Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI SABATO 21 DICEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

77.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI SABATO 21 DICEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Coordinamento degli articoli sul potere legislativo (Seguito della discussione)

Presidente – Mortati, Relatore – Rossi Paolo – Nobile – Bulloni – Tosato – Fabbri – Grieco – Mannironi – Einaudi – Fuschini – Uberti – Laconi.

La seduta comincia alle 16.

Seguito della discussione sul coordinamento degli articoli sul potere legislativo.

PRESIDENTE riapre la discussione sull’articolo 31 il cui esame è rimasto sospeso, e pone in discussione una formulazione che ne ha proposto l’onorevole Mortati in sostituzione di quella del progetto del Comitato:

«I progetti divengono leggi quando siano stati approvati dalle due Camere. Le leggi devono essere promulgate dal Capo dello Stato non oltre un mese dall’approvazione.

«Ove le Camere abbiano dichiarato l’urgenza della legge, questa dovrà venire promulgata nel termine fissato dalle medesime.

«Nei termini predetti il Capo dello Stato potrà, con messaggio motivato, richiedere che le Camere procedano ad una nuova deliberazione della legge già approvata.

«Ove le Camere confermino la precedente deliberazione, la legge dovrà essere promulgata ai sensi del 1° comma.

«La promulgazione viene sospesa ove entro i termini predetti si sia indetto un referendum popolare sulla legge ad iniziativa o del Capo dello Stato o della aliquota degli elettori di cui all’articolo …».

Avverte che al terzo comma è prevista una variante del seguente tenore:

«Le Camere dovranno procedere a nuova deliberazione della legge già approvata, ove il Capo dello Stato ne faccia richiesta con messaggio motivato entro i termini di cui al primo comma».

MORTATI, Relatore, non ha nulla in contrario, in linea di massima, al riconoscimento di un potere autonomo al Presidente della Repubblica, ma in questo caso è necessario preoccuparsi di assicurare ad esso una posizione di maggiore indipendenza dal Parlamento, perché, da un punto di vista politico, non basta attribuire un certo potere ad un organo, ma occorre anche metterlo in condizione di esercitarlo in modo efficiente.

Non vede però l’opportunità di riconoscere al Presidente della Repubblica il potere di intervenire quando sia respinto un progetto di iniziativa governativa, mentre ciò non gli è consentito nel caso in cui sia respinto un progetto di iniziativa parlamentare: il Presidente deve essere arbitro fra le parti e quindi la possibilità del suo intervento dovrebbe aversi sia in ordine al comportamento del Parlamento che in ordine a quello del Governo.

Per quanto poi riguarda il referendum, a parte la questione teorica se sia conciliabile o meno col regime parlamentare, desidera contrastare l’opinione di coloro che affermano la inopportunità di fare indire il referendum dal Capo dello Stato e la necessità che esso debba aver luogo solo per iniziativa popolare. Ritiene che ciò potrebbe giustificarsi quando ci fossero correnti di opinione pubblica sufficientemente delineate ed organizzate; non in un Paese come l’Italia, in cui i partiti raccolgono una assai scarsa parte della popolazione e dove è difficile comprendere con esattezza quale sia l’orientamento politico prevalente. Sarebbe utile, a suo parere, concedere tale iniziativa anche al Capo dello Stato per facilitare l’affermazione di una sicura coscienza popolare, la quale, se abbandonata a se stessa, potrebbe trovare uno sbocco meno deciso e rapido e mancare così allo scopo cui il referendum tende.

Manterrebbe quindi l’articolo così come lo ha proposto, salvo, se la Sottocommissione lo ritenesse opportuno, accentuare l’autonomia concessa al Capo dello Stato.

ROSSI PAOLO non ritiene opportuno stabilire che il referendum possa aver luogo per iniziativa del Capo dello Stato, perché, se realmente egli sarà l’interprete di un movimento importante dell’opinione pubblica, tale movimento avrà senza dubbio dietro di sé un partito di massa al quale sarà facile ottenere il numero di firme necessario per richiedere il referendum. Fa anche presente che in tal modo l’autorità del Presidente non resterebbe impegnata, qualora l’esito del referendum dovesse essere negativo.

NOBILE teme che l’iniziativa del referendum affidata esclusivamente al popolo possa in certi casi essere pericolosa, in quanto che sarebbe facile anche ad un piccolo partito di disporre del numero di firme necessario per chiedere il referendum e compiere così un’opera sistematica di sabotaggio.

BULLONI è contrario ad affidare al Capo dello Stato l’iniziativa del referendum, perché ritiene che ciò sia in contrasto col sistema adottato per la formazione della legge e costituisca una fonte di conflitti ai danni del buon funzionamento dell’istituto democratico.

TOSATO osserva che, se si ammette che il Capo dello Stato possa con un messaggio alle Camere chiedere di riesaminare un determinato progetto, sarà opportuno, per evitare che questo messaggio resti in completa balìa delle Camere stesse, riconoscere al Capo dello Stato la facoltà di indire sulla questione un referendum popolare.

PRESIDENTE pone ai voti il primo comma dell’articolo 31 nella seguente formulazione:

«I progetti divengono legge quando siano stati approvati dalle due Camere. Le leggi debbono essere promulgate dal Capo dello Stato non oltre un mese dall’approvazione».

(È approvato).

NOBILE, sul secondo comma dell’articolo, domanda se l’urgenza debba essere dichiarata da ambedue le Camere o da una sola.

MORTATI, Relatore, risponde che evidentemente l’urgenza di una legge deve essere dichiarata da ambedue le Camere.

PRESIDENTE pone ai voti il secondo comma, che per eliminare ogni dubbio d’interpretazione formulerebbe nel modo seguente:

«Ove per una legge sia stata fatta la dichiarazione d’urgenza, essa dovrà venire promulgata nel termine fissato».

(È approvato).

Ricorda che al terzo comma dell’articolo formulato dall’onorevole Mortati è stato proposto di aggiungere, dopo le parole: «nei termini predetti il Capo dello Stato», l’inciso: «su proposta del Capo del Governo»; e che da parte dell’onorevole Grieco si chiede la soppressione del 3°, 4° e 5° comma.

Pone ai voti la proposta di sopprimere il terzo comma.

(È approvata).

Rileva che, di conseguenza, resta soppresso anche il 4° comma dello stesso articolo.

Passando al 5° comma, pone anzitutto ai voti il principio che il referendum possa essere indetto ad iniziativa del Capo dello Stato.

(Non è approvato).

Mette quindi in votazione il principio che il referendum possa essere indetto ad iniziativa di un’aliquota degli elettori.

ROSSI PAOLO, a nome del suo gruppo, dichiara di astenersi dalla votazione, perché vorrebbe che il problema del referendum fosse esaminato nel suo complesso.

(È approvato).

PRESIDENTE comunica che, in conseguenza, il 5° comma dell’articolo 31 resta così formulato:

«La promulgazione viene sospesa ove, entro i termini predetti, si sia indetto un referendum popolare sulla legge, ad iniziativa di un’aliquota degli elettori di cui all’articolo».

Pone in discussione un articolo 37-bis proposto dall’onorevole Mortati:

«Il Capo dello Stato ha facoltà di richiedere che una proposta di legge rigettata da una delle Camere sia esaminata e messa ai voti dall’altra».

A suo parere tale facoltà, concessa al Presidente della Repubblica, può facilmente far sorgere dei conflitti fra le due Camere. Si domanda, infatti, quale situazione si verrebbe a creare nell’ipotesi che l’altra Camera approvasse il provvedimento rigettato dalla prima.

MORTATI spiega che con la sua proposta egli tende a dare al Capo dello Stato la possibilità di sentire l’avviso di ambedue le Camere su di una determinata questione; e che nella ipotesi prospettata dal Presidente si verificherebbe la situazione che è prevista dall’articolo 38 con i rimedi ivi stabiliti. Propone anzi, data la connessione esistente tra i due articoli, di esaminarli contemporaneamente.

PRESIDENTE consente e dà lettura dell’articolo 38 nella nuova formulazione proposta dall’onorevole Mortati:

«Nel caso che una Camera rigetti o approvi con emendamenti un progetto di legge approvato dall’altra, oppure non deliberi su di esso nel termine fissato dall’articolo 27, il Capo dello Stato può richiedere, trascorsi tre mesi dalla precedente deliberazione o dalla scadenza del termine di cui al predetto articolo 27, che la Camera stessa si pronunci di nuovo sul progetto o prenda la deliberazione prima omessa. Ove la nuova pronuncia confermi la precedente, oppure non si proceda all’esame, il Capo dello Stato potrà indire il referendum sul progetto, oppure sciogliere le Camere (o anche una sola)».

FABBRI ritiene preferibile non parlare di tale questione, che si risolve o con la presentazione del medesimo progetto nella legislatura successiva o con la presentazione, nella medesima legislatura, dello stesso progetto lievemente modificato in modo da apparire un progetto nuovo. Ricorda come l’istituto della chiusura della sessione avesse precisamente lo scopo di togliere di mezzo quei progetti che rappresentavano un ingombro nello svolgimento normale della vita parlamentare.

TOSATO osserva che l’articolo 38, nella sua ultima edizione proposta dall’onorevole Mortati, è in fondo conseguente alle proposte che sono state ora respinte. Propone quindi di prendere senz’altro in esame l’articolo 38 nel testo originario, che gli sembra perfettamente conseguente con il sistema parlamentare e che rileva essere stato tolto di sana pianta dall’articolo 47 della Costituzione sovietica.

GRIECO premette che i riferimenti ad una Costituzione straniera dovrebbero farsi o spesso o mai, e rileva che nel caso in esame ci si trova di fronte ad un istituto nuovo; cioè ad una Commissione mista delle due Camere che è al di fuori del regime parlamentare, secondo il quale ogni Camera decide separatamente. Per queste considerazioni dichiara di essere d’accordo con l’onorevole Fabbri.

PRESIDENTE è del parere che, anche se si entrasse nelle idee dell’onorevole Tosato, converrebbe in ogni modo sgombrare prima il terreno dall’articolo 37-bis. Lo pone ai voti.

(Non è approvato).

MORTATI, Relatore, accede alla proposta dell’onorevole Tosato, in quanto la nuova formulazione dell’articolo 38 da lui proposta presuppone un istituto che non è stato approvato in una precedente votazione, e quindi sarebbe inutile discutere di ciò che non ha incontrato l’approvazione della maggioranza della Commissione.

PRESIDENTE dà lettura dell’articolo 38 nel testo del Comitato di coordinamento;

«Nel caso di rigetto da parte di una Camera di un progetto di legge approvato dall’altra, o di mancata deliberazione della prima nel termine fissato dall’articolo 27, il Governo può richiedere che il progetto sia riesaminato da una Commissione mista formata ai sensi dell’articolo 28. Se il dissenso fra le Camere persiste, il Presidente della Repubblica può indire il referendum sui punti controversi oppure sciogliere le Camere».

GRIECO, in merito al richiamo all’articolo 28, osserva che non è esatto, perché in quello si parla di una Commissione interna di ciascuna Camera, mentre nell’articolo in esame è prevista l’ipotesi di una Commissione mista.

MORTATI, Relatore, rileva che la Commissione di cui all’articolo 38 si forma nel momento nel quale sorge il conflitto: si tratta quindi di un’ipotesi diversa da quella considerata all’articolo 28. Perciò, in caso di contrasti, prima di ricorrere al sistema drastico dello scioglimento delle Camere, crede sarebbe opportuno, e senza offesa al principio della bicameralità, ammettere questa possibilità di una discussione comune in una Commissione che fosse quasi delegata dalle due Camere a cercare una linea di conciliazione. Osserva, del resto, che entrambe le Camere sono rappresentanti della sovranità popolare e quindi non devono essere sempre raffigurate in una posizione di antitesi. D’altra parte fa presente che il contrasto potrà anche sorgere su punti non sostanziali ed essere facilmente risolto attraverso questo contatto immediato.

BULLONI è del parere che, in luogo di fissare fin d’ora dei temperamenti che suonino sfiducia verso i componenti delle due Camere, si debba fare affidamento sul loro senso di responsabilità, affinché sia evitato un conflitto per questioni di scarso rilievo. Se poi si avranno contrasti su questioni rilevanti, questi potranno essere risolti mediante il potere di scioglimento delle due Camere riservato al Presidente della Repubblica.

MANNIRONI propone il seguente emendamento:

«Quando la seconda Camera non si pronuncia nel termine dell’articolo precedente sopra un disegno di legge approvato dalla prima Camera e questa l’approva nuovamente, il disegno può essere promulgato quale legge.

«Se la seconda Camera respinge il progetto o vi introduce emendamenti che la prima Camera non accetta, occorre che la nuova approvazione avvenga a maggioranza assoluta dei componenti e di due terzi dei presenti della prima Camera.

«Ove non sia raggiunta tale maggioranza qualificata, la prima Camera o il Presidente della Repubblica possono chiedere che il disegno di legge, nei termini da esso approvati, sia sottoposto a referendum».

Dichiara che lo presenta in linea subordinata, per il caso, cioè, che non venga approvato il testo proposto dal Comitato.

FABBRI osserva, innanzi tutto, che la mancata pronunzia da parte di una delle due Camere entro il termine fissato è, a suo avviso, una chiara manifestazione di dissenso espressa nella forma più anodina e politicamente mono violenta. Non ritiene attuabile l’ipotesi dell’articolo 38 che, in caso di rigetto, la Commissione debba essere rafforzata con i Commissari dell’altra Camera; ma che prospettare tale eventualità può essere utile perché, oltre a suscitare una discussione nel Paese, potrà determinare, sia la ripresentazione da parte del Governo del progetto che fu rigettato, sia lo scioglimento della Camera e quindi nuove elezioni generali, con la conseguenza del riesame del progetto nella legislatura successiva.

Non comprende perché per il solo fatto che un progetto di legge sia stato presentato, debba sboccare sempre in una conclusione positiva; rileva, anzi, che il fatto che il corso normale di un progetto di legge possa arrestarsi ad un punto morto, e quindi non perfezionarsi, è un fenomeno costante nella vita parlamentare di tutti i Paesi democratici: non è necessario che tutto il ciclo della procedura parlamentare si esaurisca nella breve vita di una legislatura.

EINAUDI si associa a quanto ha dichiarato l’onorevole Fabbri. Ritiene che sia una delle principali funzioni del Parlamento quella di vagliare i disegni di legge e far sì che soltanto una quota-parte di essi auguralmente piccola diventi legge. È suo vivo desiderio che il sistema parlamentare torni a funzionare come in passato, per evitare la pletora delle leggi redatte frettolosamente e malamente congegnate. Non vede quindi la necessità di creare un meccanismo complicato per impedire al Parlamento di assolvere ad uno dei suoi compiti essenziali.

FUSCHINI fa presente che nell’articolo 38 originario non è contemplata l’ipotesi, pur frequentissima, che il disegno di legge sia approvato in una Camera con degli emendamenti, mentre tale caso era considerato nell’articolo 38 proposto dall’onorevole Mortati: vorrebbe che questa ipotesi fosse anche considerata.

MANNIRONI, premesso che il demandare la controversia ad una Commissione mista parlamentare riproduce il sistema adottato dei casi di divergenza tra le decisioni dell’Assemblea regionale ed il Governo, osserva che, se non si vuole accettare la soluzione proposta all’onorevole Mortati, non si può sfuggire alla soluzione di rimandare il progetto, respinto o emendato dalla seconda Camera, alla prima Camera, che potrà di nuovo discuterlo e approvarlo. Lasciar cadere del tutto un progetto solo perché è mancato l’accordo delle due Camere a un primo esame può servire, a suo giudizio, a incoraggiare un’abitudine dannosa, a eliminare inutilmente ogni possibilità d’accordo tra le due Camere su questioni, proposte e progetti su cui tale accordo sarebbe reso possibile ad un riesame. Infine è necessario prevedere il modo con cui sia possibile arrivare alla soluzione di un contrasto tra le due Camere: gli sembra eccessivo decidere che, in caso di contrasto, manchi qualsiasi sanatoria e che perciò il progetto sia destinato a cadere.

PRESIDENTE dichiara di non essere favorevole all’istituzione di una Commissione mista, della quale in ogni caso dovrebbero essere specificati i poteri, le funzioni e il valore delle decisioni. Aggiunge che, se si tratta di un semplice tentativo di avvicinamento, questo sarà sempre riservato all’iniziativa dei Presidenti delle due Camere; ma non ritiene che sia sempre il caso di tentarlo, sia per la modestia della legge in questione, sia per la constatata difficoltà a priori di riuscire ad ottenere un accordo.

MORTATI, Relatore, replica che il Governo è giudice della sanazione politica e dell’importanza del provvedimento. Aggiunge che le decisioni di tale Commissione non hanno affatto carattere vincolante; essa ha il compito di cercare una via di uscita, sulla quale si possano accordare i componenti delle due Camere e le sue decisioni non vincolano nessuno, perché ad essa sono deferiti i poteri normali delle Commissioni, cioè quelli semplicemente di fare proposte.

PRESIDENTE pone ai voti il principio che sia opportuno stabilire nella Costituzione questa particolare procedura di conciliazione tra le due Camere affidata ad una Commissione mista.

(Non è approvato).

Apre ora la discussione sulla proposta sostitutiva presentata, in via subordinata, dall’onorevole Mannironi, della quale ha già dato lettura, ed avverte che le espressioni «prima Camera» e «seconda Camera» non significano rispettivamente Camera dei Deputati e Senato, ma devono intendersi nel senso della Successione, cioè di Camera che per prima o per seconda ha esaminato il disegno di legge.

MORTATI, Relatore, vi è contrario, perché ritiene trattarsi di un emendamento che compromette il corretto funzionamento del sistema bicamerale.

MANNIRONI fa rilevare che la minaccia di superare la seconda Camera la quale si disinteressa, con la prima che approvi un progetto con maggioranza qualificata, spingerà la seconda ad interessarsi dei progetti ed a tentare di raggiungere l’accordo sui punti controversi. La soluzione proposta, gli sembra, non solo non vulnera il sistema bicamerale, ma ne mette in risalto l’utilità. Osserva, infine, che le soluzioni da lui proposte sono accolte anche in altre Costituzioni e hanno avuto il consenso di altri parlamentari molto autorevoli.

PRESIDENTE fa presente che la proposta Mannironi, la quale deferisce ad una sola Camera tutto il potere legislativo, appare quasi come la sanzione contro la carenza dell’altra. Riconosce che sarebbe stato preferibile trovare una disposizione che obbligasse ogni Camera ad assumere sempre le responsabilità delle proprie azioni, dichiarando sempre apertamente il suo parere su una legge, piuttosto che consentire la possibilità di ricorrere a questi tentativi di impedirne il passaggio col silenzio o con l’inerzia.

Pone ai voti la prima parte dell’emendamento proposto dall’onorevole Mannironi, in cui si fa l’ipotesi che la seconda Camera non si pronunzi affatto nei termini consentiti.

(Non è approvata).

Fa rilevare che l’onorevole Mannironi ha previsto nel suo emendamento una seconda ipotesi con una seconda soluzione: «se la seconda Camera respinge il progetto o introduce emendamenti che la prima Camera non ammetta, occorre che la nuova approvazione avvenga a maggioranza assoluta dei componenti e dei due terzi dei presenti della prima».

NOBILE rileva che, se non si riesce a trovare un rimedio, la seconda Camera potrebbe, volendo, ostacolare tutte le leggi approvate dalla prima.

FABBRI replica che il rimedio è quello delle elezioni generali.

ROSSI PAOLO ricorda che questi problemi sono stati molto dibattuti in seno al Comitato. Riconosce che se si accordano alle due Camere i medesimi poteri, può avvenire che l’una assuma sistematicamente il metodo di respingere le proposte dell’altra. Osserva, a questo proposito, che tutte le Costituzioni nelle quali è stabilito che un progetto approvato da una Camera e respinto dall’altra ritorna alla prima, che può votarlo con una maggioranza qualificata o semplice, presuppongono l’esistenza di una certa differenza gerarchica; pensa quindi che sia impossibile trovare una soluzione diversa da quella adottata dal Comitato, cioè non dir nulla.

PRESIDENTE riconosce che una costruzione di questo genere può permettere sia all’una che all’altra Camera di arrestare reciprocamente i lavori parlamentari, e ritiene che l’unica soluzione sarebbe quella di dare alla prima una posizione di preminenza.

Osserva che, con la formulazione proposta, si stabilisce una priorità mutevole permanente, perché la Camera che ha votato per prima un progetto di legge acquista, nei confronti di quel progetto, una posizione di preminenza, e ritiene inaccettabile il lasciare al caso la determinazione di questa posizione.

FUSCHINI replica che non è lasciata al caso, bensì all’intuito del Governo.

PRESIDENTE pone in votazione la seconda proposta contenuta nell’emendamento dell’onorevole Mannironi, che prevede l’ipotesi dell’opposizione al progetto o dell’introduzione di emendamenti.

(Non è approvata).

Ricorda che si deve ancora votare sull’ultima parte dell’articolo 38 così formulata:

«Se il dissenso delle Camere persiste, il Presidente della Repubblica può indire il referendum sui punti controversi oppure sciogliere le Camere».

Fa notare che a questa formula corrisponde l’ultima parte dell’emendamento dell’onorevole Mannironi:

«Ove non sia raggiunta la maggioranza qualificata di cui al comma precedente, la prima Camera o il Presidente della Repubblica possono chiedere che il disegno di legge nei termini approvati sia sottoposto a referendum».

Osserva che, a suo avviso, l’unica ipotesi che si dovrebbe porre sarebbe quella del referendum, perché la facoltà di sciogliere le Camere è una delle prerogative del Capo dello Stato.

TOSATO crede sia bene indicare anche questo caso, perché potrebbe essere uno di quelli tipici in cui il Capo dello Stato può sciogliere le Camere.

PRESIDENTE osserva che è piuttosto da considerare caso tipico la facoltà di indire il referendum.

MORTATI, Relatore, obbietta che, per giudicare dell’opportunità di questo atto del Presidente, bisognerebbe sapere se saranno precisati i casi di scioglimento delle Camere, perché quello in esame potrebbe essere uno dei casi per addivenire a tale scioglimento.

FABBRI fa l’ipotesi che una delle Camere, ritenendo opportuno un provvedimento da essa approvato e che l’altra invece ostacola, richieda il referendum: in tal caso, questo dovrebbe avere l’efficacia di convertire in legge la norma approvata da una delle due Camere.

MANNIRONI ritiene eccessivo ammettere, per un semplice dissenso su un progetto anche non importante, la possibilità di un referendum e lo scioglimento della Camera, mentre ci si dovrebbe preoccupare di creare un meccanismo che consentisse la possibilità di un accordo fra le due Camere.

BULLONI è del parere che non debba essere snaturato l’istituto del referendum, che è essenzialmente d’iniziativa popolare; cioè, che il referendum si possa indire non su richiesta del Capo dello Stato, ma soltanto su richiesta popolare e in determinali casi. Aggiunge che, in caso di dissenso tra le due Camere, deciderà la saggezza del Capo dello Stato, il quale potrà sciogliere le due Camere, se riterrà che il dissenso sia tale da rendere necessarie le nuove elezioni.

MANNIRONI afferma che, a suo avviso, sarebbe meglio indire il referendum senza arrivare allo scioglimento delle due Camere.

ROSSI PAOLO fa presente che, se il referendum indetto su un disegno di legge a causa di dissenso fra i due rami del Parlamento manifesterà un’opinione pubblica contraria a quella di una delle due Camere, si dovrà necessariamente sciogliere la Camera che non aveva preso una deliberazione conforme all’opinione pubblica e si dovranno pertanto indire nuove elezioni. Aggiunge che in ogni caso non si arriverà al referendum per una legge di scarsa importanza, ma solo per leggi veramente essenziali.

PRESIDENTE mette in votazione la prima parte dell’ultimo periodo dell’articolo 38:

«In caso di dissenso delle Camere il Presidente della Repubblica può indire il referendum sui punti controversi».

(Con 7 voti favorevoli e 13 contrari non è approvata).

Dichiara che, a seguito di questa votazione, decade anche l’ultima parte dell’emendamento dell’onorevole Mannironi.

FABBRI, quanto all’ultima proposizione dell’articolo 38 («oppure scioglierà le Camere»), dichiara di essere contrario, non perché intenda di negare tale facoltà al Capo dello Stato, ma perché ritiene che essa rientri tra le prerogative del Presidente della Repubblica.

BULLONI aderisce alla dichiarazione dell’onorevole Fabbri.

PRESIDENTE ritiene che anche quest’ultimo inciso: «oppure scioglierà le Camere» possa considerarsi respinto.

Rileva quindi che l’intero articolo 38 non è stato approvato.

Ricorda che la Sottocommissione deve ancora decidere, per completare l’esame del potere legislativo, sulla questione del referendum: e a tale riguardo fa presente che l’onorevole Mortati è stato incaricato di redigere gli articoli relativi, in base ai principî approvati dalla Sottocommissione.

MORTATI, Relatore, desidera dare qualche chiarimento sul referendum ed avere in proposito anche qualche direttiva dalla Sottocommissione per poter redigere uno schema il quale presumibilmente possa incontrare il favore della maggioranza dei colleghi.

In tema di referendum nazionale, non crede innanzi tutto che ci si debba occupare del referendum consultivo.

NOBILE domanda la ragione di questa esclusione. Ricorda che in America funziona molto bene l’Istituto Gallupp, il quale, con i frequenti questionari sottoposti al pubblico, costituisce una fonte molto importante di notizie anche per il Governo.

EINAUDI crede che un simile istituto potrebbe avere la sua influenza anche in Italia.

MORTATI, Relatore, spiega che il referendum consultivo si deve scartare, perché il popolo, essendo il più qualificato organo politico dello Stato democratico, non potrebbe non vincolare, data l’autorità inerente alle sue pronunce, le quali solo apparentemente si potrebbero chiamare pareri.

PRESIDENTE osserva che il referendum consultivo avrebbe anche conseguenze gravi, in quanto obbligherebbe la Camera a sciogliersi se il risultato fosse contrario, perché dovrebbe ritenersi che essa non rispecchiasse più la maggioranza della Nazione. Ritiene che si possa decidere senza arrivare ad una votazione sull’opportunità di non considerare, nella Costituzione, il referendum consultivo.

MORTATI, Relatore, aggiunge che si dovrà anche decidere se il referendum popolare sarà un referendum deliberativo, con effetto obbligatorio, in determinati casi: ed allora si dovrebbero stabilire questi casi, come anche fissare i casi di esclusione.

Per il referendum legislativo o d’iniziativa parlamentare, si dovrebbe stabilire in quali casi potrà applicarsi, oltre che in materia di leggi già approvate o in caso di dissenso tra le due Camere. Fa presente che è stato già deciso dalla Sottocommissione di escludere nel Capo dello Stato la facoltà di indire il referendum: il potere esecutivo, cioè, può sciogliere le Camere, ma non può mai sentire il parere del popolo. Si dovrebbe anche stabilire se il referendum legislativo si possa chiedere in via principale o in via sussidiaria: personalmente crederebbe in via consultiva, ma escluso il referendum consultivo, per la ragione già dette, tale ipotesi non si potrà più verificare.

PRESIDENTE osserva che il Governo non può prendere l’iniziativa del referendum se non attraverso il Parlamento: quando il referendum non è d’iniziativa popolare, non può essere indetto che per legge; dovrebbe esservi sempre un articolo, nella legge che si vuol sottoporre al referendum, il quale dicesse: «la presente legge deve essere sottoposta a referendum popolare».

MORTATI, Relatore, nota che si avrebbe così una formula di legislazione lasciata alla volontà del popolo.

FUSCHINI osserva che, con la Costituzione, si è creato un sistema di democrazia indiretta, mentre il referendum è un sistema di vera e propria democrazia diretta. Si tratta di vedere come esso possa inserirsi nel sistema legislativo.

PRESIDENTE ritiene che le democrazie indirette dovrebbero tendere verso una trasformazione in democrazie dirette, se non vi sono motivi che l’impediscano. Si dovrebbe perciò accogliere nella Costituzione il maggior numero possibile di elementi di democrazia diretta: rimarrebbe il problema di coordinarli.

MORTATI, Relatore, dubita che si possa prendere in considerazione l’ipotesi del referendum d’iniziativa parlamentare; perché il Parlamento, qualificato a fare leggi, verrebbe in tal modo a dubitare del valore della sua funzione di rappresentante del popolo: nell’ipotesi che il popolo con il referendum non approvasse un progetto, si avrebbe un esautoramento del Parlamento. In un sistema di tipo parlamentare non vede come ciò possa farsi, senza far seguire effetti particolarmente gravi da questa consultazione. In alcune decisioni già prese dalla Sottocommissione si è attuata l’inserzione di qualche elemento non strettamente parlamentare nel sistema parlamentare, si è realizzato cioè un tentativo di superare il regime puramente parlamentare.

Sarebbe piuttosto di opinione che l’iniziativa del referendum fosse affidata al Governo, il quale potrà trovarsi nella necessità di ricorrere al responso del popolo per decidere, ad esempio, sul mantenimento o meno di un dato indirizzo osteggiato dal Parlamento. Tuttavia, per il momento non parlerebbe né di iniziativa del Parlamento, né di iniziativa del Capo dello Stato, ma solo di quella affidata al corpo elettorale. Tutto al più si potrebbe ammettere la richiesta del referendum da parte di una minoranza qualificata della Camera, riannodandosi al concetto, già altra volta invocato, della protezione delle minoranze.

PRESIDENTE teme che questa ipotesi – che dovrebbe verificarsi solo in casi eccezionali – potrebbe invece ripetersi troppo frequentemente.

UBERTI ritiene che, almeno inizialmente, il referendum avrebbe possibilità di successo solo in campo regionale.

Osserva poi che bisogna sganciare questo istituto dall’idea di un voto di fiducia politica e dargli un carattere di soluzione pratica di determinati problemi. Comprende che ciò riuscirà difficile; ma si tratta di trovare il modo di applicare in tema di referendum quanto avviene nel caso di una votazione contraria ad una legge comune: che il Governo non viene rovesciato se non sia stata posta la questione di fiducia.

LACONI ritiene che in Italia un referendum a cui partecipino 25 milioni di persone acquisterà sempre un valore politico, qualunque sia il carattere che si vorrà dargli.

MANNIRONI rileva che, scartata la tesi del referendum d’iniziativa del Capo del Governo e quello di iniziativa parlamentare, si potrà trovare l’accordo su un referendum voluto da una parte degli elettori.

PRESIDENTE, tenendo presente tale conclusione, ritiene che l’onorevole Mortati potrà formulare un progetto da sottoporre alla Sottocommissione nelle prossime riunioni.

Fa presente che è rimasta in sospeso anche la denominazione della seconda Camera, pur essendo stato deciso di cambiare il nome di «Senato».

EINAUDI ricorda che è anche da decidere sulla questione dei comitati ausiliari delle due Camere.

GRIECO pensa che tali organismi debbano essere sempre consultivi.

MORTATI, Relatore, è d’accordo. Si potrebbe anche dare a questi organismi un potere di iniziativa legislativa ed un potere consultivo, su richiesta sia delle Camere, che del Governo: così pure potrebbero essere autorizzati alla redazione di dati regolamenti tecnici, sempre per delega delle Camere. Il punto più importante è lo stabilire da chi debbano essere eletti: a suo avviso potrebbero derivare dalle Camere stesse, sia pure su designazione di determinati corpi professionali.

PRESIDENTE crede che tali Comitati potrebbero essere eletti su una base popolare, ma con collegi elettorali distinti; perché evidentemente un Comitato di carattere consultivo deve avere la rappresentanza di larghi settori della vita economica.

FABBRI non ritiene necessario menzionare nella Costituzione questi Comitati. Osserva che attualmente in quasi tutti i Ministeri sono costituiti degli organi consultivi, creati con legge dello Stato, senza bisogno di ricorrere alla Costituzione. Teme che altrimenti possano sorgere altri organi burocratici. Ritiene che, quando vi siano dei progetti veramente interessanti, possa essere richiesto il parere delle organizzazioni competenti, come la Confederazione generale del lavoro e quella dell’industria.

NOBILE rileva che questi Comitati esistono già a fianco dei Ministeri e che bisognerebbe soltanto allargarne le attribuzioni.

EINAUDI pensa che nella Costituzione si tratterà solo di fissare alcuni principî generali e soprattutto quello che tali Comitati possano essere istituiti soltanto per legge.

Ricorda che esistono già organi di tale natura, i quali hanno una tradizione che dura da parecchi decenni, come il Consiglio Superiore dell’istruzione, la Giunta Superiore del catasto, la Commissione Superiore delle imposte diretto, il Consiglio Superiore dei lavori pubblici, quello delle miniere, ecc.

PRESIDENTE, nella trattazione degli articoli sul potere esecutivo, crede che si potrà stabilire la costituzione per ogni dicastero di un Comitato di questo genere; sarà poi la legge che disporrà in qual modo debbano essere eletti.

Constatato che vi è un accordo di massima, affida all’onorevole Mortati anche l’incarico di studiare questo argomento, per sottoporre poi alla Sottocommissione delle proposte concrete.

La seduta termina alle 18.05.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Cappi, Einaudi, Fabbri, Farini, Fuschini, Grieco, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Mannironi, Mortati, Nobile, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti.

Assenti: Borbon, Calamandrei, Cannizzo, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Di Giovanni, Finocchiaro Aprile, Leone Giovanni, Lussu, Piccioni, Perassi, Porzio, Vanoni, Zuccarini.

ANTIMERIDIANA DI SABATO 21 DICEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

76.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI SABATO 21 DICEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Autonomie regionali (Seguito della discussione)

Presidente – Ambrosini, Relatore – Uberti – Fabbri – Cappi – Mortati – Tosato – Ravagnan.

Coordinamento degli articoli sul potere legislativo (Seguito della discussione)

Presidente – Nobile – Einaudi – Fabbri – Tosato – La Rocca – Cappi – Bulloni – Ambrosini – Fuschini – Mortati – Laconi – Targetti – Bozzi – Lami Starnuti – Grieco.

La seduta comincia alle 10.30.

Seguito della discussione sulle autonomie regionali.

PRESIDENTE avverte che l’onorevole Ambrosini ha chiesto di parlare sull’articolo 20 del progetto sulle autonomie locali.

AMBROSINI, Relatore, informa che per quanto si riferisce all’articolo 20 del progetto sulle autonomie locali, in cui si prevede l’istituzione di una Corte di giustizia amministrativa, la seconda Sezione ha deciso che ogni deliberazione in materia sia rinviata all’inizio del nuovo anno. L’articolo anzidetto, pertanto, potrebbe essere tenuto in sospeso, perché il suo accoglimento dipende dell’adozione del principio di una giurisdizione speciale nel campo amministrativo.

In sede di seconda Sezione frattanto si è rilevato che la soppressione della Giunta provinciale amministrativa è in riferimento all’istituzione di una Corte di giustizia amministrativa.

UBERTI fa presente che la seconda Sezione sta avviando i suoi lavori nel senso che debba essere rimessa ad una legge susseguente, da emanarsi entro un periodo di 5 anni, la definizione delle giurisdizioni speciali, tra cui sarebbe da comprendere quella relativa all’istituzione di una Corte di giustizia amministrativa. D’altra parte, poiché è stato approvato il principio che la Giunta provinciale amministrativa debba essere sostituita da un nuovo organo regionale, è necessario fare menzione della Corte anzidetta, perché altrimenti potrebbe sembrare che la Giunta provinciale amministrativa debba ancora sussistere. È del parere, quindi, che la Sottocommissione possa senz’altro approvare il testo dell’articolo 20, così come è stato formulato dal Comitato di redazione.

AMBROSINI, Relatore, osserva che per le ragioni da lui addotte, si potrebbe senz’altro accogliere la proposta dell’onorevole Uberti.

FABBRI propone che, relativamente alla questione in esame, sia affermato il principio che l’ordinamento della giustizia amministrativa sia devoluto alla giurisdizione dello Stato e ciò perché, secondo il criterio espresso dal Comitato di redazione, contro i provvedimenti dell’eventuale organo regionale di giustizia amministrativa si potrebbe ricorrere al Consiglio di Stato.

CAPPI osserva che la seconda Sezione fu d’accordo nell’affermare il mantenimento e l’unità della giurisdizione amministrativa.

FABBRI fa presente che dovrebbe essere detto espressamente che la Corte di giustizia amministrativa è un organo di primo grado.

AMBROSINI, Relatore, è d’accordo con l’onorevole Fabbri.

MORTATI ritiene anche necessario che si parli di organi di giustizia amministrativa, in quanto appunto tali organi sono molteplici.

TOSATO propone che, dopo aver fatto riferimento a quanto hanno proposto gli onorevoli Fabbri e Mortati, sia detto espressamente che l’ordinamento degli organi in questione sarà regolato dalla legge.

PRESIDENTE ritiene che, secondo le varie proposte testé fatte, la formulazione dell’articolo 20 potrebbe essere la seguente:

«Nella Regione sono costituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo l’ordinamento che sarà stabilito dalla legge».

MORTATI crede che sarebbe meglio parlare di «organi statali di primo grado», in quanto la giustizia non può avere che un ordinamento unitario nello Stato.

TOSATO ritiene più opportuna la seguente formulazione:

«Nella Regione lo Stato istituisce organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo l’ordinamento che sarà stabilito dalla legge».

AMBROSINI, Relatore, preferisce la formula di cui il Presidente ha dato lettura. Fa presente, inoltre, che occorre prendere in esame anche il secondo comma dell’articolo 20, in cui è detto che potranno essere istituite sezioni in sede diversa dal Capoluogo della regione.

RAVAGNAN avverte che dalla seconda Sezione non è stata approvata alcuna deliberazione in merito al quesito se debba essere mantenuta una giustizia amministrativa separata.

AMBROSINI, Relatore, ricorda all’onorevole Ravagnan che la seconda Sezione ha approvato il principio secondo cui entro cinque anni il legislatore dovrà esaminare tutta la materia in discussione. Pertanto la giustizia amministrativa potrà rimanere separata per un periodo di cinque anni.

RAVAGNAN osserva in ogni modo che, stabilendo un primo grado di giustizia amministrativa, sorge il problema dell’organo competente in secondo grado e, quindi, quello se debba essere mantenuto il Consiglio di Stato.

AMBROSINI, Relatore, fa rilevare che, con la dizione dell’articolo in esame, si lascia impregiudicata qualsiasi questione.

PRESIDENTE mette in votazione la seguente formulazione dell’articolo 20:

«Nella Regione sono costituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo l’ordinamento che sarà stabilito dalla legge. Potranno essere stabilite sezioni in sede diversa dal capoluogo della Regione».

(È approvato).

Seguito della discussione sul coordinamento degli articoli sul potere legislativo.

PRESIDENTE pone in discussione l’articolo 35:

«Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali».

A tale articolo si propone un’aggiunta così concepita:

«…politici, di arbitrato o di regolamento giudiziario, di commercio, che importano variazioni di territorio od oneri alle finanze o che esigono modificazioni di leggi».

NOBILE domanda perché, con l’aggiunta proposta, non dovrebbe più essere usata l’espressione generica di «trattati internazionali».

PRESIDENTE fa presente che, con l’espressione «trattati internazionali», si può dar luogo al sorgere di una serie di accorgimenti per cui alcuni atti, che sono veri e propri trattati internazionali, soltanto perché hanno una denominazione diversa, sfuggirebbero all’obbligo della ratifica. È stato richiamato in proposito l’esempio degli Stati Uniti, in cui alcuni accordi, che pure impegnano la nazione, in quanto non vien data loro la denominazione di trattati non sono sottoposti all’approvazione del Congresso.

NOBILE, per evitare il sorgere degli inconvenienti accennati dal Presidente, propone il seguente emendamento all’articolo in esame: «dei trattali ed accordi internazionali ed in generale di qualsiasi atto stipulato con altri Stati».

EINAUDI intende innanzitutto lumeggiare i motivi per cui nei tempi recenti molti accordi, specialmente di carattere commerciale, non sono più definiti come trattati e quindi, pure entrando in vigore, non sono sottoposti alla ratifica delle Camere.

Un tempo le operazioni commerciali fra Stato e Stato erano fatte dai privati e i trattati di commercio non avevano altro scopo che quello di stabilire alcune regole generali, a cui tutti indistintamente coloro che commerciavano dovevano sottostare. Dall’altra guerra in poi cominciò ad entrare in uso il sistema di far compiere tali operazioni da enti pubblici o da privati godenti di speciali concessioni: onde una serie numerosa di accordi, che non riguardano più l’attività del commercio da un punto di vista generale, ma si riferiscono a determinate materie in modo particolare.

Rispetto a tali accordi, che, in quanto non sono definiti come trattati, non sono sottoposti all’approvazione delle Camere, si può rilevare che, senza di essi, sarebbero assai difficili le operazioni di carattere commerciale nell’ambito internazionale, data l’organizzazione economico-industriale del mondo moderno. Si possono dire quindi necessari, e ciò anche perché essi hanno spesso carattere di urgenza. Sono queste le ragioni per cui tali accordi sono stati sottratti al procedimento della ratifica legislativa.

Ma vi è una ragione che dovrebbe sconsigliare l’uso di tali accordi, ed è che da essi di solito deriva la sorgente dei maggiori lucri e dei maggiori pericoli di corruzione anche politica.

Si tratta quindi di bilanciare l’importanza della necessità economica di procedere con la dovuta rapidità alla stipulazione di tali accordi, ed i pericoli di carattere morale e politico che da essi possono sorgere. Per conto suo ritiene di maggiore importanza le ragioni di carattere morale e politico che non quelle di carattere economico, e pertanto, a suo avviso, tali accordi dovrebbero essere sottoposti alla ratifica parlamentare. E ciò, anche in considerazione del fatto che molte delle ragioni che dovrebbero consigliare la stipulazione degli accordi in questione, sono per lo più artificiosamente create negli ambienti ministeriali. V’è infatti tutta una tecnica per addivenire alla stipulazione di questi accordi commerciali, alla cui elaborazione partecipano funzionari specializzati degli Stati contraenti, i quali funzionari hanno finito col credere che la loro opera sia addirittura insostituibile. Può essere che questa sua impressione sia non esatta, ma egli ha ragione di non ritenerla tale.

FABBRI fa presente che, in considerazione delle osservazioni dell’onorevole Einaudi, sarebbe opportuno far menzione, nell’articolo in esame, delle concessioni dei monopoli di importazione e di esportazione. Pertanto gli accordi stipulati dallo Stato per mezzo di enti che abbiano tale concessioni dovrebbero essere sottoposti alla ratifica delle Camere. Tale obbligo invece non dovrebbe sussistere per gli accordi di clearing, che, più che altro, riguardano l’esecuzione dei trattati di commercio.

TOSATO rileva che quando si parla di trattati si usa un termine il più lato possibile. Infatti per «trattato» si intende qualsiasi accordo di diritto internazionale, sia normativo, sia di contratto.

PRESIDENTE aderisce personalmente alla tesi prospettata dall’onorevole Einaudi, perché con essa si dà un completo riconoscimento alla sovranità popolare che, attraverso il Parlamento, eserciterebbe un adeguato controllo anche sulla politica internazionale. Ritiene, pertanto, che si dovrebbe adottare una formulazione di carattere generico, la più ampia possibile, anche perché si può senz’altro fare affidamento, per i casi urgenti, sulla rapidità di funzionamento delle Commissioni parlamentari.

TOSATO esprime il dubbio che per i casi urgenti si possa avere subito la ratifica delle Camere, perché esse, nel momento richiesto per addivenire alla ratifica di dati accordi, possono non essere convocate.

LA ROCCA è contrario ad un’elencazione tassativa dei vari tipi di trattati internazionali perché, così facendo, potrebbe sfuggire qualche accordo, riferibile ad una determinata materia, eventualmente anche molto importante, e che pertanto verrebbe sottratto al controllo del Parlamento. Ritiene quindi preferibile la formula originaria dell’articolo 35, che è la più lata e la più generica.

PRESIDENTE crede che, alle giuste esigenze prospettate dall’onorevole La Rocca, risponda meglio la formulazione proposta dall’onorevole Nobile.

CAPPI propone la seguente formulazione:

«Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali e di ogni accordo con altri Stati che interessi direttamente o indirettamente lo Stato».

BULLONI è d’avviso che nella formula proposta dall’onorevole Cappi dovrebbero sopprimersi le parole: «direttamente o indirettamente».

AMBROSINI ritiene che sia sufficiente adottare soltanto il termine di «trattati», in quanto ogni altro atto è sottoposto al sindacato politico che il Parlamento può sempre esercitare sul Governo.

NOBILE chiede che il testo del suo emendamento sia messo ai voti per divisione.

PRESIDENTE pone in votazione la prima parte dell’emendamento proposto dall’onorevole Nobile.

«Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati ed accordi internazionali».

(È approvato).

Mette ai voti la seconda parte dell’emendamento dell’onorevole Nobile: «ed in generale di qualsiasi atto stipulato con altri Stati».

(È approvato).

PRESIDENTE pone in discussione l’articolo 36:

«Ciascuna Camera, con deliberazione di almeno un terzo dei suoi membri, può disporre un’inchiesta su materie di pubblico interesse.

«La Commissione d’inchiesta dovrà essere nominata con la rappresentanza proporzionale dei vari gruppi della Camera, e svolge la sua attività procedendo agli esami ed alle altre indagini necessarie con gli stessi poteri e gli stessi limiti dell’autorità giudiziaria».

FUSCHINI domanda perché nell’articolo in esame si parli, non già del Parlamento, ma di ciascuna Camera, e perché per promuovere un’inchiesta si richieda soltanto la deliberazione di un terzo dei membri.

MORTATI risponde che l’iniziativa dell’inchiesta è stata limitata a un terzo dei membri per garantire il potere di controllo alle minoranze. La facoltà d’inchiesta è stata poi attribuita a ciascuna Camera in quanto non si tratta di inchieste ordinate con legge. Ognuna delle due Camere quindi, senza che sia necessario il concorso dell’altra, può disporre un’inchiesta su materie di pubblico interesse.

FUSCHINI osserva che, poiché con l’inchiesta si conferiscono alle Camere poteri di carattere giudiziario, e quindi straordinario, ciò dovrebbe essere stabilito soltanto con un’apposita legge. A suo avviso, quindi, in caso d’inchiesta su materie di pubblico interesse dovrebbero intervenire ambedue le Camere. E ciò anche per un’altra considerazione: potrebbe infatti sorgere un disaccordo fra i due rami del Parlamento circa l’opportunità o modo di promuovere un’inchiesta o la valutazione dei fatti assoggettati alla inchiesta stessa, e così potrebbero aversi due inchieste, dell’una e dell’altra Camera, aventi fini o risultati diversi; ciò che sarebbe assai grave ed assolutamente da evitarsi.

LACONI non condivide le critiche dell’onorevole Fuschini e ritiene che il potere d’inchiesta debba essere riservato a ciascuna delle due Camere separatamente. È dell’avviso poi che il primo comma dell’articolo 36 debba essere così formulato:

«Ciascuna Camera, su proposta di almeno un terzo dei membri, può disporre un’inchiesta su materie di pubblico interesse».

NOBILE è favorevole al mantenimento dell’articolo in esame, com’è proposto.

MORTATI osserva, relativamente alla formula proposta dall’onorevole Laconi, come sia inesatto dire che ciascuna Camera debba essere costretta a disporre un’inchiesta soltanto su proposta di un dato numero dei suoi membri. Propone piuttosto che le inchieste su materie di pubblico interesse siano disposte con legge, da approvarsi in ciascuna delle due Camere da almeno un terzo dei propri membri.

TARGETTI non è d’accordo con l’onorevole Fuschini, perché la sua tesi è in contrasto con lo stato di fatto, per cui il Parlamento può sempre deliberare un’inchiesta, senza che per questo occorra una legge. Gli sembra invece che abbia particolare importanza il capoverso dell’articolo che determina i poteri della Commissione d’inchiesta.

TOSATO propone che nel primo comma, alle parole: «su materie di pubblico interesse», siano sostituite le seguenti: «sulle pubbliche amministrazioni».

PRESIDENTE è contrario alla proposta dell’onorevole Tosato, perché il Parlamento in qualche caso può anche sentire la necessità di promuovere un’inchiesta su una privata amministrazione.

TOSATO osserva che per le inchieste sulle amministrazioni private si può sempre provvedere con un’apposita legge.

BOZZI fa presente che, se si stabilisce la possibilità per le due Camere di promuovere un’inchiesta soltanto sulle pubbliche amministrazioni, si potrebbe ritenere che le Camere fossero private d’ogni facoltà d’inchiesta sulle private amministrazioni. Se si vuole il contrario, occorrerebbe dirlo espressamente.

TOSATO ritiene che all’emendamento già da lui proposto, in considerazione dei rilievi fatti dall’onorevole Bozzi, potrebbe essere aggiunta la seguente disposizione: «Le Camere possono disporre, mediante legge, un’inchiesta anche sulle private amministrazioni».

NOBILE è contrario alla proposta dell’onorevole Tosato.

PRESIDENTE non ritiene che la tutela doverosa del potere di controllo delle minoranze debba essere spinta sino al punto di concedere alle minoranze stesse la possibilità di creare un turbamento continuo nell’opera svolta dal Governo. Per lo più sarà l’opposizione, infatti, a richiedere nelle Camere inchieste su pubbliche amministrazioni; il che sarebbe assai facile ad ottenersi, se ciascuna delle due Camere potesse promuovere inchieste con deliberazione di almeno un terzo dei propri membri, in quanto facilmente può accadere che l’opposizione raggiunga almeno un terzo dell’uno o dell’altro ramo del Parlamento.

In ogni modo, poiché sono stati presentati vari emendamenti all’articolo in esame, mette prima in votazione quello dell’onorevole Fuschini, secondo cui le inchieste su materia di pubblico interesse dovrebbero essere deliberate con legge.

(Non è approvato).

Mette in votazione l’emendamento dell’onorevole Mortati, secondo cui le inchieste su materie di pubblico interesse dovrebbero essere disposte con legge da approvarsi in ciascuna delle due Camere da almeno un terzo dei propri membri.

(Non è approvato).

Mette in votazione l’emendamento dell’onorevole Tosato, consistente nella sostituzione delle parole: «sulle pubbliche amministrazioni» alle parole: «su materie di pubblico interesse» poste alla fine del primo comma dell’articolo in esame.

(Non è approvato).

LA ROCCA propone di sostituire al primo comma dell’articolo in esame un altro così concepito:

«Ciascuna Camera con propria deliberazione può disporre un’inchiesta su materie di pubblico interesse».

AMBROSINI osserva che, con la formula proposta dall’onorevole La Rocca, non si garantisce il potere di controllo alle minoranze. Sarebbe meglio pertanto lasciare l’articolo 36 immutato.

BULLONI domanda, data la gravità che di solito può avere una inchiesta su materia di pubblico interesse, se non sia il caso di riservare l’iniziativa delle inchieste all’Assemblea Nazionale.

PRESIDENTE fa presente che è stato respinto il principio di deliberare le inchieste con legge. Si è adottato quindi implicitamente il criterio che, per promuovere un’inchiesta, non occorra il concorso di ambedue le Camere, ma sia sufficiente l’iniziativa di ciascun ramo del Parlamento disgiuntamente. È da ritenere quindi che la proposta dell’onorevole Bulloni, in quanto mira a stabilire che le inchieste debbano essere promosse da ambedue le Camere riunite insieme, cioè dall’Assemblea Nazionale, non possa essere accolta dalla Sottocommissione. La questione che ora si può fare è soltanto quella di sapere se ciascuna Camera, per promuovere un’inchiesta, abbia bisogno di una deliberazione votata a maggioranza semplice, come ha proposto l’onorevole La Rocca, o a maggioranza qualificata, o da almeno un terzo dei membri, secondo quanto è previsto nel primo comma dell’articolo in esame.

EINAUDI ricorda che l’inchiesta sulla Banca Romana, una delle più importanti nella storia politica del nostro Paese, fu deliberata soltanto dalla Camera dei Deputati.

PRESIDENTE mette in votazione la proposta, fatta dall’onorevole La Rocca, di sostituire al primo comma dell’articolo in esame un altro così concepito:

«Ciascuna Camera con propria deliberazione può disporre un’inchiesta su materia di pubblico interesse».

(È approvato).

Mette in votazione il secondo comma dell’articolo 36.

(È approvato).

Pone in discussione l’articolo 37:

«Le Camere approvano ogni anno il bilancio presentato dal Governo.

«Con la legge di approvazione non si potranno stabilire nuovi tributi e nuove spese.

«L’esercizio provvisorio non può essere concesso se non per legge, e per un periodo non eccedente i quattro mesi».

Ne mette in votazione il primo comma.

(È approvato).

Propone che, nel secondo comma, il termine di quattro mesi sia ridotto a tre.

BOZZI fa presente che nel testo originario dell’articolo 37 aveva proposto un termine di tre mesi; ma l’onorevole Vanoni gli fece osservare che tale termine era troppo breve: anzi egli consigliava il termine che avesse una durata superiore ai quattro mesi.

MORTATI propone che al secondo comma siano incluse, tra le parole: «se non» e la parola: «per», le parole: «una sola volta» e dopo la parola: «legge» siano aggiunte le seguenti: «approvata dal Parlamento».

PRESIDENTE mette ai voti il testo del secondo comma che, con le proposte dell’onorevole Mortati, è così formulato:

«L’esercizio provvisorio non può essere concesso se non una sola volta, per legge approvata dal Parlamento, e per un periodo non eccedente i quattro mesi».

(È approvato).

Avverte che all’articolo 37 è stato proposto di aggiungere il seguente comma:

«Le Camere approvano ogni anno con legge il rendiconto generale».

Lo mette in votazione.

(È approvato).

Invita la Sottocommissione ad esaminare l’articolo 31 che era rimasto in sospeso. Il testo di tale articolo nel progetto in discussione era il seguente:

«I progetti approvati dalle due Camere diventano legge e devono essere promulgati nel termine di un mese dall’approvazione intervenuta per ultimo, per opera del Capo dello Stato, a meno che questi non faccia uso della facoltà di cui al successivo articolo e altresì all’infuori del caso in cui vi sia una iniziativa popolare per la sottoposizione a referendum della legge approvata.

«Nel caso che le due Camere abbiano dichiarato l’urgenza della legge, questa deve essere promulgata nel termine da essa stabilito, salvo che non si faccia uso della facoltà di cui al precedente comma».

Avverte che l’onorevole Mortati ha proposto il seguente testo sostitutivo:

«I progetti divengono legge quando siano stati approvati dalle due Camere, e devono essere promulgati dal Capo dello Stato non oltre un mese dall’approvazione.

«Ove le Camere abbiano dichiarato l’urgenza della legge, questa dovrà venire promulgata nel termine fissato dalla medesima.

«Nei termini predetti il Capo dello Stato potrà, con messaggio motivato, richiedere che le Camere procedano a una nuova deliberazione della legge già approvata.

«Ove le Camere confermino la precedente deliberazione, la legge dovrà essere promulgata ai sensi del primo comma.

«La promulgazione viene sospesa, ove entro i termini predetti si sia indetto un referendum popolare sulla legge, ad iniziativa o del Capo dello Stato o della aliquota degli elettori di cui all’articolo …».

Avverte pure che al terzo comma del testo sostitutivo dell’articolo 31 proposto dall’onorevole Mortati, l’onorevole Mortati stesso propone la seguente variante:

«Le Camere dovranno provvedere ad una nuova deliberazione della legge già approvata, ove il Capo dello Stato ne faccia richiesta con messaggio motivato entro i termini di cui al primo comma».

BOZZI ricorda che quando si approvò l’articolo 24, secondo cui il potere legislativo è esercitato collettivamente dalle due Camere, fu escluso dal processo formativo della legge il Capo dello Stato, mentre, a norma del vecchio Statuto, il re partecipava alla formazione delle leggi con la sanzione. Ora si tratta di vedere se il Capo dello Stato, a cui è stata vietata ogni partecipazione al processo formativo delle leggi, possa avere qualche potere esterno rispetto alle leggi già approvate dalle due Camere. Da questo punto di vista la formula proposta dall’onorevole Mortati gli sembra opportuna, perché il Capo dello Stato rappresenta la volontà del Paese che lo ha eletto: a lui quindi bisogna ricorrere nei momenti in cui può verificarsi una discordanza tra la volontà del Paese e quella delle due Camere. In tal caso il Capo dello Stato, secondo la formula proposta dall’onorevole Mortati, dovrebbe appunto, con messaggio motivato, richiedere che le Camere procedano a una nuova deliberazione della legge già approvata. Il Parlamento non sarebbe privato delle sue attribuzioni, perché potrebbe sempre confermare la precedente deliberazione. È da osservare soltanto che sarebbe opportuno richiedere una maggioranza qualificata per procedere alla nuova deliberazione della legge già approvata.

MORTATI dichiara che, nella formulazione da lui proposta dell’articolo in esame, si è richiamato al principio, già approvato dalla Commissione, che la forma di Governo dovesse basarsi sul sistema parlamentare, pur circondando tale sistema di opportuni congegni per assicurare la stabilità del Governo. Ammesso quindi tale principio, si trattava di scegliere fra i vari tipi di sistema parlamentare quello che fosse più idoneo a soddisfare le esigenze di una stabilità governativa. L’articolo da lui proposto mira appunto a raggiungere tale scopo. Avverte però che le norme in esso contenute dovrebbero essere esaminate tenendo presenti non solo le disposizioni dell’articolo 38 del progetto in discussione, ma anche quelle relative al potere esecutivo, per avere una visione più ampia del problema. Dalla maggioranza dei componenti il Comitato, per assicurare una certa stabilità al Governo, è stato proposto che esso possa rimanere in carica, anche se singole leggi non siano approvate dalle Camere, e che per la caduta del Governo occorra una espressa deliberazione di sfiducia approvata a maggioranza qualificata. La sua proposta in seno al Comitato si riannodava a quella prospettata dal Comitato stesso, ma con questa particolarità, diretta ad assicurare una maggiore stabilità al Governo, di stabilire che, una volta accordata la fiducia espressa al Governo, questa non potesse essere revocata, se non trascorso un certo termine. In ogni modo per delineare un sistema parlamentare che non coincidesse più con quello, così detto assembleare, in cui il Parlamento ha la piena potestà di far cadere il Governo in caso di dissenso anche per una sola legge, è stato predisposto l’articolo in esame, con cui si prevede la possibilità che il Governo, e per esso il Capo dello Stato, chieda al Parlamento il riesame di una legge già approvata dal Parlamento stesso.

Qui sorge il quesito se si debba richiedere, oppure no, una maggioranza qualificata, affinché le Camere possano procedere ad una nuova deliberazione della legge già da esse approvata. A tale proposta ha preferito proporre il criterio che la nuova deliberazione debba essere approvata a maggioranza pura e semplice, perché, a suo parere, se fosse richiesta una maggioranza qualificata, si darebbe al Governo, e quindi per esso al Capo dello Stato, un’influenza eccessiva nei confronti del Parlamento: si imporrebbe difatti al Parlamento di manifestare la propria volontà in un modo straordinario.

Ha creduto poi opportuno proporre un altro principio secondo cui, ove le Camere confermassero la loro precedente deliberazione, potrebbe essere indetto un referendum popolare sulla legge ad iniziativa o del Capo dello Stato, o di una data aliquota di elettori. A suo avviso, il criterio di autorizzare il Governo a richiedere l’appello al popolo, risponde al sistema parlamentare non assembleare che si vuole adottare.

È stato anche accennato all’ipotesi di addivenire allo scioglimento delle Camere in caso di dissenso tra esse e il Governo a proposito di una singola legge. A tale riguardo è sorta anche la questione se lo scioglimento debba essere richiesto per tutte e due le Camere o per una sola. Ma tale questione, secondo lui, si riferisce più che altro all’articolo 38, in cui si prevede l’eventualità di un dissenso fra le due Camere. Qui invece l’una e l’altra Camera verrebbero ad essere in contrasto con il Governo e, pertanto, se dovesse essere adottato il principio dello scioglimento delle Camere in caso di dissenso con il Governo a proposito di una singola legge, ambedue le Camere dovrebbero essere sciolte.

Un’altra questione riguarda gli effetti della mancata promulgazione entro il termine all’uopo previsto. Secondo la formula proposta, il Capo dello Stato ha l’obbligo della promulgazione. Si può domandare tuttavia cosa mai potrebbe accadere se egli non ottemperasse a tale obbligo. Non adottando alcuna speciale disposizione per tale ipotesi, si deve supporre, egli crede, che la legge entri egualmente in vigore nonostante la mancata promulgazione entro il termine stabilito. È stata da qualcuno prospettata l’opportunità che la legge non promulgata dal Capo dello Stato, entro il termine di un mese dalla sua approvazione, debba esserlo dal Presidente dell’Assemblea. Non ritiene però che ciò sia necessario, anche se l’entrata in vigore di una legge senza la promulgazione possa sembrare un’anomalia dal punto di vista giuridico formale.

V’è infine un’ultima questione, relativa al caso di urgenza. La Sottocommissione ha stabilito che le Camere possano dichiarare l’urgenza di una legge: in tal caso, nello stesso atto con cui si proclama l’urgenza, le Camere fissano anche il termine entro cui la legge dovrà essere promulgata. Si può domandare frattanto se, con la dichiarazione di urgenza debba essere, o no, eliminata la potestà sospensiva del Capo dello Stato, prevista nel testo dell’articolo sostitutivo da lui proposto. Questo quesito, a suo avviso, dovrebbe essere risolto in senso negativo, perché altrimenti basterebbe la dichiarazione di urgenza da parte delle Camere per eliminare il potere di intervento del Capo dello Stato.

LAMI STARNUTI ha qualche dubbio sulla convenienza politica di attribuire al Capo dello Stato la facoltà di richiedere che le Camere procedano ad una nuova deliberazione di una legge già da esse approvata, perché ritiene che il Capo dello Stato abbia altri modi per far sentire e valere la sua volontà: egli difatti può presiedere il Consiglio dei Ministri e, attraverso quest’organo, far giungere alle Camere l’espressione del suo pensiero in merito ad una legge a cui egli non sia del tutto favorevole. Il sistema proposto dall’onorevole Mortati, del riesame da parte delle Camere di una legge da esse già approvata, potrebbe inoltre creare un grave conflitto politico fra Governo e Parlamento; il che è opportuno sia evitato.

È poi decisamente contrario alla proposta, fatta dall’onorevole Bozzi, che debba essere prescritta una maggioranza qualificata, affinché le Camere possano procedere ad una nuova deliberazione di una legge già approvata. In tale caso è assurdo pensare che la nuova deliberazione possa essere approvata con un maggior numero di voti; anzi, l’intervento del Capo dello Stato logicamente dovrebbe essere causa di una diminuzione della maggioranza con cui una data legge venne approvata la prima volta. In ogni modo, se la proposta dell’onorevole Bozzi fosse accolta, si darebbe in sostanza al Capo dello Stato un potere di veto assolutamente inammissibile.

È del pari fermamente contrario ad attribuire al Capo dello Stato la facoltà di indire il referendum sulle leggi approvate dal Parlamento. A suo avviso, se si verifica un conflitto tra volontà popolare e Parlamento (eventualità che è stata prospettala per giustificare il principio del referendum ad iniziativa del Capo dello Stato), non v’è assolutamente bisogno dell’intervento di quest’ultimo, ma può bastare il referendum di iniziativa popolare. È del parere, quindi, che il Capo dello Stato debba essere posto al di sopra di certi conflitti, il che varrà a conferirgli maggiore prestigio e con ciò maggiore autorità.

GRIECO dichiara, da un punto di vista personale, di essere completamente d’accordo con l’onorevole Lami Starnuti. Pertanto è decisamente contrario alle disposizioni contenute nell’articolo proposto dall’onorevole Mortati, che riguardano l’istituto della sospensione della promulgazione d’una legge approvata dalle due Camere e quello del rinvio della legge, con messaggio motivato, da parte del Capo dello Stato alle Camere per un nuovo esame. È altresì fermamente contrario alla facoltà che, secondo l’articolo proposto dall’onorevole Mortati, dovrebbe essere concessa al Presidente della Repubblica di indire un referendum sulle leggi già approvate dalle Camere, e ciò perché uno dei principali elementi di stabilità del regime parlamentare è dato dal fatto che il Capo dello Stato rispetti la volontà del Parlamento. Per risolvere il conflitto tra volontà popolare e Parlamento (eventualità che è stata prospettata per giustificare l’intervento del Capo dello Stato nel processo di formazione delle leggi), sarebbe meglio ammettere la possibilità dello scioglimento delle Camere. L’iniziativa di indire il referendum, concessa al Capo dello Stato, significherebbe attribuzione di un eccessivo potere al Presidente della Repubblica; ciò che potrebbe essere assai pericoloso. Non può essere quindi favorevole che al referendum di iniziativa popolare, secondo quanto giustamente ha affermalo l’onorevole Lami Starnuti. Egli pensa che tale principio dovrebbe senz’altro essere ammesso, ma in modo chiaro, per evitare ogni dubbio, nel disposto dell’articolo in esame.

MORTATI fa notare che la facoltà che dovrebbe essere concessa al Capo dello Stato, di richiedere che le Camere procedano ad una nuova deliberazione di una legge già approvata, non sarebbe una facoltà di carattere personale: essa infatti sarebbe attribuita al Governo, che ha la fiducia della maggioranza del Parlamento. È per questo che si dispone che l’atto, con cui il Presidente della Repubblica richiede alle Camere il riesame di una legge già approvata, sia controfirmato dal Presidente del Consiglio, il quale si deve supporre goda della fiducia della maggioranza parlamentare.

PRESIDENTE non è troppo convinto della tesi testé prospettata dall’onorevole Mortati. Se essa fosse esatta, basterebbe dire semplicemente che il Presidente del Consiglio ha il potere di rinviare alle Camere una legge da esse già approvata, affinché venga riesaminata.

LA ROCCA è decisamente contrario alla proposta di attribuire al Capo dello Stato la facoltà di richiedere, con messaggio motivato, che le Camere procedano ad una nuova deliberazione di una legge già approvata. È egualmente contrario alla proposta secondo cui il Capo dello Stato avrebbe anche la facoltà di indire il referendum sulle leggi approvate dal Parlamento. Tali proposte, se fossero accolte, altererebbero le linee del sistema che la Sottocommissione sta elaborando. Il potere esecutivo non può essere concepito che come espressione della volontà della maggioranza. Ora, con l’accoglimento della proposta anzidetta, il Capo dello Stato verrebbe quasi ad avere gli stessi poteri del Presidente degli Stati Uniti. Non solo, ma se si facesse intervenire il Presidente della Repubblica nel processo di formazione delle leggi, si ritornerebbe in sostanza al vecchio Statuto Albertino, secondo cui il potere legislativo veniva esercitato dal Capo dello Stato e dalle due Camere. Attribuito, inoltre, un tale potere di intervento al Capo dello Stato, potrebbero assai facilmente sorgere gravi conflitti tra Governo e Parlamento, il che assolutamente bisogna evitare.

NOBILE dichiara che ogni disposizione che può servire a determinare la stabilità del Governo lo troverà sempre consenziente. Ciò considerato, osserva che, se si dà al Capo dello Stato una facoltà così grave come quella di sciogliere il Parlamento, si potrebbe anche concedergli la facoltà assai meno importante di richiedere che le Camere procedano a una nuova deliberazione di una legge già approvata.

Sarebbe bene poi stabilire il principio di richiedere una maggioranza qualificata, affinché le Camere possano procedere ad una nuova approvazione di una legge già da esse approvata, se non si ritiene opportuno di ammettere il referendum di iniziativa del Capo della Stato.

AMBROSINI osserva che, per risolvere la questione in esame, occorre soltanto domandarsi se sia opportuno, oppur no, che il Capo dello Stato possa richiedere alle Camere il riesame di una data legge. Secondo il suo avviso, a tale domanda sipuò senz’altro rispondere affermativamente, perché nella richiesta da parte del Governo che le Camere riesaminino una data legge egli assolutamente non riesce a vedere un atto di forza del potere esecutivo nei confronti del Parlamento. Può sempre darsi il caso che una legge sia approvata affrettatamente o sotto l’influenza di fattori contingenti, per cui può sorgere la necessità di ritornare su decisioni prese. In simile eventualità, si tratta di trovare un modo per assicurare un più approfondito esame di una legge già approvata; ma il potere delle Camere resta inalterato. Ciò considerato, ritiene che le proposte formulate dall’onorevole Mortati possano essere approvate senza alcuna preoccupazione.

Riguardo soltanto alla questione del referendum di iniziativa del Capo dello Stato, si potrà vedere se non sia più opportuno esaminarla quando verranno in discussione le norme concernenti il funzionamento dello istituto del referendum, da un punto di vista generale.

TOSATO è favorevole alle proposte dell’onorevole Mortati, perché ritiene che esse si inquadrino perfettamente nel sistema di Governo che la Sottocommissione sta elaborando. Il riesame da parte delle Camere di una legge già da esse approvata può evitare perturbamenti pericolosi nella vita politica del Paese. Lo stesso si può dire per il referendum di iniziativa del Capo dello Stato, perché con tale mezzo si può evitare lo scioglimento delle Camere, che è un provvedimento assai più grave.

CAPPI propone che nel terzo comma dello articolo formulato dall’onorevole Mortati, in cui si dispone che il Capo dello Stato potrà, con messaggio motivato, richiedere che le Camere procedano ad una nuova deliberazione della legge già approvata, tra le parole: «Capo dello Stato» e le altre: «potrà con messaggio», siano incluse le seguenti: «su proposta del Capo del Governo». Ciò perché, a suo avviso, l’intervento del Capo dello Stato può essere ammesso soltanto quando esista un conflitto tra Camere e Governo, e non già quando possa verificarsi un contrasto tra le Camere e il Capo dello Stato.

È contrario poi al referendum di iniziativa del Capo dello Stato, perché è del parere che il referendum non possa essere che di iniziativa popolare.

EINAUDI è favorevole al testo dell’articolo proposto dall’onorevole Mortati, perché non crede che possa sorgere un contrasto fra i poteri del Capo dello Stato e quelli del Parlamento.

Fa presente poi che nel corso della discussione è stato affermato che il messaggio del Capo dello Stato, da inviarsi alle Camere per la richiesta del riesame di una legge già approvata, debba essere controfirmato dal Capo del Governo. Con ciò si arriverebbe alla conseguenza di togliere al Capo dello Stato persino il diritto di mettersi in comunicazione con il Parlamento per manifestare ad esso la propria opinione. Si domanda come tale diritto possa essere negato al Capo dello Stato. Un messaggio è una lettera, ed è inammissibile che una lettera del Capo dello Stato debba essere controfirmata dal Capo del Governo. È da tener presente, inoltre, che può verificarsi il caso che sia il Capo del Governo a chiedere al Capo dello Stato l’invio del messaggio e che questi, per una qualsiasi ragione, non sia dello stesso avviso del Capo del Governo. Ora, se il Capo dello Stato deve firmare il messaggio predisposto dal Capo del Governo, non si avrebbe più un messaggio, ma un atto che non si saprebbe come denominare, perché non avrebbe riscontro nella pratica costituzionale.

FABBRI osserva che, una volta che si è credulo opportuno istituire una Repubblica democratica o parlamentare, non si può ammettere un conflitto tra Governo e Parlamento, perché ciò appunto contrasta con la logica di un governo democratico e parlamentare. Egli ritiene che il problema del riesame di una data legge abbia la sua completa risoluzione con l’adozione del sistema bicamerale. Inoltre, quando si è stabilito che il Capo dello Stato debba rimanere estraneo al processo di formazione delle leggi, ossia che non debba sanzionarlo, ma soltanto promulgarle, egli senz’altro deve ottemperare a tale obbligo, a meno che non avverta un insanabile conflitto. In tal caso è inutile pretendere di dare stabilità al Governo con la ricerca di espedienti più o meno complessi: l’unico mezzo consentito da un sistema veramente democratico o parlamentare resta allora quello di indire nuove elezioni. Relativamente poi al fatto che il messaggio del Capo dello Stato, di cui al terzo comma dell’articolo proposto dall’onorevole Mortati, debba essere controfirmato dal Capo del Governo, v’è da domandarsi come ciò possa conciliarsi con la disposizione secondo cui il Capo dello Stato ha il potere di nominare e revocare i ministri.

PRESIDENTE fa presente che, a suo avviso, la facoltà prevista per il Capo dello Stato nel terzo comma dell’articolo proposto dall’onorevole Mortati, dovrebbe essere ammessa in un solo caso, in quello cioè di una legge di iniziativa governativa. Pertanto, dovrebbe essere espressamente vietato al Capo dello Stato di richiedere alle Camere una nuova deliberazione di una legge di iniziativa parlamentare o popolare.

In ogni modo, accettando il principio che il Capo dello Stato possa avere facoltà di chiedere alle Camere il riesame di una legge già approvata, che sia soltanto di iniziativa del Governo, vorrebbe nello stesso tempo che il Capo dello Stato fosse in pieno investito della responsabilità di aver fatto ricorso alla facoltà anzidetta.

È contrario poi al referendum di iniziativa del Capo dello Stato. Non si è voluto che questi fosse eletto direttamente dal popolo, per non conferirgli un’autorità che in tal caso sarebbe stata veramente eccessiva. Ora, se fosse accolta la proposta dell’onorevole Mortati, relativamente alla possibilità di un referendum di iniziativa del Capo dello Stato, le attribuzioni del supremo rappresentante del potere esecutivo diverrebbero del tutto preponderanti su quelle demandate al Parlamento. Ciò considerato, può essere favorevole soltanto alla possibilità di un referendum di iniziativa popolare.

MORTATI osserva che, con il sistema predisposto, era stata prevista l’irresponsabilità del Capo dello Stato. Con l’eventuale accoglimento della proposta fatta dal Presidente, tutto il sistema finora elaborato sarebbe radicalmente mutato.

AMBROSINI fa presente che in regime parlamentare il Capo dello Stato è sempre irresponsabile. Occorre inoltre assicurare al Capo dello Stato una posizione stabile ed è per questo che egli, in altra occasione, dichiarò di essere contrario al sistema che fu adottato sotto la terza Repubblica francese, secondo cui si poteva costringere il Capo dello Stato a dimettersi dalla sua carica. Il Capo dello Stato, salvo casi specialissimi, deve restare al suo posto e non può essere responsabile dell’azione politica svolta dal Governo.

La seduta termina alle 13.30.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Cappi, Conti, Einaudi, Fabbri, Farini, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Mannironi, Mortati, Nobile, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti.

Assenti: Bordon, Calamandrei, Cannizzo, Castiglia, Codacci Pisanelli, De Michele, Di Giovanni, Leone Giovanni, Lussu, Perassi, Piccioni, Porzio, Vanoni, Zuccarini.

VENERDÌ 20 DICEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

75.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI VENERDÌ 20 DICEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Coordinamento degli articoli sul potere legislativo (Seguito della discussione)

Presidente – Grieco – Fabbri – Tosato – Ambrosini – Bozzi – Laconi – Nobile – Lussu – Mortati, Relatore – Fuschini – La Rocca – Rossi Paolo – Uberti – Cappi – Mannironi – Targetti – Bulloni.

La seduta comincia alle 17.45.

Seguito della discussione sul coordinamento degli articoli sul potere legislativo.

PRESIDENTE dà lettura dell’articolo 14:

«I membri del Parlamento ricevono un’indennità fissata dalla legge, affinché sia loro consentito, con la garanzia dell’indipendenza economica, il doveroso adempimento di mandato».

Avverte che vi è la proposta di un emendamento soppressivo, che riduce il testo ai seguenti termini:

«I membri del Parlamento ricevono un’indennità fissata dalla legge».

Lo pone in votazione.

(È approvato).

Pone in votazione l’articolo 15:

«Ciascuna Camera è sola competente a giudicare dei titoli di ammissione dei propri membri».

(È approvato).

Pone in discussione l’articolo 16:

«Le due Camere si riuniscono di diritto e senza uopo di convocazione il primo giorno non festivo dei mesi di marzo e di ottobre di ogni anno.

«Ciascuna Camera è convocata altresì dal suo Presidente per iniziativa di questo o su richiesta motivata del Presidente della Repubblica o di almeno un terzo dei suoi membri. In questo caso anche l’altra Camera è convocata dal suo Presidente, quando ciò sia richiesto dalla maggioranza della prima».

Avverte che al primo comma si è proposto di sostituire il mese di «febbraio» a quello di «marzo», affinché alle due Camere sia lasciato il tempo necessario per esaminare i bilanci.

Mette ai voti questo emendamento.

(È approvato).

GRIECO propone di sopprimere le parole «senza uopo di convocazione».

PRESIDENTE sopprimerebbe anche le parole «di ogni anno», in quanto il concetto è implicito; e mette ai voti il primo comma dell’articolo così formulato:

«Le due Camere si riuniscono di diritto il primo giorno non festivo dei mesi di febbraio e di ottobre».

(È approvato).

Pone in discussione la prima, parte del 2° comma:

«Ciascuna Camera è convocata altresì dal suo Presidente por iniziativa di questo, su richiesta motivata del Presidente della Repubblica o di almeno un terzo dei suoi membri».

Invece che «è convocata», direbbe «può essere convocata». Spiega che il termine «può», non si riferisce alla facoltà di convocare o meno le Camere, ma è usato per indicare che non trattasi di una convocazione normale. Gli sembrerebbe anche inutile dire che è «convocata dal suo Presidente», perché la convocazione è sempre fatta dal Presidente. Si domanda, infine, perché la richiesta di un terzo dei membri non debba essere egualmente motivata. Direbbe perciò:

«Ciascuna Camera può altresì riunirsi per iniziativa del suo Presidente o per richiesta motivata di un terzo dei suoi membri o del Presidente della Repubblica».

FABBRI teme che in tal modo il verbo «può» potrebbe essere inteso nel senso che le due Camere potrebbero anche trascurare di tener conto della richiesta motivata dal Presidente della Repubblica o del terzo dei membri.

PRESIDENTE propone allora la formula:

«Ciascuna Camera si riunisce altresì per iniziativa del suo Presidente o su richiesta motivata del Presidente della Repubblica o di almeno un terzo dei suoi membri».

TOSATO osserva che di motivazione si era parlato solo per la richiesta di un terzo dei membri della Camera.

AMBROSINI propone la seguente formulazione:

«Ciascuna Camera è convocata altresì su richiesta di un terzo dei suoi membri o su richiesta motivata del Presidente della Repubblica».

A suo avviso, un terzo dei membri della Camera costituisce già un numero così rilevante da giustificare pienamente la richiesta di convocazione.

PRESIDENTE concorda in questo avviso, anche perché nella mozione, che verrà firmata da un terzo dei membri della Camera, sarà indubbiamente specificato il motivo per cui si richiede la convocazione.

FABBRI ricorda che il termine «motivata» era stato posto specialmente per dar modo all’altra Camera di poter considerare la questione e, se riconosciutala importante, decidere sull’opportunità o meno di convocarsi a sua volta.

PRESIDENTE pone ai voti il concetto di richiedere la motivazione per la richiesta del Presidente della Repubblica.

(È approvato).

Pone ai voti il concetto che anche la richiesta da parte di un terzo dei membri dell’Assemblea debba essere motivata.

(È approvato).

BOZZI proponeva seguente formulazione:

«Le due Camere si riuniscono altresì per iniziativa del Presidente, o su richiesta motivata del Presidente della Repubblica o di un terzo dei membri di una di esse».

PRESIDENTE teme che con questa formula si potrebbe intendere che uno dei due Presidenti convoca la propria Camera, senza che l’altra sia tenuta a procedere nello stesso modo.

BOZZI, se la sua formula non sembra chiara, la ritira.

PRESIDENTE mette ai voti la prima parte del 2° comma così formulata:

«Ciascuna Camera si riunisce altresì per iniziativa del suo Presidente o su richiesta motivata di almeno un terzo dei suoi membri o del Presidente della Repubblica».

(È approvata).

Pone quindi in discussione la seconda parte del 2° comma:

«In questo caso anche l’altra Camera è convocata dal suo Presidente, quando ciò sia richiesto dalla maggioranza della prima».

Fa presente che sono stati proposti tre emendamenti sostitutivi:

1°) «Anche in questo caso la riunione delle due Camere è contemporanea»;

2°) «In questo caso l’altra Camera è convocata contemporaneamente dal suo Presidente;

3°) «In questo caso è convocata di diritto anche l’altra Camera».

Rileva che tutti questi emendamenti stabiliscono la contemporaneità della riunione delle due Camere, mentre nel testo dell’articolo si faceva dipendere la convocazione dell’altra Camera dalla richiesta della maggioranza della prima.

BOZZI si dichiara favorevole ad adottare uno dei tre emendamenti sostitutivi che hanno tutti lo stesso valore: dovendo esprimere una preferenza, sceglierebbe però l’ultimo. Ricorda l’ampia discussione svoltasi al riguardo ed afferma che, approvato il principio della bicameralità, quando sia stata convocata una Camera, deve necessariamente funzionare anche l’altra. Ammettere che una delle due Camere possa essere convocata per una richiesta dell’altra significa, a suo giudizio, porla in una posizione di subordinazione, col che si ferisce il principio della bicameralità. Se chi ne ha l’iniziativa ritenga che una delle due Camere debba essere convocata perché vi è motivo di mettere in moto il potere legislativo, deve intendersi automaticamente convocata anche l’altra, senza che questa convocazione sia lasciata alla discrezionalità della Camera che si è convocata per prima.

PRESIDENTE, su richiesta dell’onorevole Mortati, mette in votazione il principio della contemporaneità della riunione delle due Camere.

(È approvato).

LACONI rileva che, una volta approvata la contemporaneità di convocazione delle due Camere, è ovvio che entrambe debbano essere investite dello stesso problema: ritiene che sia, quindi, opportuno stabilire, per non costituire un’anomalia, che la richiesta di convocazione venga rivolta ad entrambe le Camere.

NOBILE prospetta il caso che una sola Camera debba riunirsi, o per affari interni d’urgenza, o per votare d’urgenza un progetto già approvato dall’altra Camera e rimasto non perfezionato. Non è d’accordo, quindi, sulla automaticità della convocazione di entrambe le Camere: ritiene ad ogni modo che la questione dovrebbe essere approfondita e non possa essere decisa con una discussione affrettata.

GRIECO fa osservare all’onorevole Nobile che non è possibile che le due Camere non siano convocate insieme: se una Camera discute, anche l’altra deve sedere.

PRESIDENTE osserva all’onorevole Nobile che, per affari interni d’urgenza, una Camera si può riunire in Comitato segreto.

FABBRI è dell’avviso che dovrebbe trovarsi un’espressione la quale dicesse che le due Camere si riuniscono simultaneamente.

PRESIDENTE crede che la formula più appropriata possa essere quella del terzo emendamento, cioè:

«In questo caso è convocata di diritto anche l’altra Camera».

Con le parole «in questo caso», si vuole intendere che la convocazione della seconda Camera è la conseguenza della convocazione della prima.

Pone ai voti questa formula.

(È approvata).

Fa notare che, con gli emendamenti introdottivi, l’articolo 16 resta così definitivamente formulato:

«Le due Camere si riuniscono di diritto il primo giorno non festivo dei mesi di febbraio e di ottobre».

«Ciascuna Camera si riunisce altresì per iniziativa del suo Presidente o su richiesta motivata di almeno un terzo dei suoi membri o del Presidente della Repubblica.

«In questo caso è convocata di diritto anche l’altra Camera».

Pone in discussione l’articolo 17:

«Le deliberazioni di ciascuna Camera non sono valide, se non sia presente la maggioranza assoluta dei suoi membri e se non siano adottate alla maggioranza dei voti, salvo che la Costituzione non prescriva una maggioranza speciale».

NOBILE propone che, invece di dire: «salvo che», si dica: «salvo i casi in cui».

LACONI riterrebbe migliore una formula affermativa, cioè:

«Le deliberazioni di ciascuna Camera sono valide soltanto se sia presente la maggioranza assoluta dei suoi membri e siano adottate alla maggioranza dei voti».

PRESIDENTE osserva che si è voluto, con la formula proposta, sottolineare la non validità delle deliberazioni.

LUSSU ritiene che l’articolo 17 debba finire con le parole «la maggioranza assoluta dei suoi membri» e che tutto il resto sia pleonastico, perché è chiaro che le deliberazioni debbano essere prese a maggioranza di voti, e quindi è inutile dire che la Costituzione può richiedere in taluni casi delle maggioranze speciali.

LACONI ricorda che è stato sollevato questo problema nella 2a Sezione, la quale esamina l’ordinamento giudiziario, e che si è discussa l’eventualità di introdurre una particolare cautela e di prescrivere in quali casi si deve richiedere una maggioranza speciale. Ritiene perciò che sia meglio lasciare in sospeso questa questione, per affrontarla in sede di coordinamento generale.

PRESIDENTE ritiene probabile che vi siano numerosi casi in cui sarà necessario richiedere una maggioranza qualificata; ma appunto per questo motivo non vede la ragione di sospendere la decisione sull’articolo 17.

Non ritiene poi affatto pleonastica l’ultima parte: «salvo che la Costituzione non prescriva una maggioranza speciale». Forse si potrebbe ritenere pleonastica la dizione: «se non siano adottate alla maggioranza dei voti».

MORTATI, Relatore, osserva che l’emendamento Lussu non ha ragion d’essere, in quanto con le parole che egli vorrebbe sopprimere si vuole proprio richiedere la maggioranza dei voti, escludendo qualunque proporzione con i presenti.

LUSSU, dopo le spiegazioni dell’onorevole Mortati, ritira il suo emendamento.

LACONI ritiene che le frasi relative alle maggioranze siano state fuse impropriamente, perché è evidente che le proposte, se non sono approvate a maggioranza, sono respinte.

FABBRI rileva che in alcuni casi, come ad esempio nelle elezioni per le cariche, si possono presentare soluzioni triplici o quadruplici, ed allora è necessaria la maggioranza assoluta. Nota pure che le astensioni tolgono valore alla maggioranza assoluta. Osserva infine che nelle Assemblee occorre un certo numero di presenti e che una proposta, se non riporta la metà più uno dei voti dei presenti, non è approvata; a meno che non vi sia una disposizione che ammetta una maggioranza inferiore.

PRESIDENTE osserva all’onorevole Fabbri che nel caso di elezioni per le cariche non si tratta di deliberazioni vere e proprie. Quanto alle astensioni, fa presente che in molte deliberazioni di questa Sottocommissione gli astenuti sono stati in numero superiore ai votanti e che, nonostante ciò, si è ritenuto di adottare le proposte che avevano ottenuto il maggior numero dei voti senza considerare le astensioni. Ad ogni modo rileva che qui si parla di maggioranza dei voti, il che vuol dire che gli astenuti sono tenuti in conto. La questione dei presenti non ha alcuna relazione con la votazione.

Mette pertanto in votazione l’articolo 17 con l’emendamento proposto dall’onorevole Nobile:

«Le deliberazioni di ciascuna Camera non sono valide, se non sia presente la maggioranza assoluta dei suoi membri e se non siano adottate alla maggioranza dei voti, salvo i casi nei quali la Costituzione non prescriva una maggioranza speciale».

(È approvato).

Pone in votazione l’articolo 18:

«Ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi membri».

(È approvato).

Comunica che a questo articolo è stato proposto un emendamento aggiuntivo:

«Nel regolamento sarà prevista la possibilità di procedimenti abbreviati per l’esame e la deliberazione di leggi alle quali sia riconosciuto il carattere d’urgenza».

FABBRI fa notare che con questo emendamento si propone in sostanza una modificazione dell’articolo 29.

MORTATI, Relatore, ricorda che in sede di articolo 29 si discusse lungamente, e si finì per essere d’accordo che si trattava di una procedura diversa, che si potrebbe chiamare decentrata piuttosto che abbreviata, perché, venendo essa trasferita dall’Assemblea plenaria ad una Commissione, potrebbe durare anche un tempo più lungo di quello che sarebbe durata se ne fosse rimasta investita l’Assemblea. Nell’articolo 18 si tratta, invece, di procedura abbreviata, perché, secondo il regolamento, i Relatori potrebbero essere tenuti a riferire in termine brevissimo e soltanto un rappresentante per ogni gruppo parlamentare potrebbe essere ammesso a prendere la parola.

Aggiunge che si è ritenuto opportuno mettere questa disposizione nella Costituzione, appunto per limitare la discrezionalità del regolamento della Camera, nello stabilire tale procedura abbreviata, soltanto ai casi di riconosciuta urgenza. Pertanto, ritiene che questa disposizione non possa essere confusa con quella dell’articolo 29, che costituisce un caso completamente diverso.

FABBRI non è convinto dall’obiezione dell’onorevole Mortati; tuttavia, se la Commissione desidera adottare questa disposizione, non vi si oppone.

PRESIDENTE chiarisce che la seconda parte dell’articolo 29 permette appunto l’adozione dell’emendamento in esame, in quanto esclude la possibilità del procedimento previsto nel 1° comma dello stesso articolo 29 per i casi di approvazione dei bilanci e di ratifica dei trattati internazionali.

BOZZI concorda con l’opinione espressa dall’onorevole Mortati. In realtà nell’articolo 29 si prevede una procedura di decentramento, che può pure considerarsi abbreviata, in quanto il Parlamento si spoglia delle sue attribuzioni normali affidandole ad una Commissione, e con ciò praticamente abbrevia anche la procedura. Quello che invece prevede l’articolo 18 è un’altra cosa, in quanto non v’è delega ad alcuna Commissione: è il Parlamento stesso che esamina certi provvedimenti, ma questo esame dev’essere compiuto in termini abbreviati. L’emendamento in parola prevede perciò una vera e propria procedura abbreviata per l’Assemblea, indipendentemente dal decentramento previsto nell’articolo 29. Nell’ipotesi che questo emendamento sia approvato, ritiene che la sua collocazione più opportuna potrebbe essere alla fine dell’articolo 29.

NOBILE ritiene indispensabile l’emendamento proposto dall’onorevole Mortati: crede però che alle parole: «alle quali sia riconosciuto carattere d’urgenza» debbano essere sostituite le altre: «per le quali si sia dichiarato il carattere di urgenza». In questo modo sarebbe il Governo ad indicare il carattere d’urgenza di certi provvedimenti.

FABBRI osserva che l’articolo 28 stabilisce una norma di carattere generale, cioè che ogni disegno di legge deve essere preventivamente esaminato da una commissione di ciascuna Camera, secondo le norme del regolamento: a questo seguiva l’articolo 29 che indicava una procedura, a suo parere, abbreviata. Ora che è stato proposto questo emendamento, teme si possa creare confusione, perché non si sa se la procedura da esso prevista debba prescindere da quella stabilita dagli articoli 28 e 29. Pensa che questo emendamento debba essere collocato in luogo diverso dall’articolo 18.

MORTATI, Relatore, ritiene che l’emendamento in esame non prescinda dalla procedura prevista in altri articoli.

LUSSU propone che, invece di dire: «sarà prevista la possibilità di procedimenti abbreviati», si dica: «saranno previsti procedimenti abbreviati».

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento aggiuntivo, così modificato secondo la proposta dell’onorevole Lussu:

«Nel regolamento saranno previsti procedimenti abbreviati per l’esame e la deliberazione di leggi alle quali sia riconosciuto carattere d’urgenza».

(È approvato).

Pone in votazione l’articolo 19:

«Ciascuna Camera elegge, nel proprio seno, il Presidente e l’Ufficio di Presidenza».

(È approvato).

Pone in discussione l’articolo 20:

«Le sedute della Camera sono pubbliche. Tuttavia, con l’approvazione dei due terzi dei membri presenti, potranno essere segrete».

LACONI rileva che in questo caso si richiede una maggioranza speciale. Ritiene che la maggioranza qualificata debba essere sempre la medesima. Ricorda che nella seconda Sezione si fu d’accordo nel concetto di una maggioranza intermedia tra quella assoluta e quella qualificata, cioè tra quella prevista per leggi normali e quella prevista per leggi costituzionali; e che una siffatta maggioranza fu considerata come se dovesse diventare il tipo unico di votazione a carattere intermedio.

FUSCHINI riconosce la necessità in cui talvolta si trova il Governo di chiedere una seduta segreta all’Assemblea, ma non ritiene che per tale decisione vi sia bisogno di una maggioranza così cospicua come quella dei due terzi dei presenti.

NOBILE, per andare incontro all’onorevole Fuschini, crede si potrebbe aggiungere: «e su richiesta del Presidente della Repubblica».

AMBROSINI ricorda che veramente era stato proposto di richiedere una maggioranza qualificata, e che egli fece osservare esser necessario precisare quale deve essere questa maggioranza qualificata; onde si finì per adottare il criterio della maggioranza assoluta dei componenti dell’Assemblea e quindi la metà più uno.

PRESIDENTE ritiene che la maggioranza richiesta debba essere proporzionata all’importanza della questione. Osserva all’onorevole Fuschini che quando il Governo si trova nella necessità di richiedere una seduta segreta, il motivo sarà a tutti noto. Ad ogni modo pone in votazione il principio che occorra una maggioranza qualificata per tenere le sedute segrete.

(Non è approvato).

NOBILE proporrebbe di dire che le Camere «in via eccezionale» possono deliberare di tenere seduta segreta.

FABBRI osserva che, con tale sistema, la maggioranza può eliminare l’esigenza della minoranza di discutere pubblicamente un determinato problema.

LA ROCCA propone che il secondo comma sia così formulato: «tuttavia le Camere possono riunirsi in seduta segreta».

PRESIDENTE correggerebbe la formulazione così: «Tuttavia le Camere possono deliberare di riunirsi in Comitato segreto». Mette ai voti l’articolo 20 così formulato:

«Le sedute della Camera sono pubbliche. Tuttavia le Camere possono deliberare di riunirsi in Comitato segreto».

(È approvato).

Pone in votazione l’articolo 21:

«Le votazioni si fanno per alzata e seduta, per divisione, per scrutinio segreto e per appello nominale».

(È approvato).

Apre la discussione sull’articolo 22:

«Il numero dei membri da eleggere per ciascuna Camera è stabilito con legge dopo ogni censimento generale della popolazione».

Non comprende l’utilità di questo articolo, perché crede ovvio il riferimento al censimento generale. A suo avviso, sarebbe sufficiente richiamarsi all’art. 2; e ad ogni modo ritiene che questa sia materia di legge elettorale.

MORTATI, Relatore, non crede superfluo il riferimento al censimento, perché ci si potrebbe riferire ad altre rilevazioni statistiche che non sono quelle del censimento generale della popolazione.

NOBILE ritiene anch’egli necessaria la disposizione che sancisce l’obbligo di riferirsi al censimento ufficiale, perché con questo potrebbero non concordare altri dati statistici e sarebbero possibili incertezze sul numero dei deputati da assegnare alle Regioni in base all’articolo 2.

FUSCHINI ricorda che anche le elezioni per il Senato si devono riferire al censimento.

PRESIDENTE mette ai voti l’articolo 22.

(È approvato).

Pone in discussione l’articolo 23:

«I membri del Governo hanno sempre ingresso alle Camere anche se non ne facciano parte, e debbono essere sentiti quando lo richiedano».

Fa notare che questo articolo è stato aggiunto dal Comitato di coordinamento.

GRIECO osserva che il concetto che si vuole sottolineare è quello che i membri del Governo che non sono deputati hanno sempre ingresso alle Camere durante l’esercizio delle loro funzioni. Ma gli sembra implicito che il Governo, il quale è espressione delle due Camere, debba essere sentito.

PRESIDENTE rileva che la disposizione in esame ha stretta attinenza col potere esecutivo; e fa notare anche un altro concetto importante che ne deriva, cioè che si può essere membri del Governo anche senza essere membri delle Camere.

MORTATI, Relatore, ricorda che l’articolo 66 dello Statuto Albertino stabiliva che «i Ministri non hanno voto deliberativo nell’una o nell’altra Camera, se non quando ne sono membri. Essi vi hanno sempre l’ingresso e debbono essere sentiti sempre che lo riechieggano»; e fa presente che nel progetto è stata abolita la prima parte ritenuta superflua, perché è evidente che non possa avere voto deliberativo se non chi fa parte di quella Camera.

ROSSI PAOLO propone la soppressione dell’avverbio «sempre», che ritiene inutile.

PRESIDENTE pone ai voti l’articolo 23 con la modificazione proposta dall’onorevole Rossi.

(È approvato).

Apre la discussione sull’articolo 24:

«Il potere legislativo è collettivamente esercitato dalle due Camere».

GRIECO domanda come debba interpretarsi l’avverbio «collettivamente».

PRESIDENTE risponde che, a suo avviso, significa che non vi può essere una legge valida se non è approvata da ambedue le Camere.

TOSATO, riferendosi alla concessione dell’amnistia da parte dell’Assemblea nazionale, crede sarebbe opportuno aggiungere alla fine dell’articolo le parole: «e, nei casi previsti dalla Costituzione, dall’Assemblea nazionale».

PRESIDENTE dichiara che ciò potrà stabilirsi quando si parlerà dell’amnistia.

Pone ai voti l’articolo 24.

(È approvato).

Pone in discussione l’articolo 25:

«L’iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere, alle Regioni, al Popolo.

«L’iniziativa popolare si esercita mediante la presentazione di un progetto redatto in articoli da parte di almeno 100.000 elettori o 100.000 abitanti».

MORTATI, Relatore, circa il primo comma dell’articolo 25, fa riserva di aggiungere eventualmente un altro inciso alle ultime parole «al popolo», se la Sottocommissione verrà nella determinazione di ammettere i Consigli consultivi, ai quali si potrebbe attribuire, in certi casi, un potere di iniziativa.

PRESIDENTE con tale riserva pone ai voti il primo comma dell’articolo 25.

(È approvato).

BOZZI fa presente che le ultime parole del secondo comma: «o 100 mila abitanti» sono state evidentemente stampate per errore.

PRESIDENTE dichiara che le parole: «o 100.000 abitanti» devono intendersi soppresse. Pone ai voti il secondo comma dell’articolo 25, con la correzione dell’errore rilevato dall’onorevole Bozzi.

(È approvato).

Pone in votazione l’articolo 26:

«Nelle proposte che importino nuove o maggiori spese, e nelle leggi che le approvano, devono essere indicati i mezzi per farvi fronte».

(È approvato).

Pone in discussione l’articolo 27:

«I disegni e le proposte di legge approvati da una Camera saranno trasmessi all’altra, la quale dovrà pronunziarsi entro 4 mesi dal ricevimento.

«Tale termine potrà essere variato su accordo tra le due Camere».

Fa presente che è stata proposta dal Comitato la riduzione del termine da quattro mesi a tre.

NOBILE ricorda la sua proposta di ridurre tale termine a due mesi.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento dell’onorevole Nobile.

(Non è approvato).

Pone ai voti la proposta di ridurre il termine a tre mesi.

(È approvata).

Pone ai voti il primo comma così emendato.

(È approvato).

Circa il secondo comma dell’articolo, avverte che è stato proposto un emendamento sostitutivo così formulato:

«Tale termine potrà essere prorogato su richiesta della Camera che deve pronunciarsi».

NOBILE dichiara di essere favorevole al testo del progetto.

LACONI ritiene anch’egli più opportuno stabilire che tale termine possa essere variato su accordo fra le Camere che non su richiesta della Camera che deve pronunziarsi, perché questa richiesta potrebbe dar luogo a complicazioni.

PRESIDENTE pone ai voti il secondo comma dell’articolo 27 nel testo originario.

(È approvato).

Pone in discussione l’articolo 28:

«Ogni disegno o proposta di legge deve essere preventivamente esaminato da una Commissione di ciascuna Camera, secondo le norme del regolamento».

LACONI ricorda di aver sostenuto che i progetti debbono sempre essere presentati alla prima Camera. Ma, indipendentemente dall’accoglimento di tale proposta, pensa che l’atto della presentazione debba essere previsto, altrimenti potrebbe sembrare che le Commissioni, tanto della prima quanto della seconda Camera, debbano preventivamente esaminare il progetto di legge.

BOZZI fa presente che la dizione dell’articolo 27 scioglie il dubbio: esso infatti dice che «i disegni e le proposte di legge approvati da una Camera saranno trasmessi all’altra».

FUSCHINI osserva che, in tal caso, occorrerà trasportare l’articolo 28 al posto dell’articolo 27 e viceversa. Comunque, crede che non possa sorgere dubbio sul fatto che le proposte di legge vengano presentate ad una sola Camera e che, affinché possa esserne investita la seconda, è necessario che le abbia già approvate la prima.

MORTATI, Relatore, ricorda l’articolo 55 dello Statuto Albertino, secondo il quale appunto una proposta, discussa ed approvata da una Camera, deve essere trasmessa all’altra per la discussione ed approvazione. Non vede come possa sorgere il dubbio di cui ha parlato l’onorevole Laconi, dal momento che è noto il principio secondo il quale il disegno di legge deve presentarsi prima ad una Camera e poi all’altra e non mai contemporaneamente alle due Camere.

FABBRI osserva che, per aderire a quanto ha detto l’onorevole Laconi, l’articolo 26 potrebbe essere preceduto da un inciso il quale dicesse che le proposte di legge sono presentate indifferentemente all’una o all’altra Camera.

PRESIDENTE fa presente che si potrebbe adottare una dizione come la seguente: «Ogni disegno o proposta di legge deve essere preventivamente esaminato da una Commissione secondo le norme del Regolamento di ciascuna Camera»; con l’intesa che il dubbio sollevato dall’onorevole Laconi si può risolvere con la proposta aggiuntiva all’articolo 26 fatta dall’onorevole Fabbri.

FUSCHINI è favorevole al mantenimento del testo del progetto, con la sola aggiunta, in fine, della parola «proprio» prima dell’altra «Regolamento».

PRESIDENTE pone ai voti l’articolo 28 nel testo del progetto con la modificazione ora proposta dall’onorevole Fuschini.

(È approvato).

Dà lettura del seguente comma aggiuntivo proposto dal Comitato:

«A iniziativa di una delle Camere o del Governo, possono essere costituite Commissioni formate da un numero proporzionale di deputati e di senatori per l’esame, in comune, di disegni di legge».

MORTATI, Relatore, spiega che questo comma risponde sia all’esigenza di rendere più sollecito il corso della procedura parlamentare evitando un duplice esame, anche abbreviato, del provvedimento da parte delle due Commissioni, sia all’altra – più importante – di evitare dissensi o meglio di facilitare l’intesa in caso di divergenza tra le due Camere, perché uno dei modi per prevenire o conciliare i conflitti è appunto quello di rendere possibili degli accordi che possono facilmente attuarsi nel seno di una Commissione ristretta.

LACONI domanda se è prevista la proporzionalità della composizione di dette Commissioni rispetto alla composizione delle Camere.

MORTATI, Relatore, osserva che una norma nel senso accennato dall’onorevole Laconi non si può inserire nella Costituzione, dal momento che non è stato fissato un principio costituzionale che stabilisca la proporzionalità nella composizione delle Camere. Aggiunge che, se si stabilisse questo principio, il regolamento della Camera si adatterebbe ad esso nel fissare tale norma; ma poiché esso manca, non si può stabilire una disposizione del genere nell’ordinamento interno, perché potrebbe anche darsi che in futuro le elezioni avessero luogo con altri sistemi non proporzionalistici.

LACONI replica che, anche se le due Camere dovessero essere formate secondo un sistema elettorale diverso da quello attuale, sussisterebbe sempre la necessità di comporre queste Commissioni proporzionalmente alla composizione delle Camere, perché queste discussioni possono essere utili solo se le Commissioni riproducono esattamente la composizione della Camera che rappresentano.

PRESIDENTE fa presente che il comma aggiuntivo si preoccupa di fare salvo il rapporto numerico tra le due Camere nell’interno della comune Commissione. A suo parere la questione sollevata dall’onorevole Laconi di rispettare il principio della proporzionalità dei gruppi politici avrebbe dovuto essere considerata all’articolo 28, là dove si parla delle Commissioni.

FABBRI dichiara che tale emendamento, il quale costituisce, a suo avviso, un sovvertimento del sistema bicamerale, è di tale natura e di tale importanza da meritare un esame ponderato ed una lunga discussione.

LUSSU domanda qual è lo scopo di questo emendamento.

MORTATI, Relatore, ripete che lo scopo essenziale è quello di stabilire una procedura per attenuare i possibili conflitti tra le due Camere, perché è bene che essi non siano tali da ostacolare il lavoro legislativo. Fa notare all’onorevole Fabbri che, quand’anche le due Commissioni riunite avessero raggiunto un accordo, non è detto che esso dovrebbe vincolare le due Camere, le quali potranno deliberare in senso contrario e far riaccendere il conflitto.

FABBRI insiste nel suo punto di vista, perché ritiene essenziale tanto il principio dell’autonomia di ciascuna Camera, quanto quello del sistema bicamerale, i quali verrebbero meno se la proposta fosse accolta.

UBERTI è anch’egli del parere che, con l’approvazione di una norma del genere di quella proposta, si apporterebbe una riforma radicale al sistema bicamerale, perché è evidente che le due Commissioni, nominate rispettivamente dall’una e dall’altra Camera, le quali si mettessero d’accordo su un determinato progetto e sottoponessero le rispettive deliberazioni alle due Camere, diventerebbero necessariamente organi preponderanti nei rapporti fra le due Camere. Fa presente che in tal modo, specie quando si tratterà di approvare con rapidità delle importanti decisioni, non si seguirà più il sistema normale di sottoporre il progetto di legge prima all’una e poi all’altra Camera, ma si seguirà questa procedura, perché è evidente che quando una Commissione ha approvato, sollecitata dal Governo, un progetto di legge, difficilmente le Camere si pronunceranno in senso contrario.

Fa presente che con questa riforma, la quale sembra da poco ed invece è sostanziale, si costruisce un sistema in antitesi a quello parlamentare, così come finora è stato concepito, e si dà vita ad una Commissione – che diventerà di notevole importanza – composta di due tronconi provenienti da Assemblee che hanno origini diverse e che in tempi diversi avrebbero dovuto esaminare il provvedimento.

Conclude affermando che vi sono delle abitudini e delle situazioni più forti di qualsiasi articolo di legge: ritiene perciò che una Commissione mista di questo genere finirebbe per diventare un organo permanente e che tale sistema di legiferare diventerebbe il sistema normale.

CAPPI non vede i pericoli ai quali accenna l’onorevole Uberti e proporrebbe, se mai, di togliere l’iniziativa del Governo, lasciando soltanto quella di una delle Camere.

MORTATI, Relatore, chiarisce, anche per rispondere all’onorevole Uberti, che questa riunione delle Commissioni avverrebbe sempre su accordo delle Camere, in quanto che l’iniziativa può essere di una delle Camere o del Governo, ma la deliberazione di comporre questa Commissione mista e di farla operare appartiene a ciascuna delle Camere: quindi quella che si sentisse lesa potrebbe rifiutare di formare la Commissione mista. Evidentemente l’iniziativa non imporla un obbligo per la Camera dissenziente. Senza contare poi che le Camere hanno piena libertà di seguire o meno il parere espresso dalla Commissione stessa, allo stesso modo che le deliberazioni di ciascuna Assemblea non sono vincolate dal giudizio delle sue Commissioni interne.

NOBILE rileva l’utilità di tale procedura nei casi in cui il Governo presenti una proposta di legge che debba essere esaminata e decisa d’urgenza.

FUSCHINI non approva questa proposta la quale, invece di eliminare i conflitti tra le due Camere, a suo parere, li accrescerebbe; perché già in sede di formazione di questa Commissione mista, una Camera può deliberare in un senso ed una in un altro.

MORTATI, Relatore, fa notare che la Commissione mista si formerà non preventivamente, ma quando il conflitto si vada delineando: è appunto allora che si ricorre a questo mezzo per cercare di risolverlo.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento aggiuntivo all’articolo 28 proposto dal Comitato di coordinamento.

(Non è approvato).

Fa notare che l’articolò 28 prenderà il posto dell’articolo 27 e viceversa.

Pone in discussione l’articolo 28-bis:

«Un disegno di legge non approvato dalla Camera alla quale è sottoposto, non può essere ripresentato, se non dopo un anno dal rigetto».

MORTATI, Relatore, osserva che si è pensato a questa disposizione, perché un articolo dello Statuto Albertino stabiliva che un disegno di legge respinto non si potesse ripresentare nella stessa sessione. Poiché si è eliminata la sessione, si è pensato ad un termine che risponda anche ad una esigenza di rispetto della volontà della Camera la quale, avendo rifiutato l’approvazione di un disegno di legge, non si può vedere imposto l’obbligo di discuterlo nuovamente dopo poco tempo.

FABBRI ricorda di aver sostenuto che, non essendovi più le sessioni, si sarebbe dovuto stabilire che un provvedimento respinto non possa essere ripresentato nella stessa legislatura; ma gli fu osservato come tale proposta fosse esagerata. Altri fece notare che il provvedimento si sarebbe potuto ripresentare con delle modificazioni ed era quindi inutile introdurre una disposizione del genere. Gli sembra strano che non si sia presa alcuna deliberazione in merito: comunque ritiene troppo breve il termine di un anno e vorrebbe portarlo almeno a tre anni.

MORTATI, Relatore, assicura, per averne preso visione dai verbali, che si decise di non introdurre alcuna norma del genere, appunto perché si sarebbe potuto eluderla.

PRESIDENTE rileva che si tratta di una decisione respinta nel corso delle discussioni e votazioni precedenti e che oggi viene ripresentata come proposta di emendamento aggiuntivo. Pone ai voti la presa in considerazione di questo emendamento nonostante le decisioni già adottate.

(Non è approvata).

Pone in discussione l’articolo 29:

«Su richiesta motivata del proponente, ciascuna delle Camere può deliberare che l’esame e la formulazione del testo di una proposta di legge siano deferite ad una Commissione, su relazione della quale si procederà al voto senza discussione, salvo le dichiarazioni di voto.

«Il procedimento previsto dal precedente comma non è applicabile alle proposte concernenti l’approvazione dei bilanci e l’autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali».

UBERTI, posto che in questo caso si danno alla Commissione i poteri dell’Assemblea (al che si dichiara contrario), proporrebbe che la Commissione stessa fosse eletta sulla base della proporzionalità: poiché in Assemblea plenaria non si possono fare altro che dichiarazioni di voto, vorrebbe che alla discussione del disegno di legge potessero almeno partecipare tutti i gruppi politici.

NOBILE, nel 1° comma, dopo le parole: «deferiti ad una Commissione», propone di aggiungere le altre: «che rispecchi la proporzione dei gruppi politici della Camera».

PRESIDENTE pone ai voti il 1° comma dell’articolo 29 con l’emendamento proposto dall’onorevole Nobile.

(È approvato).

BOZZI nel 2° comma propone di sostituire, alle parole: «alle proposte», le altre: «ai disegni».

PRESIDENTE pone ai voti il 2° comma dell’articolo 29 con l’emendamento proposto dall’onorevole Bozzi.

(È approvato).

Pone in votazione l’articolo 30:

«I disegni e le proposte di legge sono votati articolo per articolo. Il voto finale ha luogo per scrutinio segreto».

(È approvato).

Dovrebbe ora porre in discussione l’articolo 31, ma crede opportuno rinviarne l’esame alla prossima seduta, per dar tempo ai Commissari di approfondirlo.

(Così rimane stabilito).

Pone in discussione l’articolo 32:

«L’esercizio del potere legislativo non può essere delegato al Governo se non per tempo limitato e per oggetti determinati, e sempreché tali oggetti non attengano all’esercizio delle libertà personali e politiche, alle leggi complementari della Costituzione ed all’approvazione dei bilanci».

Avverte che a tale articolo viene proposto un emendamento sostitutivo del seguente tenore:

«L’emissione di norme giuridiche non può essere delegata al Governo, se non per un tempo limitato e per oggetti determinati, e previa l’indicazione, da parte del Parlamento, dei principî cui l’organo delegato dovrà attenersi».

TOSATO propone di sostituire, nell’emendamento, alla parola: «emissione» l’altra: «emanazione».

MANNIRONI nota nell’emendamento un criterio restrittivo, in quanto vi si parla di potestà di emanare norme giuridiche.

TOSATO ritiene che in tal modo viene meno la necessità di precisare che non è ammessa la delegazione in materia di bilanci, in quanto questi non sono norme giuridiche.

MORTATI, Relatore, osserva che la discussione verte su questo: se la delega debba essere contenuta nei limiti stabiliti dall’originario articolo 32, oppure in quelli della nuova formulazione, la quale, in un certo senso, è analoga alla precedente, in quanto che, parlando di norme giuridiche, rende inutile l’esclusione della delega per altre norme, come, per esempio, le leggi di approvazione, che non lo sono. Di diverso v’è questo: che, mentre l’articolo 32 cercava di fare una determinazione dei casi di esclusione della delega, l’emendamento prescinde da questa elencazione e riduce in sostanza il limite di questa delega al concetto di norme giuridiche e alla indicazione dei principî direttivi che il Parlamento dovrebbe emanare all’atto della concessione della delega stessa.

FABBRI vorrebbe, a maggior garanzia, mantenuta la formula originaria, perché teme che altrimenti la delega del Governo possa estrinsecarsi in norme giuridiche che non dovrebbero incidere, ma che in pratica possono incidere sulle libertà personali e politiche, per le quali si faceva eccezione in modo ben chiaro nella formulazione originaria.

TOSATO fa notare che alla giusta preoccupazione dell’onorevole Fabbri già soddisfa la Costituzione, perché le libertà personali e politiche sono garantite dalla Costituzione stessa e non possono essere violate da decreti legislativi o da leggi.

PRESIDENTE rammenta a questo proposito di aver già sostenuto in una lunghissima discussione, e nonostante le obiezioni sollevate, la necessità di questa elencazione di oggetti per i quali non può ammettersi delega, e che parte della Sottocommissione era dello stesso avviso. Per questa ragione voterà per la conservazione del testo originario dell’articolo 32.

Fa presente che al testo stesso l’onorevole Bulloni propone di dare la seguente formulazione:

«L’esercizio del potere legislativo non può essere delegato al Governo, se non per tempo limitato e per oggetti determinati che non attengano all’esercizio delle libertà personali e politiche, alle leggi complementari della Costituzione e all’approvazione dei bilanci».

LUSSU trova che sarebbe più opportuno, invece che la forma negativa («non può essere delegato»), di usare quella positiva, nel senso di dire che il potere legislativo può essere delegato al Governo soltanto per tempo limitato, ecc.

PRESIDENTE è d’opinione che sia più opportuno stabilire prima che non è ammessa la delega e quindi parlare delle eccezioni.

UBERTI fa osservare che con l’emendamento si vengono a stabilire anche i principî a cui si deve attenere il Governo nella emanazione dei provvedimenti in seguito a delega, mentre con il testo originario non si ammette la determinazione di principî direttivi, ma si parla semplicemente di tempo limitato e di oggetti determinati. Personalmente preferirebbe la formula dell’emendamento.

PRESIDENTE pone ai voti l’articolo 32 nel testo originario.

(È approvato).

UBERTI propone di aggiungervi l’ultima parte dell’emendamento, e precisamente le parole: «previa indicazione da parte del Parlamento dei principî cui l’organo delegato dovrà attenersi».

PRESIDENTE pone ai voti la proposta dell’onorevole Uberti.

(È approvata).

Pone in discussione l’articolo 33:

«Spetta all’Assemblea Nazionale deliberare la mobilitazione generale e l’entrata in guerra».

MANNIRONI propone che gli articoli 33 e 34 vengano fusi.

NOBILE propone di aggiungere alle parole: «la mobilitazione generale» le altre: «o parziale».

TOSATO non ritiene possibile la fusione degli articoli 33 e 34 perché, mentre nel caso della mobilitazione generale e dell’entrata in guerra si tratta di una deliberazione e non di una legge sostanziale, nel caso dell’amnistia si tratta di una legge vera e propria.

MANNIRONI ritira la sua proposta.

PRESIDENTE pone intanto ai voti la prima parte dell’articolo:

«Spetta all’Assemblea Nazionale deliberare la mobilitazione generale».

(È approvata).

Fa presente che qui dovrebbe essere inserita l’aggiunta proposta dall’onorevole Nobile.

TOSATO è contrario alla proposta dell’onorevole Nobile, che disarma eccessivamente il potere esecutivo. D’altra parte la mobilitazione parziale si può fare attraverso innumerevoli sotterfugi, sicché ritiene inutile prevederla nell’articolo in esame.

LACONI distingue due tipi di mobilitazione parziale: oltre a quello comunemente noto, vi è un tipo di mobilitazione regionale alla quale si è assistito in questo ultimo periodo in Sardegna e in Sicilia, che è un tipo di mobilitazione generale limitato ad una Regione. Ritiene questo un caso di mobilitazione parziale per il quale sarebbe opportuno interpellare l’Assemblea Nazionale, mentre nel caso normale di richiamo di qualche classe, crede che se ne potrebbe fare a meno.

ROSSI PAOLO non è favorevole all’emendamento dell’onorevole Nobile, che ritiene contrario alle ragioni serie e gravi che possono giustificare la disposizione dell’articolo 33; e lo ritiene anche pericoloso, perché potrebbe determinare delle complicazioni di carattere internazionale veramente gravi.

LUSSU considera la questione dal punto di vista politico: teme che, se il Governo dovrà sottoporre e giustificare al Parlamento anche il richiamo di due o tre classi di leva, si creerà quel clima pericoloso di mobilitazione generale, che è bene sia evitato per le conseguenze politiche che può produrre. Crede si possa lasciare al Governo la facoltà di decidere in merito alla mobilitazione parziale.

PRESIDENTE ritiene che non debba essere trascurato il caso citato dall’onorevole Laconi e propone perciò la seguente formulazione:

«Spetta all’Assemblea Nazionale la mobilitazione generale, anche se territorialmente limitata, e l’entrata in guerra».

TARGETTI è favorevole a questo emendamento, perché trova opportuno che nel caso di una mobilitazione importante, come quella accennata dall’onorevole Laconi, non sia lasciata al Governo la libertà di prendere una decisione.

PRESIDENTE pone ai voti la formula testé letta.

(È approvata).

Osserva che nella seduta antimeridiana si è anche discusso se l’Assemblea nazionale deve deliberare sullo stato di guerra. Si riserva di sollevare la questione quando si sarà accertato se la legislazione italiana considera lo stato di guerra come qualche cosa di diverso dalla dichiarazione di guerra.

BOZZI fa presente che vi sono leggi le quali hanno vigore per lo stato di guerra e per farne cessare l’effetto; ma per la loro applicabilità occorre un decreto che stabilisca l’inizio dello stato di guerra. Nota del resto che la fine della guerra, che è un fatto pratico, non coincide con la dichiarazione della fine dello stato di guerra, che costituisce invece un fatto giuridico. Ad ogni modo, per decidere su questa materia ritiene che occorra rivedere le leggi sullo stato di guerra.

PRESIDENTE pone in discussione l’articolo 34:

«L’amnistia è concessa con legge dell’Assemblea nazionale».

BOZZI propone di rinviare la discussione di questo articolo, in quanto è di competenza della seconda Sezione, che esamina l’ordinamento giudiziario. Fa anche presente che vi è al riguardo una proposta dell’onorevole Leone la quale mira ad abolire l’istituto dell’amnistia.

TOSATO fa presente la possibilità del manifestarsi di un conflitto tra le due Sezioni della Sottocommissione.

LA ROCCA crede che la questione dell’amnistia non possa rientrare nella competenza della seconda Sezione, perché è materia di spettanza del potere esecutivo e perciò in sede di discussione sul potere esecutivo dovrà essere risolta. Che se poi prevalesse il concetto che l’amnistia debba concedersi per legge, perché in concreto l’amnistia è una legge transitoria, la competenza sull’argomento non potrebbe essere sottratta al potere legislativo e quindi rientrerebbe nell’orbita di spettanza di questa Sottocommissione.

BOZZI non ritiene completamente esatto quello che dice l’onorevole La Rocca, perché l’amnistia può interferire su una sentenza irrevocabile e quindi incidere sul potere giudiziario, il quale deve deliberare in materia.

TARGETTI ritiene che non si possa mettere in dubbio la competenza a decidere sopra l’amnistia da parte della seconda Sezione, in quanto questa tratta della immutabilità del giudicato: se a tale principio vi devono essere delle eccezioni, è proprio la seconda Sezione che dovrà dire quali siano (indulto, grazia, amnistia). In questa sede si potranno soltanto stabilire le modalità dell’applicazione di questi tre istituti.

NOBILE non vede come si possa essere contrari all’istituto dell’amnistia; del resto, poiché nell’emendamento si tratta di delitti politici, ritiene che la sede competente per trattarla sia questa.

BULLONI propone che al termine «amnistia» sia aggiunto anche quello di «indulto», e ritiene senza alcun dubbio che sia questa la sede competente per decidere su tale questione. Osserva che l’eccezione dell’onorevole Targetti non toglie la competenza della Sottocommissione di stabilire se questi istituti della grazia, dell’amnistia e dell’indulto rientrino o meno nelle attribuzioni del Parlamento. Ritiene perciò che, a seguito della decisione che sarà qui presa, la seconda Sezione potrà modificare gli articoli che avesse formulato in materia.

MANNIRONI ritiene che la competenza sull’argomento sia di questa Sottocommissione, perché si è in tema politico e non strettamente giudiziario. Rileva che, se la seconda Sezione ha affermato il principio della irrevocabilità del giudicato, potrà scendere all’ipotesi delle modifiche di questo giudicato in rapporto all’amnistia, solo se questa Sottocommissione avrà riconosciuto che l’amnistia possa essere o meno concessa. Crede quindi che si debba decidere non soltanto se l’amnistia possa essere concessa per legge dell’Assemblea nazionale, ma anche e prima di tutto sull’opportunità di conservare questo istituto nella legislazione italiana.

TOSATO non ritiene possibile pensare che dell’amnistia possa occuparsi la seconda Sezione; questa esamina il potere giudiziario e quindi l’amnistia solo sotto l’aspetto della giustizia e, sotto questo aspetto, non potrà arrivare che all’affermazione della immutabilità del giudicato; mentre la concessione dell’amnistia, della grazia ed indulto è sempre espressione di un potere politico superiore a tutti gli altri poteri, sia quello esecutivo, sia quello legislativo, sia quello giudiziario.

LACONI pensa che non si debbano sollevare questioni di competenza nel seno della Sottocommissione e, senza entrare nel merito della questione, non è contrario a che essa venga esaminata dalla seconda Sezione.

LUSSU crede che non la indipendenza dei poteri regolerà l’attuale Costituzione, ma, in un certo senso, l’interferenza tra i diversi poteri: giudiziario, esecutivo e legislativo. Sotto questo aspetto può nascere il dubbio che il potere giudiziario sia competente ad esaminare il problema dell’amnistia, ma fa notare che questo è un problema puramente politico. Ritiene che, per una ragione tecnica di studio, la seconda Sezione potrebbe interferire sul problema dell’amnistia; ma è chiaro che questo argomento riguarda la sovranità del Parlamento, perché niente vi può essere di più sovrano, quale espressione di volontà popolare, della concessione della amnistia.

PRESIDENTE, poiché ritiene che l’istituto dell’amnistia sarà mantenuto, pensa che la Sottocommissione potrà ora decidere se il diritto di concederla dovrà essere esercitato dal Capo dello Stato oppure dalla Assemblea.

A ciò provvede appunto l’articolo 34, per il quale l’onorevole Bulloni propone la seguente formulazione:

«L’amnistia e l’indulto sono concessi con legge dell’Assemblea nazionale».

Nota che al riguardo vi è un emendamento del Comitato, che dice:

«L’amnistia è concessa con legge della Assemblea nazionale soltanto per i delitti politici».

Mette ai voti l’articolo 34 nella seguente formulazione:

«L’amnistia e l’indulto sono concessi con legge dell’Assemblea nazionale».

(È approvato).

La seduta termina alle 20.15.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cappi, Conti, Di Giovanni, Fabbri, Farini, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Piccioni, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Assenti: Cannizzo, Castiglia, Codacci Pisanelli, De Michele, Einaudi, Leone Giovanni, Perassi, Porzio, Vanoni.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 20 DICEMBRE 1946 (seconda sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(SECONDA SEZIONE)

10.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 20 DICEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CONTI

INDICE

Potere giudiziario (Seguito della discussione)

Targetti – Calamandrei, Relatore – Presidente – Laconi – Leone Giovanni, Relatore – Ambrosini – Mannironi – Cappi – Di Giovanni – Ravagnan – Bozzi.

La sedata comincia alle 15.15.

Seguito della discussione sul potere giudiziario.

TARGETTI chiarisce che la sua proposta di non inserire nella Carta costituzionale il secondo comma dell’articolo 12 della relazione Calamandrei, non tende ad esprimere parere contrario all’unicità della Cassazione, bensì a lasciare al legislatore futuro la possibilità di modificare l’attuale ordinamento. Inserendo il comma, se si volessero far risorgere le Cassazioni regionali, dovrebbe essere modificata la legge sull’ordinamento giudiziario, la qual cosa è sottoposta a determinate procedure. A suo avviso, quindi, non inserendo il capoverso proposto, sussistono egualmente tutte le garanzie necessarie per il mantenimento dell’unità della Cassazione.

Dichiara che la sua titubanza a sancire espressamente nella Carta costituzionale l’unicità della Cassazione dipende da molteplici considerazioni. Ricorda innanzi tutto che quando, dopo lunghe discussioni, si giunse all’abolizione delle Cassazioni regionali, gli argomenti addotti non furono per lui del tutto convincenti, anche perché egli li ricollegava al precedente esempio della unificazione delle Cassazioni penali, che risaliva al 1888. Pur riconoscendo che con le Cassazioni regionali la legge poteva mutare da una Regione all’altra, con la Cassazione unica penale si muta legge mutando Sezione, senza uscire da Roma; con la differenza in peggio che le Corti di cassazione regionali, che avevano tradizioni non ingloriose, davano un’uniformità d’interpretazione valevole almeno entro un determinato spazio geografico.

Inoltre la Cassazione unica, pur corrispondendo ad un alto ideale procedurale, porta degli inconvenienti pratici, come quello di allontanare, in certo senso, una parte dei cittadini dal terzo grado. Bisogna infine considerare che l’esistenza a Roma della Cassazione unica concorre ad aumentare gli inconvenienti dell’eccessivo accentramento.

Insiste quindi che nella Costituzione non sia inclusa alcuna norma riguardante il principio della Cassazione unica.

CALAMANDREI, Relatore, dichiara di aderire alla proposta Targetti e di ritirare il capoverso in esame.

PRESIDENTE avverte che la discussione verterà sull’articolo 24 del progetto Calamandrei: «I Magistrati non possono essere iscritti ad alcun partito politico (?)».

Fa osservare che l’onorevole Calamandrei ha posto alla fine dell’articolo un punto interrogativo, che sta a dimostrare la sua incertezza sulla proposta stessa.

LACONI ritiene che l’articolo non debba essere inserito nella Costituzione.

LEONE GIOVANNI, Relatore, propone un emendamento aggiuntivo: «o ad associazioni segrete».

LACONI fa notare che un articolo approvato dalla prima Sottocommissione vieta le associazioni segrete.

LEONE GIOVANNI, Relatore, propone allora che l’emendamento sia votato con la riserva di riesaminare il problema in sede di coordinamento, pur non ritenendo inutile il divieto in questa sede, qualora venisse altrove sancito il divieto delle associazioni segrete.

PRESIDENTE avverte che l’onorevole Bozzi è d’avviso di aggiungere all’articolo anche la norma riguardante il divieto per i magistrati di conseguire onorificenze.

LEONE GIOVANNI, Relatore, crede che in tal caso sarebbe necessario chiarire se si tratta delle sole onorificenze nazionali o anche di quelle straniere. Dichiara di essere favorevole all’inserimento di tale principio per svincolare il magistrato da eventuali legami con elementi politici e per porlo in una situazione di prestigio assoluto, per il quale l’onorificenza non possa conferire alcuna maggiore autorità o diminuirlo rispetto ad altri. Cita in proposito il frequente caso di cancellieri insigniti della commenda, mentre il giudice è cavaliere; il che può togliere prestigio al magistrato.

AMBROSINI ritiene che non si debba scendere a simili dettagli nella Carta costituzionale, ma che della materia debba occuparsi una legge particolare. Propone quindi che la norma per il divieto alla concessione di onorificenze sia rinviata alla legge sull’ordinamento giudiziario.

M ANNI ROM pensa che, prima di prendere una decisione in proposito, si debba conoscere la sorte delle onorificenze fino ad ora conseguite, perché la disposizione potrebbe apparire anche come un rifiuto ad eventuali onorificenze concesse dalla Repubblica. Dichiara tuttavia di essere contrario sia all’appartenenza dei magistrati a partiti politici, sia alla concessione ad essi di onorificenze di qualsiasi genere.

TARGETTI ammette che, se il magistrato si occupa attivamente di politica, facendo, come suol dirsi, vita di partito, può finire col compromettere, anche senza accorgersene e contro la sua intenzione, la sua libertà di apprezzamento. Ed anche se questo non accade, può sempre autorizzarne il sospetto. Tuttavia egli non è favorevole ad un divieto che verrebbe a limitare quella libertà di pensiero di cui si deve essere assertori per tutti. Nota anche che è già stata ammessa nel progetto l’eleggibilità del magistrato.

PRESIDENTE ritiene che eventualmente la contradizione potrà essere eliminata in sede di coordinamento.

Dichiara quindi di essere contrario a qualunque disposizione che limiti la libertà del magistrato, in quanto questo deve avere la consapevolezza del suo alto ufficio e non iscriversi ad alcun partito o associazione segreta: colui che si iscrive riduce la propria libertà, mentre deve sentire per primo la necessità di non aver di fronte al pubblico una classificazione politica che possa metterlo in sospetto. È, purtroppo, il caso che si sta constatando attualmente nel Lazio, ove qualche pretore ardente monarchico commette abusi e parzialità, naturalmente in danno di elementi che non seguono la sua corrente.

LACONI ricorda che in una precedente seduta, parlando dell’indipendenza della Magistratura, è stata fatta una dichiarazione contro la tendenza a considerare il magistrato come una figura astratta, a metterlo cioè fuori del mondo vivo e reale in cui tutti gli uomini hanno degli interessi e si muovono coerentemente con essi. Ritiene quindi che l’introdurre una norma come quella proposta sarebbe un’ipocrisia, nel senso che si creerebbe in sostanza una norma puramente formale, che non avrebbe alcun contenuto pratico. Osserva che il Presidente ha citato il caso di pretori monarchici che commettono abusi; fa notare però che questo si verifica anche in altri campi, ma non dipende dal fatto dell’iscrizione ad un partito, bensì dai compromessi a cui taluni addivengono con la propria coscienza. A suo avviso, nessun divieto formale sancito nella Costituzione potrà impedire al giudice, se mancante appunto di questa coscienza, di continuare a muoversi secondo le sue tradizioni, i suoi interessi di classe e così via.

Dichiara invece di essere d’accordo per quanto riguarda il divieto ai magistrati di appartenenza ad associazioni segrete.

AMBROSINI, in antitesi con l’onorevole Laconi, ritiene che il divieto ai magistrati di appartenenza ai partiti costituisca per lo meno una remora. Quando, infatti, tale divieto non sia sancito, è facile che il magistrato si iscriva e partecipi alle riunioni di partito; quindi, lungi dal rimanere completamente passivo, finirebbe con l’essere travolto dalla passione politica e diverrebbe un combattente nell’agone politico, in modo da mettere in pericolo la sua completa indipendenza. Questo non esclude d’altronde che il magistrato possa, come cittadino, partecipare alla vita pubblica. Ricorda in proposito la prassi inglese, del Paese cioè della massima libertà, ove i cittadini possono partecipare pienamente alla vita pubblica, ma non devono prendere in essa parte preminente, quando appartengano come funzionari ad amministrazioni pubbliche. Dichiara pertanto di essere favorevole all’articolo proposto, con l’emendamento aggiuntivo che prescrive il divieto di appartenenza ad associazioni segrete.

CAPPI si associa alla considerazioni dell’onorevole Ambrosini.

CALAMANDREI, Relatore, richiama l’attenzione dei colleghi sul punto interrogativo posto in calce all’articolo: punto interrogativo che esprimeva uno stato di incertezza, nel quale dichiara di trovarsi tuttora, in quanto vede la fondatezza delle ragioni esposte dall’onorevole Laconi, non meno della fondatezza delle ragioni opposte. Ricorda che, allo scopo di chiarire questo stato di incertezza, in una rivista da lui indetta a Firenze, ha fatto sulla questione una specie di inchiesta, la quale ha provocato numerose risposte. È da notarsi che prevalentemente favorevoli al diritto di iscrizione ai partiti politici sono i giovani (e ciò si spiega pensando che a Firenze vi è un gruppo di giovani magistrati che furono durante l’occupazione tedesca veramente degli eroi: è quindi evidente che per essi il divieto di militare nei partiti politici suoni offesa) e prevalentemente contrari i vecchi. Desidera in proposito far conoscere ai colleghi il contenuto di una lettera, inviatagli da un vecchio consigliere di Corte di appello, mai iscritto al partito fascista, il quale, pur riconoscendo che le argomentazioni addotte nel referendum a favore della tesi della iscrizione possono in astratto apparire convincenti, soprattutto nella mentalità dei giovani che ricordano soltanto il ventennio di oppressione, nota che per gli anziani, che ricordano oltreché la vita fascista quella pre-fascista, prevale il criterio della più assoluta neutralità. Nella lettera è citato il caso del pretore di un paese, segnalato per manchevolezze al Tribunale di Firenze e nei confronti del quale si chiedevano accertamenti dal Ministero. Condotte le indagini relative, risultò che quel magistrato godeva presso tutti della massima fiducia. Si volle allora indagare sul lato politico e si venne a sapere da un ferroviere, iscritto al Partito comunista, che il pretore era mal visto in paese perché appartenente al Partito democristiano, mentre la popolazione desiderava che fosse comunista o almeno socialista. D’altra parte la più alta autorità ecclesiastica locale dichiarava di essere pienamente soddisfatta dell’operato del pretore, che era «anche troppo buono» nei riguardi della Chiesa.

La lettera citata sta a dimostrare, a suo avviso, i pericoli dell’appartenenza dei magistrati a partiti politici. Dichiara d’altra parte che molte ragioni contrarie lo lasciano perplesso e che perciò egli si asterrà dal votare l’articolo proposto.

TARGETTI dichiara, come ha già detto, di preferire che il magistrato non militi attivamente nei partiti e nelle associazioni segrete, rilevando che l’iscrizione a queste ultime può presentare inconveniente anche più grave perché, mentre l’iscrizione ad un partito è cosa palese, l’iscrizione a tali associazioni comporta l’obbligo del segreto, il che è in contrasto con la funzione del magistrato.

Ritiene, ciononostante, che non sia opportuno inserire l’articolo proposto, anche perché, quando si stabilisce un divieto, bisogna nello stesso tempo prevederne la sanzione. Ciò comporterebbe la necessità di indagini, perché il magistrato potrebbe anche negare di essere iscritto ad un partito, e allora da parte del Consiglio Supremo della Magistratura dovrebbe essere fatta una inchiesta per accertare se il magistrato stesso ha detto o no il vero. Appurata la sua appartenenza ad un partito, dovrebbe essere destituito. Il che, a suo avviso, sarebbe molto grave e non avrebbe giustificazione adeguata. Propone quindi che il principio della opportunità che i magistrati non si iscrivano a partiti politici e ad associazioni segrete sia consacrato in un ordine del giorno, che però giustifichi la mancata votazione del divieto.

AMBROSINI dichiara che la lettera letta dall’onorevole Calamandrei ha rafforzato la sua convinzione della opportunità che l’articolo proposto sia inserito nella Costituzione.

All’obiezione dell’onorevole Targetti sulla necessità di prevedere delle sanzioni dopo aver stabilito il principio, risponde che, a suo avviso, ciò non è necessario, ricordando che talune disposizioni della Costituzione non comportano alcuna sanzione e che, nel caso presente, la sanzione potrebbe essere prevista e stabilita dalla legge sull’ordinamento giudiziario.

Data la solenne affermazione che si vuol fare sull’adozione del principio del’autogoverno della Magistratura, ritiene che sia ancora più necessario evitare che qualsiasi sospetto circondi l’ordine giudiziario; quindi la presente disposizione servirà a dare a tutti coloro che devono avvicinarsi alla giustizia l’impressione di potere serenamente ed equamente essere sottoposti al giudizio di magistrati non impigliati in lotte di parte.

DI GIOVANNI fa presente che il contenuto della lettera citata dall’onorevole Calamandrei non ha tolto dal suo spirito le perplessità, anche perché, a suo avviso, la disposizione dell’articolo proposto potrebbe apparire contraria ai principî di libertà, che devono essere il fondamento della Carta costituzionale.

Accede quindi completamente all’idea degli onorevoli Laconi e Targetti di fare del principio una raccomandazione da inserire nei verbali, e di non includerlo nella Costituzione.

LACONI desidera far osservare che, nell’attuale ordinamento giudiziario, vi sono alcune disposizioni che si ricollegano a quella in esame, come il divieto fatto ai cancellieri di assumere la carica di assessori e altre del genere. Non sa se sia il caso di includere norme simili nella Costituzione, ma pensa che si dovrebbe trovare il modo di eliminare dei divieti che non rispondono allo spirito di una vera democrazia.

AMBR0S1NI dichiara di insistere, con altri colleghi, nella sua tesi, lontano da qualsiasi pensiero antidemocratico; che anzi tende all’affermazione del principio per un senso di vera democrazia, per collocare effettivamente gli uomini che esercitano l’alto magistero della giustizia su un altare che li renda insospettabili.

LEONE GIOVANNI, Relatore, ritiene che il raffronto fatto dall’onorevole Laconi fra la disposizione in esame e le altre da lui citate non possa farsi, in quanto vi è una serie di incompatibilità per i magistrati che devono rimanere nella legge sull’ordinamento giudiziario, mentre nel caso in discussione si va all’apice dei limiti dell’attività del magistrato. A suo avviso, è necessario che nella Carta costituzionale sia fissato il divieto dell’appartenenza dei magistrati a partiti politici e ad associazioni segrete, e che la materia non possa essere rinviata alla legge sull’ordinamento giudiziario.

Invita quindi i colleghi ad esaminare a fondo il problema e ad assumersi la responsabilità della decisione, magari votando l’articolo per divisione.

MANNIRONI concorda sostanzialmente con l’onorevole Leone, ma dichiara di essere per la soluzione estrema, e cioè per il divieto assoluto in ambedue i casi.

Pur riconoscendo che la norma rappresenta per i magistrati un sacrificio, in quanto viene a privarli della libertà di professare apertamente le loro idee, pensa che tale sacrificio sia necessario, data l’importanza della funzione che si vuol loro affidare. Per potere inserire nella psicologia popolare la necessaria fiducia nella Magistratura, è indispensabile che vi sia in tutti il fermo convincimento che i magistrati sono liberi da legami di qualsiasi genere. Ora, chi vive la vita di partito sa che questa determina forme di solidarietà le quali creano legami superiori non forse alla volontà, ma agli orientamenti e alle tendenze degli individui.

Ritiene che la raccomandazione pura e semplice proposta dagli onorevoli Targetti e Di Giovanni sarebbe del tutto superflua e che sarebbe piuttosto preferibile non dire nulla.

RAVAGNAN osserva che nella lettera letta dall’onorevole Calamandrei è rappresentata una delle tante aberrazioni esistenti e che si potrebbero citare casi completamente opposti. Non si può da essa, in ogni modo, prender lo spunto per una decisione.

A suo avviso, ogni cittadino deve avere il diritto di professare le sue idee; tale fondamentale principio è sancito anche in un articolo della Costituzione Se si approvasse l’articolo proposto, si verrebbe quasi ad ammettere nella Carta costituzionale che i partiti politici possono essere i corruttori dei magistrati; e nessun militante in un partito potrebbe sottoscrivere una tale norma. Personalmente è contrario all’articolo, in quanto si sentirebbe leso nella sua dignità e nella sua convinzione, pensando che si possa dire che il partito al quale egli appartiene possa dal pubblico essere giudicato suscettibile di influire sulla Magistratura affinché siano violate delle leggi nel suo interesse particolare. Bisogna infine considerare il fatto che l’essere iscritto ad un partito politico è puramente un fatto formale: infatti, se si suppone che un magistrato sia influenzabile, egli potrà esserlo tanto se sia iscritto quanto se non lo sia; dipenderà solo dalla sua onestà e dalla sua coscienza l’essere o meno suscettibile alle influenze esterne.

BOZZI, contrariamente all’onorevole Ravagnan, non ritiene che il fatto dell’iscrizione a partiti politici sia puramente formale. Sebbene, a suo avviso, non si possa impedire al magistrato, il quale è uomo che vive e deve vivere nella società, di avere delle idee politiche e di professarle liberamente, ritiene che non gli si possa consentire l’iscrizione in determinate organizzazioni politiche. In queste la disciplina è a volte ferrea, e non corromperà forse il magistrato, ma, dato che egli è un uomo e come tale sensibile alle influenze umane, se non sulla sua coscienza, almeno sul suo subcosciente, questo vincolo di disciplina, che importa anche delle sanzioni, può agire in modo sfavorevole. Ma, anche ammettendo che tale movente interiore possa anche non agire nell’individuo, bisogna considerare l’impressione che può produrre nel pubblico un magistrato che, appartenendo notoriamente ad un partito politico o rivestendovi una carica, deve giudicare l’imputato iscritto al suo stesso partito o ad uno diametralmente opposto: se lo assolverà o lo condannerà, in qualunque caso vi sarà il pubblico convincimento che nella deliberazione abbia potuto influire il fatto dell’appartenenza a quel partito.

Dato che si vuol rendere indipendente la Magistratura non solo dal potere esecutivo, ma anche da tutte le altre forze politiche che ad esso si riconnettono, come i partiti politici che possono esercitare un’influenza sul magistrato traverso mille forme dirette o indirette, pensa che la Costituzione democratica italiana, affermando che i magistrati devono liberamente professare le loro opinioni ma essere al disopra dei partiti, segnerebbe un principio di grande democrazia. Analoghe considerazioni si devono fare per le associazioni segrete, che hanno disciplina più rigida di quella dei partiti stessi.

Vi è poi il problema della sanzione, prospettato dall’onorevole Targetti, la quale potrebbe anche non essere di natura disciplinare, in quanto non è vero che ogni norma debba dar luogo ad una punizione di qualsiasi genere. Vi può essere una sanzione di diversa natura, che si rivolge alla coscienza del magistrato, al quale la Costituzione impone di non appartenere a partiti politici, come la riprovazione del Consiglio della Magistratura o di altro genere, fino a giungere al procedimento disciplinare.

Desidera infine ricordare il problema del divieto di conferire onorificenze ai magistrati, notando che queste sono una delle miserie delle quali i magistrati subiscono la seduzione. È innegabile che il deputato che sia riuscito a far nominare commendatore un magistrato potrà esercitare su lui una determinata influenza.

Altro problema, che sottopone all’attenzione dei colleghi senza discuterlo, è quello se i magistrati possano o no appartenere ad associazioni sindacali.

DI GIOVANNI osserva che con l’articolo proposto si imporrebbe un grave sacrificio alla Magistratura, come è riconosciuto anche dalla relazione del primo Presidente della Corte di cassazione.

A suo avviso, non si può considerare il magistrato avulso dalla vita reale; se esso ha una convinzione politica, se è iscritto a un partito, a causa di un divieto formale non rinunzierà in realtà né alle proprie convinzioni né alla propria iscrizione, e di conseguenza si comporterà secondo la sua interiore coscienza. Quindi, o la passione politica sarà un elemento deformatore della dirittura morale del magistrato, ed allora egli agirà in conformità; o il magistrato saprà trovare in se stesso e nella coscienza della sua altissima funzione il mezzo per staccarsi dal dominio delle intime convinzioni, ed allora non vi sarà bisogno di consacrare un divieto che rappresenterebbe indubbiamente una menomazione della sua libertà e una espressione antidemocratica e di sfiducia verse di lui.

Ritiene infatti che sarebbe prova di sfiducia verso tutti gli appartenenti all’ordine giudiziario l’affermare nella Carta costituzionale che si teme che le convinzioni politiche possano deformare il senso altissimo della giustizia, base fondamentale dell’opera del magistrato.

Osserva infine che si avrà la pubblica estimazione verso i magistrati, se essi saranno circondati da tutte quelle garanzie che il progetto di Costituzione contiene e che si vanno via via esaminando; ma non sarà certo il divieto dell’iscrizione ai partiti che potrà accrescere la fiducia della collettività della Magistratura.

Dichiara quindi di essere nettamente contrario a che, nella Carta costituzionale, sia consacrato tale principio.

MANNIRONI osserva che gli sforzi per rendere il potere giudiziario completamente autonomo rispetto al potere esecutivo e legislativo tendono a creare una Magistratura veramente indipendente, che non soffra di influenze esterne e non sia sospettata di dipendenza da altri poteri. Consentendo l’iscrizione dei magistrati a partiti politici, si verrebbe meno al principio generale, in quanto da un lato si toglierebbe la dipendenza dei magistrati dall’autorità governativa, mentre dall’altra si tollererebbe che essi appartenessero a partiti politici, con dipendenze gerarchiche e subordinazioni disciplinari.

TARGETTI propone il seguente ordine del giorno:

«La Commissione, pur riconoscendo che la partecipazione attiva alla vita dei partiti, come l’appartenenza ad associazioni segrete, può rendere più difficile al magistrato apprezzare fatti e giudicare persone, mantenendosi al disopra di qualsiasi prevenzione, e può diminuire la fiducia pubblica nella sua imparzialità, ritiene che stabilire il divieto proposto costituirebbe una contradizione di quei principî di libertà, al cui rispetto, nei riguardi di tutti i cittadini, devono ispirarsi le norme costituzionali del nuovo regime».

PRESIDENTE propone di iniziare la votazione sull’ordine del giorno dell’onorevole Targetti.

AMBROSINI ritiene che ciò non sia opportuno, in quanto, ove l’articolo proposto fosse respinto, egli voterebbe poi a favore dell’ordine del giorno.

LEONE GIOVANNI, Relatore, concorda con l’onorevole Ambrosini, sostenendo la necessità di votare prima l’articolo e successivamente la raccomandazione, che è ad esso subordinata.

DI GIOVANNI propone che l’articolo sia votato per appello nominale.

PRESIDENTE pone in votazione la prima parte dell’articolo:

«I magistrati non possono essere iscritti ad alcun partito politico».

Votano a favore: Ambrosini, Bozzi, Bulloni, Cappi, Castiglia, Leone Giovanni, Mannironi, Uberti.

Votano contro: Bocconi, Di Giovanni, Farini, Laconi, Ravagnan, Targetti.

Astenuti: Calamandrei, Conti.

(Con 8 voti favorevoli, 6 contrari e 2 astensioni, è approvata).

Pone in votazione la seconda parte: «o ad alcuna associazione segreta».

Votano a favore: Ambrosini, Bozzi, Bulloni, Cappi, Castiglia, Conti, Farini, Laconi, Leone Giovanni, Mannironi, Ravagnan, Targetti, Uberti.

Votano contro: Bocconi, Di Giovanni.

Astenuto: Calamandrei.

(Con 13 voti favorevoli, 2 contrari e una astensione, è approvata).

La seduta termina alle 17.15.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Conti, Di Giovanni, Farini, Laconi, Leone Giovanni, Mannironi, Ravagnan, Targetti, Uberti.

Assente: Porzio.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 20 DICEMBRE 1946 (seconda sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(SECONDA SEZIONE)

9.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 20 DICEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CONTI

INDICE

Potere giudiziario (Seguito della discussione)

Presidente – Bulloni – Bozzi – Leone Giovanni, Relatore – Castiglia, Relatore – Di Giovanni – Calamandrei, Relatore – Laconi – Targetti – Ravagnan – mannironi – ambrosini – Uberti.

La seduta comincia alle 9.15.

Seguito della discussione sul potere giudiziario.

PRESIDENTE avverte che, in attesa che l’onorevole Calamandrei sottoponga all’esame della Sezione il testo degli articoli concordati sull’unicità della giurisdizione, si discuterà dei Tribunali militari, e legge il secondo comma dell’articolo 14 del progetto Leone:

«I Tribunali militari possono essere istituiti solo in tempo di guerra».

BULLONI dichiara di essere favorevole, senza riserve, al mantenimento dei Tribunali militari anche in tempo di pace, in quanto la giustizia militare è un necessario completamento della disciplina e della vita delle Forze armate: il solo fatto che universalmente si riconosce l’opportunità dell’esistenza di tali Tribunali sta a dimostrare, a suo avviso, la necessità assoluta di una speciale giurisdizione.

BOZZI dichiara di essere favorevole in linea di massima al mantenimento dei Tribunali militari territoriali, ma pensa che debba essere soppresso il Tribunale Supremo Militare, che è soltanto un giudice di legittimità e non di merito, mentre non è concepibile che un esame di legittimità in materia penale debba essere sottratto al suo giudice naturale.

Sulla proposta di limitare il funzionamento dei Tribunali militari al solo tempo di guerra, ritiene che, se fossero soppressi in tempo di pace, tali Tribunali non sarebbero neppure istituiti in tempo di guerra, o si avrebbero dei pessimi giudici. Infatti gli organismi giudiziari non si possono improvvisare, specie se si considera il fatto che la giustizia militare dovrà avere nelle guerre moderne giurisdizione su tutto il territorio nazionale, perché tutti i cittadini sono impegnati nella guerra e non ha più significato il dire che i Tribunali militari sono al seguito delle truppe operanti. Si chiede poi se sia opportuna la loro abolizione, data la lunga tradizione che essi hanno in Italia, rilevando che l’argomento della tradizione ha, soprattutto in questa materia, una particolare importanza. Bisogna inoltre tener presente che, nell’attuale momento politico, mentre si sta per firmare il trattato di pace, la loro soppressione potrebbe avere un particolare significato.

Nota quindi che, mentre si pensa di abolire i Tribunali militari territoriali, si propone contemporaneamente di creare degli organi specializzati presso il magistrato ordinario; si ammette, cioè, l’esigenza di una giustizia speciale, con la partecipazione di elementi militari, con giudici che sarebbero speciali, ma sempre sui generis in quanto aventi giurisdizione in certo senso parallela a quella dei giudici ordinari.

Concorda con l’onorevole Bulloni nel concetto che i Tribunali militari sono il necessario completamento della vita e della disciplina militare, ricordando che gli avvocati che ne hanno frequentato le aule sanno che i giudici che ne fanno parte hanno tutta una loro particolare sensibilità.

Dichiara di avere del processo penale una visione particolare, in quanto il giudice penale ha di fronte a sé un uomo, mentre quello civile ha delle carte; il giudice penale deve emettere un giudizio quasi divino, perché giudica un suo simile, privandolo a volte della libertà personale; e nella giustizia militare vi sono atteggiamenti strettamente inerenti ad un ambiente che soltanto uomini che lo vivano possono comprendere e valutare. Non vede quindi la necessità di sopprimere i Tribunali territoriali per sostituirli con sezioni speciali, che avrebbero praticamente le stesse funzioni.

Conclude dicendo che, a suo avviso, si potrebbe adottare la proposta Calamandrei di stabilire nella Costituzione un termine per provvedere alla revisione delle giurisdizioni speciali; rimettere cioè al legislatore ordinario la facoltà di sopprimerle o di conservarle, dopo approfondita valutazione.

LEONE GIOVANNI, Relatore, dichiara innanzi tutto di essere d’accordo con l’onorevole Bozzi sull’abolizione del Tribunale Supremo Militare, il quale, istituito per un supremo controllo di natura giuridica, non ha ragione d’essere come Tribunale presieduto da un appartenente alle Forze armate e con un collegio composto in buona parte di militari, mentre alla sua competenza sono affidate questioni non disciplinari, ma di diritto, per le quali occorre la competenza specifica del giudice ordinario.

Ritiene poi che sia necessario il mantenimento dei Tribunali militari in tempo di guerra, quando è indispensabile l’adattamento della giustizia a particolari contingenze belliche. I Tribunali militari straordinari seguono le Armate anche fuori del territorio nazionale e non sarebbe concepibile una giustizia diversa da quella militare, perché i giudizi su reati commessi da appartenenti alle Forze armate dovrebbero altrimenti essere trasferiti a Tribunali ordinari metropolitani, lontani spesso anche migliaia di chilometri. Pensa quindi che nella Carta costituzionale si debba espressamente parlare dell’esistenza dei Tribunali militari in tempo di guerra, al fine di poterne predisporre il funzionamento.

Sulla conservazione dei Tribunali militari territoriali, non ritiene decisiva l’osservazione dell’onorevole Bozzi sulla necessità di averli efficienti per l’eventualità di una guerra, in quanto, a suo avviso, sarebbe sufficiente prestabilire tutta una disciplina per poterli far funzionare al momento opportuno. In proposito ricorda che esiste in Italia una legge che preordina tutti i servizi e anticipa le disposizioni da prendere per il tempo di guerra: ritiene quindi che, analogamente, si potrebbe disciplinare in tempo di pace la materia riguardante il Tribunale di guerra, reclutando gli elementi tecnici dalla Magistratura ordinaria. Praticamente, cioè, i Tribunali militari territoriali dovrebbero essere trasformati in organi speciali della giustizia, nei quali sarebbe ammessa la partecipazione di elementi militari, indispensabili per il loro apporto di competenza in materia di disciplina militare.

Osserva che nell’attuale legislazione la competenza dei Tribunali militari dovrebbe essere molto ristretta, in quanto i reati a carattere prettamente militare sono pochissimi, mentre gli altri, affidati alla loro competenza, sono per lo più reati a carattere comune. Pur riconoscendo che per i reati prettamente militari è utile e opportuno l’intervento di tecnici, cioè di coloro che, vivendo la vita particolare dell’esercito, possono portare un valido contributo al giudizio, ritiene che, ponendo accanto al giudice ordinario tali elementi tecnici, ogni difficoltà sarebbe praticamente risolta.

Rileva poi che la giustizia militare è un organo legato più rigidamente di tutti gli altri al potere esecutivo, perché alle dirette dipendenze del Ministero della guerra, senza possibilità alcuna di ingerenza da parte del Ministero della giustizia. A ciò si può obiettare che anche la giustizia ordinaria dipende dal Ministro Guardasigilli: ma in questo campo vi sono larghissime garanzie.

Il Tribunale militare presenta poi l’altra anomalia di trovarsi alle dipendenze, o per lo meno di subire l’intervento e il controllo del Pubblico Ministero, il quale esercita poteri così ampi da distruggere quella distinzione di funzioni che deve esistere tra Pubblico Ministero e giudice. Il relatore, unico tecnico del Tribunale militare, non è che un organo della giustizia militare, la quale ha al suo vertice il Procuratore Generale.

A suo avviso, se si costituisse un Tribunale militare in cui si aumentasse il numero dei giudici tecnici, dando la presidenza ad un tecnico e chiamando dei militari in numero più ristretto a comporre il collegio, si avrebbe senz’altro un giudice speciale. Sopprimendo poi il Tribunale Supremo e corrispondentemente la Procura generale militare, come propone l’onorevole Bozzi, questo giudice speciale non avrebbe più alcun legame o connessione con la giurisdizione ordinaria e sarebbe ancor più vincolato al Ministero della guerra, senza nemmeno il tramite del Procuratore Generale, il quale può rappresentare una certa garanzia.

Rileva che è inoltre da tener presente il principio della immediatezza della giustizia; la necessità cioè di rendere, il più possibile, facile il contatto fisico della parte col giudice. Tale principio, in un’organizzazione dell’esercito ridottissima quale sarà la nostra, sarebbe eluso, in quanto i Tribunali militari sono attualmente pochi e nell’ordinamento che va apprestandosi sembra saranno ridotti a 6, con una sfera di competenza territoriale larghissima, cosicché gli imputati, i difensori di fiducia, i testimoni e gli altri interessati sarebbero costretti a percorrere lunghissime distanze per accedere all’ufficio giudiziario. Nascerebbe da ciò, tra gli altri inconvenienti, la necessità per gli avvocati difensori di trasmettere l’incarico ad altro collega, che potrebbe anche essere più rispettato, ma non riscuotere la stessa fiducia nella parte.

Quindi, pur rimanendo fermo nel proprio convincimento sull’abolizione dei Tribunali militari territoriali, ritiene che si debbano mantenere i Tribunali militari per il periodo di guerra, dando la facoltà al legislatore di organizzarli con legge ordinaria. In linea subordinata, accetterebbe la proposta dell’onorevole Bozzi per l’abolizione del Tribunale Militare Supremo con una norma che stabilisse, come per gli altri giudici speciali, che la composizione dei Tribunali militari deve avere una certa disciplina per impedire che l’organo tecnico venga sopraffatto da quello non tecnico o viceversa.

CASTIGLIA, Relatore, ricorda di aver già espresso, nell’esposizione della relazione dell’onorevole Patricolo, il suo pensiero in favore della conservazione dei Tribunali militari anche in tempo di pace. Ritiene che, se si sono verificati inconvenienti di ordine tecnico, ad essi si possa ovviare non con la soppressione dell’istituto, ma modificando o eliminando tutto quello che l’esperienza abbia rivelato come poco efficiente o inadatto allo scopo. Cita in proposito il problema della prevalenza dell’elemento militare su quello tecnico, inconveniente al quale si potrà facilmente ovviare con una riforma affidata al futuro legislatore. Ricorda inoltre che attualmente esiste un ruolo della Magistratura militare che è, a suo avviso, molto utile, in quanto contempera le esigenze della competenza tecnica con quelle della conoscenza della disciplina e dell’ambiente militare.

Non ritiene poi che l’inconveniente della mancanza di immediatezza per i Tribunali militari sia insuperabile, facendo presente che già esistono Sezioni distaccate, come quella di Catania, che funzionano egregiamente; sarà quindi sufficiente creare Sezioni distaccate per ognuno dei sei Tribunali militari territoriali.

Dichiara quindi che, pur riconoscendo che l’elemento militare è superfluo nel Tribunale Supremo, la questione della soppressione di tale organo non può, a suo avviso, essere affrontata che in sede di revisione dell’ordinamento giudiziario.

Concludendo, ricorda che l’esperienza ha dimostrato che i Tribunali militari hanno dato ottimi risultati, sia durante il fascismo che prima, attuando sempre scrupolosamente la giustizia militare.

DI GIOVANNI dichiara di essere favorevole alla abolizione del Tribunale Supremo Militare, ma di ritenere che debbano essere conservati i Tribunali territoriali, pensando che questi non potrebbero essere improvvisati o creati volta per volta in tempo di guerra, come pensa l’onorevole Leone. È però d’avviso che la loro competenza dovrebbe essere limitata ai soli reati militari e non estendersi ai reati comuni aventi con quelli una semplice connessione.

CALAMANDREI, Relatore, fa presente che, se i Tribunali militari territoriali dovessero essere conservati, non potrebbero avere altro aspetto che quello di Tribunali speciali. Dichiara di essere contrario alla loro conservazione e propone che all’articolo riguardante il mantenimento della Corte dei conti, del Consiglio di Stato, ecc., come giurisdizioni speciali, sia aggiunto il seguente comma:

«I Tribunali militari possono essere istituiti soltanto in tempo di guerra».

LACONI pensa che tutti i motivi addotti per la conservazione dei Tribunali militari si riferiscano ad un vecchio concetto dell’esercito; ma se questo viene considerato come l’insieme di tutti i cittadini-soldati che per un determinato periodo di tempo e per superiori necessità devono essere sottoposti a speciali doveri, ritiene che non vi possano essere dubbi sull’abolizione di quelle giurisdizioni speciali, pur ammettendo l’esistenza di una legislazione particolare per determinati reati.

Dichiara quindi di avere una istintiva repulsione a che la guerra sia prevista nella Costituzione, ricordando un articolo approvato dalla prima Sottocommissione, nel quale è detto che la Repubblica italiana rinuncia alla guerra come strumento per la realizzazione dei suoi diritti. A suo avviso, anche nel risolvere il problema in esame, la Sezione dovrebbe ispirarsi a quel principio.

TARGETTI concorda con l’onorevole Laconi e vorrebbe che della «guerra» fosse bandita persino la parola, tanto da voler proporre di mutare la denominazione del Ministero della guerra in Ministero degli affari militari, riprendendo una vecchia proposta dei socialisti tedeschi fatta alla fine della prima guerra mondiale.

Ricorda che la riforma del Codice militare è un argomento che si va trascinando da moltissimi anni e che chiunque, come lui, ha avuto occasione di occuparsi un po’ della questione, ha potuto certamente constatare come i pochissimi cultori del diritto penale militare non abbiano lasciato alcuna traccia notevole del loro pensiero. Il diritto penale militare è una creazione artificiosa, ed il Tribunale militare ha in tempo di guerra una sua funzione, ma non in tempo di pace. Per le stesse considerazioni fatte da altri colleghi, dichiara quindi di essere favorevole alla soppressione dei Tribunali militari.

RAVAGNAN ritiene che, con un esercito necessariamente e forzatamente ridotto a minime proporzioni, e che sarà prettamente tecnico, sia necessario reagire alla possibilità del crearsi di una casta chiusa e trovare un modo di realizzare un maggior legame tra il soldato e la popolazione.

Osserva che il popolo considera il soldato arrestato o sottoposto a processo alla stessa stregua di come considera i delinquenti passionali, cioè con comprensione ed indulgenza. A suo avviso la sanzione e la repressione dei reati militari dovrebbe essere fondata sugli stessi principî che valgono per quelli deferiti alla Corte di assise; di conseguenza sottratti alla competenza dei Tribunali militari, che dovrebbero essere soppressi in tempo di pace e ammessi soltanto in tempo di guerra.

Dichiara quindi di associarsi alla proposta Calamandrei per la creazione di Sezioni speciali con la partecipazione di tecnici militari.

MANNIRONI avverte innanzi tutto di essere contrario alla soluzione di compromesso proposta dall’onorevole Bozzi, ritenendo che la questione della soppressione o meno della giurisdizione militare debba essere risolta in questa sede.

Dato che si tende ad eliminare tutte le giurisdizioni speciali, ritiene che si debbano sopprimere anche i Tribunali militari territoriali.

Ritiene che l’obiezione dell’onorevole Bozzi circa la difficoltà di creare dei Tribunali militari in tempo di guerra non sia insuperabile, in quanto i giudici militari in periodo bellico sono per lo più sempre improvvisati e quindi privi di preparazione giuridica o tecnica, perché il corpo della giustizia militare è talmente esiguo in tempo di pace da essere certamente insufficiente in tempo di guerra. Anche il fatto che la guerra si combatte non solo al fronte ma in tutte le città, non ha valore, in quanto i Tribunali militari di guerra potranno funzionare anche in quelle città dove si combatte.

PRESIDENTE dichiara di concordare con l’onorevole Laconi sulla necessità che tutta la concezione della materia militare del nuovo Stato democratico in formazione debba essere completamente diversa da quella che ha prevalso fino ad oggi. Ritiene che si debba creare uno Stato senza base militare e senza possibilità di nuove avventure militaresche. A tale scopo è necessario bandire dalla Costituzione tutto ciò che possa riferirsi a particolari considerazioni delle varie prerogative militari.

LACONI ritiene che la questione della soppressione o meno della giurisdizione militare non debba essere decisa prima di avere decisa la sorte delle altre giurisdizioni speciali, quali la Corte dei conti, il Consiglio di Stato, ecc.

PRESIDENTE è d’accordo con l’onorevole Laconi e avverte che si passa all’esame degli articoli concordati riguardanti le giurisdizioni speciali.

Dà quindi lettura del primo articolo:

«Il potere giudiziario in materia civile e penale è esercitato dai giudici ordinari, istituiti e regolati dalla legge sull’ordinamento giudiziario».

Lo pone ai voti.

(È approvato).

Pone in votazione l’articolo 2:

«Presso gli organi giudiziari ordinari possono essere istituite, per determinate materie, apposite Sezioni con la partecipazione di magistrati specializzati o di cittadini esperti nominati a norma della legge sull’ordinamento giudiziario».

(È approvato).

Legge l’articolo 3:

«Ai giudizi penali di competenza della Corte di assise partecipano giudici popolari nei modi fissati dalla legge».

LACONI, dato che nell’articolo si prospetta il problema della Corte di assise, non ancora discusso, propone di rinviarne la votazione.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta dell’onorevole Laconi.

(È approvata).

Dà lettura dell’articolo 4:

«Non possono essere istituiti organi speciali di giurisdizione (se non per legge votata a maggioranza qualificata)».

Avverte che l’articolo sarà posto in votazione per divisione. Pone quindi ai voti la prima parte: «Non possono essere istituiti organi speciali di giurisdizione».

(Non è approvata).

Legge la seconda parte dell’articolo: «se non per legge votata a maggioranza qualificata».

AMBROSINI ritiene che una formula così generica sia insufficiente e che si debba precisare di quale maggioranza si tratti.

CALAMANDREI, Relatore, chiarisce che nel concordare l’articolo si era pensato di usare la stessa formula che varrà per la modificazione di una legge costituzionale, ma, presupponendo che nelle regole generali attinenti alla modificazione della Costituzione si dirà che le leggi costituzionali sono modificabili solo con le stesse forme con cui si modifica la Costituzione, l’aggiunta posta fra parentesi sarebbe stata priva di contenuto pratico.

Ritenendo che anche in altri campi sarà opportuno, per determinate leggi costituzionali, trovare un sistema di modificazione più rigido di quello valevole per le leggi ordinarie, ma meno rigido di quello che occorrerà per modificare la Costituzione, era stata adottata la formula proposta, così da ottenere un sistema intermedio.

AMBROSINI osserva che con tale sistema si presuppone che nei principî della Costituzione siano stabilite diverse categorie di norme giuridiche: quelle di natura costituzionale, altre della natura delle leggi ordinarie, ed altre ancora di natura intermedia. Dato che ciò non è ancora stato stabilito, dichiara di essere contrario a questa terza categoria di norme giuridiche, sia per non complicare troppo la struttura della Costituzione, sia per la necessità di procedere con cautela nello stabilire i casi nei quali occorrono leggi costituzionali.

Propone quindi, o di ricorrere alla formula esplicita «se non con legge costituzionale» o di precisare fin da ora il tipo di maggioranza qualificata da richiedere.

DI GIOVANNI ritiene che si dovrebbe dire soltanto che non possono essere istituiti organi speciali di giurisdizione in materia penale.

LEONE GIOVANNI, Relatore, presenta un emendamento, tendente ad aggiungere alla prima frase dell’articolo le parole: «se non per legge costituzionale».

TARGETTI propone di dire: «In nessun caso, neppure per legge votata a maggioranza qualificata, potranno costituirsi organi speciali di giurisdizione in materia penale».

LEONE GIOVANNI, Relatore, dichiara di aderire alla formula proposta dall’onorevole Targetti.

CALAMANDREI, Relatore, ricorda che anche nella legislazione fascista le leggi sull’ordinamento giudiziario avevano un trattamento speciale rispetto alle altre, in quanto non potevano essere modificate mediante decreto legislativo.

Ritiene quindi che, in attesa che venga deciso di indicare o meno nella Costituzione una determinata maggioranza qualificata, si potrebbe dire soltanto che non possono essere istituiti organi speciali di giurisdizione se non nei modi secondo i quali può essere modificata la legge sull’ordinamento giudiziario.

LEONE GIOVANNI, Relatore, propone di adottare la nuova formula seguente:

«In materia penale non possono essere istituiti giudici speciali. In materia civile ed amministrativa non possono essere istituiti giudici speciali, se non con legge votata a maggioranza assoluta dei componenti dell’Assemblea».

AMBROSINI preferirebbe che fosse detto più specificatamente: «a maggioranza assoluta dei componenti l’Assemblea e due terzi dei votanti».

LACONI dichiara di preferire la formula più vaga, in quanto la procedura ora prevista potrebbe essere successivamente modificata.

AMBROSINI ritiene che non si possa affidare ad altri la facoltà di mutare quanto è stato deciso e che si debba dire invece tassativamente quale dovrà essere la procedura per la modificazione della Costituzione e se si possa procedere alla sua riforma con una semplice legge ordinaria o se occorra un sistema intermedio.

PRESIDENTE dà lettura dell’articolo nella seguente formulazione concordata fra gli onorevoli Calamandrei e Leone:

«Non possono essere istituiti organi speciali di giurisdizione se non per legge votata a maggioranza assoluta dei componenti l’Assemblea. In materia penale non possono essere istituite giurisdizioni speciali».

TARGETTI propone che il secondo comma sia così modificato: «In nessun caso possono essere istituiti giudici speciali in materia penale».

PRESIDENTE pone in votazione l’articolo con la modificazione proposta dall’onorevole Targetti.

(É approvato).

TARGETTI e LEONE GIOVANNI, Relatore, desiderano che sia consacrato a verbale che, approvando tale articolo, si intende che, qualora fosse stabilita in linea di massima un’altra forma di maggioranza qualificata, non si insisterebbe sul contenuto del primo comma.

PRESIDENTE prende atto del chiarimento.

Dà quindi lettura dell’articolo 5:

«Nelle materie stabilite da apposite leggi il potere giudiziario è esercitato dalle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, dalla Giunta provinciale amministrativa, dalla Corte dei conti e dagli organi del Contenzioso tributario».

CALAMANDREI, Relatore, dato che sulle giurisdizioni speciali considerate nell’articolo possono manifestarsi tendenze diverse, propone di sospenderne temporaneamente la discussione passando all’esame degli articoli 6 e 7.

PRESIDENTE dà lettura dell’articolo 6:

«Contro le sentenze pronunciate in ultimo grado da qualsiasi organo ordinario o speciale è sempre ammesso il ricorso alla Corte di cassazione, istituita per mantenere l’unità del diritto nazionale attraverso la uniformità della interpretazione giurisprudenziale e per regolare le competenze»; e dell’articolo 7:

«Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procederà, con legge votata a maggioranza qualificata, alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti».

AMBROSINI non è d’accordo con la proposta Calamandrei in quanto la disposizione dell’articolo 6 non ha valore specifico se non sia stato precedentemente votato l’articolo 5. Infatti, se non venisse approvato il principio del mantenimento delle giurisdizioni speciali, non avrebbe ragion d’essere il contenuto dell’articolo 6, giacché il ricorso alla Corte di cassazione è ammesso attualmente dal nostro ordinamento.

LACONI ritiene che l’articolo 7 sia un corollario dell’articolo 4, testé approvato, e che possa essere esaminato prima di passare alle eccezioni.

AMBROSINI fa notare che, se fossero soppresse le giurisdizioni speciali comprese nell’articolo 5, non avrebbe più ragion d’essere la disposizione dell’articolo 7.

Ritenendo che la Corte dei conti, il Consiglio di Stato, le Giunte provinciali amministrative ecc., non si possano sopprimere, in considerazione dei servigi resi fino ad oggi, pensa che tuttavia non si possa precludere al futuro legislatore la facoltà di farlo; l’articolo 7 prevede tale possibilità fissando cinque anni al legislatore per il riesame di tutta la materia e per decidere se sia il caso di mantenere, sopprimere o modificare tali giurisdizioni speciali.

CALAMANDREI, Relatore, fa osservare che, mentre la disposizione dell’articolo 7 vale per tutte le centinaia di piccole giurisdizioni speciali esistenti, l’articolo 5 riguarda solamente le più importanti, la cui conservazione o soppressione è questione di tale importanza politica da dover essere necessariamente affrontata nella Costituzione.

UBERTI chiede se le Giunte provinciali amministrative conserveranno in futuro l’attuale denominazione.

AMBROSINI ricorda che il Comitato di redazione dell’ordinamento regionale, dopo aver esaminato lungamente il problema, decise a maggioranza che nella Regione avesse istituirsi una Corte di giustizia amministrativa con eventuali Sezioni. Quando la questione andò all’esame della seconda Sottocommissione, fu stabilito di conoscere, prima di decidere, la deliberazione della seconda Sezione. Quindi, ove fosse mantenuto il sistema della giustizia amministrativa come giurisdizione speciale, naturalmente alla Giunta provinciale amministrativa sarebbe opportuno sostituire la Carte di giustizia amministrativa.

TARGETTI nota che in tal caso si darebbe per risolta la questione della giustizia amministrativa della Regione.

AMBROSINI risponde che quanto egli ha detto è subordinato all’approvazione del principio.

BOZZI fa presente che la Giunta provinciale amministrativa sarà l’organo di giustizia regionale, sul quale si dovrà decidere.

PRESIDENTE propone che sia votato innanzi tutto il principio del mantenimento o meno delle giurisdizioni speciali contemplate nell’articolo 5.

CALAMANDREI, Relatore, dichiara che sarebbe stato suo desiderio, prima di passare alla votazione, di spiegare le ragioni per le quali è contrario al mantenimento delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato. Dato però che ciò richiederebbe un certo tempo, propone di rinviare ad altra seduta la discussione dell’articolo 5.

(Così rimane stabilito).

LEONE GIOVANNI, Relatore, fa presente che in merito al ricorso in Cassazione, di cui nella seconda parte dell’articolo 5 proposto, vi è l’articolo 17 del suo progetto, nel quale è detto che «in ogni causa devono essere osservati tre gradi di giurisdizione», pur con delle eccezioni. Dichiara che l’articolo tende ad assicurare con una regola generale i tre gradi di giurisdizione ed a permettere che l’abolizione del secondo grado sia attuata dal legislatore in determinati casi, che potrebbero essere limitati alle cause civili di infima portata e a quelle penali di scarso rilievo, come le contravvenzioni.

AMBROSINI, pur riconoscendo che le esigenze contemplate nell’articolo 17 del progetto Leone sono giustissime, non ritiene che possano essere prese in considerazione nella Costituzione, ma che debbano rientrare nella legge sull’ordinamento giudiziario.

DI GIOVANNI concorda con l’onorevole Ambrosini, aggiungendo che in ogni caso la formulazione proposta meriterebbe qualche ritocco, in quanto il dire che in ogni causa si debbano osservare tre gradi di giurisdizione appare come una coazione per coloro che debbono usare di tale facoltà.

CASTIGLIA, Relatore, fa notare che con la formulazione Leone si investirebbe la questione della Corte di assise, che dovrà invece essere esaminata successivamente, in quanto, se questa rimanesse come è attualmente, non vi sarebbe un secondo grado di giurisdizione. Altrettanto deve dirsi per le sentenze del Consiglio di Stato in materia giurisdizionale. Propone quindi di sospendere la discussione sull’articolo 17 del progetto Leone e di votare l’articolo 6 dell’onorevole Calamandrei, che però preferirebbe terminasse alle parole: «ricorso alla Corte di cassazione», senza ulteriori specificazioni.

BULLONI, riguardo ai Tribunali militari di guerra, ritiene che sarebbe opportuno stabilire che la Cassazione a Sezioni riunite ha la potestà di annullare quelle sentenze nelle quali si riscontri incompetenza o eccesso di potere.

LEONE GIOVANNI, Relatore, concorda con l’onorevole Bulloni e insiste affinché sia votato l’articolo 17 del suo progetto. Fa presente in proposito che è proprio attraverso le norme di procedura che viene più facilmente elusa la garanzia del cittadino al ricorso. Ritiene perciò che sarebbe opportuna una formula che impedisse di privare il cittadino del secondo grado di giurisdizione.

PRESIDENTE è d’avviso che tale formula potrebbe essere inserita fra i principî generali.

LEONE GIOVANNI, Relatore, non crede che nella parte contenente le norme sui diritti e doveri dei cittadini si possa inserire questa, che a suo avviso trova sede più adatta nell’articolo in esame.

Per quel che riguarda la Corte di assise, ritiene che, se dovesse sopravvivere, si dovrebbero aggiungere delle norme ad essa riferentisi.

Chiede infine che, ove non si vogliano stabilire i tre gradi in materia civile, si fissino almeno per la materia penale.

BULLONI è d’opinione che, se si vuol affermare il principio dei tre gradi di giurisdizione, essi debbano essere assicurati a entrambe le materie, penale e civile. Non ritiene opportuna la distinzione fatta dall’onorevole Leone, tendente a sottrarre al terzo grado di giurisdizione le contravvenzioni, in quanto vi sono contravvenzioni di carattere finanziario che comportano considerevoli entità patrimoniali e meritano quindi l’esaurimento di tutti i gradi di giurisdizione.

CALAMANDREI, Relatore, dichiara di essere contrario a che si parli nella Costituzione di un terzo grado di giurisdizione, perché la Cassazione non è un grado.

Ricorda in proposito all’onorevole Leone che nella Costituzione uscita dalla Rivoluzione francese – che è stata quella che ha proclamato il principio del doppio grado – tale norma non era contemplata.

Chiede quindi che sia consacrato a verbale che egli è contrario a che si inserisca nella Costituzione l’articolo 17 proposto dall’onorevole Leone, pur riconoscendo che esso contiene un principio fondamentale dell’ordinamento giudiziario e della procedura sia civile che penale.

BOZZI si associa alla dichiarazione dell’onorevole Calamandrei.

LEONE GIOVANNI, Relatore, dichiara di ritirare il suo articolo 17.

PRESIDENTE mette ai voti l’articolo 6 così formulato:

«Contro le sentenze pronunciate in ultimo grado da qualsiasi organo giudiziario ordinario o speciale è sempre ammesso il ricorso alla Corte di cassazione».

(È approvato).

Apre la discussione sull’articolo 7:

«Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procederà, con legge votata a maggioranza qualificata, alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti».

BULLONI propone di dire: «maggioranza assoluta».

CALAMANDREI, Relatore, sarebbe d’avviso di abolire del tutto l’inciso relativo alla maggioranza.

PRESIDENTE pone ai voti l’articolo 7 così modificato:

«Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procederà alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti».

(È approvato).

Apre la discussione sul secondo comma dell’articolo 12 del progetto Calamandrei:

«Al vertice dell’ordinamento giudiziario, unica per tutto lo Stato, siede in … la Corte di cassazione istituita per mantenere l’unità del diritto nazionale attraverso la uniformità della interpretazione giurisprudenziale e per regolare le competenze fra i giudici».

TARGETTI ritiene che il comma dovrebbe essere soppresso, in quanto pensa che, se la Commissione si astenesse dall’affermare l’unicità della Cassazione, non per questo si pronunzierebbe per la resurrezione delle Corti regionali. A suo avviso, non è necessario nel compilare la Carta Costituzionale stabilire alcuna norma relativa alla Cassazione che rimarrà nella situazione attuale.

Dichiara di aver personalmente molti dubbi circa la necessità assoluta, invariabile attraverso il tempo, dell’unicità della Cassazione. Anzi, se fosse costretto a prendere oggi una decisione impegnativa anche per l’avvenire, forse propenderebbe per le Corti regionali, in considerazione anche del fatto che nel campo penale sussiste l’unicità della Cassazione, ma non certo dell’interpretazione.

BOZZI dichiara di essere favorevole all’unicità della Cassazione e di aderire alla proposta Targetti tendente a non includere alcuna disposizione in proposito nella Costituzione, nel senso però che la soppressione del comma proposto dall’onorevole Calamandrei non significa nemmeno tendenza alla ricostituzione delle Cassazioni regionali.

AMBROSINI aderisce alla proposta dell’onorevole Targetti, in quanto la interpreta nel senso che rimane impregiudicata la creazione della Sezione di Cassazione prevista dallo Statuto siciliano.

DI GIOVANNI aggiunge che per la Sicilia si dovrà parlare non di Sezione, ma di Cassazione regionale.

CASTIGLIA aderisce alle precisazioni degli onorevoli Di Giovanni ed Ambrosini.

CALAMANDREI, Relatore, dopo aver ricordato di essere stato da decenni sostenitore dell’unicità della Cassazione, afferma di non concepire altrimenti la Suprema Corte, specie nel momento attuale in cui si sta creando uno Stato a carattere regionale. A suo avviso infatti, uno dei pericoli delle autonomie regionali è il moto centrifugo che si potrebbe determinare alla periferia; occorre quindi porre al vertice dello Stato degli organismi che servano a contrastare questa tendenza centrifuga. Uno dei mezzi fondamentali è quello di ricondurre tutta la interpretazione giurisprudenziale delle varie Corti di appello ad un’unica interpretazione centrale. Ricorda in proposito le affermazioni del Mortara, che nel suo Commentario ha notato le differenze della giurisprudenza al tempo delle Cassazioni regionali. Aggiunge inoltre che, proprio per questi motivi, la Cassazione unica, se già non esistesse, in Italia dovrebbe essere creata, così come in Germania nel 1871 fu istituito il Tribunale dell’impero per ovviare al pericolo di forze centrifughe nell’interpretazione del diritto.

Insiste quindi nel sostenere il principio della Cassazione unica, aggiungendo di ritenere indispensabile che ne sia fatta menzione nel testo costituzionale.

AMBROSINI desidera chiarire che la sua posizione, appoggiata dagli onorevoli Di Giovanni e Castiglia, si riferisce esclusivamente alla Sicilia e che personalmente non intende estendere le sue riserve alle altre Regioni. Ricorda che nell’articolo 2 del progetto di riforma dell’ordinamento regionale approvato dalla seconda Sottocommissione è detto espressamente che per la Sicilia, come per le altre Regioni indicate singolarmente, è riconosciuta una speciale condizione giuridica con Statuto da approvarsi con legge costituzionale. Ora, poiché la questione è stata decisa nello Statuto per la Sicilia, approvato con legge dello Stato, e che lo stesso Governo ha riconosciuto debba ritenersi in vigore, ritiene il principio come già acquisito.

DI GIOVANNI si associa alle dichiarazioni dell’onorevole Ambrosini.

La seduta termina alle 12.30.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Conti, Di Giovanni, Farini, Laconi, Leone Giovanni, Mannironi, Ravagnan, Targetti, Uberti.

Assente: Porzio.

VENERDÌ 20 DICEMBRE 1946 (prima sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(PRIMA SEZIONE)

2.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI VENERDÌ 20 DICEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Potere esecutivo (Seguito della discussione)

Presidente – Nobile – Tosato, Relatore – La Rocca, Relatore – Grieco – Lussu – Einaudi – Mortati – Rossi Paolo – Bordon – Fabbri – Codacci Pisanelli – Vanoni.

La seduta comincia alle 11.05.

Seguito della discussione sul potere esecutivo.

PRESIDENTE apre la discussione sulla proposta dell’onorevole Nobile concernente la costituzione di un Consiglio Supremo della Repubblica.

NOBILE premette che la sua proposta che ora sottopone ai colleghi sotto forma di questione di principio, approvata la quale si potrà redigere l’esatta formulazione, ha i suoi precedenti soltanto nell’ordinamento inglese ed in quello sovietico, i quali, però, hanno istituti dotati di attribuzioni più larghe di quelle che, secondo la sua idea, dovrebbero essere conferite al Consiglio Supremo della Repubblica. Fa presente che la questione di principio è appunto quella di decidere sull’opportunità o meno che il Capo dello Stato, il quale rappresenta la personalità stessa dello Stato ed è l’anello di congiunzione fra i tre poteri, venga assistito nell’esercizio delle sue funzioni da questo Consiglio. Aggiunge che la decisione in senso affermativo renderebbe possibile, sia il conferimento al Capo dello Stato di poteri più ampi con l’intesa che su determinate questioni la decisione debba essere subordinata al parere concorde del Consiglio, sia il superamento di molte difficoltà, a proposito dell’assunzione dei poteri del Presidente della Repubblica, nel caso di sua impossibilità fisica, di morte, di grave e prolungata infermità, da parte di altra persona; perché si potrebbe stabilire di affidare le funzioni di Presidente al componente del Consiglio più anziano di età o di carica politica.

È del parere che tale Consiglio debba essere composto di cinque o sei membri elettivi, nominati dall’Assemblea Nazionale, contemporaneamente al Capo dello Stato; e che la scelta dei componenti debba essere circoscritta fra coloro che hanno una più lunga esperienza politica: si potrebbe cioè considerare come requisito di eleggibilità il fatto di essere stato Capo dello Stato, o Capo del Governo, o Ministro.

Considera poi le materie sulle quali il Consiglio Supremo della Repubblica dovrebbe essere sentito: convocazione e scioglimento delle due Camere, esercizio del diritto di grazia, attribuzione e revoca del Comando delle Forze armate, dichiarazione dello stato di guerra e proclamazione dello stato d’assedio, ratifica dei trattati internazionali, nomina e revoca dei rappresentanti diplomatici, conferimento di decorazioni e attribuzione di titoli onorifici.

Dà poi lettura del seguente questionario, nel quale sono fissati i punti che potrebbero divenire oggetto di discussione:

1°) si ritiene opportuno che il Capo dello Stato, anello di congiunzione fra i tre poteri, e che quindi rappresenta la personalità stessa dello Stato, sia assistito nell’esercizio delle sue alte funzioni da un Consiglio elettivo, le cui attribuzioni siano fissate in modo da non interferire con l’opera del Ministero?

2°) nel caso affermativo, deve tale Consiglio Supremo della Repubblica essere eletto dalle due Camere riunite insieme all’atto della loro prima convocazione? o piuttosto deve essere eletto solo dalla Camera dei Deputati?

3°) di quanti membri dovrebbe essere costituito? e quali requisiti essi dovrebbero avere?

4°) per quali atti sarebbe obbligatorio per il Capo dello Stato attenersi alle decisioni del Consiglio? e vi sarebbero particolari atti per i quali nella votazione del Consiglio fosse richiesto un quorum?

5°) nel caso di morte o di impedimento temporaneo del Capo dello Stato, per cui occorresse sostituirlo, quale dei membri del Consiglio dovrebbe prenderne le funzioni? il più anziano di età? o quegli che ha ricoperto la carica più elevata?

6°) quali sarebbero le attribuzioni del Consiglio Supremo?

TOSATO, Relatore, osserva anzitutto che l’introduzione nell’organizzazione costituzionale italiana di un tale istituto altererebbe il principio fondamentale su cui si fonda il Governo parlamentare, che è basato sull’esistenza di un Capo dello Stato monocratico, il quale non sopporta come suo vicino un organo consultivo distinto dal Governo. Nella forma di Governo parlamentare consiglieri del Capo dello Stato non possono essere che i Ministri.

Dopo aver rilevato come tale Consiglio Supremo costituisca, a suo avviso, una reminiscenza di carattere monarchico, fa presente che tale istituto non può essere posto a raffronto con il Praesidium della Costituzione sovietica, che non ha affatto la natura di un organo consultivo accanto al Capo dello Stato, ma è esso stesso il Capo dello Stato, in seno al quale il Presidente della Repubblica è il primus inter pares.

Quanto alle attribuzioni, osserva che, sia che si trattasse di un organo puramente consultivo, sia che dovesse dare pareri vincolanti, il Consiglio Supremo finirebbe sempre con l’essere un organo giuridicamente e politicamente vincolante tutta l’opera del Presidente; ed allora, non essendovi più a Capo dello Stato un Presidente, ma un Collegio, ciò significherebbe abbandonare la forma di Governo adottata per orientarsi, se mai, verso la forma di Governo direttoriale svizzera.

Concludendo, dichiara di essere contrario alla proposta dell’onorevole Nobile, la quale, tra l’altro, espone al pericolo della fluidità delle responsabilità, non tenendo conto del concetto – di cui il Comitato si è preoccupato in modo particolare – della determinazione dei doveri e delle responsabilità individuali.

LA ROCCA, Relatore, è favorevole all’istituzione del Consiglio Supremo della Repubblica, al quale dovrebbe essere attribuito il compito di assistere il Capo dello Stato nella decisione delle questioni attribuite alla sua competenza ed alla sua responsabilità.

Riconosce che tale nuovo istituto non ha nulla a che fare col Praesidium sovietico, il quale non è altro che il Capo dello Stato sotto forma collegiale; e d’altra parte differisce anche dai vecchi Consigli della Corona, che erano nominati dall’alto, mentre questo dovrebbe avere base elettiva ed essere costituito da schietti rappresentanti della volontà popolare, quali potrebbero essere i Presidenti delle Camere e gli esponenti dei partiti e delle correnti politiche nominati dall’Assemblea Nazionale.

Non ritiene – come l’onorevole Tosato – che, con l’istituzione di tale organo, venga a deformarsi la linea del sistema parlamentare, il quale, tra l’altro, è basato sul principio della responsabilità dei Ministri. Non si crea, infatti, un Capo dello Stato collegiale, ma ci si limita a porre accanto al Presidente della Repubblica, la cui figura rimane netta ed inconfondibile, uomini che costituiscono nel loro insieme un organo che, assistendo il Presidente nell’esercizio di determinate funzioni ed avendo la sua base nella volontà popolare, dà una maggiore garanzia che il Capo dello Stato eserciterà le sue funzioni nell’interesse del popolo. Aggiunge che tale Consiglio Supremo potrebbe all’occorrenza sostituirsi al Presidente, essendo composto di uomini elevati a tale carica dalla fiducia del popolo.

GRIECO, premesso che un precedente progetto dell’onorevole Conti conteneva già una idea embrionale del Consiglio della Repubblica, che avrebbe dovuto essere formato dai Presidenti delle due Camere e dal Presidente della Corte Costituzionale, dichiara di essere favorevole alla proposta dell’onorevole Nobile, la quale però dovrebbe essere precisata nei suoi particolari.

Dichiara anzitutto che preferirebbe chiamare tale istituto «Consiglio della Presidenza», per chiarire che si tratta di un organo consultivo del Presidente, al quale questo dovrà ricorrere quando dovrà compiere quei determinati atti che saranno indicati nella Costituzione.

Prima di decidere se il parere del Consiglio della Presidenza debba ritenersi o meno vincolante, prospetta l’opportunità di stabilire se tale organo abbia una giustificazione politica; ed egli risponde affermativamente al quesito, perché ritiene che questo Consiglio della Presidenza possa offrire la garanzia, e non soltanto in senso astratto, di assicurare un ordine veramente democratico al Paese. Ricorda in proposito la preoccupazione di molti – ed un’eco se n’è avuta anche durante la discussione sulla formula del giuramento al Capo dello Stato in seno all’Assemblea Costituente – che un Presidente della Repubblica, pur eletto con tutte le garanzie di una Costituzione democratica, possa in futuro gettare il Paese in preda a vicende analoghe a quelle da cui l’Italia è da poco uscita. Dichiara quindi di ritenere opportuna la creazione di tale organo in questo momento e non avrebbe nulla in contrario a che se ne decidesse la soppressione, una volta ritornata la normalità, rivedendo la Costituzione.

Il Consiglio della Presidenza dovrebbe essere, a suo avviso, elettivo. Quanto alla facoltà che l’onorevole Nobile vorrebbe affidargli, di assumere, in caso di vacanza, i poteri del Capo dello Stato, pensa che tale questione dovrebbe essere considerata in rapporto a quella sulla nomina di un Vicepresidente. Personalmente si dichiara favorevole all’assunzione, in caso di vacanza, delle funzioni presidenziali da parte di colui che in quel momento sarà il Presidente dell’Assemblea Nazionale (dal momento che si è parlato di un avvicendamento della carica), il quale sarà egualmente assistito dal Consiglio della Presidenza.

Ritiene poi senza fondamento le preoccupazioni di coloro che temono che, a somiglianza di quanto è stabilito in altre Costituzioni, si finisca con l’affidare in pratica ad un Collegio le funzioni di Capo dello Stato, perché in Italia il Consiglio di Presidenza dovrebbe limitarsi ad assistere il Presidente – la cui figura è ben delineata e posta in evidenza – in determinate occasioni che saranno indicate nella Costituzione.

LUSSU dichiara di condividere, in parte, il punto di vista dell’onorevole Tosato; ed aggiunge che una tale questione avrebbe dovuto essere proposta e discussa – con qualche probabilità di esito positivo – all’inizio dei lavori sul potere esecutivo, e non ora perché, fissati ormai i punti più importanti dell’organizzazione dello Stato e del sistema parlamentare, la sua presa in considerazione non farebbe altro che creare disordine in seno alla Sezione e renderebbe necessaria una revisione del lavoro compiuto.

Osserva poi che lo spunto per fare tale proposta, anziché dalla Costituzione sovietica, come ha fatto l’onorevole Nobile, avrebbe potuto esser preso dal regime fascista, fatte naturalmente le dovute differenze tra il regime autoritario sovietico e quello anarcoide ed irresponsabile che ha retto l’Italia. Fa presente che in Russia il sistema politico il quale si innesta nel sistema generale di una democrazia estremamente autoritaria non si regge su un solo uomo, ma sul reciproco controllo, per cui il Praesidium costituisce un controllo sull’azione di ciascuno ed il Presidente è legato al Praesidium, così come il Praesidittm è a sua volta vincolato. Ricorda poi quello che era in Italia il gran consiglio del fascismo rispetto a Mussolini, un organo mirante a rafforzare l’autorità sovrana del Capo del Governo, sorto per spodestare le due Camere e la Corona e formato da uomini che avrebbero dovuto essere grandemente responsabili, mentre in realtà costituivano una cricca solida e sicura, la quale non poteva che rafforzare la volontà del duce.

Tornando a considerare la proposta fatta dall’onorevole Nobile, dichiara di ritenerla falsamente democratica e di trovare strano – pur spiegandosi le ragioni che l’hanno ispirata – che si pensi ad una concezione del genere. Osserva infatti che in regime democratico parlamentare esiste già – senza che sia stabilito nella Costituzione – un Consiglio della Repubblica, costituito dal Capo del Governo, dai Presidenti delle due Camere e dagli esponenti dei vari partiti politici, persone queste i cui consigli il Capo dello Stato non mancherà di tenere nel debito conto. Conclude quindi affermando l’inutilità di criteri i quali, alterando l’istituto democratico, creerebbero una figura di Presidente della Repubblica stranamente pericolosa, circondata da persone che non sarebbero nemmeno quelle elette dal Paese come suoi rappresentanti.

EINAUDI non vede su quali argomenti il Consiglio della Repubblica possa dare consigli, poiché – ad eccezione di quanto riguarda la nomina del Primo Ministro, la concessione di grazia e lo scioglimento delle Camere – tutte le altre funzioni sono automatiche e non dipendono dalla volontà del Presidente della Repubblica.

Ritiene che il Presidente della Repubblica debba avere un solo consigliere, e cioè il Primo Ministro, al quale l’Assemblea Nazionale ha accordato la sua fiducia. D’altra parte, osserva che non si possono sentire due consigli diversi, perché o essi coincidono ed allora ne basta uno, o non coincidono ed allora il Presidente deve seguire quello dato dal Primo Ministro, che gode la fiducia dell’Assemblea Nazionale.

Fa presente che soltanto nel caso in cui l’Assemblea Nazionale non fosse riuscita a designare chiaramente chi deve ricoprire la carica di Primo Ministro, il Presidente della Repubblica si verrebbe a trovare privo del suo unico e naturale consigliere.

Prospetta l’opportunità di indicare, prima di arrivare ad una decisione, l’origine ed i compiti di questo Consiglio, ed afferma, a questo proposito, che l’unica funzione che ha il Presidente della Repubblica è quella di assumere la responsabilità delle proprie azioni, nei momenti supremi della vita dello Stato, quando l’Assemblea Nazionale non riesce ad esprimere con chiarezza la sua volontà. Conclude dichiarando di avere dei dubbi circa l’opportunità di creare questo Consiglio della Repubblica.

PRESIDENTE dà lettura dell’articolo proposto dall’onorevole Conti e testé ricordato dall’onorevole Grieco:

«Il Presidente della Repubblica è assistito da un Consiglio di Presidenza che il Capo dello Stato è tenuto a consultare sulla nomina o revoca del Capo del Governo e sulla ratifica dei trattati internazionali. Il Consiglio della Presidenza è composto dal Presidente della Camera dei Deputati, dal Presidente del Senato e dal Presidente dell’Alta Corte costituzionale».

MORTATI, premesso che la proposta dell’onorevole Nobile si deve inquadrare in un sistema e non si può quindi apprezzare isolatamente, rileva come sia anzitutto necessario distinguere se si tratti di un Collegio con funzioni consultive o deliberative, pur riconoscendo che politicamente potrebbe esservi analogia fra i due casi. Fa presente che, evidentemente, il peso e la configurazione di quest’organo sarebbero diversi a seconda che i suoi pareri fossero o non fossero vincolanti; nel primo caso si tratterebbe di un organo deliberativo, ed allora tanto varrebbe fare il Capo dello Stato collegiale; per il caso, invece, che il Consiglio di Presidenza fosse soltanto consultivo, ricorda i precedenti avutisi proprio in Italia, specialmente nell’epoca in cui la reazione tendeva ad accentuare i poteri del Re di fronte al Parlamento, quando si parlò di un Consiglio della Corona che avrebbe dovuto assistere il Re ed aumentarne il prestigio e l’influenza di fronte al Parlamento; e rileva che il sistema ha l’inconveniente di frazionare le responsabilità ed impedire di determinare in modo sicuro a chi risalga la responsabilità di un atto, perché può accadere che il Presidente scarichi la responsabilità sul Consiglio o viceversa. Nega perciò che tale istituto permetta il raggiungimento di quei fini che l’onorevole Nobile si propone; né ritiene – come ha esattamente detto l’onorevole Tosato – che possa inquadrarsi bene in un sistema di Governo parlamentare.

Circa la sua composizione, rileva che, se fosse formato di elementi apolitici – che dovrebbero essere in una posizione non troppo legata a quella dei singoli partiti – si ripeterebbero le obiezioni relative alla volatilizzazione delle responsabilità; mentre, se fosse formato di esponenti di partiti, eletti proporzionalmente dalle Camere, si avrebbe un Parlamento in piccolo, che dovrebbe assistere il Presidente.

Si domanda poi, considerando le funzioni che dovrebbero essere attribuite a questo Consiglio, se sia opportuno vincolare, sia pure moralmente, il Presidente al giudizio di un organo formato dalle forze politiche predominanti nel Parlamento, le quali potrebbero anche non rispecchiare più la situazione politica del Paese, perché può farsi l’ipotesi che – trascorso qualche anno dalle ultime elezioni – il sentimento nel popolo non corrisponda più all’orientamento delle Camere. Il Presidente ha una precipua funzione, che è quella di interpellare il popolo nelle occasioni più gravi, circa il mantenimento di un determinato indirizzo, per constatare appunto se fra popolo e Parlamento esista ancora quella corrispondenza che è alla base del regime rappresentativo. Vincolandolo in questa sua funzione equilibratrice, si altererebbe la fisionomia del Capo dello Stato.

È perciò contrario alla proposta dell’onorevole Nobile ed aggiunge che, in tempi normali, l’organo naturale di consultazione del Presidente della Repubblica sarà il Governo, che rispecchia la maggioranza del Parlamento.

TOSATO, Relatore, si rende conto delle preoccupazioni dell’onorevole Grieco che anch’egli condivide; ma – dopo aver ricordato che i due atti più importanti del Presidente sono la nomina dei Ministri e lo scioglimento delle Camere – fa presente che, per quanto riguarda il primo, il Presidente è politicamente vincolato alle consultazioni che gli danno modo di sentire il parere di un numero di persone maggiore di quello che potrebbe essere quello dei componenti il Consiglio, mentre, per ciò che si riferisce al secondo, il progetto prevede che debba sentire il parere dei Presidenti delle due Camere.

ROSSI PAOLO non nasconde la perplessità sua e dei colleghi del suo gruppo di fronte ad una risposta che, per il fatto di essere nuova, non è stata ancora studiata. Aggiunge che, se da un lato la costituzione di tale Consiglio, eletto contemporaneamente al Presidente, può far sorgere il timore che quest’ultimo si senta vincolato nelle sue decisioni dal parere di un organo che cristallizza la situazione di un determinato momento politico, dall’altro il parere dell’organo naturale di consultazione del Capo dello Stato, cioè il Presidente del Consiglio, verrebbe a mancare proprio nel momento più delicato, quando cioè si trattasse di scegliere il nuovo Capo del Governo.

Domanda che l’esame della proposta sia rinviato, al fine di renderne possibile uno studio più approfondito.

PRESIDENTE dichiara di essere, in linea pregiudiziale, favorevole alla proposta di sospensiva fatta dall’onorevole Rossi.

Quanto al merito, ritiene opportuna la costituzione di questo Consiglio, che però non chiamerebbe «di Presidenza», perché pensa che tale denominazione potrebbe, anche nella forma, dare l’impressione di non trovarsi più di fronte ad un sistema parlamentare, bensì ad un sistema direttoriale.

Pensa che – contrariamente a quanto ha detto l’onorevole Tosato – l’autorità del Presidente sia rinvigorita dal fatto di avere un parere (che, a suo avviso, dovrebbe essere non vincolante) da un organo a lui posto a fianco: perché, sia che tale parere concordi col suo punto di vista, sia che possa essere con esso contrastante, risulterà ben chiaro che colui il quale assume la responsabilità dell’atto è sempre il Capo dello Stato; né pensa sia giustificata – per il rispetto verso coloro che ricopriranno tale alta carica – la preoccupazione della trasformazione del parere da consultivo in vincolativo.

Quanto alla composizione del Consiglio, è del parere che alcuni membri debbano farne parte per le cariche che rivestono o che hanno rivestito; cioè, come propone l’onorevole Conti, i Presidenti delle due Camere ed il Presidente della Corte costituzionale; e che altri debbano essere elettivi, così come si propone per il Consiglio supremo della Magistratura. È, in ogni modo, del parere che il fatto che non sia possibile costituire questo Consiglio nella forma apolitica, accennata dall’onorevole Mortati, non deve diminuire il valore, né far dimenticare la necessità di tale istituto.

A differenza di quanto pensa l’onorevole Grieco, è del parere che questo istituto debba avere carattere permanente; altrimenti dubiterebbe dell’opportunità di inserirlo nella Costituzione.

Quanto alle considerazioni fatte dall’onorevole Lussu, dichiara subito di ritenerle tutte errate. Non vede anzitutto perché l’accoglimento della proposta dell’onorevole Nobile dovrebbe necessariamente portare una revisione di tutto quanto è stato finora deciso; osserva anzi che è proprio questa la sede opportuna per affrontare la questione.

Rileva poi come l’onorevole Lussu non abbia afferrato il meccanismo del sistema sovietico ed il valore del Praesidium, quando ha osservato che questo si innesta in un sistema strettamente autoritario che lo giustifica, e che l’autoritarietà del sistema sovietico è tutta congegnata sulla base del sistema di una rete di controlli, che tengono sotto di sé tutta l’Amministrazione. Osserva, anzi, che il fatto che il Capo dello Stato sia subordinato ad un organo collettivo sta a sminuire la dittatura, ammesso che esista; e che il sistema del controllo è la negazione del sistema autoritario, perché dove si trovano organismi di carattere collettivo, là si può affermare che ogni elemento di autoritarietà va scomparendo.

Né ritiene che il Consiglio Supremo della Repubblica possa essere paragonato al gran consiglio del fascismo, perché, mentre quest’ultimo era un organo dell’unico partito ammesso, inserito nella struttura dello Stato per consolidare e difendere il potere e l’autorità di Mussolini, il Consiglio della Repubblica porterà in sé il riflesso della variazione delle posizioni dei vari partiti, né potrà mirare a consolidare la posizione del Presidente che, in forza della Costituzione, dura in carica sette anni e non è rieleggibile.

NOBILE ritiene anzitutto che non si possa affermare, come hanno fatto gli onorevoli Mortati e Tosato, che la creazione di questo nuovo organo verrebbe a diminuire la responsabilità del Presidente, dal momento che l’articolo 16 del progetto esclude la responsabilità del Presidente per gli atti compiuti durante l’esercizio delle sue funzioni.

MORTATI fa presente di aver alluso alla responsabilità politica.

NOBILE, quanto poi all’osservazione che non occorre istituire tale Consiglio perché, in occasione di crisi ministeriali, il Capo dello Stato si potrà consultare con le personalità più in vista, osserva che tali crisi potrebbero avviarsi ad una più rapida soluzione, se questa consultazione avesse luogo non singolarmente, ma in forma collegiale.

Lascia alla Sezione il compito di decidere se debba essere consultivo o vincolante il parere del Consiglio, e ritiene che stabilire l’obbligo da parte del Presidente della Repubblica di sentire il parere di quest’organo in determinati casi e su determinati argomenti possa veramente costituire un elemento salutare per il Paese.

TOSATO, Relatore, osserva che l’accoglimento della proposta sospensiva fatta dall’onorevole Rossi metterebbe praticamente la Sezione nell’impossibilità di continuare i propri lavori.

D’altra parte, rileva che l’istituzione di un Consiglio della Repubblica, anche in forma attenuata, modificherebbe sostanzialmente tutto il sistema del Governo parlamentare, perché porrebbe questo nuovo elemento, sia pure consultivo, come un diaframma tra Presidente della Repubblica e Governo, con continua possibilità di conflitti.

Fa inoltre presente che l’accoglimento di una tale proposta sarebbe contrario alla deliberazione della Sottocommissione, la quale si è pronunciata favorevolmente all’adozione del Governo parlamentare con gli opportuni accorgimenti allo scopo di stabilizzare il Governo.

LA ROCCA, Relatore, osserva che, rinviando la discussione su questo argomento, potrebbe anche prendersi in considerazione un altro problema importante – sul quale il Consiglio della Repubblica dovrebbe dare il proprio parere – che non è stato considerato nel progetto: la proclamazione dello stato d’assedio.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta fatta dall’onorevole Rossi di sospendere ogni decisione circa la proposta Nobile, per dar modo ai Commissari di esaminarla ponderatamente.

(Non è approvata).

Mette ai voti il principio che si debba costituire a fianco del Capo dello Stato un Consiglio della Repubblica, salvo a definirne in seguito il modo di costituzione ed i compiti specifici.

ROSSI PAOLO, anche a nome dei colleghi del suo gruppo, dichiara di astenersi.

LA ROCCA, Relatore, è favorevole, perché ritiene che l’istituzione del Consiglio della Repubblica non alteri né deformi in alcun modo il sistema parlamentare, ma costituisca anzi una garanzia per il buon funzionamento del sistema stesso.

(Non è approvato).

BORDON, ritornando sull’articolo 4, concernente la durata in carica del Presidente, prospetta l’opportunità di fissare tale durata in cinque anni, per uniformarla a quanto è stato deciso nella precedente seduta per i membri delle due Camere, la cui durata in carica è stata ridotta da 6 a 5 anni.

TOSATO, Relatore, non ritiene conforme al sistema del Governo parlamentare stabilire un’eguale durata per tutti gli organi supremi costituzionali, specialmente per quanto riguarda il Presidente della Repubblica, che deve rappresentare un elemento di continuità e di stabilità nella vita dello Stato. Per tale motivo dichiara di essere contrario alla proposta fatta dall’onorevole Bordon e di essere disposto, in linea subordinata, ad accettare l’eventuale riduzione della durata in carica del Presidente della Repubblica da 7 a 6 anni.

PRESIDENTE pone in votazione la questione pregiudiziale, che cioè sia opportuno modificare il periodo di durata in carica del Presidente della Repubblica, già fissato in 7 anni.

(Non è approvata).

Fa presente ora l’opportunità di risolvere la questione, rimasta in sospeso, a proposito degli articoli 6 e 7; cioè se, in caso di vacanza o di temporaneo impedimento, l’esercizio delle funzioni presidenziali debba essere esercitata dal Presidente dell’Assemblea Nazionale o, come propone l’onorevole Mortati, dal primo Ministro.

Pone ai voti la proposta di demandare le funzioni del Presidente della Repubblica al Primo Ministro.

(Non è approvata).

Mette in votazione la proposta di affidare le funzioni del Presidente della Repubblica al Presidente dell’Assemblea Nazionale.

(È approvata).

Fa presente che, di conseguenza, la formulazione dell’articolo 6 rimarrà invariata, mentre quella dell’articolo 7 sarà così modificata:

«In caso di impedimento temporaneo, il Presidente della Repubblica è supplito nell’esercizio delle sue funzioni dal Presidente dell’Assemblea Nazionale».

(Così rimane stabilito).

Apre la discussione sull’articolo 8 del progetto:

«Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e lo rappresenta».

Poiché nessuno chiede di parlare, lo pone ai voti.

(È approvato).

NOBILE fa presente l’opportunità, sotto il profilo logico, di esaminare ora l’articolo 18, concernente l’assegno e la dotazione del Presidente della Repubblica.

PRESIDENTE concorda ed apre la discussione sull’articolo 18 del progetto:

«L’assegno e la dotazione del Presidente della Repubblica sono determinati per legge».

Poiché nessuno chiede di parlare, lo pone ai voti.

(È approvato).

Apre quindi la discussione sull’articolo 9:

«Il Presidente della Repubblica promulga le leggi, emana i decreti legislativi nei limiti della legge di delegazione, e, previo parere del Consiglio di Stato, i regolamenti esecutivi.

«Quando la legge lo consenta, emana anche regolamenti autonomi per la disciplina dei poteri discrezionali della pubblica amministrazione».

TOSATO, Relatore, chiede che venga lasciata in sospeso la questione relativa al parere preventivo del Consiglio di Stato.

MORTATI osserva, dal punto di vista formale, che i due commi potrebbero essere fusi in uno.

PRESIDENTE concorda sulle osservazioni fatte dagli onorevoli Tosato e Mortati. Con tali riserve pone ai voti il testo dell’articolo 9.

(È approvato).

Apre quindi la discussione sull’articolo 10:

«Il Presidente della Repubblica ratifica i trattati internazionali, previa autorizzazione delle Camere.

«I trattati segreti sono nulli».

EINAUDI ricorda quanto si verifica negli Stati Uniti, in cui alcuni trattati internazionali, che non sono presentati al Senato dal Presidente della Repubblica per evitare la difficoltà della ratifica (che, secondo quella Costituzione, deve essere data dal Senato), assumono la forma di convenzioni o di accordi internazionali, per i quali tale ratifica non è richiesta. Domanda se tale eventualità sia stata prevista.

TOSATO, Relatore, fa presente che la formula «trattati internazionali» è così vasta da comprendere qualsiasi atto internazionale; riconosce però che una disposizione di carattere generale potrebbe determinare delle difficoltà, specie quando si trattasse di modificare o integrare le clausole di certi trattati internazionali attinenti ad accordi economici (di pagamento), rispetto ai quali il ritardo della ratifica potrebbe essere pregiudizievole. Appunto per evitare tale inconveniente, l’onorevole Perassi aveva proposto una formula molto ampia, contenente un’elencazione dei trattati internazionali soggetti alla procedura indicata nell’articolo, senza sottoporre indistintamente tutti i trattati ad autorizzazione preventiva.

È del parere che frattanto si possa dare il proprio parere circa l’opportunità o meno di indicare nella Costituzione per quali specie di trattati debba essere richiesta l’autorizzazione preventiva, facendo notare che si parla di «autorizzazione» e non di «approvazione», appunto per escludere la possibilità di ratificare un trattato e di sottoporlo successivamente all’approvazione delle Camere.

PRESIDENTE ritiene che il Presidente della Repubblica dovrebbe ratificare tutti gli atti internazionali, previa autorizzazione della Camera.

TOSATO, Relatore, ripete che ciò creerebbe delle difficoltà, quando si trattasse di approvare trattati di scarsa portata politica, ma dei quali fosse necessaria l’esecuzione immediata. È appunto per evitare tale difficoltà che in America si segue il sistema dianzi accennato dall’onorevole Einaudi.

Quanto alla formula dell’onorevole Perassi, fa presente che essa era costituita da un’elencazione dei trattati da sottoporre, prima della ratifica, all’approvazione delle Camere, così ampia da soddisfare in pieno l’esigenza del controllo delle Camere sull’attività internazionale, tralasciando quei trattati di scarsa portata politica dei quali ha parlato poc’anzi.

EINAUDI fa presente che il commercio internazionale non potrebbe sussistere, se si dovessero sottoporre alle due Camere gli accordi internazionali di pagamenti, sui quali devono essere apportate delle variazioni, qualche volta, da un giorno all’altro.

PRESIDENTE invita l’onorevole Tosato a dar lettura della proposta dell’onorevole Perassi. Osserva però che, anche facendo un’elencazione, non si eviterà l’eventualità che degli atti importanti sfuggano, perché classificati sotto un altro titolo.

TOSATO, Relatore, non è in possesso in questo momento della formula Perassi, della quale si ripromette di dare comunicazione nella prossima seduta.

Quanto al secondo comma, osserva che tale norma ha efficacia puramente interna e non impegna la responsabilità degli organi dello Stato, mentre dal punto di vista internazionale la questione rimane aperta, perché un trattato può essere valido rispetto agli altri Stati e non valido a norma del diritto interno dello Stato.

NOBILE è del parere di sopprimere la formula o di adottare una dizione dalla quale risulti chiaramente che non sono consentiti trattati segreti. Sarà infatti sempre possibile al Capo dello Stato rifiutarsi di firmare un trattato, se si stabilirà nella Costituzione una norma che non gli dia facoltà di firmarlo.

TOSATO, Relatore, rileva che il divieto è già implicito nella dizione del primo comma, dal quale si desume che un trattato, per il quale non esista la preventiva autorizzazione delle Camere, non può considerarsi esistente ai sensi del diritto interno; quindi il secondo comma non fa altro che accentuare tale divieto.

LA ROCCA, Relatore, prospetta l’opportunità che, in sede di organizzazione del potere legislativo, si stabilisca che le due Camere devono autorizzare la ratifica dei trattati internazionali.

PRESIDENTE invita l’onorevole La Rocca a presentare questa proposta in sede opportuna.

LUSSU rileva che il pericolo da evitare è che i trattati – come spesso si verificava in passato – siano resi definitivi, senza che i rappresentanti della Nazione ne vengano informati.

GRIECO si dichiara d’accordo, in linea di principio, con l’onorevole Tosato, ma si domanda se sia opportuno precludere in senso assoluto la possibilità al Governo di stipulare trattati segreti, i quali potrebbero contenere delle condizioni vantaggiose per il nostro Paese.

TOSATO, Relatore, fa presente che ora si tratta di decidere se sia miglior partito quello di seguire la tendenza che riconosce l’utilità dei trattati segreti o l’altra che li ritiene dannosi.

PRESIDENTE osserva che il secondo comma è una conseguenza del primo. Aggiunge che, a suo avviso, anche i trattati segreti, prima di essere ratificati dal Presidente della Repubblica, dovranno essere sottoposti alle Camere per la concessione dell’autorizzazione.

TOSATO, Relatore, ricorda la formula della Costituzione spagnola («I trattati segreti non impegnano lo Stato»), la quale potrebbe rispondere ai desideri dell’onorevole Grieco.

PRESIDENTE, più che dichiarare nulli i trattati internazionali segreti, crede sarebbe opportuno stabilire, come propone l’onorevole Nobile, che questi non debbano stipularsi, se tutti sono d’accordo che i trattati segreti sono da considerare dannosi. In tal modo, non essendo permessa la stipulazione di trattati segreti, mancherebbe la controparte e quindi non entrerebbe nemmeno in funzione quella norma di diritto internazionale per cui un trattato diviene vincolante anche se una delle parti contraenti si rifiuti di rispettarlo.

Aggiunge che, se si entrasse in quest’ordine di idee, la disposizione relativa, concepita in termini generici, potrebbe trovar posto in un altro punto della Costituzione: o dove si parla del Governo, o, meglio, nel preambolo.

LUSSU fa presenti le ragioni che rendono necessario condurre in forma segreta le trattative per la conclusione di un accordo internazionale: ed aggiunge che la garanzia è costituita dall’avere stabilito che la ratifica da parte del Presidente della Repubblica – necessaria per rendere valido il trattato – deve essere autorizzata dal Parlamento. Si dichiara perciò favorevole alla soppressione del secondo comma dell’articolo 10.

MORTATI osserva che è opportuno che la Sezione non addivenga ad una decisione circa la sorte del secondo comma, se prima non si sarà pronunciata sul primo comma, dal quale il secondo discende.

Dopo aver rilevato che il primo comma tende non a dichiarare nulli, ma ad impedire la stipulazione di trattati segreti, osserva che lo stabilire una tale forma unilateralmente porrebbe lo Stato italiano in una condizione di inferiorità rispetto alle altre Nazioni.

GRIECO crede che, tutto considerato, la soluzione migliore sia quella di indicare quali trattati (e l’indicazione dovrebbe essere limitata alle voci più importanti) devono essere sottoposti alla firma del Presidente solo previa autorizzazione delle Camere.

PRESIDENTE si dichiara favorevole all’introduzione nella Carta costituzionale della norma che richiede per la ratifica dei trattati internazionali la preventiva autorizzazione delle Camere, perché è appunto dalle norme introdotte nelle singole legislazioni che trovano la loro origine le norme di diritto internazionale. Aggiunge che una disposizione del genere è impegnativa per gli uomini politici italiani, i quali potranno anche violarla, assumendone la responsabilità, per il bene superiore del Paese.

FABBRI ricorda che tutti i trattati internazionali stipulati dagli Stati aderenti al patto della Società delle Nazioni non avrebbero dovuto aver valore, se non registrati a Ginevra; ma tale principio è stato però pregiudicato dalla fine della Società delle Nazioni.

PRESIDENTE risponde che l’esperimento non diede buoni risultati, perché fu fatto quando non si era creata una consuetudine di registrazione.

Crede che, in attesa della formula dell’onorevole Perassi, che sarà comunicata dall’onorevole Tosato nella prossima seduta, sia opportuno sospendere ogni decisione sul primo comma di questo articolo.

FABBRI dichiara, per il caso che il secondo comma non sia soppresso, di essere favorevole alla proposta dell’onorevole Nobile, la quale, stabilendo che i trattati segreti sono vietati, implica la responsabilità di chi firma.

GRIECO domanda se nella parola «trattati» si debbano comprendere anche le annessioni e gli scambi diretti.

PRESIDENTE propone la dizione più comprensiva: «Ogni impegno internazionale di carattere segreto è proibito».

LUSSU è contrario a questa formulazione.

NOBILE vi è invece favorevole.

CO DACCI PISANELLI vi è contrario, specialmente in considerazione del fatto che i trattati militari internazionali devono per necessità di cose essere segreti.

MORTATI è anch’egli contrario.

PRESIDENTE pone ai voti la seguente formulazione del secondo comma:

«Ogni impegno internazionale di carattere segreto è proibito».

(Non è approvata).

Mette ai voti la soppressione del secondo comma.

TOSATO, Relatore, dichiara di essere favorevole alla soppressione.

(È approvata).

PRESIDENTE apre la discussione sull’articolo 11:

«Il Presidente della Repubblica dichiara la guerra deliberata dall’Assemblea Nazionale».

MORTATI è del parere che si possa sopprimere la seconda parte dell’articolo, poiché in materia di potere legislativo si è già stabilito di affidare la deliberazione della guerra all’Assemblea Nazionale.

NOBILE propone la soppressione dell’intero articolo, in quanto ora si usa cominciare la guerra prima di dichiararla. Concederebbe al Capo dello Stato le facoltà di fare la mobilitazione generale e di dichiarare lo stato di guerra.

PRESIDENTE, premesso che allora bisognerebbe analogamente sopprimere anche l’articolo che affida all’Assemblea Nazionale la deliberazione della guerra, osserva che, con la richiesta della dichiarazione solenne da parte dell’Assemblea Nazionale, si vuole eliminare l’eventualità di una guerra di aggressione.

TOSATO, Relatore, ricorda che nei primi articoli della Costituzione esiste una disposizione nel senso di vietare qualsiasi guerra di aggressione; è evidente quindi la necessità e l’opportunità di stabilire in quali forme costituzionali una dichiarazione di guerra debba essere fatta.

VANONI osserva all’onorevole Nobile che si può anche ammettere che la guerra possa cominciare prima della dichiarazione ufficiale; ma è necessario che, magari successivamente, si emani un atto che serva a chiarire la situazione.

GRIECO propone la seguente dizione:

«Il Presidente della Repubblica proclama lo stato di guerra, quando lo esiga la difesa dell’indipendenza e dell’integrità territoriale del Paese».

PRESIDENTE trova che la formula proposta dall’onorevole Grieco comprende due ipotesi: quella della dichiarazione di guerra e quella del pericolo di un’aggressione al territorio nazionale. Osserva che, in questo secondo caso, la proclamazione dello stato di guerra come atto interno di allarme non si identifica con la vera e propria dichiarazione di guerra, ma rappresenta una nuova facoltà data al Presidente della Repubblica, sulla cui concessione egli potrebbe anche essere d’accordo.

GRIECO precisa che con la frase «proclama lo stato di guerra» intende comprendere, senza bisogno di ulteriori specificazioni, anche la dichiarazione della guerra.

ROSSI PAOLO adotterebbe la seguente formula:

«Il Presidente della Repubblica dichiara la guerra deliberata dall’Assemblea Nazionale per la difesa dell’integrità e dell’indipendenza del territorio nazionale».

VANONI, premesso che attualmente si va verso una forma di organizzazione internazionale più vincolante per gli Stati, in relazione alla quale sarà ammissibile fare la guerra non per l’interesse particolare di una Nazione, ma per l’interesse generale della pace, osserva che, se si approvasse l’articolo proposto dall’onorevole Grieco, evidentemente si escluderebbe la possibilità di una guerra determinata da obblighi internazionali, così come avrebbe potuto aver luogo se il patto della Società delle Nazioni avesse avuta efficacia concreta, o come avrà luogo in futuro, se sarà portata a compimento l’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Prospetta quindi l’opportunità – considerando la questione sotto questo profilo – di ritenere sufficiente l’impegno formale contenuto nella prima parte della Costituzione di non ricorrere a guerre di aggressione.

NOBILE osserva all’onorevole Vanoni che, il giorno in cui sarà ammessa nell’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’Italia sarà tenuta a mettere a disposizione del Comando di Stato Maggiore dell’O.N.U. i contingenti che le saranno richiesti; ma la guerra non la farà l’Italia, bensì l’Organizzazione delle Nazioni Unite.

TOSATO, Relatore, replica che l’Organizzazione delle Nazioni Unite non è una persona giuridica che possa dichiarare la guerra a suo piacere, ma è costituita da tutte le Nazioni che ne fanno parte e che non sono da essa assorbite.

ROSSI PAOLO non vede la necessità di considerare in una norma della Costituzione la deliberazione di una guerra, che è un atto che può essere considerato una legge; e come tale può seguire il corso stabilito appunto per i provvedimenti legislativi.

FABBRI è favorevole alla formula del progetto, la quale si limita a prevedere – e appunto questo deve essere indicato nella Costituzione – l’organo competente a dichiarare la guerra, secondo il diritto delle genti.

NOBILE, rispondendo all’onorevole Tosato, dichiara di non essere persuaso che l’Organizzazione delle Nazioni Unite non abbia una personalità giuridica, in quanto trattasi di un’associazione in cui vi è una maggioranza che s’impone alla minoranza del Consiglio di sicurezza, alla cui decisione di portare la guerra contro un determinato Paese tutte le Nazioni aderenti sono vincolate ad obbedire.

PRESIDENTE riconosce che ogni Stato sarà tenuto ad adempiere quanto stabilito dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, ma baserà la sua azione sulle forme stabilite dalle sue leggi, convocando, cioè, nelle forme previste dalle leggi interne i propri organi competenti ed adottando rapidamente le decisioni necessarie. Così, ad esempio, l’Italia dovrà fare approvare dal Parlamento una legge con cui il Governo sarà autorizzato alla spesa necessaria per fornire i contingenti richiesti dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. Domanda all’onorevole Nobile se propone una formula.

NOBILE dichiara di aderire alla formula dell’onorevole Grieco.

TOSATO, Relatore, fa presente che il momento della deliberazione della guerra sta a quello della dichiarazione come l’approvazione della legge sta alla promulgazione.

CODACCI PISANELLI spiega che, mentre dal punto di vista del diritto interno la deliberazione dell’Assemblea Nazionale è quella che decide la guerra, dal punto di vista internazionale la deliberazione delle Assemblee legislative non ha valore, non essendo questi organi di diritto internazionale e non avendo quindi la capacità di rappresentare l’Italia. Di qui la necessità che la guerra sia dichiarata dal solo organo capace di rappresentare la Nazione, cioè dal Presidente della Repubblica.,

BORDON riconosce l’opportunità di esaminare a fondo un problema di tale importanza e propone di modificare la formula del Relatore Tosato, la quale non lo soddisfa, nel titolo seguente:

«Il Presidente della Repubblica dichiara la guerra nei casi e nei modi previsti dalla Costituzione».

LA ROCCA, Relatore, desidera si affermi il concetto che, mentre finora la dichiarazione di guerra era una prerogativa esclusiva del Capo del potere esecutivo, oggi questo diritto deve trasferirsi negli organi che esprimono la volontà popolare; ma poiché il Parlamento, dal punto di vista giuridico, non può dichiarare la guerra, e si è accettato il concetto che il Presidente della Repubblica rappresenta lo Stato, non può essere altri che questi a dichiarare la guerra, facendosi portavoce della volontà popolare che già si è espressa attraverso il voto dell’Assemblea Nazionale. Sarebbe però necessario che dalla Costituzione risultasse ben chiaro che tale dichiarazione deve aver luogo «dopo che l’Assemblea Nazionale ha deliberato».

VANONI propone la seguente formula che, a suo giudizio, tiene conto dell’esigenza formale che la guerra sia stata già deliberata dall’Assemblea Nazionale, e di quella sostanziale che la guerra possa essere dichiarata soltanto quando ricorrano le ipotesi previste in uno dei primi articoli della Costituzione:

«Il Presidente della Repubblica dichiara la guerra nei limiti previsti dalla Costituzione».

FABBRI preferirebbe la seguente formula:

«Il Presidente della Repubblica promulga e notifica la guerra dichiarata dall’Assemblea Nazionale».

Avverte che la parola «promulga» si riferisce agli effetti interni, mentre la parola «notifica» si riferisce agli effetti internazionali.

PRESIDENTE direbbe soltanto: «Il Presidente della Repubblica notifica la guerra dichiarata dall’Assemblea Nazionale», o anche: «proclama la guerra, allorché sia stata dichiarata dall’Assemblea Nazionale».

NOBILE insiste nella sua proposta di parlare di «stato di guerra».

PRESIDENTE fa notare che lo stato di guerra è un’ipotesi differente da quella della guerra e che quindi, regolata la prima, dovrà poi risolversi la seconda.

FABBRI modifica la sua formula nei seguenti termini:

«La dichiarazione di. guerra, deliberata dall’Assemblea Nazionale, è fatta dal Presidente della Repubblica».

PRESIDENTE fa notare che, in correlazione con gli articoli precedenti, è opportuno che il Presidente sia il soggetto dell’articolo.

Mette ai voti la proposta formulata dall’onorevole Grieco:

«Il Presidente della Repubblica proclama lo stato di guerra, quando lo esiga la difesa dell’indipendenza e dell’integrità territoriale del Paese».

(Non è approvata).

Fa presente che dovrebbe ora essere messa ai voti la proposta dell’onorevole Nobile, la quale fa egualmente cenno allo stato di guerra.

NOBILE dichiara di non insistervi.

PRESIDENTE dovrebbe allora mettere ai voti la proposta dell’onorevole Bordon.

BORDON ritira il suo emendamento.

PRESIDENTE ritiene allora che la formula definitiva potrebbe essere la seguente:

«Il Presidente della Repubblica dichiara la guerra, allorché sia stata deliberata dall’Assemblea Nazionale».

VANONI sostituirebbe la parola «allorché» con l’altra «quando».

PRESIDENTE mette ai voti la formula:

«Il Presidente della Repubblica dichiara la guerra, quando sia stata deliberata dall’Assemblea Nazionale».

(È approvata).

La seduta termina alle 13.30.

Erano presenti: Bordon, Codacci Pisanelli, De Michele, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mortati, Nobile, Rossi Paolo, Terracini, Tosato, Vanoni.

Assenti: Cannizzo, Perassi, Piccioni, Zuccarini.

GIOVEDÌ 19 DICEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

74.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 19 DICEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Coordinamento degli articoli sul potere legislativo (Seguito della discussione)

Presidente – Mortati, Relatore – Lussu – Einaudi – Fabbri – Codacci Pisanelli – Bozzi – Grieco – Cappi – Nobile – Tosato – Lami Starnuti – Conti – Targetti – Fuschini – Rossi Paolo – Leone Giovanni – La Rocca – Piccioni – Di Giovanni – Bulloni.

La seduta comincia alle 17.50.

Discussione sul coordinamento degli articoli sul potere legislativo.

PRESIDENTE comunica che la Sottocommissione deve pronunciarsi sugli articoli relativi al potere legislativo, quali risultano dal lavoro del Comitato di coordinamento, il quale ha proposto anche qualche emendamento.

Apre la discussione sull’articolo 1:

«Il Parlamento si compone della Camera dei Deputati e del Senato».

Osserva che non vi è più ragione di usare la vecchia terminologia di «Senato», perché la seconda Camera che ora si crea non ha nulla a che fare col soppresso Senato, né per il modo di formazione, né per il modo di funzionamento. Inoltre pensa che di fronte alle masse popolari questa denominazione non potrebbe non richiamare alla mente il ricordo di un triste periodo di asservimento politico che non potrà essere cancellato.

MORTATI, Relatore, insiste nella proposta di mantenere alla seconda Camera l’antico nome di Senato, sia per ragioni storiche, sia perché non ritiene che nelle responsabilità spettanti ai vecchi corpi rappresentativi per l’avvento e la perpetuazione del regime fascista quella gravante sul Senato sia maggiore dell’altra spettante alla Camera dei Deputati, alla quale nessuno pensa di mutare il nome. Anche se il Senato diviene oggi elettivo, ha pur sempre le stesse funzioni del vecchio istituto, e per l’ammissione ad esso continua ad essere richiesta un’età maggiore che non per la prima Camera; sicché non trova serie ragioni perché si debba rinunziare ad un nome a cui sono legati tanti ricordi di saggezza e di benemerenza.

LUSSU propone che il nome di «Senato» sia cambiato in via definitiva con quello di «Seconda Camera», ché gli sembra bene appropriato dal punto di vista politico e letterario.

Riprendendo gli argomenti addotti dall’onorevole Mortati, che ha messo a confronto le responsabilità delle due Camere durante il periodo fascista, nota come il Senato si sia dimostrato un organismo politico veramente incapace di rappresentare la dignità e la fierezza di un corpo già così illustre: a poco a poco esso era divenuto una raccolta di vecchi funzionari, di uomini della reazione totalmente asserviti al regime fascista. Per questo il Senato è stato soppresso e crede che non si possa ridare al nuovo istituto che sorge, da quello tanto diverso, un nome che lo ricordi.

EINAUDI ricorda che nella vecchia Costituzione vi era una Camera dei Deputati e una Camera dei Senatori, che voleva dire semplicemente più anziani. Poiché il principio di una età maggiore è consacrato anche nel progetto in esame, non vedrebbe difficoltà a che si usasse il termine di «Camera dei Senatori».

PRESIDENTE esprime la sua opinione personale che i due rami del Parlamento si debbano chiamare «prima e seconda Camera» ed i membri, così dell’una come dell’altra, debbano prendere il nome di deputati. In tal modo essi potranno sedere con lo stesso titolo, quando il Parlamento dovrà adunarsi in Assemblea nazionale. Rileva poi che, mentre vi è un atto formale di soppressione del Senato, che costituisce uno stato di diritto, non vi è nulla di simile per la Camera dei Deputati, la quale ha trovato, si può dire, la sua continuità nell’Assemblea costituente.

FABBRI osserva che non si può parlare di stato di diritto di fronte ad un atto giuridicamente illegale, come quello della soppressione del Senato, perché indubbiamente la materia non era di competenza del Governo. Oggi la Costituente è sovrana e può decidere quello che vuole; ma la sua decisione non può essere pregiudicata da una illegale deliberazione governativa.

CODACCI PISANELLI non ritiene probante l’argomento della mancata soppressione della Camera dei Deputati, di fronte alla soppressione del Senato. Ciò è avvenuto perché di deputati non ve ne erano più, mentre vi erano ancora dei senatori. Se si fa questione di maggiore o minor demerito del Senato in confronto della Camera dei Deputati, afferma che esso ha demeritato meno, per la netta e coraggiosa opposizione di parecchi suoi membri alla tirannia fascista. Ritiene che il provvedimento di soppressione sia stato determinato non da questo motivo, ma dal fatto che, abolita la monarchia, non doveva più sussistere una Camera di nomina regia. Non crede si debba far questione di parole per rinunziare ad un nome storico: in sostanza si costituisce una nuova Assemblea con persone di età maggiore di quelle della prima Camera, si ricostituisce cioè una condizione di cose molto simile a quella precedente. Si dichiara perciò favorevole al mantenimento del nome di Senato, come si sono conservati i nomi di altri vecchi istituti.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta di conservare il nome di «Senato» alla Seconda Camera.

(Con 12 voti favorevoli e 14 contrari, non è approvata).

BOZZI propone che si dica «Camera dei Senatori».

PRESIDENTE pone ai voti questa proposta.

(Non è approvata).

Ricorda che l’onorevole Nobile ha proposto la formula: «Il Parlamento si compone di due Camere dei Deputati, la prima e la seconda».

LUSSU propone che si dica: «Il Parlamento si compone della Camera dei Deputati e della seconda Camera», per marcare la differenza che, malgrado l’eguaglianza del potere, esiste fra le due Camere.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta dell’onorevole Lussu.

GRIECO voterà favorevolmente a questa proposta, con riserva di scelta per una migliore denominazione.

(Non è approvata).

CAPPI propone che la seconda Camera sia chiamata «Camera delle Regioni».

PRESIDENTE pone ai voti questa proposta dell’onorevole Cappi.

(Con 12 voti favorevoli e 12 contrari, non è approvata.).

NOBILE, raccogliendo un suggerimento implicitamente fatto dall’onorevole Einaudi, ritiene che la seconda Camera si possa chiamare «Camera degli anziani».

PRESIDENTE ritiene opportuno continuare intanto nella discussione degli articoli sul potere legislativo, con riserva di proporre altre denominazioni per la seconda Camera.

(Così rimane stabilito).

Pone in discussione l’articolo 1-bis.

«Le due Camere si riuniscono in Assemblea nazionale nei casi preveduti dalla Costituzione.

«La Presidenza dell’Assemblea nazionale è affidata, per la durata di un anno, alternativamente al Presidente della Camera dei Deputati e al Presidente del Senato.

«L’Assemblea nazionale delibera il proprio regolamento. Essa è convocata dal suo Presidente, anche a richiesta del Presidente della Repubblica o di chi lo supplisce».

Pone in votazione il primo comma.

(È approvato).

CODACCI PISANELLI, sul secondo comma, ritiene poco chiaro il significato del termine «alternativamente», che può prestarsi a varie interpretazioni.

LUSSU propone che al secondo comma sia sostituito il seguente:

«La Presidenza dell’Assemblea nazionale è affidata al Presidente della Camera dei Deputati».

PRESIDENTE è personalmente favorevole alla proposta Lussu, che ha anche una portata riequilibratrice dei poteri concessi in misura superiore alla seconda Camera quando si stabilì di rimettere a questa la decisione sull’eventuale lesione di interessi nazionali.

Pone in votazione la proposta dell’onorevole Lussu.

(È approvata).

Riguardo al terzo comma, chiede al Relatore di specificare i casi e i motivi per i quali il Presidente della Repubblica può chiedere la convocazione dell’Assemblea nazionale; cioè in quali di quelle occasioni in cui, secondo la Costituzione, solo l’Assemblea nazionale può decidere, debba e possa affidarsi al Presidente della Repubblica l’iniziativa che spetta alla stessa Assemblea. Lo chiede perché, a suo avviso, il Capo dello Stato non deve essere considerato un puro fantasma e quindi ci si deve preoccupare di mettere dei limiti al suo potere nella materia in esame.

MORTATI, Relatore, risponde che si tratta di tutti i casi in cui funziona l’iniziativa del potere esecutivo: amnistia, entrata in guerra, mobilitazione generale, ecc. Emerge del resto dalla proposta che la convocazione dell’Assemblea nazionale non è fatta se non dal suo Presidente: gli altri organi fanno delle richieste, che sono subordinate al sindacato di chi convoca, ed il Presidente non convoca se non per un caso previsto dalla Costituzione su richiesta motivata.

LUSSU ritiene che l’onorevole Mortati sia disposto a modificare la dizione dell’articolo, nel senso che la richiesta sia «motivata». Ciò a suo parere significa che tale richiesta debba esser presa in considerazione, anche nel merito, dal Presidente dell’Assemblea nazionale, perché se egli la ritenesse non sufficientemente motivata, non accetterebbe il parere del Presidente della Repubblica. Crede quindi opportuno specificare che occorre anche l’intervento del Presidente dell’Assemblea nazionale.

FABBRI non è d’accordo sul significato che ha dato alla disposizione in esame l’onorevole Mortati secondo l’interpretazione dell’onorevole Lussu. Esclude che il Presidente dell’Assemblea nazionale possa non accettare la richiesta di convocazione dell’Assemblea fatta dal Presidente della Repubblica. Crede perciò che l’articolo debba essere votato quale è, a meno che non si voglia ritenere che vi debba essere un Governo di Assemblea invece di un Governo con un Capo dello Stato. Ma su ciò ritiene sia necessario pronunciarsi chiaramente.

MORTATI, Relatore, a chiarimento dei dubbi sorti, osserva che non si tratta di una facoltà discrezionale, perché i casi di convocazione sono tassativi; e quando il Presidente della Repubblica indica uno di questi motivi non suscettibili di apprezzamenti discrezionali il Presidente dell’Assemblea non può fare alcuna valutazione al riguardo: se invece il Presidente della Repubblica convocasse la Camera per una materia che non è affidata alla competenza dell’Assemblea Nazionale, il Presidente dell’Assemblea potrebbe opporsi, appunto perché non ricorrerebbe alcuno dei determinati, tassativi motivi di convocazione.

TOSATO osserva che tutti i casi in cui l’Assemblea Nazionale può essere convocata sono evidentemente di iniziativa governativa. Propone quindi di sopprimere la parola «anche» e dire: «è convocata a richiesta del Presidente della Repubblica».

PRESIDENTE mette intanto ai voti la prima parte del terzo comma:

«L’Assemblea Nazionale delibera il proprio regolamento».

(È approvata).

Mette ai voti la seconda parte:

«Essa è convocata dal suo Presidente».

(È approvata).

Ritiene ora opportuno che si debba aggiungere: «nei casi previsti dalla Costituzione», formula che comprende quei casi che danno motivo alla richiesta del Presidente della Repubblica ed eventualmente anche all’iniziativa di un certo numero di membri delle due Assemblee.

MORTATI, Relatore, accetterebbe tale proposta, a condizione che non si escludesse il seguito del comma.

PRESIDENTE precisa che la sua intenzione era appunto quella di escludere il seguito del comma, mentre vi sarebbe inclusa l’iniziativa delle due Camere.

Pone ai voti la formula: «nei casi previsti dalla Costituzione».

(Non è approvata).

LUSSU nella formulazione proposta dall’onorevole Mortati («anche a richiesta motivata del Presidente della Repubblica o di chi lo supplisce») propone di sopprimere l’inciso «o di chi lo supplisce».

BOZZI propone di sopprimere la parola «motivata».

PRESIDENTE mette intanto ai voti la formulazione: «anche a richiesta del Presidente della Repubblica», salvo a decidere poi sulle altre parole.

(È approvata).

Pone ai voti l’aggettivo «motivata» da aggiungere a «richiesta».

(Non è approvato).

Pone ai voti la soppressione dell’ultimo inciso: «o di chi lo supplisce», proposta dall’onorevole Lussu.

MORTATI, Relatore, accetta la proposta dell’onorevole Lussu.

(È approvata).

PRESIDENTE fa rilevare che la formulazione proposta dall’onorevole Tosato, alla quale il proponente dava carattere esclusivo («essa è convocata dal suo Presidente su richiesta del Presidente della Repubblica») deve intendersi non approvata, in seguito all’esito della votazione.

Avverte che il terzo comma dell’articolo 1-bis resta così formulato: «L’Assemblea Nazionale delibera il proprio regolamento. Essa è convocata dal suo Presidente anche a richiesta del Presidente della Repubblica».

Pone in discussione l’articolo 2:

«La Camera dei Deputati è eletta a suffragio universale eguale, diretto e segreto, in ragione di un deputato per ogni centomila abitanti».

Lo pone ai voti.

(È approvato).

Vi è poi un emendamento aggiuntivo: «o frazioni superiori a 50 mila abitanti». Lo pone ai voti.

(È approvato).

Pone in votazione il primo comma dell’articolo 3:

«La Camera dei Deputati è eletta per cinque anni».

(È approvato).

Pone in discussione il seguente emendamento aggiuntivo che è stato proposto dal Comitato di coordinamento:

«Tuttavia i suoi poteri sono prorogati sino alla riunione della nuova Camera.

«La legislatura può essere prorogata con legge solo nel caso di pericolo di guerra.

«Nell’ipotesi anzidetta o in quella di altri eventi straordinari, ove non si ricorra alla proroga della legislatura, la Camera disciolta può, fino alla riunione della nuova, essere riconvocata, secondo le modalità di cui all’articolo».

MORTATI, Relatore, chiarisce che l’ultimo comma di questo emendamento potrà sostituire il primo, perché fu stabilito a suo tempo che si dovesse adottare questa forma diversa dalla prorogatio: si tratta cioè di scegliere tra la proroga dei poteri pura e semplice e la possibilità di convocazione della Camera disciolta.

PRESIDENTE, dato il chiarimento dell’onorevole Mortati, rinvia la discussione del primo comma dell’emendamento.

NOBILE, sul secondo comma dell’emendamento, trova un po’ vaga l’espressione: «nel caso di pericolo di guerra» e preferirebbe si dicesse: «nel caso di imminente pericolo di guerra».

PRESIDENTE pone ai voti il secondo comma dell’emendamento aggiuntivo, secondo la proposta Nobile, così formulato:

«La legislatura può essere prorogata con legge solo nel caso di imminente pericolo di guerra».

(È approvato).

Delle due formulazioni alternative contenute nel primo e nel terzo comma dell’emendamento aggiuntivo pone in votazione la prima:

«Tuttavia i suoi poteri sono prorogati fino alla riunione della nuova Camera».

(È approvata).

Fa presente che con ciò il terzo comma dell’emendamento aggiuntivo resta soppresso.

Pone in discussione l’ultimo comma dell’articolo 3:

«Le elezioni della nuova Camera debbono aver luogo entro 70 giorni dalla fine della precedente. L’atto che le indice fisserà la prima riunione della Camera non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni».

EINAUDI propone che alla parola «atto», sia sostituita l’altra «provvedimento».

PRESIDENTE pone in votazione la prima parte del comma: «Le elezioni della nuova Camera debbono aver luogo entro 70 giorni dalla fine della precedente».

(È approvata).

Fa notare che per la seconda parte è stato proposto anche un emendamento con la seguente formulazione: «La nuova Camera si riunisce il ventiduesimo giorno successivo a quello delle elezioni».

Pone in votazione la seconda parte con la modifica proposta dall’onorevole Einaudi:

«Il provvedimento che le indice fisserà la prima riunione della Camera non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni».

(È approvata).

Fa presente che con ciò è caduto l’emendamento sostitutivo e che l’articolo 3 risulta così formulato:

«La Camera dei Deputati è eletta per cinque anni.

«Tuttavia i suoi poteri sono prorogati sino alla riunione della nuova Camera.

«La legislatura può essere prorogata con legge solo nel caso di imminente pericolo di guerra.

«Le elezioni della nuova Camera debbono aver luogo entro 70 giorni dalla fine della precedente. Il provvedimento che le indice fisserà la prima riunione della Camera non oltre il ventesimo giorno delle elezioni».

Pone in votazione l’articolo 4:

«Sono eleggibili a deputati i cittadini che abbiano i requisiti per essere elettori e abbiano compiuto 25 anni di età al momento dell’elezione».

(È approvato).

Pone in discussione l’articolo 5 (sezione 2a, riguardante il Senato):

«Il Senato è eletto su base regionale.

«Ciascuna Regione elegge, oltre a un numero fisso di cinque senatori, un senatore per ogni duecentomila abitanti.

«La Val d’Aosta elegge un solo senatore».

Comunica che vi è la seguente proposta di modifica al primo comma: «Il Senato è eletto dalle Regioni».

Pone in votazione il primo comma nella formula: «Il Senato è eletto su base regionale».

(È approvata).

Dichiara con ciò decaduta l’altra formulazione.

EINAUDI sul secondo comma osserva che il sistema ivi stabilito può portare a una situazione di privilegio per le piccole Regioni e rappresentare quasi un premio al frazionamento delle Regioni.

LAMI STARNUTI fa presente che, secondo una proposta dell’onorevole Lussu accettata dalla Sottocommissione, ma che non vede qui riprodotta, nessuna Regione potrà avere un numero di senatori superiore al numero di deputati.

EINAUDI concorda.

PRESIDENTE pone intanto in votazione la prima parte del comma così formulata:

«Ciascuna Regione elegge, oltre a un numero fisso di cinque senatori».

(È approvata).

Pone quindi in votazione la seconda parte del comma e cioè: «un senatore per ogni duecentomila abitanti».

(È approvata).

Su questo comma vi è un emendamento aggiuntivo del seguente tenore: «o frazioni superiori a centomila abitanti».

Lo pone ai voti.

(È approvato).

Pone in discussione il terzo comma: «La Val d’Aosta elegge un solo senatore».

LUSSU ritiene che questa norma specifica per la Val d’Aosta possa rientrare nella sua proposta, testé ricordata dall’onorevole Lami Starnuti.

PRESIDENTE ricorda che si tratta di una maggiore precisazione, la quale a suo tempo fu adottata dalla Sottocommissione su esplicita richiesta dell’onorevole Bordon rappresentante della Valle d’Aosta. Pone ai voti il terzo comma.

(È approvato).

Nota che a questo punto può inserirsi la proposta dell’onorevole Lussu testé ricordata dall’onorevole Lami Starnuti.

MORTATI, Relatore, osserva che tale proposta non è stata inserita, perché dai verbali delle sedute risultano due deliberazioni, una favorevole e l’altra contraria, per cui il Comitato ha ritenuto che si neutralizzassero a vicenda.

PRESIDENTE pone in votazione l’emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Lussu così formulato:

«Nessuna Regione può eleggere un numero di deputati alla seconda Camera superiore al numero che essa elegge alla prima Camera».

(È approvato).

Pone in discussione l’articolo 6:

«I senatori sono eletti per un terzo dai membri dell’Assemblea regionale, e per il resto dai consiglieri comunali della Regione».

Fa presente che vi è un emendamento sostitutivo del seguente tenore:

«I senatori sono eletti per due terzi dai consiglieri comunali della Regione e per il resto dai membri dell’Assemblea regionale».

NOBILE chiede un chiarimento su questa formulazione.

PRESIDENTE chiarisce che si tratta di decidere se i residui a cui può dar luogo la divisione per due terzi debbano andare a profitto dei Consigli comunali e dell’Assemblea regionale.

CONTI riafferma la sua contrarietà a tutto il sistema adottato negli articoli 5, 6 e 7.

PRESIDENTE pone in votazione l’articolo 6 nella prima formulazione.

(Non è approvato).

Mette in votazione la formulazione sostitutiva:

«I senatori sono eletti per due terzi dei Consiglieri comunali della Regione, e per il resto dai membri dall’Assemblea regionale».

(È approvata).

Pone in discussione l’articolo 7:

«Sono eleggibili a senatori i cittadini i quali, oltre ad avere i requisiti per essere elettori, abbiano compiuto 35 anni di età, siano nati o domiciliati nella Regione, e siano o siano stati:

1°) capi di formazioni regolari o partigiane partecipanti alla guerra di liberazione con grado non inferiore a Comandante di divisione; decorati al valore nel corso della stessa guerra; Presidente di un Comitato di liberazione nazionale regionale fino al momento della liberazione;

2°) membri elettivi di un Consiglio di gestione o di amministrazione di azienda o cooperativa con almeno 100 dipendenti o soci, nonché dirigenti tecnici o amministrativi di aziende di eguali dimensioni, se abbiano ricoperto la carica per un periodo complessivo non inferiore a 3 anni;

3°) membri elettivi dei Consigli delle Camere di commercio, industria e agricoltura dopo tre anni di funzioni;

4°) membri elettivi dei Consigli superiori presso le Amministrazioni centrali dello Stato, dopo tre anni di funzioni;

5°) membri eletti dei Consigli degli ordini professionali dopo almeno tre anni di funzioni;

6°) Presidenti della Repubblica; Ministri, Sottosegretari di Stato, Deputati alla Camera o all’Assemblea costituente; Senatori appartenenti al disciolto Senato non dichiarati decaduti;

7°) membri delle Assemblee regionali e dei Consigli provinciali dopo tre anni di funzioni;

8°) sindaci, assessori o consiglieri di Comuni con più di diecimila abitanti, dopo almeno quattro anni di funzioni; sindaci, assessori o consiglieri di Comuni con meno di diecimila abitanti dopo almeno 8 anni di funzioni;

9°) presidenti di istituzioni di assistenza e beneficenza dopo 5 anni di funzioni;

10°) membri dell’Accademia nazionale dei Lincei o delle Accademie o Società scientifiche e storiche a quella equiparate;

11°) professori ordinari di Università o Istituti equiparati;

12°) magistrali dell’ordine giudiziario, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, di grado non inferiore a …

13°) funzionari dello Stato o di altre pubbliche amministrazioni di grado non inferiore a direttore generale o a questo equiparati».

Sull’ultima parte del punto 1°) osserva che gli è stato fatto notare come «fino al momento della liberazione» non vi siano stati presidenti di Comitati regionali di liberazione nazionale, perché in quel periodo i vari membri dei Comitati presiedevano a turno le riunioni.

LUSSU ritiene che si possa togliere la frase: «fino al momento della liberazione», perché i presidenti regionali eletti dopo la liberazione erano stati figure predominanti nel periodo clandestino.

PRESIDENTE ricorda che la frase fu usata per riferirsi a quei Comitati di liberazione che hanno agito nella clandestinità.

CODACCI PISANELLI fa presente che, dicendosi decorati al valore «nel corso della stessa guerra», restano esclusi i decorati della guerra 1915-18.

PRESIDENTE ricorda che questa fu la conclusione a cui si giunse durante la discussione dell’articolo.

EINAUDI osserva al punto 2°), ove si parla di «azienda o cooperativa», che la cooperativa è anche un’azienda e che si potrebbe con maggiore proprietà di linguaggio dire: «membri elettivi di un consiglio di gestione o di amministrazione di imprese, ecc.».

PRESIDENTE fa notare che, siccome nella comune accezione si distinguono le aziende cooperative da quelle non cooperative, per una ragione di comprensibilità popolare e per sottolineare la particolare importanza che si dà alle cooperative, è stata adottata questa formula, la quale del resto potrà essere riveduta dal Comitato definitivo di redazione.

TARGETTI fa notare l’omissione che riguarda le organizzazioni sindacali. Vorrebbe aggiungere nell’elenco anche gli ex Consultori nazionali.

PRESIDENTE ricorda che i Consultori furono esclusi durante la discussione. Quanto alle organizzazioni sindacali, nota che va aggiunto il seguente punto non riportato nel testo dell’articolo di cui ha dato lettura, per semplice omissione:

14°) membri elettivi dei Consigli direttivi nazionali, regionali e provinciali di organizzazioni sindacali, che abbiano ricoperto la carica almeno per tre anni».

NOBILE, al punto 6°), vorrebbe chiarito che si tratta di Ministri e Sottosegretari di Stato del periodo pre-fascista.

FUSCHINI fa notare che ciò deve dirsi anche per i deputati alla Camera.

PRESIDENTE ritiene evidente tutto ciò, come risulta anche dalla discussione avvenuta.

ROSSI PAOLO ricorda che fu deciso di includere un chiarimento di questo genere nelle disposizioni transitorie.

(Così rimane stabilito).

NOBILE, sul punto 13°), domanda se gli ufficiali sono compresi sotto la dizione «funzionari», perché, com’egli disse, non sarebbe logico escluderli, almeno da un certo grado in su.

BOZZI lo assicura formalmente al riguardo.

PRESIDENTE conferma all’onorevole Nobile che l’ufficiale è un funzionario, perché è legato allo Stato da un rapporto di impiego.

LEONE GIOVANNI, al punto 11°), dove si parla di «professori ordinari di Università», vorrebbe si dicesse «professori di ruolo», per comprendervi anche gli straordinari.

PRESIDENTE fa notare che la questione venne già discussa e decisa dalla Sottocommissione.

LEONE GIOVANNI si riserva di riproporla in altra sede.

PRESIDENTE pone in votazione l’articolo 7 nel testo già letto, con l’aggiunta del punto 14°), omesso per errore, e che va inserito come punto 2°), spostando il numero di tutti gli altri.

(È approvato).

Pone in discussione l’articolo 8:

«I senatori sono eletti per 6 anni.

«Il Senato si rinnova per metà ogni tre anni».

TOSATO propone che i senatori siano eletti per cinque anni e che venga soppresso il secondo comma.

PRESIDENTE dichiara che tale proposta verrà messa ai voti solo nel caso che non venga approvato l’articolo nel testo presentato.

Pone in votazione l’articolo 8.

(È approvato).

Avverte che viene proposto un emendamento aggiuntivo a questo articolo, del seguente tenore:

«Le elezioni dei senatori scaduti dalla carica hanno luogo non oltre 70 giorni dalla data di scadenza. Eguale termine si applica per la rielezione del Senato nel caso del suo scioglimento».

NOBILE ritiene eccessivo il termine di 70 giorni e propone di ridurlo a 50.

LA ROCCA si domanda come funzionerà il Senato nel periodo in cui sia ridotto alla metà dei suoi membri.

FABBRI escluderebbe l’ipotesi dello scioglimento che viene prospettata oggi per la prima volta.

MORTATI, Relatore, chiarisce che questa disposizione è integrativa di quella dell’articolo 3, che riguarda la rielezione della Camera: se si volesse ammettere lo scioglimento del Senato, si potrebbe votare il comma incondizionatamente, nel senso che questa norma procedurale va messa in armonia con quanto avviene per la Camera dei Deputati.

Ritiene poi che, per quanto riguarda l’altra ipotesi, si possa accogliere la proposta dell’onorevole Nobile nel senso di indire le elezioni per la rinnovazione della metà dei membri scaduti, 50 giorni prima della scadenza, per evitare la vacanza a cui accennava anche l’onorevole La Rocca.

TOSATO rinnova la sua proposta di soppressione del secondo comma.

PICCIONI dichiara che si potrebbe addirittura tornar sopra alle decisioni prese e proporre la riduzione a cinque anni della durata del Senato ed il suo rinnovo completo dopo tale periodo.

MORTATI, Relatore, concorda.

PRESIDENTE, poiché vi è una proposta formale degli onorevoli Piccioni e Mortati riguardo alla durata del Senato, che si vorrebbe ridotta a cinque anni, e al suo rinnovo totale dopo tale periodo, in maniera che le elezioni della prima e della seconda Camera avvenissero contemporaneamente, chiede alla Commissione se intende riesaminare la questione e procedere a una nuova votazione.

FABBRI afferma che la disposizione di cui all’articolo 8 fu votata in modo imperativo e vincolante, ed è inutile riproporla solo perché oggi si determinano nuove situazioni in seno alla Sottocommissione. La questione è di sostanza e non crede accettabile, su tale argomento, il criterio di una seconda votazione. Fa ogni riserva sul sistema, che si intende adottare, di tornar sopra a decisioni già prese.

PICCIONI crede si debba parlar chiaro o dire che, riesaminata la questione, in connessione con tutte le altre disposizioni riguardanti la seconda Camera, si sono visti gli inconvenienti a cui la norma stabilita può dar luogo praticamente e costituzionalmente e che quindi si vuol porvi rimedio.

NOBILE e LEONE GIOVANNI ritengono che non debba violarsi la regola generale che ha finora vietato di porre nuovamente in discussione ciò che già è stato votato.

ROSSI PAOLO e LUSSU ritengono che, dal momento che sono proprio i presentatori della proposta già approvata a ritirarla, non vi sia nulla in contrario per una nuova votazione.

PRESIDENTE osserva che importa salvare la sostanza più che la forma: se v’è la sicurezza che in seduta plenaria si voterà la formula ora proposta, tanto vale votarla adesso.

PICCIONI, non desidera entrare in questioni procedurali, ma spera sarà consentito alla Sottocommissione, in sede di rilettura, di esprimere un voto.

PRESIDENTE ritiene che, pur approvando l’articolo 8 nel testo presentato, si potrebbe esprimere un voto nel senso accennato dall’onorevole Piccioni.

(Così rimane stabilito).

Mette ai voti la prima parte dell’emendamento aggiuntivo con la modificazione proposta dall’onorevole Nobile:

«Le nuove elezioni hanno luogo 50 giorni prima della data di scadenza».

(È approvata).

Pone ai voti il principio che sia ammesso lo scioglimento della seconda Camera.

(È approvato).

Mette ai voti la seconda parte dell’emendamento aggiuntivo:

«Il termine per la rielezione del Senato nel caso del suo scioglimento è di 70 giorni».

(È approvato).

Pone in questi termini la formulazione del voto di cui si è prima parlato:

«La seconda Sottocommissione, procedendo alla seconda lettura del progetto relativo agli articoli sul potere legislativo, esprime l’avviso che il termine di durata della seconda Camera debba essere ridotto a 5 anni ed il rinnovamento della stessa debba avvenire per intero».

(È approvato).

Avverte che si passa ora agli articoli della sezione 3a riguardanti disposizioni comuni alle due Camere.

Pone ai voti l’articolo 10:

«I membri dell’antica famiglia regnante non solo eleggibili.

«Nessuno può essere contemporaneamente membro delle due Camere».

«La legge potrà stabilire altri casi di ineleggibilità e di incompatibilità».

(È approvato).

Pone in discussione l’articolo 11:

«Prima di essere ammessi all’esercizio delle funzioni, i membri del Parlamento prestano giuramento di fedeltà alla Repubblica democratica e alle sue leggi».

Propone che la formula del giuramento sia eguale a quella stabilita per il Presidente della Repubblica e che perciò l’articolo 11 sia modificato così:

«Prima di essere ammessi all’esercizio delle funzioni, i membri del Parlamento prestano giuramento di fedeltà alla Costituzione e alle leggi della Repubblica».

(È approvato).

Pone in votazione l’articolo 12:

«I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni e dei voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni».

(È approvato).

Pone in votazione il primo comma dell’articolo 13:

«Nessun membro del Parlamento può essere arrestato, fuori del caso di flagrante delitto per il quale sia obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura, o altrimenti privato della sua libertà personale, o sottoposto a procedimento penale, senza l’autorizzazione della Camera della quale fa parte».

(È approvato).

Pone in discussione il secondo comma:

«Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di sentenza, anche se irrevocabile, e altresì per procedere a perquisizione nel suo domicilio, salvo il caso di flagrante delitto».

Fa notare che a questo comma è proposto un emendamento sostitutivo del seguente tenore:

«Il perseguimento o la detenzione di un deputato per sentenza, anche se irrevocabile, emessa anteriormente all’elezione, cessano se la Camera ne faccia richiesta».

LEONE GIOVANNI non ritiene accettabile la formulazione di questo comma e propone di adottare la seguente: «La esecuzione della sentenza è interrotta o sospesa, se la Camera ne faccia richiesta».

PRESIDENTE fa presente che, pur essendo diversa la formulazione dell’articolo da quella dell’emendamento, come diversa è la base giuridica su cui esse poggiano, in pratica si arriva agli Stessi risultati. Cita il caso recente del deputato Gallo, la cui liberazione avvenne prima che fosse deliberata dall’Assemblea costituente, per il diretto intervento del Presidente dell’Assemblea presso il Ministro della giustizia, il quale trasmise questa comunicazione al competente Procuratore della Repubblica.

EINAUDI preferirebbe la formulazione originale a quella dell’emendamento. Fa anche presente che potrebbe trattarsi di un reato estraneo alla politica e per il quale la Camera non volesse chiedere la scarcerazione.

DI GIOVANNI distingue il caso previsto dal capoverso dell’articolo – che è quello della autorizzazione a trarre o mantenere in arresto un membro del Parlamento in esecuzione di sentenza, anche se irrevocabile – dal caso previsto nell’emendamento, che è quello del perseguimento o della detenzione in base alla sentenza emessa anteriormente alla elezione. Ritiene che le due disposizioni non siano identiche.

MORTATI, Relatore, osserva che il principio ispiratore dell’emendamento è quello di richiedere l’intervento della Camera, e che il secondo comma, sia nella dizione originale che nell’emendamento, è relativo alla ipotesi della esecuzione di una sentenza anteriore alla elezione, quando cioè non v’è il sospetto di una eventuale azione del Governo per sottrarre un deputato alle sue funzioni. Dovrebbe essere quindi, a suo parere, giustificata questa valutazione preventiva della Camera circa la opportunità della liberazione. Si tratta, in conclusione, di decidere se questa esecuzione di sentenza anteriore all’elezione debba esser automaticamente sospesa per il fatto della elezione od occorra all’uopo una richiesta del Parlamento.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento dell’onorevole Mortati, secondo il quale occorre l’iniziativa della Camera perché si proceda all’atto che determina la carcerazione del deputato già arrestato, oppure la sospensione del procedimento in seguito al quale il deputato potrebbe perdere la propria libertà personale.

(Con 10 voti favorevoli e 12 contrari, non è approvato).

Fa presente che nello stesso secondo comma dell’articolo vi è un’ultima parte relativa alle perquisizioni domiciliari. Rileva che, in caso di flagrante delitto, la perquisizione ha lo scopo di accertare gli elementi riferentisi al delitto, indipendentemente dalla possibilità della cattura: se il reato non comporta il mandato di cattura, evidentemente l’arresto non si ha. Ricorda che la prima Sottocommissione, decidendo in merito alla libertà dei cittadini, ha stabilito che non è lecita la perquisizione domiciliare senza un ordine della autorità giudiziaria, salvo il caso di flagrante delitto. Ritiene che a questa stregua i deputati vadano posti sullo stesso piano degli altri cittadini.

BOZZI fa l’ipotesi di un delitto commesso da persona che cerchi asilo nella casa del deputato.

BULLONI fa notare che la perquisizione domiciliare è una delle violazioni più gravi della libertà del cittadino. Vorrebbe perciò fosse ben chiarito che debba trattarsi della flagranza in un delitto per cui sia obbligatorio il mandato di cattura.

PRESIDENTE pone in votazione la proposta di emendamento dell’onorevole Bulloni, secondo la quale alla fine del comma dovrebbe aggiungersi l’inciso «per cui sia obbligatorio il mandato di cattura».

(È approvato).

Fa notare che l’articolo 13 resta così approvato nel testo già letto, con l’aggiunta all’ultimo comma, dopo le parole: «salvo il caso di flagrante delitto», delle altre: «per cui sia obbligatorio il mandato di cattura».

La seduta termina alle 20.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Cannizzo, Cappi, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Di Giovanni, Einaudi, Fabbri, Farini, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Leone Giovanni, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Piccioni, Porzio, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti, Vanoni, Zuccarini.

Assenti: Calamandrei, Castiglia, Perassi.

GIOVEDÌ 19 DICEMBRE 1946 (prima sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSINE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(PRIMA SEZIONE)

1.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 19 DICEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Patere esecutivo (Discussione)

Presidente – Tosato, Relatore – La Rocca, Relatore – Mortati – Rossi Paoli – Lami Starnuti – Fuschini – Lussu – Nobile – Bordon – Bozzi, Relatore – Vanoni.

La seduta comincia alle 11.05.

Discussione sul potere esecutivo.

PRESIDENTE, iniziandosi l’esame del potere esecutivo, fa presente che originariamente la Sottocommissione nominò tre relatori sulla materia: gli onorevoli Bozzi, La Rocca e Tosato, ed invita quest’ultimo a riferire.

TOSATO Relatore, ricorda che, prima di iniziare la discussione sul potere legislativo, la Sottocommissione sentì il bisogno di affrontare da un punto di vista generale la questione del sistema e della forma di Governo; così, dopo la discussione, fu approvato a maggioranza un ordine del giorno Perassi, del seguente tenore:

«La seconda Sottocommissione, udita la relazione degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del Governo presidenziale, né quello del Governo direttoriale risponderebbe alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo».

Successivamente il collegio dei tre Relatori fu integrato da altri deputati e precisamente dagli onorevoli Conti, Lami Starnuti, Mortati, Perassi e Rossi. Tale Comitato si radunò numerose volte discutendo a lungo, prima di completare l’elaborazione del progetto attualmente in esame. Questo frutto del lavoro collettivo è perfettamente aderente alle decisioni della Sottocommissione (cioè, adozione di un sistema parlamentare con i dispositivi ritenuti necessari per assicurare la stabilità del Governo ed evitare le degenerazioni del parlamentarismo) ed ha incontrato nelle sue linee generali ed in gran parte dei particolari la quasi unanimità dei consensi dei membri del Comitato; soltanto su alcuni argomenti, talora di secondaria importanza, hanno fatto riserve gli onorevoli Lami Starnuti, La Rocca e Mortati.

Si astiene dal dare altre indicazioni, riservandosi di fornirle, ove necessario, nel corso della discussione, relativamente ai singoli articoli del progetto.

PRESIDENTE apre la discussione sull’articolo 1 del progetto:

«Elezione. – Il Presidente della Repubblica è eletto, a scrutinio segreto, dall’Assemblea Nazionale con la partecipazione dei Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali.

«Per l’elezione è richiesta la maggioranza dei due terzi dei membri componenti il Collegio.

«Dopo il terzo scrutinio l’elezione ha luogo a maggioranza assoluta».

LA ROCCA, Relatore, ricorda di aver sostenuto, in seno al Comitato, la opportunità che il Presidente della Repubblica fosse eletto soltanto dall’Assemblea Nazionale, ritenendo del tutto superfluo l’intervento dei Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali, in quanto, essendo stata la seconda Camera concepita come espressione delle Regioni, è perfettamente inutile che le Regioni stesse inviino degli altri rappresentanti a partecipare all’elezione del Presidente.

TOSATO, Relatore, illustra le considerazioni che nel Comitato furono contrapposte a quelle dell’onorevole La Rocca. Dei tre sistemi che si possono seguire per l’elezione del Presidente – elezione diretta da parte del popolo, elezione secondo il sistema classico delle due Camere riunite, elezione da parte di un Collegio speciale – il Comitato è stato unanime nel respingere il primo, ritenendo che un Presidente, che fosse esponente diretto del popolo, sarebbe così forte da mettere in difficoltà il funzionamento del Governo parlamentare, in cui invece il Presidente non ha una posizione di primissimo piano.

Né ha ritenuto di accogliere il secondo sistema, nella considerazione che la elezione del Presidente da parte delle due Camere renderebbe quello eccessivamente prigioniero di queste.

Di qui la necessità di allargare, sia pure di poco, il Collegio elettorale del Presidente. È sembrano pertanto opportuno adottare il sistema di far partecipare all’elezione presidenziale, oltre ai membri dell’Assemblea Nazionale, anche i Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali, sia per il criterio accennato di allargare la base elettorale, sia per legare maggiormente le Regioni allo Stato, nella considerazione che, essendosi lo Stato unitario trasformato in uno Stato a base regionale, fosse giusto far partecipare gli esponenti delle Regioni all’elezione del Presidente della Repubblica.

Conviene con l’onorevole La Rocca che una delle Assemblee legislative è composta da rappresentanti delle Regioni, ma fa rilevare che nel caso in esame i Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali intervengono nel Collegio elettorale come rappresentanti dei corpi territoriali, Regioni, come tali, e quindi precisamente per fissare quel collegamento particolare che si crede indispensabile fra Stato e Regione.

MORTATI dichiara di dissentire dal sistema proposto dal Comitato, per ragioni opposte a quelle fatte presenti dall’onorevole La Rocca.

Ritiene opportuno far precedere le sue dichiarazioni da una premessa relativa alle funzioni del Presidente, perché gli sembra che non ci si possa occupare del modo di elezione, se non si conoscono le funzioni del Presidente, e soltanto in relazione a queste si potrà stabilire il modo di elezione.

A suo avviso, il Presidente deve avere funzioni non di partito, ma neutrali, e quindi debbono adottarsi modalità di elezione che valgano a distaccarlo dai movimenti politici, come tali, ed a renderlo, nei limiti del possibile, imparziale. |

Ritiene invece che con il sistema adottato non si sia attuato sufficientemente questo distacco, in quanto i partiti sono rappresentati nell’Assemblea Nazionale.

Secondo il suo punto di vista, il Presidente dovrebbe essere eletto da un Collegio speciale, in cui non intervenisse l’Assemblea Nazionale nel suo complesso, ma solo alcuni elementi eletti nel suo seno ed altri eletti da altri organi; un Collegio, cioè, formato di elementi che fossero espressione di diverse forze sociali.

Soggiunge che, non essendo stata accolta la sua proposta – sostenuta anche da altri colleghi del suo Gruppo – dell’istituzione di una Camera professionale, la quale avrebbe reso meno sensibile il bisogno dell’intervento di una organizzazione non strettamente politica, sarebbe opportuno far intervenire le varie forze sociali in sede di elezione del Capo dello Stato. Poiché questi ha la funzione tipica di mantenere l’equilibrio fra le varie tendenze, è opportuno far concorrere alla sua elezione tutte le forze che possono essere interessate al mantenimento di tale equilibrio, e non vagheggiano il predominio di un partito sugli altri. E convinto che, ad assicurare queste garanzie di imparzialità, il sistema che ha delineato in modo sommario sia più idoneo di quello proposto dal Comitato, mentre ancora peggiore sarebbe la proposta dell’onorevole La Rocca, che farebbe del Presidente della Repubblica l’esponente della maggioranza parlamentare, laddove è avvertito il bisogno di porre il Presidente in una posizione di indipendenza di fronte ai partiti.

ROSSI PAOLO rileva che il sistema suggerito dal Comitato rappresenta una soluzione conciliativa fra le due tesi estreme: la forma puramente parlamentare, sostenuta dall’onorevole La Rocca, e quella extra-parlamentare, suggerita dall’onorevole Mortati.

LAMI STARNUTI dichiara di aver aderito al testo del progetto, perché, a suo avviso, esso obbedisce anche ad un altro principio, quello di ribadire il carattere unitario della Repubblica Italiana, stabilendo la partecipazione dei Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali alla nomina del Presidente della Repubblica.

FUSCHINI chiede ai membri del Comitato se è stata considerata un’altra soluzione: sostituire, cioè, la partecipazione dei Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali con quella di delegati nominati all’uopo dalle Assemblee regionali.

ROSSI PAOLO risponde che al Comitato è sembrato che i Presidenti delle Assemblee e delle Deputazioni regionali dovessero considerarsi i delegati naturali delle stesse alle elezioni del Presidente della Repubblica. D’altra parte, se si volesse – adottando la soluzione accennata dall’onorevole Fuschini – garantire per ciascun organo regionale una rappresentanza proporzionale, sarebbe necessario nominare parecchi delegati per ogni Regione, mentre con la formula del progetto si avrebbe una immissione complessiva di circa 44 persone.

TOSATO, Relatore, osserva che l’esigenza di porre il Presidente in condizioni di svolgere una funzione moderatrice e di equilibrio – a cui ha accennato l’onorevole Mortati – è in parte soddisfatta dal secondo comma dell’articolo in esame, in cui si dice che per l’elezione è richiesta la maggioranza dei due terzi dei membri componenti il Collegio. Personalmente è persuaso che le osservazioni dell’onorevole Mortati siano molto fondate; ma la soluzione che questi suggerisce espone a difficoltà pratiche, che nel momento attuale sembrano difficilmente sormontabili. Appunto per questo, il Comitato ha ritenuto opportuno scegliere il sistema di elezione classico, modificandolo leggermente con la partecipazione dei Presidenti delle Assemblee e delle Deputazioni regionali. Riconosce che con tale innovazione i rapporti proporzionali fra le varie forze politiche non saranno rispettati, ma avverte che questo inconveniente è eliminato dal fatto che di massima si esige la maggioranza dei due terzi dei componenti del Collegio per l’elezione del Presidente.

LUSSU aderisce al sistema proposto, principalmente perché, ammettendo la partecipazione dei massimi rappresentanti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali, si dà all’elezione un maggior carattere unitario, legando le Regioni al centro.

PRESIDENTE, rispondendo in primo luogo alle osservazioni dell’onorevole Mortati, rileva che la sua aspirazione di spoliticizzare la figura del Presidente è una mèta che non sarà mai raggiunta, perché è impensabile l’esistenza di un Presidente della Repubblica il quale, quanto meno come orientamento, non rappresenti politicamente una posizione di partito. È contrario quindi al sistema proposto dall’onorevole Mortati, in quanto ritiene che anche con esso il Presidente avrebbe egualmente un orientamento politico; né vede come sia possibile evitarlo, quali che siano gli accorgimenti con i quali si creda di poter sfuggire all’azione dei partiti, in una Nazione nella quale questi hanno realizzato una posizione così decisiva per la vita collettiva.

Non comprende peraltro per quale ragione si debba nutrire la preoccupazione, accennata dall’onorevole Tosato, che il Presidente possa divenire prigioniero delle due Camere. Le Camere eleggono il Presidente, il quale ne sarà tanto prigioniero quanto lo è un deputato nei confronti dei suoi elettori; dovrà rispondere verso chi lo elegge, ma nei limiti nei quali il suo mandato si esercita. Dipenderà da lui il saper svolgere le proprie funzioni in modo corrispondente all’attesa di coloro che lo hanno eletto; e se non lo farà e sorgerà conflitto, vi sarà la Costituzione che stabilirà i mezzi per risolverlo.

Crede inoltre che gli accorgimenti, attraverso i quali il progetto ha cercato di evitare questa prigionia, non rispondano allo scopo; perché, a suo avviso, i 42 o 44 che si aggiungeranno ai circa 700 componenti l’Assemblea Nazionale, eserciteranno scarsa influenza. In quanto poi i Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali non costituiscono un corpo unitario, essi non daranno il minimo fastidio al Presidente, il quale saprà che deve rispondere soltanto di fronte alle Camere.

Osserva poi che, ricorrendo agli organi regionali, si modifica alquanto il classico Collegio elettorale del Presidente, ma così facendo si altera anche il rapporto fra le forze della prima e della seconda Camera, poiché i Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali saranno portati naturalmente ad avvicinarsi a quella delle due Camere che è più affine a loro, e nella quale ritroveranno una quantità di elementi alla cui elezione hanno concorso essi stessi.

Questa è un’altra delle ragioni per cui dissente dal sistema proposto dal Comitato.

Se si immettesse nell’Assemblea Nazionale qualche elemento neutro, potrebbe anche concordare, pur dubitando della necessità di alterare o di modificare l’organo che si presenta come il Collegio naturale per l’elezione del Presidente. Dal momento che gli elementi che si immettono non possono essere neutrali, perché la loro origine è la stessa della seconda Camera, non può ammettere che si alteri l’equilibrio fra le forze delle due Camere, che è stato stabilito nel corso delle discussioni sul potere legislativo.

Ritiene altresì che l’ipotesi, avanzata dall’onorevole Fuschini, che le Regioni siano rappresentate da delegati appositamente eletti, aggraverebbe ancora il difetto a cui ha accennato, perché tali delegati si sentirebbero soltanto rappresentanti delle Assemblee regionali ed andrebbero a schierarsi a fianco dei rappresentanti delle Regioni nella seconda Camera.

Per queste ragioni, e per altre ancora che tralascia, dichiara di considerare artificiosa e di non poter approvare qualsiasi immissione di elementi estranei nel naturale Collegio elettorale del Presidente della Repubblica. Una volta escluso il sistema del suffragio diretto ed accolto quello di secondo grado, è del parere che detto collegio debba essere costituito esclusivamente dall’Assemblea Nazionale.

TOSATO, Relatore, avverte subito che le ragioni che consigliano un Collegio speciale sono proprio quelle che l’onorevole Terracini non ammette. Precisa quindi che, dicendo che il Presidente non deve essere prigioniero delle due Camere, intendeva alludere al fatto che, se il Presidente fosse espressione pura e semplice delle Camere, nell’esercizio del potere di scioglimento del Parlamento si troverebbe fortemente vincolato. Di qui la necessità di trovare un correttivo, allargando, sia pure il meno possibile, il Collegio costituito dall’Assemblea Nazionale.

All’obiezione del Presidente che in tal modo si altera il rapporto fra le due Camere, risponde che esso viene alterato nel modo minore, perché i Presidenti delle Assemblee e delle Deputazioni regionali non intervengono come rappresentanti delle Regioni (in quanto questi si trovano già nella seconda Camera), ma come elementi rappresentativi di Enti autonomi facenti parte dello Stato. Ritiene che questo ampliamento costituisca il minimo indispensabile per assicurare alla figura del Presidente una posizione un po’ autonoma, per quanto con poteri limitatissimi, di fronte alle Assemblee legislative.

NOBILE si rende conto dello spirito che anima tanto le osservazioni dell’onorevole Tosato quanto quelle dell’onorevole Mortati, i quali vorrebbero che il Presidente non fosse prigioniero delle due Camere. Fa presente che vi sarebbe un sistema già scartato dal Comitato, per raggiungere tale scopo e garantire l’indipendenza del Presidente: farlo eleggere direttamente dal popolo. All’obiezione del Relatore che, così facendo, gli si conferirebbe un potere troppo grande in confronto a quello dell’Assemblea Nazionale, replica che a questo inconveniente si ovvierebbe se si accogliesse una proposta che ha già avuto occasione di sostenere, ma che non è stata presa in considerazione dal Comitato: istituire cioè un Consiglio Supremo della Repubblica. Ove si costituisse questo Consiglio, come emanazione diretta dell’Assemblea Nazionale, e si stabilisse che il Presidente non può nulla deliberare senza il suo parere conforme, i poteri del Presidente stesso sarebbero molto attenuati e si potrebbero conciliare le due diverse esigenze: quella di creare un Presidente indipendente quanto più è possibile dalle due Camere, perché non eletto da esse; e l’altra di evitare uno strapotere del Presidente.

BORDON propone il seguente emendamento: nel primo comma dell’articolo 1 sopprimere le parole «e delle Deputazioni regionali».

PRESIDENTE, riassumendo, nota che si è di fronte a quattro diverse proposte, oltre a quella del Comitato: la prima, dell’onorevole Nobile, è la più radicale, in quanto muta il sistema di elezione, che da elezione di secondo grado diviene elezione diretta, subordinata però alla costituzione di un Consiglio Supremo della Repubblica che segga a fianco del Presidente; la seconda è dell’onorevole Mortati, il quale accetta l’elezione di secondo grado, ma scarta nettamente l’idea che il Collegio elettorale sia costituito dai membri delle due Camere, ammettendo tuttavia la partecipazione di elementi da esse delegati allo scopo; la terza è dell’onorevole La Rocca, il quale pensa ad un Collegio costituito esclusivamente dall’Assemblea Nazionale; la quarta dell’onorevole Bordon, il quale propone che il Collegio elettorale sia costituito dall’Assemblea Nazionale unitamente ai Presidenti delle Assemblee regionali.

Pone anzitutto ai voti la proposta dell’onorevole Nobile.

TOSATO, Relatore, dichiara che voterà contro, perché l’elezione diretta infirmerebbe tutto il sistema parlamentare già approvato, e la stessa conseguenza comporterebbe la creazione di un Consiglio Supremo della Repubblica.

(Non è approvata).

PRESIDENTE pone ai voti la proposta dell’onorevole Mortati.

(Non è approvata).

Pone ai voti la proposta dell’onorevole La Rocca.

(Con 5 voti favorevoli e 5 contrari non è approvata).

Pone ai voti la proposta dell’onorevole Bordon.

LUSSU dichiara di votare in favore.

(Non è approvata).

PRESIDENTE pone ai voti la formula proposta dal Comitato.

(Con 5 voti favorevoli e 5 contrari non è approvata).

Avverte che, trattandosi di una delle questioni che saranno più dibattute nei successivi stadi di elaborazione, verranno comunicati alla Commissione plenaria i risultati di queste votazioni, lasciando per il momento in sospeso la formulazione del primo comma.

Pone ai voti il secondo e terzo comma dell’articolo 1.

(Sono approvati).

Apre la discussione sull’articolo 2:

«Eleggibilità. – Sono eleggibili tutti i cittadini per nascita, che abbiano compiuto cinquanta anni di età e godano dei diritti civili e politici.

«I membri delle famiglie già regnanti non sono eleggibili».

FUSCHINI domanda se possono essere elette alla carica di Presidente della Repubblica anche le donne.

ROSSI PAOLO risponde affermativamente.

PRESIDENTE osserva che l’età di cinquanta anni è forse troppo elevata e, tenuto anche conto dell’età stabilita agli effetti dell’eleggibilità alle Assemblee legislative, propone di ridurla a quarantacinque anni. Crede infatti che un cittadino che sia stato membro della prima Camera per venti anni, abbia i requisiti di maturità per essere nominato Presidente della Repubblica.

FUSCHINI dissente.

PRESIDENTE pone in votazione il primo comma dell’articolo 2 con l’emendamento che riduce l’età minima per l’eleggibilità a 45 anni.

(È approvato).

FUSCHINI, in merito al secondo comma, fa rilevare che nelle disposizioni, già approvate, sul potere legislativo, si usa l’espressione: «I membri dell’antica famiglia regnante non sono eleggibili», mentre nell’articolo in esame si parla di «membri delle famiglie già regnanti». Crede che sarebbe necessario un coordinamento tra le due formule.

MORTATI aggiunge che di famiglie regnanti in Italia ve n’è stata una sola, e quindi non è giustificato il plurale.

TOSATO, Relatore, informa che il Comitato ha tenuto presente la formula usata per il potere legislativo, ma non ha trovato di suo gradimento l’espressione «antica famiglia regnante». Ha pensato altresì di usare per il Presidente della Repubblica una formula ancora più precisa, per escludere ogni famiglia che abbia regnato in Italia o in una parte qualsiasi dell’Italia.

PRESIDENTE, per ragioni di forma, consiglia la dizione:

«I membri di famiglie già regnanti non sono eleggibili».

Pone ai voti il secondo comma dell’articolo 2, così modificato.

(È approvato).

Apre la discussione sull’articolo 3:

«Giuramento. – Il Presidente della Repubblica, prima di assumere l’esercizio del suo ufficio, presta dinanzi l’Assemblea che lo ha eletto giuramento di essere fedele alla Costituzione della Repubblica e di esercitare le sue funzioni col solo scopo del bene della Nazione».

NOBILE propone di sostituire alle parole: «dinanzi l’Assemblea che lo ha eletto», le altre: «dinanzi l’Assemblea Nazionale».

PRESIDENTE, pur essendo contrario all’inclusioni dei Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali nel Collegio elettorale del Presidente della Repubblica, ritiene che al suo giuramento debbano essere presenti tutti coloro che hanno partecipato all’elezione.

FUSCHINI preferirebbe sostituire, alle parole: «dinanzi l’Assemblea che lo ha eletto», le altre: «dinanzi al Collegio che lo ha eletto».

PRESIDENTE osserva che con questo articolo viene prefissata la formula del giuramento del Presidente della Repubblica, che, una volta inclusa nella Costituzione, non potrà essere modificata.

MORTATI prospetta l’opportunità di riprodurre, in questa disposizione, l’espressione «Repubblica democratica», che già si è usata per la formula del giuramento dei deputati.

PRESIDENTE concorda.

LAMI STARNUTI obietta che qui si parla di Costituzione della Repubblica e l’aggiunta della parola «democratica» sarebbe superflua.

ROSSI PAOLO suggerisce di sopprimere le parole «della Repubblica».

PRESIDENTE propone la formula: «di essere fedele alla Costituzione e alle leggi della Repubblica».

Pone in votazione il testo dell’articolo 3 così emendato.

(È approvato).

Apre la discussione sull’articolo 4:

«Durata. – Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni.

«Trenta giorni prima della scadenza del termine, il Presidente dell’Assemblea Nazionale convoca il Collegio previsto dall’articolo 1 per la nuova elezione del Presidente della Repubblica.

«Se una o tutte e due le Camere sono sciolte, oppure manca meno di un semestre alla fine della legislatura, l’elezione del Presidente della Repubblica avrà luogo entro 15 giorni dalla costituzione delle nuove Camere, e i poteri del Presidente sono prorogati».

Pone in discussione il primo comma.

TOSATO, Relatore, avverte che questo è un punto che è stato lungamente dibattuto e vi sono al riguardo pareri discordanti: secondo alcuni, la durata della carica dovrebbe essere di sei anni, secondo altri si dovrebbe precisare che il Presidente è eletto per sei anni e non è rieleggibile; altri ancora preferirebbero specificare che è eletto per sei anni e non è rieleggibile che una sola volta; infine, per quanto lo riguarda, egli preferirebbe dire semplicemente che è eletto per sette anni. Ritiene che non sia opportuno escludere la possibilità della rielezione, soprattutto data la situazione politica attuale di penuria di uomini politici, dopo venti anni di carenza di vita politica. D’altra parte, l’affermazione che non è rieleggibile potrebbe anche essere interpretata, per quanto indirettamente, in un senso poco favorevole per l’attuale Capo provvisorio dello Stato.

Né approverebbe una formula limitativi nel senso di specificare che il Presidente può essere rieletto una sola volta, in quanto ciò rappresenterebbe un vincolo morale, seppure tenue, per il Collegio elettorale, che nel procedere alla elezione del Presidente si troverebbe sempre di fronte alla positiva possibilità di rieleggere il Presidente cessante. A suo avviso è dunque preferibile lasciare impregiudicata la questione, rimettendola alla completa discrezionalità del corpo elettorale.

LAMI STARNUTI propone la formula: «è eletto per sette anni e non è rieleggibile», ad impedire che si apra la via ad una politica a carattere personale del Presidente.

BORDON propone di ridurre la durata in carica da sette a cinque anni.

LUSSU concorda con l’onorevole Bordon.

FUSCHINI obietta che il Senato è eletto per sei anni e, se il termine venisse ridotto, lo stesso Senato eleggerebbe due volte il Presidente della Repubblica.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta di ridurre la durata in carica del Presidente della Repubblica a cinque anni.

(Non è approvata).

Pone ai voti la durata della carica in sei anni.

(Non è approvata).

Pone in votazione la formula:

«Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni.

(È approvata).

Mette ai voti il seguente emendamento aggiuntivo: «e non è rieleggibile».

(È approvata).

ROSSI PAOLO ritiene che dovrebbe prendersi in considerazione la possibilità della rielezione dopo un certo periodo.

PRESIDENTE oppone che, nella formula che è stata approvata, è implicito il criterio che non possa essere mai rieletto.

FUSCHINI propone di far precedere la parola: «rieleggibile», dall’altra: «immediatamente», per prevedere l’ipotesi accennata dall’onorevole Rossi. Domanda se l’attuale Presidente provvisorio rientri in questa disposizione.

PRESIDENTE fa osservare che l’onorevole De Nicola non ha neanche il titolo di Presidente della Repubblica, bensì quello di «Capo provvisorio dello Stato». Comunque, propone che si faccia risultare dal verbale che la Sezione è unanime nel ritenere che il principio approvato non abbia alcun riferimento con il Capo provvisorio dello Stato

(Così rimane stabilito).

Pone ai voti la proposta dell’onorevole Fuschini di far precedere la parola: «rieleggibile» dall’altra: «immediatamente».

(Non è approvata).

Pone ai voti il secondo e terzo comma dell’articolo 4.

(Sono approvati).

Apre la discussione sull’articolo 5:

«Incompatibilità. – L’ufficio del Presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra carica».

NOBILE non è soddisfatto di questa formula, nella quale si ha l’impressione che sia sottinteso il termine «pubblica». Ritiene che l’incompatibilità debba sussistere con qualsiasi carica, anche privata, in quanto non ammette che il Presidente della Repubblica possa essere cointeressato in una società industriale o commerciale. Propone quindi l’aggiunta delle parole «anche private».

TOSATO, Relatore, avverte che si è preferito non specificare «con qualsiasi altra carica pubblica», come fanno molte Costituzioni, appunto per il criterio sottolineato dall’onorevole Nobile. Dicendo semplicemente «con qualsiasi altra carica», si è inteso escludere anche le cariche private.

PRESIDENTE crede che tale interpretazione autentica dell’articolo, risultante dal verbale, possa soddisfare l’onorevole Nobile.

NOBILE insiste nella sua proposta. Crede necessario che il Collegio che elegge il Presidente sappia che non può scegliere tra persone che rivestano una carica privata.

PRESIDENTE rileva che il concetto dell’onorevole Nobile non è esatto. La incompatibilità implica la rinuncia a qualsiasi carica, anche privata, nel momento in cui si viene eletti, ma non si può escludere dalla elezione chiunque rivesta una carica pubblica o privata, perché altrimenti non si troverebbero mai dei candidati alla Presidenza della Repubblica. Sono infatti ben rare le persone in vista che non ricoprano almeno una carica pubblica o privata.

ROSSI PAOLO è contrario all’aggiunta proposta, che sarebbe pleonastica, data l’interpretazione unanime della disposizione, esposta già dall’onorevole Tosato.

NOBILE modifica la sua proposta nel senso di precisare che il Presidente della Repubblica non può essere eletto tra coloro che appartengono a consigli di amministrazione di società industriali o commerciali. Soggiunge, a sostegno della sua proposta, che, anche ammesso che il Presidente della Repubblica non appena eletto si dimetta dalle cariche che ricopre, continuerà sempre a proteggere la società della quale faceva parte.

TOSATO, Relatore, replica che il Presidente della Repubblica non ha poteri politici propri. Inoltre la questione cha fa l’onorevole Nobile non riguarda la incompatibilità, bensì la ineleggibilità e, caso mai, se ne dovrebbe parlare all’articolo 2.

PRESIDENTE pone ai voti il principio sostenuto dall’onorevole Nobile, salvo a tradurlo successivamente in una formula da introdurre nell’articolo 2.

(Non è approvato).

Apre la discussione sull’articolo 6:

«Vacanza. – In caso di morte o di dimissioni o di impossibilità fisica del Presidente, l’esercizio delle funzioni presidenziali è assunto dal Presidente. dell’Assemblea Nazionale.

«Entro trenta giorni, salva l’applicazione del 3° comma dell’articolo 4, ha luogo l’elezione del nuovo Presidente».

NOBILE fa osservare che, se venisse accolta la sua proposta di istituire un Consiglio Supremo della Repubblica, la questione della vacanza provvisoria della Presidenza della Repubblica verrebbe risolta automaticamente, perché il Consiglio Supremo stesso, o il membro più anziano di esso, potrebbero assumere provvisoriamente le funzioni presidenziali. Sarebbe quindi opportuno rinviare la disposizione in esame a quando si sarà deciso in merito alla costituzione del Consiglio Supremo della Repubblica, oppure affrontare subito questo argomento.

TOSATO, Relatore, avverte che la questione viene in considerazione all’articolo 8, in cui si parla della posizione del Capo dello Stato.

PRESIDENTE invita a prendere per ora in esame quelle parti dell’articolo 6 che non sono in contrasto con la proposta dell’onorevole Nobile, salvo ad esaminare il resto quando si sarà deciso in merito alla costituzione o meno del Consiglio Supremo della Repubblica.

Domanda quindi se non sia il caso di dare qualche indicazione sul modo di accertare la impossibilità fisica del Presidente.

TOSATO, Relatore, fa presente che personalmente aveva proposto un articolo il quale suonava presso a poco così: «In caso di morte o di dimissioni o di impedimento permanente accertati, su richiesta del Governo, dalla Corte Costituzionale…»; senonché molte considerazioni sono state svolte contro questa sua formulazione, particolarmente da parte dell’onorevole Rossi, il quale lo ha convinto a ritirare la proposta. Questi faceva osservare giustamente che la questione dell’accertamento dell’impedimento permanente è molto delicata, in quanto apre l’adito a discussioni e ad eventualità piuttosto pericolose per la vita dello Stato.

Si è quindi cercato di precisare nei termini più rigorosi possibili i casi che possono dar luogo a vacanza, cioè, morte e dimissioni, sostituendo al concetto di «impedimento permanente», che è sembrato troppo generico e suscettibile di diverse interpretazioni, quello più preciso di «impossibilità fisica». Non si è ritenuto opportuno parlare di un organo di accertamento e della richiesta di accertamento, lasciando impregiudicate queste questioni.

BORDON propone di aggiungere, alle parole: «impossibilità fisica», l’altra: «permanente».

TOSATO, Relatore, si dichiara contrario per le ragioni già esposte.

LA ROCCA, Relatore, ritiene implicito il carattere della permanenza nella impossibilità fisica per il Presidente di assolvere alle sue funzioni, soprattutto in quanto nell’articolo successivo si disciplina il caso di impedimento temporaneo. Si domanda piuttosto se non sia il caso di affidare ad un medico, ad un collegio o ad un qualsiasi organo l’accertamento di siffatta impossibilità.

ROSSI PAOLO obietta che, affidandosi ad un organo l’accertamento della impossibilità fisica, si porrebbe il Presidente della Repubblica sotto una specie di tutela preventiva; egli sembrerebbe quasi un uomo minorato, ove si ammettesse l’esistenza di un supremo consesso competente a giudicare della sua capacità fisica.

PRESIDENTE pone ai voti il primo comma, fino alle parole «è assunto», lasciando in sospeso l’indicazione dell’organo o della persona che dovrebbe assumere le funzioni del Presidente della Repubblica in caso di vacanza, con la riserva di completare la disposizione quando si sarà presa una decisione sulla proposta dell’onorevole Nobile di istituire un Consiglio Supremo della Repubblica.

(È approvato).

Pone ai voti il secondo comma.

(È approvato).

Apre la discussione sull’articolo 7:

«Delegazione. – In caso di impedimento temporaneo, il Presidente della Repubblica può delegare l’esercizio delle sue funzioni al Presidente dell’Assemblea Nazionale. Non è ammessa la delega per gli atti previsti dagli articoli 13, 14, 16, 19».

MORTATI si dichiara contrario all’attuale formulazione dell’articolo 7, in quanto ritiene che le funzioni del Presidente della Repubblica debbano essere esercitate soltanto da lui e non possano essere delegate. Osserva che, trattandosi di impedimento temporaneo, non si deve ricorrere all’istituto della delega, bensì a quello della supplenza, la quale agisce ope legis ed implica la piena sostituzione del Presidente senza alcuna limitazione di attribuzioni. Tanto più che l’impedimento temporaneo potrebbe protrarsi per un periodo piuttosto lungo. Propone pertanto il seguente emendamento sostitutivo:

«In caso di impedimento temporaneo il Presidente della Repubblica è supplito dal Primo Ministro.

«Ove l’impedimento si prolunghi oltre i quattro mesi e manchi più di un semestre alla fine del periodo di durata in carica, si procederà alla nomina di un supplente con le norme di cui all’articolo 1».

BOZZI, Relatore, informa che della questione si è già discusso in seno al Comitato, ove si è finito con l’approvare il concetto della delega dei poteri, che comporta una determinazione volontaria da parte del Presidente. Dal fatto però che questa manifestazione di volontà del Presidente della Repubblica è limitata dalla norma costituzionale al solo caso di impedimento temporaneo, discende la necessità di controllare se sussista o meno questo impedimento.

Piuttosto, a suo avviso, sarebbe importante stabilire una limitazione nel tempo all’impedimento temporaneo; fissare cioè un termine, superato il quale, si passa dal concetto di impedimento temporaneo a quello dell’impossibilità fisica prevista dall’articolo precedente.

MORTATI replica che, a parte il fatto che l’espressione «può delegare» è in contrasto col concetto di impedimento, il Presidente della Repubblica potrebbe giovarsi abusivamente di questa disposizione.

TOSATO, Relatore, fa presente che il principio della delegazione è stato scelto dal Comitato per ben precisare la responsabilità del Presidente. Se questi, in determinati casi di impedimento fisico, non sarà in grado di esercitare le sue funzioni, potrà delegarle; ma la facoltà di delega implica sempre una sua responsabilità. Viceversa, con l’istituto della supplenza si introduce nell’ordinamento costituzionale, a fianco della figura del Presidente in carica, quella del supplente, il che potrebbe costituire un fomite di attriti.

Il concetto della delega è più aderente al sistema del Governo parlamentare, in cui il Presidente è un organo monocratico, individuale, con responsabilità proprie. Comunque, il Presidente potrà delegare i suoi poteri quando non gli sia possibile esercitarli, ma non potrà delegarne alcuni soltanto.

NOBILE non approva la formula «in caso di impedimento temporaneo», che potrebbe consentire abusi da parte del Presidente, e suggerisce di precisare i casi di impedimento, i quali, a suo avviso, non possono essere che due: una grave malattia che costringa ad una lunga degenza, o un’assenza prolungata dal territorio della Repubblica.

PRESIDENTE, riepilogando, nota che la Sezione dovrebbe pronunciarsi su diversi quesiti: 1o) se si debba parlare di supplenza o di delega; 2°) se debba usarsi l’espressione: «può delegare», ovvero l’altra: «deve delegare»; 3°) se si debba fissare un limite alla temporaneità dell’impedimento; 4°) se indicare specificatamente i casi di impedimento.

Pone anzitutto ai voti la proposta dell’onorevole Mortati di sostituire l’istituto della supplenza a quello della delega.

(Non è approvata).

Circa il secondo quesito, se cioè il Presidente «può» o «deve» delegare, osserva che in fondo esso è connesso alla questione della durata dell’impedimento, in quanto che, in caso di impedimento piuttosto prolungato per quanto temporaneo, potrebbe parlarsi del dovere di procedere alla delegazione; nel caso invece di un impedimento che si prevedesse di breve durata, la decisione potrebbe essere rimessa alla discrezionalità del Presidente.

Comunque, pone ai voti l’espressione: «deve delegare».

(Non è approvata).

Resta pertanto inteso che la delega è nella potestà del Presidente. Pone quindi ai voti la proposta di fissare un termine alla temporaneità dell’impedimento.

(Non è approvata).

Pone in votazione la formula proposta dall’onorevole Nobile:

«In caso di impedimento temporaneo per grave e lunga malattia, il Presidente, ecc.».

(Non è approvata).

Rileva che, non essendosi accolto alcuno degli emendamenti, resta approvata la dizione del Comitato. Quanto alla persona o all’organo al quale possono competere i poteri delegati dal Presidente, avverte che, come già si è fatto per l’articolo precedente, dovrà sospendersi ogni decisione fino a quando la Sezione non si sia pronunciata sulla costituzione di un Consiglio Supremo della Repubblica.

NOBILE propone la soppressione della seconda parte dell’articolo 7, per la quale non è ammessa la delega per gli atti previsti dagli articoli 13, 14, 16, 19. Rileva che, durante l’impedimento temporaneo del Presidente, può sorgere la necessità di compiere uno di quegli atti (nominare il Primo Ministro, presiedere il Consiglio supremo di difesa nazionale, ecc.) ed il Presidente può trovarsi nella impossibilità di compierli.

ROSSI PAOLO fa presente che il Comitato ha avvertito la gravità di questa situazione e ne ha a lungo discusso. Personalmente ritiene che il Presidente dovrebbe o fare uno sforzo per adempiere a quelle funzioni per il quale è prescritto il suo intervento personale, ovvero dichiarare di non poterle adempiere e chiedere l’applicazione dell’articolo 6.

LAMI STARNUTI aggiunge che l’impedimento temporaneo sarà tale da non consentire al Presidente l’esercizio delle sue funzioni continuative, ma certamente non tale da impedirgli l’esecuzione di un atto isolato, come potrebbe essere la scelta del Capo del Governo.

LA ROCCA, Relatore, non consente con l’onorevole Nobile e propone di mantenere l’articolo nella sua dizione attuale.

BOZZI, Relatore, nota che, se si escludono dalla delega gli atti di cui agli articoli 13, 14, 16 e 19, al delegato resterà poco più della firma delle leggi. D’altra parte, anche tale firma potrebbe rinviarsi, dato che l’impedimento è soltanto temporaneo, senza ricorrere alla nomina di un supplente.

Tutto considerato, sarebbe dell’avviso di sopprimere l’articolo 7, posto che il caso di impossibilità fisica è previsto dall’articolo 6.

LUSSU si dichiara favorevole alla conservazione dell’articolo.

MORTATI rileva l’incongruenza dell’articolo 7, citando il caso in cui per una disgraziata ipotesi il Presidente della Repubblica non sia in grado di fare la delega.

ROSSI PAOLO fa presente che, non essendosi nell’articolo 6 usata l’espressione «impossibilità fisica permanente», l’impedimento temporaneo previsto nell’articolo in esame potrebbe ritenersi di brevissima durata.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta di soppressione dell’articolo 7.

(Non è approvata).

Pone in votazione la proposta dell’onorevole Nobile di sopprimere la seconda parte dell’articolo.

(Non è approvata).

MORTATI osserva che, dal momento che non si è approvata la soppressione dell’ultima parte dell’articolo, bisogna esaminare attentamente gli atti per i quali non si vuole ammettere la delega.

TOSATO, Relatore, in seguito ad un più attento esame, esprime l’avviso che sia opportuno riprendere in considerazione il concetto della supplenza.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta dell’onorevole Tosato di riprendere in esame la prima parte dell’articolo 7, per sostituire all’istituto della delega quello della supplenza.

NOBILE dichiara di votare in favore.

(È approvata).

PRESIDENTE fa rilevare che nella formula proposta dall’onorevole Mortati si prevedono due ipotesi: che l’impedimento temporaneo si prolunghi oltre i quattro mesi e che manchi più di un semestre alla fine del periodo di durata in carica del Presidente che è stato supplito.

FUSCHINI nota che praticamente le ipotesi possono ridursi ad una sola perché, se il Presidente viene colpito da una malattia la cui prevedibile durata superi i quattro mesi, darà senza dubbio le dimissioni.

LUSSU è contrario a qualunque termine. Parlerebbe perciò soltanto di impedimento temporaneo, in senso generale.

MORTATI, nella considerazione che non si può creare un organo di accertamento, dichiara di aderire al criterio dell’onorevole Lussu.

LA ROCCA, Relatore, è nettamente contrario al concetto della supplenza, in quanto ritiene che possa dar luogo a gravi conflitti per l’eventualità che il supplente, una volta nominato, non intenda più rinunziare all’incarico.

PRESIDENTE potrebbe concordare con l’onorevole La Rocca, se il supplente non fosse una persona che ha già un proprio incarico. Senonché il supplente sarà il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Presidente dell’Assemblea Nazionale, il quale evidentemente, per continuare ad esercitare le funzioni di Presidente della Repubblica, dovrebbe abbandonare la carica che ricopriva, per l’incompatibilità prevista nell’articolo 5.

MORTATI, contro l’opinione dell’onorevole La Rocca, fa presente che in tutte le Costituzioni è previsto l’istituto della supplenza.

VANONI aggiunge che, poiché probabilmente il Presidente della Assemblea Nazionale sarà chiamato a supplire il Presidente della Repubblica, sarà difficile che si verifichi la situazione a cui ha accennato l’onorevole La Rocca. Infatti, il Presidente dell’Assemblea Nazionale assumerebbe la supplenza, appunto in quanto tale, e nel caso accennato dall’onorevole La Rocca l’Assemblea potrebbe provocare le dimissioni del suo Presidente, il quale così automaticamente verrebbe a decadere anche dalla carica di Presidente della Repubblica.

PRESIDENTE pone ai voti il principio della supplenza.

(È approvato).

Fa rilevare che, accolto l’istituto della supplenza, che implica la sostituzione del Presidente della Repubblica in tutte le sue attribuzioni, non ha più ragion d’essere l’ultimo periodo dell’articolo 7, in cui si prevedevano alcune eccezioni alla delega.

Pertanto l’articolo stesso resta così concepito:

«In caso di impedimento temporaneo, il Presidente della Repubblica è supplito nell’esercizio delle sue funzioni…» (conformemente a quanto deciso per l’articolo 6, si lascia in sospeso la determinazione dell’organo o della persona che dovrebbe assumere la supplenza).

La seduta termina alle 13.

Erano presenti: Bordon, Codacci Pisanelli, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mortati, Nobile, Rossi Paolo, Terracini, Tosato, Vanoni.

Assenti: Cannizzo, Castiglia, De Michele, Einaudi, Fabbri, Grieco, Perassi, Piccioni, Zuccarini.

Presente autorizzato: Bozzi.

GIOVEDÌ 19 DICEMBRE 1946 (seconda sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(SECONDA SEZIONE)

8.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 19 DICEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CONTI

INDICE

Potere giudiziario (Seguito della discussione)

Calamandrei, Relatore – Uberti – leone Giovanni – Laconi – Presidente – Ambrosini – Cappi – Mannironi – Targetti – Leone Giovanni, Relatore – Bulloni – Ponzio – Bozzi.

La seduta comincia alle 9.15.

Seguito della discussione sul potere giudiziario.

CALAMANDREI, Relatore, dà lettura di alcuni comma nei quali ha sintetizzato i principî finora discussi.

«a) l’esercizio del potere giudiziario in materia civile, penale e amministrativa appartiene esclusivamente ai giudici ordinari istituiti e regolati dalla legge sull’ordinamento giudiziario».

(Chi ritiene che debbano rimanere come organi speciali indipendenti la Giunta provinciale amministrativa e il Consiglio di Stato, dovrebbe dire soltanto: «l’esercizio del potere giudiziario in materia civile e penale appartiene esclusivamente ecc.», riservando la giustizia amministrativa ad un’altra disposizione).

«b) non potranno essere creati, neanche per legge, organi speciali di giurisdizione;

«c) presso gli organi giudiziari ordinari potranno essere istituite, per determinate materie, apposite sezioni con la partecipazione di magistrati specializzati in quelle materie, ovvero di cittadini esperti nominati a norma dell’articolo 20;

«d) la giustizia amministrativa, le funzioni giurisdizionali della Corte dei conti, il Contenzioso tributario sono regolati da apposite leggi».

A quest’ultimo comma dichiara però di essere contrario; esso risponde alle aspirazioni di coloro che vogliono mantenere certe giurisdizioni speciali.

UBERTI, piuttosto che affermare il principio della unicità della giurisdizione, preferirebbe che venissero stabilite delle garanzie giurisdizionali: cioè che questi organi speciali di giurisdizione, se ammessi, fossero presieduti da un magistrato ordinario.

Riconosce che l’unicità è un fine che lo spirito umano tende sempre a raggiungere; ma, a suo avviso, la specializzazione rappresenta un progresso perché, con la differenziazione, si possono avere degli organi più competenti. Si teme che questi organi possano essere meno liberi e indipendenti: ma un giudice ordinario, che sia nella sua coscienza indipendente, può incoscientemente prendere una decisione manchevole per la sua incompetenza nella materia sulla quale è chiamato a giudicare.

Riferendosi a quanto aveva detto nella precedente seduta l’onorevole Vanoni, riconosce che nel Contenzioso tributario è preoccupante, dal punto di vista della serenità del giudizio, il fatto che spesso il giudice è anche parte, quindi un perfezionamento sarebbe necessario per giungere ad una giustizia sicura; ma la competenza del rappresentante dell’amministrazione ha un valore superiore alla imparzialità teorica, che si riduce ad essere una imparzialità non effettiva, per difetto di competenza, del giudice ordinario.

Ammette il principio dell’unicità in campo civile e penale: ma la giurisdizione tributaria, quella amministrativa e il controllo sulle spese dello Stato da parte della Corte dei conti costituiscono un progresso che sarebbe annullato attraverso una disposizione così rigida. Si chiede quale significato possa avere l’ammettere che una legge regolerà la giustizia amministrativa, quando poi si vuole affermare un principio che è in antitesi con la specializzazione. Siano invece stabiliti principî, norme e regole che diano la garanzia assoluta della indipendenza e della libertà; si immetta in questi organi speciali la rappresentanza della Magistratura ordinaria; ma si lascino in vita quegli organismi che rappresentano un progresso e non si chiuda la via alle esigenze che possono manifestarsi nel futuro.

Anche per la procedura, la forma mentis speciale del magistrato ordinario ha una rispondenza diversa, di fronte a situazioni particolari, dei quella del magistrato specializzato.

Alla elaborazione di una nuova sistemazione nel Contenzioso tributario l’articolo proposto costituirebbe un ostacolo.

Termina ricordando l’esempio della Commissione centrale delle imposte dirette che, in materia di diritto tributario, ha formulato con assoluta indipendenza di giudizio massime così sapientemente elaborate da risultare veramente notevoli.

DI GIOVANNI ritiene che la discussione abbia ormai avuto svolgimento sufficiente. Quanto alle formule proposte dall’onorevole Calamandrei, propone che nella prima ci si limiti alla materia penale e civile ed alla seconda si premetta l’espressione: «in materia penale».

LACONI dichiara di concordare con gli onorevoli Uberti e Targetti, forse per quella particolare sensibilità che gli deriva dal fatto di non essere un tecnico e di avere quindi una sensibilità politica su questo problema.

PRESIDENTE osserva che non l’aspetto politico, ma quello pratico va considerato nello sviluppo dei lavori. Comunque ritiene opportuno che coloro che parlano impegnino in un certo senso anche i rispettivi Gruppi.

LACONI risponde che parla a nome del suo Gruppo, ma con naturali sfumature personali. Al centro di questa discussione è stata posta la questione della indipendenza della Magistratura; e questa gli pare un’esigenza giusta sulla quale tutti possono essere d’accordo; ma trova esagerato fare del giudice una specie di figura astratta. Il giudice non è un’astrazione; egli vive in mezzo ad altri uomini, fa parte di un determinato gruppo sociale e quindi, per tutelare la sua indipendenza, non deve esser considerato soltanto nei suoi rapporti col potere politico. Oltre ad una questione di indipendenza dall’esterno, ve ne è una di indipendenza all’interno, di cui è stata rilevata la fondatezza anche da parte di altri colleghi. Quando si fa dell’ordine giudiziario una specie di ordine chiuso, una casta separata; quando si lascia la regolamentazione di tutta la vita interna del potere giudiziario ai giudici stessi, può ancora sorgere una questione di indipendenza, perché la carriera, le nomine, i trasferimenti dei giudici saranno affidati tutti allo stesso corpo e non vi sarà alcuna possibilità di influire dall’esterno. Questa specie di classe che si vuol costruire non è avulsa dalla vita della società, ma risente determinate influenze politiche, sociali e culturali. Quindi la necessità di mettere vicino al giudice, che è figlio di una determinata classe e rappresentante di un determinato orientamento, altri uomini che per gli interessi che rappresentano e per la loro competenza tecnica possano apportare un sussidio alla interpretazione retta della legge e ispirare al giudice una comprensione maggiore dello spirito della legge.

Nel momento storico attuale, nel quale è in atto una specie di rivoluzione pacifica, un determinato corpo che risente dell’eredità culturale del passato può aver bisogno di essere integrato da elementi che provengano dalla vita libera del Paese e che riflettano i sentimenti e le aspirazioni del popolo. A questa necessità devono rispondere le giurisdizioni speciali, delle quali si è parlato pro e contro.

Secondo l’onorevole Leone, ciò rappresenterebbe un pericolo simile a quello fascista, perché in avvenire si potrebbe, per determinate esigenze politiche, istituire una magistratura speciale con determinati fini. Ma questo è un problema politico di tale ampiezza che non si può pensare di evaderlo, perché se domani si determinassero condizioni storiche tali da realizzare una dittatura, con o senza sezioni speciali, la dittatura troverebbe il mezzo di influire su ogni potere dello Stato e, dominando la vita politica del Paese, sarebbe capace di dominare anche il potere giudiziario.

Dichiara quindi di essere contrario alla fissazione nella Costituzione di una norma rigida che stabilisca un’assoluta unificazione della giurisdizione, e favorevole, invece, alla impostazione data dall’onorevole Targetti.

Si potrebbe anche indicare, come criterio generale, il principio della unificazione; ma rimanendo aderenti alla realtà, perché nel momento attuale vi possono essere esigenze alle quali quell’ideale non risponda. La decisione dovrebbe essere rinviata all’esame che sarà fatto, caso per caso, delle diverse giurisdizioni speciali.

Fa poi rilevare che gli schemi trasmessi dalla Corte di cassazione e dal Ministero di grazia e giustizia sono molto più stringati di quelli in discussione, e perciò più rispondenti alle esigenze di una Carta costituzionale.

Aggiunge di essere contrario al mantenimento dei Tribunali militari; e poiché reputa opportuno precisare il suo pensiero su ogni questione, dichiara di essere contrario anche al mantenimento del Consiglio di Stato e della Corte dei conti come organi giurisdizionali.

Questi due organi possono avere nello Stato italiano una loro utilità; la Corte dei conti rimanga come organo di controllo contabile e il Consiglio di Stato riacquisti la sua naturale funzione di organo consultivo; ma niente di più. Non può ammettere che, attraverso organi che rappresentano soltanto delle competenze tecniche, si controlli tutta la vita del Paese, senza che gli organi stessi abbiano l’investitura di una elezione popolare.

AMBROSINI, contrariamente a quanto ha affermato l’onorevole Laconi, ritiene che né il Relatore né alcun’altro pensi, sostenendo l’indipendenza della magistratura, alla costituzione di una casta chiusa. Il principio della indipendenza della Magistratura non solo è stato sempre affermato nella legge, ma è stato solennemente conclamato nelle discussioni parlamentari e nei convegni dei magistrati, avvocati e di tutti coloro che direttamente o indirettamente si sono occupati dell’argomento. Senonché, il fatto stesso che di tempo in tempo si sente il bisogno di ripetere questa affermazione, dimostra che il principio non è adeguatamente osservato.

Come risulta anche dalle parole dell’onorevole Calamandrei, l’Italia ha avuto ed ha una Magistratura spiritualmente indipendente; ma molti sintomi denotano che a volte il funzionamento della giustizia è turbato, o appare al pubblico che sia turbato, il che è quasi la stessa cosa. Il fatto, fra l’altro, delle sollecitazioni che si rivolgono ai deputati per raccomandare una qualche cosa ai magistrati, od anche soltanto perché sia fatta giustizia, sta ad indicare che nel pubblico l’idea della imparzialità nell’amministrazione della giustizia è andata sempre più decadendo. Ritiene che questo sia il tarlo roditore di tutto il sistema.

Ritiene indispensabile che si ristabilisca nella sua interezza e con rigidità il principio della legalità ed il sentimento e la convinzione nel pubblico che tale principio viene effettivamente applicato.

Si sente onorato di avere appartenuto alla Magistratura, conosce la virtù e l’eroismo dei magistrati, ma disgraziatamente l’amministrazione della giustizia, nel suo complesso, è stata, senza sua colpa, investita da un senso di diffidenza o, il che è lo stesso, di non completa fiducia, che bisogna assolutamente eliminare col ricorso a rimedi radicali. Per sottrarre la Magistratura a qualsiasi influenza dell’esecutivo occorre ricorrere al sistema dell’autogoverno.

A questo punto chiede all’onorevole Laconi, che ha investito proprio il principio informatore del sistema proposto dall’onorevole Calamandrei, per assicurare l’indipendenza della Magistratura sulla quale tutti sono d’accordo, che cosa occorrerebbe fare. Mantenere il sistema esistente? Ritiene che si deve rispondere negativamente, giacché esso non è stato efficace a garantire l’assoluta limpidità nell’amministrazione della giustizia, onde è necessario cambiar sistema, ricorrendo all’autogoverno della Magistratura, naturalmente con quei temperamenti che siano necessari per il collegamento che deve esistere con il Governo, col potere esecutivo, perché parlar di autogoverno della Magistratura non significa costituire una casta chiusa.

Passando a trattare particolarmente della unicità della giurisdizione, si sofferma sui sistemi prospettati dai tre Relatori e rileva che il principio animatore dell’unità della giurisdizione non esclude a rigore l’esistenza di alcune giurisdizioni cosiddette speciali, purché le decisioni di queste vengano sottoposte al sindacato della Suprema Corte di cassazione. In sostanza si tratta sempre di organi di amministrazione della giustizia per materie speciali, la cui trattazione rende consigliabile la specializzazione dell’organo, specie quando questo sistema sia stato collaudato dall’esperienza, come nel campo della giustizia amministrativa.

Non esita a dichiarare che se v’è qualche istituzione che abbia funzionato bene, che possa senza tema di esagerare, dati i tempi, considerarsi benemerita del Paese, è proprio la giustizia amministrativa, e precisamente le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato. Ed allora perché privarsi di un istituto il quale può essere rammentato con decoro nella storia della nostra giurisprudenza? Con un’affermazione di principio come quella della prima parte dell’articolo 12 del progetto Calamandrei, sicuramente non sarebbe possibile dare soddisfazione a questa esigenza, che è sentita da molti e, comunque, benevolmente presa in considerazione anche da coloro, come l’onorevole Calamandrei, che sostengono in via di principio l’assoluta unicità del corpo giudicante.

Pensa che non sia opportuno adottare il principio nella formulazione rigida fattane dall’onorevole Calamandrei, perché in base ad essa resterebbe preclusa la via al mantenimento di quelle giurisdizioni speciali che si sono dimostrate utili per la garanzia dei cittadini da una parte e dell’amministrazione pubblica dall’altra. Una proibizione assoluta bisogna invece proclamare in riguardo ai tribunali speciali nel campo penale, giacché quando si tratta della libertà dei cittadini nessuna eccezione deve ammettersi alla competenza dei giudici ordinari.

Riguardando le questioni nel loro complesso, ribadisce le ragioni per cui crede che sia possibile proclamare il principio dell’unità della giurisdizione, senza sopprimere completamente le giurisdizioni speciali, e si sofferma specialmente sulla necessità di sottoporre le decisioni di queste al sindacato della Corte di cassazione con la stessa ampiezza e gli stessi limiti fissati per le sentenze della Magistratura ordinaria. Mettendo il Supremo Collegio al vertice di tutti i corpi giudicanti, si salvaguarderebbe il principio fondamentale che sta a base del progetto in esame. Propugna un sistema che permetta di tener conto delle suddette varie esigenze e dichiara che voterà per la proposta che, affermando il principio dell’unicità della giurisdizione, renda possibile la salvaguardia delle giurisdizioni speciali esistenti, quali le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e il Contenzioso tributario.

CAPPI premette di parlare, non a nome del Gruppo cui appartiene, ma a suo nome personale.

È favorevole al principio dell’unicità della giurisdizione, col temperamento accennato dall’onorevole Ambrosini. Tale principio risponde a criteri razionali e semplici, che furono accolti all’unanimità dai rappresentanti di tutti i partiti nella Commissione di studio nominata dal Ministero per la Costituente.

Non ripeterà quanto ha detto l’onorevole Ambrosini sull’indipendenza della Magistratura. Nel principio dell’unicità della giurisdizione vede un’affermazione ed una garanzia di libertà democratica, in quanto impedisce al potere esecutivo ed anche a quello legislativo di sottrarre determinate materie alla giurisdizione ordinaria. La gravità di questa osservazione è stata sentita da coloro che hanno suggerito che i giudici specializzati siano nominati dallo stesso organo e con le stesse garanzie con cui vengono nominati i giudici ordinari. Obietta, però, che se il Governo stabilisse che i giudici specializzati devono essere scelti in certe categorie sociali ed economiche, poco varrebbe che la nomina fosse fatta dall’organo che nomina anche i giudici ordinari, perché questo sarebbe costretto a scegliere entro categorie determinate dal potere esecutivo.

Se la giurisdizione specializzata deve rispondere alla esigenza di adeguare l’interpretazione della legge a quella che in un dato momento può essere la coscienza sociale, meglio si provvederebbe riformando la legge; questo è il vero principio di libertà e di democrazia.

Alle esigenze pratiche accennate dall’onorevole Uberti soddisfano le giurisdizioni miste, alle quali accenna il secondo comma proposto dall’onorevole Calamandrei.

Conviene con l’onorevole Ambrosini che, mentre il principio deve valere rigidamente per la giurisdizione civile e penale, per la giurisdizione tributaria e amministrativa possano essere ammesse giurisdizioni speciali.

Concludendo, dichiara di votare il primo comma proposto dall’onorevole Calamandrei, purché ne siano tolte le parole: «e amministrativa»; e propone che nel comma relativo alle giurisdizioni miste si aggiunga che, oltre ad avere dei membri che non sono giudici ordinari, possano anche ricorrere a norme speciali di procedura.

MANNIRONI è d’accordo con gli onorevoli Cappi e Ambrosini nel senso che debba essere mantenuta l’unicità della giurisdizione, salva la creazione di sezioni specializzate in seno alla Magistratura.

Accetta, in linea di massima, le proposte sostitutive presentate dall’onorevole Leone; ma desidererebbe che fossero aggiunti i seguenti comma:

«È ammessa la giurisdizione arbitrale nei casi voluti dalle parti o disposti dalla legge.

«In quest’ultimo caso la scelta degli arbitri sarà sempre libera tra le parti».

Ciò perché, se si afferma risolutamente e rigorosamente che non sono ammesse giurisdizioni speciali, si potrebbe ritenere da taluno che fossero esclusi anche gli arbitrati liberi tra le parti, mentre deve essere favorita ogni attività che tenda alla risoluzione di controversie tra privati, anche al fine di ridurre lavoro e compiti dell’autorità giudiziaria.

TARGETTI, non essendo suo intendimento presentare proposte di articoli, si limiterà ad enunciare i principî che dovrebbero essere sostituiti a quelli sanciti negli articoli proposti, compresi gli aggiuntivi proposti dall’onorevole Leone:

«L’esercizio del potere giudiziario è affidato ai giudici previsti dalla legge sull’ordinamento giudiziario ed ai giudici popolari della Corte d’assise»; perché dicendo solo che l’esercizio del potere giudiziario in materia civile appartiene esclusivamente ai giudici dell’ordinamento giudiziario bisognerebbe cavillare per comprendere che sono ammessi anche i giudici popolari.

Poi: «la legge disciplinerà la giustizia amministrativa».

Senza entrare nella questione della Corte dei conti e del Consiglio di Stato (che non ritiene intangibili, anzi è persuaso che si debbano tangere, e specialmente che l’ammissione al Consiglio di Stato debba essere regolata da principî del tutto diversi dagli attuali) dichiara, anche a nome di altri colleghi, di essere tutt’altro che favorevole alla fioritura di giurisdizioni speciali; anzi è persuaso della necessità di sfrondare questo grosso albero, senza però chiudere la strada alla creazione, per speciali materie, di giurisdizioni speciali, fatta eccezione, in ogni caso, per la materia penale. Occorre quindi trovare una frase che chiarisca questo concetto.

Si dovrebbe aggiungere poi:

«I Tribunali militari potranno essere istituiti soltanto in tempo di guerra.

«Neppure per legge potranno essere istituite giurisdizioni straordinarie».

A questi concetti ritiene, con altri colleghi, che dovrebbero ispirarsi queste norme.

LEONE GIOVANNI, Relatore, osserva che con la proposta dell’onorevole Calamandrei sono riconosciuti i giudici popolari; ma dichiara di esservi contrario.

BULLONI ritiene che la proposta dell’onorevole Calamandrei pregiudichi in maniera irrimediabile l’istituzione delle giurie popolari, che rispondono al principio della sovranità popolare che è alla base del nostro ordinamento democratico. Pertanto voterà contro la formulazione dell’articolo come è stato proposto, in quanto appunto vulnera il principio della sovranità popolare.

PORZIO, senza addentrarsi nella discussione, farà solo una dichiarazione.

È d’accordo sul principio dell’indipendenza della Magistratura, la quale non deve subire le influenze del potere esecutivo. Non è invece favorevole a introdurre nella Costituzione – si tratta di fare uno Statuto, non un Codice – tante altre particolari disposizioni, concernenti perfino la Corte di assise ed i giurati.

È anche contrario ad affermare che le giurisdizioni speciali devono essere tutte abolite: il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, a suo avviso, devono rimanere.

Anche la preoccupazione per l’uniformità della giurisprudenza gli sembra un errore: la Corte di cassazione non deve immobilizzare il diritto.

Nega che i giurati costituiscano un progresso, in quanto espressione democratica: i giudici devono essere competenti. L’ultimo progetto di legge che ripristina le Corti d’assise è, a suo parere, un’enormità, perché dà il diritto di vita e di morte anche a chi sa appena leggere e scrivere, il che avvilisce la funzione. L’istituzione della Corte d’assise presenta notevoli inconvenienti e, nel suo lungo esercizio professionale, ne ha ricavato una profonda delusione. Nell’epoca presente, poi, quando per ragioni di divisioni politiche o di interferenze economiche è così facile arrivare a delle coscienze tentennanti, gli sembra gravissimo ripristinare le giurie con norma della Costituzione.

Si chiede poi che cosa sia questo giudizio irrevocabile della Corte d’assise. Occorre dare a questa Corte i requisiti di capacità, non solo, ma anche possibilità di un rimedio. Si dice che la giustizia deve essere fondamentum reipublicae, ma non bisogna lasciarsi guidare dai luoghi comuni; la democrazia, il giurì, la sovranità popolare sono bellissime teorie: ma la pratica è ben altra: davanti ai tribunali passa tutta la storia ed allora bisogna porsi all’altezza della situazione. Il progresso è rappresentato dal miglioramento degli istituti, non dal loro deterioramento.

BOZZI, per togliere le apprensioni degli onorevoli Targetti e Bulloni sulla sorte delle Corti d’assise, chiarisce che la Corte d’assise è un organo ordinario, è una sezione della Corte d’appello e nella legge sull’ordinamento giudiziario è prevista come organo ordinario.

Precisa quindi che il problema della Corte d’assise sarà riesaminato in sede opportuna e che non è pregiudicato dalla votazione che ora si tratta di fare.

TARGETTI propone un emendamento al primo comma delle sue proposte, e precisamente di dire: «e dai giudici popolari che lo Stato potrà istituire», anziché: «dai giudici popolari previsti dalla legge».

LEONE GIOVANNI, Relatore, poiché il problema della Corte d’assise è impregiudicato, per affrettare la discussione, propone che si riveda la formula proposta dall’onorevole Calamandrei quando sarà stato esaminato il problema della Corte d’assise.

A suo avviso, occorre ora fissare i principî nei confronti delle giurisdizioni speciali, senza preoccuparsi della Corte d’assise, con l’intesa che, se si riconoscerà in seguito la necessità di un giudice popolare, si potrà rivedere questa formula.

Per quanto attiene al merito propone l’emendamento seguente:

«Organi del potere giudiziario in materia civile e penale sono esclusivamente i giudici ordinari istituiti e regolati dalla legge sull’ordinamento giudiziario. In determinate materie tali organi possono essere integrati da giudici specializzati o da cittadini esperti, nominati dal Presidente della Repubblica su designazione del Consiglio giudiziario competente».

«Non potranno essere create, neanche per legge, giurisdizioni speciali.

«La giustizia amministrativa, le funzioni giurisdizionali della Corte dei conti e il Contenzioso tributario sono regolati da apposite leggi».

PRESIDENTE avverte che, abbandonato dai Relatori il testo originario, rimangono tre proposte analoghe da esaminare. Di queste legge il primo comma.

Testo proposto dall’onorevole Calamandrei: «L’esercizio del potere giudiziario in materia civile, penale (e amministrativa) appartiene esclusivamente ai giudici ordinari istituiti e regolati dalla legge sull’ordinamento giudiziario».

Fa rilevare che vi si accenna in parentesi alla materia amministrativa, ma è noto il pensiero del Relatore al riguardo.

Testo dell’onorevole Leone: «Organi del potere giudiziario in materia civile e penale sono esclusivamente i giudici ordinari istituiti e regolati dalla legge sull’ordinamento giudiziario».

Testo dell’onorevole Bozzi: «L’esercizio del potere giudiziario in materia civile e penale è informato al principio dell’unità della giurisdizione».

Legge infine l’emendamento proposto dall’onorevole Di Giovanni: «L’esercizio del potere giudiziario è affidato ai giudici previsti dalla legge sull’ordinamento giudiziario e ai giudici popolari previsti dalla legge».

BOZZI spiega i criteri ai quali si ispira il primo comma del suo ordine del giorno, premettendo che ha deliberatamente accantonato il problema della giuria.

La sua formulazione differisce da quella dell’onorevole Calamandrei non soltanto formalmente, ma anche per una significazione sostanzialmente diversa che tiene a mettere in evidenza, affinché non si creda che, sotto un giuoco di parole, voglia nascondere un concetto diverso. Approvando la formula dell’onorevole Calamandrei, si afferma in pieno il principio dell’unità della giurisdizione; la sua formulazione invece esprime un concetto che è proprio anche della Corte di cassazione; designa un orientamento. Dire che il potere giudiziario è informato al principio dell’unità della giurisdizione ha un duplice valore, sia in riferimento al processo di sfrondamento, al quale accennava l’onorevole Laconi, delle giurisdizioni esistenti, sia per quello che potrà essere l’atteggiamento futuro del legislatore. L’affermazione di un orientamento è, a suo avviso, più confacente ad una Costituzione che non quella di un principio rigido. Verranno poi le eccezioni.

CALAMANDREI, Relatore, dichiara che la formula dell’onorevole Bozzi non può soddisfarlo, perché non pone il divieto assoluto al legislatore.

Agli onorevoli Targetti e Di Giovanni, che si sono preoccupati di inserire in qualche parte il divieto di giurisdizioni straordinarie oltre che di quelle speciali, osserva che questo divieto si trova già in un articolo approvato. Le giurisdizioni straordinarie sono una cosa diversa dalle speciali, per cui è inutile richiamarle.

All’onorevole Mannironi, che ha proposto di inserire in questo punto un accenno all’arbitrato, ricorda che di questo si parlò quando fu approvato l’articolo in cui si precisava che la giurisdizione è funzione dello Stato, e tutti furono d’accordo nel ritenere che con esso non si escludeva la giurisdizione arbitrale, il riconoscimento delle sentenze straniere e il riconoscimento, in certi casi, delle sentenze ecclesiastiche.

Fa rilevare all’onorevole Uberti che egli, quando sostiene che si debbano poter creare giurisdizioni speciali, ma che a queste giurisdizioni si debbano dare tutte le garanzie di indipendenza, non considera che, se si arriverà a ritenere – quando si parlerà dell’autogoverno della Magistratura – che questo è l’unico modo per dare l’indipendenza ai giudici, bisognerà anche riconoscere che le giurisdizioni speciali debbono essere inserite nella Magistratura ordinaria, altrimenti non si avrebbe per esse l’autogoverno.

Fa poi considerare all’onorevole Laconi (il quale diceva che nella Magistratura non deve essere impedita la possibilità di farvi entrare, quando occorra, elementi estranei, non giuristi, perché non si può prevedere quali itinerari seguirà la storia e quali potranno essere le necessità sociali) che a questa esigenza si risponde col dare la possibilità di creare sezioni specializzate nell’interno della Magistratura, nelle quali, sotto la presidenza di un giudice ordinario, siano introdotti quegli elementi tecnici di cui si riterrà, di volta in volta, opportuna la partecipazione. A questo proposito richiama l’attenzione dei colleghi sul fatto che i lavori della Costituente sono stati preceduti dai lavori, protrattisi per un anno, di una Commissione composta dai rappresentanti di tutti i partiti presso il Ministero della Costituente, che ha preso lungamente e serenamente in esame tutti i problemi che oggi tornano alla discussione per essere formulati in articoli. Ebbene, su questi problemi dell’unicità della giurisdizione e delle giurisdizioni speciali, non una voce si è levata contro la richiesta di non creare più giurisdizioni speciali e di affermare solennemente nella Costituzione il principio dell’unicità della giurisdizione. Ed erano presenti i rappresentanti di tutti i partiti: per i comunisti c’era l’onorevole Terracini.

Resta riservato il problema delle giurisdizioni speciali attualmente esistenti, che sarà discusso quando si sarà affermato il principio generale, e potrà essere risolto con un apposito comma.

Per quanto riguarda le Corti d’assise, ricorda che l’onorevole Bozzi ha già risposto all’onorevole Targetti che la Corte d’assise è un giudice ordinario, e quando si dice che il potere giudiziario appartiene ai giudici ordinari e che tra questi si possono inserire delle sezioni specializzate con l’intervento di elementi estranei, è evidentemente compresa la Corte d’assise che, eventualmente trasformata, costituirà una di queste sezioni specializzate degli organi ordinari.

TARGETTI risponde che la Corte d’assise, che giudica il fatto e nella quale il giudizio è rimesso esclusivamente al giudice popolare, non è una sezione speciale della Corte d’appello.

CALAMANDREI, Relatore, propone, nei riguardi del suo articolo, di non mettere in votazione l’espressione posta tra parentesi: «o amministrativa».

PRESIDENTE aderisce e ritiene che si debba mettere in votazione prima l’articolo dell’onorevole Calamandrei, sia perché è in accordo con quello dell’onorevole Leone, sia perché si allontana di più dal testo proposto nella relazione. Lo ritiene anche più comprensivo.

La formulazione Calamandrei è la seguente: «L’esercizio del potere giudiziario, m materia civile e penale, appartiene ai giudici ordinari istituiti e regolati dalla legge sull’ordinamento giudiziario».

LEONE GIOVANNI, Relatore, è favorevole a questa formulazione, ritenendo che in sede di coordinamento il testo Calamandrei possa essere integrato con quello da lui proposto.

UBERTI si dichiara favorevole all’unità della giurisdizione in materia civile e penale, ma ritiene che, con la formulazione Calamandrei, si voglia stabilire la negazione della giurisdizione speciale. A quest’ultimo concetto non può assolutamente aderire.

PRESIDENTE mette ai voti la formulazione Calamandrei.

(Non è approvata).

BOZZI chiede che sia inserito a verbale che egli ha votato contro la proposta Calamandrei, non perché sia contrario al principio dell’unità della giurisdizione, ma perché ritiene che questo principio debba essere, non affermato in maniera rigida ed assolutamente vincolante, ma espresso in forma orientativa.

Ramificare l’ordine giudiziario in tante sezioni specializzate non conferisce autorità all’ordine stesso. Si dichiara d’accordo sul punto di arrivo, ma non sulla via da seguire.

PRESIDENTE avverte che si dovrà ora porre in votazione il testo dell’onorevole Leone.

AMBROSINI dichiara di aver votato a favore dell’articolo Calamandrei e che, per coerenza, dovrebbe votare a favore anche della formulazione Leone; non ritiene però che la procedura fin qui seguita contribuisca alla chiarificazione del problema.

PRESIDENTE, considerati i dissensi fin qui manifestatisi, ritiene che sarebbe opportuna un’intesa fra i Relatori e i proponenti le varie formulazioni, per raggiungere l’accordo su un testo unificato.

Osserva che l’ordine del giorno Bozzi, dicendo: «l’esercizio del potere giudiziario in materia civile e penale è informato al principio della unità della giurisdizione», non afferma un concetto preciso ed intelligibile, quale si richiede in un articolo della Costituzione.

CALAMANDREI, Relatore, dichiara che voterà contro l’ordine del giorno Bozzi, perché lo ritiene equivoco. Ritiene che si debbano approvare articoli che significhino qualche cosa di pratico; in questo caso, occorre assumersi la responsabilità di affermare se si vuole o meno l’unità della giurisdizione. La proposta Bozzi costituisce un’affermazione generica del principio che poi in pratica può essere violato.

TARGETTI riconosce che al concetto espresso dall’onorevole Bozzi si potrebbe dare anche una formulazione diversa, ma si dichiara contrario all’interpretazione che ne dà l’onorevole Calamandrei. Si possono avere in questa materia vari orientamenti. L’onorevole Calamandrei dice che deve essere preclusa la via alla creazione di ogni giurisdizione speciale; si può invece sostenere che si debba largheggiare con l’istituzione di esse: ma è possibile anche un terzo orientamento, quello del suo gruppo che, pur aspirando all’unicità della giurisdizione, ritiene che sia un vagare nella astrattezza il chiudere gli occhi di fronte alla necessità assoluta che esistano talune giurisdizioni speciali.

PORZIO fa osservare all’onorevole Targetti che in una Costituzione bisogna porre dei termini sicuri, delle proposizioni nette, le quali non siano suscettibili di significati ambigui. Quando si dice che si è per l’unicità della giurisdizione, sarà questa la prima affermazione da fare, e saranno tutti d’accordo nel farla; verrà poi qualche emendamento, qualche esplicazione; e questa è cosa da discutere. Perciò si chiede come si sia potuto non approvare la formulazione dell’onorevole Calamandrei.

TARGETTI risponde che non la si è approvata perché è preclusiva.

PORZIO obietta che è una forma rigida, la quale afferma il principio. Ma questo può essere soggetto a delle eccezioni che saranno precisate e chiarite.

LEONE GIOVANNI, Relatore, si pone sulla linea realistica segnata dall’onorevole Porzio. L’onorevole Targetti ha voluto esprimere l’ansia per l’unicità della giurisdizione; ma esistono nell’attuale ordinamento delle giurisdizioni speciali che è opportuno che sopravvivano. Quindi, formulando una Carta costituzionale, il cui carattere deve essere la concretezza – e questo deve essere il suo titolo di nobiltà – si debbono disciplinare queste giurisdizioni, anche se si voglia chiamarle «giudici speciali», affinché non siano create per arbitrio del potere esecutivo. Si deve però esprimere anche il desiderio che questi giudici speciali abbiano una delimitazione; e una delimitazione è in relazione al pericolo che il giudice speciale, o per la sua provenienza, o per la sua funzione tecnica, possa essere non competente o non capace da un punto di vista professionale. È accaduto alle volte che il giudice fosse lo Stato stesso, ma in regime democratico occorre difendersi dall’invadenza del potere esecutivo. Va riconosciuto che v’è un tronco fondamentale che si chiama giustizia ordinaria; vi sono poi delle diramazioni che sono i giudici speciali. Qui il dissenso è possibile: con la sua proposta questi giudici speciali debbono essere composti per due terzi dai giudici ordinari e, per l’altro terzo, da altre persone. Su questo potrà non esservi l’accordo; ma anzitutto è necessario fissare delle regole, per impedire che il potere esecutivo possa istituire dei giudici speciali ai quali manchi la garanzia dell’indipendenza. Sarà da discutere sulle esigenze alle quali debbono obbedire, se vi debba essere una maggioranza di giudici ordinari o di estranei, se debba essere il Capo dello Stato a nominarli, ecc.; ma è inconcepibile che non debbano essere fissate delle regole costituzionali al di là delle quali non si possa andare.

Per quanto attiene poi alla giurisdizione amministrativa, è del parere che debba essere conservata; che la Corte dei conti, il Consiglio di Stato e la Giustizia tributaria debbano sopravvivere, regolate da leggi speciali.

Oltre alle giurisdizioni speciali che ha ricordato non ne vede altre. Pertanto i giudici speciali che escono fuori da questi limiti, quelli cioè che trattano puramente rapporti privatistici o penali, posto che debbano esistere, a suo avviso, lo possono solo con garanzie particolari.

CALAMANDREI, Relatore, per una mozione d’ordine, poiché il primo comma della sua proposta è stato respinto, chiede che venga sostituito con un altro.

LACONI si associa a quanto ha detto l’onorevole Bozzi e dichiara, a nome del suo gruppo, di opporsi unicamente all’inserimento nella Costituzione di un principio rigido che impedisca al legislatore ogni iniziativa. A questa esigenza risponde il concetto espresso dall’onorevole Leone, che possano prevedersi delle eccezioni alla regola fondamentale.

BOZZI ritiene che la discussione sia basata su un equivoco. Quanto ha detto l’onorevole Leone lo convince che questi è d’accordo con la sua tesi, mentre è in dissenso parziale con l’onorevole Calamandrei.

Il sistema Calamandrei è organico e conseguente: tutto il potere giudiziario, civile, penale, amministrativo deve essere lasciato ai giudici ordinari, non devono essere consentiti per l’avvenire giudici speciali. Se insorge la necessità di una specializzazione, la materia dovrà essere disciplinata organandola nell’ordinamento giudiziario ordinario a mezzo di sezioni specializzate.

L’onorevole Leone si dichiara d’accordo con il collega Calamandrei nell’affermazione rigida del principio unitario; ma poi pone il problema se eventuali organi futuri dovranno essere giudici speciali o sezioni specializzate.

LEONE GIOVANNI, Relatore, interrompendo, fa notare che egli lo pone in linea transattiva, per andare incontro ad una esigenza politica.

BOZZI osserva che, sia pure in linea transattiva, l’onorevole Leone, mentre si dichiara d’accordo nel principio dell’unità del potere giudiziario, propone poi la creazione di giudici specializzati. Egli, invece, ritiene di essere più conseguente, ritenendo che nella Costituzione molti principî dovranno affermarsi, che costituiscano norme direttive, come ha insegnato lo stesso onorevole Calamandrei, in uno dei suoi interventi nella Commissione plenaria, quando parlò delle norme direttive della Costituzione che vincolano il legislatore. Uno di questi è il principio dell’unità della giurisdizione; un principio direttivo, che vale per il passato agli effetti di una utile revisione di sfrondamento e per l’avvenire allo scopo di infrenare il legislatore.

Si dichiara quindi d’accordo con l’onorevole Leone. Quando si consideri la necessità di giudici particolari, comunque concepiti, l’interessante è la sostanza: stabilire cioè le modalità della nomina dei giudici e le loro funzioni.

Se si entra in quest’ordine di idee, non dovrebbe esservi ragione di dissenso tra le varie tesi. L’onorevole Calamandrei vuole trasformare le giurisdizioni speciali in sezioni speciali. Si è d’accordo con questo principio; l’importante è vedere come si garantisce la libera nomina dei magistrati addetti a queste sezioni speciali e come si stabilisce il funzionamento di esse. Riuscendo a questo scopo, l’indipendenza della Magistratura viene garantita e il problema non dà motivo a dissensi.

PRESIDENTE osserva che nella formula proposta dall’onorevole Bozzi: «l’esercizio del potere giudiziario è informato al principio dell’unità della giurisdizione», sarebbe conveniente sostituire le parole: «informato al principio», con le altre: «è fondato sul principio». Si avrebbe così un’idea anche più netta, ma nel progetto Calamandrei v’è una precisa disposizione che stabilisce la possibilità delle magistrature specializzate.

MANNIRONI propone la seguente formulazione redatta seguendo il concetto dell’onorevole Calamandrei: «L’esercizio del potere giudiziario appartiene ai giudici ordinari. Si potranno creare per legge sezioni specializzate, anche con la partecipazione di giudici esperti».

PRESIDENTE rileva che questo è già detto nel terzo comma della formulazione Calamandrei: «Presso gli organi giudiziari ordinari potranno essere istituite per determinate materie apposite sezioni, con la partecipazione di magistrati specializzati in quelle materie, ovvero di cittadini esperti nominati a norma dell’articolo 20».

CALAMANDREI, Relatore, chiarisce che l’articolo 20 si riferisce alla nomina di magistrati.

PRESIDENTE dà lettura del quarto comma suggerito dall’onorevole Calamandrei per chi non accetti la sua proposta di abolizione anche delle giurisdizioni speciali esistenti: «La giustizia amministrativa, le Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti e il Contenzioso tributario sono regolati da apposite leggi».

La questione si riduce a stabilire se possano in avvenire coesistere giurisdizioni speciali con la giurisdizione ordinaria. La discussione va imperniata su questo punto.

UBERTI osserva che l’affermazione dell’ultimo comma proposto dall’onorevole Calamandrei impegna meno l’unità, perché dice che la giustizia amministrativa, il Contenzioso tributario e le Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti saranno regolate da leggi a parte, ma non dice che debbano essere uniformate al principio dell’unità; affermazione che risulta precisa nel testo proposto dall’onorevole Bozzi.

 

BULLONI chiede se, dal momento che il principio dell’unicità della giurisdizione ha subito nel progetto Calamandrei delle eccezioni, non sia possibile inserire un’altra eccezione anche per la Corte d’assise popolare.

TARGETTI propone la seguente formulazione: «L’esercizio del potere giudiziario deve ispirarsi al concetto dell’unicità della giurisdizione. In materia civile e penale è affidato ai giudici previsti dalla legge sull’ordinamento giudiziario ed ai giudici popolari che lo Stato potrà istituire.

«La legge disciplinerà la giustizia amministrativa e le giurisdizioni speciali che si riterranno necessarie per determinate materie, fatta, in qualsiasi caso, eccezione per la materia penale. I Tribunali militari potranno essere istituiti soltanto in tempo di guerra».

Fa rilevare che lo spirito delle norme suggerite dall’onorevole Calamandrei è diverso e quasi opposto a quello della formula che ha presentato, e dichiara di ritirare l’emendamento.

PRESIDENTE, considerando che durante l’ampia discussione svoltasi tutti hanno avuto occasione di esporre il proprio pensiero, ritiene opportuno di invitare gli onorevoli Calamandrei, Leone, Bozzi, Laconi e Targetti a riunirsi per concretare un articolo da presentare nella prossima riunione, formulato in modo che possa raccogliere la maggioranza dei voti.

La seduta termina alle 11.45.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cannizzo, Cappi, Conti, Di Giovanni, Farini, Laconi, Leone Giovanni, Mannironi, Porzio, Ravagnan, Targetti, Uberti.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 18 DICEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

73.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 18 DICEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Autonomie locali (Seguito della discussione).

Presidente – Lussu – Ravagnan – Ambrosini, Relatore – Fuschini – Cannizzo – Codacci Pisanelli – Fabbri – Mortati – Nobile – Mannironi – Conti – Laconi – Einaudi – Cappi – Bulloni – Uberti – Lami Starnuti – Rossi Paolo.

La seduta comincia alle 16.

Seguito della discussione sulle autonomie locali.

PRESIDENTE dà comunicazione di una domanda per la costituzione della Regione Marsicana. Dato il limitato complesso dei Comuni di tale Regione, e la scarsa documentazione da cui la richiesta è accompagnata, propone che non sia presa in considerazione.

Mette ai voli la sua proposta.

(È approvata).

LUSSU propone che, d’ora in poi, tutte le domande consimili che perverranno siano accantonate, per essere poi presentate direttamente all’esame dell’Assemblea costituente.

PRESIDENTE osserva che una decisione in tal senso potrebbe essere impugnala, perché nessun termine è mai stato posto alla presentazione delle domande: non ritiene inoltre possibile che la Commissione rimandi all’Assemblea costituente materiale non elaborato.

Riassumendo il lavoro delle ultime riunioni, dà lettura del testo definitivo dell’articolo 22:

«Le Regioni sono: Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli, Liguria, Emilia-Appenninica, Emilia e Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzi, Molise, Campania, Puglia, Salento, Lucania, Calabria, Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta».

RAVAGNAN rileva che in questo articolo è stata compresa la Regione Trentino-Alto Adige, mentre lo Statuto speciale concesso a norma dell’articolo 2 riguarda soltanto l’Alto Adige. Si riserva di risollevare la questione quando si discuterà di questo Statuto speciale.

AMBROSINI, Relatore, a titolo di informazione, dà notizia che due avvocati di Bolzano, a nome del Volkspartei, gli hanno dichiarato la loro opposizione al progetto di Statuto per l’Alto Adige, elaboralo dall’ex Prefetto di Bolzano, Innocenti: e che egli si è limitato ad accettare il promemoria che gli veniva presentato – e che rimetterà al Presidente – senza esprimere alcuna opinione al riguardo.

PRESIDENTE pone in discussione l’articolo 23:

«È consentito alle popolazioni interessate, mediante deliberazione della maggioranza dei rispettivi Consigli comunali, di chiedere il distacco da una Regione e l’aggregazione ad un’altra.

«È consentita, inoltre, la richiesta dell’erezione di una nuova Regione, quando provenga dai Consigli comunali rappresentanti una popolazione di almeno 500.000 abitanti.

«Le modificazioni di cui ai primi due comma sono disposte con legge dello Stato, previo parere delle Assemblee regionali interessate».

FUSCHINI crede sia opportuno precisare che la richiesta di distacco da una Regione può essere presentata soltanto da uno o più Comuni che siano al confine, contigui cioè alla Regione alla quale chiedono di essere aggregati. Ritiene poi che tali richieste, come quelle di creazione di nuove Regioni, debbano avere una limitazione nel tempo, e propone che, dopo un periodo di due o tre anni dalla promulgazione della Costituzione, non siano più ammessi mutamenti, anche per dare alle Regioni la necessaria stabilità.

AMBROSINI, Relatore, ritiene implicita la condizione della contiguità, perché altrimenti si tratterebbe non di distacco, ma di creazione di una nuova Regione. Si dichiara poi contrario alla proposta di limitare a due o tre anni la possibilità di mutamenti delle circoscrizioni regionali, perché ritiene che una remora a domande inopportune sia data già dal fatto che per l’accoglimento di tali richieste occorre una legge dello Stato, previo parere delle Assemblee regionali interessate.

CANNIZZO crede opportuno facilitare l’unificazione delle Regioni e chiede sia introdotta una norma che contempli la possibilità della loro fusione.

PRESIDENTE fa presente che risponde a questa esigenza un emendamento aggiuntivo dell’onorevole Conti al primo comma dell’articolo: «o chiedere l’unione di una Regione ad un’altra».

CODACCI PISANELLI ritiene che la possibilità di fusione sia già implicita nel concetto che è consentito «di chiedere il distacco da una Regione e l’aggregazione ad un’altra».

FABBRI al primo comma, invece delle parole «di chiedere», direbbe «di proporre», per accentuare meglio il concetto che la richiesta non pone un obbligo. All’ultimo comma sostituirebbe il seguente: «Le modificazioni alla circoscrizione di ogni singola Regione sono disposte con legge dello Stato, previo parere delle Assemblee regionali interessate», per affermare la possibilità di modificazioni anche all’infuori dei casi previsti dai primi due comma.

MORTATI rileva una certa disarmonia fra l’articolo 18 e l’articolo 23. Nel primo, infatti, per i Comuni, si stabilisce che soltanto la volontà delle popolazioni interessate potrà determinare la modificazione della circoscrizione comunale; nel secondo, invece, si ritiene sufficiente la deliberazione della maggioranza dei Consigli comunali.

Per quanto riguarda l’ultimo comma, domanda se la legge dello Stato a cui si fa riferimento sia una legge semplice o costituzionale. A suo avviso, poiché si è ritenuto inserire nella Costituzione l’elenco delle circoscrizioni territoriali delle Regioni, le quali possono influire sulla composizione di certi organi dello Stato, il mutamento di tali circoscrizioni dovrebbe essere stabilito con una legge costituzionale.

AMBROSINI, Relatore, circa la disarmonia rilevata dall’onorevole Mortati, fa presente che per quanto riguarda i Comuni, trattandosi di piccole circoscrizioni, vi è un interesse più immediato che tocca i singoli componenti, mentre per la Regione è l’ente nel suo complesso che viene direttamente ad essere preso in considerazione. Ad ogni modo, non avrebbe difficoltà ad attuare anche per le Regioni lo stesso sistema che per i Comuni.

Per quanto riguarda la richiesta di chiarimento dell’ultimo comma, fa presente che, se venisse accettata la proposta dell’onorevole Fabbri, che vuol sopprimere il riferimento ai primi due comma, e che prescinde quindi dalla richiesta delle popolazioni interessate, si renderebbe necessario parlare di legge costituzionale, perché uno dei principî fondamentali della Costituzione è quello di ritenere elemento essenziale la volontà delle popolazioni, la quale può essere sorpassata o ignorata soltanto dal legislatore in funzione di Costituente. Invece, nel caso ordinario, quando cioè la richiesta provenga dalle popolazioni interessate, crede che non sarebbe necessaria la cautela di una legge costituzionale richiesta dall’onorevole Mortati, in quanto che già si avrebbe una sufficiente garanzia nel fatto stesso che il procedimento comincerebbe a svolgersi in base alla richiesta delle popolazioni interessate.

NOBILE ritiene che i primi due comma siano superflui, perché nessuno può impedire alle popolazioni di esprimere un loro desiderio. Invece, a suo parere, le cose cambiano, se si tratta di un obbligo. Propone perciò che si sopprimano i primi due comma e che l’ultimo sia così formulato:

«Qualsiasi modificazione della distribuzione territoriale nazionale in Regioni deve essere oggetto di una legge dell’Assemblea Nazionale».

MANNIRONI desidera un chiarimento sul primo comma dell’articolo 23: cioè, se i Consigli comunali nel loro insieme debbano rappresentare almeno 500 mila abitanti, ovvero si richieda che per l’erezione a Regione sia necessaria una popolazione di almeno 500 mila abitanti.

AMBROSINI, Relatore, ritiene che sia la stessa cosa. L’importante è che si tratti di Comuni le cui popolazioni sommate insieme arrivino ad un minimo di 500.000 abitanti, e ciò per evitare un frazionamento eccessivo delle circoscrizioni comunali. Il Comitato stabilì questo minimo di abitanti seguendo il criterio di far corrispondere alle circoscrizioni una certa ampiezza territoriale ed un certo numero di abitanti, che giustificassero l’erezione in Regione autonoma.

MANNIRONI domanda se sia possibile che siano inclusi nella Regione Comuni che non abbiano aderito alla richiesta.

PRESIDENTE pensa che la questione dovrebbe essere ben chiarita. Con l’unione di una Regione ad un’altra potrebbe verificarsi il caso prospettato; ma non ritiene che possa essere considerata sufficiente l’opinione di quel solo Comune per impedire la fusione.

Illustra la proposta di emendamento presentata dall’onorevole Nobile e le modificazioni che ad essa egli propone di apportare per venire incontro alle obiezioni fatte; per cui l’emendamento resterebbe così formulato:

«Qualsiasi modificazione della distribuzione del territorio Nazionale in Regioni, che venga richiesta a maggioranza dalle popolazioni interessate, deve essere esaminata e deliberata da una legge costituzionale».

Chiarisce la portata della proposta dell’onorevole Fabbri, che tende a far prendere in considerazione ed in esame dal Parlamento anche le proposte di modificazione non contemplate nei primi due comma dell’articolo.

CONTI dichiara di ritirare il suo emendamento e di associarsi a quello dell’onorevole Fabbri.

PRESIDENTE comunica che gli onorevoli Cannizzo e Mannironi hanno presentato un emendamento del seguente tenore:

«È consentita la formazione di una nuova Regione, quando venga proposta dai Consigli comunali che rappresentino almeno 500.000 abitanti e costituiscano la maggioranza della popolazione della costituenda Regione».

Ricorda infine che l’onorevole Mortati ha proposto un quesito sul carattere della legge ordinaria o costituzionale che modifichi le circoscrizioni regionali.

MORTATI dichiara trattarsi di una questione molto grave. Si domanda se, all’infuori del parere delle popolazioni interessate, lo Stato possa di sua iniziativa proporre una modifica delle circoscrizioni regionali, che ritenga utile agli interessi generali; e crede che lo Stato potrebbe anche prescindere dalla volontà popolare. In tale concetto ha formulato il seguente emendamento:

«I mutamenti delle circoscrizioni regionali sono disposti con legge costituzionale. L’iniziativa del mutamento può provenire dalle popolazioni interessate.

«Per l’aggregazione di una parte di una Regione ad un’altra Regione finitima, è necessaria la proposta della maggioranza dei Consigli comunali compresi nella parte stessa. La proposta è sottoposta a referendum della popolazione della zona da aggregare e al parere delle Assemblee delle Regioni interessate.

«Per la erezione di una nuova Regione, occorre la richiesta della maggioranza dei Consigli comunali rappresentanti almeno un milione di abitanti, sottoposta a referendum della popolazione della costituenda Regione ed al parere delle Assemblee interessate».

Fa notare che in tal modo egli richiede il referendum delle popolazioni ed il parere delle Assemblee delle due Regioni interessate. Dissente perciò anche dall’opinione espressa dal Relatore.

NOBILE esprime l’opinione che si debba consentire anche allo Stato la facoltà di procedere a mutamenti delle circoscrizioni regionali.

PRESIDENTE fa notare che l’onorevole Mortati propone una questione non ancora esaminata: se le modifiche delle circoscrizioni regionali possano esser fatte dallo Stato, indipendentemente dall’iniziativa delle popolazioni. Personalmente ritiene che lo Stato non possa, di sua iniziativa, modificare tali circoscrizioni, perché ciò significherebbe la fine dell’autonomia regionale. Ricorda il triste spettacolo che ha dato in tale materia la iniziativa del Governo e rileva il fatto che nel rimaneggiamento delle Regioni si toccano interessi di varia natura; ritiene perciò che la iniziativa per lo smembramento delle Regioni debba esser presa soltanto dalle popolazioni interessate, salvo poi agli organi indicati dalla Costituzione per le revisioni costituzionali di accettare o meno la richiesta presentata.

MORTATI rileva che, ove si seguisse quanto ha detto il Presidente, si avrebbe come conseguenza l’introduzione di una procedura di revisione costituzionale per quanto riguarda la modifica delle circoscrizioni regionali, aggravata rispetto alla procedura seguita per il mutamento delle altre parti della Costituzione. Ritiene che la questione si debba esaminare anche da questo punto di vista.

AMBROSINI, Relatore, tiene anzitutto a precisare che, quando non vi sia la richiesta delle popolazioni interessate, sarà sempre indispensabile una legge costituzionale, quale garanzia delle Regioni contro il loro disgregamento. Ricorda che il Comitato ha voluto prevedere semplicemente il caso in cui la procedura sia posta in moto su richiesta delle popolazioni interessate, e che il terzo comma dell’articolo 23, completando il concetto dei primi due comma, dovrebbe, a suo parere, precisare la obbligatorietà per lo Stato di prendere in considerazione ed esaminare le richieste di mutamenti alle circoscrizioni regionali, riservando naturalmente il giudizio definitivo all’Assemblea Nazionale. Pur professando tutto l’omaggio possibile alla volontà delle popolazioni, vorrebbe che vi fosse un limite per tali richieste. Nessun limite invece ritiene si possa porre al legislatore in funzione di Costituente, salvo che nella Costituzione si ipotizzino i due tipi: di una Costituzione e di una super-Costituzione; ciò che gli sembra complicherebbe le cose mentre è necessario semplificarle.

LACONI si dichiara contrario alla illazione, che l’onorevole Mortati ha tratto dalla impostazione del problema fatta dal Presidente, illazione che condurrebbe, fuori dell’ordinamento autonomistico, ad un ordinamento federalistico. Ma poiché illazioni di tal genere si potrebbero ancora fare, egli rimane perplesso nell’accettare il concetto espresso dal Presidente, poiché anche in questa limitatissima materia la Regione verrebbe ad avere il diritto esclusivo di mettere in moto il potere di revisione costituzionale.

PRESIDENTE osserva che il quesito da risolvere è il seguente: se le modificazioni delle circoscrizioni regionali, così come vengono stabilite dal testo costituzionale, possano avvenire solo per iniziativa delle popolazioni.

LUSSU propone che, per semplificare, si proceda alla votazione dei singoli principî affiorati dalla discussione o contenuti in proposte concrete.

PRESIDENTE ritiene che si possa aderire a tale richiesta, seguendo il procedimento già altre volte seguito. Porrà, quindi, in votazione i vari principî, ricavandoli sia dal testo dell’articolo, sia dalle proposte presentate: in base ai criteri che risulteranno approvati, si procederà poi alla formulazione definitiva dell’articolo 23.

Pone, innanzi tutto, in votazione il principio generico che sia possibile apportare modificazioni alla composizione delle Regioni, salvo a stabilire in seguito il procedimento da seguirsi.

(È approvato).

Mette ai voti il principio che il passaggio da una Regione ad un’altra possa interessare anche un solo Comune, purché finitimo all’altra Regione.

(È approvato).

Si pone ora il quesito se l’iniziativa per questa modificazione spetti soltanto alle popolazioni interessate od anche al potere Costituente. Pone ai voti il principio che tale iniziativa sia riservata soltanto alle popolazioni interessate.

(Con 13 favorevoli e 11 contrari è approvato).

AMBROSINI, Relatore, fa presente la opportunità di una maggior coerenza nelle decisioni. Ritiene infatti che questa deliberazione si sarebbe potuta prendere dopo che la Sottocommissione si fosse pronunciata sulla esistenza o meno di due tipi di revisione costituzionale.

PRESIDENTE osserva, anzitutto, che la Sottocommissione non ha deciso ora in senso contrario ad una decisione già presa. In secondo luogo, non vede alcun inconveniente che là dove si stabilirà il meccanismo per la revisione costituzionale, si dica: «Nel caso previsto dall’articolo …, affinché essa sia messa in movimento, occorre la richiesta delle popolazioni interessate.

Proseguendo nella formulazione di quesiti, ricorda che l’onorevole Mortati ha proposto di fissare nella cifra di un milione il numero di abitanti che i Consigli comunali devono rappresentare, affinché sia loro consentita la richiesta di erezione di nuove Regioni.

MORTATI, a parte il fatto che sarebbe forse opportuno distinguere le due ipotesi – aggregazione di una Regione ad un’altra e formazione di nuove Regioni – è del parere che, per un migliore andamento dei lavori, la Sottocommissione debba prima pronunciarsi sul procedimento, che potrebbe essere diverso da quello considerato nel progetto e così, per esempio, prevedere l’iniziativa da parte di un gruppo di popolazione e la successiva pronuncia da parte di tutte gli interessati.

PRESIDENTE, poiché l’onorevole Morati ha accennato all’eventualità del referendum, prospetta il problema se l’iniziativa delle modificazioni debba porre in movimento il meccanismo del referendum, o debba immediatamente sboccare in un procedimento costituzionale o legislativo che debba accettare o respingere la richiesta.

Pone ai voti il principio che l’iniziativa popolare debba mettere in moto il meccanismo di referendum.

(È approvato).

MORTATI, sull’argomento del numero, fa presente di aver proposto la cifra di un milione perché, secondo il suo concetto, si dovrebbe tendere a che le circoscrizioni regionali si allarghino, anziché restringersi, onde egli ritiene necessario un numero piuttosto elevato per promuovere l’iniziativa.

LUSSU dichiara di votare contro qualsiasi specificazione di numero di abitanti, perché ritiene che ciò possa ostacolare la soluzione di situazioni nuove che nel futuro potrebbero verificarsi; di casi analoghi, cioè, a quelli della Val d’Aosta e dell’Alto Adige.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta dell’onorevole Mortati, che debba stabilirsi in un milione la cifra degli abitanti che i Consigli comunali devono rappresentare per poter prendere un’iniziativa la quale, a sua volta, metterà in movimento il procedimento di referendum.

(Con 12 favorevoli e 18 contrari non è approvata).

Mette in votazione la cifra, proposta dal Comitato, di 500.000 abitanti.

(È approvata).

Prospetta ora il quesito se il risultato del referendum abbia valore consultivo o decisivo.

FABBRI ritiene che debba avere valore consultivo.

AMBROSINI, Relatore, è del parere che si debba parlare di valore di iniziativa e non di valore consultivo.

EINAUDI, premessa l’opportunità di distinguere la richiesta di creazione di una nuova Regione fatta in pubblico mediante raccolta di firme, dal referendum fatto con voto segreto, osserva che il voto segreto deve avere la maggiore importanza.

MORTATI, poiché nel progetto si parla di Consigli comunali che rappresentano una popolazione di 500.000 abitanti, mentre può darsi che la popolazione della Regione sia molto maggiore, fa presente che la maggioranza dei Consigli comunali potrebbe non rappresentare la maggioranza della popolazione interessata. A suo parere quando si ha la maggioranza dei Consigli comunali, si ha come effetto automatico il referendum della popolazione interessata al mutamento.

PRESIDENTE prospetta l’opportunità di precisare l’ammontare dei richiedenti, i quali metteranno poi in modo il meccanismo del referendum, in relazione alla cifra di 500.000 persone che si è stabilita.

FABBRI stabilirebbe l’ammontare dei richiedenti in un ventesimo. Dichiara però di essere favorevole alla soppressione della disposizione, perché ritiene che la determinazione della quota degli interessati, che metteranno in moto il meccanismo del referendum, dovrebbe essere fissata negli articoli concernenti il referendum, che la Sottocommissione si è riservata di compilare.

AMBROSINI, Relatore, fa presente che il Comitato ha concepito la disposizione nel modo come l’interpreta l’onorevole Mortati, cioè come cifra complessiva degli abitanti dei Comuni interessati, in modo da evitare di costituire una nuova Regione che abbia meno di 500.000 abitanti.

PRESIDENTE osserva che ora si tratta appunto di precisare se la richiesta debba provenire dal maggior numero dei Consigli comunali della zona interessata. Dichiara di ritenere pericolosa tale disposizione, perché, se in una zona esiste una grande città o numerose città medie, le quali, pur avendo una popolazione complessiva maggiore di quella dei Comuni più piccoli, i quali chiedono questo procedimento, tuttavia sono in numero minore di tali Comuni più piccoli, la minoranza della popolazione avrebbe il sopravvento sulla maggioranza.

AMBROSINI, Relatore, riconosce che questo inconveniente esiste, ma crede che sarebbe superato dalla manifestazione di volontà di tutta la popolazione, che in sede di referendum potrebbe far valere la forza del numero.

MANNIRONI riconosce giusta e fondata l’osservazione, e pensa che la proposta si potrebbe modificare nel senso che la richiesta debba essere fatta dai Consigli comunali, i quali rappresentino la maggioranza della popolazione della Regione. Propone, perciò, che la procedura del referendum debba essere richiesta dai Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate.

PRESIDENTE pone ai voti questa proposta dell’onorevole Mannironi.

(È approvata).

Pone ai voti il principio che debba essere una legge costituzionale a decidere la formazione di una nuova Regione.

(È approvata).

MORTATI, tornando ad una questione precedentemente esaminata, domanda se, oltre al referendum, la proposta di creazione di una nuova Regione debba essere sottoposta al parere delle Assemblee regionali interessate.

PRESIDENTE fa presente che il referendum si riferisce alle popolazioni interessate ad unirsi in Regioni nuove, mentre le Assemblee regionali delle Regioni interessate rappresentano anche le popolazioni le quali non entrerebbero nella nuova formazione, ma che potrebbero sentirsi danneggiate da questa separazione di una parte della Regione.

MORTATI fa notare che questo procedimento è stato seguito anche per il caso che una frazione voglia costituirsi in Comune autonomo.

PRESIDENTE pone ai voti il principio che le Assemblee regionali delle Regioni interessate alla costituzione del nuovo ente regionale debbano essere interpellate.

AMBROSINI, Relatore, conformemente al sistema proposto dal Comitato, dichiara di votare in senso favorevole.

(È approvato).

PRESIDENTE, riallacciandosi a quanto è stato approvato circa la creazione di nuove Regioni per distacco da Regioni già esistenti, pone ai voti il principio secondo la richiesta fatta dall’onorevole Cannizzo e formulata anche in uno degli emendamenti presentati, che debba prendersi in considerazione anche la richiesta di Regioni esistenti di aggregarsi ad altre Regioni, cioè il processo di fusione.

(È approvato).

CAPPI ritiene che in questo caso sia necessario domandare il parere anche alla Regione a cui l’altra si aggregherebbe.

PRESIDENTE ritiene che ciò sia implicito.

AMBROSINI, Relatore, crede opportuna una votazione, perché con tale norma si favorisce la fusione di Regioni e, quindi, si vengono a diminuire gli ostacoli che si frappongono a questa manifestazione di volontà.

CANNIZZO dichiara di aver fatto la proposta appunto per favorire le fusioni.

CAPPI fa presente che il referendum deve esser conteggiato separatamente, cioè Regione per Regione; ogni Regione deve stabilire la sua maggioranza, perché potrebbe darsi che l’unanimità in senso favorevole di una Regione potesse imporre ad un’altra, che fosse stata unanimemente contraria, la fusione.

PRESIDENTE propone due distinti principî.

Pone ai voti il primo: che tutte le Regioni interessate debbano procedere al referendum.

(È approvato).

Mette in votazione il secondo: che, votando ogni Regione separatamente, in ogni Regione debba aver valore il risultato del proprio referendum.

(È approvato).

MORTATI fa presente che, mentre il Comitato parlava genericamente della richiesta di distacco di una Regione da un’altra, la Sottocommissione si è pronunciata sul caso limite di un solo Comune; aggiunge che tale caso potrebbe verificarsi anche per più Comuni.

PRESIDENTE ritiene che ciò che è stato votato per un Comune debba intendersi valevole anche per più Comuni, che non è necessario siano tutti finitimi all’altra Regione, purché siano contigui fra loro.

MORTATI pone il quesito se, in questo caso, la procedura sia la stessa usata per la formazione di una nuova Regione, o se si debba seguire invece una procedura diversa.

PRESIDENTE pone in votazione il principio che, per l’aggregazione di più Comuni ad una Regione, debba seguirsi la medesima procedura fissata per la creazione di nuovo Regioni.

(È approvato).

Fa presente che è anche essenziale affermare che quando il referendum ha dato esito positivo, l’Assemblea Nazionale è obbligata a prendere in considerazione il problema.

MORTATI pensa che ciò sia ovvio.

PRESIDENTE prospetta poi il quesito se la decisione debba essere presa con legge di carattere costituzionale anche quando si tratti del passaggio da una Regione ad un’altra di un solo Comune o di un gruppo di Comuni.

MORTATI fa osservare che, evidentemente, la soluzione di questo quesito dipende dal modo come sarà determinata la configurazione regionale. Crede che sarà necessaria una legge per indicare da quali Comuni è costituita la Regione, e questa legge, successiva alla formazione delle Regioni, potrebbe non essere costituzionale.

PRESIDENTE osserva che è noto a tutti da quali Provincie sono formate le Regioni storiche, mentre per le nuove Regioni sono state indicate le Provincie che le compongono: nell’uno e nell’altro caso è, quindi, definita esattamente l’appartenenza di un Comune all’una o all’altra Regione.

MORTATI osserva che se, tenendo presente – come ha accennato il Presidente – la delimitazione provinciale stabilita dalla vecchia legge, si fissa nella Costituzione la circoscrizione territoriale di queste Regioni, può avvenire, come conseguenza di logica giuridica, che anche lo spostamento di un Comune porti un mutamento nella Costituzione. Se invece si stabilisce che è la legge comune che determina in concreto la delimitazione delle Regioni, ogni spostamento potrebbe effettuarsi con legge ordinaria.

PRESIDENTE riconosce l’opportunità di aggiungere all’articolo 22 un comma, nel quale si stabilisca che la delimitazione delle circoscrizioni regionali ed anche la determinazione del capoluogo della Regione è definita con legge ordinaria.

Pone ai voti il principio che una legge ordinaria debba stabilire i confini delle circoscrizioni regionali, considerate nell’articolo 22, e i capoluoghi delle singole Regioni.

(È approvato).

Riprende in considerazione il quesito già proposto, se la creazione di nuove Regioni o la fusione di Regioni già esistenti debba farsi con una legge costituzionale, mentre, per il passaggio di singoli Comuni, o di gruppi di Comuni da una Regione all’altra, sia sufficiente la legge ordinaria.

FUSCHINI rileva che, con un passaggio di gruppi di Comuni, si modifica sostanzialmente la Regione.

PRESIDENTE concorda: in tale caso bisognerà stabilire che non si può prendere un’unica decisione per gruppi di Comuni nel loro complesso, e che i passaggi di tali gruppi devono essere autorizzati con leggi singole per ogni singolo Comune.

MORTATI osserva che in questo modo si elude la questione. Non se ne nasconde la gravità, che si ripercuote sull’organizzazione costituzionale dello Stato, perché la composizione del Senato (per quanto riguarda, per esempio, il minimo fisso di Senatori ammesso) potrebbe esserne notevolmente modificata.

Pensa che si potrebbe proporre che l’aggregazione di parti di Regione ad un’altra possa avvenire con legge ordinaria, quando non superi un determinato numero di abitanti.

PRESIDENTE replica che anche questo è un mezzo per eludere la questione, perché tale passaggio potrà effettuarsi in due o tre tempi.

BULLONI propone che ogni modificazione della Regione debba avvenire con legge costituzionale, anche nel caso di passaggio di un singolo Comune.

PRESIDENTE mette ai voti il principio che la creazione di nuove Regioni o la fusione di Regioni preesistenti debba avvenire per legge costituzionale.

(È approvato).

Pone ai voti l’altro principio, cioè che una legge costituzionale occorra anche per il passaggio di Comuni singoli o di gruppi di Comuni da una Regione all’altra.

(Con 11 favorevoli, 10 contrari e 2 astensioni, è approvato).

Dichiara che in tal modo è esaurito l’esame dell’articolo 23 del progetto, e prega il Relatore onorevole Ambrosini di redigerne la formulazione definitiva.

Apre la discussione sull’articolo 24:

«Il passaggio delle funzioni statali attribuite alle Regioni avverrà mediante decreti del Presidente della Repubblica per ogni ramo della pubblica amministrazione».

MORTATI osserva che questo articolo riflette uno dei problemi più complessi, e ricorda che nelle precedenti discussioni si è rinviato alla sede delle disposizioni finali e transitorie l’esame di molti punti attinenti a tale materia. Trattandosi di cosa molto importante, non gli sembra opportuno affidare questo passaggio di funzioni a semplici decreti del Presidente della Repubblica. Propone, pertanto, che il passaggio delle funzioni statali attribuite alle Regioni avvenga mediante legge.

LUSSU trova eccessiva la preoccupazione dell’onorevole Mortati, e ritiene troppo complicato il sistema dell’emanazione di una legge.

AMBROSINI, Relatore, riterrebbe sufficienti i decreti del Presidente della Repubblica, per quanto non si dissimuli che, data la delicatezza della materia, è forse giustificata la proposta dell’onorevole Mortati.

MORTATI osserva all’onorevole Lussu che è prevedibile e comprensibile la resistenza che l’amministrazione farà ad una così notevole distinzione della sua influenza e del complesso dei suoi poteri; e gli domanda se, a vincere questa resistenza e ad operare effettivamente quel decentramento amministrativo che è nei suoi voti, creda più efficace l’opera del potere esecutivo o quella del potere legislativo.

CONTI crede che sia necessario procedere a questo passaggio delle funzioni dallo Stato alle Regioni per mezzo di decreti del Presidente della Repubblica, proprio per le ragioni addotte dall’onorevole Mortati, poiché la burocrazia e la stessa organizzazione parlamentare costituiranno altrettanti ostacoli a questo passaggio che dove avvenire rapidamente. Se si richiedesse una legge per ogni passaggio di funzioni, si dovrebbe mettere in moto un meccanismo eccessivamente lento e complesso.

NOBILE è d’accordo con l’onorevole Mortati: ritiene troppo importante e complesso questo problema per affidarlo ad un decreto del Capo dello Stato.

FUSCHINI osserva che i decreti de Presidente indubbiamente sono decreti del potere esecutivo, il quale non può ispirare piena fiducia, perché evidentemente la sua opera sarà influenzata dalla burocrazia, che col decentramento viene in certo senso colpita nella sua organizzazione attuale. Quindi pensa che al potere esecutivo verrebbe affidata una responsabilità talmente grave da far ritenere più opportuna una legge.

CODACCI PISANELLI, esaminando la questione da un punto di vista puramente teorico, trova evidente, dato che si tratta di mandare ad effetto una legge di carattere costituzionale, che spetti al Capo del potere esecutivo di eseguirla.

UBERTI comprende la preoccupazione dell’onorevole Mortati di fronte all’importanza delle disposizioni transitorie, in quanto sono state approvate norme di carattere costituzionale, lasciando la loro esecuzione molto indeterminata. A suo avviso, occorre distinguere due ipotesi: quella di poteri propri della Regione (ed in questo caso evidentemente la stessa Regione ha il diritto di reclamarne il passaggio) e quella di poteri dello Stato, che esso delega di volta in volta. È perplesso nei riguardi di quest’ultima ipotesi, perché, se si ricorre alla legge, bisogna mettere in moto un organismo assai complesso; se invece ci si affida completamente al potere esecutivo, vi potrà essere una influenza, in senso di remora, da parte dell’amministrazione centrale. Pertanto ritiene che bisognerebbe arrivare ad una specificazione maggiore, nel senso di lasciare al potere esecutivo il passaggio di funzioni nel caso di poteri propri delle Regioni, e di affidare invece al potere legislativo il passaggio alle Regioni di funzioni in seguito a delega, se si tratti di poteri propri dello Stato.

PRESIDENTE osserva che si è in tema di norme transitorie; si tratta, quindi, delle funzioni statali attribuite alle Regioni con questo progetto agli articoli 4, 4-bis, 4-ter, ecc., e non di quelle eventualmente delegate, le quali potranno essere delegale anche tra cinquanta anni, quando non potrà più procedersi per esse sulla base di una norma transitoria.

FABBRI osserva che v’è tutta la legislazione concorrente, la quale presuppone delle modificazioni nelle leggi dello Stato, perché queste, oggi complete, domani potranno servire solo come principî direttivi. Nota che nella formula «funzioni statali», sono comprese funzioni del potere legislativo, del potere esecutivo, ecc.: non gli sembra quindi possibile che tutta la materia attribuita alla legislazione concorrente delle Regioni, e anche quella attribuita alla loro legislazione esclusiva, passi alle Regioni stesse con un semplice atto di potere esecutivo, anche se la burocrazia vi mettesse tutta la buona volontà.

MANNIRONI è d’opinione che il passaggio delle funzioni statali alle Regioni debba essere disposto per legge.

MORTATI osserva che questi problemi di diritto transitorio sono tra i più delicati e vanno risolti con una seria meditazione.

Distingue due specie di attribuzioni 1°) quelle che passano in proprio alle Regioni; 2°) quelle delegate alla Regione dallo Stato. Per le prime, che passano alla Regione in virtù della Costituzione, cioè al momento in cui quella entra in vita, si ha un impossessamento di diritto, quantunque il passaggio non si verifichi automaticamente, ed accorreranno delle disposizioni transitorie che verranno concretate in parte nella Costituzione, in parte in altre leggi successive. Ma per le attribuzioni delegate, provvede l’articolo 6 già approvato.

Ricorda una disposizione del progetto, secondo la quale il passaggio di un servizio da un’amministrazione all’altra deve avvenire per legge: ora, se questo avviene nell’ambito della stessa amministrazione statale, è assurdo che non avvenga poi per legge il passaggio di funzioni dallo Stato alle Regioni. Fa inoltre osservare che molte delle attuali attribuzioni di competenza amministrativa sono state disposte con legge, e pertanto non è possibile fare a meno di questa per il loro mutamento.

PRESIDENTE pone ai voti una proposta di emendamento all’articolo 24, secondo la quale il passaggio delle funzioni statali attribuite alle Regioni debba avvenire, anziché mediante decreto del Presidente della Repubblica, mediante legge.

(È approvata).

Pone ai voti il testo dell’articolo 24 così modificato.

(È approvato).

PERASSI a nome anche dell’onorevole Conti, propone la seguente norma transitoria:

«La legislazione dello Stato dovrà essere entro due anni riveduta per metterla in armonia con le norme costituzionali relative all’ordinamento delle Regioni e per attuare un largo decentramento».

FABBRI ritiene troppo breve il termine di due anni.

PRESIDENTE è d’opinione che due anni possano essere sufficienti per mettere la legislazione dello Stato in armonia con le norme costituzionali relative all’ordinamento della Regione, ma insufficienti per attuare un largo decentramento.

MORTATI propone di modificare l’ultima parte, nel senso di disporre che sia attuato un principio di largo decentramento che sarà determinato dalla legge e che troverà la sua attuazione all’atto stesso della costituzione dell’ente Regione.

UBERTI ritiene che, se si aspettano due anni per coordinare la legislazione statale col nuovo ordinamento, praticamente l’ente Regione non potrà funzionare prima che tale periodo sia trascorso, perché quasi tutte le materie incluse negli articoli 3 e 4 sono oggi di competenza dello Stato.

Per avere dei risultati più immediati, preferirebbe una disposizione la quale, ad esempio, stabilisse che gli organi periferici dello Stato, competenti nelle materie di cui agli articoli 3 e 4 (come il Genio civile, gli Ispettorati agrari, ecc.) debbano passare senz’altro alla Regione all’atto della sua costituzione: non vorrebbe che la Regione creasse determinati organismi e nel contempo continuassero a sopravvivere organismi governativi.

CAPPI non ritiene che nella Carta costituzionale si possa scendere a questi dettagli.

PRESIDENTE fa innanzitutto notare che la formula «entro due anni», non significa «alla scadenza di due anni»; come pure che la proposta riguarda, non tanto il trasferimento dei servizi, quanto e specialmente l’armonizzazione della legislazione statale con l’ordinamento regionale e l’attuazione di un largo decentramento. Ha poi l’impressione che si perda il senso della realtà; e ricorda come dopo l’annessione della Venezia Giulia, con tutta la buona volontà da parte dello Stato, siano occorsi degli anni affinché le organizzazioni pubbliche, anche le più modeste, così come esistevano e funzionavano sotto la legge austriaca, potessero progressivamente trasferirsi sul piano della vita del nostro Paese. Due anni per un così profondo mutamento dell’ordinamento statale non gli sembrano un termine eccessivo.

Ritiene del resto che, a cominciare dal Presidente della Repubblica, tutti coloro che si sentiranno buoni italiani faranno in maniera che questo passaggio si realizzi al più presto.

FABBRI propone di elevare il termine massimo a cinque anni, data la complessità della riforma.

CODACCI PISANELLI propone di dire soltanto «al più presto», senza precisare il numero degli anni.

PRESIDENTE riassume la discussione e mette ai voti l’emendamento proposto dall’onorevole Codacci Pisanelli, che lascia indeterminato il termine massimo.

(Non è approvato).

Pone ai voti l’emendamento dell’onorevole Fabbri che porta il termine a cinque anni.

(Non è approvato).

Mette in votazione la proposta Perassi-Conti nel suo testo originale.

(È approvata).

FUSCHINI, anche a nome degli onorevoli Bozzi, Targetti e Di Giovanni, propone il seguente articolo:

«Le Provincie, quali enti autarchici, continueranno a svolgere le funzioni attribuite loro dalla legislazione vigente sino a quando la legge non provvederà a sopprimerle in relazione al grado di consolidamento dell’ordinamento regionale».

PRESIDENTE osserva, dal punto di vista formale, che non è esatto dire «le Provincie quali enti autarchici», perché non lo sono più.

FUSCHINI crede che proprio in quanto enti autarchici, le Provincie dovranno continuare a svolgere le funzioni attribuite loro dalla legislazione vigente.

FABBRI ritiene la proposta consigliata dalla preoccupazione che le Provincie possano perdere il loro patrimonio.

PRESIDENTE pensa che la proposta debba essere messa in correlazione con l’articolo 24 già votato, il quale stabilisce il passaggio delle funzioni statali alle Regioni ed il consolidamento della Regione proprio in relazione all’assunzione delle funzioni attualmente esplicate dalla Provincia.

LUSSU esprime la sua preoccupazione nel pronunciarsi su questa proposta, perché, se si stabilisce che la Provincia continuerà a rimanere in vita fino a quando la legge non avrà provveduto a sopprimerla, teme che essa potrà rimanere in vita anche dopo che si saranno riunite le Assemblee regionali, il che non sarebbe ammissibile. Ritiene che la Provincia debba scomparire ipso-facto, ed i suoi poteri debbano passare alla Regione non appena si costituisca l’Assemblea regionale e da questa sia nominata la Deputazione regionale.

LAMI STARNUTI dichiara di non potere aderire alla proposta dell’onorevole Fuschini, perché, se si mantenessero in vita le Provincie per due o tre anni, si immobilizzerebbero nelle Provincie stesse gli impiegati delle amministrazioni provinciali, costringendo le Regioni ad assumere altri impiegati per la loro amministrazione, e determinando, dopo un certo termine, la situazione gravissima del licenziamento degli impiegati della Provincia o del loro assorbimento da parte delle Regioni, con la conseguenza o della disoccupazione o della pletora di impiegati. Per questi motivi propone che gli impiegati e salariati delle amministrazioni provinciali passino senz’altro allo dipendenze della Regione, conservando i diritti attuali.

FUSCHINI rileva che la sua proposta è consigliata da ragioni pratiche, non teoriche. Afferma che non ha alcuna intenzione di ostacolare la costituzione della Regione, ma che desidera salvaguardare pure gli interessi degli enti che si vengono a sopprimere, per evitare un caos amministrativo e burocratico. Osserva intanto che nel progetto già approvato non si è inserita alcuna norma riguardante il destino del patrimonio delle Provincie, talvolta cospicuo, e che a tale lacuna bisogna sopperire per non lasciare senza regolamento una situazione di carattere patrimoniale così imponente. Aggiunge che anche la delicata questione del personale impiegatizio e salariato va disciplinata con una legge vera e propria, e non abbandonata alla indeterminatezza di uno o due articoli della Costituzione o ad un puro e semplice decreto governativo. Ritiene che il problema non possa essere esaminato con leggerezza ed insiste nella proposta fatta, pur aderendo – per togliere qualsiasi preoccupazione – a che l’espressione: «in relazione al grado di consolidamento dell’ordinamento regionale» sia sostituita dall’altra: «in relazione al funzionamento dell’ordinamento regionale».

UBERTI non si rende conto delle preoccupazioni dei colleghi sulla sorte dei patrimoni delle Provincie, che consisteranno soprattutto in immobili, i quali non potranno essere messi in vendita o asportati: non gli risulta che vi siano amministrazioni provinciali le quali abbiano delle riserve patrimoniali liquide, tanto è vero che quasi tutte ricorrono per integrazioni al bilancio dello Stato. Ritiene che le Provincie debbano costituire la base prima e immediata per l’attuazione dell’ente Regione, che altrimenti non potrebbe crearsi; e, mentre prevede che l’Assemblea regionale dovrà, per riunirsi, occupare la sede della Deputazione provinciale nel capoluogo della Regione, afferma che proprio gli impiegati di molte Deputazioni provinciali insistono per divenire senz’altro il primo nucleo dell’amministrazione dell’ente Regione, perché sono convinti che in questo modo avranno garantito il loro avvenire. Crede, perciò, che sia decisamente impratico e impolitico il criterio di non inalveare immediatamente l’organizzazione provinciale nel nuovo ordinamento.

MORTATI è dolente di non essere d’accordo con l’onorevole Fuschini. Osserva che nel sistema approvato dalla Sottocommissione (articolo 17), la Provincia si configura come elemento integrante e come ente di decentramento della Regione: non può quindi pensare alla costituzione e al funzionamento della Regione senza la contemporanea incorporazione da parte sua della Provincia, dell’organismo cioè che alimenta le sue funzioni. Non gli sembra opportuna una disposizione come quella proposta, sia perché le Provincie non sono più enti autarchici, sia perché la Regione ha bisogno di esse come enti integrativi e di decentramento. Quanto alla tutela del patrimonio, crede che siano sufficienti le disposizioni transitorie proposte dagli onorevoli Perassi e Conti e già approvate.

CONTI ritiene che costituire la Regione e mantenere l’Amministrazione provinciale significherebbe creare due elementi che si metterebbero subito in contrasto. Ciò va evitato, stabilendo che, non appena sorge la Regione, la Provincia assume il carattere e le funzioni che le vengono riconosciute dal progetto.

ROSSI PAOLO ha l’impressione che si stia scendendo all’esame delle norme di attuazione della Carta costituzionale, e ritiene che questioni di questo genere potranno risolversi di volta in volta quando si presenteranno.

LAMI STARNUTI propone il seguente emendamento aggiuntivo:

«Il patrimonio e i servizi delle Provincie sono trasferiti alla Regione e la legge ne stabilirà i modi e i limiti. Gli impiegati e i salariati delle Provincie passano alle dipendenze della Regione conservando i diritti attuali».

FUSCHINI dichiara di ritirare la sua proposta e di associarsi a quella dell’onorevole Lami Starnuti.

PRESIDENTE pone in votazione la proposta dell’onorevole Lami Starnuti.

(È approvata).

Pone ora in discussione il comma aggiuntivo proposto dal Comitato, che è del seguente tenore:

o

«Sino a che non sia approvata la nuova legge sugli enti locali, saranno applicate le norme del Regio decreto 4 febbraio 1915, n. 148, del decreto legislativo luogotenenziale 7 gennaio 1946, n. 1, e del Regio decreto 15 ottobre 1925, n. 2578, sostituita all’Amministrazione provinciale l’Amministrazione regionale, e sostituiti il Commissario del Governo e la Deputazione regionale al Prefetto e alla Giunta provinciale amministrativa».

LAMI STARNUTI fa presente che occorre apportare a tale comma aggiuntivo almeno una modificazione formale, cioè in luogo delle parole: «sostituiti il Commissario del Governo e la Deputazione regionale al Prefetto, ecc.», dovrebbe dirsi: «sostituito l’organo di controllo al Prefetto, ecc.».

Osserva che questa norma transitoria ha gli scopi di consentire alla Regione di poter funzionare subito applicando a se stessa le norme che governano la Provincia, e di stabilire in modo definitivo la soppressione del Prefetto, come organo di controllo e di intrusione negli organismi locali. Aggiunge che tale norma non può essere assorbita nel precedente comma, perché ivi si parla del patrimonio e dei servizi, mentre qui si considerano le norme amministrative locali.

PRESIDENTE pone ai voti la disposizione transitoria aggiuntiva all’articolo 24, con la modificazione testé accennata dall’onorevole Lami Starnuti.

(È approvata).

Dichiara che è terminato l’esame del progetto di ordinamento regionale e che restano in sospeso due soli articoli: quello relativo alla Corte di giustizia amministrativa, che è stato deferito all’esame della seconda Sezione, in quanto si ricollega al problema generale dell’unificazione della Magistratura, e quello che riguarda il referendum, che è stato rimesso al Comitato, affinché consideri se debba compilarsi per esso uno speciale articolo da inserire nel progetto delle autonomie regionali o debba invece essere regolato a parte come istituto popolare dello Stato democratico.

Invita poi il Relatore onorevole Ambrosini a coordinare i vari principî oggi approvati, in un articolo che deve sostituire e completare l’articolo 23.

Comunica che successivamente si provvederà alla stampa del testo di tutti gli articoli così come sono stati votati, testo che potrebbe considerarsi quello conclusivo. Questo verrà distribuito ai singoli membri della Sottocommissione che, entro 48 ore dovranno restituirlo con le loro osservazioni, limitate al quesito se quello che è stato stampato corrisponde a quanto è stato votato. Dopo di che il testo verrà rimesso al Presidente della Commissione.

La seduta termina alle 20.45.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cannizzo, Cappi, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Di Giovanni, Einaudi, Fabbri. Farini. Finocchiaro Aprile, Fuschini, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca. Leone Giovanni, Lussu, Mannironi, Mortati. Nobile, Piccioni, Porzio, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti.

Assenti: Castiglia, Grieco, Perassi. Vanoni, Zuccarini.