Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 6 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 6 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

 

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Cassiani                                                                                                            

Cairo                                                                                                                

Belotti                                                                                                             

Montagnana Mario                                                                                        

Medi                                                                                                                  

Terranova                                                                                                       

Bosi                                                                                                                   

Bruni                                                                                                                

Villani                                                                                                             

Murgia                                                                                                             

Presentazione di un disegno di legge:

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste                                                     

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo l’onorevole Lussu.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale del Titolo terzo.

È iscritto a parlare l’onorevole Cassiani. Ne ha facoltà.

CASSIANI. Onorevoli colleghi, su questa parte del progetto di Costituzione, che a me appare come la più significativa e la più aderente alla realtà dell’ora, io intendo, a titolo personale, fare qualche osservazione che non ripeta gli argomenti già detti da altri colleghi dell’Assemblea e che rifletta alcune esigenze nel campo sociale del progresso e in quello scottante della produzione, attraverso le nude formule della Carta Costituzionale.

L’articolo 41 regola i rapporti e i vincoli da imporre alla proprietà terriera privata. Sono forse questi i principî più significativi fra quanti ne contiene il Titolo III. Si profilano nell’articolo 41 gli elementi di quella riforma agraria che dovrà realizzarsi in un domani – che noi ci auguriamo sia prossimo – attraverso istituti di diritto pubblico. L’articolo 41 ha un significato non dubbio, onorevoli colleghi: esso dice che lo Stato, nel momento in cui sorge, tende l’orecchio alle istanze delle classi meno abbienti, dal cui confuso tumulto partono voci che indicano problemi sociali da affrontare e da risolvere.

Quando l’Italia avrà varato la sua riforma agraria, io penso che avrà fatto sempre meno di quel che hanno fatto i Paesi più progrediti di Europa. In Italia si sono sempre colpite la piccola e la media proprietà terriera e si è lasciata insoluta, attraverso una forma strana di tenacia abulica, il problema della grande proprietà terriera. Fuori di questa Aula, contro le norme delle quali ci occupiamo, si sono avanzate critiche aspre, qualche volta dettate dal timore del peggio, tal altra da uno stato che dirò di paura opaca, tal altra ancora da preoccupazioni legittime in rapporto a quello che può essere il processo produttivo. Preoccupazioni, queste ultime, che lo smembramento delle grandi fortune sia causa di rallentamento e di disgregazione del processo produttivo.

Evidentemente nella visione panoramica del problema, che è così vasto e ha radici così profonde, io penso che qualche volta si confonde l’aspetto giuridico con l’aspetto economico del problema, si confonde la proprietà dei beni con la gestione di essi, e, d’altro canto, si dimentica che non c’è un tipo di azienda preferibile in senso assoluto, in rapporto all’estensione ed all’organizzazione, sotto l’aspetto sociale ed economico. Certo è che lo sviluppo dell’attività trasformatrice dei prodotti agricoli non è riservato alle grandi aziende, pur essendo ad esse legato in parte il processo produttivo. Ma, dicevo, nell’esame panoramico del problema mi pare si confonda assai spesso l’aspetto giuridico con quello economico. Qui, infatti, non si tratta di tagliuzzare ciecamente la terra e distribuirla a pezzi: qui si tratta di stabilire una serie di rapporti nuovi che vadano dalla proprietà alla gestione fino alle forme più avanzate della compartecipazione. In questo è la complessità del problema ed è questa la difficoltà della soluzione.

Aggiungo che c’è un problema sussidiario che diventa, per così dire, primario, nella materia dell’articolo 41. Perché il latifondo si abolisca, perché la proprietà terriera subisca una modifica, che cosa è necessario? È necessaria un’opera di trasformazione fondiaria, una legislazione che riconosca e renda possibile, direi fisicamente possibile, la vita associata del lavoro e del capitale, tutte le volte che questo sia utile al processo produttivo e quindi all’economia nazionale. Questi due concetti potranno essere enunciati, con la collaborazione dell’Assemblea, attraverso gli articoli 41 e 42 del progetto, dicendo all’articolo 41 che «il latifondo, comunque condotto e coltivato è suscettibile di utili trasformazioni fondiarie e di appoderamento e che la trasformazione e l’appoderamento sono obbligatori»; e dicendo all’articolo 42 che «lo Stato riconosce la libera vita associata del lavoro».

Per quanto riguarda l’articolo 41, all’osservatore, anche il più disattento, si presentano domande che reclamano una risposta e dubbi che attendono di essere placati. Che cosa vuol dire abolizione del latifondo? E ancora: si avanzano dubbi sul significato della parola. Non è chi non sappia che nel linguaggio tecnico ed economico la parola latifondo non vuol dire una qualunque estensione di terra, ma vuol dire invece un’estensione di terra che sia in istato di arretratezza dal punto di vista della coltura e in rapporto alla possibilità di trasformazione fondiaria di essa, tanto che si arriva a questa conclusione: che può essere latifondo la media estensione di terra e può non esserlo la vasta estensione di terra.

L’interrogativo potrà avere una certa risposta e il dubbio potrà essere placato soltanto a patto di una specificazione dell’articolo 41 e anche, a mio parere, di un ampio respiro, dirò così, di interpretazione dell’articolo 42, il quale contiene principî che concorrono a rendere efficienti i principî dell’articolo 41 il significato – cioè – di una cooperazione che nasca e si sviluppi liberamente, come ha detto l’altro ieri in quest’Aula il collega Dominedò: liberamente, ma su alcune premesse di vita, che io chiamerò fisica, premesse di vita che lo Stato deve costituire. Perché non bisogna dimenticare, onorevoli colleghi, che la cooperazione non è certo la forma dei popoli più poveri e meno progrediti: è, al contrario, la cooperazione, espressione, naturale, direi quasi istintiva, dei popoli che non sono poveri e che sono anche istruiti.

Ebbene, in Italia c’è un esempio che è sotto gli occhi di tutti: la differenza enorme tra la cooperazione nell’Italia Settentrionale e nell’Italia Meridionale. Dimentichiamo per un momento, onorevoli colleghi, gli sforzi dei nostri partiti: quella è un’altra cosa; ma la cooperazione, nei tempi che potremmo chiamare prefascisti, nell’Italia Settentrionale era sviluppatissima, mentre nell’Italia Meridionale languiva anche nelle sue forme più semplici, più elementari, anche nei casi di cooperative di consumo o di cooperative costituite perché i contadini avessero potuto vendere i prodotti della propria terra.

Non si può pensare seriamente, onorevoli colleghi, che con le leggi con cui si enuncia il principio – non certamente nuovo – della quotizzazione del latifondo, si possono creare meccanicamente, dirò così, coltivatori diretti o liberi cooperatori. È forse opera troppo lenta attendere la redenzione agraria di un Paese come l’Italia dall’associazione di capitali, che tante volte non ci sono, di coscienze offuscate dalla povertà o dall’ignoranza, se lo Stato, senza iugulare – beninteso – in qualunque modo la libertà della cooperazione, non si rendesse vigile promotore nella Costituzione di quelle che io pocanzi ho chiamato le premesse di vita fisica, perché la cooperazione nasca e si sviluppi.

Solo una grande riforma economica può preservare l’Italia sociale e l’Italia politica.

Chi sa che non si possa riprendere, in omaggio all’articolo 41 e in omaggio all’articolo 42, con le opportune modifiche, quel vecchio progetto che l’onorevole Maggiorino Ferraris sostenne fin dal 1900, con altezza di pensiero e magistero di parola, secondo il quale sarebbero costituite le unioni agrarie mandamentali collegate in unioni regionali e queste in una unione nazionale, con vita autonoma, sorretta dalle eccedenze delle casse postali, avente la funzione del credito in natura ai piccoli e medi agricoltori, che potrebbero, perciò, riunirsi in cooperative di produzione avendo la sicurezza della base sulla quale muoversi.

Chi sa che non sia il caso di imitare, più semplicemente, quelle casse regionali di credito agrario mutuo che nella Repubblica francese operarono tanto bene a vantaggio della piccola e della media proprietà terriera: anche la istituzione di quelle casse potrebbe essere collegata allo sviluppo di una rete di cooperative di produzione e contribuire, perciò, a rendere efficiente e non soltanto teorico il contenuto degli articoli 41 e 42 del progetto di Costituzione.

Potrebbero contribuire questi o altri mezzi, questi o altri accorgimenti, a non rendere teorico il contenuto degli articoli 41 e 42.

Chi sa che non sia giunto il momento di affrontare con serietà – attraverso l’idea lanciata da Maggiorino Ferraris o attraverso il modello francese o attraverso, come dicevo, quelle altre vie che il legislatore di domani potrà indicare – il problema della terra nell’Italia Meridionale, che in tanto può essere risolto in quanto si affronti il problema della vita collettiva del lavoro.

Suggerendo le modifiche all’articolo 41, io non posso non pensare, onorevoli colleghi, al mio Mezzogiorno – né con ciò io evado, onorevole Presidente, dal chiuso ambito del tema che mi sono imposto. Non evado: il latifondo è una piaga dell’Italia Meridionale e, più precisamente, del centro-meridione. È quindi l’esperienza di vita del Mezzogiorno che mi suggerisce i provvedimenti che ho proposto.

Suggerendo quelle modifiche, io debbo dire che, quando si parla del latifondo dell’Italia Meridionale, si suole pensare a terre che diventeranno opime nel momento stesso della quotizzazione. Ebbene: non c’è niente di più inesatto, non c’è niente di più lontano dalla realtà obiettiva. Si tratta spesso di rocce, qualche volta di sabbia, tal altra di acquitrini.

Per rendere possibile la bonifica agraria, premessa indispensabile allo spezzettamento e all’appoderamento del latifondo, occorre modificare la natura stessa del terreno, ricorrendo ad opere costose è complesse, nelle quali lo Stato potrà concorrere solo a patto che venga sorretto da speciali cooperative di produzione. Opinioni erronee sono quelle di coloro i quali persistono a credere i lavoratori del Mezzogiorno, agricoltori e braccianti, tutti neghittosi, tutti incapaci di trarre dalla loro terra – che sarebbe, secondo questi osservatori superficiali, un vero eden – quei copiosi frutti che il sole del Mezzogiorno dovrebbe consentire (anche quando non piove per dieci mesi e il periodo della vegetazione diventa più breve in Basilicata e in Calabria che non nella nordica Scandinavia). Si presenta quindi, evidentemente, un problema complesso di trasformazione fondiaria, per la quale io propongo che lo Stato si impegni nella Costituzione, ma propongo altresì che si impegnino i privati, mettendoli dinanzi allo spettro dell’espropriazione.

L’impegno da parte dei privati proprietari dei latifondi a me pare indispensabile non solo per un’evidente ragione di principio, che non è il caso di illustrare ad un’Assemblea come questa, ma anche perché mai come oggi le condizioni dello Stato italiano si sono trovate ad essere così poco idonee all’estensione e all’accrescimento della produzione delle desolate plaghe del Mezzogiorno, di quelle plaghe, cioè, per cui dovrebbe in definitiva trovare applicazione il principio sancito nell’articolo 42.

L’Italia soffre, sì, del travaglio di una crisi che forse è priva di precedenti storici, ma soffre anche a cagione della crescente, naturale pressione di una grandissima minoranza di cittadini, i cui interessi non dico che siano in contrasto, ma sono certo diversi e lontani dagli interessi dall’enorme maggioranza dei cittadini, che è costituita dai lavoratori della terra (Applausi).

Per questo io penso una cosa amara, onorevoli colleghi, amarissima per me che sono meridionale e meridionalista convinto: penso che i problemi del Mezzogiorno non siano mai stati tanto lontani dalla soluzione come oggi. Io vorrei interrogare ad uno ad uno i colleghi di ogni parte della Camera: una volta tanto, al di sopra dei partiti, io penso che ci troveremmo tutti d’accordo.

Per questo io credo all’urgenza e alla inevitabilità di una riforma come quella alla quale ho accennato, sia pure nella maniera vaga che mi è consentita dal fatto che parlo in sede di discussione di un progetto di Costituzione e non di un progetto di legge. Certo è che una Costituzione, onorevoli colleghi – altri di me più autorevoli in quest’Aula l’hanno detto – non può prescindere dalla realtà.

Non si dimentichi, a tale riguardo, che in Italia soltanto 16 milioni di ettari, su 28 di superficie agraria e forestale, sono allo stato coltivati, cioè meritevoli di essere coltivati dallo Stato. È evidente che non si può varare una Costituzione dove è scritto, noi diciamo semplicemente (altri dicono invece semplicisticamente), che la legge abolisce il latifondo. Non dimentichiamo, onorevoli colleghi, che accanto al pericolo grave di ingannare la massa enorme dei braccianti agricoli italiani, si profila un pericolo altrettanto grave per il caso che una salda organizzazione economica ed agraria non dovesse in un domani imminente sorreggere e rendere effettivo il principio che si enuncia nell’articolo 41: il pericolo cioè che nel nostro Paese si costituisca una miserevole economia di stato lontana dal grande gioco internazionale, lontana dalle grandi vie che sono percorse dai Paesi che innegabilmente rappresentano una buona parte del mondo.

È evidente che se i prodotti della nostra agricoltura vorranno sostenere la concorrenza straniera, sul piano dell’importazione e su quello dell’esportazione, in Italia bisogna pure avere aziende agricole rette e regolate dalle più moderne leggi economiche. Non c’è dubbio, onorevoli colleghi, sulla necessità di una riforma agraria che sia anzitutto una riforma costituzionale. Dico riforma agraria costituzionale, perché soltanto attraverso il perfezionamento del processo produttivo e la conseguente riduzione dei costi, noi arriveremo a toccare il bersaglio, arriveremo cioè alla conclusione di poter veramente immettere la massa lavoratrice italiana nel processo di produzione.

Una cosa è certa, se vogliamo che l’Assemblea con tranquillità approvi le modifiche che a me pare il caso reclami l’articolo 41 nel suo spirito profondamente innovatore di tutto un sistema: la necessità, cioè, di assicurare l’efficienza tecnica di coloro i quali dovranno essere domani i proprietari o i gestori – la necessità, comunque, di non incidere sul processo produttivo attraverso la vaghezza di formule che mal si comprendono in una Carta costituzionale, e che evidentemente domani non potrebbero essere consentite nella parola della legge.

Complessità di problemi, dunque, e difficoltà di rimedi, sulle quali, mi permetto di richiamare tutta quanta la vigile attenzione dell’Assemblea, perché non è chi non veda come il facile principio della quotizzazione al quale si informarono tutte le leggi agrarie, dai Gracchi in poi, continuerà ad apparire come una pagina, e non certo la più originale, del libro dei sogni, fino a quando non si arriverà a creare la struttura di una vera organizzazione economica che sia il i substrato, la spina dorsale di una concreta riforma agraria.

E io concludo: concludo semplicemente dicendo, onorevoli colleghi, che se la Carta Costituzionale deve contenere affermazioni di principio nell’agitato campo della funzione sociale della proprietà, è necessario, è indispensabile che in essa siano contenute le premesse di quella riforma che dovrà esser fatta con alto intendimento perché risponda al comando collettivo della coscienza pubblica, perché non crei delusioni e, con le delusioni, non mortifichi il credito popolare verso la democrazia e verso le istituzioni che la realizzano. (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nobili Tito Oro. Poiché non è presente, decade dall’iscrizione.

È iscritto a parlare l’onorevole Cairo. Ne ha facoltà.

CAIRO. Onorevoli colleghi, il Titolo del progetto sottoposto al nostro esame meriterebbe un ampio svolgimento, un discorso che io non saprei fare e che non voglio fare anche per rendere omaggio a quella volontà di accelerare i nostri lavori che ha trovato consenzienti tutti, anche in questo settore, sia pure attraverso qualche dissenso di metodo e di forma.

Io parlerò brevemente, anche perché noi riteniamo che la materia di questi articoli sia materia di cui noi di questi banchi possiamo rivendicare la paternità storica come socialisti, perché comprende e compendia tutto il travaglio della nostra attività di pensiero e di azione.

Sarò anche schematico e semplice, perché io sento di dovere rendere omaggio così ai colleghi della Commissione che hanno elaborato questo complesso di articoli che è veramente armonico ed organico e che rappresenta, mi si consenta di dirlo, una rarità anche per il testo del nostro progetto. Questa lode io sento di dover dare con tutta sincerità ai Commissari, a questi nostri colleghi che hanno diligentemente redatto questo complesso armonico di articoli.

Tuttavia, nella necessità ed urgenza di far presto, l’Assemblea non dovrà dimenticare, e sono certo che non dimenticherà, che questo capitolo del nostro progetto costituzionale è, per così dire, la pietra angolare dell’erigendo edificio costituzionale, è la base fondamentale di tutta la Costituzione. Sarà quello che la caratterizza e la consolida, perché anche oggi noi ubbidiamo, trattando di questo Titolo, ad un’istanza, ad un’esigenza che abbiamo sentito subito alle soglie dei nostri lavori, quando nell’articolo primo abbiamo proclamato che la Repubblica italiana sarà, solamente se sarà fondata sul lavoro, se sarà una Repubblica di lavoratori. È per assolvere veramente e schiettamente a questa promessa, che noi abbiamo fatto a noi stessi, (come per celebrare la consacrazione di un alto principio generale) che noi dovremmo rendere questo principio generale sempre più attuabile, sempre più facile, dovremmo far sì che questa materia divenga una realtà viva e vivente.

Esiste in questa materia un pericolo, il pericolo di essere generici, vaghi, di essere troppo impegnativi; è una materia che seduce e noi dovremmo invece evitare di essere vaghi e generici, anche a costo di accontentarci solamente di affermare, con alcuni principî fondamentali la nostra volontà che effettivamente la Repubblica divenga Repubblica di lavoratori: volontà e principî che dovranno concorrere a costituire un complesso di istituzioni del nuovo diritto sociale ed economico italiano.

Ed entrerò subito nel vivo degli articoli che esaminerò in modo semplice e schematico.

L’articolo 30 – vado subito al capoverso – sancisce il principio della solidarietà internazionale del lavoro, principio che noi abbiamo sempre affermato ed oggi sentiamo di affermare con maggiore tenacia e con maggiore entusiasmo. Però, a questo principio, a mio modesto avviso, si dovrebbe dare più netto rilievo, più netto e più alto rilievo, perché questa solidarietà internazionale del lavoro è, com’è noto, una delle potenti leve della nostra civiltà moderna, starei per dire l’unica potente leva della civiltà moderna, è, per noi italiani in particolare e per il mondo intero la salvezza, la salvezza della pace.

Su altri banchi è stata fatta eco a quella dichiarazione di Filadelfia che, nel sedicesimo Congresso dell’organizzazione internazionale del lavoro, affermava i principî fondamentali di questa solidarietà dei lavoratori. Ebbene, è stato presentato un emendamento che io firmai, proposto dal collega Tremelloni, nel quale si chiede che, qui, all’articolo 30, si affermi che l’Italia aderisce alle dichiarazioni di Filadelfia del maggio-aprile 1944. Queste dichiarazioni sono in gran parte versate in questo nostro Titolo del progetto di Costituzione, ma non sarà vano riaffermare, con un gesto, questa nostra solidarietà internazionale del lavoro, perché io ritengo che dalla nostra Costituzione i richiami alla nostra posizione internazionale non siano vani; che non sia stata vana la coraggiosa affermazione che noi abbiamo fatto nel proemio, quando abbiamo stabilito che siamo pronti a sacrificare in parte la nostra stessa sovranità purché sorga finalmente una Confederazione di Stati europei o mondiali.

Ora io ritengo che questo sentimento di solidarietà internazionale debba vibrare nella nostra Costituzione ed essere espresso qui, in questo capoverso, capoverso dove si dice che la Repubblica promuove e favorisce gli accordi internazionali per affermare e regolare i diritti del lavoro. Aggiungerei, in conformità ad altro emendamento proposto, i diritti alla libera circolazione dei lavoratori (io direi: trasferimento dei lavoratori). E qui cadrebbe opportuno anche il richiamo di quell’articolo 10 riguardante le dichiarazioni, che nella seduta dell’11, se non erro, l’Assemblea ha voluto trasferire a questo Titolo. Ed io ripeto: in questo articolo dovrebbe essere compresa quella parte di articolo 10 che riguarda l’emigrazione, e completerei dicendo che «l’emigrazione è tutelata, è protetta dallo Stato». Noi italiani dobbiamo insistere su tale punto che è condizione della nostra stessa esistenza economica. Dell’articolo 31 non posso che osservare questo: è bene affermare il diritto ed il dovere del lavoro, questo duplice aspetto di un unico precetto etico e sociale. Solamente là dove si dice: «ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività od una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta», parrebbe a me (lo do come suggerimento alla Commissione) che fosse più utile usare la parola «attitudine» piuttosto che «possibilità»; poiché mentre in «possibilità» c’è qualche cosa di soggettivo e di potestativo – un giudizio che il cittadino dà delle proprie possibilità – «nelle attitudini» c’è qualcosa di obiettivo, di più efficace è di reale.

Nell’articolo 31 c’è un principio sul quale noi siamo perfettamente consenzienti. È un principio nuovo: quello che subordina l’esercizio dei diritti politici all’adempimento del dovere di lavorare. Nessuna riserva in linea generale ed astratta su questo principio da parte nostra, se non per quanto attiene all’articolo 45. È una questione di coordinamento. Voi sapete che l’articolo 45, nel trattare dei rapporti politici, dice: l’esercizio è dovere civile e morale e non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto. Se noi stabiliremo in questo capoverso qualche opportuna eccezione, sarà bene.

All’articolo 34 si stabilisce il diritto del lavoratore al mantenimento e all’assistenza sociale. Ora il diritto al mantenimento sembra a me che possa essere ritenuto troppo impegnativo da un lato e troppo restrittivo dall’altro. Meglio si sarebbe fatto usando la dizione: «diritto all’assistenza economica, e sociale»; e nel capoverso dove si parla di istituti e organi predisposti e integrati dallo Stato, invece, di mantenere un’espressione così generica, ritengo sarebbe meglio stabilire: «organi pubblici», in quanto solamente l’organo pubblico deve e può, con le dovute garanzie, amministrare l’assistenza e la previdenza.

E venendo all’articolo 37 mi pare si sia di fronte ad una di quelle tali definizioni giuridiche che sono sempre pericolose. Non dobbiamo cercare di creare imbarazzi all’organo futuro che dovrà legiferare. Quando ripetiamo una definizione come questa: «ogni attività economica, privata o pubblica, deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali ed al benessere collettivo», definiamo l’economia in modo… lapalissiano – dirò io che non sono un economista. Ogni attività economica che sia degna di questo nome, non può tendere che al soddisfacimento di un bisogno, vuoi individuale, vuoi pubblico. E per il concetto che si è voluto esprimere nell’articolo stesso, secondo me, basterebbe esprimerlo così: «la legge determina i controlli necessari perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate ai fini sociali». E così all’articolo 38, onorevoli colleghi, dove si enuncia che «la proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad Enti od a privati». Per la prima definizione mi pare che debbano soccorrere i principî comuni del diritto, poiché il diritto non mi pare conosca altra proprietà che non sia pubblica o privata. Sembra, quindi, pleonastico questo modo di esprimersi del nostro progetto di Costituzione. Ma il punto specialmente controverso, a mio avviso, dovrebbe essere quello in cui si parla di Enti. «I beni economici appartengono allo Stato, ad Enti o a privati». Il valore della parola Ente è molto generico e oscuro, e a me sembra che tale espressione abbia un significato incerto e incerto profilo giuridico. Ora i beni economici devono appartenere, a mio avviso, allo Stato o al privato, e la soppressione di questa parola sarebbe senz’altro consigliabile. All’articolo 37, e perdonatemi se ritorno ancora sui miei passi, è detto che «ogni attività economica, privata o pubblica, deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali e al benessere collettivo». Si riproduce, anzi si anticipa in forma positiva il principio che è già stabilito nell’articolo 39, dove si dice che «l’iniziativa privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

Ma, questi due concetti rappresentano due forme di un concetto unico, cioè il concetto che l’iniziativa economica non può mai contrastare con l’utilità sociale. Ora basta affermarlo in un punto solo, sia pure nella forma negativa che è la forma proibitiva; quindi solamente all’articolo 39, a mio avviso, dovrebbe rimanere questa espressione. Un principio nuovo, un principio che trova senz’altro i nostri consensi, un principio programmato da noi e da altri partiti è quello che è esposto nell’articolo 40 riguardante l’espropriazione. Però anche qui, come in altre disposizioni, il desiderio del dettaglio, che è un po’ l’afflizione di questa nostra Costituzione, il desiderio della disposizione più precisa, più dettagliata, desiderio che contrasta col carattere stesso della Costituzione, che, a mio avviso, dovrebbe essere qualche cosa di fondamentale, ma di lapidario nella sua fondamentalità, il desiderio della elencazione svigorisce un po’ l’affermazione del principio. Si dice all’articolo 40 «per coordinare le attività economiche la legge riserva originariamente o trasferisce con espropriazione, salvo indennizzo allo Stato, agli Enti pubblici od a comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed hanno carattere di preminente interesse generale».

Ora, dicevo, questa elencazione delle categorie, a mio avviso, riduce il vigore della affermazione di principio e l’elenco potrebbe essere ritenuto anche tassativo. Infatti, mi pare giusto osservare che grandi complessi industriali potrebbero tentare così di sfuggire alle categorie previste, accampando di non versare in situazioni di monopolio a carattere di preminente interesse generale. E allora, a mio avviso, sarebbe stato molto meglio stabilire trattarsi in questo caso di imprese a carattere di grandi complessi produttivi, senza affermare che essi debbano versare in determinate condizioni.

Ma l’articolo 40 mi conduce anche per associazione di idee – se non fosse solo per successione di articoli – all’articolo 41, che è stato testé egregiamente illustrato con calore di parola dal collega che mi ha preceduto. Vi si parla del riscatto delle terre.

Noto subito – e mi pare lacuna degna di rilievo – che, mentre nell’articolo 40 si parla, sia pure genericamente, di comunità di lavoratori come successori delle attività economiche espropriate, all’articolo 41 non si parla né di comunità di lavoratori, né di cooperative là dove si parla di esproprio di terra, cioè, là dove mi sembra anche più indicato che la successione venga raccolta, specialmente dalle organizzazioni cooperative. Ora, notata questa insufficienza, questo oblio che riguarda proprio quelle cooperative di cui poi vedremo all’articolo 42, io penso che sarebbe utile introdurre nell’articolo l’espresso richiamo al movimento cooperativo. All’articolo 41 si rispecchiano idee – o per lo meno vi sono riflesse idee – che non sono completamente nostre. Basterà rilevare che l’abolizione del latifondo e la limitazione dell’estensione della proprietà fondiaria non deve portare, a nostro avviso, allo spezzettamento per creare ad ogni costo e artifiziosamente la piccola proprietà. Noi siamo per quella piccola proprietà, che oggi è così com’è, come eredità del passato; ma noi non crediamo che il latifondo debba scindersi in una miriade di piccoli proprietari con sicuri effetti antieconomici e antisociali; perché, a nostro avviso, un solo scopo ha questo intervento statale, questo intervento della società verso la proprietà privata indegna, verso la proprietà privata che non ha adempiuto alla funzione sociale che le è propria: e questo compito è il razionale sfruttamento della terra; è l’optimum dell’impiego della mano d’opera; è l’optimum della produzione. È lamento amaro che in questo articolo 41 non si sia ricordata almeno, se non la cooperazione, la comunità soggettiva di cui si parla all’articolo 40.

Vedete, io vado rapidamente, perché credo che la migliore delle vie per raggiungere l’auspicato acceleramento dei lavori non sia quella di sopprimere la parola del collega, ma di pretendere che il collega autodisciplini la propria. E corro per questo all’articolo 42. Noto in esso una lacuna grave. In questo articolo si parla della cooperazione, ma non della mutualità, che della cooperazione è uno degli elementi intrinseci o per lo meno coadiuvanti. E finalmente, all’articolo 43, sono prospettati i consigli di gestione.

Il consiglio di gestione è indubbiamente una conquista sociale che occupa di sé tutto il nostro mondo delle polemiche, delle battaglie politiche ed economiche. Nel consiglio di gestione io ravviso l’incarnazione di quei principî astratti che noi abbiamo sempre e saldamente affermato; una delle prime realizzazioni concrete, delle prime valorizzazioni, diremo, pratiche di quei principî.

Però anche a questo proposito io muovo questa, che non è una censura, ma un’osservazione. Si dice che i lavoratori hanno il diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende «ove prestano la loro opera».

A questo inciso di carattere terminale io eccepirei qualcosa. C’è, secondo me, in questa limitazione, il grave pericolo che si voglia unicamente prevedere i consigli di gestione sul tipo di quelli che già esistono è che spesso, siamo sinceri, si risolvono in una lustra per gli operai.

A mio avviso, bisogna lasciare aperta al legislatore futuro la maniera di affermare che i consigli di gestione abbiano competenza per tutto l’ambito della produzione, magari anche sul piano regionale e nazionale, anche se dovessero soltanto contentarsi di un incarico di statistica piuttosto che di un illusorio controllo delle aziende. Dare questo più ampio respiro significa dare efficacia a questo istituto nuovo.

Col consiglio di gestione si chiude questo Titolo della nostra Costituzione, quasi come con un augurio.

Io ho finito la mia rapida rassegna, onorevoli colleghi. Mi permetto solamente, consentitemi, di aggiungere alcune parole al presentarsi di questo auspicio che è rappresentato dal consiglio di gestione: la strada che è appena additata in questi principî sociali ed economici di cui parla la nostra Costituzione è la lunga strada maestra sulla quale s’incammina tutta la civiltà moderna.

Facciamo sì che questa strada non sia soltanto lastricata di buone intenzioni perché, se così fosse, essa ci porterebbe non al progresso, ma alla rovina, alla perdita della democrazia e della stessa libertà. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Belotti. Ne ha facoltà.

BELOTTI. Onorevoli colleghi, un semplice sguardo panoramico ai 15 articoli ordinati sotto il Titolo terzo del progetto di Costituzione è sufficiente a convincere che i primi tre articoli già approvati, della nuova Carta Costituzionale, non sono che il preludio di quell’effettivo rinnovamento costituzionale in senso sociale che costituisce l’aspirazione più viva e universale di tutti i popoli in questo tormentoso dopoguerra, afflitto da tanti interrogativi.

La disciplina dei rapporti economico-sociali è, ormai, un dato caratteristico delle Costituzioni contemporanee.

Nella seduta 25 ottobre 1946 della Commissione plenaria per la redazione del Progetto di Costituzione, l’onorevole Calamandrei sostenne che una Carta Costituzionale deve contenere soltanto norme giuridiche in senso stretto, capaci quindi di far nascere nel cittadino il diritto di invocare il rispetto delle pattuizioni per via di tribunali. Per conseguenza, secondo il Calamandrei, tutto quanto non costituisce una fonte creativa di istituti pubblici e di organi dello Stato, o non rappresenta una formula enunciativa di diritti in ogni momento rivendicabili, avrebbe dovuto essere escluso da una Costituzione vera e propria. Al massimo, avrebbe potuto figurare «ogni enunciazione generale di finalità etico-politiche… in un sobrio e sintetico preambolo», secondo l’ordine del giorno presentato dallo stesso Calamandrei nella successiva seduta 28 novembre e fatto proprio dall’onorevole Lussu. Ma, dopo matura discussione, la Commissione plenaria a buon diritto respinse l’eccezione Calamandrei ed il relativo ordine del giorno. La maggioranza dei Settantacinque risultò concorde nel reputare di sostanziale importanza ciò che il Calamandrei aveva testualmente definito materia di «auguri da preambolo».

A conforto della tesi prevalsa nella Commissione plenaria sta la documentazione offerta dal più recente diritto costituzionale comparato.

Si è discusso, in dottrina, se l’ordinamento sociale sia o meno materia propria di una Costituzione.

Anche in dottrina, comunque, l’opinione prevalente è per l’affermativa. L’ordinamento costituzionale, infatti, non deve soltanto disciplinare la struttura degli organi esercitanti la sovranità, ma altresì la funzionalità di essi, nonché i rapporti fondamentali tra lo Stato e i vari soggetti giuridici. Una Costituzione, cioè, non può limitarsi a rispecchiare la struttura dei vari organi dello Stato in fase statica, ma altresì, e, in certo senso, prevalentemente, contenere le grandi direttrici del loro momento dinamico, ossia la disciplina giuridica della loro attività.

Come le Costituzioni dell’Ottocento, il secolo della grande esperienza liberale, hanno realizzato la conquista di far rientrare nella materia costituzionale le cosidette «libertà politiche», ossia i diritti soggettivi pubblici individuali di fronte allo Stato, così le Costituzioni contemporanee estendono la conquista all’ordinamento fondamentale dei diritti e dei doveri di collaborazione sociale, che avranno sviluppo nella legislazione sociale ordinaria. L’esperienza, si può dire mondiale, del secolo scorso e dei primi decennî di questo nostro martoriato Novecento, ha largamente dimostrato che la libertà civile, la dignità della persona, l’uguaglianza giuridica e i diritti politici, conquiste importantissime del mondo moderno, rimangono parole prive di concreta efficacia se non sono integrate e potenziate da riforme economiche e sociali che diano al cittadino la capacità effettiva di valersi di quelle conquiste.

Non si tratta esattamente, come taluno afferma, solo di un «allungamento della lista dei diritti individuali»: è da rilevare, anzi, che l’estensione dei testi costituzionali ai problemi economici e sociali, con la dichiarazione dei cosidetti «diritti sociali ed economici» dell’uomo-cittadino, comporta una limitazione di certi diritti individuali finora ritenuti intangibili: ad esempio del diritto di proprietà; presupponendo, nel contempo, la diretta ingerenza dell’attività pubblica nell’economia del Paese e l’allargamento della sfera d’azione di enti intermedi tra il singolo e lo Stato, con conseguente limitazione della libertà di agire dell’uomo-cittadino.

Pur non accettando la concezione del materialismo storico, non v’ha, oggi, chi non accolga la definizione di «era economica», data dal Sombart all’epoca nostra. Nessuna Costituzione può, ormai, ignorare il peso premente dell’economia sociale, né evitare di inserirne la forza nei congegni costituzionali dello Stato.

Fare dello Stato, oggi, un escluso dall’arena delle forze economiche individuali, dalla funzione di arbitro regolatore della produzione, un assente di fronte agli imperativi della giustizia sociale, significa predestinarlo, sin dall’inizio, all’abdicazione.

Il nuovo Stato Repubblicano italiano, così com’è configurato nella Carta costituzionale, non è più un assente di fronte agli imperativi della giustizia sociale, non è più un escluso dall’arena delle competizioni economiche. La produzione, ma soprattutto il settore nevralgico, il fattore preminente dell’ordine sociale: la distribuzione della ricchezza prodotta, non sono più totalmente abbandonati alla capacità di difesa e di offesa dei singoli.

Tutto il Titolo terzo del Progetto consacra e concreta il principio che alla base dell’ordine sociale, fonte e condizione di armonie economiche, va posto non il solo principio dell’utile, ma il preminente principio di giustizia.

Quando, come nel secolo della grande esperienza liberale, si esclude ogni arbitro, si abolisce ogni freno nella gara delle competizioni economiche, avviene l’inevitabile: vince il più forte. La neutralità dello Stato, in tal caso, è abdicazione e suicidio.

Ma c’è un articolo, onorevoli colleghi, c’è un articolo del Titolo III del Progetto, l’articolo 36, che io non esito a definire più liberale dei liberali. Esso, dettando testualmente: «tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero», sancisce una libertà di sciopero illimitata, senza temperamenti e senza disciplina di legge. È vero che nella relazione del Presidente della Commissione plenaria, onorevole Ruini, è affermato che «la dichiarazione pura e semplice del diritto di sciopero è prevalsa sulle altre tesi» perché «si è con ciò voluto affermare più vigorosamente, e senza restrizioni, quel diritto, ma non si è escluso dai sostenitori della tesi prevalente che la legge possa provvedere alla sua applicazione».

Allora io mi chiedo e chiedo alla Commissione quali sono le ragioni per cui si è voluto deliberatamente escludere dal testo dell’articolo in esame questo esplicito rinvio alla legge, questo riferimento alla disciplina giuridica ordinaria. Faccio peraltro rilevare alla Commissione che, una volta varato l’articolo 36 così com’è configurato nel Progetto, una qualunque limitazione all’esercizio del diritto di sciopero che il legislatore futuro ritenesse indispensabile, potrebbe, anzi, dovrebbe essere impugnata come incostituzionale avanti l’apposita Corte.

Non esiste, nel Progetto, alcun altro diritto di libertà proclamato senza limiti, e senza condizioni come questo.

Non esiste, ch’io sappia, alcun paradigma del genere in nessuna Costituzione democratica contemporanea. La stessa recentissima Costituzione francese ammette il diritto di sciopero, sì, ma «nell’ambito delle leggi che lo regolano». (Le droit de grève s’exerce dans le cadre des lois qui le réglementent).

L’antinomia tra libertà e autorità non può, non deve essere risolta con l’eliminazione di uno dei termini. La nostra Costituzione vuol rappresentare una soluzione dell’eterna antinomia, ma una soluzione in senso autenticamente democratico, che salvi la libertà individuale senza sopprimere l’autorità dello Stato, concepita come esigenza e come presidio del bene comune della collettività nazionale.

A nulla varrebbe, onorevoli colleghi, aver garantito nella Costituzione l’intervento dello Stato come arbitro superiore, nella contesa economica, a tutela degli economicamente deboli, quando a questi ultimi fosse contemporaneamente consentito il ricorso all’autodifesa, «senza eccezioni e limitazioni».

Onorevoli colleghi, io non ignoro che lo sciopero è stato un mezzo, una leva potentissima per la rivendicazione del diritto alla vita e per la elevazione dei ceti più umili.

E appunto per questo che, nonostante ogni contraria parvenza di diritto, sono contrario alla correlativa libertà di serrata, ossia alla rappresaglia dei datori di lavoro, i quali non sono sullo stesso piano dei lavoratori e combattono con armi impari, non per il diritto alla vita, e con potere di resistenza assolutamente non comparabile a quello dei lavoratori. Ammettere il diritto di serrata significa togliere all’impresa il carattere di fatto sociale, sancito nel progetto di Costituzione, e sottrarla, praticamente, all’obbligo di dare lavoro. L’unico vero diritto di resistenza da parte dei datori di lavoro si identifica col bene comune della collettività nazionale, quel bene comune che costituisce l’obiettivo principe, anzi, la ragion d’essere dello Stato. Ma non possiamo ignorare, per contro, che il bene comune costituisce un limite anche all’esercizio del diritto di sciopero. Per essere obiettivi bisogna riconoscere che anche lo stato di inferiorità e di miseria dei lavoratori è un danno per la collettività. Quando dico «un limite», non intendo dire «la confisca». C’è chi sostiene che ammettere lo sciopero significhi riconoscere implicitamente l’incapacità dello Stato a tutelare la giustizia nei confronti dei lavoratori e degli stessi datori di lavoro. C’è del vero in questa tesi.

In uno Stato perfetto – è fuori dubbio – non dovrebbero esserci scioperi. Per voi, onorevoli colleghi di parte comunista, lo Stato perfetto esiste: la Russia Sovietica: e là, infatti, lo sciopero è proibito.

Lo sciopero, nella storia, non figura come fine a se stesso: appare come azione strumentale di difesa e di conquista, in funzione degli interessi economici e sociali dei lavoratori organizzati. E questo suo carattere di strumentalità complica, in certo senso, il problema della sua impostazione dottrinaria; poiché, se lo sciopero non è lo scopo da raggiungere, ma un metodo di azione, altri metodi teoricamente idonei al conseguimento delle medesime finalità possono essere considerati in sua vece.

Il metodo pubblicistico presuppone la superiorità assoluta dello Stato sulle classi e postula la capacità dello Stato a dirigere la dinamica sociale, esercitando un intervento sovrano nei rapporti interclassistici. È il metodo fascista (e nazista), tendente a risolvere i conflitti sociali con un ferreo ordinamento giuridico, attraverso speciali organi rappresentativi e giurisdizionali (magistratura del lavoro).

La configurazione dello sciopero nell’ordinamento sovietico è affine solo in apparenza alla concezione fascista. In realtà, la fondamentale divergenza risiede nel fatto che lo Stato perfetto non è più fondato su una collaborazione interclassistica imposta dall’alto, ma sulla dittatura del proletariato.

Nella concezione marxista lo sciopero, come atto di guerra sociale, è ritenuto legittimo fino alla estromissione delle classi non proletarie. Una volta che lo Stato proletario ha riassunte in sé le funzioni dell’imprenditore, del capitalista e del datore di lavoro, lo sciopero viene ad essere fatalmente configurabile come un atto di ribellione, di disfattismo e di sabotaggio della produzione, base di potenza dello Stato proletario. Nell’ambito di una società marxista, è assurdo considerare più oltre lo sciopero come un diritto, come una conquista dei lavoratori.

I partiti marxisti considerano lo sciopero come efficacissimo metodo, come macchina rivoluzionaria, come strumento della lotta di classe nell’ambito della cosiddetta «società borghese», al fine specifico di operarne lo scardinamento.

In un ordinamento come quello configurato nella nostra Costituzione, che non è liberale in quanto prevede interventi statali nell’economia a salvaguardia del bene comune e dei diritti degli economicamente deboli, mentre la serrata diventa un controsenso, lo sciopero può essere, senza dubbio, uno stimolo efficace.

Ma, abbandonato a se stesso, può costituire un pericolo di sovvertimento della struttura dello Stato e delle stesse garanzie sancite dalla Carta costituzionale.

Il riconoscimento del diritto di sciopero può a taluno fondatamente apparire come implicito riconoscimento che, nonostante il contenuto sociale della nostra Costituzione, lo Stato continuerà a soggiacere alla potenza capitalistica ed alla conseguente incapacità di rendere giustizia ai lavoratori.

Si può obiettare, a questo proposito, che pretendere l’intervento della burocrazia statale in ogni singolo caso di difesa del lavoratore o di una delle infinite categorie di lavoratori di fronte a ingordi datori di lavoro, può apparire eccessivo e comunque non intonato al proposito di snellire, anziché ingigantire, l’apparato burocratico per alleviarne la tradizionale lentezza funzionale. Comunque lo sciopero è e rimane un fatto patologico della vita economica e sociale. Le febbri e le convulsioni sociali sono indici di uno squilibrio che minaccia le stesse basi della convivenza civile. Non solo sulla febbre, ma soprattutto sullo squilibrio deve agire lo Stato. Il legislatore futuro, anche in relazione agli orientamenti internazionali in materia, deve poter disciplinare l’esercizio del diritto di sciopero, in relazione alla possibilità di rendere prontamente giustizia ai lavoratori. Anche per questo, l’ancoraggio del diritto di sciopero alla legge appare assolutamente indispensabile.

Un’altra notevole eccezione mossa alla possibilità e soprattutto all’efficacia di una disciplina giuridica dello sciopero, è che si tratta, nella fattispecie, di un atto, un rapporto di forza che è assurdo pretendere di contenere nell’ambito della legalità. Di diverso parere è stata la Costituente francese. Ma in questa tesi può esserci un equivoco. Non tutti gli scioperi degenerano in violenze alla proprietà e alle persone. Notiamo anzi che, col progredire della coscienza sindacale, della maturità civica e del senso di solidarietà, gli abusi non sono più così temibili come nel passato. Altro è l’uso ed altro l’abuso di un diritto.

Si discute, oggi, dai giuristi, se si tratti, nella fattispecie, a seconda dei casi, di illecito civile, laddove sia considerato penalmente non perseguibile, oppure, sempre a seconda dei casi, di libertà (anziché di diritto) di sciopero.

Anche in giurisprudenza è controverso se lo sciopero rappresenti effettivamente la violazione di un contratto (il contratto di lavoro), o non piuttosto una temporanea interruzione di lavoro che non costituisce, per sé, la rottura unilaterale di un impegno contrattuale consensualmente e bilateralmente stabilito. In realtà l’intenzione dell’operaio scioperante, di regola, non è di rompere ogni suo rapporto col datore di lavoro, per impegnarsi con la concorrenza. Tuttavia, anche se lo sciopero effettivamente rappresentasse, in determinati casi, una vera e propria rottura contrattuale, bisogna aver presente che di fronte al diritto di vivere con dignità di persona umana impallidisce ogni formula del diritto positivo. Sia che si tratti di «diritto di libertà», oppure di «diritto riflesso», ossia scaturente da un diritto violato, è il movente dello sciopero quello che permette di giudicare, volta a volta, della sua legittimità.

Ma una valutazione obiettiva non può essere fatta da una parte in causa. Di qui la necessità che il legislatore intervenga, prescrivendo per ogni caso modalità preventive e tentativi di conciliazione e di arbitrato. Io non condivido, onorevoli colleghi, né l’opinione di Achille Loria, secondo il quale lo sciopero «è un atto in ogni caso ed in ogni tempo appieno legittimo», né l’opposta concezione reazionaria, secondo la quale esso non sarebbe che «il parricida nato dalla libertà di lavoro».

Lo sciupio, infatti, non è che il diniego di prestare ad altri ciò che è proprio: l’operosità delle proprie braccia e della propria intelligenza. Se il rifiuto isolato del lavoro è un atto intrinsecamente lecito, non può divenire, per se stesso, illecito quando è collettivamente concertato e simultaneamente realizzato, perché il moltiplicarsi degli atti non muta la loro intrinseca natura.

Questa verità così elementare è stata negata dalla Rivoluzione Francese, che pure aveva innalzato sulle sue roventi bandiere il trittico rubato da Rousseau al messaggio cristiano: liberté, egalité, fraternité.

Una voce a sinistra. Non c’era la bandiera rossa allora: è venuta dopo.

BELOTTI. Il famoso decreto Le Chapelier, del 14 giugno 1791, stabiliva:

«Si des citoyens attachés aux mêmes professions, arts et mêtiers prenaient des déliberations, ou faisaient entre eux des conventions tendant à refuser de concert ou à n’accorder qu’à un prix déterminé le secours de leur industrie ou de leur travaux, les dites délibérations et conventions sont déclarées inconstitutionnelles, attentatoires à la liberté et à la déclaration des droits de l’homme et de nul effet».

Questo decreto-capestro per la libertà di associazione, di coalizione e di sciopero, nato sotto l’insegna della liberté in odio ai vincolismi corporativi dell’Evo Medio, non ha potuto impedire, lungo l’Ottocento, che centinaia di milioni di lavoratori di ogni fede religiosa e di ogni opinione politica, fatti uniti e potenti dalle forze dell’associazione e della organizzazione, muovessero, attraverso una serie imponente di battaglie e di conquiste, verso il «risorgimento del lavoro», verso l’ideale della giustizia per il lavoro, inteso come nuovo protagonista della storia e come unità di misura del valore umano.

Certo, anche un atto individuale lecito, quando, simultaneamente compiuto da una collettività concertata, arreca un grave danno alla vita collettiva, può divenire illecito. Vedremo, alla fine, un’applicazione di questo principio. Ecco un altro motivo a favore dell’ancoraggio del diritto di sciopero alla legge.

Infine, l’esercizio, l’uso del diritto di sciopero può sconfinare nell’abuso, trasformandosi più o meno facilmente, a seconda del grado di incandescenza delle folle scioperanti esasperate dalla resistenza padronale, da diritto in vero e proprio delitto. Alludo al sabotaggio, al boicottaggio, alla violenta repressione del crumiraggio, alle multiformi esplosioni cui la belva umana, fatta cieca dall’odio, talvolta irresistibilmente s’abbandona.

È possibile pensare ad una neutralità della Repubblica Italiana, «Repubblica democratica, fondata sul lavoro» (art. 1 della Costituzione), Repubblica che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2), Repubblica che s’impegna a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dell’Italia» (art. 3), Repubblica che pone a base un’economia regolata da interventi statali (tutto il Titolo III), di fronte all’unica autodifesa di classe riconosciuta dalla Costituzione?

È possibile ammettere che, mentre folle di lavoratori scendono in campo, una Repubblica cosiffatta stia semplicemente ad attendere, come i Cesari nel circo, le sorti della lotta tra i gladiatori?

Io mi rifiuto di ammetterlo, onorevoli colleghi, e penso di non essere il solo in questa Assemblea. Scorrendo la lunga serie delle proposte di emendamento all’articolo 36, rilevo che molti colleghi affacciano una soluzione radicale del controverso problema, chiedendo la soppressione del lacunoso articolo, in armonia con lo sfortunato ordine del giorno della terza Sottocommissione, secondo il quale detta Sottocommissione, «ritenuto urgente e indispensabile che una legge riconosca il diritto di sciopero dei lavoratori, abrogando i divieti fascisti in materia, non ritiene necessario che la materia sia regolata dalla Carta Costituzionale». Io sono di diverso avviso. Si potrà discutere sulla libertà di sciopero, sui limiti e le forme di esercizio, ma, una volta ammesso il principio, non mi pare consigliabile ignorare completamente nella Costituzione un dato di fatto di tale importanza e pericolosità da costituire, se totalmente incontrollato, una seria minaccia per tutto il «piano regolatore» fissato nella Costituzione.

È di capitale importanza, a mio avviso, stabilire in via pregiudiziale che «il diritto di sciopero può essere esercitato solo nell’ambito delle leggi che lo regolano».

Ma il semplice rinvio alla legge, come nella Costituzione francese, non mi pare del tutto soddisfacente. Noi Costituenti abbiamo il compito e la responsabilità di tracciare le grandi direttrici, con la legge delle leggi, al futuro legislatore.

La prima Sottocommissione, presieduta dall’onorevole Tupini, aveva proposto, per l’articolo 36, un comma aggiuntivo (poi respinto dalla Commissione plenaria), del seguente tenore: «La legge regola le modalità di esercizio dello sciopero, unicamente per quanto attiene:

  1. a) alla procedura di proclamazione;
  2. b) all’esperimento preventivo di tentativi di conciliazione;
  3. c) al mantenimento dei servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva».

Nonostante che nella Commissione plenaria abbia prevalso la tesi del diritto di sciopero incondizionato, io rimango fermo nella fiducia che l’Assemblea vorrà riservare alle eccezioni a suo tempo sollevate dalla prima Sottocommissione e da me oggi modestamente ribadite, tutta la considerazione che esse meritano.

In particolare, ritengo che le invocate garanzie di carattere costituzionale debbano riguardare:

1°) la salvaguardia del metodo democratico nella decisione, in sede sindacale, di ricorso allo sciopero;

2°) il preventivo esperimento di tentativi di conciliazione e di arbitrato (non obbligatorio);

3°) la facoltà al futuro legislatore di stabilire delle particolari limitazioni all’esercizio del diritto di sciopero in momenti eccezionali per la vita della Nazione;

4°) la rinunzia all’esercizio del diritto di sciopero e il ricorso ad arbitrato obbligatorio per i pubblici funzionari e i lavoratori addetti ai servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva:

5°) il divieto di sciopero generale politico.

Mi limito, per difetto di tempo, ad un sobrio commento dei punti 1°), 4°) e 5°), in quanto il punto 2°) ha già trovato sviluppo nel mio discorso, e il punto 3°) è di una tale evidenza da rendere superfluo ogni commento.

La salvaguardia del metodo democratico nella decisione collettiva di ricorso allo sciopero dovrebbe consistere, a mio avviso, nella votazione libera e segreta degli iscritti ai sindacati di categoria regolarmente registrati. Sarebbe, inoltre, consigliabile la fissazione di una speciale maggioranza, in quanto la decisione verrebbe, in pratica, per forza di cose, ad essere ritenuta operante e vincolativa anche nei confronti dei non iscritti al sindacato. Il crumiraggio è un fenomeno che non può e non deve essere ignorato, perché incide direttamente sui diritti di libertà dei cittadini-lavoratori.

Onorevoli colleghi: la vexata quaestio della legittimità o non dello sciopero degli addetti ai servizi pubblici comunque essenziali alla vita collettiva, merita un attento riesame da parte della Assemblea.

L’onorevole Di Vittorio, relatore sul tema del diritto di sciopero in seno alla terza Sottocommissione, si è battuto con foga di sindacalista per la sua estensione tout-court a tutti i cittadini senza eccezione, e quindi anche agli addetti ai servizi essenziali alla collettività.

I suoi due maggiori cavalli di battaglia contro il diniego della libertà di sciopero ai funzionari addetti a tali servizi e contro il correlativo ricorso all’istituto dell’arbitrato obbligatorio, sono:

  1. a) che non si deve creare una categoria di cittadini minorati rispetto a tutti gli altri;
  2. b) che bisogna che lo Stato democratico dimostri fiducia nel senso di autodisciplina e di autolimitazione di tutte indistintamente le masse lavoratrici.

Onorevoli colleghi: a parte il fatto che io non vedo, forse, in tutta la sua portata, la minorazione dell’arbitrato obbligatorio, in quanto lo penso strumento di giustizia volto anche contro lo Stato quando esso si comporta verso i suoi più vicini collaboratori alla stessa guisa del più miope dei conservatori, mi permetto di sottoporre alla vostra considerazione questo quesito: «Nella peggiore delle ipotesi, è preferibile la minorazione di una ridotta aliquota di cittadini, o la (sia pure transitoria) paralisi funzionale dello Stato?».

La risposta non può essere dubbia.

L’opinione pubblica è spesso solidale con le folle di lavoratori che incrociano, fieri, le braccia e sfidano la potenza padronale. Ma quando il turbine s’abbatte sulle ruote insostituibili paralizzando la vita sociale, le adesioni popolari svaniscono e i lavoratori di ogni categoria, sotto il peso delle conseguenze, tramutano l’osanna in imprecazione.

L’argomento che lo Stato deve limitarsi ad avere illimitata fiducia, a recitare l’atto di fede nei suoi collaboratori d’ogni ordine e grado burocratico, mi sembra suscettibile d’essere ritorto con facilità.

I funzionari, i lavoratori, i collaboratori per primi debbono aver fiducia nello Stato. Onorevoli colleghi di parte comunista, io sarei tentato di chiedervi: «Ma che aspettate ad aver fiducia in questa nostra giovane Repubblica Italiana «fondata sul lavoro»: aspettate forse che sia sovietizzata?» (Rumori – Interruzioni all’estrema sinistra). L’ultima garanzia costituzionale dovrebbe consistere nell’espresso divieto dello sciopero generale politico.

Già, solo a proposito dello sciopero generale come espressione di solidarietà economica tra lavoratori, la nota Rivista socialista Critica Sociale (giugno 1910), ammoniva:

«Tali scioperi, più che giovare agli scioperanti, li danneggiano, perché mutano gli operai solidali, che potrebbero sussidiare lo sciopero, in altrettanti concorrenti al sussidio di sciopero. Né è raro che gli scioperi di solidarietà giovino invece agli imprenditori che direttamente colpiscono, permettendo loro di smerciare, a prezzi rimuneratori, grosse riserve di merci invendute, il cui accumulo ne deprimeva il valore».

Onorevoli colleghi: ammettere la legalità dello sciopero generale politico significa rendere invalida, già in partenza, la nostra Costituzione, significa riconoscere ad una parte di cittadini il diritto di rendere carenti l’autorità, il prestigio, l’attività dello Stato e di ricorrere all’autogiustizia in materia non più sindacale, ma politica, ossia in una materia che, appunto perché tale, deve rimanere soggetta alla disciplina dello Stato.

Onorevoli colleghi, io credo che nessuno di noi faccia finta di credere alla Costituzione che stiamo elaborando e scavi, nel contempo, segretamente la fossa alla nostra comune fatica, alla nostra creatura destinata ad essere – speriamo per lungo tempo – custode e vindice della libertà democratica riconquistata, col suo martirio, dal popolo italiano! (Vivi applausi al centro – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Montagnana Mario. Ne ha facoltà.

MONTAGNANA MARIO. Il Titolo III del progetto di Costituzione, che stiamo in questo momento discutendo, e che si riferisce ai rapporti economici, è senza dubbio uno dei più importanti del Progetto. Anche più importante, io ritengo, di quelli che abbiamo discusso e approvato nei giorni scorsi e che pure hanno richiamato su di sé, in modo vivissimo, l’attenzione e l’interesse dell’Assemblea Costituente e della pubblica opinione.

Le «disposizioni generali», gli articoli sui rapporti civili e sui rapporti etico-sociali, per quanto importantissimi, potrebbero però restare lettera morta se la nuova Costituzione non contenesse, per quanto riguarda i cosiddetti rapporti economici, degli articoli, delle disposizioni tali da assicurare un miglioramento decisivo delle condizioni dei lavoratori – vale a dire della stragrande maggioranza del popolo italiano – e, nel tempo stesso, un miglioramento decisivo della situazione economica generale del paese.

Non è possibile infatti concepire un paese progredito, avanzato dal punto di vista politico, dal punto di vista dei rapporti civili e dal punto di vista dei rapporti etico-sociali, se in tale paese continuano a sussistere dei rapporti economici arretrati e se si negano ai lavoratori – cioè, ancora una volta, alla stragrande maggioranza del popolo – i loro diritti fondamentali.

E d’altro lato – ed anche per questo io voglio sottolinearne l’importanza – il Titolo che noi stiamo discutendo e i singoli articoli che esso contiene, rappresentano, secondo me, la parte più nuova e più moderna del progetto di Costituzione. È questa, senza dubbio, la parte che differenzia in modo più caratteristico il progetto di Costituzione della giovane Repubblica italiana, nata dalle sofferenze e dall’eroismo dei lavoratori, da tutte le Costituzioni democratiche del secolo scorso, e, in maniera particolare, dallo Statuto Albertino, prodotto di un’epoca ormai per sempre superata.

Io non sarò qui a esaminare i singoli articoli del Titolo III del progetto. Non lo farò perché me ne mancherebbe il tempo, e non lo farò, anche, perché non è questo il mio compito.

Mi limiterò quindi ad alcune osservazioni di carattere generale.

Noi comunisti, anzi, noi partiti dei lavoratori, avevamo proposto che l’articolo primo della nuova Costituzione affermasse che l’Italia è una repubblica democratica di lavoratori. Tale proposta è stata respinta. Ma è stata tuttavia votata una formulazione che, pur non soddisfacendoci completamente, noi abbiamo accettato: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».

Si deve ora dimostrare, nella formulazione dei singoli articoli del Titolo III, che si occupa in modo specifico dei problemi del lavoro e dei diritti dei lavoratori, che non si tratta di vane parole; che non si tratta di un «contentino» dato, nel primo articolo della Costituzione, alle masse lavoratrici, ma che realmente i rappresentanti della Nazione nell’Assemblea Costituente sono coscienti di quella che è la funzione del lavoro e dei lavoratori nella nuova Italia democratica e intendono dare ai lavoratori tutta l’importanza e tutto il peso che essi realmente hanno nella vita del Paese.

Sarà questo il mezzo più sicuro per assicurare all’Italia un lungo periodo di progresso politico, economico e sociale; il mezzo più sicuro per evitare contrasti violenti, per evitare lotte e conflitti che nessuno di noi vuole e che sarebbero contrari agli interessi fondamentali della Nazione.

A questi principî si sono senza dubbio ispirati gli onorevoli colleghi che hanno preparato questa parte del Progetto la quale ha, nelle sue linee generali, quantunque non in tutti i suoi particolari, alcuni dei quali dovranno essere senza dubbio modificati e migliorati, la nostra approvazione.

Ed ha, l’insieme di questo Titolo, la nostra approvazione di massima anche perché esso ha indubbiamente una sua struttura logica conseguente, dato che ogni parte di esso deriva, per così dire, da quella che la precede, e le fornisce i mezzi per la propria realizzazione.

La prima parte, i primi cinque articoli del Titolo sanciscono, come è noto, i principali diritti dei lavoratori, uomini e donne: diritto al lavoro, diritto ad una retribuzione adeguata e alle ferie, diritto all’assistenza sociale in caso di invalidità, d’infortunio, di malattia, di vecchiaia e di disoccupazione involontaria, diritti della donna e della madre lavoratrice.

In questo modo il lavoro e i diritti dei lavoratori entrano, quali fattori essenziali della vita della Nazione, nella legislazione italiana, non più da qualche porticina aperta da singole leggi strappate volta a volta con la lotta, ma dalla grande porta della Carta fondamentale della Repubblica.

È questo un avvenimento storico che nessuno – e noi meno di qualsiasi altro – può sottovalutare e che varrebbe da solo a dimostrare che la lotta eroica dei lavoratori italiani contro i tedeschi e contro i fascisti ha dato i suoi frutti, anche sul terreno sociale.

Ma quali mezzi, quali strumenti assicureranno, nella pratica, ai lavoratori la realizzazione e la difesa di questi diritti?

Soltanto la saggezza – che alle volte potrebbe anche venir meno, come insegna la storia – dei datori del lavoro, dei governi e dei magistrati?

No. Gli strumenti che assicurano la realizzazione e la difesa di questi diritti sono le organizzazioni sindacali, sono i contratti collettivi, è il diritto di sciopero per tutti i lavoratori, di cui si occupano gli articoli 35 e 36 del progetto di Costituzione.

Ma non basta. Né la saggezza di chi sta in alto, né la forza organizzata di chi sta in basso sarebbero sufficienti a realizzare per i milioni di lavoratori italiani quei sacrosanti diritti di cui parlano i primi articoli del Titolo III del progetto di Costituzione. Non per nulla, due anni dopo la liberazione totale dell’Italia e quasi un anno dopo il 2 giugno, parecchi di questi diritti non hanno ancora avuto, purtroppo, neppure l’inizio di una realizzazione.

Molte, troppe cose, anche per quanto riguarda i diritti dei lavoratori, procedono, specialmente nel Mezzogiorno, press’a poco come prima, poiché molti di questi diritti, riconosciuti dalle leggi e dai contratti di lavoro, non vengono in alcun modo rispettati. In molte, in troppe aziende industriali ed agricole, il padrone viola sfacciatamente le leggi ed i contratti e vuole continuare a disporre, e di fatto dispone, nella sua azienda, di un potere assoluto, totalitario, sfruttando ed opprimendo vergognosamente le maestranze.

La realtà si è che la condizione per la realizzazione dell’insieme dei diritti dei lavoratori stabiliti dal Titolo terzo, è una profonda trasformazione della struttura economica di tutto il Paese, ed è, in primo luogo, l’organizzazione di tutta l’economia nazionale su basi nuove, le quali impediscano ai gruppi plutocratici – reazionari per la loro stessa natura – di potere ancora una volta decidere delle sorti dell’Italia, e quindi del popolo, e frenare – tanto nel campo industriale quanto nel campo agricolo – lo sviluppo economico della Nazione.

È assurdo infatti pensare che possano diventare realtà, per tutti i lavoratori italiani, il diritto al lavoro, il diritto a una giusta retribuzione, il diritto a un’assistenza sociale completa, e così via, fino a quando la vita economica sarà retta secondo i vecchi principî del liberalismo e fino a quando piccoli gruppi di privilegiati potranno fare prevalere, in molti campi, i loro interessi particolari contro gli interessi delle grandi masse lavoratrici.

Ed è assurdo pensare che questi diritti possano diventare realtà, per tutti i lavoratori italiani, fino a quando la struttura economica della società – basata sugli interessi e sui privilegi di una piccola minoranza la quale non vede, nella produzione, altro scopo ed altro obbiettivo che il mantenimento di questi interessi e di questi privilegi – impedisca lo sviluppo rapido e, vorrei dire, impetuoso della produzione e quindi della ricchezza generale dell’Italia.

Di qui, per conseguenza, la necessità di alcune riforme strutturali della economia nazionale, senza le quali i bellissimi – anche se non perfetti in ogni particolare – articoli 30, 31, 32, 33 e 34 del progetto di Costituzione correrebbero il rischio di avere press’a poco la stessa efficacia e gli stessi risultati pratici, per i lavoratori, che ha avuto la famosa Carta del lavoro di mussoliniana memoria.

Ed hanno compreso questa necessità, almeno in una certa misura, gli estensori del Titolo III del progetto di Costituzione, i cui ultimi articoli tendono infatti – anche se, secondo noi, con troppa prudenza – a dare un nuovo indirizzo alla attività economica di tutto il Paese.

Essenziali, da questo punto di vista, sono gli articoli 40, 41, 42 e 43 del Progetto.

Il primo di questi articoli prevede, come è noto, la nazionalizzazione di determinate imprese. Il secondo prevede, tra l’altro, la fissazione di limiti di estensione della proprietà terriera, l’abolizione del latifondo e l’aiuto alla piccola e media proprietà. Il terzo, riconoscendo la funzione sociale della cooperazione, tende a favorirne l’incremento. E l’ultimo, infine, prevede, nelle aziende, i Consigli di gestione, vale a dire la partecipazione alla direzione delle aziende stesse dei lavoratori che vi prestano la loro opera.

Qui, veramente, entriamo nel vivo della questione ed affrontiamo i problemi fondamentali, decisivi, per l’avvenire del nostro paese.

Se, fino a ieri, nella direzione della economia italiana, il lavoro non aveva alcun peso, mentre invece, secondo la legge, i diritti della proprietà e della ricchezza non conoscevano quasi alcun limite, con la nuova Costituzione il lavoro diventa la base stessa della società e della Repubblica, e i diritti, i privilegi della proprietà, della ricchezza, del danaro, vengono fissati entro determinati limiti stabiliti dalla legge, affinché essi non siano in contrasto con gli interessi generali della Nazione.

Permettete che io mi soffermi brevemente su quest’ultimo punto.

Quando noi comunisti abbiamo chiesto e chiediamo una riforma della nostra industria, che ponga fine alle situazioni di monopolio, avevamo e abbiamo sì, in vista gli interessi particolari, di classe, dei lavoratori, i quali subiscono le funeste conseguenze dei monopoli e come prestatori d’opera e come consumatori. E avevamo e abbiamo pure in vista la necessità di colpire i gruppi privilegiati responsabili del fascismo, in modo da togliere loro la possibilità di imporre una altra volta all’Italia i loro propositi reazionari e imperialistici. Ma avevamo e abbiamo pure in vista la necessità impellente di aumentare e di migliorare la produzione industriale dell’intera Nazione, dato che tanto la teoria quanto l’esperienza italiana e internazionale dimostrano che le condizioni di monopolio e l’assenza di una partecipazione dei lavoratori alla direzione delle aziende rappresentano un gravissimo ostacolo allo sviluppo e al miglioramento della produzione. Noi vogliamo la nazionalizzazione di alcune grandi imprese monopolistiche e vogliamo i Consigli di gestione nelle aziende per migliorare le condizioni morali e materiali dei lavoratori occupati in tali imprese e in tali aziende, ma vogliamo questo, anche e soprattutto, affinché dalle nostre fabbriche escano più macchine, più prodotti chimici e tessili, e così via; affinché le nostre aziende elettriche possano fornire più energia al Paese; affinché tutta l’Italia abbia più prodotti industriali nazionali a sua disposizione e possa perciò, tra l’altro, esportare una parte importante di questi prodotti in modo di non dovere mai più mancare, come oggi, del necessario; in modo di non dovere mai più, come oggi avviene, quasi chiedere l’elemosina a dei Paesi stranieri per impedire che milioni di suoi figli muoiano di freddo, di fame, di miseria.

E quando noi comunisti abbiamo chiesto e chiediamo una riforma agraria la quale fissi dei limiti alla proprietà terriera, abolisca il latifondo e protegga i piccoli e medi proprietari agricoli, noi avevamo e abbiamo in vista gli interessi particolari, di classe, dei lavoratori che subiscono le funeste conseguenze dell’attuale stato di cose e come prestatori d’opera e come consumatori. Avevamo e abbiamo pure in vista la necessità di colpire, anche su questo terreno, i gruppi privilegiati responsabili del fascismo e accaniti sostenitori, oggi come ieri, della oppressione e dello sfruttamento delle masse popolari. Ma avevamo e abbiamo pure in vista la necessità impellente di aumentare e di migliorare la produzione agricola di tutta la Nazione, dato che l’esperienza ha dimostrato, e ogni giorno conferma, che l’esistenza del latifondo e di rapporti di tipo feudale nelle campagne e, dall’altro lato, la mancanza di protezione della piccola e media proprietà terriera rappresentano un gravissimo ostacolo al miglioramento e all’aumento della produzione agricola. Noi vogliamo l’abolizione del latifondo, i Consigli di gestione nelle grandi aziende agricole e la protezione dei piccoli e medi proprietari per migliorare le condizioni morali e materiali dei lavoratori delle campagne, ma anche e soprattutto affinché il nostro suolo, nel suo insieme, dia più grano, più fieno, più barbabietole, e così via. Vogliamo questo affinché tutta l’Italia abbia più prodotti agricoli a sua disposizione; affinché essa possa limitare, in questo campo, le proprie importazioni e nutrire meglio, nel tempo stesso, tutti i suoi figli e difenderne con più efficacia la salute che è, tra tutti i beni materiali, il bene più prezioso.

Così, ancora una volta e con estrema evidenza, gli interessi delle masse lavoratrici si identificano, coincidono e si confondono con gli interessi generali della Nazione. Così, ancora una volta e con estrema evidenza, coloro i quali si oppongono alla realizzazione dei diritti dei lavoratori dimostrano di voler porre i propri interessi e i propri privilegi di classe, al di sopra e contro gli interessi dell’Italia.

Per queste ragioni, onorevoli colleghi, noi accettiamo, nelle sue linee generali, l’insieme del Titolo III del progetto di Costituzione.

Ma proprio per queste stesse ragioni, che sono, in un tempo, di classe, vale a dire nell’interesse dei lavoratori, e nazionali, vale a dire nell’interesse di tutto il paese; proprio per queste stesse ragioni noi non possiamo tacere le manchevolezze, le debolezze del Progetto né rinunciare a fare tutto il possibile, con il nostro intervento, per eliminarle.

Io non voglio, già l’ho detto, scendere in questioni e in critiche particolari, di dettaglio, anche se importanti. Altri compagni del mio gruppo lo faranno, nella discussione generale, nella discussione dei singoli articoli e con la presentazione di alcuni emendamenti.

Quello, però, che non posso fare a meno di rilevare parlando su questo argomento, si è che l’insieme delle riforme strutturali che il Progetto prevede, e la stessa istituzione, pur così importante, dei Consigli di Gestione, non potrebbero assolvere pienamente ai loro scopi – e mi riferisco soprattutto agli scopi di carattere nazionale ai quali ho or ora accennato – se la stessa Costituzione non stabilisse la necessità dell’«intervento dello Stato per coordinare e dirigere l’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione secondo un piano che dia il massimo di rendimento per la collettività».

E, del resto, senza un tale intervento e senza un tale piano, il diritto di lavoro per tutti, vale a dire la eliminazione del tragico problema della disoccupazione, continuerebbe ad essere, inevitabilmente, soltanto una vana promessa, continuerebbe ad essere null’altro che una vera e propria chimera.

Accettare il principio delle riforme strutturali della nostra economia e la creazione dei Consigli di gestione, e respingere l’intervento dello Stato nell’attività produttiva dei singoli, e un suo piano d’insieme per quanto si riferisce alla produzione, mi sembra quasi un non senso e in ogni caso una grave contraddizione.

Riconosciuto – come di fatto è riconosciuto nel Titolo III del progetto di Costituzione – che devono essere considerati come superati, con l’evolversi della società, tanto la vecchia concezione del diritto romano di proprietà quanto i principî del liberalismo che a questa concezione, in sostanza, aderiscono; riconosciuto questo, come è possibile negare allo Stato – espressione della collettività, espressione di tutto il popolo – il diritto di intervenire per controllare e coordinare, secondo un piano, le iniziative dei singoli, nell’interesse della collettività, nell’interesse di tutto il popolo?

Non si tratta qui di una realizzazione di carattere socialista, anche se tutte le proposte avanzate da noi comunisti, su questo terreno, nella prima Sottocommissione, si muovono, come ha rilevato lo stesso onorevole Togliatti nella sua relazione sull’argomento, nella direzione generale di una trasformazione economica socialista.

Altre Costituzioni, di paesi tutt’altro che socialisti, e misure pratiche già realizzate o in via di realizzazione, in questi stessi paesi – basti pensare a quanto avviene in Francia e Inghilterra – rappresentano dei passi ben più audaci e ben più grandi di quello che noi proponiamo, per quanto riguarda l’intervento dello Stato nella produzione e, in generale, nella vita economica del Paese.

L’intervento dello Stato nel campo produttivo, sulla base di un piano, quale noi lo proponiamo, non abolisce, non distrugge, non riduce neppure entro limiti ristretti l’iniziativa dei privati, e tanto meno il loro diritto di proprietà.

Noi vogliamo, che la proprietà personale dei cittadini – purché non venga usata in modo contrario all’interesse sociale – sia, assieme al risparmio, tutelata dalla legge, e vogliamo pure che l’iniziativa dei privati – purché venga indirizzata nell’interesse della Nazione – sia aiutata e sollecitata.

Ma tra queste affermazioni e l’affermazione della necessità di un piano economico, non esiste contraddizione alcuna, né formale né sostanziale, poiché le une e l’altra affermazione tendono in sostanza ad un unico scopo: assicurare il benessere e l’indipendenza economica del Paese con l’aumento della produzione.

Ogni giorno maggiormente il popolo sente nella sua carne, sente attraverso le proprie sofferenze, le conseguenze funeste di una economia in gran parte abbandonata a se stessa, il che provoca lo sperpero e la inutilizzazione di ricchezze immense e di immense energie.

Basta pensare alle quantità enormi di generi voluttuari, superflui che vengono prodotti, mentre milioni di italiani mancano dello stretto necessario. Basta pensare ai capitali che vengono investiti per degli scopi di pura speculazione, mentre manca il danaro per la ricostruzione. Basta pensare, soprattutto, ai milioni di disoccupati, ai milioni di braccia inutilizzate, mentre il paese ha tanto bisogno di lavoro per ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto.

Nessuno ha mai protestato – perché sarebbe stato assurdo protestare – contro l’intervento dello Stato nel campo della produzione in tempo di guerra. Si è sempre riconosciuto questo intervento come un intervento giusto, perché inevitabile. Ognuno ha compreso, in tempo di guerra – e non mi riferisco soltanto all’ultima guerra – che l’abbandonare completamente la produzione all’arbitrio dei singoli, senza un piano, senza un controllo e senza una coordinazione, avrebbe significato andare incontro ad una sicura disfatta.

E perché dunque dovremmo respingere l’intervento dello Stato, ed un suo piano economico, ora che il nostro Paese è chiamato a combattere e a vincere un’aspra, dura e lunga battaglia sul terreno della ricostruzione e per la conquista del benessere e della indipendenza economica?

Osservate chi sono coloro che si oppongono a tale intervento, coloro che si scandalizzano al sentire parlare di un piano economico. Quasi sempre voi riconoscerete in essi – anche se si tratta di persone oneste e in buona fede, anche se si tratta di luminari della scienza e della politica – degli elementi su cui pesa la responsabilità di non aver saputo o voluto impedire l’ascesa al potere del fascismo.

Noi possiamo avere e abbiamo realmente per alcuni almeno di questi uomini, il rispetto, cui essi hanno diritto per la loro dirittura personale e anche per la loro età veneranda.

Ma non possiamo ascoltare i loro consigli, i loro funesti presagi e i loro anatemi.

Possiamo avere per alcuni di essi rispetto e considerazione, ma diciamo loro: «Non sbarrate la strada alle nuove energie e ai nuovi metodi che sono i soli che corrispondano alle necessità dell’attuale periodo. Siamo nell’anno 1947, e quello che poteva forse essere giusto 40 o 50 anni or sono è ora profondamente sbagliato. Voi credete, sostenendo le vostre vecchie teorie, di difendere gli interessi del Paese, ma in realtà quello che difendete oggi, anche se non ne avete coscienza, è l’interesse di un pugno di plutocrati e di speculatori, contro gli interessi del popolo e contro gli interessi della Patria. Lasciate perciò libero il cammino alle giovani forze, alle forze del lavoro che avanzano e che rappresentano l’avvenire dell’Italia».

Io non ho alcun dubbio, onorevoli colleghi, che la maggioranza dell’Assemblea Costituente, che è costituita dai rappresentanti di grandi partiti di massa, condividerà questa nostra fiducia nelle forze del lavoro e darà la prova, accettando, se non ogni parola, almeno lo spirito a cui sono ispirati gli emendamenti del gruppo comunista ai vari articoli del Titolo III del progetto di Costituzione, di aver tratto dalle tragiche esperienze del passato tutti i necessari insegnamenti.

Guai se noi ci aggrappassimo a un passato ormai morto, e morto, purtroppo, senza beltà e senza gloria. Guai per l’Italia se al lavoro non venisse riconosciuto, nella Costituzione e nella vita di ogni giorno, l’altissimo posto che gli assegna la storia. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Medi. Ne ha facoltà.

MEDI. Un doloroso spettacolo si presenta ai nostri occhi. Per le vie e le città della nostra terra un numero sterminato di bimbi soffre le conseguenze di una tragedia che essi non hanno voluto. Una società che si era economicamente costituita ed ha approfondito le ricerche del sapere e della scienza per poter preparare agli uomini un miglior avvenire, non ha fatto altro (non vogliamo ora eseguire un processo) che creare a questa povera umanità nuovi dolori e nuove tragedie.

Oggi in Italia contiamo più di diecimila bimbi mutilati orrendamente dalla guerra. Oggi contiamo nella nostra terra decine di migliaia di orfani, senza casa, senza rifugio, senza focolare e senza speranza. Da questa tragedia deriva alla società, come tale, un terribile senso di responsabilità e di riparazione. È l’organismo sociale che è mancato alla sua altissima funzione. Quando la società si è organizzata, aveva di fronte la responsabilità del bene comune, del bene di tutti i cittadini: questo bene non lo ha integralmente realizzato. Ora, dunque, responsabile primo di questi dolori e di queste lacrime deve essere l’organismo sociale che deve procedere alla riparazione e alla reintegrazione di questo mondo del dolore e della miseria.

Ma c’è ancora di più, c’è un dovere di ordine della società. Quando noi andiamo nelle grandi città, soprattutto nel Mezzogiorno, assistiamo ad una condizione di miseria paurosa; migliaia, e decine di migliaia di famiglie che non hanno di che sostenersi; quando si va per le vie di Palermo e di Napoli e si vedono queste povere famiglie nei tuguri, lasciati appena in piedi dalle bombe e dalle catastrofi della guerra, quando si vedono sull’unico giaciglio sei, sette, otto persone a dormire, ci vien fatto di domandarci: ma la società a che cosa pensa, come crede di risolvere questo grande problema di redenzione?

Noi stiamo parlando, qua dentro, di democrazia, di ricostruzione, ma mi sembra che il concetto di democrazia, cioè di potenza di popolo, consista proprio in questo, nel sollevare questo popolo, nel sollevarlo intellettualmente e materialmente, nel sollevarlo anima per anima, cuore per cuore, intelligenza per intelligenza, ma anche corpo per corpo, e dolore per dolore. È quindi un dovere della società democratica venire incontro a questo mondo che lacrima, venirgli incontro e tirarlo fuori dalla miseria. Noi vediamo che in una città come Palermo vi sono circa 60 mila persone, che non hanno come vivere, anzi vivono mangiando la propria miseria, perché il destino della miseria è questo: la miseria mangia e consuma se stessa, il dolore mangia e consuma se stesso. Quando ci si trova di fronte a queste situazioni in cui la spina dorsale della speranza sembra spezzata, in cui queste famiglie non hanno più la forza per potersi levare, ci vien fatto di domandare se la società avverte che si sta perpetrando un delitto abbandonandole e che noi abbiamo il dovere di sollevare questi nostri fratelli.

Ecco perché è nell’interesse stesso del vivere sociale che queste masse e queste categorie vengano sollevate, rimesse in un ordine, in una disciplina di vita, in una possibilità di respirare. È un interesse della società, è una necessità quella di andare incontro a costoro. Noi abbiamo di fronte lo spettacolo di categorie che per la loro stessa natura, non per propria colpa, non possono redimersi da sé. Guardate a tanti bambini, vecchi, disoccupati, minorati del lavoro o della guerra, gente cioè che ha dato il proprio contributo, che ha ben meritato della società, che ha dato tutto quello che poteva dare, e che ad un certo momento si trova paralizzata. È un dovere nostro venire incontro ad essi con tutte le forze possibili, è dovere di tutti noi sentire questo appello della sofferenza. Ed allora la Costituzione nostra, che è una Costituzione di democratica libertà, cioè anche di liberazione dalla schiavitù della miseria, pone degli articoli che mettono lo Stato, la struttura della Repubblica di fronte a questo mondo che deve essere sollevato. Fra questi articoli ve n’è uno in particolare, l’articolo 34, che la Commissione ha così formulato: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari di vita, ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale».

Questo articolo dice molto, ma io ho pensato di dare ad esso un senso ancora più alto e più generale. Noi ci troviamo di fronte al cittadino, il quale deve provvedere alla propria vita ma, per circostanze che non dipendono dalla sua specifica volontà (quindi non colpevole) questo cittadino, ripeto, o per ragioni di lavoro, o per ragioni di natura, o per ragioni di disposizioni, per disgrazia, per età, per malattia, in un certo momento può trovarsi nella impossibilità di provvedere alla propria vita. Amici, basta dire questo: che il cittadino si trova nella impossibilità di provvedere alla propria vita. Di gente che muore di fame ce n’è, ma a rigore di termini ce n’è poca, una donna, un bambino, un vecchio che sta morendo lo troviamo qualche volta nelle nostre città del meridione, sui gradini della Chiesa. Questi dimenticati della società, che alla società fanno il processo della morte noi li troviamo, ma sono casi rarissimi. La nostra preoccupazione non si deve esaurire al semplice fatto di vivo o non vivo. Abbiamo il dovere altissimo di rimettere l’uomo nella sua dignità di uomo, altrimenti che società andiamo costruendo? Una società di relitti, di pezzi di barca sfasciati che cercano invano di arrivare al porto. Di qui il compito di rimettere questo uomo nella dignità di uomo, farlo ridiventare uomo. Viene il sospetto che talvolta la società tratti le bestie molto meglio dell’uomo. Alcune bestie sono trattate in stalle scientificamente curate, e tenute molto meglio di migliaia di bimbi, uomini, donne che vivono nel letargo e nella miseria. Questa non è una società né saggiamente né umanamente organizzata. Il lasciar morire qualcuno è un delitto simile all’omicidio, l’assomiglia molto, non dico che sia la stessa cosa, ma socialmente parlando è forse la stessa cosa. E io dico, mi si permetta qua dentro, a tante persone che hanno creduto di fare il proprio dovere solo perché una volta, per la strada, a un povero che tende la mano, hanno buttato 5 o 10 lire: questo non è compiere il proprio dovere. Mettere la mano nelle tasche non basta. Non basta, fare questa semplice carità spicciola, bisogna che questo sentimento fraterno prenda la nostra anima. La società che dobbiamo costituire non è una società di elemosina, è una società di corrispondenza di cuori, in modo che il dolore del mio fratello diventi il mio dolore, la miseria del mio fratello diventi la mia miseria, le lacrime del mio fratello diventino le mie lacrime. Bisogna che l’azzurro della mia gioia sia sempre tinto pittorescamente dalla nube del dolore del fratello che mi sta accanto. Invece non si fa che una società, un aggregato di uomini che si odiano e si sopprimono l’uno con l’altro. Credo che se ci fosse nel nostro senso umano della vita questa pena soavissima della pena altrui, cari amici di destra e di sinistra, tanti problemi economici, tante rivoluzioni sociali, sarebbero risolte da una legge che parte dalla profondità della coscienza senza una imposizione di forza. Questa è la nostra legge e speriamo sia non solo problema di costituzione, ma di ricostituzione vitale del nostro popolo e della nostra dignità.

Ecco perché questo grido che sale non deve procurare il senso della disperazione, ma il senso della attenzione. Non deve essere un grido che faccia suscitare ribellione di cuori ma speranza che le menti e le intelligenze finalmente si intendano e il dolore non sia causa di nuovi dolori e di nuove guerre, ma di un fraterno abbraccio che spiani le vie della pace e della ricostruzione. Perciò, con questo concetto, io ho proposto un emendamento molto semplice che rientra nello spirito della Commissione, ma che vuol esprimere questa sensibilità umana e dignitosa.

«Ogni cittadino che non abbia la possibilità di provvedere alla propria esistenza, conforme alla dignità umana, ha diritto ad adeguate forme di assistenza».

Insisto su quella piccola parentesi «conforme alla dignità umana»; è necessario rimettere l’uomo nella dignità, ridargli nella dignità la libertà, e la libertà nell’ordine; ricostruire il pilastro della vita civile. Noi ci troviamo di fronte quindi alla società impegnata come tale, impegnata in tutti gli individui, in ogni persona, in ogni essere umano, impegnata in un’assistenza che parte dal basso; ogni cittadino, ripeto, ha questa responsabilità come uomo, e, se crede in una Fede superiore, anche come cristiano; altrimenti è un cristiano per modo di dire e non è degno di stare sotto questa grande luce e questa grande insegna.

E allora, amici, ognuno collabori a far sorgere il senso della solidarietà umana, della carità, della assistenza da tutte le parti; si moltiplichino le opere, vengano i germi dell’amore, si creino organizzazioni poderose; e allora vedremo assistiti i vecchi, gli orfani, i poveri, gli ammalati, i derelitti, in una complessità così varia, così generale, così intima, così aderente che veramente ci farà dire che l’uomo non è poi tanto cattivo. Quando tante volte sentiamo, anche in quest’Aula e fuori, che l’umanità è cattiva, che gli uomini sono imbestialiti; cari colleghi, non è vero. Noi tutti assistiamo ad una dedizione di carità così generosa che veramente commuove i nostri cuori.

E allora, qual è il dovere che la società organizzata e le autorità si impongono per inquadrare la società tutta nel cammino migliore? Il dovere è quello di aiutare, di favorire, di venire incontro, di guidare, di promuovere. Anche lo Stato organizzerà la sua opera fondamentale di assistenza e previdenza; e dall’altro lato verrà incontro a tutte quelle iniziative sane, corrette, oneste che cercano di raccogliere dalle mani di chi più ha quel bene in eccesso, quel superest che sia dato a coloro che ne abbiano meno.

In questa idea, in questo concetto è redatto anche il secondo comma dell’emendamento: «Lo Stato promuove e favorisce – come sarà pubblicato nella nuova edizione degli emendamenti presentati da me e dalla signora Federici – l’assistenza e la previdenza sociale».

E questo, o amici, è un capitolo che veramente ci deve confortare nella nostra ripresa e nel nostro programma. E che la Costituzione sancisca questo principio mi sembra una norma altissima che ci dà un senso di serenità per il domani, ci dà un senso di luce nuova che deve schiudere le vie ad un’intesa comune fra tutti quanti i fratelli. Altrimenti, se vogliamo bloccare il senso umano della vita in rigide forme di legge, non potremmo far altro che leggi che uccidono lo spirito e non libere sensibilità che avvicinano e fanno insieme palpitare tutti i nostri cuori.

Vorremmo che da questa Assemblea uscisse una risposta all’appello di tanti dolori e di tante lacrime. Vorremmo dire una parola di conforto a tutti questi bimbi scarni e derelitti, a queste mamme che giorno per giorno si logorano per cercare un pezzo di pane, a questi poveri papà disoccupati che ogni sera tornano a casa e ai bimbi che chiedono del pane devono con pietosa bugia dire che questo pane è arrivato, ma in realtà non c’è.

Vorremmo che da questa Assemblea fosse detta una grande parola: la Repubblica italiana nasce sentendo questa responsabilità; è una società più umana e più ampia che si vede aprire il corso dei secoli; siamo in una epoca innovatrice e rinnovata. Le guerre portano con sé tanti dolori, ma sono anche richiami della provvidenza per tutte le classi sociali. E allora invochiamo da questa Assemblea, attraverso la nostra Costituzione, una parola che scenda a confortare e a sollevare tutte le classi, che sia ammonimento a tutti quelli che hanno, di dare liberamente, con generosità e dedizione, conforme a quella legge superiore che impone loro di dare quello che superest. La vita non è accentramento di personalità, ma dedizione del proprio essere alla chiamata dei fratelli. Una società così composta e costituita nelle sue leggi interne ed esterne può sorridere ad un’alba nuova di pace e di libertà. Per questo si leva dai nostri banchi questo sereno sguardo verso il domani, questa sicurezza che l’esempio dato dal popolo italiano serva di insegnamento per il mondo: che i grandi problemi della vita si risolvono per le vie dell’amore e della carità che affratellano i popoli e li incamminano sereni per la via del domani. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Terranova. Ne ha facoltà.

TERRANOVA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, di questo Titolo III che riguarda argomenti di tanto interesse, sarei indotto a dire ampiamente, più forse per esperienza umana, che non per studio approfondito. Ma rischierei di dilungarmi troppo, dopo che tante autorevoli voci si sono fin qui levate per illustrare l’ampia materia. Permettano, quindi, che del Titolo III soffermi la loro attenzione soltanto sull’articolo 34. Il primo comma di tale articolo introduce un principio la cui portata è di grandissimo rilievo. Esso afferma cioè, il diritto per ogni cittadino, inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari alla vita, d’essere mantenuto ed assistito. Ed affermare un diritto significa assumersi l’impegno di renderlo effettivo ed operante. Approvando questo comma, quindi, ci si assume un impegno di una immensa portata. Lo assumiamo noi, che ne prendiamo l’iniziativa e la responsabilità; lo assume lo Stato al quale è demandato l’obbligo ed in gran parte l’onere di sodisfarlo. L’ultimo comma dell’articolo infatti dichiara che all’assistenza, oltre che alla previdenza, provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato. È evidente che con una siffatta affermazione tutta l’assistenza verrebbe statizzata, solo allo Stato incombendo insieme l’onore di predisporla e l’onere della spesa. Di tutte le altre forme di assistenza e di beneficenza non si fa cenno. La dizione dell’ultimo comma non lascia dubbi al riguardo: «istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato». Se si fosse detto che gli organi sono predisposti od integrati dallo Stato, il riferimento ad altri organi ed enti di assistenza, fuori dell’orbita dello Stato, sarebbe stato evidente; si sarebbe supposto cioè l’esistenza di istituti che pur non essendo predisposti dallo Stato, tuttavia fruirebbero dell’aiuto dello Stato medesimo per integrare i fondi necessari alla loro finalità caritativa. È chiaro pertanto l’esplicito intendimento di abolire o, quanto meno, di lasciare fuori di ogni tutela le varie forme di assistenza privata e di beneficenza comunque alimentate da istituzioni non statali. Ora noi, onorevoli colleghi, abbiamo il dovere di chiederci: è utile un siffatto criterio? È giusto?

C’è una questione pratica, concreta, immediatamente tangibile che va esaminata, ed è questa: lo Stato ha i mezzi, ha la possibilità per assumersi un così grande impegno, per garantire l’esecuzione di un’attività assistenziale che abbraccia numerosi settori, che include forme molteplici e che esige una spesa enorme?

Io so che da qualche settore di questa Assemblea mi si obietterà che, in uno Stato socialmente bene ordinato, i mezzi e le possibilità per tali provvidenze devono esserci; e che, d’altronde, in un ordinamento economico diverso dall’attuale, non vi sarà posto che soltanto per un’assistenza specifica determinata da circostanze prevedibili e rapportata a un regime assicurativo sociale e comunque gestito dallo Stato. Io non mi soffermerò ad esaminare se una simile ipotesi sia realizzabile. Rilevo soltanto che il tipo di Stato e di società, in cui quella ipotesi dovrebbe verificarsi, non sono indubbiamente lo Stato italiano e la società italiana quali stiamo costruendo. La Costituzione, che quest’Assemblea sta predisponendo per il popolo italiano uscito dalla duplice catastrofe della dittatura e della guerra, sarà una Costituzione senza dubbio di grande respiro sociale. Ma essa non darà luogo ad uno Stato socialista. Anche se, come è auspicabile, gli articoli 31 e 32 di questo testo costituzionale troveranno piena attuazione, e tutti i cittadini avranno la possibilità di lavorare, traendo dal loro lavoro la remunerazione adeguata ed anche se sarà effettuato un ampio sistema di assicurazioni sociali, che consenta a tutti i lavoratori il giusto e necessario trattamento in caso di bisogno; ebbene, resteranno ancora vastissimi margini di bisogni inappagati; resteranno da assistere numerose categorie di indigenti di ogni età e di ogni condizione. A gran parte di tale assistenza lo Stato potrà direttamente ed indirettamente far fronte con istituzioni e con opere, con iniziative e con provvidenze o già in atto o da attuare successivamente; ma lo Stato non potrà affrontare tutte le forme di assistenza che i diversi bisogni umani determinano. Non lo potrà, perché non ne avrebbe gli organi ed i mezzi; non lo dovrà neppure perché si sostituirebbe a quelle attività assistenziali, che la beneficenza privata svolge con tanto fervore e con così devoto sentimento di solidarietà umana.

Il problema non è nuovo; né io ho la pretesa di esporne qui i termini che costituiscono ampia materia storica e giuridica di polemica e di discussione. Mi basterà appena ricordare che la tendenza accentratrice dello Stato in tema di beneficenza e di assistenza non è recente. Ma finché si tratti di organizzare, disciplinare e controllare le istituzioni di beneficenza sorte dalla volontà e dai mezzi dei privati si può anche riconoscere, entro certi limiti, l’opportunità dell’intervento statale. I malumori che la legge Crispi suscitò in molti ambienti cattolici non sono ancora del tutto dissipati. E certo, la legge Crispi del 1890 sottoponendo a regime di controllo le istituzioni di beneficenza indubbiamente limitò molte di tali istituzioni, ne ostacolò talvolta gli sviluppi, frenò iniziative ed assopì energie benefiche. Tuttavia quella legge ha avuto i suoi aspetti buoni: ha operato un coordinamento degli istituti, ne ha disciplinato l’attività, ne ha consentito il controllo, talvolta ne ha permesso utili integrazioni.

Ma, invece, di fronte all’enunciato dell’articolo 34 del progetto di Costituzione c’è da restare alquanto perplessi. È evidente che, con l’ultimo comma di quest’articolo, non ci sarebbe più nemmeno l’ombra di autonomia per tali istituzioni. La legge Crispi queste istituzioni lasciava in vita, riconoscendole come enti pubblici, o comunque morali. Col presente comma invece questi enti verrebbero assorbiti dallo Stato.

E se questo è che si vuole, lo si dica esplicitamente. Ma volendosi dare allo Stato tutta la responsabilità e tutto l’onere dell’assistenza, noi abbiamo il dovere di dire che si commette un grandissimo errore oltre che una ingiustizia. Lo Stato, almeno da noi in Italia, dove la tradizione della privata beneficenza è gloriosa, se assorbisse le espressioni di questa beneficenza correrebbe il rischio di vedere appassite istituzioni fiorenti ed illustri. Noi infatti dobbiamo considerare il problema non soltanto nei riguardi della beneficenza legale, della beneficenza cioè che è effettuata da istituzioni create dallo Stato, o da istituzioni private, considerate tuttavia pubbliche per i fini che si propongono; ma il problema va specialmente considerato in relazione ad altra forma di beneficenza e quella più generosa, più schietta, che la legge del 1890 non ha, giustamente, disciplinata, perché sarebbe stato assurdo disciplinare.

Quest’altra forma di beneficenza viene designata nei testi col nome di beneficenza ordinaria o facoltativa. Essa comprende migliaia di istituti, di organizzazioni filantropiche, di congregazioni religiose, che svolgono un lavoro assiduo, diffuso, profondo. Decine di migliaia di persone, laiche e religiose, vi prodigano intelligenza, capacità, esperienza, senso umano di abnegazione. Nessuno, penso, crederà che quest’altra forma di beneficenza sia di irrilevante portata. La verità infatti è che essa eguaglia, nella sua portata materiate, l’assistenza legale. Secondo i dati statistici ufficiali di prima della guerra, per la beneficenza legale in Italia si erogava annualmente la somma di un miliardo di lire all’incirca. Ebbene, secondo gli stessi dati, la somma complessiva erogata dai vari enti per la beneficenza privata non era inferiore; taluni, anzi, ritengono che fosse persino superiore. Si tratta, dunque, di un patrimonio cospicuo, vastissimo che non può essere disconosciuto.

Si potrebbe prospettare l’idea di mantenere nell’orbita della beneficenza legale un tale patrimonio, incamerando i beni degli enti che esercitano la beneficenza privata; o, quanto meno, che lo Stato intervenga per incanalarlo nella beneficenza pubblica.

Ma quali sarebbero le conseguenze di una simile eventuale determinazione?

Quei beni, quegli istituti, quei patrimoni, che oggi la beneficenza privata destina al soccorso dei poveri, degli indigenti, degli inabili, degli afflitti, non sono tutti incamerabili e nemmeno disciplinabili. Essi sono il frutto di una spontanea e spesso immediata volontà di bene da parte di coloro che il bene concepiscono come solidarietà nel bisogno; essi sono la espressione di un sentimento che la legge normale non può disciplinare, perché parte dal cuore, parte da quel sovrannaturale impulso degli uomini a ritrovarsi affratellati nell’ora del dolore. Quel sentimento ha un nome e questo nome è carità. Pronunciamola pure questa parola, che molte teorie considerano vecchia e senza più valore; pronunciamola con rispetto, con devozione, con venerazione. La beneficenza legale, la beneficenza organizzata indubbiamente ha una sua grande funzione, sociale da assolvere. Ma la carità assolve due funzioni di pari se non di maggiore importanza.

Da un lato essa va incontro ai poveri, ai derelitti, con occhio più vigile di quanto la beneficenza legale non possa avere, perché penetra nelle case e perfino nei cuori. D’altro lato essa adempie, in chi la compie, ad un grande, sublime dovere: il dovere di rendersi utili agli altri, di unificarsi in comune sorte al prossimo, come diceva Tertulliano, secondo lo spirito del comune Padre.

Questo dovere rende la carità virtù e virtù sovrannaturale; rende la carità non più elemosina ma misericordia e cioè sentimento di pietà e di affratellamento, volontà di dare agli altri, uscendo da sé, dimenticando se stessi. Io non dirò con Pascal che la legge della carità basti a regolare la repubblica cristiana più di tutte le leggi politiche. Non chiederò neppure che nel nuovo testo costituzionale si faccia cenno dalla carità; e sarebbe d’altronde inutile, perché nessuna legge e nessun codice che non stiano nell’anima potrebbero mai sancire un principio, che trascende gli uomini.

Ma poiché dalla carità sono sorte, sorgono e sorgeranno sempre opere di bene, le quali sono concrete manifestazioni di solidarietà, di assistenza, di umana giustizia, è opportuno ed è necessario che tali opere possano liberamente continuare ad esplicare la loro azione caritativa e benefica; è soprattutto indispensabile che esse non vengano direttamente od indirettamente compromesse od annullate. L’assistenza, che nello Stato italiano rinnovato, dovrà venir concessa ai bisognosi, dovrà, dunque, poggiare essenzialmente su tre pilastri: quello della carità privata o, se più piace, della beneficenza facoltativa; quello della beneficenza esercitata da istituzioni sorte da private iniziative e da private iniziative sostenute, ma tuttavia disciplinata, ordinata e controllata dallo Stato; e quello degli enti pubblici.

Alla stregua di questi criteri, la dizione del terzo comma dell’articolo 34 va pertanto modificata. Propongo che tale emendamento sia così redatto: «All’assistenza ed alla previdenza provvedono istituti ed organi predisposti od integrati dallo Stato, il quale, per altro, favorisce le sane iniziative della privata beneficenza».

Mi duole di proporre un’aggiunta ad un testo, che è giudicato già abbastanza lungo. Ma, proprio perché molte cose son dette in questo testo, ritengo che sarebbe ingiusto non far cenno della beneficenza, intesa in tutte le sue espressioni di pietà è di solidarietà umana: un cenno, infine, di carità e di amore, anche come vaticinio di una società migliore in cui cristianamente ci si senta meno nemici e più fratelli; ci si senta più vicini a Dio, perché, come ha detto l’apostolo Giovanni, Dio è carità e chi sta nella carità sta in Dio e Dio in lui. (Applausi al centro e a destra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bosi. Ne ha facoltà.

BOSI. Con l’inizio della discussione sul Titolo III mi pare che sia riconosciuto da tutti gli oratori che entriamo nella parte della Costituzione la più vitale e la più necessaria, almeno attraverso tutti i riconoscimenti dati. Già all’inizio della discussione, nell’indicare quali dovevano essere le caratteristiche della nuova Costituzione, si è riconosciuto che bisognava che anzitutto essa fosse adeguata a quella che è la situazione italiana, in modo da non costituire una sovrapposizione inutile in quella che è la vita sociale ed economica del Paese e che, nello stesso tempo, fossero riconosciute nella Costituzione le necessità vive della nostra vita italiana, in modo da permettere a queste necessità di essere soddisfatte. Sono necessità di trasformazioni della nostra società le quali devono avvenire, perché sono richieste, perché sono pronte: non si tratta di trasformazioni le quali sieno rimaste soltanto nella testa di qualche teorico, di qualche sognatore, ma trasformazioni che sono indicate da tutto il travaglio della nostra vita sociale.

È bene perciò che nella Costituzione, queste trasformazioni necessarie siano riconosciute e sia aperta la strada alla loro realizzazione. Da parte di tutti coloro che hanno partecipato alla discussione, da parte di tutti coloro che oggi in Italia si interessano dei problemi del nostro Paese, nei partiti politici, in tutte le correnti, c’è un riconoscimento fondamentale, che è quello delle aspirazioni e delle necessità dei lavoratori.

Caratteristica essenziale della nostra Costituzione – e del resto non soltanto della nostra – sarà quella di dare un riconoscimento e una possibilità di soddisfazione di queste necessità e, nello stesso tempo, di dare la possibilità di estrinsecarsi democraticamente a quel rinnovamento della nostra società che noi abbiamo effettivamente incominciato contro la forma di società e di Stato che esisteva prima.

È necessario qui non dimenticare che tutte le affermazioni della nostra Costituzione vengono in sostanza a rinnovare le garanzie per gli individui della società italiana e, in modo particolare, per la possibilità di sviluppo della personalità umana, che erano state negate dal regime che ci ha preceduto.

Questa affermazione della personalità umana, che è qualche cosa di complesso, inizia dal riconoscimento di quelli che sono i diritti civili e politici degli italiani, ma deve essere completata, perché questi diritti civili e politici possano essere affermati ed effettivamente sanciti, dalla affermazione di quelli che possiamo chiamare i diritti di possibilità di sviluppo della personalità con la pienezza di possibilità economica.

Non c’è possibilità di sancire determinati diritti, se l’individuo che deve esercitarli non ha di fatto la pienezza delle sue possibilità economiche. Ora, la parte che noi oggi discutiamo è volta soprattutto ad affermare queste possibilità; se noi non lo comprendiamo, se noi cioè, dopo aver negato il regime precedente, attraverso l’affermazione dei diritti politici e civili degli uomini, non lo neghiamo anche togliendo quelle imitazioni che esistevano, durante il regime stesso, all’esercizio dei diritti civili e politici, noi non negheremo mai completamente quel regime.

Questa è una questione fondamentale che dobbiamo affermare; e allora, quando parliamo della tutela dei lavoratori e dei cittadini in generale – ma soprattutto dei lavoratori – noi teniamo conto di quella che è una necessità essenziale della nostra società, quella cioè di porre la grande massa dei cittadini italiani in condizione di esercitare i loro diritti.

Tutto si riassomma in ciò. Noi non possiamo pensare alla Costituzione italiana, la quale viene ad affermare una necessità da tutti riconosciuta, senza che in essa vi sia l’affermazione di questi diritti particolari.

È grave che qualche volta si senta qua dentro negare questi diritti o che, per lo meno, si pensi a difficoltà di ordine materiale per la loro esplicazione. Le difficoltà pratiche si supereranno facilmente se ci sarà questo indirizzo per cui le necessità immediate dei lavoratori in generale siano assicurate dallo Stato, il quale entra anche nella determinazione dell’economia e delle attività necessarie ad assicurarla.

Non è dunque una difficoltà materiale che osta a questo riconoscimento, perché non si tratta soltanto di fare della carità: nei diritti già riconosciuti e che riconosceremo, c’è un’affermazione che ha la sua importanza e che spiega perché noi vediamo che questi diritti possono essere tutelati: il diritto al lavoro, l’intervento dello Stato nell’ordinamento delle attività economiche in modo che queste rispondano alle necessità sociali. È evidentemente su questa strada che noi ci metteremo per assicurare l’altra parte dei diritti, la tutela e l’assistenza dei lavoratori. Sarebbe infatti un assurdo pensare allo Stato il quale tuteli i lavoratori in un ordinamento economico simile a quello vigente. Su questo sono d’accordo con i colleghi che mi hanno preceduto.

Ma noi dobbiamo vedere la Carta costituzionale nel suo complesso, ed allora vediamo anche la possibilità di porre le condizioni per realizzare quelle affermazioni che sono contenute nel Titolo terzo per quanto riguarda i diritti del lavoratore. Ma quando noi parliamo di continuare e di ampliare la trasformazione della nostra vita sociale italiana, dopo aver trasformata e democratizzata la nostra vita, quando affermiamo veramente i diritti di tutti i cittadini e parliamo di una trasformazione economica, mi pare che noi dobbiamo tener conto di una cosa necessaria e cioè che le trasformazioni economiche non vengono fatte soltanto attraverso le leggi: le trasformazioni economiche e sociali avvengono per quelle che sono le forze interne della società. Gli uomini, quando lavorano, producono e trasformano continuamente le condizioni stesse di produzione. E dobbiamo tener conto di un’altra cosa e cioè che se la legge, se la Costituzione, se quelle che sono le regole che influiscono e nello stesso tempo reggono la vita civile non sono tali da permettere le trasformazioni che si hanno già naturalmente nella società, queste trasformazioni si imporranno egualmente e si imporranno attraverso degli urti violenti, attraverso dei conflitti.

Ora io penso che debba essere compito della nostra Costituzione creare le condizioni per cui le trasformazioni avvengano per via democratica, e avvengano senza urti; dobbiamo lasciare cioè aperta la strada per le trasformazioni che sono già in atto e si completeranno nella nostra società. Se la democrazia deve essere vera democrazia, la volontà degli individui, che ad un certo momento si impadronisce di verità che sono create dallo sviluppo della società, deve manifestarsi e per manifestarsi deve trovare le condizioni adatte per la sua realizzazione attraverso quella che è la vita normale della società, attraverso la vita politica, attraverso quindi le regole generali che sono contenute nella Costituzione e che devono permettere queste trasformazioni. Mi pare che nella Costituzione questa strada aperta verso l’avvenire in molti casi sia stata osservata, ed è bene che questo sia, perché altrimenti i problemi sociali che urgono e che tutti quanti riconoscono anche quando li negano, dovrebbero trovare un’altra strada per affermarsi. Credo che nessuno di noi voglia questo e che tutti vogliamo che la trasformazione avvenga per via democratica, per via regolare, nell’ambito della Costituzione e che le stesse variazioni nella Costituzione, se saranno necessarie, possano avvenire per questa strada regolare e democratica.

Ora, in Italia le necessità di trasformazioni sono diverse, ma mi pare che noi non dobbiamo dimenticare che una trasformazione soprattutto è necessaria: quella che deve portare tutta l’Italia ad essere nelle stesse condizioni di capacità produttiva e quindi di elevazione civile e di elevazione morale. Necessità, quindi, di unificare il nostro Paese. Lasciate a me, che non sono meridionale, ricordare che c’è un problema di questo genere in Italia, molto profondo, molto urgente. In Italia noi abbiamo delle diversità di condizioni economiche. Soprattutto nel campo dell’agricoltura, abbiamo dei problemi da risolvere in questo campo che vanno affrontati. Io ho sentito parlare qui, e sentiremo parlarne ancora, del problema della riforma agraria, ed ho sentito porre dei dubbi o delle riserve sulle trasformazioni che sono necessarie in Italia, che tutti quanti riconoscono necessarie, anche coloro che negano la possibilità e la necessità per la Costituzione italiana di intervenire nel campo della proprietà terriera. Anche costoro avvertono che le trasformazioni sono necessarie. Soltanto vorrebbero lasciarle al normale sviluppo che si ha nella società quando le forze economiche agiscono.

Io penso che oggi non sia più il caso di aspettare. Se si parla di riforma agraria in Italia è perché c’è la dimostrazione più che provata che questa trasformazione nel campo agrario non si è prodotta da sé, che oggi c’è un distacco che va accentuandosi, per quanto riguarda le condizioni agricole, fra il nord e il centro-sud dell’Italia. Ora questo ha una sua ragione, ha origini che bisogna andare a toccare e che la Costituzione fa bene ad indicare, indicando nello stesso tempo i mezzi per ovviare a queste difficoltà.

Se in Italia ci troviamo di fronte a questi problemi è per una ragione molto semplice: è che la trasformazione sociale è avvenuta nel nord e non nel sud. Basta studiare la storia d’Italia. Basta vedere oggi le condizioni in cui si vive nell’Italia centro-meridionale, condizioni simili a quelle di 50 o 100 anni fa, per cui c’è effettivamente un ristagno politico e sociale in quelle regioni.

Le cause sono facili ad identificarsi: nell’Italia meridionale noi, onorevoli colleghi, non abbiamo avuto quella evoluzione che c’è stata invece in altre regioni italiane.

Il fatto della terra a disposizione di coloro che posseggono dei capitali, e che sono disposti ad impiegarli nella terra, si è verificato solamente nel Nord. Nell’Italia meridionale questo non lo abbiamo avuto. Nell’Italia meridionale noi siamo ancora oggi nelle condizioni del possesso feudale o quasi. Anche se l’estensione della proprietà, quali che siano oggi i dati del Catasto, può sembrare più o meno diversa, le condizioni sono sempre quelle.

Ora, bisogna prendere misure adatte in modo da mettere l’Italia centrale e meridionale nelle stesse condizioni del Nord. Non si tratta di fare la rivoluzione socialista in questo campo; mi si permetta di dirlo. La Costituzione non vuole farla. Vuole semplicemente ciò che l’articolo chiaramente propone: mettere l’Italia centro-meridionale nelle stesse condizioni del Nord, cioè dare la possibilità all’impresa capitalistica di svilupparsi anche nel Mezzogiorno italiano. Per far questo bisogna che la proprietà, quale si presenta oggi, sia cambiata, e prima di tutto bisogna aprire la strada agli elementi che possono portare la trasformazione. Le condizioni naturali valgono, ma valgono per tutti i Paesi e le regioni. Vi sono anche altrove difficoltà di ordine naturale, ma il fenomeno a cui assistiamo nell’Italia meridionale è che sulla terra non si vede il capitale, il reddito non si reimpiega nella terra, ma va a finire altrove. Manca questa capacità dei proprietari della terra di trasformare le loro aziende, di cambiare quella che è la natura del terreno, la natura della regione. Ora, la limitazione posta alla proprietà c’è, ma la limitazione dovrà servire allo scopo, ed a noi non deve destare preoccupazione il dilemma: che cosa seguirà a questa limitazione della proprietà? Chi saranno i nuovi proprietari? È evidente che il problema si pone e andrà posto, io spero, in senso realistico. Non bisogna avere prevenzioni né per l’una né per l’altra forma di proprietà. È evidente che parlando di media e di piccola proprietà, parlando di piccola proprietà e di cooperativa, non è possibile stabilire a priori quali siano gli ambienti adatti per l’una o per l’altra.

Certo, nell’Italia meridionale, insieme a questa particolare forma di proprietà, c’è anche un particolare ambiente.

Parlare di cooperative nell’Italia meridionale, nel senso inteso nel Nord, è certamente cosa che esce dalla mentalità degli stessi contadini meridionali. Abituati a vivere in un ambiente, dove domina l’egoismo più assoluto, essi non possono avere piena cognizione della cooperazione, cioè della solidarietà, nel senso dell’azione in comune. Quando si istituiscono cooperative nell’Italia meridionale, si assegnano loro le terre e queste vengono spezzettate, evidentemente ciò significa che non si apprezza il lavoro in comune. È già qualche cosa se quei soci comprano collettivamente le sementi e i concimi; è una forma iniziale di solidarietà che si manifesta. Sta in noi aiutarla, ed è bene che qualche articolo della Costituzione parli di aiuto alle cooperative.

Non credo che si debba porre il problema di sostituire le grandi imprese con le cooperative; andremmo fluori della realtà umana. Ci sono gli uomini che creano; è nostro dovere educarli e mettere a loro disposizione i mezzi, perché essi possano comprendere la forza dell’azione in comune. Non possiamo, naturalmente, pretendere che, dall’oggi al domani, con un decreto legge, essi cambino mentalità.

In altre regioni le cooperative potranno sostituire con vantaggio le grandi proprietà attuali. Ma il problema del latifondo va affrontato nel senso realistico: non si può paternalisticamente imporre all’uomo quello che egli non è in grado di comprendere.

Già, oggi, noi creiamo le basi per la trasformazione. Pensiamo che in molte zone la piccola proprietà è oggi, e lo sarà per un certo tempo, la forza fondamentale per questa trasformazione. Abbiamo già prove concrete di quello che possa fare il contadino, quando egli è proprietario della terra. Se noi diamo ai contadini la terra, siamo sicuri che in vastissime zone del nostro Paese si avrà l’elevazione dei lavoratori e la trasformazione delle condizioni della mostra agricoltura. C’è chi ha posto in evidenza il fatto che, nelle zone latifondistiche dell’Italia meridionale, le necessità tecniche sono di importanza fondamentale, tanto da rendere necessario fare prima la bonifica e poi la riforma agraria.

Noi non siamo di questo parere. Sarebbe assurdo proseguire per una strada che si è dimostrata fallace. Infatti, nelle zone latifondistiche i lavori di bonifica iniziati sono finiti nel nulla: strade che vanno alla malora perché nessuno vi passa, case costruite che stanno crollando perché i proprietari non ne usufruiscono, dopo aver riscosso i contributi per la loro costruzione, e non vogliono consegnarle ai lavoratori.

Noi pensiamo che il problema principale ed iniziale sia quello della trasformazione sociale: risolviamo prima il problema sociale della proprietà e poi l’aiuto dello Stato vada a vantaggio dei lavoratori.

Non neghiamo la necessità di trasformazione del latifondo: c’è bisogno di strade, di acquedotti, di case, di una infinità di lavori. Ma questi lavori lo Stato non dovrà farli nell’interesse dei proprietari attuali, ma nell’interesse di quei lavoratori che saranno immessi nella proprietà della terra. Ecco come il problema va risolto. E allora riconosciamo le difficoltà, ma soprattutto questa: che nessuna bonifica, nessuna vera trasformazione avrà valore efficace nel tempo se non servirà ad una classe nuova la quale voglia effettivamente – perché essa è l’artefice della produzione – servirsi della trasformazione e della bonifica. Abbiamo oggi troppi esempi di possidenti della terra che non soltanto non pensano alla bonifica, ma neppure a coltivare con i metodi dettati dai primi passi della tecnica agraria le loro terre. Si pirla di terre pietrose, argillose, deserte, nude.

È vero; ci sono queste situazioni, ma noi vediamo ed abbiamo visto che, là dove si sono impiegati capitali, le terre possono essere trasformate. Invece che cosa si fa? Si fa quella che è un’opera di sabotaggio alla produzione nazionale. Basta andare in questi giorni nella Capitanata per vedere che i campi di grano non sono campi di grano, ma campi di fiori e di mala erba piantata in mezzo al grano, perché questo non si è pulito. Questo è il problema che si pone.

Oggi le classi che detengono la grande proprietà dimostrano di non volersene servire nell’interesse collettivo; dimostrano che vogliono servirsi delle loro proprietà per il loro interesse individuale, e qualche volta per colpire l’interesse collettivo. Questa è la questione che noi dobbiamo porci quando si parlerà nella Costituzione di colpire i monopoli. La grande proprietà è un monopolio che impedisce non soltanto la possibilità di possedere a milioni di lavoratori, ma impedisce la possibilità di svilupparsi a tutta l’economia nazionale.

Andate a parlare di trasformazione, di bonifiche, e vi risponderanno come hanno risposto a noi in qualche caso: «la bonifica è una bella cosa, i vostri piani sono ottimi; ma io nella mia terra faccio quello che mi pare è non voglio sentire parlare di trasformazioni». Di fronte ad una casta di questo genere, dobbiamo riconoscere che l’affermazione della Carta costituzionale, per cui la Repubblica combatterà i monopoli, è una necessità per la società italiana e per lo sviluppo della società futura, perché non possiamo dimenticare che nella Carta costituzionale devono essere inserite le norme di vita sociale di tutto il popolo italiano, norme di vita civile e politica che dovranno mettere il popolo italiano in grado di elevarsi effettivamente; e dobbiamo anche pensare che metà della nostra popolazione vive nelle campagne, e se non c’è aumento della produzione non possiamo alimentare metà del popolo italiano. Non possiamo mandare milioni di contadini a lavorare nelle fabbriche, né mandarli all’estero o farli morire sulle terre che non riescono a coltivare. Dobbiamo pensare allo sviluppo della nostra agricoltura che vorrà dire possibilità di dare pane al popolo italiano. Questo si avrà soltanto con una riforma agraria che tolga alla grande proprietà il monopolio della terra. Quindi bisogna mettere in condizione i lavoratori di potersi rendere padroni della loro vita e rendersi capaci di aiutare assieme agli altri lavoratori, lo sviluppo del nostro Paese. E, guardate, quando si parla di riforma agraria, è bene dirlo, non si pensi soltanto alla limitazione dell’estensione della proprietà. Io penso che in Italia, e specie nell’Italia centro-meridionale, vi sono altri problemi di riforma che vanno risolti, non limitando l’estensione della proprietà, ma modificando i patti che sono una vergogna per il nostro Paese e sono ancora peggiori dei patti medioevali di schiavitù. Bisogna che il lavoratore abbia il frutto effettivo del suo lavoro senza negare alla proprietà la rendita. Quindi riforma agraria vuol dire anche riforma dei patti agrari. Noi dobbiamo fare che in Italia non ci sia più la possibilità che la terra sia veramente, come è stata per il passato, il più proficuo impiego di capitale, perché il lavoratore dell’agricoltura è il lavoratore più sfruttato, che non ha avuto nessuna assicurazione di avere un minimo sociale di vita e di essere trattato come uomo.

Oggi basta andare a vedere nell’Italia meridionale quali sono le condizioni dei lavoratori per accertarsi che questo non è stato fatto.

Vi sono delle parole nell’articolo 41, le quali possono far credere che sia possibile intervenire e limitare la proprietà fondiaria nel suo strapotere e nella sua estensione nei confronti del lavoratore. Se questo non basta e non verrà riconosciuto, sarà presentato un emendamento, perché si riconosca che la tutela dei lavoratori e dei contadini italiani non sarà possibile senza una riforma agraria.

I lavoratori della terra devono essere messi nelle stesse condizioni dei lavoratori delle altre categorie, devono godere il frutto del loro lavoro, devono essere messi in condizioni di avere i benefici che hanno le altre categorie, non devono essere soffocati da patti che sono di schiavitù.

Quindi è bene che nella Costituzione ci sia il riconoscimento di queste necessità di trasformazione della nostra economia, altrimenti noi non costituiremo veramente una repubblica democratica, non condurremo a fondo la lotta contro le condizioni sociali, che ci hanno portato, prima alla perdita delle libertà politiche e poi al disastro.

Nella Costituzione, questo problema deve essere risolto.

Bisogna anche pensare a qualche altra questione per quanto riguarda i lavoratori dell’agricoltura, perché quando noi parliamo della libertà sindacale e della libertà di sciopero, rileviamo che qualcuno ha voluto pensare di limitare queste libertà. Non dobbiamo dimenticare e non dimentichiamo che i lavoratori dall’agricoltura in questo periodo di tempo hanno dimostrato di avere il senso delle loro responsabilità nei confronti della comunità e della economia nazionale. Scioperi su vasta scala non ve ne sono stati. I lavoratori hanno rinunziato a quello che è un diritto generalmente riconosciuto, il diritto di sciopero. Vi sono stati solamente casi sporadici di sciopero dei lavoratori dell’agricoltura, malgrado le condizioni in cui essi vivono.

Ebbene, io penso che bisogna fare un’aggiunta alla Costituzione, perché oggi la lotta sindacale in Italia non si svolge più soltanto sulla base dello sciopero o sulla base delle trattative sindacali, ma ha un’altra base: i lavoratori della terra hanno la responsabilità della produzione, perché se in una fabbrica si impedisce o si ferma il lavoro per una settimana, si può riguadagnare il tempo perduto con il lavoro straordinario o con altri mezzi, mentre invece nell’agricoltura fare lo sciopero per una settimana, in qualche caso – noi lo sappiamo per l’esperienza del passato – vuol dire rovinare il raccolto, impedire i lavori necessari ad ottenere il raccolto. I lavoratori della terra oggi hanno rinunziato a fare lo sciopero; però, quando hanno voluto servirsi di altre armi, di altri mezzi di lotta, per sostenere lo loro ragioni, senza danneggiare la produzione, sono stati colpiti, allora io penso che il diritto di sciopero, che vale per i lavoratori dell’industria e per tutte le altre categorie di lavoratori, che vale in qualche caso per i lavoratori dell’agricoltura, debba essere concretizzato col diritto dei lavoratori dell’agricoltura a servirsi di altri mezzi, tali che assicurino il loro diritto alla giusta ricompensa del lavoro prestato. Noi presenteremo anche su questo argomento un emendamento.

Ad ogni modo, concludendo, io penso che non v’è dubbio sulla necessità di intervenire nel futuro, servendoci di quelli che sono i mezzi che la Costituzione ci deve dare nell’agricoltura italiana. Dove essere uno dei compiti riconosciuti da tutti, perché noi potremo avere la nostra società nazionale prospera economicamente, soltanto quando avremo tolto gli impedimenti che ci sono e avremo contribuito allo sviluppo di quella metà della nostra economia costituita dall’agricoltura italiana. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bruni. Ne ha facoltà.

BRUNI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. «La proprietà privata è riconosciuta e garantita»; la legge avrà cura di «renderla accessibile a tutti»; la legge «aiuta la piccola e la media proprietà…».

Questo è il linguaggio, che tiene il nostro progetto di Costituzione nei riguardi della proprietà, negli articoli 38 e 41.

Su queste affermazioni c’è una osservazione fondamentale da fare: che è riconsacrato, in forma solenne, il pilastro su cui si regge l’attuale ordinamento economico capitalistico; l’istituto della proprietà privata dei mezzi di produzione.

Mancano, in tutte queste formule del Progetto, degli impegni precisi ed inequivocabili diretti a mutare realmente e durevolmente quel tradizionale istituto. Naturalmente una Costituzione non può essere un Codice di leggi o una raccolta di decreti. Ma è anche passato il tempo in cui le Costituzioni venivano considerate come una nuda elencazione di astratti principî etici e filosofici. Nel nostro progetto di Costituzione si resta ancora troppo nell’indeterminato. Naturalmente, della proprietà il progetto sancisce l’essenziale valore sociale; e non c’è dubbio che si facciano intervenire le ragioni del bene comune per regolamentarla ed eventualmente limitarla. Del resto non c’è Carta costituzionale moderna che manchi di cotali affermazioni oramai largamente acquisite alla coscienza dei contemporanei. Bisogna riconoscere che c’è n’è voluto perché anche filosofi e teologi universalmente riconoscessero il carattere essenzialmente sociale della proprietà. Ma anche questa verità mi pare ormai definitivamente acquisita. Nel 1941, in un memorabile documento pontificio, con dizione chiara ed inequivocabile, si fissò il concetto che il diritto originario e primigenio in economia è il diritto che tutti gli uomini posseggono di usare dei beni materiali. E si aggiungeva, di conseguenza, che questo diritto d’uso, questo «comunismo d’uso», come anche s’esprime certa terminologia di scrittori cattolici, domina tutti gli altri diritti in economia: il diritto di proprietà privata, di scambio e commercio e il diritto di intervento dei pubblici poteri nell’ambito dei beni economici. In altre parole, questi diritti sono secondari rispetto all’altro che è principale. In altre parole il diritto di proprietà, chiunque lo detenga, il diritto di scambio e commercio, il diritto che ha lo Stato di intervenire in materia economica, devono essere intesi in essenziale funzione del diritto, il solo veramente originario e primigenio, posseduto da tutti gli uomini di usare dei beni materiali. Questa posizione è importante in quanto supera la tradizionale e tipicamente pagana concezione di sacra ed assoluta reverenza verso il diritto di proprietà privata dei mezzi di produzione. E non è mancato tra filosofi e teologi cattolici chi, una volta acquisito tale concetto (del resto tutt’altro che moderno nella tradizione cristiana) si sia auspicato un ordinamento economico analogo a quello che io, onorevoli colleghi, vi propongo, nelle sue linee generali, coi miei tre articoli sostitutivi. Del resto, mi lusingo che la concezione economica fissata nei miei tre articoli possa essere accettata da tutti coloro che intendono abolire il regime capitalistico. Essa vuol essere un superamento, e non una negazione pura e semplice, di quella economia auspicata da tante altre direzioni e con reiterati richiami, specie da un secolo a questa parte.

Com’è noto, da un secolo a questa parte, specie per merito del movimento socialista, una lotta accanita si è ingaggiata contro il sistema capitalistico. I movimenti socialisti hanno però essenzialmente avuto il torto di combattere la loro santa ribellione a nome di una filosofia che non poteva essere accettata da tutti, a nome di una concezione dell’uomo che mortificava l’uomo in ciò che ha di più alto e di più prezioso, hanno avuto il torto di affidare, sia pure in via provvisoria, l’auspicato riordinamento economico, ad una formula statalista. E così avvenne che tali movimenti non furono in grado di convincere tutte le masse diseredate e finirono per esporre il loro fianco a delle critiche, che furono sfruttate onestamente e disonestamente, ma che in definitiva intralciarono la loro azione.

I cristiano-sociali d’Italia, che io rappresento, in questa Assemblea, hanno dato vita nel 1941 ad un nuovo tipo di socialismo, personalista e comunitario, non legato ad alcuna particolare ideologia, ma solo alla ideologia di tutti, che è costituita dalle regole della morale naturale e dai diritti naturali dell’uomo. E solo perché ebbero coscienza del grado di eroismo che occorreva per attuarlo, intesero fare esplicito appello, con la loro etichetta, ai valori, ai costumi, alle energie del popolo cristiano.

Gli odierni partiti delle grandi masse lavoratrici: democristiani, socialisti e comunisti, non si sono trovati ancora una volta d’accordo in una formula chiaramente decisiva su questo problema.

Eppure, interpreti come dovrebbero essere di queste masse, io dovrei supporre che i tre partiti (che assieme raccolsero circa 17 milioni di voti) avrebbero potuto trovare l’unione sopra un punto: sulla liquidazione del sistema capitalistico. Non l’hanno fatto. Il Progetto parla chiaro.

Né si può dire che un’operazione di tal genere, non fosse nella esigenza delle masse, che dicono di rappresentare. Direi che le masse hanno votato per loro, perché una tale operazione fosse portata a termine.

Non credo di poter essere smentito nell’affermare ciò che affermo. Si obietterà che i tre partiti, uniti nel fine da raggiungere, non si sono poi trovati d’accordo nei mezzi da mettere in opera per conseguirlo. Ma non è avvenuto così. In realtà è mancata questa stessa volontà del fine. Se ci fosse stata, essa doveva anzitutto manifestarsi, per divenire efficace, nel partito più forte. L’iniziativa doveva partire dalla Democrazia Cristiana. La Democrazia Cristiana, forte di 8 milioni di voti, forte di 207 deputati, cui è toccata la ventura della direzione del Governo e di tutte, o quasi, le Commissioni governative; che è riuscita ad imprimere in larga misura le sue direttive a tutto il progetto di Costituzione, la Democrazia Cristiana, dico, com’è che non è anche riuscita ad inaugurare una nuova politica economica, quella politica promessa alle masse in tempo di elezioni, radicalmente anticapitalistica?

Una sola scusa avrebbe la Democrazia Cristiana da addurre a sua giustificazione, ed è che socialisti e comunisti abbiano avuto paura di seguirla in questa sua iniziativa rivoluzionaria che, certo, poteva essere realizzata, volendo, in condizioni di piena legalità, essendo oltre 420 i rappresentanti dichiarati delle masse lavoratrici.

Ma non è qui il caso di perdersi in recriminazioni inutili.

Mi sia tuttavia permesso di osservare che le aspettative della grandissima maggioranza del popolo italiano, in questo suo periodo di dopo fascismo e di dopo guerra, sono andate deluse, proprio in un campo dove erano state concepite le maggiori speranze.

A tali speranze permettetemi di rendere, onorevoli colleghi, un omaggio di principio, altro non potendo fare, con questo mio intervento.

Con i miei tre articoli (sostitutivi degli articoli che vanno dal 38 al 43 del progetto di Costituzione) permettetemi di rendere testimonianza, in campo economico, ai principî di libertà, di eguaglianza, di giustizia e di fratellanza, che il Vangelo di Cristo ha reso particolarmente operanti nel mondo.

Questi articoli vogliono essere i pilastri di un nuovo ordinamento economico, avente un carattere, allo stesso tempo, personalista e comunitario.

La concezione economica dei cristiano-sociali ubbidisce ad un motivo fondamentale, ch’essi ritrovano anche nel Discorso della Montagna.

Essa è veramente l’economia dei «poveri in spirito», educativa del «distacco».

I cristiano-sociali sanno che, per vivere una vita ad altezza di uomo, non giova essere «ricco», cioè, possedere il superfluo; e non giova essere «misero», cioè mancare del necessario. Giova essere «poveri».

Solo la condizione del «povero», cioè di colui che si trova in una condizione di mediocrità economica, può facilitare l’esercizio della tanto necessaria virtù del «distacco».

Si tratta di separarsi dal «superfluo», e non limitarsi, nella ricchezza, a sospirare il «distacco».

In via ordinaria occorre essere poveri per poter divenire «poveri in spirito», vale a dire, per potersi arricchire di umanità.

Non si pone la questione di «negare» l’enorme valore che, per la vita dell’uomo, hanno i fattori economici.

È questione di attrarre questi beni nell’orbita dello spirito. Non è questione d’instaurare il «monopolio», ma il «primato» dello spirituale.

La sociologia dei cristiano-sociali è diretta ad eliminare la ricchezza privata, come anche ad eliminare la miseria.

Non è nemica della ricchezza e del fasto in se stessi, e perciò li riserva alla comunità e agli usi e alle manifestazioni comunitarie; ai privati riserva una condizione di mediocrità economica, come la più adatta all’esercizio della virtù.

Ecco in qual senso la sociologia dei cristiano-sociali vuol essere educativa del distacco.

Intende, perciò, legare le cose all’individuo il meno possibile, perché l’uomo possa meglio emergere dalle cose, e meglio servire il suo trascendente destino.

Ed ecco perché questa sociologia cerca di rompere il legame più pericoloso che l’uomo è tentato di stringere con le cose: quel legame che vorrebbe quasi imprigionarlo alla radice di esse: ai mezzi e agli strumenti stessi della produzione.

Vuole sganciarlo dall’ossessione di questo tipo di possesso, e non gli dice: sei «padrone»; ma gli dice: sei «amministratore», procuratore e dispensatore di beni; oppure: non possiederai da solo, ma assieme ad altri, a molti altri, perché ti possa essere più facilmente presente che il tuo possesso è un servizio e che il tuo destino non vale tutto il mondo delle cose sensibili. La natura umana è così fatta che non conviene tentare l’individuo, collegarlo alle cose con una formula troppo stretta come quella rappresentata dal diritto di proprietà privata dei mezzi di produzione.

Il mio primo articolo sostitutivo è stato concepito con questa preoccupazione e dice: «Il diritto di proprietà dei mezzi di produzione è esclusivamente esercitato dalla comunità nazionale attraverso le sue strutture di democrazia decentrata e qualificata, e subordinatamente agli interessi della comunità internazionale. Lo Stato e gli altri enti pubblici rientrano in questo esercizio limitatamente alla loro funzione di difesa e di coordinamento del bene comune». In questo ordinamento della proprietà la maggiore attenzione deve essere posta perché esso non naufraghi (e sottolineo questa parola) nel collettivismo di Stato. A tale scopo il secondo comma del mio articolo limita l’intervento dello Stato e degli altri enti pubblici esplicitamente alla loro «funzione di difesa e di coordinamento del bene comune», che è la loro specifica funzione, la sola legittima in tutti i campi sociali. Dunque non si tratta, repetita iuvant, di sostituire all’attuale sistema capitalistico un sistema collettivistico in cui la proprietà dei mezzi di produzione e la gestione dei mezzi economici è affidata direttamente e integralmente allo Stato. Non si vuole sostituire una servitù – quella del capitale privato – ad un’altra servitù: quella del capitale di Stato. L’ordinamento personalista e comunitario dell’economia non potrà servire i fini umani che intende servire – la dignità e la libertà della persona – se non nel clima e nella struttura di un regime politico di democrazia decentrata, diretta, qualificata, integrata.

È in questo clima, ed è soltanto in questo clima, ed in tali strutture, che va inserito l’ordinamento economico tratteggiato nei miei articoli sostitutivi. Al di fuori di tali strutture, verso le quali pare che, del resto, vada la nostra Costituzione, questo ordinamento economico non potrebbe raggiungere il suo scopo. Esso viene dalla democrazia più autentica, ed è la democrazia più autentica e concreta, tanto diversa dalla forma demoliberale, accentratrice e parlamentaristica – ancien regime – da cui dobbiamo ancora liberarci. Il regolamento del diritto di proprietà, delineato nei miei articoli, è inteso a fare tutti dei proprietari nell’unico modo possibile: facendo tutti comproprietari, e cioè, solidali nella proprietà.

Capitale e lavoro nelle stesse mani: ecco un altro «slogan» molto corrente. Ebbene, ditemi se esiste un altro modo di realizzare tale principio, giusto in se stesso, al di fuori del regolamento comunitario. Per la reale e concreta salvaguardia della libertà e dignità dell’uomo – che è sociale per natura – la proprietà dei mezzi di produzione deve divenire comunitaria, e deve rimanere individuale la sola proprietà dei beni d’uso. Nel mio articolo sostitutivo non manca la consacrazione del concetto che, anche in materia economica, l’autorità della comunità nazionale non è assoluta, e che un dovere di coordinamento e di subordinazione la lega alla sorte delle altre comunità, nazionali e statuali. Il che è perfettamente conforme all’articolo 6, già votato, della nostra Costituzione.

Tutta la ricchezza della nazione italiana qualunque ne sia il proprietario, dev’essere intesa in essenziale funzione di uso per tutta la famiglia umana. È un principio che non deve mancare nella nostra Carta.

Somma attenzione dev’essere posta al «diritto di gestione» ch’è intimamente legato, benché distinto, al diritto di proprietà dei mezzi di produzione.

Il diritto di gestione di una determinata azienda spetta, innanzi tutto, ai lavoratori di quell’azienda. Ma anche qui deve intervenire il principio comunitario. A seconda dei settori economici sono chiamati a concorrervi le diverse rappresentanze ed organismi politici, economici, sindacali, tenuto conto della loro specifica competenza.

Determinare ciò dovrà essere frutto di amorosa elaborazione da parte del futuro legislatore. Si tratta di costruire tutto un nuovo edificio, dove non può agire esclusivamente il principio della democrazia formale e puramente numerica e quantitativa, ma bensì questo principio armonizzato con quello della democrazia concreta e qualificata, dove i valori morali e tecnici dei singoli possano avere il loro giusto riconoscimento, ed essere messi al servizio del bene comune.

L’articolo sostitutivo, relativo alle gestioni, suona così:

«I lavoratori di un determinato ciclo produttivo acquistano il diritto a gestire la loro azienda. A seconda dei settori economici, esso viene esercitato col concorso, più o meno diritto, dello Stato, delle regioni, dei municipi, dei sindacati, o di altri enti più direttamente interessati.

Nell’ambito del bene comune, le piccole gestioni di tipo individuale e familiare, potranno avere carattere vitalizio con diritto di successione».

In un ordinamento economico ciò che non deve assolutamente mancare è l’assicurazione che tutti i cittadini, che in un modo qualsiasi si rendano utili alla società, possano usufruire dei beni materiali. In altre parole, noi non possiamo alienare nessuno dalla «proprietà d’uso». Solo questo tipo di proprietà privata è veramente sacro ed inalienabile, perché soltanto esso è legato strettamente alla libertà e dignità dell’uomo, e al suo diritto alla vita.

Alla salvaguardia di questo diritto provvede il terzo ed ultimo articolo sostitutivo, da me proposto, che dice:

«La proprietà dei beni d’uso è assicurata dalla Repubblica a tutti i lavoratori, proporzionatamente alla quantità e qualità del lavoro di ciascuno, e con riguardo delle persone a carico».

Prima di chiudere, mi sia permesso, onorevoli colleghi, fare alcune precisazioni. Da quanto ho detto, sia chiaro che i cristiano-sociali non sono interclassisti; il loro ordinamento economico non importa una forma qualsiasi di associazione tra capitalisti e lavoratori. Non è una forma di collaborazione di classe che essi propugnano. Nel loro ordinamento i soli soggetti di economia sono i lavoratori. È una società di lavoratori che essi propugnano, dove non ci sia più posto per il «mio» e per il «tuo», se non nel campo dei beni d’uso; e dove ci sia soltanto il «nostro», nel campo dei mezzi della produzione.

La formula del capitalismo privato è producente di pochi proprietari e di molti proletari. La formula del socialismo di Stato non sposta quella capitalistica, in quanto, in concreto, anch’essa è producente di pochi proprietari, impersonati nel capo del partito unico, nella direzione del partito unico, e nei funzionari dello Stato, e l’immensa folla dei proletari, dei nullatenenti, e dei nullavalenti politicamente.

La formula dei cristiano-sociali (formula ad un tempo personalista e comunitaria) è la sola veramente rivoluzionaria dell’attuale regime capitalistico di economia classista, in quanto è la sola che è innovatrice di una situazione umana.

PRESIDENTE. Non essendo presenti gli onorevoli Crispo e Molè, decadono dall’iscrizione.

È iscritto a parlare l’onorevole Villani. Ne ha facoltà.

VILLANI. Non ritengo di dover fare un discorso. Mi limiterò ad una brevissima dichiarazione. Nessuno dei Titoli del progetto di Costituzione si presta come questo a lunghe dissertazioni interessanti, anche, ma in ogni caso tali da poter ritardare le conclusioni a cui noi vogliamo giungere. Ora, poiché non abbiamo affatto l’intenzione di fare opera ostruzionistica in questa discussione, intendiamo dare la più chiara dimostrazione che, quando l’altro giorno difendevamo i principî ai quali ci siamo richiamati come un diritto essenziale di questa Assemblea, non avevamo l’intenzione di sabotare la discussione.

Pur avendo diritto di parlare e avendo anche non poche considerazioni da aggiungere a quelle lucide e interessanti dell’amico onorevole Cairo, rinunzio a partecipare alla discussione generale, riservandomi di intervenire in sede di emendamenti.

PRESIDENTE. É iscritto a parlare l’onorevole Murgia. Ne ha facoltà.

MURGIA. Onorevoli colleghi, su questo titolo limiterò la mia discussione al problema dello sciopero; problema grave per la cui soluzione si esige il maggiore coraggio da parte dell’Assemblea. Il popolo italiano attende in questo momento che si dia una soluzione al problema; una soluzione che concilii le esigenze della giustizia con la necessaria autorità dello Stato. Io trovo il problema dello sciopero strettamente connesso al problema dello Stato e alla ragione stessa di essere dello Stato. Che cosa è infatti lo Stato? Quale è il suo fine? Lo Stato è un insieme di enti, di organi attraverso cui esplica la sua attività, attività che ha il fine di fornire la società di determinati servizi che vanno da quelli immediati, imprescindibili della vita fisica a quelli superiori della istruzione, della sicurezza e della giustizia. Ma cotesta attività, a sua volta, è esplicata da un determinato numero di persone, numero relativamente piccolo, in una nazione come la nostra, dove poche centinaia di migliaia di persone sono al servizio di 45 milioni di cittadini. È chiaro che ove la loro attività si arresti, si arresta la vita stessa dello Stato. Per un momento cioè lo Stato scompare e riappare la umanità in cui la società organizzata non esisteva appunto perché non esisteva lo Stato.

Lo Stato ha, perciò, due doveri fondamentali: uno verso la società alla quale in nessun momento, mai, deve fare mancare i servizi indispensabili alla sua vita; l’altro verso il personale preposto alla sua attività; dovere che si concreta nell’assicurare a tale personale un adeguato trattamento economico. Ma accade talvolta ai dipendenti dello Stato quel che più spesso accade ai dipendenti delle imprese private: sorgono controversie per le mutate condizioni di vita, si chiedono aumenti di stipendi o di salari. E se lo Stato o le imprese resistono, eccoci alla vertenza. Come risolverla? In un modo solo: con giustizia!

Ma è qui che il problema diventa drammatico perché esso si identifica in un conflitto fra la Giustizia e la Forza per il mezzo di risoluzione adoperato: lo sciopero.

Vediamo ora quale è il fine dello sciopero. Dovrebbe essere la rivendicazione di un diritto economico, un mezzo per ottenere giustizia. Ma se questo è il solo e vero fine – e non dovrebbe esservene un altro – noi diciamo: se fosse possibile trovare un altro mezzo diverso dallo sciopero che procurasse giustizia senza i danni dello sciopero, è logico che noi cotesto mezzo dovremmo preferire. Quali obiezioni infatti si potrebbero ragionevolmente muovere? Non c’è altra alternativa: o affermare che non si ha fiducia in nessun altro mezzo all’infuori dello sciopero, o confessare che i fini che si perseguono con esso sono anche di altra natura.

Ma poiché è ovvio che non si confesseranno mai cotesti altri fini, si affermerà che non si ha fiducia in alcun organo di giustizia della società. Senonché è troppo evidente la non serietà di cotesta affermazione. Sarebbe seria infatti solo se si pretendesse che il collegio dei giudici di tale organo, fosse costituito da datori di lavoro o comunque appartenenti a categorie interessate. Ma poiché questo non è, come si potrebbe sostenere con serietà che nel nostro Paese che, fra l’altro, è il più povero di capitalisti e di ricchi – in quanto ben pochi possono vivere senza lavorare o senza integrare col lavoro altri redditi naturali – non sarebbe possibile costituire un collegio di galantuomini, di uomini d’onore, capaci di rendere un equo giudizio? Non sarebbe questo un insulto, all’onore di tutto un popolo e ai suoi magistrati che hanno una tradizione di gloriosa probità? Se adunque cotesta possibilità c’è, la logica impone che la risoluzione delle vertenze sindacali debba essere sottratta all’arbitrio delle parti e non debba avvenire altrimenti che attraverso un organo di giustizia, da creare appositamente, vietando i mezzi di reciproca offesa e difesa così dannosi economicamente e così antigiuridici quali sono lo sciopero e la serrata, che devono essere cancellati dal progetto di Costituzione.

Eppure, nonostante quanto ho detto, per quanto sembri strano, oggi l’articolo 36, se non si creasse un organo di giustizia sindacale non potrebbe essere cancellato o quanto meno la sua cancellazione non sarebbe pienamente, per tutti i casi, giustificata. Oggi lo sciopero appare legittimo; ma perché? Per due ragioni: primo, perché non esiste una legge positiva che lo vieti, secondo, per una ragione più sostanziale e cioè perché non esiste nella nostra società un organo di giustizia statale per la risoluzione delle vertenze sindacali. Avviene perciò che i lavoratori si trovino, per questo aspetto, nelle condizioni in cui si trovavano gli individui per la risoluzione delle loro vertenze private quando non esisteva ancora lo Stato, quando non esistevano i tribunali, per cui erano costretti a farsi giustizia da sé. Si può dire che la ragione più forte che ha determinato la creazione dello Stato è stata senza dubbio la esigenza di far cessare la giustizia privata, causa di tanto danno e di tanto dolore alla prima umanità!

Ma oggi può lo Stato, di fronte a vertenze che investono interessi di centinaia di migliaia di lavoratori, incrociare le braccia e assistere impassibile a queste immense rivolte che sommuovono da cima a fondo la sua stessa vita? Io dico di no. Lo Stato che è stato costretto, per mantenere la pace, a istituire organi di giustizia per le vertenze individuali private e persino per le vertenze fra gli impiegati e la pubblica Amministrazione, a maggior ragione deve creare un organo di giustizia che sia alto sopra l’interesse delle parti per la risoluzione delle vertenze collettive.

La missione suprema dello Stato secondo Platone è la giustizia; la giustizia intesa come armonia la quale nei rapporti sociali consiste nel componimento dei contrasti che sorgono dal seno stesso della vita la quale nel suo divenire non è altro che perpetuo contrasto, perpetuo componimento di essi e perpetuo rinascente contrasto verso forme di vita sempre più alte. E questa è anche oggi la missione ideale e sarà sempre la missione eterna dello Stato. Ove da essa si devii, si devia dalla grande luminosa strada maestra; se si contende allo Stato il diritto che esso solo, sovranamente, ha di rendere giustizia e tale diritto, si arroghino i cittadini od altri enti che rappresentino organizzazioni collettive, si intacca il principio che impera su tutto il diritto: cioè che è vietato a tutti farsi ragione da sé. E lo sciopero, che cosa è? Forse un organo di giustizia! È un mezzo di farsi ragione da sé come lo è la serrata che ugualmente condanno. (Rumori).

Una voce a sinistra. Vada a parlare così nelle fabbriche.

MURGIA. Nelle fabbriche andate voi a parlare per mettere concordia!

Una voce a sinistra. Demagoghi in piazza e qui reazionari.

MURGIA. Lei non ha nemmeno il senso della dignità di quest’aula… (Rumori). I demagoghi siete voi e da comizio rionale per giunta. (Rumori).

PRESIDENTE. Onorevole Murgia, non esprima giudizi sui suoi colleghi.

MURGIA. È l’interruttore che deve avere il massimo rispetto per l’oratore che parla.

PRESIDENTE. Hanno interrotto, ma non hanno adoperato fino a questo momento espressioni offensive. Si sono limitati…

Una voce a destra. Si sono limitati a chiamarlo reazionario. Cosa volete di più?

PRESIDENTE. Si sono limitati a far presente al collega che parla che egli non conosceva l’ambiente di fabbrica. Questa è l’osservazione che io ho udito, e che tutti hanno udito.

MICHELI. Non è stato così, signor Presidente. Io ero vicino, e posso affermare che è stata un’altra l’intonazione che ha dato il collega che ha interrotto.

PRESIDENTE. La risposta è stata esagerata. Il richiamarsi alla mancanza di dignità di tutto un settore di questa Assemblea mi pare sia stata una ritorsione esagerata.

MICHELI. Effettivamente aveva detto dell’altro.

PRESIDENTE. Onorevole Murgia, riprenda il suo discorso.

MURGIA. Dopo quanto ho detto, quale deve essere dunque la decisione della nostra Assemblea sull’articolo 36? In esso il diritto di sciopero è affermato in tutta la sua assolutezza; comprende cioè non solo il diritto di sciopero dei lavoratori delle imprese private, ma anche quello dei pubblici impiegati, dei servizi pubblici, di pubblica utilità e persino lo sciopero generale politico. Fermiamo un momento la nostra attenzione sulla portata di tale articolo.

Cominciamo dallo sciopero degli statali. Ammettere che è lecito il diritto di sciopero da parte degli statali e addetti ai servizi pubblici significa ammettere che è lecito da parte di mezzo milione di persone privare una Nazione di 45 milioni di cittadini dei beni indispensabili alla sua vita a cominciare dall’acqua che beviamo – pensate a uno sciopero dei fontanieri – della luce – pensate a uno sciopero degli elettricisti – della difesa e incolumità individuale dei cittadini e della tutela, dei loro diritti – pensate a uno sciopero degli agenti della forza pubblica e dei funzionari della giustizia e tanti altri addetti – a indispensabili servizi – sarebbe insomma il caos e la fine dello Stato. (Interruzioni a sinistra – Commenti).

Quindi non so se vi possa essere una persona che sostenga con serietà che da parte del personale dello Stato e di altri servizi pubblici si possa, per un momento solo, pensare a una follia criminale di quel genere (Rumori vivissimi a sinistra) come si possa privare la collettività di servizi che debbono esserle costantemente assicurati: diversamente è la fine dello Stato.

Assurdo quindi e come tale inammissibile lo sciopero degli statali.

E lo sciopero politico? È ovvio, esso è ancora più assurdo, più dannoso, senza ombra di giustificazione per difesa di diritti di classe, più dannoso perché comprende non solo gli statali, ma tutti indistintamente i lavoratori statali e non statali. Non ho fatto una affermazione gratuita interpretando così l’articolo 36 come comprensivo anche dello sciopero politico. Non prevedevo che avrei dovuto parlare questa sera perché il mio nome era il 22° della lista degli inscritti a parlare e non ho qua, perciò, né appunti né la relazione dell’onorevole Di Vittorio circa lo sciopero, relazione dove si afferma la legittimità dello sciopero politico. Qui è dunque non solo svelato, ma affermato nel modo più crudo il motivo di quel dubbio che esprimevo all’inizio della mia discussione e cioè che lo sciopero non viene usato come solo mezzo per risolvere e difendere interessi di categoria, ma come mezzo di forza per risolvere con la forza vertenze anche di altra natura. (Rumori vivissimi).

Quindi se questo sciopero dovesse essere dichiarato legittimo ciò significherebbe che è legittimo da parte anche dei più indispensabili dipendenti statali non solo interrompere la funzione dello Stato, ma privare lo Stato dei mezzi più diretti della sua difesa. Immaginate uno sciopero degli agenti della forza pubblica – che pure sono compresi fra gli statali – ed immaginate che vengano attaccati i poteri dello Stato. Chi li difenderà? Quei mezzi non verrebbero adoperati a difesa dello Stato ma per abbattere lo Stato (Rumori vivissimi – Interruzioni all’estrema sinistra).

PRESIDENTE. Onorevole Murgia, prosegua il suo discorso. Il suo compito non è di rispondere ad ogni interruzione. L’interruzione può recare disturbo, ma non costituisce un impegno a rispondere. A quanto pare, l’onorevole Murgia ritiene che ogni obiezione debba ricevere la sua risposta, tanto è vero che quando non riesce a cogliere il significato delle interruzioni, si ferma e chiede che gli si ripeta. Mi pare che questo sia un modo di svolgimento dei suoi concetti che non ne facilita la comprensione, ed è per questo che le consiglierei, onorevole Murgia, quando non riesce a cogliere le interruzioni, di proseguire nel suo discorso. È implicito che le interruzioni in genere devono essere evitate. Ma a questo proposito mi pare che nessun settore dell’Assemblea abbia il diritto di fare rimproveri speciali ad altri.

MURGIA. Continuando, io vorrei, se il tempo me lo consentisse, fermarmi ancora su questo importantissimo punto per dimostrare che anche lo Stato ultramoderno – quale è definito lo Stato sovietico – condannava, e condanna lo sciopero; sciopero che fino al 1927 era punito con la morte! (Vivissime interruzioni a sinistra). E se voi, dell’estrema sinistra, doveste conquistare il potere, voi per primi abolireste il cosidetto diritto di sciopero! (Interruzioni a sinistra – Approvazioni a destra).

Sì, onorevoli colleghi, non credo, perché mi sembra troppo ovvio, di dover illustrare ulteriormente questi concetti. Le forze che sono preposte all’ordine della società devono essere costantemente poste sotto la diretta ed esclusiva autorità dello Stato, del Capo dello Stato, del Capo del Governo e di tutte le altre autorità e non già della Confederazione generale del lavoro. Diversamente è la fine inevitabile dell’ordine e il caos in un Nazione civile. (Interruzioni a sinistra).

Detto questo che cosa dunque sostituire allo sciopero e alla serrata? Per tutte le vertenze come ho detto prima, la soluzione logica, razionale, dovrebbe essere la creazione d’un organo di giustizia statale. È questo, allo stato attuale, possibile, per tutti i lavoratori? Per ragioni contingenti, in questo momento, per tutti, no. Ma deve essere istituito per tutti gli statali e per gli addetti ai servizi pubblici. In ogni caso, in via subordinata, deve essere istituito quanto meno un arbitrato obbligatorio le cui decisioni siano vincolatrici per le parti. Ad esso devono essere sottoposte – essendo vietato lo sciopero – le loro vertenze. Ma quali devono essere accolte? Tutte le richieste o solo quelle giuste? È ovvio, solo quelle giuste. E il giudice? Il giudice non può essere né la parte interessata, né i datori di lavoro, né i lavoratori, né i loro rappresentanti, che sono costituiti dagli organi sindacali. La giustizia, da quando esiste il mondo, è concepita come qualche cosa che trascende gli interessi e i contrasti delle parti e li compone ed è augusta e rispettabile perché pura di interessi e di frodi.

Per questo noi postuliamo, in questo momento in cui lo Stato è sbattuto dai flutti di continui scioperi che rendono impossibile la vita e ci procurano il disprezzo o per lo meno la diffidenza dello straniero (Interruzioni vivissime a sinistra), che ci nega i mezzi per la nostra indispensabile ripresa (Interruzioni a sinistra), la creazione di una Costituzione sulle cui basi lo Stato sia stabile e saldo. Diversamente la Costituzione non sarà longeva, sarà una Costituzione che avrà i giorni contati, i giorni che saranno decretati dalla Confederazione generale del lavoro la quale potrà stabilire a suo senno la data in cui questo Stato deve essere spazzato. (Vivi applausi a destra e al centro – Interruzioni e commenti a sinistra).

GIANNINI. Non si può nemmeno applaudire? Imparate qualche cosa! (Accenna a sinistra).

MURGIA. Fermo restando quanto ho detto circa lo sciopero degli statali e il modo di risolvere legalmente le loro vertenze, vediamo quale atteggiamento debba tenere lo Stato nei confronti dei lavoratori non addetti ai servizi pubblici. È ammessa l’astensione pura e semplice dal lavoro? Io dico che questo è il diritto primo ed eterno dell’uomo che lo porta dalla nascita, è coevo della sua esistenza; ma nello sciopero noi distinguiamo due momenti; uno iniziale, pacifico che dura finché durano i mezzi economici per sostenere cotesta astensione, mezzi modesti, necessariamente modesti per un lavoratore esauriti i quali si ha l’alternativa inesorabile: o arrendersi e riprendere il lavoro, o l’insurrezione violenta. Triste alternativa perché qualche volta ciò significa arrendersi alla ingiustizia, ma, non essendovi un organo di giustizia, non c’è via di scampo. E allora dicevo, quale deve essere l’atteggiamento, dello Stato? Deve reprimere la violenza o lasciare che essa faccia le sue vittime? Quale è il compito essenziale, naturale dello Stato? È il mantenimento della pace sociale; diversamente esso perde il diritto e la ragione di essere. Ma come, con che mezzi interverrà lo Stato?

Finché si tratta di una infrazione ad una legge civile o penale da parte dell’individuo singolo o di un piccolo gruppo di individui, esso ha la forza di dominare e signoreggiare la situazione; ma di fronte a uno sciopero gigantesco che mobiliti centinaia di migliaia o milioni di lavoratori, lo Stato, di fronte alla violenza ha indubbiamente il diritto, anzi il dovere di reprimerla, ma ha la forza per farlo? Questo è il punto. La forza, signori, lo Stato non l’ha. Quindi come vi sono nella scienza del diritto penale quelli che si chiamano i reati di pericolo, qui vi è una ipotesi anche più grave; lo Stato deve essere lungimirante e, su questa materia non occorre esserlo troppo per ipotizzare una situazione del genere. Lo Stato, in previsione di questo fatto, deve premunirsi dalla violenza e renderne il verificarsi impossibile. Se manca a cotesto dovere, manca al principale dovere verso la società che lo ha espresso e che da essa è concettualmente distinto. Lo Stato deve fare giustizia per i lavoratori? Sì – questa è una esigenza suprema ed inderogabile perché risponde al bisogno più profondo dello spirito umano – ma per sodisfarla deve creare un organo di giustizia, è indispensabile ed inevitabile che questo crei: chiamatelo arbitrato o tribunale del lavoro…

Una voce a sinistra. Tribunale speciale. (Rumori).

MURGIA. Quella è una specialità vostra. (Rumori vivissimi).

GIANNINI. Tribunale del lavoro, non tribunale speciale.

MURGIA. È difficile continuare con questi rumori. Noi qui discutiamo dello sciopero da un punto di vista razionale, non politico per quanto con la politica esso sia strettamente connesso.

È necessario, affinché la Costituzione possa avere una base salda, che sia rimossa questa mina formidabile che è insediata nella Costituzione come il suo nemico e che è costituita dallo sciopero che potrebbe far saltare lo Stato.

Onorevoli colleghi, avviandomi alla conclusione, non è possibile immaginare né al presente, né nel futuro una convivenza pacifica ed ordinata, se non rimuoviamo questo ostacolo fondamentale. Unitamente al collega ed amico onorevole Belotti, abbiamo formulato un emendamento che, se contiene il divieto assoluto di sciopero degli statali, addetti ai servizi pubblici e sciopero generale politico imponendo la risoluzione delle vertenza con arbitrato obbligatorio, per gli altri lavoratori subordina lo sciopero alla sua approvazione a maggioranza di due terzi da parte dei votanti e con sistema di votazione libera e segreta (Rumori a sinistra); esigenza questa che è legittimata dal fatto che non solo in questo modo s’interpreta genuinamente la volontà dei lavoratori inscritti al sindacato, ma anche dal fatto che gli inscritti rappresentano sì e no il quarto dei lavoratori d’Italia.

Quindi, poiché lo sciopero ha forza praticamente vincolatrice ed obbligatoria anche nei confronti degli altri tre quarti degli inscritti, è necessario che da parte dei votanti vi sia una maggioranza dell’ampiezza predetta. Così, in questo modo, non si viene a disconoscere con l’emendamento il principio dello sciopero, che in linea di massima io non ammetto – parlo a nome mio personale e non del gruppo cui appartengo – nemmeno per i lavoratori delle aziende private, ma al quale accedo come ripiego; sì, solo come ripiego perché uno sciopero deciso anche a maggioranza dei due terzi dimostra solo che è voluto da tale maggioranza, ma non dimostra con ciò necessariamente che sia giusto. La giustizia è un’altra cosa. Ragioni di prudenza, però, in questo momento di esasperazione resa più acuta dal moltiplicarsi delle difficoltà, consigliano che non si arrivi a un divieto assoluto di sciopero per tutti, perché ciò potrebbe destare una troppo ampia rivolta e anche perché, oltre che per le predette ragioni, non si vuole, da parte di certi settori, andare contro le aspirazioni buone o non buone di una classe che deve dare il voto domani.

Quindi limitatamente a questa categoria di lavoratori è opportuno onorevoli colleghi che voi accogliate la proposta contenuta nell’emendamento che, mentre non intacca il principio dello sciopero porta un contributo alla necessaria armonia e concordia sociale, indispensabile per la nostra rinascita, ed evita quei potenti contrasti che potrebbero mettere in forse la vita dello Stato. (Vivi applausi al centro e a destra).

Presentazione di un disegno di legge.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Ho l’onore di presentare il disegno di legge concernente norme per l’istituzione dell’Opera di valorizzazione della Sila.

PRESIDENTE. Do atto all’onorevole Ministro dell’agricoltura e delle foreste della presentazione di questo disegno di legge. Sarà trasmesso alla Commissione competente.

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione sul progetto di Costituzione. Non essendo presente l’onorevole Castelli Edgardo, decade dall’iscrizione.

È iscritto a parlare l’onorevole Tega. Ne ha facoltà.

TEGA. Onorevoli colleghi, consentite ad un vecchio organizzatore di lavoratori agricoli di esprimere il suo parere sull’articolo 35 di questa Costituzione nel Titolo che più particolarmente riguarda i diritti e la partecipazione della classe operaia alla gestione della società. In merito agli altri articoli dello stesso Titolo nulla avrei da eccepire, anzi sono particolarmente grato all’illustre Presidente e all’intera Commissione dei Settantacinque per i principî che hanno affermati e consacrati nel loro Progetto e per le parole veramente degne con cui nella relazione hanno rafforzato questi principî. Quando si dice che «non si protegge» il lavoro che è forza essenziale della società, per me socialista questa dichiarazione ha un valore fondamentale, in quanto fa giustizia di tutte le forme viete di paternalismo che, con il confidare alla saggezza o al capriccio o alla contingente opportunità politica di regime la facoltà di erogare concessioni e provvidenze ai lavoratori, tendevano e tendono a creare strani e artificiosi vincoli tra la massa operaia ed il potere esecutivo ed in definitiva a consolidare quella condizione d’inferiorità e quella convinzione di debolezza e di soggezione che è contro la realtà vera dei rapporti sociali e contribuisce purtroppo ad ostacolare l’educazione della classe lavoratrice. Così pure è bello che nella relazione alla Costituente si sia riaffermato il principio di San Paolo: «chi non lavora non mangia» il quale sancisce un elementare dovere per tutti i cittadini e pone il lavoro come base fondamentale della nuova organizzazione sociale, elimina ogni distinzione tra i lavoratori del braccio e quelli del pensiero e sancisce nel modo più concreto l’eguaglianza piena e senza riserve della donna che, come l’uomo, partecipa al grande travaglio del progresso umano.

Non ci si venga a dire che, dato lo stato di sviluppo ormai raggiunto dalla nostra civiltà, e soprattutto date le alte benemerenze conquistate dalla classe operaia nella lotta disperata per l’indipendenza della Patria, questi diritti, fra i quali il più importante è il diritto dello sciopero, cioè la legittima difesa del lavoro, siano così acquisiti alla coscienza universale che basterebbe al riguardo la loro indicazione nel preambolo, piuttosto che immetterli come parte integrante nel testo della Costituzione del nostro Paese.

No, o signori; a parte il fatto che i diritti sociali sono proprio quelli che costituiscono l’elemento peculiare e direi la nota caratteristica della nostra Repubblica, essi troppe volte e per troppo tempo sono stati indegnamente violati e calpestati dal potere esecutivo e da un regime che ha voluto perfino cancellarne il ricordo.

E d’altra parte anche prima dell’insurrezione capitalistica che aveva tentato di distruggere e in realtà aveva distrutto, negli istituti, se non nella coscienza della Nazione, questi diritti sociali, anche nel periodo pre-fascista ogni qualvolta la classe dominante credeva possibile di attentare alla libera esistenza delle organizzazioni operaie, lo ha fatto senza scrupoli e senza preoccuparsi neppure della reazione inevitabile che la violazione di un diritto provoca con irresistibile immediatezza.

Il diritto di organizzazione e quello di sciopero, superato il periodo della incomprensione e della contestazione furibonda da parte di tutti i ceti, fin dal 1904 si erano conquistati ormai la cittadinanza nella vita politica e sociale del nostro Paese. E pure nel 1916, in piena guerra, quando cioè i lavoratori compivano il massimo sforzo e il più grande sacrificio per difendere il territorio nazionale minacciato e per assicurare la vita economica della Nazione, il Governo, che allora era più che mai l’espressione della classe dominante e ne interpretava pedissequamente i propositi reazionari, volle approfittare del momento in cui la forza prevaleva sul diritto, per ordinare che fosse negato il sussidio alle famiglie dei richiamati alle armi, i cui membri risultassero iscritti alle organizzazioni operaie.

Non è solo un mio ricordo personale, ma qui in quest’aula sono tuttora molti vecchi ed autorevoli parlamentari che ricorderanno al pari di me la tempestosa discussione che ne seguì, e nella quale l’appassionata protesta dell’onorevole Modigliani ebbe ragione sulle reticenti e cavillose giustificazioni del Governo.

Non è dunque ozioso e inutile l’inserimento di questi articoli nel testo della Costituzione della Repubblica italiana, non solo perché una eventuale offensiva contro il movimento operaio sia considerata un delitto contro la maestà della legge fondamentale dello Stato, ma anche e soprattutto perché questi diritti, una volta codificati, rendono più pensosi e consapevoli – e lo dovrebbe considerare l’oratore che mi ha preceduto – coloro i quali, dal loro riconoscimento ed esercizio traggono la ragione prima della loro permanente attività e responsabilità nella vita della Nazione e nell’accordo che devono recare al consolidamento e sviluppo della collettività sociale. E voi avete pronunciato delle parole violente, avete espresso dei dubbi catastrofici, addirittura apocalittici. Signori, voi avete visto invece, e varie volte avete potuto constatare in questo travagliatissimo periodo di emergenza, quante volte la Confederazione generale italiana del lavoro, appunto perché ha ormai la piena consapevolezza di essere parte integrante della Nazione, ha saputo e potuto trattenere e imbrigliare manifestazioni che, pur essendo giustificate dalla situazione veramente critica e intollerabile di varie categorie di lavoratori, costituivano tuttavia un pericolo al processo di faticosa ricostruzione della vita politica ed economica del nostro Paese. (Interruzioni a destra).

Però, mentre sono non solamente solidale, ma addirittura riconoscente ai legislatori di questa nostra Costituzione per tutto il complesso delle rivendicazioni sociali che hanno voluto consacrare in questo terzo Titolo, non posso accettare, nell’attuale dizione, l’articolo 35 che a mio modo di vedere è contraddittorio e oscuro per non dire ambiguo e può fornire alla futura Assemblea legislativa argomento e pretesto per eventuali amplificazioni che rendono completamente nulla la sua affermazione di principio o compromettono la stessa funzione morale e sociale del sindacato operaio. L’articolo 35 infatti comincia con la solenne dichiarazione che «L’organizzazione sindacale è libera», ma nel secondo capoverso corregge questa affermazione aggiungendo che «non può essere imposto al sindacato altro obbligo che la registrazione presso uffici locali e centrali, secondo le norme di legge» e continua con altre specificazioni di personalità giuridica dei sindacati e dei contratti collettivi con efficacia obbligatoria, ecc., il che in sostanza, seppure in forma confusa e reticente, viene a consentire un intervento permanente dello Stato, suscettibile di pericolosi sviluppi per la stessa libertà così recisamente proclamata nel primo capoverso. Ora, in questa delicatissima materia, bisogna essere chiari e precisi. Che cosa significa quell’obbligo di registrazione dei sindacati presso gli uffici governativi? Possiamo noi, per la stessa serietà dello Stato, credere effettivamente che, nel campo sindacale, la sua opera si riduca al semplice meccanismo della registrazione? A quale guazzabuglio prelude quella personalità giuridica che può essere reclamata contemporaneamente dai sindacati operai e dagli organismi padronali e quali rapporti si verrebbero a stabilire tra gli enti giuridici dei lavoratori statali e lo Stato stesso, che da un lato è l’espressione di tutti gli interessi della collettività e dall’altro è un datore di lavoro?

Perché si ha tanta premura di dare un riconoscimento governativo alle istituzioni operaie che sono – e non possono essere altro – che associazioni di fatto? Io temo che dietro queste caute, prudenti formule, che in sostanza non dicono nulla, ma fanno prevedere qualche cosa di non perfettamente democratico, si nasconda il proposito di lasciare alla futura Assemblea legislativa uno spiraglio aperto per introdurre tutto il pericoloso bagaglio del corporativismo, di cui in taluni ceti è troppo vivo il ricordo e cocente la nostalgia.

Ora, è bene parlarci chiaro su questo argomento. Io penso che talune correnti della pubblica opinione – e lo ha dimostrato l’oratore che mi ha preceduto – non conoscono neppure i sindacati operai, se non per quello che ne ha sempre detto una stampa interessata, la quale aveva ed ha bisogno di mantenere nella pubblica opinione nei loro riguardi quel concetto di elementi perturbatori a distruttori, che si tramanda dal tempo in cui eravamo scomunicati e maledetti.

UBERTI. Che cosa c’entra? Scomunicati?

TEGA. È vero, amico Uberti, scomunicati a suon di campane.

Manca purtroppo in Italia una letteratura sociale veramente italiana che, magari a puro titolo informativo, divulghi le origini, gli sforzi, i sacrifici delle organizzazioni operaie, non già per assicurare solo un po’ di pane e di libertà ai lavoratori, ma per inserirli sempre più profondamente nel vasto e complicato processo della produzione nazionale.

Si parla ad esempio degli uffici di collocamento come di tanti magazzini di merce-lavoro a cui i proprietari accedono per richiedere la mano d’opera sufficiente ai bisogni della loro azienda e nulla più. Ma se questa è la funzione puramente meccanica degli uffici del lavoro governativi, permettetemi, signori, di dichiararvi in piena e sicura coscienza che gli uffici di collocamento di classe sono tutt’altra cosa. Innanzi tutto, e questo che sto per dirvi rende praticamente pleonastico ed inutile il capoverso dell’articolo 35 che si riferisce all’efficacia obbligatoria dei contratti collettivi, innanzi tutto il Comitato comunale delle organizzazioni operaie, cui fanno capo tutte le leghe di mestiere del comune, assume nella loro totalità i lavori di ogni azienda agricola, impegnandosi a compierli nel termine prescritto ed a perfetta regola d’arte. Ne consegue che, mentre dal Comitato comunale per assolvere degnamente a tale impegno, scaturisce un complesso di cooperative di lavoro in cui il mondo operaio è tenuto a produrre di più e meglio dell’iniziativa privata, dal canto suo l’ufficio di collocamento di classe è obbligato a disimpegnare un duplice compito tecnico e morale: il primo è quello di provvedere sempre più meticolosamente alla specializzazione delle maestranze, soprattutto per promuovere la trasformazione della conduzione dei fondi da coltura estensiva a coltura intensiva.

Il secondo compito dell’ufficio di collocamento, che ha un valore insuperabile di solidarietà umana e di tranquillità sociale, è quello di adeguare le giornate lavorative alla esigenza di ciascuna famiglia, in modo che a fine di anno queste abbiano guadagnato in proporzione dei loro bisogni. Ciò che induce i giovani operai ad affinare la loro intelligenza e a perfezionare la loro capacità per agevolare il proprio collocamento e vi dirò che tale funzione classista ha dato sempre così promettenti risultati, che molti proprietari, superate le prime giustificabili ritrosie, (per non poter più essi stessi scegliere i loro operai) hanno superato l’orgoglio di essere i soli dirigenti delle proprie aziende e non solo hanno volentieri stipulato i contratti globali di lavoro col Comitato comunale delle organizzazioni operaie, ma hanno desistito dall’adoperare macchine proprie in quanto non guadagnavano in tempestività, tempo e perfezione di lavoro, ed hanno affidato alle cooperative operaie anche la prima lavorazione dei loro prodotti. Quest’opera completa di educazione sociale e di alto senso di responsabilità, ha dato i suoi frutti. Voi, che applaudite a piene mani ogni volta che si lancia uno strale contro le organizzazioni operaie, non conoscete o fingete di non conoscere, tanto nel campo nazionale, quanto in quello assai più vasto della solidarietà umana, che, quando nel 1916 l’agraria reclamò dal Governo una maggiorazione del prezzo di imperio del riso, furono proprio i Comitati comunali delle organizzazioni operaie che, con la documentazione dei conti colturali, dimostrarono allo Stato che il prezzo allora praticato era più che sufficiente per garantire onesti profitti alla proprietà privata. Nel tempo stesso le organizzazioni operaie costituivano i loro asili infantili per la raccolta e l’educazione dei figli del popolo e, per tutto il periodo della guerra 1915-18, aprirono questi asili a tutti i figli dei richiamati, senza distinzione di parte, e più tardi ivi raccolsero come pegno di rinnovata fraternità dei popoli, i bimbi di Vienna, riaffermando nella realtà il principio della classe operaia di tutti i paesi, di una pacifica e solidale intesa internazionale. Ci si dice che la registrazione dei sindacati e dei loro organismi cooperativi è per essi stessi anche una garanzia di sicurezza, in quanto li pone sotto l’egida della legge comune e dell’autorità dello Stato. Noi lo neghiamo e con noi lo nega la realtà storica di recentissimi avvenimenti.

Quando si disfrenò in tutta la sua vandalica violenza la reazione agraria, esisteva nella regione emiliana tutta una fitta rete di cooperative, la maggior parte riconosciute e registrate, le altre fiorenti ugualmente, quantunque fossero rimaste cooperative di fatto. Orbene, tutti questi enti senza alcuna discriminazione e così pure le case del popolo, le associazioni di mutuo soccorso, e le altre similari, furono ugualmente saccheggiate, dilapidate e distrutte. A nulla servì dunque la loro personalità giuridica, a nulla la loro registrazione negli albi governativi.

La realtà è, o signori, che l’epicentro della lotta tra l’umanità lavoratrice e la classe capitalistica si era spostata, dal campo della resistenza, a quello della produzione. Noi dimostravamo nel fatto, attraverso le nostre istituzioni intimamente collegate tra di loro e sorrette da un unico spirito e da una sola finalità, che la grande proprietà agricola non soltanto era ormai ingombrante e inutile, ma costituiva, come costituisce, un ostacolo all’incremento e al disciplinamento della produzione, alla trasformazione dell’industria agricola del nostro Paese. Di fronte alla concorrenza vittoriosa dei nostri organismi collettivi contro la speculazione privata, concorrenza che invadeva tutti i campi, da quello della quantità e qualità dei prodotti, attraverso l’opera infaticabile e bonificatrice delle nostre cooperative agricole, a quello del lavoro e del consumo, l’agraria sentì la frenetica necessità di violare la legge, ogni legge civile ed umana e sfrenò il terrore fascista nelle nostre campagne. Non dunque lo spauracchio di violente espropriazioni, non la preoccupazione di esperimenti bolscevichi, ma la considerazione meditata e fredda di stroncare la legittima e civile concorrenza del movimento operaio nelle sue realistiche manifestazioni, feconde per tutti, ma pericolose per il privilegio capitalistico, indusse i padroni della terra all’incendio, all’omicidio e al saccheggio. Ed è per questo che fu cercato a morte il sindaco di Bologna che, con l’istituzione dell’ente autonomo dei consumi, limitando le speculazioni dei bottegai, durante il primo conflitto mondiale, aveva salvaguardato il pane del popolo ed il salario del povero, è per questo che noi organizzatori socialisti, comunisti, repubblicani e democristiani, fummo caricati di randellate e cacciati in galera.

Ma non certo le nostre personali sofferenze, sebbene la distruzione di queste istituzioni di civiltà del nostro proletariato, ci hanno aperto un solco nell’anima, e, con l’esperienza di un recente passato, ci hanno insegnato ad essere non solo diffidenti, ma a respingere tutto ciò che non è chiaro e che insinua pericolose e tutt’altro che protettive intrusioni. Voi non avete veduto l’orda degli agrari, scortata e fiancheggiata dalla cavalleria e dalla polizia, abbattersi contro le nostre modeste sedi, infrangere le bussole e le vetrine, ed uscirne stringendosi al petto come trofeo di vittoria le nostre pentole di terracotta, il pezzo di lardo o di formaggio, i poveri commestibili della gente del lavoro. Voi non avete veduto trascinato a torme a colpi di randello e tra canti osceni, il nostro bestiame, che era il vanto di tutta la provincia e che fu venduto all’incanto in un simulacro di pubblica asta, come preda di guerra strappata al nemico. Voi non avete veduto il nostro bel macchinario agricolo che abbandonando i nostri villaggi con l’urlo rauco sembrava salutare per l’ultima volta gli operai, i quali, assediati nelle loro case, piangevano il loro patrimonio distrutto. (Approvazioni). Voi non avete assistito all’incendio dei nostri spacci e dei nostri uffici, al rogo della povera mobilia dell’apostolo e maestro del cooperativismo emiliano, Massarenti Giuseppe (Applausi) cui il fascismo riservava la più atroce e terribile delle morti, quella morale e civile con una condanna di pazzia che ancora offende la nostra umanità e la nostra civiltà.

So bene che oggi si tentano postume spiegazioni, con inqualificabili pretesti, so bene che tale scempio del patrimonio collettivo di un popolo, sebbene ammesso dal Governo, non ha ancora la giusta e doverosa riparazione con la restituzione almeno del maltolto, tante volte promessa, ma certamente ostacolata dall’agraria. So bene che si fanno circolare denunce quasi sempre anonime ed accuse tendenti per lo meno a soprassedere a quell’atto di giustizia riparatrice che i cooperatori italiani da troppo tempo attendono. Ma noi da questi banchi dichiariamo tranquillamente di essere sempre disposti a discutere con chiunque senza limiti di tempo o di spazio, tutta la situazione agricola emiliana, da quando gli agrari impegnavano con minacce il Governo a rispettare le loro «riserve di caccia e di pesca» mentre i lavoratori affrontavano la cavalleria per reclamare la bonificazione delle terre paludose, fino all’epoca presente, in cui, mentre in talune regioni dove si ostenta la defunta monarchia come simbolo della Patria e i raccolti si disperdono nei mille rigagnoli sotterranei della borsa nera e quasi mai raggiungono gli ammassi, nella regione emiliana, dove da tempo la Repubblica si identifica con la Nazione i granai del popolo hanno dato e danno i più lusinghieri risultati.

Signori, non vi fate sorprendere dagli avvenimenti ascoltando troppo le vociferazioni di chi è interessato a nascondervi la realtà. L’agraria è in disfacimento appunto perché si ostina a conservare la mentalità di una volta, propria di coloro che la dirigono, i quali hanno fatto la loro fortuna, da fattori e guardiani che erano, usurpando le terre degli antichi proprietari, con i mezzi più illeciti fino a provocare artificiose agitazioni operaie. La maggior parte degli agricoltori che ama la terra e vuole fermamente la trasformazione agricola e la collaborazione proficua con la classe lavoratrice, abbandona il vecchio organismo padronale ed affluisce nelle file dell’Upra, nuova associazione di rinnovamento agricolo, la quale vuol portare un po’ di luce, di progresso, e di moralità su tutto l’ambiente e soprattutto su certi organismi nazionali, come il Consorzio canapa, che è infeudato ad un esiguo gruppo di speculatori e di funzionari, cui sta a cuore il particolare profitto, non l’armonico vantaggio e la difesa dello Stato e delle categorie interessate.

Onorevoli colleghi, lasciate che le organizzazioni operaie crescano e si sviluppino in piena autonomia. Questa spontanea catena di solidarietà che vincola gli organismi di resistenza con quella della cooperazione di classe, può rappresentare la salvezza comune. La resistenza afferma e realizza i diritti del lavoro, la cooperazione li consolida e ne estende i vantaggi a tutta la collettività. Non abbiate timori e preoccupazioni che noi possiamo eventualmente abusare di questa nostra autonomia. Noi abbiamo sempre amato e difeso tutte le libertà. Due sole saranno sempre da noi combattute ad oltranza: la libertà di non lavorare la terra e l’altra di pugnalare alle spalle i compagni di lavoro. Siano dunque liberi i sindacati, senza obbligo di registrazione e senza interventi che ne spengano l’anima e l’impulso vivificatore. Ed allora senza paternalismi governativi che potrebbero tutt’al più giustificare una deplorevole inerzia ed una più che deplorevole aspettazione messianica, voi vedrete sorgere dal basso, dalle masse operaie, gli elementi fondamentali e costruttori della civiltà del lavoro e della società socialista. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato alla seduta pomeridiana di domani.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta d’urgenza:

«Ai Ministri dell’interno e della difesa, per conoscere se sono informati delle preoccupanti proporzioni prese dal fenomeno dell’abigeato in Capitanata e specialmente nel Gargano e quali provvedimenti urgenti intendono adottare perché trovino necessaria difesa gli allevamenti, già decimati dalla guerra, ed in via di eliminazione per evidente necessità di evitare perdite ingenti di bestiame e continuo pericolo per la vita dei lavoratori, preposti alla loro custodia nelle minacciate campagne.

«Miccolis, Rodi, Ajroldi, De Caro, Trulli».

«Al Ministro della marina mercantile, per conoscere come si intenda venire incontro alle giuste necessità dei marittimi disoccupati, spesso domiciliati in centri, marittimi di piccola entità, nei quali rappresentano un’altissima percentuale della popolazione valida con la creazione di tragiche situazioni locali (Torre del Greco, Camogli, Vico Equense, ecc., ecc.).

«Si domanda altresì l’istituzione di un turno nazionale di imbarco per la perequazione di particolari situazioni di privilegio per il Nord e di disagio per il Sud e la concessione di un sussidio continuativo e soddisfacente ai marittimi disoccupati, data la loro impossibilità di procacciarsi lavoro per il blocco dei licenziamenti, la condizione delle industrie e la loro unica attitudine ai lavori marittimi.

«Mazza».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere quali provvedimenti intenda di adottare per risolvere senza indugio il problema della disoccupazione in funzione della produzione.

«De Martino, Corsanego, Colitto, Dominedò, Mastino Gesumino, Romano, Bozzi, Cappi, Firrao, Notarianni».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, per avere delucidazioni sull’arresto del sindaco di Roccaforte del Greco (Reggio Calabria) avvenuto giorni or sono, in seguito ad ordine del tenente dei carabinieri di Mélito Porto Salvo, perché il predetto sindaco, nella sua qualità di ufficiale di pubblica sicurezza, impedì ad un carabiniere di malmenare un ragazzo sulla pubblica via del paese e perché si è rifiutato di firmare un verbale contenente false asserzioni.

«Per sapere se tale arresto, nella persona del capo di un comune, senza autorizzazione del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, a norma dell’articolo 51 in relazione all’articolo 22 della legge vigente comunale e provinciale testo unico 1934, non debba essere immediatamente revocato e seguito da un provvedimento disciplinare o giudiziario a carico dell’ufficiale dei carabinieri predetto, che valga a restaurare la dignità offesa di un sindaco, e perché valga ad imporre il rispetto della rappresentanza democratica popolare, anch’essa gravemente offesa.

«Musolino, Silipo, Priolo».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Ministro dell’interno, per sapere;

1°) se abbiano notizia dei gravi sistematici soprusi impunemente perpetrati da elementi faziosi a danno del settimanale indipendente di opposizione La Verità, del quale sono riusciti ad impedire con mezzi intimidatori la pubblicazione e la diffusione prima a Torino, successivamente a Cuneo, e ultimamente a Como, ove era stata trasferita la stampa del detto settimanale, dopo le sopraffazioni subite nelle regioni piemontesi;

2°) se siano a conoscenza che il questore di Como, cedendo a pressioni intimidatrici abbia all’ultimo momento disposto la distruzione dei piombi preparati per la stampa del detto settimanale, imponendo al suo direttore ed ai redattori di allontanarsi immediatamente da quella città sotto minaccia di arresto;

3°) quali provvedimenti abbiano assunto, od intendano assumere, al fine di assicurare la pubblicazione e la diffusione del summentovato settimanale.

«Vlllabruna, Badini Confalonieri».

Darò notizia di queste interrogazioni ai Ministri competenti chiedendo loro quando intendano rispondere.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se e come intenda una buona volta risolvere l’incresciosa situazione del comune di Mirabella Eclano, il cui Consiglio da più di otto mesi, con grave danno dell’amministrazione, venne arbitrariamente sospeso contro ogni norma di legalità e contro ogni principio di sana democrazia.

«Rubilli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere:

1°) perché mai tutti i treni di collegamento tra Roma, Milano e le Puglie, giunti a Bari divengono lentissimi e perdono la caratteristica di rapidi o direttissimi, quasi che le provincie della estrema Puglia non siano esse pure provincie italiane e il naturale capolinea non sia Lecce, come lo fu sempre per il passato;

2°) perché le carrozze con letti da Milano a Roma per le Puglie, non proseguano fino a Lecce, dai cui cittadini sono per la maggior parte normalmente occupate;

3°) perché le carrozze in genere non vengono sottoposte a più accurata manutenzione, pulizia, decoro, e siano ridotte in condizioni pietose, con grave danno per il capitale ferroviario del Paese e della decenza nazionale; cosa che non richiede alcuno sforzo speciale di ricostruzione, ma soltanto maggiore zelo da parte dell’Amministrazione delle ferrovie. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cicerone».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non ritenga, nella imminenza della sistemazione, mediante concorso per titoli, dei maestri provvisori idonei, di tener presente la situazione in cui verranno a trovarsi gli insegnanti titolari di quinta, idonei dell’ultimo concorso per la prima categoria, accordando ad essi l’assoluta precedenza nei trasferimenti nella grande sede o riservando una percentuale dei posti messi a trasferimento, come stabilito per altre categorie, assicurando in tal caso l’assorbimento totale della graduatoria nel tempo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mazza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quando sarà provveduto all’effettivo pagamento dell’importo, relativo alle borse di studio, assegnate dall’ex Ministero dell’assistenza post-bellica agli universitari reduci di Napoli, tenendo presente che il versamento venne promesso per il mese di gennaio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Mercurio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere quali siano stati i motivi che hanno determinato le inopportune disposizioni concernenti gli assegni familiari, di cui al decreto legislativo n. 479 del 18 settembre 1946, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 4 gennaio 1947, in base alle quali vengono esclusi dal benefìcio degli assegni quei lavoratori, i cui genitori abbiano per retribuzione proventi complessivi di lire 3500 mensili per due genitori e lire 2000 per un sol genitore.

«L’interrogante chiede di sapere se il Ministro ritenga che con simili proventi possano dei pensionati, le cui tragiche e disastrose condizioni sono ben note, fare a meno del concorso negli alimenti da parte dei figliuoli e se questi debbano concorrere al mantenimento dei genitori senza ricevere alcun corrispettivo, sia pure minimo, dalla Cassa unica per gli assegni familiari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Mercurio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se sia a conoscenza che in Ostuni (Brindisi) la ex casa Balilla è stata concessa in uso ad una quasi privata attività, mentre è priva di locali adeguati la scuola tecnica, che da gran tempo chiede una adatta sede. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ayroldi».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.5.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

Seguito della discussione del disegno di legge:

Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale (12).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.