consentire più a lungo a spaccare legna e ad attingere acqua per il servizio, e beneficio di altri, e che sarebbero «via via meno disposti a cooperare come agenti subordinati in un qualsiasi lavoro, il cui risultato non li interessi». Vero è che gli economisti moderni ed in modo vivacissimo il Pareto, rifuggono dalla precettistica, affermando che soltanto i fatti e le loro relazioni interessano la scienza.

Il Del Vecchio, autentica tempra di studioso, butterà addirittura a mare le «premesse arbitrarie», come necessarie ai sistemi elementari; si insegna apoditticamente ai fanciulli che il calore dilata i corpi: «quando si passa allo studio superiore della fisica si dice che esiste un certo rapporto fra il calore e la dilatazione e si determina questo effetto, mentre negli elementari non avviene». Ancora il Del Vecchio ricorda che, mentre «la storia economica pareva limitata a confermare la teoria oppure costretta a negarla», nei nuovi economisti «il dato fondamentale (è) che il fatto studiato nell’economia è il fatto storico e che il mezzo per studiarlo è appunto la teoria costruita in modo conforme a questa natura dell’oggetto studiato». Non vi è scienza economica se non là dove sia «raggiunto il contatto immediato della realtà concreta coi nostri strumenti d’osservazione: strumenti che, dall’analisi statistica all’induzione matematica, permettono la rappresentazione dell’equilibrio generale e la fissazione di «costanti verificate sperimentalmente dentro certi limiti e costituite da combinazione di movimenti secolari, ciclici e minori (Del Vecchio)». Siamo alla dinamica economica, alla determinazione statistica di certe tendenze «prescindendo da ogni presupposto psicologico ed astratto».

La scienza ha dunque enormemente camminato, ma rapidamente, molto più rapidamente ha camminato la vita. La vita è andata ben oltre le previsioni degli economisti, e se lo stesso Pareto ha «seguito la via dell’analogia con le scienze delle religioni, del linguaggio, della politica, ed ha costruito una dinamica sociale e non economica, integrando la teoria statica dell’economia con quella dinamica della sociologia (Del Vecchio)», non è forse tanto perché al punto in cui era arrivato gli mancassero gli strumenti di osservazione o gli facesse difetto l’impeto dell’ingegno, quanto perché ha probabilmente avvertito che la ricerca aveva proprio con lui esaurito un ciclo e che altre influenze, altri rapporti andavano cercati, definiti, misurati.

Si avvertiva ormai una certa vischiosità della ricerca nei confronti del fenomeno completo: la brama insaziata dell’uomo moderno ha fatto saltare tutte le antiche ipotesi ed ha posto la scienza in flagrante e costante delitto di ritardo: quanto meno l’ha costretta ad ammutolire, a distinguersi troppo radicalmente dalla politica economica, a chiudersi in una orgogliosa verginità speculativa, a ripetere la desolata constatazione che, in una famosa polemica con l’Agnelli, faceva più di dieci anni or sono il senatore Einaudi: che cioè a tutt’altri che agli economisti era ormai dato di additare una mèta e di dire agli uomini una parola di vita. Ma esaminiamo ciò da vicino.

Al centro del sistema era, premessa fondamentale e necessaria, il principio della concorrenza. L’optimum sociale, e quindi, in definitiva la giustificazione dell’individualismo economico, derivava soprattutto da ciò, che l’automatismo della concorrenza eguaglia il saggio del profitto e tende a ridurlo al punto di coincidenza col costo di produzione.

Il famoso Sherman Anti-Trust Act del 1890 era un prodotto legislativo tipico altrettanto dell’universalità di una opinione che la scienza difendeva e propagandava con zelo instancabile, quanto di quella vischiosità, di quel ritardo della scienza stessa sul fatto concreto che mi sono permesso di segnalare. Si combatte il sindacato industriale perché si crede, non senza ragione, che questo complesso economico alteri in modo fortemente sensibile la curva dell’offerta e della domanda: ma ciò non toglie che proprio l’America sia diventata la patria classica dei cartelli, dei trust, delle holding. Davanti al fatto, innegabile ed indomabile, la scienza comincia a chiedersi se la formazione del prezzo in regime di coalizione è un’ipotesi eccezionale rispetto alla libera concorrenza (Barone); trova che il trust riduce il costo di produzione, ma deve pur accorgersi che lucra a proprio profitto tal risparmio, non solo, ma che comunque i ribassi di prezzo sono inferiori a quelli che si avrebbero con la concorrenza: una spiegazione sodisfacente non è data che dall’esame dell’incidenza del progresso tecnico nel processo produttivo.

La prevalenza del capitale fisso sul capitale circolante priva le imprese di elasticità e di capacità di adattamento; rende sempre più difficile il trasferimento di capitali fissi da un’impresa all’altra: quindi l’associazione per la difesa del profitto. Sembra, ad uno sguardo superficiale, che il trust possa con maggiore consapevolezza studiare il mercato e quindi adattare la produzione al consumo ed evitare o almeno attenuare le crisi; errore: le crisi si manifestano con maggiore ampiezza proprio nei paesi controllati dai trust. Si è osservato che proprio le imprese meglio attrezzate tecnicamente resistono meno bene alla crisi: le troppo pesanti quote di ammortamento e di spese generali, dovute ai costosissimi impianti, impediscono un ribasso sensibile del prezzo unitario dei prodotti, mentre d’altra parte questo stesso ribasso non incontrerebbe un potere di acquisto adeguato. La durata delle crisi verrebbe aggravata non solo dalle incompressibilità dei costi, ma altresì dal pauroso depauperamento delle masse. Un’immagine impressionante è data dal Cailleaux: cinque operai farebbero oggi il lavoro di quattromila nel 1865, all’epoca del traforo del canale di Suez. Si sostituiscono, insomma, con progressione geometrica, dei dividendi dei salari: i dividendi cercano a loro volta un impiego immediato proprio di quei beni strumentali a fecondità ripetuta, il cui intervento nelle crisi ha costituito l’oggetto degli studi più recenti. Che le crisi siano in parte dovute all’esuberanza di capitali disponibili, ribelli alla discesa del profitto, non mi sembra una opinione arbitraria del Supino. Ed eccoci al temibile riflesso sociale di questo malessere economico.

Noi ci incamminiamo rapidamente verso una società in cui, a un piccolo e sempre più riducentesi numero di produttori – capitalisti, impresari, tecnici, operai specializzati – si contrappone una sterminata falange di assistiti, veri uccelli cacciati dal nido, le cui possibilità di sostentamento sono più aleatorie di quelle delle rondini. «Nel campo economico e morale – scrive d’altra parte il Pirou – il capitalismo, odierno ha meno titoli di legittimità che non il capitalismo al quale ha succeduto. La convergenza della sua attività con l’interesse generale è più che dubbia, perché esso vive del monopolio e dello sfruttamento del consumatore, reso possibile da questo monopolio». Il valore tecnico dei suoi dirigenti non è meno dubbio, perché essi sono piuttosto finanzieri che tecnici e mirano più al guadagno della speculazione, che agli utili industriali. Ma c’è qualcosa di più grave ancora: ed è l’enorme potere di corruzione del capitalismo moderno, che rende oltremodo pericolosa la sua invadenza politica. Il dumping – dovuto alla compiacenza del potere politico – è una sopra-rendita pagata ai consumatori stranieri, parte da quelli nazionali, parte dai contribuenti: lo si giustifica dicendo che questa sopra-rendita verrà restituita dal consumatore straniero sotto forma di sopra-profitti di monopolio, non appena l’imposizione del prodotto al suo mercato non sarà più minacciata dalla concorrenza locale. Ma, anche ammessa l’ipotesi, questa restituzione non avverrà ai consumatori ed ai contribuenti, bensì a coloro che controllano il trust, e che saranno tentati di ripetere il giuoco in sempre più vasta scala.

L’economia diventa, insomma, insaziabile ed aggressiva; man mano che i mercati vengono a chiudersi o a saturarsi, il capitalismo chiede allo Stato di eliminare la concorrenza straniera, agita il problema delle colonie: la teoria dello «spazio vitale» diventa una teoria popolare ed una norma di governo: con quali promesse di bancarotta, con quali prospettive di rovine e di orrori noi sappiamo per diretta e troppo dolorosa esperienza.

Permettetemi di trovare la conferma di tutto ciò in una pagina che resterà fra le più lucide ed impressionanti della storiografia economica: voglio dire della testimonianza augusta ed insospettabile della Quadragesimo Anno di Pio XI: «Ai nostri tempi non vi ha solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza della economia in mano di pochi e questi sovente neppur proprietari, ma solo depositari ed amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento.

«Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il denaro, agiscono da padroni, dominano il credito e padroneggiano i prestiti: onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, ed hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia: sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare.

«Una tale concentrazione di forze e di potere, che è quasi la nota specifica dell’economia contemporanea, è il frutto naturale di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti, cioè, spesso, i più violenti della lotta e i meno curanti della coscienza.

«A sua volta poi la concentrazione stessa di ricchezza e di potenza genera tre specie di lotta per il predominio: dapprima si combatte per la prevalenza economica; di poi si contrasta accanitamente per il predominio sul potere politico, per valersi delle sue forze, della sua influenza nelle competizioni economiche; infine si lotta fra gli stessi Stati, e perché le Nazioni adoperano le loro forze e la potenza politica a promuovere i vantaggi economici dei propri cittadini e perché applicano il potere e le forze economiche a troncare le questioni politiche sorte tra le Nazioni… La libera concorrenza, cioè, si è da se stessa distrutta: alla libertà del mercato è subentrata l’egemonia economica: alla bramosia del lucro è seguita la sfrenata cupidigia del predominio e tutta l’economia è così divenuta orribilmente dura, inesorabile, crudele».

Intanto, la stessa classe capitalistica ha del tutto cambiato di composizione e di struttura: e ciò darebbe ragione alla teoria della circolazione delle élites, se la nuova élite non meritasse piuttosto una diversa denominazione.

Non più il cavaliere dalla «triste figura» e non più quella generazione di autentici ed infaticabili conquistatori che sono stati i creatori dell’industria moderna.

Fondare un’industria, lanciare un prodotto, conquistare un mercato voleva dire, sin verso la fine del secolo scorso, impegnare le proprie ricchezze, la propria vita, il proprio onore, oso dire, oltre ogni limite umano. V’era in ciò tutta l’ansia e tutta l’ebbrezza, ma anche tutta l’immane fatica e tutto il pericolo dell’avventura. La nuova filosofia, le nuove libertà civili e politiche dicevano ad ogni uomo che egli poteva costruirsi la propria vita, scegliersi il proprio cammino senza limiti di orizzonti e di frontiere. Il grido «avanti! più in alto!» risuona per tutto il secolo e trova un’eco in ogni cuore.

«Di che lacrime grondi e di che sangue» questo benessere che aveva completamente trasformato lo standard di vita dell’uomo del nostro tempo, quali atonie spirituali, quali abdicazioni morali, quali crudeltà abbia trascinato e trascini con sé non è qui compito mio di indagare. Basti un accenno all’immensa opera di carità che è fiorita per tutto il secolo, agli eroismi di devozione e di fraternità cristiana che il secolo ha veduto per far meditare sui rottami umani che la civiltà moderna ha sino a ieri abbandonato lungo la sua strada. Certo, il capitalismo trova un suo titolo d’orgoglio in un dato che non teme smentita: la popolazione europea è cresciuta da 188 milioni alla fine del ’700 a 516,7 milioni alla vigilia di questa guerra (1937).

Ma, come ho detto, la seconda fase del capitalismo ci presenta un élite che è completamente diversa da quella ormai cacciata di nido.

Gli elementi del profitto, che è un reddito misto di interessi sui capitali, di premio per il rischio e di compenso per il lavoro di direzione, si scompongono anche socialmente in categorie che personificano le diverse funzioni.

Il singolo che impiega i propri capitali, sopporta tutti i rischi e dirige personalmente l’azienda, appartiene ormai all’età delle caverne del capitalismo. Nasce in un secondo tempo la figura dell’imprenditore, che prende a prestito i capitali, si assicura contro certi rischi e guida direttamente la gestione. In un terzo tempo, le grandi aziende sono assunte in misura sempre maggiore da società per azioni e da altri organismi collettivi. L’azionista non sa dell’azienda se non che, una volta all’anno, potrà partecipare a un’assemblea e staccare dalle proprie azioni una cedola di dividendo. Sa anche, o almeno sapeva, che troppo spesso le azioni gli venivano rimborsate e sostituite, con le così dette «azioni di godimento»: lo spettacolo di queste azioni, scrive il Gide, che sono rimborsate e che continuano pertanto a toucher, che sono morte ma che mangiano sempre di buon appetito, ha fortemente preoccupato i giuristi. A quale titolo, si domanda l’insigne economista francese, queste azioni reclamano la loro parte di profitto?

Vero è che l’impresa è però retta e rappresentata da un consiglio di amministrazione: ma si ingannerebbe a partito chi pensasse che in questi consigli entrino normalmente dei tecnici. Sono soprattutto dei finanzieri, espertissimi nelle vaste manipolazioni azionarie, con larghi e spesso oscuri contatti col mondo politico e giornalistico: uomini colti, sagaci, dal vigile istinto ferino. Si deve a loro il sistema delle holding e la pratica eliminazione della concorrenza. È questo capitalismo che chiede allo Stato di imporre dazi protettivi per lucrare la rendita differenziale fra il prezzo della concorrenza straniera e il proprio; che si appropria dei guadagni nei periodi di prosperità, tentando di rigettare sulla collettività le perdite quando sopraggiungono i momenti sfortunati; che postula il sistema dei contingentamenti; che piega al proprio interesse persino certe manifestazioni dell’economia programmatica sorte per combatterle, almeno a parole, come il corporativismo fascista; che, infine, con la scusa di sfuggire alla pressione fiscale, riesce ad alleggerire il portafoglio degli stessi azionisti dell’impresa. «In realtà la miglior parte degli utili – scrive Gaetan Pirou – con la gestione effettiva degli affari, ha cessato di appartenere alla collettività degli azionisti… Sono stati adoperati dei procedimenti nuovi, che nascondono una parte notevole degli utili in poste oscure o la disseminano fra le filiali; dirette dagli amministratori della società madre, ma in cui gli azionisti di questa sono assenti. In conclusione, i veri beneficiari del meccanismo capitalistico, attualmente, non sono più gli azionisti, ma gli amministratori, i quali formano una piccola oligarchia chiusa».

Finalmente il terzo elemento del profitto – ossia il compenso per il lavoro di direzione – è personificato dai tecnici, che vengono in genere dalla piccola e media borghesia e il cui sogno è di entrare presto o tardi nella casta troppo spesso impenetrabile del grande capitalismo.

Questo il quadro del nostro mondo economico.

A questo punto la nostra rivolta ci ha suggerito una formula liberatrice: «La Repubblica è fondata sul lavoro». E in questo terzo titolo diciamo: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto».

Il problema non è nuovissimo. Affermato per la prima volta dal Locke nella formula che il bisogno del lavoro implica necessariamente il diritto di poter lavorare; poi da Montesquieu e da Rousseau, è dichiarato da Turgot nel preambolo dell’editto del 1776 («Il diritto di lavorare è proprietà di ogni uomo, la più sacra, ed imprescrittibile di tutte»); poi, durante la Rivoluzione francese, nei decreti della Costituente, della Camera legislativa e della Convenzione. Fichte ne fa obbligo per lo Stato, come Winkelblech, Lassalle e Menger: così Fourier e Proudhon. In Inghilterra è affermato dal Cartismo; è ripetuto da Marx e da Louis Blanc: il Lacordaire lo invoca come principio cristiano nell’Assemblea Nazionale; è finalmente enunciato dagli stessi regimi autoritari e dal Libro Bianco inglese sui problemi del lavoro del 1944.

Si tratta di badare bene a due ordini di considerazioni: anzitutto che la Costituzione è un documento giuridico che deve esprimere norme di diritto; ma che appunto per ciò le formule ideali, ma obiettivamente irraggiungibili, possono portare ad uno stato di delusione che comprometterebbe la serietà stessa della Carta costituzionale.

Dobbiamo però dire subito che dicendo «lavoro» noi non ci riferiamo al suo carattere di pena, di tormento, di umiliazione – avremmo una Repubblica di forzati – ma alla sua dignità e alla sua funzione redentrice: con un limite, che è il limite stesso indicatoci dal Cristianesimo nella sua dottrina finalistica. Il lavoro era disprezzato dal paganesimo: Aristotele giudica gli artieri, che indeboliscono il corpo e lo spirito, incapaci di virtù; per Cicerone il salario è segno di servitù. Il Cristianesimo nobilita il lavoro; lo impone come funzione espiatoria inseparabile dalla natura umana; lo nobilita nella stessa persona di Cristo; annulla le ragioni della schiavitù; ne fa un mezzo di indipendenza anche spirituale e, col monachismo, ne fa persino una norma d’asceti.

Ma il limite è pur sempre quello del destino personale dell’uomo: i suoi diritti derivano dalla sua natura, mentre la società non è per l’uomo che il mezzo necessario che lo aiuta a conseguire il fine. Solo a questo titolo il lavoro è insieme un diritto che involge un problema etico, e un dovere individuale e sociale. È ciò che vien detto nell’articolo 31; ma bisogna intendersi.

Che cosa vuol dire: «riconoscere il diritto al lavoro»? È il diritto di rivolgersi allo Stato per domandargli un’occupazione: un diritto uti singuli del cittadino verso lo Stato? Lo Stato è fonte di questo diritto, e non piuttosto il diritto e il dovere di vivere danno all’uomo il diritto al lavoro indipendentemente dallo Stato, cui incombe, per il suo compito di effettuare il bene comune, di promuovere le condizioni per rendere effettivo il diritto dell’uomo? Ma proprio qui urge la preoccupazione di star lontani, con vigile senso politico, da proclamazioni il cui carattere utopistico avvelenerebbe tutto il documento costituzionale. Fu giustamente osservato che l’impegno di seguire un determinato indirizzo di politica economica sembrerebbe assai più serio e convincente. Dire, come nell’articolo 32, che «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro ed in ogni caso adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia» è dire una magnifica cosa, che però può diventare una crudele irrisione.

Le condizioni del diritto sono tali – e non vedo come potrebbero mutare nell’attuale organizzazione sociale – che il contratto liberamente stipulato fra i datori di lavoro e lavoratori ha forza di legge per i contraenti. La norma giuridica sostanziale non è stabilita dalla legge dello Stato, ma dalla volontà dei contraenti: lo Stato può garantire non la giustizia, ma la sola legalità della transazione. Meno che meno lo Stato può imporre indefinitamente alle imprese una condotta economica irrazionale, come sarebbe quella che incidesse sui costi in maniera insopportabile, o per l’altezza dei salari nei confronti del mercato mondiale del lavoro, o per l’occupazione di un numero superfluo di lavoratori.

Siamo, in sostanza, al grave problema di una politica economica, che d’altra parte noi non possiamo risolvere da soli: il fenomeno economico è universale, e non può essere disciplinato che da norme ugualmente universali. Inutile, quindi soffermarci sul dilemma fra liberismo od economia regolata, disciplinata, pianificata: dobbiamo tenerci all’immediato ed al concreto.

E vi è, qui, una verità solare, che deve restare come un memento dei nostri spiriti: che non c’è risoluzione sociologica che possa ignorare l’obiettiva base economica; che il problema centrale dell’economia è un problema di produzione; che l’Italia possiede pur sempre una ricchezza incalcolabile: l’ingegno dei suoi figli.

Se siamo convinti – come non possiamo non esserlo, perché è la realtà – che la grande forza edonistica umana è un fattore fondamentale di ricchezza, si tratta di dirigerla, proprio nel senso della vera libertà economica. La fase patologica del capitalismo è contrassegnata da una costante e sempre più grave offesa alla libertà: il capitalismo sopprime puramente e semplicemente la libertà economica.

La scoperta più grande di Marx è che il capitalismo trasforma i rapporti tra gli uomini in rapporti fra cose: non c’è, cioè, una realtà economica sostanziale e perciò tutte le categorie economiche non sono che categorie storiche e non principî eterni come li professava l’economia borghese e classista: ma tutto ciò contraddice proprio il materialismo.

Bisogna liberare l’uomo, che è ingegno, volontà, lavoro, vita: l’attività implica un principio spirituale, e solo un principio spirituale garantisce l’attività.

Mi si permetta perciò di credere che la coordinazione delle attività economiche da parte dello Stato, di cui si parla all’articolo 40, non è utile e feconda se non a due condizioni: che si tratti di difendersi contro la formazione di egemonie monopolistiche, o che, in determinate condizioni di tempo e di luogo, venga in questo modo garantita l’economicità della produzione.

Bisogna, invece, puntare risolutamente sulla trasformazione, direi meglio, sul superamento dell’economia capitalistica: perciò il solo diritto, sancito dall’articolo 43, di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende mi sembra del tutto inefficace ed illusorio.

Io resto convinto che, agli effetti stessi della produzione e del giusto prezzo, il sistema della concorrenza è ancora il modo meno imperfetto di scegliere gli uomini: la casta chiusa della aristocrazia denuncia ormai una sproporzione insopportabile fra il privilegio e il servizio reso alla collettività. Il diritto di proprietà segna ormai un ritardo, una vischiosità nei confronti dell’economia, che è quanto dire della vita. Ridiamo perciò al diritto di proprietà la sua funzione sociale nell’articolo 38.

Ora, l’articolo 43 immette i lavoratori nella gestione delle aziende; ma, pure ammesso che tutto ciò debba portare un contributo notevole alla produzione, c’è sempre una domanda da farsi, una riserva da proporsi: a profitto di chi? Si può dire, genericamente, «a profitto della produzione»; ma questa è una parola.

Si tratta, concretamente, di modificare la ripartizione del profitto, senza danneggiare il normale funzionamento di un sistema produttivo che ha pur fatto delle grandi prove; si tratta di conservare quanto c’è di buono nel sistema, indirizzandolo verso un’evoluzione in cui l’imperativo sociale diventerà sempre più dominante; si tratta di toglier di mezzo lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo senza sostituirvi l’ancor più atroce sfruttamento dello Stato sull’uomo. Si tratta, in sostanza, di creare una vera e vitale democrazia economica.

E allora, bisogna avere il coraggio di andare più in là; bisogna avere il coraggio di dire: i lavoratori hanno diritto alla compartecipazione, regolata dalla legge, agli utili, al capitale e alla gestione dell’impresa di tipo capitalistico. La legge riconoscerà il diritto al lavoro di essere rappresentato nei consigli di amministrazione delle società per azioni, a prescindere da qualsiasi partecipazione azionaria.

Soltanto così, noi diamo ai lavoratori quello che i lavoratori aspettano da noi; restituiamo al lavoro la sua nobiltà e la sua gioia; liberiamo il volto dell’uomo dandogli la scienza della vita, la serenità della vita, l’onore della vita. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cortese. Ne ha facoltà.

CORTESE. Onorevoli colleghi, prendendo la parola nella discussione generale, sul Titolo III, ho l’impressione di usufruire forse di un privilegio, nel senso cioè che probabilmente non a tutti sarà consentito di prendere la parola sulla discussione generale di questo Titolo. Avverto quindi il dovere di non abusare di questo privilegio, di contenere le cose che sto per dire, limitandomi a svolgere gli emendamenti che ho proposto.

Vorrei però rilevare preliminarmente che questa zona della Costituzione che stiamo esaminando è quella nella quale più che in altre si incontrano esigenze diverse che reclamano una conciliazione.

E infatti qui vi è una prima esigenza che è quella di dare ai fondamentali diritti del lavoro una precisa formulazione, di inserirli nel testo costituzionale, segnando così un progresso di fronte all’affermazione dei diritti di libertà ai quali si limitavano le Costituzioni dell’Ottocento.

Ma d’altra parte, a questa esigenza se ne contrappone un’altra, cioè quella di dare davvero un contenuto normativo, una concretezza di impegno giuridico alle affermazioni che si inseriscono nella Carta costituzionale, di non fare insomma delle dichiarazioni astratte, delle vaghe formulazioni di aspirazioni, ma di precisare delle norme di legge, sicché vi possa essere certezza dei diritti ai quali corrispondano dei doveri, vi possano essere delle pretese giuridiche che diano diritto a sperimentare le corrispondenti azioni per ottenere l’effettiva attuazione.

Ora, onorevoli colleghi, questo è un problema davvero difficile a risolversi. Io qui avverto la nostalgia di quel preambolo del quale si è molto parlato nei lavori finora svolti, la nostalgia di quel preambolo che è stato redatto dall’Assemblea Costituente francese, nella seconda formulazione della Carta costituzionale, dove si è trovato modo di inserire, appunto nel preambolo, talune aspirazioni, taluni moniti al futuro legislatore quando non era possibile formulare delle norme che avessero il rigore e la concretezza della norma giuridica.

Vi sono poi altre esigenze da contemperare: contemperare questo afflato di giustizia sociale, la quale è reclamata dalla voce nuova dei tempi, dopo che tanti sentimenti e tanti convincimenti si sono fatti maturi nella coscienza popolare, colle esigenze dell’economia e della produzione.

Si tratta inoltre di tenere conto della necessità di porre riparo alle degenerazioni capitalistiche, alle degenerazioni dell’economia di mercato, agli sfruttamenti monopolistici; ma, d’altra parte, di non slittare verso quell’economia collettivizzata che, per lo meno per noi di parte liberale, è un’economia inaccettabile, in quanto potrebbe determinare soprattutto una contrazione di produzione, sostituendosi all’imprenditore privato il funzionario statale.

Altre esigenze infine vengono qui in contrasto. Vi è, dicevo, questa aspirazione ad una più equa distribuzione dei beni, questo slancio a realizzare una società più giusta, aspirazione viva ma confusa nel tumulto della vita nella quale viviamo, e d’altra parte v’è l’esigenza di una regola certa, di confini ben precisati, perché il mondo economico ha bisogno di sicurezza e di stabilità. Noi invece in questo progetto costatiamo che, mentre si riconosce, per esempio, l’iniziativa privata, dall’altra non si stabiliscono le norme precise che diano la sicurezza dei limiti, delle frontiere entro le quali la iniziativa privata possa davvero liberamente svolgersi e si pongono norme ricorrenti e vaghe minacce di interventi statali, di collettivizzazioni e di nazionalizzazioni. Io ho l’impressione che, in un certo senso, la Carta costituzionale rifletta per questa parte la realtà della nostra vita economica e politica di questo momento eccezionale.

Noi non abbiamo in questo momento in Italia né economia di mercato né economia collettivizzata. Noi siamo in una strana economia, in un regime di economia «disturbata», di economia «minacciata», perché mentre non si è sostituito all’economia di mercato un altro tipo di economia, pur tuttavia si violentano le norme fondamentali di quella economia. Ora, questa esigenza di sicurezza, che è la condizione imprescindibile perché l’iniziativa privata possa avere slancio, movimento, possa davvero moltiplicare i centri di produzione e dar vita alla ricostruzione del Paese, non potrà essere realizzata finché non si stabiliranno norme precise, non si darà garanzia all’iniziativa privata, al capitale privato, ponendo termine a questa atmosfera di costanti rivolgimenti, di mutamenti più o meno radicali di riforme ogni giorno vagamente annunziate, paventabili da taluni, desiderabili da tal altri, che pongono un eterno interrogativo nella vita economica, un interrogativo che è davvero paralizzante. Queste credo siano le esigenze che vanno contemperate in questa zona della Carta costituzionale dove, per altro, si scontrano ideologie antitetiche, perché questo è il campo dove naturalmente vengono in conflitto ideologie classistiche e non classistiche.

Io, come dicevo, intendo soprattutto svolgere e coordinare gli emendamenti da me proposti, più che esaminare nel loro insieme gli articoli in discussione.

Il Titolo III si inizia riconoscendo che la tutela del lavoro in tutte le sue forme è obbligo della Repubblica; è una affermazione questa sulla quale non c’è alcuna osservazione da fare se non per aderirvi toto corde, pur rilevando che in sostanza questa affermazione non crea niente di nuovo dal punto di vista costituzionale. Dove invece bisogna soffermarsi un attimo è sull’articolo 31: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto». Siamo effettivamente di fronte ad una di quelle affermazioni avveniristiche verso le quali si tende la speranza, l’ansia di progresso di ciascuno di noi, a qualunque settore dell’Assemblea Costituente appartenga.

Ma qui insorge quella tale esigenza normativa della legge costituzionale. Come farà la Repubblica a garantire in concreto a tutti i cittadini il soddisfacimento di questo diritto che ha affermato, del diritto al lavoro? Badate, non basterà dare il sussidio di disoccupazione. Quando si dice che la Repubblica riconosce a ciascuno il diritto al lavoro, la Repubblica assume un impegno di dare lavoro a ciascun cittadino che il lavoro reclama, e lo reclama sulla base di una norma costituzionale.

Vi sono delle esperienze storiche, mi direte, ma vi sono delle esperienze storiche rivoluzionarie completamente fallite. D’altra parte, per poter garantire lavoro a tutti, lo Stato dovrebbe pianificare e dirigere tutta l’attività produttiva ed assegnare a ciascun cittadino un determinato lavoro. Si dovrebbe tentare, cioè, un esperimento di bolscevizzazione che condurrebbe alla dittatura e aggraverebbe il collasso economico. Ecco perché noi ci volgiamo col nostro desiderio a quel tale Preambolo. Affermiamo pure in esso che ogni lavoratore ha diritto al lavoro, affermiamolo in un voto, in una direttiva al futuro legislatore; ma ci sembra che l’inserire una tale affermazione categorica in un insieme di disposizioni che hanno valore giuridico, che hanno valore normativo, sia cosa non del tutto corretta dal punto di vista giuridico, perché non è possibile dare a questo diritto, che si riconosce così solennemente, la garanzia del suo esercizio, farne cioè una pretesa del cittadino nei confronti dello Stato, nei confronti della Repubblica.

Ma, onorevoli colleghi, se l’Assemblea vorrà mantenere la formula del progetto per sottolineare che c’è davvero un impegno che lo Stato intende assumere per lo meno per l’avvenire, un impegno nei confronti di tutti i lavoratori, io potrò dolermi nel vedere la serietà della norma giuridica sopraffatta dalla demagogia, ma potrò compiacermi di questo augurale messaggio che la Costituzione rivolge a tutti gli uomini che lavorano.

Ma il mio dissenso diventa irreducibile quando leggo il secondo comma: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività od una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta».

Che sia un dovere morale per tutti quello di dare il proprio contributo allo sviluppo materiale e spirituale dell’organismo sociale nel quale vive, è innegabile.

Ma io vi pongo dei quesiti. Desidererei sapere chi deciderà caso per caso se, in concreto, un’attività o una funzione concorra o non concorra allo sviluppo materiale e spirituale della società.

Chi sarà questo giudice? Questo giudice sarà inevitabilmente (direttamente o indirettamente) un giudice politico. E mi sembra perciò che sia estremamente pericoloso inserire un siffatto principio in una Carta costituzionale: pericoloso non per questi o per quelli di una particolare categoria della collettività, ma pericoloso per tutti, perché tutti possono essere colpiti dalla mutevole interpretazione e attuazione d’un tale principio, che potrà diventare uno strumento legale di sopraffazione classistica, un mezzo per discutere la parità dei diritti di tutti i cittadini. Pericolosissimo è dunque sancire un principio di questo genere: e cioè che si possa in un certo momento stabilire che una categoria di cittadini non svolga una funzione utile per il mutevole criterio, per il mutevole giudizio che si ha dell’attività sociale a seconda di questa o di quella ideologia trionfante nella lotta politica.

Io potrei domandare, per esempio: il pensionato di se stesso, quegli, cioè, che ha lavorato per alcuni decenni e poi, smesso il suo lavoro, vive con la rendita dei suoi risparmi (e può ritirarsi anche in età nella quale ancora per capacità fisica potrebbe svolgere una attività) deve forse essere messo in condizioni di inferiorità civile?

Ogni precetto giuridico comporta una sanzione.

Quale sarà la sanzione per la violazione di questo obbligo giuridico di svolgere un’attività od una funzione, sancito colla solennità d’una norma costituzionale?

Il futuro legislatore, a seconda del variare sulla scena politica delle maggioranze, stabilirà questa sanzione, che potrebbe, per avventura, diventare anche una sanzione d’indole penale.

Ma c’è il terzo comma. Io domando – ed è un quesito che pongo alla Commissione – se la sanzione prevista nel terzo comma sia l’unica sanzione per la violazione del precetto, o se sia invece una sanzione espressamente prevista che non vieta al legislatore di porne altre.

Perché, se si potesse con certezza ritenere che la sanzione non possa essere che quella soltanto prevista dal terzo comma dell’articolo in esame, allora, sopprimendosi il terzo comma, si potrebbe forse anche accettare l’articolo così mutilato come un invito solenne a tutti rivolto di partecipare operanti alla vita del Paese.

Che il terzo comma vada comunque soppresso mi sembra innegabile; esso stabilisce una grave sanzione, che, a mio modo di vedere, ferisce alle radici il principio della democrazia, perché dice: «L’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici».

Ora, dunque, vi sono cittadini, che potranno non essere più titolari dei diritti politici, del diritto di voto, innanzi tutto; e queste categorie, ripeto, potranno restringersi o ampliarsi col mutare delle fortune di questo o di quel partito. L’articolo va collegato coll’articolo 45, il quale stabilisce che «sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi, che i hanno raggiunto la maggiore età; non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto, se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale».

Ora, dunque, sarebbe questa prevista nell’articolo in esame una incapacità civile. Di guisa che il futuro legislatore dovrà nel Codice civile, dove tassativamente oggi sono indicate le incapacità civili, aggiungerne un’altra. E questa incapacità civile dovrà essere poi in concreto riconosciuta con sentenza, la quale spoglierà dei diritti politici, cioè della dignità di libero cittadino, quegli che sarà stato ritenuto «non lavoratore» alla stregua di una norma elastica, la cui interpretazione obbedirebbe inevitabilmente ad una particolare concezione politica. È dunque per una esigenza imprescindibile di libertà e di democrazia che io invoco la soppressione d’una siffatta norma costituzionale.

Mantenendo fede all’impegno di svolgere soltanto gli emendamenti, vorrei fare osservare che l’articolo 33, garantendo i diritti della donna lavoratrice, segna un progresso: ancora oggi si constata che c’è uno sfruttamento del lavoro della donna, alla quale si corrisponde un salario inferiore a quello che si corrisponde al lavoratore, senza alcuna giustificazione. Riteniamo quindi opportuna la norma costituzionale che anche in questo campo conferisce alla donna la parità dei diritti; però vogliamo che non si stabilisca un privilegio in suo favore e diciamo: a parità di lavoro sì, ma non basta, occorre aggiungere a «parità di rendimento», perché soltanto allora sarà giustificata e reclamata la parità della retribuzione.

Passo all’articolo 35 saltandone due o tre. L’articolo 35 è l’articolo che riguarda l’organizzazione sindacale. Il primo comma dice: «L’organizzazione sindacale è libera» e certo non si potranno trovare assertori più convinti di questo articolo all’infuori dei liberali. L’articolo poi soggiunge: «Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che la registrazione presso uffici locali e centrali, secondo le norme di legge». Ora io ho qualche perplessità di fronte alla dizione «secondo le norme di legge» perché essa può significare secondo le condizioni formali che la legge prescriverà, ma potrebbe anche significare secondo le condizioni sostanziali che la legge reclamerà per la registrazione, rendendosi possibile così la limitazione nel fine, nella struttura, se non anche in considerazione del colore politico, dell’associazione sindacale, al cui impossessamento monopolistico naturalmente tendono tutti i regimi dittatoriali di destra o di sinistra. Io ho proposto questo emendamento: «L’organizzazione sindacale è libera. I sindacati, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, possono stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce. A questo fine i sindacati dovranno essere registrati presso uffici locali e centrali».

Noi vogliamo sottolineare il principio che la rappresentanza sindacale deve, sì, essere unitaria, ma non può essere pretesa soltanto da una maggioranza: specificamente deve essere affermato il diritto delle minoranze ad intervenire nella stipulazione dei contratti collettivi.

Ma v’è un capoverso aggiuntivo che noi proponiamo. Onorevoli colleghi, noi liberali intravediamo oggi una nuova esigenza, oltre quella della libertà d’associazione che è stata vivamente sentita dall’ottocento liberale. Noi oggi intravediamo un’altra libertà che va reclamata: la libertà di non associazione. E perciò proponiamo con l’emendamento un’aggiunta che dice: «L’iscrizione in un sindacato non è condizione per l’esercizio dei diritti dei lavoratori». (Commenti).

I sindacati rappresenteranno anche tutta la categoria ai fini della stipulazione dei contratti collettivi i quali avranno vigore di legge per tutta la categoria alla quale il contratto si riferisce. Sia ben chiaro però che l’iscrizione ad un sindacato non può essere condizione per l’assunzione al lavoro, come invece oggi accade, né per l’esercizio d’ogni altro diritto del lavoratore. Abbiamo, del resto, degli esempi allarmanti anche in America, dove in corrispondenza ai monopoli di produzione vi sono dei sindacati monopolistici del lavoro. V’è cioè una mano d’opera monopolizzata in taluni settori dell’economia americana: vi sono fabbriche, per esempio, che fanno degli accordi con determinate organizzazioni sindacali e si obbligano di assumere la mano d’opera soltanto da quei sindacati. Da noi accade spesso che sia assunta soltanto la mano d’opera imposta da un partito. Ed è anche questa una forma di monopolio e di sopraffazione.

Un altro emendamento mi permetto di presentare in rapporto all’articolo 36.

Noi liberali vogliamo in questa sede costituzionale affermare che riconosciamo il diritto di sciopero, come un diritto fondamentale della libertà dell’uomo. Senza il diritto di sciopero vi è la schiavitù del lavoro. Vogliamo però… (Commenti). Capisco i vostri commenti: del resto in ciò che sto per dire si riflette un po’ tutto quel che si è detto nei lavori preparatori di questo progetto. Come è noto, diverse sono state le opinioni anche nelle Sottocommissioni; e se si è inserito nel progetto il riconoscimento di questo diritto, non si può dimenticare che una delle Sottocommissioni aveva stabilito di non inserirlo.

Inseriamo pure questo riconoscimento; ma teniamo presente che noi non abbiamo una definizione dello sciopero. Leggendo i lavori preparatori del progetto mi sono incontrato nella lucida definizione dell’onorevole Togliatti, che definisce lo sciopero come l’astensione collettiva dal lavoro affinché i lavoratori possano strappare migliori condizioni economiche. Ora, se avessimo una definizione anche nella Carta costituzionale, in certo modo avremmo dei limiti che configurerebbero questo diritto. Ma abbiamo invece nell’articolo 36 semplicemente l’affermazione che tutti i lavoratori hanno il diritto di sciopero. E poiché si è discusso se si debba o no rimandare al futuro legislatore la definizione della materia, di fronte all’articolo 36 che non rimanda alla legge, potrebbe sorgere il dubbio che al futuro legislatore sia inibito di disciplinare l’esercizio di questo diritto. Il che, onorevoli colleghi di tutti i settori, sarebbe assurdo.

Non è in questa sede che noi vogliamo disciplinare il diritto di sciopero, che vogliamo fare la discussione se lo sciopero debba essere inteso soltanto come un mezzo dato ai lavoratori per ottenere il miglioramento delle condizioni economiche, se sia ammesso lo sciopero politico reclamato dall’onorevole Di Vittorio, se sia consentito lo sciopero nei pubblici servizi. Io voglio però dichiarare che in un paese che si regge col regime parlamentare fondato sul suffragio universale, lo sciopero politico è inammissibile, perché può diventare un’arma di coazione adoperata dalla minoranza. Il lavoratore esprime la sua volontà, la sua scelta politica – come ogni cittadino – col voto. È assurdo, per esempio, che un’organizzazione di lavoratori possa, attraverso lo sciopero, far opera di pressione perché sia sostituito un governo che è invece sorretto dalla maggioranza parlamentare: si avrebbe allora la violazione evidente di uno dei principî fondamentali della democrazia, che è governo di maggioranza.

Dicevo che non è questa la sede per stabilire le norme e i limiti, che vanno rimessi al futuro legislatore. Una delle Costituzioni più progressiste, quella francese, adopera la formula che io mi sono permesso di sottoporre all’Assemblea: «Il diritto di sciopero è riconosciuto nell’ambito delle leggi che lo disciplinano».

Il nuovo legislatore risolverà i vari quesiti: dirà se occorra che vi sia una procedura conciliativa o no; dirà se lo sciopero possa essere consentito nei pubblici servizi, se sia ammissibile lo sciopero politico. E lo dirà dopo un esame approfondito di tutti i problemi che si presenteranno nella libera discussione democratica.

V’è poi l’articolo 37, a proposito del quale vorrei notare che il primo comma è parso stupefacente per la sua inutilità, perché dire quello che si è scritto qui, a mio modo di vedere, significa dire una cosa banale ed ovvia: «Ogni attività economica, privata o pubblica deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali e al benessere collettivo». Mi sembra che si sia fatta una scoperta inutile, perché un tale fine è evidente soprattutto poi se riferito all’attività pubblica. Vorrei vedere un’attività pubblica che non si debba preoccupare di sodisfare ai bisogni e al benessere della collettività. È come dire che la Magistratura amministra la giustizia, è come dire che la forza pubblica deve garantire l’ordine pubblico. Non comprendo perché in una Costituzione si debbano scrivere cose del genere.

V’è poi il secondo comma che mi pare pleonastico, e (voglio essere sincero), pericoloso: pleonastico in rapporto all’articolo 39, dove in sostanza già si dicono le stesse cose. Il comma dice: «La legge determina le norme e i controlli necessari perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate a fini sociali». In questa formulazione si nasconde un pericolo.

Io ho segnalato che vi è una esigenza, quella di dare una certa sicurezza all’iniziativa privata. Stabilite pure un limite, stabilite un confine; ma introdurre delle norme le quali, mentre riconoscono che la vita economica della Nazione fa perno sulla iniziativa privata, disconoscono che siamo ancora, o dovremo essere in una economia di mercato, e stabilire d’altra parte dei limiti elastici, delle riserve vaghe e minacciose d’interventi statali, di controlli e coordinamenti, significa perpetuare nel testo costituzionale quella situazione di incertezza cui ho fatto cenno, significare mantenere nel mondo economico un interrogativo che inaridisce le fonti della produzione, che trattiene la iniziativa privata, che paralizza il capitale, determinandosi in conseguenza una minore produzione di beni con danno della collettività.

PRESIDENTE. Onorevole Cortese, non dimentichi i limiti di tempo.

CORTESE. Chiedo scusa. Ho presentato molti emendamenti. Se li avessi svolti ciascuno in dieci minuti, avrei parlato molto di più.

Nell’articolo 39, vi è, a proposito della iniziativa privata, lo stesso concetto espresso nell’articolo 37, ma più rigorosamente contenuto e circoscritto, perché l’articolo 39 dice: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

Ecco dunque stabiliti con una certa precisione quei limiti all’iniziativa privata alla quale però si dà tuttavia libero respiro. A proposito dell’iniziativa privata e di questo articolo, voglio soffermarmi un attimo sull’emendamento aggiuntivo che ho proposto. L’oratore che mi ha preceduto si è scagliato contro i monopoli, contro queste degenerazioni dell’economia di mercato. Io ritengo che se v’è davvero una rivoluzione liberale da compiere, questa rivoluzione liberale nel campo dell’economia è proprio la rivoluzione diretta a ristabilire l’economia di mercato contro le degenerazioni capitalistiche, contro i cartelli, contro i trusts, contro i pools, contro i monopoli, e contro le sopravvivenze corporativistiche.

Ma non basta, diciamo noi, facendo un passo avanti oltre quello che è stato fatto dai relatori: non basta intervenire per reprimere con l’articolo 40; bisogna prevenire, bisogna impedire che si formino le situazioni monopolistiche. Come? Non potete certo attendervi, o amici e colleghi comunisti, che io dica «collettivizzando»; non sarei più liberale. D’altra parte, collettivizzando faremmo il più grande dei monopoli: l’unico monopolio statale. Noi diciamo: ispirando non solo la politica economica e sociale, ma anche la legislazione nel campo economico, a questa lotta; perché monopoli e cartelli, trusts e pools si formano sempre all’ombra di privilegi legali. Se noi volgeremo la nostra legislazione economica a questa finalità, di sopprimere questi privilegi, di impedire che all’ombra di questi privilegi, di questi protezionismi, mediante monopoli, trusts, brevetti a catena, si possano costituire concentrazioni che, manovrando artificialmente le condizioni del mercato, determinino soprattutto il danno del consumatore, noi potremo ricondurre l’economia di mercato alle sue norme fondamentali; correggendo le degenerazioni del capitalismo, riaffermeremo la economia di concorrenza, e nello stesso tempo non saremo passati ad un’altra concezione economica che non condividiamo.

E vi è anche un aspetto politico: noi diciamo e affermiamo ogni giorno che la libertà economica è collegata più che non si creda alla libertà politica, perché attraverso l’economia controllata e statizzata ci si avvia, per inevitabile necessità, alla dittatura politica, diciamo anche che queste degenerazioni capitalistiche, questo formarsi di feudalismi industriali, incidono sulla libertà politica, perché anche qui si forma una dittatura economica che diventa una dittatura politica. E come il feudalismo medioevale dovette cedere di fronte alla monarchia assoluta noi affermiamo che se il feudalismo industriale non ritornerà alle leggi della libera concorrenza, esso si piegherà alla monarchia del collettivismo centralizzato.

Ho perciò presentato il seguente emendamento aggiuntivo all’articolo 39: «La legge regola l’esercizio dell’attività economica al fine di difendere gli interessi e la libertà del consumatore». Il che significa vigilare ed intervenire, prevenire e reprimere, attraverso una legislazione antiprotezionistica e antimonopolistica, affinché la vita economica, fondata sull’iniziativa privata, si svolga nel rispetto della legge della concorrenza e dei principî che sono propri all’economia di mercato.

L’articolo 40, invece, si limita a trasferire i monopoli dal privato allo Stato o a comunità «per coordinare le attività economiche».

Noi, anche per questo articolo abbiamo proposto un emendamento. Noi diciamo che non è già per coordinare le attività economiche che la legge interviene. Questo, se è necessario ai fini sociali, è stabilito dall’articolo precedente. Ma volere intervenire per trasferire i monopoli allo Stato, finalizzando l’intervento col coordinamento delle attività economiche, può essere l’espressione di una concezione particolare, o colleghi comunisti, ma non può essere l’espressione di una concezione condivisa da tutti, perché dietro questa norma, attraverso queste parole che finalizzano la norma, vi è innegabilmente l’ombra della pianificazione. Noi diciamo che non è già per coordinare in un piano le attività economiche, che lo Stato debba intervenire, ma per assicurare il benessere della collettività, e per difendere soprattutto quel tale consumatore che io non vedo ricordato in questo Titolo dei rapporti economici, non vedo nominato in nessun articolo; eppure è lui il protagonista vero, perché tutti siamo consumatori, tutti i cittadini sono consumatori, e difendere il consumatore significa soprattutto difendere gli interessi delle categorie meno abbienti. La difesa del consumatore diventa anche difesa sociale per l’affermazione di una migliore giustizia sociale. L’imposizione del prezzo manovrato in situazioni monopolistiche rende più aspra la diversità del tenore di vita. Non è già dunque per coordinare le attività economiche, ma è per assicurare questa difesa, per tutelare questi interessi che lo Stato può riservare originariamente a sé o trasferire i monopoli. Perché diciamo «può» e non «deve»? Perché lo Stato può anche non essere in grado di farlo. Oggi l’onorevole Campilli ci direbbe che lo Stato non è in grado di farlo, perché non può assumersi un onere finanziario in questo momento per la gestione di certi complessi industriali. Affermiamo il principio; se lo Stato potrà farlo, lo farà. Lo farà con un criterio di gradualità, lo farà man mano che potrà essere possibile farlo, attraverso una selezione; ma se si stabilisce qui «deve», ci sarebbe il dovere giuridico, il dovere costituzionale dello Stato di farlo, tutto ad un tratto e con contemporaneità di attuazione.

Una voce. Ma non c’è «deve».

CORTESE. C’è, perché quando si dice che «per coordinare le attività economiche la legge riserva o trasferisce…» vi è qualcosa di imperativo in questa espressione, che non consente discrezionalità. Quando si verificano talune condizioni previste nella parte successiva dell’articolo, cioè quando ci si trova di fronte a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio che hanno carattere di preminente interesse generale, alla stregua della lettera di questo articolo, lo Stato deve senz’altro procedere al trasferimento o all’assunzione del monopolio.

Dicendo «può», lo Stato non si impegna in modo assoluto. Lo farà di volta in volta, in considerazione di condizioni contingenti, con specifiche e determinate leggi.

Un ultimo emendamento ho proposto all’articolo 44. Vorrei che all’espressione: «La Repubblica tutela il risparmio» si sostituisse l’altra: «La Repubblica favorisce e tutela il risparmio»; e «a tal fine» vorrei che fossero diretti il controllo, la disciplina ed il coordinamento del credito da parte dello Stato, che potrebbe quindi e dovrebbe intervenire in riguardo all’attività creditizia soltanto per favorire e tutelare il risparmio, che è la fonte d’ogni attività produttiva, del benessere e della ricchezza della Nazione.

Questi sono gli emendamenti che ho proposti. Non credo di aver occupato più tempo, trattandoli tutti nella discussione generale, di quanto ne avrei occupato se li avessi discussi singolarmente. In ogni modo, se ho abusato, chiedo venia di questo abuso. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Colitto. Ne ha facoltà.

COLITTO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, i 15 articoli, nei quali si snoda questo Titolo III della Parte I – che è indubbiamente fra i più importanti della nostra Costituzione – del quale intendo brevemente occuparmi, si raggruppano intorno alle seguenti materie: iniziativa ed impresa privata, proprietà, lavoro, cooperazione, risparmio e credito.

Iniziativa ed impresa privata. – Il progetto di Costituzione riconosce e garantisce la privata iniziativa. Esattamente. Perché, se noi teniamo presente quello che pulsa non nelle formule teoriche, ma nelle aziende, nelle officine, nelle fattorie, nei laboratori, nei porti, nei mercati, là dove l’economia è lotta, rischio, conquista, se alla vita noi domandiamo l’ispirazione dei programmi, e non ai programmi l’ispirazione per la vita, dobbiamo riconoscere che, se c’è una cosa veramente meravigliosa in Italia, la sola forse che ci consenta di dire che l’Italia faticosamente, ma con tenace volontà, risorge dal disastro di una disfatta, questa cosa è l’ammirabile capacità rinnovatrice del popolo, che, come ha detto l’onorevole De Gasperi giorni fa, ha vivamente stupito e stupisce gli stranieri; se c’è una cosa che in Italia veramente possa darci fiducia, essa è quel fermento individuale, quella volontà di potenza, quella forza motrice della cellula produttiva in cui si riassume, in cui si concreta appunto la privata iniziativa, vero fondamento della dinamica economica e quindi, sociale.

«L’iniziativa economica privata è libera», dispone l’articolo 39, che così prosegue: «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale od in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

Io ho proposto che l’articolo sia diversamente formulato. Penso che sia opportuno da un lato mettere in rilievo anche l’impresa, alla quale il progetto solo indirettamente accenna, e dall’altro sottolineare, in relazione alla iniziativa privata, l’attività armonizzatrice e coordinatrice dello Stato, di cui è parola nel successivo articolo 37, che, quindi, non avrebbe più ragione di essere anche per la prima parte, che a me sembra del tutto pleonastica. La nuova formulazione è la seguente: «La iniziativa e la impresa privata sono libere, nei limiti che lo Stato stabilisce per coordinare e dirigere le attività economiche ai fini di aumento della produzione e del benessere sociale».

Sembrami questa una formula scientificamente più esatta di quella inserita negli articoli 37 e 39 del progetto. Parmi anche – mi si consenta dirlo – più moderna. Ed inoltre – questo anche giova affermare – parlandosi in essa di iniziativa e di impresa privata, dandosi a queste la maggiore ampiezza di respiro ed insieme consentendosi programmazioni, nell’attuazione delle quali sarà possibile coordinare e dirigere senza espropriare, mi sembra anche una formula che non spaventi nessuno, né in Italia, né all’estero; e noi abbiamo sommamente bisogno che nessuno, che in Italia abbia voglia di muoversi, si spaventi, e che guardino altresì a noi senza timori i paesi, dai quali ci vengono il grano, il petrolio, il carbone, i minerali di ferro, i crediti, tutto ciò, insomma, che ci aiuta a vivere ed a riprendere il nostro posto fra i paesi civili.

Proprietà. – Insieme con la iniziativa e la impresa privata, la Costituzione garantisce la proprietà privata, che ove da un minimum di moralità sia fiancheggiata, è sempre feconda di vantaggi, che non si esauriscono nel singolo, ma rifluiscono nella collettività, quali la salvaguardia della libertà, la spinta alla produzione ed al progresso economico, la tranquillità della convivenza civile. Meglio, forse, sarebbe parlare di «diritto di proprietà». Ma non è il caso di insistere sul rilievo, perché, come ebbe a scrivere il Windscheid, il diritto di proprietà investe e compenetra le cose in tutti i suoi aspetti economici, sì che di solito parlasi indifferentemente di «proprietà» e di «diritto di proprietà». E, poiché ormai non è dubbio che proprietà non significa signoria rigidamente assoluta e brutalmente egocentrica delle cose, secondo la ispirazione romano-civilista e secondo i principî del razionalismo illuministico francese, proiezione esclusiva della personalità umana, vuoi che si concepisca questa in senso filosofico, vuoi che si concepisca in senso economico, ma signoria avente anche finalità superiori all’interesse personale del proprietario, non solo, quindi, bene-fine, ma anche bene-mezzo, pensiamo che opportunamente all’articolo 38 la Costituzione proclami da un lato che la proprietà è «garantita» e dall’altro che essa ha una «funzione sociale».

Ma dire «funzione sociale» è dire, in sostanza, «limiti» alla signoria dominicale. Ecco, quindi, la Costituzione, negli articoli 38, 40 e 41 occuparsi di essi, rimandandone, peraltro, la precisazione alla legge. Sarà la legge che: a) determinerà della proprietà i modi di acquisto e di godimento; b) autorizzerà (ripeto qui l’espressione, a mio avviso, inesatta dell’articolo 38) la espropriazione, per motivi d’interesse generale, della proprietà privata, salvo indennizzo; c) determinerà i limiti della proprietà, allo scopo di assicurare la sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti; d) imporrà obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, ne fisserà i limiti in estensione, abolirà il latifondo, promuoverà la bonifica delle terre e l’elevazione professionale dei lavoratori, aiuterà la piccola e la media proprietà.

Come si vede, si parla ora di «vincoli», ora di «limiti», ora di «obblighi», da imporre alla proprietà privata, usandosi termini diversi per indicare la stessa cosa, il che non è certo da approvarsi in un testo di legge; si stabilisce che «la legge» dovrebbe «autorizzare la espropriazione» per motivi di interesse generale, mentre la legge deve indicare soltanto i motivi, l’autorizzazione alla espropriazione derivando dalla norma primaria, che è la Costituzione; si parla di elevazione professionale dei lavoratori a proposito dello sfruttamento del suolo, mentre non è dubbio che di elevazione professionale dei lavoratori è a parlare in ogni campo nel quale una attività lavorativa si svolga; si parla di aiuti alla piccola e media proprietà quasi che la grande proprietà fosse da ritenere senz’altro un elemento negativo per il progresso agricolo.

Bisogna, a mio avviso, chiarire, semplificare, precisare. Basterà, all’uopo, fondere insieme gli articoli 38 e 41 in un solo articolo, che io ho proposto doversi redigere così:

«La proprietà privata è garantita entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi che l’ordinamento giuridico stabilisce anche allo scopo di assicurarne la funzione sociale. Può essere espropriata per motivi di interesse generale, dichiarati con legge, contro indennizzo».

A tale norma potrebbe seguire l’articolo 40 redatto così:

«Per soddisfare esigenze preminenti di servizi pubblici od utilizzare fonti di energia o rimuovere monopoli privati, non confacenti all’interesse generale, lo Stato e gli enti pubblici possono, in base a disposizioni di legge, assumere direttamente o indirettamente determinate imprese o categorie di imprese con trasferimenti di beni e complessi di beni, salvi gli espropri e gli indennizzi da stabilire con legge».

All’articolo 40 potrebbe seguire l’articolo 43, in cui si parla dei consigli di gestione, nella formulazione anche da me proposta e di cui dirò di qui ad un istante.

Altro forse non occorre aggiungere.

  1. a) Può, a mio avviso, essere cancellato dall’articolo 38 il primo comma. Non mi sembra opportuno dichiarare in una Costituzione che «la proprietà è pubblica e privata», inserire, cioè, in essa una distinzione, che io penso debba rimanere riservata ai manuali di diritto civile, anche perché, poi, nel predetto comma si continua a parlare della proprietà privata e non si dice più nulla della pubblica, sì che verrebbe fatto di pensare che la proprietà privata è riconosciuta e garantita e non lo è, invece, la proprietà pubblica, ed anche perché nei trattati e nel Codice non di proprietà privata e pubblica si parla, ma di beni patrimoniali e di beni facenti parte del demanio pubblico.
  2. b) Ugualmente, sembrami inutile scrivere nella Costituzione quello che anche si legge nel primo comma dell’articolo 38, cioè a dire che «i beni economici appartengono allo Stato, ad enti od a privati». Chi volete che non sappia che titolari del diritto di proprietà non possono essere se non le persone fisiche e quelle giuridiche? Che si intende, d’altra parte, per beni economici? Non ignorano i giuristi qui presenti che scrittori molto autorevoli – ricordo il Barassi – distinguono fra beni destinati ad una funzione puramente individuale (beni di consumo strettamente limitato a chi li possiede) e beni che hanno una destinazione, la quale varca il limite dell’individuo ed in qualche modo interessa la collettività, sia in quanto si riferisce alla produzione nazionale, sia in quanto vi domina un interesse culturale (storico od artistico). I primi sono beni di consumo individuale e gli altri di proprietà privata, ma di interesse sociale. Detti scrittori qualificano beni economici questi ultimi. Donde la conseguenza che, parlandosi nel detto comma solo di beni economici, chi legge può riportare l’impressione che la Costituzione non contempli i beni di consumo strettamente individuali, il che è da escludere.
  3. c) È inutile, poi, scrivere nella Costituzione che «la legge determina i modi di acquisto e di godimento» e perfino parlare in essa expressis verbis di successione legittima e testamentaria, perché, a parte il rilievo che tutto ciò è bene abbracciato dall’ampia dizione, da me proposta, in cui si parla di limiti ed obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico, è certo, d’altra parte, che, se la Costituzione «riconosce e garantisce la proprietà privata», riconosce anche implicitamente e garantisce i varî fatti giuridici, cui è riconosciuta la virtù di far sorgere il dominio di un soggetto, quei varî modi, cioè, di acquisto, che la dottrina distingue in originarî e derivativi, a titolo universale ed a titolo particolare, per atto tra vivi e per atto mortis causa.
  4. d) Anche le parole «abolisce il latifondo» possono, a mio avviso, essere soppresse, sia perché la formulazione da me proposta è così ampia da contenere, ove lo si voglia compiere, pur lo spezzettamento del latifondo, sia perché la condanna a morte del latifondo, senz’altro sentenziata dalla Costituzione, potrebbe, quando che sia, essere ritenuta una ingiusta condanna.

Molti si ostinano a ritenere l’affermazione di cui mi sto occupando puramente demagogica. Hanno torto? Non lo so. Ma economisti di valore mi hanno fatto osservare due cose.

La prima: che i fondi debbano essere coltivati, specie in un Paese come il nostro, il quale deve sperare la più salda fortuna dall’agricoltura, è un fatto più che evidente. Ma non è altrettanto evidente che, per raggiungere il fine, sia indispensabile espropriarli. Nessuno è così sciocco da rinunciare ad un maggior profitto. E però, se non sfrutta, come si vorrebbe, il suo fondo, gli è perché o non è possibile sfruttarlo, o perché gliene mancano i mezzi. Nel primo caso, chiunque al proprietario venga, in forza di legge, sostituito, non potrà fare meglio di lui; nell’altro, non si vede perché quell’aiuto, che si dà ad altri, non si dia invece al proprietario, che è sempre il più interessato al maggiore rendimento delle sue terre.

La seconda: il latifondo ha profonde ragioni economiche di esistenza, in quanto costituisce una forma di adattamento dell’agricoltura alle condizioni fisiche ed ambientali, come dimostrò già. parecchi decenni or sono, Ghino Valenti in uno dei suoi mirabili saggi critici intorno al sistema di Achille Loria.

Il latifondo scompare, senza bisogno di leggi, mano a mano che si modificano le condizioni ambientali. Nell’Italia meridionale, dove esistevano condizioni favorevoli alla piccola proprietà coltivatrice, l’antica proprietà baronale si è rapidamente frazionata. Quando il frazionamento è stato determinato dalla legge – ad esempio, le quotizzazioni di usi civici e di beni demaniali – i risultati sono stati buoni solo là dove sussistevano condizioni adatte alla piccola proprietà, mentre sono stati negativi, dove tali condizioni non sussistevano. A me pare, pertanto, che bisogna muovere guerra non al latifondo in genere, anche se attui le forme più progredite ed intensive di agricoltura, ma alla proprietà capitalistica, che ristagni in un latifondismo incompatibile col progresso tecnico moderno e con una densa popolazione, che cerca lavoro e pane, alla proprietà capitalistica, che sia da considerarsi patologica forma di proprietà afunzionale, in una comunità povera come la nostra essendo necessario che nessuno possieda un bene strumentale, quale è la terra, senza attivarne in pieno la funzione produttiva e, quindi, sociale.

  1. e) È inutile, poi, parlare di «bonifica delle terre», perché non è a dubitare che, quando si parla di funzione sociale-limite, si tiene presente, indagandone, il contenuto, anzitutto la bonifica (vedi articolo 857 e seguenti del Codice civile) e, d’altra parte, non si trascurano i vincoli idrogeologici, le difese fluviali, il riordinamento in genere della proprietà rurale.
  2. f) È un errore anche, a mio avviso, (qualcuno ha scritto che è ingenuo e paradossale) scrivere nella Costituzione che «la legge aiuta la piccola e la media proprietà» e «fissa i limiti di estensione della proprietà terriera». È un errore, perché, come ho già innanzi accennato, è vero che esistono in Italia estesi e cospicui tipi di agricoltura (si pensi alla ortofrutticoltura di molta parte del Mezzogiorno), nei quali la piccola impresa del contadino può essere citata ad esempio di alta produttività; ma è vero, altresì, che in altri tipi di coltura – quelli, soprattutto, che hanno per base le comuni grandi produzioni cerealicole ed animali – è indiscutibile la superiorità della grande azienda, per cui sarebbe un vero delitto promuoverne la sostituzione con piccole aziende di contadini. Vi sono perfetti organismi produttivi, come le cascine lombarde, basati sulla grande irrigazione, sulla lavorazione meccanica, sulle colture industriali, nella intelligenza direttiva pronta ed abilissima.

Quale altro tipo mai di azienda potrebbe ora sostituire questo, che si è andato costituendo attraverso una continua opera di perfezionamento e di evoluzione produttiva, che è stato capace di trasformare terreni poveri in una delle più fertili plaghe del mondo? È un errore, perché la struttura della proprietà fondiaria, come ho già rilevato a proposito del latifondo, non nasce per caso e non si mantiene per tradizione o per fobia del nuovo, ma è una conseguenza di un processo di adattamento suo alla linea della convenienza economica, che è determinata da tutto un mosaico di condizioni ambientali. Nella bassa Lombardia irrigua prevalgono le grandi aziende, nell’Italia centrale le grandi e le medie e nell’Italia meridionale e nella montagna alpina le piccole proprietà, e qua e là affittanze collettive, piccole aziende legate e completate da intense attività cooperativistiche, che costituiscono altrettanti temperamenti alle estreme soluzioni della grande e piccola azienda. Questa situazione di cose deriva dal caso e si mantiene per tradizione o per fobia del nuovo? Neanche per sogno. Che cosa può fare ora la legge? Io ritengo che non possa arrecare che danni, ove intervenisse anche solo per accelerare quel processo di adattamento, di cui ho parlato. Ammesso che la legge non sia elusa dal sorgere di tutte quelle possibili forme di evasione di cui è piena la storia, come i contratti cum amico, che sorsero in occasione dell’applicazione delle leggi Liciniae-Sextiae, la limitazione al diritto di proprietà – sia che si attuasse tenendosi conto dell’ampiezza di superficie, sia che si attuasse tenendosi conto della così detta «ampiezza economica» – recherebbe niente altro che danni, perché si avrebbero nel primo caso le più inique e dannose sperequazioni, si verrebbero, nel secondo, a colpire di fatto proprio i patrimoni terrieri più intensamente funzionali ed a premiare quelli più deteriormente condotti, e nell’un caso e nell’altro si svierebbero pericolosamente i capitali dagli impieghi agricoli e si fermerebbe l’ascesa degli agricoltori migliori.

Attenti, quindi, ai mali passi. Chi l’agricoltura italiana – che è un mirabile strumento creato dall’uomo in un ambiente naturale poco favorevole o del tutto sfavorevole, ma profondamente vario – considera come la base fondamentale della nostra vita economica, chi comprende come solo attraverso un suo miglioramento le condizioni di vita del popolo italiano possano cambiare, deve molto riflettere sulle proposte di vincoli, di cui ho parlato, perché non è affatto certo che essi daranno realmente i risultati sperati, mentre è molto più probabile che saranno cagione di crisi e di ulteriore decadenza.

  1. g) La nuova formulazione, da me proposta, dell’articolo 40 sembrami più precisa. Nel testo del progetto si parla di: «determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio».

Non mi pare che sia esatto parlare di imprese, che «si riferiscano» a situazioni di monopolio e mi sembra strano, poi, che si esproprino le imprese «per coordinare» le attività economiche. È preferibile, invece, dire che l’assunzione di esse da parte dello Stato e degli enti pubblici ha luogo «per soddisfare esigenze preminenti di servizi pubblici od utilizzare fonti di energia o rimuovere monopoli privati». È bene anche sottolineare che non basta che una impresa assuma carattere di monopolio, perché la si possa espropriare: occorre ancora che il monopolio contrasti con l’interesse generale. Vi deve essere incompatibilità fra il dominio privato e l’interesse pubblico. Se così non fosse, si arriverebbe alla conseguenza che, mentre da una parte si affermerebbe la necessità della libera iniziativa e della proprietà privata, dall’altra si darebbe allo Stato la più vasta ed indeterminata possibilità di togliere ai cittadini il prodotto della propria attività per trasferirlo o ad enti pubblici o a comunità di utenti.

  1. h) Quanto, infine, ai consigli di gestione, di cui tanto animatamente oggi si discute – i salariati considerandoli come qualche cosa di atto a salvaguardare gli interessi stessi del processo produttivo, di cui diventano compartecipi attivi e ragionanti, e gli imprenditori avversandoli, in quanto li considerano forme ibride di collaborazione coatta, dannosi alla vita aziendale, agli interessi veri dei lavoratori ed all’economia del Paese – io ho ritenuto di dover proporre che alle parole del progetto: «I lavoratori hanno diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende, ove prestano la loro opera» siano aggiunte le parole «per cooperare allo sviluppo tecnico ed economico di esse». Penso che la aggiunta sia da approvare, perché sono convinto che i lavoratori hanno, sì, il desiderio di collaborare, ma nessun desiderio di assumere rischi. E, d’altra parte, una normale forma di collaborazione fra datori di lavoro e lavoratori non inciderebbe sull’ordine aziendale, restando salvaguardate l’autonomia e la responsabilità degli organi direttivi dell’impresa. Non so se è vero, ma ho sentito dire che il Ministro Morandi, estensore dell’ormai famoso progetto, ha detto che i consigli di gestione, se attuati nella formula piena, fatalmente «scasserebbero» le aziende.

Lavoro. – Del lavoro e dei lavoratori la Costituzione si occupa in diversi articoli, affermando:

  1. a) che la Repubblica tutela il lavoro;
  2. b) che ogni cittadino ha il dovere di lavorare, pena la perdita dei diritti politici;
  3. c) che ogni cittadino ha il diritto al lavoro e che lo Stato promuove le condizioni per renderlo effettivo;
  4. d) che ogni lavoratore ha diritto ad un equo salario, al riposo settimanale, a ferie annuali, all’assistenza in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, disoccupazione involontaria;
  5. e) che, quanto al lavoro, la donna ha gli stessi diritti dell’uomo;
  6. f) che i lavoratori hanno diritto di sciopero;
  7. g) che i lavoratori hanno diritto di associarsi e che l’associazione professionale è libera.

Anche in materia ho presentato degli emendamenti:

1°) Ho proposto, anzitutto, la soppressione del primo comma dell’articolo 30, redatto così: «La Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni».

E o non è la Repubblica fondata sul lavoro? Ed allora il lavoro è forza essenziale della società. Mi piacciono le parole scritte in questi giorni su di una rivista dall’onorevole Saragat: «Solo sul lavoro si potrà fondare un ordine nuovo più giusto di quello attuale, che solo nel lavoro gli uomini troveranno un rapporto di colleganza veramente umano». È il lavoro che ci sostiene. Or, se questo è, non vi è chi non veda come sia uno sminuire l’importanza di quella forza, che costituisce la base granitica dello Stato, parlare di tutela, che di essa lo Stato assumerebbe.

2°) Anche nel capoverso dell’articolo 30, redatto così: «Promuove e favorisce gli accordi internazionali per affermare e regolare i diritti del lavoro», ho proposto una nuova formulazione, che sembrami più chiara, più semplice ed anche, perché no?, più snella. È la seguente: «Lo Stato favorisce gli accordi internazionali per la regolamentazione del lavoro italiano all’estero». Va da sé che la norma dovrebbe trovare la opportuna collaborazione in altro posto della Costituzione e precisamente dopo l’articolo 37.

3°) Altri emendamenti riguardano gli articoli 33 e 34; ma attingono essi la forma, non la sostanza delle norme.

4°) Ed ora del dovere del lavoro.

Lavoro è – nella eccezione più comprensiva ed universale – qualsiasi attività, per la quale le facoltà dell’uomo, abbandonando l’inerzia, passano dalla casualità potenziale, alla causalità attuale. E, poiché l’individuo vive una vita, che è legata organicamente a quelle del complesso sociale, sì che comuni sono la grandezza e la decadenza, la floridezza e le difficoltà, i benefici e le sofferenze, egli deve contribuire attivamente a produrre quel patrimonio, del quale egli pure vive. Il lavoro è, quindi, un dovere sociale. Siamo, però, sempre nel campo della morale, non nel campo strettamente giuridico ed i doveri semplicemente morali, come è stato con esattezza scritto, non sono gabbie di ferro, ma cerchi di luce, che possono abusivamente oltrepassarsi. Il dovere sociale di lavorare diviene giuridico – in ciò la dottrina è concorde – soltanto quando sia liberamente assunto con contratto esplicito od implicito. È assurdo, quindi, stabilire una sanzione per un dovere non giuridico. Ecco perché non sembra che sia da approvare l’ultimo capoverso dell’articolo 31 della Costituzione, in cui si stabilisce che l’adempimento del predetto dovere è «condizione per l’esercizio dei diritti politici». La Costituzione, d’altra parte, verrebbe a stabilire una vaga fonte d’incapacità politica in contradizione con quanto si legge nell’articolo 45, dove si determina che non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale. Vaga fonte, dicevo, perché chi siano gli individui colpiti da incapacità civile è facile determinare; ma non ugualmente agevole è elencare coloro che non svolgono un’attività proficua alla società, donde la possibilità di discriminazioni arbitrarie ed odiose da parte del potere esecutivo, nelle cui mani potrebbe la formula diventare facile strumento per eventuali limitazioni in materia elettorale.

5°) In contrasto con l’affermazione che tutti i cittadini hanno il dovere di lavorare, sembrami l’affermazione dell’articolo 36 che tutti i cittadini hanno il diritto di sciopero. In una società bene organizzata la tutela dei diritti, compresi quelli dei lavoratori, deve essere assunta dal corpo sociale il quale deve perfezionare la propria legislazione e le proprie istituzioni in modo che venga progressivamente abolita ogni difesa privata. Un articolo della Costituzione, che decretasse libertà incondizionata di sciopero, paralizzerebbe perciò il progresso legislativo verso la tutela collettiva dei diritti. Non si dimentichi, poi, che l’esercizio dei diritti individuali o di classe debbono sempre rimanere subordinati alle esigenze del bene comune. Ora gli scioperi non conferiscono affatto al bene comune, come ciascuno, che sia in buona fede, deve riconoscere sol che per un istante si ripieghi su se stesso e consideri un po’ quello che quotidianamente accade.

I giornali annunziano che molte fabbriche italiane si trasferiranno in Brasile ed in Argentina, aggravando la già pesante situazione dei nostri operai. Perché accade ciò? Perché le industrie, per prosperare, hanno bisogno di ordine – primo e necessario presidio di tutta la vita civile – e di tranquillità, non di scioperi permanenti. In un clima avvelenato da scioperi non si produce. Lo sciopero è sempre elemento di disordine, distruttore od almeno ritardatore di ogni possibilità di ripresa. Scioperi vi sono stati che in breve tempo hanno soppiantato l’organizzazione statale, il che ha fatto e fa venir meno la fiducia della Nazione nell’opera del Governo. Finché ora, per via della scioperomania dilagante, lo Stato apparirà sempre meno il Paese fatto legge e sempre più il gruppo fatto sopruso, è inutile parlare di quell’incremento della produzione che, come diceva giorni fa l’ambasciatore degli Stati Uniti a Milano, costituisce la terapia sovrana per l’economia italiana.

In sostituzione dello sciopero occorre costruire un sistema giuridico ben congegnato, attraverso il quale possano le controversie collettive essere risolte. L’arbitrato obbligatorio, a cui gli Stati più evoluti dal punto di vista sociale sono già pervenuti, è forse l’unico sistema veramente concludente, che possa evitare, con utilità di tutti, gli scioperi.

A mio avviso, pertanto, l’articolo 36 va soppresso. Ove non lo si volesse sopprimere, si dovrebbe riconoscere anche il diritto di serrata, perché l’un diritto non può andare disgiunto dall’altro, intimamente connessi essendo sciopero e serrata nel libero agone dei contrasti sociali, e si dovrebbe altresì attenuarlo, condizionando l’esercizio dell’uno e dell’altro al bene della collettività, come ha fatto la recente Costituzione francese, più accurata e più guardinga del nostro progetto in questo punto particolarmente delicato per la tranquillità e l’armonia sociale.

6°) Ugualmente sembrami che sia da modificare il primo comma dell’articolo 31, che proclama il principio del diritto al lavoro. Tale diritto vanta, come è noto, una elaborazione più che centenaria. Ma Marx ebbe esattamente a rilevare che la formula «diritto al lavoro» rimase sempre una «goffa formula». Volete non preoccuparvi delle goffaggini? A me pare che bisogna preoccuparsene. Io non intendo affatto ripetere qui quanto ho già rilevato con la mia relazione e in occasione dei lavori della terza Sottocommissione, della quale ho avuto l’onore di far parte, riaffermando che di un diritto al lavoro non si può parlare senza un corrispondente dovere della collettività di garantire a tutti i suoi membri, che si trovano nello stato di disoccupazione involontaria, una occupazione retribuita e che non è degno della nostra probità inserire nella Carta costituzionale che lo Stato ha il dovere di trovare lavoro ai disoccupati, quando ci troviamo di fronte ad una massa di disoccupati, che, purtroppo, aumenta e non diminuisce.

Desidero, invece, rilevare che in una Costituzione, in cui si garantisce la proprietà privata dei mezzi di produzione, l’affermazione di un diritto al lavoro sembrami un assurdo, le due affermazioni essendo antitetiche. Nel 1848 Marx scriveva: «Dietro al diritto al lavoro sta la presa di possesso dei mezzi di produzione, il loro assoggettamento alla classe lavoratrice associata e l’abolizione del lavoro salariato del capitale e del loro rapporto di scambio». E Proudhon precisava che il diritto al lavoro da lui associato con quello al prodotto integrale contro l’esistenza di una rendita senza lavoro, si converte in diritto al capitale. Anche M. Barthe all’Assemblea nazionale chiariva che tale diritto implica una organizzazione nazionale del lavoro, cioè tutta una riorganizzazione della società. Un diritto al lavoro è, pertanto, come riconosce anche l’onorevole Togliatti nella sua relazione, incompatibile col sistema del profitto capitalistico e della proprietà privata dei mezzi di produzione. Forse non è inopportuno aggiungere che una politica di impiego totale (full employment) in Italia non è possibile. La teoria dell’impiego totale, creata dal Keynes e sviluppata dagli studiosi keynesiani, si sta traducendo ora in piani concreti in vari paesi. Ma le soluzioni proposte di marca keynesiana, concepite tutte puramente dal punto di vista monetario e creditizio, mirano a fare sì che lo Stato intervenga ad aumentare «la spesa totale» per ristabilire l’equilibrio tra domanda ed offerta di beni, rotto dall’esistenza di una massa di risparmio, che resta inutilizzata. In Italia, invece, noi soffriamo di una deficiente formazione di risparmio e non, secondo lo schema keynesiano, di un eccesso di risparmio. I piani di full employment, per esempio, anglosassoni, come è stato giustamente rilevato, mirano a premunirsi contro la fase ciclica di sovraproduzione per evitare la disoccupazione; il problema italiano, invece, almeno per parecchi anni, è quello della formazione di un maggior risparmio e di maggiori possibilità di produzione. Ma, questo detto per lealtà, convinto come sono che l’ipocrisia messa in articoli di legge sia la peggiore fra le ipocrisie, e precisato che il diritto al lavoro è un diritto in formazione, o, come lo chiama l’illustre presidente della Commissione, onorevole Ruini, che è un sottile e delicato giurista, un diritto «potenziale», non sarò certo io a voler cancellare dalla Costituzione una formula che, in ogni caso, esprime una grande ansia collettiva di sviluppo civile. Ecco perché ho proposto una nuova formulazione dell’articolo 31, in cui si parla anche di diritto al lavoro. La nuova formulazione è la seguente: «Lo Stato promuove lo sviluppo economico del Paese e predispone le condizioni generali per assicurare più che possibile ai cittadini l’esercizio del loro diritto al lavoro».

7°) Poche parole ancora a proposito del sindacato, che mi auguro resti espressione spontanea della socialità inerente alla natura umana, rocca in cui il lavoro sta al riparo dalle ingiuste aggressioni e sia considerato sempre come una palestra di ascensione operaia, senza mai diventare vivaio di agitazioni perenni, covo di speculatori o di organizzatori di scioperi, fucina di attentati alla pacifica convivenza e alla prosperità economica della Nazione.

L’articolo 35 dispone che «l’organizzazione sindacale è libera», che «non possono essere imposti ai sindacati altri obblighi che la registrazione presso uffici locali e centrali, secondo le norme di legge» e che «i sindacati registrati hanno personalità giuridica».

Io sopprimerei questi due ultimi commi, specie il secondo, sia perché l’affermazione è molto vaga, non precisandosi se trattasi di personalità giuridica di diritto privato o di diritto pubblico, sia perché, dandosi dall’ultimo comma dell’articolo ai sindacati il potere di stipulare contratti collettivi di lavoro, per ciò stesso viene ad essi riconosciuta la personalità giuridica.

Cooperazione. – Circa la cooperazione osservo che l’articolo 42 è redatto in guisa che non sembrami che possa essere approvato. Bisogna chiarire che cosa è la cooperazione e riconoscere, poi, che si deve incrementare l’impresa cooperativa, non la funzione sociale della cooperazione, la quale resta quella che è e per la quale penso di sottolineare qui solo questo: che essa è funzione economica, in quanto ha lo scopo di aumentare la capacità d’acquisto e di consumo dei soci, ed anche funzione sociale, in quanto porta l’individuo a sentire la superiorità del lavoro associato e, quindi, a uscire dal chiuso cerchio del suo egoismo per considerarsi membro della famiglia cooperativa, dando e ricevendo aiuto nell’opera di realizzazione dello scopo comune. Io ho proposto un articolo così redatto: «È promossa ed agevolata l’impresa cooperativa di lavoratori e consumatori, che si associano, su basi di mutualità, per provvedere alla tutela dei propri interessi o per scopi di utilità generale».

PRESIDENTE. Onorevole Colitto, ella parla da 50 minuti.

COLITTO. Ho finito. Sono arrivato all’ultimo emendamento. Lei mi sta seguendo.

PRESIDENTE. Io la seguo.

COLITTO. Risparmio e credito. – Anche circa la difesa del risparmio e la vigilanza sulla disciplina della funzione creditizia ho proposto un emendamento. L’articolo 44 dice: «La Repubblica tutela il risparmio; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito». Io ho proposto che l’articolo sia così redatto: «Lo Stato incoraggia e tutela il risparmio e vigila sull’esercizio del credito e sugli istituti bancari con un organo di coordinamento stabilito per legge». Tale organo, naturalmente, trattandosi dell’esercizio di una funzione di preminente interesse nazionale, dovrebbe essere un organo della pubblica amministrazione.

Onorevoli colleghi, allorché, redatto il progetto della Costituzione napoletana, Mario Pagano, per mezzo del comune amico Vincenzo Russo, pregò Vincenzo Cuoco di dare su di essa il suo giudizio, l’illustre uomo, fra l’altro, gli scrisse: «Non ho creduto mai facile dare le leggi ad un popolo. Platone, invitato più volte a questo cimento, lo credette superiore alle sue forze. Colui che ambisce la gloria di legislatore deve dire a se stesso: io debbo rendere milioni di uomini felici, decidere della sorte di due secoli». Ed ancora: «Debbo alla nazione far sentire ed amare la sua felicità… Rimarrei, altrimenti, con l’inutile rimorso di aver tolta al popolo la legge antica senza avergliene data una nuova, perché non merita nome di legge quella che il popolo non intende e non ama».

Io formulo fervidissimo l’augurio che risultato dei nostri lavori sia una Costituzione, che davvero il popolo sanamente intenda e profondamente ami. (Applausi a destra).

Presidenza del Vicepresidente CONTI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Maffioli. Ne ha facoltà.

MAFFIOLI. Onorevoli colleghi, sia concesso anche a me, il cui unico orgoglio è il provenire da una classe di autentici lavoratori, di portare qui la voce della stragrande maggioranza del popolo che realmente lavora e soffre, ma che rifugge istintivamente dalla rettorica e dai formalismi.

Il titolo III del progetto della nuova Costituzione tende, in sostanza, a risolvere la questione sociale secondo i dogmi e i preconcetti che sono propri dei sistemi totalitari e statolatri. (Commenti a sinistra).

Nelle sue linee essenziali e fondamentali, infatti, il titolo III tende ad accentrare nello Stato tutte quelle facoltà che per diritto naturale spetterebbero all’individuo in rapporto alla proprietà privata e alla libera iniziativa economica privata. Pur proclamando, in teoria, la legittimità della proprietà privata (articolo 38), e pur riconoscendo e anzi garantendo la libertà dell’iniziativa economica privata (articolo 38 e 39), in realtà ne prevede e ne suggerisce tante e tali limitazioni che, in definitiva, non si saprebbe ben comprendere che cosa potrebbe restare più di codesti due concetti essenziali ad ogni civile convivenza.

Così, ad esempio, dopo aver affermato la legittimità della proprietà privata e dell’iniziativa privata (articolo 38 e 39 citati) il progetto si affretta tosto a soggiungere chela legge determina i modi di godimento ed i limiti della proprietà allo scopo di assicurare la sua funzione sociale, e di renderla accessibile a tutti.

Dunque non si può più parlare di libera iniziativa economica privata, ma al più di iniziativa controllata o pianificata, quando la proprietà privata di cui la libera iniziativa è l’attributo essenziale, sia limitata ad ogni momento dallo Stato nel suo modo di acquisto e di godimento.

Una proprietà privata, che nel contempo ha una funzione che viene considerata eminentemente «sociale», cioè «comune», è in definitiva regolata dal potere centrale, a suo esclusivo piacere anche nel modo di godimento.

Del resto già coll’articolo 37 precedente, ci si era dati cura di precisare previamente che «la legge determina» le norme e i controlli – cioè gli ulteriori limiti – perché le attività economiche private possano essere «armonizzate ai fini sociali», fini sociali che costituiscono una vera idea fissa che domina l’intero titolo III.

Quasi non bastasse ancora, nell’articolo 39 si ribadisce poi nuovamente che l’esercizio dell’iniziativa privata non può rivolgersi in contrasto con l’utilità sociale. (Quale poi?).

Nell’ultimo comma di tale articolo, si sanziona il diritto dello Stato d’espropriare – sia pure salvo indennizzo – la proprietà privata per il solito motivo di quell’araba fenice che si chiama «comune interesse» (interesse che, come tutti sanno, è poi sempre quello della cricca dominante).

Né basta. Nell’articolo 40 si riconferma per l’ennesima volta il diritto dello Stato di espropriare ciò che meglio creda in fatto di imprese singole o addirittura di categorie di imprese.

Ma gli ultimi colpi di grazia veri e propri all’istituto di quella proprietà e di quella privata iniziativa, di cui poco dianzi si era proclamata la legittimità e di cui si era anzi assunta la garanzia, sono dati dagli articoli 30, terzo comma, 41 e 43.

L’articolo 41 non si limita, come sarebbe ragionevole, a proclamare l’abolizione del latifondo, ma suggerisce fin d’ora una legge che fissi i limiti di estensione della proprietà privata (limiti che, notisi bene, potrebbero essere pure inferiori alle poche dessiatine riconosciute dal codice russo ai propri contadini…). Si suggerisce quindi anche una legge che abbia a fissare i limiti delle successioni testamentarie, nonché, si badi bene, i diritti dello Stato sulla eredità (articolo 38, terzo comma). Viene quindi il conclusivo articolo 43, che sancisce il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle aziende, sanzionando così il demagogico slogan «la fabbrica è nostra» con cui si sogliono imbottire i crani degli operai. (Interruzioni a sinistra).

Si potrebbe chiedere, dopo tanto scempio, che cosa resti più dell’affermato e, notisi, garantito istituto della proprietà e dell’iniziativa privata, e se il riconoscimento della loro legittimità non sia fatto per burla.

Con tante riserve esplicite ed implicite, dirette e indirette, formali e sostanziali, con gli ultimi emendamenti perentori che dispongono la limitazione quantitativa della proprietà terriera, nonché la limitazione delle successioni, nonché il diritto dello Stato di scacciare l’erede autentico, per carpirgli l’eredità, e infine il diritto delle cosiddette masse di subentrare nella amministrazione delle aziende che non sono di loro proprietà (Interruzioni a sinistra), come si potrà più parlare seriamente di proprietà privata, di libero esercizio dei diritti inerenti a tale proprietà, in codesto Stato-piovra, che si riserva di controllare e di sfruttare, secondo il capriccio della cricca imperante, persino le secrezioni sebacee di singoli cittadini?

È innegabile che il titolo III del progetto in esame ha posto nel più esplicito dei modi tutti i presupposti etico-giuridici per l’attuazione di un ordinamento totalitario, affermando teoricamente che c’è la proprietà privata, ma in pratica sopprimendo pur anche le tracce della proprietà privata e dell’iniziativa economica privata, e sanzionando la più sfacciata sopraffazione dello Stato in ogni campo della vita pubblica e privata, sì da creare il presupposto statutario di uno schiavismo statale che lo stesso fascismo non aveva osato e saputo concepire. (Rumori a sinistra).

Riconosciamo la necessità di apportare limitazioni all’incondizionato godimento del diritto di proprietà, nonché all’esercizio dei diritti che le sono inerenti, ma tali limitazioni debbono essere atte a impedire la formazione del supercapitalismo privato, che è altrettanto nefasto per la libertà individuale quanto il supercapitalismo di Stato; oppure atte a meglio far fronte alle ineluttabili esigenze della Nazione durante determinati periodi di emergenza tassativamente previsti e regolati da norme eccezionali.

A questi due tipici casi affatto eccezionali, vogliamo da ultimo aggiungere il caso di espropriazione per causa di vera ed evidente pubblica utilità e contro congruo indennizzo; ma anche in questa terza ipotesi l’eccezionale limitazione dovrà essere disciplinata da rigorose norme legislative che difendano il privato cittadino dall’arbitrio del potere centrale, l’esproprio dovrà essere condizionato all’evidenza della pubblica utilità, ma intesa nel senso obiettivo della parola, nonché alla obiettiva equivalenza del corrispettivo della espropriazione; il tutto da esercitare sotto la tutela della Magistratura, garante della giustizia.

All’infuori di codesti pochi e ben individuati casi, la proprietà privata e la libera iniziativa economica non possono trovare – a pena di non essere più – altro limite all’infuori di quelli imposti dei codici comuni, essendo evidente che il diritto di proprietà, come la libertà, o sono o non sono: o si ammettono o si negano; e se si ammettono non debbono subire altri limiti che quelli imposti dalla stessa necessità di preservarle contro tutte le sopraffazioni e i tentativi di spoliazione.

All’aberrante statomania, al furore settario e totalitario del titolo III, fa poi riscontro una sostanziale carenza logica strumentale.

Non si può concepire il diritto di sciopero, riconosciuto a una classe di lavoratori, senza che sia riconosciuto anche quell’altro diritto di sciopero che è il diritto di serrata, all’altra categoria di lavoratori datori di lavoro. Non si può concepire maggior contradizione in termini di quella di coloro che mentre si danno l’aria di riconoscere e garantire la legittimità della libertà privata e dell’iniziativa economica privata, statuiscono fin d’ora l’annientamento della proprietà a profitto del così detto Stato che noi, ancora sanguinanti da tragiche esperienze, sappiamo essere lo Stato totalitario, lo Stato etico, lo Stato vampiro, lo Stato assolutista, rappresentante di una minoranza armata, senza scrupoli, che nel campo delle energie produttrici della Nazione, si muove come un toro impazzito in un negozio di gingilli.

Vale la pena, prima di chiudere, soffermarsi su quel capolavoro di settarismo che si concreta nell’articolo 43, «perla» dell’intero titolo.

«I lavoratori hanno diritto di partecipare alla gestione dell’azienda».

Si vuole evidentemente alludere all’amministrazione e direzione dell’azienda, essendo ovvio che alla gestione, intesa nel senso più lato di «funzionamento» dell’azienda, tutti i lavoratori concorrono e hanno sempre concorso.

Ma in che modo, la massa degli operai e impiegati potrebbe partecipare alla direzione dell’azienda?

Basta porre la questione, senza fumisterie demagogiche per rendersi conto che mai e poi mai la «massa» parteciperà alla direzione dell’azienda. Vi parteciperà l’esigua minoranza dei «delegati» della massa, ossia praticamente un’aristocrazia, la quale, dal momento stesso in cui avrà lasciato la falce e il martello, o il libro dei conti, per dedicarsi alle nuove funzioni comportate dalla direzione dell’azienda, dovrà subire un radicale cambiamento nel modo di pensare, di sentire, di operare, sì da adeguarsi nella misura delle sue possibilità, alle esigenze delle superiori funzioni direttive e delle dure leggi economiche. Sentirà con ciò stesso di essere diventata l’eguale e l’emula dall’amministratore naturale e legittimo. Nascerà in tal modo una nuova classe borghese che non avrà più nulla di comune, per il modo di pensare, di sentire e di agire, con la massa degli altri lavoratori prestatori d’opera.

Orbene, quali motivi e ragioni potrebbero consigliare una tale sostituzione fra dirigenti? Non certo la ragione economica, cioè quella del massimo rendimento dell’azienda (che è poi l’unica che anche nel campo dell’economia sociale dovrebbe contare).

Basti riflettere che la classe dei dirigenti naturali, è di solito costituita da individui che sono assurti ai posti di comando in virtù di una inclinazione e attitudine naturale, di una lunga preparazione tecnico-professionale, spesso respirata fin dall’ambiente familiare; diventati tali, cioè, in virtù di una selezione naturale, di una fatale legge di ambiente, per la quale solo i «migliori» i più «adatti» e dotati possono affermarsi e quel che più conta, «mantenersi» nelle posizioni conquistate. I mediocri, gli inadatti sono man mano eliminati dalle ferree leggi della concorrenza. Ora è notorio che la scelta delle masse si determina di solito in virtù di considerazioni politiche, di raccomandazioni, di pressioni dirette o indirette del partito dominante o influente, motivo per cui, più che le persone più dotate e più adatte dal punto di vista tecnico-professionale, sarà scelto lo zelatore, l’attivista, il fiduciario del partito politico dominante, scelta sicuramente nefasta per le esigenze del miglior funzionamento dell’azienda. Questo possiamo dirvelo con tranquilla coscienza, noi che abbiamo incominciato a fare esperienza con le Commissioni interne, nelle quali prevale quasi sempre l’elemento meno equilibrato, più violento, fazioso, il meno adatto dal punto di vista della competenza specifica.

Dal punto di vista della competenza degli elettori, poi, si rileva in ogni caso l’assoluta incompetenza, e vorrei dire impotenza della massa a fare una buona scelta.

Per poter giudicare assennatamente se un candidato è maturo per esercitare la professione del medico, il giudicante deve conoscere anzitutto la scienza medica. Per giudicare quale persona sia idonea a ricoprire degnamente la carica di direttore di una determinata azienda, bisogna che il giudice – e cioè l’elettore – conosca a fondo la natura e le esigenze delle funzioni direttive alle quali si tratta di destinare l’individuo che si vuole eleggere, ciò vuol dire che la massa dovrebbe conoscere a fondo, per così dire, la fisiologia dell’azienda, cioè il complesso delle esigenze tecniche, economiche, morali che ne determinano il miglior funzionamento intrinseco; dovrebbe poi altresì conoscere a fondo le leggi che determinano la concorrenza e l’economia generale del mercato: tutto ciò, insomma, che costituisce il geloso e spesso insostituibile e inalienabile patrimonio intellettuale di un buon amministratore.

Ma la massa non è composta di siffatti competenti, altrimenti non sarebbe massa, dunque mai potrà conoscere quali esigenze richiedano le funzioni amministrative cui si tratta di preporre l’uomo più adatto, e perciò stesso mai potrà dare un giudizio motivato e competente sulla scelta dei dirigenti, salvo che per azzardo.

Dal punto di vista economico del miglior rendimento, la sostituzione si dimostra quindi del tutto insensata, o, nella migliore delle ipotesi, problematica ed aleatoria quanto mai. Non resta dunque che la ragione politica, o meglio la ragione della fazione, a consigliare e volere una tale sostituzione o collaborazione, in quanto cioè, si vuole che la corrente dominante, abbia i propri caporali ai posti di comando delle aziende private a vigilarne il funzionamento per il proprio tornaconto politico.

Or tutto questo significa danno per la produzione e, in ogni caso, incertezza e aleatorietà per ciò che concerne il miglior rendimento dell’azienda in quanto si antepongono gli interessi politici alle esigenze economiche, e per contro significa attuazione certa di uno dei più pericolosi mezzi di dittatura, quale può essere appunto un organo di comando aziendale disposto a conformare le proprie direttive alla volontà del potere politico centrale, della cricca al potere (direttive che, come l’esperienza insegna, sono sempre funeste).

Ma la condanna più decisiva del titolo III, è imposta dal rilievo che il nuovo ordinamento vagheggiato dai nostri statomani, dal punto di vista del benessere economico e morale delle classi diseredate, non ci dice nulla e non risolve nulla.

Noi pertanto riteniamo che lo Stato propugnato dall’Uomo Qualunque potrà risolvere la questione sociale dando alle masse effettiva e sostanziale elevazione morale e materiale, basata:

1°) sulla partecipazione del lavoratore alla ricchezza che egli concorre a creare, partecipazione fondata non su un’illusoria e impossibile partecipazione alla direzione, dell’azienda che fa comodo solo ai caporaletti sfruttatori delle masse, ma bensì su una possibile, benefica ed effettiva sua partecipazione ai beni comuni nella solidarietà e nella collaborazione dei fattori della produzione sotto la forma di una sua interessenza alla produzione in aggiunta alla giusta retribuzione;

2°) sulla garanzia di una istruzione gratuita, che comporti almeno tre anni di preparazione tecnico-professionale, oltre ai corsi elementari;

3°) sulla garanzia di una istruzione superiore gratuita per i figli dei lavoratori che dimostrino spiccata attitudine e capacità;

4°) sulla istituzione di una vera Banca del lavoro, che sia una Banca di lavoratori che possa fornire ai lavoratori intelligenti e intraprendenti i mezzi per potere a loro volta diventare imprenditori.

Onorevoli colleghi, il quesito che vi si pone, con la definitiva redazione del titolo III, comporta la scelta fra due concezioni politiche: da una parte lo Stato democratico, dall’altra lo Stato totalitario, fra un sistema fondato sull’armonia sociale, sulla collaborazione leale e feconda fra le classi (che solo possono portare al maggior benessere collettivo e individuale) e un sistema che perpetua la lotta di classe e aggrava la miseria morale e materiale in cui viviamo, contravvenendo alle eterne, ferree inviolabili leggi economiche, e adulterando i concetti economici – e in campo economico – con concetti politici. (Applausi a destra).

(La seduta, sospesa alle 19 è ripresa alle 19,15).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la onorevole Guidi Cingolani Angela Maria. Ne ha facoltà.

GUIDI CINGOLANI ANGELA MARIA. Onorevoli colleghi, il titolo terzo risponde veramente, nella sua articolazione, agli articoli fondamentali della Costituzione, dall’articolo primo che consacra il lavoro come base della Repubblica democratica italiana, agli articoli che, riconosciuta la dignità della persona umana, ne riaffermano i diritti essenziali, l’eguaglianza di fronte alla legge e di fronte alla possibilità del suo completo sviluppo, reso possibile dall’adempimento del compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale.

Il titolo, forse, è limitato e non risponde pienamente all’importanza degli articoli. Non c’è una paratia stagna tra rapporti economici e rapporti sociali. Non solo ci sono interferenze fra i due rapporti, ma talvolta proprio l’uno è in funzione dell’altro, come, per esempio, i problemi del salario interferiscono sul problema della famiglia.

Né deve meravigliare l’inserimento in una Costituzione di articoli riguardanti il lavoro, il salario, la proprietà, la previdenza, l’assistenza, la cooperazione, il risparmio. Risponde ciò, oltre che ad una esigenza di orientamento moderno sul piano nazionale, anche ad un orientamento internazionale, al quale l’Italia non solo non può sottrarsi, ma deve, da sua parte, contribuire a renderlo più preciso e più deciso.

Nell’esaminare gli emendamenti proposti all’articolo 30, ho trovato che due di essi mi hanno maggiormente interessata: l’uno mirante alla soppressione dell’articolo, l’altro a limitare la regolamentazione del lavoro italiano all’estero.

Mi permetto di attirare l’attenzione dei proponenti e di voi, onorevoli colleghi, sul vasto movimento, di idee che, fin dal secolo scorso, ha preluso alle prime forme di organizzazione internazionale del lavoro, dalla prima associazione internazionale sorta in Isvizzera, per la protezione legale dei lavoratori, a quel congresso di Washington del 1919 dove fu costituita l’attuale organizzazione internazionale del lavoro.

L’Italia ha degnamente partecipato a questa costituzione a nome di tutti i lavoratori che non cercano soltanto una particolare tutela quando siano emigrati, ma che intendono essere oggetto primo della cura di tutti gli Stati perché sia facilitata una nuova organizzazione sociale ed economica basata sul lavoro.

Insomma; è stato accolto il grido di dolore e l’aspirazione di tutti i minorati delle ingiustizie sociali e degli stridenti contrasti economici, grido che, per quanto ci riguarda, ha fatto proprio Ketteler fin dal 1848 e che ha avuto un’eco profonda nel cuore e nella parola di Leone XIII, quando definiva la condizione degli operai nel regime capitalista come una condizione «poco men che servile».

La vita di relazione, oggi più di ieri, è tale in tutti i campi e, quindi, anche in questo nostro specifico campo, da farla considerare come un vasto sistema di vasi comunicanti il cui flusso e riflusso va localmente e internazionalmente regolato con leggi ed accordi.

A Montreal, nell’ultima sessione della Conferenza internazionale del lavoro – alla quale l’Italia ha partecipato – dopo esser stata deliberata l’inserzione della dichiarazione di Filadelfia nella propria Costituzione, fu suggerito che i singoli Paesi membri dell’organizzazione internazionale del lavoro dovrebbero tener conto dei principî formulati a Filadelfia nelle loro Costituzioni o in quelle in corso di revisione o in occasione della proclamazione di nuove Costituzioni. Ricordo che a Filadelfia ha avuto luogo nel maggio 1944 la XXVI sessione della Conferenza internazionale del lavoro, la prima sessione effettiva dopo lo scoppio della guerra. È quanto mai opportuno che, in occasione della nuova Costituzione italiana, i principî di Filadelfia vengano menzionati almeno nella discussione. E vi dico la verità, onorevoli colleghi, che tengo molto a farlo, perché ho rilevato che nel nostro testo c’è una sostanziale fedeltà a quanto a Filadelfia fu proclamato come alimento alla speranza del mondo ancora praticamente in guerra per realizzare una nuova solidarietà umana. L’Italia è stata riammessa nell’organizzazione internazionale del lavoro nel 1945, e da allora ha potuto parteciparne ai lavori su di un piede di perfetta parità con gli altri Paesi.

L’Italia ha interesse particolare all’Organizzazione internazionale del lavoro, in quanto le sue forze del lavoro costituiscono una delle sue principali ricchezze: e dal miglioramento delle condizioni di lavoro ed assistenziali dei lavoratori, essa può trarne i migliori benefici.

L’Italia è anche paese di emigrazione ed ha un interesse diretto a che le condizioni dei lavoratori degli altri paesi siano il più possibile elevate, in modo da ottenere ai propri emigranti condizioni altrettanto buone di quelle di cui godono i lavoratori nazionali.

Basta rileggere la dichiarazione di Filadelfia, e scorrere gli articoli della nostra Costituzione riguardanti il lavoro, la dignità, la libertà, l’uguaglianza dei lavoratori, l’emigrazione, l’evoluzione dei rapporti di lavoro (oggi espressi nel salariato e sboccanti nella gestione delle imprese), la funzione sociale della proprietà, la solidarietà espressa nella cooperazione, ed infine la solidarietà internazionale, per poter affermare che, se non in tutto, in gran parte il suggerimento della Conferenza di Montreal è stato ascoltato, e che, la voce, che sembrò soffocata ancora dal clamore della guerra, il 10 maggio 1944 a Filadelfia ha trovato allora, come trova oggi, ormai, ascolto ed attenzione in tutto il mondo civile.

Colgo l’occasione per esprimere l’augurio che il Governo italiano provveda sollecitamente alla ratifica e alla conseguente comunicazione all’Ufficio Internazionale del Lavoro della costituzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, emendata a Montreal. Mi risulta che il Ministero del lavoro ha espresso parere favorevole e che manca solo l’adesione del Ministero degli esteri.

Mi sono domandata se sarebbe stato opportuno seguire il suggerimento di Montreal proponendo di inserire nella nostra Costituzione un esplicito riferimento a quegli accordi di carattere internazionale (plurimi o bilaterali), sia che alla conclusione di tali accordi lo Stato interessato abbia partecipato direttamente, sia (come sarebbe il caso dell’Italia) che vi abbia solo aderito successivamente. Tutto sommato, credo non sia opportuno proporre un esplicito richiamo alle norme stabilite in una convenzione internazionale, anche se questa ha ottenuto la sollecita e completa ratifica di tutti gli Stati membri dell’organizzazione stessa. Ciò non toglie, però, la opportunità di richiamare i principî di una dichiarazione che, come quella di Filadelfia, è divenuta parte integrante della Costituzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e quindi anche quella della Organizzazione delle Nazioni Unite.

Mi auguro che la mia modesta parola valga almeno a fissare nei resoconti della Costituente il riconoscimento, da parte della nostra Assemblea, del grande valore umano di quella dichiarazione, caratterizzata dal proiettarsi nel campo economico di quei problemi sociali che fino al 1944 erano stati gli unici ad esser presi in considerazione.

Mi sembra, intanto, insufficiente l’espressione del capoverso dell’articolo 30, nel quale si consacra (in termini generici) il principio che la Repubblica italiana «promuove e favorisce gli accordi internazionali per affermare e regolare i diritti del lavoro»;

Il mio emendamento: «promuove e favorisce, oltre gli accordi, anche le organizzazioni», mi sembra più rispondente alla realtà della vita internazionale nella quale siamo inseriti e alle organizzazioni alle quali, come ho accennato, abbiamo aderito successivamente.

In tale formula (così più completa e rispondente allo stato di fatto) sono compresi tutti i diritti del lavoro, e, quindi, anche quei principî economici e sociali consacrati nella dichiarazione di Filadelfia.

Credo utile un rapido confronto fra i principî fondamentali della dichiarazione e le norme contenute nel nostro progetto di Costituzione.

A Filadelfia si è affermato anzitutto che:

il lavoro non è una merce;

la libertà di espressione e di associazione è condizione indispensabile per un vero progresso;

la miseria, dovunque essa esista, costituisce un pericolo per la prosperità di tutti;

la lotta contro il bisogno deve essere condotta con instancabile energia da ciascuna Nazione e con uno sforzo internazionale continuo e combinato, nel quale i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro partecipino, cooperando su di un piede di uguaglianza con quelli dei Governi, a libere discussioni e a decisioni di carattere democratico per lo sviluppo del benessere comune.

Corrispondono a questi principî gli articoli già approvati della nostra Costituzione e precisamente gli articoli dall’l al 3 e dal 5 al 6; gli articoli 10, 13, 16, 23 e 25 e gli articoli in via di approvazione del Titolo terzo, 30, 34 e 36.

Seguita la dichiarazione:

«Poiché una pace durevole non può essere stabilita che sulla base della giustizia sociale, la conferenza afferma che:

tutti gli esseri umani, qualunque sia la loro razza, la loro fede e il loro sesso, hanno diritto di perseguire il progresso materiale e il loro sviluppo spirituale in libertà e dignità nella sicurezza economica e con eguali possibilità;

la realizzazione delle condizioni necessarie per raggiungere questo risultato deve costituire lo scopo centrale di ogni politica nazionale e internazionale.

«Tutti i programmi di azione e le misure prese nel piano nazionale e internazionale, principalmente nel campo economico e finanziario, debbono essere considerati da tale punto di vista e accettati soltanto in quanto appaiono di natura tale da favorire e non da ostacolare il raggiungimento di questo obiettivo fondamentale.

«Spetta all’Organizzazione Internazionale del Lavoro di esaminare e di considerare alla luce di questo obiettivo fondamentale, nel campo internazionale, tutti i programmi di azione e le misure di ordine economico e finanziario.

«Assolvendo i compiti che le sono affidati, l’Organizzazione, dopo aver considerato tutti i fattori economici e finanziari relativi, è qualificata ad includere nelle sue decisioni e raccomandazioni tutte le disposizioni che giudichi adatte».

Corrispondono alla sostanza di queste dichiarazioni, la seconda parte dell’articolo 3 della nostra Costituzione, gli articoli 2, 3, 5 e 6 e l’articolo 8 già approvati. Vi rientra appieno l’articolo 33 del Titolo III, che afferma l’equiparazione dei diritti del lavoro della donna lavoratrice a quelli dell’uomo.

È poi affermato nel capoverso terzo della dichiarazione di Filadelfia, l’obbligo solenne dell’Organizzazione Internazionale del lavoro di secondare la messa in opera, nelle diverse Nazioni del mondo, di programmi atti a realizzare:

il pieno impiego e l’elevamento dei livelli di vita;

l’impiego dei lavoratori in occupazioni in cui abbiano la soddisfazione di fornire tutta la misura della loro abilità e delle loro conoscenze e di contribuire nel miglior modo al benessere comune;

garanzie adeguate e mezzi atti a facilitare i trasferimenti dei lavoratori, comprese le emigrazioni normali di mano d’opera e le colonizzazioni;

la possibilità per tutti di una partecipazione equa ai frutti del progresso in materia di salari e di guadagni, di durata del lavoro e altre condizioni di lavoro, un salario minimo vitale per tutti coloro che hanno una occupazione e hanno bisogno di tale protezione;

il riconoscimento effettivo del diritto di negoziazione collettiva (contratti collettivi di lavoro) e lo sviluppo della cooperazione per il miglioramento continuo dell’organizzazione della produzione;

l’estensione delle misure di sicurezza sociale allo scopo di assicurare un reddito base a tutti coloro che hanno bisogno di tale protezione, nonché delle cure mediche complete;

una protezione adeguata della vita e della salute dei lavoratori in tutte le occupazioni;

una protezione dell’infanzia e della maternità;

un livello adeguato di alimentazione, di alloggio, e di mezzi di ricreazione e di cultura;

la garanzia di eguali possibilità nel campo educativo e professionale.

Questo capoverso ha ricchi riferimenti nel nostro progetto di Costituzione.

Dai già approvati articoli 10 e 11 riguardanti l’emigrazione e la tutela degli italiani all’estero, e 25, 26 e 28 sulla protezione della maternità e dell’infanzia e della gioventù e nelle scuole aperte al popolo più concreta ed aderente espressione si ha negli articoli: 30, sulla tutela del lavoro; 31, sul diritto e il dovere del lavoro; 32, sulla retribuzione proporzionata e adeguata alla dignità umana e alle esigenze familiari; 39, sulla libertà dell’iniziativa economica privata in funzione di utilità sociale, e, infine, nel 43, sulla gestione delle aziende da parte dei lavoratori.

Il quarto capoverso, sempre della dichiarazione di Filadelfia, sulla utilizzazione più completa e più larga delle risorse produttive del mondo, è ovvio, che non può trovare riferimento nella nostra articolazione costituzionale; ma ci offre il destro di affermare che se si vuole l’espansione della produzione e del consumo; evitare fluttuazioni economiche gravi; una maggiore stabilità nei prezzi mondiali delle materie prime e delle derrate; promuovere un commercio internazionale di volume elevato e costante, bisogna pur decidersi (per quanto riguarda i paesi devastati dalla guerra, come è l’Italia, priva di materie prime e ricca di una abile geniale popolazione operaia), ad affrontare, internazionalmente, il problema dei prestiti, dei cambi, dei mercati aperti, della lavorazione dei semilavorati e quello del porre in comune le grandi risorse di materie prime dei paesi meglio dotati.

Solo allora si potrà inneggiare, con gli estensori della dichiarazione di Filadelfia, al miglioramento della salute, dell’educazione e del benessere di tutti i popoli.

E, solo allora, i diritti del lavoro saranno veramente diritti di tutti i popoli del mondo e si potrà, davvero, non limitare ad una semplice speranza lo sviluppo economico e sociale di ciascun popolo, interessante tutto il mondo civile, ma sarà una certezza, la certezza cioè di aver raggiunto, attraverso questa tragica parentesi di lagrime e di sangue, una convivenza veramente umana, fondata sulla giustizia e soffusa di fraterno divino amore. (Applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Quintieri Quinto. Ne ha facoltà.

QUINTIERI QUINTO. Rinuncio alla parola; interverrò sugli emendamenti.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la onorevole Federici Maria. Ne ha facoltà.

FEDERICI MARIA. Onorevole Presidente, poiché dovrò parlare sugli emendamenti, credo opportuno di risparmiare a me ed all’Assemblea un discorso.

PRESIDENTE. Sono iscritti a parlare gli onorevoli Fusco, Preziosi, Preti, Foa, Di Gloria.

Non essendo presenti, si intende che vi abbiano rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Fanfani.

FANFANI. Rinunzio. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Sono iscritti a parlare gli onorevoli Persico, Calosso, Monticelli, Mazzei, La Malfa.

Non essendo presenti, si intende che vi abbiano rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Gabrieli. Ne ha facoltà.

GABRIELI. Rinunzio, perché dovrò parlare in sede di emendamenti. (Applausi).

PRESIDENTE. Sono iscritti a parlare gli onorevoli Einaudi, Murgia, Storchi, Zuccarini, Tega, Belotti.

Non essendo presenti, si intende che vi abbiano rinunziato.

È iscritto a parlare l’onorevole Zotta. Ne ha facoltà.

ZOTTA. Parlerò sugli emendamenti. (Approvazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Macrelli. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Parlerò in sede di emendamenti.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Dominedò. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. Svolgerò brevi considerazioni sul III Titolo della Costituzione, tanto più rapide in quanto questa discussione mi coglie alla sprovvista rispetto a ciò che avevo genericamente concepito di esporre all’Assemblea.

Tuttavia non vorrei omettere alcune dichiarazioni le quali offriranno anche il vantaggio di dare fino da adesso per svolti taluni punti che altrimenti avrebbero costituito oggetto di dichiarazioni in sede di emendamenti speciali.

Il Titolo dei rapporti economici merita evidentemente una considerazione particolare e approfondita, poiché esso conferisce un’impronta caratteristica alla nostra Costituzione. É l’impronta in forza della quale la democrazia politica tende a colorirsi e a nutrirsi di democrazia economica; è l’impronta per la quale le libertà sociali si affermano per la prima volta nel quadro della Costituzione, e al semplice cittadino subentra il cittadino lavoratore, all’uomo indifferenziato l’uomo sociale.

Se le Costituzioni della fine dell’Ottocento segnano i primi albori della materia, formulando i primi accenni sui così detti diritti sociali, noi non troviamo sostanzialmente che la Costituzione di Weimar, la quale abbia tessuto uno schema, una orditura organica dei diritti sociali, orditura rimasta tuttavia piuttosto affermazione dogmatica e schematismo dottrinale che non norma vissuta di vita sociale. La Costituzione italiana quindi viene veramente a portare un contributo, poiché, dopo le Costituzioni del dopoguerra ispiratesi a quella di Weimar, essa organicamente detta un complesso di norme per cui la libertà politica è riconosciuta come inadeguata e inefficiente se non alimentata dalla libertà economica.

A grandi linee il Titolo III, guardato da un punto di vista panoramico, potrebbe sottodividersi in tre parti fondamentali. La prima appare quella che concerne statuizioni di ordine generale, quali il diritto all’assistenza, il diritto alla previdenza, il diritto al lavoro, il diritto alla equa retribuzione e via dicendo: cioè quei diritti sociali genericamente intesi, che hanno suscitato particolarmente le critiche dei giuristi; quei diritti nei confronti dei quali fu detto dal Calamandrei che la Costituzione introdurrebbe dei precetti etici, privi di effettivo contenuto normativo.

Io non intendo indugiare su questa prima parte del Titolo, ma debbo limitarmi a sottolineare come qui occorra il coraggio di superare vieti schematismi, per sentire come siano insufficienti le critiche sollevate da parte di chi vorrebbe depennare dal corpo costituzionale questi diritti, sotto il motivo che essi non porterebbero seco la possibilità di una attuazione concreta, non determinerebbero cioè la conseguenza della azionabilità, non potendo essere fatti valere nei confronti di un soggetto obbligato all’adempimento.

Codesta critica si può spuntare sotto un duplice aspetto. Dal punto di vista strettamente giuridico, il precetto assume infatti un contenuto normativo, non solamente quando esso sia azionabile nei confronti di un determinato soggetto, ma quando importi un dato vincolo verso il futuro legislatore, cioè finisca per dettare una norma all’organo legiferante. Obbligato è allora lo Stato prima che l’individuo. E credo che noi dobbiamo sentire questo carattere, dobbiamo individuare questo contenuto nella prima parte del Titolo, laddove, sia pure tendenzialmente, vien tracciato il grande binario, la via maestra per il venturo legislatore, il quale dovrà attenersi, come a una meta ispiratrice a questi criteri, destinati ad essere progressivamente tradotti nella legislazione positiva a seconda dell’evoluzione economica e sociale del Paese. La necessità di una graduazione è il solo limite che accompagni la possibilità dell’attuazione.

Quindi, anche sul piano tipicamente giuridico, pur escludendo qui come altrove l’immediata azionabilità verso un dato soggetto, sussisteranno sempre gli estremi del concetto di norma attraverso il vincolo all’organo, sia pure inteso con un carattere di tendenzialità. Ecco perché sarei contro la proposta che penserebbe di depennare in toto questo corpo di norme, costituente una tappa nella evoluzione civile e politica di un popolo, per relegarlo invece nel preambolo, destinato a contenere mere affermazioni ideologiche o aspirazioni di carattere morale.

D’altra parte, oltre la risposta giuridica, c’è la risposta politica. E cioè le norme della Costituzione vanno guardate non sotto un aspetto puramente formale, in forza del quale noi dovremo piegare a quel freddo schematismo del quale parlavo all’inizio, bensì occorre sentirne ad un tempo il vivo contenuto innovatore che non può non essere vagliato anche dal punto di vista politico, inerente all’evoluzione storica in atto. E quindi sotto un duplice profilo che può essere difesa la tesi della permanenza, almeno in linea generale, di tali norme nel corpo del progetto. E ciò sempre a prescindere da quell’insieme di modifiche, adattamenti o revisioni che, nel corso della discussione e nell’esame degli emendamenti, l’Assemblea giudicherà opportuno o doveroso introdurre.

Seconda parte. Il Titolo dei rapporti economici disciplina il problema della produzione, esaminandone alcuni aspetti fondamentali: la proprietà dal punto di vista statico e l’impresa dal punto di vista dinamico. Considero insieme i due fenomeni, in quanto l’impresa non è se non la proprietà in movimento: entrano qui in giuoco i rapporti essenzialmente economici, dopo quelli prevalentemente sociali.

Ora, in relazione a questa seconda parte del Titolo, vorrei limitarmi ad una constatazione centrale. Non sembra esatto quanto è stato affermato oggi stesso in questa aula, cioè a dire che il testo costituzionale, nel riconoscerne alcuni diritti della personalità umana – il diritto di proprietà sotto il profilo statico e il diritto di libera iniziativa sotto il profilo dinamico – li abbia ad un tempo mutilati per il fatto di aver posto in evidenza così l’inscindibile funzione sociale legata alla proprietà privata come l’inscindibile finalità di pubblico interesse connessa all’iniziativa economica.

Desidero precisare che in tanto noi consideriamo aderente alle esigenze di tutela della personalità umana il riconoscimento del diritto di proprietà e del diritto di libera iniziativa, in quanto queste espressioni della forza creatrice del singolo risultino ad un tempo a vantaggio e al servigio di quella collettività, della quale la personalità fa parte viva, inscindibile e integrale. Lo spirito di questa parte del Titolo finisce, quindi, per essere precisamente quello di determinare un contemperamento fra le esigenze della proprietà e della socialità, dell’individualità e della collettività. Anche le norme sui controlli vogliono ispirarsi a questo concetto fondamentale; anche le norme sul partecipazionismo sono da esso permeate; anche le norme sulla socializzazione e sull’eliminazione dei monopoli finiscono per far capo al criterio, in forza del quale, nel caso in cui l’iniziativa individuale sia inadeguata, verrebbe fatto di ricordare la frase del laburista Morrison, il quale diceva: «Faccia l’iniziativa finché può; intervenga lo Stato quando essa più non può».

Abbia, quindi, l’intervento dello Stato una tale finalità suppletiva o correttiva, acciocché la ragione in vista della quale opera il riconoscimento dei diritti di proprietà e dei diritti di iniziativa sia sempre viva e operante. Poiché, se venisse meno quella ragione, allora, e solo allora, si spiegherebbe un intervento integrativo, rivolto a mantener fermo quel dualismo di tutela, quella contemporanea esigenza di preservare, in modo inscindibile ed organico, i diritti della persona e i diritti della collettività, per giungere a un più equo processo di distribuzione dei beni e ad una più alta giustizia sociale.

Sotto questo angolo visuale, potremmo dire che il progetto di Costituzione finisca per mirare, almeno negli intendimenti – si vedrà in quale modo la lettera risponda allo spirito ovvero sia suscettibile di modificazioni – a una finalità centrale. Nella contesa secolare fra i diritti dell’io e della collettività, si tratta di non dare un riconoscimento esclusivo né all’uno né all’altra, bensì di mirare ad una sintesi unitaria, nel corpo vivo della quale, fuor di ogni sincretismo, sia possibile comporre in armonia i primi e i secondi, potenziando gli uni e gli altri, allo scopo di trarre i maggiori vantaggi possibili, così dal fermento dell’iniziativa come dal senso della socialità. (Approvazioni).

Infine, resterebbe a dire di una terza parte del progetto di Costituzione, la quale, stando all’ordine delle disposizioni, si inserisce fra la prima e la seconda, delle quali ho già detto, fra quella sociale e quella economica, ma forse, e più appropriatamente, merita considerazione a sé, per l’importanza civile e politica ad essa inerente. Resterebbe, cioè, incompiuto l’esame del processo produttivo, nell’ambito del quale si vogliono disciplinare le attività e le iniziative economiche, se non si desse una particolare visione al fenomeno del lavoro, dato materiale e spirituale insieme, che oggi domina i tempi.

Era profondamente giusto che il titolo dei rapporti economici ponesse l’accento su questo fatto, il quale dà l’impronta alla nostra Costituzione. Se la Costituzione del 1789 e quelle successive si imperniarono anzitutto sul diritto di proprietà, perché allora costituiva una conquista il diritto di libera proprietà rispetto ai privilegi feudali che dovevansi infrangere, oggi una Costituzione socialmente moderna, e rispondente all’anelito di progresso che è negli spiriti, deve porre l’accento su una nota nuova: i diritti del lavoro. In questo settore della Costituzione, in cui il fatto del lavoro riceve una particolare rilevanza, in coerenza con l’articolo 1 che pone il lavoro a fondamento dello Stato, si affrontano, infatti, i problemi fondamentali della materia, fra cui, innanzi tutti, quello del riconoscimento del diritto di associazione nel campo del lavoro individuale, per arrivare fino alle norme relative al lavoro associato, nell’ipotesi di cooperazione, e, quindi, alla partecipazione dei lavoratori al processo produttivo.

Vorrei un momento soffermarmi su alcuni aspetti di singolare rilievo, appartenenti a questa terza parte del Titolo dei rapporti economici e sociali. Qualche parola in particolare va dedicata ai problemi relativi all’organizzazione del lavoro ed al tema della cooperazione.

Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, un apposito articolo disciplina uno dei fondamentali temi dell’epoca moderna, e cioè il problema del sindacalismo. È una disposizione delicata e complessa, quella dell’articolo 35, la quale, come può ricordare chi prese parte alle discussioni della terza Sottocommissione da cui essa scaturì, costituisce il frutto di un’elaborazione approfondita, svoltasi col concorso dei rappresentanti delle diverse tendenze politiche. Forse il testo merita qualche chiarimento, poiché la sua lettura potrebbe destare delle perplessità, soprattutto per quanto riguarda i due momenti distinti che in esso sono sostanzialmente considerati.

Quali sono i problemi essenziali che occorre risolvere rispetto alla disciplina e allo svolgimento di un moderno sindacalismo? Pare a noi che il primo problema da affrontare sia quello della libertà dell’organizzazione sindacale. Il primo comma dell’articolo 35 si ispira, infatti, a questo concetto preliminare, fissando un punto di partenza: esso muove dalla base del riconoscimento della libera organizzazione sindacale. Ed anche l’emendamento da noi proposto all’articolo 35 mantiene in ciò l’identica formula del progetto, intendendo così confermare l’incondizionata libertà di associazione per qualsiasi organizzazione di carattere e scopo sindacale. Vi è tuttavia qualcosa da aggiungere in relazione a questo primo momento dell’organizzazione del lavoro: la libertà di associazione porta evidentemente alla possibilità di una pluralità sindacale. Questa conseguenza si ricollega alla necessità di considerare il sindacato come un organismo liberamente costituito e, quindi, all’esigenza di conferire piena funzionalità a tutte le organizzazioni sindacali che noi vogliamo indipendenti a tutela dei diritti del lavoratore.

Ora, tale riconoscimento è realizzabile, tenendo conto della possibilità che l’organizzazione sindacale acquisti la personalità giuridica. Ecco così il primo gradino della scala. Noi dobbiamo cominciare a parlare della personalità giuridica di diritto privato, cioè, della titolarità dei diritti da parte del sindacato, non essendo ancora giunti al secondo gradino che toccheremo solo quando daremo la possibilità di dettar norme alla categoria: solo in quel momento spetterà, infatti, al sindacato una potestà di imperio, per cui la personalità giuridica si trasferirà dal terreno di diritto privato in quello del diritto pubblico. Per quanto riguarda, invece, la prima fase, noi consideriamo certamente la possibilità di dettar norme agli iscritti al sindacato, ma non risolviamo ancora il problema di vincolare tutti gli appartenenti alla categoria, una volta che senza potestà di imperio non v’è possibilità di dettar norme agli appartenenti alla categoria, se non iscritti al sindacato.

Nell’ambito delle singole associazioni sindacali, il problema è, pertanto, risolto col conferimento della personalità giuridica: conferimento che potrà essere accompagnato da un normale controllo sugli statuti dell’associazione, allo scopo di accertarne il carattere democratico, dal momento che il progetto di Costituzione subordina l’acquisto delle personalità alla condizione che l’organizzazione sindacale sia regolarmente registrata negli uffici centrali e locali. Ai sindacati non è, quindi, imposto altro obbligo che la registrazione secondo le norme di legge. A questo proposito dovrei dire che sarebbe preferibile una formulazione positiva invece di quella negativa adottata dal progetto, perché quando si dichiara che la personalità giuridica si ottiene mediante la registrazione, si afferma implicitamente che questa formalità rappresenta il solo onere richiesto costituzionalmente allo scopo. Al secondo e terzo comma del progetto sarebbe, quindi, preferibile, secondo l’emendamento proposto, un solo comma in formula positiva, più semplice e appropriata.

La possibilità di questa libera espansione delle associazioni professionali costituisce un dato di fatto che fa sorgere la seconda indagine, particolarmente scottante in quest’ora, sia fra noi che fuori, nel diritto interno e nel diritto comparato. Il secondo problema impone di tutelare l’interesse del lavoratore, acciocché egli non appaia frazionato davanti al datore di lavoro, onde, attraverso una rappresentanza unitaria delle associazioni professionali di lavoro, sia possibile raggiungere il risultato che la difesa del lavoro si affermi compatta, senza incrinature capaci di indebolirne le possibilità di affermazione. Se questa è l’esigenza economica e sociale, giuridicamente essa si traduce nella necessità di far sì che le associazioni sottostanti – così le chiameremo dato che abbiamo parlato di diversi gradini della scala – giungano ad organizzarsi nella loro rappresentanza ultima e unitaria, soltanto allora potendo parlarsi di personalità giuridica di diritto pubblico nella pienezza dell’espressione.

Perché questo avvenga, si richiede un requisito essenziale, s’impone cioè che sussista da parte della legge, il riconoscimento di siffatta potestà di imperio, atta a dettar norme. Come si può arrivare a tale riconoscimento? I metodi potrebbero essere diversi. Nel seno della terza Sottocommissione – e basti a ciò spogliare i verbali dei nostri lavori – si è affacciata l’ipotesi di un sindacato maggioritario, il quale, per il solo fatto di poter rappresentare, ad un certo momento, il 51 per cento dei lavoratori o dei datori di lavoro potrebbe essere investito della potestà rappresentativa unitaria. Con la conseguenza di dettare le norme di categoria, cioè di stipulare contratti collettivi di lavoro, valevoli nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria, oltre che degli iscritti al solo sindacato maggioritario.

Ovvero – seconda soluzione – occorrerebbe far sì che la rappresentanza unitaria si costituisca legalmente, formandosi attraverso l’afflusso di tutte le libere associazioni sindacali. Questa è sembrata, per prevalente accordo e dopo approfondito esame, la tesi da doversi accogliere, come la più rispondente alle esigenze dell’ordine democratico al quale miriamo, poiché solo in questo modo è data la possibilità di rappresentare proporzionalmente, nell’ambito dell’organismo unitario sovrastante, tutte le forze liberamente associatisi nei sindacati ed esprimenti la reale consistenza delle forze del lavoro.

Un rilievo dovrei, tuttavia, fare al progetto, laddove si vorrebbe tradurre in formule il concetto. A me pare che si incorra in equivoco tecnico, vorrei dire di logica giuridica, quando, nell’ultimo comma dell’articolo 35, si aggiunge «Possono (i sindacati) rappresentanti unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce». Il rilievo particolarmente giuridico, che l’assemblea valuterà nel suo giudizio politico, è questo: che nel momento in cui si costituisce la rappresentanza unitaria, a rigore non sono più le associazioni sottostanti quelle che parlano, bensì il sovrastante organo costituito a norma di legge. Poiché nel giuoco della rappresentanza non è il rappresentato, bensì il rappresentante quegli che esprime la dichiarazione di volontà, e cioè la manifestazione attraverso cui promanano le norme di categoria, affermandosi così nel seno del contratto collettivo di lavoro la norma valevole verso tutti gli appartenenti, oltre che gli iscritti. La fonte della norma risale, infatti, all’organo unitario, al quale, come ad un sindacato di secondo grado, le libere associazioni sottostanti, rappresentate democraticamente e proporzionalmente, hanno deferito la propria capacità di fare una manifestazione di volontà giuridicamente rilevante, idonea a determinare una norma con efficacia vincolante, o ad intervenire per eliminare pacificamente i conflitti di lavoro, prevenendoli o dirimendoli.

La formula che io dovrei proporre tende, quindi, ad un semplice spostamento di soggetti. Invece di continuare a far capo ai sindacati, si tratta di chiarire: «Le rappresentanze unitarie delle associazioni registrate, costituite in ragione proporzionale dei loro iscritti, possono stipulare contratti collettivi di lavoro vincolanti nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria».

E, poiché il tempo urge, mi limito a toccare ancora un solo punto del progetto. Dopo aver tentato di porre in evidenza il significato della norma che e destinata a costituire una chiave del sistema, conciliando le esigenze della pluralità dei sindacati con quelle del loro coordinamento unitario, attraverso una formula che potrebbe esprimersi sinteticamente come quella della «libertà nell’unità», sento il dovere di integrare il quadro sul piano del lavoro associato o consorziato. Siamo così al fenomeno del cooperativismo in genere, e del cooperativismo di lavoro e di produzione in specie.

Il tema della cooperazione merita un accenno particolare dopo il tema del lavoro, perché fra le due materie vi è una euritmia, una consonanza di problemi e di valutazioni. E ciò nel senso che appare giusta e rispondente a quella esigenza di evoluzione sociale che la Costituzione intende affermare, la circostanza che, dopo aver riconosciuto i diritti del lavoro individuale, si dedichi per la prima volta un’apposita norma per la disciplina del lavoro associato in forma di cooperazione.

Concepiamo qui la cooperazione, nei suoi vari aspetti di società di scambio produzione e credito, come una impresa la quale è degna di particolare menzione, perché idonea a inserirsi, quasi come tertium genus, tra le due essenziali forme di imprese, delle quali parlavo a proposito del diritto di libera iniziativa: e cioè la tradizionale impresa individuale da un lato, e l’impresa socializzata dall’altro.

Fra l’impresa individuale e l’impresa socializzata merita considerazione autonoma, ed ha veramente titolo di cittadinanza per entrare nel corpo della nostra Costituzione, questa terza categoria che è l’impresa cooperativa, la quale esige una definizione propria, precisamente perché si distingue dalla prima e dalla seconda, pur avendo caratteri e dell’una e dell’altra. L’impresa cooperativa ha dell’impresa individuale il fatto della libera sua costituzione, attraverso la volontà dei cooperatori che spontaneamente si stringono in forme associative o consortili: è quindi sempre la libera iniziativa dei compartecipi l’elemento che sta alla base della formazione di questa terza ipotesi di impresa.

In ciò l’impresa cooperativa si ricollega a quella individuale, cogliendo il fermento che c’è nell’elemento uomo e nella iniziativa che a lui fa capo. Ma ritorna, ad un tempo, come un leit motiv, il concetto da cui prendemmo le mosse: trarre quanto c’è di vitale e dalla individualità e dalla socialità, l’impresa cooperativistica sugge il lievito che nasce dalla possibilità di una spontanea iniziativa, di una libera manifestazione di volontà dei cooperatori: ma insieme capta quanto vi è di fecondo nella possibilità di una gestione comune, facendo sì che ai liberi consociati, strettisi nella famiglia della cooperazione, sia dato di realizzare una forma nuova di impresa la quale, secondo i principî della mutualità, serva in definitiva a far defluire, i frutti del lavoro nell’interesse degli stessi partecipi. È così che i cooperatori, sovrapponendosi all’intermediario, sia egli commerciante, agricoltore, industriale o banchiere, riescono a creare nuove comunità di lavoratori od utenti, fondate sulla solidarietà della vita associata. Si realizzano quasi forme di socializzazione privata ovvero, per ricordare Proudhon, gli aspetti più utili di un collettivismo nascente dal contratto e non dalla legge.

È sotto questi aspetti che la cooperazione costituisce una via di superamento dell’impresa capitalistica, per l’eliminazione dell’intermediario cui essa tende dal punto di vista economico, e per il principio di trasformazione della struttura sociale che essa determina attraverso l’incontro delle classi e la fusione delle categorie. Ma la forza dell’idea sta soprattutto nel lievito di affratellamento degli umili, dei cooperatori e dei partecipi, i quali, stretti in unica famiglia, mirante ad unica finalità, sentono accentuato il vincolo di solidarietà che sta alla base della redenzione del lavoro e della elevazione umana. (Approvazioni).

Io credo pertanto doveroso sottolineare all’Assemblea l’importanza di una norma con la quale per la prima volta si sancisce la nuova forma di impresa e se ne riconosce la funzione sociale, dandole pieno diritto di cittadinanza nel corpo della Costituzione.

Un solo rilievo forse è ancora conveniente fare. Ed è questo: che, se a un tale riconoscimento si vuole che facciano seguito tutti i possibili benefìci effetti, è opportuno che la Costituzione, nel consacrare la socialità della cooperazione e nel ripromettersi di favorirne l’incremento, non pensi ad un tempo a frapporvi ostacoli o pastoie, quali potrebbero essere quelli nascenti da una preordinata vigilanza di Stato o da un precostituito intervento pubblico. Bisogna denunciare il pericolo dello statalismo gravante su queste formazioni, le quali, pur offrendo i vantaggi della gestione comune, hanno sempre per base e presupposto la libera iniziativa individuale. Bisogna tener fermo che queste formazioni tanto più saranno feconde, tanto meglio risponderanno all’interesse così dei cooperatori come della collettività, per quanto più esse poggeranno sulla selezione sicura e ferrea che nasce dalla bontà intrinseca dell’impresa stessa. Questa, se pure prudentemente sorretta sul nascere, dovrà essenzialmente vivere di vita propria, poiché l’impresa parassitaria, l’impresa simulata o fraudolenta, non debbono essere oltre tollerabili, e lo stesso giuoco della libera concorrenza servirà ad eliminare compagini che della cooperazione potrebbero avere il nome, ma non lo spirito.

Il problema dei controlli deve quindi passare impregiudicato dalla sede costituzionale in quella legislativa. Probabilmente si tratterà allora di contemplare vari controlli di legalità, formale e sostanziale, procedendo prudentemente sul terreno dei controlli di merito, da affidare con maggior vantaggio alle associazioni di cooperatori riconosciute dalla legge piuttosto che allo Stato. In tal modo, entrerà in giuoco un motivo individuale in concorso con quello collettivo, essendovi la possibilità di configurare, in analogia al settore sindacale, un’associazione nata dalla libera cooperazione e pur idonea ad assumere la rappresentanza legale della categoria. Vi sono esempi di diritto comparato, per cui i controlli nel settore cooperativo finiscono per essere affidati alla stessa associazione giuridicamente organizzata ad esprimere la libera cooperazione del paese. E con questo richiamo al principio di autogoverno delle categorie, che costituisce l’anima della democrazia economica, posso raccogliere le vele.

Non sono che accenni rapidi nel vasto quadro della materia, ma forse non del tutto privi di risalto, quelli che mi sono permesso di sottoporre all’esame, accurato, e certamente appassionato, con cui l’Assemblea vaglierà questo Titolo fondamentale della nostra Costituzione. Si tratta del Titolo destinato a dare un nuovo volto agli ordinamenti civili d’Italia, storicamente idoneo ad affermare con i diritti della libertà, i diritti della giustizia sociale. (Vivi applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alla seduta pomeridiana di lunedì.

Sulle modificazioni al Regolamento.

PRESIDENTE. Avverto gli onorevoli colleghi che la Giunta del Regolamento, convocata da me questa mattina, ha concretato una serie di proposte atte ad introdurre particolari discipline per la discussione del progetto di Costituzione. Tali proposte saranno distribuite in serata e poste all’ordine del giorno della seduta pomeridiana di lunedì.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. È stata presentata la seguente interrogazione con richiesta d’urgenza:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere quali siano le pretese irregolarità amministrative che hanno determinato lo scioglimento del consiglio comunale di Rocca Rainola (Napoli).

«Persico».

Mi riservo di chiedere al Governo quando intende rispondere.

CAMPOSARCUNO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAMPOSARCUNO. Chiedo quando il Governo potrà rispondere ad una mia interrogazione urgente riguardante la derivazione di acque del fiume Biferno.

PRESIDENTE. Il Ministro competente ha fatto sapere di non essere ancora pronto a rispondere.

Pertanto questa interrogazione non potrà essere posta all’ordine del giorno della seduta antimeridiana di lunedì, per quanto questa sia interamente riservata allo svolgimento delle interrogazioni urgenti.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

DE VITA, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere se non ritenga necessario (analogamente a quanto è stato fatto per il regio decreto-legge 3 settembre 1941, n. 882, abrogato con decreto luogotenenziale 26 aprile 1946, n. 343), procedere alla abrogazione del regio decreto-legge 14 novembre 1935, n. 1935, che fa obbligo ai Monti di credito su pegno di non vendere all’asta, ma di cedere alla Banca d’Italia gli oggetti d’oro.

«Il sopravvivere di tale decreto costituisce per i pignoranti che non sono in grado di riscattare i propri oggetti una dannosa ingiustizia, poiché tali oggetti vengono rilevati dalla Banca d’Italia al prezzo ufficiale dell’oro, spesso di molto inferiore a un possibile prezzo d’asta.

«Poiché i pignoranti di oro costituiscono una categoria che avendo conosciuta un tempo l’agiatezza ora conosce la più nera miseria, sembra all’interrogante sommamente ingiusto che si voglia, inoltre, impedirle di realizzare quel sopraprezzo che costituirebbe per tanti disgraziati una fonte di momentaneo sollievo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Zaccagnini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se risponda a verità che ai giovani che combatterono nelle formazioni regolari dei Gruppi di combattimento non spetti il premio di liberazione, che viene, invece, corrisposto a tutti i combattenti delle formazioni partigiane, e per sapere se, nel caso ciò sia vero, non ritenga equo e necessario che a tutti i combattenti della guerra di liberazione venga fatto identico trattamento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Zaccagnini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri del lavoro e previdenza sociale, delle poste e telecomunicazioni e delle finanze e tesoro, per chiedere se non ritengano urgente e necessario prendere in esame e risolvere la tragica situazione in cui versa una benemerita categoria di lavoratori: i ricevitori postali a riposo. Trattasi di una categoria non numerosa, ma appunto per questo minori dovrebbero essere le difficoltà per ovviare alla miseria che la opprime dopo aver dati tanti anni di onesto lavoro.

«Le loro pensioni (a quanto risulta all’interrogante) vanno «attualmente» da un minimo di lire 400 a un massimo di lire 660 mensili.

«In attesa di una radicale riforma della previdenza, non è possibile che lo Stato non provveda intanto (come ha già fatto per altre categorie di pensionati) alle urgentissime necessità di questa misera categoria di lavoratori. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Zaccagnini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere le ragioni del ritardo a iniziare i lavori per il ripristino della ferrovia Rimini-Ravenna-Ferrara, indispensabile per la ripresa economica di una zona duramente provata dalla guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Macrelli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei trasporti e degli affari esteri, sulle ragioni del ritardo del ripristino della ferrovia San Marino-Rimini, essenziale per la ripresa economica della zona, obbligatorio per il Governo italiano, in base alla convenzione del 1928. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Macrelli».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.25.

Ordine del giorno per le sedute di lunedì 5 maggio 1947.

Alle ore 10:

Interrogazioni.

Alle ore 16:

  1. – Proposte di aggiunte al Regolamento. (Doc. II, n. 7).
  2. – Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI SABATO 3 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CVIII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI SABATO 3 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TUPINI

INDICE

 

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Elezione contestata per la circoscrizione di Salerno:

Presidente                                                                                                        

Disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Gullo Rocco                                                                                                    

Giannini                                                                                                            

Macrelli                                                                                                          

Pera                                                                                                                  

Proia                                                                                                                 

Fogagnolo                                                                                                       

Bibolotti                                                                                                          

Einaudi                                                                                                             

Vernocchi, Relatore                                                                                          

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio                               

Cianca                                                                                                              

Corbino                                                                                                            

Lussu                                                                                                                

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Carpano Maglioli, Sottosegretario di Stato per l’interno                                   

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

DE VITA, Segretario, legge il processo verbale della seduta antimeridiana del 30 aprile.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo il deputato Foa.

(È concesso).

Elezione contestata per la circoscrizione di Salerno (Doc. IlI, n. 3-bis).

PRESIDENTE. La Giunta delle elezioni, nella sua relazione, propone la convalida dell’onorevole Carmine De Martino.

Se non vi sono osservazioni, metto a partito questa proposta.

(È approvata).

Seguito della discussione del disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale (12).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale (12).

É pervenuta alla Presidenza una proposta di sospensiva, firmata dai deputati: Pera, Gullo Rocco, Canepa, Caporali, Villani, Binni, Persico, Di Gloria, Preti, Bennani, Saragat, Grilli, Morini, Chiaramello, Mazzoni, Taddia, Bianchi Bianca, Paris, Zagari, Filippini, Tremelloni, Zanardi, Ruggiero, Foa, Nasi, Cianca, Schiavetti, D’Aragona, Lami Starnuti, Ghidini, Veroni, Piemonte, Treves, Canevari, Matteotti Matteo, Salerno, De Mercurio.

Procedo all’appello dei firmatari della proposta.

(Segue l’appello).

Onorevoli colleghi, ho proceduto all’appello dei firmatari della proposta di sospensiva per accertare se quindici di essi – come è richiesto dal Regolamento – siano presenti. Poiché ne risultano presenti solo undici, la proposta di sospensiva non può esser messa in discussione.

GULLO ROCCO. Chiedo di parlare per mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GULLO ROCCO. È perfettamente vero che fino a questo momento non sono presenti quindici firmatari della proposta di sospensiva, ma è anche vero che, purtroppo, non sono presenti anche moltissimi membri dell’Assemblea Costituente. Ora nessuno oserebbe in questo momento chiedere la verifica del numero legale che porterebbe alla constatazione che il disegno di legge non si può discutere per mancanza di detto numero legale. Cerchiamo quindi di metterci d’accordo, se possibile, e cioè rinviare, sia pure per pochi minuti, la discussione, in maniera che la proposta di sospensiva possa avere il numero legale di firmatari.

PRESIDENTE. I firmatari possono sempre riproporre in sede di discussione di merito la proposta di sospensiva. Comunque le faccio presente che la constatazione del numero legale lei può chiederla soltanto al momento in cui si sta per procedere ad una votazione.

Riprendiamo, pertanto, la discussione del disegno di legge.

È iscritto a parlare l’onorevole Giannini. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, su questa legge della cinematografia mi ero preparato per parlare a lungo, ma mi pare sia meglio sbrigarci subito, senza perderci in chiacchiere, senza fare un esame approfondito di quello che più interessava il mio spirito: cioè il contenuto artistico e industriale del cinematografo.

Desidero innanzi tutto dire una parola sulla proposta di sospensiva della discussione.

Questa legge è stata progettata allo scopo di far riprendere l’attività dell’industria cinematografica italiana. La legge non ha pretese. Avrebbe bisogno di grandi è radicali ritocchi, ma devo rendere omaggio a un collega col quale non troppo spesso mi trovo d’accordo, l’onorevole Di Vittorio, il quale, nella seduta precedente a questa in cui si parlò di cinematografia, raccomandò caldamente l’approvazione della legge allo scopo di far riaprire i cantieri e dar lavoro a tutti gli artisti e a tutte le maestranze che lavorano in cinematografia. Vi dirò che il mio intervento in quella discussione, fatto allo scopo di chiarire certi particolari che ora accennerò, mi ha procurato l’interessamento di tanta gente che mi ha scritto e di tanti amici del cinematografo che son venuti a parlarmi. Potrei discutere per due ore su questo argomento. Spero che l’Assemblea mi sarà grata per il fatto che le risparmio queste due ore. Domenica scorsa ho pregato alcuni amici di riunirsi con me al teatro «Quattro Fontane» per discutere quelli che io credevo gli inconvenienti della legge. Sono intervenuti industriali, artisti, rappresentanti della Camera del lavoro ed abbiamo finito col trovare una linea comune di accordo.

La sostanza è questa: l’industria cinematografica è un’industria che consuma un’enormità di capitale, un’enormità di danaro. È una industria potentissima. Ma è principalmente un’industria di persone, di uomini. Si possono avere dei miliardi nel cinema, ma non avendo gli uomini si perdono i miliardi e il cinema non si fa.

Disgraziatamente, come accade per tutte le arti, nessuno nasce perfetto cinematografista. Ciascuno ha bisogno di studio, così come tutti hanno bisogno di farsi. Però, mentre in altre arti (come la mia, per esempio) basta avere un blocco di carta, e una penna, e si può scrivere quel che si vuole e poi gettarlo nel cestino perché la perdita è di poco conto, il creatore dell’opera d’arte cinematografica, questo artista che una volta io proposi di chiamare cinematurgo (è vero, Andreotti, che si può dire così? Tu sai il greco!), questo cinematurgo, dicevo, ha bisogno, per imparare a fare del cinematografo, di consumare pellicola. Il prezzo di questa pellicola lo dovete calcolare così: c’è una pellicola negativa sulla quale si riprende la scena, ma questa pellicola non è proiettabile. Bisogna che sia stampata su una pellicola positiva. Dunque sono due pellicole. Poi ce ne è una terza: che è il negativo del suono, ed un’altra ancora, su cui si fa il positivo del suono. Sono dunque quattro pellicole: ogni metro corrisponde a quattro metri. Ma nel prezzo bruto di questa pellicola va aggiunto tutto quello che costa praticamente la costruzione d’una scena, ossia la costruzione scenica a sé stante, gli attori, la sceneggiatura, tutto! Il metro utile di pellicola viene così a costare, certe volte, cento mila lire.

Voi comprendete dunque, onorevoli colleghi, quanto sia difficile e quanto sia pericoloso per un uomo d’ingegno e di cuore che voglia darsi al cinematografo, fare i suoi primi esperimenti.

Ed ecco che nel cinematografo interviene il capitalista, ossia colui che, allettato dal grandissimo guadagno che il cinematografo può offrire, mette il suo capitale; ma fa pesare questo suo capitale su quella che è la costruzione del film.

Ora la legge, così com’è congegnata, non è perfetta. Però, con i premi che conferisce, con gli sgravi che concede, consente un esperimento, consente la possibilità al produttore isolato, ossia non soltanto alla grande società anonima cinematografica, ma alla cooperativa di cinematografisti – come se ne sono formate col doppiato fra attori e perfino fra operai – di fare il suo tentativo industriale.

Noi non possiamo e non dobbiamo impedire che questi isolati possano realizzare un film anche non eccellente, perché anche nell’errore si ha il vantaggio della creazione, della formazione, dell’affinamento d’un personale di più. E la cinematografia, mi permetto di ripeterlo, è solamente questione di personale.

C’è a questo punto (ed ecco dove si appuntava la mia critica la volta scorsa), l’ufficio centrale per la cinematografia, che deve sentire il parere di un comitato tecnico per concedere le facilitazioni. Studiatela la legge! Ora, questo comitato tecnico, secondo come sarà composto, potrà rovinare o non rovinare lo sforzo d’un produttore isolato.

Intendiamoci, non rovinerà mai lo sforzo del grande capitale cinematografico, non rovinerà mai lo sforzo del grande produttore; innanzi tutto perché il grande produttore si presenta all’esame nelle migliori condizioni. Dopo aver speso 60, 70 milioni, qualche cosa avrà sempre fatto. Secondo – perché conosciamo i casi della vita – la grande produzione, il grande industriale, la grande banca, quando vogliono riescono sempre ad affascinare i comitati. E allora io propongo – per non tediarvi più a lungo con una discussione tecnica – soltanto questo: di prolungare di soli cinque giorni l’obbligatorietà di proiezione del film italiano nelle sale cinematografiche, portandola da quindici a venti giorni al trimestre; di modificare la composizione del comitato tecnico facendo intervenire in esso un maggior numero di lavoratori, sia indicati dalle maestranze, sia dalla parte direttiva dell’industria cinematografica, registi e autori.

C’è stata un’obiezione da parte degli esercenti, i quali sono anch’essi una categoria rispettabile del cinematografo, e hanno diritti che non possono essere ignorati. Gli esercenti temono d’essere obbligati, per questa legge, a subire l’eventuale ricatto del film italiano, del film italiano fatto male, del film italiano prodotto in numero esagerato. A parte il giudizio che darà il comitato tecnico sui film, classificando quelli che hanno e quelli che non hanno il diritto alla proiezione obbligatoria, noi possiamo stabilire che per il maggiore aumento dei giorni di proiezione, chiesto dai produttori, si potrà addivenire anno per anno, su semplice decreto del Presidente del Consiglio, tenendo conto delle condizioni del mercato e dei film prodotti durante l’anno. In queste condizioni, e senza portare più a lungo una discussione tecnica – che per me sarebbe affascinante e gradita ma per i colleghi certamente non lo sarebbe – propongo di approvare questa legge, la quale darà immediato lavoro a moltissimi italiani, dando di nuovo l’abbrivio, e diciamo il nuovo primo giro di manovella a quella che è la nostra produzione cinematografica, la quale, per le sue intrinseche qualità regionali, per le sue specifiche caratteristiche, è finalmente uscita dall’Italia: tanto vero che si proiettano in America e in Francia nostri film con grandissimo successo.

Prego quindi i colleghi di approvare questa leggina con la semplice modificazione all’articolo 13 sulla composizione del comitato tecnico; aggiungere un altro rappresentante dei lavoratori del cinema, così avremo due rappresentanti invece di uno, designati dalle organizzazioni sindacali; un rappresentante degli industriali cinematografici designato dalla relativa organizzazione sindacale dell’industria del film; un rappresentante per l’esercizio cinematografico designato dalla rispettiva organizzazione. Questo secondo rappresentante dei lavoratori del film, raccomando in special modo ai rappresentanti della Confederazione del lavoro, di volerlo scegliere tra gli elementi direttivi dell’industria cinematografica, la quale sarà così difesa da un operaio, e anche da un regista e da un tecnico.

Sulla proposta di sospensiva, la quale mi consta sia diretta al nobile scopo di studiare più profondamente i problemi cinematografici, pregherei l’onorevole Fogagnolo di volerla trasformare nella proposta di un Comitato parlamentare per la cinematografia, al quale Comitato, se egli lo proporrà, io prometto tutta quell’opera che posso dare. (Applausi).

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Onorevoli colleghi, vi chiedo di approvare il disegno di legge che viene oggi presentato, sia pure con quelle modificazioni che crederete di apportarvi attraverso gli emendamenti sottoposti al vostro esame. Un ritardo, e così rispondo implicitamente alla proposta che si è fatta di sospensiva, un ritardo in questa materia sarebbe grave e pregiudizievole, soprattutto per una larga categoria di lavoratori del cinema. Sono migliaia di persone che vivono di questa attività e di questa industria. Sospendere oggi vorrebbe dire aggravare il lavoro di produzione e la condizione della cinematografia italiana, che merita, invece, tutto il nostro appoggio, tutta la nostra vigile attenzione. Ho sentito in una seduta precedente alcune osservazioni, alcune critiche, che potranno avere anche un certo valore. Si è detto però a un dato punto che la legge era frutto di improvvisazione, dovuta specialmente a mancanza di tempo per raccogliere tutti gli elementi necessari ad una seria preparazione.

Posso opporre una recisa smentita. Non si tratta di un lavoro di improvvisazione e di fantasia. La legge è stata discussa a lungo in più riunioni dal Consiglio dei Ministri; dal Comitato interministeriale di cui facevo parte; dai rappresentanti delle varie categorie interessate. Abbiamo discusso a lungo con coloro che vivono della cinematografia e nell’ambiente cinematografico e siamo arrivati alla formulazione di quel progetto che oggi è al vostro esame. Non sarà una cosa perfetta, ma noi siamo stati mossi da una duplice preoccupazione: salvare l’industria cinematografica italiana, che dà pane e lavoro a tanti; affermare ancora una volta la tradizione artistica nostra.

Ci siamo riusciti? Non lo sappiamo. Certo, voi siete liberi di apportare le modifiche che crederete opportune, ma intanto il tentativo dovrà essere fatto, e avrà la sua efficacia nell’avvenire, una volta superate le diffidenze, le ostilità, create all’interno e all’estero dal regime totalitario e incompetente del fascismo. Ma non dimentichiamo, onorevoli colleghi, che oggi noi dobbiamo risolvere questa che è anche una necessità della nostra vita economica, sociale, artistica e morale; perché non bisogna trascurare l’importanza a cui è assurta oggi la cinematografia. L’Italia, la nuova Italia deve poter dire la sua alta parola, anche in questo campo.

Credo che il presente disegno di legge non sia identico al progetto formulato dal Comitato interministeriale. Non importa. Io non voglio qui stabilire e rivendicare la nostra paternità su quel progetto; discutiamolo pure: qualche osservazione dovrò fare anch’io. Come l’onorevole Giannini, anch’io ho ricevuto lettere, ordini del giorno, mozioni, giornali che adoperano anche parole molto gravi, sulle quali richiamo l’attenzione del Governo e soprattutto del Relatore.

Leggo per esempio degli appunti che si sono fatti a proposito dell’articolo 4, che viene definito un assurdo. Si dice in una rivista cinematografica che l’ulteriore quota del 6 per cento destinata ai film più meritevoli sarà assegnata, sentito il parere di un Comitato tecnico; e si aggiunge: «È di nuovo la ridda di milioni sottomano che ricomincia». Si definisce il sistema delle Commissioni come un sistema di truffa e di corruzione.

Io non sono d’accordo con queste osservazioni; però intendiamoci bene: il cinematografo italiano, purtroppo, ha perduto la sua magnifica tradizione, tradizione di arte e di onestà che si era affermata attraverso i tempi. Col fascismo le cose sono cambiate; voi lo ricordate meglio di me. E allora, poiché viviamo o cerchiamo di vivere in un’atmosfera nuova e in un ambiente nuovo, facciamo sì che su di noi – cioè, sulle Commissioni che dovranno decidere circa l’assegnazione dei premi – non cadano quei sospetti di cui parlano gli articoli, le riviste a cui ho accennato. Noi non vogliamo che sorgano ombre attorno agli uomini che mettiamo a vigilare questo che è un ramo importante dell’industria e della vita artistica italiana. Trovino l’Assemblea Costituente, il Governo, la Commissione, i mezzi per ovviare a queste critiche, e per ciò anche a questi sospetti; tanto più che si afferma ad un certo momento, sempre criticando l’articolo 4, che il sistema per la divisione dei premi non è esatto e costituisce anzi una patente ingiustizia. Si arriva anche alla formulazione di un principio che io sottopongo al vostro esame e alla vostra decisione. Poiché sembra ingiusto premiare dei film che non hanno una possibilità di affermazione nel campo industriale e soprattutto nel campo artistico, si dice: ciascun film potrà venire premiato in base alla sua riuscita. È esatto questo? Deciderete voi. Certo, noi vogliamo che la cinematografia resti veramente espressione dell’animo italiano, della tradizione italiana, e che intorno alla cinematografia non si raccolgano ancora gli speculatori, come nel passato. Aria libera ed aria pura, una volta tanto, anche in questo campo.

Le osservazioni continuano. Si è detto, ad un certo momento, per l’articolo 7 che la limitazione è troppo forte. Voi avete sentito un accenno fatto proprio in questo momento anche dell’onorevole Giannini. L’articolo 7 fissa un numero di quindici giorni, per trimestre, riservati alla proiezione di film italiani. Molti colleghi, fra cui l’onorevole Giannini e l’onorevole Arata, hanno proposto di superare questo limite. L’onorevole Giannini, mentre nella precedente seduta aveva parlato di libertà assoluta, oggi ha parlato di venti giorni. L’onorevole Arata è andato anche oltre. Vi dico subito che al Consiglio dei Ministri ed anche nel Comitato interministeriale si è affrontata la questione: alcuni avevano parlato di 120 giorni, altri di novanta, noi avevamo indicato un via intermedia che però venne scartata dalla maggioranza dei Ministri. Sicché, siamo rimasti alla formulazione odierna, e forse quanto si è stabilito risponde a quelle che sono le condizioni della cinematografia di oggi. Noi non abbiamo quell’attrezzatura piena e completa che ci possa permettere di affrontare liberamente e, lasciatemelo dire, spregiudicatamente il problema. Col tempo si vedrà. Vi dicevo che in fondo è un tentativo ed un esperimento che noi facciamo. D’altro lato, io penso che un vincolo maggiore, ossia un aumento esagerato del numero dei film nazionali, andrebbe sicuramente a discapito dell’arte, della produzione artistica.

Credo quindi che il termine limitato del disegno di legge possa essere mantenuto.

Osservazioni di rilievo modesto, che però hanno la loro importanza, si riferiscono all’articolo 12 e all’articolo 14.

Nell’articolo 12 si parla di una Commissione consultiva nominata dal Presidente del Consiglio dei Ministri, ma non ne vengono stabiliti e fissati i compiti. Si parla, in una frase molto generica, di esame dei problemi di carattere generale interessanti la cinematografia. Ora, mi sembra troppo poco. È vero che ad un certo momento, con riferimento soprattutto all’articolo 14, la legge rimanda ad un regolamento annesso al Regio decreto 24 settembre 1923, n. 3287; ma sono passati ormai ventiquattro anni e credo che in questo tempo la cinematografia abbia cambiato, come sono cambiate, fortunatamente, molte cose in Italia. Ed allora, vorrei richiamare il Governo ed il Relatore al riesame di quel regolamento molto antico per renderlo applicabile alle nuove norme contenute nel disegno di legge ed alle esigenze imposte dai nuovi tempi.

Nell’articolo 14 poi si dice che: «Le Commissioni di primo grado per la revisione cinematografica sono così composte ecc.». E perché si adopera il plurale? Perché si parla di Commissioni di primo grado, mentre si parla di commissione di revisione? Anche quella di primo grado è unica e sola. Allora occorrerà modificare questo comma nel senso da me indicato.

VERNOCCHI, Relatore. Vi sono le commissioni provinciali…

MACRELLI. Allora modificate e correggete in modo da far comprendere che esistono anche le commissioni provinciali.

VERNOCCHI, Relatore. Ma questo si riferisce alla legge precedente.

PRESIDENTE. Lascino che l’oratore parli liberamente.

MACRELLI. Ma allora dovevate fare esplicito riferimento a quella legge per rendere comprensibile l’attuale.

A proposito dell’articolo 14 faccio un’ulteriore osservazione. Vi si dice: «Le commissioni di primo grado sono formate da un funzionario di un ufficio centrale, da un magistrato, ecc.». D’accordo. Sono ottimi elementi che potranno servire, ma dimentichiamo che se abbiamo sempre detto che la cinematografia è un’industria, abbiamo pure affermato che la cinematografia è anche espressione di arte. Allora non basta il rappresentante funzionario dell’ufficio centrale, non basta il magistrato ed il rappresentante del Ministero degli interni, ma è sperabile che debba dire la sua parola anche il Ministero della pubblica istruzione attraverso la direzione generale delle belle arti; è sperabile che anche le associazioni culturali in Italia debbano avere il modo di esprimere il loro pensiero. Sotto questo profilo ho presentato due emendamenti all’articolo 14: uno per le commissioni di primo grado ed uno per le commissioni di revisione, in cui chiedo che si comprendano oltre ai rappresentanti indicati all’articolo 14, anche i rappresentanti della pubblica istruzione (Direzione generale delle belle arti) ed anche un rappresentante delle associazioni culturali. Allora dimostreremo non solo a noi, ma al mondo che la cinematografia in Italia è concepita come un’espressione che attiene più che alla materia, allo spirito. La cinematografia non è solo industria, che fa lavorare e guadagnare, ma è anche affermazione di arte e di bellezza che è tradizione classica della nostra Patria. (Applausi).

PERA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERA. Onorevoli colleghi, nella seduta precedente come in quella odierna, questo disegno di legge ha avuto larghi consensi, approvazioni e anche lodi nei diversi settori. Io non mi posso associare e sarò in aperto dissenso con quello che è stato detto sull’argomento. Dirò anzi di più. Mi pare che questo coro di consensi sia dovuto da una parte a voci non completamente disinteressate e, d’altra parte, ad una imperfetta conoscenza delle disposizioni molto pericolose contenute in questo disegno di legge. Questo è solo in apparenza ispirato a motivi plausibili, cioè dalla opportunità di difendere l’industria cinematografica italiana.

La protezione industriale è un vecchio tema discusso tante volte in quest’aula, e da questi banchi si sono sempre levate voci antiprotezionistiche nell’interesse delle finanze dello Stato e nell’interesse dei lavoratori stessi. Queste formule protezionistiche, suscitatrici di diffidenza e che creano immancabilmente le rappresaglie di ordine economico da parte degli altri Stati, non sono quelle a cui deve ricorrere la stremata economia italiana in questo momento.

Ma io verrò più tardi su questo punto e vi dimostrerò come si vorrebbe, a questa stremata economia ed alle esangui casse dello Stato far sostenere uno sforzo che neppure i Paesi vincitori e ricchi hanno osato di imporre al loro bilancio.

Comunque, vi sono due tentativi contro i quali noi abbiamo il dovere di insorgere: uno è di carattere finanziario, ed è mosso da una sparuta classe di produttori, non più di quaranta…

PROIA. E li chiama sparuti!

PERA. Come Presidente dell’A.N.I.C.A. lei ha sostenuto l’interesse di questi produttori in quest’aula.

PROIA. Era mio dovere.

PERA. L’altro tentativo è di carattere politico, volendosi con questa legge porre l’arma potente (su questa potenza tutti i settori erano d’accordo) della cinematografia al servizio del partito al potere. (Proteste — Commenti al centro).

Voglio rispondervi subito: questo disegno di legge è stato inviato alla terza Commissione legislativa, e questa ha protestato, nelle persone degli onorevoli Lucifero e Foa, contro il pericolo di porre la cinematografia italiana al servizio del partito al potere, ed ha rinviato per questa preoccupazione appunto il disegno di legge alla discussione dell’Assemblea. Ma c’è di più: quando noi trattiamo le questioni di tragica urgenza, come quella dei lavori pubblici, degli acquedotti, delle case ai senza tetto ecc., c’è sempre la Commissione finanziaria che è chiamata a dare il suo parere. Invece, per questo disegno di legge, dove sono in giuoco miliardi, la Commissione finanziaria non è stata chiamata a dare il suo avviso, che era a mio modo di vedere indispensabile.

Io vorrei esaminare brevemente l’ispirazione, il contenuto e le ripercussioni della legge nel campo finanziario, politico e sociale, a cui faceva accenno l’onorevole Macrelli poc’anzi. Devo dire subito all’onorevole Macrelli una cosa: che c’è già purtroppo, dico purtroppo, dall’ottobre 1945 una legge che dà sovvenzioni e premi a questi 40 produttori italiani, e quindi per il momento non si dovrebbero avere preoccupazioni per quanto concerne i lavoratori; ma noi sappiamo che i lavoratori sono sempre stati tirati in ballo quando si è trattato di proteggere l’industria nazionale a beneficio di pochi speculatori, con danno delle finanze e dell’economia nazionale, nonché (e questo è provato) delle classi lavoratrici stesse.

MACRELLI. Lei dimentica quello che ha detto l’onorevole Di Vittorio l’altro giorno.

PERA. A me non interessa quello che ha detto l’onorevole Di Vittorio. Dimostrerò che l’onorevole Di Vittorio poteva avere, come ha, anche torto; dimostrerò che, quando i disoccupati premono alle porte di Montecitorio e quando, per Diano Marina, città della mia circoscrizione dove l’epidemia di tifo ha fatto numerosissime vittime, non si sono trovati ancora i quattrini per fare l’acquedotto e la fognatura, mi pare che ci siano anche altri disoccupati ed altri lavoratori in Italia che hanno diritto a sentirsi proteggere, se vi è come vi è, purtroppo, una protezione industriale. (Approvazioni).

Si è detto che si deve tornare ai vecchi fastigi della cinematografia italiana. Venti e più anni fa: e si era al tempo del film muto e la vicenda narrata da italiani sulla celluloide poteva essere diffusa in tutto il mondo. Oggi, dopo il film sonoro e dopo il film parlato, la situazione si è capovolta. Gli americani hanno preso un vasto e forte sopravvento su tutte le industrie della cinematografia, non solo italiana, ma europea perché, mentre noi parliamo a quarantacinque milioni di italiani, essi con i loro film in inglese rispondono al gusto, allo spirito e all’orecchio di metà della popolazione civile del mondo.

L’insana arroganza fascista non volle comprendere e sperperò centinaia di milioni in Cinecittà, diventata il paese di Bengodi, anziché la rivale di Hollywood e in un elefantiaco complesso di bardature parassitarie di cui è cenno nella relazione Vernocchi – illudendosi di poter ridare all’industria cinematografica un primato che era irrimediabilmente perduto.

L’inconsulta politica fascista produsse l’effetto di creare in Italia una piccola cerchia di produttori che si sono formati la strana mentalità di credersi strumenti di divulgazione dell’arte, del pensiero, della civiltà italiana, e di dovere compiere la loro missione a spese dello Stato. E quando io ho sentito dire qui che a Parigi si fa la coda davanti a cinematografi che proiettano film italiani, io posso dire che alcuni dei film italiani che sono proiettati a Parigi fanno l’esaltazione delle nostre miserie morali, come la prostituzione, e io, da italiano, a Parigi, ho dovuto arrossirne.

RUSSO PEREZ. Per questo non hanno niente da imparare da noi.

PERA. Si parla della necessità di far conoscere la nostra civiltà nel mondo e si giustifica la richiesta di centinaia di milioni appunto con questo scopo nazionale.

Ma veniamo adesso ai produttori, onorevole Proia. Essi beneficiavano, sotto il fascismo, di una disposizione di legge che dava sovvenzioni e obbligava l’esercizio a programmare film italiani in una determinata misura.

All’indomani della liberazione, la legge del 5 ottobre 1945 faceva piazza pulita di tutte le passate sovrastrutture cinematografiche, ma non riusciva però a sopprimere le sovvenzioni e prescriveva che, in via eccezionale, fosse distolto dal gettito delle tasse erariali il 10 per cento dell’incasso lordo e in più il 4 per cento sempre dell’incasso lordo a favore del film nazionale giudicato meritevole di premio.

Non ancora sodisfatti della legge 5 ottobre 1945, i produttori vollero riconquistare l’abrogato beneficio della programmazione obbligatoria del film italiano per un determinato periodo annuo. E vi riuscirono con una convenzione liberamente stipulata il 10 gennaio 1946 fra la loro organizzazione (Anica) e quella degli esercenti (Agis).

Ma questo patto non prevedeva drastiche sanzioni contro l’esercizio eventualmente contravventore.

Perciò i produttori hanno chiesto che la legge sancisse la detta sovvenzione, comminando pene severe agli inadempienti.

PROIA. Gli esercenti non l’hanno mai rispettato.

PERA. La richiesta dei produttori in questo punto è da accogliersi, perché non può essere antiliberale decretare una obbligatorietà già bene accetta da parte di chi doveva subire l’obbligo.

Vi sono, però delle riserve da fare su questo punto stante la possibilità del produttore di avvalersi del suo monopolio, pur limitato ai sessanta giorni, per imporre condizioni leonine. Ma opportuni accorgimenti potranno certamente essere trovati per ovviare alla automaticità della sanzione. Comunque la programmazione dei sessanta giorni potrebbe essere sancita. Ma dove la pretesa diventa speculazione esosa è nell’aver approfittato della nuova legge che i produttori stessi hanno dichiarato ufficialmente di avere elaborata con gli uffici ministeriali, per forzare al massimo i privilegi ottenuti nell’ottobre del 1945 e che nessun paese al mondo concede all’industria cinematografica. Essi vogliono togliere il carattere di eccezionalità della legge del 1945 e vogliono essere ben tranquilli per pascersi bene in questa sovvenzione. Ottennero così che la legge portasse la sovvenzione ed i premi al 18 per cento per i filmi normali, al 4 per cento per i film di attualità ed al 3 per cento per i documentari (percentuali sugli incassi lordi), togliendo alle dette sovvenzioni il carattere di eccezionalità del decreto del 5 ottobre 1945, emanato quando la Costituente non era stata ancora eletta.

Io richiamo la vostra attenzione sulla manovra di pochi speculatori ai danni delle finanze dello Stato. Io propugno l’inopportunità di continuare il pericoloso sistema delle sovvenzioni, per i seguenti motivi: 1° se si indulge sul protezionismo per una industria, non vi è ragione che lo stesso non si faccia per le altre. È evidente che qui entriamo nel vasto campo del protezionismo. Se si accetta questo principio, e quello delle sovvenzioni, bisogna accettare le conseguenze di cui siamo, dopo tanti anni di nazionalismo economico, gli spettatori sbigottiti. È la concezione fascista dell’economia che ritorna in auge, e noi socialisti, che non vediamo incompatibilità fra le nostre teorie e la libera circolazione degli uomini e delle cose nel mondo, abbiamo il dovere di mettere in guardia contro questi pericolosi slittamenti. Se io fossi convinto che le invocate sovvenzioni potessero fare il bene dei lavoratori ed arrecar loro un reale beneficio, non sarei proprio io deputato socialista ad ostacolarle. Ma sono convinto del contrario. In realtà gli interessi dei lavoratori non sono qui che uno specioso pretesto per mettere una maschera su una legge cinematografica che gli industriali vorrebbero varare a loro esclusivo beneficio e che nessuna industria del mondo, né in Francia, né in Inghilterra, né in altri paesi vinti o vincitori ha osato chiedere allo Stato…

PROIA. Dappertutto.

PERA. Nessuno lo ha fatto. Nella relazione vi è l’elenco di tutti gli Stati che danno la programmazione obbligatoria. Io sfido chiunque a dire un nome di Stato che oltre la programmazione obbligatoria, dia sovvenzioni e premi.

PROIA. Chiedo di parlare per fatto personale.

GIANNINI. Lasci andare; certe cose il collega non le sa.

PERA. Io sostengo il giusto e lo sostengo senza alcun interesse e senza fatto personale. Io dico che le sovvenzioni, che sono sempre discutibili in regime normale, non sono accettabili e costituiscono un’ingiuria in questo momento, quando noi deputati andiamo al Ministero dei lavori pubblici a chiedere i pochi fondi per rifare gli acquedotti, per rifare le strade e le case sinistrate e ci sentiamo rispondere che non ci sono denari e le circolari sono partite per i Provveditori alle opere pubbliche onde far sapere ai Comuni di non sperare più, che non ci sono oramai più quattrini per riparare alle tragiche conseguenze della guerra!

Io vengo adesso al punto cruciale. Le passate sovvenzioni trovavano una contropartita nel gettito delle tasse erariali apportate alle casse dello Stato dagli stessi film sovvenzionati. Ora una cosa mi ha colpito. Qui il 19 aprile scorso si è discusso sulla legge per la cinematografia, ma non si è detto che dal 29 marzo precedente esisteva un decreto che devolveva ai Comuni tutte le tasse erariali dei biglietti di entrata ai cinema. Lo Stato devolveva quindi ai Comuni il gettito completo di queste tasse erariali stimato dall’onorevole Proia a quattro miliardi.

PROIA. Ma servirà ai Comuni!

PERA. Ma io dico il vero quando affermo, onorevoli colleghi, che prima, di fronte al miliardo che costerà per il 1947 il sistema delle sovvenzioni e dei premi, vi era almeno una contropartita nel bilancio dello Stato nel settore della cinematografia ove entravano quattro miliardi per le dette tasse erariali. Ora questa contropartita non esiste più e non esisterà più nei prossimi esercizi. Dirò di più: che sono stupito che si siano usati certi termini da lei, on. Proia, e dall’onorevole Vernocchi, relatore nel presentare questo disegno di legge. La relazione dell’onorevole Vernocchi è del 10 aprile; il decreto che trasferisce ai Comuni la totalità delle tasse erariali cinematografiche è del 29 marzo. Non si parla di questo decreto nella relazione, ma si dice qualcosa di più: a pagina 2 della relazione dell’onorevole Vernocchi io leggo: «L’articolo 4 eleva al 12 per cento lo sgravio fiscale a favore del produttore di films nazionali, fissato nella misura del 10 per cento dal decreto 5 ottobre 1945, numero 678».

Sgravio fiscale? Ma questa parola ha ancora un senso in Italia? Non si tratta di sgravio fiscale; è un esborso da parte del Tesoro dello Stato. Io ho esposto e dimostrato che tutto quello che proviene dalle tasse erariali sui biglietti d’ingresso va ai Comuni. Come potete parlare di sgravio fiscale? Voi dovete avere il coraggio di parlare di vero effettivo esborso da parte delle casse dello Stato del premio e della sovvenzione ai produttori del film nazionale.

Del resto, perché sovvenzionare questa industria, a parte il concetto generale di giustizia distributiva per le altre industrie che vi osterebbe? Ha forse essa oneri maggiori delle altre?

No, onorevole Proia, non li ha.

Le altre industrie esigono installazioni e stabilimenti, macchinari e capitali.

Il produttore cinematografico, che è il beneficiario delle provvidenze di questa legge (gli stabilimenti di prova e di posa essendo estranei ai benefici della legge), non deve né provvedersi degli impianti né disporre di tutti i capitali occorrenti alla produzione.

GIANNINI. Come produce senza gl’impianti?

PERA. Ricorrendo ai teatri di presa dello Stato a Cinecittà, e delle aziende private.

C’è da stabilire una differenza essenziale fra il produttore, che non corre rischio industriale, e l’industriale che corre questo rischio colle sue installazioni e coll’obbligo dell’ammortamento.

Del resto, per quanto concerne la mano d’opera, il produttore assume a tempo fissò determinato tecnici, artisti e mano d’opera; mentre gli altri produttori assumono a tempo indeterminato, con tutte le responsabilità e le alee conseguenti.

Il produttore cinematografico non ha bisogno di disporre di grandi capitali, in quanto che lo Stato, continuando la protezione instaurata dal passato regime, gli assicura il credito cinematografico imposto alla Banca Nazionale del Lavoro, la cui dotazione verrebbe incrementata di ulteriori 150 milioni, se voi approvate il disegno di legge.

GIANNINI. Io ne ho chiesto 600, perché 150 sarebbero irrisori.

PERA. Abbiamo concezioni diverse.

Il produttore cinematografico è un industriale sui generis, occasionale, saltuario; non deve preoccuparsi delle spese di ammortamento.

Adesso darò delle cifre.

Un film di buona fattura costa oggi dai 30 ai 35 milioni in Italia. Esso, nel periodo di sfruttamento in Italia, assicura al produttore, coi proventi del noleggio, che attingono dal 35 al 40 per cento degli incassi netti da tasse erariali, oltre dall’ammontare delle spese, un discreto utile.

Se poi si aggiungono i proventi in valuta pregiata derivanti dallo sfruttamento all’estero e se si pensa all’utile di congiuntura, realizzato in questi anni, sulla differenza fra il costo del film e il continuo incremento del gettito del noleggio, si vede che il produttore fa un eccellente affare.

E lo Stato interviene, per soccorrere il povero produttore, raddoppiando tutti i proventi del noleggio colle sovvenzioni; perché il 18 per cento dell’incasso lordo conseguito dal film corrisponde al 40 per cento dell’incasso netto percepito dal noleggio.

E questa cuccagna allieta il film italiano per 4 anni, dalla sua prima apparizione sullo schermo.

Non c’è migliore sistema, per invogliare la produzione del basso prodotto e l’avventura del borsanerista, che desidera vedere la sua amante sullo schermo.

Attualmente, onorevole Giannini, vi è la protezione della legge dell’ottobre 1945.

Il produttore del cortometraggio offre già in questo momento gratuitamente il suo documentario e il beneficio gli viene dalle casse dello Stato.

PROIA. Il cortometraggio non lo vogliono proiettare gli esercenti.

PRESIDENTE. Onorevole Proia, Lei ha chiesto di parlare per fatto personale; in quella sede parlerà.

PERA. Il giuoco delle sovvenzioni è posto nel disegno di legge alla discrezione di un comitato tecnico che è composto nella sua schiacciante maggioranza di funzionari ministeriali. Questi dovrebbero giudicare il valore culturale e artistico dei film ai fini del premio addizionale del 6 per cento sull’incasso lordo, senza avere alcuna competenza specifica. Il loro giudizio sarebbe gravato di sospetto per l’inevitabile inframmettenza politica, come del resto riconosce lo stesso relatore a pagina 2 della sua relazione. La cinematografia italiana viene così messa alla mercé del partito al Governo. Queste sono le nostalgie di cui parlavo pocanzi.

In questo ordine di idee c’è il pericolo che ogni programma cinematografico sia tutto l’anno accompagnato dalla proiezione di un cortometraggio. Gli esercenti non lo vogliono e si dice che lo vogliono solo per 60 giorni all’anno. Vorrei allora che ci si spiegasse la contradizione: perché il documentario obbligatorio per tutto l’anno? Per favorire l’industria estera legata all’industriale italiano, oppure per fare il primo salto verso quello che era il sistema fascista di imporre tutto l’anno il documentario a favore di colui che sappiamo? Perché avete voi posto l’obbligo tutto l’anno, quando per sessanta giorni solamente voi ponete il documentario? Non è nelle vostre nostalgie forse una più forte, quella di arrivare con una leggina – che potrebbe passare di fronte a diciotto deputati come rischiava di passare questa – a imporre la programmazione del film documentario italiano per tutto l’anno?

Una voce. Sarebbe utile.

PERA. Oh! nostalgie! Noi vedremmo oggi l’onorevole De Gasperi proiettato in tutti i cinematografi.

PROIA. Non abbiamo fatto nessun documentario.

PERA. Lo vedremo domani. Anche se ci volete considerare delle persone interessate, vuol dire che non abbiamo almeno ambizioni ministeriali. (Interruzioni).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, abbiano la cortesia di non interrompere. Non capisco questa eccitazione, onorevole Pera, per una legge come questa.

PERA. Io espongo delle cifre.

L’Italia è l’unico Paese che nelle condizioni di miseria e di fame in cui siamo, si prende il lusso di dare delle sovvenzioni all’industria cinematografica. Nella relazione si parla delle nazioni straniere dove vi è protezionismo del film e si porta l’esempio dell’estero. Dico che questi Paesi stranieri parlano di programmazione obbligatoria, e questa noi l’accettiamo, e mai di sovvenzioni e di premi!

Ma da noi si torna a parlare dell’eterno tema della bilancia commerciale, l’eterno tema che si tira in ballo ogni volta che un’industria vuol essere protetta. Si è parlato di bilancia commerciale, ma non si è detto tutto: si è parlato di indebitamento dell’economia italiana, in quanto questi film stranieri costavano, sia per il noleggio che per la vendita, molti quattrini.

Ebbene vorrei che non fosse dimenticato dai rappresentanti dei produttori cinematografici questo fatto: che il Ministero del commercio estero ha consentito l’importazione di film esteri all’espressa condizione che il regolamento del noleggio e dell’acquisto sia fatto in lire, e non una sola lira sia esportata e che il ricavato del film straniero rimanga in Italia in un conto bloccato e controllato dal Governo e sia speso nel nostro Paese. (Commenti).

Mi sembra che le esclamazioni siano di stupore.

GIANNINI. Si, di stupore: le risponderò io!

PRESIDENTE. Onorevole Giannini, risponderà a suo tempo; non preannunzi la sua risposta.

PERA. Ha fatto bene il Ministero del commercio con l’estero: i film stranieri non possono essere pagati in valuta. Dirò di più: se valuta clandestinamente è andata all’estero per acquisto o noleggio di film, forse qualche produttore ne è anche responsabile, in quanto che doveva completare nel programma il suo film.

Io ho detto a grandi linee qual era il mio concetto su questo disegno di legge che trovo molto pericoloso.

Mi sembra di aver dimostrato il pericolo finanziario.

L’onorevole De Gasperi ha parlato tre giorni fa della tragica situazione in cui siamo attualmente per la finanza e la moneta nazionale. Bisogna fare delle restrizioni; bisogna accettarle, se non vogliamo andare all’estrema sciagura.

In queste condizioni io chiedo se questo disegno di legge possa essere così facilmente approvato. Affermo che nel bilancio dello Stato vengono già a mancare i quattro miliardi provenienti dagli incassi cinematografici e che sono stati dati ai Comuni; e che, per il giuoco delle sovvenzioni, altri quattro miliardi possono venire a carico dello Stato.

Sono quindi quattro miliardi di minori entrate, e tre o quattro miliardi di maggiori uscite: sono sette od otto miliardi che questa legge può costare al bilancio dello Stato. (Interruzione dell’onorevole Musolino).

Io non proteggo i film americani; prendo la difesa delle finanze dello Stato; (Commenti a sinistra). Noi non ci sentiamo tranquilli per i motivi d’ordine politico ai quali ho accennato, non ci sentiamo tranquilli per i motivi di ordine finanziario ai quali ho fatto riferimento, non ci sentiamo tranquilli per il modo col quale questa legge senza essere passata alla Commissione finanziaria è stata portata all’Assemblea Costituente e non ci sentiamo tranquilli per il modo col quale sono state redatte le relazioni, dove invece di parlare di esborsi, si parla di sgravio fiscale. In queste condizioni, onorevoli colleghi, mi pare che bisogna avere il coraggio di dire chiaramente il proprio pensiero. Noi chiediamo che questo disegno di legge venga riesaminato e rielaborato. Io rispondo all’onorevole Macrelli dicendo che per il momento esiste già una legge dell’ottobre 1945 che assegna vistosi premi e vistose sovvenzioni. Ebbene, c’è il modo di studiare non solamente nei particolari tecnici, ma nello spirito informatore e nelle sue conseguenze sul bilancio dello Stato. Ecco perché, nel superiore interesse delle stremate finanze dello Stato, noi chiediamo che questo disegno di legge sia rinviato al Governo per un nuovo e più attento esame. (Applausi Commenti).

PROIA. Chiedo di parlare per fatto personale.

GIANNINI. Chiedo anch’io di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Proia.

PROIA. Devo ricordare all’onorevole Pera, che ha accennato al fatto che i produttori italiani abbiano nel passato guadagnato cifre iperboliche di milioni…

LUSSU. Che c’entra il fatto personale?

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, la prego, se deve fare un’osservazione la faccia a me. Io ho ritenuto che ci fosse il fatto personale e credo che l’onorevole Pera, che l’ha suscitato, non sia del suo parere. Ogni volta che l’onorevole Pera ha detto qualche cosa di interessante, e tutte sono state interessanti le sue osservazioni, ha fatto un accenno personale all’onorevole Proia. Io quindi, proprio per questo, credo che l’onorevole Proia abbia diritto di parlare.

Non ne fa una questione, onorevole Lussu?

LUSSU. No.

PRESIDENTE. Allora si rimetta al Presidente.

PROIA. Volevo, dunque, ricordare all’onorevole Pera che i produttori italiani, all’indomani della sconfitta, si trovarono esposti nei diversi istituti bancari per circa 600 milioni di lire. (Commenti a sinistra).

Voci. Non è vero!

PROIA. Questo è esatto! (Interruzione dell’onorevole Zanardi).

PRESIDENTE. Onorevole Zanardi, non interrompa.

PROIA. Dovetti chiedere al Governo dell’epoca un decreto di moratoria perché i produttori pagassero faticosamente i debiti contratti. Questi in sostanza furono i grandi guadagni. (Commenti a sinistra Interruzioni).

PRESIDENTE. Che cosa è questa intolleranza? Lascino parlare, onorevoli colleghi.

Una voce a sinistra. Avevano guadagnato prima.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano. Potranno chiedere di parlare.

PROIA. I produttori italiani continuarono, anche in tempi difficili, anzi difficilissimi, a lavorare soltanto perché desideravano di tenere in vita i teatri e dar lavoro alle maestranze, perché esse non si disperdessero, in special modo a Roma, ove quelle preziose maestranze tanto cooperarono e cooperano per l’industria cinematografica. Quindi debbo concludere che i produttori italiani hanno fatto sempre il loro dovere.

Le voci dei presunti guadagni fanno parte delle solite fantasticherie che circolano intorno a questa nostra industria. (Commenti a sinistra Interruzione dell’onorevole Fogagnolo).

Lei, onorevole Fogagnolo, sa perfettamente come stanno le cose.

Tutto questo che ho detto riguarda la produzione e il noleggio.

Debbo aggiungere all’onorevole Pera, per amore di lealtà, che altrettanto non può dirsi per altri settori cinematografici che hanno molto guadagnato, e che oggi cercano con tutti i mezzi di ostacolare l’approvazione di questo disegno di legge che il Governo ha sottoposto al nostro esame. Perché qui ci sono interessi colossali che giocano… (Commenti a sinistra…).

Una voce a sinistra. Appunto per questo!

PROIA. Appunto per questo io difendo lealmente gli interessi della mia categoria, e lo dichiaro francamente, ma gli altri si nascondono, non so sotto quali interessi. (Commenti a sinistra Approvazioni).

PERA. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, raccomando la calma.

Ha chiesto prima di parlare per fatto personale l’onorevole Giannini. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, sono costretto a prendere la parola per fatto personale, perché l’onorevole Pera nella sua dissertazione sull’industria cinematografica, diverse volte si è rivolto a me personalmente, quasi indicandomi come difensore di particolari interessi industriali.

PERA. No! No!

GIANNINI. Scusi, mi consenta di darle le spiegazioni a cui lei ha diritto e che è mio dovere dare. Io ho ricavato questa impressione: che lei forse ha una conoscenza del problema cinematografico troppo recente, direi troppo fresca. Guardi, io che me ne intendo, e da molti anni, m’ero preparato, come ho detto, a fare un lungo discorso, nel quale avrei potuto sfoggiare tutta la mia competenza. Me ne sono astenuto, perché l’ora stringe, e non vale la pena di scendere in tanti particolari. Lei, onorevole Pera, s’è perduto in certe minuzie, l’esame delle quali mi consente di darle subito torto, e di dimostrarglielo.

Lei ha cominciato col dire: perché si sovvenziona l’industria cinematografica? Io le rispondo: perché si sovvenzionano le altre industrie? La Fiat, che costa miliardi? L’I.R.I., che si sta mangiando tutto il Paese? Quindi il perché c’è. (Interruzione a sinistra).

Scusi, abbia pazienza; e spero che il tono della mia voce che credo gentilissimo, possa servire anche ai suoi colleghi; se sbaglio, mi correggeranno.

L’onorevole Pera ha parlato degli interessi dei grandi produttori. Lei è in errore, onorevole Pera, perché i grandi produttori, s’infischiano di queste sciocchezze. I grandi produttori, coloro che fanno i film che costano 100-150 milioni, li fanno in compartecipazione con le grandi editrici straniere, e le loro pellicole sono imposte «dalla qualità» in Italia. (Interruzione dell’onorevole Pera).

Abbia pazienza, onorevole Pera, non s’inquieti; le dico fatti. Questi grandi produttori, quando imbroccano i loro film, guadagnano enormemente e in Italia e all’estero.

Queste provvidenze sono richieste per i piccoli produttori; sono richieste per gli artisti isolati che vogliono fare un tentativo proprio. E la verità di quanto io le affermo è dimostrata dal fatto che a favore di questa legge ci sono i partiti più contrastanti: l’onorevole Di Vittorio, comunista, è favorevole; noi qualunquisti siamo favorevoli; l’onorevole Macrelli, repubblicano, è favorevole; i democratici cristiani sono favorevoli. Non è possibile che ci sia, dietro questa protezione all’industria e non agli industriali, l’alleanza di quattro partiti. Lei ha, per lo meno, equivocato, onorevole Pera.

Lei parla dell’estero, dei grandi danari che si fanno all’estero. È vero, è vero, è sacrosantamente vero quello che ha detto lei, onorevole Pera. Si guadagna enormemente all’estero: ma all’estero bisogna andarci. Non basta fare un film per proiettarlo all’estero; ne va uno su cento, uno su cinquanta, è il terno al lotto che prende il produttore, come nel caso del piccolo produttore del film «Sciuscià». Lei non può prendere l’estero come una regola generale. Magari andassero tutti i nostri film all’estero! Allora non avremmo bisogno di sovvenzioni, saremmo noi a sovvenzionare lo Stato.

Ancora, lei, onorevole Pera, ha detto che la programmazione è obbligatoria. Ma, onorevole Pera, la programmazione è «sempre» obbligatoria. In questo momento la programmazione obbligatoria è quella degli americani, perché gli americani hanno tutti i film; quindi impongono la loro produzione. Il giorno in cui noi avessimo film superiori, noi renderemmo obbligatoria la programmazione senza le leggi.

Finalmente – e non voglio uscire dai limiti di tempo concessomi dall’onorevole Presidente – lei ha detto che in materia di importazione di film il Ministero del commercio estero ha preteso che questi film fossero pagati in lire, che queste lire non potessero uscire dall’Italia, e che rimanessero invece in conto bloccato presso di noi. Onorevole Pera, è vero, le do atto di questo; ma devo anche dirle che si tratta di uno dei più grandi errori che ha commesso verso la cinematografia il Ministero del commercio estero. Per questa ragione: perché le case americane, le quali sono le uniche fornitrici di film all’Italia, non stanno facendo altro che incassare frutti di noleggi fatti ai loro prezzi e alle loro percentuali, in virtù precisamente del monopolio che permette loro di imporre, senza leggi, la programmazione dei loro film. A quest’ora ci sono una diecina di miliardi accumulati, che non si possono sbloccare, e che si devono spendere in Italia. Onorevole Pera, che cosa accade spendendoli in Italia? Che un bel giorno gli americani si comprano tutti i cinematografi italiani, e allora la cinematografia italiana me la saluta lei e ce la salutiamo tutti quanti. L’E.N.I.G. è praticamente in vendita, perché è fallita di fatto se non di diritto, fallita come sono fallite altre attività statali. Il giorno in cui l’E.N.I.G., con tutti i suoi cinematografi, dovrà andare in liquidazione per la sua cattiva amministrazione, troverà come acquirenti gli americani, i quali prenderanno i nostri cinematografi, fatti col nostro lavoro e con la nostra produzione, pagandoli col nostro danaro.

Quindi, onorevole Pera, – forse lei non ha avuto sufficienti informazioni in materia cinematografica – le sarei tanto grato se lei non vedesse un interesse, dietro le mie parole, per i produttori; così come mi guardo bene io dal vedere, dietro le sue parole, gli interessi di un’altra categoria: quella degli esercenti. Dal resto, quando si difende onestamente un interesse industriale italiano, bisogna per forza difendere qualcuno.

PRESIDENTE. Ha chiesto la parola per fatto personale l’onorevole Pera. Ne ha facoltà.

PERA. Rispondo subito all’onorevole Giannini, e dopo risponderò all’onorevole Proia.

All’onorevole Giannini devo questo chiarimento: che io non ho fatto allusioni nei suoi confronti in quanto io lo sospettassi di difendere degli interessi. Non ho fatto alcuna allusione, onorevole Giannini.

GIANNINI. La ringrazio.

PERA. Lei deve darmene atto.

GIANNINI. La ringrazio e ne prendo atto.

PERA. Sento il dovere di dichiararlo, ma ho l’obbligo anche di rispondere a qualche sua affermazione. Lei dice che questa legge è a vantaggio dei piccoli produttori in quanto il grande produttore non sa che farsene; ma anche il grande produttore ne è beneficiato… ed avrà anche lui la sua parte di sovvenzioni.

GIANNINI. Certamente!

PERA. Ma c’è un motivo di più: bisogna essere guardinghi nel dare premi e sovvenzioni quando questi premi e sovvenzioni possono andare anche a beneficio di industriali stranieri. Un’altra questione lei ha fatta, ed è quella della disposizione emanata dal Ministero del Commercio estero. Questo Ministero, in data 3 aprile 1947, ha adottato la disposizione che ho letto e lei ha il legittimo timore, che anche noi condividiamo, che stranieri possano venire ad accumulare grandi fortune col noleggio dei films in Italia, arrivando poi all’acquisto di nostre sale cinematografiche. Mi permetta di ricordare che il Ministero ha previsto appunto all’art. 6 che le disponibilità del suddetto fondo cinematografico potranno essere utilizzate dai titolari solamente previo benestare del «Cambital». Per conseguenza, o noi abbiamo fiducia nel Ministero del commercio estero o non abbiamo questa fiducia. In questo caso vuol dire che esso non difende gli interessi italiani. (Approvazioni a sinistra).

Per quanto concerne l’onorevole Proia, confesso di non avere afferrato la prima parte del suo dire. Se, da una frase dell’onorevole Giannini, è vero che lei abbia fatto allusione agli interessi che io difenderei…

PROIA. Lo escludo.

PERA. Ne prendo atto e rispondo all’onorevole Proia che il fatto che egli rappresenti degli interessi che sono raggruppati dalla A.N.I.C.A. è legittimo. Ricordo che quando furono fatte accuse contro l’onorevole Proia, io personalmente insorsi perché trovavo che non ci fosse nulla di male nel fatto che un deputato fosse alla Presidenza dell’A.N.I.C.A. Ma quando lei dice che i grandi e piccoli produttori hanno perso moltissimi quattrini, sento la necessità di leggerle un elenco degli incassi realizzati a tutto dicembre 1945 da film italiani usciti in prima visione: 484 milioni. Un altro elenco riguarda gli incassi conseguiti dai film italiani a tutto il secondo semestre 1946: 3 miliardi e 726 milioni! Ciò vuol dire che, a parte la notizia venuta dall’America, secondo la quale un grande produttore italiano avrebbe comprato un intero circuito di sale cinematografiche a New York, lei non ha il diritto di gridare alla miseria dei produttori italiani.

C’è comunque un fatto: cosa ho sostenuto? Che la legge deve essere rielaborata e riesaminata. Io voglio che gl’interessi degli industriali stranieri non siano protetti e difesi e proprio da questi banchi socialisti si leverà anche la voce della protesta contro la protezione industriale di film stranieri o di altre industrie non italiane. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Poiché la serie dei fatti personali è esaurita (Si ride), comunico che è pervenuta alla Presidenza una nuova proposta di sospensiva a firma degli onorevoli Cairo, Gullo Rocco, Chiaramello, Pignatari, Tomba, Fogagnolo, Costa, Fornara, Vigorelli, Longhena, Pera, Paris, Tonello, Zanardi, Di Giovanni, Veroni, Lami Starnuti, Morini, Cianca.

Procedo all’appello dei firmatari.

(Segue l’appello).

Poiché i firmatari risultano presenti, apro la discussione sulla proposta di sospensiva, avvertendo che, a norma del Regolamento, hanno diritto di parlare due oratori a favore e due contro.

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare a favore della sospensiva.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. La domanda di sospensiva credo che sia più che giustificata, per le ragioni che mi permetterò di esprimere molto brevemente; cioè perché c’è ragione di ritenere che gli onorevoli colleghi non siano sufficientemente illuminati circa l’importanza del disegno di legge che viene presentato in relazione con le soluzioni che è possibile escogitare a favore della cinematografia italiana, senza intaccare il patrimonio dello Stato, che è già tanto compromesso: e di ciò nessuno ha ancora fatto menzione. Ne ha fatto menzione il Governo nel preparare quella breve relazione che precede il disegno di legge. Dice la relazione: «La complessità dei problemi connessi all’attività cinematografica, attività a cui sono strettamente collegati, tra l’altro, notevoli interessi patrimoniali dello Stato…».

Ora, se noi dovessimo ricorrere al più illustre consesso di ragionieri, o di contabili, o di professori di università specializzati in materia del genere, e dovessimo pregarli di fare i conti di quello che è costata allo Stato la cinematografia italiana dal momento in cui il Governo fascista ha voluto prenderla sotto la sua protezione, io credo che si starebbe degli anni ad aspettare che i conti arrivassero, e quando dovessero arrivare, noi vedremmo delle cifre paurose; perché non possiamo dimenticare come è nata la cinematografia di Stato, che ha incominciato a imperversare in Italia dopo il 1930. Fino al 1930, abbiamo avuto veramente un’industria seria che era legata ad un nome che si chiamava Stefano Pittaluga; non era mai ricorsa ai mezzi che ha poi inaugurato il fascismo e che oggi ancora noi seguiamo, perseverando in questa via errata.

Quando è morto Pittaluga, abbiamo constatato una grande verità, quella stessa verità che il magnate americano Samuel Goldwin gettò in faccia a Vittorio Mussolini, quando andò in America ad offrire i famosi cinquanta milioni di dollari per prender parte all’industria di Hollywood. «Ebbene, rispose Samuel Goldwin, l’industria cinematografica moderna non è una questione di denaro; è una questione di cervello e noi americani, se voi avete dei cervelli da mandare, saremo pronti ad aprirvi le braccia». Ma ai milioni di dollari offerti dal figlio del duce, Samuel Goldwin non abboccò.

Siamo già al 1936; ma, nel frattempo, era. avvenuto che, dopo la morte di Pittaluga, il fascismo aveva creato il famoso Ente nazionale per la cinematografia ed aveva incominciato ad erogare il denaro dello Stato.

PRESIDENTE. Onorevole Fogagnolo, mi consenta di farle notare che lei ora sta entrando nel merito. (Rumori).

MINIO. Questo è ostruzionismo sistematico.

FOGAGNOLO. Se non volete sentire le cose serie attraverso le quali si arriva a dimostrare che ci sono… (Rumori Proteste).

PRESIDENTE. Abbiano la cortesia: c’è bisogno di fare queste interruzioni?

FOGAGNOLO. Scusate tanto, onorevoli colleghi: ma quando leggo nel resoconto della seduta di quindici giorni fa che l’onorevole Proia, il quale viene qui oggi a dirci che bisogna provvedere all’approvazione di questo disegno di legge perché ci sono delle maestranze che hanno bisogno di lavorare e senza questo disegno di legge non potrebbero lavorare, io gli domando come egli può spiegare la sua proposta di emendamento all’articolo 3, che mi permetto di leggere:

«In via eccezionale (siamo sempre nelle vie eccezionali, come quelle dell’altro provvedimento del 1945 che doveva anch’esso essere eccezionale) potranno essere considerati nazionali i film prodotti in Italia o all’estero da case italiane in regime di compartecipazione artistica, tecnica e finanziaria con le case estere, quando la realizzazione di detti film sia riconosciuta, di volta in volta, di interesse nazionale, ai fini economici ed artistici, da parte dell’Ufficio centrale per la cinematografia, sentito il parere del Comitato tecnico, di cui al successivo articolo 13».

Una voce a destra. Noi respingiamo questo emendamento.

FOGAGNOLO. Ora, qui si scopre il giuoco: dovevate almeno avere l’abilità di non proporre questi emendamenti i quali mascherano quello che giustamente affermava il collega sviluppando il suo argomento: qui si tratta di una protezione, puramente e semplicemente, degli industriali della cinematografia.

E non ci venga a dire l’onorevole Proia che essi hanno perduto 600 milioni: potranno averli perduti; ma noi sappiamo anche quale vita spendereccia essi conducano e come scialacquino il loro denaro. C’è chi ha guadagnato e chi ha perduto. Ed allora, se qualcuno ha guadagnato, vuol dire che è stato capace. Chi ha perduto difficilmente è stato disgraziato; probabilmente è stato o un incapace, o uno che spendeva più di quello che incassava.

Ora, tornando a quello che stavo per dire circa la sospensiva, io vorrei proporre all’Assemblea un rinvio, non un rinvio a carattere sabotativo, ma un rinvio per esaminare serenamente, con la reciproca buona volontà, come si può – e si può – venire incontro e dare un aiuto all’industria cinematografica italiana.

Noi abbiamo un circuito, che si chiama il circuito E.N.I.C. Era il vecchio circuito della Pittaluga che è andato poi modificandosi con l’intervento del fascismo, che ha messo i Freddi e tanti altri nomi che saranno passati in modo poco lusinghiero nella storia cinematografica italiana. Non è oggi portando dal 10 al 12 per cento il prelievo sugli incassi che si risolve il problema. Noi abbiamo un circuito di sale cinematografiche: sono, mi pare, 140 locali; l’onorevole Giannini ha detto 100. Ad ogni modo se questo problema della cinematografia fosse esaminato nel suo insieme e non con un decretino… (Interruzioni).

PRESIDENTE. Onorevole Fogagnolo, io richiamo i colleghi che la interrompono, ma ciascuno di noi deve tener presente il regolamento. Mi rimetto alla sua sensibilità.

FOGAGNOLO. È la prima volta, da quando sono deputato, che prendo la parola. Domando se posso essere considerato come uno che faccia il sabotatore. Non credo che gli altri colleghi abbiano avuto lo stesso trattamento.

PRESIDENTE. Non è questo. Io dico che anche per non sollevare le proteste dei suoi colleghi i quali fanno appello a me perché applichi il Regolamento, lei dovrebbe parlare sulla sospensiva che ha proposto e non sul merito.

FOGAGNOLO. Devo esporre le ragioni per le quali questo disegno di legge dovrebbe essere rinviato, non dico di molto, ma almeno, di un mese.

Ora, la ragione del rinvio l’ho spiegata, ed è dovuta al fatto che ritengo che questa Assemblea non sia sufficientemente illuminata sull’importanza del problema, di cui è oggetto il disegno di legge. Quindi necessiterebbe un rinvio, ma non un rinvio puro e semplice, perché allora si potrebbe dire che ci può essere un’intenzione temporeggiatrice che io non ho. Noi non siamo contrari, e la domanda che io vorrei fare è questa: l’Assemblea sospenda l’esame del disegno di legge sull’ordinamento dell’industria cinematografica nazionale ed inviti il Governo ad affidare ad una apposita Commissione di tecnici l’esame di tutto il problema cinematografico italiano in relazione anche alle attività svolte da enti, cui sono strettamente collegati notevoli interessi patrimoniali dello Stato. Questa Commissione dovrebbe presentare entro un mese la sua relazione e fare proposte concrete per definire l’indirizzo da dare a tutta l’attività cinematografica.

Dissento dall’onorevole Giannini circa il giudizio da lui dato sulla attività dell’E.N.I.C. L’attività di esercizio di questo Ente è utile, sana e notevole: però potrà essere sempre in perdita, finché farà il noleggiatore di pellicole o finché ascolterà gli inviti di certe case americane che vanno ad offrirgli 75 milioni per fare della produzione in partecipazione, con lo scopo evidente di impadronirsi del circuito di sale cinematografiche che l’E.N.I.C. possiede. Dalla relazione Vernocchi risulta che la Russia possiede un notevole circuito di sale cinematografiche (25.000); che l’Inghilterra ne sta requisendo 500. Anche in Italia sarà saggia politica allargare e consolidare il circuito di sale dell’E.N.I.C. e metterle a disposizione del film italiano, se si vuole seriamente aiutarlo senza ricorrere alle casse dello Stato, allo scopo di aiutare in modo oneroso per la Tesoreria i produttori di pellicole italiane.

Per quanto riguarda l’istituto «Luce», sembra che in questi giorni il Consiglio dei Ministri abbia dato l’incarico a tre Ministri di studiarne la soppressione. Ebbene: bisogna invece studiare seriamente l’attività utile che il «Luce» può svolgere nell’interesse della cinematografia italiana.

Ecco, onorevole Presidente, le ragioni che militano a favore del rinvio. Si nomini una Commissione parlamentare che prenda in esame tutto il complesso problema della cinematografia italiana e questa Commissione riferisca entro un mese la soluzione più conveniente.

BIBOLOTTI. Chiedo di parlare contro la sospensiva.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BIBOLOTTI. Mi riservo di entrare nel merito se la sospensiva sarà respinta.

È da troppo tempo che il senso artistico degli italiani è offeso sullo schermo da produzioni che abbassano o tendono ad abbassare il livello morale del nostro popolo. È da troppo tempo che l’influenza straniera nel suo aspetto più deteriore trova nella cinematografia una sua arma di penetrazione, ed è doveroso che animi italiani facciano tutto quanto è possibile, e lo facciano presto, perché sorga finalmente un’arte cinematografica nazionale.

Io penso che ciascuno di noi, onorevoli colleghi, ha gioito quando sullo schermo italiano è comparso un film italiano che glorificava non soltanto la resistenza del popolo italiano, ma costituiva un merito, e una gloria per la capacità artistica della produzione italiana.

Crollata la tirannia fascista e riconquistata la libertà, è necessario che lo Stato incoraggi tutte le manifestazioni dell’arte. E, di fronte alle minacce, non soltanto ipotetiche, ma concrete d’una invasione a carattere permanente di musiche e danze negre ed alla glorificazione del gangsterismo, penso sia dovere dello Stato difendere la nostra morale, il nostro senso artistico.

Il disegno di legge presentato può essere oggetto di critiche e ci riserviamo di farle; ma dobbiamo dire al Governo che ha fatto bene, anzi avrebbe dovuto prendere prima queste misure, per difendere i lavoratori italiani. Parlo anche come sindacalista: migliaia di lavoratori attendono che l’Assemblea decida la ripresa della loro attività; essi domandano che l’ostruzionismo, tentato altrove ed anche dalla Commissione parlamentare, sia condannato, perché l’interesse dei lavoratori è che non si perda più tempo e che questo disegno di legge, pur difettoso e meritevole di emendamenti, che saranno presentati, sia portato all’approvazione dell’Assemblea.

Per queste ragioni sono contro la sospensiva; e prego gli onorevoli colleghi di riflettere. Specialmente a quelli che han parlato dai banchi più vicini al mio vorrei dire che non è ponendosi sul terreno del liberismo economico vecchio stile che si difendono gli interessi delle classi lavoratrici (Interruzioni degli onorevoli Pera e Fogagnolo); non è ponendosi sul terreno d’un risorto liberismo che si tutelano gli interessi dei lavoratori.

FOGAGNOLO. Non c’entra la politica, qui.

BIBOLOTTI. Faccio appello agli onorevoli colleghi, perché respingano la proposta di sospensiva, che, secondo l’avviso del mio Gruppo, ha carattere ostruzionistico, lesivo degli interessi delle aziende, delle masse lavoratrici italiane e del popolo italiano.

Per queste ragioni, riservandomi di entrare nel merito della discussione, dichiaro che il mio Gruppo voterà contro la proposta di sospensiva.

EINAUDI. Chiedo di parlare a favore della sospensiva.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Parlo in qualità di laico della cinematografia e confesso di avere appreso tutte le mie notizie al riguardo in questa seduta.

Ma le cose esposte dall’onorevole Pera, dal punto di vista finanziario ed economico, mi sono parse così gravi, che un rinvio, se non ad una Commissione apposita, alla Commissione di finanza mi pare nostro assoluto dovere.

Non è possibile, così leggermente, senza che nella relazione della Commissione sia fatto cenno ad una qualsiasi dimostrazione intorno agli effetti del provvedimento per la finanza dello Stato, non è possibile, senza che la relazione della Commissione dica nulla sui risultati delle provvidenze di credito date durante il passato regime alla cinematografia, approvare il disegno di legge oggi presentato al nostro esame.

Il rinvio alla Commissione di finanza mi pare tanto più necessario, in quanto è stata annunziata una discussione sulla politica finanziaria generale dello Stato; in quella sede sarà necessario esaminare a fondo in quali casi lo Stato deve intervenire, ed in quali casi no, a favore di iniziative private.

Ho sentito parlare di sussidi, di sovvenzioni date alla Fiat e ad altre industrie italiane; e si sono ricordati i sussidi passati come precedenti validi, in virtù dei quali si dovrebbero dare oggi nuove sovvenzioni; ma io dico che, se mai, le sovvenzioni date in passato dovrebbero essere rivedute e, se lo consiglia l’interesse pubblico, fatte cessare. Soltanto da una discussione generale nella quale le provvidenze a favore della cinematografia vengano messe a paragone con le altre provvidenze prese in passato o da prendere in avvenire a favore delle altre industrie nazionali, soltanto dall’esame di un bilancio generale della spesa pubblica nella quale tutte le provvidenze siano catalogate e graduate per ordine di importanza, si potrà trarre un giudizio fondato su quelle che meritano di essere messe per prime e quelle che debbono essere messe per seconde od ultime. Io mi posso rallegrare vivamente che dai banchi socialisti sia venuta una parola così ardente contro la protezione doganale all’industria, ma quelli che, come me, hanno fama di essere liberisti, sono i primi a riconoscere che l’intervento dello Stato in taluni casi è necessario. Ma l’intervento deve essere ragionato e non può mai essere dato volta per volta; deve essere ragionato in funzione di un bilancio generale: bisogna stabilire quali sono le spese che lo Stato può sopportare, le imposte alle quali può rinunciare. Senza una discussione generale, un voto il quale sia dato in questo modo è un voto che si appalesa prematuro. Occorre un rinvio alla Commissione di finanza, la quale discuta al tempo stesso i problemi relativi alle sovvenzioni oggi proposte, all’industria cinematografica e ai legittimi proventi che lo Stato può ricavare dalle rappresentazioni teatrali. Occorre altresì una discussione fatta dalla medesima Commissione di finanza e tesoro su quelle che siano state le conseguenze passate del credito cinematografico e quelle che potranno essere in avvenire.

Non illudiamoci che il problema si possa risolvere a sé stante, perché si afferma che i sussidi alla cinematografia si pagherebbero con un prelievo sulle tasse prelevate sui proventi degli spettacoli cinematografici. Faccio astrazione dalla circostanza che i proventi delle tasse vanno oggi ai comuni, laddove i contributi all’industria cinematografica sono pagati dall’erario statale. Ma è falso il principio stesso dei contributi pagati con una speciale imposta. Troppo comodo l’alibi che in tal modo ci procureremmo. In verità tutte le imposte, qualunque sia il loro nome, sono pagate col reddito dei contribuenti e tutte spettano al tesoro dello Stato. È il tesoro che paga in definitiva e sempre, e sempre paga col denaro dei contribuenti. Epperciò nessuna spesa può essere votata a sé; ma tutte debbono essere graduate in funzione delle disponibilità di bilancio. Soltanto su questa base la Costituente può dare un voto il quale persuada sul serio l’opinione pubblica. Per ciò io, senza manifestare nessuna opinione in merito, dico che è nostro dovere rinviare il progetto alla Commissione di finanza e tesoro.

GIANNINI. Chiedo di parlare contro la sospensiva.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, rispondo subito ad alcune osservazioni dell’onorevole Einaudi. Il rinvio alla Commissione di finanza presuppone che questa sia una legge affrettatissima, una legge non elaborata. Ora, questa legge, onorevole Einaudi, è stata presentata di concerto da vari Ministri, fra cui anche il Ministro delle finanze. La sua discussione è durata un anno. Aggiungo, per lei che poco fa era assente, che nella giornata di domenica ho convocato alcuni rappresentanti delle categorie cinematografiche a Roma, e sono stato a diretto contatto con quei lavoratori del cinematografo. Essendosi impiegato tanto tempo nella discussone di questa legge, il suo rinvio alla Commissione di finanza, tenendo conto anche del fatto che non si tratta di legge di capitale importanza, non mi pare sia necessario.

È vero che c’è un punto sul quale anch’io dovrei sentirmi particolarmente vulnerabile, ed è quello del liberismo, in cui ci ha fatto cadere l’onorevole Bibolotti, il quale ha parlato contro il liberismo. Ma il mare tempestoso in cui si trova il nostro adorato liberismo non è creazione nostra, né della legge sulla cinematografia, ma delle circostanze, e del prolungarsi della discussione a tal punto, che siamo usciti in argomenti che non c’entravano affatto. Questa è una legge che non ha una importanza basilare; non è una legge che costituisca uno dei pilastri dello Stato. È una legge fatta allo scopo di riavviare un’industria, di dar lavoro alle maestranze, e anche agli intellettuali: e in questo c’è un mio grandissimo interesse personale che non posso nascondere.

Nessuno è più liberista di noi. Ma dobbiamo cominciare proprio con questa legge la pratica liberista?

SCOCCIMARRO. È la realtà che insegna, onorevole Giannini!

GIANNINI. Grazie dell’appoggio! All’onorevole Fogagnolo dirò che il Comitato di studio da lui immaginato per coordinare tutta l’attività cinematografica porterebbe a quel totalitarismo cinematografico che egli vuol combattere. L’onorevole Fogagnolo si deve mettere d’accordo con se stesso. (Vivaci interruzioni dell’onorevole Fogagnolo). Vede come è cattivo: io l’ho lasciato parlare prima; adesso lei non vuol lasciar parlare me. (Si ride).

In quanto alla competenza, di cui questa Assemblea sarebbe priva sui problemi cinematografici, ricordo all’amico Fogagnolo che egli ha parlato delle intimità della cinematografia, nelle quali non abbiamo il diritto di portare un’Assemblea politica. In un’Assemblea politica dobbiamo guardare i problemi nelle loro linee generali: non possiamo pretendere che l’Assemblea abbia una competenza specifica su ogni problema.

FOGAGNOLO. E allora perché ha parlato di negativo e di positivo?

GIANNINI. Vi ho accennato di volo per rispondere all’onorevole Pera. Lei ha parlato dell’E.N.I.C. che è un’azienda statale, o parastatale, come si usa dire adesso. Se dovessimo discutere sui suoi intimi particolari, avremmo bisogno d’una giornata intera soltanto per stabilire la nomenclatura degli argomenti da trattare. Per l’E.N.I.C. potrei risponderle che mentre tutti i cinematografi guadagnano, il solo E.N.I.C., gestito dallo Stato, perde nell’esercizio dei suoi cinematografi.

PRESIDENTE. Onorevole Giannini, non approfondisca anche lei.

GIANNINI. Ha ragione, onorevole Presidente. Mi scusi. Dicevo che l’onorevole Fogagnolo pretenderebbe di portare alla competenza dell’Assemblea problemi troppo minuti. Mi domando spaventato in quale condizione ci troveremmo se un giorno dovessimo discutere una legge sulle levatrici: in quali intimità dovremmo scendere per far acquistare all’Assemblea la necessaria competenza in materia. (Si ride Commenti).

Concludo domandando che si continui la discussione della legge e che la proposta di sospensiva sia respinta.

PRESIDENTE. Hanno ora diritto di parlare l’onorevole Relatore e il rappresentante del Governo per esprimere il loro avviso sulla proposta di sospensiva.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

VERNOCCHI, Relatore. Non entro nel merito, e mi limito soltanto ad accennare perché sono favorevole alla legge e contrario alla proposta di sospensiva.

Questa legge non è stata preparata dal Governo. Questa legge, la cui origine risale a due anni or sono, è stata preparata da una commissione paritetica, nominata, sia pure in definitiva, dal Governo, ma su designazione delle varie organizzazioni professionali, di industriali e di lavoratori, che si è riunita molte volte e ha redatto il disegno di legge.

La Commissione ne compilò prima uno che stabiliva delle provvidenze maggiori dal punto di vista del contingentamento allo schermo e poi altri; e questi disegni di legge, che a volta a volta si sono avvicendati e sono giunti sino sulla soglia del Consiglio dei Ministri, a un determinato momento, non si sa perché, sono stati tutti sospesi e sono stati messi a dormire. Ma è che allora giocavano delle influenze straniere e particolarmente di case americane, che non avevano interesse che rinascesse l’industria cinematografica del nostro Paese e che tenevano, in definitiva, il monopolio del nostro mercato. Considerate queste cifre: il mercato italiano può assorbire solamente 250 film all’anno. Ebbene, vi sono 500 film stranieri, nella grande maggioranza americani, in questo momento nel nostro Paese. Quindi non c’è posto per il film di produzione italiana. Ma voglio dirvi che questo disegno di legge ha un interesse particolare per la classe lavoratrice, per quella classe lavoratrice che oggi non ha lavoro e che vuole lavorare colle sue maestranze specializzate, che sono di capacità veramente eccezionale, coi suoi registi, coi suoi attori, coi suoi sceneggiatori, coi suoi artisti, coi suoi soggettisti, che gli stranieri ci invidiano. Basta ricordare il successo che alcuni film hanno avuto in Europa e in America, per darvi la sensazione che effettivamente noi abbiamo la possibilità di portare l’industria cinematografica ancora in primo piano, così come era prima del fascismo, quando esisteva ancora il film muto. Pensate al film «Roma città aperta», che oggi è in America, introdotto clandestinamente, e che al suo fortunato possessore, il quale non ha potuto ottenere che un cinematografo di 300 posti alla periferia di Nuova York, in questo momento ha già dato un guadagno di cinque miliardi di lire italiane.

Questo sta a dimostrare che cosa è il nostro film. E vi dirò che ha fatto più bene «Roma città aperta» in America, nell’opinione pubblica americana, alla quale ha dato la dimostrazione soprattutto dello sforzo compiuto dal nostro Paese nella lotta per la liberazione e nella ricostruzione, che tutte le ambascerie mandate dal Governo. Ad ogni modo su questo mi intratterrò nella discussione di merito quando risponderò agli altri oratori. Ma voglio farvi notare per ora che i lavoratori che vivono direttamente nell’industria cinematografica sono circa cinquantamila e coloro che vivono ai margini del cinematografo sono oltre 100 mila. Hanno un peso notevole, onorevoli colleghi, e sono proprio queste maestranze che hanno insistito particolarmente perché sia approvata una legge che dia la possibilità all’industria italiana di rinascere.

PERA. Ma questo è protezionismo.

VERNOCCHI, Relatore. Non è protezionismo. Il professore Einaudi è maestro di economia ed io non ho il coraggio di discutere con lui di una materia che mi può insegnare. Ma a lui dirò solo questo: crede lei che, nella tragica situazione particolare dell’Italia, dopo un regime di rigido protezionismo come abbiamo avuto per 23 anni, si possa passare immediatamente al regime liberista il più assoluto? Io credo che occorra procedere per gradi; e qui si procede per gradi, perché questa legge è temporanea. Anche il contingente allo schermo è temporaneo, perché se, nell’anno prossimo, la produzione italiana avrà il successo che prevediamo, i giorni di obbligatorietà saranno diminuiti gradatamente fino a raggiungere la normalità. Non è quindi una protezione definitiva. Questa legge vuol solo dare la possibilità all’industria di risorgere in questo particolare, difficile momento.

PERA. L’avete, la legge!

CAPPA, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Non è vero.

VERNOCCHI. Non abbiamo una legge. La legge del 1945 non conteneva una condizione essenziale per l’industria italiana: non stabiliva il contingente allo schermo che dispiace ai nostri esercenti, i quali hanno fatto grossi guadagni nel 1946 col film americano e a questi guadagni non vogliono rinunziare neanche oggi. Pensate che l’incasso dei cinematografi nel 1946 è stato di 13 miliardi e 500 milioni di lire. Questa è la somma che va considerata. Orbene, sapete voi, tradotto in cifre, che cosa lo Stato verserà come provvidenze al film italiano tenendo conto che percepisce 4 miliardi di tasse erariali?

L’industria cinematografica italiana non assorbirà che una somma che va dai 150 ai 200 milioni. (Interruzione dell’onorevole Pera).

Le domando, onorevole Pera, se lo Stato, il quale incassa per virtù dell’industria cinematografica 4 miliardi all’anno di tasse, non abbia il dovere, ad un determinato momento, di cercare di aiutare anche quest’industria che gli offre una entrata così rilevante. E 150 milioni non sono una cifra eccessiva, una rovina!

Per queste ragioni, sinteticamente esposte, dichiaro di essere favorevole alla discussione del disegno di legge e contrario alla sospensiva. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Faccio osservare, onorevoli colleghi, che questa legge, come è stato già rilevato, non è affatto una improvvisazione; non è stata creata da particolari correnti di interessi che l’abbiano sollecitata. In realtà, come ha ricordato il collega Vernocchi, da anni si domandava una legge che rendesse possibile la ripresa dell’attività cinematografica nazionale.

Lo schema è stato redatto da una Commissione composta dei rappresentanti di categorie varie e dei rappresentanti dei Ministeri competenti; è stata elaborata, discussa, vagliata, portata al Consiglio dei Ministri con l’adesione di tutti i Ministri competenti. Il Consiglio l’ha riesaminata e discussa e finalmente l’ha approvata mandandola all’Assemblea. La Commissione dell’Assemblea Costituente ha fatto alcune osservazioni. La legge è ritornata al Consiglio dei Ministri e oggi è davanti a voi.

lo, come l’onorevole Einaudi, sono un laico in materia cinematografica. (Commenti a sinistra). Lo confesso.

VERNOCCHI, Relatore. Anche troppo!

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Anche troppo! Però ho cercato di portare nell’esame e nel complesso di questa legge un criterio pratico, positivo, contemperando le varie correnti, le varie domande, i vari interessi; e credo che coloro che hanno partecipato ad alcune riunioni che ho presiedute potrebbero testimoniare come mi siano stati a cuore particolarmente gli interessi dello Stato, oltre che il desiderio di vedere realmente ripresa in Italia una produzione cinematografica che ci renda possibile, se non di liberarci totalmente – ciò che credo difficile per ora – dalla produzione straniera, almeno di avviarci verso una partecipazione alla produzione che è rappresentata nelle nostre sale cinematografiche.

Questa legge vuole appunto incoraggiare l’industria nazionale; io sono lieto di aver qui constatato che, a parte la viva opposizione dell’amico e collega Pera, in complesso altri, che si erano manifestati fuori di qui e dentro di qui, nelle prime discussioni, contrari in parte alla legge, o che per lo meno formulavano varie obiezioni, si sono poi quasi conciliati; come per un’altra legge, che avrò l’onere e l’onore di sostenere davanti a questa Assemblea dopo molte polemiche di stampa, spero si troverà un accordo, così mi è parso che su questa legge l’accordo, in complesso fosse trovato e raggiunto fra gli esponenti delle varie materie cinematografiche e l’industria cinematografica.

Dice l’amico Pera che c’è già una legge che tutela in parte questa produzione cinematografica. Ebbene, una legge c’è, ma l’attuale progetto la migliora in parte, in quanto migliora le percentuali in favore della produzione nazionale. In questa legge nello stesso tempo si riorganizza l’Ufficio cinematografico, nel tentativo che io voglio fare e che ho cercato di fare, di sbloccare, di liquidare il vecchio Ministero della cultura popolare.

Ma veda, collega Pera, in realtà, nella legge che sussiste a regolare la produzione cinematografica nazionale, non vi è un articolo che appare in questa legge, e che probabilmente ha creato la polemica di stampa e l’opposizione di cui lei, in completa e perfetta buona fede, si è fatta eco. Non c’è nella legge precedente l’obbligo della riserva di sessanta giorni di rappresentazioni alla produzione nazionale.

PERA. Ma siamo d’accordo.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. L’obbligo di riservare sessanta giorni alla produzione nazionale non è contenuto nella legge precedente; donde le opposizioni che sono state fatte prima nelle varie commissioni e che poi vengono ad affiorare oggi nell’Assemblea Costituente contro la presente nuova legge. In realtà esse provengono dai conduttori di sale cinematografiche particolarmente toccati da quest’obbligo di riserva di sessanta giorni imposto a favore dell’industria nazionale.

Per il resto, la sostanza della legge è quella che era prima, con alcuni miglioramenti tecnici che credo anche lei, onorevole Pera, dovrà ammettere.

PERA. Per i produttori.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Per queste ragioni, io ritengo che sia utile respingere la domanda di un rinvio. Questo progetto si trascina da molto tempo, ha subìto tutti gli studi e le revisioni possibili. Del resto, l’Assemblea Costituente potrà discuterlo articolo per articolo. Se l’onorevole Pera ed altri ritengono che certi sussidi e certi concorsi siano eccessivi nell’aumento che è stato fatto, potremo qui vagliarli con tutta libertà; ma ritengo, nell’interesse dell’economia nazionale e delle maestranze, sia conveniente che questa legge sia varata. Pertanto, il Governo chiede che sia respinta la domanda di rinvio.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, devo ora porre in votazione la proposta di sospensiva.

LUSSU. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE Onorevole Lussu, sulla proposta di sospensiva non dovrebbero farsi dichiarazioni di voto. (Interruzione dell’onorevole Tonello).

Onorevole Tonello, sono io giudice dell’opportunità di quanto devo dire.

La proposta di sospensiva è del seguente tenore:

«I sottoscritti chiedono che venga sospesa la discussione del progetto di legge sull’industria cinematografica e che il progetto sia rinviato al Governo per l’ulteriore esame».

CIANCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Su che cosa?

CIANCA. Vorrei dire che ora si tratta di stabilire le finalità di questo rinvio. Quindi, mi pare che le dichiarazioni di voto debbano essere autorizzate, anche perché da queste dichiarazioni di voto possono essere precisati i fini che noi ci proponiamo di raggiungere.

PRESIDENTE. Nei limiti espressi dall’onorevole Cianca consento qualche breve dichiarazione.

CIANCA. Ho inteso discutere di liberalismo e di vincolismo. Qui il problema non c’entra. Si tratta di difendere – si è detto – i legittimi interessi della industria cinematografica italiana e gli interessi delle maestranze. Su questo punto siamo perfettamente d’accordo. Dichiaro di essere assolutamente ignaro della materia, ma mi trovo di fronte a un disegno di legge, il cui titolo è questo: «Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale». Ora, noi abbiamo creato delle Commissioni alle quali abbiamo deferito il compito di discutere determinati problemi. Io chiedo: perché questo disegno di legge, il quale si intitola alla «industria cinematografica» e investe problemi di carattere finanziario deve arrivare dinanzi a noi senza il parere preventivo delle due Commissioni specificamente competenti: della Commissione di finanza e della Commissione dell’industria e commercio? (Approvazioni). È per questo, e per questo solo, che aderiamo alla proposta di sospensiva.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà, nei limiti di una dichiarazione di voto.

CORBINO. Sono per la sospensiva nell’interesse dello stesso disegno di legge, che si sta discutendo fra vivi contrasti…

Una voce da sinistra. Sulla sospensiva hanno parlato già due oratori a favore e due contro.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, per non suscitare altre questioni ho consentito che si facciano anche dichiarazioni di voto.

Prego però i colleghi di non abusare di questa concessione.

CORBINO. Dovremo perdere una settimana per esaminare il disegno di legge e non abbiamo tempo: si mandi alle Commissioni, che provvedano direttamente sulle proposte…

Una voce. C’è già stato.

CORBINO. Ed il Governo provveda in merito come ha il diritto e il dovere di fare!

LUSSU. Chiedo di parlare.

GRASSI. Mi appello al Regolamento.

PRESIDENTE. Ritengo opportuno consentire all’onorevole Lussu una breve dichiarazione.

LUSSU. Desidero chiarire un punto, e per questo principalmente ho chiesto la parola. Si è voluto dare al dibattito un carattere politico che non esiste. Lo dimostra il fatto che i colleghi comunisti si trovano su questo problema d’accordo con quelli dell’«Uomo qualunque» (Commenti); ed io stesso sono d’accordo sia con l’onorevole Pera che con l’onorevole Einaudi. Ciò dimostra che non c’è questione politica, che non ci sono né sabotatori né opposizione massimalistica, ma soltanto una opposizione obiettiva. Io sono favorevole ad ogni iniziativa cinematografica e sono entusiasta del cinema. Debbo dire anzi che, sotto questo aspetto, ho simpatia verso l’onorevole Guglielmo Giannini, non perché è Presidente dell’«Uomo qualunque»…

GIANNINI. Grazie, grazie!

LUSSU. …ma perché si è occupato di letteratura e di cinematografia nel passato. Simpatia anche per gli industriali, perché se gli industriali non si occupassero del cinema, non se ne occuperebbe davvero nessuno. Il problema presenta ora riserve e complicazioni. L’onorevole Giannini ha rinunciato ad un discorso di due ore che era indispensabile perché tutti ci facessimo una idea esatta del problema; ma, poiché egli non ne ha parlato, e ne ha parlato invece abbondantemente in opposizione l’onorevole Pera, noi ci siamo sentiti preoccupati dalle argomentazioni da lui esposte; per cui rispondere negativamente ad una proposta di sospensiva, in coscienza, mi pare troppo.

Concludo dicendo che era indispensabile il parere della Commissione di finanza. In linea di principio si può discutere sulla questione del protezionismo, ma nel fatto specifico occorre questo parere, che non c’è stato. Concordo con le conclusioni dell’onorevole Corbino: noi non avremo il tempo di discutere per alcuni giorni questa legge. Il Governo e le Commissioni decidano e poi vedremo.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta di sospensiva.

(Dopo prova e controprova, non è approvata).

Il seguito della discussione di questo disegno di legge è rinviato ad una prossima seduta.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di urgenza:

«Al Ministro dell’interno, sui sanguinosi incidenti avvenuti a Potenza il 29 aprile ultimo scorso durante i quali fu fatto fuoco sulla folla provocando la morte di due cittadini con il ferimento di altri 14. E per sapere se siano state accertate le cause della sommossa, se ne siano stati individuati i fomentatori e se siano state acclarate le responsabilità dell’eccidio.

«Pignatari, Canevari, Carboni, Zanardi, Rossi Paolo, Paris, Gullo Rocco, Morini».

«Al Ministro dell’interno, sul grave e sanguinoso incidente del 29 aprile a Potenza, che ha causato la morte di due cittadini e il ferimento di altri quattordici, per sapere se siano stati individuati i provocatori della sommossa e i responsabili dell’eccidio.

«Zotta, Colombo Emilio».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere i motivi per cui sarebbe stato deciso, contrariamente a precise disposizioni di legge, di sciogliere il consiglio comunale di Roccarainola (provincia di Napoli) senza indire, come di regola, elezioni suppletive che provvedessero alla sostituzione di un gruppo di consiglieri dimissionari.

«Schiavetti, Cianca, Lussu».

«Al Governo, per conoscere quali provvedimenti intenda emettere per la sistemazione della Mostra triennale delle Terre italiane d’Oltremare e per la restituzione ai legittimi proprietari dei terreni sottoposti a espropriazione provvisoria, ma sui quali non è sorta alcuna costruzione stabile.

«Riccio Stefano».

«Ai Ministri dei trasporti e delle finanze e tesoro, per avere assicurazione che aderiranno alla legittima richiesta degli equipaggi delle navi traghetto dello Stretto di Messina tendente ad aver riconosciuta l’indennità mine. E ciò al fine di equiparare le condizioni economiche degli stessi a quelle del personale della Marina mercantile ed alleviare parzialmente la loro disagiatissima situazione ed anche per evitare che un eventuale sciopero paralizzi tutto il traffico della Sicilia.

«Bonino».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo si riserva di fissare le date in cui risponderà a queste interrogazioni.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge.

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, perché consideri se non ritenga opportuno, perché possano avere congrua sistemazione coloro che da oltre dieci anni prestano servizio presso le cancellerie giudiziarie quali avventizi, un provvedimento legislativo, che autorizzi un concorso interno per aiutante di cancelleria, così come fu fatto dopo la guerra 1915-18, al quale possano prendere parte gli interessati senza limite di età.

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, perché consideri se non ritenga opportuno, perché possano avere congrua sistemazione coloro che da oltre dieci anni prestano servizio nelle preture come funzionanti ufficiali giudiziari, un provvedimento legislativo, che li autorizzi a prendere parte ai concorsi ad ufficiali giudiziari effettivi, senza limite d’età.

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede di interrogare l’Alto Commissario per l’alimentazione, sulla situazione degli industriali della pastificazione della provincia di Campobasso, che lamentano vivamente il serio inconveniente della ridottissima lavorazione, verificatasi durante il decorso mese di dicembre, che certamente si protrarrà sino al nuovo raccolto.

«Tale situazione è aggravata dall’assoluto divieto di pastificare per conto terzi e per conto dei produttori e, si teme, quindi, il ripetersi di quanto si verificò nell’annata 1945-1946 e cioè una inattività per sette lunghi mesi delle industrie con enorme danno dei lavoratori e dei cittadini consumatori.

«Si fa presente, inoltre, che l’industria della pastificazione è nella predetta provincia particolarmente sviluppata e conta oltre cinquanta aziende con circa duemila lavoratori, i quali non hanno la possibilità di dedicarsi temporaneamente ad altri lavori principalmente in conseguenza del lungo periodo invernale.

«Ciò premesso, l’interrogante chiede all’Alto Commissario se, per ovviare alla non lieta situazione verificatasi, e che certamente si aggraverà, non ritenga opportuno permettere la pastificazione per conto terzi, regolarmente controllata dalle locali autorità, dalla quale i pastifici potrebbero trattenere una percentuale da fissarsi, da mettere poi a disposizione del tesseramento locale.

«In proposito si rammenta che la disposizione vigente, che dà permesso ai produttori di versare grano ai granai del popolo per avere in cambio la relativa tessera per la pasta, non ha dato, almeno nella ripetuta provincia, buoni risultati in conseguenza della mancata distribuzione dei generi tesserati.

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere i motivi per il quale, dopo aver annunciato come prossima, fin dallo scorso anno, l’ammissione dei diplomati degli istituti tecnici alle facoltà universitarie di agraria e di ingegneria, quest’ultima previo esame integrativo, e dopo aver dato incarico ad una apposita commissione di realizzare entro il 31 gennaio 1947 l’accesso degli abilitati tecnici alle suddette facoltà universitarie, nonostante che tale ammissione sia stata riconosciuta anche dal Consiglio superiore della pubblica istruzione giusta e doverosa perché completamento degli studi iniziati, non abbia ancora provveduto a mantenere nei fatti la promessa e realizzato questa necessità urgente e doverosa per questo gruppo di studenti, molti dei quali hanno combattuto per la Patria e per la libertà ed oggi si vedono stroncata la loro carriera come guiderdone di una vita di dolori, di eroismo e di sacrificio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tega».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non ritenga opportuno di promuovere la abrogazione dell’articolo 3 del decreto legislativo presidenziale 22 giugno 1946, n. 33, in considerazione del fatto che la disposizione contenuta nell’articolo medesimo, limitativa del godimento del contributo statale pel caso che i mutui agrari siano estinti entro il quinquennio della decorrenza dell’ammortamento, risulta in stridente contrasto con l’articolo 1 del decreto medesimo, e con la necessità di incoraggiare la esecuzione delle opere di ricostruzione e di miglioramento fondiario-agrario. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Corsini, Jacini, Pallastrelli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere i motivi per cui non è stato ancora proposto un provvedimento legislativo che consenti a quegli architetti che non potettero essere iscritti nell’albo professionale per la mancanza della tessera fascista, di presentare i loro titoli alla speciale commissione incaricata di valutarli, prorogando a loro favore il termine già più volte prorogato durante il regime fascista, con la esclusione di coloro che «avessero svolto una pubblica attività in contradizione con gli interessi della Nazione», secondo la formula di evidente carattere settario dell’articolo 3 delle norme di coordinamento dettate con il decreto 27 ottobre 1927, n. 2145.

«Per sapere altresì se l’onorevole Ministro ritenga giusto che venga mantenuta questa esclusione, la quale sembra patrocinata da qualche collegio professionale con lo specioso pretesto di un eventuale esame non rigoroso dei titoli (esame che potrebbe anche esser prescritto con particolare rigore), mentre potrebbe ritenersi che la tendenza a perpetuare l’ostracismo da parte di collegi già costituiti con la partecipazione di architetti ammessi sotto il regime fascista sia ispirata a una ingiusta tutela di categoria in danno di professionisti meritevoli e dal passato politico impeccabile. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Schiavetti».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non ritenga opportuno regolare la posizione giuridica delle migliaia e migliaia di cittadini altoatesini di lingua tedesca già optanti nel 1939 per la cittadinanza tedesca, emigrati in seguito in Germania e dopo la fine della guerra rientrati clandestinamente in Italia, nella provincia di Bolzano. Tali cittadini, vittime di una falsa propaganda non disgiunta la minaccia nel 1939, nella quale è coinvolta anche la responsabilità dell’autorità d’allora, a cui si è fatta intravedere una prossima situazione con la cosiddetta legge Parri sulle opzioni, vivono in una situazione di precaria provvisorietà, privi di qualsiasi diritto, senza la possibilità di procurarsi un’occupazione per mezzo dei locali Uffici del lavoro.

«La sollecita emanazione di norme che regolino definitivamente o almeno in via provvisoria la posizione di migliaia di famiglie di lavoratori sarebbe non solo un atto di doverosa magnanimità e di profonda umanità da parte del Governo, ma un atto che sarebbe altamente apprezzato e porrebbe le premesse per un’auspicabile distensione degli animi e per un miglioramento dei rapporti fra i cittadini dei due gruppi etnici conviventi in quella provincia. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Matteotti Matteo, Paris».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere le ragioni per le quali ai dipendenti dell’Ufficio di Rovereto Borgo Sacco non vengano corrisposte le indennità previste dall’articolo 2 del decreto legislativo 11 gennaio 1946, n. 18, mentre tali indennità sono regolarmente liquidate agli altri dipendenti statali che lavorano e abitano nello stesso rione di Borgo Sacco della città di Rovereto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paris».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se non ritenga opportuno abrogare le disposizioni che comminano provvedimenti disciplinari per gli ufficiali di complemento che hanno collaborato col tedesco invasore, limitatamente agli ufficiali di complemento altoatesini di cittadinanza italiana.

«Tali ufficiali, come pure le loro famiglie, sono stati oggetto di pressioni morali e anche di vessazioni da parte delle autorità italiane fino al 1939. Da quell’anno, con l’opzione per la cittadinanza italiana, dimostrarono con un atto ufficiale la loro fiducia in un giusto riconoscimento dei loro diritti da parte italiana, sfidando le minacce e le violenze dei nazisti altoatesini, lasciati volutamente impuniti dall’autorità italiana.

«L’8 settembre 1943 le S.S. instaurarono un regime di terrore nei confronti di quanti avevano optato per la cittadinanza italiana, delle loro famiglie e dei parenti fino al terzo grado.

«È quindi comprensibile che essi si sottomettessero ed eseguissero gli ordini delle S.S., sapendo con certezza che in caso di diserzione i loro congiunti sarebbero stati deportati e trucidati. Non, quindi, collaborazione ci fu, ma vera e propria punizione da parte dei tedeschi, che considerarono la loro lealtà verso l’Italia un tradimento degli ideali del Grossdeutschland.

«L’annullamento dei provvedimenti pronunziati e l’abrogazione delle disposizioni relative è un atto di giustizia riparatrice per questi leali cittadini, vessati da italiani e da tedeschi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paris».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della difesa (aeronautica), per conoscere quanto vi sia di vero nella notizia pubblicata da tutta la stampa napoletana, secondo la quale un complesso di lavori, che dovrà essere eseguito necessariamente nell’aeroporto di Capodichino, sarebbe stato assegnato ad una ditta dell’Alta Italia, in ispreto della legge sul sesto, dei diritti degli stabilimenti da gran tempo esistenti in Napoli e soprattutto dell’interesse delle maestranze specializzate che attendono ansiosamente di poter lavorare per provvedere ai loro bisogni di vita. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Persico, Rodinò Mario».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare i Ministri della marina mercantile e delle finanze e tesoro, per conoscere dal primo quando vorrà provvedere alla promozione al grado superiore del personale civile delle Capitanerie di porto, che trovasi ai gradi X, XI e XII da un ventennio ed alcuni nientemeno che dal 1922 e non certo per demeriti, e dal secondo se non ritenga opportuno approvare, dando ad esso esecuzione, il progetto di ristretto ampliamento di organico di detto personale, già inoltrato ad esso Ministero delle finanze e del tesoro, col quale è stato in parte ripreso quello analogo presentato nel 1942 e che, pur approvato dal Ministero delle finanze, non poté avere applicazione, essendo intervenuto il divieto del Capo del Governo di qualsiasi proposta, per la durata della guerra, di ampliamento di organici.

«Colitto».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 12.45.

VENERDÌ 2 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CVII.

SEDUTA DI VENERDÌ 2 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE PECORARI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Svolgimento):

Presidente                                                                                                        

Scelba, Ministro dell’interno                                                                             

Li Causi                                                                                                            

Nenni                                                                                                                

Miccolis                                                                                                           

Mattarella                                                                                                     

Varvaro                                                                                                           

Di Giovanni                                                                                                      

Orlando Vittorio Emanuele                                                                         

Musotto                                                                                                           

Giannini                                                                                                            

Bellavista                                                                                                       

Russo Perez                                                                                                     

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Gullo rocco                                                                                                    

Corbino                                                                                                            

Giannini                                                                                                            

Barbareschi                                                                                                     

Persico                                                                                                             

Lagravinese Pasquale                                                                                    

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione                                      

Mastino Pietro                                                                                                

Scoccimarro                                                                         Perrone Capano      

Fuschini                                                                                                            

Lucifero                                                                                                           

Gronchi                                                                                                            

Orlando Vittorio Emanuele                                                                         

Mazzoni                                                                                                            

Votazione segreta:

Presidente                                                                                                        

Lucifero                                                                                                           

Benedettini                                                                                                      

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                                

Sui lavori dell’Assemblea:

Scoccimarro                                                                                                    

Ghidini                                                                                                              

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Presidente                                                                                                        

Proia                                                                                                                 

Giannini                                                                                                            

Gullo Rocco                                                                                                    

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 29 aprile.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Silone, Vigna, Zerbi, Gortani, Grilli, Codignola, Nicotra, Treves, Simonini, Pignedoli, Rumor, Bulloni, De Caro Raffaele.

(Sono concessi).

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di urgenza:

«Al Ministro dell’interno, sui gravissimi fatti di San Giuseppe Jato e Sancipirrello, che, traverso una criminale imboscata, produssero la morte di 8 lavoratori, fra cui una giovane donna, e il ferimento di circa altri 30, tra cui un bambino, che versano in gravissime condizioni. Ancora una volta le forze della reazione tentano di sopprimere il grandioso movimento dei contadini, affermatosi così vigoroso e deciso nelle elezioni del 20 aprile.

«Musotto, Li Causi, Montalbano, D’Amico Michele, De Vita, Fiore».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere una esatta versione dei luttuosi fatti di ieri nella provincia di Palermo e per sapere quali misure siano state adottate dal Ministero.

«Mattarella».

«Al Ministro dell’interno per conoscere le sue informazioni sulla orribile strage perpetrata in Sicilia contro innocenti lavoratori in festa da parte di criminali ignobili il cui gesto nefando ha offeso sanguinosamente l’onore e il cuore del generoso popolo siciliano; quali provvedimenti abbia adottato e si proponga di adottare per la scoperta e la punizione dei colpevoli; per il soccorso delle vittime e delle loro famiglie; ed infine per ristabilire in Sicilia l’imperio assoluto della legge e il rispetto della libertà e dei diritti delle classi lavoratrici.

«Varvaro».

«Al Ministro dell’interno, sui luttuosi recenti avvenimenti in Sicilia. Nei pressi di San Giuseppe Jato, in una aggressione premeditata e organizzata per moventi di resistenza politica contro un pacifico corteo di lavoratori che si recavano a celebrare la festa del lavoro, ad opera di sicari appostati nelle colline circostanti, provvisti di armi automatiche, hanno trovato la morte otto lavoratori, fra cui una donna, e altri trentadue sono rimasti feriti. Chiedono di sapere quali urgenti e adatti provvedimenti il Governo abbia preso e intenda attuare per colpire tutti i responsabili, reprimendo il grave fenomeno, che potrebbe essere foriero di più gravi conseguenze.

«Di Giovanni, Rocco Gullo, Di Gloria, Pera, Vigorelli, Bennani, Zanardi, Lami Starnuti, Rossi Paolo, D’Aragona, Bocconi, Ghidini».

L’onorevole Ministro dell’interno ha facoltà di rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevoli colleghi, la giornata del primo maggio svoltasi nel più perfetto ordire in tutta l’Italia è stata funestata da un tragico e doloroso episodio che ha colpito la mia Isola.

Ieri, verso le 10 circa, un migliaio di persone dei comuni della Piana dei Greci si riuniva, come tutti gli anni, in località Portella della Ginestra per celebrare la festa del primo maggio. Durante la riunione e mentre parlava un rappresentante dei lavoratori, da un costone vicino venivano sparati colpi di arma automatica sulla folla provocando la morte di sette persone e 33 feriti. La polizia, avvertita a Palermo, interveniva immediatamente coi mezzi a sua disposizione, comprese alcune autoblinde, e nelle perlustrazioni eseguite nella zona nel pomeriggio e anche nella notte sono già state arrestate 74 persone.

Una voce da sinistra. Poche.

SCELBA, Ministro dell’interno. Altre 14 persone indiziate sono ricercate dalla polizia. Sono questi gli ultimi dati pervenuti al Ministero dell’interno. Appena informato ieri mattina dei luttuosi avvenimenti, mi sono tenuto in contatto tutto il giorno e fino a tarda ora della notte di ieri con le autorità locali per avere informazioni. Nello stesso tempo richiamavo l’attenzione delle autorità locali, del prefetto e del questore, perché fossero mobilitate tutte le forze di polizia a disposizione, allo scopo di rintracciare ed arrestare i responsabili di così criminosi fatti. Si deve al pronto intervento della polizia se si è potuto procedere agli arresti cui ho prima accennato.

Non abbiamo notizie circa la qualità delle persone arrestate, né possiamo esprimere un giudizio sulle causali, ma, a giudicare dalle modalità del delitto, non è difficile immaginarne i moventi e le finalità. Il delitto si è consumato in una zona fortunatamente limitata – e sarebbe estremamente ingiusto generalizzare a tutta la Sicilia – in cui persistono mentalità feudali sorde e chiuse, che pensano di ripagarsi con un’imboscata o con una bravata fatta eseguire da arnesi da galera per torti ricevuti. Non è una manifestazione politica questo delitto: nessun partito politico oserebbe organizzare manifestazioni del genere, non fosse altro perché è facile immaginare che i risultati sarebbero nettamente opposti a quelli sperati. Si spara sulla folla dei lavoratori, non perché tali, ma perché rei di reclamare un nuovo diritto.

Si vendica l’offesa, così come si sparerebbe su un singolo, per un qualsivoglia torto ricevuto, individuale o familiare.

Con analoga mentalità, anche se con moventi e finalità diversi, in altre regioni d’Italia si uccidono da altri criminali e con forme analoghe di banditismo i proprietari. Lo dico a difesa della mia Isola, i cui avvenimenti sono spesso presentati in termini di eccezionalità che nulla hanno a che vedere con la realtà isolana, non diversa da quella del resto d’Italia.

La zona in cui si è maturato il delitto tende ogni giorno più a restringersi e non è lontano il giorno in cui potrà scomparire del tutto, quando le strade, le comunicazioni in genere, le scuole e le trasformazioni fondiarie avranno fatto scomparire quelle larghe distese di terreni senza case, senza alberi e senza stabile vita sociale, quando avranno fatto scomparire le condizioni sociali arretrate che perpetuano l’esistenza di mentalità anch’esse arretrate.

Ogni cittadino, ogni uomo non può non deplorare questi residui di banditismo feudale, ed il Governo esprime il profondo e sentito cordoglio per le vittime, per le loro famiglie e per quella popolazione laboriosa così dolorosamente colpita; nello stesso tempo esprime l’augurio che il legittimo sdegno causato nei lavoratori, ma che è anche di ogni animo onesto, di ogni uomo senza distinzione di colore politico, l’augurio che il delittuoso episodio non siano causa di nuove lotte o che abbiano a colpire uomini o cose che nulla hanno a che vedere con un delitto unanimemente e sinceramente deprecato. (Approvazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Li Causi ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

LI CAUSI. Onorevoli colleghi, debbo immediatamente dichiarare che non sono niente affatto sodisfatto delle dichiarazioni del Ministro dell’interno, Onorevole Scelba, perché il modo politico con cui egli ha voluto esprimere un giudizio sugli avvenimenti siciliani deve essere nettamente respinto da ogni cittadino onesto, indipendentemente dalla fede politica o religiosa.

È ora che si finisca con questa retorica di difesa della Sicilia, difendendone le manifestazioni più deteriori e più incivili: il popolo siciliano che va difeso è quello che, nella sua enorme maggioranza, il 20 aprile ha espresso il suo sentimento profondamente democratico e profondamente unitario. Questa è la Sicilia che noi difendiamo e non le manifestazioni di un passato che deve essere inesorabilmente estirpato.

Onorevoli colleghi, ho visto con i miei occhi – perché arrivo oggi – quello che è avvenuto in quella zona che conosco di persona, perché l’anno scorso sono stato io in quel posto a celebrare il primo maggio, ed ho visto una bambina di tre anni trucidata, cinque orfani impietriti dall’orrore, attorno alla madre morta. Ho visto una vecchia di settantatre anni ferita, ho visto giovani di sedici anni con le carni lacerate. E raccontava quella vecchia in siciliano: «Quando ho sentito sparare, ho battuto le mani, perché credevo che fossero i mortaretti di gioia».

Dalla Portella della Paglia si entra nel Piano della Ginestra dove c’è un sasso sacro alla memoria di Nicola Barbato; ed è dal 1894 che ogni anno, su quel pianoro, i contadini di San Giuseppe Jato partendo da est, i contadini di Piana dei Greci partendo da ovest, con le famiglie, i muli bardati a festa, con le vivande, si riuniscono per festeggiare il primo maggio.

E i contadini di Piana dei Greci, per venti anni, durante il fascismo, hanno conservato il labaro del fascio del 1894 che oggi torna a risplendere al sole.

Ebbene, è su questa folla innocente e gioiosa che dai due costoni, La Cometa e La Pizzuta, sono partite raffiche di mitragliatrice. Le prime vittime del fuoco micidiale sono stati i muli che facevano siepe, come negli accampamenti dei pionieri. Aggiustato il tiro, incominciarono ad essere falciate le vite umane. Un particolare che si acclarerà, ma che già è stato fatto presente alle autorità: il maresciallo dei carabinieri di Piana dei Greci, in un feudo dietro La Pizzuta, «schiticchiava»: in siciliano, vuol dire che si divertiva a mangiare, coi mafiosi della zona. I nomi dei probabili organizzatori della strage sono corsi sulla bocca di tutti e noi li facciamo, perché li abbiamo fatti sulla stampa e i contadini della zona li conoscono, e li conosce anche l’onorevole Bellavista. Sono i Terrana. gli Zito, i Bosco, i Romano, i Troia, i Riolo-Matranga; sono i capi mafia, sono i gabelloti, sono gli esponenti del partito monarchico e del blocco monarchico liberal-qualunquista di San Giuseppe Jato. (Interruzioni e proteste a destra – Rumori – Scambio di apostrofi).

BELLAVISTA. Siete voi gli assassini!

GIANNINI. Il giornalista Li Causi non ha diritto di parlare qui! È un diffamatore! Ha quaranta querele per diffamazione. (Rumori).

LI CAUSI. Assassini erano dei qualunquisti!

PRESIDENTE. Onorevole Giannini, lasci parlare l’onorevole Li Causi. Chiederà dopo la parola per fatto personale, alla fine di questa discussione.

GIANNINI. Sta bene, la chiederò.

LI CAUSI. Onorevole Bellavista, lei conosce i mafiosi di San Giuseppe Jato; lei sa che, dopo uno dei suoi numerosi comizi a San Giuseppe Jato, il mafioso Celeste ebbe a dire ai contadini: «Voi mi conoscete: chi voterà per il blocco del popolo non avrà né padre, né madre!».

Molti bambini di Piana e di San Giuseppe Jato oggi non hanno né padre, né madre.

Smentite, se avete il coraggio!

GIANNINI. Qualunque cosa diciate voi è una menzogna. (Rumori).

LI CAUSI. Come è possibile che un fatto di tale enorme gravità, così inaudita, abbia potuto accadere, un fatto che desta orrore nella comune coscienza? Come è possibile che una tale strage mostruosa abbia potuto essere premeditata e freddamente organizzata? Siamo di fronte ad un fatto che mostra la decisa volontà di provocare in Sicilia la guerra civile, di mantenere, specialmente dopo il responso del 20 aprile, l’Isola in uno stato di tensione, di torbida agitazione.

Ed il Ministro Scelba dovrebbe sapere, tranne che i suoi funzionari non lo informino, che proprio dopo il 20 aprile si sono intensificate le provocazioni politiche, le intimidazioni contro i lavoratori. La mattina del primo maggio, sia a San Giuseppe Jato che a Piana dei Greci, delinquenti che si fregiavano del distintivo dell’Uomo qualunque hanno avvertito: fate la festa stamane, vedremo chi riderà stasera. (Proteste a destra – Rumori – Scambio di apostrofi fra la destra e l’estrema sinistra).

PRESIDENTE. Facciano silenzio, onorevoli colleghi!

LI CAUSI. Ebbene, vogliamo dire che se si vuole stroncare alla radice questa mala pianta della delinquenza politica al soldo degli agrari e il mafioso gabelloto sfruttatore dei contadini, ed in particolare in quella zona dove la lotta dei contadini è stata aspra, onorevole Scelba, liberateci dagli alti funzionari addetti alla polizia, profondamente compromessi con i monarchici prima e dopo il 2 giugno come siete stato informato; e liberateci da quei marescialli dei carabinieri che in questi posti vanno a braccetto coi mafiosi mentre respingono costantemente e cercano di mettere in galera con ogni pretesto il segretario della sezione comunista, della sezione socialista, i segretari dei partiti democratici, il segretario della Camera del lavoro…

MICCOLIS. Tutti i delinquenti.

LI CAUSI. Onorevole Scelba, ci sono stati i fischi di Messina a De Gasperi; ma se voi credete che, sparando su di noi, domani non si spari su De Gasperi, è una grossa illusione la vostra!

Una voce a destra. Osate qui dire che in Sicilia si spara contro i contadini! In Italia settentrionale si spara…

NENNI. Il Presidente mi consenta di dire una parola in deroga a tutti i regolamenti. Ci sono cose che non sono possibili: una persona, non so chi, all’estrema destra ha gridato che sono tutti delinquenti…

MICCOLIS. Sono stato io! (Agitazione – Scambio di vivacissime apostrofi fra l’estrema sinistra e la destra – Tumulto – Il Presidente sospende la seduta e fa sgombrare le tribune).

(La seduta, sospesa alle 15.40, è ripresa alle 15.45).

PRESIDENTE. Prego gli onorevoli colleghi di far silenzio. (Interruzione dell’onorevole Giannini).

Onorevole Giannini, prego anche lei di tacere. Se vorrà, parlerà dopo per fatto personale.

La parola deve essere ridata a colui che parlava al momento in cui l’incidente è avvenuto. (Interruzione dell’onorevole Tonello). La prego di tacere, onorevole Tonello.

Pertanto la parola spetta all’onorevole Li Causi, che stava parlando.

Nessuno potrebbe privanelo. Se l’onorevole Miccolis intende di spiegare immediatamente le parole che ha pronunziato e che hanno provocato le reazioni di altri settori dell’Assemblea, per questo solo scopo posso dargli facoltà di parlare.

GIANNINI. In una circostanza come questa….

PRESIDENTE. Onorevole Giannini, faccia silenzio. Ha facoltà di parlare l’onorevole Miccolis.

MICCOLIS. Io devo innanzi tutto chiarire, perché c’è stato un qui pro quo.

Ho sentito dall’altra parte dire: «Si arresta Tizio, Caio, Sempronio». Io ho detto: si arrestano i delinquenti responsabili. (Rumori a sinistra).

Una voce a sinistra. Non è vero.

MICCOLIS. Non ho inteso offendere nessuno; ho inteso difendere le forze pubbliche che hanno bisogno, in questo momento, di mantenere l’ordine. Ripeto: non ho inteso offendere nessuno; ho cercato semplicemente di precisare che va considerata la forza pubblica come quella che è tenuta a mantenere l’ordine e quindi ad arrestare i responsabili delinquenti.

Una voce a sinistra. Non ha detto questo.

MICCOLIS. Questo ho detto,

PRESIDENTE. L’argomento di cui si parla è talmente triste per il cuore di tutti noi, che anche se avessimo alcune ragioni per sentirci colpiti dovremmo saper frenare i nostri impulsi e tacere. Onorevole Li Causi, riprenda a parlare.

LI CAUSI. Onorevoli colleghi, ripeto al Ministro dell’interno per la posizione da lui assunta su gli avvenimenti di Sicilia che i fischi di Messina all’onorevole De Gasperi diventeranno pallottole anche contro l’onorevole De Gasperi; rendetevi conto, signori, amici democratici cristiani, che non si difende la Sicilia al modo dell’onorevole Scelba! Affermando come fa il Ministro degli interni che in Sicilia avviene l’opposto di quello che avviene al settentrione, cioè che lassù i contadini uccidono i proprietari mentre in Sicilia i proprietari uccidono i contadini, si dice cosa non vera e politicamente pericolosa; come si vuole chiudere gli occhi dinanzi alla realtà minimizzando l’avvenimento per non intaccare l’onore della Sicilia. La Sicilia è onorata ed è stata grandemente onorata dopo il 20 aprile dalle manifestazioni di giubilo di tutto il paese,

CANDELA. È onorata da quando è nata.

PRESIDENTE. Non interrompa; non sente l’inutilità di questa interruzione?

LI CAUSI. Anche voi siete responsabili… (Interruzioni a destra).

Le stesse manifestazioni le abbiamo avute in altre provincie della Sicilia, e grondano sangue le mani dei sicari degli agrari, esponenti del partito monarchico e del blocco liberale qualunquista della provincia di Agrigento, sangue del compagno Accursio Miraglia.

Non è un fenomeno sporadico, né localizzato. La polizia sa che questa gente è armata, e guai se avessero vinto loro! A quest’ora ci avrebbero fisicamente soppressi. Ed è perché non hanno vinto che sfogano il loro bestiale odio contro i contadini che hanno votato con schiacciante maggioranza per il Blocco del Popolo.

Dietro costoro ci sono i fondatori del fronte antibolscevico. A Palermo, all’indomani del 20 aprile, si sono iniziate le provocazioni monarchiche contro gli operai.

Il Governo non si è voluto render conto che in Sicilia bisogna far piazza pulita di tutti gli alti dirigenti della pubblica amministrazione, della polizia, ed anche della Magistratura. Basta coi massacri, più orrendi di quelli consumati dai tedeschi e dai fascisti repubblichini contro le popolazioni inermi! (Vivi applausi a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Mattarella, firmatario della seconda interrogazione, ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MATTARELLA. Come membro dell’Assemblea Costituente e come deputato siciliano, mi auguro che le misure prese e le disposizioni date valgano ad assicurare al più presto alla giustizia i responsabili della barbara inumana imboscata.

Ciò non soltanto per una esigenza di giustizia riparatrice, ma anche perché solo nel rigore della legge potranno essere stroncate manifestazioni di così grave criminalità al servizio di interessi di casta.

Quello che è avvenuto a Portella è non soltanto grave dal punto di vista umano per il sangue che è stato versato e per i lutti che sono stati determinati, ma anche per il modo come rimboscata è avvenuta, che denota una fredda e implacabile organizzazione criminosa (Applausi a sinistra), organizzazione e manifestazione criminose che non possono non allarmare quanti guardano all’avvenire e allo sviluppo democratico e libero della vita isolana, perché libertà e democrazia sono anzitutto condanna di ogni forma di violenza soprattutto quando questa violenza si estrinseca in manifestazioni di così preoccupante criminalità. (Vivi applausi) Noi eleviamo il nostro pensiero commosso e deferente alle vittime del grave misfatto di ieri, inviamo alle famiglie di questi innocenti lavoratori l’espressione della nostra solidarietà, mentre leviamo la più fiera protesta e la nostra esecrazione contro atteggiamenti e manifestazioni che turbano la coscienza civile e libera del popolo italiano e che gettano indubbiamente un’ombra di turbamento sulla vita politica siciliana. Perché essi determinano preoccupazioni per il suo sviluppo democratico e allarmano per le conquiste nel campo del lavoro, alle quali la Sicilia si prepara attraverso il suo nuovo ordinamento, che vuole e deve essere ordinamento di vera ed integrale democrazia, per assicurare al popolo siciliano non soltanto la libera manifestazione dei suoi diritti politici, ma anche un libero sviluppo del suo progresso sociale, che si estrinseca nell’affermazione di quei principî di elevazione del mondo del lavoro, che misfatti come quelli di ieri non sono certamente capaci di arrestare. (Vivi, prolungati applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Varvaro ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

VARVARO. Io intendo esprimere un pensiero sereno con l’invito a questa Assemblea di compiere, veramente e solennemente, un gesto di solidarietà, da ogni suo settore, con le vittime di questo piombo crudele e con l’intero popolo siciliano che è stato offeso da questo gesto inumano nella sua sensibilità e nel suo onore (Applausi). Credo di non potere manifestare sodisfazione per le dichiarazioni. del Ministro dell’interno. Uguali dichiarazioni egli ha fatto anche in occasioni simili, cioè dichiarazioni generiche sempre e promesse di fare; ma qui non è più il caso di precisare quello che si è fatto o quello che si fa; qui bisogna rivolgere alla Sicilia una parola che tranquillizzi veramente. Siamo al terzo o al quarto episodio di uccisioni e al secondo di strage. Per quanto la sorgente del male sia stata diversa, nelle diverse manifestazioni, e ogni volta il Ministro dell’interno abbia fatto promesse di inchieste, di accertamenti, di provvedimenti, ogni volta, con monotonia esasperante, queste promesse sono cadute nel vuoto e non se ne è parlato più.

Io credo di dover avvertire che questa volta le cose sono un po’ diverse. Secondo la mia sensibilità, se oggi non si interviene sul serio, con provvedimenti che tranquillizzino tutti e che sembrino efficaci a tutti, a tutte le classi e a tutti i paesi della Sicilia, se non si fa questo, veramente, sebbene anche involontariamente, si darà inizio in Sicilia alla guerra civile. Perché chi viene dalla Sicilia conosce quale sia lo stato di tensione che si è determinato dopo le elezioni nel nostro Paese, nella nostra isola. Quindi, anche perché il Ministro ha dichiarato di non avere ancora informazioni precise, io debbo dichiararmi pel momento insodisfatto. E credo che questa Camera dovrà avere dal Ministro più concrete informazioni, non solo, ma dovrà avere notizia di provvedimenti avveduti, decisi, rassicuranti; e allora potremo dichiararci sodisfatti.

In questo momento, io mi limito ad invocare che tutto ciò avvenga e ad inviare il mio accorato sentimento di cordoglio alle vittime, alle famiglie e all’intero popolo della Sicilia (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Di Giovanni ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DI GIOVANNI. Onorevoli colleghi, a me sembra che nella specie non si tratti di dichiararsi più o meno sodisfatti della risposta del Ministro. Io sento che tutta l’Assemblea deve esprimere la propria voce di protesta contro il gravissimo fenomeno di delinquenza collettiva a sfondo politico. Io penso che anche dall’altra parte dell’Assemblea debba levarsi la voce di protesta…

GIANNINI. Grazie! Grazie!

DI GIOVANNI. …perché da nessun settore potrà partire una voce difforme; né alcuno può condividere la responsabilità di questo doloroso, tristissimo…

GIANNINI. Meno male!

DI GIOVANNI. …fenomeno di delinquenza politica. Certo, il Governo deve non solo agire con severità, con rapidità, per reprimere, ma deve – a mio avviso – agire per prevenire. C’è tutta una serie di fatti deplorevoli che da tempo si vanno verificando. Occorre – come si è accennato dall’onorevole Li Causi – epurare i funzionari, mandar via tutti quelli che sono legati alla vecchia mentalità, alle vecchie tradizioni, alla reazione; e ce ne sono molti. Fare, insomma, che si modifichi e si purifichi l’ambiente. Il fatto odierno è gravissimo; potrebbe essere foriero di altri episodi non meno gravi. Io vorrei ricordare al Governo – e ricordo anche un po’ a tutti noi – che la reazione anarchica e violenta sale dal basso, quando l’anarchia morale, la violenza, e le provocazioni scendono dall’alto (Applausi a sinistra).

Videant consules ne quid res publica detrimentum capiat (Applausi).

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. (Segni di attenzione). Io vorrei davvero che la mia estrema età e la vita da me vissuta in una intimità continua, intensa, col popolo siciliano, mi autorizzassero, in questo momento, a dire che attraverso me parla il popolo della Sicilia (Applausi a destra), e ad affermare che esso, nella sua unanimità, da poiché i delinquenti ed i selvaggi non si computano fra i componenti di un popolo civile, ripudia quest’atto violento e manifesta tutta la sua profonda indignazione.

Orribile fatto, il quale ci ferisce nel nostro onore: onore di Siciliani, onore di isolani. Eravamo così fieri di avere il primato – me ne vantai recentemente io stesso – nell’abominare gli eccidi e gli assassini politici; mantenevamo alto l’onore di queste elezioni, che si erano svolte nella più perfetta tranquillità; vedevamo in ciò un segno di superiorità morale che ci compensava della nostra povertà; ed ecco piombare su di noi questo fatto orribile, il quale ci rende pensosi sulle cause profonde di esso!

Onorevole Ministro, qui occorre che giustizia sia fatta; ad ogni costo, deve esser fatta. Il sangue di queste vittime lo esige e grida vendetta. (Vivi, generali applausi). Quel piccolo bambino ucciso, quella povera donna trucidata (ricorrono al cuore, fra le varie vittime, i casi più dolorosi e raccapriccianti) bisogna che siano vendicati. Lo comanda la giustizia; lo esige l’onore di Sicilia, in questo momento offeso e compromesso. (Vivi, generali applausi).

MUSOTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MUSOTTO. Onorevoli colleghi, io dirò una parola serena. Ho inteso la risposta dell’onorevole Ministro dell’interno. Siete con me d’accordo, onorevole Ministro. Voi amate la Sicilia quanto l’amo io: siamo entrambi siciliani. Ma, credete che questi fatti, nella loro eccezionale gravità, possano esaurirsi attraverso un’interrogazione e attraverso una risposta, sia pure autorevole, che voi avete dato? No. Occorre che il Governo non si fermi alla superficie, né si accontenti delle relazioni che mandano i funzionari del Governo. Occorre affondare le mani, occorre in tutti i modi sradicare le cause mediate ed immediate dell’accaduto. Io, in questo tragico momento della vita della mia terra, desidero sollecitare il senso di responsabilità del Governo.

Vorrei dire ai nostri avversari, agli avversari delle classi lavoratrici – e le mie parole non le rivolgo a quelli dell’aula; esse vanno e devono andare al di là dell’Assemblea –: che siano caduti capi e gregari, che ne cadano ogni giorno; che monta, onorevoli colleghi? È l’idea che è insopprimibile: l’idea non sarà mai soppressa. Potrà cadere anche Giacomo Schirò, il tenace ed ardente calzolaio di San Giuseppe Jato, che ieri arringava le classi lavoratrici nel raduno di Piana dei Greci; sarà rimpiazzato perché quest’idea vive nelle menti, nei cuori di tutti i nostri contadini, direi che è nell’aria, un’aria nuova in Sicilia: aria di risveglio, di rinnovati propositi.

A nome della Sicilia, dei lavoratori della Sicilia, dei nostri compagni lavoratori, io chiedo, Presidente dell’Assemblea, che voi vogliate sospendere per mezz’ora in segno di lutto e di solidarietà la seduta, e che sia inviato alle famiglie delle vittime il cordoglio di tutta l’Assemblea italiana. (Applausi).

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Nessuno più di noi è contro le violenze; ma contro non soltanto a parole e in quest’aula, ma contro nel Paese e sui nostri giornali. Un oratore d’estrema sinistra ha riferito poco fa, nel suo discorso che ha dato luogo a incidenti, di una lega antibolscevica costituitasi a Palermo subito dopo le elezioni. Bene, onorevole Li Causi, nemmeno a farlo apposta, nell’ultimo numero del mio giornale L’Uomo Qualunque è combattuta precisamente quella iniziativa, ed è detto che la nostra politica, che vuol rivendicare e ritiene di aver diritto di rivendicare i diritti della classe borghese produttrice di lavoro, non deve dire «contro» chi è ma dire soltanto «in pro» di chi è. Quindi attribuendo a noi l’iniziativa della lega antibolscevica lei ha detto cosa inesatta.

Ma c’è di più, signor Presidente. Ogni discussione politica presuppone un minimo di lealtà e di buona fede. Per questo ci associamo a quanto ha detto l’onorevole Musotto e a quanto ha detto l’onorevole Orlando, nostro maestro. Ma non possiamo prendere per buona la informazione dell’onorevole Li Causi che è giornalista e che dirige un giornale che batte il record delle diffamazioni. (Proteste dell’onorevole Li Causi). Ne ha quaranta. Da un giornale diretto da un deputato in quelle condizioni non possiamo ascoltare… (Interruzioni dell’onorevole Li Causi) …non possiamo ascoltare che canzoni e non fatti. (Proteste a sinistra – Rumori).

LI CAUSI. Cantava lei, mentre io ero in galera!

GIANNINI. Noi dobbiamo tutti quanti richiedere per la serietà dell’Assemblea… (Interruzione dell’onorevole Li Causi).

PRESIDENTE. Onorevole Li Causi, la prego di far silenzio.

GIANNINI. …per la serietà della Assemblea che i fatti che si recano alla nostra cognizione siano esatti e provati.

Una voce a sinistra. Ci sono i morti.

GIANNINI. I morti non sono fatti. (Interruzioni a sinistra). Questi morti non si sono succisi da sé. Qualcuno li ha uccisi. Come possiamo credere alla sentenza che ha portato l’onorevole Li Causi? Egli è venuto qui a portare una sentenza, firmata, bollata, timbrata e accettata, e questo mentre ella onorevole Ministro dell’interno non sa ancora chi sono i colpevoli. E l’onorevole Mattarella non sa nemmeno chi sono i colpevoli…

LI CAUSI. Il popolo lo sa e le autorità non lo sanno.

GIANNINI. Ma lei è un diffamatore professionale. Ora, noi ci associamo alla richiesta che i delinquenti, autori di questa strage, siano perseguiti e puniti. (Rumori – Interruzioni a sinistra).

Ma non vedete che siete isolati? Noi mettiamo a disposizione… (Interruzioni – Rumori).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, io desidero sapere se dobbiamo sospendere nuovamente la seduta.

GIANNINI. Noi mettiamo a disposizione dell’onorevole Ministro dell’interno tutta la nostra organizzazione di partito in Sicilia, ove mai egli avesse bisogno di aiuto, per la ricerca di questi colpevoli…

LI CAUSI. Staremmo freschi!

GIANNINI. …e respingiamo nel modo più reciso la sentenza bell’e fatta, senza istruttoria e senza testimoni, pronunciata da un interessato, professionalmente diffamatore… (Invettiva dell’onorevole Li Causi).

GIANNINI. …che viene a fare in questa aula la sua piccola speculazione elettorale. (Vivi rumori – Interruzioni a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevole Giannini, lei si è permesso un’ingiuria sanguinosa a carico di un suo collega (Interruzione degli onorevoli Malvestiti e Gronchi).

Onorevole Gronchi, anche lei diventa un elemento di turbamento?

Se l’Assemblea mi permette, io potrò concludere l’osservazione che volevo fare all’onorevole Giannini. Di ingiurie, ne abbiamo sentite tante, ma l’ingiuria dell’onorevole Giannini tocca un campo che è riservato solo al giudizio dell’Assemblea. Le denunce di diffamazione a carico dell’onorevole Li Causi non sono ancora state esaminate dalla Commissione incaricata di decidere sulle autorizzazioni a procedere e nessuno dei processi relativi ha avuto ancora la propria celebrazione in udienza; e pertanto penso che nessuno di noi può anticipare anche solo con l’impiego di appellativi né la decisione della Commissione per le autorizzazioni a procedere, né la decisione dei magistrati. Era questa l’osservazione che volevo fare all’onorevole Giannini.

GIANNINI. Onorevole Signor Presidente, chiedo di poterle offrire una spiegazione, che potrà servire anche all’Assemblea. Per quanto riguarda il giudizio che pende sull’onorevole Li Causi, sono perfettamente d’accordo con lei, signor Presidente, e non potrei non esserlo, data la sua intelligenza e la sua rapidità di percezione dei fatti giuridici.

Mi permetto però di far notare che la mia osservazione non aveva carattere di giudizio, tant’è vero che lei per primo l’ha definita una «sanguinosa ingiuria». È, difatti, un’ingiuria; ma è un’ingiuria che io ho profferita «dopo» che dall’onorevole Li Causi era stata fatta una accusa che era un’altra sanguinosa ingiuria, tanto più sanguinosa, in quanto il sangue è recente, e tanto più immeritata, in quanto si sa – specialmente nel settore comunista – quale sia stata l’opera di molti di noi per consolidare la pace fra i partiti.

Così, dunque, signor Presidente, io accetto la sua osservazione sulla giuridicità della parola; non posso accettarla per quanto riguarda l’ingiuria che io ho profferita unicamente dopò essere stato ingiuriato. (Rumori a sinistra – Approvazioni a destra).

BELLAVISTA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. Onorevole Presidente, mi consenta di sollevarmi dalla miseria del fatto personale, per un atto che sento imperioso in questo momento nella mia coscienza di siciliano.

Consenta ad un disgraziato che è stato condannato a fare una guerra dove ha visto tanto sangue, e che ha orrore del sangue, di apprestarsi a rendere atto di omaggio a quelle bare dove riposano le vittime innocenti di Piano della Ginestra. Con cuore di siciliano che ha ripugnanza per tutto quello che è successo; senza retorica falsa; io non mi fregherò le mani, come ha fatto qualcuno, e non in questo settore.

E vengo al fatto personale, vengo alla miseria del fatto personale.

Si, è vero che io ho fatto un comizio; non c’è il testo stenografico e perciò la buona fede del deputato Li Causi potrà essere, forse, stata sorpresa; è possibile. Dopo che io ho fatto un comizio a San Cipirrello, qualcun altro ha parlato. E con ciò? Ho sentito fare una affermazione ed ho letto nel giornale che il deputato Li Causi dirige, La Voce della Sicilia, una allusione che, con linguaggio un po’ diverso, è stata ripetuta qui dentro, e cioè che ci sono stati comizi infiammatori da parte di chi vi parla. In un crocicchio fuori di questa aula, il deputato Li Causi ha ripetuto che il comiziante infiammatorio sarei stato io. Nemico di tutte le violenze e perciò anche di quella verbale, ho il dovere di insorgere contro questa insinuazione e faccio una domanda, categorica e precisa; se mai egli personalmente (che, malgrado la delusione di oggi, stimavo) ha udito un mio comizio. Il vero si è che io ho avuto oggi una delusione penosa, profonda, nei confronti di un avversario che io stimavo; ho dovuto constatare, con l’amarezza terribile che dà il disinganno, che egli ha tradito questa mia aspettativa, perché la fazione lo ha completamente accecato e la speculazione ha sommerso quello che sedici anni di nobili sofferenze avevano elevato in lui.

Oggi non sei stato più tu, Li Causi; oggi non sei stato più tu, quando hai voluto speculare su quelle bare e su quelle tombe. (Rumori – Proteste a sinistra).

Per il resto, è già abbastanza che io respinga da me questo amarissimo calice che il deputato Li Causi vuole offrirmi, perché non voglio turbare il lutto per i poveri morti e ho presente la bambina di cui si parlava poc’anzi e la povera donna: dinanzi a queste vittime l’Assemblea si inchina; ma l’Assemblea Costituente, dinanzi a queste vittime, giura di vendicarle nella giustizia: non specula. (Applausi a destra – Rumori a sinistra).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Come deputato siciliano, mi associo alle parole di compianto per le vittime pronunciate dagli onorevoli colleghi e mi auguro che la giustizia possa al più presto raggiungere i rei e colpirli inesorabilmente. E mi auguro anche che, quando saranno conosciuti i nomi dei responsabili, emerga che non vi è stato fra essi alcuno nato da genitori siciliani, nato in terra di Sicilia ed anche che non vi sia alcuno iscritto ad alcun partito politico. (Rumori – Interruzioni a sinistra).

Quanto alle allusioni fatte anche in questa occasione dal deputato Li Causi, l’Assemblea sa che so rispondere – e bene – alle interruzioni e alle insinuazioni; ma questa volta il mio dolore e il mio sdegno per quanto è accaduto in Sicilia sono così profondi e il momento è così austeramente tragico, che voglio dargli la soddisfazione di poter dire che almeno una volta ho lasciato cadere la sua interruzione. (Rumori a sinistra – Interruzione dell’onorevole Li Causi).

SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. In occasione dei fatti di Sciacca, io assicurai l’Assemblea e soprattutto l’onorevole Li Causi, il quale aveva lanciato da questa Camera un’accusa analoga a quella da lui oggi rivolta contro le autorità di pubblica sicurezza nella Sicilia, che le autorità stesse avrebbero fatto il loro dovere.

Aggiunsi, in quell’occasione come in altre, che non sempre è possibile al Governo prevenire e non era possibile in questo caso prevenire, perché nessuna misura di polizia particolare poteva essere presa per una manifestazione popolare che contemporaneamente si svolgeva in tutti i comuni d’Italia.

Dissi in quell’occasione che se non è possibile al Governo prevenire, il Governo compirà il suo dovere perché i responsabili non rimangano impuniti. È stata mantenuta la parola onorevole Li Causi. Lei sa che i responsabili dell’assassinio di Miraglia, segretario della Camera del lavoro di Sciacca, liberati dall’autorità giudiziaria dopo essere stati tempestivamente arrestati dalla Pubblica Sicurezza, sono stati nuovamente arrestati; prove schiaccianti, compresa la confessione degli arrestati, sono risultate, dalle quali emerge che la Pubblica Sicurezza aveva compiuto il proprio dovere.

Il collega Gullo, qui presente, Ministro della giustizia, ha rivolto una lettera ufficiale al Ministro dell’interno dichiarando che, dopo aver esaminato l’azione della polizia in Sicilia, egli non aveva nulla da lamentare e riconosceva esplicitamente che la polizia aveva compiuto tutto il suo dovere.

Anche all’onorevole Orlando, il quale ha chiesto che le vittime di Piana dei Greci non rimangano invendicate, io intendo dare qui la stessa assicurazione. La polizia ha già compiuto il suo dovere perché il poter annunziare alla Camera, a poche ore dal delitto, che ben 74 persone sono state arrestate in tutta la zona, dimostra che la polizia non è rimasta inerte di fronte al delitto che così profondamente ha colpito il Paese e l’Assemblea. Ho detto da principio che tutta la giornata e la notte mi sono mantenuto in contatto con le Autorità locali e che i miei ordini sono stati perentori. Tutto deve essere fatto e compiuto perché i responsabili siano acciuffati e siano consegnati all’Autorità giudiziaria, perché abbiano la severa e giusta sanzione che meritano. (Applausi).

C’è oggi una procedura speciale la quale colpisce questi crimini. Non spetta al Ministro dell’interno e non spetta all’Autorità politica di giudicare i responsabili dei crimini. La polizia ha il dovere di rintracciare i delinquenti e di consegnarli all’Autorità giudiziaria. Io mi auguro, onorevoli colleghi, che la Magistratura partecipi con la necessaria solerzia, perché dobbiamo riconoscere che non sempre essa (e non soltanto in Sicilia, onorevoli colleghi della sinistra, ma dalla Sicilia alla Lombardia) interviene tempestivamente a reprimere i delitti contro la libertà dei cittadini (Commenti).

Io vorrei che da questo Parlamento si levasse un voto: che la Magistratura senta inderogabile la necessità di una pronta e rapida repressione e punizione di tutti i delitti che si compiono contro la libertà dei cittadini. (Applausi).

Tutto sarà compiuto dalle Autorità, senza bisogno, onorevoli colleghi, di epurazione o meno. Se l’epurazione si dovrà fare, si farà, ma non ha responsabilità la Pubblica Sicurezza, onorevole Li Causi, dei fatti che sono avvenuti.

Ho già accennato a quello che è il mio pensiero sulla causale del delitto quando ho dichiarato che questo non è un delitto politico. E non può essere un delitto politico perché nessuna organizzazione politica potrebbe rivendicare a sé la manifestazione e la sua organizzazione. (Applausi a destra – Proteste a sinistra).

Da quanto ho detto, onorevole Li Causi, è evidente che non si tratta di delitto politico. Ho anche aggiunto che questo delitto è maturato in un clima sociale indubbiamente arretrato che può avere anche un significato politico generale. Dicendo che non è un delitto politico, intendo riferirmi ad una organizzazione politica concreta. Il delitto è maturato in un’atmosfera sociale indubbiamente arretrata, indubbiamente feudale che persiste in zone che ogni giorno più tendono a restringersi e che scompariranno al più presto.

Ma, onorevoli colleghi, questi episodi di violenza che turbano la nostra coscienza e la nostra anima risuonano troppo frequentemente in questa Assemblea. E questo è il problema politico della vita italiana. Non è soltanto l’episodio di Palermo, ma è l’episodio che si ripete in molte città d’Italia (Applausi al centro), e continuamente l’Assemblea è chiamata a dovere esprimere la sua condanna contro queste manifestazioni che noi potremmo definire prettamente fasciste, se fascismo vuol dire soprattutto un regime, un metodo e un sistema politico che fa della violenza il mezzo normale della sua affermazione.

Onorevoli colleghi, noi dobbiamo reagire contro queste manifestazioni. E certo gli uomini che sono usciti dalla volontà popolare, che vengono dopo il crollo del fascismo e che lavorano quotidianamente per creare in Italia un regime di libertà e di democrazia, questi uomini non possono non essere unanimi di fronte a manifestazioni di violenza e di intolleranza che raggiungono persino il delitto.

Accogliamo l’invito che è venuto qui da molti oratori: finiamola con le divisioni, finiamola con l’eccitamento agli odî, con l’eccitamento alla violenza (Commenti), facciamo sentire al Paese che l’Assemblea è unita almeno nel suo giudizio di condanna contro questi crimini che disonorano la vita democratica di un popolo. Se noi siamo uniti almeno in questo, se facciamo comprendere a tutti i settori, a tutte le zone grigie e neutre, che noi condanniamo unanimemente queste manifestazioni e che lavoriamo per costruire un clima di rispetto e di libertà, che noi vogliamo che le competizioni politiche siano portate sul terreno della libertà democratica e che la lotta politica non divenga il mezzo di distruzione degli avversari, ma il mezzo di scelta degli uomini migliori per governare la cosa pubblica, il Paese abbandonerà queste forme di violenza, queste forme di delinquenza.

MAZZONI. La parola al Ministro di grazia e giustizia! Tocca a lui!

SCELBA, Ministro dell’interno. Sì, onorevole Mazzoni, tocca a lui. Ma io ho già detto che l’Assemblea deve far sentire alla Magistratura come il senso della libertà è di tutti gli organi dello Stato, deve far sentire che pregiudiziale ad ogni vita democratica è la repressione dei delitti contro la libertà. (Commenti – Interruzioni degli onorevoli Badini Confalonieri e Benedetti).

RUBILLI. Perché non provvede la Magistratura?

SCELBA, Ministro dell’interno. Io dico agli onorevoli colleghi, i quali mi interrogano sull’azione della Magistratura, benché non spetti a me di rispondere su questo tema, io dico: perché il Governo abbia effettivamente il potere di agire, debbono essere il clima, l’atmosfera e la sensibilità politica di tutto il Paese a sorreggerne l’azione. (Applausi al centro).

RUBILLI. Abbiamo fede nella Magistratura! (Applausi).

SCELBA, Ministro dell’interno. Il Governo si associa alla proposta fatta dall’onorevole Varvaro perché questa Assemblea esprima un voto concreto di adesione alla manifestazione di cordoglio e di lutto, che è nei nostri cuori, per il delitto consumato nella Sicilia; e si associa alle parole di conforto e di condoglianze, che da questa Assemblea sono state inviate alle famiglie delle vittime e ai due comuni così duramente colpiti. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. È pervenuto alla Presidenza il testo d’una risoluzione della quale si propone la votazione all’Assemblea.

Io comprendo perfettamente che non è in sede di interrogazione che, a tenore del Regolamento, si può proporre e votare una risoluzione. Ma penso che sarebbe da parte mia una finzione filistea, se volessi, in questo momento invocare il Regolamento per reprimere una manifestazione, che, d’altra parte, ha già trovato voce nella parola di colleghi sedenti in tutti i settori.

E credo che nessuno parlerà di violazione del Regolamento, se, in forma precisa e con parole esplicite, tutta L’Assemblea darà espressione al senso di sdegno, di corruccio e di solidarietà che l’anima e la sommove.

Do, pertanto, lettura del testo di questa risoluzione:

«L’Assemblea Costituente, interprete dell’indignazione della Nazione contro il vile agguato di Portella della Ginestra dove, nella giornata del 1° maggio, il sangue dei contadini siciliani è stato sparso per cieca difesa di interessi che degenera in fanatico odio di parte; udite le dichiarazioni del Governo; attende dalle autorità e dal civismo dei cittadini un’azione energica per individuare e affidare alla giustizia gli autori e i mandanti della strage; sollecita immediate misure di assistenza per le famiglie colpite; esprime il voto che siano banditi inesorabilmente dal costume del paese i mezzi della violenza e della sopraffazione e che partiti, classi, cittadini trovino tutti nella legalità democratica l’inderogabile limite di ogni pubblica manifestazione; e delibera di sospendere la seduta per mezz’ora in segno di solidarietà col popolo siciliano».

Nenni, Togliatti, Gronchi, Saragat, Cevolotto, Pacciardi, Lombardi Riccardo, Cianca.

Ho già detto che anche la sola lettura di questo documento supera la norma del Regolamento ed anche le consuetudini legate a questa discussione di inizio di seduta, discussione sulle interrogazioni al Governo. Più ancora se passassimo o se passeremo ad una votazione.

Ma, d’altra parte, è proposto formalmente che l’Assemblea sospenda per mezz’ora i propri lavori in segno di solidarietà col popolo siciliano; ed un voto a questo proposito è dunque necessario.

Se il voto, anziché sulla nuda proposta, ai svolgerà sopra il testo motivato d’una risoluzione, noi, mi pare, non faremo che dare maggiore significato alla votazione ed alla decisione conseguente. Ed a questo punto noi dobbiamo forse chiederci, di fronte al sangue versato, al turbamento provocato, se veramente abbiamo fatto, tutti, tutto il possibile perché episodi così tragici e dolorosi non si possano verificare nella vita del nostro Paese. Non credo di esorbitare da quei poteri che la carica mi affida, né di ledere la legge d’imparzialità che la regge, se pongo un tale quesito. Questa è l’Assemblea Costituente della Repubblica italiana, e il Presidente di questa Assemblea deve sapere, quando necessario, esprimere la volontà repubblicana del Paese, la quale esige che, dopo aver trasformato nella definizione e nella forma esteriore lo Stato, in questa forma vengano creati nuovi tipi di convivenza sociale e di rapporti economici e politici. Questo è appunto il compito fondamentale dell’Assemblea. Allora solo, egregi colleghi, quando un tale compito sarà assolto, i morti, che oggi stiamo ricordando e piangendo, saranno placati perché, a loro degna memoria, resterà tutto quello che era nostro dovere di fare e che avremo fatto.

Poco fa il Ministro dell’interno ha dichiarato che non soltanto il potere esecutivo è chiamato a garantire al popolo italiano le sue prime conquiste democratiche, ma che a ciò sono impegnati anche gli altri poteri dello Stato. Ed è vero. Egregi colleghi, io penso che se ci fu mai un momento, una situazione, nella quale veramente la divisione dei poteri rappresenta qualcosa di artificioso, esso è l’attuale: perché a difesa della Repubblica e delle necessità del popolo italiano devono stare, uniti, anzi fusi saldamente, tutti i poteri e tutte le funzioni dello Stato. (Applausi).

Ciò nonostante, non dobbiamo dimenticare che il potere che in noi si incorpora, il potere legislativo elevato nella sua sublimazione a potere costituente, ha una funzione preminente che si esplica nel controllo su tutta l’attività dello Stato. Non per nulla e non a torto il Ministro della giustizia così frequentemente riceve interrogazioni che si riferiscono al funzionamento dell’apparato giudiziario. Ciò significa che l’Assemblea Costituente ha diritto di controllo sull’amministrazione della giustizia e che, esercitandolo, non viola, non diminuisce, non ferisce l’indipendenza della Magistratura, che è sacra sì, ma che fa corpo tutt’uno con tutta l’altra organizzazione del nostro Stato.

Ed è per questo che io dico: oggi l’Assemblea Costituente ha commemorato con parole sdegnate, addolorate, se anche non concordi, le vittime dell’orribile eccidio di San Giuseppe Jato. Ma l’Assemblea Costituente non deve essere paga di questo; non ha con questo esaurito il proprio mandato, neanche quello morale; essa deve seguire accuratamente l’opera che il potere esecutivo e anche il potere giudiziario svolgeranno perché giustizia sia fatta, pronta, severa e imparziale. Noi abbiamo fede che così sarà. Ma non dobbiamo trascurare ugualmente di valerci di quel potere massimo che le masse popolari del Paese ci hanno affidato nel momento che ci hanno eletto: potere di controllo, di critica, di stimolo, di richiamo a cui non possiamo assolutamente rinunciare. Esprimo a nome dell’Assemblea tutto il nostro profondo cordoglio dinanzi alle bare appena chiuse, la nostra solidarietà fraterna per le famiglie delle vittime, la nostra volontà ferrea di sorreggere con l’opera, il consiglio e l’affetto il popolo siciliano nella faticosa impresa di redenzione sociale e politica della sua terra senza la quale nessun’altra terra d’Italia potrà raggiungere mai quella pace nel lavoro che renderà impossibile il ripetersi di avvenimenti tanto tristi ed orribili.

Chiedo all’Assemblea se essa approva il testo del quale ho dato lettura. Approvandolo, essa accetta la proposta di sospensione della seduta per mezz’ora in segno di cordoglio e di solidarietà con il popolo siciliano.

(Tutta l’Assemblea si leva in piedi – Vivissimi, generali, prolungati applausi).

La risoluzione è approvata all’unanimità. Sospendo dunque per mezz’ora la seduta in segno di lutto e di solidarietà col popolo siciliano e con le vittime dell’inumano eccidio. (Nuovi, ripetuti applausi).

(La seduta, sospesa alle 17, è ripresa alle 17.30).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Come i colleghi ricordano, siamo rimasti d’intesa che, prima di passare all’esame del terzo Titolo, avremmo esaminato il metodo ulteriore del nostro lavoro, essenzialmente in base ad alcune proposte che, da una parte, hanno presentato all’ufficio di Presidente gli onorevoli Barbareschi, Scoccimarro, Mastino Gesumino, e Grassi; dall’altra l’onorevole Persico.

Queste proposte rappresentano la conclusione dello scambio di opinioni avvenuto in alcune riunioni amichevoli che, per iniziativa della Presidenza, si sono tenute nel corso della settimana passata fra le rappresentanze di tutti i Gruppi dell’Assemblea Costituente.

Sembra inutile osservare che, come per ogni singolo collega, anche per la Presidenza dell’Assemblea il problema del modo col quale il nostro lavoro si veniva svolgendo era stato ragione di preoccupazione, o quanto meno incitamento ad esaminare il metodo migliore da seguire. Le discussioni sulla materia costituzionale sottoposta al nostro esame portano con sé l’inconveniente di una loro lentezza naturale dovuta per l’appunto all’ampiezza della materia, forse non completamente commisurata al tempo che la Costituente ha a sua disposizione per portare a termine i suoi lavori fondamentali. Ma a ciò si aggiungono gli impegni paralleli o complementari che la legge istitutiva ha affidato all’Assemblea.

Le conclusioni a cui si è giunti, a questo proposito, sono riassunte nella proposta degli onorevoli Barbareschi, Scoccimarro, Mastino e Grassi. Successivamente l’onorevole Persico ha portato un ulteriore contributo, e oggi stesso l’onorevole Mortati ha presentato alla Presidenza altre proposte orientate nello stesso senso.

Alla fine della precedente seduta ho dato lettura di una risoluzione presentata dall’onorevole Giannini e da numerosi altri colleghi relativa al problema del termine dei lavori dell’Assemblea Costituente. Ora è evidente che il problema del metodo dei nostri lavori è di carattere tecnico, organizzativo, il quale non ne trascende gli aspetti politici, ma non pone su questi il suo accento principale, mentre quello posto dall’onorevole Giannini è di carattere politico, per quanto formalmente si richiami solo a termini di carattere cronologico. I due problemi hanno una interdipendenza, ma il primo consente soluzioni che non pregiudicano senz’altro la soluzione del secondo.

Avendo così esposto la questione, prima di riprendere l’esame del progetto di Costituzione, chiedo all’Assemblea di volersi pronunciare su di essa.

Le proposte sono state concretate nei seguenti testi:

«L’Assemblea Costituente, sulla base dell’esperienza realizzata nel corso della discussione dei primi tre capitoli del progetto di Costituzione,

allo scopo di rendere l’ulteriore lavoro costituzionale più idoneo ad un tempestivo e vantaggioso suo concludersi, senza con ciò impedire ogni utile contributo da parte di lutti i propri componenti,

preoccupata nello stesso tempo di rendere possibile il necessario esame e l’approvazione delle altre leggi che sono di sua competenza,

delibera di attenersi nella discussione delle rimanenti parti del progetto di Costituzione alle seguenti norme:

  1. a) soppressione della discussione generale sui titoli;
  2. b) svolgimento degli emendamenti ai singoli articoli da parte dei presentatori, col tempo massimo di parola di 15 minuti;
  3. c) dichiarazioni di voto, col tempo massimo di parola di 10 minuti;
  4. d) discussione generale, a premessa dell’esame degli articoli contenuti nel titolo relativo, con limitazione degli iscritti da 1 a 3 per gruppo proporzionalmente alla forza numerica e limitazione del tempo in tre quarti d’ora, sulle seguenti questioni:

1°) Regione (sua introduzione nell’ordinamento dello Stato);

2°) composizione della seconda Camera;

  1. e) l’esame dei titoli ed articoli relativi alla Regione ed alla seconda Camera seguirà, nell’ordine, subito dopo esaurita la discussione della prima parte del progetto.

«Barbareschi, Scoccimarro, Mastini Gesumino, Grassi».

«A) La discussione generale sui titoli sarà limitata al numero massimo di tre oratori per Gruppo;

«B) Sugli emendamenti ai singoli articoli potranno parlare, oltre il proponente, non più di tre oratori per Gruppo con limitazione di tempo a 20 minuti per ciascun oratore;

«C) Le dichiarazioni di voto non potranno durare più di 10 minuti.

«Persico».

«a) Si fa luogo alla discussione generale sui singoli titoli solo quando siano presentati, prima che si inizi l’esame dei medesimi, ordini del giorno, i quali determinino o modifichino il concetto ispiratore dei vari gruppi di disposizioni.

«b) Possono prendere parte alla discussione generale, oltre i presentatori degli ordini del giorno, non più di tre deputati per i Gruppi che contino un numero superiore a cento iscritti, e non più di un deputato per quelli con un numero inferiore.

«c) Le votazioni sugli ordini del giorno servono di direttiva per la discussione degli articoli, e da esse conseguono gli effetti di cui all’articolo 89 del Regolamento.

«Mortati».

Di più gli onorevoli Giannini, Selvaggi, Rodinò Mario, Puoti, Bencivenga, Miccolis, Venditti, Marina, Mastrojanni, Corsini, Tumminelli, Perugi, Coppa, Colitto, Tieri, Cicerone, Vilardi, Tripepi, Marinaro, Mazza, Maffioli, Rodi, Russo Perez hanno proposto il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente afferma che il mandato del quale è investita per la elaborazione della Costituzione e delle altre leggi assegnate alla sua competenza «deve» e «può» essere pienamente eseguito nei limiti di tempo tassativamente prestabiliti».

GULLO ROCCO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GULLO ROCCO. Onorevoli colleghi, le proposte che sono state presentate oggi rivestono un carattere di particolare gravità; mi riferisco in un primo tempo, soprattutto, alla proposta dell’onorevole Barbareschi ed altri, che riguarda l’ordine dei lavori. Osservo che mentre è logico e anche opportuno che i Gruppi a mezzo dei loro rappresentanti si riuniscano per esaminare la situazione e per poter prendere degli accordi interni per ciò che si riferisce all’ordine dei lavori, non può però l’Assemblea, nel suo complesso, adottare dei provvedimenti, i quali, a parer mio e a parere del mio Gruppo, rappresenterebbero una vera e propria violazione del Regolamento della Camera, perché ciò che si chiede oggi in sostanza è di derogare a precise norme del Regolamento. Ora io penso non soltanto che il Regolamento è garanzia di forma e di sostanza – e garanzia soprattutto per le minoranze – ma mi permetto anche di osservare che quando, a suo tempo, fu deliberato questo Regolamento e successivamente furono ad esso apportate delle modifiche, non si pensava certamente a perdere del tempo. Non sarà stato un momento eccezionale come quello attuale, ma indubbiamente, anche quando fu decisa la formula di quel Regolamento, si cercò di contemperare due esigenze: quelle due stesse esigenze che dominano l’attuale momento, e cioè l’esigenza della migliore utilizzazione del tempo e l’esigenza del migliore modo di discutere i progetti di legge.

In sostanza, noi troviamo già nel Regolamento l’ordine dei nostri lavori, perché all’art. 86 esso stabilisce come devono essere discusse le leggi ordinarie; la cui discussione deve essere in un primo tempo fatta sul progetto di legge in generale, mentre – dice lo stesso art. 86 – in determinati casi – e cioè per le leggi che hanno carattere di particolare importanza – la discussione può essere fatta anche sui singoli titoli.

Ora, per la Costituzione, cioè per la legge delle leggi, non possono, a parer mio, essere adottati criteri diversi da quelli stabiliti dal Regolamento per la discussione di leggi di molto minore importanza e di molto minore gravità. E, d’altra parte, l’illustre Presidente di questa Assemblea, fin dal momento in cui l’Assemblea cominciò – anzi prima ancora che essa cominciasse – a discutere la Costituzione, tracciò delle direttive, che rispondevano del resto anche alle modalità del Regolamento; direttive che la Camera ha approvato. E queste direttive ci dicevano che la Costituzione – il progetto di Costituzione – doveva essere discusso dapprima nel suo complesso e poi nei singoli titoli. E io mi permetto di ricordare che quando qualche oratore, in sede di discussione generale, stava per addentrarsi nella discussione dei singoli titoli, è stato autorevolmente richiamato dall’onorevole Presidente, perché questa discussione egli avrebbe potuto e dovuto fare nel momento in cui sarebbero venuti in discussione i titoli particolari. Così che, quando oggi ci si propone di abolire la discussione sui titoli, in sostanza noi verremmo a fare cosa diversa da quella stabilita dal Regolamento, cosa diversa da ciò che il Presidente, col consenso dell’Assemblea, aveva tracciato all’inizio dei nostri lavori. E incorreremmo anche in un’altra grave lacuna, in quanto non avremmo neppure potuto discutere in sede di discussione generale questi singoli titoli.

Se la proposta si limitasse soltanto a non discutere alcuni titoli, io potrei anche pensare che non verseremmo in una aperta violazione del Regolamento, in quanto l’articolo 86 rende facoltativa la discussione per i singoli titoli; e allora la questione avrebbe più un carattere pratico che teorico: cioè, noi potremmo rinunciare alla discussione su qualche singolo titolo, ma resterebbe la questione di ordine pratico, e cioè, per quale di questi titoli noi dovremmo rinunciare alla discussione.

Il progetto Barbareschi e compagni ci ha detto che la discussione dovrebbe essere limitata soltanto al titolo riguardante le due Camere ed a quello riguardante le Regioni; mentre in un primo progetto si voleva anche aggiungere il titolo riguardante la magistratura e l’altro riguardante la Corte costituzionale. Rimarrebbero scoperti i titoli riguardanti il Capo dello Stato, il Governo e le garanzie costituzionali.

Ed io penso che anche da un punto di vista pratico sarebbe strano rinunciare alla discussione su questi titoli. Non solo, ma mi permetto di dire che noi non realizzeremo alcun guadagno di tempo per il modo come la discussione si dovrebbe svolgere in seguito alla mancata discussione generale. Ci si dice che si potranno presentare e discutere degli emendamenti. L’emendamento, secondo il valore letterale della parola, è una semplice correzione, e noi abbiamo visto qui presentare, all’ultimo momento, degli emendamenti sostitutivi e aggiuntivi che rappresentano qualcosa di molto diverso dall’articolo originale che ci era stato in un primo tempo presentato per lo studio e la discussione. E penso, anche per ragioni tecniche, che sarebbe molto meglio esprimere il proprio giudizio e discutere sui singoli titoli, perché in questo modo potremmo discutere i principî generali anziché discutere soltanto le norme obbiettive. Penso quindi che non realizzeremmo nessuna economia di tempo. Ma dove noi protestiamo è soprattutto nella limitazione del numero degli oratori, è soprattutto nella limitazione del numero in proporzione dei gruppi. Noi possiamo accettare tutto ciò come disciplina interna di Grippo, come autodisciplina dei singoli membri dell’Assemblea, ma non possiamo stabilire il principio che la limitazione possa avvenire a seconda dell’importanza numerica dei Gruppi.

Ognuno di noi qui dentro riassume in sé una particella della sovranità popolare, ed ognuno di noi, indipendentemente dal Gruppo a cui appartiene e indipendentemente dal numero dei componenti del Gruppo, ha il diritto di portare la sua libera parola nella discussione della legge delle leggi. Noi quindi ci limitiamo ad invocare il rispetto del regolamento, e col collega Rossi ed altri colleghi della Camera abbiamo presentato al riguardo un ordine del giorno, che sottopongo all’Assemblea:

«L’Assemblea Costituente, conscia del grave e solenne suo compito, non ritiene di dover introdurre particolari limitazioni all’ordine delle discussioni nel momento stesso in cui viene in esame la parte essenziale del progetto; e lascia all’interna disciplina dei suoi membri l’impegno di contenere la discussione in termini di sobrietà, col rigido rispetto del Regolamento esistente».

Completo la mia esposizione. Noi sappiamo che il nostro dovere è quello di far presto, noi sappiamo che vi sono dei termini cui potremmo derogare, ma a cui faremmo bene, se ciò fosse possibile, non derogare. Noi sappiamo che è bene non perdere tempo in discussioni mutili, ma non possiamo stabilire, neppure attraverso le risoluzioni di maggioranza, quali sono le discussioni inutili e quali quelle utili. Ma, a questo punto, è bene non girare attorno all’ostacolo; è bene affrontare l’ostacolo che è stato intravisto anche dai presentatori di quell’altra risoluzione in cui si afferma che l’Assemblea può e deve terminare i suoi lavori entro il 24 giugno. Noi pensiamo che in questo momento l’Assemblea non debba decidere nulla perché è dovere dell’Assemblea, indipendentemente dal termine assegnato, o che si dice sia assegnato, dall’articolo 4 della legge 16 marzo 1946, svolgere nel più breve tempo possibile i propri lavori, e ciò non per risoluzione di maggioranza e non per un voto di maggioranza dell’Assemblea, giacché io penso che trattandosi di una modifica del regolamento, se a questo si vuole arrivare vi si deve arrivare attraverso la forma normale. Lo stesso regolamento, all’articolo 18, dice quali sono le procedure e le formalità per arrivare ad una riforma del regolamento. Quindi io penso che se anche uno solo dei membri di questa Assemblea che rimanesse isolato, desse voto contrario a questa risoluzione (che non molto opportunamente è stata firmata da tre rappresentanti di gruppi di maggioranza) avrebbe diritto a fare appello al regolamento contro la decisione della maggioranza.

Debbo dire una parola contro la risoluzione presentata dall’on. Giannini e da altri colleghi. Non è questo il momento per discuterla. La questione però è stata posta e io debbo dire il mio pensiero. La questione non è giuridica ma politica. Dal punto di vista politico noi possiamo riconoscere l’opportunità di non derogare alla legge del 16 marzo. Dal punto di vista personale sentiamo il disagio di non prorogare il termine di questo nostro mandato che ci è invidiato da chi ignora i pesi che esso comporta. È questione non giuridica, ma di opportunità, di sensibilità, ma se si vuole dal punto di vista giuridico affermare che questa Assemblea Costituente, che ha ricevuto il mandato dalla sovranità popolare, sia legata ad una legge fatta da un governo del C.L.N. che non aveva ancora la sua investitura dal suffragio universale, da una monarchia che ora non esiste più, e che questa legge debba vincolare il popolo italiano, si determinerebbe un assurdo politico e giuridico. Ho trovato dei precedenti nelle parole del compagno on. Mazzoni, che quando alcuni volevano limitare i poteri della futura Assemblea Costituente, affermava: «C’è da avere la febbre costituzionale; pensate che noi coi poteri che abbiamo stiamo scrivendo le tavole della Costituente e gli organismi la cui elaborazione interna noi stabiliremo nelle grandi linee? Noi non possiamo fare ipoteche notarili di quello che minuziosamente sarà la Costituente di domani».

C’è anche qualche piccolo precedente storico: pensate le risate che farebbero i ragazzi delle nostre scuole se ad essi fosse detto che a Mirabeau (di Mirabeau non ve ne sono all’Assemblea Costituente per fortuna), nel momento in cui gli Stati Generali decidevano le sorti della Francia, fosse stato opposto che gli Stati Generali non erano stati convocati per fare quello che stavano facendo, ma che essi dovevano limitarsi a ciò che era tracciato da un rescritto del re di Francia simile al decreto luogotenenziale del 25 giugno 1944, e al decreto luogotenenziale successivo del 16 marzo 1946 che pare sia l’unica cosa sacra ed inviolabile rimasta in piedi in Italia.

Il massimo rispetto è dovuto secondo alcuni a questo decreto che fu più volte violato e che fu a sua volta violatore di altre norme giuridiche, perché questo decreto del 16 marzo 1946 porta il titolo: Integrazione e modifiche del decreto legislativo luogotenenziale del 25 giugno 1944.

Infatti questo decreto istitutivo dell’Assemblea Costituente era stato preceduto da un altro decreto pure del 1944 in cui era stabilito che la risoluzione della questione istituzionale sarebbe stata affidata all’Assemblea Costituente, e ciò fu stabilito dagli stessi organi che più tardi approvarono il decreto successivo, del 16 marzo 1946, con cui si stabilisce invece di risolvere il problema istituzionale mediante referendum.

Il decreto 16 marzo 1946 è violatore quindi di precedenti decreti ministeriali e fu a sua volta violato prima che l’Assemblea Costituente fosse eletta, nell’articolo 2, ultimo capoverso, dove si era stabilito che, «qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci in favore della monarchia, continuerà l’attuale regime luogotenenziale fino alla entrata in vigore delle deliberazioni dell’Assemblea». Voi ricorderete, egregi colleghi, che il regime luogotenenziale ebbe a trasformarsi viceversa con l’abdicazione dell’allora sovrano, e con l’assunzione delle funzioni di re da parte di Umberto di Savoia. Poi noi lo abbiamo scalfito nel suo articolo 3 quando abbiamo giustamente deliberato di limitare il potere legislativo del Governo, o meglio di essere partecipi anche noi dell’attività legislativa del Governo.

Al riguardo io non debbo fare delle dissertazioni, che sarebbero sciupate dopo ciò che autorevoli giuristi e costituzionalisti hanno detto, e qualcuno anche recentemente. È di oggi una intervista in un giornale, con l’onorevole Mortati, dove è espresso un autorevolissimo giudizio di questo insigne costituzionalista.

Fra l’altro noi diciamo che questa legge, che pure ha una fonte legale, perché legale dobbiamo considerare anche il Governo del Comitato di liberazione, è revocabile. E comunque anche nel testo di questa legge noi potremmo trovare (e potremmo farne a meno perché la sovranità popolare ci è stata data attraverso il suffragio del popolo) che in essa si riconosce ciò che non potrebbe non essere riconosciuto; e cioè che la materia costituzionale, non soltanto la Carta costituzionale, ma tutte le leggi di carattere costituzionale, sono riservate all’Assemblea Costituente. Durante il periodo della Costituente, e fino alla convocazione del Parlamento, a norma della nuova Costituzione i poteri legislativi restano delegati, salvo la materia costituzionale, al Governo, e cioè qualsiasi legge di carattere costituzionale resta sempre devoluta all’Assemblea Costituente. E sarebbe una legge di carattere costituzionale anche quella di una eventuale proroga dei termini della Costituente.

Ma, noi stiamo dicendo da alcune settimane: dobbiamo far presto, vi sono pochi mesi ancora ecc., e tutti noi lo ripetiamo, anche perché capiterà in questa occasione (e forse per primo a me) che il primo che abbia il coraggio di dire una parola sincera su questo argomento, si sentirà dire da parte avversa: che si vogliono sabotare le elezioni, che non si vuole arrivare alle elezioni, che si vuole conservare la medaglietta ecc. Ed è una triste esperienza che noi siciliani abbiamo fatto anche in occasione delle elezioni del 20 aprile, perché anche in quel caso, e soprattutto per chiarire la situazione costituzionale siciliana (perché fino a questo momento si ignora quale è il destino della regione, se la Prefettura rimarrà o non rimarrà, a quale organo sarà devoluta la tutela dei comuni, che sono in questo momento abbandonati a se stessi, come si dovrà risolvere la questione per evitare un maggiore accentramento a Palermo rispetto all’accentramento nei riguardi delle diverse altre provincie ecc.) anche allora, qualcuno che prospettò la questione si sentì dire che era nemico dell’autonomia, che voleva sabotare ecc. e si colse l’occasione per tante speculazioni elettorali, così come si dirà ora se qualcuno ha il coraggio di affermare la verità, e cioè che è impossibile di arrivare alla data del 24 giugno 1947, che ciò si fa per conservare la medaglietta, o perché non si vuole obbedire a quella legge ecc. Noi diciamo che, per colpa delle cose, noi siamo arrivati ad una situazione per cui, per quanti sforzi si possano fare, noi non arriveremo certamente a finire i nostri lavori entro il 24 giugno 1947.

Possiamo dire delle belle parole; possiamo presentare belle risoluzioni, con le virgolette per sottolineare le parole «può» e «deve»; ma noi, con tutta la nostra buona volontà, lavorando giorno e notte, non arriveremo lo stesso ad esaurire il nostro lavoro, anzi i nostri lavori.

Ed allora, la. colpa di chi è?

Io ricordo che a suo tempo noi – senza discutere e nessuno di questi difensori del termine improrogabile ha aperto bocca – abbiamo dato quattro mesi alla Commissione dei settantacinque e poi altri quattro mesi alla stessa Commissione dei settantacinque e, in quel periodo di tempo, l’attività dell’Assemblea Costituente si limitò soltanto a discutere sulla modifica dell’articolo 3 del decreto 16 marzo 1946 e sulla formula del giuramento degli impiegati dello Stato. Noi concedemmo tempo alla Commissione dei settantacinque, perché non volemmo strozzare il suo lavoro. Ora, dovrebbe essere strozzato il nostro e noi dovremmo passare alla storia non come soloni, ma come quel soldato greco che portò, morente, la notizia della vittoria di Maratona. Ma noi, anche morendo, non riusciremmo lo stesso ed esaurire i nostri lavori nel termine prescritto.

Ed allora, decidiamo quello che dobbiamo fare; ma soprattutto affidiamoci al senso di disciplina interna dei gruppi e di autodisciplina di noi stessi. Volete mettervi d’accordo fra Gruppi di maggioranza o di minoranza? Stabilitelo fra voi.

Fra l’altro, mi permetto osservare che c’è una piccola difficoltà anche per la designazione di uno, due o tre oratori per ogni Gruppo, designazione che dovrebbe essere fatta a seconda dei Gruppi, maggiori o minori. Ciò si potrebbe fare se noi avessimo soltanto una seduta pomeridiana, dando il tempo ai Gruppi di riunirsi nel periodo antimeridiano, perché solo in questo caso potrebbero essere designati dei delegati per parlare a nome di tutto il Gruppo, in quanto si tratterebbe non di una scelta che cadrebbe a priori sul migliore o sul più autorevole, ma di una scelta che sorgerebbe dalla discussione nel Gruppo, che anticiperebbe e sostituirebbe la discussione in Assemblea e darebbe la possibilità a coloro che hanno meglio interpretato il pensiero della maggioranza di parlare a nome del Gruppo, non perché rappresentino soltanto un determinato e prescritto indirizzo politico, ma perché rappresenterebbero veramente l’opinione della maggioranza o della totalità del Gruppo

Riassumendo: sottopongo all’esame e all’eventuale approvazione dell’Assemblea l’ordine del giorno presentato. Il nostro pensiero è che noi, indipendentemente dalla questione della prorogabilità o meno – per cui, ripeto, la questione è solo di opportunità e di sensibilità politica, ma non è, certo, una questione giuridica – noi sentiamo il dovere di fare presto. Ma non affidiamo la maggiore brevità del termine dei lavori allo strozzamento delle discussioni ed alla violazione del regolamento, bensì alla nostra stessa serietà ed al nostro senso intimo, interiore di disciplina. (Applausi).

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Io aderisco in quasi tutto il suo svolgimento con il pensiero del collega Rocco Gullo, il quale ha detto qui quello che io ho avuto occasione di dire in quelle conversazioni amichevoli alle quali ha fatto riferimento il nostro Presidente all’inizio della discussione.

A parte la questione dell’applicazione, diciamo così, soltanto formale del regolamento, perché sostanzialmente anche l’onorevole Gullo Rocco sarebbe dell’idea di violarlo, attraverso l’accordo nell’interno dei Gruppi, io sono convinto che noi non otterremmo una notevole economia di tempo dalla soppressane delle discussioni generali sui titoli, perché gli oratori delle discussioni generali svolgono, nello stesso momento in cui parlano in sede generale, gli emendamenti per i singoli articoli. Per questo motivo l’eventuale economia di tempo si riferirebbe soltanto alla maggior larghezza che verrebbe lasciata all’oratore della parte generale, in confronto del presentatore degli emendamenti, larghezza che sarebbe costituita da trenta minuti, anziché da quindici. Chi vorrà dunque parlare per trenta minuti presenterà due emendamenti e i trenta minuti li avrà lo stesso.

Ecco perché io ritengo che in tal modo non guadagneremmo del tempo; ne guadagneremo invece se sapremo imporci una maggior disciplina di Gruppo ed una maggior disciplina personale, che valga a farci contenere il numero degli oratori nella discussione generale e il numero degli emendamenti da presentare.

Ma l’onorevole Rocco Gullo ha affrontato anche il problema sostanziale che, a mio giudizio, sta dietro alla questione di procedura, perché noi, in fondo, vogliamo discutere una questione di procedura, in quanto abbiamo oggi la sensazione della inopportunità di affrontare la questione di fondo; cioè a dire se noi potremo finire entro il 24 giugno. Da qui a tale data non ci sono che quarantaquattro giornate non festive. Anche a fare tre sedute al giorno (Commenti) – io infatti, in sede di riunione di presidenti di Gruppo, avevo formulato la proposta di fare le discussioni generali con sedute continue dalle nove alle ventiquattro… (Commenti).

Voci. Si muore!

CORBINO. No, non si muore; perché si dovrebbe morire? Ma comunque io vi dico che, con quarantaquattro giornate di fronte a noi, qualunque sforzo diretto a contenere la discussione entro i limiti più stretti che si possano immaginare non basterà per farci approvare la Costituzione, le leggi elettorali e le leggi complementari indispensabili per il futuro funzionamento dell’ordinamento costituzionale.

E allora il problema noi ce lo dobbiamo porre, pur senza pretendere di risolverlo oggi, perché è un problema che deve essere esaminato su una risoluzione ben precisa nei suoi considerando e nelle parti deliberative.

Non c’è dubbio però che noi abbiamo perduto otto mesi, nel senso che abbiamo affidato alla Commissione dei settantacinque di compiere un lavoro sul quale noi avremmo dovuto poi fare a nostra volta un lavoro di cernita o di controllo puramente politico. Noi invece stiamo scendendo nel dettaglio di tutto il contenuto del progetto costituzionale che è in esame; e allora è evidente che, se otto mesi sono stati appena sufficienti per una Commissione di 75 membri, per 555 deputati, senza essere pessimista, ce ne vorrebbero otto volte tante, il che vuol dire circa 60 mesi.

Non è il caso certo di pensare a cifre così elevate; ma non c’è dubbio che i quarantaquattro giorni che ci stanno davanti non bastano.

A mio giudizio, noi abbiamo dunque tre decisioni da adottare. La prima è quella di eliminare dal nostro ordine del giorno tutto ciò che non è strettamente indispensabile che sia esaminato dall’Assemblea e che ci allontana dal fine principale che dobbiamo raggiungere, che è quello di approvare la Costituzione. Quindi alcune discussioni si possono anche non fare; noi potremmo pregare il Governo di assumersi la responsabilità dei decreti legislativi che crede di approvare, o potremmo rimandare al Governo i decreti la cui discussione ci porterebbe via un tempo tanto lungo quanto quello occorrente per il progetto stesso di Costituzione.

La seconda decisione è di lavorare con la massima intensità possibile per dare al Paese la sensazione che non vogliamo perdere un’ora di tempo, e convengo nell’opportunità che alcuni giorni della settimana non si faccia seduta antimeridiana e si dedichi invece la mattinata a riunioni di Gruppo, se l’esperienza ci consentirà di trarre la conclusione che attraverso le riunioni di Gruppo si potrà risparmiare una parte del tempo che viene a perdere l’Assemblea con l’eliminazione parziale della seduta antimeridiana. Io non ci credo, perché non faremo le riunioni di Gruppo per andare in giro per i Ministeri e perderemo la mattinata utile anche agli effetti della discussione per la Costituzione.

E infine, dando eventualmente incarico formale alla Presidenza di studiare il problema, dobbiamo proporci di risolvere il problema costituzionale della proroga dei nostri poteri, problema che, come ha accennato l’onorevole Gullo, ha carattere non soltanto giuridico ma anche squisitamente politico. In esso infatti sono in giuoco gli interessi dei singoli Gruppi che desiderano di far più presto o più tardi le elezioni; e poi vi è, al di sopra degli interessi dei gruppi, l’interesse del Paese rispetto al quale si dovrebbe esaminare la maggiore convenienza o di affrettare i tempi nei riguardi della data delle prossime elezioni, o di dare un po’ di respiro per la sistemazione di tanti altri problemi di ordine economico e sociale sui quali preme la speciale atmosfera elettorale.

Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che nell’atteggiamento di molti di noi (e mi ci metto anche io in mezzo, e ci metto anche il mio Gruppo) opera qualche cosa che è nel sub-cosciente, che talvolta ci vela la visione esatta degli interessi generali. Non lo facciamo, badate bene, in malafede. Lo facciamo nella più perfetta buona fede, ma ciascuno di noi non può mai sottrarsi alla tentazione di mettere a raffronto gl’interessi generali con gl’interessi propri e, come accade nel campo politico, si finisce sempre col far coincidere gli interessi generali con i propri interessi.

A meno che, dunque, qualcuno qui non venga a scoprire l’ottavo giorno della settimana o la venticinquesima ora del giorno, su queste tre decisioni credo che dovremo essere d’accordo. (Applausi).

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi. Non è una norma prudente quella di fermarsi in mezzo alla navigazione per discutere la rotta. Di regola è stabilito che il capitano è il solo padrone, dopo Dio, a bordo. Senonché accade anche che ci siano navigazioni eccessivamente perigliose, in cui il pericolo è dovuto alla imprevidenza, è dovuto alla impreparazione, è dovuto magari al capriccio del capitano. Si è trascinati fuori rotta e in questo caso io penso che l’equipaggio, che i passeggeri, che magari una piccola aliquota degli esseri viventi che sono a bordo abbia il diritto di dire: «Piano amico, non erano questi i patti fra noi quando ci siamo imbarcati, bisogna ridiscuterne». Ed è questo che noi facciamo in questo momento, levandoci a chiedere in piena navigazione, e diciamo pure in piena discussione della nuova Costituzione della Repubblica italiana, se noi riusciremo a compiere felicemente il viaggio.

Non vi nascondo che sono preoccupatissimo di trovarmi in contrasto col mio maestro Francesco Nitti, al quale sono particolarmente affezionato, con l’amico Corbino, con l’onorevole Rocco Gullo, e spaventatissimo di trovarmi invece d’accordo con l’onorevole Nenni (Si ride)…

NENNI. Spero non sia vero!

GIANNINI. …il cui pensiero fosforescente, e direi dilemmatico, di solito non condivido.

Noi ci troviamo qui investiti di un mandato. Quale è questo mandato? È quello che scaturisce dal decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98. Che cosa stabilisce questo decreto? Stabilisce che l’Assemblea Costituente deve fare la Costituzione e le altre leggi in esso precisamente specificate, e approvare i trattati di pace.

Ma il mandato non si limita solamente a questo. Il mandato stabilisce formalmente il termine di tempo in cui esso deve essere eseguito. Con molta prudenza e prevedendo che otto mesi potessero essere insufficienti al compimento di quest’opera, il mandato ci dà la facoltà di prorogarli di ulteriori quattro mesi: i quattro mesi di proroga che portano al 24 giugno 1947 il limite estremo del tempo nel quale dobbiamo compiere il dovere che abbiamo accettato liberamente di compiere. Questo è stato accettato dal corpo elettorale. Questo è stato accettato da ciascuno di noi, accettando la candidatura e partecipando alle elezioni. Il nostro dovere è dunque quello di fare la Costituzione e gli altri atti legislativi che ci sono stati commessi, e farli nei limiti di tempo che ci furono assegnati. Mancando anche ad un solo punto di questo vero e proprio contratto bilaterale fra il Paese e noi, siamo inadempienti e bisogna avere il coraggio – e la dignità – di confessarlo e di accettarne le conseguenze.

Non mancano i volenterosi suggeritori di rimedi e di espedienti, che noi respingiamo, e che dobbiamo respingere appunto perché rimedi e appunto perché espedienti.

C’è chi dice che il nostro è un corpo politico, e che per tale ragione può auto-prorogarsi finché non abbia esaurito la sua funzione. Ma questa è una argomentazione atta solo a creare una inconcepibile differenza fra debitori, per cui un debitore ordinario deve pagare alla scadenza, e un debitore che sia corpo politico può esimersi da quest’onere. (Commenti).

Associandoci a quest’argomentazione – è proprio così! – noi sanciremmo il principio che i corpi politici possono impunemente mancare agli impegni che assumono. Se il creditore del debitore ordinario è un cittadino ordinario, il nostro creditore è il Paese; quindi, a debitore eccezionale corrisponde un creditore eccezionale. (Commenti). Variano le proporzioni del rapporto creditizio, non varia il rapporto creditizio.

Ma io mi domando: siamo noi già alla inadempienza? Al fallimento della Costituente? Secondo noi, no.

Il tempo che ci rimane è più che sufficiente per approvare una Costituzione, che sia una Costituzione e non un complesso legislativo specialissimo, di carattere monumentale, in cui si vogliano fissare non già le premesse della nuova legislazione che dovrà avere lo Stato italiano, ma tutto il contratto sociale istesso, pieno ed intero, legalizzando, per alzata e seduta, una rivoluzione che non si può fare né in otto né in dodici mesi. (Interruzione dell’onorevole Canevari).

Abbiamo assistito alla discussione sulla scuola, certamente interessantissima, ma che in certi momenti c’è apparsa come una disputa fra insegnanti, della quale a noi, non insegnanti, sfuggivano, forse, i veri e proprî significati.

Ascoltando gli onorevoli Marchesi, Codignola, Malagugini e anche l’amico onorevole Tumminelli, a volte abbiamo avuto la netta impressione di vedere i volti e le figure di bonzi oppressi da terribili segreti, mancanti del coraggio per rivelarli ai comuni mortali. E ci siamo domandati, udendo le minuzie di quella discussione, perché mai le mance ai bidelli non fossero state consacrate nella Costituzione insieme alla precisazione dell’obbligo di chi dovrà pagarle. (Commenti).

L’osservazione fatta per la discussione sulla scuola si può ripetere sul tutto, già approvato o ancora da approvare.

La pretesa di volere consacrare costituzionalmente ogni particolare, ogni minuzia, porta, per fatalità, all’abborracciamento, all’errore: per cui noi abbiamo approvato gli articoli sulla stampa, che noi giornalisti sappiamo, con certezza, quanto siano inapplicabili e come non saranno applicati da nessun Governo.

Non citerò altri esempi sui titoli ancora da discutere, perché non ritengo d’avere il diritto di anticipare, a nostro beneficio, una discussione. Ma mi limiterò a farne due brevissimi su quanto è stato già approvato, su cui – grazie al Cielo! – non c’è più da discutere.

L’articolo 3 dice: «I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di condizione sociale, di religione, di opinione politica, hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge».

Sarebbe bastato, onorevoli colleghi, dire: «I cittadini sono uguali di fronte alla legge».

Al secondo comma dell’articolo 10 è detto: «Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge».

Basta che il Governo non gli dia il passaporto, perché il cittadino perda la sua libertà di andare e venire.

Se dunque, noi ci limiteremo a fare la Costituzione, senza pretendere di rifare tutti i codici, noi ridurremo i temi di discussione senza strozzare la discussione.

Onorevole Rocco Gullo, nessuno vuole, nessuno desidera strozzarla.

È questo che dobbiamo fare: ridurre i temi.

Il testo originario del progetto di Costituzione era di circa 400 articoli.

La Commissione, che, intendiamoci, non s’intende attaccare ma aiutare, ha ridotto quei 400 articoli in 130. Bisogna avere il coraggio di ridurli a cinquanta, a quaranta, e si deve e si può farlo. (Commenti).

Ci sono Costituzioni formidabili in pochi articoli: i dieci Comandamenti sono dieci righe. Solo così noi potremo pagare il nostro debito alla scadenza del 24 giugno. (Commenti).

Abbiate pazienza. A questo punto sorge un’altra obiezione, sul «tipo» della nostra Costituzione. Abbiamo stabilito di fare un «tipo» di Costituzione. Queste Costituzioni sembra siano di vari tipi: rigido, semirigido, non rigido. Ma chi ha stabilito i tipi? e avevamo noi il diritto, e avevano il diritto coloro che hanno scelto il tipo più lungo e difficile, di non tenere conto dei limiti di tempo loro assegnati? Nel nostro mandato non si fa parola del tipo di Costituzione da fare: ci si dice solo di farla. Era ovvio supporre che bisognasse fare il tipo che consentisse di farla nel modo più spedito. Nel nostro mandato non c’è nemmeno che la Costituente debba aggiornarsi quando c’è una crisi ministeriale: noi ci siamo aggiornati. Perché? Chi c’impediva di discutere la Costituzione mentre l’onorevole De Gasperi sudava le sue storiche camicie? Ci dicono i sostenitori del tipo pletorico e a lungo metraggio: «Va bene, sarà stato commesso un errore, ma ormai non si può tornare indietro». Non c’è nulla di più falso, di più vieto di questa frase che è un luogo comune come tanti altri che avvelenano la nostra vita politica. Se s’imbocca un vicolo cieco si deve tornare indietro. Se si cade in un pozzo bisogna tornare indietro. Non si può pretendere di attraversare il pianeta e di uscire dagli antipodi. Ai sostenitori del tipo prolisso io desidero poi fare anche un’altra obiezione, che è questa: siamo certi di non esorbitare dal nostro mandato pretendendo di stabilire anche i minimi dettagli della legislazione futura? Siamo certi che la regolare Camera dei deputati e il Senato, quando saranno regolarmente eletti, non dichiareranno che noi siamo usciti non solo dai limiti di tempo, ma da quelli segnati dallo spirito del mandato, e non si mettano a rifare tutto da capo? Ecco un’altra ragione per non esorbitare dal mandato in nessun modo: concludere il nostro lavoro il 24 giugno e stabilire che le prossime elezioni politiche non debbano essere fatte oltre la domenica del 12 ottobre 1947. (Commenti).

C’è un’ultima obiezione alla quale devo rispondere ed è questa: «Voi dell’Uomo Qualunque avete partecipato ai lavori della Commissione; voi, dunque, siete corresponsabili di quanto è accaduto e accadrà». È purtroppo facile per noi rispondere a questo. Dico purtroppo, perché noi non siamo qui per recriminare, ma per collaborare nei limiti delle nostre forze e della nostra capacità.

Una voce …e debolezza.

GIANNINI. Anche la debolezza serve a qualche cosa. Voi che siete forti credo facciate molto meno di noi. Alla discussione pubblica abbiamo partecipato con la più grande moderazione, astenendoci in questi ultimi giorni anche dalle dichiarazioni di voto, appunto per non allungare i lavori.

Dagli stessi verbali delle Commissioni si potrà desumere quale sia stata l’opera dei nostri amici. Ma, a parte questa indagine, che non sappiamo bene di quale utilità possa essere, sta in fatto che il doveroso intervento dei nostri amici nelle discussioni delle Commissioni è stato regolato secondo l’atto politico da noi compiuto il 24 giugno 1946, reso pubblico dai giornali, probabilmente dimenticato da voi ma non da noi. Mi riferisco alla prima riunione del Gruppo parlamentare del nostro Fronte, tenutasi il 24 giugno 1946, nella quale, dopo aver constatato l’indifferenza del mondo politico, della stampa, dello stesso Governo ai problemi della Costituzione che eravamo chiamati a fare, e la polarizzazione dell’attenzione generale sui problemi relativi alla crisi che si sapeva dover essere aperta, si affermò fra l’altro:

«Il Gruppo riafferma l’assoluta non importanza del problema di chi dovrà governare durante il periodo della Costituente, che è e rimane sovrana. È perciò indifferente la persona di chi debba fare il ministro; e ritenendo la funzione di governo un dovere, e non un mezzo per assicurarsi vantaggi politici, suggerisce che tale funzione sia assunta dal partito che ha ottenuto il maggior numero di suffragi senza perder tempo in discussioni su dosature, colori, tendenze ed altri sorpassati temi della vecchia politica; e ciò per consentire alla Costituente di discutere e approvare la nuova Costituzione dello Stato, in ottemperanza al mandato ricevuto dagli elettori»,

Né i nostri rappresentanti nelle sottocommissioni hanno compiuto atti che il loro dovere politico avrebbe sconsigliato di fare, ma si sono preoccupati di compiere il loro dovere al più presto. Non sarebbe stato certo col loro numero esiguo che essi avrebbero potuto, anche se in dannata ipotesi avessero voluto, intralciare i lavori della Costituente.

È bene che ciò sia detto, e chiaramente, perché il Paese sappia a chi risalgono le responsabilità della situazione attuale e di quella che andrà mano a mano maturando, e spero senza aggravarsi.

Sosteniamo quindi che l’Assemblea Costituente debba e possa assolvere il suo compito nei limiti di tempo che il mandato ricevuto le stabilisce, e preghiamo il Presidente di voler mettere in votazione il nostro ordine del giorno, che esprime, riconfermandoli, il diritto e il dovere della Costituente, e di ciascuno degli uomini che il popolo italiano ha eletto a rappresentarlo in questa Assemblea. (Applausi a destra).

BARBARESCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BARBARESCHI. Mancherei al primo elementare dovere se intervenendo nella discussione per chiedere all’Assemblea di definire con la maggiore rapidità possibile i suoi lavori non mi attenessi alla massima sobrietà per esporre le ragioni che hanno provocato e giustificano la mozione che insieme ad altri colleghi ho presentato.

Pur non essendo un competente io so che i nostri giuristi troveranno le ragioni per giustificare il prolungamento dei nostri lavori. Un decreto emanato da un Governo provvisorio per la formazione della Costituente, primo organismo regolarmente eletto dal popolo dopo la liberazione, può essere certamente modificato dalla Costituente stessa.

Però ci sarà una piccola osservazione da fare è cioè se per il fatto di aver già prorogato il nostro lavoro, valendoci proprio di quanto è contenuto nella stessa legge istitutiva della Costituente, non si sia con ciò già affermato che i termini di durata della Costituente sono quelli fissati nel decreto stesso. Ma, indipendentemente da questo, noi siamo spinti ad invocare dall’Assemblea la discussione dei lavori nei termini fissati dal decreto costitutivo, anche senza associarci alla richiesta precisa presentata dall’onorevole Giannini, proprio per una ragione politica, perché io condivido pienamente le ragioni qui esposte dall’onorevole Corbino, solo che ne modifico la esposizione. Per noi non sono le valutazioni dei partiti che possono giudicare essere questo momento più favorevole di altro per invocare le elezioni o che possono giudicare che la situazione politica creata nel Paese non rappresenti più quella situazione politica che qui ci ha portati, ma sono le ragioni economico-politiche, specialmente, che impongono a noi stessi di dare a questo nostro Paese, il quale ce lo chiede quotidianamente, quegli istituti definitivi, che permetteranno di dare al Paese stesso quella legislazione di cui ha bisogno per potere rifarsi e per potere iniziare seriamente la sua ricostruzione. (Applausi).

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Onorevoli colleghi, parlo a titolo personale poiché per il Gruppo al quale appartengo ha già parlato l’onorevole Rocco Gullo e io sono d’accordo con lui. Ma credo doveroso spiegare all’onorevole Giannini che la sua mossa, che ha fine solamente politico, non è affatto pratica. Egli dice che l’Assemblea deve e può concludere entro il 24 giugno i suoi lavori.

Egli dice cosa che sa inesatta, come del resto autorevolmente ha detto anche l’onorevole Corbino, perché noi abbiamo l’esperienza di quello che è avvenuto fino ad oggi: in 8 mesi 5 Commissioni, che lavorano contemporaneamente, quindi come se avessero lavorato 40 mesi, hanno fatto il progetto. Ora le soluzioni potevano essere due; o il progetto si discuteva articolo per articolo, o il progetto si accettava o si respingeva in blocco. Sarebbe assurdo che la Costituente eletta per fare il nuovo Statuto non lo discutesse, perché allora tanto valeva eleggere 75 e non 555 deputati. Bisognava quindi discuterlo, e allora la logica ci diceva che qualunque forma di discussione si fosse fatta e per quanto l’abilità e la severità del Presidente avessero contenuto nei limiti più ristretti la discussione, il tempo avrebbe dovuto essere almeno il doppio di quello impiegato dalla Commissione.

La pratica ci ha detto che dal 4 marzo al 2 maggio, in due mesi, abbiamo approvato faticosamente 29 articoli, con una media di meno di 15 al mese. Abbiamo ancora altri due mesi. Potremo approvare altri 30 articoli, ma lavorando con grande alacrità, cioè arriveremo a 59 articoli: quindi è praticamente impossibile l’approvazione dei 109 articoli che ancora rimangono. Per completare la discussione occorrerebbero tre o quattro mesi di lavoro.

Ma, poi, non è questo solo il lavoro che deve compiere la Costituente. Prima di tutto la Costituzione non è varata con l’approvazione degli articoli: ci sarà una Commissione di coordinamento, ci sarà una Commissione di revisione anche linguistica, lessicale, la quale dovrà impiegare un certo tempo per coordinare, per dare forma più italiana alle disposizioni; dopo di che dovremo rileggere, sia pure rapidamente, e approvare il testo coordinato; quindi si tratterà di un altro lavoro che richiederà almeno altri 15 giorni.

Poi c’è il lavoro delle leggi ordinarie. Badate che noi abbiamo reclamato, con le modifiche al Regolamento approvate il 17 settembre, che molte leggi dovevano venire all’Assemblea e non essere approvate soltanto dal Governo; e abbiamo nominato le quattro Commissioni per l’esame preliminare dei progetti di legge. Queste hanno lavorato moltissimo, ma l’Assemblea non ha lavorato. Ci siamo occupati soltanto delle riforme alla legge comunale e provinciale – una piccola legge che approvammo in quattro o cinque sedute antimeridiane – e non si è fatto altro. Restano le leggi elettorali, che necessariamente dovremo approvare prima che siano conclusi i lavori dell’Assemblea Costituente; la discussione finanziaria, la legge sull’imposta patrimoniale, il trattato di pace, ed altre leggi che bisognerà approvare, per coordinare il lavoro della futura Camera e del futuro Senato. Tutte queste leggi ci porteranno del lavoro per qualche mese di tempo. E allora, perché vogliamo dare ad intendere, onorevole Giannini, che possiamo fare entro il 24 giugno tutto il compito che ci spetta? È un’illusione! Noi possiamo dire una sola cosa: che oggi questa questione non è all’ordine del giorno, che è una questione che dovrà essere decisa in base ad una mozione che dovrà essere presentata, discussa e approvata a suo tempo e allora vedremo se è possibile o meno arrivare al compimento dei nostri lavori nel termine del 24 giugno. Quindi oggi limitiamo la discussione alla proposta dell’onorevole Barbareschi di abbreviare i lavori dall’Assemblea Costituente rispetto alla nuova Costituzione.

E qui io dico, onorevoli colleghi, che non si può – e in questo convengo pienamente con l’onorevole Gullo – togliere ai membri dell’Assemblea Costituente i diritti consacrati nel Regolamento, per compiere quella opera che è poi la ragione stessa per cui gli elettori ci hanno mandati in quest’aula. Perché è stranissimo: si dice: «Dobbiamo fare la Costituzione»; poi non vogliamo fare la Costituzione, perché se arrivassimo a restringere la discussione, secondo il testo della proposta Barbareschi, Scoccimarro, Mastino Gesumino, Grassi, noi faremmo una discussione in cui dovremmo saltare interi capitoli: infatti, secondo la proposta, la discussione generale sarebbe limitata alla Regione e alla formazione della seconda Camera, di modo che resterebbero senza discussione generale parti importantissime come la formazione delle leggi, come il Capo dello Stato, come il Governo, come l’ordinamento delle pubbliche amministrazioni, come la Magistratura, la Corte costituzionale e la revisione della Costituzione: cioè le parti forse più delicate e più difficili dal punto di vista giuridico resterebbero senza una discussone generale. Bisogna poi considerare che la discussione generale anche riguardo alla Regione e alla seconda Camera avrà tale ampiezza e richiederà un sì lungo studio – pensate che sulla Regione quasi tutti i membri della Costituente avranno da esprimere il loro parere – che non sarà certo possibile rinchiuderla nel giro di 44 sedute, quante ancora ne rimangono.

E allora io dico: siamo sinceri, siamo leali; non è vero, onorevole Giannini, che la legge 16 maggio 1946 sia di ostacolo a questa nostra discussione. Io ricordo quello che disse nella seduta del 15 luglio un autorevole deputato della vostra parte, l’onorevole Mastrojanni, il quale affermò:

«Io penso che l’Assemblea Costituente abbia non solo il diritto, ma anche il dovere di negare a quel decreto legislativo luogotenenziale, col quale il Governo si è arrogato il diritto di legiferare, ogni diritto e ogni consistenza dal punto di vista giuridico costituzionale, in quanto che, essendosi formata oggi l’Assemblea Costituente sovrana, tutte le leggi che l’hanno preceduta e che hanno avuto la loro origine non suffragata né giustificata dalla volontà espressa del popolo, debbano, per poter perpetuare in avvenire la loro esistenza e giustificare la loro consistenza giuridico-costituzionale, ricevere il crisma della nostra volontà, cioè della volontà sovrana del popolo che si è espressa recentemente attraverso di noi, che dobbiamo difendere il popolo nei suoi sacrosanti diritti».

GIANNINI. Al 15 luglio, non si sapeva che si sarebbero perduti otto mesi invano.

PERSICO. Non significa niente che si sono perduti otto mesi. Voi avete negato ogni valore alla legge 16 marzo 1946. Noi non neghiamo ogni valore a questa legge, ma diciamo che questa legge ha già provveduto alla possibilità di una proroga, ed ha provveduto con un termine di quattro mesi.

Ma il periodo di proroga è insito nella legge 16 marzo 1946, perché il legislatore disse che si poteva prorogare il termine, come già è avvenuto, senza discutere, su proposta del Presidente e senza che nessuno prendesse la parola. Quindi, possiamo ancora prorogare, e non è vero che si vada a fare un salto nel buio, e non è vero, come ha detto un autorevolissimo scrittore di parte cattolica, che prorogando la Costituente si farebbe un colpo di Stato. Il colpo di Stato si ha quando con un atto di violenza, sia pure parlamentare, si rovescia un Governo per sostituirne un altro, non quando si mantiene fermo un Governo per rendergli possibili tutte le sue future esplicazioni. Quindi, parlare di colpo di Stato non è esatto. Del resto, in questo momento, ho letto un articolo, sulla Voce Repubblicana di oggi, in cui l’onorevole Mortati, pur essendo dello stesso partito che si onorò di avere come suo creatore Don Sturzo, riconosce la possibilità che si possa prorogare l’Assemblea Costituente senza ledere i diritti del popolo, né i diritti degli elettori che ci hanno mandati in quest’aula.

GIANNINI. Fra dieci anni saremo ancora a questo punto!

PERSICO. Io sarei di questa opinione: cerchiamo di accontentare il giusto desiderio del Presidente di affrettare la discussione e di restringerla, se è possibile, non nei limiti proposti dall’onorevole Barbareschi, ma nei limiti molto più ristretti del mio ordine del giorno. Ci accorgeremo, tra un mese, ai primi di giugno, che la nostra fatica avrà fatto pochissimi progressi e che avremo approvato altri quindici o venti articoli. Ed allora, vi sarà la necessità assoluta di una proroga ed anche Giannini non potrà affermare che la Costituente può e deve terminare i suoi lavori entro il 24 giugno. Allora, affronteremo la questione. Ci saranno molte proposte; convocare un’altra Costituente sulla base della vecchia legge, o prorogare i nostri lavori per un termine non previsto, perché non è possibile prefissare un termine. Infatti, il legislatore ha sbagliato quando ha detto quattro mesi; se avesse detto che essa sarebbe stata prorogata fino al compimento dei suoi lavori, non ci sarebbe stata la questione dei quattro mesi perché non ci sarebbe stato questo termine insufficiente.

Oggi la questione è quella di accedere o meno alla proposta che alcuni capi partito hanno fatto di restringere le modalità ed i termini della discussione; e su questo punto mi riservo di svolgere, se del caso, il mio ordine del giorno che cerca di diminuire le limitazioni che dovrebbero essere imposte alla libertà della nostra parola. (Applausi).

LAGRAVINESE PASQUALE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LAGRAVINESE PASQUALE. Onorevoli colleghi, parlerò pochi minuti. Non mi interessano in questo momento le grandi questioni giuridiche o costituzionali. La Costituente potrà terminare i suoi lavori fra un mese o fra un anno; questo per me non ha oggi nessuna importanza perché sarà deciso dall’Assemblea la quale è giudice sovrana. Mi importa soltanto di porre alcune questioni pratiche, perché il nostro lavoro potrà e dovrà finire fra un mese. Molte cose inutili le potremo togliere lo stesso dall’ordine della discussione. (Conversazioni).

PRESIDENTE. Si direbbe che questa questione, di cui da venti giorni tanto si parla, abbia perso oggi nell’aula ogni interesse.

UBERTI. Troppi discorsi.

PRESIDENTE. Onorevole Uberti, bisogna sentirli questi discorsi; se non desidera sentirli, almeno acconsenta che altri li sentano, e perciò non interrompa.

LAGRAVINESE PASQUALE. Dicevo, farò proposte pratiche che vanno attuate indipendentemente dal tempo che metterà la Costituente nell’espletare i suoi lavori. Per quel che riguarda per esempio la limitazione del numero degli oratori, di cui ho sentito parlare nell’ordine del giorno letto dal signor Presidente, ammetto che vi siano in effetti talune discussioni di carattere generale che possano essere soppresse. Fino a questo momento questo non si è fatto, mentre gli istituti discussi fino ad oggi potevano benissimo essere esaminati solo articolo per articolo, attraverso emendamenti, trattandosi di istituti che già preesistono nella vita sociale dei popoli: famiglia, lavoro, religione. Altri istituti sono di carattere eminentemente politico, null’altro che politico, e possono essere creati, modificati, distrutti solo da una legge. Quelli invece di nuova creazione debbono essere precedentemente discussi ed in precedenza accettati. Per esempio la Regione, il Parlamento, il sistema bicamerale non si possono discutere solo articolo per articolo il che presupporrebbe averle già accettate nella Costituzione mentre così non è, per esempio, per la Regione, che deve ancora essere (e Dio non voglia che sia) accettata. Queste discussioni generali fanno sì che non si può limitare il numero degli oratori come vorrebbe l’ordine del giorno presentato dagli onorevoli colleghi.

Per quanto riguarda la limitazione del numero degli oratori, questa si può fare nei Gruppi, diceva Rocco Gullo. Sarà, ma a questo neppure credo perché si tratta di questioni – ed insisto su quella delle Regioni – così complesse che per discuterle non basta un oratore solo.

Non si tratta di questioni di correnti dottrinarie, di gruppi politici. Qui ognuno porta il suo contributo secondo la propria competenza. Può darsi che ci siano nell’Assemblea Gruppi che hanno menti enciclopediche per cui basti un solo oratore, mentre altri Gruppi non hanno queste menti enciclopediche.

La questione delle Regioni richiede una competenza non solo politica ma anche storica, geografica, etnica, e non è possibile pretendere da un solo oratore che tratti il problema in tutta la sua complessità. Ed inoltre la limitazione del numero degli oratori non è una situazione accettabile, perché ognuno deve dare il suo contributo, e questo contributo può venire indipendentemente da qualsiasi settore dell’Assemblea, senza che vi siano alcuna corrente politica od alcun settore che possano vietare questo contributo. Anche perché, secondo il criterio della proporzione, che ho sentito proporre, vi potrebbero essere Gruppi che potrebbero avvantaggiarsi della competenza di molti loro iscritti, ed altri no; così per esempio il Partito d’azione avrebbe appena un quinto di oratore, se dovesse prevalere questo concetto della assegnazione proporzionale.

Quindi si deve essere contrari a questa forma di distribuzione di lavoro, che rappresenta addirittura un tentativo di strozzamento della nostra discussione. Un po’ di tempo lo abbiamo perduto, diciamolo francamente, ed il collega che mi interrompeva all’inizio del mio discorso lamentava appunto la eccessiva lunghezza di certi discorsi: si sono fatti effettivamente dei discorsi troppo lunghi, che potevano essere anche abbreviati. Ma oggi questa limitazione non è più possibile, perché il tempo che si è perduto nel non far niente non si può guadagnare col far molto, in fretta e male. E qui si inserisce un’altra mia proposta, perché l’economia del tempo non si ottiene soltanto accorciando la parte dei discorsi, delle discussioni, ma anche dando un certo ordine al lavoro: il lavoro disordinato non è altro che uno sperpero di tempo.

Ora, nel progetto di Costituzione io noto che c’è un certo disordine in questo senso: tra breve noi discuteremo il Parlamento e poi la questione delle Regioni.

RUINI, Presidente della Commissione perla Costituzione. Si discute prima la Regione. Lo abbiamo già deliberato in Assemblea.

LAGRAVINESE PASQUALE. Che sia stato già deliberato non mi consta.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Che vi sia stata una votazione in Assemblea, no, ma fin da quando decidemmo di discutere il progetto di Costituzione si disse, e l’Assemblea non fece alcuna opposizione – e quindi si intende che ci siamo messi su questo cammino – che avremmo discusso la Regione subito dopo aver finito la prima parte della Costituzione sui diritti e doveri del cittadino. Questa era l’intesa di tutti. Se v’è ora una proposta formale a questo riguardo, potremmo adottarla a conferma di quella prima intesa.

LAGRAVINESE PASQUALE. Noi ci troveremmo ad aver approvato precedentemente un istituto come quello del Parlamento, in cui la seconda Camera che si chiama, non so perché, dei senatori, ha la sua base nella Regione. Noi potremmo domani effettivamente, approvando questa prima parte del Parlamento, trovarci di fronte alla questione della Regione per cui la discussione precedente verrebbe a crollare. Si accetterebbe il figlio prima di accettare la madre. Per questo, prima di arrivare alla questione del Parlamento potrà essere opportuno di discutere il problema della Regione.

Questo lo dico per contribuire anch’io a quella economia di tempo che occorrerà in qualunque modo fissare, senza incertezza, per contribuire a che questo lavoro sia spogliato di tutte le inutili scorie. (Approvazioni).

MASTINO PIETRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MASTINO PIETRO. Io parlo per esprimere il punto di vista del Gruppo parlamentare autonomista.

Penso che la questione principale, in questo momento, non sia quella relativa alla possibilità di una nuova proroga della vita della Costituente; sibbene quella di provvedere a che i lavori dell’Assemblea, rispondendo alla funzione alta, completa per cui l’Assemblea fu eletta, siano effettuati nel minor termine di tempo possibile.

La questione relativa alla eventualità di una proroga può essere oggetto di lunghe e di profonde discussioni che però non hanno motivo di essere condotte in questo momento.

L’onorevole Giannini ha accennato ad un patto che sarebbe intervenuto fra elettori ed eligendi, gli allora candidati, gli eletti di adesso, perché allora noi avremmo chiesto un mandato in base al decreto legislativo che fissava in un anno la vita della Costituente; la fiducia degli elettori ci sarebbe stata quindi – secondo la tesi dell’onorevole Giannini – accordata per otto mesi, prorogabili ad un anno, ma mai per più di un anno.

Si potrebbe, a mio avviso giustamente, rispondere che gli elettori ci hanno, soprattutto, dato un mandato, questo: di fornire allo Stato la nuova Costituzione.

Questo è lo scopo principale, direi prevalente, assorbente, che soverchia qualunque altro; di modo che noi potremmo rispondere – se, giunti al 24 giugno, ci trovassimo nella impossibilità di aver definito i lavori – affermando il diritto di concederci la proroga necessaria per giungere alla conclusione di quei lavori che rappresentano, praticamente, la sostanza del mandato che dagli elettori ci fu conferito.

D’altra parte, l’articolo 3 del decreto istitutivo parla di vita della Costituente che possa o debba durare nell’esercizio della propria funzione fino a quando non sia convocato il nuovo Parlamento, vale a dire indica un termine che potrebbe coincidere con quello di un anno – indicato nel successivo articolo 4 – ma che potrebbe essere anche diverso.

Non è il caso che io – ho premesso come questa non sia la questione fondamentale od urgente in questo momento – accenni ad esempi precedenti, storici e giuridici, in cui assemblee e corpi legislativi trovarono giustificazione a prolungare la propria vita, oltre i termini stabiliti dalla legge o dagli elettori, traendo per ciò motivo dalla sovranità del mandato ricevuto e dall’altezza delle funzioni da assolvere. Non è il caso, perché in tutti è presente la necessità – sentita sia da quelli che ritengono che si possa arrivare ad una proroga dei lavori, come dagli altri che ritengono che una proroga sia impossibile – di affrettare questi lavori. L’onorevole Gullo Rocco ha interloquito su questioni di seria importanza, in quanto egli trova una prima eventuale difficoltà ad una modificazione dell’ordine dei nostri lavori nel fatto che vi è già un Regolamento dell’Assemblea e che una nostra modificazione del Regolamento stesso non è possibile se non seguendo la via prefissata a ciò appositamente.

Ora, io apprezzo la serietà di questa eccezione, ma mi permetto sommessamente di rilevare come non tutte le disposizioni del Regolamento siano essenziali. Ve ne sono, sì, di carattere essenziale che non possono essere annullate, o violate, sotto pena di nullità, e vi sono disposizioni che si possono anche violare, in quanto non essenziali.

Quando, ad esempio, nell’articolo 86 si dice come la discussione generale debba premettersi alla discussione sui vari articoli, non è che con ciò si stabilisca, in via assoluta, l’obbligo di procedere ad una discussione di ordine generale, ma si è voluto semplicemente regolare quanto di solito avviene, ma che potrebbe anche non avvenire. Questo e non altro.

Noi possiamo quindi benissimo accordarci fra noi, direi internamente, per la linea da seguire circa i nostri lavori, con l’intento anzitutto di far sì che le limitazioni di tempo imposteci non siano di nocumento all’ampiezza di esame dei problemi e alla precisione e alla giustezza delle decisioni che noi dovremmo prendere.

Ma un altro obiettivo noi dobbiamo perseguire, ed è quello di eliminare tutto ciò che è inutile. Ora, l’onorevole Corbino, a questo proposito, ha manifestato un pensiero, direi, in certo senso, scettico. Egli ritiene che l’eliminazione della discussione generalissima non conduca ad un risparmio di tempo, in quanto quella discussione generalissima, eliminata da un lato, risorgerebbe dall’altro, quando si dovesse procedere alla discussione degli emendamenti.

Questo non è completamente esatto; me lo consenta l’onorevole Corbino. Io ho ascoltato con piacere tutte le discussioni che si sono fatte; ora, non tutte queste discussioni sono state precisamente condotte con quel criterio, direi, di sintesi che è normalmente opportuno nelle discussioni, e lo è maggiormente in quelle dell’Assemblea Costituente.

Molte volte si è infatti divagato in campi affini alla materia trattata, se non addirittura in campi affatto lontani. Noi abbiamo per esperienza constatato che, su certe materie, il numero degli oratori ha raggiunto la cifra di quaranta, talvolta di cinquanta e perfino di sessanta.

È necessario quindi che noi troviamo la possibilità di opporre un rimedio, o che per lo meno lo cerchiamo. Io faccio delle proposte concrete. Si è detto che si dovrebbe eliminare la discussione generalissima, riducendo la discussione generale al titolo della Regione e alla questione della seconda Camera. Ora, io credo e noi crediamo di essere nel giusto richiedendo che una discussione generale venga ammessa anche per il potere giudiziario e per la Corte costituzionale, argomenti e materie di una importanza straordinaria.

Faccio anche una considerazione più pratica. Nel caso che un deputato presenti su uno stesso titolo emendamenti relativi a più articoli, invece che quindici minuti per un solo emendamento, dovrebbe parlare una volta sola per tutti, salvo, s’intende, a beneficiare di un termine maggiore dei quindici minuti.

Ho da confermare però un concetto espresso chiarissimamente dall’onorevole Gullo, secondo il quale non è giusto proporzionare il numero di quelli che potranno intervenire nella discussione alle forze dei Gruppi. Il Gruppo costituito anche da pochi iscritti ha diritto alla libertà di parola, intesa anche nel senso della molteplicità dei possibili interventi. Sarà proprio in questo campo che i Gruppi dovranno provvedere internamente per far sì che nell’Aula si intervenga solo in modo proporzionato all’importanza del tema. Nell’ordine del giorno presentato dall’onorevole Giannini e da altri è detto che l’Assemblea Costituente afferma che il mandato del quale è investita per la elaborazione della Costituzione e delle altre leggi assegnate alla sua competenza «deve» e «può» essere pienamente eseguito, nei limiti di tempo tassativamente prestabiliti.

Io dico che questo ordine del giorno, non nell’intendimento del proponente, ma di fatto, finirebbe, in qualunque senso lo si voti, col pregiudicare quella questione di merito e di sostanza sulla quale, come ho detto oggi, non possiamo e non dobbiamo pronunciarci, vale a dire la possibilità della concessione di una nuova proroga. Quando si afferma che si deve finire entro il 24 giugno già la questione è decisa. Se quella questione la vogliamo decidere, la si presenti direttamente alla discussione e al giudizio dell’Assemblea. Si inviti, vale a dire, l’Assemblea ad esaminare e a decidere se la Costituente abbia la possibilità di concedersi una nuova proroga, ma non vi si arrivi attraverso un ordine del giorno che, apparentemente, ha uno scopo diverso.

Nella seconda parte dello stesso ordine del giorno è detto che l’Assemblea dichiara che può essere pienamente eseguito il proprio compito nei limiti di tempo prestabiliti.

L’Assemblea deve partire dal presupposto di fare il possibile e comportarsi in modo che il possibile sia fatto perché i lavori possano essere compiuti entro il 24 giugno, ma non farebbe una cosa seria se oggi affermasse che può finirli e poi non li finisse. Questa Assemblea non può pronunciarsi o, meglio, si può pronunciare in linea di probabilità ma non di certezza. Quindi, in definitiva, il Gruppo autonomista riafferma la necessità che i lavori siano conclusi entro il 24 giugno; ammette i criteri che sono stati proposti perché si arrivi a definirli entro questo limite di tempo, non riconoscendo però giusta una riduzione nel numero degli intervenuti nella discussione in rapporto alla composizione numerica dei vari gruppi, e ritiene necessario che la discussione generale venga condotta anche sui titoli della Magistratura e della Corte costituzionale, (Applausi).

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Farò brevi dichiarazioni. Di fronte alla duplice tesi che è stata qui esposta, di coloro i quali ritengono che la Costituente deve finire i suoi lavori il 24 giugno e non può prolungarsi oltre questo termine; e la tesi opposta che la Costituente può prorogare i propri lavori oltre il 24 giugno, il Gruppo comunista ritiene che la Costituente deve finire i suoi lavori il 24 giugno, non perché giuridicamente non possa eventualmente prorogarli, ma perché una necessità politica ci impone di non prolungarli oltre quel termine. E la necessità politica non è soltanto quella alla quale alcuni colleghi pensano: cioè che la composizione di quest’Assemblea non corrisponda più ai rapporti reali delle forze politiche nel Paese. Vi è una ragione politica ancor più importante: sono maturati nel nostro Paese gravi problemi, specialmente nel campo economico, che non possono essere risolti se non con una discussione in una regolare assemblea legislativa.

Il Governo si trova di fronte a questioni che nelle condizioni attuali non può risolvere, mentre la situazione del Paese esige che siano risolte al più presto. Questa, per noi, è l’esigenza più urgente che ci impone di portare a termine i nostri lavori entro il 24 giugno.

Ora, se si vuole arrivare a questo bisogna modificare radicalmente il nostro modo di lavoro, altrimenti i nostri lavori non saranno finiti per il 24 giugno.

Bisogna tener presente che, oltre alla Costituzione, la Costituente deve occuparsi della legge elettorale, della ratifica del Trattato di pace e di altre leggi: solo per la discussione finanziaria sono già iscritti a parlare trenta oratori. Ora, è chiaro che se si considera il complesso dei problemi che si dovrebbero qui discutere, è certo che in quaranta giorni non si può finire.

Questo è il motivo delle nostre proposte. L’onorevole Giannini, che vuol finire il 24 giugno, come vogliamo noi, se pure per altri motivi, ritiene che per farlo bisogna mutare la materia della nostra discussione. Ora, io faccio osservare che, per via indiretta, in realtà egli ripropone il problema del tipo della Costituzione. E siccome l’Assemblea già diverse volte si è pronunciata di non rinviare ad un preambolo tanta parte della materia che si vuole definita nel testo della Costituzione, se si accettasse la proposta dell’onorevole Giannini bisognerebbe passar sopra a quella decisione dell’Assemblea. E siccome è prevedibile che, riproponendo il problema in quei termini, l’Assemblea riconfermerebbe il giudizio già espresso, è chiaro che il metodo attraverso cui l’onorevole Giannini propone di abbreviare i nostri lavori non è fattibile né realizzabile.

All’onorevole Gullo Rocco, il quale ci dice che la Costituente ha giuridicamente il potere di prorogarsi, io vorrei chiedere come mai, se la Costituente ha quel potere, non avrebbe poi il potere di modificare il suo funzionamento interno e qualche norma del suo regolamento. Essa può fare anche questo: se l’Assemblea è sovrana può ad un certo momento apportare modifiche al suo funzionamento.

L’appello che si vuol fare all’autodisciplina dei Gruppi è giusto, ma si può anche fare appello all’autodisciplina dell’Assemblea nel suo complesso. Le proposte che noi facciamo non hanno altro significato che questo: noi proponiamo all’Assemblea che autodisciplini il proprio lavoro in modo da rendere possibile che il 24 giugno si possa dire: abbiamo finito i nostri lavori.

Si è parlato di responsabilità, di fallimento della Costituente se per il 24 giugno i lavori non saranno finiti. Mi pare che siano parole grosse, molto grosse; e non voglio neanche parlare dell’accenno al colpo di Stato; penso che coloro stessi che l’hanno pronunciato, nel loro intimo sanno che non è il caso!… I colpi di Stato sono ben altra cosa che il prorogare d’un mese o di qualche settimana la discussione di un’Assemblea.

Ma a noi pare che daremmo al Paese la prova d’una deficiente sensibilità politica, di una deficiente comprensione dei bisogni e dei problemi che sono maturati in Italia, se noi non facessimo tutto il possibile per terminare il 24 giugno i nostri lavori. Ripeto: per noi non si tratta di una questione giuridica, non si tratta del fallimento della Costituente o di responsabilità storiche, ma di problemi estremamente gravi, che il Governo oggi, per il modo come è costretto a funzionare, non può risolvere e che tuttavia devono essere risolti; e potranno essere risolti solo da una normale assemblea legislativa.

Per queste fondamentali ragioni, noi manteniamo le proposte fatte. Anzi, se quelle proposte non garantissero ancora che per il 24 giugno i nostri lavori saranno finiti, il Gruppo comunista è pronto ad accettare tutte le ulteriori limitazioni, che i colleghi volessero proporre. Ma una cosa è essenziale: finire il 24 giugno.

Troppo grosse questioni attendono di essere risolte nel nostro Paese e non possiamo rinviarle. (Applausi a sinistra).

PERRONE CAPANO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERRONE CAPANO. Onorevoli colleghi, dichiaro di essere d’accordo con le conclusioni espresse testé dall’onorevole Scoccimarro.

Noi abbiamo finora dato una grande importanza ai nostri diritti; dobbiamo dare maggiore importanza ai nostri doveri. Ed il primo dovere è, a mio avviso, di stare ai patti che abbiamo conclusi col popolo italiano. Perché la legge 16 marzo 1946 non è soltanto una legge, ma è un patto, che ha poi avuto la sanzione di un voto popolare, col quale è stato esplicitamente a noi conferito un duplice mandato: un mandato, direi, quantitativo e qualitativo, un mandato attinente al contenuto della nostra azione, e relativo al tempo entro il quale questa nostra azione deve svolgersi.

Non ho mai sentito che i poteri derivanti da un mandato possono essere modificati dal mandatario. Questo si verificherebbe, qualora noi prorogassimo la durata della Costituente oltre il termine stabilito da quella legge, che si ebbe la sanzione popolare il 2 giugno. E quando, a questo proposito, l’onorevole Scoccimarro dice che una considerazione politica deve, soprattutto, guidarci nel giungere alla conclusione che oltre il 24 giugno non si possano protrarre i nostri lavori, egli dice indubbiamente cosa esatta e ancora di più allorché la sostiene con la considerazione che vi è ormai l’improrogabile necessità per il Paese d’una Assemblea legislativa con pieni poteri legislativi, che assolva, quindi, il compito di controllare meglio l’azione del Governo e di effettuare essa la legislazione civile.

Ma io credo che a questa considerazione che ne debba aggiungere un’altra: si debba riconoscere, cioè, che, anche quando si consideri il problema sotto l’aspetto giuridico, in realtà non si possa risolverlo che obbedendo sempre ad una considerazione di natura politica, riconoscendo cioè, d’accordo con gli onorevoli Giannini e Scoccimarro, che oltre il 24 giugno prossimo venturo non è possibile prolungare la durata del nostro ufficio senza offendere la volontà del popolo italiano.

Infatti, quando si considera questo delicato problema sotto il suo aspetto giuridico, si riconosce in sostanza che viene in discussione il principio se alla legge si debba o no prestare ossequio; il principio, se nel campo della osservanza delle leggi l’esempio positivo non debba venire precisamente dai legislatori. E allora, secondo me, precisamente in omaggio a quei principî di libertà e democrazia, ai quali dobbiamo sempre prestare ossequio e per il trionfo dei quali siamo qui dentro, dobbiamo concludere che la risoluzione del problema della durata, della vita e dei poteri della Costituente, comunque esaminato, non può essere risolto se non in senso rigido e negativo per la concessione di una qualsiasi proroga.

Ma vi è da risolvere – ed ho finito – un altro aspetto della situazione ed è quello relativo alla conciliabilità di questo nostro dovere di non andare oltre la data segnata dalla volontà del popolo italiano con l’altro nostro dovere che è di fare una buona Costituzione o per lo meno di riconoscere che la Costituzione è una cosa seria e non può essere improvvisata. Abbiamo perduto del tempo: le responsabilità di questa perdita di tempo saranno assodate in un secondo momento. Stabilirà la storia se la colpa è o no del tripartito; se il torto deriva dall’aver nominato un parlamentino nel seno del Parlamento e dall’aver delegato a questo parlamentino il compito che, viceversa, poteva essere conferito a pochi costituzionalisti che lo avrebbero assolto in pochi giorni. Ora noi abbiamo occupato mesi per coordinare il lavoro, per discutere gli articoli e per arrivare a qualche cosa di conclusivo e di serio da assegnare poi alla Storia in un breve periodo di tempo. Assoderà la Storia questo. Ma oggi dobbiamo riconoscere che improvvisare non possiamo, e affrettarci in questi lavori con ritmo bersaglieresco non sarebbe serio. Io aderisco alle proposte dell’onorevole Persico, che mi sembrano le meglio informate a conciliare le due esigenze, e non ho paura di concludere affermando che il termine non deve tuttavia in nessun caso essere prorogato. Se la Costituente non riuscirà entro quel termine ad assolvere il suo compito, non per questo essa potrà andare oltre i limiti di tempo che le furono assegnati. La conseguenza logica, giuridica e politica sarà che il popolo verrà chiamato nuovamente alle urne per eleggere un’Assemblea legislativa con poteri costituenti. (Commenti).

E credo doveroso a questo punto raccomandare un’altra cosa: vi è una legge, vi sono anzi delle leggi che noi non possiamo assolutamente rimandare, per le quali la discussione è urgente, perché senza di esse la convocazione del popolo alle urne per eleggere una nuova Assemblea legislativa – o legislativa e costituente al tempo stesso – non potrà essere effettuata. Sono queste le leggi elettorali. Affrettiamoci a mettere all’ordine del giorno le leggi elettorali.

FUSCHINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FUSCHINI. Onorevoli colleghi, mi limiterò ad alcune osservazioni di indole prevalentemente tecnica.

Due sono le questioni che sono state prospettate in questa Assemblea per limitare i lavori che l’Assemblea stessa deve concludere per l’approvazione della Costituzione.

Circa la proroga dei termini della Costituente mi permetto di osservare che la questione, altamente politica, oltre che giuridica, non può, a mio avviso, essere fatta dall’Assemblea senza che vi intervenga, come elemento interessato, anche il Governo. Perciò ritengo che la discussione proposta dall’onorevole Giannini sia in questo momento intempestiva e mi associo alla richiesta di sospensiva che su di essa è stata proposta dall’onorevole Corbino, soprattutto per questa ragione: l’articolo 3 del decreto 16 marzo 1946 stabilisce che durante il periodo della Costituente e fino alla convocazione del nuovo Parlamento, che sarà creato dalla nuova Costituzione, il potere legislativo resta delegato – salvo la materia costituzionale – al Governo.

Ora, alla proroga dei lavori dell’Assemblea Costituente è connessa la proroga dei poteri del Governo, poteri di indole legislativa, che non possono essere discussi senza, ripeto, che sia presente il Governo.

Occorre quindi che la mozione dell’onorevole Giannini sia inscritta nell’ordine del giorno d’accordo con il Governo per modo che la discussione avvenga in maniera esauriente e completa.

Noi non intendiamo esprimere in questo momento il nostro pensiero politico sulla proroga della Costituente; siamo però favorevoli ad abbreviare per quanto sia possibile i lavori dell’Assemblea Costituente: riteniamo cioè un dovere sopprimere tutte quelle ridondanze di discussioni che possano turbare il sollecito andamento dei lavori. Ma crediamo che questo non sia ancora il momento per decidere la proroga della Costituente, perché con riduzioni adeguate, logiche e sensate che si possono fare della discussione, possiamo raggiungere i tempi necessari che sono stabiliti dalla legge.

Orbene, a questo proposito mi domando se le proposte fatte dagli onorevoli Scoccimarro, Barbareschi, Mastino Gesumino e Grassi siano adeguate allo scopo che si vuole raggiungere.

Io ritengo che non lo siano. Non è che io intenda proporre emendamento a queste proposte che, non so perché, sono venute all’Assemblea in questa forma, dirò così, alquanto rudimentale. L’Assemblea può sempre modificare il proprio Regolamento, che è quello della Camera dei Deputati prefascista, perché l’Assemblea, come ogni Camera, è sempre padrona del proprio Regolamento; ma mi sembra che si tratti di proposte che la Giunta del Regolamento dovrebbe esaminare per conto suo e presentare all’Assemblea in quella forma regolare che è stabilita dal Regolamento.

Non voglio perder tempo. Faccio semplicemente osservare che ogni modifica di regolamento deve essere contenuta entro i limiti indispensabili per salvaguardare i diritti dei Gruppi di minoranza.

Ora vi sono alcune proposte che non salvaguardano, a mio avviso, abbastanza i diritti delle minoranze. L’articolo 86 del Regolamento indica la possibilità che una discussione generale di un disegno di legge possa essere divisa in discussione per parti e per titoli. Noi abbiamo stabilito, in una deliberazione precedente, di fare la discussione per titoli. Ci siamo però accorti, se non sbaglio, che la discussione per titoli prende uno sviluppo eccessivo, mentre se noi avessimo limitato la discussione generale sulla prima parte della Costituzione e poi ci fossimo riservati di far a suo tempo la discussione generale della seconda parte, avremmo probabilmente abbreviato la discussione. Se noi ora sopprimiamo la discussione per titoli, non facciamo alcuna offesa al Regolamento, perché il Regolamento dispone che la discussione può essere anche fatta semplicemente per parti. Sarei pertanto dell’avviso di abbandonare il sistema della discussione per titoli per tutto quello che rimane da discutere del progetto di Costituzione e di fare invece soltanto la discussione per parti. Il che vorrebbe dire abbandonare la discussione dei titoli quarto e quinto della prima parte, e fare invece la discussione generale della seconda parte, senza fare la discussione separata per titoli di questa seconda parte. Circa la partecipazione a questa ultima discussione generale, la libertà di intervento dei deputati dovrebbe essere completa, giacché contro eventuali eccessi vi sono già nel Regolamento i mezzi idonei per evitarli e vi può essere anche la disciplina dei gruppi. Una notevole quantità di deputati accusa la Commissione dei settantacinque di avere «perduto del tempo». Io credo che non sia esatto dire «perduto del tempo»; abbiamo impiegato del tempo, quello che era necessario per potere sottoporre all’Assemblea un progetto meritevole di essere discusso, come di fatto lo è, in questa Assemblea e dalla pubblica opinione che comincia soltanto ora a interessarsi seriamente, nella stampa quotidiana, nelle riviste e nei periodici, della Costituzione. Per regolare pertanto in modo più proficuo e sollecito i nostri lavori per l’approvazione della nuova Costituzione, dobbiamo attenerci al Regolamento e non porre con una nuova disposizione limiti agli interventi nella discussione in rapporto alla importanza numerica dei Gruppi.

Questo ultimo potrà essere un criterio al quale potranno ispirarsi i Gruppi internamente, ma non deve diventare una rigida norma di regolamento. Quindi è proprio soltanto dalla disciplina dei Gruppi e dalla disciplina e sensibilità degli stessi deputati che potremo efficacemente ottenere un più contenuto sviluppo dei nostri lavori.

Mi sia consentito di rilevare che due eccezioni si potrebbero fare al metodo della discussione generale per parti.

La prima eccezione riguarda il titolo III della prima parte e la seconda il titolo V della seconda parte. Il titolo terzo disciplina i rapporti economico-sociali. Credo che questa sia la parte più interessante della Costituzione, per i principî che vi si affermano, che non abbiamo visto inseriti così ampiamente in vecchie e recenti Costituzioni d’Europa.

E siccome questi principî rappresentano le direttive della nostra futura vita nazionale, è opportuno che siano discussi e approfonditi con la necessaria ampiezza perché l’Assemblea affermi chiaramente il proprio pensiero, dopo che tanto chiaramente lo ha affermato la Commissione dei settantacinque.

La seconda eccezione riguarda il titolo che contiene le disposizioni sulla Regione. È questo il secondo lato veramente nuovo del progetto di Costituzione. Esso merita di essere approfondito in tutti i suoi molteplici aspetti. Su alcuni punti vi è forte controversia fra i Gruppi parlamentari e fra le correnti dell’opinione pubblica. Vi sono nel progetto disposizioni che possono essere eliminate senza che la creazione della Regione ne riceva menomazione.

Mi sia infine consentito di dire una parola soltanto su quanto ha detto l’onorevole Giannini. Egli ha affermato che il lavoro fatto dalle Sottocommissioni deve essere completamente capovolto. L’onorevole Giannini ha un mezzo molto semplice, se vuole ridurre gli articoli del progetto, deve chiedere, e può chiederlo ogni volta che se ne presenti l’occasione, la soppressione, o proporre altri testi che abbiano forme stilistiche più snelle, più sintetiche. La Commissione dei settantacinque ha fatto del suo meglio e le Sottocommissioni hanno lavorato intensamente. Possono aver lavorato bene oppure meno bene, ma hanno di fronte al Paese adempiuto al dovere di presentare uno schema di Costituzione, sul quale tutti, qui e fuori di qui, possono esprimere il loro libero e motivato parere. La Commissione del resto ha indicato una nuova struttura dello Stato, che è il punto centrale e più decisivo del progetto: questa struttura bisognerà discutere attentamente e con ogni larghezza se vogliamo che gli istituti che la compongono riescano ben congegnati ed equilibrati perché siano praticamente utili al migliore svolgimento della vita politica del nostro Paese. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. In attesa di metterci d’accordo sulla questione più ampia, cerchiamo ora di arrivare ad una decisione relativa al metodo di lavoro.

Voci. Chiusura! Chiusura!

PRESIDENTE. È stata chiesta la chiusura. Domando se è appoggiata.

(È appoggiata).

Si intende che, approvando la chiusura, gli iscritti a parlare, che sono ancora cinque o sei, decadono da questa facoltà. (Commenti).

MACRELLI. Non è esatto.

PRESIDENTE. Onorevole Macrelli, ella, da vecchio parlamentare quale è, non dovrebbe cadere in questi equivoci. Si era deciso di fare diversamente alla Consulta, ma noi ci atteniamo al Regolamento della Camera dei Deputati, secondo il quale chiusura significa decadenza dalla facoltà di parlare.

Pongo in votazione la proposta di chiusura. (È approvata).

Poiché non abbiamo un testo ufficiale, e non esiste una Commissione che lo abbia esaminato, credo che dobbiamo prendere come base la proposta inizialmente depositata alla Presidenza a firma degli onorevoli Barbareschi, Scoccimarro, Mastino Gesumino e Grassi. Vi è prima però da decidere circa la questione posta all’Assemblea dal documento presentato dall’onorevole Giannini e da numerosi altri colleghi. Credo però che essa non possa trovare una soluzione a conclusione di questo dibattito. È stato fatto presente, da alcuni colleghi che hanno parlato, che questo esige la partecipazione del Governo e d’altra parte, come problema politico investe un più ampio campo della discussione.

Credo che è per questo che i colleghi che hanno parlato hanno appena sfiorato l’argomento, perché hanno avvertito l’esigenza di un esame più approfondito. (Commenti).

Prego l’onorevole Giannini di accettare questa impostazione. Il documento che egli ha depositato dovrebbe, data la sua forma, trovare assolutamente in questa seduta una decisione. Ma l’argomento necessita di una discussione più approfondita, che ha gravi aspetti politici e giuridici. L’onorevole Giannini mi autorizzi, la prego, a tenere in riserva la sua proposta, salvo a riproporla dopo che l’Assemblea abbia deciso sul metodo dei propri lavori.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. È appunto in considerazione di quanto lei ha esposto in questo momento, che la compilazione di questo nostro documento è stata tenuta volutamente in modo generico, per sentire i colleghi di qualunque parte dell’Assemblea, tanto è vero che, se non ho mal compreso, anche l’onorevole Scoccimarro non si è trovato affatto lontano da questo che era il nostro criterio e cioè che la Costituente possa e debba esaurire i lavori nel termine prefisso. Però, signor Presidente, poiché lei mi assicura che questo ordine del giorno potrà essere rimesso in discussione, io non posso che inchinarmi alla sua volontà perché non intendo farle scortesia; ma esprimo il desiderio che sia ripreso in esame in forma di mozione e con la sicurezza che sarà discusso.

PRESIDENTE. Onorevole Giannini, qualora io per dimenticanza non riproponessi la questione all’Assemblea, lei può sempre ripresentarla sotto forma di mozione.

GIANNINI. La ringrazio.

GULLO ROCCO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GULLO ROCCO. Mi permetto di dissentire dal criterio che è stato esposto circa l’ordine della votazione perché, a parer mio – e potrei sbagliarmi – l’ordine del giorno a firma mia e degli altri colleghi dovrebbe avere la precedenza sulle altre proposte, in quanto ha un valore sostanziale, se non formale, di pregiudiziale. E questo ho anche indicato nelle parole che ho detto, in quanto ho sostenuto che la proposta Barbareschi, Scoccimarro ed altri fosse contraria al Regolamento. E sono in questo d’accordo con l’onorevole Fuschini circa la possibilità di arrivare a dare un ordine ai nostri lavori attraverso la forma normale di modifica del Regolamento.

Ora, io penso che non soltanto per questo valore di pregiudiziale, ma per il fatto che esso è soppressivo delle proposte fatte, dovrebbe avere la precedenza il mio ordine del giorno, il quale eliminerebbe ogni discussione sulle altre due proposte. Nel caso che non fosse approvato ritengo che dovrebbe essere posta ai voti subito dopo la proposta Persico.

PRESIDENTE. Onorevole Gullo, se lei non avesse avuto impazienza e se si fosse fidato della mia imparzialità, avrei detto io stesso le stesse cose. Ho infatti dichiarato che la proposta Barbareschi dovrà essere presa come base; il che significa che, come per un disegno di legge, si sarebbero dovuti esaminare e votare dapprima gli emendamenti, e, innanzi tutto, l’emendamento soppressivo. Pertanto, la ringrazio di aver esposto all’Assemblea ciò che avrei detto io successivamente.

GULLO ROCCO. Chiedo scusa.

PRESIDENTE. Dicevo dunque, egregi colleghi, che la proposta Barbareschi, Scoccimarro, Mastino Gesumino e Grassi dovrà essere presa come base in questa nostra discussione.

Devo anzitutto porre in votazione l’ordine del giorno presentato dagli onorevoli: Rocco Gullo, Canepa, Rossi Paolo, Di Giovanni, Nasi, Lami Starnuti, Morini, Bennani, Canevari, Mazzoni, Taddia, Bocconi, Persico:

«L’Assemblea Costituente, conscia del grave e solenne suo compito, non ritiene di dover introdurre particolari limitazioni all’ordine delle discussioni nel momento stesso in cui viene in esame la parte essenziale del progetto; e lascia all’interna disciplina dei suoi membri l’impegno di mantenere la discussione in termini di sobrietà, con rigido rispetto del regolamento esistente».

Su questo ordine del giorno è stata chiesta la votazione a scrutinio segreto dagli onorevoli Gullo Rocco, Di Giovanni, Di Gloria, Morini, Persico, Bocconi, Costantini, Canepa, Zanardi, Veroni, Lami Starnuti, Bennani, Paris, Nasi, Villani, Corsi, Mazzoni, Calosso, Tremelloni, Rossi Paolo, Cairo, Cevolotto.

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Avrei chiesto la parola per una dichiarazione di voto; ma dopo la richiesta di votazione segreta vi rinunzio.

GRONCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Avevo intenzione di parlare per chiarire la posizione che noi assumiamo di fronte all’ordine del giorno dell’onorevole Rocco Gullo e colleghi; ma, dopo la richiesta di scrutinio segreto, è evidente che una dichiarazione di voto potrebbe sembrare, almeno regolamentarmente, paradossale.

PRESIDENTE. A rigore di termini non c’è nessun articolo di Regolamento che vieti le dichiarazioni di voto quando vi siano votazioni a scrutinio segreto. Ero tenuto a chiarire questo principio dopo la dichiarazione dell’onorevole Gronchi.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Io ritengo che la dichiarazione di voto sia sempre permessa: è una garanzia, a cui non si può rinunciare. Se molti votano con le due palline in mano, in modo da farle vedere, non sembra giustificato che si possa proibire, a chi voglia farla, quella dichiarazione.

In secondo luogo, vi è una tale connessione fra le tre proposte che una dichiarazione di voto si dovrebbe permettere per tutt’e tre; perché tra l’estremo di dire che le cose debbano continuare come prima e l’altro estremo di quella specie di ordine del giorno, che potrebbe essere qualificato – se il termine non è troppo forte – «a ghigliottina», «a capestro», che sarebbe l’ordine del giorno con le quattro firme, vi sono tante vie di mezzo. Quindi la mia opinione, contenendomi nei termini del Regolamento, è: 1°) che siano permesse dichiarazioni di voto, anche se c’è lo scrutinio segreto. Non c’è nessuno articolo che le vieti, e neppure nessuna ragione; 2°) che le dichiarazioni di voto si facciano ora su tutt’e tre le proposte, ed io mi riservo di chiedere la parola su tutt’e tre.

PRESIDENTE. L’onorevole Orlando Vittorio Emanuele ha facoltà di parlare per dichiarazione di voto.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Farò una brevissima dichiarazione di voto. Primo punto: vi è un mandato, che noi violiamo? Violiamo noi il nostro mandato, se non restiamo nei limiti prescritti dalla legge? Secondo me, no. Noi non violiamo alcun mandato. Che il rapporto tra la Camera, ossia l’Assemblea eletta, e gli elettori, o l’insieme degli elettori, sia un mandato, io non l’ho mai creduto, e continuo a non crederlo: non c’è un rapporto di mandato, e credo che questa sia, nel diritto costituzionale, una questione superata. Ciò io sostenni già quando vigeva lo scrutinio uninominale, in un’epoca, cioè, nella quale era possibile avvicinarsi di più all’ipotesi del mandato; ma, oggi poi, con lo scrutinio di lista e con la rappresentanza proporzionale, proprio non saprei dove si possa più andarlo a trovare questo mandato. Mandato, dunque, non v’è; e sotto questo riguardo, non violiamo nulla.

Che cosa, invece, c’è? C’è, indubbiamente, una competenza: fare la Costituzione. Questa competenza è affidata ad un organo, come sempre avviene, e quest’organo è una Assemblea, che deve esercitare la sua funzione e che è stata nominata per tale scopo.

Questa è la maniera con cui io mi pongo il quesito: noi abbiamo avuto affidato dalla legge, e non già dal mandato elettorale, il compito di fare una Costituzione, e di farla entro un termine stabilito.

Certamente, si pone innanzi tutto la seguente questione: possiamo noi giuridicamente sorpassare il termine? Senza dubbio, sì. E ciò, appunto perché, se così non fosse, chi la farebbe allora una legge di tal genere? Se versassimo, in ipotesi, in uno stato di impossibilità – ad impossibilia nemo tenetur – che cosa faremmo? È evidente che ci debba essere la maniera di uscirne. Vi è il precedente italiano della proroga di un anno di quella legislatura, che fece la guerra 1915-18. Allora, c’era un termine; e questo termine era imposto dallo Statuto, non – come nel caso nostro – da una legge – che, poi, di fatto, non è che un decreto legislativo semplicemente –: ebbene, l’Assemblea si ritenne allora autorizzata a prorogare i suoi poteri sotto l’impero di una ragione di necessità.

E, se non vi basta il precedente italiano, vi sono i due precedenti inglesi: la Camera dei Comuni, che pure è assai più rigorosa di altre nell’osservanza di queste norme, tuttavia prorogò, una prima volta, la legislatura della guerra 1915-18, ed una seconda volta quella di questa guerra ultima. Dunque, il potere lo abbiamo: il che, però, non vuole significare, senz’altro, che dobbiamo usarlo.

Vi è una questione affidata al nostro giudizio, al giudizio dell’Assemblea. Da un lato, sta il termine: esso mi impone non legislativamente, ma perché fu voluto, perché la lotta elettorale si combatté su questa piattaforma; mi impone non già per il mandato, bensì per l’osservanza di un impegno politicamente preso. Ma, da un altro lato, noi ci metteremmo in contradizione con noi stessi, qualora l’Assemblea decretasse la propria fine senz’avere assolto lo specifico compito con tanta solennità affidatole.

Vorrei restare nei limiti della dichiarazione di voto; ma mi permetto di aggiungere ancora qualche considerazione. Ci sono o non ci sono scusanti di questa nostra situazione presente? Perché siamo arrivati a questo stato di cose? Colpe ce ne sono; ma qualche scusante, forse, non manca. Io, in altra occasione, ebbi a dire che questa Assemblea non è già che abbia discusso troppo, secondo me; anzi, in un certo senso, essa ha forse discusso troppo poco. Il suo torto – come allora dimostrai – è stato quello di aver voluto approvare in cinque sedute cinque leggi, e leggi di quale importanza! Mi basti ricordare che abbiamo fatto la legge sull’istruzione, abbiamo fatto la legge sulla sanità pubblica, abbiamo fatto la legge che regola i rapporti familiari. Tutto questo, dunque, abbiamo fatto, e l’abbiamo fatto piuttosto precipitosamente, se vogliamo essere sinceri. Ciò si poteva evitare, ed in tal senso io ho fatto quello che ho potuto. Ma ormai lo stato delle cose è quello che è: non ci illudiamo, e piuttosto guardiamo in faccia la situazione. La necessità della proroga s’impone. Certo, io non manco di rendermi conto dei voti di coloro, i quali ancor meno per l’osservanza del termine che per il sentimento di rifarsi direttamente a quella che è la sorgente democratica del potere, cioè l’appello al popolo, la proroga non vogliono.

Sotto questo aspetto, una tale opinione può meritare rispetto; ma, d’altro lato, possiamo noi dire seriamente di dare al Paese una Costituzione, qualora si adotti l’emendamento dalle quattro firme? Io francamente dico che, in tal caso, saremmo costretti a dichiarare, che noi non discutiamo la Costituzione, perché, mentre la prima parte del progetto non contiene che dichiarazioni, definizioni, enunciazioni di principî, la vera e propria Costituzione sta nella seconda parte; e sarebbe proprio questa seconda parte che noi voteremmo senza discussione generale. Or, francamente, lasciatemi dire che questo non è serio. (Approvazioni).

Noi dobbiamo scegliere fra due fallimenti: o il fallimento dell’inosservanza della data o il fallimento di non dare al Paese veramente la Costituzione. Ebbene, per conto mio, preferisco la prima cosa; la Costituzione la dobbiamo dare e, per darla, la dobbiamo discutere. (Vivi applausi).

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Non ho potuto raccogliere il Comitato di redazione; ho sentito però alcuni colleghi che sono d’accordo con me. Ad ogni modo, la mia dichiarazione valga come dichiarazione personale che sento l’obbligo di fare, specialmente dopo che in quest’Aula sono suonate le parole altissime di Vittorio Emanuele Orlando, e debbo fare dichiarazioni contrarie, perché non desidero che l’Assemblea si assuma così grave responsabilità di fronte al Paese.

Dichiaro innanzitutto che non aderisco all’ordine del giorno dell’onorevole Gullo. Era in esso adombrato un motivo che venne poi svolto dall’onorevole Corbino e da altri colleghi. Ed è questo: con rettifiche regolamentari, o subregolamentari, o pseudo regolamentari, non si otterrà alcun risultato; i ritardi si possono spostare nell’altra metà, cioè nella discussione degli emendamenti.

È vero, ma io faccio un ragionamento molto semplice: con la proposta dell’onorevole Barbareschi, la cura non sarà completa; sarà una cura a metà; ma perché dobbiamo rinunciare a questa prima parte della cura? Vi sarà anche l’altra; se ci metteremo sulla via di quella disciplina dei gruppi che è stata qui invocata da tutti, dall’onorevole Gullo all’onorevole Corbino.

Di autodisciplina, dei deputati e dei Gruppi, c’è bisogno per adempiere il nostro mandato. Il Comitato di redazione, oggi, non funziona più; anche per ragioni di tempo; è vero; è difficile che funzioni con tre sedute di Assemblea al giorno; ma vi sono anche ragioni d’altro ordine; e qui si potrebbe invocare l’autodisciplina. Ridiamo efficacia al Comitato.

DI GIOVANNI. E i settantacinque?

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. I settantacinque hanno dato pieno mandato ai diciotto: nessuna difficoltà del resto di riconvocare, se lo si desidera, la Commissione plenaria. Norme nuove di procedura ed autodisciplina nell’attuale sono necessarie per rendere più efficiente e fruttuoso il metodo di discussione. Voglio fermare rapidissimamente, in due minuti, l’attenzione su ciò che avviene qui. Facciamo lavorare un’Assemblea di 550 persone come un comitato tecnico di formulazione di articoli e di norme costituzionali.

È possibile ciò? Io lo domando. Anche per le leggi è risuonato, poco tempo fa, il grido nella Costituente francese che il Parlamento non può discuterne ed elaborarle così minutamente.

Dalle assemblee di popolo, nelle democrazie dirette, si era passati al Parlamento per la funzione legislativa. Si avverte ora la difficoltà di questa funzione anche pel Parlamento. Gli altri Paesi si mettono sopra una via di decentramento legislativo, nel senso che le leggi si limitano a stabilire i principii e le direttive, da svolgere poi in altra sede. Ad ogni modo, se i Parlamenti discutono le leggi ordinarie articolo per articolo, non fanno così per i Codici, di cui delegano la formazione a commissioni ed organi competenti. Direte che la Costituzione è una cosa che non può essere delegata, che deve approvarsi articolo per articolo. Ma appunto per questo, che è non rinunciabile diritto e dovere dei costituenti, bisogna invocare l’autodisciplina; se no, non riusciremo a nulla.

Che cosa è avvenuto qui? Si è entrati nei più minuti particolari; con una pioggia di emendamenti spesso formali; se ne parla, se ne discute, con un tecnicismo minuto che non è applicabile in un’Assemblea di 550 persone. Nessuna Costituente, né la tedesca di Weimar, né quella recente francese, ha discusso le carte costituzionali con tale metodo. Al profilo tecnico si aggiunge il politico: sono inevitabili gli urti di partiti: perché la Costituzione è un supremo atto politico; ma dovrebbero limitarsi ai punti essenziali; e svolgersi con ordine e responsabilità; non con improvvisazioni e ripicchi. Fatto sta che siamo arrivati ad appelli nominali e scrutini segreti anche per parole e semicomma. In nessuna Costituente è avvenuto ciò.

Io non voglio sottrarre all’Assemblea quella che è una sua indefettibile prerogativa: esaminare, decidere, approvare articolo per articolo. Ma ho sentito tante volte esaltare ed invocare l’autodisciplina (dall’onorevole Gullo, dall’onorevole Corbino, da tutti quanti), che debbo ripetere anch’io questa ormai abusata parola, e chiedere che diventi realtà. Il primo passo è votare queste norme limitative… (Commenti).

Dobbiamo farlo, ed essere sinceri; dobbiamo scegliere fra due vie: la proposta dell’onorevole Giannini di dichiarare illegale ogni proroga dei nostri poteri oltre giugno; (ed è giuridicamente inesatta, anche se non dobbiamo addivenire alla proroga); e la proposta dell’onorevole Rocco Gullo, che, nel respingere ogni acceleramento di discussione, adombra un desiderio, se non una decisione implicita di proroga. Fra le due vie dobbiamo prendere la giusta; far di tutto per rendere più rapidi i nostri lavori.

Ho finito. Vorrei soltanto dire una parola rispettosa all’onorevole Orlando. Io gli sono profondamente devoto, ma non posso tacergli che la sua adesione – che tale è in sostanza – alla proroga mi ha addolorato. Che egli mi perdoni! Non si è, come io ho fatto, lavorato da dieci mesi, giorno per giorno, faticosamente a questo schema di Costituzione, senza avere il diritto di denunciare i pericoli di questo metodo di discussione e, se così continua, di un inevitabile rinvio. Non difendo il testo com’è. Ho chiuso la mia relazione qui col fervido voto che voi lo modifichiate e miglioriate. Ma siete sicuri che il risultato di questo modo di discutere sia un miglioramento?

L’onorevole Orlando sa che io vagheggiavo una Costituzione breve, semplice, chiara; di norme giuridiche; che rimandasse ad un preambolo di ampio respiro le direttive etico-politiche. La mia idea non è prevalsa; si è ritenuto di fare una Costituzione che contenesse anche linee e criteri programmatici, sociali ed economici. E sta bene. Anche questa soluzione si spiega e giustifica in questo clima storico. Ho continuato a lavorare, con fervore e fedeltà. L’opera nostra venne compiuta, ed ha una sua linea ed un suo stile. I critici troveranno che non è un vero quadro; ma un mosaico; che talvolta però, come a San Pietro, si confonde col quadro. Ora, nella discussione, si rimuovono i pezzetti di mosaico, e si sostituiscono con altre pietruzze, senza guardare all’insieme. È un miglioramento?

Volete la proroga? Ma guardate fuori di qui. Guardate al Paese che attende uno sforzo decisivo di ricostruzione economica e finanziaria. Nessuno sforzo per la nostra salvezza in economia e finanza è possibile, senza che vi sia fiducia. All’interno e all’estero. A conquistare la fiducia concorrono anche il metodo e l’impegno del nostro lavoro. (Commenti). Se renderemo il nostro lavoro rapido ed efficiente, daremo una prova che può essere decisiva per la democrazia (Commenti).

L’onorevole Orlando ha parlato di fallimento. Fuori di qui, verso l’Assemblea, sale il malcontento e si accentua il distacco del Paese. Il fallimento, l’incapacità di darci una Carta costituzionale, può essere qualcosa di più: un fallimento per la democrazia. (Applausi).

GIANNINI. Allora deve accettare il mio ordine del giorno.

GRONCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Sarò veramente brevissimo, e mi pare di averne già dato prova. Noi siamo contro la proposta, che in fondo è una pregiudiziale, dell’onorevole Rocco Gullo. Si potrà discutere se le misure elencate nella proposta Barbareschi, Scoccimarro ed altri siano le più adatte a raggiungere lo scopo, siano troppo o troppo poco restrittive; ma conveniamo su questo punto: essere politicamente utile ed opportuno, per la stessa posizione di questa Assemblea di fronte all’opinione pubblica, che noi, senza soffocare i lavori di studio e di discussione della Costituzione, ne affrettiamo il corso il più possibile. Probabilmente la situazione di fatto che si presenta all’Assemblea prelude a modifiche di Regolamento che appariranno necessarie alla procedura, dirò così, funzionale di un’Assemblea moderna, che non rappresenta più atomisticamente delle individualità, ma piuttosto quelle grandi collettività politiche che sono i partiti. (Commenti). Il che imporrà probabilmente, non solo per la questione che oggi consideriamo, ma per lo stesso normale funzionamento legislativo, qualche misura che valga non a soffocare la libertà di discussione, ma a disciplinarla e perciò a renderla concreta ed efficiente.

Ecco la ragione per cui noi siamo contro la pregiudiziale e ci riserviamo, semmai, di esaminare l’opportunità maggiore o minore delle singole misure proposte.

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione a scrutinio segreto dell’ordine del giorno Gullo Rocco e altri.

Si faccia la chiama.

MOLINELLI, Segretario, fa la chiama.

(Segue la notazione).

Presidenza del Vicepresidente PECORARI

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione.

Invito gli onorevoli Segretari a procedere al computo dei voti.

(Gli onorevoli Segretari procedono al computo dei voti).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto:

Presenti e votanti     348

Maggioranza           175

Voti favorevoli        172

Voti contrari             176

Faccio presente che nell’urna bianca sono state trovate 350 palline, mentre i votanti risultano essere 348. Molto probabilmente qualche collega ha posto le due palline nella stessa urna. Questo, peraltro, non sposta la maggioranza contraria all’accettazione dell’ordine del giorno dell’onorevole Rocco Gallo.

Credo di poter concludere nel senso che l’Assemblea non approva l’ordine del giorno.

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Vorrei sapere se nell’altra urna si sono trovate due palline in meno.

PRESIDENTE. Nell’urna nera sono state, infatti, trovate due palline in meno.

BENEDETTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BENEDETTINI. Chiedo se, data la circostanza che l’onorevole Presidente ha rilevato, sia opportuno rifare la votazione. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Benedettini, vi è una disposizione del Regolamento che prevede per l’appunto questo caso.

Il secondo comma dell’articolo 106 dice:

«Quando però si verificassero irregolarità, e segnatamente se il numero dei voti risultasse superiore in qualche urna al numero dei votanti, il Presidente, apprezzate le circostanze, potrà annullare la votazione e disporre che sia tosto rifatta».

Sta dunque al Presidente di valutare le circostanze, e poiché, pur tenendo conto della irregolarità riscontrata, il risultato della votazione non muterebbe, non ritengo di dover far ripetere la votazione.

Hanno preso parte alla votazione:

Abozzi – Adonnino – Alberti – Allegato – Ambrosini – Andreotti – Angelucci – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Avanzini – Azzi.

Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Bargagna – Barontini Ilio – Basile – Basso – Bastianetto – Bazoli – Bei Adele – Bellato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedetti – Benedettini – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bemamonti – Bertini Giovanni – Bianchi Costantino – Bianchini Laura – Bibolotti – Binni – Bocconi – Bonfantini – Bonino – Bonomelli – Bonomi Paolo – Borsellino – Bosco. Lucarelli – Bovetti – Braschi – Bubbio – Bucci.

Caiati – Cairo – Calosso – Camangi – Camposarcuno – Candela – Canevari – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Caprani – Capua – Carbonari – Carboni – Caristia – Caroleo – Carpano Maglioli – Carratelli – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavallari – Cevolotto – Chatrian – Chiaramello – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Corsi – Corsini – Cortese – Costa – Costantini – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo.

Damiani – D’Amico Michele – D’Aragona – De Caro Gerardo – De Falco – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Vita – Di Fausto – Di Giovanni – Dominedò – D’Onofrio – Dossetti – Dugoni.

Fabbri – Fabriani – Faccio – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Farini Carlo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Flecchia – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschini – Froggio – Fuschini.

Gabrieli – Galioto – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gatta – Gavina – Germano – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghidini – Giacometti – Giannini – Giolitti – Giordani – Giua – Gorreri – Gotelli Angela – Grassi – Grieco – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Rocco.

Imperiate – Iotti Leonilde.

Jacini – Jacometti.

Laconi – La Gravinese Nicola – La Gravinese Pasquale – La Malfa – Lami Starnuti – Laudi – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Lettieri – Li Causi – Lizier – Lombardi Riccardo – Longo – Lucifero – Lupis – Lussu.

Macrelli – Maffi – Maffioli – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mancini – Mannironi – Marazza – Mariani Enrico – Marinaro – Martinelli – Martino Gaetano – Marzarotto – Massola – Mastino Gesumino – Mastino Pietro – Mattarella – Matteotti Carlo – Mazza – Mazzei – Mazzoni – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merighi – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angiola – Minio – Molinelli – Montagnana Mario – Monterisi – Monticelli – Montini – Morandi – Morelli Renato – Morini – Moro – Mortati – Moscatelli – Murgia – Musolino – Musotto.

Nasi – Negarville – Nenni – Nobili Oro – Noce Teresa – Notarianni.

Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.

Pacciardi – Pallastrelli – Paratore – Paris – Pat – Pecorari – Pellegrini – Pera – Perassi – Perlingieri – Perrone Capano – Persico – Petrilli – Piccioni – Ponti – Preti – Priolo – Proia – Pucci – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Raimondi – Ravagnan – Reale Vito – Recca – Rescigno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rognoni – Romano – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Rubilli – Ruggeri Luigi – Ruini – Russo Perez.

Saccenti – Salerno – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sardiello – Scarpa – Schiavetti – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Secchia – Sereni – Siles – Silipo – Spano – Stella – Sullo Fiorentino.

Taddia – Tambroni Armaroli – Taviani – Tega – Terranova – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tomba – Tonello – Tonetti – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valmarana – Venditti – Vernocchi – Veroni – Vicentini – Vigo – Vigorelli – Villabruna – Villani – Volpe.

Zaccagnini – Zanardi – Zotta – Zuccarini.

Sono in congedo:

Aldisio – Angelini – Arata.

Bernardi – Bettiol – Boldrini – Bordon – Bulloni.

Cartia – Cavallotti – Codignola – Cosattini – De Caro Raffaele.

Falchi – Fedeli Aldo

Gortani – Grilli.

La Pira – Lombardo Ivan Matteo.

Nicotra – Negarville.

Parri – Pellizzari – Penna Ottavia – Pignedoli.

Rapelli – Rumor – Roselli.

Silone – Simonini.

Treves.

Vigna – Vinciguerra.

Zerbi.

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’onorevole Benedetti ha presentato la seguente proposta:

«L’Assemblea invita la Giunta per il Regolamento a proporre le modificazioni da apportarsi al metodo della discussione».

Dato il suo contenuto, questa proposta deve esser posta in votazione con precedenza.

MAZZONI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MAZZONI. Noi del Gruppo del Partito socialista dei lavoratori italiani ci associamo alla proposta dell’onorevole Benedetti.

FUSCHINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FUSCHINI. Aderiamo alla proposta dell’onorevole Benedetti, che riteniamo la più logica.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta dell’onorevole Benedetti.

(È approvata).

Con ciò s’intendono decadute tutte le altre proposte.

Il seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana è rinviato a domani.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro dell’interno, per sapere come il Governo intenda sanare la Sicilia dalla mafia.

«Natoli».

Al Ministro dell’interno e delle finanze e tesoro, 1°) per conoscere le ragioni del telegramma ai prefetti in data 23 marzo 1947, n 2110-15700 A. V., col quale, in deroga alla circolare 12 settembre 1946, n. 43097, sezione gabinetto Ministero dell’interno, si vieta l’assegnazione di generi razionati agli enti comunali di consumo;

2°) per conoscere le ragioni del pregiudizievole ritardo nella concessione della garanzia del 60 per cento a favore di detti enti da parte dello Stato;

3°) per sapere se non credano di precisare che detti enti non debbono andare soggetti alla imposta di ricchezza mobile e tanto meno alla imposta generale sulla entrata, ritenendoli enti di distribuzione e non di scambio.

«Ferrarese, Garlato, Bastianetti, Ponti, Marzarotto, Guariento, Cappelletti».

«Al Ministro, dell’interno, sui fatti che hanno portato all’arresto dei fratelli Antonio e Salvatore Fusaro ed altri di Lecce per traffico d’armi e sui motivi che hanno consigliato l’autorità di pubblica sicurezza di Lecce, dopo un breve interrogatorio, al rilascio dei due Fusaro arrestati in flagranza di reato.

«Grieco».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà a queste interrogazioni nella seduta antimeridiana di lunedì prossimo che, com’è noto, sarà interamente dedicata allo svolgimento delle interrogazioni urgenti.

Sui lavori dell’Assemblea.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Chiedo che sia convocata di urgenza la Giunta per il Regolamento e che nella giornata di domani decida e ci porti la sua proposta. In attesa chiedo che non si inizi la discussione generale sul Titolo terzo del progetto di Costituzione fino a che non siano state discusse e approvate le proposte della Giunta stessa.

GHIDINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GHIDINI. Chiedo se a seguito della votazione avvenuta si debba sospendere l’esame del progetto di Costituzione.

PRESIDENTE. È evidente che, fino a quando non saranno state approvate le modificazioni o le aggiunte al Regolamento, le discussioni dovranno procedere secondo le norme del Regolamento in vigore. Non c’è dubbio che, dopo l’approvazione della proposta dell’onorevole Benedetti, la Giunta per il Regolamento sarà subito da me, che ne sono il Presidente, convocata; ma non è detto, onorevole Scoccimarro, che la Giunta per il Regolamento possa nella giornata di domani, date le varie posizioni oggi manifestate dall’Assemblea, concludere.

SCOCCIMARRO. Si potrebbe rinviare a lunedì la discussione del progetto di Costituzione.

PRESIDENTE. Se io avessi l’assicurazione da tutti i componenti della Giunta per il Regolamento che si giungerà prima di lunedì ad una conclusione, non avrei niente in contrario ad accettare la sua proposta, ma non posso chiedere, a priori, tale impegno. D’altra parte anche avendo cominciato la discussione generale sul terzo Titolo, noi potremo troncarla se l’Assemblea approverà un diverso metodo di lavoro.

Mi si suggerisce di vedere se non sia possibile tenere domani la seduta per le interrogazioni. Ciò dipende dai Ministri.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non mi pare che sia possibile.

PRESIDENTE. Onorevole De Gasperi, vi sono ventidue interrogazioni con carattere di urgenza che risalgono al 15 del mese scorso, alle quali i Ministri forse potrebbero rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. A qualcuna non è possibile rispondere subito. D’altra parte domani si deve riunire il Consiglio dei Ministri e, se si attende all’una, non si può attendere all’altra cosa.

PRESIDENTE. V’è un’altra possibilità aperta. Da parecchi giorni l’esame del disegno di legge sulla cinematografia è in attesa di essere portato a conclusione. Vorrei sapere da coloro che hanno sollecitato il rinvio – che evidentemente non può essere sine die – se ritengono che sia giunto il momento di sciogliere la riserva.

PROIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PROIA. Si potrebbe mettere all’ordine del giorno il disegno di legge sulla cinematografia.

PRESIDENTE. È quello che stavo dicendo io.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. La decisione sul disegno di legge dell’industria cinematografica è urgentissima.

GULLO ROCCO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GULLO ROCCO. Noi tutti ci proponiamo di fare più presto possibile, con o senza modifiche al Regolamento. Poiché è stata fatta una proposta, approvata dall’Assemblea, di rinviare la questione alla Giunta per il Regolamento, noi non ci permettiamo di dare alcun suggerimento, perché sarà lo stesso onorevole Presidente, che è Presidente della Giunta per il Regolamento, a fare ciò che riterrà suo dovere di fare. Però noi chiediamo che l’Assemblea non perda altro tempo, oltre quello che ha già perduto per decidere di abbreviare i lavori. (Commenti – Interruzioni). Domani noi perderemo un altro giorno, perché volendo monopolizzare ciò che non è monopolio di alcuno, cioè il desiderio di fare presto e, aggiungiamo noi, di fare presto e bene, si finisce col perdere tempo. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Gullo Rocco, faccia una proposta!

GULLO ROCCO. La cinematografia ha molta importanza, ma la Costituzione ne ha molta di più. Aggiungo che abbiamo già preparato una proposta con la quale domandiamo – e dobbiamo dirlo oggi, per evitare che sia una sorpresa domani – una sospensiva del disegno di legge sulla cinematografia. Se questa proposta fosse accolta, evidentemente la giornata di domani andrebbe perduta. Noi chiediamo che domani si ritorni a discutere sulla Costituzione, col metodo adottato finora. Se la Giunta per il Regolamento farà altre proposte, e queste saranno accolte, noi fermeremo la discussione al punto in cui sarà arrivata e andremo avanti con il nuovo metodo. (Commenti).

PRESIDENTE. Propongo che domani si tenga una seduta antimeridiana per riprendere l’esame del disegno di legge sull’industria cinematografica.

Nella seduta pomeridiana sarà proseguito l’esame del progetto di Costituzione, secondo il sistema finora seguito, salvo le proposte della Giunta per il Regolamento.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere il modo con cui è stata preparata e si è svolta la dimostrazione dei contadini il 29 aprile in Piazza Prefettura in Potenza, se conosce i paesi di provenienza dei dimostranti, le cause che hanno determinato la manifestazione, il contegno della polizia in tale circostanza.

«Reale Vito».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze e tesoro e dell’interno, per conoscere quando verranno emanate le provvidenze circa il nuovo trattamento di quiescenza ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e se non ritengano equo che il collocamento a riposo di coloro che abbiano anche raggiunto i massimi limiti di età e di servizio venga attuato non prima che le dette nuove provvidenze saranno entrate in vigore. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bellavista».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della difesa, per sapere se è esatto che si intende assegnare un lavoro aeronautico di notevole importanza (che per ragioni tecniche deve essere eseguito nelle adiacenze dell’aeroporto di Capodichino in Napoli) ad una ditta industriale del Nord, non tenendo conto di stabilimenti del genere, esistenti in Napoli, e ormai derequisiti, delle maestranze napoletane in tali lavori specializzate e degli innumerevoli disoccupati che rendono così grave la situazione napoletana. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Salerno, La Rocca».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 21.35.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. – Elezione contestata per la circoscrizione di Salerno (Carmine De Martino). (Documento III, n. 3-bis).
  2. Seguito della discussione del disegno di legge:

Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale (12).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.