ASSEMBLEA COSTITUENTE
cxv.
SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 7 MAGGIO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
indi
DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI
INDICE
Congedo:
Presidente
Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):
Presidente
Della Seta
Taviani
Di Vittorio
Merighi
Spallicci
Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione
Cairo
Interrogazioni con richiesta di risposta urgente (Annunzio):
Presidente
Pella, Sottosegretario di Stato per le finanze
Dominedò
Perugi
Interrogazioni (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 16.
SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.
(È approvato).
Congedo.
PRESIDENTE. Ha chiesto congedo l’onorevole Gortani.
(È concesso).
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Riprendiamo la discussione generale sul Titolo III del progetto.
È iscritto a parlare l’onorevole Della Seta. Ne ha facoltà.
DELLA SETA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, a prescindere dalla specifica valutazione dei singoli articoli, certo questo Titolo III è quello che più conferisce al progetto di Costituzione la nota della modernità. Nota comune ad altre costituzioni di altri paesi d’Europa.
Dopo i rapporti civili ed i rapporti etico-sociali, i rapporti economici. Si è consacrata, in questo progetto, la indissolubile connessione tra l’ordinamento economico e l’ordinamento politico. Si è riconosciuto che se è vero che solo in un regime democratico è dato potere attuare una democrazia del lavoro, è altrettanto vero che la democrazia sarebbe una forma politica priva di contenuto se per essa, quale mezzo atto al fine, non si attuassero riforme realizzanti la giustizia sociale. La repubblica per la repubblica non ha significato alcuno. La figura del cittadino è ormai mutata. Il cittadino non è tale solo in quanto gode di speciali diritti politici, di speciali libertà costituzionali; è tale anche in quanto lavoratore, in quanto cooperatore, come singolo o come associato, al benessere economico della Nazione.
Ho ascoltato, ieri, in quest’Aula, da parte di un collega socialista, rievocare, con commossi accenti, i tempi nei quali quanto oggi è consacrato nel progetto veniva considerato, se non delitto, una grande utopia. Noi repubblicani comprendiamo una tale commozione e la compartecipiamo. Potremmo domandarvi se, resi oggi più sereni e più conoscitori delle nostre dottrine, se voi, dico, socialisti, riconoscete infine, alla vostra volta, che la scuola repubblicana – un Mazzini, un Cattaneo, un Pisacane, un Bovio – una qualche pagina, divinatrice e rivendicatrice, ha scritto sul problema sociale; se riconoscete che le prime nostre consociazioni operaie sono pur state, in Italia, le prime libere organizzazioni di lavoratori. Ma, al di sopra di questi reciproci nostalgici compiacimenti di parte, preferisco, in questo progetto, in questo documento, cogliere la testimonianza di un grande ammaestramento della storia: date rivendicazioni, se oneste, se giuste, non possono, contro tutte le incomprensioni, contro tutti gli egoismi, non possono, lentamente, ma ineluttabilmente, non vedere il giorno dell’auspicato trionfo.
Tralascio, per amore di brevità, talune considerazioni di ordine estrinseco.
Dovrei rilevare una qualche espressione o una qualche norma pleonastica. Occorre proprio, come all’articolo 38, specificare quali economici i beni che appartengono allo Stato, ad enti od a privati? Ed è proprio necessario ricordare in una Costituzione, come si ricorda con l’articolo 37, che ogni attività economica, privata o pubblica, deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali e al benessere collettivo? Né manca una qualche espressione troppo vaga, come quando, nell’articolo 32, si afferma che la retribuzione deve essere adeguata alla necessità di una esistenza libera e dignitosa. Chi sarà il giudice della libertà e della dignità? Criteri morali che, tutto al più, possono relegarsi in un preambolo, ma non essere consacrati lì dove, in una Costituzione, rigidamente si parla di rapporti economici. E non mi domando se, per la esigenza di una più organica sistematica, non sarebbe stato più opportuno raggruppare tutte quelle norme che accennano alle previdenze e alle provvidenze dello Stato, anziché disseminarle, come sono, nel Titolo secondo e nel terzo di questa prima parte del progetto.
Quanto al principio direttivo, cui si è conformata, nel progetto, la disciplina dei rapporti economici, esso non poteva non essere il risultato di un compromesso. Diciamo compromesso non nel senso dispregiativo della parola; ma come espressione logica e storica della risultante media tra le due forze in contrasto. C’è, innegabilmente, la tendenza a porre, in primo piano, di fronte al datore di lavoro, la figura del lavoratore; ma, come negazione delle due soluzioni estreme, dell’assoluto liberalismo individualistico e dell’assoluto totalitarismo collettivistico, si è voluto armonizzare la esigenza di dare il debito valore ai diritti dell’individuo e della iniziativa privata con le esigenze della economia associata e disciplinata, senza escludere, quando il reale benessere della Nazione lo reclami, lo stesso vigile e tempestivo intervento dello Stato.
Ma entriamo nel merito. L’articolo 31 sancisce il diritto al lavoro. Diritto incontestabile, in quanto è il diritto alla vita. Non ad altra fonte l’uomo, normalmente, può attingere per garantire la propria esistenza, se non al lavoro, al lavoro concepito né, come su taluni banchi ho inteso, quale un’espiazione propiziatoria, né, come in regime capitalistico, quale una merce qualsiasi; ma al lavoro eticamente concepito come affermazione della personalità; come primo vincolo di solidarietà nell’opera collettiva; come contributo al benessere materiale e, per esso, indirettamente, anche al bene morale dell’umana consociazione.
Ma, bisogna riconoscerlo, così come consacrato nella Costituzione, questo diritto al lavoro, se non è quel diritto astratto nel quale caddero il Locke e il Montesquieu e Louis Blanc (droit au travail) e la stessa Costituzione francese del 1848, certo rimane come un diritto potenziale, dato che oggi nessuna azione giuridica è dato al cittadino di potere esplicare, sia verso un altro cittadino, sia verso lo Stato; e dato che un rapporto esiste tra la domanda del lavoro (Stato) e l’offerta del lavoro (diritto al lavoro); e dato che la domanda dipende dalle risorse naturali e dal capitale esistente.
Se interpretato alla lettera, questo diritto al lavoro rimarrebbe nella Costituzione come una promessa che lo Stato non può mantenere; promessa pericolosissima. Può rimanere nella Costituzione come un diritto potenziale, cioè come un diritto – e Mazzini e Marx videro profondamente questo – come un diritto che solo potrà avere un concreto riconoscimento quando sarà superato l’attuale ordinamento economico ancora imperniato non sull’associazionismo, ma sull’individualismo capitalistico. Oggi, per non illudere con promesse che non possono essere mantenute, basterebbe forse che fosse detto nella Costituzione: la Repubblica promuove quelle condizioni onde il cittadino, nel lavoro, possa trovare l’equa e dignitosa garanzia della propria esistenza.
Nel secondo comma dell’articolo 31 si afferma, dopo il diritto al lavoro, il dovere del lavoro. Noi vorremmo, in verità, che la società fosse così sanamente costituita da far sentire il lavoro più come una gioia che come un dovere. Ma di fronte alle possibili evasioni è bene ribadire questo dovere. Un dovere, certo, la di cui consapevolezza deriva più da una tempestiva e saggia educazione, che non da un articolo della Costituzione. Ma la norma non poteva non essere consacrata. Se vi sono coloro che vorrebbero lavorare, ma non possono, in quanto non trovano lavoro, subendo i rischi e i danni della disoccupazione, non pochi, purtroppo, in ogni classe sociale, sono coloro che potrebbero lavorare ma non vogliono, per pigrizia innata, per amore dell’ozio, per tendenza al parassitismo. Ora, come non è ammessa la libertà dell’ignoranza e perciò, sino ad una certa età, vi è la obbligatorietà della istruzione, così non è ammessa la libertà dell’ozio e perciò, conforme alle proprie attitudini, vi è il dovere del lavoro. In vera democrazia non v’è che una classe, la classe dei lavoratori. Lavoratori del braccio o della mente, ma lavoratori tutti, tutti contribuenti, con la propria opera, al bene supremo della Nazione. Chi non lavora non mangia, ha detto Paolo ed è ripetuto nella Costituzione sovietica. Noi, con espressione meno grossolana, amiamo ripetere col Maestro: chi non lavora non ha diritto alla vita.
Ma l’adempimento di questo dovere del lavoro può essere la condizione per l’esercizio dei diritti politici?
Il terzo comma dell’articolo 31 risponde recisamente, affermativamente. Noi apprezziamo il valore morale della norma. Il cittadino che alla società, col proprio lavoro, non dà alcun contributo, pone se stesso al bando dalla società di cui è parte. Ma un senso di giustizia impone la massima cautela. Vi sono i vecchi, i malati, gli invalidi, i disoccupati. Sarebbe ingiusto togliere a questi, per il solo fatto materiale del non lavorare, l’esercizio dei diritti politici.
Non ricorderemo che questo terzo comma dell’articolo 31 contrasta con l’articolo 45 del progetto, lì dove si afferma che, essendo il voto un dovere civico e morale, nessuna eccezione al diritto di voto può ammettersi se non per incapacità civile o sentenza penale; ma non si può non far presente che domani il divieto dell’articolo 31 potrebbe divenire, più che un pretesto, un’arma nelle mani del potere esecutivo per limitare, a scopo reazionario, il diritto dell’elettorato e dell’eleggibilità. Bisogna dunque o sopprimere – e sarebbe meglio – questo terzo comma ovvero meglio precisarlo formulandolo: l’adempimento di questo dovere, per chi ne ha la capacità e la possibilità, è condizione per l’esercizio dei diritti politici. Ma noi, ripetiamo, siamo per la soppressione pura e semplice.
Sorvolo sugli articoli 32, 33 e 34. La equa retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro; il diritto del lavoratore al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite; il diritto della donna lavoratrice ad avere, a parità di lavoro – e di rendimento io aggiungerei – le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore; e tutte le previdenze e le provvidenze sociali per gli inabili al lavoro e per chi non ha mezzi necessari alla vita e per i casi di infermità, invalidità, vecchiaia e involontaria disoccupazione, sono queste tutte norme che ormai tendono a far parte della legislazione sociale di ogni paese civile. Sarebbe davvero auspicabile, pel nostro Paese, un codice del lavoro, degno della comprensione che la giusta causa dei lavoratori ha ormai raggiunto tra noi, non solo nei partiti della democrazia, ma anche nelle classi più consapevoli e responsabili.
Abbiamo bisogno di manifestare la nostra piena adesione alla libertà delle organizzazioni sindacali, sancita nell’articolo 35? Negarla sarebbe negare, nel campo sociale, quel diritto di libera associazione che, già nell’articolo 13, è stato riconosciuto per tutti i cittadini.
È libertà tanto per i datori di lavoro, come per i lavoratori; è libertà di poter costituire più sindacati anche per una medesima categoria; è soprattutto libertà interna, come attuazione di una interna democrazia, nel senso che sia permessa agli associati la libera scelta dei dirigenti senza subire la imposizione degli elementi delegati dai partiti.
Noi non condividiamo la preoccupazione che qualche collega socialista ha manifestato circa l’obbligo della registrazione per quei sindacati che intendono assumere una vera personalità giuridica. Ci rendiamo conto, psicologicamente, di questa preoccupazione. Dopo il regime dittatoriale, non poteva non diffondersi uno stato di insofferenza verso lo Stato, di cui si teme la invadenza soffocatrice, una invadenza che, nel caso specifico, tenderebbe a inceppare la vita del sindacato sotto una forma, più o meno larvata, di corporativismo. Comprendiamo tutto questo; ma non possiamo non far presente che, quando diciamo Stato, noi intendiamo uno Stato realmente repubblicano; uno Stato che non può, in tutti i gangli della vita sociale, non portare lo spirito di una sana democrazia; uno Stato quindi che, col riconoscimento, attraverso la registrazione dei sindacati, non vuol menomare, minimamente, l’autonomia interna dei sindacati, ma si propone anzi di più valorizzarli e potenziarli, ad essi conferendo una piena personalità giuridica. Libere associazioni di lavoratori in libero Stato vigilante e cooperante, questa per noi, nel campo sociale, la formula della vera democrazia.
Per quanto riguarda lo sciopero consacrato, nell’articolo 36, come un diritto dei lavoratori, esso è un diritto incontestabile. In sé e per sé esso è un ricorso alla forza; ma, spogliato ormai di quelle forme violenti onde, negli anni lontani, si caratterizzò quando si attuò, esso oggi è una forma civile di lotta per la emancipazione del lavoro.
Si potrebbe discutere se lo sciopero, non essendo, un vero e proprio diritto naturale, ma un mezzo, un metodo di lotta, non ritrovi, pel riconoscimento, la sua propria sede in una legge, in un codice del lavoro, anziché nella Costituzione. È facile rispondere che ciò che con una legge si riconosce può con altra legge essere abrogato; e un nuovo vento di reazione potrebbe domani far considerare lo sciopero come in regime fascista fu considerato, cioè non come diritto, ma come delitto.
Un qualche collega ha voluto fare la distinzione tra sciopero economico e sciopero politico, ammettendo il primo, non legittimando il secondo. Vana distinzione. Ogni sciopero, in quanto astensione dal lavoro, è un fatto essenzialmente economico; ma diverso può esserne il fine. Normalmente si lotta, con lo sciopero, per talune rivendicazioni economiche; ma ciò non toglie che lo sciopero, ad una data ora, possa prefiggersi una data finalità politica. E non saremo noi davvero che lo respingeremo per usarlo, con la debita circospezione, come una valida arma dì lotta in difesa delle pubbliche libertà e contro ogni possibile reazione.
Tutti i lavoratori, si legge nel testo, hanno diritto di sciopero. Tutti? Anche i funzionari dello Stato? Anche gli addetti ai pubblici servizi? Punto oggi molto controverso.
Quanto ai pubblici funzionari, non saprei nascondere il mio grande senso di disagio quando apprendo, ad esempio, il minacciato sciopero dei magistrati o lo sciopero degli insegnanti. Sarà la mia forse una mentalità arretrata, ma così è. È un disagio il mio che non vuol essere, semplicemente, preoccupazione e deplorazione per l’astensione da alte funzioni inerenti alla vita dello Stato, ma è anche condanna di un ordinamento statale, il quale, profittando di un tradizionale dignitoso riserbo di una categoria benemerita di lavoratori, non sa assicurare a questi lavoratori, mentre tanto e tanto in altri campi si sperpera, un trattamento economico adeguato alle funzioni che esercitano e soprattutto alle mutate condizioni di vita. Non bisogna troppo abusare della dignitosa pazienza altrui. La corda a lungo tesa si spezza.
Quanto agli addetti a dati pubblici servizi io sono contro lo sciopero, recisamente. Comprendo lo sciopero dei tramvieri, non comprendo lo sciopero degli infermieri. Date prestazioni di opera implicano grande spirito di sacrificio ed alto senso di responsabilità. Il che non significa che questi lavoratori non debbano essere tutelati nei loro diritti. Io arriverei a concepire, in loro difesa, uno sciopero di solidarietà di altre categorie di lavoratori. Ma certi pubblici servizi, per senso di umanità, non debbono essere abbandonati. Non si può concepire uno sciopero degli infermieri o dei farmacisti. Hanno scioperato una volta anche i becchini. Stavo per dire che talvolta scioperano anche… i deputati (Ilarità).
Concludendo, si deve riconoscere per i lavoratori il diritto di sciopero, ma come un diritto il cui esercizio dai dirigenti responsabili deve essere severamente vigilato e disciplinato. Un diritto ad ogni modo, cui, come extrema ratio, si dovrebbe ricorrere solo dopo un tentativo di conciliazione, dopo il ricorso ad un arbitrato.
DI VITTORIO. Si fa sempre.
DELLA SETA. Concordiamo pienamente col testo della Commissione – articolo 38 – per quanto concerne il diritto di proprietà. Da un lato il riconoscimento di questo diritto che, affermazione pur esso della personalità sul mondo della materia, non può non essere legittimo quando frutto di un lavoro compiuto; dall’altro tutti quei limiti che della funzione sociale della proprietà sono il riconoscimento. Nell’interesse dello Stato i limiti alla successione legittima e testamentaria. Da parte dello Stato, per pubblico interesse, la espropriazione, salvo indennizzo, della proprietà privata.
Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, molto opportunamente l’articolo 41 che, per un più logico coordinamento, dovrebbe seguire l’articolo 38, pone in rilievo i possibili vincoli alla proprietà privata terriera. Questa non può essere illimitata nella estensione, non può sottrarsi ad una eventuale necessaria opera di bonifica, non può essere abbandonata incolta, mantenendo, senza trasformazione, il latifondo e ostacolando quanto invece è da favorire, cioè la piccola e media proprietà.
Per quanto riguarda l’attività produttrice, ben si trovano, nel progetto, riconosciute le tre forme: la iniziativa privata individuale (art. 39); la iniziativa privata collettiva, cioè, la cooperazione (art. 42); nonché la iniziativa esclusivamente. collettiva, cioè la socializzazione (art. 40).
Noi repubblicani siamo troppo assertori di libertà, per non apprezzare, pur nel campo economico, il valore della iniziativa privata, che altro limite non può avere se non il pubblico interesse. E troppo, conforme agli insegnamenti del Maestro, siamo stati e siamo, sempre, caldi fautori del cooperativismo, per non aderire a questa forma, morale e moralizzatrice, dell’attività produttrice e per la quale l’opportuna vigilanza dello Stato – vigilanza diciamo e non tutela – non può limitare quella interna autonomia che è la condizione prima del suo retto funzionamento e del suo sviluppo. Se un qualche riserbo noi abbiamo è per la socializzazione. Riserbo diciamo e non preconcetta avversione. Noi non neghiamo che un qualche complesso industriale possa, per il pubblico interesse, essere socializzato; ma questa socializzazione deve essere suggerita, caso per caso, dalla esperienza e non obbedire ad un piano prestabilito di una radicale e totalitaria pianificazione. In questa pianificazione il cittadino lavoratore e produttore perde pur l’ombra della sua personalità. Molto apprezziamo perciò la grande sobrietà con la quale l’articolo 40 è stato formulato.
Ed apprezziamo anche la sobrietà con la quale è stato formulato l’articolo 43. Si riconosce per esso ai lavoratori il diritto di partecipare alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera, non precisando se a titolo deliberativo o consultivo, tutto rinviando alla disciplina della legge. Anche a prescindere dal carattere superaziendale che taluni di questi consigli vanno assumendo, certo questi consigli di gestione, specie se, come si dovrebbe, si ammettono gli operai alla partecipazione degli utili, segnano un passo notevole per la pacificazione e la collaborazione tra le classi, per quanto, bisogna non dimenticarlo, essi segnano se non una fase, e non l’ultima, nella lotta, ormai secolare, per la emancipazione del lavoro.
Salvo tutte le modalità specifiche, con le quali la legge dovrà precisarla, è superfluo dire che, anche per i riflessi sullo stesso movimento cooperativistico, aderiamo in pieno alla norma sancita nell’articolo 44 e per la quale la Repubblica affida a sé stessa la tutela del risparmio, nonché la disciplina, il coordinamento e il controllo sull’esercizio del credito.
Ho finito. Mi si permetta, a conclusione, un piccolo rilievo. Si dice, all’articolo 41, che la legge intende anche promuovere la elevazione professionale dei lavoratori. Giusta esigenza cui già accennai quando parlai del problema della scuola. Ma questa esigenza non si limita alla elevazione professionale; essa, non meno imperiosa, anzi fondamentale, è anche un’esigenza, attraverso una sana educazione, di elevazione morale. Occorrono scuole, scuole per il popolo, che si prefiggano questa alta funzione educatrice. Da una maggiore educazione morale, che non può non portare ad un senso più raffinato del giusto e dell’onesto, l’operaio non solo trarrà una maggiore consapevolezza ed una disciplina maggiore nella stessa causa per cui, a proprio vantaggio, combatte; non solo si spoglierà, gradualmente, di ogni egoismo di classe e apprenderà, senza odio, quale sia il significato vero delle parole borghese e antiborghese; ma sarà portato soprattutto, a sentire ed a comprendere che la soluzione, conforme a giustizia, del problema sociale non è fine a se stessa; che la vera emancipazione dei lavoratori si avrà quando, assicurate dignitose condizioni economiche di esistenza, anche il lavoratore potrà vivere la vera vita, quella vita che non può essere il privilegio di pochi eletti, quella vita per cui l’uomo è veramente uomo, quella vita onde l’uomo conforta e innalza se stesso alla luce nobilitante dello spirito. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Taviani. Ne ha facoltà.
TAVIANI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, è lecito, io credo, anche più che giustificato, dubitare della utilità di questa discussione generale. Tuttavia dal momento che essa c’è, mi sia consentito adempiere al compito di precisare il punto di vista del Gruppo democristiano a proposito del Titolo III. Il punto di vista del nostro Gruppo deriva logicamente dalla risposta che cercherò di dare alle critiche che a questo Titolo sono state rivolte.
Una prima critica è affiorata nella discussione in Aula, e ancora più fuori dell’Aula; questo Titolo costituirebbe il risultato di un compromesso. Ora io mi appello all’onorevole Presidente della terza Sottocommissione, che ha elaborato le norme di questo Titolo; mi appello a tutti i Commissari. Non mai una volta le formulazioni si fondarono sul compromesso. Qualche volta esse sono state deliberate con voto di maggioranza; qualche altra volta, anzi spesso, ad unanimità o col voto dei rappresentanti dei maggiori partiti. Sempre esse hanno rappresentato un punto di incontro, non mai c’è stato un deteriore baratto su una proposizione o su una frase o su una parola. Tanto è vero che quando il voto non è stato unanime, le divergenze, più che politiche, sono state spesso tecniche, e si sono visti votare diversamente un socialista da un altro socialista, un democristiano da un altro democristiano, e anche – incredibile, ma vero – un comunista votare in modo diverso da un altro comunista.
Questo per quanto riguarda la forma; per quanto concerne la sostanza, io credo – e cercherò brevemente di dimostrarlo – che il Titolo III costituisca un complesso di norme che, superando l’impostazione individualistica del problema economico, pone le premesse della riforma sociale, senza peraltro fissare degli schemi precostituiti e rigidi, che potrebbero diventare incompatibili con lo sviluppo della tecnica e dell’economia.
Un secondo ordine di critiche riguarda particolarmente alcune norme che si ritengono vane o superflue o, comunque, non adatte ad un testo costituzionale. Ha già risposto ad esse il collega onorevole Dominedò nella seduta dell’altra sera, quando ha acutamente dimostrato come si possano dare delle norme, anche non immediatamente azionabili, che pure mantengano il loro valore: norme per il legislatore futuro. Esse costituiscono il grande binario su cui dovrà incamminarsi la legge.
Più grave è una terza critica. Questo Titolo è stato visto addirittura come l’espressione di una concezione statolatrica, soffocatrice della persona umana. Ci aspettavamo – mi aspettavo – questa critica dai colleghi di parte liberale, tenaci assertori del principio della libertà, come unico principio della realtà economica. E invece il discorso, veramente notevole, dell’onorevole Cortese, ha rivelato un liberalismo sensibile alle esigenze di giustizia sociale, un liberalismo più simile a quello del grande espositore della dottrina liberale: lo Stuart Mill, che non al rigido schematismo, al fanatismo rigido del Bastiat.
A questo fanatismo rigido si sono invece avvicinate le impostazioni dei colleghi di parte qualunquista. L’onorevole Maffìoli ha parlato addirittura di una statomania; più serenamente l’onorevole Colitto si è ricondotto a un ordine naturale dell’economia, che invano la legge, lo Stato cercherebbero, attraverso questo Titolo, di disciplinare e di orientare.
Ora, a questo proposito è bene intenderci: c’è una concezione tipica del mondo economico che ha prevalso nella dottrina e, solo in parte, nella prassi del secolo scorso: la concezione naturalistica per cui i fenomeni economici si dispiegano secondo leggi naturali e inderogabili, a cui invano l’uomo cercherebbe di opporsi. Per esempio, parlando del latifondo, un oratore di parte qualunquista ha detto che esso scompare naturalmente, senza bisogno di leggi, a mano a mano che si sviluppa l’economia. Ora, io potrei rispondergli con una citazione dell’Enfantin, celebre discepolo di Saint Simon, uno degli autori dell’Esposizione della dottrina sansimoniana. Centotrenta anni fa questo antesignano di non poche riforme sociali contemporanee scriveva presso a poco così: «Certo, senza bisogno di leggi, ogni squilibrio si appiana con lo sviluppo dell’economia. Certo, tutto finisce per livellarsi. Ma – mirabile conclusione questa! – finché non si è compiuto il livellamento, che faremo noi delle migliaia di uomini affamati? Li consoleranno i nostri ragionamenti? Sopporteranno essi con pazienza, solo perché i calcoli statistici dimostrano che entro un certo numero di anni l’economia si sviluppa naturalmente, ed essi allora potranno avere del pane?»
No, non non siamo statomani e neppure idolatri del toro impazzito che, secondo la pittoresca immagine dell’onorevole Maffioli, sarebbe lo Stato quale affiora dal Titolo III. Noi anzi riteniamo che l’ordinamento sociale dell’economia abbia proprio il risultato opposto a quello che temono i nostalgici o i maniaci del liberalismo a ogni costo; solo un ordinamento sociale, infatti, può evitare lo slittamento verso lo Stato totalitario, cui fatalmente finisce per condurre il non regolato esercizio delle libertà individuali. Come non seguiamo la concezione naturalistica dell’economia, così non crediamo neppure che tutto possa ottenere lo Stato come volontà legislatrice ed esecutrice. Tra i due principî, quello naturalistico – per cui l’economia si svolge spontaneamente sotto l’impulso delle sole forze individuali – ed il volontaristico – per cui tutto si riconduce all’autorità dello Stato – c’è un terzo modo di concepire la vita economica, il modo di chi pur tenendo conto delle resistenze naturali e della forza dell’interesse individuale o privato, postuli un inquadramento, un indirizzo sociale dell’economia.
Ci conforta, a questo proposito, l’esperienza del mondo economico contemporaneo. Non soltanto negli Stati totalitari, ma anche negli Stati democratici oggi si orienta socialmente l’economia: anche, e precipuamente, in quegli Stati che si portano a modello della democrazia: Nord America e Inghilterra.
Qualcuno potrà obbiettare che oggi si sta peggio di quanto non si stesse un secolo fa, nel secolo liberale e liberista. Ma questa affermazione può essere esatta, solo se riferita alle classi borghesi; non è esatta, se riferita al proletariato industriale e al proletariato agrario. Comunque, donde ha tratto origine la stessa triste realtà di oggi e la triste realtà del fascismo di ieri se non dal mondo che ha voluto risolvere unicamente nell’individuo la fonte di tutti i diritti e di tutte le libertà?
L’orientamento sociale dell’economia ha proprio lo scopo di tutelare la persona umana, anzi le persone umane. Ma – si dirà – chi ci garantisce che gli organismi sociali non esorbitino da questo loro compito? Ce lo garantisce l’ordinamento democratico dello Stato. Che, se l’ordinamento democratico dovesse venire a cessare, stia pur certo, onorevole Maffioli, che, anche senza il Titolo III, vedremmo veramente scatenarsi il toro impazzito dello Stato e soffocare la persona umana. Non è il liberalismo puro, non l’accettazione supina del cosidetto ordine naturale economico che possono garantire la democrazia. Essi porterebbero fatalmente al totalitarismo. Per garantire durevolmente la democrazia vano sarebbe ricorrere all’unica forza dell’individuo. Non c’è altro mezzo (ci ammonisce la lezione dell’esperienza) che articolare la democrazia nelle collettività intermedie: democrazia organica sul piano politico e solidarismo sul piano economico.
Fra i due termini, quali risultano dall’impostazione del Rousseau, individualismo e statalismo, c’è una terza via: quella della economia associata, dell’orientamento sociale dell’economia.
Questa via fu sempre battuta dalla scuola sociale cristiana. Su questa via abbiamo cercato di indirizzare il Titolo III.
Se poi qualcuno volesse mascherare le sue critiche dietro motivi tecnici o produttivistici, ma in realtà celasse null’altro che interessi, allora potremmo rispondergli con la grande frase di uno dei più illustri spiriti della democrazia americana, l’arcivescovo di Quebec: «Il secolo XX o sarà il secolo delle riforme sociali o sarà il secolo del sovversivismo!».
Da questa impostazione risulta chiara la posizione del nostro Gruppo riguardo ai diversi articoli. Non c’è il tempo (e sarebbe inutile ripetizione, perché altri miei colleghi hanno già parlato sui singoli articoli) di compiere un esame approfondito.
Mi soffermerò sul diritto al lavoro.
Di esso si è detto: perché inserirlo nella Costituzione? Ciò non significa postulare una totale pianificazione dell’economia? Non pare. Questa norma dice precisamente che, nei suoi interventi nell’economia, lo Stato deve tener presente soprattutto una mèta: assicurare il lavoro, perseguire una politica economica di pieno impiego.
Un altro punto: il diritto di sciopero. Anche qui il nostro pensiero sgorga logicamente dalle posizioni generali che ho cercato di precisare. In uno Stato perfettamente capace di realizzare la giustizia non dovrebbe esservi lo sciopero. Di questo siete convinti anche voi, colleghi comunisti; soltanto che, per voi, questo Stato perfetto già esiste ed in esso difatti è proibito il diritto di sciopero.
Per noi è lecito supporre che sia almeno, più difficile di quanto voi non riteniate, realizzare su questa terra una tale perfezione. Nell’ipotesi che essa per ora non esista, o che addirittura non possa esistere, resta a vedere se la Costituzione deve tener conto di quello che è un aspetto patologico della vita economico-sociale. Ecco perché comprendiamo benissimo quello che è stato detto testé dall’onorevole Della Seta. È il caso, egli si è chiesto e si chiede qualcuno, anche fra noi, di inserire questo diritto nella Costituzione? Esso non è altro che la logica derivazione del diritto alla legittima difesa, non è che una triste necessaria conseguenza di un rapporto di forza, lo ha detto testé l’onorevole Della Seta, fra capitale e lavoro. Qualcuno, più drasticamente, parla addirittura di una legge della foresta. Ora, lo Stato può sopportare, può comprendere che ciò si verifichi, che i lavoratori abbiano il diritto di difendersi, ma può apparire vano, inutile, superfluo intervenire a codificare o disciplinare dei rapporti di forza. Noi credevamo che questa fosse la vostra tesi (Si rivolge a sinistra) e dovrebbe esserlo, logicamente.
Noi non riteniamo peraltro, data la nostra concezione realistica, che questa tesi si debba senz’altro accettare. Noi riteniamo che la Costituzione possa e debba parlare del diritto di sciopero, non debba ignorare la facoltà dello sciopero, ma, intendiamoci, riteniamo che questa facoltà debba esercitarsi nell’ambito delle leggi. Tutti gli altri diritti, sanciti e riconosciuti in questo Titolo, anche il diritto di proprietà privata, che è diritto naturale, anche il diritto di iniziativa personale, il diritto al lavoro, il diritto all’assistenza, tutti vengono ricondotti alla legge che li regola, li disciplina e li determina. Perché non si dovrebbe fare lo stesso anche per il diritto di sciopero?
Se noi dovessimo entrare nel merito – e già ne ha parlato ieri l’onorevole Belotti – potremmo prendere in considerazione lo sciopero nel caso dei servizi pubblici, nel qual caso concordiamo con le osservazioni dell’onorevole Della Seta. Senonché pare ingenuo ritenere che vi possa essere una categoria di persone che debba scioperare in luogo di coloro che sono adibiti ai servizi pubblici, quasi che vi siano degli addetti al servizio di sciopero! Particolarmente significativa è poi la condizione dei pubblici ufficiali, per i quali, secondo l’espressione paradossale dell’onorevole Molè, si verificherebbe il caso dello Stato che sciopera contro lo Stato. Noi non avremmo nulla in contrario all’articolo della prima Sottocommissione, dove si entra nel merito per quanto concerne le modalità di questo diritto. Se non si ritiene di dover entrare nel merito, noi possiamo aderire ad una dizione simile a quella della Costituzione francese.
Per l’articolo 38, si è detto da qualcuno che, dopo aver affermato e riconosciuto il diritto naturale di proprietà privata, viene a negarla con dei limiti e delle norme.
Non è così: c’è un diritto naturale di proprietà privata, ma, oltre al diritto naturale della proprietà privata, c’è anche il diritto di tutti all’uso dei beni. Ambedue sono diritti naturali e fondamentali nell’ordine economico della società. Non si può negare né l’uno né l’altro. Ed allora abbiamo che, fissato il principio del diritto generale astratto della proprietà privata, la legge positiva lo deve concretare e determinare con norme specifiche, con dei limiti che tengano conto anche del diritto di tutti all’uso comune dei beni. Perciò all’articolo 38 è detto che la legge, nel determinare modalità e limiti, tiene conto di un duplice ordine di scopi: la funzione sociale della proprietà e la possibilità per tutti di accedervi, sicché la proprietà non sia un privilegio di poche persone, ma sia invece un diritto di tutte le persone umane.
Dell’articolo 40 l’onorevole Della Seta ha lodato la sobrietà, ed effettivamente esso non vuole precludere alcuna delle nuove formule di soluzione dei problemi industriali, che possono affiorare dallo sviluppo della tecnica e della economia. Anche noi aderiremmo ad un eventuale emendamento, che fissasse meglio lo scopo dell’intervento dello Stato per una socializzazione o nazionalizzazione, che non si limitasse al solo aspetto di coordinare le attività economiche, ma lo riferisse più ampiamente al bene comune, o, se si vuole, all’utilità generale; cioè che solo al fine dell’utilità generale la legge possa riservare o trasferire la proprietà di singoli beni o di categorie di beni alla comunità.
Questi non sono che alcuni aspetti di dettaglio che ho voluto citare come conseguenze logiche della nostra impostazione del problema sociale e della nostra posizione dinanzi al Titolo III. Certo si potrà indubbiamente modificare nei dettagli questa o quella norma in sede di votazione; ma, nel complesso, noi riteniamo di poter accettare l’impostazione di questo Titolo III, alla cui stesura gli uomini della Democrazia cristiana hanno apportato un così vasto ed efficace contributo; sappiamo di rispondere così al mandato che abbiamo ricevuto dagli elettori.
Noi risponderemo col nostro voto all’impegno di formulare una Costituzione che, conservando integre le tradizioni morali e religiose del nostro popolo, ponga le premesse giuridiche di quella evoluzione sociale che deve realizzarsi nell’ordine, nella legge e nella libertà.
Noi crediamo in questa evoluzione sociale; noi crediamo che essa possa e debba realizzarsi col metodo democratico e nell’ambito della civiltà cristiana. (Vivi applausi al centro).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Di Vittorio. Ne ha facoltà.
DI VITTORIO. Onorevoli colleghi, noi, di questa parte dell’Assemblea, difendiamo, nel suo complesso, il Titolo III del progetto di Costituzione; lo difendiamo malgrado che non ci nascondiamo alcuni lati deboli, e malgrado che riteniamo necessarie alcune precisazioni su alcuni articoli del Titolo stesso. Noi crediamo che questo Titolo sia il più originale, quello che più degli altri caratterizza la Costituzione italiana e che, perciò, respingerlo o vuotarlo del suo contenuto reale, del suo contenuto positivo, significherebbe non corrispondere alle più vive aspettative delle masse lavoratrici italiane. Con questo Titolo del progetto di Costituzione la nuova democrazia italiana esce finalmente dall’ambito ristretto, troppo ristretto, della politica pura per penetrare nel campo dell’economia, nel campo dei rapporti sociali, per apportarvi un minimo di giustizia sociale e per sancire i nuovi diritti conquistati dai lavoratori italiani.
Oggi non bastano più i diritti puramente politici, i diritti del cittadino: una Costituzione moderna, che voglia corrispondere alle esigenze vitali del popolo, deve riconoscere e sancire i diritti del lavoro, che è la fonte della vita, e deve riconoscere i diritti di coloro che ne sono gli artefici, i diritti, cioè, dei lavoratori.
Ogni nuova Costituzione segna una tappa nella evoluzione storica di un paese, e ciò che deve caratterizzare la tappa attuale dell’evoluzione storica dell’Italia deve essere appunto un tentativo concreto della democrazia italiana di affondare le proprie radici nell’economia e di democratizzare, nella misura del possibile, tenendo conto della realtà concreta, delle possibilità effettive, i gangli vitali del Paese, fra i quali sono – in primo luogo – le fabbriche, le aziende produttive in generale.
Per questa esigenza la nuova Costituzione non può tener conto soltanto della situazione presente: essa deve partire dalla base solida della situazione attuale, di ciò che è acquisito; ma deve anche proiettarsi in un prossimo futuro e tracciare ai futuri legislatori una prospettiva politica e storica verso la quale intendiamo indirizzare il nostro Paese.
Perciò noi ci meravigliamo delle meraviglie che abbiamo sentito esprimere da nostri colleghi su alcuni degli articoli essenziali di questo Titolo.
Ho sentito, l’altro giorno, l’onorevole Nitti chiedersi stupito come potrà fare la Repubblica italiana per assicurare il diritto al lavoro, per assicurare a ciascun lavoratore una retribuzione adeguata al lavoro compiuto ed alla qualità del lavoro. Evidentemente, se ci dovessimo basare esclusivamente sulla situazione attuale, in cui si può dire che nessun lavoratore abbia ancora una giusta retribuzione, si dovrebbe essere imbarazzati a dare una risposta all’onorevole Nitti. Ma noi lavoriamo per uscire da questa situazione di sconvolgimento economico e di miseria. Vogliamo riorganizzare una nuova vita dell’Italia, vogliamo creare una situazione normale nella quale deve essere possibile al legislatore di determinare, anche per legge, il modo per garantire il godimento dei diritti che sono riconosciuti in questo Titolo della nostra Costituzione.
Ciò che è importante, è che tutta la vita nazionale e tutte le attività dello Stato siano dirette a riorganizzare l’economia italiana e la nostra vita sociale, in modo da tendere a garantire effettivamente il diritto al lavoro come diritto alla vita e a garantire gli altri diritti che vengono riconosciuti ai lavoratori con questo Titolo del progetto di Costituzione.
Del resto, quei colleghi che partono dal presupposto dell’impossibilità concreta per la Repubblica italiana di garantire al lavoratore il godimento di quei diritti, partono dal preconcetto della immutabilità dei rapporti economici e sociali attuali. Questa pretesa immutabilità è assurda. La società è cosa vivente e, come tale, è cosa dinamica, in continua evoluzione. È evidente che se i rapporti economici e sociali vigenti ancora oggi dovessero rimanere immutati, tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori, e non soltanto in questo Titolo del progetto, sarebbero vaghe parole. Il valore del riconoscimento di questi diritti nella Costituzione consiste appunto nel fatto che noi ci proponiamo di determinare tali mutamenti nei rapporti economici e sociali, da rendere realizzabili questi diritti per i lavoratori. È per questo che è importante e necessario che questi diritti siano sanciti nella Costituzione. È una illusione vana quella di determinati ceti sociali, retrivi e reazionari, come quelli della plutocrazia e della grande proprietà terriera, di voler fermare il quadrante della storia, di voler credere che la democrazia debba consistere esclusivamente nel riconoscimento dei diritti del cittadino, fermandosi così ai risultati della grande Rivoluzione francese.
Il mondo evolve; i diritti esclusivamente politici, i diritti del cittadino non bastano più. Bisogna garantire l’esistenza al lavoratore come artefice fondamentale della vita di ogni società civile, di ogni società organizzata.
Il fascismo ha voluto rappresentare nella nostra, come in altre società nazionali, appunto il tentativo estremo di impedire questa evoluzione della democrazia dal campo puramente politico al campo economico e sociale; ha voluto significare l’estremo tentativo di impedire alle giovani e vigorose forze del lavoro di avanzare alla conquista di altri diritti; ha voluto impedire alle masse lavoratrici di realizzare nuove conquiste che garantissero un’esistenza meno misera, meno meschina e più degna ai lavoratori. Ma noi abbiamo visto che, malgrado la grandiosità dei mezzi che sono stati impiegati in questo tentativo, esso non è riuscito, perché non poteva riuscire, perché le leggi della evoluzione sociale sono incoercibili. E si è vista una cosa ancor più grave: che questi tentativi dei ceti reazionari della nostra società non sono costati oppressione, miseria e sangue soltanto ai lavoratori, come alcuni si erano illusi e desideravano che fosse. Il fascismo, nel suo proposito di arrestare il progresso sociale, si è risolto in una catastrofe di tutta la Nazione ed è costato sangue e miseria all’intero popolo italiano.
Perciò bisogna che il processo di evoluzione sociale si svolga normalmente e si svolga liberamente, senza impedimenti artificiali da parte delle classi privilegiate, che sono abbarbicate ai loro antichi consolidati privilegi e che, per cercare di conservare questi privilegi e di sopravvivere come strati dirigenti della società, ricorrono a tutti i mezzi, compreso quello di condurre l’intero Paese alla catastrofe.
L’esperienza storica ha dimostrato che determinati ceti, determinate classi sociali in tanto possono assurgere e mantenersi alla direzione della società, in quanto i loro interessi coincidano con gli interessi generali della società e, quindi, in quanto essi siano, abbiano la coscienza di essere e sappiano essere i rappresentanti degli interessi generali e degli ideali della Nazione del popolo.
Ora credo che nessuno in questa Assemblea possa affermare che i ceti plutocratici, i ceti latifondisti, i ceti monopolistici dell’economia del Paese abbiano interessi che coincidano o che possano identificarsi con l’interesse generale della Nazione e che possano rappresentarne gli ideali.
Il Titolo III del progetto di Costituzione, attraverso i suoi vari articoli, pone la base di principio per la liquidazione di alcuni istituti, di alcuni rapporti economici e sociali, che sono stati storicamente condannati e sono divenuti, nella loro essenza, antisociali e perciò antinazionali.
Su che cosa si appunta in modo particolare la critica agli articoli essenziali di questo Titolo: all’articolo che pone la base di principio di una riforma agraria, a quello che pone la base di principio della nazionalizzazione di alcuni monopoli economici e di alcune industrie chiave, che sono fondamentali per lo sviluppo della economia nazionale?
Ebbene, signori, il latifondo che esiste ancora largamente nel nostro Paese, specialmente nel Mezzogiorno e nelle isole, non è altro che un residuo dell’antico regime feudale, non è che espressione di arretratezza e di miseria. Il latifondo deve essere eliminato perché in tal modo si elimina l’arretratezza della nostra agricoltura, si elimina la miseria dei nostri braccianti e dei nostri piccoli contadini: e non soltanto nel Mezzogiorno, ma anche in altre regioni d’Italia.
Ebbene, questo Titolo pone le basi di una riforma la quale è un presupposto essenziale per operare una profonda trasformazione fondiaria, che è indispensabile al nostro Paese. È indispensabile per ottenere una maggiore produzione delle nostre terre, un maggior impiego di mano d’opera, per ottenere più grano, più prodotti agricoli, e quindi anche un maggiore benessere, più scuole e un superiore livello di civiltà per il nostro popolo lavoratore.
I monopoli economici, la cui realizzazione scandalizza ancora qualcuno anche nella nostra Assemblea, non hanno nessuna funzione socialmente utile. Sono i monopoli economici che anche nel nostro Paese sono giunti a limitare artificialmente la produzione e in molti Paesi sono giunti a distruggere anche quantità di prodotti per mantenerne elevati i prezzi, mentre una parte notevole delle masse lavoratrici e popolari non aveva la possibilità di accedere a quei prodotti, di cui avrebbe avuto estremo bisogno. Bisogna liberare la nostra economia nazionale dai monopoli e dal latifondo per riuscire a realizzare le premesse di una rinascita economica ed effettiva del nostro Paese ed anche di un profondo rinnovamento democratico dell’Italia. Bisogna persuadersi, onorevoli colleghi, che nelle masse popolari del nostro Paese è penetrata profondamente la coscienza che i diritti esclusivamente politici non bastano più; è penetrata la coscienza della necessità della realizzazione delle riforme sociali di struttura della economia, che sono la sola garanzia effettiva e positiva del godimento dei buoni diritti che la Carta costituzionale riconoscerà ai lavoratori italiani.
Certo, il processo di realizzazione di queste riforme di giustizia sociale, alla quale ho appena accennato, non può essere evitato con misure artificiali; è un processo che deve inevitabilmente compiersi. E, data la sua inevitabilità (poiché risponde a esigenze fondamentali di vita e di progresso del Paese), la questione che si pone davanti alla coscienza pubblica è quella di sapere come questo processo sarà compiuto. Attraverso le vie legali, pacificamente, ordinatamente? O attraverso scontri violenti che possono degenerare nella guerra civile e portare nuovi lutti al nostro popolo, che ne ha già patiti fin troppi? Io credo che ogni tentativo diretto o a respingere l’insieme del Titolo III del nostro progetto di Costituzione o a vuotarlo del suo contenuto effettivo significherebbe lasciare la via aperta alla soluzione più deprecabile per il nostro Paese; significherebbe incoraggiare quei ceti latifondisti, i quali si armano e che ancora recentemente in Sicilia hanno funestato il nostro Paese con l’assassinio vile e barbarico di ben dieci lavoratori; significherebbe lasciare adito ai ceti storicamente superati, ma che non vogliono adattarsi alle esigenze di progresso della nostra vita nazionale, a continuare in una resistenza armata la quale non potrebbe che provocare nuovi lutti e forse nuove miserie al nostro Paese. Il Titolo III in fondo si preoccupa di dare una soluzione legale, ordinata a questo processo e al suo compimento. Perciò noi raccomandiamo che esso sia approvato dall’Assemblea.
Permettete, onorevoli colleghi, che io insista un momento sull’articolo 35 del nostro progetto di Costituzione, che pone in modo sintetico la base di principio del nuovo ordinamento sindacale italiano. Già altri colleghi hanno sottolineato i principî generali ai quali si ispira questo nuovo ordinamento: in primo luogo, la libertà nel campo sindacale. Perciò il nuovo sindacato è concepito come una organizzazione libera dei lavoratori, una organizzazione alla quale si accede volontariamente, nella quale il pagamento dei contributi sia volontario. Tutto l’ordinamento sindacale si ispira a questo principio di libertà, di indipendenza del sindacato, di autonomia del movimento sindacale dei lavoratori.
Ho sentito testé l’onorevole Della Seta lamentare il fatto che si esprimano alcuni sospetti verso la stessa registrazione dei sindacati, perché si temerebbe che una dipendenza qualsiasi dei sindacati dallo Stato potrebbe menomarne la libertà d’azione: l’onorevole Della Seta osservava che se ciò era giusto nei confronti di uno Stato fascista, non è giusto nei confronti di uno Stato democratico repubblicano. Comprendo ed apprezzo la natura dell’osservazione dell’onorevole Della Seta. Infatti per noi fra uno Stato fascista e uno Stato democratico; fra uno Stato reazionario e uno Stato democratico e repubblicano vi è una profonda differenza e l’atteggiamento dei lavoratori nei confronti dell’uno o dell’altro tipo di Stato è molto differente e in molti casi anche opposto. Però per noi è una questione di principio. È una necessità per i lavoratori che la loro organizzazione sindacale, lo strumento fondamentale della difesa dei propri interessi e della conquista di nuovi diritti nel campo economico e sociale, sia completamente autonoma e completamente libera da ogni ingerenza statale.
MAZZA. E politica.
DI VITTORIO. Da ogni ingerenza statale e da ogni ingerenza politica.
Ma quando noi, tenendo conto della tradizione che si è stabilita nel nostro Paese, abbiamo voluto affermare che il riconoscimento giuridico dei sindacati non deve implicare una dipendenza dei sindacati stessi dallo Stato, non abbiamo voluto esprimere nessuna diffidenza verso lo Stato democratico repubblicano; tanto è ciò vero, che nello statuto della Confederazione generale italiana del lavoro è affermato nettamente il principio che i sindacati, oltre a difendere gli interessi economici dei lavoratori, si preoccupano anche della difesa delle libertà democratiche e della Repubblica.
Perciò, nessun sospetto dei lavoratori verso lo Stato democratico e repubblicano; ma noi crediamo che la esigenza dell’autonomia e dell’indipendenza completa dei sindacati rispetto ai poteri dello Stato non sia incompatibile col rispetto che i lavoratori hanno verso lo Stato democratico, ed anzi con la loro volontà di impiegare tutti i mezzi a loro disposizione per difendere lo Stato democratico contro qualsiasi assalto o tentativo di assalto reazionario e monarchico.
In questo stesso articolo è affermato il principio della obbligatorietà dei contratti di lavoro. Io desidero per un momento attirare l’attenzione dei colleghi sulla necessità di questa obbligatorietà.
I sindacati sono abbastanza forti per tutelare efficacemente gl’interessi dei lavoratori, per ottenere la stipulazione di contratti collettivi, che, nei limiti delle possibilità reali, sodisfino le loro esigenze. Però, ci si trova molto spesso di fronte a dei datori di lavoro tanto egoisti e tanto antisociali, da non volere riconoscere nemmeno i contratti di lavoro, che sono stipulati liberamente fra le organizzazioni dei datori di lavoro e le organizzazioni dei lavoratori.
In questo caso, l’organizzazione dei lavoratori non ha che un mezzo, per far valere il proprio diritto: l’agitazione, lo sciopero, la lotta contro quel datore di lavoro egoista che si rifiuta di accogliere i giusti diritti dei lavoratori. E, naturalmente, siccome il numero di questi datori di lavoro non è così esiguo, come si porrebbe pensare, ciò ci porterebbe a dover scatenare una serie di agitazioni e di lotte che noi vogliamo evitare al nostro Paese.
Attualmente, il datore di lavoro, che non voglia rispettare i contratti (o che non voglia più rispettarli, se ad un certo momento li trova poco convenienti o se, sotto la pressione della disoccupazione, viene ad ottenere l’offerta di lavoratori affamati, a condizioni inferiori a quelle stabilite nei contratti di lavoro), dichiara che il contratto stipulato fra le due organizzazioni non lo impegna personalmente – o perché non è socio o perché, se lo era, si è dimesso –; quindi egli non avrebbe nessun obbligo di osservarlo.
Questa disposizione, sancita nell’articolo 35 della Costituzione e che verrà, naturalmente, come tutti i principî sanciti dalla Costituzione, regolata da una legge, eviterà queste agitazioni, dando efficacia di legge ai contratti di lavoro, e quindi obbligando anche quei datori di lavoro egoisti, antisociali, ai quali ho accennato, a rispettare i contratti collettivi come le leggi sociali.
Noi, per completare questo ordinamento sindacale basato sulla libertà e sull’indipendenza dei sindacati, proporremo un articolo aggiuntivo, col quale vorremmo affermare il principio che nel nostro Paese il mondo del lavoro organizzato, il movimento sindacale, deve avere un posto importante nella stessa struttura dello Stato e deve avere la possibilità di esercitare un’influenza nel senso dell’evoluzione sociale ed economica del nostro Paese. Noi vorremmo che fosse costituito un Consiglio nazionale del lavoro, con ramificazioni regionali e provinciali – in qualche caso, anche locali – elettivo…
MAZZA. Sì, dall’alto.
DI VITTORIO. …non un organismo burocratico dello Stato. E il compito di questo Consiglio nazionale dovrebbe essere quello di promuovere una legislazione sociale progressiva aderente alle esigenze economiche del nostro Paese. E a questo Consiglio dovrebbero essere sottoposte preventivamente, per il voto consultivo, tutte le leggi di carattere sociale che dovrebbero andare al Consiglio dei Ministri…
MAZZA. Un secondo Stato!
DI VITTORIO. …tutti i provvedimenti di carattere sociale da passare al Consiglio dei Ministri e all’Assemblea legislativa. Inoltre questo ente dovrebbe avere la possibilità di far osservare i contratti di lavoro e le leggi sociali e di esercitare a questo scopo il relativo controllo.
Intendiamoci bene, questo ente dovrebbe essere composto di tutte le classi interessate al processo della produzione; ma bisognerebbe finirla con un concetto invalso in numerosi ambienti e già idealizzato dal fascismo: il concetto della pariteticità della rappresentanza degli interessi rispettivamente dei lavoratori e dei datori di lavoro. Noi riteniamo che non sia democratico, che non sia giusto mettere sullo stesso piano interessi di carattere collettivo, di carattere generale, sociale, nazionale, con interessi di carattere privato e di carattere egoistico; come non è giusto porre sullo stesso piano interessi riguardanti, per esempio, mille cittadini e interessi che rappresentano invece le aspirazioni di un milione di cittadini. Noi comprendiamo anche la funzione che ha il capitale, la funzione che ha l’iniziativa privata negli attuali rapporti economici e sociali, ma possiamo desiderare che negli organi rappresentativi dello Stato democratico le rappresentanze siano costituite su base democratica, cioè sulla base del numero degli interessati da una parte e dall’altra. Noi domandiamo inoltre che i rappresentanti del Consiglio nazionale, come dei consigli regionali e provinciali, siano eletti dalle categorie interessate e non siano di nomina governativa, perché, anche se la nomina viene da parte di un Governo democratico, l’istituto avrà sempre un carattere burocratico e mai democratico.
Permettetemi ora di dire poche parole sulla questione più dibattuta di questa Assemblea: la questione del diritto di sciopero. Numerosi colleghi hanno detto: è proprio necessario sancire il diritto di sciopero nella Costituzione? Anche l’onorevole Della Seta si domandava poco fa: non sarebbe sufficiente che una legge ordinaria dello Stato togliesse il divieto del diritto di sciopero? Noi riteniamo che ciò non sarebbe sufficiente. L’onorevole Nitti, l’altro giorno, domandava in quale altra Costituzione è sancito il diritto di sciopero e perché lo dovremmo sancire proprio noi in Italia. Vi è una risposta a questa domanda dell’onorevole Nitti. Noi non possiamo prescindere dal fatto che in Italia, per circa 20 anni, il diritto di sciopero è stato negato. Lo sciopero era considerato un crimine, un delitto punito dalla legge, e noi usciamo dal regime che aveva reso lo sciopero un crimine. Evidentemente in altri Paesi democratici, che non hanno avuto la lunga parentesi del fascismo, il diritto di sciopero è un diritto così naturale, che è superfluo sancirlo nella Costituzione, perché ormai è entrato nel costume e nella vita nazionale e più nessuno lo pone in discussione.
BENEDETTINI. Più nessuno? Tutti lo mettiamo in discussione! (Rumori a sinistra).
DI VITTORIO. Ma io ho detto in altri paesi democratici…
BENEDETTINI. Come in Russia per esempio! (Commenti).
DI VITTORIO. Voi siete un prolungamento del passato! (Applausi a sinistra).
Una voce a destra. C’è in Russia diritto di sciopero? (Commenti).
DI VITTORIO. A proposito di questa interruzione, devo osservare che si dice comunemente, anche in questa Assemblea, che in Russia è proibito lo sciopero, non esiste il diritto di sciopero; ma questo non è vero, in Russia non vi è più lo sciopero perché non vi sono più i rapporti sociali che vi sono qui. (Commenti a destra).
Una voce a destra. Il fascismo diceva la stessa cosa!
DI VITTORIO. La ragione, dicevo, è molto semplice.
In Russia è stato abolito per sempre lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo; non vi è più nessuno, in Russia, che si arricchisca sul lavoro degli altri e che sfrutti il lavoro degli altri, e quindi lo sciopero non c’è più perché è venuta a mancare la causa stessa dello sciopero, che è lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti.
Una voce a destra. Ma c’è lo Stato. (Commenti – Interruzioni a sinistra).
PRESIDENTE. Prosegua, onorevole Di Vittorio.
DI VITTORIO. Allora, onorevole Nitti, la necessità di inserire nella nostra Costituzione il diritto di sciopero deriva appunto dal fatto che usciamo dal fascismo. Si vuole creare una contrapposizione netta fra la nuova democrazia italiana ed il fascismo, specialmente col riconoscimento di questo diritto fondamentale del proletariato e di tutti i lavoratori: il diritto di sciopero, che è una delle principali conquiste del movimento operaio moderno, è una delle armi essenziali di difesa nel mondo del lavoro, e fa parte dell’integrità e della libertà della persona umana.
Perciò, noi riteniamo che sia indispensabile che questo diritto rimanga sancito nella nuova Costituzione della Repubblica italiana.
È stato osservato ancora che non si specifica se si tratti di sciopero economico o di sciopero politico. Signori, qui si tratta di riconoscere il diritto di sciopero. La natura ed il carattere dello sciopero deve derivare dalla volontà collettiva dei lavoratori che, in un determinato momento, credono necessario scioperare. Lo sciopero, ordinariamente, ha carattere economico: tende alla difesa di interessi immediati e concreti dei lavoratori, alla conquista di nuovi diritti nel campo del lavoro. Ma vi è anche lo sciopero politico, vi è anche lo sciopero di solidarietà. E nessuno deve scandalizzarsi se si dichiara democratico lo sciopero politico, perché, nella storia del movimento operaio italiano e mondiale, vi sono numerosi esempi di scioperi politici, che sono riusciti a salvare la democrazia, e ad impedire l’avvento violento della reazione al potere. Basterebbe ricordare lo sciopero generale in Germania del 1920 contro il putsch del generale Von Kappler; lo sciopero generale del 1934 in Francia, quando il movimento fascista delle Queues de feu aveva organizzato l’assalto al Parlamento per dare un colpo mortale alla democrazia e impossessarsi del potere. È stato lo sciopero generale degli operai e dei lavoratori tutti di Parigi e della Francia che ha impedito ai fascisti francesi di prendere il potere. Peccato che non siamo riusciti in Italia, nel 1922, a fare altrettanto. Il nostro Paese sarebbe stato salvato, fra l’altro, dall’abisso in cui è precipitato. (Applausi a sinistra).
BENEDETTINI. Quali erano i fascisti francesi, onorevole Di Vittorio? (Commenti – Interruzioni a sinistra).
DI VITTORIO. Onorevole Benedettini, c’erano le Queues de feu del colonnello Laroque ed i nazionalisti monarchici destinati nel mondo moderno ad essere fascisti dappertutto.
Ma, sulla questione del diritto di sciopero, la maggioranza dell’Assemblea, così come la grande maggioranza della Commissione dei settantacinque, è evidentemente favorevole, in linea generale.
Un dissenso, specialmente fra noi di questa parte dell’Assemblea e gli amici democristiani, sorge sulla estensione di questo diritto.
Gli amici democristiani e, ciò che mi meraviglia, anche l’onorevole Della Seta del Gruppo repubblicano sono per la limitazione del diritto di sciopero; per escludere dal diritto di sciopero i lavoratori dei servizi pubblici, i lavoratori cioè statali ed i lavoratori di determinate produzioni da determinarsi, e ciò per difendere contro lo sciopero eventuale i diritti della collettività.
Su questo punto si è fatta anche molta retorica: si è parlato dell’eventuale sciopero dei medici, degli infermieri del manicomio, dei farmacisti, delle levatrici, dei becchini e di tante altre cose del genere.
È evidente, onorevoli colleghi, che in ogni regolamento ed in ogni manifestazione della vita vi può essere qualche cosa di assurdo, spingendo fino alle ultime conseguenze teoriche ogni posizione. Io ricordo che, quando, ancora ragazzo, cominciavo a lavorare nel movimento sindacale del mio paese, ci si batteva per le otto ore di lavoro; ricordo che una delle osservazioni più comuni, quella che aveva ottenuto il maggior successo contro la nozione delle otto ore di lavoro, anzi, contro il principio della determinazione delle otto ore di lavoro era questa, abbastanza ridicola: come fa il cliente che si trova dal barbiere allo scoccare delle otto ore con mezza barba fatta? Andrà in giro con l’altra mezza barba non fatta? Ed i reazionari di quel tempo credevano di aver fatto una osservazione così interessante e definitiva da dover scoraggiare i lavoratori nell’insistere nella richiesta della determinazione delle otto ore di lavoro.
Si rassomigliano molto a questa osservazione altre osservazioni che ho sentito fare a proposito del diritto di sciopero per i funzionari e per i lavoratori dei pubblici servizi. È evidente che il movimento sindacale, che in alcune regioni, ed in alcune zone in particolare rappresenta la maggioranza del popolo, non è insensibile allo sciopero dei servizi pubblici; perché gli stessi lavoratori organizzati nei sindacati sono i primi ad essere danneggiati da determinati scioperi di determinati servizi pubblici: per esempio, lo sciopero dei tranvieri, dei ferrovieri ecc. Perciò i lavoratori organizzati nei sindacati si preoccupano a che non vi siano scioperi, che possano danneggiare altri lavoratori e possano avere delle conseguenze negative nella vita nazionale del Paese. Ma evitare lo sciopero nei servizi pubblici, quando è una esigenza effettiva della vita collettiva della Nazione, deve essere il prodotto spontaneo della libera volontà dei lavoratori interessati e non una imposizione violenta che venga dalla legge. Tanto è ciò vero, che lo statuto della Confederazione del lavoro, lo statuto che i lavoratori si sono dati essi, liberamente, senza nessuna ingerenza governativa, stabilisce tassativamente una remora allo sciopero dei servizi pubblici, se volete, un’autolimitazione. Cosa dice lo statuto della Confederazione? «I lavoratori dei servizi pubblici, prima di effettuare uno sciopero, devono avere l’autorizzazione del Comitato direttivo della Confederazione del lavoro», cioè dell’organo centrale dirigente che rappresenta non l’una o l’altra categoria dei lavoratori, ma l’insieme dei lavoratori italiani, cioè una parte notevole della collettività nazionale.
Del resto, i lavoratori dello Stato e degli altri enti parastatali o enti locali stanno dando e hanno dato tante e tali prove, non solo della loro maturità sindacale, ma del loro altissimo senso civico, che veramente, da parte dell’Assemblea Costituente, negare di sancire nella Carta costituzionale il diritto di sciopero significherebbe compensare troppo male il loro senso di civismo. Non ho bisogno di spendere molte parole: tutti qui sappiamo quanto siano gravi oggi le condizioni economiche dei lavoratori statali e anche di lavoratori sottoposti a lavoro pesante e sfibrante come i ferrovieri, come i postelegrafonici; ciò è vero anche per tutte le categorie statali, compresi i maestri, i professori, i magistrati, i funzionari di ogni grado. Ebbene, malgrado questa situazione di estremo disagio, malgrado che il Governo si sia sentito nella necessità di rispondere «no» per un certo tempo ad alcune rivendicazioni minime più che giustificate – e riconosciute giustificate dallo stesso Governo – da parte dei lavoratori, non abbiamo avuto degli scioperi nel nostro Paese. Quando, per esempio, di fronte ai ferrovieri, molti dei quali invocano dalla Confederazione del lavoro la facoltà di scioperare per far valere le proprie rivendicazioni più che giustificate, da parte di altri ferrovieri e della Confederazione del lavoro si è fatto osservare che oggi uno sciopero delle ferrovie metterebbe in pericolo intere popolazioni che hanno l’approvvigionamento di 24 o 48 ore e che, mancando gli approvvigionamenti, a causa dello sciopero delle ferrovie, intere popolazioni resterebbero senza pane, i ferrovieri, come i postelegrafonici, come tutti gli altri lavoratori dello Stato, pure in condizioni di fame, di miseria atroce, non hanno scioperato, dando una prova grandiosa – per me – del loro spirito civico e del loro senso di solidarietà con gli interessi generali della Nazione e del popolo italiano (Vivi applausi a sinistra).
Volete proprio compensare adesso questo atteggiamento dei lavoratori statali, parastatali e degli enti locali di fronte agli interessi del Paese con un diniego del diritto di sciopero? Che cosa significherebbe questo?
BELOTTI. Non è un diniego. Si tratta di disciplinare il diritto di sciopero. (Commenti – Rumori all’estrema sinistra).
DI VITTORIO. Ciò significherebbe che l’Assemblea Costituente non avrebbe fiducia nel senso civico e nello spirito di abnegazione dei lavoratori dello Stato ed avrebbe fiducia invece dei poteri dello Stato, in leggi dello Stato che con mezzi coercitivi dovrebbero impedire lo sciopero.
Signori, se non temessi di annoiarvi, potrei citarvi dei dati dai quali risulta che in tutti i Paesi, fino a quando il diritto di sciopero è stato negato, ostacolato, limitato o disciplinato come dice l’onorevole collega (che è, poi, la stessa cosa), gli scioperi sono stati più numerosi e più violenti. Quando invece il diritto di sciopero è stato largamente riconosciuto ai lavoratori, gli scioperi sono stati di numero inferiore ed hanno avuto sempre un carattere più normale e meno violento.
Questo deve valere anche per i lavoratori dello Stato.
In ultimo vorrei fare una semplice osservazione: i lavoratori dello Stato, i funzionari di ogni grado, in grande maggioranza laureati, i quali nella loro maggioranza non sono orientati verso principî di carattere estremista, sono tutti, dico tutti, assolutamente unanimi nel rivendicare il diritto di sciopero, e parlo di lavoratori che nessuno qui e fuori di qui avrebbe il diritto di accusare di mania scioperaiola, perché non hanno mai scioperato.
Ma tutti questi lavoratori, compresi i lavoratori democratici cristiani, i lavoratori liberali e ce ne sono anche alcuni qualunquisti, tutti in seno ai sindacati sono unanimi nel rivendicare il diritto di sciopero perché, signori, ci sono molti dissensi su questa questione nella Costituente, nella stampa, nei circoli più o meno ben pensanti, ma in seno alle masse lavoratrici non vi è nessuna discussione in materia. Tutti i lavoratori approvano unanimemente il diritto di sciopero esteso a tutti i lavoratori.
Perciò noi domandiamo all’Assemblea Costituente di avere fiducia nelle masse lavoratrici, nel popolo lavoratore. Un Governo democratico deve essere e deve sentirsi così legato alla massa operaia e alla classe lavoratrice in generale da non avere nessun timore, nessuno! Se uno sciopero può avere conseguenze negative deprecabili per la vita del Paese, lasciate che gli stessi lavoratori lo apprezzino e la loro rinunzia allo sciopero sia il prodotto di una libera volontà dell’uomo direttamente e collettivamente interessato e non il prodotto di una coercizione, di una legge, di una imposizione che proviene dall’alto!
BELOTTI. C’è l’esempio della Russia! (Vive proteste a sinistra).
DI VITTORIO. L’ho già detto, ma sento la necessità di ripetere al collega che ha interrotto che in Russia c’è il diritto di sciopero come tutti gli altri diritti; soltanto, gli operai non fanno oggi lo sciopero, perché lo farebbero contro se stessi, lo farebbero contro il loro stesso interesse, poiché in Russia ognuno lavora. (Commenti – Interruzioni al centro e a destra).
Sarebbe molto utile che si cominciasse ad imparare che cosa è la Russia, che cosa c’è in Russia! (Commenti – Interruzioni a destra e al centro).
PRESIDENTE. Prego i colleghi di non interrompere. Onorevole Di Vittorio, prosegua il suo discorso.
DI VITTORIO. Onorevoli colleghi, io credo che la maggioranza dell’Assemblea, come già nella Commissione dei settantacinque, vorrà approvare nel suo complesso il Titolo III del progetto di Costituzione, ivi compreso il diritto di sciopero puro e semplice, così come è stato redatto, senza restrizioni, compiendo in tal modo un gesto di fiducia cosciente e consapevole verso le masse lavoratrici. E credo che così facendo Assemblea Costituente risponderà alle più vive aspettative delle masse lavoratrici italiane, le quali auspicano di realizzare, nell’ordine, nella calma, nella legalità i nuovi diritti che hanno già di fatto conquistato e le riforme strutturali, sociali, che sono indispensabili per aprire al nostro Paese un’era di tranquillità, di benessere e di pace, che deve permettere ai lavoratori italiani, manuali ed intellettuali, cioè alla grande maggioranza del popolo, di conquistare un livello superiore di benessere e un più alto grado di civiltà. (Vivi applausi a sinistra – Congratulazioni).
Presidenza del Vicepresidente TARGETTI
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Merighi. Ne ha facoltà.
MERIGHI. Confesso di essere un po’ titubante a parlare, innanzitutto perché sento profonda la responsabilità che abbiamo tutti di abbreviare la discussione. È un senso di autodisciplina che giustamente è stato invocato e che io seguo, e mi limiterò per questo a rapidi accenni.
Mi fermerò soprattutto a parlare dell’articolo 34.
Sono poi titubante anche per questo fatto, che l’intervento dei medici, quando si parlò dell’articolo 26, non fu – dirò così – eccessivamente brillante, soprattutto per l’accoglienza che la Commissione e l’Assemblea stessa hanno fatto alle loro proposte.
Forse su queste questioni che interessano un pochino la categoria dei medici, sulle questioni sanitarie del Paese, incombe la disgrazia che incombe sulla categoria dei medici stessi. I medici, in fondo, voi lo sapete, sono delle persone molto desiderabili, ma tanto più sono desiderabili, tanto più sono soggetti alle critiche, ai frizzi, ai lazzi della stessa popolazione che si serve dell’opera loro.
Forse quindi questa disgraziata qualità dei medici si riflette anche un po’ sulle questioni sanitarie, specialmente durante questo periodo in cui pare che molte altre questioni siano più utili e pressanti.
Ma se consideriamo attentamente, non possiamo fare astrazione, in qualsiasi circostanza della nostra vita sociale, dal contributo che deve venire dalle categorie sanitarie e ancor più dalla scienza medica.
Ma se sono titubante a parlare, per le dette ragioni, sono tuttavia questa volta confortato da un fatto: che oggi non sono soltanto i medici socialisti a portare qui il loro pensiero, ma con noi vi è anche una categoria di altre persone che attualmente hanno grande importanza nella vita sociale: gli organizzatori socialisti. Non vi faccia meraviglia questa simbiosi, come si direbbe in termine biologico, questa associazione. Vi ricordo che proprio nel Parlamento nazionale, sul principio di questo secolo, un grande medico, un grande ingegno di scienziato e nello stesso tempo mente aperta a tutti i problemi nazionali e dell’arte, Guido Baccelli, che tenne alto il decoro del Parlamento e del Governo, concepì e volle la medicina sociale. Ricordo a tutti che i primi saggi di legislazione sociale furono ispirati precisamente dai medici. Cito, a suo onore ed a sua memoria, l’esempio di Angelo Celli, intimamente socialista, e di Nicola Badaloni. Altri vi sarebbero ancora. Dunque la nostra non è un’associazione improvvisata, magari a scopo di tattica parlamentare: è una cosa insita nella sostanza della nostra vita, una cosa insita nei problemi sociali, che medici e sindacalisti possano trovarsi d’accordo a studiare e risolvere tali problemi nell’interesse della collettività.
Io vorrei pregare l’amico Ghidini, valoroso presidente della terza Sottocommissione, che ha studiato il tema «problemi economici» ed ha tanto senno e tanta competenza giuridica e contemporaneamente tanto senso sociale, di voler porre la sua attenzione in questo momento a quanto verrò ad esporre. Indubbiamente è da ricordare questo: che tanto i rapporti etico-sociali, quanto i rapporti economici, che noi andiamo a sanzionare nella nostra Costituzione, dovranno subire forse profonde modificazioni, attraverso le leggi che saranno destinate a stabilire questi rapporti. Indubbiamente però questi titoli devono essere fissati nella nostra Costituzione, se non altro come diritti potenziali della nostra società. E per abbreviare, io vengo direttamente alle questioni di cui più particolarmente mi interesso, e cioè alle questioni che sono conglobate nell’articolo 34. La Commissione ha redatto un articolo in questo senso: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari alla vita ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale». Nessuna discussione in proposito.
Però a noi pare che questo comma primo dell’articolo 34 trovi la sua sede migliore o all’articolo 31 o all’articolo 32, in quanto che l’articolo 31 stabilisce il diritto ed il dovere al lavoro. Per converso, quindi, sembra conveniente stabilire anche quella che è la contropartita di questo diritto e di questo dovere. Quando un cittadino non può ottemperare a questo dovere e non può esercitare il diritto, interviene la società, che, qualora il cittadino sia inabile e sprovvisto dei mezzi, deve provvedere al suo mantenimento ed alla sua assistenza. Quindi non è per proporre una modifica che crediamo opportuno togliere questo comma, ma perché vorremmo piuttosto passarlo all’articolo 31, come sede più naturale. Dove noi ci differenziamo nel concepire l’assistenza che verrebbe sanzionata nei successivi commi dell’articolo 34, è nel punto ove si dice: «I lavoratori, in ragione del lavoro che prestano, hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».
Anzitutto, faremmo eccezione in questo. Cosa vuol dire «in ragione del lavoro che prestano, hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati?».
Se i mezzi devono essere adeguati per vivere, indubbiamente non si può tener conto del lavoro prestato; potrebbe essere il lavoro di un minorato e quindi minimo.
Ecco perché proporremmo che fosse soppresso l’inciso «in ragione del lavoro che prestano»; e proporremmo una formulazione in cui si dicesse che il lavoratore ha diritto ad avere assicurati i mezzi necessari alla vita e le cure sanitarie.
L’articolo 26 dice: «La Repubblica tutela la salute, promuove l’igiene e garantisce cure gratuite agli indigenti».
Se i colleghi ricordano, proprio io ho sostenuto che non si dovrebbe parlare di indigenti, perché la società deve assicurare le cure e la prevenzione a tutti i cittadini. Quindi, noi insistiamo su questo fatto: che, oltre ai mezzi per la vita, siano assicurate le cure sanitarie; se si parla di invalidità e vecchiaia, indubbiamente è necessario pensare anche alle cure di questi malanni.
Quindi, proporremmo quest’altra formulazione del comma:
«Il lavoratore ha diritto di avere assicurati i mezzi necessari alla vita e le cure sanitarie per sé e per la famiglia, nei casi di malattia, di disoccupazione involontaria, d’infortunio, d’invalidità, vecchiaia». Ed aggiungiamo un concetto, che forse farà rabbrividire qualcuno: «ed in caso di morte la famiglia ha diritto alla pensione».
Indubbiamente, questo diritto alla pensione riguarda la categoria di lavoratori che restano privati del sostegno e che si troverebbero quindi nella impossibilità di trovare i mezzi di sussistenza.
Sta bene che la parte prima dice che la società assicura al lavoratore i mezzi necessari alla vita, ma come faremmo ad estendere queste provvidenze ai familiari dei lavoratori morti o per malattia o per infortunio?
D’altra parte, una provvidenza del genere penso non inciderebbe fortemente sulle nostre finanze, ed a questo proposito torna opportuna la notizia che ho rilevata oggi dai giornali: che, cioè, la Confederazione generale del lavoro intende creare un fondo di solidarietà per gli assicurati dell’Istituto di previdenza sociale che non hanno diritto a pensione.
È un principio che dobbiamo accogliere immediatamente e che sono lieto di aver prevenuto ed esteso con la presentazione di questa aggiunta all’articolo in parola.
D’altra parte, faccio appello ai colleghi che ieri in quest’Aula, nella discussione di questo Titolo, hanno ricordato la convenienza e la necessità che ancora esista una carità. Questo noi facciamo, se stabiliamo il principio delle pensioni e della loro reversibilità alle vedove ed agli orfani.
Noi indubbiamente con queste pensioni reversibili verremo a sollevare tanti istituti, orfanotrofi, case di riposo e altre istituzioni che sono con grande difficoltà sostenute dagli enti pubblici e che debbono fare spesso appello alla carità. Noi non vogliamo discutere il concetto della carità, nobilissimo sentimento che troverà sempre in tutti i tempi la possibilità della sua esplicazione. Ma quanto meno dovremo fare appello alla carità per aver fatto appello alla solidarietà sociale, tanto più saremo profondamente lieti.
Poi noi avremmo aggiunto un altro comma che dice così: «I cittadini i quali per infermità congenita o acquisita sono inabili al lavoro ma possono con una rieducazione professionale adatta essere resi idonei a un particolare lavoro, hanno diritto a questa rieducazione e successiva immissione al lavoro». È un principio altamente sociale. Oggi credo che questa rieducazione al lavoro sia soltanto goduta dagli infortunati sul lavoro: ma vi sono tanti altri individui, tanti altri esseri, per usare una parola più generica, che si possono trovare minorati profondamente nella loro capacità lavorativa. Ricordiamo, per dare un esempio solo, i malati di poliomielite anteriore, che restano paralizzati o semi paralizzati ad un arto. Oggigiorno non trovano assistenza, oltre le cure mediche, spesse volte inutili, e non hanno possibilità di occuparsi perché è mancata una conveniente rieducazione e l’indirizzo ad un lavoro utile per foro e per la società. Chiediamo quindi il diritto alla rieducazione, pensando anche alle infermità congenite. Ci sono venuti in questi giorni appelli pressanti, profondamente commoventi, da parte dei ciechi. Non possiamo abbandonare questi disgraziati, anche quelli che sono ciechi nati. Noi sappiamo che possono, per l’acuirsi profondo, intensissimo di tutti gli altri loro sensi, essere utilizzati in lavori convenienti anche delicatissimi. La società deve facilitare questa immissione dei ciechi nelle forze produttive della Nazione rispondendo così, non solo all’appello dei ciechi stessi, ma ad un senso profondo di solidarietà umana. Onorevoli colleghi, ci siamo resi conto, noi medici e organizzatori sindacali, delle difficoltà finanziarie per applicare questi principî. Perciò siamo entrati in un concetto che non è nuovo; che fu ribadito molte volte e che è questo: dobbiamo riprendere, per risolvere i problemi dell’assistenza sociale, quella idea dell’assicurazione generale contro le malattie. Non è un concetto rivoluzionario. Io vi ricordo, egregi colleghi (mi dispiace che non sia qui presente l’onorevole Labriola allora Ministro del lavoro), che nel 1922 a seguito di un congresso delle Camere del Lavoro italiane tenuto a Trieste si reclamò, da parte degli operai organizzati, l’assicurazione generale obbligatoria contro le malattie. La Federazione degli ordini dei medici studiò allora un progetto di assicurazione contro le malattie, d’accordo con l’organizzazione sindacale e tutte le categorie mediche (e non fu una cosa facile mettere d’accordo le varie categorie dei medici); e questo progetto fu consegnato all’onorevole Labriola che lo accolse: lo stesso Presidente del Consiglio Giolitti lo approvò e se non fosse arrivato il fascismo probabilmente quel progetto sarebbe stato varato e sarebbe oggi una conquista su cui avremmo potuto contare.
L’assicurazione generale contro le malattie dal punto di vista economico inciderà grandemente sulle nostre finanze? Noi non lo crediamo. Se pensiamo alle spese enormi, che aumentano paurosamente giorno per giorno, sostenute, non dirò solo dagli istituti e dagli enti assicurativi che noi conosciamo, ma dai Comuni e dalle Congregazioni di carità per l’assistenza sanitaria, in fatto di spedalizzazioni, in fatto di sussidi per cure, in fatto di medicinali, troviamo cifre iperboliche, oserei dire pazzesche. Consolidando queste spese su un piano preciso e stabilendo una tassa proporzionale al reddito dei cittadini, noi potremmo risolvere, anzi risolveremmo senza dubbio, il problema dell’assistenza domiciliare ed il problema dell’assistenza ospedaliera e di ogni altra provvidenza. Anche il problema ospedaliero grava fortemente sulle nostre responsabilità civiche. Noi risolveremmo tanti problemi. E, badate, non è una semplice ipotesi che si faccia qui in questo momento, e per iniziativa di noi pochi. È da qualche giorno che il Gruppo medico parlamentare ha raccolto delle risposte ad un referendum proposto a tutte le categorie dei medici italiani. Vi assicuro che tutte le risposte sono concordi nello stabilire questo principio: che bisogna passare allo studio e all’applicazione di un sistema di assicurazioni contro le malattie, per cui naturalmente non vi siano più dispersioni, non vi siano più incongruenze, e vi sia una protezione maggiore, accanto all’assistenza medica, sanitaria e previdenziale attuale e che formi un tutto veramente completo ed organico.
Poi viene l’ultimo comma:
«All’assistenza ed alla previdenza provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato». Siamo d’accordo. Ma qui permettete, egregi colleghi, e permettano i membri della Commissione, che io ritorni sopra un argomento che ho già trattato a proposito della discussione dell’articolo 26, argomento che era già stato sostenuto precedentemente dal collega Caronia, ma la cui proposta fu dallo stesso ritirata. Io avevo aderito alla proposta dell’onorevole Caronia e non potei quindi, ritirandola egli, riproporre la questione. La riprendiamo oggi. Noi sappiamo che questi istituti di assistenza e di previdenza – e io direi anche con una parola più generica: questi istituti di protezione sociale – sono molteplici. E infatti la Commissione stessa, ricordando quanto già esiste, ha detto: «provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato». Noi riprendiamo la questione del coordinamento di questi istituti, tanto più che, se in realtà si dovesse applicare il principio dell’assicurazione generale obbligatoria contro le malattie, noi avremmo la necessità assoluta di un organo tecnico propulsore e coordinatore di queste istituzioni vecchie e nuove. Dal lato amministrativo, siamo d’accordo che dovrebbero amministrarsi a parte. E badate che in questa concezione di coordinamento dal lato tecnico e di separazione dei servizi tecnici da quelli amministrativi, sono entrati già anche molti di coloro che sono a capo delle attuali istituzioni mutualistiche, le quali oggi, per converso, subordinano purtroppo il lato tecnico, grandemente più importante, alle funzioni amministrative. Noi domandiamo – e insistiamo su questo punto – che tutti questi organi, privati o dello Stato, mutualistici, previdenziali, assicurativi a scopo sanitario siano coordinati dal lato tecnico da un unico organo autonomo indipendente.
Anche in questo punto troviamo consenziente la generalità delle categorie interessate, in prima linea i medici. Esse trovano che non si possono realizzare molte cose se non c’è un coordinamento nel campo dell’assistenza sociale, dell’igiene, della previdenza e della prevenzione. Al giorno d’oggi ad esempio non è assolutamente possibile organizzare o dar corso a provvedimenti sanitari senza passare attraverso la burocrazia delle Prefetture. Non si può dare corso a provvedimenti di carattere generale a favore della collettività, perché l’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica urta ora contro l’uno ora contro l’altro organismo, dipendente da altra amministrazione statale.
In proposito posso citare questo fatto. Durante e dopo la guerra, mentre l’Alto Commissariato per la Sanità pubblica faceva tutto il possibile per disinfestare e per disinfettare – facilitato in questo compito anche dagli aiuti dell’U.N.R.R.A. e dell’America – ci si era accorti che i vagoni delle ferrovie erano infestati da cimici e pidocchi. Si voleva intervenire, ma la Direzione sanitaria delle ferrovie non lo permise perché voleva fare da sé, ed i vagoni continuarono a circolare con cimici e pidocchi. Se noi vogliamo costruire o rinnovare ad esempio un ospedale, non possiamo perché gli aiuti, i consensi, le approvazioni necessarie, sono divisi almeno in tre Ministeri: il Ministero dell’interno, innanzitutto, poi, se questo ospedale avesse funzione didattica, come potranno avere tutti gli ospedali di una certa entità, il Ministero della pubblica istruzione, ed infine il Ministero dei lavori pubblici. Mettete d’accordo tre Ministeri sulla approvazione del progetto e vedrete quando si costruirà l’ospedale! Per questo insistiamo sulla nostra proposta. Noi non vogliamo togliere a nessuno la facoltà di iniziativa sulle vie del miglioramento civile, ma intensificare l’opera e dare precise direttive tecniche per non avere dispersioni ed interferenze. Io vedo in questo momento, avanti a me, spuntare il sorriso ironico dell’onorevole Nitti. (Interruzione dell’onorevole Nitti). Mi perdoni, onorevole Nitti, ma oltre al sorriso che rivedo si rinnova nel mio animo, tristemente, il ricordo del suo nero scetticismo di fronte alle possibilità di questa nuova Repubblica: di fronte alle affermazioni di questo statuto che vogliamo dare alla nostra Repubblica in cui crediamo. Noi vogliamo pensare – e non saremmo socialisti se non lo facessimo – vogliamo pensare all’avvenire. Ci lasci, onorevole Nitti, e con lei tutti quelli che non credono, ci lasci illuminare questa Costituzione con un raggio di fede; che non sarà una gran fede nelle nostre modeste possibilità scientifiche, ma sarà però, ed è, una grande fede nella nostra missione di medici e di organizzatori socialisti. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Spallicci. Ne ha facoltà.
SPALLICCI. Vorrei, onorevoli colleghi, richiamare la distratta attenzione di questa Assemblea su di un argomento che è stato tema di diuturne discussioni entro quest’Aula. Noi medici non abbiamo avuto la presunzione di interloquire in materia di diritto e ci siamo imposti il silenzio ossequenti al vecchio aforisma ne sutor ultra crepidam, anche se la crepida nel caso nostro non era il modesto prodotto del calzolaio ma la nobile medicina sociale.
Noi, onorevoli colleghi, abbiamo sostituito alla figura del civis la figura del lavoratore, abbiamo rinunciato quasi a quella che era una figura così cara ai nostri nonni repubblicani, quella del cittadino; abbiamo tolto quasi dalla comunità della civitas l’uomo per introdurlo nella casa del lavoro, e questa vorremmo consacrare come un tempio.
Io vorrei intrattenervi sull’articolo 33, che parla della protezione del lavoro della donna. Ha dei precedenti illustri quest’articolo. Il collega Merighi, un momento fa, ha accennato agli illustri medici Baccelli e Badaloni. Io potrei dirvi anche che vi è qualcuno che precede questi eminenti assertori della medicina sociale: vi è Agostino Bertani, ad esempio, il quale fece tesoro di quanto Alberto Mario, che pure non era medico, aveva cercato nel suo Polesine, lui così ansioso e così preoccupato dello stato di pauperismo in cui viveva il bracciantato agricolo del suo paese.
Perché, la medicina sociale è antica, per lo meno quanto l’unità d’Italia: risale al 1870-71. Il progetto di legge di Alfredo Baccelli, che riassume quello del ministro Carcano, è del 1902. Si diceva allora, con parole che sembrano modernissime, chela donna e il fanciullo inferiore ai dodici anni, dovevano essere sottratti ai lavori delle cave, delle miniere, delle gallerie sotterranee. Doveva la donna avere dei benefìci quando era in istato di gravidanza: essere dispensata dal lavoro un mese prima e fruire di un altro mese di riposo dopo il parto. In più, erano già istituite da allora le sale di allattamento negli opifici, vi era il libretto sanitario in cui il medico doveva certificare della sanità e dell’attitudine al lavoro dell’operaia. Per cui, nel 1906, all’Assemblea della Convenzione internazionale di Berna, l’Italia non si presentò impreparata. Aveva già, a suo onore, preso tutti questi provvedimenti legislativi cui ho accennato.
Era, dunque, superata fin da allora quella resistenza da parte degli industriali che non intendevano, ansiosi soltanto del rendimento della produzione, fare quelle concessioni al proletariato femminile; era sopita la contesa tra costoro e gli altri, che erano più intenti a guardare la prole delle donne lavoratrici. Data da allora una nuova legge riguardante l’assicurazione della maternità che, se non erro, è andata in vigore dal 1910, una assicurazione obbligatoria con la creazione di una Cassa di maternità, che dava una indennità alle operaie per quel mese che precede e segue il parto.
Il Codice entra così a far parte della Costituzione, è stato detto, ma vi entra quando già è entrato, per una legge umana e umanitaria, nel nostro costume. Quindi è dovere ed è compito della nostra Carta costituzionale sancire questo in un articolo, e dobbiamo per questo essere grati alla Commissione che vi ha provveduto egregiamente.
Guardiamo la situazione delle donne lavoratrici nelle grandi città e negli stabilimenti, quando la sirena ha lanciato il suo grido d’allarme, che non è più quello della minaccia dal cielo, ma il richiamo della officina, e questo grido di sirena ci ricorda un pochino la sensazione di brivido che ne provava lo Zola: era per lui la voce scatenata dell’industrialismo, questo Dio Moloch, che faceva passare un bramito famelico sulle folle minerarie di «Germinal».
Ebbene, la donna si allontana e resta vuota la casa. Nella casa rimangono soli eredi, orfani temporanei, i figli, e c’è soltanto la scala polverosa delle grandi case delle nostre città, e c’è il pianerottolo, dove si raccolgono i bimbi, ma vicino alla scala ed al pianerottolo c’è la strada, e questa è cattiva consigliera per i bimbi. Quando la madre ritornerà, troverà dei bimbi più sudici, più riottosi e più insolenti; tornerà o sul mezzogiorno, se la mensa aziendale lo permette, oppure alla sera. Ed alle volte può darsi che questa donna ritorni per un periodo più lungo, ritorni perché il medico ha prescritto un congedo, perché ha formulato una diagnosi. È una lavoratrice degli stabilimenti poligrafici, ad esempio, è una lavoratrice dove si impastano delle vernici a smalto, dove ci sono dei composti piombiferi, con oltre il 2 per cento di piombo, è una lavoratrice della ceramica, delle terraglie, della vetrificazione, delle stoviglie, o è una lavoratrice del caucciù piombifero, ed allora la donna tradisce già nel suo pallore terreo la malattia, la intossicazione da piombo, cioè il saturnismo, per cui presenta quell’alito dolciastro caratteristico dell’intossicazione del piombo, e l’orletto grigio gengivale che corona la radice dentaria, che sono per noi medici i sintomi peculiari della malattia..
E non soltanto la madre attempata, ma anche la madre giovane, anche la nubile può essere condannata alla sterilità ed alla morte per intossicazione da piombo, per saturnismo; può essere anche condannata ad avere un allattamento così scarso da dover alimentare così malamente la prole da essere costretta poi a sostituire il seno materno con quelle alimentazioni artificiali che sono causa di così impressionante mortalità infantile. Ma questo non avviene soltanto nello stabilimento (ed io non ho intenzione di sfogliare davanti a voi un testo di patologia del lavoro): ma è opportuno che accenni ad una malattia delle risaie, alla leptospirosi. C’è in provincia di Vercelli, che è la provincia maggiormente risicola di tutta Italia, l’affluenza di circa 200 mila mondine da altre provincie, in momenti prestabiliti. Ebbene, questa malattia, che porta delle lesioni epatiche e renali, si contrae nelle risaie; le mondariso, non per il primo anno ma in una serie di anni successivi, vanno incontro a questa malattia che è data da un parassita che vive a spese del topo e del ratto da dove passa nelle acque dolci correnti o ferme delle risaie. Malattia che può compromettere non solo la salute delle madri, ma anche la salute della prole.
Qui la donna è la vittima del lavoro. Non a questa, noi potremmo dire: «donna, la causa è in te, piangi te stessa» come alle donne della grassa e magra borghesia, che si vanno intossicando, alle volte, con delle biacche, dei cosmetici fatti da manipolatori di frodo, o che cercano una tinta per imbiondire la loro chioma nera o annerire la canuta e che possono andare incontro ad analoghi malanni, o ad altre infine che si sono date con sfrenata baldanza al fumo, cercando di superare in questo anche l’uomo, e vanno incontro a malattie che sembravano un triste privilegio del maschio: l’ulcera gastrica e duodenale e anche l’angina pectoris.
Le vittime che noi commiseriamo e che vorremmo strappare al loro triste destino sono da un’altra parte.
Madre operaia, noi condividiamo la tua amarezza. Anche colla tutela sanitaria, anche col lavoro non affaticante e in ambiente non malsano tu devi affidare il bambino al nido, all’asilo. Sono le provvidenze della società materna. Garantisco io, ella ti dice, e tu ringrazi la custode, l’assistente, l’infermiera in camice bianco che farà le tue veci durante la tua assenza. O non dissero un tempo: siano i bambini posti sotto la cura di un collegio di magistrati e affidati ad apposite governanti in un alloggio comune? Questo indicava Platone.
Questa è provvidenza e assistenza sociale del nostro tempo. Non è il crudele allontanamento della madre cui non sarà più dato riconoscere il figlio, come si pretendeva in quella repubblica fuori della realtà e talvolta anche fuori dell’umanità, ma è pure una parentesi di rinuncia al governo dei figlioli che si ripete sei volte alla settimana durante le ore di lavoro.
Noi, adunque, inseriamo nella nostra Carta costituzionale questo articolo, che io vedo completato da un emendamento non mio, ma al quale sottoscrivo perché pone l’accento sulla funzione materna della donna, un emendamento che porta la firma della onorevole Federici Maria e dell’onorevole Medi, il quale dice:
«Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e materna».
L’onorevole Di Vittorio ha detto che la nostra Costituzione dovrà essere temporanea, perché egli auspica una nuova Costituzione in un ordinamento sociale migliore, che non sia questo. Può darsi che noi non siamo completamente d’accordo in ciò che egli intende per nuovo ordine sociale, ma non importa.
DI VITTORIO. Ho detto che la Costituzione si deve proiettare nel prossimo futuro, non che ne dobbiamo fare un’altra.
SPALLICCI. Ad ogni modo, auguriamoci che la donna, in avvenire, possa essere sottratta allo stabilimento, all’officina e sia riportata nella sua funzione vera di donna. Possa il clima economico, il clima morale e sociale essere così elevato nel nostro Paese da permettere che la casa risuoni ancora di faccende e, magari, del ticchettio della macchina da cucire, cioè che alla donna sia realmente riservato e riconsacrato il suo compito di «angelo della famiglia» come disse il nostro Maestro.
Una voce a sinistra. Bel tempo che fu!
SPALLICCI. E che tornerà; noi dobbiamo realmente guardare nel futuro, vogliamo proiettarci, come diceva l’onorevole Di Vittorio, nel futuro e avere fede in questa affermazione lirica. Così la vide il Maestro nostro, un quasi Jacopo Ortis nella vita, a cui furono negati un volto sorridente di donna ed il volto clemente della Patria; Egli è fermo nella sua spoglia sottratta alla dissoluzione sul colle di Staglieno, accanto alle ossa della Madre, nella sua sosta mortale. Così vorremmo sentire l’occhio non vitreo della salma imbalsamata, ma vivo e brillante sotto l’arco maestoso della fronte di uno spirito immortale, volto su di noi, entro quest’Aula semideserta, sulla nostra Costituzione, a incoraggiamento e a monito, come a indicare: andate e dite una parola di fede, di bontà e di umanità al popolo italiano che pallido, esangue, allucinato, sta riprendendo la via che la guerra ingiusta gli aveva fatto smarrire e che sta per rinnovare il prodigio leggendario dell’araba fenice: risorgere dalle proprie ceneri e riprendere la sua strada e la sua missione di libera Nazione fra le consorelle della libera Europa. (Applausi).
Presidenza del Presidente TERRACINI
PRESIDENTE; Non essendovi altri iscritti a parlare, dichiaro chiusa la discussione generale.
Ha facoltà di parlare l’onorevole Ghidini, a nome della Commissione.
GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Io, per verità, onorevoli colleghi, avrei rinunciato volentieri a prendere la parola in questo scorcio di seduta, non tanto perché la Camera sia oramai quasi deserta, quanto perché non ne trovo la necessità.
Se parlo, lo faccio, come dicono i civilisti, per ottemperare al regolamento; per chiudere la discussione di carattere generale e venire più presto che sia possibile agli emendamenti dei diversi articoli che sono stati proposti alla vostra considerazione.
Dico che mi pare inutile parlare perché quasi tutti gli oratori che si sono diffusi in questa discussione di carattere generale hanno discusso gli articoli e illustrato i loro emendamenti o soppressivi o aggiuntivi o modificativi della forma o della sostanza. In massima parte la discussione ha vertito sugli emendamenti, e quindi mi riservo di rispondere in questa sede, sentita l’opinione dei colleghi di Commissione sia per una ragione di delicatezza nei loro riguardi sia perché è l’opinione della Commissione che io devo riferire e non la mia.
Dovendo parlare in questo momento io mi debbo limitare a discutere le osservazioni di carattere generale e fondamentale che furono mosse al Titolo III del progetto.
E mentre la discussione generale è stata sobria e limitata debbo invece constatare che gli emendamenti proposti sono assai numerosi, ed è facile immaginare che aumenteranno ancora fino a comporre un grosso fascicolo, tanto da far pensare che il Titolo abbia suscitato nell’animo degli onorevoli colleghi una infinità di dubbi e di dissensi mentre al contrario si deve constatare, in base alla stessa discussione, che essa non poteva essere più calma e più serena e che l’Assemblea è sostanzialmente d’accordo colla Commissione. Eppure si tratta di un Titolo che è forse più interessante di ogni altro poiché riguarda una materia nuova in gran parte e certamente innovatrice, più o meno, a seconda dell’ampiezza maggiore o minore colla quale verranno interpretate le sue disposizioni, e perché tratta di interessi che toccano vivamente la sensibilità di tutti gli italiani. Un nostro Grande ebbe a dire che è facile mandare gli italiani sulle barricate a compiervi anche il sacrificio della vita, ma che è molto difficile indurli a mettere fuori una lira. Naturalmente, egli parlava della lira di un tempo!
Ripeto: questioni di carattere generale quasi non ne sono state fatte, molte invece di carattere particolare e colla maggiore serenità, salvo che nel tema dello sciopero. Ma anche in tema di sciopero non direi che esista un vero dissenso. Vi sono divergenza di vedute e differenza di temperamenti; ma si può dire che l’Assemblea è unanime almeno sulla convenienza di affermare nella Costituzione il diritto di sciopero. Solo dal Gruppo qualunquista è venuto un emendamento, quello dell’onorevole Giannini, in cui si dice che l’articolo 36 deve essere sostituito col seguente: «Lo sciopero e la serrata sono vietati. I conflitti del lavoro devono essere regolati dalla legge».
È forse questo l’unico emendamento che contrasti in pieno uno dei principî consacrati nella Carta costituzionale. Tutti gli altri rappresentano limitazioni o ampliamenti delle varie disposizioni del Titolo senza negarne però la essenza fondamentale.
Il solo che abbia portato la discussione in un campo veramente generale e fondamentale è stato l’onorevole Maffioli che ha posto a base del suo ragionamento una concezione dello Stato profondamente diversa da quelle che ha animato la parola de’ suoi stessi colleghi. Infatti è certo che non tutti i suoi amici accedono all’opinione da lui espressa. Egli in sostanza professa la concezione dello Stato agnostico; dello Stato che non deve intervenire nel campo economico; che lascia completamente libera l’iniziativa privata; dello Stato che non agisce come elemento attivo di coordinazione, di controllo e di propulsione del fatto economico, ma piuttosto come gendarme dell’ordine esteriore, di quell’ordine dietro il quale si riparano il privilegio di pochi, la miseria di molti e la ingiustizia per tutti.
Ma l’onorevole Maffioli stesso ha sentito tutta l’anacronisticità dal suo pensiero tanto che a un certo punto (se ho ben compreso) ha soggiunto, per temperarne l’asprezza, che bisogna impedire il formarsi del supercapitalismo. Ma egli non si è accorto che in tal modo contradiceva alle sue stesse premesse. Se si lascia libero sfogo alla legge della libera concorrenza e alla libera iniziativa animata solo dal fine del profitto personale, si arriva pur sempre al supercapitalismo e così a quelle conseguenze che lo stesso onorevole Maffioli depreca, fra le quali primeggia la guerra tremenda che fu la rovina di tanti popoli.
A conforto comune devo tuttavia rilevare che l’onorevole Maffioli ha espresso un’opinione personale. Io devo pensare che egli non abbia parlato in nome del Gruppo al quale appartiene poiché un altro deputato del Fronte dell’uomo qualunque, altrettanto autorevole, l’onorevole Colitto, a proposito dei consigli di gestione, contro cui l’onorevole Maffioli è partito con lancia in resta, ha dettato questo emendamento testuale: «I lavoratori hanno diritto di partecipare nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera per cooperare allo sviluppo tecnico ed economico di esse».
Il che vuol dire che l’onorevole Colitto non solo non vuole allontanare i lavoratori, ma vuole che essi collaborino allo sviluppo e all’incremento tecnico dell’azienda. Egli dunque non trova nulla di catastrofico nella creazione di questi consigli.
Una voce al centro. Le due tesi non sono in contrasto.
GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Non tutti adunque sono dell’opinione dell’onorevole Maffioli, e penso che la concezione dello Stato che egli ha posto a base della sua discussione non sarà accolta neppure dalla maggioranza del suo Gruppo.
Tutti più o meno ammettono l’intervento dello Stato nel settore economico: tutti ammettono che lo Stato debba controllare e coordinare le iniziative economiche. Sarà questione di limiti: si va da coloro che si lanciano verso l’avvenire con tutta la foga della loro aspirazione verso l’ideale della giustizia sociale a coloro che camminano più lenti, segnando il passo, come i liberali, ma che pure camminano. Soltanto l’onorevole Maffioli si è fermato sugli spalti dell’antico liberismo, come se in cento anni nessun passo in avanti avesse compiuto la evoluzione sociale.
Lo stesso onorevole Cortese ammette l’intervento dello Stato. Ma io non voglio portare la discussione in questo campo di natura dottrinale. Non voglio tramutare questa Aula in un’accademia o in una sfida di conferenze. Gli onorevoli colleghi avrebbero bene il diritto di lasciarmi parlare agli scanni vuoti.
Tanto meno sarebbe necessario perché altri onorevoli colleghi ne hanno, più o meno, parlato. Ne ha parlato, in linea prevalentemente teorica, l’onorevole Malvestiti, e ne ha parlato in un lucido discorso più aderente al testo l’onorevole Dominedò. Ne hanno parlato anche gli onorevoli Bosi, Montagnana. e Tega. Non sono tutti d’accordo nei particolari ma lo sono nel concetto fondamentale. L’onorevole Dominedò ha sostenuto che il Titolo III del nostro progetto di Costituzione rappresenta un tentativo di conciliazione dei diritti della persona coi diritti della collettività. Con questa affermazione dell’onorevole Dominedò, condivisa dagli stessi comunisti pei quali ha parlato l’onorevole Di Vittorio, si esclude il giudizio espresso dall’onorevole Maffioli e che un giorno espresse anche l’onorevole Capua quando ebbe la malinconica idea di emigrare all’estero e, peggio ancora, di voler portare ai nostri morti la notizia che «la nostra Patria è vile». Tanto lei, onorevole Capua, era persuaso che questo fosse un titolo socialcomunista!
CAPUA. Lei ha interpretato male la questione sul discorso della Patria. Era un altro concetto, che non riguardava questo Titolo. Non per chiarire questo concetto che dei sta ripetendo, ho detto questo. Molti deputati da me interpellati personalmente sarebbero stati ben lieti di addivenire alla decisione di portare poi questa Costituzione al referendum popolare. Su questo concetto ho inserito questa frase, non sul terzo Titolo, che stiamo discutendo.
GHIDINI. Presidente della terza Sottocommissione. Sta bene. Se è così, come Ella dice, vuol dire che l’isolamento della tesi Maffioli è veramente completo. La verità ad ogni modo è questa: che il nostro non è un progetto socialista. Io potrei dolermi, data la mia fede antica e costante, che tale non sia. Ma, ripeto, non è un progetto social-comunista. Come diceva l’onorevole Taviani poco fa, il nostro non è neppure un progetto di compromesso; non abbiamo voluto combinare le nostre idee con altre diverse od opposte. Se ci fossimo battuti sul campo delle ideologie, saremmo ancora a discutere, perché nessuno di noi avrebbe mortificato la propria fede e il proprio programma. Noi piuttosto, volendo fare una cosa realistica e pratica, checché ne pensi l’onorevole Nitti, abbiamo creduto di dovere adattare le disposizioni del Titolo alle condizioni dell’economia del Paese: a quelle che attualmente esistono ed anche a quelle che già si delineano in modo chiaro e sicuro nell’orizzonte politico ed economico del Paese, appunto perché la Carta costituzionale non registra soltanto il passato o il presente ma deve anche additare le vie dell’avvenire. Che questa non sia una Carta veramente socialista, ma una Carta che piuttosto renda possibile il progresso civile del Paese e consenta alla classe lavoratrice la realizzazione delle sue più legittime e profonde rivendicazioni, lo dimostra tutto il tessuto di questo, lasciatemelo dire, organico Titolo III del progetto di Costituzione.
È possibile parlare di un progetto social-comunista quando si afferma all’articolo 38 che la proprietà privata è assicurata e garantita e all’articolo 39 che l’iniziativa privata è libera?
Non è dunque un progetto social-comunista. È vero che sono affermati vincoli e limiti al diritto di proprietà. Ci sono limiti, perché non si vuole che si formino delle grandi concentrazioni di proprietà che sottraggono all’iniziativa privata grandi strati di produttori e costituiscono a un tempo delle potenze economiche tali che, se anche potessero condurre ad un grado di produttività più elevato, portano altresì a quella potenza politica che, non avendo altro intento che il vantaggio patrimoniale privato, disconosce e travolge gli interessi materiali, morali e politici della collettività scatenando quelle conflagrazioni che ci hanno portato alla miseria attuale.
Noi invece vogliamo che la proprietà si conformi alla sua funzione sociale. Del resto non è cosa nuova se tale concetto è affermato anche nel Codice civile fascista. Non è che io voglia mutuare questo concetto dal fascismo, per quanto, se c’è una cosa buona, io non abbia difficoltà ad accoglierla dovunque provenga perché la mia intransigenza non arriva fino alla cecità. Ma il concetto esisteva anche prima del fascismo ed esiste in tutte le legislazioni del mondo civile.
Quando l’onorevole Maffioli si lamenta dei vincoli posti alla proprietà, egli deve pensare che vincoli ci sono sempre stati. Sarà questione di limiti, e il nostro progetto non dice se questi vincoli dovranno essere più o meno gravi. Essi sono già nel nostro Codice civile per quanto riguarda la bonifica integrale; ci sono vincoli idrogeologici, vincoli al fine del rimboschimento e della sistemazione delle terre; per evitare che sia compromesso il regime delle acque, ecc., e nessuno ha mai sognato di avere in questo modo abolito la proprietà, o che i vincoli siano tali da condurre alla paralisi dell’iniziativa privata.
L’onorevole Maffioli ha parlato anche (mi permetta che insista ancora sulle sue osservazioni, onorevole Maffioli, non solo per deferenza ma anche perché ella è stato il solo che veramente abbia portato la questione sopra un campo di indole generale) di altri vincoli, ad esempio dell’espropriazione. Ma basterà che gli ricordi la legge del 1865. Egli ha parlato anche del diritto successorio, lamentando che nel Progetto si alluda ad eventuali diritti dello Stato sulle eredità come se nella nostra legislazione civile, non solo in quella mussoliniana, ma anche in quelle anteriori al fascismo non esistesse già la disposizione che, quando un Tizio muore «intestato» e non vi è parente entro il sesto grado, la proprietà è devoluta allo Stato, il quale diventa così erede legittimo. E poi, indipendentemente da questa disposizione, non va dimenticata la tassa di successione, che in effetti non è una tassa perché non è proporzionata alla spesa del servizio ma un vero e proprio prelievo sul capitale: potrei aggiungere, se non temessi di spaventare ancora di più il collega, che nulla di strano ci sarebbe se questo prelievo che oggi è fatto in denaro domani venisse fatto piuttosto in natura. Concludendo io vorrei persuadere lo stesso onorevole Maffioli che non si trova di fronte a una cosa tanto paurosa come egli crede, ma che si tratta piuttosto di un progetto semplicemente ma indubbiamente progressivo. È un progetto che tende a sbarrare la via al passato regressivo e reazionario e contemporaneamente ad aprire la strada all’avvenire, cioè al progresso, alle profonde riforme, agraria, industriale e bancaria, che qui non vengono affermate, o codificate sotto forma di norma cogente, ma delle quali vengono poste le premesse in base alle quali il legislatore futuro, cioè la volontà popolare futura, possa attuare queste riforme creatrici della auspicata giustizia sociale.
A questo punto mi pare di avere esaurito la discussione di carattere generale e mi restano solo alcune critiche di carattere tecnico alle quali alludo rapidissimamente per non dilungarmi. Si dice: ci sono delle norme che non hanno rigore giuridico; sono quelle che dovrebbero essere tolte dal testo definitivamente, oppure confinate in quella specie di limbo che è il preambolo. A questa pretesa abbiamo già risposto con tale copia di argomenti che è perfettamente inutile che vi insistiamo. Il diritto al lavoro è un diritto potenziale, come ha avvertito esattamente l’onorevole Ruini nella sua relazione, in base al quale si vuole impegnare vivamente lo Stato ad attuare l’esigenza fondamentale del popolo italiano di lavorare. D’altra parte mi preme rilevare che l’obbligo dello Stato è circoscritto entro un limite preciso, mediante l’inciso «promuove condizioni per rendere effettivo questo diritto».
La terza Sottocommissione aveva proposto un inciso diverso «predispone i mezzi per il suo godimento». Era più drastico, ma parve eccessivo; parve che potesse andare oltre le effettive possibilità e fosse come un promettere troppo in confronto di quanto si poteva mantenere. Si è così adottata una dizione che limita entro questo confine di ragione e di piena attuabilità il diritto al lavoro, quel diritto che splende, direi, nella nostra Costituzione come una stella fulgidissima.
Debbo poi dire dell’obiezione mossa dall’onorevole Cortese nel suo acuto ed equilibrato discorso (grande dote per un oratore è quella dell’equilibrio), che cioè in tutti questi articoli sono indicati dei limiti e delle condizioni senza però precisarne la portata in guisa che l’iniziativa privata, ignara del suo futuro destino, ne sarebbe paralizzata con danno grave della produzione. Rispondo all’onorevole Cortese che la sua preoccupazione è eccessiva e che d’altra parte non è possibile raggiungere quella sicurezza assoluta cui egli aspira se non a patto di arrestare del tutto il movimento evolutivo dell’economia nazionale. Occorrerebbe la staticità del fatto economico e allora – siamo perfettamente d’accordo – la sicurezza dell’iniziativa privata sarebbe assoluta. Ma siccome – piaccia o non piaccia all’onorevole Cortese e a me – il mondo cammina indipendentemente dalla nostra volontà (Approvazioni a sinistra), bisogna che ci adattiamo. Ma c’è un’altra verità che balza agli occhi: quando si procede ad una innovazione, ad una trasformazione, qualunque essa sia, il risultato non può essere mai completamente positivo e perfetto. Non si può costruire senza demolire; e la demolizione rappresenta sempre un danno; ma in tal caso si tratta di fare un bilancio dell’attivo e del passivo. Si tratta cioè di non rinunziare al progresso anche se deve costare qualche sacrificio o qualche rinunzia.
E un’ultima verità si impone a chi legga attentamente il Titolo. Qualsiasi innovazione o trasformazione in esso preconizzata od avviata dovrà avvenire sempre e soltanto attraverso la legge. Questa condizione, posta come un denominatore comune a tutte le disposizioni, ci affida che il legislatore futuro saprà adattarne l’applicazione alle esigenze del tempo e che lo svolgimento del fatto economico si attuerà con quella gradualità, sia pure intensa, che è garanzia di libertà. Del resto non potevamo in questa Carta costituzionale fissare esattamente limiti e condizioni, ciò supponendo la conoscenza esatta del mondo di domani. Ma noi purtroppo non siamo profeti e non possiamo immaginare con sicurezza il futuro; tanto più perché ci troviamo in un momento di transizione e di instabilità generale, e in un Paese che – purtroppo – non ha indipendenza economica. È una verità dolorosa che non possiamo negare. In una situazione come questa non potevamo che segnare un indirizzo generale confidando nella saggezza del popolo italiano e in un domani migliore. (Applausi a sinistra).
L’ultima obiezione di carattere generale è che il Titolo non altro sarebbe che un tessuto di lucenti promesse. Ho ancora nell’orecchio le parole senza speranza dell’onorevole Nitti: parole che, dall’alto della sua personalità di scienziato e di uomo politico, ci sono cadute sul cuore con la crudele insistenza di un gelido stillicidio. Altri all’inizio della discussione generalissima ha parlato perfino di frode, d’inganno, di beffa.
Potrei rispondere, se fosse vero, che l’inganno e la beffa risalgono al tempo della lotta elettorale quando tutti i partiti lanciarono programmi nei quali, senza distinzione, erano fatte queste promesse. I nostri più aspri censori non avrebbero quindi il diritto di parlare. Ma l’inganno e la beffa non sono veri e non lo furono mai. (Commenti).
Non tutto si potrà raggiungere oggi; siamo d’accordo. Ma se noi pretendessimo di fare una Costituzione limitata a quanto si può fare oggi stesso dovremmo toglierò dal progetto tutta la prima parte, quella cioè dei diritti politici, civili ed economici, poiché nessuno di essi potrebbe resistere alla situazione desolante in cui ci troviamo. Dovremmo ridurre la Carta costituzionale alla sola seconda parte, all’ordinamento politico del Paese, componendo così un bel palazzo, di ampie e magnifiche sale, ma vuoto e deserto e senza l’eco di questa voce potente di popolo anelante alla giustizia sociale. Io penso, con convinzione serena, che non tutto potremo dare oggi al lavoratore italiano. Gliene daremo oggi una parte, un’altra domani. Ma gli daremo contemporaneamente una grande e non illusoria speranza, tale che rafforzi il suo spirito nel duro cammino della resurrezione e che gli dia l’energia, veramente divina, di uscire dal baratro in cui l’ha gettato la follia più criminale che ricordi la storia dei popoli, per rifare la sua Italia, indubbiamente più bella di prima, nella luce e nella gloria di una civiltà superiore. (Vivissimi applausi – Molte congratulazioni).
PRESIDENTE. È così terminata la discussione generale sul Titolo terzo della prima parte del progetto di Costituzione. Dobbiamo ora passare all’esame degli emendamenti.
Gli onorevoli Tremelloni e Cairo hanno proposto di premettere all’articolo 30 il seguente:
«Allo Stato compete la rilevazione costante e tempestiva dei dati riferentisi alla vita economica della Repubblica. Esso provvede a diffonderne la conoscenza».
L’onorevole Cairo ha facoltà di svolgere questa proposta.
CAIRO. Onorevoli colleghi, l’emendamento presentato dal collega Tremelloni e firmato anche da me potrebbe apparire una proposta che non riguarda strettamente materia di carattere costituzionale. È parso tuttavia ai presentatori necessario premettere al Titolo in esame questa esigenza, che è di mero carattere economico e sociale.
Tutti i popoli civili, da molto tempo, attingono i dati necessari alla propria economia da rilevazioni statistiche rigorose. Noi, purtroppo, non abbiamo organizzazioni statistiche di tale importanza e di tale rigore da poterci mettere in concorrenza con quelli che sono gli istituti statistici di altri popoli. E se la statistica serve, come è noto, a tutte le attività scientifiche e a tutte le attività sociali, è specialmente ai rapporti economici che essa deve essere rivolta.
Il nostro emendamento vorrebbe affermare il principio che non è possibile parlare di rapporti economici è di rapporti sociali se lo Stato, se il popolo, se la Nazione non sono in grado di controllare rigorosamente, direi quotidianamente, ora per ora, la propria vita, se non mettono la mano al polso della propria attività economica. E, badate: è sembrato ai presentatori che questo fosse un argomento di carattere costituzionale in quanto è di carattere primordiale, rappresenta la premessa indispensabile per qualsiasi sviluppo economico della nostra civiltà e per conoscere quale è il punto della nostra attività e della nostra vita economica.
Col nostro emendamento non si parla solamente di un obbligo dello Stato di provvedere alla istituzione di questi istituti e di operare le relative rilevazioni di carattere statistico. Si aggiunge l’obbligo dello Stato della divulgazione, della diffusione di questi dati, della conoscenza quindi di questi dati estesa a tutti i cittadini. Ora, quando noi siamo di fronte a delle agitazioni di carattere economico, quando siamo di fronte a delle questioni di carattere economico nazionale, che interessano larghi strati di produttori, di lavoratori ecc., noi vediamo che molto spesso certi movimenti, certi atteggiamenti, sono dovuti al fatto che non sempre queste correnti di produttori, queste masse agitate e convulse folle, conoscono le condizioni e quindi i limiti delle possibilità di queste loro aspirazioni e agitazioni. È la mancanza del dato economico quella che talvolta induce anche a dei conflitti sociali che sembrano ingiustificati.
Ora, noi vogliamo con questo affermare un principio che sembrerà non strettamente costituzionale, secondo il concetto giuridico, non ortodosso, ma che sembra a noi costituzionale per il carattere primordiale, fondamentale, imprescindibile che è contenuto nell’affermazione da noi proposta.
Il volere che lo Stato prenda finalmente sul serio l’importanza della statistica economica, e faccia propaganda continua ed effettiva di questa statistica, e faccia conoscere gli italiani nel campo economico e sociale, in questa Italia la quale è tanto diversa, che tante volte non si conosce nemmeno, che alla vigilia della discussione sulle circoscrizioni regionali, non sa ancora se deve essere molteplice o se deve essere una, il far conoscere questi dati agli italiani e farli conoscere attraverso un obbligo imposto dallo Stato, vuol dire, a mio avviso, affermare un principio di necessità fondamentale.
Io non so quale accoglienza potrà essere fatta dai giuristi a questa affermazione che sembra eterodossa. Noi abbiamo il piacere di avere compiuto il nostro dovere, quello di richiamare l’attenzione della massima Assemblea della Nazione su questa deficienza del nostro Stato, la deficienza di una reale organizzazione di istituti statistici che siano controllati e che abbiano nello Stato, non soltanto un tutore, ma un forte e valido ausilio di carattere nazionale. (Applausi).
PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 15.
Interrogazioni con richiesta di risposta urgente.
PRESIDENTE. Comunico che sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:
«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’agricoltura e foreste, per conoscere le ragioni per cui il Governo non ha ancora convertito in legge il lodo De Gasperi, provvedimento di assoluta urgenza, soprattutto nella imminenza del raccolto.
«Macrelli».
«Al Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se non ritenga oltremodo necessario – anche per alleviare la grave disoccupazione specialmente delle zone di Corato, Andria, Minervino, Barletta, Canosa – disporre subito l’inizio dei lavori dell’autostrada Bari-Napoli, che fra l’altro tanto vantaggio apporterebbe allo sviluppo dei rapporti commerciali fra le due regioni.
«Caccuri, Monterisi».
«Al Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere quando intenda portare all’esame dell’Assemblea Costituente il disegno di legge relativo al risarcimento dei danni di guerra, problema di interesse nazionale, la cui soluzione non può essere ulteriormente dilazionata.
«De Mercurio, Morini, Paolucci, Camangi, Reale Vito, Bernabei, De Vita, Cairo, Rodinò Mario, Abozzi, Carboni».
Chiedo al Governo quando intenda rispondere.
PELLA, Sottosegretario di Stato per le finanze. Darò notizia di tali interrogazioni ai Ministri competenti affinché comunichino quando intendono rispondere.
DOMINEDÒ. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DOMINEDÒ. Chiedo quando il Governo intenda rispondere ad una interrogazione da tempo presentata, riguardante la traduzione in legge del progetto di riforma dei consorzi agrari.
PRESIDENTE. Avverto che una delle prossime sedute antimeridiane sarà completamente dedicata alle interrogazioni delle quali il Governo ha riconosciuto l’urgenza.
PERUGI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PERUGI. Vorrei sollecitare dal Ministro della difesa la risposta alla mia interrogazione sul compenso per il lavoro straordinario agli ufficiali e civili.
PRESIDENTE. Farò presente al Ministro competente tale richiesta.
Interrogazioni.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.
SCHIRATTI, Segretario, legge:
«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se non crede opportuno rivedere i criteri coi quali è stato stabilito il tesseramento differenziale annonario, poiché i criteri adottati per la suddivisione dei cittadini danneggiano gravemente le categorie impiegatizie, creando una ingiustificata sperequazione tra queste e gli operai, colpendo in modo particolare gli impiegati, che hanno carico di famiglia.
«L’interrogante chiede che il tesseramento differenziato e preferenziale venga modificato nel senso che il limite di reddito per l’appartenenza alla categoria A, venga elevato a lire 35.000, nette di tasse, assegni familiari, imposte, diarie e militari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Mariani Francesco».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delie finanze e del tesoro, per sapere se non ritenga opportuno disporre perché sia reso praticamente possibile il pagamento dell’acconto per i danni di guerra (mobilio) alle famiglie dei militari irreperibili, per procedere al quale pagamento si richiede attualmente la dichiarazione di morte presunta con i conseguenti ulteriori adempimenti di legge.
«Per ottenere tale dichiarazione occorre una procedura che, oltre ad essere lunga, è anche notevolmente costosa, per cui il più delle volte l’acconto dovrebbe essere quasi completamente impiegato per far fronte alla spesa relativa e si chiede pertanto se il Ministro non ritenga fissare invece una procedura analoga a quella stabilita dal Ministero della difesa per il pagamento alle famiglie degli assegni dovuti ai militari irreperibili. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Camangi».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere le ragioni che lo hanno indotto ad abbandonare il progetto di costituzione dell’Istituto regionale riscossione imposte dirette per la Sicilia, progetto che, instradando su una via moderna e tecnicamente più perfezionata il sistema di riscossione delle imposte dirette, garantiva gli interessi della Amministrazione finanziaria ed assicurava armonicamente la stabilità di occupazione della classe esattoriale, e per sapere se non ritenga opportuno di riprendere il progetto stesso, in vista dei cennati vantaggi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Dugoni».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non creda opportuno e doveroso, considerato il rilevante numero di reduci regolarmente iscritti alle sessioni ordinarie del 1941 e seguenti (chiamati alle armi con le classi di leva 1921, 1922 e 1923) che non hanno potuto usufruire di alcuna sessione straordinaria perché non ancora rientrati dalla prigionia o perché rimpatriati in minorate condizioni di salute, e quindi bisognevoli di cure e lungo riposo, indire una sessione di esami di ammissione, promozione, idoneità, licenza ed abilitazione presso gli istituti di istruzione media di ogni ordine e grado. Il movente della richiesta va ricercato nel fatto che numerosi reduci, in ispecie quelli della prigionia, non essendosi potuti dedicare allo studio subito dopo il rimpatrio a causa delle malattie contratte in cattività, e non avendo di conseguenza potuto fruire delle sessioni straordinarie precedentemente indette, verrebbero a trovarsi in condizioni di disparità nei confronti di coloro che hanno già beneficiato di tale concessione. Il caso ha carattere di urgenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Cotellessa».
«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della difesa e delle finanze e tesoro, per sapere quale azione concorde essi ritengono di svolgere in merito al provvedimento relativo all’avanzamento degli ufficiali provenienti dai primi tenenti dei carabinieri, di fanteria e di amministrazione.
«Il provvedimento che da un anno si dibatte in cavillose, anguste pastoie burocratiche tra l’Amministrazione dell’esercito e la Ragioneria generale:
- a) rappresenta un atto di giustizia con il quale si vuole riparare ad una lesione del diritto sofferta da questi ufficiali e restaurare quella morale dei quadri stabilita dalle sane leggi del passato e sovvertita dall’arbitrio fascista. Atto di giustizia perché questi ufficiali, già combattenti del Grappa e del Piave, dopo trent’anni di spalline, si sono visti raggiungere ed anche scavalcare da ufficiali ben più giovani di loro e dei quali furono superiori od istruttori, in violazione della precisa finalità della legge di avanzamento (articolo 140).
«Su questa anormale situazione il Consiglio di Stato si è espresso, de jure condendo, nel senso che la materia trattata dall’articolo 140 della legge 9 maggio 1940, n. 370, merita, così come ha convenuto il Ministro della difesa, di essere completata con quelle disposizioni esecutive che possano eliminare le verificatesi sperequazioni di carriera;
- b) risponde a superiore esigenza della Amministrazione militare, la quale intende, in questa fase di riorganizzazione delle Forze armate, avvalersi dell’opera di questi ufficiali, di provato valore e di particolare esperienza.
«Il fatto che il Ministro responsabile insiste nella presentazione del provvedimento significa che esiste effettivamente l’intima correlazione tra il provvedimento stesso e l’esigenza dell’Amministrazione;
- c) tende a promuovere i provenienti dai primi tenenti: al grado di maggiori, gli attuali capitani ai carabinieri e di amministrazione; al grado di tenente colonnello gli attuali maggiori di fanteria, in modo da ovviare anche alla disparità di trattamento venuta a crearsi con l’aumento dei limiti di età disposto per gli ufficiali dei carabinieri con il decreto legislativo 26 agosto 1945, n. 659, perché col provvedimento in questione si assicura un quasi uguale provvedimento ai fini della permanenza in servizio di detti ufficiali e cioè: sino al 52° anno di età i maggiori di fanteria che dovranno essere promossi tenenti colonnelli e sino al 53° anno di età i capitani dei carabinieri e di amministrazione che dovranno essere promossi maggiori;
- d) non costituisce sensibile aggravio finanziario per l’erario perché non dà titolo a corresponsione di arretrati, né comporta eccessivo aumento degli emolumenti perché gli ufficiali in questione – il cui numero è peraltro assai esiguo – percepiscono già, per la loro anzianità di servizio, le indennità del grado superiore. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Perrone Capano».
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.
La seduta termina alle 19.45.
Ordine del giorno per la seduta di domani.
Alle ore 15:
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.