Come nasce la Costituzione

VENERDÌ 13 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

14.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI VENERDÌ 13 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Organizzazione costituzionale dello Stato (Seguito della discussione)

Presidente – Zuccarini – Ambrosini – La Rocca – Piccioni – Mannironi – Lussu – Di Giovanni – Castiglia – Einaudi – Bordon – Porzio – Tosato – Nobile – Rossi Paolo – Targetti – Cappi – Patricolo – Conti, Relatore – Fabbri – Bozzi.

La seduta comincia alle 11.

Seguito della discussione sull’organizzazione costituzionale dello Stato.

PRESIDENTE dà lettura della seguente mozione presentata dagli onorevoli Mortati, Piccioni, Fuschini, Tosato, Ambrosini, Zuccarini e Cappi:

«I sottoscritti, considerato che, in conseguenza della deliberazione presa dalla seconda Sottocommissione, di dare al nuovo Stato una struttura decentrata, si rende necessario predisporre fino ad ora le ricerche necessarie ad adeguare le decisioni che saranno prese sia dalla Costituente, sia dal futuro legislatore nella materia dell’ordinamento degli enti locali, alle situazioni concrete di questi; che tali ricerche non possono essere affidate ad organi burocratici, nei quali è da presumere un interesse al mantenimento in vita dell’attuale accentramento, rilevatosi così dannoso per un sano sviluppo del Paese;

che analoghe indagini si rendono necessarie in relazione ad una probabile partecipazione delle categorie professionali alla formazione di una delle due Camere legislative, onde determinare sia la consistenza e sia la ripartizione territoriale degli appartenenti alle categorie medesime;

chiedono

che la seconda Sottocommissione deliberi intorno alle misure idonee al conseguimento dello scopo enunciato».

 

È del parere che la seconda Sottocommissione non solo non sia competente a deliberare intorno alle misure idonee al raggiungimento dello scopo che l’ordine del giorno si propone, ma nemmeno ad esaminare il problema. Circa poi la prima enunciazione dell’ordine del giorno in questione, ricorda che la Presidenza della Commissione ha già incaricato alcuni esperti del Ministero dell’interno e dell’ex Ministero della Costituente di compiere delle ricerche sopra gli aspetti finanziari ed economici del problema, allo scopo di preparare il materiale necessario. Quanto al contenuto della seconda enunciazione, gli sembra che esso esorbiti dall’ambito dell’esame della Sottocommissione, nonché da quei compiti che essa potrebbe giustificatamente arrogarsi.

ZUCCARINI si duole che non sia presente l’onorevole Mortati, che più compiutamente avrebbe potuto illustrare il problema in esame. In ogni modo dichiara che uno dei motivi che hanno spinto i firmatari della mozione a presentarla è stato quello di stabilire che per i lavori e le indagini sul problema del futuro decentramento dello Stato non siano demandati incarichi ad organi burocratici. Ricorda che nel passato tutte le riforme dell’amministrazione statale si sono arenate, soprattutto perché ne fu affidato lo studio alla burocrazia. Qualche cosa in questo campo già si è cominciato a fare: si tratta però di programmi e di inchieste che non corrispondono allo scopo ed anzi se le decisioni della Sottocommissione dovessero essere subordinate ai programmi finora formulati, occorrerebbero quattro o cinque anni di lavoro prima di poter risolvere il problema in esame. Ciò praticamente vorrebbe dire che il problema non sarebbe mai risolto. Con la mozione presentata si è voluto manifestare il desiderio che i lavori della Sottocommissione per quanto concerne le autonomie locali non siano intralciati dalle interferenze della burocrazia. Dovrà essere quindi la Sottocommissione ad indicare quali siano le ricerche da compiere e fissare il momento in cui sarà opportuno che esse vengano effettuate. Questo da parte sua è il significato dell’ordine del giorno presentato, ma non può dire se l’onorevole Mortati con esso si sia proposto scopi più ampi.

AMBROSINI dichiara che ha firmato l’ordine del giorno perché ne condivide con gli altri firmatari il contenuto, ma che aveva espresso all’onorevole Mortati il desiderio di attenuare alcune espressioni relativamente alla burocrazia.

LA ROCCA crede che tutti i membri della Sottocommissione siano d’accordo sulla necessità di alleggerire l’organismo dello Stato di pesi inutili. È necessario però fare una questione di competenza, di opportunità e di possibilità. La Commissione in sostanza è chiamata a dare direttive generali per fissare i lineamenti della nuova struttura statale e non può quindi uscire da questo ambito per entrare nei particolari che potranno invece essere meglio esaminati al momento opportuno dagli organi competenti. Tali organi potranno essere o l’Assemblea Costituente o la futura Assemblea legislativa.

PICCIONI è del parere che la questione debba essere posta nei seguenti termini: la Sottocommissione è incaricata non solo di studiare ma di definire, nella fase di sua spettanza, il nuovo ordinamento amministrativo e politico dello Stato. Come si è visto, attraverso le discussioni che finora si sono svolte, in questa materia si inserisce tutta la parte che riguarda le autonomie locali e il decentramento amministrativo dello Stato. Su questi problemi la Sottocommissione non è chiamata soltanto a fissare le direttive generali, ma in un secondo momento, che si augura il più prossimo possibile, deve anche passare alla fase normativa del nuovo ordinamento. Per arrivare alla stesura di un progetto concreto, la Sottocommissione può avere quindi bisogno anche di accertamenti su fatti particolari, che devono essere predisposti e raccolti secondo le sue indicazioni e sotto il suo controllo. Sarebbe inutile affidare alla Sottocommissione il compito di redigere un progetto di questo genere, quando il relativo materiale fosse raccolto dietro iniziativa di altri organi e secondo direttive e criteri diversi. A questa eventuale sfasatura si è voluto porre riparo per tempo con la mozione in discussione, affinché non si crei una cristallizzazione nella raccolta del materiale che direttamente o indirettamente potrà interferire nelle decisioni nel campo dell’ordinamento degli enti locali.

Poiché non è presente l’onorevole Mortati, primo firmatario della mozione, ritiene opportuno proporre di rinviare la discussione di questa alla prossima riunione, affinché l’onorevole Mortati possa illustrare tutti gli altri aspetti del problema in esame.

PRESIDENTE pone in votazione la proposta di rinvio.

(È approvata).

MANNIRONI crede che, prima di procedere oltre nella discussione, si debba decidere sulla questione se nel progetto della nuova Costituzione si debba affermare il principio della rappresentanza proporzionale.

PRESIDENTE condivide il punto di vista espresso dall’onorevole Mannironi.

LUSSU ritiene che la determinazione di un sistema elettorale non possa essere fatta nel testo di una Costituzione, ma debba esser rimessa alla legge elettorale. Una Costituzione non può contenere particolarità tecniche, ma solo principî generali; altrimenti non potrebbe avere, come è necessario, quel carattere permanente, quasi secolare, che costituisce la sua ragione di essere. Di solito l’adozione di un sistema elettorale avviene con un’apposita legge che, a differenza dei principî fondamentali di una Costituzione, non ha carattere di permanenza. Ogni legge elettorale ha infatti un carattere fluttuante e può essere modificata anche dopo poco tempo dalla sua entrata in vigore. Quindi, il voler includere nella Costituzione il principio di un dato sistema elettorale, che può essere mutato, è un fatto che contrasta con la caratteristica essenziale della Costituzione che è appunto, o almeno dovrebbe essere, la perennità dei suoi principî.

MANNIRONI non è d’accordo con l’onorevole Lussu. Pur riconoscendo che una Costituzione non può contenere norme troppo dettagliate e tecniche come una legge elettorale, crede che la Sottocommissione abbia già manifestato un avviso contrario a quello espresso dall’onorevole Lussu, nel senso di riconoscere la necessità di affermare nella Costituzione il principio del sistema elettorale che dovrebbe essere tenuto presente in seguito dalla Assemblea Costituente, quando studierà e approverà la futura legge elettorale. La Sottocommissione ha già deciso per quanto riguarda l’età minima necessaria perché un cittadino abbia diritto al voto e non si capisce perché non possa anche fare un’affermazione solenne per consacrare il principio del sistema proporzionale che può essere considerato come una delle conquiste più importanti delle democrazie moderne. In molte Costituzioni di Stati democratici moderni questo principio è stato già affermato. Se da un lato si riconosce che il sistema proporzionale è il migliore, non comprende perché non si debba consacrarlo in un articolo della Costituzione.

DI GIOVANNI dichiara, interpretando anche il pensiero di alcuni componenti la Sottocommissione, di essere d’accordo con l’onorevole Lussu nel senso di rinviare la questione alla legge elettorale.

CASTIGLIA aderisce al concetto espresso dall’onorevole Lussu. La Costituzione deve essere qualche cosa di definitivo, mentre il sistema elettorale può essere fluttuante. Crede perciò che si debba rinviare alla legge elettorale la determinazione del sistema che si vorrà adottare, lasciando impregiudicata la questione in sede di Costituzione.

EINAUDI dichiara di condividere il concetto espresso dall’onorevole Lussu, non solo perché si tratta di questione importante sulla quale le opinioni possono essere discordi, ma anche perché, se venisse inserito nella Costituzione il principio della rappresentanza proporzionale, in sostanza si verrebbe ad inserire qualche cosa che non ha grande significato. Il principio che si diventa elettori alla maggiore età è un concetto preciso, di cui si conosce la portata esatta: ma quando invece nella Costituzione si affermasse che il sistema elettorale da adottare è quello della proporzionale, si direbbe ben poco, perché l’attuazione di tale principio sta tutta nei metodi adottati. Una cosa, ad esempio, è la proporzionale regionale; altra è la proporzionale nazionale o provinciale. A seconda che si adotti un sistema od un altro, varia il valore del principio della proporzionale. Questa è la ragione fondamentale della sua adesione al concetto dell’onorevole Lussu.

Poiché ha sentito affermare che il sistema della proporzionale è qualche cosa che quasi si identifica con la democrazia, manifesta il suo dissenso più aperto su questo punto, in quanto il sistema proporzionale non vige in tutti i Paesi democratici; non vige infatti in Inghilterra, né negli Stati Uniti, che senza dubbio sono Paesi democratici. In questi Paesi, anzi, tutti i partiti sono d’accordo nel ritenere che il sistema proporzionale sia da condannarsi, come assolutamente antidemocratico.

BORDON esprime l’avviso che la sede non sia opportuna per trattare l’argomento, in quanto la Costituzione non deve contenere che l’affermazione di principî generali.

Nel merito contesta che la proporzionale rappresenti un sistema maggiormente conforme allo spirito democratico. La Val d’Aosta che egli rappresenta ha usato il sistema uninominale e non per questo la si può accusare di scarso senso democratico.

ZUCCARINI osserva che il sistema proporzionale potrà essere più o meno perfetto, ma senza dubbio più compiutamente del sistema maggioritario realizza la democrazia, che appunto si identifica con la più esatta rappresentanza di tutte le correnti politiche nel governo del Paese.

Sostiene, perciò, che il principio della proporzionalità dovrebbe essere affermato nella Costituzione, salvo a stabilirne nella legge elettorale la forma di applicazione, secondo quel che sembrerà più opportuno.

PORZIO richiama l’attenzione della Sottocommissione sul fatto che la materia da discutere è ben altra che quella in esame, su cui ciascuno potrà esprimere il proprio parere quando si tratterà di elaborare la futura legge elettorale.

Aderisce pertanto incondizionatamente alle considerazioni dell’onorevole Lussu, poiché una Costituzione non può avere che un carattere del tutto contingente. È pacifico che le Costituzioni possono essere violate, ma ciò appunto a cui si deve mirare è che esse non lo siano soprattutto poco tempo dopo la loro entrata in vigore. A tale considerazione ne va aggiunta un’altra, già fatta dall’onorevole Einaudi, che, cioè, di modi di applicazione della proporzionale ce ne sono molti, non escluso quello collegato col sistema uninominale.

Si rende conto del fatto che oggi la proporzionale è di moda, ma fa rilevare che le Costituzioni più tradizionali e meno mutevoli, quelle dell’America e dell’Inghilterra, hanno sempre evitato di farvi ricorso.

Un’altra parola è anche di moda: «democrazia». Senza dubbio la democrazia è sovranità popolare, ma essa è anche, e soprattutto, sentimento di umanità che finalmente deve penetrare nelle leggi, affinché ne sia possibile l’attuazione nell’interesse della collettività.

TOSATO trova che il problema in discussione è assai delicato. Riconosce che la materia in questione dovrebbe costituire un elemento essenziale della Costituzione, perché, se non altro da un punto di vista teorico, è evidente che questa, a seconda che si adotterà un sistema elettorale piuttosto che un altro, funzionerà in un modo piuttosto che in un altro. L’influenza del sistema elettorale sul funzionamento della Costituzione è immediata. D’altra parte osserva che la Costituzione non è stata ancora redatta, non se ne conoscono ancora tutti gli elementi particolari, e quindi ancora non si è in grado di misurare quale influenza essa potrà subire dal sistema elettorale che sarà adottato.

Ricorda che la legge del 16 marzo 1946 stabilisce che la legge elettorale è in ogni caso materia di competenza dell’Assemblea Costituente. Con questa norma evidentemente si mirava alla formazione di una Commissione speciale per la elaborazione della legge elettorale. Il problema dunque va posto in altro momento e in altra sede.

Gli sembrano molto convincenti le argomentazioni dell’onorevole Einaudi: se nella Costituzione si vuole stabilire l’applicazione di un determinato sistema elettorale piuttosto che un altro, non basta dire semplicemente che si vuole adottare quel tale sistema, perché ci sono diversi modi di metterlo in pratica.

DI GIOVANNI rileva che nella legge sull’Assemblea Costituente sono stati affidati tre diversi compiti all’Assemblea stessa: elaborazione della nuova Costituzione, discussione ed approvazione dei trattati di pace, redazione della legge elettorale. Quindi, anche nella legge sulla Costituente si è voluto distinguere la materia elettorale della formulazione della nuova Costituzione. Anche per questo gli sembra che sia da rinviare ad altra sede l’esame del problema del sistema elettorale.

LA ROCCA osserva che, da un punto di vista puramente politico, la proporzionale, nonostante tutti i suoi difetti, costituisce un’ulteriore conquista della democrazia e, poiché è proponimento di tutti di elaborare una Costituzione eminentemente democratica, non si può fare a meno di inserirvi l’affermazione di un tale principio. Riconosce che la proporzionale ha innumerevoli varietà nei modi di applicazione, ma nella Costituzione si tratterà di affermare puramente e semplicemente il principio che la rappresentanza nazionale dovrà essere espressa attraverso questo sistema, lasciando alla Commissione competente il compito di determinare il modo d’applicazione.

PORZIO obbietta che non è affatto certo che il sistema proporzionale rappresenti un passo avanti nel progresso della democrazia.

LA ROCCA replica che i vantaggi del sistema proporzionale sono stati provati dall’esperienza. Difatti la proporzionale consente la rappresentanza più o meno integrale di tutte le correnti politiche del Paese, il che con gli altri sistemi non è possibile. Insiste pertanto sulla opportunità di sancire il principio della proporzionale nella Costituzione, affinché, essendo la legge elettorale espressione di un organo puramente legislativo, non possa avvenire che in un vicino domani l’Assemblea parlamentare annulli questo principio che rappresenta il risultato di anni di travaglio politico e di innumeri esperienze.

DI GIOVANNI dichiara di non essere contrario al principio del sistema proporzionale, ma soltanto al fatto che esso sia prescritto nella Costituzione.

NOBILE si associa alle osservazioni degli onorevoli La Rocca e Zuccarini ed insiste perché sia consacrato nella Costituzione il sistema della proporzionale che, anche a suo avviso, rappresenta una conquista della democrazia.

La preoccupazione dell’onorevole Einaudi può essere giusta, ma senza dubbio è eccessiva; onde propone che si usi una formula approssimativamente del seguente tenore: «Il sistema è quello proporzionale, applicato secondo i metodi che saranno indicati dalla legge elettorale».

AMBROSINI fa presente che, qualora la Sottocommissione decidesse di affermare il principio della proporzionale nella Costituzione, occorrerebbe quanto meno precisare alcuni dei criteri di applicazione. Così, ad esempio, sarebbe necessario determinare l’ampiezza delle circoscrizioni elettorali, poiché se in avvenire esse venissero troppo ristrette, il sistema della rappresentanza proporzionale verrebbe ad essere praticamente annullato nella sua essenza e nel suo funzionamento.

Per queste ragioni ritiene, a meno che non si voglia entrare nel merito dell’argomento, che sia opportuno rinviare l’esame della materia alla Commissione per la legge elettorale.

PORZIO ripete che non si è nella sede adatta per risolvere la questione. Questa Sottocommissione sta lavorando per preparare la Carta fondamentale dello Stato e questa non può vincolare la Nazione ad un dato sistema elettorale.

Richiamandosi alle costituzioni di altri Paesi, fa osservare che soltanto in quella di Weimar ed in altre di scarsa importanza, venne stabilito un determinato sistema elettorale. Infatti le costituzioni della Francia, degli Stati Uniti e della maggior parte dei grandi Stati democratici non contengono alcuna affermazione in proposito. Se infine la discussione circa il sistema elettorale dovesse affrontarsi in sede di Costituzione, non sa di che cosa si dovrebbe poi parlare in sede di Commissione per la legge elettorale. Viceversa in quella sede dovrà aversi prima una discussione di principio e poi una di tecnica sui metodi di applicazione. Il suo senso estetico ed il suo senso logico sarebbero offesi, se si volesse nella nuova Carta statutaria vincolare il Paese ad un determinato sistema elettorale.

ROSSI PAOLO ricorda che negli ultimi cinquant’anni in Italia non si è quasi mai votato per due volte di seguito con la stessa legge elettorale. Dopo il collegio uninominale è stato adottato lo scrutinio di lista; poi è tornato in uso il collegio uninominale; finalmente si è fatto ricorso alla proporzionale, che però è stata usata sempre con metodi diversi. Mai due Assemblee nell’ultimo cinquantennio sono state elette con lo stesso sistema.

Personalmente dichiara di essere favorevole al sistema della proporzionale, ma pensa che bisognerebbe adottare una proporzionale il più possibile perfetta; ed uno dei modi in cui la proporzionale può essere perfezionata è quello del premio al partito che ha riportato il maggior numero di voti. Potrebbe darsi che un giorno apparisse utile l’applicazione di questo correttivo. Ma se nella Costituzione venisse affermato il principio della proporzionale, l’applicazione del correttivo anzidetto potrebbe essere intesa come una questione di costituzionalità e per questo essere impedita. Per queste ragioni, pur dichiarandosi proporzionalista convinto, è contrario ad ogni determinazione del sistema elettorale nel testo della Costituzione.

PRESIDENTE esprime il proprio parere, che è in contrasto con quello manifestato dalla quasi totalità dei componenti la Sottocommissione.

Ritiene che nella discussione siano stati commessi alcuni errori di impostazione. Ad esempio, crede che l’onorevole La Rocca abbia errato parlando, a proposito della proporzionale, di un progresso democratico e che egualmente abbia errato l’onorevole Zuccarini quando parlava della proporzionale come di una affermazione della democrazia. Se, invece, essi avessero parlato del progresso democratico italiano e di come in Italia è venuta realizzandosi la democrazia prima ancora del lungo intervallo del fascismo, l’errata impostazione del problema sarebbe venuta meno. Trova inutile fare riferimento a ciò che è successo in Francia, in Inghilterra, in America; a tutti è noto, infatti, che in Inghilterra e in America non si usa il sistema proporzionale perché in questi Paesi la democrazia ha seguito strade diverse.

Ora, si è tutti d’accordo che in Italia, nel fare la Costituzione, non debbono essere ignorati i fatti degli altri Paesi, ma ciò che soprattutto interessa è che, per fare una nostra nuova Carta statutaria, occorra più che altro avere in vista le nostre esigenze, la nostra realtà. Inoltre, la storia dei nostri sistemi elettorali non è affatto quella accennata dall’onorevole Rossi, il quale, giova riconoscerlo, non ha fatto la storia, ma è sceso ad alcuni particolari che sono di cronaca. Non gli sembra esatto, infatti, affermare che in Italia nell’ultimo cinquantennio vi siano stati numerosi sistemi elettorali, perché in realtà ce ne sono stati soltanto due, con modi di applicazione diversi. Difatti la storia della democrazia italiana passa dal sistema maggioritario a quello proporzionale.

A suo avviso, la Costituzione deve anzitutto consolidare la conquista della democrazia ed in Italia una di queste conquiste è rappresentata appunto dall’adozione del sistema proporzionale. Ora, tale conquista dovrebbe trovare nella Costituzione il suo fondamento, per impedire che nel futuro essa possa essere annullata.

Richiama infine l’attenzione dei presenti sulla situazione politica italiana, rilevando che sono proporzionalisti i partiti democratici di massa, che intendono appunto sviluppare ulteriormente la democrazia, mentre sono antiproporzionalisti gli altri, come ad esempio il partito liberale, il quale così ama chiamarsi in quanto non è democratico. È noto infatti che alcune posizioni di questo partito non coincidono con le posizioni dei grandi partiti popolari.

Concludendo, afferma che se la Costituzione deve essere Costituzione della democrazia italiana, essa deve innanzi tutto dare come acquisito ciò che le masse sono riuscite a conquistare attraverso molti anni di travaglio politico.

TARGETTI dichiara di essere un proporzionalista convinto e di essersi sempre battuto, fin dagli anni della sua giovinezza, per l’adozione di questo sistema. Tuttavia, pure associandosi alle considerazioni del Presidente, deve fare qualche riserva per un accenno fatto dall’onorevole Rossi. Esclude da parte propria di potere un giorno persuadersi della opportunità di concedere un premio ai partiti che abbiano raggiunto la maggioranza, il che, come tutti sanno, serve a far sorgere prima delle elezioni quelle coalizioni che invece dovrebbero sorgere dopo; ma poiché il correttivo a cui ha accennato l’onorevole Rossi potrebbe sembrare utile un giorno al Paese, è contrario a che sia stabilito nella Costituzione il principio della proporzionale che potrebbe ostacolare l’adozione del correttivo suddetto.

PICCIONI fa presente che, secondo le dichiarazioni dell’onorevole Tosato, la Commissione dovrebbe essere chiamata innanzi tutto a decidere se convenga, oppur no, rinviare l’esame della questione. Sarebbe più opportuno, quindi, dare la precedenza alla proposta fatta dall’onorevole Tosato.

MANNIRONI aderisce all’idea di rinviare la decisione, pur tenendo a riaffermare la sua fede nel sistema della rappresentanza proporzionale.

LA ROCCA dichiara che, se la maggioranza è per la sospensiva, da parte sua non ha nulla in contrario. Tiene però a chiarire che, quando ha parlato di progresso della democrazia attraverso il sistema proporzionale, ha inteso riferirsi alla situazione storica italiana. Ha sempre ritenuto che il sistema proporzionale abbia rappresentato per l’Italia un passo innanzi e per questo ha sostenuto e sostiene che il principio della proporzionale debba essere affermato nella Costituzione. Saranno poi gli organi competenti a decidere il modo di applicazione.

LUSSU si dichiara contrario alla sospensiva. In linea di principio tutti i membri della Sottocommissione, per non far sorgere l’impressione che questa voglia abdicare ai suoi diritti e doveri, dovrebbero essere contrari a sospendere l’esame dei problemi che riguardano la Sottocommissione stessa. Tutti i problemi, quindi, debbono essere risolti a mano a mano che si presentano, anche se connessi ai lavori di altre Sottocommissioni. In questa ipotesi, infatti, si può sempre esprimere un pensiero e fissarlo in una proposta, salvo poi a modificarlo, quando si venisse a conoscenza di risultati diversi raggiunti da altre Sottocommissioni.

Tiene a dichiarare che non è animato da nessuna preoccupazione di carattere politico nel proporre che la questione in esame sia trattata in sede di formazione della legge elettorale. Ha dovuto constatare, nell’esperienza pratica compiuta, che il sistema del collegio uninominale è strettamente connesso alla corruzione politica italiana, soprattutto nel Mezzogiorno e nelle Isole. Si dispensa dal citare dati di fatto che sono noti a tutti. È quindi favorevole in linea di principio alla rappresentanza proporzionale, pur rispettando l’opinione espressa dall’onorevole Bordon, quale rappresentante della Val d’Aosta, e non intende affatto rinunciare a questa conquista democratica. Ma la nuova legge elettorale, che verrà emanata, sarà senza dubbio l’espressione della rinata coscienza del popolo italiano.

Alla obiezione che, non fissando nella Costituzione il principio della proporzionale, questo possa essere abolito da una maggioranza al potere, risponde che anche il fascismo cambiò la legge elettorale, ma prima di tale cambiamento era avvenuto qualche cosa di assai grave che, se si ripetesse oggi, farebbe saltare in aria non solo la legge elettorale, ma anche la stessa Costituzione.

CAPPI avverte che la prima Sottocommissione si è già occupata del problema in esame è che anzi ha già stampato una relazione in cui, oltre alla questione dell’elettorato attivo e passivo, si tratta anche dei principî fondamentali della Costituzione, tra i quali quello della proporzionale. Gli sembrerebbe pertanto opportuno sospendere l’esame della questione per stabilire un’intesa tra le due Sottocommissioni.

PRESIDENTE ricorda che già è stato deciso di prendere contatto con le altre Sottocommissioni. Circa la proposta di sospensiva, ritiene che essa possa essere accettata, non tanto per le ragioni esposte dall’onorevole Piccioni, quanto perché il principio della proporzionale, se inserito nella Costituzione, verrebbe a dare alla Costituzione stessa una precisa fisionomia, e occorre prima sapere come sarà progettata la Costituzione, per poi stabilire il sistema di votazione che in essa dovrà essere prescritto.

Dopo le osservazioni dell’onorevole Cappi, crede quindi che la sospensiva possa essere accolta. Prega intanto gli onorevoli Conti e Mortati di informarsi delle conclusioni della prima Sottocommissione, augurandosi che esse siano tali da consentire alla seconda Sottocommissione di poter inserire il principio della proporzionale nel progetto di Costituzione.

PATRICOLO è del parere di rinviare alla legge elettorale qualsiasi determinazione circa il metodo da seguire nelle elezioni.

Desidera poi rispondere ad una affermazione fatta dall’onorevole Presidente, il quale ha dichiarato che solo i partiti di massa sono democratici, quasi che l’essere democratici sia dovuto al numero dei votanti. Si ha invece l’esempio di partiti di massa ingentissimi, come il fascismo in Italia, il nazionalsocialismo in Germania e il comunismo in Russia, che, pur essendo partiti di massa, non possono davvero dirsi democratici. Non è stata quindi giusta ed equanime l’affermazione dell’onorevole Terracini, quando ha escluso dall’essere democratici alcuni partiti non di massa.

Il partito dell’Uomo Qualunque, al quale l’oratore appartiene, è un partito di quasi massa ed egli si augura che diventerà ben presto un partito di massa; ma non sarà certamente il numero dei suoi componenti a far sì che esso sia più o meno democratico, ma piuttosto l’azione politica che esso svolgerà e perseguirà. Così anche il partito liberale non si può chiamare antidemocratico nel nome; se così fosse avremmo solo uno o due partiti democratici alla Camera e non sarebbero più democratici né il partito socialista, né il comunista, né molti altri.

PRESIDENTE risponde all’onorevole Patricolo che la sua elencazione era semplicemente esemplificativa. L’accenno al partito liberale non si riferiva al fatto del nome, ma alle lunghe e prolungate discussioni che si sono svolte in seno a quel partito circa l’organizzazione economico-politica della società.

CONTI, Relatore, comunica che nella prima Sottocommissione i Relatori Umberto Merlin e Pietro Mancini hanno formulato la proposta che il voto debba essere eguale, libero, segreto e personale, costituire un dovere pubblico, quindi essere obbligatorio, debba essere esercitato col sistema della rappresentanza proporzionale.

PORZIO insiste nella proposta di rinviare il problema alla legge elettorale, senza vincolarsi nella Costituzione ad un sistema prefisso, ripetendo che, per legge, l’Assemblea Costituente dovrà discutere ed approvare la futura legge elettorale.

Circa poi l’affermazione che soltanto i partiti favorevoli alla proporzionale sono veramente democratici, ricorda che la legge sul suffragio universale fu votata e approvata da una Camera eletta col sistema uninominale.

LUSSU dissente da quanto ha affermato il Presidente. Ha la preoccupazione che le sospensive alcune volte siano determinate non da ragioni giuridiche, ma piuttosto dal timore di molto lunghe discussioni. Il principio che invece, a suo avviso, dovrebbe dominare i lavori della Sottocommissione dovrebbe essere quello di pronunciarsi su tutti i problemi a mano a mano che essi si presentano, senza prendere contatto con le altre Sottocommissioni. Nessuna delle altre Sottocommissioni ha chiesto il parere della seconda, mentre questa ultima ricorre spesso a tale sistema, ciò che, se non le toglie dignità, le fa per lo meno perdere tempo assai prezioso.

Circa, poi, i cosiddetti partiti di massa e democratici, considera quanto ha affermato il Presidente come una esemplificazione e pertanto non si ritiene chiamato in causa, pure approvando il concetto espresso dall’onorevole Terracini. Deve dire però, dato che non appartiene ad un partito di massa, che tutti i partiti sono putativamente di massa, non essendo certo il numero degli iscritti che fa un partito di massa, bensì il suo comportamento sociale. Può citare a tale proposito un solo esempio che gli pare convincente, quello dell’«Indipendent Labour Party», che, pur non essendo numeroso, è senza dubbio un partito democratico e socialista.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta di sospensiva.

(È approvata).

BORDON ha votato per la sospensiva, ma desidera riaffermare che è contrario al sistema della rappresentanza proporzionale.

PRESIDENTE avverte la Sottocommissione che occorre ora passare all’esame della questione dell’elettorato passivo e apre la discussione sul limite dell’età, che nel progetto dell’onorevole Conti è fissato ad anni 25.

NOBILE è del parere che coloro che sono chiamati ad essere eletti deputati debbano dare garanzie maggiori di quelle richieste ai comuni elettori. Per questo motivo è favorevole ad un elevamento del limite di età.

PATRICOLO ricorda che nell’ultima riunione aveva richiesto l’elevamento del limite di età per l’elettorato passivo, esprimendo l’avviso che il deputato all’Assemblea nazionale debba effettivamente possedere quella esperienza, capacità e maturità politica che sono necessarie per assolvere un compito tanto importante. In quella occasione aveva anche messo in evidenza che si potrebbe abbassare il limite di 25 anni per l’eleggibilità alle Assemblee regionali, che saranno dei Parlamenti in miniatura, nei quali i giovani che desiderano dedicarsi alla vita politica potranno addestrarsi ai più gravi compiti che li attenderanno nell’Assemblea nazionale. A 25 anni un uomo esce appena dall’Università e non può considerarsi preparato ai problemi della vita nazionale; spesso non ha nemmeno messo fuori il piede dalla sua provincia o dalla sua regione e quindi non possiede quel largo orizzonte di vedute che è necessario ad un rappresentante del popolo nell’Assemblea nazionale.

Ritiene, tuttavia, che la sua primitiva proposta di elevare l’età a 30 anni potrebbe essere modificata limitandola a 28 anni, così che sia contemperata l’esigenza di una certa maturità con quella di immettere nell’Assemblea nazionale elementi giovani, pronti a dare una attiva collaborazione.

NOBILE si associa alla proposta dell’onorevole Patricolo.

DI GIOVANNI esprime il parere che il limite di 25 anni, proposto dall’onorevole Conti, sia rispondente non solo al convincimento che i giovani più eletti e preparati possano essere in grado di ricoprire l’incarico, indubbiamente elevato, di componenti il Parlamento, ma anche al desiderio di valorizzare i giovani in generale.

CONTI, Relatore, ricorda che nel 1921-22 fu relatore di una proposta di legge mirante appunto a ridurre il limite di età dai 30 ai 25 anni, perché fin da allora era convinto che quest’ultima età fosse sufficiente per accedere alla Camera dei Deputati. Una volta superato l’attuale periodo di abbassamento intellettuale dovuto al fascismo, si andrà verso tempi in cui i giovani a 25 anni saranno all’altezza delle funzioni parlamentari. D’altra parte è sicuro che il corpo elettorale avvierà i più giovani prima di tutto alle Assemblee regionali, onde ben pochi saranno alla Camera i rappresentanti di 25 anni.

PICCIONI concorda con l’onorevole Conti, aggiungendo che il voler elevare il limite di età potrebbe sembrare un regresso rispetto al limite attualmente in vigore per poter essere eletti deputati alla Costituente, quasi che i giovani che fanno ora parte dell’Assemblea Costituente non abbiano dato buona prova, il che, almeno per quanto gli risulta, non può certo dirsi.

LUSSU voterà per il limite di 25 anni, esclusivamente per un criterio di opportunità, visto che in pratica i vecchi hanno dato più cattiva prova dei giovani.

Tiene poi a mettere in evidenza che, in relazione alla costituzione dell’Ente Regione e della nuova organizzazione della Camera, il numero dei deputati sarà probabilmente alquanto ridotto, poiché la risoluzione di molti problemi locali sarà demandata alle Assemblee regionali. La Camera, pertanto, con tutta probabilità, si dovrà occupare prevalentemente solo dei grandi problemi di interesse generale.

Non si stupirebbe, pertanto, se, data l’elevatezza del compito di deputato, da qualche settore si esprimesse il desiderio di portare l’età dei deputati ad un limite superiore ai 25 anni.

LA ROCCA è anch’egli favorevole al limite di 25 anni, anche perché la fissazione di questa età non dà senz’altro la possibilità di adire alla Camera a tutti i venticinquenni, ma solo a quelli che siano all’altezza del compito, e per i quali non vi sarebbe motivo di esclusione dalla vita pubblica.

PRESIDENTE pone in votazione la proposta dell’onorevole Patricolo, alla quale si è associato l’onorevole Nobile, di elevare a 28 anni il limite di età per l’elettorato passivo.

(Non è approvata)

Pone in votazione il limite di età di 25 anni.

(È approvato).

Apre la discussione sulla durata del mandato, che nel progetto dell’onorevole Conti è fissato ad un periodo di quattro anni.

FABBRI crede più opportuno fissare la durata del mandato in cinque anni, come era in precedenza. Naturalmente tale durata dovrebbe essere connessa col problema dello scioglimento della Camera che, secondo quanto è nel desiderio di tutti, dovrebbe essere considerato in rapporto alle crisi ed all’opportunità di avere un congruo periodo di continuativa attività.

ROSSI PAOLO osserva che la durata del mandato della prima Camera deve essere connessa con la durata del mandato della seconda, che probabilmente sarà elettiva, onde non crede che sia possibile discutere separatamente le due questioni. La durata del mandato della seconda Camera è previsto per un periodo di sei anni con rinnovamento per metà dei suoi componenti ogni tre anni. Propone quindi di sospendere la decisione rinviandola a quando sarà discussa la durata del mandato per i componenti della seconda Camera.

CONTI, Relatore, avverte che, essendoci constatato che in passato solo qualche legislatura è giunta al quinto anno, è sembrato che il termine di cinque anni possa essere troppo lungo, in relazione alla possibilità di una Camera sufficientemente stabile.

Non ha, del resto, alcuna difficoltà a rinviare la discussione della durata del mandato per i componenti della prima Camera a quando sarà discussa quella per i componenti del Senato.

LUSSU è contrario al rinvio, ritenendo che si possa prendere egualmente una decisione, salvo a modificarla quando si discuterà della durata del mandato per i componenti del Senato.

PRESIDENTE condivide il parere espresso dall’onorevole Lussu, perché nessuna delle decisioni della Sottocommissione è talmente impegnativa che non possa essere successivamente modificata.

Pone in votazione la proposta dell’onorevole Fabbri di elevare a cinque anni la durata del mandato.

(È approvata).

Rileva che tra le proposte dell’onorevole Conti ce ne sono altre, in successivi articoli, che si riferiscono alla formazione della Camera dei Deputati. Così ad un certo punto si afferma: «I requisiti per l’eleggibilità ed i casi di incompatibilità sono fissati dalla legge elettorale». In altro articolo poi si stabilisce: «Sarà eletto un deputato ogni 150 mila abitanti».

Apre la discussione sulla prima delle due proposte.

TOSATO ritiene che la norma non sia opportuna, poiché ci sono alcuni casi di incompatibilità che dovrebbero essere fissati dalla Costituzione, come ad esempio l’incompatibilità del Presidente della Repubblica con alcun uffici pubblici e l’incompatibilità per i componenti di una delle due Assemblee a far parte anche dell’altra.

D’altra parte un esplicito rinvio nella Costituzione alla legge elettorale non è del tutto indispensabile e può essere benissimo sottinteso.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta dell’onorevole Tosato di sopprimere la formula: «I requisiti per la eleggibilità ed i casi di incompatibilità sono fissati dalla legge elettorale».

(È approvata).

Apre la discussione sulla proposta concernente l’elezione di un deputato per ogni 150 mila abitanti.

PATRICOLO osserva che si potrebbe sopprimere anche la disposizione in esame, rinviando ogni decisione a tal riguardo alla legge elettorale, poiché si tratta di un principio che non è opportuno sia affermato nella Costituzione.

NOBILE si dichiara favorevole ad una norma per la quale il numero dei Deputati dovrebbe essere ridotto a circa 300. Ricorda in proposito l’interessante osservazione di uno statista inglese, il quale sosteneva che un’assemblea legislativa composta di 5 o 600 persone è troppo numerosa per essere un’assemblea e troppo poco numerosa per essere un comizio, e che pertanto il numero giusto dei componenti un’assemblea legislativa dovrebbe essere di circa 250 persone.

D’altra parte, il lavoro che potrà essere svolto da trecento deputati non sarà molto diverso da quello che potrà essere svolto da seicento e non vede quindi quale vantaggio ci sia ad accrescere il numero dei componenti l’Assemblea. Tutto al più si potrà obiettare che potrebbe rimaner sacrificato qualche partito di minima importanza, che con un numero doppio di posti disponibili potrebbe, con la proporzionale, conquistarne uno. Ma l’eliminazione dalla vita politica di partiti di così scarsa importanza è più un bene che un male.

PATRICOLO chiede che sia preliminarmente posta ai voti la sua proposta di soppressione della formula in questione.

TOSATO ritiene che la materia non possa essere rinviata alla legge elettorale, poiché si tratta di stabilire la composizione di un organo costituzionale, e il non farlo rappresenterebbe una lacuna della Costituzione.

CAPPI propone un emendamento così concepito: «Sarà eletto un deputato ogni 100.000 abitanti». La sua proposta di accrescere il numero dei deputati trova giustificazione in due considerazioni: anzitutto dare una congrua rappresentanza regionale; in secondo luogo utilizzare con maggiore ampiezza le capacità.

FABBRI ritiene fondamentali le osservazioni dell’onorevole Tosato e non può aderire alla proposta di mettere ai voti la soppressione della disposizione in esame che, a suo avviso, ha un’importanza fondamentale nella Costituzione.

CONTI, Relatore, invita i presenti a considerare che il numero dei componenti della Camera dei Deputati deve essere commisurato alla struttura che dovrà assumere il corpo legislativo ed alle funzioni che l’Assemblea dovrà svolgere. Si richiama a quanto giustamente ha osservato l’onorevole Lussu, che, cioè, la nuova Camera dei Deputati, se veramente si vuole dare al Paese la possibilità di un sano sviluppo legislativo, dovrà essere un consesso destinato alla trattazione dei più alti e ardui problemi. Si augura che i compilatori delle norme statutarie delle singole regioni allarghino quanto più è possibile la competenza dei futuri organi regionali, affidando ad essi la trattazione di tutti i problemi che hanno un carattere locale e regionale; così potrà esser evitata alla Camera dei Deputati la trattazione di materie che renderebbero la sua vita assai difficile, spingendola a quelle degenerazioni parlamentaristiche delle quali la nostra Nazione ha tanto risentito in passato. Pensa che, se si riuscirà a creare un’Assemblea di alta preparazione e competenza, sarà reso veramente un grande servigio al Paese. Ora le assemblee che rispondono meglio a quelle elevate funzioni a cui sono chiamate sono appunto quelle composte di un numero ridotto di elementi. A chi considera il problema nella sua essenza crede non possa sfuggire l’enorme vantaggio di una riduzione del numero dei membri dell’Assemblea. Trecento deputati è un numero più che sufficiente.

Questa riduzione è poi opportuna anche per un’altra considerazione. È stata prevista, infatti, l’unione delle due Camere in Assemblea nazionale. Si avrà così un consesso molto numeroso, e questo, secondo le intenzioni dei più, dovrebbe spesso riunirsi per decidere in merito ad avvenimenti di grande importanza. Ciò impone una limitazione del numero dei deputati. Del resto in sede di coordinamento e in sede di discussione in Assemblea plenaria, tale numero, se apparisse esiguo, potrebbe essere accresciuto.

CASTIGLIA, riferendosi alle argomentazioni dell’onorevole Conti, e poiché effettivamente il numero dei rappresentanti della futura Camera dei Deputati non potrà essere che in stretta dipendenza con la determinazione dei compiti e delle materie che saranno assegnati all’ente regione, ritiene che sia più opportuno – pur affermando il principio che nella Costituzione deve essere determinato il numero dei deputati – differire ogni decisione a quando saranno meglio conosciuti i compiti dell’ente regione. Propone, cioè, una pura e semplice sospensiva e non un rinvio alla legge elettorale.

BOZZI non condivide il punto di vista dell’onorevole Patricolo, poiché ritiene che la determinazione del numero dei deputati sia necessaria in una Costituzione. Tuttavia ha qualche dubbio se il principio debba fissarsi seguendo il criterio contenuto nella dizione proposta dall’onorevole Conti, o se non sia preferibile determinare un numero fisso di deputati oltre il quale non si potrebbe andare.

NOBILE è contrario alla soppressione della disposizione in esame.

PATRICOLO rinuncia alla sua proposta e si associa a quella dell’onorevole Castiglia.

PRESIDENTE fa rilevare che certamente ognuno ha già le sue idee precise circa le funzioni delle assemblee regionali, e in relazione al suo punto di vista può con sicurezza esprimere il proprio parere in merito alla questione in discussione. Crede pertanto utile prendere una decisione, tenendo conto che il coordinamento delle varie decisioni sarà in parte compito della Commissione nel suo complesso e in parte dell’Assemblea plenaria. Il continuo rinvio dell’esame dei singoli problemi può condurre la Sottocommissione a trovarsi di fronte ad un cumulo di questioni sospese.

CASTIGLIA sa benissimo qual è il suo pensiero in merito alle varie questioni, ed immagina che ciascun’altro lo sappia, ma osserva che non si può prevedere quale sarà il risultato della discussione. Ciascuno tende a far prevalere il suo punto di vista, ma la decisione finale non si potrà avere che dalla risultante delle varie forze contrastanti. Per mantenersi nel caso in esame, se ciascuno dovesse determinare il numero dei Deputati in relazione a quelli che a suo avviso dovrebbero essere i compiti da affidare alle future assemblee regionali, si avrebbero innumerevoli proposte circa il numero dei componenti della Camera dei Deputati. Perciò ritiene che, per economia di tempo, sarebbe più opportuno rinviare ogni decisione, in merito all’importante argomento in discussione, a quando sarà stabilita la sfera di competenza delle assemblee regionali, pure affermando in via di principio che occorre che nella Costituzione sia fissato il numero dei componenti la Camera dei Deputati.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta che sia inserita nella Costituzione l’indicazione del numero dei Deputati che dovranno comporre la prima Camera.

(È approvata).

Pone ai voti la proposta, fatta dall’onorevole Castiglia, di rinviare la determinazione del numero dei componenti la Camera dei Deputati a quando saranno fissati i compiti delle assemblee regionali.

(Non è approvata).

Avverte che l’onorevole Bozzi gli ha presentato una proposta così concepita «La Camera dei Deputati è composta di un numero di membri non superiore ai 450».

FABBRI trova la formula alquanto elastica poiché, rientrando nella competenza della legge elettorale la possibilità di variare il numero dei deputati fino al limite massimo consentito, quella potrebbe fissare un numero troppo ristretto di componenti. D’altra parte, non gli sembra nemmeno simpatico ricorrere a questo espediente proposto dall’onorevole Bozzi, perché esso dà la netta sensazione che quattrocento deputati siano pochi e cinquecento troppi. Crede pertanto che sia preferibile il criterio della proporzione al numero degli abitanti.

PRESIDENTE, data l’ora tarda, rinvia la discussione a domani.

La seduta termina alle 13.30.

Erano presenti: Ambrosini, Bordon, Bozzi, Bulloni, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Di Giovanni, Einaudi, Fabbri, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Porzio, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Vanoni, Zuccarini.

In congedo: Grieco.

Assenti: Amendola, Bocconi, Calamandrei, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Leone Giovanni, Maffi, Mortati, Ravagnan.

GIOVEDÌ 12 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

13.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 12 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Organizzazione costituzionale dello Stato (Seguito della discussione)

Presidente – Lussu – Piccioni – Perassi – Mortati, Relatore – Leone Giovanni – Ambrosini – Fabbri – Nobile – Uberti – Codacci Pisanelli

– Rossi Paolo – Mannironi – Fuschini – Tosato – Di Giovanni – Targetti – Patricolo – La Rocca – Lami Starnuti – Bozzi – Calamandrei.

La seduta comincia alle 8.15.

Seguito della discussione sull’organizzazione costituzionale dello Stato.

PRESIDENTE, assumendo la Presidenza in sostituzione dell’onorevole Terracini, che si è dovuto assentare per gravi ragioni di famiglia, comunica che dai contatti presi con la prima Sottocommissione per conoscere come questa abbia trattato la questione dell’elettorato attivo e del suffragio popolare, è risultato che essa non ha ancora preso in merito alcuna decisione. In una relazione dell’onorevole Basso sui principî dei diritti politici si propone, tra l’altro, l’approvazione di un articolo del seguente tenore: «La sovranità popolare si esercita, attraverso la elezione degli organi costituzionali dello Stato, mediante suffragio universale, libero, segreto, personale ed eguale. Tutti i cittadini concorrono all’esercizio di questo diritto, tranne coloro che ne sono legalmente privati o che volontariamente non esercitino un’attività produttiva».

LUSSU dichiara di apprezzare il lavoro diligente compiuto dalla prima Sottocommissione, ma fa presente che la seconda si è già occupata dell’esclusione dall’elettorato di coloro che non svolgono un lavoro produttivo.

Tiene a ripetere ancora una volta che egli è contrario ad una enunciazione di principî puramente teorici, perché è inutile se non è accompagnata da norme legislative che tolgano il diritto in questione a chi possegga ricchezze indebitamente acquistate od in forza di privilegio. Se così non avviene, si toglie il diritto all’elettorato alle persone più povere che non hanno possibilità di difesa, e si fa di tale diritto uno strumento di oppressione nelle mani delle classi privilegiate.

Ricorda in proposito che la prima parte della Costituzione spagnola del 1931 stabiliva che la Repubblica spagnola era la Repubblica di tutti i lavoratori: ma tale enunciazione rimase pura teoria e i lavoratori dovettero poi sostenere la guerra civile.

PRESIDENTE crede che, dopo le decisioni già prese, la questione può considerarsi superata.

Resta invece da risolvere la questione dell’età minima per essere ammessi all’esercizio del diritto di voto. Circa questo punto sono ancora in discussione due tesi; una mirante a stabilire l’età di anni 21, l’altra sostenuta dall’onorevole Perassi con la quale si propone di usare la formula «maggiore età».

PICCIONI ritiene che a questa formula si potrebbe aggiungere la precisazione «ai sensi della legge civile».

PERASSI la ritiene superflua; comunque della proposta si potrà tener conto in sede di redazione del testo definitivo.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta Perassi.

(È approvata).

MORTATI, Relatore, rileva che, con le proposte contenute nella relazione Conti, in particolare nell’articolo 1, si lascia in sostanza alle leggi ordinarie la possibilità di determinare e quindi di restringere eventualmente l’esercizio dei diritti civili e politici. Si domanda se, dal momento che si lavora alla redazione di una Costituzione rigida il che ormai appare almeno sottinteso, se non esplicitamente affermato, non convenga introdurre nella Costituzione stessa alcuni limiti alla possibilità di restringere il diritto elettorale.

Nelle sue considerazioni intende riferirsi anche all’esempio della Costituzione russa, la quale garantisce il diritto elettorale a tutti i cittadini, prescindendo dal loro passato politico.

Per concludere, senza fare proposte precise, pone il quesito se la Commissione con la formula dell’articolo in discussione abbia inteso di deferire interamente al legislatore ordinario i casi di possibili restrizioni dell’elettorato salvo naturalmente il criterio dell’eguaglianza di tutti i cittadini, che è implicito, o se non ritenga invece opportuno determinare quei casi per sottrarli all’arbitrio indiscriminato del legislatore ordinario. Numerose sono le ipotesi su cui si dovrebbe fermare l’attenzione; gli ubriachi, le prostitute, i mendicanti, i militari, gli ex fascisti, coloro che sono sottoposti a provvedimenti di polizia, ecc…

LEONE GIOVANNI rileva l’importanza eccezionale del problema sollevato dall’onorevole Mortati. Riconosce che con la formula votata si rischia di far sorgere dei veri e propri arbitrî, in quanto la facoltà in questione è affidata a leggi speciali, che sono soggette ai mutevoli orientamenti di ogni determinata epoca storica. In particolari momenti politici possono aversi forme transitorie di incapacità, mentre sussistono sempre casi di incapacità di carattere obiettivo e tradizionale a proposito dei quali non c’è dubbio che debba essere negato il diritto elettorale.

Ritiene che le limitazioni relative alla prima ipotesi non possano essere introdotte in una Costituzione; esse dovrebbero formare materia della futura legge elettorale, la quale, essendo coeva, ed affidata alla stessa Costituente, avrà un particolare valore come fonte legislativa. La difficoltà maggiore riguarda più che altro la seconda ipotesi e consiste nel trovare una formula sintetica ed universale che consenta di stabilire le incapacità di carattere costituzionale.

Per le limitazioni al diritto di voto relative alla prima ipotesi è preferibile rimettersi alla Commissione che dovrà elaborare il progetto di legge elettorale.

AMBROSINI è del parere che per il momento non sia il caso di addentrarsi nell’esame del problema che è stato sollevato, la cui soluzione è in funzione delle particolari attuali contingenze e che è bene quindi sia lasciata al legislatore, sia esso la Costituente stessa o un legislatore venturo.

Dissente dall’affermazione dell’onorevole Leone, che la nuova legge elettorale potrà avere una importanza superiore a quella di una normale legge elettorale solo perché elaborata dall’Assemblea Costituente. Anche quella, infatti, sarà ispirata, come tutte le altre, a criteri contingenti che potranno apparire non accettabili al legislatore futuro.

FABBRI è d’avviso che la questione della decadenza dei diritti politici è troppo essenziale per non essere consacrata nella nuova Costituzione e ritiene che tate decadenza non possa discendere che da una pronuncia dell’autorità giudiziaria ordinaria, civile o penale. Questo concetto fondamentale dovrebbe essere formulato nel testo della nuova Costituzione e non già nella futura legge elettorale per ovvie ragioni di opportunità.

NOBILE si associa alle osservazioni dell’onorevole Fabbri, rilevando che anche la Costituzione russa ha adottato un consimile criterio, disponendo che ogni cittadino può essere elettore, ad eccezione del minorato e delle persone condannate dal Tribunale alla privazione del diritto elettorale.

LEONE GIOVANNI trova di massimo interesse la proposta dell’onorevole Fabbri, mirante a stabilire che soltanto una pronunzia del magistrato ordinario possa produrre la interdizione dai diritti politici e civili. Tuttavia gli sembra che ciò non sia sufficiente. La preoccupazione è che, in un determinato momento, una maggioranza che rispecchi o meno la volontà del Paese, possa adottare leggi con spirito di parte, sovrapponendo i propri interessi particolaristici a quelli del Paese e privando dei cittadini dei fondamentali diritti politici.

L’aggiunta proposta non può impedire infatti che una nuova legge, votata col consueto criterio delle leggi ordinarie, possa stabilire che per determinati reati od attività più o meno illecite si incorra de iure nell’interdizione dai diritti civili e politici e che il magistrato, ancorché possa sentire ripugnanza per una simile disposizione, si trovi poi nella necessità di applicarla. Da ciò gli sembra che derivi la necessità di stabilire, per lo meno in maniera negativa, oltre a questo primo limite di natura processuale, anche per quali forme di attività debba essere assolutamente inibito irrogare la interdizione dai diritti civili e politici.

Ritiene che sia difficilissimo trovare una formula precisa e di facile intelligenza che risponda all’intenzione. Tale difficoltà non deve però sconsigliare dal compiere ogni tentativo possibile per fissare in modo sintetico limiti precisi assoluti ed inderogabili all’attività della legislazione ordinaria su questo argomento.

FABBRI teme che il tentativo di arrivare ad un’espressione perfetta complichi eccessivamente il problema, mentre sarebbe più logico limitarsi alla formulazione di concetti generali. È dell’avviso, pertanto, che non si possa andare oltre l’affermazione che sia necessaria una pronunzia dell’autorità giudiziaria civile o penale ordinaria. Insiste sulla parola «ordinaria», che gli sembra fondamentale. L’ipotesi fatta dall’oratore che lo ha preceduto, e cioè che una legge futura stabilisca, in contraddizione con la coscienza sociale, una soppressione dei diritti politici collegata ad un dato fatto o ad una data attività, gli pare che ponga un problema concernente la costituzionalità di questa legge futura. Riguardo a tale questione, ricorda che con tutta probabilità, nella Costituzione sarà prevista una forma superiore di sindacato e quindi la possibilità di impugnativa delle leggi che venissero ad infrangere i diritti fondamentali dei cittadini, anche se formulate dal Parlamento. Tale garanzia può bastare ed anche per questo ritiene che non si possa scendere nel campo della casistica che è stata accennata, senza snaturare il giusto profilo della Costituzione.

MORTATI, Relatore, ritiene che la preoccupazione di una garanzia sostanziale dovrebbe essere soddisfatta in sede di principî generali, di garanzie costituzionali e di riferimento ai principî naturali. In questi elementi dovrebbero trovare la salvaguardia le giuste esigenze prospettate dall’onorevole Leone. Si potrebbe pertanto escogitare una formula che facesse riferimento ad un atto giurisdizionale, limitato, sia pure, al solo giudice ordinario.

FABBRI direbbe: «i cittadini che non risultino privati del diritto elettorale da sentenza civile o penale del magistrato ordinario».

LUSSU crede che la formula proposta dall’onorevole Fabbri non sia comprensiva di tutti i possibili casi, e ciò senza voler fare riferimento ai provvedimenti di polizia, per quanto questi abbiano il loro valore. Condivide quanto è stato detto poc’anzi circa la possibilità di inserire il caso della responsabilità fascista nelle esclusioni dal diritto elettorale, né vale a suo avviso, per controbattere questa tesi, l’affermazione che la Costituzione non debba essere il portato di una tendenza politica, in quanto tutte le Costituzioni sono sempre il risultato di una particolare situazione politica.

Ogni Costituzione è in un certo senso un’affermazione di parte e in tanto essa è viva in quanto ha una determinata fede di parte. Nulla impedirebbe, pertanto, che nella Costituzione italiana fosse contenuto un principio democratico, per cui i responsabili fascisti non potessero aspirare mai all’elettorale attivo.

Ripete, concludendo, che la formula preposta gli sembra un po’ ristretta e tale da permettere che sfuggano alcuni casi che possano avere notevole importanza.

FABBRI, essendo favorevole ad un criterio di maggiore libertà, non si preoccupa affatto della possibilità che alcuni casi abbiano a sfuggire.

MORTATI, Relatore, ritiene che il fulcro della questione stia nello stabilire se è bene che alcuni casi sfuggano o no. Se si usasse una formula come quella proposta dall’onorevole Fabbri, sfuggirebbero, per esempio, i cittadini sottoposti ai provvedimenti di polizia, gli ubriachi abituali, ecc. Il giudizio politico che deve essere dato in questa sede è appunto questo: se sia opportuno o meno che determinati casi siano motivo di esclusione dal diritto elettorale. Vi è una tendenza che vorrebbe riservare esclusivamente al giudice la sanzione della privazione del diritto elettorale; un’altra, invece, sarebbe propensa a lasciare una più ampia libertà.

In circostanze eccezionali, come quelle accennate dall’onorevole Lussu, si dovrà ricorrere ad una revisione della Costituzione e se questa sarà opportuna sarà ciò che dovrà discutersi.

Propone infine la seguente formula:

«La Camera dei Deputati è eletta da tutti i cittadini di ambo i sessi, giuridicamente capaci, sulla base del suffragio eguale, diretto, segreto e personale, che abbiano compiuto la maggiore età ai sensi delle leggi civili. Nessuno può essere dichiarato decaduto dal diritto elettorale se non per disposizione di legge e in forza di una sentenza». A questa formula si potrebbero aggiungere anche le parole «del giudice penale».

FABBRI aggiungerebbe invece: «civile o penale del magistrato ordinario».

NOBILE desidera leggere alla Sottocommissione il seguente articolo della Costituzione sovietica:

«La elezione dei deputati si fa a suffragio universale. Tutti i cittadini di diciotto anni, indipendentemente dalla nazionalità, grado di istruzione, residenza, professione sociale, condizione economica e della loro attività passata, hanno diritto di partecipare alle elezioni dei deputati ed essere eletti, ad eccezione dei minorati e delle persone condannate dal tribunale alla privazione del diritto elettorale».

MORTATI, Relatore, ripete che la questione è di sapere se convenga o meno escludere dal diritto elettorale certi casi come quelli dei mendicanti o delle prostitute. Ricorda che la Sottocommissione ha escluso che coloro che, potendo vivere di rendita, non lavorano, siano privati del diritto elettorale. Analogamente non vi è alcuna ragione per la quale i mendicanti dovrebbero essere esclusi da tale diritto. Infatti, le stesse ragioni che hanno indotto la maggioranza a non approvare la proposta Tosato, relativa a coloro che non lavorano, dovrebbero valere nei riguardi dei mendicanti o dei ricoverati negli ospizi, ed anche nei riguardi delle stesse prostitute che, del resto, compiono un lavoro penoso, dovuto in sostanza al cattivo assetto sociale.

AMBROSINI afferma, senza entrare nel merito della questione, che la difficoltà di una casistica e il fatto che le precedenti leggi elettorali consideravano già questi casi, possono indurre alla conclusione che non sia opportuno affrontare quest’argomento nella sede attuale. Sarebbe pertanto consigliabile rimandare ogni discussione, senza eccessiva preoccupazione, alla Commissione che elaborerà la legge elettorale che la Costituente dovrà approvare.

UBERTI ritiene invece che sia bene inserire nel testo della Costituzione una frase limitativa delle norme della futura legge elettorale. Si è visto, infatti, durante le recenti elezioni, che, mentre ogni esclusione dal diritto di voto doveva essere sancita attraverso una deliberazione giudiziaria, all’ultimo momento tale facoltà fu demandata anche alle Commissioni comunali, che spesso erano di partito. Ciò potrebbe dar luogo ad inconvenienti di notevole gravità, specialmente dove esistono situazioni di faziosità. Per quanto riguarda i mendicanti, dato che essi hanno già volato nelle ultime elezioni, non vede il motivo per cui non potrebbero votare anche in seguito.

Ritiene, perciò, che una certa precisazione debba essere inserita nel testo della nuova Costituzione, affinché non sia possibile che all’ultimo momento, sia con legge, sia con circolari o telegrammi ministeriali, possano essere tolti i diritti elettorali attraverso decisioni di Commissioni comunali, prive di qualsiasi capacità giudiziaria.

CODACCI PISANELLI si associa alla proposta dell’onorevole Ambrosini di rimandare alla legge elettorale la determinazione delle incapacità elettorali, senza occuparsene in sede di formulazione della Costituzione. Dato che d’ora innanzi esisterà un organo che dovrà giudicare sulla costituzionalità delle leggi ordinarie, si avrà come conseguenza che le leggi che saranno in contrasto con i principî della Costituzione potranno essere impugnate di fronte a tale organo. Quello che avrà importanza, e determinerà quindi una situazione diversa da quella precedente, è il controllo sulla costituzionalità delle leggi. Stabilito questo controllo, se verrà emanata una legge elettorale che non rispetterà i diritti elettorali di alcune classi di cittadini, essa sarà passibile di impugnativa. In passato la mancanza di qualunque controllo faceva sì che il legislatore potesse commettere qualsiasi arbitrio, ma per l’avvenire questo non sarà più possibile.

FABBRI si associa all’onorevole Codacci Pisanelli, ma rileva che le sue osservazioni portano ad escludere una qualsiasi casistica e non la consacrazione di un principio generale, specie se formulato in termini così precisi come il riferimento ad una sentenza civile o penale del magistrato ordinario. Si tratterebbe, in sostanza, di un concetto elementare, la cui violazione costituirebbe appunto il presupposto per una possibile impugnativa.

LEONE GIOVANNI fa rilevare che la tendenza attuale è quella di arrivare alla abolizione di tutte le giurisdizioni speciali. Ma se mai dovesse decidersi di far sussistere qualche giurisdizione speciale, si domanda perché tale giurisdizione non dovrebbe avere la facoltà di comminare la decadenza dai diritti elettorali. Si augura che ciò non avvenga; ma in caso positivo sarebbe strano che una giurisdizione avesse la facoltà di condannare a morte un cittadino e non quella di privarlo del diritto elettorale. Cita l’esempio della giurisdizione speciale (singolare invero nella sua composizione) che attualmente giudica dei delitti di rapina. Se sopravvivesse quest’organo giudiziario, sarebbe illogico dargli da un lato il diritto di applicare la pena di morte e impedirgli dall’altro di infliggere la connessa interdizione dai pubblici uffici.

MORTATI, Relatore, pensa che la questione si potrebbe risolvere risalendo ai principî fondamentali, stabilendo cioè una doppia garanzia: giurisdizionale e costituzionale. Crede perciò che non sia più il caso di insistere sulla specificazione del giudice ordinario.

LUSSU è d’avviso anch’egli che sia più opportuno rinviare la questione in sede di legge elettorale. Tuttavia, se la maggioranza della Sottocommissione non è di tale avviso, si dichiara contrario alla duplice specificazione, vale a dire a che la decadenza del diritto elettorale debba essere pronunziata per disposizione di legge od in forza di una sentenza, in quanto con tale dizione sembrerebbero obbligatorie per la decadenza, contemporaneamente, e una sentenza e una disposizione di legge. Se mai alla «e» sostituirebbe una «o», altrimenti tutta la norma diventerebbe inutile.

Richiama poi l’attenzione dell’onorevole Mortati sulla parola «personale», la quale potrebbe far pensare che siano esclusi dal voto i minorati fisici, per quanto mentalmente capaci di tale diritto. Ricorda che nelle ultime elezioni si è consentito di votare anche ai minorati fisici.

MORTATI, Relatore, spiega, che con l’aggettivo «personale» ha inteso riferirsi al fatto che il voto deve essere attribuito ad una singola persona. Ad ogni modo se l’aggettivo «personale» può far sorgere dubbi, non ha nulla in contrario a sopprimerlo.

PERASSI ritiene che debba essere mantenuta la congiunzione «e» di cui ha parlato l’onorevole Lussa. Infatti, una sentenza non può esser pronunziata se non in base ad una norma di legge. Quindi la congiunzione «e» è assolutamente necessaria.

ROSSI PAOLO osserva che è concetto comune quello di non ammettere esclusioni di ordine politico, amministrativo e morale. Pertanto la formulazione dovrebbe specificare che sono elettori della Camera dei Deputati tutti coloro che sono capaci ai sensi civili e che non siano stati condannati alla pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici; cioè tutti, salvo coloro la cui incapacità derivi necessariamente da una condanna penale.

MANNIRONI insiste perché la formulazione di questo principio fondamentale sia consacrato in un articolo della Costituzione senza rinviarlo in sede di legge elettorale.

Per quanto riguarda la formula proposta dall’onorevole Mortati, circa la questione della «e» e della «o», si dichiara favorevole a mantenere la «e», perché, se la legge esiste, dovrà pure essere applicata da un giudice e solamente attraverso la sentenza da questo emanata in applicazione della legge può aversi la necessaria garanzia costituzionale.

CODACCI PISANELLI osserva che molte volte possono esservi casi così evidenti per i quali la stessa autorità amministrativa può escludere un cittadino dall’elettorato, senza bisogno di arrivare ad una sentenza. Propone perciò che l’incapacità possa essere pronunciata dalla legge «o» da una sentenza.

ROSSI PAOLO è di parere contrario, nel senso che ritiene necessario mantenere la congiunzione «e» perché, se si vuole porre una limitazione, occorre che la decadenza dal diritto elettorale sia derivante, non solo da una disposizione di legge, ma anche da una applicazione della legge fatta dal giudice (e non da una Commissione speciale). Soltanto così si può avere la sicura garanzia di una pronuncia solenne quale è la sentenza. Se invece si usasse la «o» disgiuntiva, la decadenza potrebbe essere pronunciata anche da una Commissione elettorale.

FUSCHINI crede che sia più opportuno usare la lettera «o». Infatti, parlando di legge, si può intendere anche la legge elettorale, la quale naturalmente sancirà delle esclusioni e istituirà delle Commissioni elettorali che avranno l’incarico di eliminare coloro che, secondo la legge, non possono essere elettori. Così, per esempio, nella legge elettorale potrà essere stabilita la esclusione dei mendicanti e delle prostitute, senza bisogno che per queste categorie vi sia una speciale sentenza. A suo avviso, quindi, non vi è bisogno, per comminare la decadenza, della legge e della sentenza congiuntamente.

DI GIOVANNI ritiene che dovrebbe essere soppresso tutto il capoverso riguardante le esclusioni e propone di limitarsi alla sola affermazione del diritto elettorale. In questa sede si deve fare l’affermazione di principio sul diritto, mentre nella legge elettorale saranno precisati i criteri relativi alle eventuali esclusioni. In caso contrario la Sottocommissione rischia di perdersi in una lunga e forse inutile discussione su questioni di dettaglio che, a suo giudizio, esulano dall’attuale sede. Ritiene che tutte le discussioni finora fatte possano essere riprodotte con più profitto in altra sede.

TOSATO propone la seguente formula: «Tutti i cittadini acquistano alla maggiore età il godimento dei diritti politici. Nessuna eccezione potrà essere stabilita dalla legge se non in connessione a incapacità civile, o in dipendenza di sentenza penale».

TARGETTI crede che ci si trovi nell’impossibilità materiale di esprimere il concetto dell’onorevole Mortati, in modo da raccogliere il consenso di tutti. A suo avviso, la materia non può essere regolata altrimenti che con una casistica, in sede però di legge elettorale. Coloro che sono dell’opinione dell’onorevole Mortati avranno modo, in sede di discussione della legge elettorale, di trasfondere nella stessa i loro punti di vista. Se oggi si approvasse la formula proposta, si precluderebbe la possibilità di introdurre nella legge elettorale quei criteri e quei concetti che a ciascuno sembrano più logici.

Insiste pertanto sull’opportunità di non mettere ai voti la proposta dell’onorevole Mortati, bensì quella di rimandare alla Commissione, incaricata dalla elaborazione della legge elettorale, la determinazione dei casi di incompatibilità con l’esercizio del diritto elettorale.

PATRICOLO si associa alla proposta di rinviare alla legge elettorale la determinazione dei casi di esclusione. Se poi la Sottocommissione decidesse, invece, di occuparsi della questione, ritiene che non sarebbe sufficiente la formula proposta. In essa si specifica che l’esclusione dal diritto di voto debba essere stabilita soltanto per legge o per sentenza, ovvero per legge e sentenza. Ora, se per legge s’intende la legge elettorale, è necessario fare tale menzione; al contrario, se per legge s’intende la legge in generale, si fa un’affermazione pleonastica, in quanto non è ammissibile una sentenza che non sia emessa in forza di una legge.

FABBRI insiste sulla sua proposta, e osserva che rimandare la formulazione dei principî fondamentali dell’esclusione dal diritto di voto alla legge elettorale, significherebbe togliere ogni valore alla nuova Costituzione.

È necessario pertanto che nel testo della Costituzione sia chiaramente formulato il principio della esclusione dal diritto di voto, stabilendo cioè, che la esclusione non può derivare che da una sentenza civile e penale. Che questa poi debba essere conforme alla legge è pacifico.

Prega inoltre l’onorevole Mortati di chiarire perché propone l’aggiunta dell’espressione «giuridicamente capaci». Se si afferma il concetto che i cittadini elettori debbano essere maggiorenni e debbano godere dei diritti civili e politici, non è necessaria la specificazione «giuridicamente capaci».

MORTATI, Relatore, chiarisce che ha inteso riferirsi agli interdetti.

FABBRI osserva che in questo caso si avrà un impedimento che discende da una sentenza civile e la precisazione quindi non è necessaria.

MORTATI, Relatore, si dichiara favorevole alla proposta dell’onorevole Tosato, che corrisponde anche ai desideri dell’onorevole Fabbri.

DI GIOVANNI osserva che se la Sottocommissione insistesse sulla necessità di prevedere i casi di esclusione, si potrebbe adottare una formula generica, affermando il principio che tutti hanno diritto all’elettorato, salve le eccezioni stabilite dalla legge speciale.

MANNIRONI è del parere che la Sottocommissione dovrebbe decidere con precedenza sulla proposta dell’onorevole Ambrosini, di rinviare ad altra sede l’esame della questione.

Da parte sua però dichiara d’esservi contrario, ritenendo che la Costituzione debba limitarsi all’affermazione di principî fondamentali che salvaguardino i diritti dei cittadini in materia di voto.

Tra le varie formule proposte, miranti a questo scopo, preferisce quella suggerita dall’onorevole Rossi; in essa infatti chiaramente si afferma che non v’è alcuna possibilità di esclusione all’infuori del caso di interdizione dai pubblici uffici.

FABBRI concreta la sua proposta nella seguente formula: «La decadenza dal diritto elettorale può derivare soltanto da sentenza civile o penale».

NOBILE è d’accordo con l’onorevole Fabbri: preferisce però la dizione «legge e sentenza».

AMBROSINI ritiene che per ragioni tecniche, la materia dovrebbe essere considerata, in tutte le sue particolarità, in sede di elaborazione della futura legge elettorale, ma, dal momento che la discussione finora svolta è scesa alla considerazione dei supremi principî, e poiché la sua proposta di rinviare ad una legge futura la decisione in questa materia potrebbe dare l’impressione di un troppo tiepido riguardo per la libertà dei cittadini, è costretto a far prevalere il criterio politico, e perciò ritira la sua proposta.

TARGETTI e DI GIOVANNI dichiarano di far propria la proposta dell’onorevole Ambrosini.

LA ROCCA ha l’impressione che ci si metta su di un terreno che sconfina dall’ambito dei poteri della Sottocommissione. In sede di Costituzione debbono affermarsi solo i principî generali e si deve cercare di non addentrarsi in eccessivi dettagli. Gli sembra inoltre che si stia adoperando un linguaggio tecnico che rischia di non essere ben compreso nemmeno dai competenti in materia: c’è da prevedere facilmente, quindi, quale disastrosa impressione ne riceverà l’uomo della folla. Per queste considerazioni insiste affinché la Sottocommissione si limiti ad affermare il principio generale che il diritto al voto è riconosciuto ad ogni cittadino, naturalmente sulla base del suffragio universale, eguale, diretto e segreto, ecc. Una Costituzione deve rispecchiare la situazione del momento, ma non deve diventare un ostacolo inviolabile agli sviluppi futuri della società.

LAMI STARNUTI è favorevole alla proposta di rinvio della questione alla Commissione per la legge elettorale. Desidererebbe anche che fossero chiariti alcuni dubbi sull’applicazione del principio di carattere generale enunciato dall’onorevole Mortati. Con la formula proposta si ammettono, tra l’altro, i mendicanti all’elettorato. Ora, non c’è alcuna ragione di escluderli in via generale dal diritto di voto; ma ci sono i mendicanti ricoverati negli ospizi di mendicità, i quali nell’esplicazione del loro diritto di voto potrebbero subire, se non la violenza, certo l’influenza morale dei dirigenti dello ospizio, Potrebbero, dunque, esservi considerazioni che non consigliassero di ammettere questa categoria all’esercizio del voto. Inoltre, la proposta dell’onorevole Mortati potrebbe anche dar luogo in avvenire all’esclusione dal diritto elettorale di tutti coloro che sono stati condannati dai Tribunali speciali per la difesa dello Stato, e dai Tribunali ordinari per reati antifascisti, ed è certo che l’onorevole Mortati non vuole arrivare a tanto.

PICCIONI esprime l’avviso che sia preferibile votare uno degli emendamenti proposti, anziché rinviare l’esame della questione ad altra sede.

PATRICOLO dichiara che, in linea di massima, accetterebbe il rinvio della questione alla legge elettorale, ma vorrebbe che il rinvio fosse integrato da una formulazione più precisa dell’articolo in esame, così concepita: «salve le eccezioni previste dalla legge elettorale».

MORTATI, Relatore, osserva che tutta la questione sta nello stabilire se si vuole adottare una formula analoga a quella già approvata relativamente al godimento dei diritti civili e politici, oppure se si vogliono fissare i limiti nella Costituzione.

PATRICOLO ripete che, se si dovesse accettare la proposta di rinvio, occorrerebbe formulare l’articolo in maniera da consentire alla legge elettorale di stabilire limitazioni al diritto di voto.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta dell’onorevole Ambrosini, fatta propria dagli onorevoli Targetti e Di Giovanni, di rinviare alla legge elettorale l’esame dei casi di esclusione dal diritto elettorale.

AMBROSINI dichiara di astenersi dalla votazione.

(Non è approvata).

PRESIDENTE ricorda che restano allora da porre in votazione tre formule:

la prima, proposta dell’onorevole Tosato, è così concepita: «Tutti i cittadini acquistano alla maggiore età il godimento dei diritti politici. Nessuna eccezione potrà essere stabilita dalla legge se non in connessione a incapacità civile, o in dipendenza di sentenza penale»;

la seconda, proposta dall’onorevole Fabbri, è del seguente tenore: «La decadenza dal diritto elettorale può derivare soltanto da sentenza civile o penale al magistrato ordinario»;

la terza, proposta dall’onorevole Rossi è la seguente: «Nessuno può essere dichiarato decaduto dal diritto elettorale se non è condannato alla pena accessoria dell’interdizione dei pubblici uffici».

FABBRI e ROSSI PAOLO ritirano le loro proposte, aderendo a quella dell’onorevole Tosato.

LAMI STARNUTI dichiara che voterà contro ed, in via subordinata, propone la seguente aggiunta alla formula dell’onorevole Tosato: «fatta eccezione per le esclusioni di cui all’articolo 6 del decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946 n. 74.

PRESIDENTE prega l’onorevole Lami Starnuti di non insistere, perché nel testo di una Costituzione non si può far richiamo ad una legge precedente.

LAMI STARNUTI insiste affinché la sua aggiunta sia per lo meno inserita nelle norme transitorie.

BOZZI dichiara di condividere il concetto espresso nella formula dell’onorevole Tosato, ma non gli sembra completamente felice la forma. Vi sono due espressioni, «in connessione» e «in dipendenza», che non lo soddisfano.

LEONE GIOVANNI suggerisce la seguente dizione: «o come effetto di una sentenza penale».

LA ROCCA desidera sapere se la Costituzione che si sta elaborando deve essere una specie di nuova amnistia più larga di qualsiasi altra. Già ci si è trovati di fronte ad una legge elettorale che, con tutte le sue restrizioni, non ha escluso dal diritto elettorale ben note persone e categorie. Si domanda ora se con la formula in questione non si vogliano aprire le porte a tutti i gerarchi fascisti.

LEONE GIOVANNI tiene a dichiarare che la questione sollevata dall’onorevole La Rocca ha indubbiamente la sua importanza. Va ricordato in proposito che con l’attuale legge elettorale sono stati eletti deputati perfino vecchi gerarchi fascisti, ciò che è deplorevole. Per evitare il ripetersi di tale inconveniente, si potrebbe stabilire che solo la coeva legge elettorale potrà contenere limiti al principio costituzionale. Il testo della nuova Costituzione, però, in materia di esclusione dal diritto di voto, non può contenere che dei principî generali formulati sinteticamente, ed impedire inoltre che una maggioranza qualsiasi che vada al potere tolga arbitrariamente l’esercizio di voto a determinate categorie che si trovino in particolari condizioni. Il testo di una Costituzione deve sempre cercare di impedire il sorgere di arbitrî.

CALAMANDREI desidera chiedere un chiarimento all’onorevole Mortati circa un problema attinente non al passato, ma all’avvenire. Si è discusso se nella Costituzione possa essere stabilito un controllo sui partiti, e qualcuno ha proposto che uno dei compiti della futura Corte Costituzionale sia anche quello di controllare i partiti per accertare se essi rispettino il giuoco democratico e possano essere ammessi alla vita politica legale dello Stato. È questo un argomento su cui si possono avere opinioni diverse. In ogni modo, nel caso che il controllo sui partiti sia ammesso, si può fare la seguente ipotesi: se in un domani dovesse sorgere un partito che ponesse come base della sua attività politica il principio dell’antropofagia per risolvere le questioni sociali, gli appartenenti a un tale partito potranno essere ammessi all’elettorato attivo e passivo, ovvero esserne privati? Gli sembra che questo sia un argomento di più per rinviare ad altra sede la risoluzione del problema in questione.

MORTATI, Relatore, non crede pertinente al problema in discussione il caso accennato dall’onorevole Calamandrei. In sostanza possono esservi molte associazioni illegittime i cui componenti, però, possono egualmente essere ammessi al voto. Nel diritto francese vi è una disposizione che stabilisce il divieto di associazioni che tendano al mutamento della forma dello Stato. Nel nostro diritto potrebbe così essere stabilito il divieto di associazioni di anarchici: il che non escluderebbe che i singoli associati potessero votare, fin quando una sentenza non togliesse loro la capacità giuridica.

PRESIDENTE dà lettura dell’emendamento dell’onorevole Tosato, nel seguente nuovo testo concertato dal proponente con gli onorevoli Bozzi e Leone Giovanni:

«Tutti i cittadini acquistano alla maggiore età il godimento dei diritti politici. Nessuna eccezione può essere stabilita dalla legge se non in conseguenza di sentenza civile o penale».

LEONE GIOVANNI direbbe piuttosto: «se non come conseguenza di sentenza civile o penale».

TOSATO dichiara che, dopo nuova riflessione, preferisce mantenere la formula: «Tutti i cittadini acquistano alla maggiore età il godimento dei diritti politici. Nessuna eccezione potrà essere stabilita dalla legge se non in connessione a incapacità civili, o in dipendenza di sentenza penale».

DI GIOVANNI proporrebbe di modificare così l’ultima parte della formula dell’onorevole Tosato: «Nessuna eccezione potrà essere stabilita se non per legge».

LUSSU ritiene che la prima parte della formula proposta sia pleonastica, dato quanto in precedenza è stato votato.

MORTATI, Relatore, osserva che nulla vieta di ritoccare l’articolo in sede di coordinamento.

FABBRI fa notare che in precedenza non si è votato un articolo preciso, ma unicamente si è stabilito di adottare per l’elettorato attivo il criterio della maggiore età.

PRESIDENTE pone ai voti l’articolo proposto dall’onorevole Tosato.

(È approvato).

La seduta termina alle 10.15.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Di Giovanni, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Lami Starnuti, La Rocca, Leone Giovanni, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Tosato, Uberti, Vanoni, Zuccarini.

In congedo: Amendola, Bordon, Grieco, Terracini.

Assenti: Maffi, Porzio.

MARTEDÌ 10 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

12.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MARTEDÌ 10 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

 

INDICE

Organizzazione costituzionale dello Stato (Seguito della discussione)

Presidente – Mortati – Fabbri – Cappi – Lussu – Bozzi – Rossi Paolo – Bulloni – Perassi – Nobile – Tosato – Piccioni – Leone Giovanni – Codacci Pisanelli – Conti – Mannironi – La Rocca – Di Giovanni – Patricolo – Ambrosini – Einaudi – Zuccarini – Lami Starnuti – Amendola.

La seduta comincia alle 17.10.

Seguito della discussione sull’organizzazione costituzionale dello Stato.

PRESIDENTE avverte che, acquisito il concetto del sistema bicamerale del potere legislativo, si pone ora la questione della formazione e del funzionamento della prima e della seconda Camera, e crede naturale cominciare dalla prima.

MORTATI concorda col Presidente. Il primo punto da esaminare, a suo avviso, è se vi siano principî di carattere elettorale da inserire nella Costituzione, sul quale argomento qualche accenno si trova nell’articolazione Conti ove si parla del sesso e dell’età. Vi sarebbero da prendere in considerazione anche altri elementi.

FABBRI crede necessario stabilire preventivamente se il tipo della legge elettorale debba essere consacrato nella Costituzione o rimandato alla legge elettorale stessa.

PRESIDENTE rileva che, in sostanza, si tratta di determinare se nella Costituzione si debba parlare di proporzionale o di collegio uninominale. Ma, seguendo l’articolazione Conti, la prima cosa da determinare è chi è elettore. Mette quindi in discussione l’articolo 1 proposto dall’onorevole Conti:

«La Camera dei Deputati è composta di cittadini di ambo i sessi, dell’età di almeno venticinque anni, eletti per quattro anni, a suffragio universale, uguale, diretto e segreto».

CAPPI domanda se sia opportuno rimandare alla legge elettorale taluni particolari, o se si debba inserire in questo articolo il principio della rappresentanza proporzionale, aggiungendo, dopo «a suffragio universale, uguale, diretto e segreto», le parole: «mediante il sistema proporzionale». Personalmente crede che sia questo un principio che meriti di essere inserito nella Costituzione, salvo a indicare nella legge particolare il sistema di proporzionale.

LUSSU crede fuori luogo stabilire qui le modalità elettorali: può essere fatto semplicemente un riferimento alla legge speciale, che verrà successivamente, ma senza impegnarsi sul sistema elettorale su cui esistono serie divergenze, così che occorrerà esaminare in apposita seduta la questione.

BOZZI concorda con quanto ha detto l’onorevole Lussu. Non gli sembra conveniente inserire in una Costituzione, che per di più sembra sarà una Costituzione rigida, il meccanismo del sistema elettorale. Un mutamento di opinione su questo punto comporterebbe una revisione della Costituzione col particolare procedimento che sarà stabilito; e ciò non gli sembra consigliabile.

L’onorevole Mortati ritiene che questo debba costituire uno dei presupposti dell’essenza stessa della Costituzione; contro di che egli pensa che, assai più del meccanismo elettorale, sia il principio dell’organizzazione della vita pubblica in forma di partiti che può influire sull’essenza della Costituzione.

ROSSI PAOLO osserva che la proposta specifica avanzata dall’onorevole Cappi di stabilire con la Costituzione il principio della rappresentanza proporzionale tocca una questione delicata, che sarebbe opportuno rinviare.

PRESIDENTE pensa che sia meglio esaminare intanto l’articolo proposto dall’onorevole Conti, salvo vedere poi se debba aggiungervisi qualche cosa.

Indubbiamente nella Costituzione la precisazione di chi è elettore non può mancare. Da taluno si vorrebbe dire che sono elettori tutti i cittadini maggiorenni. Ma bisogna allora precisare che cosa si debba intendere col termine «maggiorenne». Se alla parola «maggiorenne» si vuole attribuire il significato che ha nel diritto civile, si dovrà adottare una formula con la quale si stabilisca che il diritto elettorale attivo è riconosciuto ai cittadini italiani che hanno compiuto i 21 anni.

BULLONI fa osservare che la donna, passando a matrimonio, diventa maggiorenne anche se non ha compiuto i 21 anni.

PRESIDENTE suggerisce allora la formula. «Sono elettori tutti i cittadini italiani che abbiano compiuto 21 anni di età e godano dei diritti civili»; oppure: «sono elettori tutti i cittadini aventi il godimento dei diritti civili e politici, che abbiano compiuto i 21 anni».

FABBRI domanda se la precisazione insita nella parola «cittadini», di fronte a coloro che possono essere originari di territori non più sotto la sovranità italiana, non possa dar luogo a qualche problema di cui occorra preoccuparsi.

PERASSI richiama l’articolo della legge Crispi il quale consolida la figura dell’italiano regnicolo (detto questo nel senso francese della parola e non nel senso monarchico). Crede opportuno attenersi allo stato attuale della legislazione, secondo cui chi è italiano per nazionalità, ma non cittadino italiano, non è senz’altro elettore: ha soltanto un titolo per acquistare la cittadinanza italiana, prescindendo da altre condizioni.

NOBILE ha qualche dubbio circa l’età che si richiede ai cittadini. Si è espresso da taluno il desiderio che l’età sia portata a 18 anni. Nello schema di Costituzione francese e stata tenuta una via intermedia: criterio che potrebbe essere adottato o, per lo meno, discusso.

LUSSU, per quanto, allorché si tratterà di compilare il testo definitivo, occorrerà rivedere tutto, e sarà possibile aggiungere qualche concetto che sia stato omesso, osserva che la Costituzione dovrebbe contenere anzitutto un accenno alla sovranità popolare.

PRESIDENTE crede che l’affermazione della sovranità popolare sarà senz’altro accettata non appena se ne parlerà. Ma sarà una questione da esaminare in occasione della stesura definitiva della Costituzione.

TOSATO concorda col Presidente, anche perché quando si dice che sono eleggibili e sono elettori tutti i cittadini, ecc., è implicito in ciò il principio della sovranità popolare.

Non è favorevole all’accoglimento della proposta Nobile. Crede che l’età di ventun anni sia la minima ammissibile per l’elezione di un corpo che viene a porsi al vertice dello Stato, per la quale funzione occorre una certa maturità politica. Anche senza voler arrivare ai venticinque anni di altri tempi, l’età di ventun anni gli pare necessaria e armonica a tutto il sistema giuridico, perché a ventun anni si acquistano i diritti civili.

NOBILE osserva che ai giovani di vent’anni si impone il servizio militare e, se occorre, dopo un breve periodo d’istruzione, il combattimento. All’onorevole Tosato, che trova una disarmonia nel fatto che si ammetta il ventenne a dare il voto per l’elezione all’Assemblea legislativa, mentre non gode ancora i diritti civili, oppone che non è affatto giusto, e quindi non è possibile chiedere ad un cittadino di dare la vita per il proprio paese e negargli i diritti civili e politici. O si eleva l’età per il servizio militare a ventun anni, o si deve anticipare la concessione dei diritti civili e politici.

TOSATO risponde che i criteri che regolano il servizio militare sono diversi da quelli relativi al diritto elettorale attivo: per il primo si tratta di sviluppo fisico, mentre per il secondo si tratta di capacità politica, e la capacità fisica di portare le armi non coincide con la capacità politica.

PICCIONI pensa che, trattandosi di Costituzione, che afferma principî generali, sia sufficiente affermare il concetto che la Camera dei Deputati è eletta a suffragio diretto, universale e segreto, senza cristallizzare definitivamente l’età dell’elettorato attivo.

LEONE GIOVANNI concorda col collega Piccioni, e, in contrasto con l’onorevole Nobile, osserva che la diversità tra l’età del servizio militare e l’età per l’esercizio dei diritti sussiste nella nostra legislazione e anche in quelle straniere, non solo riguardo ai diritti politici, ma anche a quelli privatistici. Aderisce, quindi, alla fissazione dei ventun anni, in quanto la capacità politica richiede una maggiore età ed una maggiore esperienza.

BOZZI non è d’accordo con l’onorevole Piccioni, perché l’età è un requisito essenziale dell’elettorato attivo. Ma non si nasconde che si tratta di una valutazione piuttosto arbitraria. In favore della tesi dell’onorevole Nobile si potrebbe osservare che, per esempio, la capacità giuridica in materia di lavoro si acquista a diciotto anni. Personalmente però propende a ritenere che, nello specifico settore dell’elettorato attivo, il limite debba essere fissato a ventun anni, perché dà la garanzia di maggiore ponderazione e serietà, di maggiore inserimento dell’individuo nella vita sociale e politica del paese, che è soprattutto necessario all’esercizio di questo diritto.

LUSSU, per quanto concordi con l’onorevole Piccioni nel ritenere che non si debbono specificare i dettagli del sistema elettorale, crede che l’età debba essere fissata. Ma gli argomenti dell’onorevole Nobile non lo convincono: il servizio militare è obbligatorio per gli uomini e non per le donne, quindi quegli argomenti non riguardano più della metà degli elettori. Poi al giovane chiamato sotto le bandiere le armi in realtà si dànno solo più tardi, mentre l’elettorato si esercita senz’altro dal momento in cui lo si acquista. Perciò, malgrado la Costituzione francese abbia fissato il limite a vent’anni, ritiene più opportuno il limite dei ventun anni, che gli sembra risponda alle esigenze di un compito politico estremamente serio, quale è quello di eleggere un’Assemblea legislativa.

NOBILE fa osservare che egli ha proposto di elevare a ventun anni il limite di età per il servizio militare. Bisogna tener presente, tuttavia, che in tempo di guerra la preparazione del militare dura talvolta solo due o tre mesi, e spesse volte si mandano al fronte anche i giovani di diciannove anni. D’altronde trova un po’ arrischiato dire che a vent’anni un giovane non sia politicamente maturo. Sarebbe forse più giusto chiedere una maggiore maturità politica ai candidati; ma quando si stabilisce per questi il limite di venticinque anni, non vede perché si debba fissarlo a ventun anni per gli elettori. Se mai, sarebbe giusto ritornare ai trent’anni che un tempo erano richiesti per essere eleggibile.

CODACCI PISANELLI rileva dalla discussione l’opportunità di non stabilire qui il limite di età, tanto più che in altri rami del diritto il limite minimo è andato spostandosi; nel diritto privato, per i rapporti di lavoro i ventun anni sono stati ridotti a diciotto; in diritto penale, per la capacità di intendere e di volere, è stato pure spostato. Poiché la Costituzione deve fissare solo dei principî che abbiano una certa presunzione di stabilità, è opportuno non pregiudicare la questione. Lo Statuto Albertino è durato circa un secolo ed è da augurarsi che anche la nuova Costituzione abbia la stessa durata: quindi non è necessario precisare dati che probabilmente saranno nel frattempo variati in seguito all’evoluzione dei tempi. Propone perciò di lasciare la semplice formula che la Camera dei Deputati sarà eletta a suffragio diretto, universale e segreto.

FABBRI è favorevole a che sia stabilito il limite di età, perché non crede logico riferirsi, in questo campo, al diritto privato o pubblico che fissa vari termini per diverse specifiche funzioni: è naturale che occorra una certa età per la capacità patrimoniale, un’altra per il servizio militare, ecc. D’altra parte, nella Costituzione non si può non fissare l’età per l’ammissione all’esercizio di un diritto che concerne milioni di persone chiamate a partecipare alla vita politica del paese.

CONTI, Relatore, si associa all’onorevole Fabbri. Crede necessaria l’indicazione dell’età, la quale comporta l’esercizio di un diritto così fondamentale, e osserva che non c’è una Costituzione in cui l’età per l’elettorato attivo non sia prevista.

Propone di fissare questo limite di età a 21 anni e osserva che fra questa e l’età di 18 anni v’è una enorme differenza di maturazione.

Questi elementi sono stati valutati specialmente quando si sono compiuti gli studi per la riforma del Codice penale, e nella fissazione della responsabilità penale si è scesi ai diciotto anni perché, in base a considerazioni fisiologiche, si è considerato che a questa età si è capaci di capire quello che si fa, quando si ferisce o si uccide. L’esercizio del diritto di voto comporta invece una maturazione di vedute, almeno generiche, che non si consegue prima dei ventun anni.

MANNIRONI non avrebbe difficoltà ad aderire alla tesi che non si debba fissare fin da ora il minimo dell’età per l’elettorato; ma, ove si voglia fissarlo, aderisce al termine di ventuno anni, in omaggio alla tradizione giuridica italiana. Nella legge civile, infatti, è fissato a ventun anni l’acquisto della capacità giuridica del cittadino, ed egli non vede che il richiamo all’età per il servizio militare o all’età per il diritto al lavoro menomi il valore che ha il principio generale fissato nella legislazione civile, la quale stabilisce a ventun anni la piena capacità giuridica.

LA ROCCA, senza voler dire nulla che possa parere sconveniente, manifesta l’impressione che tutti concordino nel dire di voler progredire sul terreno democratico, ma in pratica molti si mostrino conservatori. Se veramente si intende rinnovare gli istituti, bisogna portare un soffio nuovo nella vita politica italiana e non porre ostacoli alla manifestazione della volontà di una categoria così larga, come quella della gioventù italiana.

Sostiene che si deve ridurre al minimo l’età per l’elettorato, perché un giovane, che a diciotto anni scrive, organizza, frequenta le università, lavora, dà il proprio contributo vivo nelle officine, sposa, costituisce una famiglia, non può non avere il diritto di partecipare alla vita pubblica. La maggiore decapitazione che si possa fare ad un cittadino è quella di privarlo della facoltà di partecipare alla vita pubblica e di portare il proprio contributo alla soluzione dei grandi problemi nazionali. Ora, i giovani che sopportano il maggior peso nei periodi di gravi crisi sociali, che sono i più interessati alle decisioni politiche, perché sono gli attori dei grandi avvenimenti nazionali, non possono essere messi in disparte.

DI GIOVANNI osserva che nella formazione delle Carte costituzionali di massima si fanno affermazioni di principio, rimandando le questioni specifiche di dettaglio alle leggi particolari. Quando si sia affermato il principio che l’Assemblea nazionale è eletta a suffragio universale, eguale, diretto, e segreto, si è esaurito il compito inerente alla formazione della Carta costituzionale, e le condizioni sotto le quali sarà ammesso il cittadino ad esercitare il diritto dell’elettorato attivo saranno rimesse alla legge elettorale.

NOBILE, d’accordo con quanto ha detto l’onorevole Di Giovanni, propone il rinvio della discussione su questa questione, che non gli appare sufficientemente maturata. Non capisce, d’altra parte, come un giovane di venti anni, che da due anni ha compiuto gli studi medi, possa esser ritenuto non maturo per poter scegliere il suo partito e il suo deputato.

PATRICOLO riconosce il valore delle ragioni addotte dall’onorevole Fabbri, per il valore politico che può avere la determinazione del limite di età.

Riferendosi a quanto ha detto l’onorevole Nobile, afferma che, se non è troppo elevato il termine di ventun anni per l’elettorato attivo, è certo troppo basso quello di venticinque per l’elettorato passivo, e propone che venga elevato a trent’anni. A chi teme che con ciò troppi giovani siano esclusi dalla vita politica italiana, osserva che i più giovani potranno passare nelle Assemblee regionali, prima di arrivare alle soglie di Montecitorio.

LA ROCCA non trova opportuno richiamarsi, come altri han fatto, alle tradizioni, che nella vita di un popolo costituiscono qualcosa di morto che bisogna superare, e insiste affinché all’Assemblea Nazionale siano portate energie fresche ed attive.

PRESIDENTE è personalmente d’avviso che sia necessario fissare il limite di età nella Carta costituzionale. La legge elettorale dovrà stabilire i modi con cui si esercita il diritto, ma il limite di età non è un modo; è elemento integrante, che definisce il soggetto del diritto. Le leggi elettorali potranno variare all’infinito, ma vi sono dati che non dovrebbero poter variare. Contrariamente a quanto qualcuno ha detto, la consuetudine di fissare nella Costituzione il limite di età è talmente larga, che astenersene costituirebbe un’eccezione. Non si deve essere pedissequi di fronte alle altre costituzioni; ma, per essere originali, non è necessario fare una cosa non comprensibile.

Circa la proposta di far riferimento al limite della maggiore età, osserva che questo limite non è intangibile, e se vi è una buona occasione, in cui anche il problema del limite della maggiore età possa essere affrontato, questo è certo l’attuale.

Il problema della maggiore età è attinente ad elementi di carattere fisiologico e di carattere intellettuale, e l’Assemblea Costituente è organo capace per valutare e contemperare. Non è sufficiente dire che nella legge civile è stabilito il limite della maggiore età; non si deve cercare come punto di riferimento tutto ciò che è stabilito, perché si sta ora lavorando proprio per modificare lo stabilito, altrimenti la Costituente non avrebbe ragion d’essere, o si limiterebbe a confermare l’ordinamento precedente.

Pensa che sia opportuno diminuire a venti anni il limite di età per l’esercizio del diritto elettorale, e se la legge civile diminuisse corrispondentemente a vent’anni il limite della maggiore età, non ne subirebbe certo alcuna scossa la vita italiana. In pratica è già nella generale convinzione che i venti anni non costituiscono differenza sostanziale dai ventuno o dai venticinque, anche per quello che riguarda il diritto matrimoniale, specie in riferimento agli usi dell’Italia centro-meridionale. E quanto al punto di vista della formazione intellettuale, si è tutti convinti che, date le condizioni della vita moderna più febbrile e più rapida nel suo sviluppo, una sufficiente maturità è raggiunta anche prima dell’età stabilita in passato.

Quanto, al servizio militare, pur essendo giusto che per questo si ha riguardo alla robustezza fisica, non si può dimenticare che il servizio militare ha pure un contenuto spirituale e ideologico, onde i giovani chiamati al servizio militare devono essere anche in condizioni intellettuali di sentire e di valutare l’uso delle armi a cui sono chiamati.

Perciò propone di fissare nella Costituzione il limite di età e che per questo non ci si irrigidisca sui ventun anni tradizionali, ma si scenda ai venti.

Mette in votazione il concetto che si debba fissare un limite di età.

(È approvato).

PERASSI, circa il limite di età, per non pregiudicare attualmente la questione, propone di adottare la formula che sono elettori tutti i cittadini italiani maggiorenni, spiegando che il significato della proposta è questo, che se la legge comune abbasserà il limite della maggiore età da ventuno a venti anni, questo abbassamento avrà effetto anche per la legge elettorale.

PRESIDENTE credo però che una simile decisione sarebbe generalmente intesa nel senso che si vuole indicare l’età di ventuno anni secondo la legge civile attualmente in vigore, perché la prima legge elettorale, cioè quella da cui sorgerà la prima Assemblea legislativa, sarebbe applicata sotto l’impero dell’attuale legge civile, che nel frattempo non si avrebbe il tempo di modificare.

CODACCI PISANELLI ritiene che la proposta Perassi non risolverebbe la questiono perché, se nel diritto privato il limite della maggiore età è fisso, nel diritto pubblico è invece oscillante. E poiché il diritto elettorale fa parte del diritto pubblico, mancherebbe quel preciso riferimento di diritto generale che si vuole ottenere.

PERASSI trova eccessiva la preoccupazione dell’onorevole Codacci Pisanelli, perché il concetto di maggiore età è un concetto comune, che non viene infirmato dal fatto che norme speciali valgano in qualche caso di esercizio di diritti pubblici.

NOBILE insiste perché siano fissati i venti anni, osservando che, se si interessano i giovani il più presto possibile alla vita pubblica, si compie anche un’opera di educazione.

MORTATI si associa alla proposta dell’onorevole Perassi, non ritenendo decisive le obiezioni dell’onorevole Codacci Pisanelli. Il riferimento alla legge civile è la ragione logica della fissazione dei ventun anni, mentre le altre proposte non hanno alcuna giustificazione sostanziale. Intanto è possibile riferirsi al diritto civile, in quanto l’età di ventun anni è considerata come l’indice del raggiungimento di una maturità media; ed è a questa che bisogna riferirsi anche riguardo alla legge politica. Non si hanno elementi per affermare che si diventa maturi in politica prima che in altri campi. Si potrebbe dire che anche il limite dei ventun anni è un limite arbitrario, ma è il termine su cui la coscienza comune si fissa per presumere una capacità media.

L’argomento dell’età per il servizio militare non è probante, perché non v’è parallelismo fra le due capacità: si può anzi osservare che in tempo di guerra i giovani sono chiamati alle armi anche prima dei venti anni; e si dovrebbe allora abbassare ulteriormente il limite di età per l’esercizio dell’elettorato.

Per quanto riguarda il fattore educativo, osserva che l’educazione politica si matura con altri compiti, di partito, sindacali, ecc., che possono offrire largo campo di educazione politica ai giovani.

LUSSU propone che si dica esplicitamente che l’elettorato attivo si acquista a ventun anni.

FABBRI, circa l’ordine da seguire nella votazione sulle varie proposte, ritiene che quella dell’onorevole Perassi sia la più comprensiva, perché, pur riferendosi attualmente ai ventun anni, considera anche la possibilità di un eventuale abbassamento, che si attuerebbe qualora gli organi legislativi ritenessero di portare la capacità civile ai vent’anni. Quindi crede che dovrebbe avere la precedenza nella votazione.

AMBROSINI crede che la proposta Perassi sia da accettare, perché la determinazione della maggiore età dipende da una valutazione globale, fatta sempre con criteri contingenti. Se si stabilisse un’età inferiore a quella attualmente vigente per la determinazione della maggiore età, si giungerebbe a questa incongruenza che per l’esercizio del diritto elettorale, il più alto che vi sia, si richiederebbe un insieme di capacità minore di quello che l’ordinamento giuridico dello Stato richiede invece per negozi giuridici di importanza minore.

La proposta Perassi, invece, permette al legislatore, dopo queste discussioni che possono servirgli di orientamento, di risolvere a suo tempo il problema.

PRESIDENTE, poiché in definitiva il risultato non muta per l’ordine della votazione, mette ai voti la proposta che il limite per l’esercizio dell’elettorato attivo sia ridotto a diciotto anni.

(Non è approvata).

Mette ai voti la proposta che il limite sia fissato ai vent’anni.

AMBROSINI dichiara che si asterrà dalla votazione su questa proposta.

(Non è approvata).

PRESIDENTE deve ora mettere in votazione la proposta Perassi.

PICCIONI propone che la formula Perassi, la quale si riferisce alla maggiore età, sia completata con l’indicazione che «la maggiore età attualmente è di ventun anni», perché sostanzialmente le due proposte Perassi e Lussu coincidono.

BOZZI osserva che le due proposte non coincidono esattamente, perché la scelta dell’una o dell’altra ha influenza sulla procedura da seguire per eventuali modifiche, in quanto col sistema Perassi una modificazione della legge civile si riflette automaticamente sulla legge costituzionale; mentre ciò non avviene con l’altro sistema.

EINAUDI voterà per i ventun anni, anche perché è bene che qualunque deliberazione il legislatore voglia prendere in avvenire circa la determinazione della maggiore età ai fini civili, sia presa senza preoccupazioni politiche, cioè all’infuori delle pressioni e delle decisioni di carattere politico.

PRESIDENTE può allora mettere in votazione la formula dei ventun anni.

ZUCCARINI ha votato a favore della proposta per i venti anni, perché effettivamente oggi la vita è accelerata e quindi abbassare di un anno il limite di età non presenta alcun grave inconveniente; né si possono dimenticare le agitazioni che si sono avute per questo fra i giovani. Ma, se non si ottiene la maggioranza per nessuno dei limiti di età proposti, dovrà mettersi in votazione la proposta Perassi, sulla quale potrà pure non determinarsi una maggioranza.

PRESIDENTE mette ai voti la proposta dei ventun anni.

BOCCONI, a nome anche di altri commissari, dichiara che si asterrà da questa votazione perché intende votare a favore dell’ordine del giorno Perassi.

(Con 13 voti favorevoli e 13 contrari, la proposta non è approvata).

PRESIDENTE mette ai voti la proposta Perassi.

(Con 13 voti favorevoli e 13 contrari, la proposta non è approvata).

NOBILE propone di lasciare la cifra in bianco.

PRESIDENTE, dato l’esito della votazione, pensa che si dovrà rimettere la determinazione dell’età alla Commissione plenaria, tanto più che la prima Sottocommissione esaminerà lo stesso problema.

FABBRI si è astenuto dal votare sulla proposta dei ventun anni, perché sperava che ottenesse la maggioranza la proposta Perassi per la quale ha poi votato. Ma egli è favorevole all’idea di fissare l’età a ventun anni.

Osserva che la Costituzione ha carattere di prevalenza su tutte le leggi, compreso il Codice civile, e rileva che la Costituzione francese stabilisce che sono elettori tutti coloro che usufruiscono dei diritti politici e la maggiore età è fissata a 20 anni. Evidentemente, questa statuizione si ripercuote anche sul Codice civile francese, che parla ancora di 21 anni.

PRESIDENTE osserva che la prima Sottocommissione esamina il problema a proposito dei diritti politici e senza riferimento a diritti civili o ad altri aspetti.

La Commissione plenaria e più tardi l’Assemblea, tenendo conto del risultato delle singole votazioni, prenderanno le loro decisioni. Intanto l’articolo potrebbe essere così formulato:

«Sono elettori tutti i cittadini che abbiano compiuto l’età di…».

CODACCI PISANELLI, sulla proposta dell’onorevole Perassi, osserva che l’espressione «maggiorenne», mentre ha un significato preciso in diritto privato, perché, salvo l’eccezione stabilita nei rapporti di lavoro, vuol dire compimento dei ventun anni, nel campo del diritto pubblico non ha significato univoco: in alcuni rapporti significa diciassette, in altri diciotto anni. Per questo nella Costituzione francese, dopo aver detto che sono elettori i maggiorenni, si fissa la maggiore età ai 20 anni. Crede che anche nella Costituzione italiana una dichiarazione del genere potrebbe essere utile. Ma prima di introdurla bisogna tener conto delle sue conseguenze, perché ove si dicesse che la maggiore età per l’elettorato è fissata in ventun anni, se ne potrebbe facilmente inferire che in ogni caso la maggiore età nel campo del diritto pubblico è quella. Si tratta di una questione tecnica, non di una sottigliezza, in quanto che negli studi giuridici si tiene conto della differenza che v’è fra il significato che l’espressione «maggiorenne» ha nel diritto privato e quello che ha nel diritto pubblico.

PRESIDENTE è d’avviso che una aggiunta di questo genere alla formula Perassi complicherebbe le cose, perché una eventuale modificazione del limite di età nella legge civile dovrebbe implicare una revisione della Costituzione, cioè la messa in moto di tutto il relativo meccanismo: ed è appunto per evitare questo che l’onorevole Perassi aveva formulato in quel modo la sua proposta.

Comunque, tenendo presente la dichiarazione dell’onorevole Fabbri e l’elemento fornito dall’onorevole Codacci Pisanelli, si potrebbe domani rimettere in votazione la proposta dell’onorevole Perassi: «Sono elettori tutti i cittadini italiani che abbiano compiuto la maggiore età».

FABBRI domanda all’onorevole Perassi se accetterebbe di aggiungervi: «secondo la legge civile».

PATRICOLO osserva che il concetto di maggiore età è esclusivamente civilistico, così che quando si parla di maggiore età, si intende sempre riferirsi al diritto civile.

PRESIDENTE rinvia la votazione su questo punto alla prossima seduta e invita la Sottocommissione a discutere se sia necessario aggiungere alla affermazione della eguaglianza e dell’universalità del suffragio la formula: «i cittadini di ambo i sessi», avvertendo che in alcune proposte della prima Sottocommissione, dove si parla del diritto elettorale, è aggiunto questo inciso: «salvo coloro che sono stati privati di questo diritto in seguito a condanne o a norma di legge».

TOSATO propone questa formulazione:

«La Camera dei Deputati è eletta a suffragio universale, diretto e segreto dai cittadini maggiorenni (o «dai cittadini di ambo i sessi» se si crede di aggiungere questa specificazione) che godono dei diritti civili e politici (aggiungendo «e abbiano raggiunto l’età di ventun anni» se questa formula è accettata).

PRESIDENTE osserva che la formula «universale, diretto e segreto» è oramai usuale.

La formulazione riassuntiva dei vari punti sui quali si è discusso sarebbe, dunque:

«La Camera dei Deputati è eletta a suffragio universale, diretto e segreto dai cittadini di ambo i sessi che godono dei diritti civili e politici e che abbiano raggiunta l’età di… », oppure «l’età maggiore».

BOZZI crede opportuno premettere una affermazione di carattere generale che dichiari a chi spetta il diritto di voto; altrimenti questa affermazione rimane in ombra e si mette in prima luce la Camera dei Deputati.

MORTATI osserva che non è inopportuno mettere in luce la Camera dei Deputati, perché per l’elezione del Senato potrebbe essere fissata un’età diversa.

PRESIDENTE trova che, in realtà, o si distingue il modo di formazione delle due Camere, oppure si deve premettere un’affermazione fondamentale democratica come quella indicata dall’onorevole Bozzi.

MORTATI obietta che la proposta dell’onorevole Bozzi si riferisce alla parte generale sui diritti, mentre nella parte concernente l’organizzazione del potere legislativo può essere più congrua la formulazione dell’onorevole Tosato. Poiché la prima Sottocommissione-si occupa di questa stessa materia, sarebbe utile conoscere le sue conclusioni per prendere in considerazione eventuali proposte che riguardano la materia esaminata dalla seconda.

Fa notare inoltre che vi sono altri elementi che si riferiscono all’elettorato attivo: limiti derivanti dall’esercizio o dal non esercizio di determinate attività, dal possesso o dal non possesso di determinate qualifiche.

Vi è, ad esempio, il problema di coloro che non esercitano volontariamente un’attività lavorativa, a carico dei quali si potrebbe anche stabilire una limitazione, in relazione al principio che il lavoro è un dovere civile.

Vi è la questione del diritto all’esercizio effettivo del diritto elettorale. Vi sono Costituzioni che, secondo la tendenza moderna che vuol garantire le condizioni occorrenti a che le libertà divengano effettive, stabiliscono il diritto di coloro che prestano la loro opera al servizio altrui, di avere il tempo libero per poter esercitare i diritti costituzionali.

Vi è la questione del voto dei militari, e si tratta di stabilire se sia il caso di rinviarla alla legge speciale.

È anche da stabilire se si deve sancire il diritto «eguale», o rinviare questa materia ad una ulteriore determinazione, o mettere in discussione il punto relativo al voto plurimo.

Vi sarebbe infine la questione del voto obbligatorio, che tuttavia crede si possa rinviare.

CONTI, Relatore, ritiene che questa non sia materia di Costituzione, e, in ogni caso, che sia necessario formare una Costituzione di pochi articoli.

PRESIDENTE concorda con l’onorevole Conti. La Costituente dovrà redigere la legge elettorale, esaminando tutti questi argomenti. Solo è da risolvere nella Costituzione, a suo avviso, la questione del voto plurimo, e da risolverla aggiungendo la parola «eguale» alla formulazione Tosato, per escludere il voto plurimo.

TOSATO ha omesso volutamente la parola «eguale», proprio riferendosi all’opportunità di stabilire come limite del diritto di elettorato la dimostrazione di essere un elemento attivo nella vita della nazione. Troverebbe plausibile che nella Costituzione si stabilisse il principio per cui chi vive senza esercitare un’attività lavorativa è escluso dal diritto di voto.

Ritiene inoltre che sia opportuno fare un cenno all’obbligatorietà del voto, salvo a stabilire in quale forma e con quali limiti.

DI GIOVANNI non crede opportuno mettere in discussione il principio della obbligatorietà, che in ogni caso sarebbe un dettaglio da rinviare alla legge elettorale.

FABBRI ricorda che nelle discussioni fatte alla Costituente francese, sebbene si sia deliberato di rinviare tutta la materia alla legge elettorale, si è discusso sulla necessità di includere o di escludere l’obbligatorietà del voto in sede di formulazione della Costituzione. Su cinquecento votanti circa, si è avuta una maggioranza di cinque voti a favore della obbligatorietà.

Crede opportuno stabilire o escludere che il voto sia obbligatorio.

MORTATI osserva che le proposte fatte dall’onorevole Tosato sono indubbiamente di rilevanza costituzionale. Si può aderire al desiderio espresso dall’onorevole Conti di formulare una Costituzione concisa; ma bisogna preoccuparsi anche di sancire i principî fondamentali, che sono considerati da determinate forze politiche come basilari per un ordinamento dello Stato. L’escludere o includere coloro che non esercitano una attività lavorativa, lo stabilire o il negare il voto obbligatorio, come la proporzionalità o meno della rappresentanza, sono elementi che definiscono la fisionomia di un ordinamento politico e non possono perciò essere rimandati alla legge ordinaria.

LAMI STARNUTI non crede che l’obbligatorietà del voto abbia una tale rilevanza da richiedere che sia fissata nella Costituzione. Comunque, se la proposta sarà messa in votazione, voterà contro il voto obbligatorio.

Di rilevanza costituzionale gli pare invece la questione del voto eguale, ed egli accetta la proposta dell’onorevole Tosato di escludere coloro che non danno attività sociale al paese. Si dichiara assolutamente contrario al voto plurimo.

NOBILE è contrario alla proposta dell’onorevole Tosato, di togliere il diritto di voto a chi non lavora. Preoccuparsi di coloro che non esplicano un’attività sociale, è giusto, ma che cosa si farà allora contro coloro che esercitano un’attività antisociale? Comunque, crede che questa sia materia della legge elettorale e che non sia il caso di inserire nella Costituzione qualche cosa che non è ancora completamente maturata.

(La seduta, sospesa alle 19.25, è ripresa alle 19.50).

BOZZI osserva che i due problemi, se si debba limitare il diritto di voto a coloro che non esplicano una attività lavorativa e se l’esercizio del diritto di voto debba essere obbligatorio, hanno indubbiamente un valore costituzionale.

Il primo attiene alla titolarità del diritto; il secondo all’esercizio del diritto medesimo. Tralasciando per ora quest’ultimo, riguardo al primo teme che si rischi di fare una enunciazione accademica, ed anche pericolosa sotto il riflesso della disciplina giuridica di una enunciazione di questo genere. Chi dovrà dire se il cittadino lavora o non lavora? Bisognerà creare tutto un congegno di Commissioni, di accertamenti difficilissimi, i quali potrebbero dare anche luogo ad arbitrî. Perciò è contrario a far menzione di un tale principio, che sarebbe condannato a rimanere un’affermazione astratta, mentre nella Costituzione si debbono inserire principî positivi, con la consapevolezza che possano avere attuazione.

AMENDOLA è rimasto sorpreso dalla proposta dell’onorevole Tosato. Indubbiamente esistono persone che non svolgono un lavoro socialmente utile e vivono in modo parassitario; ma questa considerazione si raffredda dopo un attento esame. Non si possono, in una Costituzione, enunciare dei principî la cui realizzazione sia poi impossibile. Finché non si siano operate trasformazioni profonde nel corpo sociale e non si sia avviata l’economia italiana su nuove basi, una proposta simile è difficilmente attuabile. Si vuole togliere influenza politica ad alcune persone che vivono come «rentiers», ma, data l’organizzazione della vita economica sociale, non è soltanto col voto che si esercita l’influenza di questi ceti sociali: essi hanno altre leve di comando attraverso il mondo finanziario, il giornalismo e, quindi, non solo si farebbe una affermazione di difficile attuazione, ma, in pratica, non si eliminerebbe affatto l’influenza di queste forze legate a posizioni parassitarie. Si creerebbero molte complicazioni e non si darebbe una solida base al sistema democratico.

Se veramente si vuole realizzare un’affermazione di questo genere, bisogna inquadrarla in un complesso di norme innovatrici. Per il momento, essa rimane al di fuori del sistema che si sta creando.

L’onorevole Tosato propone poi il voto obbligatorio. La contraddizione tra le due proposte appare chiara. Comunque, crede inutile ripetere la discussione su questo tema che già è stata svolta a lungo alla Consulta Nazionale.

EINAUDI è contrario alla proposta di attribuire il diritto elettorale soltanto a coloro che lavorano, proposta che non è solamente ardita od audace, ma che risale a tempi ed a situazioni che non si verificheranno mai più. Se v’è una discussione che nella scienza economica non abbia mai portato ad alcun risultato, è proprio quella della ricerca di ciò che è il lavoro produttivo o improduttivo, lavoro sociale o antisociale. La iniziarono i fisiocrati, fu fatta da Adamo Smith, ma senza alcun costrutto, perché è impossibile trovare una definizione. Questa impossibilità scientifica, poi, non ha soltanto importanza teorica, perché dà luogo all’arbitrio. Le decisioni non sarebbero mai improntate ad un concetto oggettivo, ma soltanto a faziosità, con l’esclusione dei nemici di coloro che al momento dominano la formazione delle liste elettorali.

LUSSU, per quanto, da un punto di vista puramente teorico, sia d’accordo con la proposta Tosato, vede la difficoltà pratica della sua attuazione. I fannulloni, per essere privati del loro potere, dovrebbero essere prima privati del loro privilegio economico, il che è difficilmente attuabile nell’attuale situazione. Ove fosse sancita una simile limitazione, i detentori di quel privilegio avrebbero le più ampie possibilità di nascondere la loro inattività, e continuerebbero a votare. È quindi contrario a quella proposta, almeno fino a quando non si giunga a trasformare la situazione presente.

È pure contrario al voto obbligatorio; quando il diritto al voto è concesso a tutti, chiunque abbia un’idea politica da manifestare può farlo liberamente. Ma costringere le persone a votare significa uscire dai limiti della libertà in cui si vuol rimanere. In tutti i corpi politici organizzati si hanno delle astensioni dal voto, e coloro che usano di questa facoltà non hanno diritto di pretendere che altri non possa astenersi.

PICCIONI, per una mozione d’ordine, domanda se la discussione su questo argomento si deve approfondire oppure se, risolta la questione del limite di età per quanto si riferisce al diritto elettorale attivo, tutto il resto, che riflette l’esercizio del diritto e i modi e le forme ed eventualmente le sanzioni, non debba essere senz’altro rinviato alla discussione della legge elettorale. Questo perché nella legge istitutiva della Costituente è previsto espressamente che questa debba redigere la Costituzione e, con una Commissione apposita, la legge elettorale. Se si intende oggi esaurire o pregiudicare le forme e i modi della legge elettorale in questa sede, evidentemente si va contro la regola fondamentale che deve stare a base del lavoro della Costituente.

Propone quindi che la discussione su questa materia sia rinviata all’organo più specificamente competente previsto; ché se invece si vuol farà una discussione, bisogna farla in modo approfondito.

AMENDOLA concorda con l’onorevole Piccioni. Pensa però che si deve stabilire chi sono gli elettori, poiché è già stabilito il principio che tutto il potere deriva dal popolo e nel popolo è la fonte della sovranità. Se questa volontà popolare si esprime attraverso le elezioni, occorre fissare chi sono gli elettori ed il modo del voto, non il sistema elettorale, il quale può variare nel tempo, senza turbare la base costituzionale fondamentale.

PICCIONI crede che nella Costituzione sia sufficiente sancire che il suffragio universale, diretto, eguale e segreto spetta ai cittadini che abbiano raggiunto una determinata età.

NOBILE si associa a quanto ha detto l’onorevole Piccioni, ritenendo che si debba rimandare questa discussione alla Commissione speciale per la legge elettorale.

PRESIDENTE invita la Sottocommissione a decidere sulla inserzione del termine «eguale» accanto agli altri «diretto, segreto e universale».

TOSATO avverte, circa la distinzione del lavoro utile da quello non utile, che egli, con la sua proposta, si riferiva al caso del non lavoro assoluto. Non crede poi che esista contraddizione fra obbligatorietà del voto ed esclusione di determinate categorie di cittadini, perché una questione è la capacità elettorale, ed altra l’esercizio del diritto al voto. Comunque ritira la proposta ed accede all’inserzione nell’articolo del principio dell’eguaglianza.

PRESIDENTE legge il testo che sarebbe da votare: «La Camera dei Deputati è eletta a suffragio universale, eguale, diretto e segreto, dai cittadini di ambo i sessi che godano dei diritti civili e politici e abbiano raggiunto l’età…».

ROSSI PAOLO propone che si dica «da tutti i cittadini», per togliere ogni dubbio, dato che qui si è manifestato il proposito di escludere certe categorie di cittadini.

EINAUDI crede inutile quest’aggiunta perché il testo dice «suffragio universale».

ROSSI PAOLO rinunzia.

PICCIONI desidera sia bene stabilito che, non aggiungendosi la parola «obbligatorio» non si intende pregiudicare la soluzione del problema dell’obbligatorietà del voto che sarà discusso in sede di Commissione speciale.

PRESIDENTE gliene dà atto.

LUSSU esprime l’avviso che il termine «uguale» sia pleonastico.

FABBRI gli fa osservare che, con ciò, si conclude il voto plurimo.

CONTI crede che il testo ora letto dal Presidente dovrebbe essere preceduto da quello riguardante il modo di composizione della Camera.

PRESIDENTE osserva che sull’ordine delle varie disposizioni potrà discutersi in seguito e mette ai voti il testo di cui ha dato lettura.

(È approvato).

AMENDOLA crede che la norma, la quale precisa attraverso quali cittadini si esprime la volontà popolare nell’ordinamento democratico italiano, dovrebbe essere lasciata a sé, senza legarla all’elezione della Camera dei Deputati.

PRESIDENTE riconosce che manca una affermazione del tipo di quella che sta alla base di ogni sistema democratico. La democrazia si è sviluppata principalmente in relazione al diritto elettorale e ha raggiunto la sua piena affermazione col suffragio universale. La nuova Costituzione, che vuole essere democratica, dovrebbe contenere un’affermazione di questo genere, altrimenti si avvertirebbe la mancanza del punto di partenza. Il che non esclude che là dove si tratterà del modo di formazione della seconda Camera si potranno eventualmente indicare i modi particolari.

Propone che i due relatori Mortati e Conti prendano contatto coi relatori della prima Sottocommissione per conoscere come sono stati formulata gli articoli relativi.

MORTATI trova opportuna la proposta del Presidente dal punto di vista dell’economia del lavoro comune, cioè del coordinamento del lavoro delle varie Sottocommissioni.

(La proposta del Presidente è approvata).

La seduta termina alle 20.40.

Erano presenti: Ambrosini, Amendola, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Cappi, Codacci Pisanelli, Conti, Di Giovanni, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Lami Starnuti, La Rocca, Leone, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Ravagnan, Rossi Paolo, Terracini, Tosato, Uberti, Vanoni, Zuccarini.

In congedo: Bordon, Grieco.

Assenti: Calamandrei, Castiglia, De Michele, Maffi, Porzio, Targetti.

SABATO 7 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

11.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI SABATO 7 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Organizzazione costituzionale dello Stato (Seguito della discussione)

Porzio – Presidente – Lussu – La Rocca – Lami Starnuti – Nobile – Ambrosini – Ravagnan – Targetti – Mortati – Uberti – Fabbri – Piccioni – Einaudi – Castiglia – Finocchiaro Aprile – Perassi – Mannironi.

La seduta comincia alle 10.45.

Seguito della discussione sull’organizzazione costituzionale dello Stato.

PORZIO dopo avere ascoltato i discorsi dei vari oratori, specie quelli degli onorevoli Ambrosini e Lussu, avrebbe voluto pregare il Presidente di porre in votazione la questione di principio: sistema monocamerale o sistema bicamerale? Perché, adottato l’uno o l’altro sistema, al momento opportuno si potrà disciplinare il sistema accettato. Non è, infatti, possibile dire che, se non sono accolte determinate condizioni del sistema bicamerale, si vota per il sistema monocamerale, perché si tratta di due principî troppo diversi, di due concezioni troppo dissimili l’una dall’altra.

Del resto, qui tutti sono convinti che bisogna adottare il sistema bicamerale. E allora tanto vale dirlo senz’altro. Si fanno da taluni delle riserve, cioè da quelli che hanno predilezione per il sistema monocamerale, che è stato respinto in Francia; ma il fatto è che tutti riconoscono che bisogna adottare quello bicamerale.

E allora sorge una questione, perché taluni vogliono una vera Camera alta o Senato elettivo (anche su questo si è d’accordo), mentre altri ammettono la Camera alta, o Senato, per una specie di transazione sul progetto, e quindi la riducono ad una sorta di consulta. Ebbene, il popolo italiano è un popolo non solamente sconfitto, ma disfatto; ha perduto la guerra, ma non l’intelletto; si può risollevare sul terreno intellettuale e sul terreno giuridico e, senza tanti richiami all’America, all’Inghilterra, alla Francia e perfino alla Norvegia, può creare una cosa italiana, il Senato italiano! Il Senato deve rispondere a particolari esigenze volute dal popolo italiano, dal costume del popolo italiano che si evolve, che è progressista, ma che nel fondo della sua coscienza vuole un organo moderatore, equilibratore.

Perciò prega il Presidente di porre in votazione il sistema bicamerale e quello monocamerale. Approvato il sistema bicamerale, si potrà passare al modo di elezione del Senato. Si è parlato del metodo che bisogna seguire per l’elezione delle Assemblee regionali; e allora si cadrebbe in errore se non si creasse un sistema armonico, col quale si possa formare la nostra organizzazione.

Tutti sono favorevoli ad un Senato elettivo salvo l’eccezione della nomina di una diecina di senatori da parte del capo dello Stato. Per suo conto è favorevole a questa nomina eccezionale, perché l’Italia deve avere una rappresentanza elevata, e certe personalità insigni della politica, della scienza e dell’arte non potranno entrare alla Camera, non potendo affrontare la lotta elettorale, che stanca ed esaurisce. Alcune personalità a scelta del Presidente della Repubblica debbono entrare nel Senato. Ma, all’infuori di questi, i senatori debbono essere nominati dagli elettori.

Si vedrà in seguito quali dovranno essere gli elettori, tenendo conto delle regioni, delle organizzazioni sindacali, delle organizzazioni professionali: e si avrà un corpo elettorale con una base un po’ diversa da quella che ha la Camera dei Deputati.

Il Senato esiste dovunque: in Francia, in Inghilterra – ove, checché se ne dica, la Camera dei Lords dirige – esiste in America ed anche in Russia. Non si comprende perché non debba esistere in Italia. E allora si deve fare questa riforma, concepita come deve essere concepita in terra latina.

In Francia, la Repubblica fu creata da Gambetta, il quale le diede la seconda Camera e mantenne in carica anche i senatori appartenenti al Senato dell’impero, animato, come era, da volontà di unione e di concordia nazionale. Senza arrivare a questo, si può, in Italia, creare una repubblica latina con quel Senato che in Francia fu concepito come freno, come moderazione, come riesame; come, insomma, una cosa utile ed efficace nel meccanismo dello Stato.

Perciò, prega il Presidente di far procedere senz’altro alla votazione sul sistema, salvo a decidere in seguito sui dettagli relativi alla nomina dei senatori; e propone il seguente ordine del giorno: «La seconda Sottocommissione approva il sistema bicamerale».

PRESIDENTE comunica che gli onorevoli Bozzi ed Einaudi gli hanno presentato il seguente ordine del giorno:

«La seconda Sottocommissione riconosce la utilità del sistema bicamerale, che esprime la rappresentanza di tutte le forze vive della società nazionale».

Crede che, prima di votare sull’ordine del giorno presentato dall’onorevole Porzio, sia necessario terminare la discussione iniziata.

PORZIO non ha difficoltà a ritirare l’ordine del giorno, che ha presentato per semplificare la. discussione, e ad aderire a quello presentato dagli onorevoli Einaudi e Bozzi.

LUSSU rinunzia alla parola, riservandosi di fare una dichiarazione di voto.

LA ROCCA fa analoga dichiarazione.

LAMI STARNUTI, circa l’eventuale formazione della seconda Camera attraverso i Consigli regionali, precisa che egli pensava ai Consigli regionali per l’elezione indiretta di secondo grado della Camera delle Regioni, analoga al Consiglio dei Cantoni in Svizzera; non per l’elezione di una seconda Camera.

Non avrebbe, del resto, difficoltà ad aderire al suggerimento dell’onorevole Ambrosini di dare il voto elettorale per la seconda Camera ai consigli comunali ed eventualmente ai consigli provinciali (se le provincie dovessero rimanere); ma ritiene che non vi sia possibilità tecnica di organizzare i consigli comunali ed eventualmente i consigli provinciali come organi di secondo grado per la elezione della seconda Camera, a meno che non si tratti di costituire un collegio vero e proprio di secondo grado per la nomina dei componenti della seconda Camera, analogo al collegio dei delegati per la nomina del Presidente degli Stati Uniti d’America. I consigli comunali, provinciali e regionali dovrebbero cioè delegare gli elettori senatoriali. All’infuori di questo sistema non vede come la elezione dei membri della seconda Camera potrebbe essere organizzata attraverso i consigli comunali e provinciali.

NOBILE desidera aggiungere alcune argomentazioni in sostegno della sua tesi, decisamente contraria alla istituzione della seconda Camera.

Gli argomenti che vengono comunemente addotti a difesa della seconda Camera sono: opportunità di un più accurato esame nella legge; necessità d’un organo moderatore e opportunità di chiamare a collaborare alla preparazione delle leggi gli esponenti delle varie categorie sociali.

Orbene, non è col creare un duplicato che si può garantire un buon esame della legge. La qualità della discussione in questo argomento vale assai più della quantità, e quando si discuterà del funzionamento della Camera legislativa, si potrà vedere quali accorgimenti sia possibile adottare affinché i disegni di legge vengano accuratamente esaminati.

In secondo luogo, una Camera di rappresentanti dei vari interessi che si agitano nel Paese, i quali prendano parte direttamente alla discussione di questioni che li interessano, non offrono migliore garanzia di obiettività dell’Assemblea. La seconda Camera dovrebbe essere costituita, secondo quello che è stato detto, da rappresentanti dell’industria, del lavoro, del commercio, della cultura, delle arti, e così via. Ma i sindacati, le associazioni professionali, le organizzazioni industriali e commerciali, gli istituti di cultura ecc., hanno anche nella Camera unica il modo di far sentire e di far pesare le loro opinioni e di agitare questioni; e possono anche indirettamente provocare la presentazione di progetti di legge. Basta, per convincersene, esaminare l’elenco dei deputati alla Costituente. In questa Assemblea si trovano sessantanove professori universitari; e se ne andassero un’altra settantina alla seconda Camera, troppi professori non avrebbero più tempo né di studiare né di fare studiare gli altri. Ci sono poi trentasei professori medi, centocinquantatré avvocati, ventinove medici, ventisei ingegneri, sedici industriali; e tutti possono essere i portavoce delle rispettive categorie. Ci sono ancora quindici organizzatori, quindici operai, nove agricoltori, sei commercianti, quattro bancari, sei commercialisti, perfino un armatore. Ci sono rappresentanti dei vari consessi statali: tre magistrati, un Consigliere di Stato, sette ferrovieri, quattro generali ed anche un editore ed un notaio. Quindi le varie categorie economiche del Paese non potrebbero essere meglio rappresentate.

Considerando poi la questione da un altro punto di vista, dal quale di solito queste questioni non vengono considerate, cioè da un punto di vista economico e delle attuali condizioni economiche del nostro Paese, si deve ricordare che il Paese è ridotto alla più estrema miseria, col bilancio dello Stato in condizioni disastrose, e non si può, senza un’assoluta necessità, duplicare gli organi statali. Senza fare un conto dettagliato, una valutazione sommaria conduce a concludere che la spesa occorrente per una seconda Camera sarebbe dell’ordine di grandezza di un miliardo, e questo è un argomento che oggi in Italia ha il suo peso.

Ricorda come già sia stato fuori di qui rilevato che «un Parlamento non è un collegio di esimi periti; se lo fosse, darebbe risultati ancora più mediocri di quelli che dà, perché, se uno è eccellente negli affari o in meccanica o in economia o in medicina, questa non è una ragione per credere che sia all’altezza del compito peculiare del Parlamento. Questo, nella sua essenza, sembra consistere in quattro cose: saper maneggiare gli uomini, vedere le questioni che occorre trattare, giudicare a quali si deve dare la precedenza per l’importanza che hanno, avere la forza e il coraggio di dare alle soluzioni proposte un esito favorevole. L’assemblea non è un corpo di statisti, ma è un campionario medio di uomini comuni avviati ora su questa, ora su quella strada, da spinte dell’opinione pubblica».

AMBROSINI si limiterà a rispondere al quesito che proponevano i precedenti colleghi. Per il caso che fosse decisa, in via di massima, la costituzione di un Senato, dando una rappresentanza agli interessi territoriali, egli ha prospettato la possibilità che, oltre agli interessi regionali come tali, abbiano una rappresentanza gli interessi territoriali dei comuni e delle provincie, (ove queste vengano mantenute). A costituire questa rappresentanza si potrebbe pervenire con una elezione di secondo grado. Lo stesso sarebbe forse per la rappresentanza regionale. Comunque, la rappresentanza degli interessi territoriali dei comuni e delle provincie potrebbe avvenire attraverso un collegio provinciale composto su per giù a questo modo: dai deputati della provincia, dai consiglieri provinciali e dai deputati provinciali, dai membri elettivi in carica della Giunta Provinciale Amministrativa o dell’organo che le venisse sostituito, dai componenti del Consiglio provinciale scolastico, della Commissione provinciale di assistenza e beneficenza, ed infine, per quanto si riferisce ai comuni, dai sindaci e dai delegati dei consigli comunali, secondo una certa proporzione.

Poiché è stato osservato che non sarebbe giusto affidare a tutti i comuni lo stesso numero di delegati per questa elezione, sia pure di secondo grado, dichiara che conviene in ciò completamente. Ma appunto per questa ragione aveva parlato di proporzione: il numero dei delegati dei consigli comunali sarà diverso, in proporzione del numero dei consiglieri comunali, o, come altri dice, della popolazione, il che è lo stesso.

Quindi le difficoltà di indole pratica, a cui alcuni colleghi hanno accennato, possono essere superate con l’adozione di questo criterio di proporzionalità nella determinazione dei delegati dei consigli comunali.

RAVAGNAN esprime l’opinione che alla base di molti dei discorsi pronunciati sull’argomento sia il presupposto che si debba preparare con accorgimenti e congegni legislativi un correttivo del suffragio universale, affinché i rapporti politici e lo schieramento politico che ne derivano siano spostati, per corrispondere, non più ai rapporti reali quali sono nel Paese, ma ad una specie di schema più o meno precostituito e corrispondere ad un concetto politico determinato. La seconda Camera non sarebbe più una Assemblea legislativa che concorre con propria autonomia alla preparazione delle leggi, ma sarebbe in primo luogo un freno, un correttivo della prima Camera.

La discussione attuale si svolge evidentemente, nella mente di molti colleghi, sulla base della seconda parte dell’ordine del giorno Perassi, intesa a trovare i mezzi per impedire il supposto prepotere della prima Camera: e la seconda sarebbe uno di questi mezzi. Questa impressione, la cui fondatezza gli sembra incontestabile, è alla base dell’atteggiamento tenuto in occasione del voto dell’altro giorno e ispira l’ordine del giorno presentato dai colleghi Rossi, Lami Starnuti ed altri.

Vi è stato anzi un collega il quale ha affacciato l’ipotesi di un prepotere della maggioranza della prima Camera, la quale potrebbe sopraffare la minoranza, nel qual caso, egli ha detto, si giustificano i correttivi costituiti dalla composizione della seconda. Per tal modo la seconda finirebbe in pratica per costituire come un rafforzamento della minoranza della prima.

Ed infatti se, per esempio, venisse ad essere accettato il criterio che una parte dei membri della seconda Camera fossero di nomina presidenziale o chiamati a farne parte per cooptazione, si verificherebbe in pratica qualche cosa di simile a quel che avveniva all’epoca del vecchio Senato nel periodo parlamentare prefascista, quando i candidati ministeriali caduti alle elezioni venivano nominati senatori: verrebbero chiamati a far parte della seconda Camera uomini che il suffragio universale non avrebbe eletto, o non sarebbero stati nemmeno designati candidati, cosa che implica un determinato giudizio politico contro cui la loro nomina si porrebbe.

Non può quindi accettare il sistema della nomina presidenziale, né quello della cooptazione.

Circa le categorie economiche, i Corpi accademici ed Ordini professionali che si vorrebbero far concorrere insieme con le Assemblee regionali alla elezione della Seconda Camera, osserva in linea generale che quando si afferma, e giustamente, che il popolo elegge i deputati, si intende il popolo indifferenziato, perché i suoi rappresentanti debbono legiferare non in nome di interessi particolari, ma sulla base degli interessi generali; di qui, e cioè, dall’apprezzamento della composizione degli interessi generali nasce la legge. Se invece si attribuisce potere legislativo a rappresentanti i quali esplicitamente esprimono interessi determinati, questi rappresentanti verranno a difendere interessi particolaristici in contrapposto con gli interessi generali. È evidente che non si devono trascurare tali interessi, ma non si può attribuire a coloro che li rappresentano la facoltà di legiferare sulla base di questi. Essi avranno diritto di essere consultati e niente vieta che si stabilisca che diventino effettivamente una cosa seria, organica e fattiva taluni organi, come il Consiglio superiore del lavoro, il Consiglio superiore della pubblica istruzione, dei lavori pubblici, delle belle arti, ecc.

Altro rilievo molto importante è che questi Corpi ed Ordini disporrebbero di due voti: uno che verrebbe dato dai singoli componenti di essi per le elezioni alla prima Camera, l’altro che darebbero come Corpo alla seconda: onde una specie di anacronistico ritorno agli ordini privilegiati. Così l’onorevole Bulloni ieri sera ha parlato, con schiettezza di cui gli va data lode, di voto plurimo. Ma, ove si accedesse a questo principio, si metterebbero in imbarazzo i membri della prima Sottocommissione, i quali, senza dubbio proporranno che la Costituzione proclami l’eguaglianza politica dei cittadini. Come sarebbe possibile affermare da un lato l’eguaglianza politica e dall’altro creare delle categorie di cittadini politicamente privilegiati?

Conclude che il presupposto aprioristico e artificiale del correttivo al suffragio universale deve essere abbandonato e che la seconda Camera deve essere eletta da un corpo elettorale composto solamente dalle Assemblee regionali. Stabilito questo principio, si potrà determinare la composizione numerica di questa seconda Camera e la sua competenza legislativa.

PRESIDENTE pensa che, per uscire dalla situazione complicata dei molteplici ordini del giorno presentati, si potrebbe accettare il criterio indicato dall’onorevole Porzio, di fare anzitutto una votazione sopra l’esigenza del sistema bicamerale, da tutti gli ordini del giorno affermata.

Rileva, tuttavia, che nel corso della discussione si è fatto presente il desiderio che questa accettazione sia diversamente legata ad alcuni elementi che avviano alla soluzione del problema. Quindi, dopo l’affermazione comune, si avrà contrasto circa l’elemento condizionale.

PORZIO concorda col Presidente e presenta un ordine del giorno puro e semplice: «La Sottocommissione approva il sistema bicamerale». Si procederà così con un ordine logico. Prima si stabilisce che si avrà una repubblica parlamentare (e questo è già fatto); ed allora si deve determinare quali sono i metodi per la proclamazione del Presidente della Repubblica. Qui interviene la questione della seconda Camera ed allora è anche logico che si dica se si deve adottare il sistema monocamerale o il sistema bicamerale. Approvato il sistema bicamerale, sarà stabilito che per l’elezione del Presidente della Repubblica l’Assemblea sarà formata dalla Camera dei Deputati e dal Senato. Dopo di ciò si dovrà discutere di tutte le questioni che sono state accennate sul modo di formare il Senato.

TARGETTI non crede che sia una questione di sostanza, ma per la forma osserva che, mettendo in votazione e approvando l’ordine del giorno Porzio, si turberebbe l’ordine della votazione, perché nessun altro degli ordini del giorno presentati potrebbe rimanere più così com’è, in quanto il principio delle due Camere sarebbe stato già adottato. Propone perciò di votare uno degli altri ordini del giorno per divisione.

MORTATI osserva che la discussione porrebbe essere abbreviata, se si cercasse di esaminare da vicino quali sono le ragioni del contrasto fra i vari ordini del giorno.

In sostanza l’ordine del giorno Mortati e quello Bozzi-Einaudi sono simili, e si differenziano da quello dell’onorevole Lami Starnuti semplicemente perché questo pone una condizione, cioè stabilisce che si accetta il sistema bicamerale, solo in quanto non si alteri il concetto della rappresentanza politica. Bisognerebbe esaminare questa condizione: se la si intende nel senso letterale dell’espressione, la seconda Camera non si potrà mai creare, perché tutte le seconde Camere sono fatalmente portate a spostare in qualche modo la fisionomia politica della prima. Anche quella norvegese, in sostanza, perché il semplice fatto, che essa sia più ristretta, altera in certo modo la fisionomia. Ma all’infuori di questa ipotesi, che poi è l’unica ed è difficilmente riproducibile in Italia, in un clima fisiologico completamente diverso, tutte le seconde Camere si differenziano dalle prime se non altro perché sono formate da individui di età superiore e il fattore dell’età è già un elemento differenziatore della fisionomia politica, e determina un funzionamento diverso.

Si può cercare di omogeneizzare le due Camere: egli non è d’accordo con quelli che vorrebbero vedere la seconda Camera in funzione di contrasto istituzionale con la prima, ma anche l’esigenza dell’omogeneità non si può estendere oltre certi limiti.

L’ordine del giorno Mortati esprime un concetto di completamento della rappresentanza politica: deve trattarsi di rappresentanza politica, non di rappresentanza di interessi. Non si intende la seconda Camera come rappresentanza professionale ma, se mai, di più grandi categorie, onde quest’ordine del giorno prospetta una seconda Camera che abbia una funzione politica, che non deve rispecchiare la prima, ma dev’essere una rappresentanza capace di esprimere interessi politici di carattere generale.

PRESIDENTE osserva che, dopo questo chiarimento, gli ordini del giorno potrebbero esser ridotti a tre: quello Porzio, puro e semplice, quello Lami Starnuti, e un terzo che potrebbe essere concordato fra gli onorevoli Mortati, Bozzi e Castiglia.

LAMI STARNUTI, poiché il suo ordine del giorno è più completo di quello dell’onorevole Porzio, crede che dovrebbe avere la precedenza e potrebbe essere votato per divisione: prima nella parte contenente parere favorevole alla istituzione della seconda Camera; e poi nella seconda che incomincia con le parole «a condizione che».

UBERTI non vede una differenza sostanziale tra gli ordini del giorno Lami Starnuti e Mortati, poiché anche l’onorevole Mortati non desidera una seconda Camera con una fisionomia di forze politiche diversa da quella della prima Camera e, per cercare questa corrispondenza, propone la pluralità delle fonti di derivazione.

FABBRI propone che i presentatori dei vari ordini del giorno si riuniscano separatamente per redigere non un testo unico, che è forse difficile concordare, ma una formulazione che si presti alla votazione per divisione delle sue varie parti.

LA ROCCA crede che i quesiti si pongano in questi termini: opportunità della creazione della seconda Camera; determinazione dei poteri che devono esserle attribuiti, ed innanzi tutto se convenga porla su di un piano di parità con la prima Camera. In caso di risposta affermativa a quest’ultimo quesito, occorre una estrema cautela nel determinare la composizione della seconda Camera. I commissari comunisti non accetterebbero mai che si istituisse una seconda Camera con gli stessi diritti e poteri della prima, ma formata con elementi tratti da una sorgente diversa, incerta ed aleatoria, perché, se così fosse, si verrebbe a riconoscere a determinate categorie di cittadini un doppio voto, laddove il Parlamento deve essere l’espressione della volontà di tutto il popolo.

MORTATI fa rilevare che, col sistema da lui proposto, tutti i cittadini, direttamente o attraverso elezioni di secondo grado, partecipano due volte alla votazione.

PICCIONI ritiene che l’ordine del giorno Porzio, che si limita ad affermare il principio della bicameralità, avrebbe potuto avere la precedenza in un’altra fase della discussione; non ora, dopo che la discussione si è ampliata al punto di fare affiorare le diverse opinioni fra le quali è divisa la Sottocommissione.

Tutti, eccettuato l’onorevole Nobile, sono d’accordo sul sistema bicamerale; ma il criterio informatore della seconda Camera, sia pure nelle sue grandi linee, non è evidentemente lo stesso nel pensiero dei componenti la Sottocommissione; tanto che nell’ordine del giorno Lami Starnuti, è detto che la creazione della seconda Camera dev’essere condizionata al fatto che non si alteri la fisionomia elettorale della prima. I commissari democristiani hanno un’altra visione della costituzione della seconda Camera, inutile scendere ai dettagli, ciò che sarebbe possibile solo se la divergenza investisse elementi formali, mentre investe la questione sostanziale.

In tali condizioni, o si rinvia l’ulteriore discussione sulle modalità dell’applicazione dell’uno o dell’altro criterio informatore; oppure, se non è ancora possibile affrontare il problema della sua integrità, si deve continuare la discussione sulle modalità pratiche di attuazione della seconda Camera e rinviare l’approvazione di un ordine del giorno concreto, pur tenendo conto fin da ora che effettivamente c’è un certo accordo sul criterio informatore della seconda Camera, anche se non è specificamente precisato.

Comunque, se si pensa di realizzare una seconda Camera, che riproduca sostanzialmente il gioco delle forze politiche che si svolge nella prima Camera, si pensa ad una cosa inutile, perché l’esigenza che si afferma creando la seconda Camera è un’esigenza di garanzia delle ragioni profonde del sistema democratico. La Camera unica costituisce un potenziale pericolo di queste profonde ragioni, perché in regime di Repubblica Parlamentare, con la maggioranza comunque costituita nella Camera unica, questa maggioranza, quasi fatalmente, è portata a comprimere in un primo momento e a sopprimere eventualmente in un secondo momento le ragioni della minoranza; mentre nella tutela della minoranza, senza che sia intaccato l’organismo sostanziale del regime democratico, stanno le ragioni più profonde del sistema democratico stesso:

Per evitare possibilità di questo genere, i democristiani, che hanno una concezione della funzionalità sociale in senso perfettamente organico e credono che, non soltanto l’individuo come tale abbia un valore e un peso decisivo nella vita sociale e politica della Nazione, ma che anche i gruppi abbiano un loro valore e peso da far valere, ritengono che questa concezione si debba riflettere nella seconda Camera, col preciso intendimento di garantire il sistema democratico. Il che non avverrebbe se la seconda Camera rispecchiasse esattamente la prima.

Occorre quindi decidere quale dei due criteri informatori si vuol seguire per la costituzione della seconda Camera; per passare poi, con maggiore concretezza, all’esame delle modalità di struttura della seconda Camera. Questo scopo sarebbe chiaramente raggiunto votando l’ordine del giorno Mortati, o quello Einaudi, o l’uno e l’altro fusi insieme, perché in questi è fissato un criterio informatore che si contrappone nettamente all’altro criterio che pure è stato qui esposto.

PORZIO chiede che si riponga la discussione nei suoi termini parlamentari. È stato presentato un ordine del giorno puro e semplice, e questo, in quanto tale, deve avere la precedenza su tutti gli altri.

Adesso si discute se bisogna scegliere il sistema monocamerale o quello bicamerale. Questo è il punto sostanziale. E allora non è perché vi sono divergenze circa il modo di eleggere i senatori che si può respingere il sistema bicamerale. Le modalità per creare questo sistema bicamerale rappresentano un’altra di quelle questioni sulle quali l’esame dovrà approfondirsi, fermo restando il principio. Si cercherà di trovare un sistema, nell’accordo di tutti; e se l’accordo non si avrà, chi otterrà la maggioranza vincerà. Ma non per questo si può dire che il principio essenziale, il punto di partenza debba essere abbandonato.

Chiede quindi che si voti l’ordine del giorno puro e semplice, salvo a passare poi ai vari ordini del giorno specifici. Quello Mortati si può fondere con quello di Einaudi e Bozzi. Vi saranno altri ordini del giorno. Ma questi, riguardando le modalità di applicazione, importeranno una discussione che sarà più breve, dopo risolta quella principale.

LUSSU crede possibile arrivare ad un accordo.

La formulazione dell’ordine del giorno Mortati, in quanto pone una condizione non rispecchia, a suo avviso, il pensiero di taluni dei colleghi della parte politica a cui l’onorevole Mortati appartiene; e, una volta affermata concordemente l’esigenza della seconda Camera, è probabile che una comprensione reciproca condurrà ad accettarla in quelle forme che siano conclusive. Spera che i colleghi Piccioni e Mortati si renderanno conto di alcune esigenze e che si passi ad impostare il problema in modo che quelle esigenze non siano accantonate e non si sospinga verso la Camera unica anche coloro che sono disposti ad accettare il sistema bicamerale.

Perciò suggerisce di votare, non sull’ordine del giorno Mortati, il quale pone una condizione che non rispecchia il pensiero di tutti, ma su quello Bozzi-Einaudi o su quello Lami Starnuti. Quest’ultimo soprattutto gli pare il più adatto, anche perché può dividersi in due parti da votarsi separatamente, e nella seconda parte darà l’occasione di meglio chiarire i differenti punti di vista e d’incontrarsi reciprocamente.

EINAUDI nella odierna discussione ha creduto di sentire l’eco delle più grandi discussioni che in materia sono state fatte in altri tempi.

Consapevolmente od inconsapevolmente, alcuni oratori si trasformano in seguaci e paladini delle idee illuministiche del secolo XVIII: quando si parla di due Camere, le quali devono derivare da una unica fonte – e, come è stato implicitamente accennalo da qualcuno, devono derivare unicamente dal popolo – in fondo, si riproduce la teoria della formazione degli stati del Rousseau, il quale aveva detto che tutta la fonte dei poteri sta unicamente nel popolo. Questa dottrina conduce alla conseguenza che vi debba essere una sola Camera; che se, per circostanze particolari, ci si decide ad ammettere anche una seconda Camera, questa deve uscire dalla medesima matrice della prima. Ma la conseguenza logica del sistema di Rousseau è che la sovranità popolare si concentra nella Camera, che è onnipotente. Essa ha una maggioranza e questa fa le leggi; contro queste leggi non c’è nessuna possibilità di giusta resistenza. Queste leggi devono essere obbligatorie per tutti; deve essere obbligatorio per tutti il Governo che esce da questa maggioranza eletta, che ha la sola sua sorgente nel popolo.

E ne vengono altre conseguenze, che del resto alcuni di quegli scrittori accettavano perfettamente. V’è un brano di Saint Simon, nel quale si dice: È la maggioranza che deve imporre le leggi; se avremo la maggioranza, dovremo, impedire che chiunque altro manifesti le proprie opinioni, perché la verità è quella che esce dalla maggioranza, dall’unica Camera (o dalle due Camere, se provengono dalla medesima sorgente). Queste altre conseguenze sono, dunque, i regimi totalitari, con quel che ne deriva. Questi regimi hanno come principio la teoria del contratto sociale di Rousseau.

Contro questa teoria abbiamo tutto il romanticismo, e coloro che vogliono due Camere, che siano diverse l’una dall’altra, sono consapevolmente od inconsapevolmente dei romantici, i quali riconoscono che nella società esistono molte forze che hanno il diritto di essere rappresentate. Alcune di queste sono persino forze morte, sono forze delle generazioni passate e non perché tali non hanno il diritto di far sentire la propria voce – diceva la scuola romantica – nella legislazione presente. È necessario che ci sia una struttura politica che non dimentichi nessuna delle forze esistenti nel Paese; per conseguenza ci deve essere una seconda Camera, diversa dalla prima, che non esca soltanto da una votazione numerica dei singoli, ma che rappresenti tutto l’insieme delle forze vive, sia una rappresentanza di quelli che sono vissuti e di quelli che vivranno.

Coloro che seguono questa seconda opinione rappresentano le forze moderne, cioè quelle che sono le esigenze della società moderna, perché le esigenze della società moderna sono tutte contrarie alla teoria che lo Stato, come emanazione della maggioranza del popolo, possa fare tutto. Lo Stato non deve fare tutto: lo Stato ha dei limiti ai suoi poteri e questi limiti vengono da molteplici fonti e cominciano a venire dall’intreccio che nasce tra uno Stato e l’altro. È una teoria sorpassata quella secondo cui lo Stato può fare tutto quello che crede: non esiste uno Stato che possa fare tutto quello che vuole. La teoria dello Stato a sovranità piena ci ha condotto alle due guerre moderne e continuerà a condurci ad altre guerre. Se vogliamo sottrarci a questa conseguenza fatale, dobbiamo ammettere che non esiste uno Stato che sia completamente sovrano; che ogni Stato deve avere dei limiti al proprio potere; che non sia possibile neppure immaginare che in uno Stato il legislatore possa fare tutte le leggi che crede. Questo sarebbe contrario alle esigenze della vita moderna e l’umanità morrebbe, se accettasse l’idolo dello Stato assolutamente sovrano.

Per questa ragione ha aderito all’ordine del giorno Bozzi, in cui è l’eco della teoria della rappresentanza di tutte le forze politiche e sociali che esistono nel Paese. La traduzione del principio nelle forme politiche la si vedrà poi.

CASTIGLIA, pur non tenendo a rivendicare una paternità, perché, più che una formulazione stilistica, gli importa l’affermazione di un principio e l’adozione di un sistema che risponda alle esigenze giuridiche del Paese, ricorda di aver presentato anch’egli un ordine del giorno.

Osserva che, per la votazione, si possono tenere diverse vie che sono le seguenti:

seguire l’ordine di presentazione degli ordini del giorno (ma sarebbe la più lunga); cercare – se gli altri presentatori non hanno nulla in contrario – di arrivare ad una redazione unica degli ordini del giorno che si somigliano; dare incarico all’onorevole Mortati di redigere un ordine del giorno (che potrebbe trovare anche la sua adesione personale); o ancora (ed è forse la via più semplice) mettere in votazione per primo l’ordine del giorno Porzio, che è il più sintetico ed il meno impegnativo.

Non crede si possa dare la precedenza all’ordine del giorno Lami Starnuti, anche perché esso è stato presentato dopo gli altri.

Pensa, che, per abbreviare la discussione, si possa scegliere fra due vie: o mettere in votazione l’ordine del giorno Porzio, o cercar di redigere due soli ordini del giorno per dare la possibilità di scelta fra l’uno e l’altro.

Poiché si è parlato dei criteri che dovrebbero presiedere all’adozione del sistema bicamerale, ricorda che questi, nel suo ordine del giorno, sono rimasti impregiudicati, dato che egli ha tenuto conto di criteri molto generali, non troppo impegnativi. Nella parte dispositiva, infatti, dice che «la Sottocommissione fa voti, perché la nuova Costituzione della Repubblica italiana adotti il sistema bicamerale, istituendo accanto alla Camera dei Deputati, espressione della volontà politica del popolo, il Senato, espressione, oltre che della stessa volontà politica… (qualcuno dei commissari teneva ad affermare che la seconda Camera dovesse essere anch’essa espressione della volontà politica, e questo nell’ordine del giorno è ribadito) «degli interessi sociali e regionali del paese nella cui sintesi e armonia si ravvisano i mezzi più idonei per una legislazione veramente rispondente alle aspirazioni della Nazione». Questa formulazione è di carattere così generico che non dovrebbe urtare suscettibilità politiche o giuridiche di alcuno.

Comunque, se gli altri presentatori volessero formulare un ordine del giorno il quale rispecchiasse un minimo di quello che è detto nel suo, egli sarebbe pronto ad accettarlo. In caso contrario aderirebbe alla proposta di votare per primo l’ordine del giorno Porzio, che è il più sintetico e generico, e quindi ha diritto alla precedenza.

TARGETTI crede che tutti desiderino eliminare le ragioni di contrasto e di dissidio; ma si capisce che questo desiderio deve essere sempre subordinato alla condizione di non essere costretti, per andare d’accordo gli uni con gli altri, a non andare più completamente d’accordo con sé stessi. Quando si tratta di una diversità sostanziale, non è prova di intransigenza, ma prova di serietà e di coerenza alle proprie idee, riconoscere le diversità di opinioni. Ora, la speranza di una conciliazione, che non sacrificasse la sostanza, sembrava possibile, ma le dichiarazioni dell’onorevole Piccioni hanno posto in luce un modo di vedere alquanto diverso da quello di altri che lo hanno preceduto. Vi sono alcuni che attribuiscono alla seconda Camera una funzione di remora verso eventuali ardimenti legislativi riformatori: altri invece attribuiscono alla seconda Camera soltanto una funzione di secondo esame, di maggiore elaborazione della legge. Esiste, dunque, questa differenza sostanziale, e l’onorevole Porzio deve convenire che questi altri sarebbero in contradizione con sé stessi se accedessero alla sua idea. Dopo le dichiarazioni del collega Piccioni, anzi, essi debbono ritirare anche la proposta di votazione per divisione perché, sia votando per divisione l’ordine del giorno Lami Starnuti, sia votando l’ordine del giorno Porzio, finirebbero col dare il loro parere favorevole alla formazione di una seconda Camera, che poi, ove dovesse essere eletta in certo modo, li troverebbe del tutto avversi. Non è esatto affermare che tutti vogliono la seconda Camera: vi sono alcuni che l’accettano solo se corrisponda alle loro esigenze. In altre parole, se, dato il modo di formazione della seconda Camera, dovesse crearsene una per darle la stessa funzione che il Senato regio ha esercitato nei riguardi del Parlamento italiano, essi dovrebbero pronunciarsi per il sistema monocamerale.

PRESIDENTE sospende brevemente la riunione, affinché gli onorevoli Mortati, Porzio, Bozzi, Einaudi e Castiglia vedano se è possibile redigere un unico testo dei loro ordini del giorno. Anche i colleghi che hanno firmato l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Lami Starnuti potranno vedere se è loro possibile modificarlo. Si avranno così due ordini del giorno soltanto.

(La seduta, sospesa alle 12.40, è ripresa alle 13.05).

PRESIDENTE comunica che gli onorevoli Mortati, Bozzi, Castiglia ed Einaudi hanno concordato il seguente ordine del giorno: «La seconda Sottocommissione, riconosciuta la necessità dell’istituzione di una seconda Camera, al fine di dare completezza di espressione politica a tutte le forze vive della società nazionale, passa all’esame del sistema del rapporto tra le due Camere ed al modo di composizione di ciascuna di esse».

L’ordine del giorno dell’onorevole Lami Starnuti ed altri ha avuto l’aggiunta di una parola ed è del seguente tenore:

«La seconda Sottocommissione esprime parere favorevole al sistema bicamerale a condizione che la seconda Camera non sia costituita in modo da alterare sostanzialmente la fisionomia politica del Paese, quale è stata rispecchiata dalla composizione della prima Camera».

Avverte che metterà in votazione ambedue questi ordini del giorno per appello nominale.

FINOCCHIARO APRILE dichiara che voterà l’ordine del giorno Lami Starnuti, in quanto gli sembra che sia più aderente alla situazione politica attuale.

Il 2 giugno il popolo italiano fece una solenne affermazione in senso democratico. Abbiamo un’Assemblea Costituente democratica; abbiamo una Repubblica democratica. L’ordine del giorno Lami riafferma inequivocabilmente i principî democratici che sono a base delle nuove istituzioni.

La Sottocommissione deliberò l’altro giorno di dare la preferenza al regime parlamentare anziché a quello presidenziale o a quello direttoriale e, l’oratore si dichiara spiacente di non avere potuto partecipare alla votazione. Se fosse stato presente, avrebbe votato in favore del regime presidenziale. Così avrebbe votato, dato il cattivo esperimento fatto in Italia dal regime parlamentare, che rivelò la sua incapacità a garantire la stabilità dei governi è perché, con il detto regime non v’è alcun modo per impedire, vigendo il sistema elettorale proporzionale, il ripetersi delle crisi a getto continuo. Non gioverebbe, a tal uopo, lo stabilire che, dato al governo un voto di fiducia, il governo abbia il diritto, come ha proposto l’onorevole Mortati, di rimanere indisturbato al potere per due anni, come non gioverebbero gli espedienti e i temperamenti suggeriti dall’onorevole Bozzi. Tutto ciò, del resto, porterebbe ad una evidente limitazione della sovranità della rappresentanza popolare.

Ma l’oratore avrebbe votato per il regime presidenziale anche per obbligo di coerenza e per sua particolare convinzione giuridica e costituzionale, essendosi sempre dichiarato favorevole all’introduzione del regime della democrazia diretta, di cui il regime parlamentare costituisce, in certo modo, l’antitesi. A riguardo ricorda che nel secondo congresso nazionale del «Movimento per l’indipendenza della Sicilia» fu, su proposta dell’oratore, accolta l’introduzione, nel disegno dell’auspicato Stato libero di Sicilia, del regime della democrazia diretta, in quanto esso non solo evita la pericolosa interdipendenza del deputato dal governo e del governo dal deputato, ma rende stabili i gabinetti e mantiene permanentemente la sovranità nel popolo, soprattutto mediante l’esercizio del referendum e dei diritti di iniziativa e di revisione.

Questi concetti basilari l’oratore riaffermò già nell’Assemblea Costituente, confidando che fossero attuati in Italia; e pertanto avrebbe dato il suo voto all’introduzione del regime presidenziale, del tipo statunitense, il quale presenta anch’esso degli inconvenienti, ma non così esagerati come, li ha descritti l’onorevole Einaudi, e comunque ben minori di quelli che presenta il regime parlamentare. Questo, in certi momenti, dette al paese la sensazione non di favorire il funzionamento e lo sviluppo dell’attività dello Stato, ma di provocarne addirittura l’arresto: e ciò fu tra le cause principali dell’avvento del fascismo.

D’altra parte oggi non è più possibile parlare di regime puramente parlamentare, nel senso classico della espressione, per l’ingresso nell’agone politico dei partiti di massa, che è venuto a trasformare radicalmente il vecchio concetto del regime parlamentare, per renderlo un vero e proprio regime di partiti, deliberanti al di fuori del parlamento stesso.

Secondo l’oratore, la questione del sistema monocamerale o bicamerale si presenta diversamente secondo che il regime sia presidenziale, una delle forme cioè di democrazia diretta, o puramente parlamentare. Ma, poiché la Sottocommissione si è pronunziata a favore del regime parlamentare, l’oratore deve rinunziare a considerare la questione dal punto di vista del regime presidenziale e si limiterà a considerarla esclusivamente sotto i riflessi del regime parlamentare e particolarmente sotto gli aspetti dei due ordini del giorno in discussione, riservando ad altro momento l’esame generale dell’importante problema.

È chiaro che il sistema bicamerale è quello che la maggioranza, anzi la quasi totalità dei commissari ha mostrato di preferire. Ma non si deve dimenticare che l’origine della seconda Camera, della Camera alta o del Senato, che dir si voglia, è stata diretta a garantire gli interessi delle monarchie e delle classi conservatrici dei vari tempi. Quando la classe borghese delle città, che aveva partecipato ai parlamenti delle monarchie medioevali, formando, accanto al braccio militare e feudale e al braccio ecclesiastico, il braccio demaniale o municipale – ed il primo di questi parlamenti sorse in Sicilia nel XII secolo e fu preso a modello dall’Inghilterra – si sentì abbastanza forte per imporre una sua volontà, essa avvertì il bisogno di organizzarsi per suo conto – anche ciò avvenne per la prima volta in Sicilia – e si ebbero così le assemblee rappresentative di un nuovo potere, destinato poi a rafforzarsi e a prevalere. Nacquero allora le Camere di nomina regia con il compito di infrenare le assemblee elettive e soprattutto di difendere i diritti e le prerogative della corona. Lo stesso Senato, creato in Piemonte nel 1848 e poi esteso a tutta l’Italia, era destinato a formare una specie di contro altare alla rappresentanza popolare.

A stretto rigore l’oratore non crede nella necessità del sistema bicamerale. Crede che, affermato il principio democratico, il principio cioè per cui la sovranità non risiede che nel popolo, basti una sola Camera per il funzionamento politico e legislativo dello Stato.

Ma si rende conto dell’opportunità dal punto divista puramente legislativo, non politico, che vi sia un’Assemblea, la quale riveda e perfezioni le leggi; non che abbia un effetto moderatore, perché questo effetto moderatore i senati avevano lo scopo di esercitarlo in passato; ma non avrebbe nessuna ragione una seconda Camera di esercitare questa funzione ora, dato il fatto che noi siamo in regime schiettamente e puramente democratico e che deve presumersi che la prima Camera sia la vera, unica e genuina interprete della volontà popolare da cui deriva.

Ed allora, ammessa la necessità, la opportunità, direbbe meglio, di una seconda Camera con scopi predeterminati, l’oratore pensa che le funzioni di questa seconda Camera – e ciò sarà discusso meglio in un secondo momento – debbano essere limitate e circoscritte e che essa non possa, né debba avere gli stessi poteri della Camera direttamente eletta dal popolo.

D’altra parte, se noi consideriamo il Senato cessato, se consideriamo le Camere alte di altri paesi, noi vediamo che le stesse funzioni non esistono nei due rami del Parlamento. Per esempio, in Italia, il diritto di stabilire le imposte spettava, in taluni casi esclusivamente, ma sempre con precedenza, all’Assemblea legislativa. Così era la Camera dei Deputati che doveva per prima esaminare e approvare i bilanci. Non era ammessa alcuna deroga in proposito.

Vi era già fin da allora qualche cosa che riduceva a ben poco il potere della seconda Assemblea, la quale approvava in massa i disegni di legge e solo raramente introduceva qualche modificazione che non sempre riusciva a migliorare i progetti. Da questo punto di vista l’esperienza dimostrò la superfluità del vecchio Senato. Ché se, poi, si guarda al suo potere politico, in senso stretto, il Senato non ne aveva alcuno, perché non poteva determinare una crisi ministeriale e, in caso di conflitto con la Camera dei Deputati, questa aveva sempre il sopravvento.

Quella che si vuole istituire, questo secondo ramo del potere legislativo non dovrà essere la riproduzione della prima Camera. L’oratore si dichiara in ciò concorde con vari Scolleghi. Per lui la seconda Camera dovrà essere espressione delle regioni, dovrebbe anzi chiamarsi la Camera delle regioni: ma queste non dovrebbero avere nessuna prefissione di categorie entro le quali scegliere i propri delegati alla seconda Camera. Questa elezione di secondo grado dovrebbe essere altrettanto libera quanto l’elezione dei rappresentanti del popolo. Penseranno i Consigli regionali a convergere i loro voti su persone particolarmente meritevoli di considerazione nei vari campi dell’attività umana e sui quali non si potrebbe attrarre l’attenzione dei comizi elettorali. Appunto su questo criterio fu impostata la Camera delle Valli nel progetto del costituendo Stato libero di Sicilia, approvato dal ricordato secondo congresso nazionale del «Movimento per l’indipendenza della Sicilia», nel quale alla seconda Camera è affidato l’alto compito non di interloquire su tutte le leggi indistintamente, ma sulle leggi fondamentali, sulle leggi costituzionali, organiche, sulla formazione dei codici, su quanto tocca i gangli vitali dello Stato. Questo dovrebbe essere l’ufficio della Camera delle regioni in Italia.

Ma l’elemento fondamentale che è affiorato in questa discussione è un elemento politico, squisitamente politico, che rispecchia le tendenze che sono rappresentate nella Sottocommissione e che non ha possibilità di univoche determinazioni. Occorre su ciò soffermarsi.

L’ordine del giorno Lami Starnuti è favorevole al sistema bicamerale a condizione che la seconda Camera non sia costituita in modo da alterare sostanzialmente la fisionomia politica del Paese, quale è stata rispecchiata dalla composizione della prima Camera; dice, cioè, una cosa giustissima, perché sarebbe molto strano che si desse vita ad una seconda Camera la quale fosse eventualmente in antitesi, in contrasto con la prima, espressione schietta del pensiero e della volontà del popolo sovrano. Il dubbio che sorge nell’oratore è precisamente questo che, quando nell’ordine del giorno Mortati si parla di forze vive della società nazionale, cioè di forze produttrici, economiche, industriali, capitalistiche e via dicendo, si venga a creare questa antitesi, questa antinomia, che invece si deve evitare. Non si deve avere un Senato di destra, quando il Paese ha voluto chiaramente che la rappresentanza politica e con essa tutto l’indirizzo dello Stato siano decisamente di sinistra.

Questa è questione politica, che va risolta con mero criterio politico. È ben lungi dal pensiero dell’oratore di escludere quelle tali forze vive di cui si parla dalla vita politica italiana: non sarebbe né giusto, né democratico. Anzi, come ha detto l’onorevole Conti nel suo progetto, le personalità eminenti della cultura, dell’arte, della letteratura, dell’industria, della produzione e così via, possono esser scelte a far parte della seconda Camera per nomina, sia pure in numero limitato, da parte del Capo dello Stato; ma dev’essere bene inteso che la seconda Camera elettivamente costituita, nella sua grande maggioranza, deve essere improntata agli stessi criteri che il popolo ha voluto determinare con le elezioni del 2 giugno, deve cioè essere una Camera democratica, in perfetta armonia con lo Stato democratico.

Per queste considerazioni l’oratore darà il suo voto all’ordine del giorno Lami Starnuti.

LUSSU lamenta la forzata assenza del relatore onorevole Conti il quale aveva esplicitamente dichiarato che il suo era uno schema e come tale suscettibile di tutte le modificazioni, nonché dell’onorevole Zuccarini, apprezzato cultore delle materie in discussione, ed avanza il dubbio che la loro assenza possa costituire quasi una debolezza di una decisione di tanto grande importanza.

Richiama l’attenzione della Sottocommissione sul problema della Camera a carattere regionale e sui poteri della seconda Camera. L’onorevole Ambrosini si è mostrato preoccupato della costituzione della seconda Camera a tipo regionale, nel senso che una tale istituzione potesse far pensare al federalismo ed osserva che tale preoccupazione è per lo meno eccessiva. Dichiara di essere innanzi tutto autonomista e poi federalista; sostiene l’autonomia regionale in quanto ritiene di non essere, dal punto di vista dell’unità nazionale, inferiore a nessun’altro uomo politico in Italia. Aggiunge di avere perduto in Sardegna gran parte della sua popolarità per il coraggio e la fermezza con cui ha respinto alcune aberrazioni politiche che avrebbero potuto, come è avvenuto in altre regioni, insanguinare il nostro Paese e di aver sostenuto con veemenza l’unità nazionale come base della nostra rinascita.

È per questo che le preoccupazioni dello onorevole Ambrosini suonano offesa ai suoi sentimenti. Afferma quindi che, come sostenitore, assieme alla grande maggioranza della Sottocommissione, dell’autonomia regionale, è convinto che creando l’Ente regione, bisogna contemporaneamente creare un organismo nel quale le varie regioni trovino maggiori possibilità di contatti e di vita unitaria e nello stesso tempo un correttivo ai pericoli di aberrazione separatista. L’onorevole Finocchiaro Aprile, da poco più di due mesi, ed in seguito ai contatti coi rappresentanti di altre correnti, è divenuto politicamente più socievole; e con la seconda Camera il suo confederalismo ripiegherebbe sul federalismo, per poi ripiegare ancora sull’autonomismo, perché la vita in comune porta a maggiormente comprendere le esigenze reciproche e soprattutto rivela la necessità della unità politica del Paese. La seconda Camera può perfettamente rispondere a questa esigenza e su un argomento di tale importanza richiama particolarmente l’attenzione della Sottocommissione.

Desidererebbe poi che i presentatori dell’ordine del giorno concordato riesaminassero le loro posizioni. Per quanto si voglia dare alla seconda Camera un contenuto di equilibrio rispetto alla prima, non le si potrebbe mai riconoscere un potere più moderatore di quello che aveva il disciolto Senato.

Osserva inoltre che la Camera regionale, dovrebbe essere concepita esclusivamente come rappresentativa dell’Ente Regione e degli interessi regionali, inquadrati questi ultimi in una visione unitaria dell’interesse generale della Nazione.

NOBILE fa rilevare come il ritiro dell’ordine del giorno Porzio lo ponga nell’impossibilità di esprimere la sua opposizione alla istituzione della seconda Camera, perché i due ordini del giorno posti in votazione contemplano entrambi il sistema bicamerale. In tali condizioni, e per contribuire a risolvere il problema nel senso meno dannoso, voterà per l’ordine del giorno Lami Starnuti.

PORZIO dichiara di astenersi dalla votazione, in quanto le risoluzioni proposte contengono entrambe un’affermazione generica, già per altro contemplata nel suo ordine del giorno ora ritirato, demandando la discussione sui singoli problemi ad un successivo esame. Poiché intende riservarsi completa libertà di giudizio, ritiene opportuno di non prendere posizione nel momento attuale. Mantiene tuttavia la sua affermazione nel ritenere necessario il sistema bicamerale.

PICCIONI dichiara che voterà l’ordine del giorno Mortati, intendendo così fare una affermazione di schietta e autentica democrazia. Ha già espresso precedentemente – e non intende quindi ripetersi – i motivi per cui la seconda Camera, così come è prevista nell’ordine del giorno Mortati, risponda ad una esigenza democratica; tiene tuttavia a sottolineare che, considerando in tal modo la seconda Camera, si risponde effettivamente all’istanza democratica. Non si deve equivocare sulla rappresentanza delle forze vive che costituiscono il tessuto della società nazionale; con queste parole si vuole sottolineare il carattere politico anche della seconda Camera, senza dar vita ad alcun organismo di carattere professionale od economico, in quanto nelle forze vive della società italiana sono comprese anche le forze del lavoro e non soltanto le forze capitalistiche.

PERASSI, considerando i due ordini del giorno da un punto di vista strettamente letterale, osserva che quello Mortati è il più ampio e il più generico e lascia aperta la via all’esame di molti problemi che devono essere ancora discussi; mentre l’ordine del giorno Lami Starnuti accenna ad un solo problema. Per tali considerazioni dichiara che darà il proprio voto all’ordine del giorno Mortati, che considera nella sua formulazione non contrario ai principî democratici.

MANNIRONI, dopo le considerazioni dell’onorevole Piccioni, dichiara di votare per l’ordine del giorno Mortati, pur mantenendo fermi i criteri che ha espresso ieri, e che oggi sono stati ribaditi dall’onorevole Lussu, nel senso che la seconda Camera possa essere espressione dell’Ente regione.

FINOCCHIARO APRILE ha chiesto la parola per fatto personale, in quanto l’onorevole Lussu ha detto che egli, venendo alla Assemblea Costituente, avrebbe mostrato una maggiore socievolezza. Ebbe già occasione di spiegare pubblicamente le ragioni della partecipazione sua e dei suoi colleghi indipendentisti alla lotta elettorale e poi ai lavori dell’Assemblea Costituente, ragioni che afferiscono esclusivamente alla difesa e alla divulgazione dell’idea che dette vita ed alimento all’agitazione siciliana. Non insisterà, quindi, su questo punto. Ritiene, tuttavia, di essere stato sempre socievole, più forse dell’onorevole Lussu. Evidentemente si equivoca, dappoiché sarebbe assai più opportuno parlare non di mutato atteggiamento dell’oratore, che è sempre stato e sempre sarà coerente ai principî professati, ma di manifesta resipiscenza in altri e di riconoscimento dei gravi, imperdonabili torti commessi verso l’indipendentismo siciliano.

Se l’onorevole Lussu con le sue parole, ha creduto di accennare a qualche modificazione del pensiero e dell’atteggiamento politico dell’oratore, è bene che si disilluda; egli è e rimane confederalista ed ha votato in favore della regione e dell’autonomia soltanto perché considera l’una e l’altra come un passo verso la disintegrazione del sistema unitario del 1860, tanto pregiudizievole agli interessi della Sicilia, e verso il raggiungimento del sistema dello Stato federale, prima, e del sistema della Confederazione di Stati, poi, quale è nei voti ardenti, del popolo siciliano. Se l’onorevole Lussu e altri colleghi pensano che la creazione della regione e l’istituzione della autonomia rafforzeranno l’unità italiana, nel sistema voluto da Cavour, è affar loro. Non tarderanno ad accorgersi di essersi ingannati.

PRESIDENTE invita il segretario a fare l’appello.

PERASSI, Segretario, fa l’appello.

Votano a favore dell’ordine del giorno Mortati i deputati: Ambrosini, Bozzi, Bulloni, Cappi, Codacci Piganelli, De Michele, Einaudi, Fabbri, Fuschini, Mannironi, Mortati, Patricolo, Perassi, Piccioni, Tosato, Uberti, Vanoni.

Votano a favore dell’ordine del giorno Lami Starnuti i deputati: Bordon, Calamandrei, Finocchiaro Aprile, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Nobile, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini.

Si astiene dalla votazione il deputato: Porzio.

Non hanno preso parte alla votazione i deputati: Bocconi, Castiglia.

Comunica il risultato della votazione:

Presenti e votanti: 30.

A favore dell’ordine del giorno Lami Starnuti: voti 12.

A favore dell’ordine del giorno Mortati: voti 17.

Astenuti 1.

Dichiara approvato l’ordine del giorno Mortati.

La seduta termina alle 13.45.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, De Michele, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Porzio, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti, Vanoni.

Erano in congedo: Amendola, Conti, Zuccarini.

Assenti: Di Giovanni, Leone Giovanni, Maffi.

VENERDÌ 6 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

 

10.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI VENERDÌ 6 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

 

INDICE

Organizzazione costituzionale dello Stato (Seguito della discussione)

Presidente – Patricolo – Porzio – Perassi – Calamandrei – Targetti – Tosato – Lussu – Castiglia – La Rocca – Lami Starnuti – Ambrosini – Mannironi – Nobile – Mortati – Rossi Paolo – Bulloni.

La seduta comincia alle 17.

Seguito della discussione sull’organizzazione costituzionale dello Stato.

PRESIDENTE ricorda che con la votazione dell’ordine del giorno fatta ieri è stata esaurita una parte delle premesse relative ai vari poteri dello Stato e in particolare a quello legislativo. Si tratta ora di affrontare il problema del potere legislativo nei suoi particolari, e cioè se debba adottarsi il sistema unicamerale o quello bicamerale, per passare poi alla formazione della prima ed eventualmente della seconda Camera.

PATRICOLO, prima di iniziare la discussione dei vari problemi, ritiene opportuno che la Sottocommissione riprenda in esame l’ordine del giorno da lui già presentato ieri e che oggi ripresenta con una lieve modifica, per conformarlo all’ordine del giorno Perassi. E ciò perché ritiene necessaria una affermazione di principio sulla divisione dei poteri, affermazione di carattere pregiudiziale all’esame dei singoli poteri dello Stato.

Dà lettura del suo ordine del giorno nel testo modificato:

«La seconda Sottocommissione, premesso che la Costituzione del nuovo Stato italiano deve ispirarsi ai concetti di una sana democrazia;

considerato che la forma di governo più rispondente alle esigenze dell’attuale situazione politica italiana è quella della repubblica parlamentare, con i correttivi indicati dall’ordine del giorno dell’onorevole Perassi approvato nella seduta del 5 settembre 1946;

ritenuto che l’ordinamento giuridico dello Stato debba uniformarsi al principio della divisione dei poteri;

riconosciuto che il Parlamento, rappresentante della volontà popolare, oltre alla sua funzione legislativa, ha anche una funzione politica di vigilanza, e controllo su tutti i poteri dello Stato;

propone che lo schema di Costituzione che sarà presentato all’approvazione della Costituente, risponda alle seguenti esigenze di ordine giuridico e politico:

1°) adozione della forma di governo parlamentare;

2°) rispetto della divisione dei poteri;

3°) riconoscimento delle funzioni politiche di vigilanza e di controllo del Parlamento sui poteri dello Stato».

PRESIDENTE osserva che in quest’ordine del giorno viene anzitutto ribadito il concetto di repubblica parlamentare; e poi si fissano altri due punti e cioè il rispetto della divisione dei poteri e la funzione politica di vigilanza e controllo del Parlamento sui poteri dello Stato.

È vero che la questione della divisione dei poteri fa parte di quell’inquadramento iniziale di cui si è già parlato nella seduta di ieri e per il quale potrà avvertirsi l’esigenza di parlarne ancora e concludere in maniera specifica, prima di affrontare i problemi singoli (per quanto potrebbe essere anche affrontata implicitamente durante la discussione sui singoli poteri); ma è vero altresì che la proposta di riconoscere al Parlamento e quindi all’organo specifico del potere legislativo, una funzione di controllo politico sopra gli altri poteri dello Stato è già un modo particolare di concepire ed applicare il criterio della divisione dei poteri. È da rilevare tuttavia che l’ordine del giorno Patricolo distingue i due compiti del Parlamento: da una parte la funzione legislativa e dall’altra una funzione di carattere preminente e sovrano.

PORZIO propone che l’ordine del giorno venga posto in votazione per divisione, perché sulla prima parte, concernente la divisione dei poteri non v’è da-discutere, in quanto non esiste Costituzione che non attui la divisione dei poteri, mentre sulla seconda parte, relativa alla vigilanza e controllo del Parlamento sugli altri poteri dello Stato, vi possono essere dissensi.

PERASSI osserva che sul concetto della divisione dei poteri tutti sono concordi, ma vi è un altro punto sul quale sarebbe opportuno che il proponente desse qualche spiegazione: quello in cui parla di un riconoscimento delle funzioni politiche di vigilanza e di controllo del Parlamento su tutti i poteri dello Stato.

Fin che si tratta di vigilanza e controllo sul potere esecutivo, egli è d’accordo; ma qui si parla di tutti i poteri dello Stato. Ora, in che senso il proponente intende quest’ultima proposizione? Su questo punto ritiene opportuno qualche chiarimento.

PATRICOLO precisa che, ove sia stabilito che i poteri dello Stato devono essere divisi, si deve andare fino alle ultime conseguenze di questa affermazione, perché in tutte le legislazioni moderne si parla di divisione dei poteri, ma altro è parlarne ed altro è attuarla. Il potere giudiziario, oggi, in un certo senso, dipende dal potere esecutivo.

Esiste un ministro politico a capo del potere giudiziario che ha, come tutti sanno, le sue inframmettenze attraverso l’istituto del pubblico ministero. Il giorno in cui si crei un potere giudiziario veramente indipendente, le funzioni del Ministero di grazia e giustizia devono passare integralmente al potere giudiziario, ed allora anche il potere giudiziario, come il potere esecutivo, deve essere in un certo senso soggetto alla sovranità popolare che si esprime attraverso il Parlamento in tutte quelle manifestazioni che non sono di stretto carattere funzionale della magistratura. Ecco perché egli estende il controllo e la vigilanza del Parlamento a tutti gli altri poteri, in quanto il potere giudiziario, se è autonomo, ha delle funzioni, oltreché di amministrazione della giustizia, anche amministrative. Quando si concepisce la divisione dei poteri con l’indipendenza del potere giudiziario, è necessario che si estenda la vigilanza e il controllo del Parlamento anche al potere giudiziario, controllo su quelle funzioni amministrative che oggi sono esercitate dal Ministero di grazia e giustizia. Posta la divisione dei poteri, è giusto che anche il potere giudiziario, e per esso il suo capo, risponda al Parlamento dei suoi atti. Quando sia stabilito nella Costituzione quali sono i compiti e le funzioni del potere giudiziario, ove la magistratura abbia a mancare a questi suoi compiti, il Parlamento, rappresentante della volontà popolare, deve poter chiedere spiegazioni e delucidazioni.

CALAMANDREI, come relatore sul potere giudiziario, non vorrebbe che si pregiudicasse con enunciazioni puramente teoriche che possono avere ripercussioni varie sull’argomento, che invece va trattato in pieno sotto tutti i suoi aspetti. Non crede che abbia importanza un articolo in cui si enunci il proposito di voler rispettare il principio della divisione dei poteri: questo principio sarà rispettato più o meno, secondo il modo in cui si organizzano in concreto i vari organi. Quindi non vede la necessità di prendere una posizione preliminare teorica su questo punto, e chiede che sia riservata la discussione al momento in cui uno dei senatori farà la relazione sul tema del potere giudiziario.

TARGETTI, per evitare di entrare in una discussione teorica che occuperebbe molto tempo, suggerisce di considerare il principio affermato, più che come una premessa, come una conseguenza di quello che verrà deliberato quando si stabiliranno i poteri del Parlamento. Non vede quindi alcuna necessità di fare una affermazione di principio.

TOSATO concorda con l’onorevole Targetti e propone anch’egli di rinviare la discussione dell’ordine del giorno Patricolo. Il problema della divisione dei poteri verrà in discussione di volta in volta, quando si tratterà di determinare le competenze specifiche del potere legislativo e del potere giudiziario.

D’altra, parte, l’ordine del giorno di Patricolo non gli sembra felice, perché di divisione di poteri si può parlare in due sensi: come divisione di organi e come divisione costituzionale di funzioni.

PRESIDENTE osserva che, se l’onorevole Patricolo accedesse al criterio indicato, che non significa repulsa del suo ordine del giorno, ma attesa del momento più opportuno per esaminarlo, si potrebbe riprendere la discussione dal punto in cui è rimasta sospesa. Se l’onorevole Patricolo chiede invece che il suo ordine del giorno sia posto ai voti, non vi è che procedere alla votazione.

PATRICOLO insiste nel chiedere che la Sottocommissione prenda in esame il suo ordine del giorno, perché è pregiudiziale che la Sottocommissione ammetta o respinga fin dal principio il concetto assolutamente democratico della divisione dei poteri.

PRESIDENTE teme che si entri in una di quelle questioni procedurali che, se risolte solamente sulla base della procedura, possono sboccare in una conclusione non rispondente in realtà al pensiero e all’intenzione di coloro che votano.

La questione della divisione dei poteri sta alla base, anzi rappresenta il midollo della discussione che si deve affrontare; ma l’affrontarla e deciderla in questo momento, come risulta evidente dalle dichiarazioni fatte da alcuni commissari, lascerebbe in dubbio parecchi colleghi, che potrebbero perciò essere tratti a respingere l’ordine del giorno Patricolo. Ciò potrebbe determinare l’impressione che la Sottocommissione sia contraria al principio della divisione dei poteri, ciò che non sarebbe corrispondente alla realtà, o al pensiero di almeno una parte dei commissari.

LUSSU, per rendere omaggio al pensiero espresso da vari colleghi, propone che sia votato il rinvio della discussione dell’ordine del giorno Patricolo.

PRESIDENTE mette ai voti la proposta Lussu.

(È approvata).

Mette in discussione il problema della struttura del potere legislativo.

CASTIGLIA, Relatore, crede che, risolto in via pregiudiziale il problema del tipo di regime da scegliere, sia altrettanto importante risolvere ora in via pregiudiziale la questione accennata dai due relatori, onorevole Mortati e onorevole Conti, del sistema bicamerale o monocamerale, perché dalla risoluzione di questo problema possono derivare delle conseguenze suscettibili di influenzare tutto il resto della discussione e l’attuazione pratica dei principî che sono stati e saranno ancora esposti, specialmente quando sarà il momento di venire all’articolazione ed alle conclusioni pratiche.

Personalmente accetta il sistema bicamerale, per varie considerazioni, molte delle quali sono state già espresse dai relatori.

La genesi del sistema bicamerale è inglese e rimonta a parecchi secoli fa. Il richiamo alla genesi sta a dimostrare come il sistema bicamerale abbia avuto ed abbia delle ragioni di vitalità che trascendono i motivi contingenti che ne determinarono la nascita allora, motivi contingenti che sono stati superati dagli avvenimenti.

Ma, accanto a questa genesi storica, statino altre ragioni che consigliano l’adozione del sistema bicamerale: ragioni di carattere pratico e di carattere giuridico.

Per ovviare all’inconveniente di cui tutti sentono la preoccupazione, cioè alla instabilità del governo, prima di tutto è necessario il sistema bicamerale.

Non è opportuno accentrare in una sola Camera il potere legislativo che diventerebbe così quasi onnipotente. È opportuno, invece, contrapporre all’un corpo legislativo un altro corpo, non per desiderio di contrapposizione o di ostacolo, ma affinché attraverso l’urto delle convinzioni, l’urto delle mentalità, possa la legge aderire veramente alle esigenze del paese.

Altra ragione che è stata particolarmente sottolineata dall’onorevole Mortati ed anche dall’onorevole Conti è quella della integrazione della rappresentanza secondo due criteri: uno di carattere regionale, e l’altro di interesse sociale.

Dal punto di vista dell’interesse sociale, crede che l’integrazione della rappresentanza possa essere raggiunta con l’istituzione di due Camere, mentre non potrebbe esserlo con una sola, perché col sistema elettorale attuale, o con quello che sarà stabilito, non si può ottenere la completezza della rappresentanza secondo il criterio dell’interesse sociale. Della seconda Camera i componenti dovranno essere scelti con criteri, che si stabiliranno in seguito, diversi da quelli che devono seguirsi per l’elezione dei deputati alla Camera dei deputati.

Sarebbe poi possibile integrare la rappresentanza secondo gli interessi regionali, la qual cosa è molto importante perché la nostra Costituzione, a quanto pare, si avvia verso l’istituzione dell’ente regione munito di potere legislativo ed esecutivo. Nella dottrina è stata riconosciuta assolutamente necessaria nei regimi federalistici l’istituzione della seconda Camera con riguardo agli interessi regionali. In un regime regionalistico, il quale ha molti punti di contatto con quello federalistico, tanto che può forse dirsi che la differenza sia solo di terminologia, per gli stessi motivi diventa necessaria una integrazione della rappresentanza.

Altra ragione che milita a favore della bicameralità è quella delle competenze, che spesso rimangono fuori della prima Camera, a causa del sistema elettorale.

Poi vi è il motivo della maggiore elaborazione e del perfezionamento delle leggi, che, attraverso un duplice esame, possono guadagnare dal punto di vista tecnico giuridico. Ed è da considerare anche il punto di vvista della tempestività, perché spesso il ritardare un provvedimento o l’elaborazione di una legge può far sì che questo provvedimento non abbia la voluta efficacia.

Il sistema bicamerale infine è particolarmente sentito come necessario nel regime, che si è deciso di adottare, della repubblica parlamentare, perché la duplicità agevola la soluzione di conflitti che potrebbero sorgere tra Parlamento e Gabinetto; essa, cioè, assicura la necessaria maggiore stabilità del Governo.

Naturalmente non sono, queste, considerazioni complete: ha fatto una elencazione, grosso modo, delle principali ragioni che militano a favore della bicameralità; ma altre ve ne sono che potrebbero essere esposte.

Dall’accoglimento del sistema bicamerale discendono altri importanti problemi, come quello della equiparazione o meno dei poteri delle due Camere. Il precedente inglese dei poteri della Camera Alta più limitati rispetto a quelli della Camera dei Comuni, è la conseguenza di un fatto contingente, verificatosi nel 1911 a proposito della questione irlandese, e quindi non pregiudica la questione di carattere sostanziale della perfetta eguaglianza dei poteri delle due Assemblee.

Altra questione è quella delle fonti di derivazione, circa la quale, seguendo il criterio indicato dall’onorevole Conti nella sua relazione, si dovrebbe ricorrere ad un sistema misto per il reclutamento dei senatori, che dovrebbero essere scelti per la massima parte con un metodo elettivo di secondo grado, e cioè attraverso le Assemblee regionali. Altri modi di reclutamento potrebbero essere quello della cooptazione, cioè della scelta da parte dello stesso Senato di un certo numero di senatori, e, sempre in armonia a ciò che è stato detto a proposito degli interessi sociali e delle competenze, la elezione da parte di Consigli accademici, di organizzazioni sindacali, di enti culturali. Si dovrebbe, infine, lasciare una limitata possibilità di nomina diretta al Capo dello Stato, entro determinate categorie.

A conclusione del suo dire, presenta il seguente ordine del giorno:

«La Seconda Sottocommissione:

ritenuto che il sistema bicamerale appare il più idoneo ad assicurare la integrazione della rappresentanza secondo il criterio degli interessi sociali regionali:

che esso assicura l’assunzione di quelle competenze specifiche che col sistema monocamerale potrebbe rimanere incompleta;

che tale sistema garantisce un corpo di leggi politicamente più rispondenti ai bisogni del Paese, tecnicamente più elevate e perfette;

tenuto presente che la istituzione delle due Camere è più aderente all’esigenze politico-giuridiche nascenti dall’adozione del regime parlamentare;

fa voti perché la nuova Costituzione della Repubblica italiana adotti il sistema bicamerale, istituendo accanto alla Camera dei Deputati, espressione della volontà politica del popolo, il Senato, espressione oltre che della stessa volontà politica, degli interessi sociali e regionali del Paese, nella cui sintesi e armonia si ravvisano i mezzi più idonei per una legislazione veramente rispondente alle aspirazioni della Nazione».

LA ROCCA dichiara che, per principio, i Commissari comunisti sono favorevoli al sistema della Camera unica. Se la radice della sovranità è unica, ed è il popolo, la volontà popolare trova la sua espressione in una Assemblea, la quale rispecchia questa volontà ed è chiamata ad attuarla.

La seconda Camera ebbe il compilo ben chiaro e preciso di funzionare da freno, da contrappeso, per impedire eventuali eccessi, precipitazioni, cioè provvedimenti legislativi troppo affrettati, nell’attività della Camera dei Deputati. La Camera Alta funzionò pertanto come crivello, ed eventualmente anche come coperchio. Ma, se si vuole veramente gettare le basi di un regime democratico che aderisca alla realtà moderna, e cioè che attui una radicale trasformazione della base sociale – perché altrimenti non sarà mai risolta la situazione – bisogna aderire a questa realtà: la Camera unica è la più adatta, la più acconcia ad eseguire la volontà popolare e non si può ammettere una seconda Camera formata da privilegiati, da nominati dall’alto, da persone investite a vita della carica, perché questo significherebbe riportare nella Repubblica democratica la vecchia impalcatura della monarchia.

Se si dovesse pensare ad una seconda Camera elettiva, posto che la sorgente della sovranità è unica, si dovrebbe riconoscere che, quando la volontà del popolo è bene espressa in una Camera, è inutile che si crei un duplicato; che se, invece, si determinano conflitti fra due volontà che derivano dalla stessa fonte, questo significa che si è verificato quello che in partenza deve sembrare un assurdo, dato che la fonte della volontà è unica.

Questo vale come affermazione di principio. Ma, poiché i comunisti non sono quali di solito vengono presentati, e poiché pare che vi possano essere delle preoccupazioni e che si voglia abbondare nelle garanzie, fatta questa affermazione di principio, essi non si oppongono in maniera categorica alla istituzione di una seconda Camera, che però, anche per evitare un cattivo ricordo, non potrà più essere chiamata Senato. Ma un fatto dovrà essere ben chiaramente stabilito: la seconda Camera non potrà né dovrà essere se non elettiva. Naturalmente si dovrà trovare il corpo elettorale adatto, perché, per le ragioni spiegate prima, non si può ammettere che dalla stessa fonte elettorale derivino due volontà diverse. E poiché si inclina verso l’adozione dello stato regionale, bisognerà vedere se nella regione non possa trovarsi la fonte per l’elezione della seconda Camera, per quanto in fatto di autonomia bisogna intendersi e procedere con cautela, perché i rischi non sono pochi: e questo dice nell’interesse generale dell’unità politica ed economica del Paese che sta soprattutto a cuore a tutti.

Questo corpo elettorale potrebbe eventualmente essere costituito dai Consigli regionali. Il Parlamento risulterà composto di due organi, che potranno chiamarsi Consiglio Nazionale e Assemblea Nazionale; e si stabiliranno la competenza e gli attributi di ognuno, su piede di parità o no, con un determinato numero di membri, ecc., ma, ripete, la base dell’esistenza della seconda Camera non potrà essere se non l’elettorato, con esclusione di qualsiasi corpo estraneo e di nicchie in cui collocare delle statue in una maniera fissa, soltanto per la ragione che Tizio o Caio sono diventati capi di un determinato ufficio. Se si ritiene opportuno che esista questo secondo organo, che funzioni non già da freno, perché questa è un’idea non accettabile, ma per maggiore garanzia del sistema parlamentare, per collaborare e dare il suo contributo alla formazione delle leggi, i membri della seconda Camera non possono che essere l’espressione di un bisogno nazionale e soprattutto di una volontà popolare.

LUSSU deve enunciare il principio che un regime democratico parlamentare in tanto è solido in quanto sia la conseguenza di una evoluzione, di una rivoluzione democratica e tenda a razionalizzare le conquiste ottenute attraverso la rivoluzione. Ma deve pur constatare che non siamo in questa situazione, ciò che gli rincresce profondamente. Quindi bisogna rendersi conto della situazione presente, che è fatta di compromesso: così è possibile il governo, così è possibile la nostra democrazia. L’ Italia è entrata in quello che gli stranieri considerano il suo genio particolare: il compromesso; e il criterio delle due Camere è il risultato di questo compromesso. Teoricamente egli sarebbe per una Camera unica; ma ne mancano le premesse, e quindi bisogna arrivare alle due Camere, e la maggioranza della Sottocommissione arriverà per necessità a questa conclusione.

Ma, prima di entrare in merito alla composizione della seconda Camera, crede che sarebbe utile conoscere quali poteri si intende attribuirle perché, se questa Camera ha un potere vasto, la sua composizione dovrà risultare in un modo, e se ha un potere molto minore, dovrà risultare in un altro.

Trova strano, per esempio, che, a parità di poteri fra le due Camere, la seconda Camera debba essere eletta come risulta dal testo proposto dall’onorevole Conti, al quale l’onorevole Castiglia aderisce. Trova strano che una seconda Camera, composta da rappresentanti degli ordini professionali e da professori di università – con tutta la stima che ha per l’alta cultura – abbia il diritto di mettere in mora o di far cadere la Camera sovrana eletta dal popolo con libere elezioni.

Ancora di più trova strana la proposta dell’onorevole Conti – che, se non fosse quel puro repubblicano che tutti conoscono, sembrerebbe imbevuto di spirito monarchico – che questo potere debbano avere i dieci eletti a vita. È deferente verso gli scienziati, ma non può deferire ad uno che diventa uomo politico perché professore universitario o scienziato.

Bisogna dunque fissare anzitutto i poteri della seconda Camera. Quelli che aveva la Camera francese e quelli che ha l’Alta Camera in Inghilterra sono totalmente differenti. In Francia il Senato rappresentava un grosso correttivo alla Camera dei Deputati e sono numerose le crisi create dal Senato. Bisogna dire che, per quanto composto da un corpo prevalentemente conservatore, in gran parte eletto dal partito radicale, il Senato francese più volte ha fatto cadere governi sia di destra che di sinistra. Comunque, aveva un potere estremamente accentuato nell’ingranaggio statale. Invece l’Alta Camera in Inghilterra non ha nessuno di questi poteri: ne aveva qualcuno, ma ne è stato totalmente spodestato all’epoca della magnifica lotta sostenuta dall’Irlanda e, pure essendo un rispettabile consesso, non ha più alcun valore politico nella vita inglese.

Se la seconda Camera deve uniformarsi al tipo inglese, sarà possibile immettervi dei professori d’università o dei vescovi o altre categorie di cittadini, che invece non potranno trovarvi posto per il solo fatto di essere vescovi o professori, se il tipo sarà quello francese.

Vede con una certa preoccupazione le due Camere aventi gli stessi poteri, ciò che costituirebbe un intralcio allo sviluppo dell’azione politica. La seconda Camera dovrebbe avere un potere ridotto, e non quello stesso della prima. E aggiunge che a suo parere costituisce una confusione l’elezione di una seconda Camera, anche se essa debba avere poteri limitati.

Quanto alla composizione quale risulta dalla proposta del relatore, accolta dall’onorevole Castiglia, trova che questa non si adatta alla democrazia moderna, ma è un sistema arretrato, come quello dei paesi balcanici di prima dell’entrata in guerra. Se si vuol tener conto del particolare apporto che può essere dato da professori di università o da rappresentanti di organizzazioni sindacali, non si può dimenticare che essi devono essere prevalentemente l’espressione di una aspirazione, di un ideale politico: solo a questa condizione quegli elementi possono entrare nel Parlamento. Così oggi si assiste all’elezione di uomini altamente rappresentativi dal punto di vista sindacale, come gli onorevoli Di Vittorio, Grandi, Lizzadri ed altri, senza che sia necessario includerli nell’elenco dei senatori affinché possano esprimere i loro concetti sociali e tecnici nel Parlamento.

LAMI STARNUTI è in gran parte d’accordo con quanto hanno detto l’onorevole La Rocca e l’onorevole Lussu.

Senza dubbio una Camera unica riuscirebbe meglio a interpretare la volontà popolare, mentre il sistema bicamerale non è essenziale al regime parlamentare. Basta l’esempio inglese in cui la Camera dei Lords non è più, può dirsi, che una superfetazione. Solo vi può essere l’opportunità, e non lo nega, di un secondo esame, di una rielaborazione della legge, e dovrebbe questo essere il compito della seconda Camera.

Sostanziale in questo problema è lo stabilire la derivazione della seconda Camera. A questo proposito deve dire subito e apertamente che i deputati socialisti non aderiranno mai ad un sistema che voglia fare di questa un correttivo del suffragio universale, dell’espressione della volontà popolare manifestata attraverso le elezioni politiche, e quindi combatteranno tutte le proposte che sono state fatte per una formazione mista della seconda Camera. Questa, dal punto di vista politico, deve ripetere, quasi in modo esatto, la prima Camera. Se ciò non fosse e, soprattutto se la seconda Camera avesse parità di poteri con la prima, potrebbero sorgere spesso conflitti quasi insanabili, come quello fra la Camera e il Senato francese, presidente del consiglio Léon Blum. Il conflitto non si avrà quando la seconda Camera, nel suo quadro generale, rappresenterà la stessa formazione politica della prima, tanto che egli non sarebbe contrario al sistema norvegese, di cui parlava l’onorevole Mortati, cioè ad una seconda Camera per geminazione, eletta dalla prima; sistema che, come ha detto l’onorevole Mortati, ha dato buoni frutti.

Se l’opinione della Sottocommissione non fosse questa, pensa che soltanto attraverso le assemblee regionali si dovrebbe far luogo alla formazione della seconda Camera, escluso ogni ricorso a consigli professionali o universitari, a consigli accademici, ogni ricorso a sistemi di cooptazione e, specialmente a quella specie di nomina «regia» affidata al Presidente della Repubblica di dieci senatori a vita. Quindi: formazione della seconda Camera attraverso le assemblee regionali, i consigli regionali, avendo cura che questi siano creati nello stesso modo del Parlamento nazionale. Aggiunge, al riguardo, che la legge elettorale deve avere sempre carattere nazionale. L’accenno contenuto nelle proposte dell’onorevole Ambrosini, ad una legge elettorale di carattere regionale non lo trova consenziente, perché una legge elettorale particolare potrebbe alterare la proporzione tra le varie regioni e ripercuotersi, quindi, successivamente nella formazione della seconda Camera: se il sistema di elezione della seconda Camera sarà, come è probabile, quello delle assemblee regionali, i Consigli delle regioni dovranno essere formati con lo stesso criterio elettorale con cui si formerà la Camera dei Deputati, appunto per impedire che, attraverso questa diseguaglianza, la seconda Camera abbia un colore politico diverso dalla prima e contrario all’opinione del corpo elettorale nazionale.

Con questi criteri e con queste riserve, voterà non l’ordine del giorno Castiglia, ma una proposta pura e semplice di accettazione del sistema bicamerale.

AMBROSINI. Se il Senato deve nascere occorre che nasca vitale, non collocato in una posizione di netta inferiorità di fronte alla Camera dei Deputati, né costituito sulla base dello stesso sistema di questa. Si deve trattare, è evidente, di una seconda Camera diversa da quella che esisteva, e la diversità deve essere segnata dal modo diverso della sua composizione, s’intende su base elettiva.

L’adottare, sia pur con varianti, il criterio che informa la legge elettorale preposta alla formazione della prima Camera, importerebbe in sostanza fare della seconda un doppione e diminuirne quindi in partenza l’autonomia e fors’anche la stessa ragione di esistenza.

Infatti, se è vero che l’utilità del Senato deriva dal fatto che può servire da organo di remora verso le eventuali decisioni precipitate della Camere, e di elaborazione più perfetta della legislazione, è pur vero che esiste in suo favore un’altra ragione più forte, non di sola opportunità, ma di principio: quella appunto della sua radice, del suo modo di composizione diverso da quello della Camera dei Deputati.

Mentre questa è formata sulla base delle ideologie politiche e dei partiti da parte dei cittadini elettori raggruppati in modo indifferenziato in collegi elettorali, nei quali è meccanicamente diviso il territorio nazionale, l’altra Camera, il Senato, dovrebbe essere formata in modo da rispecchiare le varie forze economiche, sociali, culturali e delle attività lavorative in generale, che per la stessa impostazione del sistema del suffragio diretto, non riescono ad avere una propria compiuta rappresentanza.

Si tratta di quella rappresentanza della membratura effettiva della società, di quelle forze vive della Nazione a cui nelle precedenti discussioni accennò l’onorevole Piccioni propugnando la necessità del riconoscimento giuridico delle Regioni.

È stato detto che una tale rappresentanza diminuirebbe quasi la rappresentanza popolare che si ha nella Camera dei Deputati. Ma non è così. L’assegnare una speciale rappresentanza alle varie categorie del corpo sociale non significherebbe affatto fare un passo indietro, né tanto meno limitare sostanzialmente quella che suole chiamarsi la rappresentanza popolare, ma significherebbe completarla, integrarla, in modo che tutti i bisogni, tutte le esigenze del paese possano avere una propria espressione ed una propria voce.

Ciò è sommamente utile dal punto di vista tecnico, perché nessuno come i rappresentanti delle categorie interessate può prospettarne ed illustrarne i bisogni avanti all’Assemblea; ed è egualmente utile dal punto di vista politico, per il peso appunto che tali categorie vengono ad assumere nella rappresentazione di tutta la realtà economica, sociale e culturale della Nazione.

Ne è a dire che si tratta di rappresentanza di interessi particolaristici, perché si tratta di interessi di vaste categorie dell’attività umana, che possono magari essere prospettati da un punto di vista specifico, ma che necessariamente finiscono per venire esaminati e vagliati dall’Assemblea nel suo complesso dal punto di vista generale, con criterio armonico, globale, cioè, in definitiva, con criterio politico.

È per ciò che, pur divergendo dalla prima Camera nel modo della sua formazione, la seconda Camera finisce per funzionare e per arrivare alle sue decisioni in vista dello stesso scopo generico che persegue la prima, in vista cioè dell’interesse generale della Nazione. Cosicché ne deriva non la menomazione della volontà popolare, sibbene il suo completamento, la sua integrazione.

Come dovrebbe procedersi, guardando la questione da un punto di vista concreto, alla costituzione di questa seconda Camera?

Tenendo presente la complessa realtà sociale, sembra utile arrivare ad una forma mista di rappresentanza.

Per quanto si riferisce alle attività produttive, intesa questa espressione nel senso più lato, ci sono gli interessi dell’agricoltura, dell’industria, del commercio, dei trasporti e di altre attività produttive, per l’insieme delle quali vanno naturalmente prese in considerazione le varie categorie dei lavoratori.

Ci sono le esigenze della cultura, delle arti, delle scienze, delle professioni, che debbono anch’esse avere la loro voce dell’Assemblea.

E c’è poi il campo vastissimo delle esigenze e degli interessi territoriali, anzitutto della Regioni. Al qual proposito è opportuno notare che la rappresentanza non potrebbe essere eguale per tutti le Regioni, ma che dovrebbe attribuirsi ad ogni Regione una rappresentanza proporzionata alla sua popolazione.

Ci sono inoltre gli interessi territoriali dei Comuni e, nel caso che siano conservate, delle Provincie, che vanno anch’essi tenuti presenti.

Ed infine si potrebbe accettare la proposta dell’onorevole Conti tendente all’ammissione nella seconda Camera di un ristretto, o magari ristrettissimo numero di senatori nominati dal Capo dello Stato.

Ci sono personalità di altissima esperienza e valore, che per il loro temperamento od il loro ufficio non vogliono o non possono prendere parte alle competizioni elettorali. Privare la seconda Camera dell’apporto di tali uomini non è opportuno. Per ciò può ammettersi che il Capo dello Stato possa procedere, in misura, siccome si è detto, limitata o limitatissima alla nomina di tali uomini, predeterminandosi magari le categorie dalle quali sarebbe consentito di presceglierli.

Prima di chiudere ritiene opportuno di dare un chiarimento a quanto si è detto circa la Camera dei Lords.

I poteri di questa Camera sono stati molto limitati, ma non ridotti a nulla.

I Lords possono ancora mettere una remora alle leggi votate dai Comuni, ed i Lords inoltre esercitano sull’operato del Governo e sulla politica in generale una funzione di critica, che in un paese come l’Inghilterra, dove la pubblica opinione ha molto peso, non va affatto svalutata.

Dovrebbe inoltre chiarire un altro punto riguardo alla similitudine che da un collega è stata fatta, parlando della rappresentanza regionale nel Senato, tra il sistema dell’autonomia regionale ed il sistema federale. Ma si riserva di intrattenersi su tale problema, quando verrà in discussione il progetto sulle autonomie regionali.

(La seduta, sospesa alle 18.55, è ripresa alle 19.25).

MANNIRONI condivide pienamente le argomentazioni dell’onorevole Ambrosini. Non può invece condividere il punto di vista, espresso dagli onorevoli La Rocca, Lussu e Lami Starnuti, i quali, pur manifestando, in linea di principio, la loro simpatia per il sistema unicamerale, finiscono però per aderire al sistema bicamerale, quasi per effetto di un compromesso, come si è espresso l’onorevole Lussu. Ora, non si può accogliere un istituto di tanta importanza per semplice compromesso; né si capisce con chi sarebbe da farsi questo compromesso. Se sono convinti che la maggioranza della Sottocommissione è per il sistema bicamerale in contrasto con la loro teoria o col loro punto di vista, ma ritengono che questo sia pienamente fondato, essi non hanno motivo di arrendersi così facilmente. Si tratta di creare un nuovo istituto e non si può, come diceva l’onorevole Ambrosini, svalutarlo con l’affermare che lo creiamo per compromesso, perché si creerebbe un organismo non vitale, screditato a priori e che il popolo italiano non prenderebbe nella dovuta considerazione.

Il sistema bicamerale è assolutamente necessario ed è fondato su diverse ragioni, che l’onorevole Ambrosini ha già espresse lucidamente e che egli intende integrare. È un organismo necessario, in quanto deve servire a portare in seno al potere legislativo la voce e delle regioni e delle classi produttive, che hanno diritto di dare alla formazione delle leggi quel contributo tecnico, di specializzazione, che gli uomini puramente politici spesso non possono dare.

Circa l’affermazione che la seconda Camera dovrebbe essere espressione, prima di tutto, delle regioni, richiama le discussioni fatte quando si è parlato di regione, nelle quali si è riconosciuto che si vuole determinare uno spostamento del centro di gravità nella struttura dello Stato, nel senso di far passare molte funzioni dallo Stato alle regioni. Perciò si è riconosciuta alle regioni una funzione specifica, organica, autonoma, istituzionale. Ora, da quelle premesse deriva l’inevitabile conseguenza che le regioni devono avere la loro rappresentanza in seno al potere legislativo, devono avere la possibilità costituzionale di portare la loro voce là dove si legifera, anche nella sfera che interessa direttamente le regioni.

Data alle regioni la possibilità di avere una loro rappresentanza diretta in seno al potere legislativo, si può finalmente rendere giustizia anche alle cosiddette regioni povere, le quali hanno creduto finora di non avere avuto la debita considerazione in sede nazionale. Facendole partecipare, con poteri eguali o con paritetica rappresentanza, alla seconda Camera legislativa, si dà loro il modo e la possibilità di far sentire finalmente la loro voce e di far valere i loro interessi diretti in sede nazionale; e con ciò si evita anche il pericolo, da molti accennato e temuto, che con il regionalismo si crei una specie di forza centrifuga, disintegratrice dell’unità nazionale. Infatti, quando si dà alle regioni la possibilità di partecipare alla vita dello Stato in seno alla seconda Camera, si dà loro il modo di partecipare direttamente alla vita del paese in sede nazionale, ravvicinandole tra di loro e ravvicinandole, soprattutto, alla vita dello Stato e alla fonte della legge. Onde, assegnando alla seconda Camera la rappresentanza degli organi territoriali fondamentali, quali sono le regioni, si è in perfetta aderenza logica alle premesse che si sono poste quando si è votata la mozione relativa all’istituto dell’ente regione.

Ma la seconda Camera deve dare anche possibilità a tutte le classi produttrici di essere rappresentate nell’organizzazione del potere legislativo. Non si intende con ciò tornare all’organo corporativo di infausta memoria; ma si vuole che tutte le classi produttrici, in tutti i loro settori e in tutti i loro gradi, abbiano il diritto di far valere le loro ragioni, di tutelare i loro interessi, di portare la voce della loro esperienza là dove si elaborano le leggi.

Accenna quindi al modo in cui questa Camera si deve costituire, senza entrare in dettagli, e per aderire all’invito dell’onorevole Lussu, il quale diceva che, per potersi decidere ad accettare il sistema bicamerale, dovrebbe sapere quale sia la funzione della seconda Camera e come questa si debba costituire.

La funzione di questa seconda Camera, se non sarà di piena parità con la prima, dovrà avere notevole importanza, nel senso che essa dovrà collaborare con la prima nella formazione delle leggi. Non avrà il potere di provocare delle crisi dando voti di sfiducia al Governo, ma dovrà avere questa parità di funzioni nel campo legislativo, affinché sia un organismo vitale e possa portare un contributo rilevante nella elaborazione legislativa. E allora, come potrà costituirsi la seconda Camera, tenendo presenti le esigenze della rappresentanza territoriale delle regioni e della rappresentanza delle classi produttive?

Non aderisce all’idea, alla quale pare abbia aderito l’onorevole Ambrosini, già espressa dall’onorevole La Rocca e da altri: che, cioè, la seconda Camera debba essere eletta a suffragio universale, come la prima, perché, con questa soluzione si creerebbe un doppione veramente inutile e pericoloso, mettendo ogni cittadino, probabilmente nella stessa epoca o data, nella condizione di esprimere in duplice sede un unico pensiero ed un unico orientamento. Questa rappresentanza territoriale delle regioni e delle classi produttive si può realizzare utilmente in sede di formazione della seconda Camera, stabilendo che la seconda Camera debba essere formata dalle assemblee regionali con una elezione di secondo grado. È stato detto che le assemblee regionali sono la espressione più diretta della volontà popolare in sede di regione. Se si parte da questo presupposto, non vi è motivo per non concedere a queste assemblee la facoltà e il diritto di eleggere la seconda Camera, la quale risulterebbe come una riproduzione ingrandita dell’aspetto delle assemblee regionali, così come si costituiscono in seguito alla elezione a suffragio universale.

Si potrebbe obiettare che in tal modo si corre il rischio di non avere la rappresentanza paritetica delle regioni e la rappresentanza delle categorie produttive; ma a questo eventuale inconveniente si può rimediare, facendo in modo che le Assemblee regionali siano costituite per un terzo da elementi politici, e per due terzi da elementi tecnici. Cioè, si dovrebbe porre una limitazione alla libertà di voto dei cittadini, nel senso che essi debbano scegliere come rappresentanti regionali esponenti di determinate categorie economiche e produttive o sindacali. Così si potrebbe avere la riproduzione, in sede nazionale, dell’ambiente economico e sociale delle regioni: e si raggiungerebbe lo scopo di creare un organismo, quale tutti desiderano, che sia non un inutile doppione della prima Assemblea, ma un organo quasi tecnico, il quale porti nella elaborazione delle leggi quel contributo che solo le classi direttamente interessate possono portare.

Conclude che in questo modo si va incontro alle esigenze progressiste che sono state fatte presenti. Se tutte le classi produttrici potranno essere rappresentate nella seconda Camera, si sarà compiuta opera veramente democratica. E a chi obietta che i rappresentanti delle organizzazioni sindacali possono essere eletti nella prima Camera, si risponde che una cosa è dare veste di uomini politici a quegli organizzatori sindacali, facendoli entrare nella prima Camera legislativa, ed altra cosa è dare direttamente al lavoratore la possibilità di partecipare di persona alla formazione delle leggi.

NOBILE ritiene di dover intervenire nella discussione – per quanto prima di lui abbiano interloquito così alte competenze nella materia in discussione – e di considerare il problema da un punto di vista personale, con la mentalità del tecnico.

Afferma di non credere alla opportunità e tanto meno alla necessità di due Camere. È un errore riferirsi alle tradizioni storiche per giustificare la creazione di una seconda Camera, nel momento attuale in cui il mondo sta subendo così profondi sconvolgimenti. Una seconda Camera si potrebbe ammettere solo se lo Stato italiano fosse uno stato federale, perché in una federazione di stati è necessario dare la possibilità di manifestarsi agli interessi dei singoli stati, così come avviene in America e nell’Unione Sovietica. A questo proposito però dissente da chi afferma che le due Assemblee, in tal caso, non possono trovare origine dallo stesso corpo elettorale. Avviene così in America e nell’U.R.S.S.; solo che in quest’ultimo stato le singole repubbliche hanno un numero eguale di rappresentanti indipendentemente dalla loro estensione e dalla loro popolazione.

Ma l’Italia non è uno stato federale. Vi sono, è vero, delle regioni, ed è stato rilevato il pericolo che da uno stato regionalista si finisca con lo scivolare lentamente verso uno stato federalista. Ricorda di essersi pronunciato contro la creazione dell’ente regione e coerentemente è ora avverso all’istituzione della seconda Camera, anche se questa dovesse essere soltanto espressione delle regioni.

Un motivo della sua avversione è in ciò che ha detto l’onorevole La Rocca: se le due Camere sono d’accordo, la seconda è superflua; se sono in disaccordo allora la bicameralità è dannosa. Ricorda, al riguardo che in Inghilterra, ove anche i conservatori come Churchill non sono affatto contenti del loro sistema parlamentare, sono state proposte Camere suppletive a quella dei Comuni, ma con competenza completamente distinta: così Churchill proponeva un Parlamento, emanazione della Camera dei Comuni, che si occupasse esclusivamente di questioni economiche; ed una socialista, Beatrice Webb, sosteneva l’istituzione di una Camera che si occupasse di questioni sociali. Ma queste proposte non ebbero alcun seguito.

L’altra ragione per cui è contrario alla istituzione della seconda Camera è che una seconda Camera è una cosa assurda, se ha gli stessi compiti della prima; come è assurdo in un’azienda industriale avere due Consigli di amministrazione.

Circa il vantaggio, di cui si è detto, di completare la rappresentanza con l’apporto di competenze che altrimenti non potrebbero pervenire all’Assemblea legislativa, osserva che nonostante le affermazioni contrarie, con ciò si tende in sostanza a ricostituire una specie di Camera delle Corporazioni. Non crede che il sistema attuale di elezione non consenta ai rappresentanti delle varie categorie di pervenire all’Assemblea legislativa: col sistema della rappresentanza proporzionale si ha di fatto l’immissione in questa Assemblea, non soltanto di politici professionali, ma anche di rappresentanti di categoria, e nell’attuale Assemblea Costituente, tutte le categorie sono rappresentate da operai, ingegneri, professionisti ed anche industriali. L’apporto delle competenze specifiche, d’altronde, si potrebbe avere assicurando a tutti i progetti di legge una preventiva od una contemporanea discussione pubblica, attraverso la stampa e le istituzioni varie. Quando l’Assemblea legislativa è obbligata a seguire queste discussioni, essa deve tener conto delle opinioni espresse dalle varie categorie interessate. E questo, d’altronde, è sempre avvenuto.

Non crede all’affermazione che la seconda Camera potrebbe contribuire alla stabilità del Governo, e ritiene anzi più efficace il sistema unicamerale anche per questo scopo.

Conclude che voterà contro l’istituzione della seconda Camera e, se la seconda Camera verrà adottata, voterà contro tutte le misure particolari che tendano ad aggravare quello che ritiene essere un danno e non un progresso delle nostre istituzioni.

PERASSI dopo l’ampia discussione che si è svolta, si limiterà ad una esposizione sintetica del proprio punto di vista.

L’onorevole La Rocca, all’inizio del suo discorso, ha richiamato i principî che, oltre che espressi dal Bentham, erano stati sostenuti da altri, per esempio dall’abate Sieyès: ma è da domandarsi se quel ragionamento famoso sia veramente fondato o se non sia inficiato da un eccessivo semplicismo. Ritiene che il problema della scelta del sistema debba porsi partendo dal concetto stesso di legge e di funzione legislativa; e a questo proposito richiama una frase di Carlo Cattaneo, il quale definiva la legge come una grande transazione, ossia un atto che tende a contemperare interessi diversi e contrastanti. Da questo concetto discende logicamente l’opportunità che il processo di formazione della legge avvenga in maniera tale che tutti gli interessi, tutti i punti di vista siano adeguatamente rappresentati e quindi l’opportunità, che, accanto ad una Assemblea che esce dal suffragio universale-diretto, cioè dalla massa della popolazione considerata come massa di individui, ci sia una seconda Camera, la quale esprima altre cose che pure esistono, perché la nazione non si può risolvere semplicemente in una massa di individui, ma è qualcosa di assai più complesso, e accanto agli individui esistono le istituzioni e quindi interessi particolari che hanno bisogno di essere adeguatamente rappresentati.

Ritiene perciò che sia più conveniente il sistema bicamerale che risponde a questa esigenza c rileva che lo stesso onorevole La Rocca, dopo aver reso omaggio al principio teorico dell’inutilità della seconda Camera, in linea pratica ha riconosciuto che il sistema bicamerale assicura una maggiore ponderazione nella formazione delle leggi, espressione perfettamente accettabile, intendendo la parola ponderazione in tutto il suo ampio significato, non soltanto nel senso di una maggiore perfezione tecnica, ma anche e soprattutto di maggiore ponderazione dei diversi interessi che la legge deve regolare.

Affermato questo concetto, non crede che in questo momento convenga entrare (per quanto sia un po’ difficile fare una netta separazione) nel problema del come organizzare la seconda Camera, che dovrà essere affrontato in seguito. Solo qui conviene fare qualche accenno di carattere generale.

Il fatto che si vogliano creare in Italia le regioni comporta quasi necessariamente la opportunità che la seconda Camera debba anzitutto fondarsi sulla creazione di questo ente, cioè che i membri della seconda Camera escano dalle Assemblee generali. Non crede che la rappresentanza a base regionale possa mettere in pericolo l’unità dello Stato; al contrario, la presenza di una rappresentanza regionale giova all’unità dello Stato e assicura una legislazione statale che meglio tenga conto delle diverse esigenze regionali, perché vi sono problemi in cui il punto di vista degli interessi regionali ha un peso notevole.

La creazione della seconda Camera ha inoltre l’utilità di permettere di avere un organo costituito dalla riunione delle due Camere, cioè l’Assemblea nazionale, alla quale si possono attribuire determinate funzioni, come l’elezione del capo dello Stato e qualche altra.

Non è forse questo il momento di affrontare il problema se la seconda Camera debba essere in una posizione perfettamente eguale alla prima; problema delicato, che va anzitutto esaminato in rapporto al concorso nella formazione della legge (potere legislativo in senso stretto). Da questo punto di vista ritiene che la parità di concorso sia preferibile; per quanto la Costituzione francese che si sta elaborando, pur cercando di temperare il difetto della prima redazione, abbia mantenuto nel Consiglio della Repubblica il carattere di una seconda Camera posta in una posizione di inferiorità rispetto alla prima, tanto che la si è definita una Chambre de réflexion, che, in fondo, si riduce ad una Camera consultiva.

MORTATI presenta il seguente ordine del giorno:

«La seconda Sottoconimissione afferma che l’istituzione di una seconda Camera è necessaria a dare alla rappresentanza politica pienezza di espressione, collegandola più intimamente con la complessiva struttura sociale, e passa all’esame del problema dei rapporti tra le due Camere ed al loro modo di composizione».

ROSSI PAOLO nota che tutti sono convinti che i partiti politici non esauriscono l’infinita varietà delle esigenze sociali e che, ad esempio, l’economia, il lavoro, la cultura, non riescono ad essere rappresentati in maniera piena dai partiti politici. Ma la speranza, espressa dall’onorevole Ambrosini, di conseguire una precisa ed equilibrata rappresentanza di tutti gli interessi economici, sociali e culturali in una seconda Camera, supera quello che si può raggiungere. Innanzi tutto si deve considerare che la vita sociale è in continua evoluzione, e che riuscirebbe assai difficile cristallizzarla in una rappresentanza della durata di 6 anni. Quando si fosse straordinariamente fortunati, la seconda Camera potrebbe rispecchiare le esigenze economiche e sociali dell’oggi. Ma è certo che, per la legge inesorabile del trascorrere continuo delle cose, quello che si fissasse oggi sarebbe inadeguato alla realtà di domani. Si dovrebbe allora immaginare una legge sulla composizione del Senato che fosse modificabile di legislatura in legislatura. In questo modo la politica, che si vuole mettere fuori dalla porta di questa seconda Camera, entrerebbe subito di nuovo dalla finestra: entrerebbe con la necessità di apportare queste modificazioni, di stabilire il nuovo modo di composizione del Senato e di interpretazione dei nuovi interessi in conflitto, allo scopo di determinare una loro proporzionale rappresentanza. Tutto ciò comporta infatti un giudizio politico che sarebbe influenzato dal mutevole clima politico. Se al momento di modificare la legge sulla composizione del Senato vi fosse alla Camera una maggioranza di destra, si cercherebbe di dare una maggiore rappresentanza nel Senato ai datori di lavoro; se la maggioranza suddetta fosse di sinistra, si cercherebbe di dare una maggiore rappresentanza in Senato ai lavoratori. Quella perfezione, che anche teoricamente pare irraggiungibile, verrebbe pertanto immediatamente deformata dalla necessità di modificare la legge secondo una concezione politica e soltanto politica.

Per queste ragioni i Commissari socialisti sono contrari, non per antipatia preconcetta, ad una Camera corporativa, ad una Camera di interessi di categoria, come press’a poco ora si ha nella Spagna e nel Portogallo: una siffatta Camera non sarebbe efficace e non si raggiungerebbero con essa gli scopi enunciati dall’onorevole Ambrosini.

Una seconda Camera formata mediante elezioni di secondo grado sarebbe certo meno imperfetta e meno arbitraria di quella corporativa.

BULLONI ritiene che l’istituzione della seconda Camera sia reclamata quale elemento moderatore e integratore, con parità di concorso con l’altra Camera, nella elaborazione ponderata della legge, che costituisce la funzione essenziale del potere legislativo.

L’istituzione della seconda Camera, come rappresentanza di interessi politici generali, risponde ad una esigenza profondamente sentita nel Paese, come la consultazione del 2 giugno ha potuto chiaramente esprimere, talché anche in questa sede, salva l’eccezione dell’onorevole Nobile, e pur con talune riserve da parte di qualcuno, si è aderito al principio del sistema bicamerale.

La seconda Camera non può non derivare da una fonte elettorale diversa da quella della prima, sia pure concepita con criterio elettivo. Le difficoltà sorgono allorquando si affronta il problema della composizione della seconda Camera; difficoltà, che s’incontrano sempre quando si affrontano problemi nuovi, ma che non sono insuperabili.

Innanzitutto occorre fare riferimento ad organismi che hanno già una configurazione giuridica riconosciuta; primi tra i quali le regioni. Attraverso le designazioni delle regioni, la seconda Camera verrebbe ad essere anche espressione di interessi spiccatamente locali.

Ma, accanto alle regioni, occorre considerare, dal punto di vista della funzione elettorale della seconda Camera, la cultura. Non si reca ingiuria ai principii della democrazia, se si riconosce ad esempio al professore di università il diritto ad una pluralità di voto, che egli di fatto verrebbe a conseguire. Chi consuma tutta la sua esistenza e le risorse del suo ingegno nello studio deve avere riconosciuta una posizione che lo differenzi, ad esempio, dal portiere della università stessa. Né è questo un argomento demagogico a rovescio; anzi è l’espressione del doveroso omaggio di ogni cittadino alle benemerenze della intelligenza e dello studio. Gli atenei hanno una fisionomia giuridica ben definita e possono contribuire alla designazione di loro rappresentanti nella seconda Camera.

Anche per le forze produttrici la capacità elettorale è conseguibile allorquando si riconoscano giuridicamente gli enti e le associazioni che tali forze organizzano. Fra gli organismi che hanno già una configurazione giuridica riconosciuta sono le camere di commercio, che rappresentano gli interessi dell’agricoltura, dell’industria, ivi compresi i trasporti, del commercio e della banca. Fra le altre forze produttrici, forse in via primaria, sono le forze del lavoro, circa le quali confessa di non essere ancora riuscito a trovare una soluzione da proporre alla considerazione della Sottocommissione. La difficoltà per la designazione delle forze del lavoro consiste nel fatto che il sindacato non è ancora giuridicamente riconosciuto e vige il principio della libertà di organizzazione. Fa quindi appello alla più consumata esperienza in materia degli onorevoli colleghi, perché si deve pur trovare una soluzione anche per la legittima rappresentanza delle forze del lavoro, superando quelle difficoltà che invece non si incontrerebbero per le altre categorie, che poggiano su istituti giuridicamente riconosciuti e accettati.

Altra fonte per la costituzione della seconda Camera dovrebbero essere i Consigli professionali; e ricorda che non ci sono soltanto i Consigli forensi, ma anche quelli dell’ordine dei Medici, dei Farmacisti, degli Ingegneri ecc. Tutte le professioni hanno un ordinamento giuridico al quale può essere affidata l’elezione dei rappresentanti alla seconda Camera. Ed anche gli artisti devono avere la loro rappresentanza nella seconda Camera. Anche per essi però si incontrano le difficoltà enunciate a proposito dei rappresentanti delle forze del lavoro.

Una parte dei componenti della seconda Camera dev’essere riservata alla nomina del Presidente della Repubblica. È evidente che questi non può avere solo una funzione decorativa, e già è stato rilevato che, per garantire una relativa stabilità di governo, occorre attribuire dati poteri al Capo dello Stato. Ora, uno degli elementi che valgono a conferire autorità e prestigio effettivo al Capo dello Stato è quello di demandare a lui la nomina di una aliquota, sia pure minima, dei componenti della seconda Camera, poiché in tal modo potranno essere integrate le deficienze delle designazioni dei vari corpi ed organi elettorali con la nomina delle più alte personalità della scienza, dell’arte, delle superiori attività del cittadino.

Accenna infine alla possibilità di trovare una soluzione delle difficoltà accennate per quanto riguarda le forze del lavoro, se non anticipando la adozione di provvedimenti legislativi in argomento, almeno accettando, per necessità incombenti, la situazione di fatto, e rimettendosi alle designazioni delle Camere del Lavoro.

LAMI STARNUTI presenta il seguente ordine del giorno, firmato anche dagli onorevoli Rossi Paolo, Bocconi, La Rocca, Ravagnan, Grieco, Calamandrei e Lussu:

«La seconda Sottocommissione esprime parere favorevole al sistema bicamerale, a condizione che la seconda Camera non sia costituita in modo da alterare la fisonomia politica del Paese, quale è stata rispecchiata dalla composizione della prima Camera».

AMBROSINI risponde subito alle osservazioni interessanti dell’onorevole Paolo Rossi, il quale ha affermato che quanto l’Ambrosini sostiene è un optimum, che però non si può raggiungere per l’impossibilità di dosare il quantitativo di rappresentanti da attribuire alle singole categorie della produzione e dell’attività lavorativa nelle sue varie espressioni fondamentali.

Si tratterebbe adunque di difficoltà d’ordine pratico, le quali è da credere che possano superarsi ricorrendo a certi criteri generali da fissare pregiudizialmente. Così per quanto riguarda l’agricoltura, l’industria, il commercio, i trasporti, le varie forme di attività intellettuale, quali la scienza, l’arte, le professioni libere, ed altre attività ancora, quali, ad esempio, l’artigianato, che per le sue peculiari caratteristiche tecniche e per la sua funzione sociale può bene essere considerato come una categoria a sé stante, meritevole di avere una propria voce ed una propria rappresentanza.

Indubbiamente, sarà sempre in base ad una valutazione empirica dell’importanza approssimativa delle singole categorie nella vita economico-sociale del Paese che si procederà all’assegnazione di un differente numero di rappresentanti a ciascuna di esse.

Questa valutazione verrà di necessità fatta e giustamente fatta, in base ad un orientamento politico, quell’orientamento politico che in definitiva segna gli scopi da raggiungere e suggerisce i mezzi tecnici più idonei allo scopo.

È stato detto che l’insieme delle varie categorie produttrici può paragonarsi ad un fiume fluido, nel quale però non sarebbe possibile captare ed isolare le singole correnti. Si potrebbe aggiungere, continuando i paragoni, che le categorie in questione possono raffigurarsi come fondibili in un arcobaleno.

Orbene, l’isolare i vari colori è difficile, ma non impossibile. Comunque non è affatto impossibile determinare quali essi fondamentalmente sono, ed attribuire ad ognuno dei colori una data importanza. Per tornare al concreto è difficoltoso, ma non impossibile determinare l’importanza delle varie categorie produttive e stabilirne il relativo quantitativo di rappresentanza.

Né c’è alcun pericolo nell’adozione d’un criterio relativo, empirico. Il pericolo ci sarebbe se vi volesse cristallizzare, una volta stabilitolo, tale criterio, proibendone per l’avvenire la modificazione. Ma tale cristallizzazione deve escludersi a priori. Quando si ritenga che siano cambiati i presupposti che servirono nel primo tempo di criterio d’orientamento e di decisione per stabilire il numero di rappresentanti per ogni categoria, il legislatore potrà sempre rivedere la precedente deliberazione, e modificarla nel senso di assegnare a ciascuna categoria quel nuovo quantitativo di rappresentanza che fosse suggerito dalle mutate condizioni ed esigenze della vita economico-sociale-politica del Paese.

Nessun ostacolo quindi sussiste per l’adozione del propugnato sistema. In proposito si richiama ai precedenti della legislazione spagnuola del 1896 e della Costituzione di Weimar del 1919, che creò il Consiglio Economico del Reich sulla base dei principii propri del sistema in discussione. Accenna anche al sistema di votazione per l’elezione dei deputati assegnati alle Università in Inghilterra. Concludendo, rileva che si potrà arrivare con opportuni accorgimenti e cautele ad immettere nella seconda Camera le rappresentanze degli interessi territoriali e professionali e dell’attività lavorativa in genere, in modo tale che integrino e completino la rappresentanza della Camera dei Deputati, funzionando sempre, s’intende, in vista del perseguimento degli interessi generali del Paese globalmente ed unitariamente considerati.

La seduta termina alle 20.45.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, De Michele, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Porzio, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Vanoni, Zuccarini.

In congedo: Amendola, Conti, Einaudi.

Assenti: Leone Giovanni, Maffi, Uberti.

GIOVEDÌ 5 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

9.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 5 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sull’ordine dei lavori

Presidente – Cappi – Lussu.

Organizzazione costituzionale dello Stato

(Seguito della discussione)

La Rocca – Bozzi – Lussu – Patricolo – Calamandrei – Tosato – Porzio – Targetti – Einaudi – Fabbri – Amendola – Vanoni – Presidente – Mortati – Conti – Mannironi – Bulloni – Grieco – Perassi.

La seduta comincia alle 17.

Sull’ordine dei lavori.

PRESIDENTE, poiché taluni colleghi hanno espresso il desiderio di stabilire una specie di calendario dei lavori sufficientemente preciso, avverte che il problema è alquanto delicato perché è necessario evitare le interruzioni, dato che i lavori della Sottocommissione, anche col ritmo attuale, sono destinati a durare a lungo. Comunque, domanda se vi sono al riguardo proposte concrete sulle quali sia possibile un accordo.

CAPPI propone che il sabato si tenga seduta al mattino e non se ne tenga il lunedì.

LUSSU ricorda che è preannunziata la convocazione dell’Assemblea Costituente per uno dei prossimi giorni.

PRESIDENTE osserva che nei giorni in cui l’Assemblea fosse convocata, i lavori della Sottocommissione dovrebbero adattarsi alla situazione. Mette quindi ai voti la proposta di tenere da oggi in poi seduta nel pomeriggio alle 17 tutti i giorni, salvo il sabato in cui si terrebbe alle 9, facendo riposo la domenica e il lunedì.

(È approvata).

Seguito della discussione sull’organizzazione costituzionale dello Stato.

LA ROCCA dichiara che egli è favorevole ad una Repubblica parlamentare, nel senso di una Repubblica con un tipo di Governo parlamentare, che, però, dovrà avere sue caratteristiche particolari, che costituiranno delle innovazioni sostanziali. Ma, questo aspetto della questione sarà esaminato in un secondo tempo, cioè quando si discuteranno i rapporti tra i poteri.

Si hanno tre tipi generali di Governo, con delle varietà, nella pratica, caratterizzate dalle modalità di organizzazione e dallo spirito con cui funzionano gli istituti: il tipo presidenziale, il direttoriale e il parlamentare. Questi tre tipi sono prodotti della evoluzione storica e se, in misura variabile, appaiono come applicazioni di una teoria e di un principio, questa teoria e questo principio riflettono essi stessi delle circostanze storiche.

Tutti questi Governi democratici hanno più organi; il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario, che compiono funzioni diverse e sono concepiti come poteri distinti. L’esistenza di poteri distinti corrispondenti ad una divisione di funzioni proviene, in generale, da una causa politica e da un principio: nel regime di transizione che condusse alla democrazia, il re conservava il potere esecutivo, mentre il potere legislativo era rappresentato dagli organi che rispecchiavano la volontà popolare.

I sostenitori del liberalismo videro nella separazione dei poteri un mezzo per indebolire lo Stato e per proteggere l’individuo contro l’arbitrio del potere. L’esperienza ha dimostrato che la separazione dei poteri concepita in una maniera ristretta, è una impossibilità e un assurdo. Comunque, la dottrina della separazione dei poteri, che già si trova nella politica aristotelica e che Montesquieu ha elevato a sistema, ha avuto una parte capitale nella formazione dei tre diversi regimi democratici. L’impronta e la struttura stessa di questi regimi differiscono secondo il grado di separazione dei poteri che si è potuto realizzare.

Il regime presidenziale risponde all’idea di una separazione netta tra i due poteri. Il parlamentare, invece, crea dei poteri distinti; ma prevede ed organizza la loro collaborazione. Il direttoriale è qualche cosa di mezzo tra i due regimi, in quanto ha la stabilità dell’esecutivo propria del presidenziale e ha l’esecutivo espresso dal legislativo, come il parlamentare.

Del regime presidenziale, fondato sulla netta separazione dei poteri (l’esecutivo da un lato, il legislativo da un altro), il modello è offerto dagli Stati Uniti. Ne parla unicamente per far notare – e non a caso ha detto che questi Governi sono prodotti dalla evoluzione storica – e per dimostrare che, se un regime ha avuto un esperimento felice in un determinato clima storico, trasportato altrove potrebbe dare dei frutti quanto mai diversi.

È inutile rievocare come sorse la Costituzione di Filadelfia: si ebbe l’idea di difendere i diritti del cittadino e la libertà degli Stati particolari, pure subendo l’influenza della così detta Costituzione inglese. Quindi, un Presidente che praticamente aveva tutto il potere del re d’Inghilterra – salvo ad essere elettivo e non ereditario – e, d’altra parte, un legislativo che costituiva un freno, un contrappeso ai poteri dell’esecutivo. Infatti, il Presidente detiene da solo l’esecutivo e il Gabinetto è formato di Ministri che sono dei suoi agenti, investiti della sua fiducia personale.

Egli ha il diritto di messaggio, di veto legislativo e di nomina dei funzionari; il legislativo vota le leggi. Il Presidente, per la realizzazione della sua politica, ha bisogno dell’assenso del Congresso; quindi tutte le manovre del Presidente, per il tramite dei suoi amici ed anche per effetto dei suoi messaggi. Il Senato ha l’arma dell’approvazione dei trattati, onde è, praticamente, il cimitero dei trattati, come è avvenuto nel caso del trattato di pace al tempo di Wilson; poi, il Congresso – cioè i Senatori e i rappresentanti della Camera – votano il bilancio e accordano o non accordano l’approvazione. Questo, detto in generale, determina possibilità di conflitti non appena non si stabilisce l’accordo tra i due poteri. Quando il Presidente praticamente è l’espressione del partito che ha la maggioranza del Congresso, ha modo di applicare puramente e semplicemente la sua politica; ma, poiché la Camera si rinnova di continuo, la maggioranza in favore del Presidente può diventare minoranza e allora si determina la situazione di conflitto: a meno che il Presidente non abbia una grande personalità, come è qualche volta avvenuto nella storia (come, a prescindere da Washington, nel caso di Lincoln, che aveva una tale autorità da raccogliere senz’altro il consenso generale), egli è costretto a fare una politica di stagnazione. Ad ogni modo, anche questo sistema è stato possibile ed è possibile in America, perché ivi funziona il sistema dei due partiti: i vecchi federalisti e gli anti-federalisti, che poi sono diventati i democratici e i repubblicani; due partiti più o meno conservatori. Gli Stati Uniti, per la loro situazione geografica e per le favorevoli condizioni economiche, non sono agitati da grandi convulsioni interne e in materia di politica internazionale non hanno da temere attacchi; quindi, tutte le loro questioni si riducono a questioni di protezionismo e di intervento o di isolazionismo, che sono pure questioni di grande importanza e di grande peso.

Ma questo regime, che ha avuto esito più o meno positivo negli Stati Uniti, non può essere assolutamente preso a modello da altri Stati. A parte la circostanza che, trapiantato nell’America Latina, ha dato luogo agli inconvenienti che tutti conosciamo, cioè ha spianato la via alle dittature, il regime presidenziale in Europa ha avuto una sua attuazione col regime consolare, al tempo di Napoleone, e con quello della Repubblica del ’48, che ha spianato la via al secondo bonapartismo in Francia. E c’è di più. Nel dopoguerra una Costituzione ha cercato di innestare l’elemento presidenziale sul tipo parlamentare: la Costituzione di Weimar, fatta da dottrinari, con a capo Preuss, ha cercato di dare vita in Germania al parlamentarismo, che non vi è mai esistito, ma ha tenuto a creare un esecutivo forte, cioè una figura di Presidente che aveva tutti i poteri del vecchio Imperatore e per giunta il famoso potere dell’articolo 48, col quale aboliva praticamente i principî fondamentali della Costituzione. Ebbene, questa Costituzione è stato il ponte gettato sul caos politico della Germania per dodici anni, per condurla alla dittatura terroristica di Hitler.

Questa è l’esperienza del regime presidenziale.

Nelle attuali condizioni e nelle condizioni che eventualmente potranno crearsi in Italia – perché non ci si deve fermare alla considerazione del momento in cui la Costituzione è formata, ma bisogna prevedere gli sviluppi futuri – un Presidente eletto dal popolo potrebbe ritenersi indipendente anche di fronte al legislativo e quindi come una specie di dittatore, e poiché della dittatura tutti ne hanno abbastanza, a prescindere dalle altre ragioni, il regime presidenziale non ha alcuna possibilità di vita nel nostro Paese.

Il regime direttoriale, che ha avuto il suo modello in Svizzera, è un regime in cui l’esecutivo è costituito da un insieme di membri, da un direttorio, senza un vero e proprio capo dello Stato a capo del Governo. Questo direttorio ha una durata fissa, cioè non può essere revocato. Però, così come è stato concepito in Svizzera, l’esecutivo non è se non un commesso agli ordini del legislativo; perciò, essendo espressione del legislativo, non può trovarsi in conflitto con questo. Anche il regime direttoriale in Europa ha avuto altri precedenti, quanto mai pericolosi: la Costituzione del fruttidoro dell’Anno III, fondata sul principio della netta separazione dei poteri, col timore dell’onnipotenza del legislativo e con la consegna dell’esecutivo al direttorio, che creò le premesse per la nascita del primo bonapartismo. C’è sempre da preoccuparsi di tutto quello che ci può anche lontanamente portare all’apertura di un varco verso la dittatura.

V’è infine il regime parlamentare, il quale ha avuto la sua culla in Inghilterra e di cui è bene parlare più minutamente.

L’Inghilterra ha avuto un suo processo, una sua formazione lenta. Anzitutto è un Paese che non ha una vera e propria Costituzione scritta: la Costituzione inglese è fatta di frammenti, di prassi, di principî accettati dalla consuetudine, più che scritti. Comunque, anche la lettera della Costituzione non risponde alla realtà pratica. Ivi il Capo dello Stato, il re costituzionale, ha tutti i poteri dell’esecutivo e qualche potere del legislativo, perché ha la sanzione legislativa, ma praticamente non è che una ruota accessoria nel meccanismo: è Capo dello Stato, Capo delle forze armate, dichiara la guerra, conclude la pace, conclude e ratifica i trattati, ha potere di grazia e diritto di sciogliere la Camera, ma praticamente è una figura secondaria, anche se può avere il suo prestigio, che deriva dalla tradizione. In Inghilterra il potere esecutivo e legislativo è il Gabinetto; ma questo per particolari circostanze storiche, che non si sono riprodotte in nessun Paese d’Europa e che difficilmente vi si possono riprodurre. In Inghilterra, praticamente il Gabinetto ha la direzione legislativa, perché è esso che propone le leggi, che sono puramente e semplicemente approvate dal Parlamento, e conduce la politica governativa. Il Gabinetto inglese è il Comitato della maggioranza parlamentare; cioè, l’esecutivo è la vera espressione della volontà del legislativo, ossia della maggioranza del legislativo, perché, già da quando il parlamentarismo è sorto, fin dal secolo XVIII, si sono delineati due partiti: prima i wighs e i tories, poi i conservatori e i liberali. I liberali sono poi scomparsi, sostituiti dai laburisti; e si hanno due partiti, disciplinati e organizzati, che si mantengono compatti e costituiscono, or l’uno or l’altro, la maggioranza, per il modo di scrutinio che consente la eliminazione dei piccoli gruppi e permette – con l’abbassamento della Camera dei Lords, la Camera dei Comuni è diventato organo onnipotente – di mandare alla Camera dei Comuni una maggioranza compatta, che può sostenere un Governo e gli può dar modo di svolgere fino all’ultimo tutta la sua politica. Così il Governo ha stabilità e sicurezza, perché non può in alcun modo dubitare di essere seguito da questa maggioranza parlamentare, che è il partito che esprime il Gabinetto e soprattutto il partito, che nel suo capo, nel suo leader designa anche il Primo Ministro. Fin dal tempo di Pitt e di Napoleone si è delineata la figura del Primo Ministro, che è colui il quale tiene il timone, designa i Ministri, propone al re lo scioglimento della Camera. Il Re in Inghilterra non si è mai opposto alla volontà del Primo Ministro, le cui proposte di legge sono senz’altro accettate. Cosicché, mentre la Camera dei Comuni sembra onnipotente, in realtà essa è docile seguace dell’indirizzo e delle direttive del Gabinetto.

Ora, queste condizioni particolari del parlamentarismo inglese non si possono riprodurre né si sono riprodotte finora altrove. Ed in Francia, che si è pure retta col sistema parlamentare, il parlamentarismo nella pratica è stato quanto mai diverso dal sistema inglese. Mentre in Inghilterra abbiamo avuto un esecutivo forte e fornito del potere di scioglimento, cioè un esecutivo espresso dal legislativo, che aveva sicurezza di durata, in Francia ha finito col prevalere la forma del Governo di Assemblea, di un governo cioè, che non si soprappone alla Camera, ma è un esecutivo alle dipendenze del legislativo, con tutte le debolezze, le crisi e le paralisi che ne sono derivate.

Afferma che egli è favorevole al sistema parlamentare. Senza esaminare la questione dei rapporti fra i poteri, di cui si discuterà in un secondo tempo, rileva come nel sistema parlamentare debba essere riconosciuto il principio che nella Repubblica italiana, unitaria, indivisibile, democratica, la radice della sovranità sta esclusivamente nel popolo, da cui emana ogni potere. Lo Stato si deve organizzare in modo che la sovranità sia esercitata con i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, i quali, provenendo dalla stessa unica fonte, non siano separati e tanto meno opposti, ma ripartiti in modo razionale tra gli organi chiamati ad attuare la volontà popolare, unica fonte della sovranità e del potere. Si deve, cioè, creare la unità armonica dei poteri, non secondo la concezione di Montesquieu, ma secondo quella di Rousseau, con la istituzione di un’Assemblea rappresentativa popolare che nello stesso tempo sia legislativa ed esecutiva, elabori la legge e ne controlli l’esecuzione, esamini, critichi e decida, sorvegli l’osservanza delle sue decisioni. All’ordine giudiziario, con piena indipendenza della magistratura, spetta applicare la legge ai casi concreti, nel diritto pubblico e privato, per il rispetto dell’ordinamento giuridico.

BOZZI osserva che le relazioni dell’onorevole Mortati e dell’onorevole Conti e l’intervento dell’onorevole Einaudi, nella cui esposizione si sentiva circolare la vita vissuta, hanno in sostanza posto in evidenza come i due sistemi, presidenziale e parlamentare, nella prassi, nella consuetudine non siano poi così opposti l’uno all’altro come, secondo uno schematismo troppo rigido, potrebbe apparire: vi sono dei temperamenti e dei tentativi di avvicinamento, sia in linea di fatto, sia mediante la predisposizione di specifici congegni costituzionali. Sussistono però dei connotati costituzionali che individuano e differenziano l’un regime dall’altro.

Senza fare una esposizione di diritto pubblico comparato, come ha già fatto egregiamente il collega La Rocca, rileva che il tipo presidenziale, nel suo modello classico nordamericano, è caratterizzato da questo fatto, che il Presidente è il Capo effettivo, il titolare, il padrone – come è stato qui detto con una frase assai efficace – del potere esecutivo. Vi è separazione netta fra esecutivo e legislativo; onde le possibilità di attriti, di disarmonie, ecc. e, quindi, le difficoltà di agire del regime presidenziale, e la mancanza costituzionalmente organizzata di un controllo parlamentare sull’esecutivo.

Un tipo diverso è il sistema parlamentare in cui si ha una compenetrazione e una collaborazione fra esecutivo e legislativo, tanto che si è potuto parlare di confusione di poteri anziché di divisione: vi si attua una divisione di lavoro e di funzioni.

Le idee che esporrà non sono nuove e nemmeno peregrine; ma sarebbe un errore ricercare di proposito ciò che è peregrino e ciò che è nuovo. Bisogna richiamarsi ai vecchi principî collaudati dall’esperienza; vedere le deformazioni, le degenerazioni che questi principî hanno subito per varie cause, e porre dei rimedi, affinché queste cause non si riproducano.

Il fine che si deve perseguire è quello di foggiare una Costituzione che renda possibile un equilibrio stabile e un’intima collaborazione fra i diversi poteri. Il principio fondamentale – come ha esattamente sottolineato l’onorevole La Rocca – deve essere che ogni potere attinge la sua fonte di legittimazione dal popolo. Da qui deriva la necessità della collaborazione fra i poteri per l’attuazione di questa unica volontà popolare che sottostà ad ogni potere. Al popolo deve essere riservata una funzione d’intervento diretto ed attivo nelle decisioni politiche; ed esso deve costituire l’ultima istanza alla quale si può ricorrere per la risoluzione delle crisi e la riequilibrazione dei poteri. L’equilibrio naturalmente presuppone un congegno costituzionale di controlli e di limiti. Ogni potere deve essere efficiente nella sfera delle sue attribuzioni, ma non deve essere dominato, né a sua volta dominare gli altri poteri, altrimenti l’equilibrio verrebbe meno.

L’esigenza che più spiccatamente si è manifestata anche dopo la guerra del 1914-18, è quella del rafforzamento del potere esecutivo sotto il profilo della stabilità e dell’efficienza. Ciò non fu possibile in alcuni Paesi, come in Italia, per varie ragioni, e soprattutto per le degenerazioni parlamentaristiche. Si disse allora che era la crisi della democrazia; viceversa la crisi era rappresentata dal parlamentarismo, da questa forma patologica del sistema parlamentare. Il parlamentarismo ruppe l’equilibrio: il potere legislativo, degenerando, prese il sopravvento sull’esecutivo; onde quelle facili crisi, con la conseguente instabilità del potere esecutivo che tutti conosciamo e che hanno poi aperta la via all’affermazione dei regimi dittatoriali. Rottura, quindi, di equilibrio per il prepotere del legislativo sull’esecutivo, con conseguenti effetti funesti.

Ma altrettanto gravi e funesti sarebbero gli effetti qualora l’equilibrio si dovesse rompere in senso inverso, se cioè si creasse un sistema in cui costituzionalmente il potere esecutivo avesse una posizione di preminenza sul potere legislativo. Perciò egli è contrario al sistema presidenziale, che rappresenta una forma di accentramento di poteri la quale, trapiantata in Italia, potrebbe tralignare in forme dittatoriali. La migliore difesa contro il pericolo di futuri regimi autoritari e dittatoriali sta appunto nel rafforzamento dell’esecutivo. Ma bisogna vedere come il rafforzamento dell’esecutivo si possa ottenere nel quadro di un regime parlamentare; ed a suo avviso ciò deve ottenersi attuando una forma di collaborazione fra il legislativo e l’esecutivo: questo in tanto potrà essere forte ed efficiente in quanto tragga di continuo la fiducia dal legislativo.

Si dice che vi è il pericolo delle crisi. Anzitutto è da dire che le crisi non sempre sono un male; alle volte sono il rimedio per sanare un male, per ricostituire quell’equilibrio ch’era stato infranto da un dissidio determinatosi fra questi poteri. Le crisi sono un male, una forma patologica del sistema parlamentare, quando siano artificiosamente create, quando siano manifestazioni della degenerazione del sistema parlamentare, cioè, di quel prepotere del Parlamento sull’esecutivo. Quindi occorre preoccuparsi di congegnare dei dispositivi che rendano impossibile o per lo meno attenuino il manifestarsi delle crisi artificiose. Ritiene perciò che occorra orientarsi verso una architettura costituzionale che, schematicamente e senza entrare in particolari, riservandone la discussione ad altre sedi, espone così:

  1. a) si deve attribuire una posizione di indipendenza al Presidente della Repubblica, che dovrebbe essere eletto non già dal popolo (perché ciò darebbe una eccessiva autorità al Capo dello Stato, turbando quel rapporto di equilibrio di cui ha parlato) e nemmeno soltanto dal Parlamento riunito in un organo risultante dalla somma della Camera dei Deputati e del Senato (perché ciò porterebbe all’inconveniente in senso contrario, di far dipendere troppo sommessamente il Capo dello Stato dalle due Camere), ma da un Collegio misto costituito dal Parlamento, cioè dalle due Camere, e da rappresentanti di altre forze sociali, secondo criteri che potranno essere determinati e studiati in seguito. Inoltre, il Capo dello Stato deve essere il titolare di una potestà effettiva – concetto messo bene in evidenza ieri dall’onorevole Ambrosini – perché è estremamente pericoloso creare organi meramente decorativi, inutili. Tutto ciò che è inutile può essere anche dannoso e pericoloso. E tra i poteri che il Capo dello Stato dovrebbe avere è quello di nomina del Primo Ministro e di scioglimento della Camera dei Deputati. In sostanza il Capo dello Stato dovrebbe essere il supremo moderatore della vita politica, titolare di quella che è stata definita «potestà neutra»;
  2. b) il Governo deve avere la fiducia delle due Camere, ossia di quell’organo che si potrebbe chiamare l’Assemblea nazionale. L’idea dell’onorevole Mortati, che, per assicurare la stabilità del Governo, questo dovrebbe avere una durata minima, irriducibile – egli proponeva due anni, quasi come in un sistema direttoriale – non gli appare accettabile. La vera forza dell’esecutivo deve essere attinta dalla fiducia immanente espressa dal legislativo che detiene e manifesta la volontà popolare. Vi sono i pericoli delle crisi; ma le crisi artificiose si eliminano mediante altri congegni costituzionali, disciplinando, cioè, costituzionalmente l’istituto del voto di fiducia. In quasi tutte le Costituzioni del dopo-guerra vi è una disciplina del voto di fiducia, al fine di evitare le crisi di sorpresa, macchinate nei corridoi dei Parlamenti. Anche nella legge che governa la nostra Assemblea Costituente, all’articolo 3 vi è una certa disciplina, da tenere in considerazione, del voto di fiducia. In sostanza i principî fondamentali sono questi: che la mozione di sfiducia deve essere scritta e sottoscritta da un certo numero di Deputati e motivata; deve essere comunicata preventivamente a tutti i Deputati; deve venire in discussione dopo che i Deputati ne abbiano avuto conoscenza. La mozione di sfiducia, per determinare la caduta del Ministero dovrebbe conseguire una maggioranza qualificata. Si porrebbe così un freno alle crisi artificiose e si assumerebbero più nettamente le responsabilità di fronte al Paese. Si può pensare anche che, dopo un secondo voto di sfiducia, il Parlamento automaticamente si sciogliesse;
  3. c) si deve, infine, dare rilievo costituzionale autonomo alla figura del Primo Ministro. Se non si ha paura delle parole, è in sostanza la figura del Cancelliere; del Cancelliere che qui attinge il titolo della sua legittimazione dalla Camera e indirettamente quindi dalla volontà popolare.

Non si nasconde che l’adozione del sistema parlamentare a tipo Primo Ministro può incontrare in Italia delle difficoltà, soprattutto per il sistema pluralistico dei partiti e per la necessità – qui si fa una facile profezia – che per molto tempo ancora i governi siano costituiti sulla base di coalizioni. Perciò non è facilmente prevedibile che le forze politiche che entrano nella coalizione possano accettare la loro subordinazione alla figura del Primo Ministro. Ma egli pensa che se fosse accettato questo sistema del Primo Ministro, il quale dovrebbe esprimere la direzione politica generale nel Governo ed esserne il responsabile, si potrebbe forse avere un correttivo pratico a quegli inconvenienti che dai regimi dei governi di coalizione scaturiscono, come l’esperienza anche assai recente insegna.

Conclude questa breve delineazione del suo punto di vista, affermando sinteticamente che propende per un sistema a base parlamentare con correttivi intesi a mantenere uno stabile equilibrio e una collaborazione fra i poteri attraverso il rinsaldamento dell’esecutivo.

LUSSU confessa di aver sentito il bisogno di un tipo di repubblica presidenziale in Italia quando era all’estero. Tornato in Italia e vissuta l’esperienza dei primi Governi di coalizione dell’Esarchia e del presente Governo, si è però convinto che quel tipo di Repubblica non è adatto alla situazione politica italiana, specialmente in questo momento, in cui una radicale riforma costituzionale dovrebbe essere preceduta da riforme sociali, soprattutto nel campo industriale ed agrario, le quali dovrebbero dare al Paese una durevole stabilità interna.

Queste riforme non sono attuabili da un Governo di coalizione, in seno al quale non possono esser sopite le diversità ideologiche, mentre, nell’ipotesi di un Governo di maggioranza che uscisse dalle prossime elezioni, il voler realizzare grandi riforme sociali potrebbe comportare il rischio di una situazione molto confusa, forse anche rivoluzionaria, così come potrebbe portare allo stesso risultato il non volerle realizzare. In una simile situazione, con una Repubblica di tipo presidenziale potrebbe determinarsi un irrigidimento delle parti in contrasto, col conseguente pericolo della guerra civile, mentre in un tipo di Repubblica parlamentare queste estreme conseguenze possono essere più facilmente evitate dalla maggiore possibilità di manovre, di equilibrio, di transazioni tra i partiti.

Il suo avviso favorevole alla Repubblica parlamentare è pertanto dovuto a considerazioni pratiche, mentre dal punto di vista teorico egli sarebbe favorevole alla Repubblica presidenziale. Non condivide infatti molte delle critiche formulate in proposito dall’onorevole Einaudi. Non trova, fra l’altro, fondato il concetto che il Presidente degli Stati Uniti d’America perda il suo prestigio a mano a mano che copre i posti di cui può disporre, e cioè via via che diminuisce le sue possibilità di accontentare i sostenitori. Infatti, non sono rari i casi di rielezione del Presidente americano, il che dimostra che alcuni presidenti seppero conservare ed anzi rafforzare il proprio prestigio anche nel quarto anno della loro carica.

Anche l’altro inconveniente denunciato dall’onorevole Einaudi, relativo ai Comitati parlamentari, non è sufficiente a demolire la tesi della repubblica presidenziale, trattandosi di inconvenienti che, sotto aspetti diversi, si presentano in tutti i regimi democratici.

Non crede esatta nemmeno l’affermazione dell’onorevole Einaudi, secondo cui lo Stato federale non sarebbe una garanzia contro il prepotere del Presidente: in America più di una volta Stati federati hanno impedito che la volontà del Presidente fosse eccessiva nei loro territori.

La realtà dimostrata dall’esperienza è che i regimi democratici di tipo presidenziale funzionano bene nei Paesi in cui il problema sociale non è sentito con eccessiva intensità, come negli Stati Uniti e in Inghilterra, ove si ha una relativa pace sociale.

È stato detto che negli Stati Uniti i due partiti che si sono alternati al potere vogliono in fondo le stesse cose. Ciò può dirsi a maggior ragione per l’Inghilterra, ove tutti i partiti sono d’accordo nell’accettare il regime della Corona ed il presupposto che ogni conquista sociale debba essere ottenuta nella legalità, secondo la volontà dal Paese liberamente espressa. Ma negli Stati Uniti oggi la realtà è alquanto diversa, e precisamente da quando il Presidente Roosevelt con il New Deal ha dato forza politica ai sindacati operai: da allora, infatti, il partito democratico si è evoluto in senso progressivo, mentre il partito repubblicano ha assunto le forme di partito conservatore. In Inghilterra, anche dopo che il partito liberale è stato sostituito da quello laburista, un conservatore si sente molto più sicuro e tranquillo, per quanto la politica laburista lo abbia già molto spogliato, che non in Italia dove ai conservatori invece non è stato ancor tolto nulla.

Queste considerazioni hanno importanza nella vita politica, perché non si può non tener conto della situazione presente e del fermento che esiste. Là dove la stabilità sociale non esiste, è la crisi permanente. L’esempio è dato dagli Stati dell’America Latina, ove si può dire che ogni giorno si verifichi un colpo di stato e dove è permanente una confusione anarcoide che noi difficilmente comprendiamo, anche a causa della distanza, ma che certo nulla ha da vedere con la stabilità. L’unico Stato che faccia eccezione è l’Uruguay, in cui non esiste una grande proprietà agraria, ma soltanto la piccola proprietà: ivi la democrazia è magnifica, come egli può personalmente affermare per le conoscenze, se non profonde, assai notevoli che ha in materia.

La stabilità non c’è e non c’è stata né in Francia né in Italia. A differenza di quello che si verifica negli Stati Uniti d’America e nell’Inghilterra, i nostri Paesi continentali hanno esigenze ideali molto superiori. È questo un fenomeno psicologico che si prolunga nella storia da Atene ad oggi: da noi si è sempre alla ricerca di una società migliore, e da questa caratteristica della nostra civiltà occidentale deriva l’instabilità. La stessa crisi del dopo-guerra è un prodotto di questa situazione di instabilità. Egualmente è accaduto in Francia, e non c’è rimedio. E allora bisogna adattare la nostra Costituzione alle nostre particolari esigenze, e non dimenticare che la crisi odierna è una crisi che risale a vent’anni, tanto in Francia quanto in Italia.

Perciò, pur avendo teoricamente estrema simpatia per una Repubblica presidenziale, egli riconosce che occorre stabilire un regime che sia accettato da tutti o dall’immensa maggioranza, e per cui tutti si sentano partecipi della vita dello Stato. Non è infatti possibile esasperare ancora la situazione; bisogna impedire la guerra civile; bisogna ricostruire, e ricostruire nella legalità, altrimenti ci ridurremo alla situazione di un popolo barbaro. Ora, il Presidente parlamentare è quello che ha maggiore possibilità di prestigio: non essendo legato troppo alla vita di alcun partito, egli può correggere e regolare la situazione. Questo si vede oggi anche nel Presidente dell’Assemblea Costituente che, pur essendo uomo di partito, raccoglie tutti i Deputati nella sua rappresentanza; e tutti i Deputati si sentono garantiti dalla sua presidenza. Così dev’essere per la presidenza della Repubblica, se si vuole non correre i rischi che tutti conoscono.

Nella Repubblica parlamentare il Presidente deve avere, non solo un prestigio formale, ma soprattutto un prestigio sostanziale: non eccessivo, ma sostanziale. In Inghilterra il Re non può intervenire ad una riunione del Consiglio dei Ministri, non perché alcuna legge glielo vieti, ma perché glielo impedisce la tradizione. Ciò si è verificato, storicamente, da quando un Re straniero ritenne inutile di intervenire perché non capiva l’inglese: da quel momento nessun Re prese parte alle riunioni del Consiglio dei Ministri. In Francia, invece, il Presidente della Repubblica presiedeva il Consiglio dei Ministri in determinate circostanze, e si stabiliva così un maggiore contatto, una maggiore possibilità di esercitare la propria influenza, di correggere alcune deviazioni. Con alcuni correttivi si può arrivare a questo.

Il Presidente dovrebbe essere eletto con elezione pura e semplice dalle due Camere e da queste soltanto, perché se si chiamassero a partecipare all’elezione, per esempio, dei rappresentanti sindacali, questi finirebbero per esercitare un doppio diritto di voto.

Bisogna poi stabilire in qual modo il potere esecutivo può avere una maggiore influenza. Ma, a questo scopo, non ha alcun valore il fatto che nella Carta Costituzionale il Primo Ministro sia considerato un uomo molto importante: se rappresenta una grande corrente politica, egli sarà effettivamente un uomo rispettabile; ma, se rappresenta una corrente confusionaria, sarà anch’egli confusionario nella sua azione. La pratica importanza della nuova Costituzione dipenderà dai primi Presidenti del Consiglio dei Ministri: se essi saranno delle persone mediocri, la Carta Costituzionale non avrà valore. Quello che occorre, dunque, è aumentare il prestigio e l’autorità della democrazia.

PATRICOLO osserva che dalle relazioni svolte ieri è stata posta in luce una questione fondamentale, cioè se la Costituzione debba ispirarsi o meno al concetto della divisione dei poteri dello Stato. È stato osservato che il Governo presidenziale porterebbe al grave inconveniente della divisione dei poteri, intesa non come divisione delle funzioni di ciascun potere, ma come esclusione di ogni intervento di un potere sull’altro.

Ora, quando si manifesta la preoccupazione che il potere esecutivo venga totalmente staccato dal potere legislativo e che non gli sia consentita la partecipazione alla funzione legislativa, si afferma un principio che urta con la divisione dei poteri, in quanto si teme che il potere esecutivo non abbia la funzione di legiferare. È vero che il potere esecutivo in determinate occasioni, anche per motivi di competenza, può convenientemente prendere l’iniziativa delle leggi, e che la divisione sembrerebbe portare all’inconveniente che il potere esecutivo non partecipasse all’iniziativa della legislazione. Ma iniziativa non è potere di legiferare. D’altra parte, quando si dice che il potere legislativo nella Repubblica presidenziale è separato dal potere esecutivo perché esso non ha la facoltà di rovesciare un governo in quanto manca della possibilità di dare un voto di sfiducia, si afferma cosa che trae origine da un errore di valutazione sulle funzioni del Parlamento.

E su questo vorrebbe richiamare l’attenzione.

A suo avviso il Parlamento, che è espressione della volontà popolare, ha innanzi tutto una funzione legislativa, quale espressione di uno dei poteri dello Stato, nel modo in cui sono stati finora considerati; ma ha anche una funzione strettamente politica di vigilanza e di controllo sui poteri statali, funzione che gli viene appunto dalla sua rappresentanza politica. Questo punto è necessario approfondire prima di procedere oltre nella discussione.

Quando si parla di maggiore o minore influenza del potere legislativo sull’esecutivo in relazione alla possibilità o meno di rovesciare un governo, non si tiene presente che questa non è funzione precipua del potere legislativo, ma di un’Assemblea che ha la rappresentanza politica del popolo. Quindi quando si dice che la Repubblica presidenziale impedisce al potere legislativo di partecipare attivamente a questo controllo del potere esecutivo si dice cosa inesatta, perché ciò che si impedisce al Parlamento è soltanto d’influire, col suo controllo, sul potere esecutivo, ciò che è costituzionalmente in tutti gli Stati democratici; senza con ciò coinvolgere la funzione legislativa del Parlamento.

Perciò ritiene che in una Costituzione democratica si debba tendere principalmente a limitare le possibilità del potere esecutivo di esorbitare dai limiti delle sue funzioni e competenze; mentre non deve preoccupare il fatto che il potere legislativo, rappresentato dai Deputati eletti dalla volontà popolare, possa avere una funzione di vigilanza e di controllo sugli altri poteri dello Stato.

Onde, mentre è da accettare come principio ormai acquisito alla scienza del diritto ed alla dottrina, quello della divisione dei poteri dello Stato, è anche da ammettere che questa divisione sia inerente alle funzioni degli organi dei vari poteri e non all’estensione delle attribuzioni politiche del Parlamento.

Nel medesimo tempo occorre trovare una forma di collaborazione fra i tre poteri che permetta, principalmente ed essenzialmente al potere legislativo, in quanto rappresentante della volontà popolare, di vigilare e controllare gli altri poteri dello Stato.

Se queste premesse al problema dell’ordinamento dei poteri saranno accettate dalla Sottocommissione, questa potrà approvare un ordine del giorno nel quale siano fissati quei concetti e che può dar luogo ad uno sviluppo della discussione sui poteri; perché quando siano stabilite l’indipendenza e la divisione dei poteri, si potranno più concretamente inquadrare i vari poteri in armonia a questo principio di ordinamento giuridico.

Propone quindi il seguente ordine del giorno:

«Premesso che la Costituzione del nuovo Stato italiano deve ispirarsi ai concetti di una sana democrazia;

considerato che la forma di Governo più rispondente alle esigenze dell’attuale situazione politica italiana è quella della Repubblica parlamentare;

ritenuto che l’ordinamento giuridico dello Stato debba uniformarsi al principio della divisione e indipendenza dei poteri;

riconosciuto che il Parlamento, rappresentante della volontà popolare, oltre alla sua funzione legislativa, ha anche una funzione politica di vigilanza e di controllo su tutti i poteri dello Stato;

propone che lo schema di Costituzione, che sarà presentato all’approvazione della Costituente, risponda alle seguenti esigenze di ordine giuridico e politico:

1°) adozione della forma di governo parlamentare;

2°) rispetto della divisione ed autonomia dei poteri;

3°) riconoscimento delle funzioni politiche di vigilanza e di controllo del Parlamento sui poteri dello Stato».

CALAMANDREI ritiene di essere il solo che abbia qualche simpatia, nonostante la discussione, per la Repubblica presidenziale. Crede che il risultato di questa discussione sia piuttosto scoraggiante, tanto per i fautori della Repubblica presidenziale, in quanto ve n’è uno solo, che è lui, quanto per i fautori della repubblica parlamentare, che sono tutti gli altri, perché tutti, a quanto sembra, sono d’accordo nel ritenere che le costituzioni non servono a cambiare la situazione sociale quale è in realtà. Questo ha affermato l’onorevole Mortati nella sua relazione, in cui ha concluso dicendo che con le disposizioni si può fare assai poco. Quel che conta è quello che c’è sotto. È quello che ha detto ieri l’onorevole Einaudi, il quale ha spiegato che la repubblica presidenziale funziona bene negli Stati Uniti perché là v’è il sistema dei due partiti, e che in Inghilterra funziona altrettanto bene il regime parlamentare, perché anche in Inghilterra ci sono i due partiti; e dove non esistono i due partiti ma c’è una pluralità, uno sminuzzamento dei partiti, non funziona bene né la repubblica presidenziale, né quella parlamentare. Questa sembra la conclusione alla quale è poi arrivato l’onorevole Lussu, il quale, in sostanza, ha detto che in Italia sussiste il pericolo della guerra civile; onde occorre alla testa dello Stato un uomo che cerchi di evitarla.

Pur riconoscendo che la Costituzione non è che la forma cui si deve far aderire la sostanza sociale, crede che si possa avere una certa fiducia nella efficacia pedagogica delle leggi. La legge non basta a modificare la realtà, ma può essere uno degli stimoli per introdurre anche nella vita politica il costume, il quale venga a modificare questa realtà sociale.

Nell’attuale situazione italiana, quale delle due forme di Repubblica, presidenziale o parlamentare, può sembrare più idonea a contribuire al ristabilimento o allo stabilimento di un costume politico che faccia gradatamente avvicinare l’Italia ai paesi in cui funziona la democrazia? La democrazia, per funzionare, deve avere un Governo stabile: questo è il problema fondamentale della democrazia. Se un regime democratico non riesce a darsi un governo che governi, esso è condannato.

A chi dice che la repubblica presidenziale presenta il pericolo delle dittature, ricorda che in Italia si è veduta sorgere una dittatura non da un regime a tipo presidenziale, ma da un regime a tipo parlamentare, anzi parlamentaristico, in cui si era verificato proprio il fenomeno della pluralità dei partiti e della impossibilità di avere un governo appoggiato ad una maggioranza solida che gli permettesse di governare. Quindi il problema è questo: come si fa a far funzionare una democrazia che non possa contare sul sistema dei due partiti che, in Italia, in questo momento non esiste e che ancora per qualche tempo non esisterà, ma che deve invece funzionare sfruttando o attenuando gli inconvenienti di quella pluralità dei partiti la quale non può governare altro che attraverso un governo di coalizione? Cioè: qual è la forma dello Stato che meglio serve a far funzionare un governo di coalizione, impedendo quelle crisi a ripetizione che sono la rovina della democrazia, quella rovina che, se non fosse evitata, ricondurrebbe inevitabilmente, a più o meno lontana scadenza, ad una dittatura? Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dalla impossibilità di governare dei governi democratici.

Premesso questo, quelle cautele pratiche che sono state suggerite da vari colleghi per garantire che nella Repubblica parlamentare si abbia stabilità di governo, sono veramente efficaci a questo scopo?

È stato detto che bisognerà regolare la mozione di sfiducia, renderla difficile. Ma le crisi nei governi di coalizione avvengono indipendentemente dai voti di sfiducia: così oggi stesso in tutti i giornali si leggono allarmi di crisi, indipendentemente da qualsiasi voto di sfiducia. È il governo di coalizione che non ha coesione, che si frantuma. Quindi è inutile emettere disposizioni che regolino e rendano difficile il voto di sfiducia, quando il pericolo è proprio nella scarsa solidità dei governi di coalizione.

D’altra parte, gli sembra poco efficace anche la cautela da altri suggerita di far annunziare dal Capo del Governo un programma di lavoro, la cui approvazione assicuri automaticamente al Ministero una certa durata. È stato qui autorevolmente e lealmente spiegato come questa cautela sia assai illusoria e come, nonostante questa cautela, si possa arrivare ad una crisi il giorno dopo in cui il messaggio ha conseguito la maggioranza.

In conclusione: si può trovare un mezzo pratico più efficace di quelli proposti?

Tutti sanno che questo è un momento in cui in Italia ogni Governo, per potere esplicare un’opera efficace, deve avere la sicurezza di poter lavorare tranquillamente su un piano da svolgersi non con provvedimenti alla giornata, ma in un periodo di tre, quattro o cinque anni. Quindi è un problema che sorge proprio dalla tragica situazione italiana, dalla necessità di piani la cui realizzazione sia resa possibile dalla stabilità del governo. E allora, vi sono dei mezzi più efficaci di quelli proposti per garantire questa stabilità?

Non è tanto questione di nome: Repubblica presidenziale o parlamentare. Ammesso pure che anche in Repubblica parlamentare il Presidente, cioè il Capo dello Stato, debba essere al disopra dei partiti, nominato non come corifeo di un programma politico, ma come organo equilibratore che sta al disopra dei partiti, l’essenziale è che non il Capo dello Stato, ma il Capo del Governo abbia la sicurezza di poter governare. V’è modo di dare questa sicurezza? Se questo modo non esiste, comunque si voti, alla fine, sull’ordine del giorno, rimarrà in tutti un senso di imbarazzo e di delusione: si saranno votate delle formule, ma non si sarà trovato il modo di contribuire efficacemente a risolvere la situazione italiana.

In queste condizioni, se altri mezzi più efficaci non vengono suggeriti, egli rimane attaccato alla Repubblica presidenziale. In questa, poiché il Presidente, per riuscire eletto, deve conseguire la metà dei voti, è necessario che si formi una coalizione, uno schieramento di due gruppi di partiti; e poiché l’elezione avviene su un programma del Presidente, è più facile che su questo programma si formi una coalizione che abbia probabilità di essere più stabile di quella illusoria che si può invece attendere dai sistemi proposti da chi dà la preferenza alla Repubblica parlamentare.

Per queste ragioni voterà contro l’ordine del giorno del collega Patricolo.

TOSATO rileva che l’onorevole Calamandrei ha fatto un’esposizione del più alto rilievo, perché ha posto nei suoi termini veramente essenziali la questione della preferenza da dare ad una forma di governo piuttosto che ad un’altra. Dice in sostanza l’onorevole Calamandrei che, ove si riuscisse a trovare una forma, pure inquadrata nel tipo di governo parlamentare, che veramente assicurasse la stabilità del governo, egli potrebbe aderire alla forma di governo parlamentare; ma, poiché non vede questa possibilità, o per lo meno questa possibilità non traspare ancora dalle proposte che su questo argomento sono state fatte dagli altri colleghi, dati gli attuali urgenti problemi della vita politica italiana, egli è favorevole alla forma di governo presidenziale. In sostanza, l’onorevole Calamandrei domanda se nel senso da lui chiesto vien fatta qualche proposta. A questa domanda intende dare una risposta, a titolo puramente personale.

La discussione si è impostata da principio sulla scelta fra la forma di governo presidenziale e la forma di governo parlamentare. Ora, da un punto di vista generale, e naturalmente intendendo per governo presidenziale quello che è secondo lo schema teorico classico, egli crede che la forma di Governo presidenziale non sia adattabile all’Italia, perché nascerebbe snaturata e non potrebbe conseguire gli effetti che soli potrebbero giustificarne la scelta. Nascerebbe snaturata perché il Governo presidenziale presuppone l’esistenza di due partiti e quando il Presidente fosse, viceversa, designato da una coalizione, cioè in seguito ad un compromesso fra due partiti, nella migliore delle ipotesi, cioè nel caso che il compromesso funzionasse, si avrebbe un Presidente con poteri di fatto limitati, appunto perché legato dal compromesso che sta alla sua origine. D’altra parte la repubblica presidenziale non permetterebbe in Italia al Presidente, sempre per la pluralità dei partiti, di attuare la politica governativa, in quanto questa implichi e si traduca nell’adozione di date leggi. È facilmente prevedibile un contrasto permanente fra Governo e Camera.

Trova esattissimi i rilievi fatta dall’onorevole Einaudi, il quale ha richiamato alla considerazione che, di fatto, il governo presidenziale si sta notevolmente avvicinando alla forma di governo parlamentare. Tuttavia esiste pur sempre tra governo presidenziale e governo parlamentare una differenza fondamentale: nel governo presidenziale, a differenza di ciò che avviene nel governo parlamentare, il periodo di durata degli organi costituzionali è predeterminata, in un periodo fisso dalla costituzione; e questo elemento del periodo fisso, che assicura la stabilità dei supremi organi dello Stato, è un elemento che in Italia forse, più che a giovamento e a rafforzamento del potere esecutivo, potrebbe condurre all’indebolimento di esso.

Resta un importante elemento comune al governo parlamentare ed a quello presidenziale, e cioè che sia nell’una che nell’altra forma impera il principio della divisione dei poteri, in quanto le funzioni fondamentali dello Stato sono attribuite costituzionalmente a gruppi di organi diversi fra di loro, di modo che un atto di una determinata funzione che non venga emanata dall’organo competente è costituzionalmente invalido.

Questo è un elemento fondamentale da tener presente, perché ove si arrivasse ad ammettere una forma di governo con assoluta confusione di poteri, si perderebbe una delle caratteristiche fondamentali dello Stato moderno. Con una forma qualsiasi di confusione del potere legislativo e del potere esecutivo, si cancellerebbe, per lo meno dal punto di vista tecnico, giuridico, costituzionale, la garanzia della libertà moderna. Fermo il principio della divisione dei poteri, vero è tuttavia che nel governo parlamentare il Governo è l’espressione delle Camere. Ciò non significa però confusione di poteri. Nel governo parlamentare vero e proprio, non degenerato in governo di assemblea, titolare dell’attività di governo, appunto per la divisione dei poteri, è sempre il Governo e non le Camere. Nel governo parlamentare le Camere controllano il governo; il governo deve avere necessariamente la fiducia della Camera, ma il governo è governo e il legislativo è il legislativo; e questa è una esigenza fondamentalissima nella vita dello Stato moderno, né occorre richiamare le esperienze, che hanno avuto conclusioni tragiche, di molte costituzioni che, dopo la guerra del 1914-18, hanno instaurato forme di governo parlamentari in cui il governo era, in definitiva, schiavo e commesso del legislativo.

Di un governo non si può indubbiamente fare a meno ed a questo proposito bisognerà chiarire anche un altro concetto, e cioè che nell’ordinamento dei poteri indubbiamente il potere legislativo ha il primato, perché titolare della funzione legislativa dalla quale dipendono i limiti per tutti gli organi dello Stato; ma questo primato teorico, giuridico, dovuto alla natura della funzione, è tuttavia accompagnato da un primato effettivo, sostanziale dell’esecutivo, perché uno Stato senza un esecutivo stabile ed efficiente, che dia impulso e vita all’intero organismo statale, non può funzionare.

Il problema italiano sorge proprio qui. In generale, si è d’accordo nel preferire la forma di governo parlamentare. Sono ben presenti tuttavia le esigenze fondamentali proprie del governo parlamentare e l’esigenza soprattutto di una forma di governo che assicuri un esecutivo stabile ed efficiente, specie in questo momento in cui si deve compiere lo sforzo della ricostruzione. Data la situazione politica italiana, come si può assicurare in Italia una forma di governo che corrisponda a questo requisito?

Se si vuole evitare la degenerazione del governo parlamentare in governo di assemblea, cioè, in concreto, in governo dei comitati direttivi dei partiti dominanti, non vi sono che due possibilità. Una è quella di procedere alla regolamentazione dei voti di sfiducia e alla fissazione di un periodo minimo di vita al governo che abbia ottenuto l’approvazione delle Camere. Non crede che in Italia, data la pluralità e il profondo contrasto dei partiti, si possa per tal modo efficacemente ovviare alla intrinseca debolezza e precarietà dei governi. Personalmente condivide quindi la sfiducia manifestata dall’onorevole Calamandrei circa gli accorgimenti finora proposti per stabilizzare il governo parlamentare. La disciplina dei voti di sfiducia ha una influenza relativa. La determinazione costituzionale di una certa durata del governo che abbia ottenuto il voto di fiducia della Camera urta contro il fatto rilevato dall’onorevole Calamandrei, che le crisi di governo sono di regola extraparlamentari, perché, data la situazione politica in Italia, i governi sono governi di coalizione e la crisi avviene recisamente per dissoluzione interna della coalizione.

Dato questo, bisogna ricorrere ad un’altra soluzione, che non può esser data che dal contemperamento, da una specie di «contaminazione» del governo presidenziale con il governo parlamentare. Questa contaminazione, però, non dovrebbe avvenire nel senso tentato della Costituzione di Weimar, la quale ha creduto di risolvere il problema attraverso un irrobustimento dei poteri del Capo dello Stato. Il tentativo tedesco, checché si dica in contrario, ha dato un pessimo risultato. La contaminazione fra il governo presidenziale e il governo parlamentare dovrebbe avvenire nel senso di un potenziamento della figura del Presidente del Consiglio, il quale fosse espressione della volontà della Camera, ma avesse la effettiva possibilità di governare.

La soluzione che egli suggerisce, quindi, è questa: un Capo dello Stato distinto dal Capo del Governo, che sia un elemento di moderazione, imparziale, cioè in possesso delle cosiddette funzioni neutre; ma che abbia, sia pure limitato con ogni avvedutezza, il potere, in determinati momenti, di dissoluzione delle Camere nel caso di gravi difficoltà fra governo e Camere stesse. Quanto al Capo del Governo, non ritiene essenziale, nella forma di governo parlamentare che la sua nomina debba esser fatta dal Capo dello Stato, ma la crede utile in Italia, per la situazione particolare in cui ci troviamo. All’inizio di ogni legislatura le due Camere dovrebbero riunirsi e designare il Presidente del Consiglio su una lista presentata dal Presidente della Repubblica, dopo le normali consultazioni degli esponenti della vita politica. Le consultazioni fatte dal Presidente della Repubblica dovrebbero servire appunto alla formazione della lista dei candidati alla Presidenza del Consiglio. Su questa lista le Camere dovrebbero votare, ed il candidato che ottenesse la maggioranza sarebbe designato Presidente del Consiglio e quindi nominato dal Presidente della Repubblica. (Può darsi che nessuno dei candidati ottenga la maggioranza ed allora – necessità fa legge – bisognerà fare in una seconda votazione utile anche la maggioranza relativa). Il Presidente così designato e successivamente nominato dal Presidente della Repubblica dovrebbe godere la fiducia parlamentare. Si potrebbe tuttavia accettare il principio che, una volta fatta questa designazione, il nuovo Presidente del Consiglio si presumesse assistito dalla fiducia parlamentare e quindi potesse senz’altro durare in carica finché la fiducia parlamentare non gli venisse meno. Per il voto di sfiducia dovrebbe richiedersi che sia presentata al Presidente della Repubblica una mozione di censura, firmata da almeno un terzo dei membri delle Camere, e motivata. Il Capo dello Stato dovrebbe quindi convocare le Camere, e se la mozione di sfiducia venisse approvata dalla maggioranza, il primo firmatario della mozione dovrebbe essere senz’altro considerato come Presidente designato al governo. Se fossero presentati più voti di sfiducia, si dovrebbe considerare come primo designato il primo firmatario della mozione che avesse ottenuta la maggioranza relativa; ma in questo caso il Presidente della Repubblica dovrebbe avere il potere di procedere allo scioglimento delle Camere.

Si riserva di presentare nei suoi lineamenti concreti la proposta accennata, che gli sembra dia affidamento di un governo parlamentare stabile ed efficiente. Conclude affermando che in ogni caso, ove tale inderogabile esigenza non potesse venire soddisfatta, esprimerebbe senz’altro la sua preferenza per una forma di governo presidenziale.

PORZIO dichiara che ha tutte le apprensioni e le preoccupazioni dell’onorevole Calamandrei, come quelle dell’onorevole Tosato.

Credeva che la questione della scelta fra Repubblica parlamentare e Repubblica presidenziale fosse stata già decisa, quando egli era stato forzatamente assente; ma constata che tutta la discrepanza sta su questo punto: se v’è modo di assicurare un Governo stabile in regime di repubblica parlamentare. Egli crede di aver trovato questo modo che è molto semplice: abolire la proporzionale. Se si considera la proporzionale come intangibile, si fa un discorso a rime obbligate, ma non si riesce ad armonizzare la discussione.

Quando ci sarà un Governo di maggioranza, quando cioè il corpo elettorale sarà chiamato a discutere su un programma di governo e su questo programma si sarà costituita la maggioranza, si avrà la forza, l’autorità ed il prestigio del Capo del Governo e si avrà la stabilità del Governo. Quando invece ci si trova di fronte ad una situazione elettoralistica nella quale si improvvisano i partiti, non si avrà mai una stabilità di governo e le discussioni saranno inutili perché non daranno mai la stabilità. La Francia si tormenta in una crisi da anni, perché ha la proporzionale. L’Italia si è tormentata nel dopoguerra in quelle convulsioni che tutti sanno perché aveva la proporzionale e non è stato mai possibile creare un Governo di maggioranza. Questo è l’inconveniente che l’Assemblea dovrebbe cercare di risolvere ed in questo modo essa darebbe veramente all’Italia una Costituzione stabile, che abbia autorità, forza e potere per impedire la guerra civile. Questo è quello che desiderano tutti i presenti, qui riuniti per il solo desiderio di difendere la Repubblica e di darle stabilità e forza con un governo veramente libero, che mostri che l’Italia è degna della democrazia che ha conquistato.

Ci saranno sempre i cento partiti, ma i cento partiti ad un certo momento deporranno le armi per pronunciarsi su un programma del Governo e, approvandolo o non approvandolo, formeranno la maggioranza.

Un Presidente del Consiglio, che presenta un programma su cui chiama il Paese a pronunciarsi, comincia a creare quello stato della pubblica coscienza che è destinato a formare le due correnti per le quali l’America e l’Inghilterra prosperano ed hanno stabilità di regime.

Quando fu compiuto il primo esperimento della proporzionale, piccole ambizioni di uomini, piccole avidità di potere, erano veramente dei massi che si mettevano nelle ruote. Riconosce di essersi illuso, a quell’epoca, anche lui, ma quando la proporzionale fu adottata, bastò la più piccola questione, per esempio la nomina di un segretario della Camera, perché si potesse dire che il Governo era stato battuto. E fu così che l’Italia ebbe Mussolini.

TARGETTI osserva che l’ordine del giorno Perassi chiama la Sottocommissione a decidere fra le due forme di Repubblica, presidenziale o parlamentare, e gli argomenti in favore di una soluzione o dell’altra sono stati esposti. Ora, non si tratta di entrare nei particolari del tipo di Repubblica parlamentare, perché questo è un argomento a sé, tant’è che nell’ordine del giorno Perassi si accenna a quei provvedimenti che dovranno essere presi per assicurare la stabilità del Governo. Quindi, allo stato attuale si tratta di risolvere il problema posto dall’onorevole Calamandrei: le difficoltà di dare stabilità al Governo di tipo parlamentare sono tali da far preferire l’altro sistema?

Crede che ciascuno debba aver già fatto dentro di sé questo esame, ed i Commissari socialisti, per esempio, per quante difficoltà possa incontrare il problema di dare stabilità al governò della Repubblica di tipo parlamentare, non voteranno mai una Repubblica di forma presidenziale.

Ritiene inutile far perdere del tempo per portare ancora argomenti a dimostrazione di questa tesi, ma desidera dire all’onorevole Porzio che se egli avesse ragione, bisognerebbe che fosse vero che il collegio uninominale sia stato in Italia una grande scuola di civiltà e di educazione politica, mentre egli ha in proposito molti dubbi.

La proporzionale ha molti difetti, anche perché è quasi impossibile trovare sistemi elettorali perfetti. Potrà essere corretta; ma che i difetti debbano far dimenticare che il collegio uninominale fu sempre scuola di incultura politica non gli sembra possibile.

Né crede si possa veramente dire che sussista oggi un pericolo di guerra civile. Ma se vi fossero ragioni storiche o politiche per scatenare una guerra civile, il sistema uninominale non potrebbe certamente superare il loro formarsi.

EINAUDI ha fatto, nella precedente seduta, un confronto tra il sistema presidenziale americano e il sistema parlamentare inglese; ha cercato di dimostrare che il sistema americano si avvia, e più si propone che si avvii, a sistemi simili a quelli del metodo parlamentare e, d’altro canto, il sistema parlamentare non è più quello che era una volta, ma è ispirato sostanzialmente al concetto della scelta da parte dell’elettorato del Capo del Governo, che è il leader, seguito dalla maggioranza parlamentare. Poiché si è limitato a questo paragone ed a questa analisi quasi storica dei due sistemi, gli è stato chiesto quali siano le sue conclusioni.

Le sue conclusioni sono semplicemente queste: che, in fondo, ove si accettassero due concetti fondamentali, la distinzione tra l’uno e l’altro metodo consisterebbe esclusivamente nel modo di nomina del Capo dello Stato. Ma le condizioni necessarie affinché la distinzione tra i due regimi si limiti al metodo di nomina del Presidente sono queste: anzitutto, che il Presidente, che è nominato dal popolo, debba nominare il suo Gabinetto, in parte notevole se non in tutto, tra uomini i quali abbiano la fiducia delle due Camere; e in secondo luogo, che ci sia qualcuno – e potrà essere il Capo dello Stato, se c’è divisione tra Capo dello Stato e Capo del Governo, o il Capo del Governo se questa divisione non c’è – il quale abbia il diritto di scioglimento delle Camere. A queste condizioni la differenza si riduce soltanto a questo, che il Presidente sia nominato dal popolo, oppure dalle due Assemblee riunite, oppure dalle due Assemblee riunite insieme con altri corpi.

Ma questa non è una distinzione essenziale.

Le questioni di primo piano sono queste: i membri del Gabinetto devono avere la fiducia delle due Camere? E il Capo dello Stato distinto dal Capo del Governo, o l’unico che ricopre le due funzioni, deve avere il diritto di scioglimento delle due Camere? Personalmente egli risponde in senso affermativo, confermando che, a suo avviso, la differenza nel metodo di nomina del Capo dello Stato, tra sistema presidenziale e parlamentare, non è fondamentale.

Desidera aggiungere che qualunque sistema si adotti, serve poco, se non sussistono altre condizioni, fra le quali l’essenziale non è che le due Camere abbiano maggiore o minore potere nel governo, ma è che le Camere abbiano una vera libertà di discussione, perché un governo libero non è libero perché sia presidenziale o parlamentare; un governo è libero se nelle due Camere e nel paese esiste libertà completa ed assoluta di discussione.

La libertà nasce dalla libertà della discussione e, se c’è libertà di discussione, allora può nascere anche un altro effetto, importantissimo, che si può indicare sotto l’espressione di «adesione della minoranza alla maggioranza». Un qualunque provvedimento legislativo che sia stabilito esclusivamente sulla base di un voto di maggioranza, dà luogo ad un’azione di governo che può darsi ma non è affatto sicuro che incontri successo. Perché questo successo abbia, è necessario che il voto di maggioranza sia stato preceduto da una discussione, non solo nelle due Camere, ma oltre che nelle due Camere, nella stampa e che la stampa goda di una piena ed assoluta libertà di discussione, così che, quando si arriva al voto, la minoranza si trovi in tale condizione da essere costretta ad ubbidire volenterosamente e spontaneamente alla deliberazione presa dalla maggioranza. Se non si arriva a questa condizione di cose, se non si creano organismi tali per cui vi sia di fatto un’ampia, completa discussione e questa completa discussione abbia luogo anche fuori delle due Camere, non si arriverà mai a quello stato di cose per cui la minoranza si persuade che deve consentire a collaborare con la maggioranza. Se a questo punto non si arriva, si avranno sempre discordie civili col mutare della maggioranza e si potrà giungere all’estremo di lotte e guerre civili.

A questo riguardo confessa di essere – come è stato sempre e come ha dichiarato anche alla Consulta, ove ha parlato contro la proporzionale senza curarsi dell’opinione del suo Partito – completamente contrario alla proporzionale e nettamente favorevole al collegio uninominale. Non crede affatto che le elezioni debbano avvenire su programmi di partiti. Questi programmi di partito in tutti i paesi sono pure forme; ma nella realtà, tanto negli Stati Uniti, quanto in Inghilterra, gli elettori votano per questo o per quell’uomo; fanno una scelta, non fra idee, ma fra uomini; una scelta tra due uomini nei quali gli uni elettori hanno fiducia e gli altri no. E questa scelta si fa dagli elettori tra uomini che essi conoscono.

In tutti i Paesi, in cui esiste la proporzionale, si formano nelle Camere dei partiti che ubbidiscono ai capi. Allora la discussione cessa; oppure, se si fa, non ha per effetto quello di convertire qualcuno; è un parlare a vuoto, e già preventivamente si conosce l’esito della votazione. In queste condizioni non esiste parlamento, non esiste discussione, non esiste la condizione fondamentale della libertà politica, che è esclusivamente la libertà di discussione.

Queste sono soltanto alcune delle ragioni, che lo fanno contrario alla proporzionale. Altra ragione fondamentale è questa: che la proporzionale moltiplica i partiti, accanto ai due o tre partiti di massa, onde viene a mancare l’equilibrio necessario ad una vera e propria discussione e non si ha una votazione nella quale coloro i quali si sono lasciati persuadere dalle buone ragioni degli avversari, modifichino il proprio atteggiamento. La proporzionale moltiplica i partiti, perché non appena si ha la possibilità di ottenere un quoziente in un collegio più o meno grande, si forma un partito per ottenerlo.

Per conseguenza non crede che, anche se si adotti il criterio che il Gabinetto debba avere la fiducia delle due Camere, e che qualcuno debba avere il diritto di scioglimento delle due Camere, il sistema, qualunque sia, possa per sé avere l’effetto di dare quello che si vuole ottenere, ossia un Governo stabile. L’esistenza di un Governo stabile dipende da tanti fattori, tra i quali importantissimo quello della libertà piena e completa della discussione, che vuol dire capacità e possibilità di persuadere gli avversari. E questa possibilità non c’è, quando le elezioni sono dominate da partiti irreggimentati, come quelli che hanno prodotto la Costituente.

FABBRI domanda se, fra gli eventuali espedienti per dare una certa stabilità al Governo, non sia il caso di codificare le modalità del voto di sfiducia. Pensa che sia difficile dare efficacia e conseguenze politiche ai rimedi cui accennavano gli onorevoli Mortati e Bozzi; ma si domanda: se, per esempio, fosse stabilito nella Costituzione che il voto di sfiducia al Governo in carica implichi automaticamente lo scioglimento di quello dei rami del Parlamento che il voto di sfiducia ha dato e l’obbligo da parte del Gabinetto in carica di fare le elezioni in base ad un programma, quali sarebbero le conseguenze riguardo alla stabilità del Governo?

Non vuol dire che sia questo il toccasana: ma qui si cercano dei rimedi di carattere legislativo; mentre il rimedio di una disciplina del voto di sfiducia, che implicasse come conseguenza di fatto la permanenza in carica del Governo che il voto di sfiducia ha avuto, va talmente contro il costume politico italiano, da infrangere ogni disciplina. Se, invece, si stabilisse che il voto di sfiducia dato ad un ramo del Parlamento implica automaticamente lo scioglimento della Camera che lo ha emesso e quindi la consultazione popolare sul programma che il Governo sarebbe invitato ad esporre al Paese, si avrebbe una remora al voto di sfiducia infinitamente maggiore di quanto taluno possa pensare.

AMENDOLA, ascoltando le chiare dissertazioni che qui sono state fatte sui vari tipi di Governo, è andato col ricordo alle lezioni di diritto costituzionale che, nel 1927, ascoltava all’università di Napoli. Il fascismo imperversava e il professore illustrava le caratteristiche dello Stato italiano: lo definiva, sulla base della Costituzione, monarchico-parlamentare e discuteva perché fosse parlamentare e non costituzionale. Discussioni che urtavano contro qualche cosa che era nella coscienza, perché era un tentativo di inserire la realtà concreta della nostra storia in formule che restavano vuote.

Si è parlato del tentativo di dare alla nostra democrazia condizioni di stabilità con norme legislative. È evidente che una democrazia deve riuscire ad avere una sua stabilità, se vuole governare e realizzare il suo programma; ma, non è possibile ricercare questa stabilità in accorgimenti legislativi da inserire nella Costituzione. In realtà, questa instabilità, che è stata caratteristica di regimi democratici nel corso di questo secolo, ha radici nella situazione politica e sociale, non nella Costituzione stessa. Questo è tanto vero, che nessuno Stato, neppure l’Inghilterra dal 1920 al 1940 ha avuto vita politica così rosea come si è mostrato di credere. Per due volte la maggioranza laburista eletta dal popolo, nel corso della legislatura ha dovuto cambiare basi politiche; ed anche nelle maggioranze conservatrici si sono avute modificazioni.

L’instabilità è stata determinata da fatti politici e sociali, legati all’intervento nella vita politica delle grandi forze popolari, che nel secolo scorso erano assenti. L’entrata di queste forze politiche, inquadrate nei partiti socialisti e nei sindacati, ha creato le condizioni delle crisi, caratterizzate dalla resistenza dei ceti interessati ed ostili a rinnovamenti politici e sociali. La crisi del dopoguerra e del fascismo non è nata dalla proporzionale; è nata da questo contrasto tra le esigenze rinnovatrici della società italiana del dopoguerra e l’ostilità che queste esigenze incontravano, per cui gruppi politici, che pur erano formalmente liberali, passavano ad una posizione di reazione e divenivano fiancheggiatori del governo di Mussolini.

Oggi l’Italia attraversa una crisi analoga: è uscita dalla dittatura, in condizioni tragiche; ha il problema del rinnovamento democratico in tutti i campi, il bisogno di riforme profonde nella società, che, solo se attuate, potranno dare basi solide alla democrazia; ma vi è la resistenza interessata dei ceti che appoggiavano ieri il fascismo e che sarebbero colpiti da queste riforme; e c’è il fatto nuovo positivo della formazione dei grandi partiti democratici, che sono condizione di una disciplina democratica. Oggi che il suffragio universale è stato esteso alle donne e con l’ingresso nella vita politica di milioni e milioni di lavoratori, il collegio uninominale con corpo elettorale ristretto è un ricordo nostalgico, che non ha niente a che fare con le esigenze politiche attuali. Oggi la disciplina, la stabilità è data dalla coscienza politica, affidata all’azione dei partiti politici.

Quindi, regime parlamentare il più aperto possibile, perché la situazione è fluida ed è bene che si consentano adeguamenti successivi. Tanto meglio se gli adeguamenti si possono fare senza crisi; ma, se crisi ci devono essere, è meglio siano crisi di adeguamenti successivi, per evitare rotture più profonde. Si vogliono porre delle dighe a queste forze popolari che avanzano?

Quando la maggioranza della Sottocommissione si sia pronunziata per la Repubblica parlamentare, egli seguirà gli sforzi dei colleghi per assicurare la stabilità; ma pensa che la maggiore stabilità possa essere assicurata da un regime parlamentare che permetta l’adeguamento della situazione governativa allo sviluppo della situazione politica del Paese, in modo da evitare quei contrasti tra la situazione politica del Paese e la situazione politica parlamentare governativa, che sono causa delle crisi che pongono in pericolo la struttura dello Stato.

(La seduta, sospesa alle 19.45, è ripresa alle ore 20).

PORZIO propone la chiusura della discussione.

VANONI poiché qualche commissario che, per ragioni di ufficio, non ha potuto intervenire alla seduta, vorrebbe esprimere la sua opinione sugli argomenti in discussione, è costretto ad opporsi alla proposta di chiusura.

PRESIDENTE avverte che vari colleghi hanno già fatto osservare che la discussione di questo argomento è completamente approfondita: un suo approfondimento ulteriore forse non andrebbe incontro al comune desiderio di una certa sollecitudine.

PORZIO fa notare che la chiusura della discussione non impedisce le dichiarazioni di voto, con le quali ciascuno può precisare il proprio pensiero.

MORTATI, Relatore, osserva che per apprezzare il valore e il significato della proposta di chiusura bisogna sapere su che cosa si deve votare. Le discussioni fino ad ora svolte hanno riguardato non tanto la scelta tra i due regimi, presidenziale o parlamentare, quanto la specificazione del regime parlamentare. Non è possibile votare puramente e semplicemente per il tipo classico di regime presidenziale o per quello parlamentare, ma occorre precisare i punti caratteristici del sistema costituzionale cui si vuole dar vita, sui quali una ulteriore discussione non sarebbe superflua.

PRESIDENTE crede che occorra giungere ad una prima conclusione, relativa al tipo di governo, rimandando ad ulteriori discussioni la specificazione dei dettagli.

MORTATI, Relatore, chiarisce che, a suo avviso, non si tratta di svolgere fin d’ora in tutti i loro particolari le applicazioni del sistema, bensì di individuare due o tre punti caratteristici, che fino a questo momento non risultano formulati in modo tale da poter essere votati senz’altro. Tali quelli indicati dall’onorevole Einaudi: il diritto del Presidente della Repubblica di sciogliere la Camera, e il modo di stabilire l’armonia tra parlamento e governo. Se si dovesse votare puramente e semplicemente sulla scelta del tipo presidenziale o parlamentare, personalmente dovrebbe votare per il tipo parlamentare; ma se poi la Sottocommissione decidesse di escludere il diritto di scioglimento delle Camere, egli dovrebbe dichiararsi contrario al regime parlamentare. Onde la necessità di una presa di posizione generale, nella quale non vengano però ignorate certe precisazioni.

LUSSU è d’avviso che si debba continuare col metodo che è stato deciso di seguire e stabilire anzitutto se si intende adottare il tipo della Repubblica parlamentare. Questo implica naturalmente altri problemi che dovranno essere esaminati successivamente.

LA ROCCA concorda con l’onorevole Lussu.

VANONI, avendo chiesto, in conversazioni amichevoli, all’onorevole Perassi qual è la portata del suo ordine del giorno, crede opportuno precisare: se la portata è semplicemente quella di costituire un piano di lavoro, si è ormai esaurita la discussione generale sui due grandi tipi di organizzazione dello Stato e si può passare oltre, lasciando tuttavia aperta la possibilità di riprendere l’argomento se i risultati dell’ulteriore esame mostrassero che non vi è accordo. Ora, l’intervento del collega Amendola fa ritenere che alcuni commissari, quando parlano di Repubblica parlamentare non intendono la stessa cosa che intende l’onorevole Amendola. Alcuni oratori hanno sottolineato la fondamentale preoccupazione di avere una Repubblica con un governo stabile, mentre l’onorevole Amendola ritiene che il tipo migliore sia quello in cui il governo si adegua alle condizioni del paese. Si tratta di posizioni lontane fra loro, e una votazione in cui si stabilisse che si è d’accordo sulla Repubblica parlamentare non risolverebbe questo equivoco. L’esitazione di taluni nella scelta fra i due tipi di Repubblica è fondata sulla esigenza della stabilità del governo: ove dovessero constatare che si andrebbe incontro ad una Repubblica parlamentare in cui non fosse assicurata la stabilità del governo, essi vorrebbero avere la possibilità di passare al tipo della Repubblica presidenziale.

Se quindi l’ordine del giorno Perassi ha la portata soltanto di un ordinamento di lavoro, egli lo accetta; ma se dovesse avere una portata preclusiva, non potrebbe accettarlo.

TARGETTI non crede che la preoccupazione del collega Vanoni abbia ragione di essere, perché l’ordine del giorno Perassi pone esplicitamente la condizione che siano stabilite norme per assicurare la stabilità del governo.

VANONI precisa che occorre chiarire quale importanza abbia, per la scelta del tipo di Repubblica, la discussione sul meccanismo necessario ad assicurare la stabilità del governo e quale sarà la situazione in cui verrà a trovarsi la Sottocommissione se, dopo aver votato l’ordine del giorno Perassi, dovrà constatare che nessuno dei meccanismi proposti soddisfa e non esiste un sistema per assicurare la stabilità del governo nella forma di Repubblica parlamentare.

LA ROCCA rileva che l’onorevole Amendola ha posto la questione in termini nettamente politici: una Costituzione non è una formula giuridica, ma rispecchia una data realtà sociale e politica, e per questo l’Italia non può modellarsi sul tipo americano o su quello inglese che hanno funzionato in altri climi ai quali rispondono.

L’onorevole Amendola vuol creare una Repubblica parlamentare che aderisca alla realtà italiana, perché semplicemente da questa realtà il governo può attingere la forza per durare. È ovvio che il governo parlamentare ha bisogno della fiducia del popolo.

VANONI non può accettare questo modo di impostare il problema.

CONTI crede che l’onorevole Vanoni sospetti una presa di posizione dei colleghi comunisti, e ciò in seguito all’intervento dell’onorevole Amendola. Questi in sostanza ha voluto affermare che il mandato politico non può scindersi dalle preoccupazioni sociali ed economiche e che, se si vorrà risolvere la questione politica, si dovrà risolvere anche il problema sociale ed economico. Ma su questo è da ritenere che tutti siano d’accordo.

Quello che occorre fare adesso è di avvicinarsi a soluzioni concrete. Ci sono dei problemi precisi: come organizzare il governo, la Camera, il potere legislativo? Non crede che sia il caso di riprendere la discussione sulle dottrine di carattere generale, ma che sia invece necessario passare ad un lavoro più concreto.

MANNIRONI aderisce alla proposta dell’onorevole Conti. Ritiene che l’ordine del giorno Perassi richiami alla necessità di soluzioni pratiche; ma pensa che, per arrivare rapidamente a conclusione, quest’ordine del giorno debba essere votato per divisione. Vi si afferma, in sostanza, che si devono scartare le soluzioni presidenziale e direttoriale per una soluzione di Repubblica parlamentare, con accorgimenti e congegni intesi a stabilizzare il Governo. Se si mette in votazione e si approva la prima parte dell’ordine del giorno, che afferma la soluzione parlamentare, si compie già un passo avanti. La discussione potrebbe poi continuare utilmente sui congegni atti a dare la desiderata stabilità al Governo.

PRESIDENTE crede che la Sottocommissione abbia oramai gli elementi per prendere una prima decisione, perché ciò che orienta nella scelta fra le varie forme di Repubblica è questo: se la Repubblica italiana debba avere un Governo che debba rispondere ad un Parlamento, cioè agli eletti dal popolo, oppure se il Governo – per tutto il periodo che è stabilito dalla Costituzione – debba governare indipendentemente da ogni richiesta di fiducia o da ogni manifestazione di sfiducia. Questo è il concetto fondamentale.

PATRICOLO chiede se si intende porre in votazione anche il suo ordine del giorno, che risponderebbe a queste preoccupazioni di parte dei colleghi.

PRESIDENTE, personalmente, ritiene che nell’ordine del giorno Patricolo si affrontino già alcune questioni che non sono state abbastanza approfondite, onde pensa che occorrerebbe, comunque, limitarsi alla prima affermazione, cioè alla parte in cui parla della adozione della forma di governo parlamentare.

PATRICOLO fa osservare che la questione della divisione dei poteri è pregiudiziale per lo svolgimento ulteriore dei lavori, perché sta alla base dell’ordinamento giuridico.

PRESIDENTE risponde che, votando per il sistema presidenziale – a parte le notizie concrete che l’onorevole Einaudi ha fornito sul processo di evoluzione di questo sistema – evidentemente si viene a decidere sul secondo punto: divisione ed autonomia dei poteri.

MORTATI, Relatore, rileva che l’ordine del giorno Perassi e la discussione hanno dimostrato che questa non può esaurirsi nell’accettazione dell’una forma o dell’altra di governo se non subordinatamente a certe condizioni. Accettato questo punto di vista della scelta condizionata, prima di procedere alla chiusura, vorrebbe presentare un suo ordine del giorno in cui queste formulazioni siano meglio precisate; ma, data l’ora tarda propone di rinviare la decisione a domani.

PRESIDENTE deve porre anzitutto ai voti la proposta di chiusura della discussione, riservando la parola all’onorevole Mortati.

(È approvata con 16 voti favorevoli ed 11 contrari).

MORTATI, Relatore, osserva che l’esigenza sentita dalla quasi unanimità dei commissari è quella della stabilità del governo. Ora questa stabilità non può essere intesa in modo puramente formale; non può esser data, cioè, dal semplice fatto del permanere di date persone fisiche per un certo periodo di tempo in una data carica; ma è, invece, realizzata quando, attraverso tale permanenza, riesca a svolgersi e ad attuarsi l’indirizzo politico di cui quelle persone fisiche sono portatrici.

L’impostazione che ha dato l’onorevole Calamandrei della sua preferenza per il regime presidenziale pecca in questo senso, che egli considera la stabilità da un punto di vista formale, avulso dagli elementi che dànno ad essa una efficienza concreta.

In un regime di separazione di esecutivo e di legislativo, come è nello schema presidenziale, la stabilità di governo, nel senso che s’è detto, si realizza quando vi sia la possibilità di un minimo di coordinazione fra i due poteri, che consenta all’indirizzo politico di concretarsi in modo coerente ed armonico.

Ora questa coordinazione è tanto più difficile a realizzarsi quanto più le forze politiche sono divise, e quanto più labili e fluttuanti siano le coalizioni formatesi fra esse in occasione delle varie elezioni che danno vita agli organi dei due poteri.

L’onorevole Einaudi ha ricordato come negli stessi Stati Uniti d’America sia avvertita l’esigenza di superare lo schema classico della divisione, che si è dimostrata incapace di realizzare l’armonia, in modo sicuro e costante. Pertanto il regime presidenziale, attuato nelle presenti condizioni della vita pubblica italiana, non darebbe vita alla stabilità, che si ha di mira.

È vero che, come ha osservato l’onorevole Calamandrei, nemmeno l’espediente di far durare in carica per due anni il ministero che abbia ottenuto la fiducia delle Camere garantisce dai pericoli del mutamento, prima dello scadere del detto periodo, dello schieramento politico, sulla cui base quella fiducia poggiava. Questo conferma come, al di sopra della distinzione delle forme, si producano disfunzioni analoghe nei due regimi quando vi sia identità di situazioni politiche concrete.

Ora il quesito da porsi è questo: qual è, nella situazione italiana, tra i due sistemi, quello che garantisce la possibilità di una aderenza fra i due poteri più immediata e più continuativa: quella che fa sorgere i poteri medesimi direttamente dal popolo in due momenti diversi, o quella che li fa derivare l’uno dall’altro attraverso il voto di fiducia del Parlamento al governo, ma imponendo, una volta che la scelta sia effettuata, un limite al disvolere della Camera che ha emesso la manifestazione di fiducia verso il governo? Crede che l’avvicinamento di un potere all’altro potrebbe facilitare quella concordia, che, viceversa, sarebbe meno agevolata dalla elezione diretta di ambedue dal corpo elettorale.

Infatti l’accordo che al momento delle elezioni ha portato alla scelta di uno dei candidati alla presidenza della Repubblica può venir meno durante il periodo fissato per la sua permanenza al potere, onde al Presidente verrà meno la base politica nel paese. Ciò sia nel caso che si esiga per la sua elezione una maggioranza qualificata (come avveniva con la Costituzione di Weimar, dove peraltro il Presidente era posto in posizione diversa da quella propria del Capo dello Stato dei regimi presidenziali), sia che ci si contenti della maggioranza semplice, essendo difficile che un solo partito possa raggiungere tale maggioranza sul proprio candidato. A ciò si aggiunga l’eventualità di disarmonia con le Camere elette in diverso periodo di tempo ed indissolubili.

Invece il tentativo di inserire un elemento del regime presidenziale, cioè la fissità di durata per un certo periodo di vita dell’esecutivo, nel congegno proprio del regime parlamentare, caratterizzato dalla derivazione del governo dal parlamento, il tentativo, in altri termini, di spostare l’accordo fra i partiti in una fase di maggiore immediatezza e di maggiore impegno, quale può essere quella del conferimento della fiducia sulla base dell’approvazione di un programma concreto, può fare sperare di dar vita ad una stabilità più sostanziale di quella che non si avrebbe (in analoga situazione politica), con l’instaurazione di un regime presidenziale.

Il congegno proposto offrirebbe inoltre il vantaggio di temperare la rigidezza propria del regime presidenziale e di rendere possibile la risoluzione dei conflitti che sorgessero fra i due poteri, attraverso il ricorso alla pronuncia popolare. Un importante contributo alla stabilità il popolo potrebbe offrire quando le sue pronunzie avessero luogo sulla base di voti motivati, quando cioè la fiducia o la sfiducia al governo, il consenso o il dissenso da parte del Parlamento si manifestassero non in base alla votazione di un generico ordine del giorno, ma invece su una mozione di sfiducia motivata che determinasse in modo preciso gli elementi del dissenso. In tal modo chi vota la sfiducia deve giustificarla davanti al popolo assumendone la responsabilità, conferendo al giudizio del popolo chiaro significato di apprezzamento della ragione che ha portato alla sfiducia. Se si introducono nella forma rappresentativa elementi propri della forma diretta, facendo assumere al popolo una funzione di decisione in ordine ai motivi che hanno portato alla crisi, si può sperare di conseguire un maggiore grado di stabilità.

Tenendo conto delle considerazioni esposte, si può ritenere che lo scopo che preoccupa tutti si possa raggiungere più efficacemente col regime parlamentare. Il riferimento ora fatto all’arbitrato popolare offre occasione di richiamare l’attenzione sull’importanza fondamentale che sul funzionamento della Costituzione esercita il regime elettorale. Appunto per questa importanza occorre che lo si consideri come il presupposto del funzionamento di tutto l’ordinamento dei poteri, e se si voglia e si debba tendere verso un intervento del popolo, che non sia diretto alla scelta degli uomini, secondo il concetto ottocentesco, che è irrimediabilmente passato, ma fare di esso l’ago della bilancia, il centro di riequilibrazione dei poteri, allora bisognerà che si abitui il popolo a prendere decisioni politiche, ed a questo scopo il regime elettorale proporzionalistico è quello meglio rispondente ad abituare il popolo non solo alla migliore scelta degli uomini (esigenza anch’essa essenziale) ma alla valutazione e scelta dei programmi. Il regine uninominale è il meno idoneo a questo scopo, e, in un Paese come l’Italia che ha bisogno di educazione politica, il sistema uninominale peggiorerebbe l’indisciplina dei partiti e la mobilità, la fluidità delle situazioni politiche, renderebbe più frequenti le crisi parlamentari. Il sistema uninominale potrebbe apparire soddisfacente se si riuscisse a riprodurre la situazione di cento anni addietro, situazione invece superata per il fatto che mentre allora vi erano 500 mila elettori adesso ve ne sono 28 milioni; massa tale di elettori che non può comparire efficacemente sulla scena politica se non è organizzata. L’onorevole Einaudi ha detto che in Inghilterra il sistema uninominale è indirizzato solo alla migliore scelta degli uomini, ma egli forse si è riferito ad una situazione passata in cui c’era effettivamente quella fusione di classi politiche, che ora non esiste più. Anche in America si è incominciata a verificare una maggiore scissione fra le classi ed i partiti assumono una fisionomia sempre più netta e marcata, che dà all’intervento popolare la funzione di scelta dei programmi e non solamente degli uomini.

Concludendo, pensa che, volendo specificare o chiarire meglio i congegni più idonei a raggiungere i fini di stabilità, che presiedono alla scelta della forma di governo, bisognerebbe fermarsi su questi due punti: fissità di durata del governo e possibilità eccezionale conferita al Capo dello Stato di procedere allo scioglimento della Camera nel caso che si verifichi una situazione di irrimediabile e prolungato dissidio fra i poteri. Naturalmente non devono trascurarsi altri elementi, perché sono essenziali al buon funzionamento del regime, come la distinzione di posizione giuridica del Primo Ministro rispetto ai Ministri; ma su questi la discussione può essere rimandata ad un secondo momento.

PRESIDENTE dichiara chiusa la discussione e avverte che, dei due ordini del giorno, dell’onorevole Perassi e dell’onorevole Patricolo, deve porre in votazione anzitutto quello Perassi, che è stato presentato per primo.

BULLONI dichiara che i membri della Sottocommissione appartenenti al gruppo della Democrazia Cristiana voteranno a favore dell’ordine del giorno Perassi se ed in quanto la Sottocommissione proponga idonee misure intese a garantire la stabilità di Governo e ad impedire le degenerazioni del parlamentarismo, riservandosi, in caso contrario, di riproporre in seduta plenaria della Commissione e in seno all’Assemblea Costituente la questione circa la forma del Governo.

GRIECO propone la votazione per divisione in modo che la Sottocommissione si pronunci anzitutto sulla prima parte dell’ordine del giorno in cui si afferma l’adozione del sistema parlamentare.

Crede che l’argomentazione dell’onorevole Mortati non condizioni un tipo o l’altro di regime, presidenziale o parlamentare, alle garanzie di stabilità del Governo; può, cioè, esistere così un regime presidenziale come un regime parlamentare, deficiente di stabilità. Comprende l’importanza delle questioni sollevate dall’onorevole Mortati, ma ritiene che esse non debbano essere inevitabilmente legate alla scelta del regime e possano e debbano essere trattate in sede opportuna, quando si discuterà l’argomento del Governo.

VANONI osserva che la proposta dell’onorevole Grieco sottolinea la fondatezza della preoccupazione da lui manifestata. In sostanza, si vuole arrivare ad una presa di posizione ben decisa su una determinata forma di Governo, senza tener conto di tutte le riserve emerse dalla discussione. Quindi, a nome dei suoi colleghi di gruppo, dichiara che essi voteranno contro la proposta di votazione per divisione. Essi accetteranno l’ordine del giorno Perassi solo in quanto costituisca un tutto unico; altrimenti, la discussione fatta non sembra loro sufficiente per prendere una decisione sui due fondamentali tipi di organizzazione dello Stato.

TARGETTI fa notare che il tenore dell’ordine del giorno Perassi non si presta ad una votazione per divisione. Un ordine del giorno si può dividere, quando esso è composto di due parti indipendenti; mentre l’ordine del giorno Perassi è composto di due parti che si integrano.

PERASSI, quale proponente, dichiara che, nel suo pensiero, l’ordine del giorno è un blocco indivisibile. Quindi prega la Commissione di non accogliere la proposta di votazione per divisione.

PRESIDENTE mette ai voti la proposta dell’onorevole Grieco di procedere alla votazione per divisione.

(Non è approvata).

GRIECO si riserva di presentare un ordine del giorno in cui ripeterà quello che ha detto.

PRESIDENTE pone ai voti l’ordine del giorno Perassi.

(È approvato con 22 voti favorevoli e 6 astensioni).

La seduta termina alle 21.15.

Erano presenti: Ambrosini, Amendola, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele Luigi, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Porzio, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Vanoni, Zuccarini.

In congedo: Fuschini, Piccioni.

Assenti: Leone Giovanni, Maffi, Uberti.

MERCOLEDÌ 4 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTO COMMISSIONE

8.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MERCOLEDÌ 4 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Organizzazione costituzionale dello Stato

(Seguito della discussione).

Presidente – Conti, Relatore  – Tosato – Mortati – Perassi – Einaudi – Ambrosini.

La seduta comincia alle 17.15.

Seguito della discussione sull’organizzazione costituzionale dello Stato.

PRESIDENTE invita l’onorevole Conti a fare la sua relazione sul tema del potere legislativo.

CONTI, Relatore, intende limitarsi ad una succinta esposizione, sia perché quella del collega Mortati è stata così ampia da aver toccato tutti gli argomenti che possono essere oggetto di discussione, sia perché, a suo avviso, lo sforzo della Sottocommissione deve esser diretto soprattutto alla formulazione di positive disposizioni per il progetto di Costituzione.

Nella premessa della relazione che ha presentato ha avvertito che le disposizioni contenute negli articoli del testo abbozzato sono in rapporto con la struttura autonomistica dello Stato, perché se non è chiara ed accettata questa premessa, le conseguenze che si possono trarre dal suo progetto sono diverse. Bisogna tener presente l’importanza che egli annette al sistema autonomistico. Costituita la regione e attribuita a questa competenza legislativa, il Parlamento non sarà più quello dello Stato unitario, che si è sperimentato con tutti i suoi pesi e con tutte le sue conseguenze.

Lo Stato accentrato comporta un Parlamento che si occupa dei minimi particolari della vita nazionale, mentre lo Stato autonomista distribuisce alle regioni gran parte del lavoro legislativo con la conseguenza di un sicuro, generalmente neppure intravisto, mutamento di costumi parlamentari. Personalmente non è soddisfatto della modesta estensione delle competenze fissate nella relazione Ambrosini, perché egli è per una più larga competenza. Il Parlamento, quando sarà sgravato da tante competenze, diventerà finalmente quell’alto consesso legislativo al quale accederanno i migliori del paese, e quindi si eleverà di tono.

Questo porta anche ad accennare alla necessità di ridurre al massimo il numero dei membri della prima e della seconda Camera. Fra tutte e due le Camere si dovrebbe arrivare ad una cifra che equivalga a quella della Camera attuale; cinque o seicento deputati e senatori in tutto (e dicendo senatori, non si intende fissare come definitivo questo termine verso il quale si hanno antipatie e che può essere abbandonato volentieri se un altro se ne possa trovare).

Il sistema legislativo che egli propone può considerarsi la realizzazione del sistema misto fra il parlamentare e il direttoriale.

Detto questo, accenna alla sua preferenza assoluta per il sistema bicamerale e passa alla lettura della seguente relazione.

Il Parlamento

Il criterio direttivo, al quale deve ispirarsi la Costituzione nel determinare gli organi ai quali sarà attribuito, come competenza principale, l’esercizio della funzione legislativa, è quello di dare ad essi una conformazione tale da essere per se stessa una garanzia che il procedimento attraverso il quale si forma la legge, cioè l’atto che crea le norme giuridiche regolatrici della società nazionale, abbia ad assicurare un’adeguata considerazione dei diversi interessi, dei quali la legge deve regolare il contemperamento. L’utilità generale che le leggi risultino ponderatamente elaborate e perciò più stabili e più spontaneamente osservate, ha manifestamente un valore più alto che non la velocità del meccanismo che le produce.

Sistema bicamerale

Questo criterio direttivo per la costruzione degli organi legislativi porta a due conseguenze, fra loro connesse.

In primo luogo, esso rende preferibile il sistema bicamerale, lasciando vedere come sia viziato da un evidente semplicismo il noto ragionamento col quale si pretendeva di condannare tale sistema.

D’altra parte quello stesso criterio indica le necessità che i modi di formazione delle due Camere parlamentari siano differenti, perché esso sarebbe fondamentalmente disconosciuto se una Camera non fosse che una seconda edizione dell’altra. Ciascuna di esse, per il modo della sua costituzione, deve dare affidamento di apportare al processo di formazione della legge un concorso ispirato alla considerazione di interessi, esigenze e punti di vista che meritano di essere tenuti in conto per essere composti nell’interesse generale della Nazione.

Il sistema bicamerale, avuto riguardo anche all’esperienza dei diversi Paesi, si raccomanda inoltre come più adatto ad assicurare un conveniente esercizio di quelle funzioni di controllo politico (e specialmente di quelle relative alla gestione finanziaria ed alle relazioni internazionali) che costituiscono l’altro compito, non meno politicamente importante, del Parlamento.

Secondo tali criteri la Costituzione dovrebbe istituire una Camera dei Deputati ed un Senato.

La Camera dei Deputati

La Camera dei Deputati avrebbe il carattere di un organo rappresentativo della Nazione nella sua unità, cioè come collettività dei cittadini. Essa sarebbe eletta, a suffragio universale, diretto e segreto, da collegi elettorali nei quali si distribuiscono territorialmente i cittadini aventi il diritto di voto. Sarebbe composta di 400 membri e nominata per quattro anni.

Il sistema di elezione dei Deputati e la formazione delle liste elettorali e dei collegi elettorali sarebbero regolati dalla legge elettorale, essendo opportuno che i particolari di questa materia non siano pregiudicati da disposizioni aventi la rigidità delle norme costituzionali.

Il Senato

Il Senato avrebbe, invece, il carattere di una camera rappresentativa della Nazione come si presenta differenziata nelle varie forme di organizzazioni ed istituzioni in cui si esplica la vita sociale.

Nel modo di formazione del Senato dovrebbe aversi, anzitutto, uno dei riflessi costituzionali del riconoscimento delle Regioni come enti di diritto pubblico.

Il Senato dovrebbe essere una Camera destinata, in prima linea, a rappresentare l’organo nel quale l’indirizzo dell’attività politica e legislativa dello Stato si determina tenendo conto delle diverse esigenze regionali.

Non è però necessario che il criterio regionale sia adottato come criterio unico ed esclusivo per la formazione del Senato. Sarebbe conveniente attribuire l’elezione di una parte dei senatori ad altri enti, nei quali si concreta sotto altri aspetti la differenziazione della società nazionale.

Secondo tali criteri, la Costituzione determinerebbe il numero dei senatori da eleggersi dalle Regioni e quello da eleggersi da altri enti, quali le organizzazioni sindacali nazionali, le università.

Il numero complessivo dei membri del Senato potrebbe essere fissato a 300.

Il numero dei senatori eletti dalle Regioni, dovrebbe non essere inferiore ai due terzi. Si può considerare se convenga, come in Svizzera e negli Stati Uniti, attribuire a ciascuna regione l’elezione di un numero eguale di senatori o se, invece, non sia più opportuno che la distribuzione dei seggi senatoriali fra le Regioni sia da farsi tenendo conto delle diversità di estensione geografica e di popolazione delle varie regioni. L’elezione dei senatori di questa categoria sarebbe attribuita all’Assemblea della Regione alla quale prenderebbero parte anche delegati dei consigli comunali della regione.

Il criterio indicato come direttivo della formazione del Senato, non esclude, poi, in linea di principio, che si consideri anche la convenienza di attribuire allo stesso Senato od al Capo dello Stato la nomina di un ristrettissimo numero di senatori a vita, in modo da permettere di assicurare al Senato il concorso di personalità eminenti, che per ragioni diverse non sarebbero utilizzate col sistema elettivo.

I senatori sarebbero eletti per 6 anni e si rinnoverebbero per metà ogni 3 anni.

Formazione delle leggi

La Camera dei Deputati ed il Senato concorrerebbero, come organi distinti, alla formazione delle leggi, le quali sarebbero sanzionate e promulgate dal Capo dello Stato.

La Costituzione dovrebbe stabilire che il Capo dello Stato, quando ritenga di rifiutare la sanzione, deve rinviare il disegno di legge alle Camere con messaggio motivato: se ciascuna di queste approva di nuovo il disegno di legge a maggioranza dei due terzi, il Capo dello Stato sarebbe obbligato a promulgare la legge.

Procedura d’urgenza

A questa procedura normale per la formazione delle leggi la Costituzione potrebbe prevedere una deroga per il caso di urgente necessità.

In questo caso l’approvazione di ciascuna delle due Camere su un disegno di legge sarebbe data da una Delegazione permanente nominata annualmente da ciascuna di esse nel suo seno con sistema proporzionale. Se l’urgente necessità non è preliminarmente riconosciuta dalla Delegazione di una Camera, la procedura normale di approvazione della legge dovrebbe essere osservata.

Con questa disposizione, la Costituzione, mentre escluderebbe la facoltà del Governo di emanare decreti-legge, istituirebbe un procedimento accelerato, che assicura la possibilità di una pronta emanazione di provvedimenti legislativi che fossero richiesti da una effettiva urgente necessità.

Limiti costituzionali della legge ordinaria

La legge ordinaria, quanto al suo contenuto, deve essere subordinata alla Costituzione, nel senso che essa non può creare norme che modifichino la Costituzione o che siano contrarie a principî costituzionali. È questa un’esigenza essenziale, imposta da due ordini di considerazioni.

In primo luogo il riconoscimento costituzionale delle Regioni, la cui competenza è determinata dalla Costituzione, esige la garanzia che la legge ordinaria dello Stato non possa modificare lo stato giuridico delle Regioni. Senza questa garanzia costituzionale l’autonomia delle Regioni sarebbe malsicura.

In secondo luogo, la Costituzione deve avere un valore superiore a quello della legge ordinaria, per assicurare, da un lato, che l’ordinamento costituzionale sia più stabile e le modificazioni siano attuate con un procedimento speciale adeguato all’importanza della materia, e dall’altro, che alcuni principî enunciati nella Costituzione come guarentigie dei cittadini siano muniti di effettiva efficacia giuridica, che si concreta nel funzionare come limiti la cui osservanza è causa di invalidità non solo degli atti della pubblica amministrazione, ma anche delle leggi ordinarie dello Stato.

Leggi costituzionali

Tale esigenza fondamentale importa che la Costituzione, sottraendo se stessa al potere della legge ordinaria, istituisca un procedimento speciale per la formazione delle leggi costituzionali.

Sul modo di differenziare il procedimento di formazione delle leggi costituzionali da quello delle leggi ordinarie si possono considerare diversi sistemi.

Così potrebbe ritenersi sufficiente stabilire che le leggi costituzionali devono essere approvate dalla maggioranza dei due terzi dei membri in carica delle due Camere. La garanzia risultante dall’esigenza di una maggioranza qualificata potrebbe essere sostituita ovvero rafforzata prescrivendosi che le leggi costituzionali siano sottoposte all’approvazione delle Assemblea delle Regioni, assicurandosi con ciò particolarmente una garanzia per lo stato giuridico costituzionale delle Regioni.

Si può anche considerare se non convenga sottoporre le leggi costituzionali alla votazione diretta dei cittadini, esigendosi per l’approvazione la maggioranza dei votanti calcolata sia nazionalmente sia per regioni.

L’Assemblea nazionale

La Costituzione, poi, prevederebbe che per talune attribuzioni, da essa determinate, la Camera dei Deputati ed il Senato funzionerebbero riuniti insieme, costituendo l’Assernblea nazionale, che sarebbe presieduta dal Presidente del Senato.

Dopo questa esposizione dei principî informatori del testo, dà lettura dei seguenti articoli che propone, senza peraltro considerarli definitivi, e anzi ritenendoli come spunti per la stesura del progetto di Costituzione:

 

I POTERI DELLO STATO

Art. …

Il potere legislativo è esercitato dalla Camera dei Deputati e dal Senato.

La Camera dei Deputati e il Senato riuniti costituiscono l’Assemblea Nazionale.

L’iniziativa delle leggi è riconosciuta al Presidente della Repubblica, al Governo, ai Senatori ed ai Deputati e al Popolo.

Il potere esecutivo è attribuito al Presidente della Repubblica che lo esercita per mezzo di ministri.

Il potere giudiziario è esercitato da una magistratura indipendente retta da un Supremo Consiglio di magistrati eletto dai giudici di tutti i gradi.

 

LA CAMERA DEI DEPUTATI

Art. …

La Camera dei Deputati è composta di cittadini d’ambo i sessi, dell’età di almeno 25 anni, eletti per quattro anni a suffragio universale uguale, diretto e segreto.

Art. …

Per l’elezione della Camera dei Deputati lo Stato è suddiviso in collegi elettorali a norma di legge speciale.

Sarà eletto un Deputato ogni 150 mila abitanti.

(Il Relatore rileva che la riduzione del numero dei deputati deve essere considerata in relazione all’ordinamento regionale, che comporta la costituzione di assemblee con competenza legislativa. I deputati eletti ogni 150 mila abitanti sarebbero circa 300).

Art. …

I requisiti per la eleggibilità e i casi di incompatibilità sono fissati dalla legge elettorale. La Camera verifica la validità dell’elezione dei Deputati.

(Il Relatore dichiara di ammettere la possibilità del Tribunale elettorale menzionato dal relatore onorevole Mortati).

Art. …

I Deputati sono rappresentanti della Nazione. Esercitano liberamente la funzione legislativa e, durante l’esercizio del mandato, non possono essere arrestati se non in flagranza di reato. Non possono essere arrestati neppure in esecuzione di sentenza di condanna, né possono essere sottoposti a procedimento penale senza autorizzazione della Camera.

Art. …

La Camera dei Deputati deve riunirsi appena eletta e in ogni caso non oltre venti giorni da quello della proclamazione degli eletti.

Nel quadriennio si riunirà senza alcuna convocazione nella prima decade del marzo e dell’ottobre di ogni anno, e terrà le sedute che saranno necessarie allo svolgimento della opera legislativa. Può essere convocata in via straordinaria dal Presidente della Repubblica, con messaggio motivato al Presidente della Camera, dalla sua Presidenza, o, da questa, a richiesta motivata del Capo del Governo.

La convocazione a richiesta di Deputati deve essere fatta su domanda di un decimo dei componenti la Camera.

Art. …

La Camera dei Deputati può essere sciolta prima della scadenza del termine per deliberazione propria a maggioranza assoluta di voti. Può essere sciolta dal Presidente della Repubblica in seguito a voto della Camera e del Senato.

Art. …

La Camera elegge nel suo seno il Presidente, due Vicepresidenti, i Questori, i Segretari e le Commissioni, a norma del proprio regolamento. Elegge ogni anno, all’inizio della sessione di primavera, con votazione a maggioranza assoluta, una Giunta permanente, presieduta dal Presidente della Camera, composta di 30 Deputati con il mandato di procedere nella vacanza del Parlamento congiuntamente con la Giunta del Senato all’esame e alla approvazione in via di urgenza di progetti di legge del Governo.

Art. …

La Giunta permanente della Camera si riunisce con la Giunta permanente del Senato nei casi previsti dalla Costituzione, dalle leggi e dai regolamenti.

Art. …

La Camera delibera il proprio regolamento e provvede alla propria amministrazione disponendo dei fondi stanziati nel bilancio dello Stato.

IL SENATO

Art. …

Il Senato è composto di rappresentanti d’ambo i sessi di età non inferiore ai 40 anni, eletti dalle Assemblee delle Regioni, dai Consigli accademici, dalle Università, dalle Organizzazioni sindacali nazionali, dagli Ordini professionali e dal Presidente della Repubblica, riconosciuti gli uni e le altre dallo Stato e chiamati all’elezione da legge rinnovabile ogni dieci anni.

Art. …

Le Assemblee Regionali eleggono un Senatore per ogni cinquanta Deputati regionali. Le Assemblee Regionali composte di un numero di Deputati minore dei cinquanta eleggono anche esse un Senatore.

Le Organizzazioni sindacali, le Università, gli Ordini professionali eleggono ciascuno un numero di Senatori pari a un quarto del numero dei Senatori eleggibili dalle Regioni.

Spetta al Presidente della Repubblica la nomina di dieci senatori nelle seguenti categorie:

  1. a) magistrati;
  2. b) …………
  3. c) …………

Art. …

I Senatori sono eletti per sei anni.

Ogni tre anni si deve procedere alla rinnovazione della metà dei membri del Senato. La cessazione del mandato allo spirare del triennio, deve essere rimessa al sorteggio. I sorteggiati sono rieleggibili. I Senatori nominati dal Presidente della Repubblica restano in carica durante l’esercizio della loro funzione pubblica.

Art. …

I Senatori hanno i medesimi diritti e doveri dei Deputati e godono le immunità previste dall’articolo …

Il Senato delibera il proprio regolamento e provvede alla propria amministrazione disponendo dei fondi stanziati nel bilancio dello Stato.

Art. …

Il Senato concorre all’opera legislativa con la Camera dei Deputati e col Governo di propria iniziativa e coll’esame e l’approvazione delle leggi votate dalla Camera dei Deputati.

Art. …

Il Senato si riunisce e funziona nei modi e nei termini previsti per la Camera dei Deputati.

Art. …

Il Senato elegge nel suo seno una Giunta presieduta dal Presidente del Senato, composta di 30 Senatori, con i poteri previsti dall’articolo … per la Giunta permanente della Camera dei Deputati.

Art. …

La legge ordinaria deve osservare i limiti della Costituzione; non può creare norme che la modifichino e che siano contrarie a principî costituzionali.

Art. …

Le leggi di iniziativa della Camera dei Deputati debbono essere approvate dal Senato.

Art. …

Le leggi di iniziativa del Senato debbono essere approvate dalla Camera dei Deputati. Le approvate leggi dalla Camera dei Deputati, non approvate dal Senato, sono rinviate con relazione motivata per nuovo esame alla Camera.

Se la legge sarà dalla Camera nuovamente approvata con due terzi dei voti, dovrà essere presentata al Presidente della Repubblica per la sanzione e la promulgazione.

(A proposito del Senato si dovrà esaminare il quesito della sua dissoluzione).

Art. …

Le leggi costituzionali dovranno essere sottoposte alla votazione diretta dei cittadini elettori, per l’approvazione a maggioranza dei votanti.

(Questo articolo, osserva il Relatore, dispone un’applicazione del diritto ad referendum, che per le leggi deliberate dal Parlamento nazionale non avrebbe altre applicazioni, mentre il referendum dovrà essere previsto per molti casi di legislazione regionale).

L’ASSEMBLEA NAZIONALE

Art. …

L’Assemblea Nazionale elegge il Presidente della Repubblica, ne revoca l’elezione per alto tradimento, per violazione della Costituzione dichiarata con i voti di due terzi dei componenti le due Camere; delibera la dichiarazione della guerra; conclude i trattati di pace e i trattati internazionali.

(Il Relatore rileva che un testo completo dovrà stabilire quale regolamento – se quello della Camera o del Senato – dovrà adottare l’Assemblea Nazionale).

Art. …

L’Assemblea Nazionale è presieduta dal Presidente del Senato.

DIRITTO DI PETIZIONE E DI INIZIATIVA

Art. …

Tutti i cittadini hanno diritto di petizione e di iniziativa.

Art. …

Per una legge di iniziativa popolare si richiede la presentazione della proposta da parte di 25 mila cittadini nel pieno godimento dei diritti civili.

Art. …

Proposte di legge e petizioni sono portate all’esame di Commissioni della Camera dei Deputati e del Senato per la formulazione di progetti legislativi.

PRESIDENTE ricorda che la Sottocommissione ha nominato l’onorevole Rossi Paolo relatore sul terna «revisione della Costituzione»; ma pensa che si potrebbe discutere a parte questo argomento, cominciando ora senz’altro la discussione sopra le due relazioni Mortati e Conti.

Circa l’ordine della discussione, ritiene che sarebbe opportuno affrontare intanto il tema pregiudiziale del tipo del sistema presidenziale, o parlamentane, o misto del genere di quello prospettato ieri dall’onorevole Mortati.

TOSATO aderisce al criterio di procedere alla discussione distinguendo i temi e seguendo un ordine logico. Facendo parte del gruppo dei Relatori sul potere esecutivo, ritiene impossibile delimitare una relazione su questo tema se non si è stabilito in linea di massima se è esclusa o meno la forma di governo presidenziale e se si intenda adottare il sistema bicamerale; ed in tal caso se si ha intenzione di porre le due Camere in una posizione di parità o meno. Questi due punti sono assolutamente pregiudiziali per una qualsiasi impostazione e delimitazione completa della struttura del Governo. Propone perciò che si discuta prima sulla forma del governo presidenziale, sul sistema bicamerale e poi sui rapporti fra le due Camere.

MORTATI, Relatore, ritiene superata la questione da quando si è deciso di fare una parte introduttiva sulla Costituzione dello Stato. In questa parte introduttiva, svolta ieri, vi sono elementi relativi al potere esecutivo. Quindi la discussione sarebbe utile se affrontasse nelle sue linee generali questa parte relativa ai principî fondamentali della struttura dello Stato, per scendere poi nei dettagli circa la composizione del potere esecutivo e di quello legislativo. Naturalmente in questi argomenti, generali e fondamentali, entra l’argomento di struttura indicato dall’onorevole Tosato, relativo al sistema unicamerale o bicamerale, che incide sul tipo di Governo.

PERASSI, dopo la discussione abbozzata ieri, crede che converrebbe cominciare con lo stabilire se scegliere o scartare il tipo di governo presidenziale; ed allo scopo di precisare i punti di vista ed affrettare i lavori, propone la seguente decisione:

«La Seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo».

EINAUDI desidera fare alcuni rilievi sulla contrapposizione che si è voluta fare del sistema presidenziale a quello parlamentare.

Nella sua relazione l’onorevole Mortati si è riferito, sovratutto e molto approssimativamente, a precedenti di Costituzioni, le quali hanno avuto una lunga durata e delle quali, per conseguenza, si conoscono il funzionamento e gli effetti e quindi si può dare un giudizio ponderato. La maggior parte dei suoi riferimenti sono stati fatti al sistema presidenziale degli Stati Uniti ed a quello parlamentare della Gran Bretagna. Non sono i soli che si potrebbero fare per il problema della scelta fra il sistema presidenziale e quello parlamentare, perché anche in Italia abbiamo uno statuto che è durato quasi un secolo e che ha dato luogo ad esperienze molto interessanti.

Non è dalla lettera di una Costituzione che occorre ricavare gli elementi più fecondi: la lettera è stata scritta in altri tempi, quando i bisogni erano diversi: più interessante è vedere quale uso si è fatto di quel sistema creato tanti anni fa.

Lo Statuto albertino aveva presentato nelle sue varie applicazioni successive qualche nota abbastanza interessante. Esso, per esempio, supponeva che il senatore fosse di nomina regia, mentre la realtà è stata del tutto diversa. Il re, infatti, non nominava alcun senatore, ma questi erano nominati in secondo o terzo grado, indirettamente dagli elettori, perché questi eleggevano la Camera, che aveva finito per designare il Gabinetto, e questo il Capo del Governo, il quale nominava di fatto i senatori. Così nello Statuto niente si diceva, salvo per la precedenza nel tempo dei progetti tributari a favore della Camera, intorno alle prerogative di una Camera rispetto all’altra; ma lo Statuto fu profondamente modificato circa i diritti del Senato quando, avendo il Senato emesso un voto di sfiducia al gabinetto di Agostino Depretis, questi si alzò e pronunciò cinque semplici parole: «Il Senato non fa crisi». Da allora il Senato non ha avuto più l’autorità di determinare crisi di governo. Ancora: quello che era in realtà il Governo cosiddetto costituzionale, nominato dal re, finì per trasformarsi, prima del 1922, in un Governo parlamentare, il quale aveva la fiducia della Camera dei Deputati e non occorreva che avesse la fiducia del Senato.

Quello che importa sostanzialmente, dunque, nell’esaminare le Costituzioni che possono fornire esempi, non è la loro lettera, ma la loro vita. Qui si può osservare che i due sistemi, presidenziale e parlamentare, nella loro vita effettiva, si sono andati avvicinando l’uno all’altro e stanno avvicinandosi ancor più, cosicché noi assistiamo già e assisteremo sempre più quasi al fenomeno di obliterazione della distinzione tra l’un sistema e l’altro.

È evidente che il sistema presidenziale presenta dei difetti grandissimi: può dar luogo ad abusi da parte del Presidente, il quale ha una grande autorità. A tale proposito è stato detto che questi abusi hanno negli Stati Uniti d’America scarsa importanza inquantoché esiste il federalismo. Ma si deve aggiungere che coloro che negli Stati Uniti si occupano di questo argomento non mettono in evidenza una connessione diretta tra il sistema federativo e la riduzione della possibilità di abusi da parte del Presidente. Negli Stati Uniti, Presidente nazionale e governatori statali possono abusare, ciascuno nel proprio campo, senza freni reciproci. E, del resto, negli Stati del Centro e del Sud America, che hanno pure un ordinamento federativo, il sistema presidenziale dà luogo a dittature che si succedono l’una all’altra nonostante il federalismo.

Se negli Stati Uniti il sistema presidenziale non ha dato luogo a quegli abusi che si possono temere fondatamente in altri Paesi, ciò deriva da altre circostanze e soprattutto dall’esistenza di un potere giudiziario indipendente, il quale in fondo trova la sua forza anche qui in due o tre parole inserite nella Costituzione, per cui il Congresso può fare soltanto delle leggi per l’applicazione della Costituzione. Su queste poche parole si è eretto tutto il sistema giudiziario, il quale si contrappone ed agisce come freno tanto per il Congresso quanto per il Presidente. Ma anche questo potere giudiziario si è creato per virtù di uomini, soprattutto per virtù di un grande giurista che ha presieduto per trent’anni la Corte degli Stati Uniti – il giudice Marshall – che ha impresso per un secolo la sua personalità preminente su l’interpretazione della legge costituzionale. Se alle origini del sistema del potere giudiziario nord-americano ci fosse stato un altro uomo, che avesse interpretato diversamente i rapporti fra i poteri, forse anche questo controllo costituzionale non ci sarebbe stato. In sostanza, non la Corte Suprema, ma tutto l’ordine giudiziario esercita sulle leggi il controllo costituzionale, che finisce per essere imperniato sull’idea che i nove giudici della Corte Suprema si fanno non di quello che è scritto nella Costituzione, ma di quello che, a loro avviso, deve intendersi scritto, secondo l’interpretazione che essi ne dànno. È il criterio della giusta legge, il criterio della legge comune – della common law – che si è introdotto attraverso i giudici.

Non si può nemmeno dire che il freno agli abusi del regime presidenziale negli Stati Uniti derivi dalla forza dei partiti, perché non si deve credere che in realtà i due partiti tradizionali, repubblicano e democratico, siano delle forze che esercitino quell’influenza che taluno suppone. Sono le persone che vengono presentate agli elettori: sono stati Roosevelt e i suoi avversari, domani saranno Truman, MacArthur, o il Senatore Taft; e la battaglia elettorale si combatte sulle persone dei candidati alla presidenza o, nelle singole circoscrizioni, alla carica di deputati o senatori. E poi nella formazione della legge non intervengono soltanto i partiti, ma intervengono molte altre organizzazioni sezionali che non hanno niente a che fare con i due grandi partiti fondamentali: intervengono le organizzazioni di interessi, le organizzazioni regionali e molte volte accade che le leggi più importanti siano votate non da un partito contro l’altro, ma da un gruppo di maggioranza formato da appartenenti ad ambedue i partiti, contro altri raggruppamenti pure di ambedue i partiti. Per esempio, il trattato recentemente concluso tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra per il prestito di 4.400.000.000 di dollari è stato votato da una maggioranza composta da democratici e da repubblicani contro una minoranza composta pure da democratici e repubblicani. Vi sono state, cioè, persone che hanno «tradito» i loro partiti; fatto abbastanza normale, soprattutto nei casi che eccitano le passioni interne. Non si può nemmeno dire che il sistema dei partiti abbia influenza nell’impedire o accrescere le possibilità di abusi da parte del Governo presidenziale, perché il Presidente non è veramente sicuro del suo partito se non nel primo anno della sua vita presidenziale, quando avviene la distribuzione delle spoglie. Nel primo anno di nomina, il Presidente dispone di una grandissima parte dei posti governativi (non di tutti, perché i maggiori, i più importanti, quelli del servizio civile, sono stati da leggi particolari sottratti all’arbitrio presidenziale) e di cariche che servono a tacitare la massa degli elettori: per esempio, attraverso il Post-master, il Ministro delle Poste, dispone di una grande massa di posti e finché non li ha tutti distribuiti tiene a freno il proprio partito: ma dopo, compiuta la distribuzione delle spoglie, i membri del partito possono cominciare a ribellarglisi e spesso gli si ribellano. Infatti accade sovente che molte votazioni fondamentali non avvengono secondo la linea distintiva dei partiti, ma secondo altri criteri che sono economici o sociali, ma soprattutto di interesse regionale: basta ricordare il caso dei tre o quattro senatori degli Stati produttori di argento, i quali riescono ad ottenere permanentemente la votazione di leggi in favore dell’argento. Proprio ieri negli Stati Uniti è stato aumentato il prezzo dell’argento da 75 a 90 cents per oncia, per influenza di questi senatori; e non è possibile liberarsi da questa influenza, perché, altrimenti, costoro creerebbero ostruzionismi in altri campi.

Il sistema presidenziale eccita negli Stati Uniti critiche continue, di cui la più importante è stata rilevata dal relatore Mortati, ed è che non esiste in esso una comunicazione tra potere esecutivo e potere legislativo. È vero che i segretari di Stato possono presentarsi dinanzi ai comitati, ma questa loro presentazione si rileva quasi sempre poco efficace, in quantoché tradizionalmente i comitati sono moltissimi. Tra le due Camere del Congresso vi sono più di cento comitati, i quali si occupano dei diversi gruppi di leggi e sono indipendenti gli uni dagli altri. Per tradizione secolare questi comitati sono importantissimi, inquantoché in essi si insediano gli anziani, ossia vi si fa carriera: un rappresentante senatore comincia da zero e, via via, procede in uno o due comitati, fino a diventarne Presidente di diritto per anzianità: altra consuetudine dalla quale non si riesce a liberarsi. Diventando presidenti per anzianità, essi dispongono della legislazione e fanno sì che i disegni di legge «raccomandati» dall’amministrazione (il Governo non presenta direttamente i disegni di legge, ma li fa raccomandare dai propri amici, che sono distribuiti nei diversi comitati) siano più o meno presto discussi ed approvati. Se il Presidente fa ostruzionismo alla discussione ed alla approvazione di un disegno di legge in un comitato, quel disegno di legge non va avanti. Può darsi che, per anzianità, i presidenti dei singoli comitati appartengano a partiti diversi da quello al quale appartiene il Capo dello Stato, ed allora la legislazione risulta di una lentezza straordinaria; ed è molto facile per il potere legislativo mettere pastoie all’opera del potere esecutivo. Né si sa mai se un disegno di legge presentato dal potere esecutivo possa essere approvato, a causa della gelosia tra potere legislativo e potere esecutivo e della varia composizione dei cento e più comitati, in cui si dividono i due rami del Congresso, ognuno dei quali, attraverso il Presidente, determina la data alla quale si devono esaminare i disegni di legge, la durata della discussione, e se debbano essere o no discussi.

Un altro elemento che rende difficile la collaborazione tra potere esecutivo e potere legislativo nel sistema presidenziale americano – se si vuole costruire un sistema presidenziale, bisogna evidentemente tener conto di questo difetto – è quello della diversa durata delle Camere e del potere presidenziale. Quando è eletto il nuovo Presidente, si elegge una parte delle Camere, e quindi può darsi che il nuovo Presidente non abbia neppure la maggioranza nelle due Camere. Questo poi si verifica più frequentemente nel secondo biennio, perché è più facile allora che, per l’oscillare del pendolo elettorale, il corpo elettorale nomini senatori contrari alla politica del Presidente, il quale nel secondo biennio della durata del suo potere si trova spesso dinanzi ad una fronda, che nelle due Camere legislative rende impossibile la legislazione. Infatti, una conclusione alla quale sono arrivati tutti coloro che si sono occupati di questo argomento negli Stati Uniti è che il potere presidenziale in quel Paese funziona bene soltanto in tempo di guerra; ma all’infuori di quel periodo, subisce non di rado, anche con presidenti di grande autorità, una dopo l’altra delle sconfitte sui punti essenziali della sua politica, per il continuo dissidio fra potere esecutivo e potere legislativo. In tempo di guerra funziona, solo perché le due Camere abdicano ai propri poteri, conferendo i pieni poteri al Presidente.

Quindi, non solo sono frequenti le proposte, ma c’è un avviamento alla modificazione del sistema presidenziale negli Stati Uniti, ed uno dei passi più importanti in questo senso è stato compiuto dal Segretario di Stato, Ministro degli esteri, Cordell Hull, durante la guerra. Egli si è posto questo quesito: «cosa accadrà quando il Congresso sarà chiamato ad approvare il trattato di pace? Avremo la ripetizione dell’esperienza di Wilson?». Wilson si trovò alla fine della prima guerra mondiale senza pieni poteri, contro una minoranza irriducibile del Senato, dove, per approvare il trattato, occorreva una maggioranza di due terzi; onde quella minoranza rese impossibile l’approvazione del Covenant per la Società delle Nazioni e del trattato di pace tra le Nazioni alleate ed i Paesi vinti. Cordell Hull pensò che era necessario creare un organo di collegamento tra l’amministrazione ed il Senato: non solo è andato ripetutamente dinanzi al Senato, che è l’organo decisivo per i trattati internazionali, ad esporre e difendere la sua politica di intervento degli affari mondiali, la sua politica anti-isolazionista, ma ha creato un comitato, che durante la guerra era composto di membri di ambo i partiti, il quale approvasse preventivamente le sue idee, che erano poi quelle della costituzione e dell’organizzazione delle Nazioni Unite e di un trattato di pace unitario, così da assicurarsi il consenso preventivo da parte del Senato. Questo è il primo organo di collegamento che è stato istituito senza bisogno di una modificazione costituzionale, perché è compatibile con la Costituzione esistente, e che si pensa di perfezionare e rendere permanente.

Molti accennano all’idea, pur rimanendo il Gabinetto un complesso di segretari di Stato di nomina puramente presidenziale, di allargare questo Gabinetto ad un numero equipollente di rappresentanti delle grandi commissioni parlamentari. Invece di avere quel numero strabocchevole di commissioni, che sono padrone della legislazione (di cui ha parlato prima) se ne dovrebbe, cioè, avere un numero più ridotto. Poiché i segretari di Stato sono nove, si dovrebbero avere nove commissioni per il Congresso e nove per la Camera dei rappresentanti, che potrebbero costituire commissioni miste; ed i relativi presidenti farebbero parte del Gabinetto: nominati dal Presidente, ma sostanzialmente di emanazione parlamentare. Così, il Parlamento potrebbe conoscere in precedenza ciò che il Governo vuol fare. Oggi, data la separazione dei poteri (questo è l’inconveniente gravissimo del sistema presidenziale), il Gabinetto preordina i disegni di legge, ma le due Camere non ne sanno niente, perché non hanno propri rappresentanti nel Governo, e quindi non possono preventivamente darne un proprio giudizio. I disegni di legge arrivano per interposte persone, i cosiddetti amici del Presidente, alle due Camere i cui comitati hanno verso di essi un atteggiamento di sospetto, perché sono disegni provenienti dal potere esecutivo, su cui le due Camere non hanno alcuna influenza e con cui non hanno nessun collegamento. Se, invece, nel Gabinetto, accanto ai ministri segretari di Stato, che governano le singole amministrazioni, ci fossero altri nove segretari di Stato rappresentanti delle due Camere, questi interverrebbero nella formulazione dei disegni di legge, che arriverebbero alle due Camere sotto l’aureola dell’accettazione da parte dei delegati di queste.

Si osserva, dunque, negli Stati Uniti la necessità di un avvicinamento del sistema presidenziale al sistema parlamentare, la necessità di far sì che il Parlamento abbia voce nella formazione dei disegni di legge preventivamente alla loro presentazione ai due rami del Congresso. Tutti sono d’accordo nel ritenere che, se questo non si fa, il sistema presidenziale, anche quando una forte personalità è a capo del Governo, può agire soltanto in circostanze straordinarie, quando il nemico batte alle porte. Fuori di questi casi eccezionali anche un uomo forte, che si trovi a capo del potere esecutivo, anche un Presidente che emani indubbiamente dal popolo, si trova nell’impossibilità di sormontare, salvo nel primo anno dopo la sua elezione, l’opposizione gelosa del Congresso. Onde una specie di stasi, di impossibilità di funzionamento. Questa è l’opinione – pare – prevalente in quei Paesi, della quale già si comincia a tener conto di fatto e per la quale si vogliono cercare dei rimedi.

Il sistema presidenziale americano, dunque, ha funzionato nei momenti di emergenza del Paese, e nei momenti in cui a capo del Governo si trovavano personalità molto eminenti. Ma questo negli Stati Uniti avviene molto raramente: la norma è quella di presidenti ordinari, i quali vanno benissimo per i tempi di pace, ma vanno incontro all’inconveniente che non possono esercitare una influenza sulla legislazione e si trovano bloccati dall’eterno contrasto col potere legislativo.

D’altro canto, non si può dire che il sistema parlamentare, così come oggi tende ad evolversi, sia così differente dal sistema presidenziale, come si può immaginare. L’esperienza ricordata dal Relatore onorevole Mortati mette in luce la evoluzione che si è andata verificando nel sistema parlamentare, perché sempre di più nei Paesi d’origine del sistema parlamentare, quello che acquista importanza prevalente, al di sopra del Gabinetto, al di sopra della Camera dei comuni – non parliamo della Camera dei Lords, che ha una funzione prevalentemente ritardatrice – è il Primo Ministro. Questa figura del Primo Ministro nelle leggi non era neppure conosciuta di nome trent’anni fa; era uno qualunque dei membri della Camera dei comuni, il quale, quando si doveva presentare alla sbarra della Camera dei Lords per sentire il discorso della Corona, era confuso insieme con tutti gli altri membri della Camera dei comuni, e non era nemmeno il più alto nelle precedenze tra i membri del Gabinetto. Allora il Lord presidente del Consiglio, che oggi non è niente, aveva, invece, teoricamente, dignità molto maggiore di quella del Primo Ministro. Adesso, da una trentina di anni, questa figura è almeno ricordata nelle leggi. Ma la realtà è che il vero capo della legislazione è il Primo Ministro, che non è di fatto scelto dalla Camera dei comuni, la quale non lo designa neppure. La forma può essere quella della designazione della Camera, ma è pura forma; la realtà è del tutto diversa, ed è quella stessa che si verifica negli Stati Uniti. Nello stesso modo come negli Stati Uniti, ogni quattro anni, la popolazione nel suo complesso nomina il Presidente, che è il capo ispiratore del potere esecutivo, e che tende anche ad essere – e lo è nei momenti supremi – l’ispiratore della legislazione, in Inghilterra è il popolo che designa il Primo Ministro, è il popolo che lo elegge. Non è il partito laburista che abbia designato Attlee; non è il partito conservatore che abbia designato Churchill: è il popolo che ha indicato, nelle elezioni, Churchill e Attlee, come capi dei partiti mandati al potere. Le masse dei due partiti hanno seguito questi due capi. La legge è quella che è (e in Inghilterra non c’è nemmeno la legge); il costume è quello che è; ma quello che di fatto esiste è che nessun partito oserebbe ribellarsi a colui che è designato dal corpo elettorale come capopartito: questi è il vero padrone del partito, è il vero padrone della distribuzione dei posti.

In Inghilterra il numero dei posti ministeriali è enorme: tra ministri ed altri personaggi variamente denominati, si hanno settanta o ottanta membri del governo, i quali hanno minore o maggiore importanza secondo l’importanza che dà ad essi il Primo Ministro. È il Primo Ministro che li sceglie e stabilisce quali sono quelli con cui si deve consultare di volta in volta, secondo le deliberazioni che intende prendere. Il vero capo, colui che veramente forma il Governo e lo ispira, è il Primo Ministro. I Ministri e i Sottosegretari sono uomini di fiducia del Primo Ministro: perciò si dà il caso, che in Italia non si può dare, che un Governo di coalizione funzioni, in quanto i membri di esso non sono designati dai vari partiti; i membri di un Gabinetto di coalizione sono uomini di fiducia del Primo Ministro, che hanno accettato di diventare membri di un Governo di coalizione in quanto nominati da lui, e sanno che la loro vita ministeriale dipende dal Primo Ministro e non dal proprio partito. È questa convinzione che fa sì che i Governi di coalizione – che si hanno però soltanto in tempo di guerra – possano durare. E anche i partiti non possono esercitare una influenza molto grande sul Capo del Governo, perché non sono i partiti che dominano il Gabinetto, ma è il Capo del Governo il quale ha avuto la fiducia dal corpo elettorale ed è sicuro di esser seguito, mentre invece, se avesse la fiducia dei deputati, potrebbe anche ad un certo momento vederla venir meno.

Il sistema parlamentare inglese funziona in quanto è congegnato in quella maniera, in quanto cioè la figura dominante è quella del Primo Ministro, il quale può anche – ove creda che si siano verificate delle ribellioni nel suo partito, o che la coalizione non possa più funzionare – presentare al Sovrano la proposta di scioglimento. Questa facoltà di scioglimento, che esiste in Inghilterra, non esiste invece negli Stati Uniti; circostanza che vi è considerata come uno dei difetti più gravi del sistema presidenziale; onde le proposte si moltiplicano allo scopo di dare al Presidente della Confederazione la facoltà di scioglimento.

Naturalmente per il caso di uso della facoltà discioglimento delle due Camere, coloro i quali avanzano questa proposta, la fanno coincidere con l’altra: che lo scioglimento del Congresso implichi anche nuove elezioni presidenziali, cosicché gli elettori manifestino contemporaneamente la propria opinione sul dissidio che si è manifestato tra il presidente e le due Camere. Si reputa da molti negli Stati Uniti che il sistema presidenziale, se potrà superare i pericoli che lo minacciano e che, oltre a quelli internazionali, possono essere anche interni a causa della complicazione sempre crescente della vita sociale e politica del Paese, non potrà comunque funzionare se non con questo correttivo. Il quale avvicinerebbe il sistema presidenziale a quello parlamentare, mentre il sistema parlamentare tende a sua volta ad evolversi in senso opposto.

Termina dicendo che ha creduto bene di fare queste osservazioni per evitare che, discutendosi della scelta tra il sistema presidenziale e quello parlamentare, si configurino questi due sistemi come qualche cosa di rigido, come nettamente differenziati l’uno dall’altro. È opportuno tener conto dell’evoluzione che si è verificata nell’uno e nell’altro sistema, per la quale il primo tende già – e molti affermano che deve tendere ancora di più – ad avvicinarsi al secondo, con una comunicazione tra le due Camere e il potere esecutivo, con la presenza nel Gabinetto di membri eletti dai due rami del Congresso, col diritto da parte del Presidente di promuovere nuove elezioni dei due rami del Congresso e sue proprie contemporaneamente; e d’altra parte, il secondo tende ad avvicinarsi al primo col dare una figura preminente nel governo del Paese al Primo Ministro; il quale è in realtà il vero padrone della legislazione. Teoricamente in Inghilterra, ai singoli membri della Camera spetta sempre il diritto di presentare disegni di legge; ma è un diritto puramente astratto, perché in realtà nessun disegno di legge ha probabilità di essere approvato se non è presentato dal Governo, non solo per le materie finanziarie (e questo è un principio indiscusso, perché il disordine delle finanze sarebbe la conseguenza logica del diritto di iniziativa dei membri delle due Camere in questa materia), ma di fatto anche nelle altre materie. Per ogni legislatura inglese si potrà trovare forse un deputato che sia riuscito a fare approvare un suo disegno di legge; e quel deputato diventa famoso, perché è riuscito in una cosa difficilissima, in quanto il tempo concesso per la discussione dei disegni di legge presentati dai singoli membri della Camera è minimo, cosicché praticamente la loro approvazione, salvo casi rarissimi, è impossibile.

AMBROSINI ritiene essere ormai opinione generale che fra le varie forme di governo che vengono oggi in esame, la più adatta al nostro paese sia quella parlamentare.

Il regime presidenziale non si confà alla nostra tradizione ed alle esigenze della nostra vita politica. Il principio della separazione dei poteri con la conseguente non diretta ed efficiente comunicazione e collaborazione fra potere legislativo ed esecutivo – che si ha, quantunque non spinto alle estreme conseguenze, in tale regime – causerebbe da noi inconvenienti maggiori di quelli che a volte si lamentano negli Stati Uniti, giacché le necessità attuali della vita del Paese richiedono più che mai una collaborazione attiva fra i due poteri, in modo che le esigenze segnalate dall’esecutivo e le proposte relative di leggi da esso avanzate siano subito prese in esame dagli organi legislativi. Il che è molto più facile col funzionamento proprio del regime parlamentare.

Occupandosi dell’evoluzione del sistema statunitense l’onorevole Einaudi ha parlato della tendenza che si va manifestando affinché siano immessi nel gabinetto i rappresentanti di nove commissioni parlamentari, ed ha inoltre accennato alla richiesta da taluno avanzata che si dia al Presidente la facoltà di scioglimento della Camera dei rappresentanti.

Ma questi non sono che sintomi dell’affermazione di nuove esigenze costituzionali, che non può sapersi se e quando verranno concretamente soddisfatte. Comunque può osservarsi che, se effettivamente si arrivasse all’adozione delle suaccennate misure, non potrebbe allora più parlarsi di regime presidenziale, perché questo ne risulterebbe così profondamente trasformato da perdere una delle sue caratteristiche principali, che va riguardata anche sotto l’aspetto dei poteri del Presidente e della composizione del ministero.

L’elezione del Presidente statunitense si basa sulla competizione di due partiti. L’eletto è il rappresentante del partito di maggioranza, ed assume l’esercizio di tutto il potere esecutivo, oltre che una indiretta interferenza nel legislativo col diritto di veto, sia pur di efficacia limitata, alle leggi votate dal Congresso. Ma l’esecutivo lo ha tutto nelle sue mani non solo come titolare, ma anche come capo effettivo. Negli Stati Uniti non c’è un primo ministro.

I segretari di Stato, cioè i ministri, sono nominati liberamente dal Presidente, all’infuori delle Camere. Occorre l’assenso del Senato. Ma dopo di ciò non si ha alcuna ingerenza degli organi legislativi. I ministri debbono seguire ed applicare le direttive del Presidente e sono responsabili soltanto di fronte a lui, e non di fronte alle Camere, le quali non possono quindi costringerli a dimettersi con la votazione di mozioni di sfiducia.

Un simile congegno, che è caratteristico del regime presidenziale, non sarebbe tollerato nel nostro Paese, perché il Parlamento non rinuncerebbe mai al diritto di sindacato politico sul Governo.

Passando al regime direttoriale rileva che deve considerarsi anch’esso non adottabile, nemmeno parzialmente, giacché in tale regime il Governo non ha un carattere preminentemente politico, nel senso che non ha una propria personalità autonoma di fronte all’Assemblea; il che non corrisponde alla nostra tradizione ed alle nostre esigenze che postulano la necessità di un Governo forte, che sia responsabile del suo operato, ma che abbia il diritto di iniziativa e, finché resta in carica, la piena padronanza della condotta dell’esecutivo; attribuzioni indispensabili in un grande Stato, e specie nella complicata e difficile situazione odierna del nostro Paese.

Non resta quindi che adottare il regime parlamentare. L’onorevole Einaudi ha prospettato incisivamente l’evoluzione che negli ultimi tempi ha subito questo regime in Inghilterra, con la designazione del Premier fatta sostanzialmente dal corpo elettorale nelle elezioni generali, e con l’assunzione da parte del Premier di una somma di poteri tali, che possono indurre a ritenere che il regime parlamentare quasi si avvicini in questo punto a quello presidenziale. L’osservazione è interessante e giusta. Per quanto ci riguarda c’è da domandarsi se questo tipo speciale di regime parlamentare sarebbe applicabile in Italia. Purtroppo non se ne ha la possibilità, almeno nella situazione attuale.

Il sistema inglese presuppone l’esistenza di due grandi partiti, uno di maggioranza e l’altro di minoranza, che si alternano al potere; cosicché è agevole e naturale che al momento stesso in cui si conosce il risultato delle elezioni generali si sappia chi sarà nominato Primo Ministro, ed è agevole e naturale che questi scelga i ministri suoi collaboratori nel seno del suo partito, quello di maggioranza, e conseguentemente si venga ad avere un Gabinetto unitario, omogeneo.

Ora ciò non è possibile in Italia e in altri Paesi, per la semplice ragione che, esistendo molti partiti, nessuno dei quali ha la maggioranza assoluta, non si può dire al momento in cui si conoscono i risultati delle elezioni quale partito e più precisamente quale uomo politico assumerà la direzione del Governo; né tanto meno si può arrivare alla costituzione di un Gabinetto unitario ed omogeneo.

La formazione del Governo è più difficile ed è il risultato di una serie spesso necessariamente non breve di consultazioni e di intese. Da questo travaglio non può nascere infine che un Governo di coalizione.

Ciò presenta molti inconvenienti, ma è il risultato fatale della situazione politica.

In tale stato di cose, sembra che non sia possibile altro che ricorrere al regime parlamentare del tipo più adatto alla situazione suddetta, e col mantenimento di alcuni istituti collaudati dall’esperienza, ed anzitutto di quello della stabilità del Capo dello Stato.

Bisogna evitare che si affacci in qualsiasi modo la prassi costituzionale della Terza Repubblica francese, che diminuiva il prestigio ed i poteri del Presidente col sistema di costringerlo a dimettersi, quando non fosse più gradito alla maggioranza, prima ancora della scadenza del periodo di tempo previsto dalla Costituzione.

Non potendosi ottenere la stabilità del Capo del Governo, occorre, per il buon funzionamento del potere esecutivo, che sia mantenuta la stabilità del Capo dello Stato, salvo soltanto nel caso eccezionalissimo in cui egli sia posto in stato di accusa per delitto o per violazione della Costituzione.

Bisogna inoltre evitare che il Capo dello Stato venga ridotto ad una figura puramente rappresentativa.

Nel regime parlamentare, il potere esecutivo spetta a due organi: il Capo dello Stato ed il Governo. L’iniziativa, la condotta del Governo e la conseguente responsabilità, sono in concreto del primo Ministro e degli altri ministri; ma questi, e specie il Primo Ministro, debbono mantenersi in continuo contatto col Capo dello Stato per arrivare ad una proficua collaborazione.

Il Capo dello Stato non va estraniato dalla condotta del Governo; in altri termini, non va ridotto ad un puro organo di rappresentanza e di registrazione. Né è a temere che possano derivare danni dall’attribuzione di adeguati poteri al Capo dello Stato, specie quando si tenga presente che egli deriva la sua funzione dalle elezioni, qualunque sia il sistema che sarà per essere scelto.

Riguardo al Governo, deve considerarsi interessante la proposta dell’onorevole Mortati di adozione di un sistema con cui si cercherebbe di assicurare in via di massima la permanenza al potere, cioè la stabilità del Governo, per due anni. Tutto sta nel vedere se il sistema può riuscire applicabile ed efficiente non solo nei riguardi dei contrasti fra Parlamento e Governo, ma anche in caso di contrasti o di divergenze di vedute che insorgano nel seno del Governo. In questo secondo caso, che non è da escludere, dato il carattere di coalizione che avrà il Governo, il funzionamento del proposto sistema appare molto difficile. L’argomento merita la più attenta considerazione e verrà ripreso quando si passerà a trattare in modo specifico del Governo.

Per le considerazioni esposte, ritiene che il regime che naturalmente viene in considerazione sia quello parlamentare, con i temperamenti e gli accorgimenti che le condizioni del Paese possano consigliare specialmente per garantire una maggiore stabilità al Governo ed evitare la degenerazione del sistema nel parlamentarismo.

La seduta termina alle 19.10

Erano presenti: Ambrosini, Amendola, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Leone Giovanni, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Porzio, Ravagnan, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

In congedo: Rossi Paolo, Vanoni.

Assenti: Maffi, Targetti.

MARTEDÌ 3 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

7.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MARTEDÌ 3 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Organizzazione costituzionale dello Stato (Discussione)

Presidente – Mortati, Relatore – Tosato – Uberti – Porzio – Lussu – Cappi – Piccioni.

Sull’ordine della discussione

Finocchiaro Aprile – Presidente.

La seduta comincia alle 17.

Discussione sull’organizzazione costituzionale dello Stato.

PRESIDENTE avverte che i Relatori, in una loro riunione, hanno riconosciuto l’opportunità che l’onorevole Mortati, Relatore sul tema: «potere legislativo» faccia una premessa sulle questioni della forma del Governo e dei rapporti fra i poteri, come introduzione alla trattazione specifica dei tre poteri.

MORTATI, Relatore, comunica di avere compilata una relazione che sarà distribuita in bozza ai membri della Sottocommissione, e premette che, per procedere ad una scelta, bisogna cominciare col fare alcune classificazioni generalissime così da fissare qualche primo orientamento. Ed un primo orientamento potrebbe prendersi su questo punto: fare una Costituzione in cui al popolo sia affidata una funzione di preposizione alla carica dei titolari degli organi costituzionali elettivi, oppure una Costituzione in cui il popolo abbia il potere di designare anche gli indirizzi politici, e sia quindi organo di espressione di una concreta volontà politica? Questo sembra sia ormai un punto superato: la tendenza delle democrazie moderne è nel senso che il popolo non è più inteso, come nel secolo scorso, come organo di decisione politica. Comunque è questo un primo punto da sottoporre alla discussione, e che, ad avviso del Relatore, si dovrebbe risolvere affermando la necessità di una Costituzione non meramente rappresentativa, ma di una Costituzione in cui il popolo abbia un potere operante.

In sostanza il problema delle forma dello Stato è il problema dei rapporti fra potere legislativo e potere esecutivo. Ora, la schematizzazione più generale che si può fare in proposito, conduce ad una bipartizione. Vi sono alcune Costituzioni che fanno derivare direttamente dal popolo sia gli organi esecutivi che gli organi legislativi, e questi organi sono fra loro in «rapporto di separazione», nel senso che l’uno non dipende dall’altro; tutti originano dal popolo, ma con forme e direzioni diverse, di modo che l’uno dall’altro è diviso. Questo regime, attuato negli Stati Uniti d’America, porta ad una separazione di funzioni, nel senso che i titolari dell’esecutivo non possono dipendere, né per la loro origine né per il loro funzionamento, dai titolari dell’organo legislativo e viceversa. Sono indipendenti l’uno dall’altro per realizzare il fine che questa forma di governo si propone e cioè che l’un potere impedisca possibilità di abuso da parte dell’altro.

In contrapposto a questo sistema sta il regime parlamentare, che presenta, rispetto al precedente, il vantaggio di stabilire un nesso di omogenizzazione fra l’un potere e l’altro, di modo che non dovrebbero sorgere possibilità di antitesi, di squilibri, di disarmonie fra i due poteri, nel senso che l’uno è derivante dall’altro. L’azione dello Stato dovrebbe procedere con maggior fusione, senza il pericolo di disarmonie e di contrasti.

Queste sono le due forme fondamentali, perché, nella realtà, bisogna differenziare tanti tipi diversi.

Visto che si tratta di concetti generalmente acquisiti, domanda se sia il caso di scendere a dettagli e precisazioni, oppure di iniziare senz’altro la discussione su questi punti, tenendo presente che in questa sede non deve farsi una esposizione di carattere scientifico, ma debbono aversi presenti degli scopi politici che si vogliano raggiungere.

PRESIDENTE ricorda che, quando si è trattato dei problemi delle autonomie, si è richiesta una esposizione anche degli elementi che possono sembrare i più semplici, esposizione che è apparsa utile. Crede quindi opportuno seguire lo stesso sistema, contenendo l’esposizione nei limiti necessari.

MORTATI, Relatore, prosegue rilevando che una scelta di questo genere, fatta in sede politica, implica la conoscenza dei presupposti di carattere giuridico e sociale per cui una forma, in un dato ambiente storico, può apparire preferibile ad un’altra.

Di questi presupposti uno, rispetto alla forma presidenziale, è l’accentramento della funzione esecutiva nel Presidente, il quale deriva la sua origine direttamente dal popolo. Questo importa il pericolo che si accentri in tale organo un complesso di poteri tale che esso possa abusarne. Nel regime nord-americano non esistono controlli alla funzione esplicata dal Presidente: gli organi legislativi si occupano semplicemente della funzione legislativa, e l’attività di controllo sull’esecutivo non esiste, appunto perché si vuole attuare una separazione netta di poteri. Il pericolo di abuso da parte del Presidente importa che il potere dell’esecutivo non sia eccessivamente esteso: si suol dire che un regime di vasto decentramento, o un regime federale, è il presupposto di questo ordinamento di Governo ché, altrimenti, senza questa limitazione derivata dalla struttura decentrata dello Stato, potrebbe dar luogo a gravi inconvenienti.

Una riprova del pericolo di dare allo Staio una tale forma, quando mancano questi presupposti, può trovarsi nella cattiva prova fatta dal Governo presidenziale in Stati che presentavano un assetto accentrato, anziché decentrato.

Un altro inconveniente che può derivare da questo regime è che il potere esecutivo e quello legislativo non siano collegati da nessi che possano armonizzarli. Allora, il potere esecutivo, che deriva da una investitura diversa, segue una politica diversa da quella delle Camere e può verificarsi che il Capo dello Stato, destinato ad imprimere l’indirizzo politico allo Stato, si trovi nell’impossibilità di assolvere a questa sua funzione quando sia in presenza di Camere non omogeneizzate con la tendenza di cui egli è espressione; onde un arresto nel funzionamento dello Stato. Negli Stati Uniti questo pericolo è stato neutralizzato anzitutto dall’esistenza di quella struttura di due partiti che consente quei collegamenti fra i vari organi che non troverebbero altro modo di realizzarsi nelle istituzioni giuridiche. Sono gli istituti politici che suppliscono a questo che potrebbe essere un elemento negativo della struttura giuridica. Un altro mezzo per compenetrare i due poteri è poi l’uso delle Commissioni parlamentari, cui partecipano anche i Ministri che, in America, non hanno veste istituzionale.

Il regime parlamentare presenta, rispetto a quello presidenziale, una maggiore compenetrazione di poteri, compenetrazione che può arrivare, in certe forme, fino alla confusione di poteri. In Inghilterra, il Gabinetto è formato dal partito di maggioranza: in virtù della struttura ben definita dei partiti inglesi, è di fatto il partito di maggioranza che assume il potere e il Capo di tale partito diventa automaticamente Capo del Governo. Naturalmente, questo Capo del Governo, che ha il suo prestigio come dirigente del movimento vittorioso, ha una notevole libertà in ordine alla composizione del Governo, ed ha nel contempo il dominio della Camera, perché, attraverso la sua maggioranza, riesce a far valere la politica di cui è espressione. Vi è quindi compenetrazione fra potere legislativo e potere esecutivo, in modo che la separazione dei poteri viene praticamente meno.

Naturalmente, il funzionamento di questo regime è diverso là dove non sussistono le condizioni che esistono in Inghilterra, specialmente dove si ha una molteplicità di partiti, e dove manca la disciplina in seno a questi partiti. Dove non si hanno chiare designazioni da parte del corpo elettorale, la formazione del Governo è frutto di un complesso di accordi fra le varie correnti che si sono manifestate nelle elezioni e i Governi sono, per lo più, di coalizione e risentono di questa debolezza alla base; donde il danno della instabilità dell’indirizzo politico del Governo e la mutabilità dei Ministeri. Quindi la scelta di un regime o dell’altro è subordinata all’accertamento della esistenza di queste condizioni, che possono farlo funzionare in un modo anziché in un altro.

Vi sono stati dei tentativi per avvicinare queste due forme di Governo, e vi sono avvicinamenti che derivano dal fatto stesso della esistenza di condizioni analoghe.

È stato osservato che il funzionamento del regime parlamentare inglese si avvicina al regime presidenziale perché, in sostanza, l’investitura del potere esecutivo è data dal popolo, direttamente negli Stati Uniti, indirettamente nell’ordinamento inglese, in quanto il Capo del partito che ha ottenuta la maggioranza diventa il Premier. Rimane però sempre la differenza già accennata, nel senso che in Inghilterra avviene quella compenetrazione fra esecutivo e legislativo, che in America si realizza solo quando il partito che ha la maggioranza in sede di elezione del Capo dello Stato è lo stesso partito che ha la maggioranza nelle due Camere.

Ma vi sono dei punti di avvicinamento fra queste due forme contrapposte, anche in via di diritto istituzionale.

Una forma di Governo che contiene elementi dell’uno e dell’altro è il regime direttoriale attuato in Svizzera. Questo fa, allo stesso modo del regime parlamentare, derivare il Governo dal Parlamento, dalle due Camere, che eleggono il Gabinetto; ma ha un elemento differenziale in quanto il Gabinetto è eletto dal Parlamento per un periodo fisso, irriducibile. Il Parlamento, cioè, è vincolato dal voto attraverso cui si forma il Gabinetto e, per tutto il periodo di durata stabilito dalla Costituzione, non vi è possibilità di revocare il Governo.

Occorre ben precisare questo punto differenziale: mentre nel regime presidenziale o direttoriale vi è la certezza di durata, viceversa nel regime parlamentare, in forme varie, possono farsi venir meno gli organi elettivi, sciogliere le Camere e consultare il popolo, per accertarsi della rispondenza degli orientamenti di questi organi con quelli popolari.

Un altro regime che si può chiamare intermedio è quello assembleare, in cui manca il potere di dissoluzione della Camera. Le Camere eleggono, direttamente o indirettamente, il Governo e possono sempre revocarlo in base al principio che il Governo deve riscuotere la fiducia dell’Assemblea, la quale non può essere sciolta prima del periodo fissato. Questa rigidezza avvicina il regime assembleare a quello presidenziale, mentre la dipendenza del Gabinetto dalle Camere lo avvicina al regime parlamentare.

Una discussione, ad avviso del Relatore, potrebbe vertere precisamente su questo punto generalissimo: se scegliere un regime presidenziale o un regime parlamentare; e forse, in via ancor più generale: se adottare il sistema della nomina diretta da parte del popolo per un periodo stabile, fisso, senza possibilità di revoca, ciò che dovrebbe garantire una certa stabilità di indirizzo politico, o se invece adottare l’altro sistema, allo scopo di controllare in ogni momento l’aderenza degli indirizzi rappresentati dagli organi sia esecutivi che legislativi a quelli popolari.

Naturalmente, la scelta implica una conoscenza più particolare del modo di funzionare di questi ordinamenti; e la scelta dovrebbe muovere soprattutto da questo quesito: quale è il fine politico che si intende raggiungere? In questo momento, data la situazione italiana, date le esigenze che si sono manifestate attraverso quella che è stata chiamata la crisi dello Stato, che è un fenomeno di carattere generale, ma che ha avuto influenze speciali, quale è l’interesse politico maggiore che può spingere alla scelta dell’uno o dell’altro sistema?

Se dovesse essere il principio della separazione dei poteri, bisognerebbe affidarsi a quelle forme che garantiscano di più la realizzazione di questa finalità; se, invece, dovesse essere l’assicurazione di una stabilità di indirizzo del Governo, che nello stesso tempo non offra gli inconvenienti che offrono i regimi presidenziali – possibilità di disarmonia fra gli organi esecutivi e gli organi legislativi – bisognerebbe orientarsi verso un regime parlamentare. Ma non potrebbe essere un regime parlamentare puro, simile a quello inglese, o a quello francese del 1875, perché mancano in Italia i presupposti necessari per un buon funzionamento di un tal regime (manca la dualità di partiti; manca la disciplina di partito) e il popolo non potrebbe fare designazioni nette che orientassero nella scelta del Governo, né si potrebbe contare sulla stabilità dell’azione di Governo, perché la stabilità sarebbe compromessa dalle possibilità di crisi derivanti dalla fluidità della situazione politica. Basta infatti il ritiro di un gruppo, anche piccolo, dalla coalizione che ha dato vita al Governo, perché questo Governo debba cadere, con le conseguenze dolorose che si sono constatate nell’altro dopoguerra e che hanno portato a quel discredito delle forme democratiche, di cui si sono subite le conseguenze. Quindi, se si dovesse adottare un regime di indole parlamentare e si dovesse escludere perciò quella rigidezza assoluta che è caratteristica dei regimi presidenziali, bisognerebbe ricorrere ad un sistema misto, ad un sistema, cioè, che avvicinasse le due forme, allo scopo di realizzare l’intento, tenuto conto della situazione italiana.

Personalmente il Relatore pensa che il contemperamento fra le due forme di regime si possa ottenere e ne espone il modo.

Bisogna anzitutto tener presenti tutti gli elementi che debbono entrare in gioco in questa struttura costituzionale. Fra questi elementi dovrebbe essere anzitutto un Capo dello Stato; si dovrebbe, cioè, rinunciare a quelle forme dii Governo che prescindono dall’esistenza di un Capo dello Stato, che a suo avviso è essenziale per gli scopi che esporrà. Quindi: un Capo dello Stato; poi un Governo; Camere – e si vedrà se dovranno essere una o due – e il popolo. Naturalmente bisogna ricondursi al principio democratico, il quale vuole che il popolo sia la fonte di tutti i poteri, non solo, ma anche il mezzo di riequilibrazione nel caso di dissidio tra questi poteri.

La Camera elettiva, o le Camere elettive, dovrebbero esprimere l’indirizzo politico che emerge dalle elezioni. Naturalmente, in quanto manchino le possibilità, i requisiti, i presupposti di fatto perché questo indirizzo politico si manifesti in modo esplicito – poiché, in altri termini, non è possibile fare come si fa in Inghilterra, dove la designazione del Governo emana direttamente o implicitamente dalle stesse elezioni – bisognerà pensare che questa valutazione della situazione politica quale emerge dalle elezioni e dai riflessi nelle assemblee legislative, sia fatta dal Capo dello Stato. Cioè il Capo dello Stato deve valutare quella che è la situazione politica in relazione alle elezioni e deve designare per la composizione del Governo la persona che si suppone più adatta ad esprimere questo indirizzo o gli indirizzi dominanti nei gruppi espressi dalle elezioni popolari.

La designazione da parte del Capo dello Stato, in virtù del principio proprio del regime parlamentare per cui il Governo deve riscuotere la fiducia delle Camere, deve essere in un certo modo controllata e approvata dalle Camere; cioè le Camere non si devono limitare a prendere atto della costituzione di questo Governo, o meglio della designazione di questo Capo del Governo, ma devono discutere, appena il Governo si presenti ad esse, l’indirizzo politico di cui il Governo stesso è l’espressione e che deve rendere esplicito attraverso l’enunciazione di un programma preciso; e devono esprimere un voto di fiducia. Quindi dovrebbe sancirsi espressamente nella Costituzione che il Governo può effettivamente rimanere in carica ed esercitare le sue funzioni in quanto abbia un espresso voto di fiducia sulla base del suo programma politico, che sia motivato dal consenso dato a questo programma.

I dettagli circa il modo della designazione; se debba avvenire solo nei riguardi del Capo del Governo o anche dei Ministri; se il Governo, per ottenere la fiducia debba presentarsi alle Camere solamente nella veste del Presidente o anche in concorso coi singoli Ministri, potranno essere esaminati in un secondo momento. Per una esposizione in termini generali bastano gli elementi accennati.

L’innovazione rispetto al regime parlamentare dovrebbe consistere nel prescrivere che il voto di fiducia esplicito, motivato sulla base di un programma concreto, debba vincolare la Camera a mantenere in vita il Governo per un certo periodo di tempo, che il Relatore propone in due anni, ma che potrebbe variare in base ad altre considerazioni. Si avrebbe così una specie di regime direttoriale, quale si ha in Svizzera, ove il periodo coincide con quello di vita dell’Assemblea nazionale. Questo elemento che si assume dal regime direttoriale, corrisponderebbe all’esigenza preminente dei regimi democratici moderni di dare forza, stabilità e autorità al potere esecutivo, perché la instabilità dei Governi è il danno peggiore che possano lamentare i vari paesi, in quanto ne deriva l’impossibilità di seguire una linea logica, di svolgere un programma coerente che risponda alle esigenze del Paese; e quindi il discredito della democrazia.

Naturalmente, v’è da porsi questo quesito: che cosa avviene se in questo periodo di due anni – o quale potrà essere determinato – si verifichino delle disarmonie fra Camere e Governo? Ma perché questo regime possa riuscire proficuo, bisogna superare la mentalità parlamentaristica. È un regime che si formerà col costume, e in ogni caso dovrà intervenire il popolo come giudice del dissidio. Ma quando il dissidio si riveli tale da non poter essere in nessun altro modo eliminato, bisogna contare anche su questo fattore psicologico, cioè su un superamento della mentalità parlamentaristica che pone il Governo alla mercé della Camera; si deve far penetrare nell’animo, nel pensiero, nel costume dei parlamentari la concezione che il Governo deve avere una sua autonomia; deve godere la fiducia della Camera, ma, una volta concessa questa fiducia sulla base di un consenso motivato, la Camera deve dare al Governo la necessaria autonomia, affinché esso possa adempiere la funzione che gli è propria.

Ammesso che si realizzi questo presupposto, bisogna pur attenuare l’eccessiva rigidezza del regime direttoriale; e la presenza del Capo dello Stato, che viceversa in Svizzera non esiste, potrebbe precisamente dare la possibilità di questo temperamento. Si dovrebbe accordare al Capo dello Stato la possibilità di intervenire in qualche modo per sanare il dissidio che può verificarsi tra questi organi.

Quali possono essere le cause del dissidio? Può essere anzitutto l’inadempimento, o meglio, per andare all’ipotesi più semplice, le manchevolezze nell’azione di governo delle persone designate: può il Capo di un Governo sforzarsi di attuare il programma, essere fedele a questo programma, ma non avere la capacità politica necessaria per realizzarlo. Può, insomma, aversi crisi di uomini. Ma può verificarsi invece una ipotesi più complessa, cioè che il dissidio politico sorga dal fatto che il programma già approvato non goda più il consenso di quella maggioranza che si era raccolta intorno ad esso: ipotesi facile a verificarsi, quando si pensi che nel caso di un Gabinetto di coalizione basta il ritiro di uno dei gruppi che lo appoggiano perché la maggioranza venga meno. Poi vi può essere una terza ipotesi: cioè che l’armonia tra le Camere e il Governo sussista, ma si tratti di approvare misure di carattere eccezionale che non sono state oggetto di valutazione politica. Infine, per un mutamento verificatosi nello spirito pubblico in seguito ad avvenimenti eccezionali può venir meno la concordanza fra Corpo elettorale ed organi elettivi.

Queste sarebbero le ipotesi-tipo la cui valutazione dovrebbe spettare al Capo dello Stato. L’impegno di rispettare la vita del Governo per un periodo determinato dalla Costituzione dovrebbe far sì che il dissenso su misure particolari non portasse necessariamente al ritiro del Governo o alle dimissioni dei Ministri proponenti; ma dovrebbe esservi un potere discrezionale del Capo dello Stato. Un giudizio sfavorevole su singole misure non dovrebbe produrre la crisi; non dovrebbe consentirsi alle Camere di revocare la fiducia in qualsiasi momento e su qualsiasi punto, come, ad esempio, col rifiuto del bilancio, col rigetto di una determinata misura legislativa, ecc.; insomma, la Camera non dovrebbe avere il potere di esigere il ritiro del Governo quando si manifestassero dissensi su particolari, ed unico organo idoneo a valutare la possibilità di una modificazione o di una riduzione del periodo fissato dalla Costituzione per la vita del Governo, dovrebbe essere il Capo dello Stato, con potere discrezionale.

Il Capo dello Stato, quando constatasse che il contrasto fra Assemblea e Governo è sistematico, tale cioè da escludere la possibilità di una conciliazione, dovrebbe esigere – e questo è un punto fondamentale in un simile sistema di ordinamento dei poteri – un voto esplicito delle Camere circa le ragioni del dissenso; e quando vi fosse un voto motivato di dissenso della Camera dalla politica del Governo, egli dovrebbe valutare la convenienza di revocare il Ministero, oppure di procedere allo scioglimento della Camera.

Affidando indiscriminatamente al Capo dello Stato il potere di regolare i conflitti tra Camera e Governo si correrebbe però il rischio di dar vita a degenerazioni in senso presidenziale; il Capo dello Stato, cioè, potrebbe indursi ad esercitare un potere personale: pericolo da evitare, presso di noi, per ragioni presenti a tutti.

I poteri del Capo dello Stato sono appunto perciò strettamente legati alla procedura della sua nomina. Quella plebiscitaria gli darebbe un prestigio assai forte di fronte alle Camere; d’altra parte deferire la nomina del Capo dello Stato alla Camera o alle Camere riunite non pare opportuno, in quanto scemerebbe l’autorità del Capo dello Stato, che deve essere l’arbitro dei conflitti fra Governo e Camera. Anche il temperamento di stabilire una durata in carica del Capo dello Stato più prolungata di quella della Camera non eliminerebbe gli inconvenienti e non assicurerebbe la necessaria indipendenza del Capo dello Stato nei confronti del Parlamento. Perciò il Relatore propone di fare eleggere il Capo dello Stato da gruppi sociali che siano particolarmente interessati al mantenimento di quell’equilibrio di cui il Capo dello Stato è in certo modo il tutore, in virtù della sua funzione moderatrice e, come si dice in Francia, neutra, che lo pone al disopra dei partiti.

Queste forze sociali in uno Stato che debba essere organico, che debba, cioè, riconoscere giuridicamente i gruppi sociali e farli intervenire nel funzionamento degli organi dello Stato, sono i partiti, i gruppi territoriali e i gruppi economici, di professione, di categoria. In una struttura statale così organizzata, si potrebbero fare intervenire gli organi più rappresentativi dei gruppi sociali in un collegio speciale nel quale dovrebbero essere rappresentati anche gli enti territoriali e soprattutto le regioni, e questo collegio dovrebbe eleggere il Capo dello Stato.

Prima di addentrarsi nella illustrazione dei particolari di questo progetto, chiede se la Sottocommissione desideri discutere anzitutto la questione pregiudiziale, e cioè il carattere parlamentare o presidenziale della Repubblica.

TOSATO è di tale avviso.

UBERTI concorda, perché, se la Sottocommissione decide in maggioranza di adottare quella forma di Stato, diventa inutile esaminare le modalità delle altre forme. La minoranza potrà presentare all’Assemblea un proprio testo ed una propria relazione.

PRESIDENTE crede che l’onorevole Mortati dovrebbe portare a termine la sua relazione, affinché la Sottocommissione possa giudicare a ragion veduta.

PORZIO ritiene che dovrebbe essere decisa innanzitutto la questione pregiudiziale. Crede che l’opinione prevalente nella Sottocommissione sia favorevole alla forma della repubblica parlamentare, sicché non vi sarebbe molto da innovare rispetto allo stato presente. Le novità di maggior rilievo proposte dal Relatore concernono la funzione del Capo dello Stato e di conseguenza la procedura per la sua nomina. Ma, per decidere quale è la forma di repubblica da adottare, non crede necessaria una discussione particolareggiata, perché tutti conoscono le caratteristiche delle forme presidenziale e parlamentare: basta tener presente l’accenno fatto dal Relatore alla Costituzione francese del 1875, perché con quella in Francia si stabilì la repubblica parlamentare dopo cinque anni di terribili lotte alle quali parteciparono i più insigni parlamentari francesi.

LUSSU dissente dall’onorevole Porzio e crede che il Relatore debba proseguire la sua esposizione fino in fondo.

PRESIDENTE, poiché è noto che la grande maggioranza aderisce all’idea di una repubblica parlamentare e si può prevedere che la discussione si avvierà verso questa soluzione, trova opportuno che l’onorevole Mortati prosegua l’esposizione del suo pensiero su questo particolare problema.

PORZIO osserva che il Relatore espone tutte le ipotesi, ma la Sottocommissione non può discuterle che una alla volta. Poiché essa è, in maggioranza, favorevole alla repubblica parlamentare, potrà qualcuno che sia favorevole alla tesi della repubblica presidenziale, sostenerla, senza alcun bisogno di una discussione su tutta la relazione, che espone con molta obiettività tutte le ipotesi possibili.

CAPPI, affinché la scelta per la forma di repubblica parlamentare possa essere consapevole, crede opportuno che l’onorevole Mortati precisi le conseguenze concrete e dettagliate che dall’una e dall’altra forma possono derivare.

PICCIONI ricorda che l’onorevole Mortati è stato incaricato di fare una relazione generale e osserva che la parte da lui svolta finora non esaurisce tale relazione. Non vede per quale motivo si dovrebbe lasciare il compito del Relatore a metà.

MORTATI, Relatore, avverte che i Relatori, incaricati di esaminare separatamente il potere legislativo, l’esecutivo e il giudiziario, in una riunione preliminare hanno constatato la scarsa possibilità di procedere in questo esame per compartimenti stagni e l’opportunità di far precedere la discussione particolareggiata dell’organizzazione dei singoli poteri da una discussione preliminare sulla struttura generale dello Stato. La sua relazione consta pertanto di tre parti, di cui la prima esamina il problema fondamentale della forma di Governo nelle sue linee essenziali, per passare poi all’esame dettagliato del potere legislativo come organizzazione e come funzionamento. La prima parte ha quindi una sua autonomia concettuale.

LUSSU osserva che il Relatore ha fatto una esposizione generale: ma, accennando a vari problemi, su due punti ha espresso una sua opinione personale. Crede che questo dovrebbe essere il sistema da seguire per tutti i problemi che egli ha affrontato.

PRESIDENTE mette ai voti la proposta che il Relatore continui la sua esposizione.

(È approvata).

MORTATI, Relatore, passando al problema dell’unicameralismo e bicameralismo, osserva che, per risolverlo, bisogna chiedersi quali sono i fini politici che si vogliono raggiungere con l’esistenza di due Camere anziché di una sola. Tali fini possono essere molteplici e si tratta di vedere come si possano realizzare.

Un primo fine è quello di esercitare una funzione ritardatrice, di controllo dell’operato della prima Camera. Si osserva che il meditare su una deliberazione presa dalla prima Camera, l’approfondire il problema e il ripetere la discussione, possono agevolare così la valutazione della convenienza politica della legge come il suo perfezionamento tecnico. Questo scopo può essere raggiunto da una seconda Camera qualsiasi: anche una seconda Camera formata con la stessa struttura della prima può esercitare questa funzione ritardatrice, questa ripetizione dell’esame. Il caso-tipo di una seconda Camera formata esclusivamente con questo intento è offerto dalla Costituzione norvegese, l’unica che forma la seconda Camera dallo stesso seno della prima: il corpo elettorale norvegese elegge, infatti, un certo numero di Deputati, i quali eleggono nel loro seno un numero più ristretto di membri che vanno a formare la seconda Camera; e si dice che il risultato di questo sistema sia assai soddisfacente, il che significa che non è esatta la tesi che quella seconda Camera non sia che un duplicato della prima.

Ma, accanto a questo scopo ve ne è un altro più particolare e che esige forme specifiche di realizzazione: quello dell’integrazione della rappresentanza. Ammessa una rappresentanza generale del popolo, indifferenziato, può apparire utile accompagnare la prima Camera con una seconda, la quale sia formata in modo diverso, pur essendo sempre di origine popolare. Bisogna partire dal presupposto che questa seconda Camera debba essere capace di decisioni politiche, cioè di manifestazioni di volontà e non di pure espressioni di pareri o manifestazioni di desideri. Questa seconda Camera, posta in posizione di parità con la prima, potrebbe realizzare meglio il suo fine quando fosse espressione di una integrazione del suffragio.

Richiama l’attenzione della Sottocommissione sul fatto che, comunque si decida la questione dell’organizzazione del suffragio, la Costituente dovrà tener presenti certe linee essenziali dell’ordinamento del suffragio, perché vi sono istituti che con determinati regimi elettorali funzionano in un certo modo, con altri regimi funzionano diversamente.

Ammessa una rappresentanza formata in un dato modo, si domanda se, insieme o accanto a questa rappresentanza politica che esprime gli orientamenti dei vari partiti fra cui si divide il corpo elettorale, non vi sia posto per un’altra forma di rappresentanza, la quale esprima la volontà dello stesso popolo, che sia quindi anche espressione del suffragio generale, ma in una veste diversa. Naturalmente queste forme di costituzione della seconda Camera hanno una funzione in quanto portano ad uno spostamento del peso politico che emerge dalla prima Camera. Questo è il risultato pratico.

Qualunque Senato tende a modificare il peso politico dei cittadini quale potrebbe essere espresso attraverso il suffragio universale e la rappresentanza di partiti. Il sistema francese del 1875, modificato nel 1884, si basa sulla rappresentanza territoriale: la legge francese dà una rappresentanza eguale a comuni o a organismi territoriali diversamente composti nel loro rapporto demografico; e la conseguenza politica che ne deriva è che i comuni piccoli hanno una influenza maggiore delle grandi città, onde una impronta speciale che deriva al Senato da questa rappresentanza, la quale sposta il rapporto realizzato nella prima Camera con il suffragio universale.

Vi possono essere altre forme per una diretta integrazione del suffragio, ed una di queste è quella della rappresentanza di categoria. Le categorie si possono intendere con due significati: o col significato economico, in cui le categorie rappresentano gli interessi delle professioni che intervengono nella vita economica come fattori della produzione e del consumo; o col significato super-economico, e quindi culturale, assistenziale, o, se si vuole anche dire, professionale, in cui però la parola «professionale» va intesa in senso generico. Naturalmente l’accettazione di una rappresentanza di questo genere solleva problemi numerosi e di varia natura e presupporrebbe o l’organizzazione di queste categorie in gruppi determinati o il realizzarsi delle categorie anche indipendentemente dalle organizzazioni di questo genere, sulla base di una semplice anagrafe delle popolazioni nei vari settori delle attività economiche o culturali. In questo secondo caso l’attribuzione di un numero di seggi a ciascuna categoria verrebbe fatta avendo soltanto in vista il quadro di ripartizione, indipendentemente da una organizzazione delle singole categorie in sindacati appositamente riconosciuti. Si potrebbe, cioè, pensare ad una terza forma, la quale non considerasse le categorie nelle loro specializzazioni, ma che abbracciasse gruppi di categorie sulla base di certi interessi sociali più eminenti e più importanti: per esempio la cultura, la giustizia, il lavoro, l’industria, l’agricoltura. E sarebbe, questo, un tentativo di dare alla rappresentanza una maggiore organicità e di eliminare o attenuare l’influenza strettamente proporzionale degli interessi, per allargare la visuale verso forme di valutazione più propriamente politica. Non si deve, infatti, dimenticare che, se si vuol dare alla seconda Camera una funzione politica, si debbono anche creare i presupposti perché i rappresentanti possano elevarsi a questa più ampia valutazione politica.

Si può sospettare che una seconda Camera fondata su una base strettamente professionale possa essere espressione di interessi troppo limitati e quindi costituire un ostacolo a che assurga ad una visione generale e inquadri l’interesse particolare nell’interesse generale, ciò che è caratteristico degli organi politici. Un tale inconveniente si potrebbe attenuare, dunque, attraverso questa concezione più larga delle categorie.

Naturalmente, o si scelga un tipo o si scelga l’altro, bisogna preoccuparsi di dosare il peso politico attribuito a ciascuna categoria, preoccuparsi cioè di proporzionare il numero dei seggi alla rilevanza delle categorie, che non si può desumere soltanto dal rapporto numerico, ma che bisogna desumere da criteri più comprensivi, perché non è detto che il peso numerico sia il preminente in una rappresentanza di questo genere destinata a fare emergere la capacità politica di esprimere interessi generali.

Questo è un problema da risolvere in sede politica.

Qualcuno dice che sarebbe arbitrario attribuire un certo numero di seggi ad una categoria piuttosto che ad un’altra; ma, dal punto di vista di una logica astratta, tutto è arbitrario; anche, per esempio, l’età fissata per l’attribuzione del diritto di elettorato, l’attribuzione dell’elettorato alle donne, ecc. Il criterio di risoluzione si può trovare in sede politica, secondo quello che si ritiene più opportuno di realizzare, secondo la rappresentanza che si ritiene necessaria in una certa situazione.

Naturalmente le difficoltà non si fermano a questi risultati.

Si può osservare che, dovendo essere consacrato questo peso nella Costituzione, l’inserire questa determinazione di peso in una Costituzione rigida, porterebbe ad una cristallizzazione della situazione di un determinato momento, onde la determinazione potrebbe modificarsi soltanto con la procedura piuttosto lenta della revisione costituzionale. Ma a questo inconveniente si potrebbe ovviare stabilendo una revisione periodica da fare in forma più semplice della comune revisione costituzionale.

Qualche altro osserva che, nel caso di scelta di questo sistema, bisogna pensare al modo di presentazione delle candidature e al modo di esercizio del voto nel seno di ogni gruppo. Tutte difficoltà che bisognerebbe affrontare e risolvere per decidere l’accettazione dell’uno o dell’altro sistema.

Ma oltre alla forma che si basa sul concetto territoriale e a quella che si basa sul principio delle categorie, si potrebbe pensare ad un’altra che abbinasse l’uno e l’altro sistema. L’abbinamento si potrebbe ottenere giustaponendo la rappresentanza di categoria a quella territoriale, così da avere una percentuale di rappresentanti delle regioni e dei comuni sulla base territoriale, e un’altra percentuale sulla base delle categorie. L’integrazione potrebbe essere più soddisfacente se si fondessero le due rappresentanze e si ripartisse il numero dei seggi della seconda Camera fra le regioni (e si vedrà in un secondo tempo se la rappresentanza debba essere proporzionale o raggiunta in altra forma). Attribuito un numero di seggi alle varie regioni, l’elezione nel seno di ciascuna avverrebbe sulla base delle categorie, con un risultato più organico.

Questi sono i sistemi diretti a risolvere il fine di integrare il suffragio attuato per la formazione della prima Camera.

Senza soffermarsi sui vantaggi dell’uno o dell’altro sistema, dichiara di essere favorevole a questa forma di rappresentanza che integra quella basata sul principio territoriale.

A chi obietta che questa è materia di legge elettorale, osserva che, se anche si volesse rimandare l’esame del sistema elettorale, non si potrebbe in nessun caso prescindere dal prenderne in considerazione i punti basilari. La decisione sulla legge elettorale potrà essere rinviata per quanto riguarda i particolari, ma il tipo della seconda Camera deve essere stabilito nella Costituzione, e deve essere precisata la quantità dei voti che spettano a ciascuna categoria, perché è di rilevanza costituzionale conformare la seconda Camera ad un metodo o ad un altro. Personalmente accede al sistema di fissare un numero pari di rappresentanti, qualunque sia il numero dei rappresentati. Comunque, il sistema influisce sul funzionamento dell’Assemblea e deve perciò essere assunto come punto fondamentale nella Costituzione. Ma, per evitare la cristallizzazione delle situazioni che si verificano in determinati momenti, occorrerà appunto stabilire la revisione periodica.

Anche la legge elettorale politica che serve alla formazione della prima Camera è un elemento troppo essenziale perché si possa considerarlo di dettaglio o di carattere soltanto esecutivo: i particolari si possono rimandare ad una legge speciale; ma il sistema che si vuole adottare dovrà essere fissato nella Costituzione, perché l’accoglimento di uno o di un altro sistema porta a conseguenze diverse nel funzionamento dell’organo.

Ma la formazione di una seconda Camera può tendere anche ad un altro scopo, cioè a quello di selezionare particolari capacità e competenze; e allora bisogna affrontare il problema della competenza, che vale anche per la prima Camera, ma che per la prima Camera si risolve più difficilmente, appunto perché ad essa si vuol dare un carattere di rappresentanza politica generale.

Nella seconda Camera, per lo meno storicamente, si è realizzata la tendenza a delimitare la scelta degli eleggibili per assicurare la presenza nell’assemblea legislativa di certe competenze individuali che il sistema dei regimi rappresentativi di per se stesso non assicura. Questo terzo scopo a cui si può tendere nella costituzione della seconda Camera, formata nell’ambito di certe categorie, cioè prescrivendo che gli eleggibili siano scelti nell’ambito di determinati gruppi, che si suppone abbiano una certa competenza, è molto importante, perché uno dei fattori che ha contribuito a determinare la cosiddetta crisi della democrazia è precisamente il difetto di competenza, tanto più sensibile nello Stato moderno che ha visto estendersi la sua sfera di attività in settori sempre nuovi e sempre più tecnici. Questo fine politico particolarmente importante può essere soddisfatto con la costituzione di una seconda Camera in cui si faccia una selezione degli eleggibili. Naturalmente se si stabilisce una rappresentanza di categoria, per evitare la forma di rappresentanza fascista, in cui alla Camera delle Corporazioni un poeta o un filosofo rappresentava, per esempio, gli ortofrutticoli, bisogna esigere che i rappresentanti appartengano alle categorie rappresentate, determinando certi requisiti di capacità: età, appartenenza a certe attività, aver fatto parte di certi corpi od uffici, ecc.

Vi sono poi forme di composizione della seconda Camera che tendono a conciliare i vantaggi di vari sistemi, cioè forme di composizione che, insieme agli elementi elettivi, comprendono anche elementi scelti in altro modo. Così, ci sono costituzioni che adottano un contemperamento del sistema elettivo con quello della nomina da parte del Capo dello Stato, ammettendo che un certo numero di membri del Senato sia nominato dal Capo dello Stato; ciò che può avere una ragione di essere, in quanto ci sono delle capacità che è opportuno assicurare alla seconda Camera, mentre non è opportuno siano scelte attraverso le elezioni: magistrati, membri dell’esercito o dell’amministrazione, ecc. Un altro sistema misto è quello della così detta cooptazione, per cui lo stesso Senato sceglie parte dei suoi membri. Vi è il sistema della nomina da parte della Camera, oppure da parte delle due Camere: sistema misto, che tende ad integrare la rappresentanza elettiva con una rappresentanza elettiva di secondo grado, per assicurare il concorso di certe competenze.

Un altro punto da affrontare a proposito del sistema bicamerale è quello della parità, o meno, da concedere alle due Camere: parità piena, semipiena, o non parità. Questa ultima pone la seconda Camera in una situazione di inferiorità di fronte alla prima, limitandone la competenza all’emissione di pareri o alla sospensione dell’attuazione di certe misure. Uno dei casi è quello della Camera dei Lords inglese che, dopo la riforma del 1911, non è più una Camera legislativa in senso proprio, ma ha una funzione sospensiva di certe misure; ed anzi, nella materia finanziaria non ha neanche questa funzione. Questo era il caso del Reichsrat della Costituzione di Weimar. A suo avviso, il sistema bicamerale non può consentire forme di seconda Camera con questi limiti; la seconda Camera dovrebbe avere non solo piena parità di diritti in materia legislativa, ma anche piena parità in ordine alla fiducia da accordare al Governo. Egli, anzi, aveva proposto di formare un organo misto, una riunione plenaria delle due Camere per votare sulla fiducia al Governo, in modo che fosse meglio attuata una compenetrazione dei vari punti di vista attraverso la discussione e la votazione. In considerazione del fatto che la prima Camera ha un valore politico di fatto, non di diritto, preminente, si potrebbe escogitare un sistema che desse una preminenza numerica alla prima Camera in modo da metterla nella sua giusta posizione.

Quindi, egli è per la piena parità anche nel campo finanziario, perché, evidentemente, quei limiti che sono valsi per diminuire l’efficienza in questo campo della seconda Camera negli ordinamenti in cui questa ripeteva la sua origine non dal popolo ma dal Sovrano, non hanno più ragione d’essere in un ordinamento nel quale l’origine della seconda Camera è anche essa popolare, e manca la ragione di un trattamento diverso alle due Camere anche in questo campo.

Da questa impostazione dei rapporti fra le due Camere nascono problemi molto gravi. Uno è quello della durata da attribuire alle due Camere ed il Relatore ritiene che le due Camere dovrebbero essere elette contemporaneamente e durare per lo stesso periodo di tempo; né vede la ragione perché dovrebbe essere stabilito altrimenti. Questa parità di formazione può evitare l’inconveniente che potrebbe sorgere dalla formazione delle due Camere in momenti diversi, quello, cioè, di rispecchiare due orientamenti politici, diversi.

Esaurito così l’argomento del bicameralismo, sono da esaminare argomenti più particolari per esaurire la materia dell’organizzazione: numero dei componenti, durata del mandato, requisiti per la nomina, procedimento elettivo, ecc. Vale la pena di soffermarsi sul problema della verifica dei poteri.

Il modo di verifica dei poteri attuato in quasi tutti i Paesi continentali, salvo poche eccezioni, è quello di affidare la verifica alle stesse Camere; modo che è stato attuato in relazione al principio dell’autonomia delle Camere, per garantire questa autonomia. In contrapposto a questo è il sistema inglese, adottato poi dalla Costituzione di Weimar e da quella cecoslovacca, che sottrae il giudizio dei titoli dei membri alla Camera per affidarlo ad un organo giurisdizionale di formazione speciale composto anche di rappresentanti della Camera stessa. Si tratta di sapere se è opportuno seguire il sistema tradizionale, oppure modificarlo, e il Relatore ritiene che sarebbe opportuno introdurre il sistema del tribunale costituzionale, sottraendo alle Camere la verifica dei poteri. È questa una esigenza particolarmente sentita nelle strutture politiche simili a quella italiana, in cui non esiste un costume politico che possa garantire il rispetto dei diritti delle minoranze, mantenendo quel presupposto del leale gioco politico che è un caposaldo del regime democratico parlamentare. In queste condizioni occorre trovare un sistema di mezzi tecnici i quali tendano a garantire le minoranze; e su questa esigenza fondamentale egli richiama l’attenzione della Sottocommissione.

Uno dei mezzi di tutela del diritto delle minoranze potrebbe consistere appunto nel sottrarre alle Camere la verifica dei poteri per attribuirla ad un tribunale elettorale, che sarebbe naturalmente da costituire e che dovrebbe essere oggetto di una apposita legge costituzionale.

Un altro argomento importante è quello del potere di auto-organizzazione.

Questo potere è spontaneo in tutti i corpi costituiti e, quindi, spetta alle Camere. Il problema consiste nel sapere se vi sono principî che debbano essere posti nella Costituzione a garanzia di certi interessi che si vuole sottrarre all’arbitrio delle Camere. Anche qui può rientrare il concetto della tutela delle minoranze. Per esempio, si potrebbe stabilire che il regolamento della Camera debba essere approvato con una maggioranza qualificata, in modo da rendere meno facile che sia fatto a vantaggio di certe maggioranze o per imporre certi metodi.

Anche l’obbligo dell’emanazione del regolamento potrebbe essere uno dei punti da fissare nella Costituzione, per evitare che l’Assemblea ometta di emanarlo. Si potrebbero sottrarre al potere regolamentare determinati rapporti, oppure dare efficacia di legge al regolamento per quanto riguarda determinati rapporti. Qualche Costituzione stabilisce che il regolamento deve essere approvato per legge.

Altro argomento particolare: le modalità della prima riunione della Camera dopo le elezioni. Nelle Costituzioni monarchiche è previsto il discorso della Corona; in quelle presidenziali il messaggio del Presidente. È ammissibile il messaggio presidenziale quando al Presidente si assegni una funzione di moderatore dei poteri; ma ove egli abbia funzioni di intervento attivo, il messaggio potrebbe non essere consigliabile, per rispettare l’indipendenza del Parlamento.

Altre questioni di dettaglio molto importanti sono quelle relative alla convocazione e all’aggiornamento delle Camere. Vi sono sistemi rigidi di convocazione e di aggiornamento, sistemi che prevedono l’autoconvocazione, soprattutto a tutela delle minoranze che richiedono la convocazione dell’assemblea; sistemi che rimettono la convocazione alla iniziativa del Capo dello Stato o del Presidente della Camera, con poteri illimitati, oppure limitati, come nel caso in cui si precisi che nel provvedimento di aggiornamento deve essere indicata la data della riconvocazione, non oltre un determinato periodo di tempo.

La Costituzione dovrà inoltre risolvere il problema della durata delle legislature e delle sessioni. Il Relatore ritiene che le prime non dovrebbero superare i quattro anni, e per le seconde se ne dovrebbe fissare almeno una all’anno. Occorre inoltre stabilire l’organo che può prorogare le sessioni e prevedere l’ipotesi di mutamento del Governo a Camera chiusa.

Vi sono poi le questioni della retribuzione o meno delle prestazioni dei Deputati, delle immunità e delle guarentigie (con particolare riguardo alla insindacabilità delle opinioni, alla libertà dall’arresto, alla sottrazione al giudizio dei tribunali ordinari) e della disciplina di partito, tanto nella procedura elettorale che nella esplicazione del mandato. Dovrebbe determinarsi il modo di intervento dei partiti, nel periodo elettorale, nella scelta e nella presentazione delle candidature. Potrebbe farsi luogo ad una base popolare nella presentazione delle liste, sollecitando l’intervento anche dei non iscritti ai partiti, in modo da determinare le preferenze in ragione al numero degli elettori presentatori e non già a quello dei voti di preferenza. Trattasi di problemi molto scabrosi.

Accolto il sistema proporzionalistico e considerati i Deputati come rappresentanti dei partiti, sorge il problema se l’espulsione di un Deputato dal partito faccia cessare il rapporto elettorale, cioè la qualità di Deputato, in considerazione del presupposto dell’equilibrio politico, onde è composta l’assemblea, equilibrio determinatosi in seguito alla espressione della volontà popolare e che potrebbe venire turbato dalla espulsione da un partito di Deputati che si sottraggano alla disciplina. La Costituzione cecoslovacca ha portato alle estreme conseguenze logiche l’impostazione della lotta politica sulla base delle organizzazioni di partito, sancendo la decadenza dalla carica in caso di dimissioni o di espulsione dal partito: decadenza che deve però venire accertata da uno speciale giudice, competente anche ad accertare legittimità dei titoli per essere investiti della carica di Deputato. Si potrebbe anche pensare alla opportunità di ammettere una revoca tacita del mandato da parte del corpo elettorale al Deputato dimissionario o espulso.

Altro punto di particolare interesse è quello relativo agli organi legislativi misti, straordinari o interinali. Talune Costituzioni, prevedendo che si possano verificare conflitti tra i due rami del Parlamento, tanto per quel che riguarda la fiducia al Governo, quanto per la approvazione delle leggi, hanno stabilito organi misti interparlamentari, che possono essere formati tanto dalla riunione delle due Camere quanto dalla istituzione di un terzo organo, composto da Deputati eletti in pari numero nelle due assemblee. Può prevedersi un solo organo, oppure più commissioni interparlamentari, alle quali può anche essere deferito lo studio preliminare dei progetti di legge, allo scopo di prevenire il verificarsi dei conflitti fra i due rami del Parlamento. E si può pensare a questo organo misto anche per altri compiti, uno dei quali – secondo quanto è desumibile dalla legislazione comparata – è quello di supplire le Camere nel caso di sospensione delle sessioni, o – come ammette anche qualche Costituzione – nel caso di scioglimento o di fine della legislatura: cioè, quando sia sciolta la legislatura, questi organi dovrebbero permanere in carica allo scopo precisamente di supplire la Camera mancante, nel senso di far partecipare questo organo misto, rappresentativo delle Camere che non esistono più perché sciolte, all’emanazione dei provvedimenti d’urgenza. Non sembra al Relatore che questo espediente possa essere utile, perché, quando le Camere sono svuotate di prestigio politico, o perché sciolte o per decadenza del mandato, sarebbe inopportuno, dal punto di vista politico, farle in qualsiasi modo interferire. Si finirebbe, in sostanza, per attenuare quella responsabilità che in tale occasione è meglio far assumere in pieno dal Governo, dato che si tratta comunque di una competenza di carattere eccezionale, poiché durante le elezioni il Governo che rimane in carica non può emettere che atti di ordinaria amministrazione.

Esaurita la parte relativa all’organizzazione del potere legislativo, bisogna passare alla fase del suo funzionamento.

(La seduta è sospesa alle 19.30, ed è ripresa alle 19.45).

MORTATI, Relatore, circa l’organizzazione del potere legislativo, ricorda, perché non è un dettaglio secondario e potrebbe anche influire sul funzionamento, i modi di intervento della Camera nella discussione e nell’esame delle leggi: il modo di lettura, il funzionamento degli Uffici e delle Commissioni. È noto quale influenza abbia avuto in Francia sull’atteggiamento del Governo parlamentare il sistema delle Commissioni permanenti, le quali avevano un largo potere sull’esame delle leggi e sul loro controllo. Attraverso questo metodo la Camera francese è riuscita ad asservire a sé il Governo, diminuendo l’indipendenza e l’influenza della sua azione e compromettendo la forza del potere esecutivo nei confronti di quello legislativo. Quindi, anche nella trattazione della disciplina di questa materia, bisognerebbe tener conto delle ripercussioni che le commissioni permanenti possono esercitare nei rapporti fra legislativo ed esecutivo.

Per passare alla parte relativa al potere legislativo visto nel momento del funzionamento, sono da esaminare vari punti e innanzitutto a chi spetti la iniziativa. Vi sono in proposito varie tendenze: una tendenza che si potrebbe chiamare demagogica, la quale vorrebbe escludere la iniziativa del potere esecutivo in generale, mentre, se si vuole creare un regime che dia al potere esecutivo il giusto posto che gli spetta, bisogna pensare che la libera iniziativa parlamentare non deve escludere quella governativa, perché il Governo, se è responsabile, deve avere una pienezza di mezzi, uno dei quali è la iniziativa. Viceversa si può pensare ai limiti della iniziativa parlamentare ed uno di questi, che la esperienza del funzionamento dell’iniziativa parlamentare ha dimostrato particolarmente utile, è in materia di spese. Si è invertita storicamente la posizione dei due poteri rispetto al passato. Mentre prima i Deputati influivano nel senso di limitare le spese, anzi la loro funzione storicamente era quella di intervenire, su richiesta del Capo dello Stato, per stabilire l’entità delle contribuzioni e limitarla, adesso nei regimi parlamentari è il Governo che deve limitare la tendenza eccessiva di iniziativa in materia finanziaria da parte dei Deputati. Perciò si è pensato a limitare in qualche modo l’esercizio di questo potere di iniziativa da parte di organi non responsabili, i quali, non avendo nelle mani il funzionamento dell’assetto finanziario, sono portati a eccedere nelle spese senza pensare al modo come farvi fronte. Si è pensato, cioè, di limitare la iniziativa parlamentare alla determinazione delle entrate sufficienti a coprire le spese e precisamente ad inquadrare questa posizione reciproca dei due poteri.

Oltre alla iniziativa vi sono poi altri argomenti. In merito all’esame dei progetti di legge, si tratta di vedere se vi possa essere una regolamentazione più penetrante, soprattutto nell’intento di riparare all’inconveniente che si è verificato e si verifica tuttora di una deficienza di formulazione tecnica, di una mancanza di coordinazione nella redazione dei progetti di legge. Qualcuno proporrebbe (e vi è qualche esempio nella legislazione comparata) la costituzione di un consiglio legislativo, presso il Parlamento, col compito della revisione tecnica dei progetti per rendere le leggi più idonee ad assicurare la certezza del diritto, evitando disarmonie nel complesso della legislazione, affermando meglio le esigenze sistematiche.

Bisognerebbe poi stabilire le norme sul numero legale, sui procedimenti di votazione, ecc. Per quanto riguarda gli effetti del rifiuto dell’approvazione di una legge, si è già parlato delle possibilità che possono essere offerte per sanare il dissidio. Più importante in questa sede è esaminare la funzione che può attribuirsi al Capo dello Stato in sede di formazione di leggi. Al Capo dello Stato può essere attribuita una funzione di intervento attivo, che si esplica con la sanzione, oppure può attribuirsi una funzione diversa, che non è più di intervento attivo, ma di arresto temporaneo dell’entrata in vigore della legge, una funzione di veto. Ammesso un sistema in cui il Capo dello Stato abbia attribuzioni di carattere prevalentemente moderatore, un intervento attivo nella funzione legislativa non si potrebbe considerare se non come elemento di disarmonia nel sistema e quindi si potrebbe pensare ad una funzione di veto, che assume una rilevanza notevole, ove si prescelga un sistema parlamentare con la permanenza per un certo periodo di tempo del Governo che abbia ottenuto la fiducia della Camera, perché «l’arresto» da parte del Capo dello Stato con il conseguente obbligo della Camera di un ulteriore esame della legge e l’approvazione con una maggioranza qualificata, potrebbe almeno in parte ovviare ad un possibile inconveniente: se nel periodo fisso di durata in carica del Governo, si verificasse un dissenso col Parlamento e se il Parlamento, appunto nella espressione di questo dissenso, approvasse delle misure in disarmonia con la politica generale del Governo, l’intervento del Capo dello Stato potrebbe tentare di ricondurre questa armonia. Ma in ogni caso è da escludere assolutamente un intervento del Capo dello Stato sotto forma di sanzione. Viceversa, al Capo dello Stato potrebbe spettare il potere di promulgazione, che è un potere esecutivo, che però si potrebbe anche affidare al Governo, se il Governo si distaccasse dal Capo dello Stato con una funzione propria autonoma, lasciando al Capo dello Stato una attività semplicemente di controllo politico.

La Costituzione deve poi regolare la posizione delle leggi nel sistema delle fonti, stabilire la efficacia delle leggi, in armonia di queste fonti e pertanto stabilire la potestà di interpretazione autentica della legge, stabilire i limiti di questo potere, limiti che sono di varia natura. Uno, più generale, nasce dalla legge costituzionale. Oltre alla questione del diritto naturalistico come fonte autonoma, del rispetto del principio di giustizia e di uguaglianza, del rispetto delle norme del diritto internazionale, si deve anche esaminare il problema del principio di giustizia e di eguaglianza, del rispetto del giudicato.

Ma un punto importante in materia è quello delle delegabilità del potere legislativo. In regime di Costituzione rigida non vi è dubbio che il silenzio della Costituzione su questo punto importa ovviamente la non delegabilità della funzione legislativa, e quindi, se si vuole delegare il potere legislativo ad altro organo, bisogna dirlo esplicitamente. Nello Statuto nostro il silenzio è stato ammesso come non capace di portare il divieto, perché è una Costituzione non rigida. Il Relatore ritiene opportuno stabilirlo, in quanto crede eccessivo adottare il principio della Costituzione francese che escludeva la delegabilità, potendo ben sorgere il bisogno di affidare al potere esecutivo, tecnicamente più preparato per certe leggi, il compito di esaminarle sia pure dopo aver deliberato i principî fondamentali che lo impegnano. Senza scendere nel dettaglio, accenna alla esclusione di una delega geniale, ma con l’attribuzione di poteri su compiti e punti particolari.

Vi è poi il problema del divieto della subdelegazione, il divieto del potere di delegabilità ai Ministri e quindi l’esclusione di decreti ministeriali delegati.

Un problema delicato è quello di sapere a chi bisogna attribuire il potere di sindacare i limiti della delegazione e se si debba affidarlo al potere legislativo stesso. Qualcuno propone di creare un sistema misto, cioè di controllo interno da affidare a determinate commissioni della Camera, che dovrebbero accertare preventivamente il mantenimento della legislazione delegata nei limiti della delegazione.

Un limite particolare alla efficacia della volontà legislativa del Parlamento che si può collegare a quello delle esigenze della protezione delle minoranze, può essere costituito dal diritto attribuito a certe minoranze, cioè alle minoranze che raggiungono una certa percentuale (un terzo o un quinto), di attuare un veto sostanziale della legge dichiarata non urgente dal legislatore.

Anche la possibilità di sospendere l’entrata in vigore della legge s’inquadra nel problema della tutela delle minoranze e nel complesso delle misure che potranno predisporsi a questo scopo.

Non si sofferma sul problema dei decreti-legge, perché rientra nei compiti specifici del potere esecutivo. Accenna invece ai punti più importanti relativi alle funzioni non legislative che spettano al potere legislativo in deroga al principio della separazione dei poteri.

L’approvazione dei trattati deve essere sottoposta al potere legislativo, in vista dei rapporti di diritto interno e di diritto internazionale.

Quanto ai bilanci, la Costituzione dovrà occuparsene ed affermare la possibilità di apportarvi variazioni entro determinati limiti.

Per quanto riguarda la funzione di controllo, il punto più importante è il potere di inchiesta. Bisogna vedere se sia opportuno un regolamento e stabilire i particolari di questo potere e i particolari circa i rapporti dei cittadini con la pubblica amministrazione e i vincoli che i poteri pubblici possono imporre nei rapporti con la Commissione d’inchiesta.

Sulla funzione costituzionale, non pare sia il caso di attribuire alla Camera funzioni in materia di giudizio di responsabilità dei propri membri. È questo un concetto che non troverebbe ragione di essere in una Costituzione moderna. Gli elementi di accusa per la responsabilità dei Ministri potrebbero essere portati o ad una delle Camere o, ad avviso del Relatore, ad un tribunale speciale, che potrebbe essere una sezione del Tribunale costituzionale.

Si deve infine accennare alla funzione da attribuire al popolo come organo del potere legislativo. La tendenza moderna è quella di condurre il popolo, da una funzione limitata alla scelta dei suoi rappresentanti, ad una funzione più ampia, di attiva partecipazione politica, e il mezzo adoperato a questo scopo è il referendum, che ha una efficacia diversa a seconda del modo in cui sono congegnati i poteri pubblici.

Il referendum ha una funzione più penetrante, più importante di quella che ha nella Costituzione del primo tipo, in cui si ammette una assoluta rigidezza nella formazione degli organi costituzionali che hanno un periodo fisso di durata. Si presenta allora l’esigenza di risolvere i conflitti eventuali, di sentire il parere del popolo; e questa esigenza può essere più viva che non nel regime parlamentare, in cui esistono congegni più elastici, che consentono ad ogni momento di tornare al popolo attraverso lo scioglimento della Camera.

Il referendum, destinato a sentire il giudizio del popolo su determinate questioni, è più intensamente usato in Svizzera e negli Stati Uniti, che rappresentano i due più importanti sistemi rigidi degli organi fondamentali dello Stato. Ma il ricorso al popolo può essere opportuno anche in regime parlamentare, specialmente in quello di tipo temperato, perché può intervenire utilmente nel risolvere i conflitti fra Governo e Parlamento nel periodo di durata della fiducia accordata a un dato Governo.

In ogni caso, anche a prescindere dalla considerazione di questi particolari sistemi, e riferendosi in genere al regime parlamentare, crede che l’intervento del popolo possa sempre avere una funzione equilibratrice, nel senso che potrebbe anzitutto avere l’effetto utile di promuovere l’educazione politica del popolo, predisponendolo a queste consultazioni, e quindi di promuovere una certa idoneità vantaggiosa alla progressiva elevazione dell’attitudine politica popolare nell’apprezzamento dei programmi politici. Un altro effetto utile dell’intervento del popolo è quello di influire sui partiti, di costringerli ad un maggiore contatto col popolo per problemi concreti, con un temperamento di quella che si è chiamata l’onnipotenza dei partiti.

In pratica si è visto che il ricorso al popolo ha portato talvolta ad una redistribuzione di voti. Non sempre le maggioranze rappresentate in parlamento sono state vittoriose nelle questioni sottoposte al referendum: in alcuni casi il corpo elettorale si è mostrato dissenziente.

D’altra parte si può parlare di un lato negativo del ricorso al popolo, quello di introdurre un elemento di disarmonia nell’unità dell’indirizzo politico; ed è proprio questo il rimprovero che gli avversari del referendum fanno all’istituto.

In ogni caso quello che bisognerebbe curare, ove si introducesse l’istituto del referendum, sarebbe di congegnarlo praticamente in modo che possa dare il massimo rendimento. È questo un punto molto delicato, che implica particolarità di dettaglio che influiscono sulle funzioni dell’istituto stesso. Bisogna aver cura che il popolo risponda nel referendum come entità organizzata, e non come popolo indifferenziato. La realtà costituzionale anteriore alla istituzione del suffragio universale può essere in proposito di ammaestramento.

Le assemblee primarie francesi, per esempio quelle anteriori alla Rivoluzione francese, possono offrire un esempio utile di quello che potrebbe essere una eventuale organizzazione del referendum. Queste assemblee primarie, nelle quali il popolo interveniva non per dire un od un no, ma per partecipare al dibattito delle questioni, in modo che a tutti era consentito di esprimere il proprio punto di vista, potrebbero essere un modello da seguire, così il popolo chiamato a dire il suo o il suo no, fosse raccolto in determinati organismi da delimitare, per giungere al voto attraverso un dibattito, che potrebbe essere integrato dalla facoltà di proporre emendamenti.

Vi è una prassi nord-americana che può essere tenuta presente. L’esempio della ratifica all’introduzione di dati emendamenti è qualcosa di utile, che neutralizza le obiezioni che si muovono contro il referendum. Il popolo, costretto a votare con un o con un no, ha la possibilità di subordinare il suo consenso all’accoglimento di certe modifiche. E questo è un modo di rendere più congrua l’interpellazione popolare.

Poi bisognerebbe curare che la formulazione dei quesiti sia fatta in modo tale da mettere il popolo in condizioni di valutarne l’importanza, e quindi, trattandosi di quesiti subordinati, di ben inquadrarli nel loro ordine logico per ottenere un sicuro orientamento generale. In pratica sono tutte cose difficili da realizzare, ma l’esigenza relativa non può non esser tenuta presente.

Conclude rilevando che è inutile affannarsi a creare congegni tecnici per ottenere una maggiore stabilità di Governo, se prima non si tengono presenti gli elementi politico-sociali che sono necessari per dare a questa stabilità una effettiva realizzazione. Tutti questi congegni saranno validi se si creerà un assetto sociale approssimativamente stabile, e se si terranno presenti gli interessi sociali che sono il presupposto necessario perché questi congegni funzionino a dovere. I risultati a cui nel frattempo sono giunte le altre Sottocommissioni potranno dare, in sede di studio, qualche orientamento per rendere omogenea questa società politica e creare quei presupposti.

Quando si dice che l’ordinamento anglosassone funziona bene per costume politico, si accenna solo ad una parte della realtà, perché il costume politico si forma sulla base di una omogeneità di struttura. È da questa stabilità dell’assetto sociale che deriva la stabilità dell’organismo giuridico e costituzionale. Il costume politico non è una causa, ma un effetto. Quindi le forze politiche italiane dovranno cercare di realizzare questa finalità, senza di che qualunque congegno renderebbe vano il funzionamento pacifico degli ordinamenti democratici.

Sull’ordine della discussione.

FINOCCHIARO APRILE osserva che la relazione diligentissima fatta dall’onorevole Mortati investe tutto il problema costituzionale e che, per l’ordine della discussione, questa dovrebbe farsi ed esaurirsi argomento per argomento. È stato detto che bisogna stabilire inizialmente se si vuole la Repubblica presidenziale o una Repubblica parlamentare. Occorrerà definire questo punto, per passare poi al Parlamento, al sistema bicamerale, ecc. Altrimenti la discussione diverrebbe troppo confusa.

PRESIDENTE ricorda che la Sottocommissione ha nominato tre Relatori. Crede quindi necessario sentire anzitutto la esposizione degli altri due, dopo di che si potrà stabilire l’ordine della discussione.

Erano presenti: Ambrosini, Amendola, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Conti, De Michele Luigi, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Leone Giovanni, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Porzio, Ravagnan, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Assenti: Codacci Pisanelli, Maffi, Targetti.

Assente giustificato: Rossi Paolo.

In congedo: Fuschini, Vanoni.

(Alla seduta del 26 luglio era presente l’onorevole Bozzi; a quella del 1° agosto l’onorevole Mannironi).

La seduta termina alle 20.40.