Come nasce la Costituzione

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 2 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

18.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 2 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di proprietà e intrapresa economica (Seguito della discussione)

Presidente – Taviani – Corbi – Noce Teresa – Dominedò – Marinaro – Fanfani – Canevari – Colitto – Assennato.

La seduta comincia alle 10.45.

Seguito della discussione sul diritto di proprietà e sulla intrapresa economica.

PRESIDENTE, premesso che la discussione verterà oggi sul problema dell’indennizzo, rileva che, come già ebbe a precisare altra volta, questo problema non va posto nei riguardi dell’impresa, per la quale, trattandosi di un processo produttivo, non si può prevedere un caso di abbandono. È anche molto difficile non solo a verificarsi, ma specialmente ad accertarsi, il caso di una impresa acquistata con mezzi illeciti. Il problema invece si pone nei confronti della proprietà, per la quale, però, dovrà considerarsi il caso – e qui si potrà arrivare ad una precisazione – in cui l’indennizzo non sia assolutamente dovuto.

TAVIANI conferma quanto ha detto in proposito nella seduta di ieri. Concorda col Presidente che la questione dell’indennizzo deve porsi soltanto in sede di proprietà statica. Rileva a questo proposito che l’esproprio può eseguirsi soltanto nei confronti di una proprietà e non di una iniziativa; si espropria, cioè, un bene. Si dichiara favorevole alla forma dell’esproprio mediante indennizzo ed ha aderito a togliere l’aggettivo «equo» onde evitare il pericolo di contestazioni da parte di privati sulla entità dello indennizzo stesso. Non concorda però col Presidente per quanto riguarda l’esproprio senza indennizzo delle proprietà male acquistate; in questi casi non si ha tanto un esproprio quanto un mancato riconoscimento della formazione della proprietà. Se la proprietà è formata dalla cattiva speculazione, la società non deve espropriarla, ma addirittura non riconoscerla. Può sorgere la obiezione sul modo come accertare queste condizioni di fatto, ma a questo proposito osserva che, se non si hanno i mezzi per non riconoscere la proprietà, tanto meno si potranno avere per espropriarla senza indennizzo. Il problema consiste nel dare la possibilità allo Stato di intervenire nella sorveglianza della formazione della proprietà; una volta però che la proprietà è formata e quindi riconosciuta, l’esproprio deve avvenire dietro indennizzo.

Si obietta pure che una tale concezione dell’esproprio possa avere conseguenze gravi nei riguardi della riforma agraria, specie per quanto riguarda le grandi proprietà formatesi almeno da tre o quattro secoli e per le quali non è possibile stabilire se la loro formazione sia avvenuta giustamente o ingiustamente. Volendo dare un indennizzo a questi proprietari in caso di esproprio, si verrebbe a frustrare la stessa riforma agraria. Risponde anche a questa obiezione osservando che, anzitutto, soccorrono i mezzi fiscali, primo fra tutti l’imposta straordinaria sul patrimonio; in secondo luogo, in questo caso il termine indennizzo, senza l’aggettivo «equo», ha un senso preciso che si riallaccia a quanto venne praticato, nelle riforme agrarie dell’altro dopo guerra, calcolando il valore dei terreni nella moneta prebellica, senza tener conto della svalutazione. Questa non è affatto una finzione, ma l’applicazione di un principio di giustizia, in quanto si viene a colpire la rendita fondiaria – profondamente ingiusta – e non l’interesse che, contrariamente a quanto afferma il Proudhon, è perfettamente giustificato e legittimo. In altre parole, ingiusto non è l’affitto ma quel soprappiù, la rendita, che i proprietari percepiscono senza aver nulla fatto, avvantaggiandosi soltanto – ecco l’ingiustizia – delle congiunture, della carestia e delle vicende monetarie, le quali aumentano fino a proporzioni elevatissime il valore della terra. È proprio questo valore che lo Stato non deve considerare, calcolando la proprietà terriera al valore di cinque o sei anni fa; così facendo, si potrà benissimo dare l’indennizzo.

Per tali considerazioni propone che rimanga l’espressione: «esproprio contro indennizzo».

PRESIDENTE rileva che occorrerà sempre aggiungere: «salvo i casi tassativamente disposti dalla legge».

CORBI osserva che nulla ha da aggiungere a quanto sull’argomento ha detto in altra occasione; si associa alle considerazioni del Presidente, proponendo che l’articolo sull’esproprio tenga conto dell’indennizzo, salvo i casi tassativamente fissati dalla legge. Considera giuste le osservazioni dell’onorevole Taviani, almeno da un punto di vista teorico; ma praticamente non sono applicabili, in quanto sarebbe molto difficile considerare il modo di formazione della proprietà e comunque si impiegherebbe tanto tempo da frustrare e le legittime aspettative del Paese e gli stessi interessi economici della Nazione.

NOCE TERESA non concorda con le osservazioni dell’onorevole Taviani per quanto riguarda il non riconoscimento della proprietà male acquistata. Che cos’è in altre parole questo non riconoscimento se non un esproprio? Porta l’esempio dei beni male acquistati dai fascisti durante il ventennio: in questo caso lo Stato confisca, cioè si ha un’equiparazione fra espropriazione e non riconoscimento del diritto.

Osserva che l’indennizzo deve essere riconosciuto per quei casi in cui la proprietà ripeta le sue origini da un titolo illegittimo e conclude associandosi alle proposte del Presidente.

DOMINEDÒ vorrebbe eliminare tali preoccupazioni, che pure appaiono legittime anche dal punto di vista etico, osservando che, a suo avviso, l’ordinamento giuridico già fornisce i mezzi per contemplare le eventualità che giustamente toccano l’animo della collega Noce, come quello di tutti.

Due sono le ipotesi: o la proprietà è stata acquistata ed usata in correlazione alle norme che l’ordinamento giuridico prevede ed alle finalità sociali cui essa deve ispirarsi, quivi compresa quella funzione che è stata inserita nella Carta costituzionale come elemento costitutivo del diritto, ed allora, nel caso in cui la proprietà privata debba essere colpita per esigenze di pubblico interesse, spetta sempre l’indennizzo pieno; o viceversa, manca questo presupposto, come nei casi di acquisizione indebita, ed allora la stessa Carta costituzionale già offre l’arma per colpire, perché, mancando il presupposto enunciato come elemento costitutivo, è venuto meno, con la socialità del diritto di proprietà, lo stesso titolo della sua piena protezione, che non può non influire sulla misura dell’indennizzo o forse sullo stesso diritto all’indennizzo.

Peraltro, le formazioni illecite di cui si fa da altri parola, possono essere colpite e sono già state colpite con norme speciali, che attengono ad un concetto giuridicamente diverso, quale quello della confisca.

Cosicché, le ipotesi eccezionali trovano sempre possibilità di essere contemplate nell’ordinamento giuridico, il quale, dalla sede fiscale, ordinaria o straordinaria, fino all’ipotesi massima della confisca, può offrire gli strumenti, secondo i principî generali, per colpire ogni illiceità. Si preoccupa soprattutto di preservare la proprietà sana. Ora, il principio per cui la Carta deferirebbe alla legge la determinazione dei casi in cui l’indennizzo spetti o non, ferirebbe, proprio in linea di principio, quell’esigenza di difesa della proprietà normale, che qui si tiene presente. Quindi si avrebbe il danno senza il vantaggio.

Ecco il pericolo inerente alla proposta di abdicare alla disciplina in sede costituzionale, rinviando alla legge un principio che è connesso inscindibilmente alla tutela del diritto di proprietà, inteso nella sua completezza etica e giuridica.

Desidera, sì, venire incontro alle esigenze espresse dalla collega Noce, ma esprime la convinzione che l’ordinamento giuridico offra i mezzi sufficienti al fine; mentre, deferendo alla legge la concessione o meno dell’indennizzo, si potrebbe incrinare l’istituto della proprietà in sede normale.

PRESIDENTE non ritiene che la dizione «salvo i casi tassativamente espressi» incrini il principio della proprietà, quando essa è legittima. Anzi, direbbe che è il contrario, per il fatto stesso che, se si crea un’eccezione, si conferma la regola, non la si indebolisce.

Sull’osservazione dell’onorevole Dominedò che l’ordinamento giuridico soccorre ugualmente, indipendentemente da una dichiarazione che venga fatta nella Carta costituzionale, non crede che esista in proposito una disposizione generale. Se l’onorevole Dominedò si riferisce alla confisca, questa nel nostro ordinamento ha caratteri nettamente delimitati. Dovremmo concepire questo istituto diversamente di come è configurato nella nostra legislazione. Oggi la confisca, com’è regolata dalla legge, non consente di arrivare all’espropriazione senza indennizzo nei casi enunciati. Oggi si arriva alla confisca in base all’articolo 240 del Codice penale od in base a leggi speciali: c’è la confisca, per esempio, in materia di contrabbando ed in casi consimili. L’istituto giuridico della confisca è solo disciplinato, salvo errore, nel Codice penale, il quale dice che la confisca è un accessorio della condanna penale, salvo che si tratti di cose che non possono essere né acquistate, né alienate, né detenute, ecc.

In sostanza non trova nella nostra legislazione la possibilità di addivenire all’esproprio senza indennizzo, se non in quanto lo si dica; ed il dirlo non ferisce il principio, che è di giustizia, che, una volta riconosciuta legittima la proprietà privata, la sua espropriazione debba avere per corrispettivo un indennizzo, anzi un giusto indennizzo.

L’aggiunta che propone, riferibile alla proprietà statica, conferma la regola e risponde al sentimento comune, perché tutti sono di questo ordine di idee.

DOMINEDÒ rileva che qui è in giuoco un problema più largo della mera ipotesi di confisca. Comunque la figura della confisca senza condanna è precisamente contemplata dalla legge per l’avocazione dei profitti di regime.

PRESIDENTE osserva che ciò avviene per legge speciale, ma che non c’è una legge generale.

DOMINEDÒ rileva che evidentemente le leggi speciali possono essere emanate in correlazione ad un principio generale.

MARINARO osserva che è sempre una sanzione, anche in quel caso. La legge ha carattere punitivo.

DOMINEDÒ aggiunge che occorre tener presenti alcuni precedenti esteri, quale quello della riforma agraria lituana, la quale ha determinato l’ammontare dell’indennizzo decurtando il valore della rendita ricardiana.

FANFANI richiama l’attenzione sul fatto che il discorso avviato dal Presidente porta a questo interrogativo: per caso si ritiene che la proprietà soltanto in alcuni casi debba essere riconosciuta come legittima ed in altri casi occorra fare tutto un lungo processo per accertare la legittimità o meno della sua accumulazione?

Si domanda se, per caso, questo si debba fissare nella Costituzione, e cioè dire che da oggi si determina una revisione generale delle proprietà. Per quelle che riceveranno il brevetto di legittimità, si procede secondo l’esproprio con indennizzo: le altre cadono.

MARINARO osserva che è inconcepibile che l’autorità amministrativa debba, di volta in volta, quando procede all’espropriazione, indagare sulla legittimità o meno della proprietà.

CANEVARI rileva che il Presidente nella sua proposta ha accennato ai fatti che potrebbero indurre a non corrispondere nessun indennizzo. Se non si accenna, sia pure sommariamente, alla natura di questi fatti, si lascia nell’animo il dubbio che l’indennizzo possa essere anche non corrisposto per altre ragioni. Questo è il dubbio sollevato dai colleghi. E perché allora non si cerca di chiarire questo punto?

A questo scopo proporrebbe la dizione: «salvo contrarie disposizioni di legge per i casi di inadempienza alle finalità prescritte e acquisti o arricchimenti ingiustificati», che fisserebbe fin da ora i casi nei quali la legge deve intervenire, per non corrispondere quell’indennizzo, o perché la proprietà non corrisponde alla sua finalità o perché si tratta di arricchimento ingiustificato.

PRESIDENTE, dichiarandosi d’accordo riguardo alla proprietà male acquistata, chiede quali sarebbero i casi di inadempienza.

CANEVARI cita, per esempio, la terra non coltivata, che non risponde alla sua finalità.

PRESIDENTE fa rilevare che il Codice civile prevede il caso dell’abbandono, per il quale è comminato l’esproprio; però mantiene l’indennizzo, il che è contradditorio. Quindi, l’inadempienza è prevista.

CANEVARI trova giustificata la disposizione dell’attuale Codice, perché anche quando un podere è abbandonato, espropriandolo si porta via una ricchezza e l’indennizzo sarà limitato. Ma che quella proprietà rappresenti un bene, dal quale il proprietario non trae profitto e profitto invece ne può trarre la collettività, non induce la collettività a non pagare niente. Ammette anche che non si debba corrispondere l’indennizzo, come castigo al proprietario, il quale non fa fruttare la sua terra in relazione ai bisogni della collettività, in quanto non accettando tale principio difficilmente si potrebbe contestare il diritto del proprietario, che abbandona la sua terra, ad avere l’indennizzo, sia pure limitato.

Se si considera che un terreno rappresenta un mezzo di produzione di altra ricchezza, per cui debba essere corrisposto un indennizzo limitato, in questo caso il diritto non può essere negato. Può essere negato soltanto quando si ammette che intervengono considerazioni di ordine sociale.

COLITTO esprime l’avviso che, ove si proceda ad espropriazione di beni, quale ne sia la natura, occorre dare un equo indennizzo. Ritiene che all’indennizzo occorra far cenno sia nell’articolo che si occupa della proprietà, sia nell’articolo che si occupa dell’impresa, giacché, parlandosi anche in tale secondo articolo di beni singoli e di complessi produttivi, potrebbe sorgere il dubbio, ove non si parlasse anche in esso di indennizzo, che potrebbe senza indennizzo aver luogo quella devoluzione di beni di cui si parla in detto secondo articolo.

Non ritiene, poi, che si possano fare eccezioni. L’autorità amministrativa, infatti, non può ricercare la provenienza di beni che, in difetto di sentenze di magistrati o di altri organi all’uopo dalla legge incaricati, non potrebbero non essere considerati legittimi. Si aprirebbe evidentemente la via a possibili arbitri. Se non è l’autorità amministrativa che interviene e chi invoca l’indennizzo è il titolare del diritto di proprietà, le parole «salvo i casi», che il Presidente vorrebbe aggiungere, sarebbero, a suo avviso, del tutto inutili.

MARINARO si associa pienamente alle considerazioni fatte dall’onorevole Colitto, ed osserva che, fra la formula suggerita dal Presidente Ghidini e quella proposta dall’onorevole Canevari, riterrebbe preferibile, in ogni caso, la seconda, poiché mentre la formula Ghidini darebbe la possibilità ai più larghi arbitrî, specialmente dal punto di vista politico, quella Canevari delimiterebbe e preciserebbe in certo qual modo il campo di applicazione della facoltà di non indennizzare l’espropriato; salvo naturalmente ad indicare con precisione i casi di non indennizzo.

Indipendentemente dalle considerazioni che precedono, propone che rimanga fermo l’articolo sulla proprietà così come è stato votato, e che, per quanto riguarda la socializzazione dell’impresa, sia esplicitamente prevista la corresponsione di un equo indennizzo, anche sotto il profilo dell’avviamento commerciale ed industriale dell’impresa stessa.

PRESIDENTE ritiene che l’indennizzo per quanto riguarda l’impresa si possa sempre aggiungere.

ASSENNATO desidera far notare che sul preambolo della relazione dell’onorevole Taviani, ossia sull’origine della proprietà come «frutto del lavoro e del risparmio», tutti erano d’accordo per eliminarlo allo scopo di evitarne le conseguenze, e cioè dei processi diabolici sull’origine della proprietà. Questo però non toglie che vi possano essere ragioni di espropriazione senza indennizzo dello Stato.

Un esempio di ciò può essere offerto dal testo di pubblica sicurezza e da analoghe disposizioni anche di legislazioni straniere. Lo Stato in ogni momento, quando vede che un individuo ha un certo tenore di vita senza svolgere alcuna attività giustificata, può chiedere conto o sull’origine delle sue proprietà o sul lavoro che compie. Questo è uno dei casi in cui potrà essere disposta l’espropriazione senza indennizzo. È sempre un esproprio anche se manca originariamente la legittimazione della proprietà. Altra ragione per la quale ha aderito alla liquidazione di quel preambolo, è perché vi sono attività illecite, che lo Stato riconosce, come ad esempio quella del tenutario di una casa di piacere o di una casa da giuoco. Negare ai titolari il diritto di proprietà è atto assai ingenuo, essendo agevole eludere il divieto: perciò quello che interessa è di lasciare la possibilità allo Stato di espropriare, quando il cittadino non giustifichi dove abbia attinto le sue ricchezze o il suo modo di vivere. Ritiene quindi che non si possa, in sede di Costituzione, stabilire un disposto da testo di pubblica sicurezza e che si debba lasciare alla legge di stabilire i singoli casi, come ha proposto il Presidente.

MARINARO osserva che c’è la legge sulla pubblica sicurezza, la legge sui beni demaniali, sugli usi civici, ecc., che già prevedono e regolano tutti i singoli casi. Perché si deve allora includere una così grave limitazione in una materia così delicata?

ASSENNATO, circa l’aggiunta dell’aggettivo «equo» alla parola «indennizzo», osserva che basta ricorrere alla legge di Napoli di espropriazione per espropriare senza l’equo indennizzo. In realtà l’orientamento della società moderna è di espropriare con indennizzo lievissimo, anche non adeguato, spesso simbolico. In Italia lo Stato, quando vede che l’indennizzo può essere molto pesante dice: «Applico la legge di Napoli anche se ora esproprio a Torino». Quindi è vano impegnarsi con un «equo» che poi non risponde e non deve rispondere.

FANFANI, lasciando impregiudicato per il momento il problema della corresponsione dell’indennizzo in tutti i casi o soltanto in casi determinati, ritiene che, dato che si è parlato di indennizzo nell’articolo relativo alla proprietà, non si possa non parlarne anche in quello relativo all’impresa; tanto più che il quarto comma dell’articolo sull’impresa, a suo modo di vedere, presenta qualche imperfezione. Sembrerebbe infatti da questo articolo che la legge devolva allo Stato solo l’esercizio. E la proprietà a chi resta? Così come è formulato l’articolo, la proprietà resterebbe all’originale detentore; però se l’impresa venisse messa sotto tutela ed un ente pubblico la esercitasse a suo arbitrio, si avrebbe il curioso effetto che il rischio dell’errore commesso dall’ente ricadrebbe sul proprietario.

Così stando le cose, c’è da domandarsi se l’articolo precedente sulla proprietà non debba essere coordinato con questo, in quanto si sta disciplinando lo stesso oggetto in due articoli diversi, perché nell’articolo precedente, terzo comma, si era parlato di complessi produttivi. Dato che precedentemente era stato formulato l’articolo sulle imprese, proprio in vista di un coordinamento, è opportuno che in sede di revisione di questo articolo si tenga presente che forse dovrà dirsi che la legge deve o può espropriare mediante indennizzo, devolvendo la proprietà e l’esercizio, o fare un’altra precisazione in proposito circa la proprietà e l’esercizio.

Ad ogni modo, forse l’articolo è un po’ troppo sintetico per poter comprendere tutti i casi che l’esperienza e la pratica dell’ultimo decennio ha profilati. Evidentemente, nell’esercizio diretto ed indiretto, vi è un’allusione molto imperfetta al sistema delle società miste. Ritiene quindi che, nell’ipotesi che in una forma o nell’altra, migliorando l’articolo e studiando meglio il comma, si arrivi ad includere l’espressione «mediante indennizzo», anche in tal caso riaffiori il problema posto dal Presidente per l’articolo precedente. Pensa che una prima conclusione della discussione porti uniformemente tutti a concludere che, nel caso che la proprietà sia legittimamente acquisita (cioè secondo le norme di legge), l’indennizzo debba essere pagato. Sorge allora l’altra ipotesi della proprietà detenuta contro la legge.

DOMINEDÒ osserva che in tal caso non si tratta di diritto di proprietà.

FANFANI, facendo l’ipotesi che la Costituzione fosse all’origine del nostro ordinamento giuridico e che gli italiani per la prima volta si fossero consociati per stabilire la regolamentazione della proprietà, pensa che avrebbero detto: «In caso di proprietà che si ritiene illegittimamente detenuta non si ha l’indennizzo». È vero o non è vero che una Costituzione, nascendo in un determinato ambiente giuridico, tende a riconsiderare tutto l’ambiente giuridico? In questa ipotesi è male che nella Costituzione vi sia un comma il quale preveda che l’indennizzo resti stabilito e commisurato al valore economico in tutti i casi in cui non c’è discussione circa la detenzione legittima di questi beni? Concludendo la sua ipotesi – imperfetta dal punto di vista giuridico – propone di inserire, dopo l’articolo precedente sulle imprese e dopo l’antecedente sulla proprietà, un articolo così formulato:

«Per quanto disposto nei precedenti articoli in merito all’indennizzo in caso di esproprio, resta stabilito che l’indennizzo, salvo la provata, illegittima origine del bene espropriato, è determinato dalla legge in misura proporzionata al valore economico del bene al momento dell’esproprio».

DOMINEDÒ deve nuovamente far notare che non è probante sollevare eccezione per il caso di illegittima origine del bene, perché, a rigore, non è concepibile una proprietà che sorga contro la legge.

MARINARO desidererebbe che l’onorevole Taviani precisasse il suo pensiero, perché ieri ha avuto l’impressione che egli non fosse, in linea di principio, contrario all’indennizzo anche per quanto riguarda le imprese. Se ben ricorda, l’onorevole Taviani aveva sostenuto che siccome l’indennizzo è stato previsto in tema di proprietà, e poiché si tratta, più che altro, di espropriare sostanzialmente la proprietà, è superfluo parlare anche in questa sede di indennizzo; al che egli aveva osservato che il fatto di non parlare in questa sede di indennizzo potrebbe creare un equivoco, nel senso che l’interprete della legge potrebbe ritenere che, siccome in tema di proprietà è stato previsto l’indennizzo ed in tema di imprese no, si sia voluto di proposito escluderlo per l’impresa. Di guisa che riteneva che non parlarne in questa sede significasse aggravare la situazione e soprattutto creare un pericoloso equivoco. Ma se tutti sono d’accordo sulla sostanza, sul principio cioè che l’indennizzo sia dovuto, non comprende perché non si debba stabilire esplicitamente che l’espropriazione delle imprese può aver luogo soltanto contro indennizzo.

TAVIANI precisa che era contrario a parlare dell’indennizzo nell’articolo sulle imprese, in quanto in esso non si parla di espropriazione, mentre è favorevole a parlarne nell’articolo sulla proprietà, dove si parla di espropriazione. Se con l’aggiunta proposta dall’onorevole Fanfani, di cui comprende l’importanza ed il valore, si parla di espropriazione anche in questa sede, allora si dichiara d’accordo sulla parola «indennizzo», che va aggiunta ogni volta che si parla di espropriazione.

Venendo all’articolo proposto dall’onorevole Fanfani, gli sembra strano che sia stato accolto con tanto favore. È d’accordo sulla dizione: «salvo la provata illegittima origine del bene espropriato», nel qual caso non spetta l’indennizzo. È invece contrario alla frase: «l’indennizzo deve essere determinato dalla legge in misura proporzionata al valore economico del bene al momento dell’esproprio», in quanto impedirebbe di fare la riforma agraria; perché, come più sopra ha già spiegato, se si vuole fare tale riforma, si deve indennizzare la terra non in base al valore che essa ha in questo momento.

COLITTO afferma che non gli sembra il caso di formulare un articolo apposito per l’indennizzo (la Costituente ridurrà al minimo questi articoli e certamente non accoglierà un articolo specifico per l’indennizzo) e pertanto ritiene che sia opportuno inserire detto concetto nell’articolo in cui si parla delle imprese ed in quello che parla della proprietà, con la semplice aggiunta: «salvo indennizzo», o «contro indennizzo».

PRESIDENTE dato che vi è una corrente che vuole la formula con l’indennizzo puramente e semplicemente, riservando alla legislazione ordinaria di determinare i criteri in base ai quali si dovrà indennizzare il bene espropriato, e che ve ne è un’altra, la quale, pur ritenendo che come regola si debba lasciare alla legislazione ordinaria di determinare i criteri in base ai quali si darà l’indennizzo, pensa che si debbano contemplare anche le eccezioni che dovranno essere genericamente o rigorosamente enunciate, pone ai voti i due progetti: il primo riguardante la formulazione generica e il secondo la formulazione completata con l’eccezione.

(Votano favorevolmente la prima formula gli onorevoli Taviani, Dominedò, Federici Maria, Rapelli, Marinaro, Colitto; votano per la seconda formula gli onorevoli Ghidini, Corbi, Assennato, Noce Teresa, Canevari. Astenuto l’onorevole Fanfani).

(È approvata la prima formula proposta).

FANFANI dichiara di essersi astenuto ritenendo che la formula «contro indennizzo» possa essere suscettibile vantaggiosamente di qualificazioni.

Propone poi che nel quarto comma dell’articolo sulla impresa, ieri approvato, dopo le parole «la legge» vengano inserite le altre «o può espropriarla mediante indennizzo, devolvendone la proprietà e l’esercizio allo Stato».

DOMINEDÒ fa presente che, effettivamente, si tratta di devolvere la titolarità della impresa; d’altra parte, in corrispondenza con la relazione Pesenti, si parlava di esercizio diretto o indiretto, intendendosi con questa espressione di comprendere tutte le ipotesi intermedie, evitandone una ulteriore specificazione.

Si chiede se, con la formula del puro e semplice esproprio di ciò che è di pertinenza altrui, resti esclusa l’ipotesi già preveduta nell’articolo sulla proprietà, vale a dire della requisizione per riserva o per titolo originario. Ecco perché si era usata la formula generale del «devolvere».

FANFANI pensa che la formula «esercizio diretto o indiretto» non dica molto o dica troppo e che comunque non sia felice. Ad ogni modo non insiste per la soppressione di queste parole.

PRESIDENTE pone in votazione la proposta di modificare come segue la seconda parte del quarto comma dell’articolo sull’impresa, già approvato: «…la legge può autorizzare l’espropriazione mediante indennizzo, devolvendone proprietà ed esercizio, diretto o indiretto, allo Stato o ad altri enti pubblici o a comunità di lavoratori e di utenti».

(È approvata).

PRESIDENTE dà lettura dell’articolo proposto dal relatore Taviani sulla proprietà fondiaria.

«La Repubblica ha il diritto di controllare la ripartizione e l’utilizzazione del suolo, intervenendo al fine di svilupparne e potenziarne il rendimento nell’interesse di tutto il popolo; al fine di assicurare ad ogni famiglia una abitazione sana e indipendente; al fine di garantire ad ognuno – che ne abbia la capacità e i mezzi.– la possibilità di accedere alla proprietà della terra che coltiva. A questi scopi la Repubblica impedirà l’esistenza e la formazione di grandi proprietà fondiarie. Il limite massimo della proprietà fondiaria privata sarà fissato dalla legge».

COLITTO fa presente che nella seduta precedente egli fece una proposta relativamente all’articolo sulla proprietà: propose, cioè, che dove si parla di comunità «di lavoratori», si aggiungesse anche comunità «di datori di lavoro».

FANFANI osserva che quando si parla della comunità di datori di lavoro, si arriva a parlare del Sindacato industriale obbligatorio.

COLITTO dichiara che egli non comprende ancora che cosa si intenda per «comunità», perché per lui non esistono che enti legalmente riconosciuti; ma, poiché si è approvato che nell’articolo si debba parlare di «comunità», egli ritiene che a fianco delle comunità di lavoratori si possano porre le comunità di datori di lavoro. Non comprende come la devoluzione o attribuzione di beni si debba effettuare soltanto a favore delle prime e non anche a favore delle seconde. Propone, pertanto, di modificare l’articolo con una precisazione al riguardo.

FANFANI si dichiara d’accordo con quello che ha detto ieri in proposito l’onorevole Corbi e osserva che la proposta dell’onorevole Colitto snatura completamente il terzo comma e verrebbe a porre un altro problema. Cioè, l’onorevole Colitto domanda indirettamente se, ai fini della utilità collettiva e del coordinamento dell’attività economica, non sia da profilarsi la possibilità che si riserbi ad un determinato gruppo di imprenditori o di proprietari lo sfruttamento.

Sostiene in proposito che la preoccupazione della Sottocommissione su questo comma non era quella di studiare i problemi della razionalizzazione della vita economica attraverso la concentrazione industriale, ma di impedire che gli interessi dei singoli imprenditori prendessero il sopravvento sul criterio di produttività. Ad evitare questo, era stato detto che la sostituzione coattiva di una impresa privata o della libera iniziativa dei singoli produttori privati con la proprietà e la gestione da parte di enti pubblici o di comunità di lavoratori o di utenti, può portare ad un rispetto maggiore di quelle esigenze nel coordinamento dell’attività economica, di quanto si otterrebbe con le forme attualmente invalse.

Quindi, dati i fini che l’articolo si propone, è necessario separatamente richiamare l’attenzione di tutti sulla convenienza di studiare anche il problema del coordinamento attraverso il fenomeno della concentrazione industriale, cioè, dei sindacati industriali obbligatori. Il problema esiste e potrebbe domani presentarsi la necessità di fare qualche cosa del genere in questo campo. Invita pertanto l’onorevole Colitto ad affrontare il problema cercando di esaurirlo in un senso o nell’altro.

ASSENNATO ritiene che il problema sia stato già risoluto con la formulazione approvata, la quale esclude l’oggetto della richiesta dell’onorevole Colitto. D’altra parte si associa al parere espresso già ieri dall’onorevole Corbi.

COLITTO insiste per il completamento dell’articolo ed esprime la sua meraviglia per quello che da altri colleghi si è affermato, quasi che i datori di lavoro debbano essere posti al di fuori dell’attività produttiva della Nazione.

FANFANI non sa se l’onorevole Colitto, con le ultime parole, si riferisse alla sua interpretazione, ma in tale ipotesi sente il dovere di chiarire che non intendeva minimamente mettere al di fuori della comunità nazionale i datori di lavoro, ma affermare che in tutta la formulazione dell’articolo sulla proprietà era stato seguito il principio che l’interesse privato non controllato possa, in determinati momenti, agire anche in senso antisociale.

Si tratta di evitare che gli individui, abbandonati a se stessi, mentre sono fino ad un certo punto artefici del bene sociale, oltrepassandolo possano diventare danneggiatori dello stesso; ed è in questa ipotesi che si devono chiamare a raccolta le forze sociali perché si sostituiscano all’iniziativa privata, e, al momento in cui vi siano inconvenienti, cerchino di ripararvi, sostituendo all’iniziativa di singoli imprenditori privati o a quella del gruppo di imprenditori privati, l’iniziativa pubblica.

COLITTO rileva che artefici del bene sociale sono anche i datori di lavoro, e, poiché nell’articolo si dice che la legge attribuisce i beni ed i complessi produttivi a comunità di lavoratori e di utenti, egli insiste perché nell’articolo si parli anche di «comunità di datori di lavoro».

FANFANI ritiene che nel terzo comma nulla si possa inserire senza snaturarlo.

L’onorevole Colitto può quindi fare un articolo aggiuntivo.

COLITTO afferma che la proposta è stata da lui fatta. Spetta ora ai Commissari di dire sì o no.

PRESIDENTE mette ai voti la proposta dell’onorevole Colitto di aggiungere all’articolo sulla proprietà, già approvato, le parole: «comunità di datori di lavoro».

TAVIANI dichiara di votare contro tale proposta, perché non trova che essa abbia sede nell’attuale norma, nel mentre potrà essere esaminato e approfondito nella dovuta sede il tema dei sindacati industriali insieme con gli altri problemi connessi.

(La proposta non è approvata).

PRESIDENTE osserva che rimane da esaminare il terzo articolo sul diritto di proprietà proposto dall’onorevole Taviani nella sua relazione.

TAVIANI, dato che dalla presentazione della sua relazione è passato molto tempo ed è stata fatta in materia un’ampia discussione, ritiene che il testo dell’articolo risulti ormai così ridotto:

«Lo Stato ha il diritto di controllare la ripartizione e l’utilizzazione del suolo, intervenendo al fine di svilupparne e potenziarne il rendimento nell’interesse di tutto il popolo.

«In vista di questi scopi, lo Stato impedirà l’esistenza e la formazione delle grandi proprietà terriere private».

CANEVARI parla per mozione d’ordine. Ritiene che non si possa mettere in discussione la proposta Taviani prima di aver discusso il problema agrario nelle sue grandi linee, in quanto, a suo avviso, è necessario che nella Carta costituzionale siano fatte affermazioni che diano poi luogo ad ulteriore sviluppo nel campo legislativo e portino alla riforma agraria. Propone quindi il seguente articolo:

«L’impresa agricola deve avere di mira il benessere della collettività nazionale e una più alta possibilità di civile esistenza per i lavoratori della terra.

«La legge dovrà promuovere un movimento di trasformazione che, sviluppandosi nel tempo, determini negli uomini, nella politica e nella economia del Paese, le condizioni più favorevoli per conseguire come risultato finale un’agricoltura in via di continuo, progresso, condotta dal lavoro associato per il maggiore benessere dei singoli e della collettività».

PRESIDENTE, data l’ora tarda e l’importanza dell’argomento proposto dall’onorevole Canevari, sospende la seduta, avvertendo che la discussione sarà ripresa nel pomeriggio.

La seduta termina alle 12.35.

Erano presenti: Assennato, Canevari, Colitto, Corbi, Dominedò, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Marinaro, Noce Teresa, Rapelli, Taviani, Togni.

Assenti giustificati: Merlin Angelina, Molè.

Assenti: Giua, Lombardo, Paratore.

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 1° OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

17.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 1° OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Intrapresa economica (Seguito della discussione)

Marinaro – Taviani – Colitto – Merlin Angelina – Corbi, Relatore – Canevari – Presidente – Dominedò, Correlatore – Assennato – Noce Teresa.

Diritto di proprietà (Seguito della discussione)

Taviani, Relatore – Dominedò – Federici Maria – Rapelli – Presidente – Colitto – Assennato – Corbi.

La seduta comincia alle 17.30.

Seguito della discussione sull’intrapresa economica.

MARINARO ricorda di avere insistito nella seduta antimeridiana sulla necessità che sia bene specificata l’esigenza che deve determinare il provvedimento legislativo, accennando a esigenze di servizi pubblici e all’opportunità di ovviare a situazioni monopolistiche dannose alla collettività. Ora insiste sulla necessità che sia contemplata l’ipotesi dell’indennizzo, in seguito a quanto ha dichiarato l’onorevole Taviani. Questi ha fatto presente che l’indennizzo, essendo stato previsto nell’articolo relativo alla proprietà, si intende previsto anche in questo caso; invece egli ritiene che l’averlo previsto a proposito della proprietà e non in questo caso, potrebbe dar luogo ad equivoci e al dubbio che il legislatore non abbia voluto prevedere l’indennizzo, mentre dal principio concordemente affermato che la proprietà è riconosciuta e garantita dallo Stato, deriva che, anche nel caso della impresa, l’indennizzo non può essere dimenticato.

Non ha difficoltà ad adoperare l’espressione «equo indennizzo».

Infine, dichiara di avere, insieme con l’onorevole Colitto, formulato il seguente articolo, che tiene conto delle osservazioni fatte dai colleghi Dominedò, Corbi e Taviani:

«Per imprescindibili esigenze di servizi pubblici, o per la necessità di eliminare situazioni di privilegio o di monopolio dannose alla collettività, lo Stato e gli enti locali possono con legge essere autorizzati ad assumere l’impresa o a parteciparvi, salvo indennizzo.

«La gestione dell’impresa, in tal caso, ha luogo in forma industrializzata ed è sottoposta a controllo».

TAVIANI propone di discutere l’articolo, ma di riservare ad un secondo tempo la questione dell’indennizzo. La formula Marinaro-Colitto non gli dispiace, ma preferirebbe dire:

«Le imprese economiche possono essere private, cooperativistiche e collettive.

«L’iniziativa privata è libera. L’impresa privata non può essere esercitata in contrasto, ecc.».

COLITTO trova eccessiva la casistica.

TAVIANI risponde che nella discussione sulla proprietà non si è specificato, ma in questa sede c’è il problema dei salari, il problema dei rapporti di lavoro, e occorre fare una specificazione; parlare solo di «bene comune» è troppo vago.

MERLIN ANGELINA afferma che stamani, quando è stato letto l’articolo, era rimasta colpita da quella disarmonia che ha poi notato l’onorevole Taviani, e si associa a quanto egli ha detto. Però osserva che questa dichiarazione di imprese, che possono essere individuali, cooperativistiche e collettive le sembra inutile, in primo luogo perché è sempre contraria a queste definizioni, ma poi perché negli altri commi si parla di impresa individuale, impresa cooperativa, ecc. Quindi ritiene implicita l’esistenza di queste imprese senza bisogno di inutili definizioni.

TAVIANI fa notare che questo è un problema di secondo ordine: bisogna essere d’accordo sul concetto. Ricorda la votazione dell’articolo sulla proprietà, di cui l’articolo in esame vuole essere il parallelo e l’eco che ha avuto nella stampa, per cui non ritiene inutile parlare di impresa cooperativistica.

Occorre una formulazione giuridica per questi tre tipi di impresa, che possa servire di base al futuro legislatore.

L’onorevole Colitto trova superfluo specificare tanto; ma, se trattando della proprietà ci si è limitati alla espressione «funzione sociale», qui, nella parte dinamica della vita economica, è necessario specificare.

CORBI, Relatore, fa una mozione d’ordine. Quando si iniziò la discussione sulla relazione Taviani, espresse il parere che sarebbe stato opportuno esaminare insieme la relazione Taviani e la relazione Pesenti, perché si integrano a vicenda. Poiché nello spirito vi è l’accordo, nel rivedere la formulazione degli articoli pensa che si potrebbe intanto procedere ad una fusione.

TAVIANI osserva che l’articolo in discussione troverà un collocamento molto lontano da quello della «proprietà» nella Costituzione.

PRESIDENTE non nega che si possa fare anche un articolo solo. Intanto metterà ai voti i primi tre commi.

CANEVARI anziché «l’impresa gestita in forma cooperativa» propone «l’impresa cooperativa».

PRESIDENTE mette ai voti i primi tre commi nel seguente nuovo testo:

«Le imprese economiche possono essere private, cooperativistiche, collettive.

«L’iniziativa privata è libera. L’impresa privata non può essere in contrasto con l’utilità sociale in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

«L’impresa cooperativa deve rispondere alla funzione della mutualità ed è sottoposta alla vigilanza stabilita per legge. Lo Stato ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei».

(Sono approvati).

MERLIN ANGELINA ha approvato i tre commi, ma fa una riserva per quanto riguarda quella specificazione di «privtle, cooperativistiche e collettive».

PRESIDENTE dà lettura del 4° comma, proposto dagli onorevoli Dominedò e Corbi:

«Quando le esigenze del bene comune lo impongano, la legge devolve l’impresa, in forma diretta o indiretta, in favore dello Stato o di enti pubblici».

Avverte che gli onorevoli Marinaro e Colitto propongono la formula seguente:

«Per imprescindibili esigenze di servizi pubblici o per la necessità di eliminare situazioni di privilegio o di monopolio dannose alla collettività, lo Stato e gli enti locali possono con legge essere autorizzati ad assumere l’impresa o a parteciparvi, salvo indennizzo.

«La gestione dell’impresa ha in tal caso luogo in forma industrializzata ed è sottoposta a controllo».

CORBI, Relatore, rileva che il 4° comma, proposto insieme con l’onorevole Dominedò, è un po’ generico.

Bisognerebbe specificare che cosa si intenda per bene comune, soprattutto perché si tratta di materia nuova, e prendere provvedimenti che prevedano il futuro e servano come indirizzo al legislatore.

Lo trova anche incompleto, in quanto non specifica le varie forme in cui lo Stato potrebbe esercitare questo suo potere.

La proposta dell’onorevole Marinaro presenta il vantaggio di entrare di più in argomento e non è in contrasto con la formulazione dell’articolo 5 dell’onorevole Pesenti; questa è però più analitica e nello stesso tempo anche abbastanza sintetica. L’articolo Pesenti ha soprattutto il vantaggio di indicare alcuni aspetti che non sono contemplati in quello dell’onorevole Marinaro. L’articolo Pesenti, infatti, premette le finalità e dice:

«Ogni proprietà che nel suo sviluppo ha acquistato o acquista, sia per riferirsi a servizi pubblici essenziali o a situazioni di monopolio o a fonti di energia, o a dimensioni relativamente rilevanti, caratteri tali da assumere un aspetto di preminente interesse nazionale, deve diventare proprietà della collettività nazionale o essere posta sotto il diretto controllo della Nazione».

Osserva che la parola «imprescindibili» nella dizione Marinaro ha un valore molto restrittivo del concetto.

Chiede, poi, all’onorevole Marinaro le ragioni per le quali non crede di potere accettare la formulazione proposta dall’onorevole Pesenti.

MARINARO risponde che la ragione è quella accennata dall’onorevole Corbi; l’articolo è troppo analitico.

CORBI, Relatore, è perfettamente d’accordo sul concetto che un testo costituzionale non debba scendere ai particolari; tuttavia, nel caso specifico, trattandosi di provvedimenti che hanno un carattere di assoluta novità, ritiene che sia opportuno fare qualche precisazione. Una frase come «le esigenze del bene comune» è, a suo parere, troppo generica.

DOMINEDÒ, Correlatore, crede che si possano conciliare le due esigenze, col mantenere da un lato il concetto sintetico accolto nella seduta antimeridiana anche dall’onorevole Taviani, e con l’introdurre successivamente alcune specificazioni, aderendo in questo all’esigenza espressa dal Relatore Corbi sulla opportunità di fissare dei dettagli rispondenti ad una materia nuova: e ciò anche allo scopo di ottenere così una ulteriore delimitazione, in sede costituzionale, delle ipotesi in cui si rende indispensabile il passaggio da forme di economia privata ad economia pubblica. Nel merito non ha difficoltà ad esaminare le ipotesi che involgano un giudizio qualitativo, escludendo quelle che si riducano invece ad una mera valutazione quantitativa (dimensioni dell’impresa), empirica e indeterminabile giuridicamente.

PRESIDENTE preferisce la formulazione dell’onorevole Pesenti, in quanto non limita l’intervento dello Stato ai soli casi del «danno» potenziale o in atto.

MARINARO non ritiene di poter accettare la concezione dell’onorevole Pesenti, il quale prevede l’intervento dello Stato tutte le volte che un’impresa assuma carattere nazionale. A suo avviso, l’intervento dello Stato deve verificarsi solo quando l’impresa privata, assunto carattere nazionale, diventi dannosa alla collettività.

PRESIDENTE fa presente che un tale giudizio è estremamente pericoloso e difficile. Come dimostrare che una impresa sia dannosa? Insiste sul suo punto di vista, inteso a provocare l’intervento statale tutte le volte che sia in giuoco un preminente interesse nazionale.

ASSENNATO afferma che la bontà del progetto Pesenti, a suo avviso, consiste nel considerare non il danno nel momento della sua consumazione – e quindi la necessità dell’intervento dello Stato per riparare – ma anche un pericolo di danno. Quando l’impresa privata, per lo sviluppo assunto, minaccia di contrastare gli interessi nazionali, determina una situazione di pericolo alla quale bisogna porre riparo. Il problema, quindi, deve essere affrontato dal punto di vista dell’opportunità di tener presente – nel testo costituzionale – la situazione di pericolo e la possibilità di prevenzione del danno. In altri termini, un’azienda che è già pervenuta ad una situazione di monopolio, per il fatto stesso di essere in mano ad un privato, costituisce già un danno potenziale.

PRESIDENTE è d’avviso che il concetto dell’onorevole Pesenti non sia questo, ma che voglia riferirsi esclusivamente al preminente interesse nazionale, indipendentemente dal danno o dal pericolo. Ritiene pregiudizievole accettare il punto di vista dell’onorevole Assennato, in quanto, nella pratica attuazione, sarà estremamente difficile dimostrare che un’impresa presenti un pericolo di danno.

NOCE TERESA concorda col punto di vista del Presidente sulla necessità di considerare esclusivamente l’interesse nazionale e crede che sia proprio questo il pensiero dell’onorevole Pesenti. Quando l’impresa privata ha assunto certe forme che nell’interesse nazionale vanno circoscritte, lo Stato deve essere autorizzato ad assumere l’impresa. Questo concetto va affermato nella Carta costituzionale.

CANEVARI richiama l’attenzione della Sottocommissione sulla legislazione attuale e ricorda che sull’affermazione degli scopi del bene comune tante discussioni si sono fatte alla Camera – sia nelle Commissioni che in Assemblea plenaria – fin dal 1921 in occasione dell’esame del disegno di legge proposto dal Governo sulla trasformazione del latifondo e sulla colonizzazione interna. Si arrivò allora ad una semplice e chiara dizione, cioè: «Per scopi di pubblica utilità e per ragioni di ordine sociale». Propone pertanto che l’ultimo comma proposto dall’onorevole Dominedò venga così modificato:

«Per scopi di pubblica utilità e per ragioni di ordine sociale la legge determina l’esercizio diretto o indiretto dell’impresa da parte dello Stato, di enti pubblici o di comunità di lavoratori e di utenti».

Si vedrà poi l’opportunità di aggiungere: «dietro pagamento di equo indennizzo, salvo diverse disposizioni».

COLITTO non crede che possa essere approvata la formula Pesenti, perché contempla solo l’impresa che nel suo sviluppo acquista carattere tale da diventare di preminente carattere nazionale e quindi non tiene conto delle esigenze e dei pericoli che sono sottolineati nella formula da lui stesso proposta d’accordo con l’onorevole Marinaro.

TAVIANI ritiene che un accordo si possa considerare raggiunto per quanto riguarda la parte analitica del comma Pesenti, cioè per i riferimenti ai servizi pubblici essenziali, alle situazioni di monopolio ed alle fonti di energia. Aggiunge di essere favorevole a considerare quest’ultima espressione «fonti di energia» e di ritenere superfluo con l’onorevole Dominedò accennare al concetto di «dimensioni rilevanti». Il punto di divergenza, a suo avviso, consiste nello stabilire il momento e nel valutare le condizioni obiettive che richiedono l’intervento dello Stato. Basta, cioè, un atto esecutorio della norma costituzionale, oppure è necessaria una legge? Ritiene che sia necessaria una legge, lasciando alla Costituzione il compito della dichiarazione di principio, anche abbastanza analitica e particolareggiata, soprattutto perché trattasi di materia nuova.

Osserva inoltre che il comma proposto dall’onorevole Canevari non ha un senso specifico, dato che si dice «la legge devolve». La legge determina sempre; occorrerebbe dire «può devolvere», ma in questo caso si avrebbe una disposizione molto blanda. Pertanto propone la seguente formulazione:

«Quando le esigenze del bene comune lo impongano, perché l’impresa assume un aspetto di preminente interesse nazionale, sia per riferirsi a servizi pubblici essenziali, sia a situazioni di monopolio, sia a fonti di energia, la legge può devolvere l’esercizio diretto o indiretto dell’impresa stessa da parte dello Stato o di altri enti pubblici».

PRESIDENTE non concorda sull’espressione: «bene comune». A suo avviso, la formulazione potrebbe essere la seguente:

«Quando l’impresa abbia o acquisii nel suo sviluppo, sia per riferirsi a servizi pubblici essenziali o a situazioni di monopolio o a fonti di energia, carattere tale da assumere un aspetto di preminente interesse nazionale, la legge devolve, ecc…».

DOMINEDÒ, Correlatore, conferma che la menzione della esigenza sintetica e la specificazione della ipotesi analitica possono abbinarsi perfettamente.

L’esigenza sintetica di carattere generale costituisce un passo avanti rispetto alla concezione che può emergere dalla formula Pesenti, perché include una visione attiva del problema. Occorre che positivamente vi sia la rispondenza ad un concetto sovrastante, preciso e comprensivo ad un tempo, e non basta limitarsi a formulazioni negative.

Propone, pertanto, questa formula:

«Quando le esigenze del bene comune lo impongano, perché l’impresa assume carattere di preminente interesse nazionale, per riferirsi a servizi pubblici essenziali o a situazioni di monopolio o a fonti di energia, la legge devolve l’impresa, in forma diretta o indiretta, allo Stato o ad altri enti pubblici».

CORBI, Relatore, direbbe «…o ne devolve l’esercizio diretto o indiretto, o la sottopone a controllo…».

NOCE TERESA chiede di modificare, al principio, e dire:

«Quando le esigenze del bene comune… o quando l’impresa, ecc.».

Con la particella «o» si distinguono i due concetti.

DOMINEDÒ, Correlatore, si oppone perché ritiene che il primo comma rappresenti il concetto generale, mentre i successivi incisi costituiscono le specificazioni concrete di tale concetto.

NOCE TERESA teme che il legislatore possa non tener conto del concetto che è implicito e, se si attiene alla parola della Costituzione, possa applicarlo solo quando lo richiedono le esigenze del bene comune; mettendo una «o» i due concetti risultano più evidenti.

DOMINEDÒ, Correlatore, replica che nessuna legge può prescindere dalla circostanza che nella Costituzione sia specificato un ordine di ipotesi concrete: il «perché» snoda il concetto generale nelle ipotizzazioni particolari.

CANEVARI fa osservare che da tutte queste dizioni esula completamente ogni considerazione di ordine sociale; si hanno presenti gli scopi palesi da raggiungere: il servizio pubblico, la maggiore produzione, l’affermazione che provvedimenti di questa natura possono essere assunti per altre ragioni, ma non si parla di fini di ordine sociale.

TAVIANI risponde che questi rientrano nel «bene comune».

PRESIDENTE fa presente che quando si parla di preminente interesse nazionale, si dice tutto: vi è compreso l’ordine sociale, il bene comune ecc.

Quindi, per suo conto, trova più sobria, più precisa, più chiara e più comprensiva la formula in questi termini:

«Quando l’impresa abbia o acquisti, nel suo sviluppo, per riferirsi a servizi pubblici o a situazioni di monopolio o a fonti di energia, carattere tale da assumere un aspetto di preminente interesse nazionale, la legge ne devolve l’esercizio, diretto o indiretto, allo Stato o ad altri enti pubblici».

ASSENNATO eliminerebbe nella proposta Dominedò il termine «impongano» che ha carattere estremamente restrittivo, e direbbe: «allo scopo del bene comune».

CORBI, Relatore, concorda con la formulazione proposta dal Presidente; vi manca però un inciso, che ha molta importanza: «dimensioni relativamente rilevanti». Richiama la sua attenzione su questa espressione, con la quale si limiterebbero i poteri dei grandi proprietari, dei grandissimi industriali e si considererebbero anche gli aspetti negativi del grande capitalismo. È un’espressione che ha valore sociale e politico più che produttivo e tende ad evitare che si creino grandi complessi, che possano turbare la vita politica e i rapporti sociali.

MARINARO domanda all’onorevole Dominedò se basta, per lui, che un’impresa assuma carattere di preminente interesse nazionale, perché si possa giungere alla socializzazione.

DOMINEDÒ, Correlatore, risponde affermativamente, sempre che la socializzazione risponda a irreprensibili esigenze di bene comune.

MARINARO chiede se l’impresa che abbia assunto carattere di preminente interesse nazionale, ma non contrasti con esigenze di pubblici servizi e non costituisca situazioni di fatto di monopolio dannose alla collettività, debba egualmente essere socializzata.

Cita ad esempio la Montecatini; non c’è dubbio che abbia carattere di interesse nazionale, ma se questa grande impresa non danneggia la collettività, anzi con la sua attività e col perfezionamento della sua industria si risolve in bene nazionale, chiede perché bisognerebbe socializzarla.

Comprende il principio del collega Corbi; giunte ad un certo punto, per finalità politiche, le imprese devono essere socializzate; ma non comprende quello dell’onorevole Dominedò.

DOMINEDÒ, Correlatore, risponde di non aver mai pensato di scindere ciò che nell’articolo è collegato logicamente e letteralmente: cioè il fatto dell’assumere preminente interesse nazionale con le circostanze determinanti del riferirsi a pubblici servizi o a situazioni di monopolio. Pensa che, almeno tendenzialmente, quando si venga a determinare in un’impresa economica il carattere di preminente interesse nazionale, si venga quasi automaticamente a prospettare l’eventualità di uno Stato nello Stato, di una potenza nella potenza collettiva. È il pericolo in atto della forma monopolistica. Ma l’esigenza di colpire questo accentramento supercapitalistico, monopolistico, plutocratico, è specificata con chiarezza nella seconda parte dell’inciso. Quindi l’eventualità che l’impresa assuma carattere di preminente interesse nazionale resta collegata ad ipotesi concrete, in correlazione al fatto che un’impresa si riferisca a servizi pubblici essenziali o quando costituisca un intollerabile monopolio privato.

TAVIANI si rende conto della incomprensione dell’onorevole Marinaro. Egli parte da un’ipotesi di economia liberistica e quindi è chiaro che capisca la posizione dell’onorevole Corbi, che dice: Noi vogliamo superare il capitalismo arrivando al collettivismo; mentre non capisce la posizione di altri, la quale, come per lui, supera il capitalismo senza giungere al collettivismo.

Il suo gruppo condivide con quello di Corbi l’esigenza di superare la posizione capitalistica e ciò non per esigenze meramente produttive, ma anche per esigenze sociali.

Per il bene della collettività bisogna evitare il pericolo di certe forze capitalistiche che indubbiamente vengono ad essere vere forze politiche nella Nazione. Dal punto di vista pratico, non crede che l’Italia si debba porre sulla strada della grande industria.

Mettere o no la frase «o a dimensioni relativamente rilevanti» non ha importanza; è un’espressione ambigua che non si adatta a tutti i settori dell’industria.

COLITTO si associa a quanto ha affermato l’onorevole Marinaro. Sottolinea che, a suo giudizio, si recherebbe danno enorme alla produzione, ove le imprese sapessero in partenza che quanto maggiore è il loro sviluppo, tanto più forte è il pericolo di essere gestite dallo Stato, o da altri enti pubblici. Quindi insiste nella formulazione dell’articolo così come è stato proposto da lui e dall’onorevole Marinaro.

CANEVARI insiste nella proposta che ha fatto, perché sia considerato l’aspetto sociale del problema. Inoltre, secondo le proposte fatte, l’intervento è reso possibile soltanto davanti al fatto che l’impresa abbia assunto carattere di preminente interesse nazionale. Ma se si giungesse ad un’autonomia regionale, provinciale o comunale, con questa disposizione non sarebbe possibile l’intervento per un interesse limitato a quell’ente comunale, regionale, provinciale.

Con questa disposizione sarebbe impossibile risolvere il problema agrario.

DOMINEDÒ, Correlatore, pensa che invece di «nazionale» si potrebbe forse dire «collettivo». Se si considera l’articolo nel suo complesso, si trova che al primo comma, quello relativo all’iniziativa privata, è menzionato appunto un concetto che corrisponde alla proposta dell’onorevole Canevari. L’intervento è previsto quando l’impresa privata non risponda all’utilità pubblica; ma vanno quivi compresi tutti gli aspetti, compreso quello dell’utilità sociale.

Quindi invece di «nazionale» proporrebbe eventualmente «generale» o «collettivo».

CANEVARI osserva che non lo interessa tutta quell’elencazione; potranno sorgere altre ragioni che giustifichino l’intervento.

Lo scopo da affermare quale quello della pubblica utilità o dell’ordine sociale; poi, a seconda degli uomini e del tempo, la legge interverrà per vedere se vi siano ragioni di pubblica utilità o scopi d’ordine sociale che giustifichino il provvedimento.

ASSENNATO propone la formula seguente: «Allo scopo del bene comune, quando l’impresa, per riferirsi a servizi pubblici essenziali o a situazioni di privilegio o di monopolio o a fonti di energia, assuma carattere di preminente interesse generale, la legge ne devolve l’esercizio diretto o indiretto allo Stato o ad altri enti pubblici». Così sarebbe tolta la frase «o a dimensioni relativamente rilevanti», come ha proposto l’onorevole Marinaro.

CANEVARI insisterebbe sulla formulazione già da lui proposta: «Per scopi di utilità pubblica o per ragioni di ordine sociale, la legge determina l’esercizio diretto o indiretto dell’impresa da parte dello Stato, di enti pubblici o di comunità di lavoratori e di utenti, dietro pagamento di equo indennizzo, salvo diverse disposizioni».

PRESIDENTE osserva che questa formulazione è più sintetica, mentre l’altra è più analitica. La seconda parte è alquanto diversa, perché viene aggiunta la frase «comunità di lavoratori e di utenti».

TAVIANI, cogliendo un punto della proposta Canevari, osserva che si potrebbe completare nel seguente modo: «Allo scopo del bene comune, quando l’impresa per riferirsi a servizi pubblici essenziali o a situazioni di privilegio o di monopolio o a fonti di energia, abbia caratteri tali da assumere un aspetto di preminente interesse generale, la legge ne devolve l’esercizio diretto o indiretto allo Stato o ad altri enti pubblici o a comunità di lavoratori e utenti».

DOMINEDÒ, Correlatore, propone di sostituire le parole: «assume un aspetto di preminente interesse» con le parole: «assume carattere di preminente interesse generale».

PRESIDENTE mette ai voti il comma proposto dagli onorevoli Colitto e Marinaro:

«Per imprescindibili esigenze di servizi pubblici o per necessità di eliminare situazioni di privilegio o di monopolio dannose alla collettività, lo Stato e gli enti locali possono con legge essere autorizzati ad assumere l’impresa o a parteciparvi, salvo indennizzo.

«La gestione dell’impresa ha in tal caso luogo in forma industrializzata ed è sottoposta a controllo».

(Non è approvato).

Mette ai voti il comma proposto dagli onorevoli Taviani e Dominedò:

«Allo scopo del bene comune, quando l’impresa per riferirsi a servizi pubblici essenziali o a situazioni di privilegio o di monopolio o a fonti di energia, assume carattere di preminente interesse generale, la legge devolve l’impresa, in forma diretta o indiretta, allo Stato o ad altri enti pubblici o a comunità di lavoratori ed utenti»

(È approvato).

TAVIANI dichiara che resta inteso che si rimanda alla discussione della relazione Fanfani l’eventuale aggiunta della frase «sotto il controllo dello Stato».

Seguito della discussione sul diritto di proprietà.

TAVIANI, Relatore, innanzi tutto intende che sia ben chiaro che l’adesione all’articolo approvato non è affatto adesione ad una formula di compromesso, come qualche giornale ha rilevato e come gli sembra sia stato detto da qualcuno in questa adunanza, perché non c’è da parte sua e dei colleghi del suo gruppo l’intenzione di fare compromessi su questioni particolarmente delicate di principio. È una formula che ha trovato l’adesione di colleghi di altri gruppi e che rappresenta quella che è effettivamente la migliore soluzione nell’attuale momento storico; a meno che per compromesso non si voglia intendere una formula conciliativa fra il termine individuo ed il termine società, compromesso che si è verificato in questo caso in tutti i sistemi economici dalle origini ad oggi.

Prega inoltre che sia verbalizzata questa seconda dichiarazione. Siccome alcuni giornali hanno parlato di proposte di carattere ideologico da lui fatte e respinte dalla totalità dei commissari, precisa che la espressione «allo scopo di garantire la libertà e l’affermazione della persona umana, viene garantita e riconosciuta la proprietà privata» è stata effettivamente da lui proposta e quindi abbandonata; ma che la rinunzia a chiedere una votazione su questa espressione, che quasi certamente non sarebbe stata accolta in sede di Sottocommissione, ma che probabilmente potrebbe venire accolta dall’Assemblea plenaria è stata da lui fatta per giungere ad una formula di accordo con commissari di altri gruppi, dei quali ha ammirato lo spirito di comprensione e di conciliazione, specialmente laddove essi hanno aderito alla formula per cui il diritto di proprietà privata è riconosciuto e garantito dallo Stato.

DOMINEDÒ, FEDERICI MARIA e RAPELLI si associano alla dichiarazione dell’onorevole Taviani.

PRESIDENTE prende atto delle dichiarazioni dell’onorevole Taviani, ma osserva che le posizioni dei vari commissari risultano già chiaramente dai verbali delle precedenti discussioni.

Comunica alla Sottocommissione che nella riunione di ieri, che si tenne senza aver raggiunto il numero legale e quindi senza prendere deliberazioni, fu oggetto di un nuovo particolareggiato esame la formulazione dell’articolo sulla proprietà. Gli emendamenti accettati dai presenti e che ora sottopone all’approvazione della Sottocommissione con votazione separate sono i seguenti:

Nel secondo comma dell’articolo già approvato sostituire le parole: «i limiti e le forme», con le altre: «i modi di acquisto c di godimento e i limiti».

Pone ai voti questo emendamento.

(È approvato).

Nel terzo comma si propone di sostituire le parole: «agli enti pubblici e alle comunità di lavoratori e di utenti», con le altre: «agli enti pubblici, alle società cooperative o ad altre comunità di lavoratori e di utenti legalmente riconosciute»; ed inoltre di sostituire le parole: «mediante riserva originaria», con le altre: «a titolo originario».

Sempre a proposito del terzo comma avverte che l’onorevole Colitto, per ragioni del tutto inerenti al perfezionamento della forma, e non per ragioni di sostanza, propone di modificare la formula «le proprietà di beni e di complessi produttivi», in quanto anche i complessi produttivi sono dei beni.

COLITTO si permette di aggiungere altre considerazioni. In luogo di «utilità collettiva» propone di dire «utilità pubblica», in quanto è evidente che la parola «collettiva» ha il significato di «pubblica». Laddove poi si parla di «coordinamento dell’attività economica», osserva che si deve parlare di attività «economiche», perché si coordinano almeno due cose, ma una cosa sola si può solo disciplinare e non coordinare, sicché la forma singolare è usata impropriamente.

Non comprende poi il significato delle parole «comunità di lavoratori» e chiede se ci si riferisca sempre alle cooperative, oppure ad altre società legalmente riconosciute o anche ad associazioni di fatto.

TAVIANI, Relatore, osserva che dal punto di vista strettamente giuridico le considerazioni dell’onorevole Colitto sono fondate, ma che le dizioni usate nell’articolo approvato non possono considerarsi imperfette dal punto di vista della terminologia economica.

Non ha tuttavia nulla in contrario a sostituire la parola «collettività» con «pubblica», per quanto con la prima espressione egli intenda, ad esempio, anche imprese giuridicamente rientranti nel diritto privato, come, ad esempio, l’Ansaldo, la quale, economicamente parlando, è una proprietà collettiva, dato che la maggioranza delle azioni è posseduta dallo Stato, mentre da un punto di vista giuridico è una proprietà privata.

COLITTO osserva che quando grande parte delle azioni è posseduta dallo Stato, ci si trova di fronte ad una forma di controllo da parte dello Stato. Qui si introducono delle innovazioni, ma si dimenticano i punti di partenza; occorre cominciare col dire che cosa si intende per proprietà.

TAVIANI, Relatore, spiega che proprietà è la facoltà di disporre, di usare e godere dei beni.

COLITTO risponde che una proprietà privata può bene essere utilizzata a fini pubblici. Direbbe quindi: «per esigenze di utilità pubblica e di coordinamento delle attività economiche».

PRESIDENTE osserva che può stare anche il singolare, trattandosi di un complesso che ha significato collettivo.

L’onorevole Colitto aveva inoltre proposto di dire «pubblica» anziché «collettiva». Su questo si può essere anche d’accordo.

Inoltre l’onorevole Colitto modificherebbe la frase «beni o complessi produttivi»; però la Carta costituzionale va redatta non solo in modo da poter essere letta dai professori, ma che sia alla portata di tutti. Comprende che si parli di beni singoli in contrapposto di complessi produttivi, e si dica: «di singoli beni e di complessi produttivi».

TAVIANI, Relatore, è per la formula: «proprietà collettiva», anziché «pubblica».

ASSENNATO ritiene più restrittivo il termine «pubblico».

PRESIDENTE, a suo avviso, c’è più ampiezza nella dizione «pubblica che in quella di «collettiva».

COLITTO è d’accordo col Presidente a questo riguardo.

ASSENNATO osserva che potrebbe trattarsi di una società privata, per esempio, in cui il dossier di azioni sia in mano allo Stato: avere una forma privata ed una sostanza pubblica.

TAVIANI, Relatore, ricorda che circa le modifiche di forma da apportare all’articolo, l’onorevole Colitto ha proposto di dire «utilità pubblica», invece di «utilità collettiva». La maggioranza non è d’accordo; quindi ritiene che si debba lasciare «collettiva».

Anche la proposta di dire «cooperative» invece di «comunità di lavoratori» non è accettata dalla maggioranza.

Accetterebbe la varianti: «la proprietà di singoli beni o di complessi produttivi, sia a titolo originario, sia mediante esproprio».

Quanto all’indennizzo, la questione sarà trattata in seguito.

PRESIDENTE pone ai voti la formula: «la proprietà dei singoli beni o di complessi produttivi, sia a titolo originario, sia mediante esproprio contro indennizzo».

(È approvata).

COLITTO ricorda di avere proposto anche la formula: «comunità di lavoratori e di datori di lavoro, le une e le altre legalmente riconosciute».

TAVIANI, Relatore, osserva che questa è una modifica sostanziale; che non può essere apportata ad un articolo già approvato.

COLITTO obietta che, se possono mettersi in votazione le modifiche di forma, non vede perché non si possa modificare anche la sostanza.

CORSI ritiene opportuno rivedere anche la sostanza, particolarmente per quanto riguarda l’indennizzo.

COLITTO afferma che non è possibile procedere alla votazione distinguendo la forma dalla sostanza. O l’articolo resta fermo con le sue dichiarazioni postume, o, se si modifica, non c’è ragione di soffermarsi alla forma, obliando la sostanza.

TAVIANI, Relatore, dà atto che si debba ancora trattare il problema dell’indennizzo, perché già se ne è fatta riserva in verbale, ma non accetta che si debba rimettere in discussione tutta la materia. Cambiare la forma è cosa diversa dal mutare la sostanza. Alla stessa stregua si dovrebbero rivedere tutti gli articoli.

Il lavoro della Sottocommissione è un lavoro preparatorio: tutti gli articoli devono poi passare in sede di Commissione plenaria e saranno allora riveduti definitivamente.

COLITTO non vede la ragione per la quale una Commissione di studio, che va alla ricerca di una formula che si augura sia sempre la migliore, non possa ritornare su un argomento già valutato, nella ipotesi in cui la stessa Commissione si accorga che vi è un errore Errare humanum est, diabolicum perseverare.

PRESIDENTE rinvia il seguito della discussione alla seduta antimeridiana del giorno successivo.

La seduta termina alle 19.45.

Erano presenti: Assennato; Canevari, Colitto, Corbi, Dominedò, Federici Maria, Ghidini, Marinaro, Merlin Angelina, Noce Teresa, Rapelli, Taviani.

Assente giustificato: Molè.

Assenti: Fanfani, Giua, Lombardo, Paratore, Togni.

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 1° OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

16.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 1° OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Intrapresa economica (Discussione)

Corbi, Relatore – Presidente – Dominedò, Correlatore – Canevari – Colitto – Marinaro – Taviani – Lombardo.

La seduta comincia alle 10.30.

Discussione sull’intrapresa economica.

CORBI, Relatore, premette che ha integrato la sua relazione con elementi di quella già presentata dall’onorevole Pesenti, il quale, essendo impedito di intervenire alle sedute, è stato da lui sostituito nella Sottocommissione. Passando ad esaminare l’argomento all’ordine del giorno, osserva che, avendo la relazione Taviani esaminato l’istituto della proprietà nel suo aspetto statico, spetta ora a lui di esaminarlo nella sua dinamicità, nel momento cioè in cui la proprietà cessa di essere un bene di per se stessa, puro e semplice, per divenire elemento operante nel campo della produzione, stabilendo quei rapporti che costituiscono i motivi essenziali di ogni società che si fonda sul lavoro produttivo.

Rileva che ormai la Sottocommissione è d’accordo nel riconoscere alla proprietà privata, nell’attuale momento storico, una sua ragione d’essere, che consiste nell’avere ancora funzione economicamente utile e necessaria, e che tutti convengono che la vecchia formulazione del diritto romano non può essere accettata, perché in troppo stridente contrasto con la realtà e con le esigenze nuove; l’una va superando quel vecchio concetto della proprietà privata, le altre esigono che ad essa siano imposte limitazioni non solo per ragioni etiche e politiche, ma anche per motivi economici produttivistici e di interesse nazionale.

Le Carte costituzionali moderne, non solo quella sovietica, ma anche quella di Weimar, quella jugoslava, quella francese, riconoscono l’istituto della proprietà privata solo in quanto essa adempie ad una funzione sociale e non contrasta, quindi, con gli interessi della collettività e dell’economia sociale. In Italia questo principio è acutamente sentito e già in parte opera nella realtà economica di tutti i giorni; per cui la nuova Carta costituzionale non ha che a fissarlo giuridicamente e con ampia prospettiva di sviluppo. Perché, se è vero che i fatti precedono le norme, è altrettanto vero che queste li ostacolano o li favoriscono nel loro tendenziale sviluppo.

Le norme, adunque, che la nuova Carta costituzionale deve contenere, debbono, facendo tesoro dell’esperienza, impedire, per quanto è possibile, l’evolversi negativo dei fatti economici ed aprire la strada a quello positivo di essi. In altri termini, la Carta costituzionale deve rendere impossibile ai vecchi principî privilegiati, responsabili della catastrofe nazionale, di riprendere il sopravvento a danno di tutto il popolo e garantire invece la possibilità di operare nel Paese una profonda trasformazione economica e sociale, alla quale è indispensabile il concorso dello Stato.

Osserva che taluno si inalbera e protesta ogni qual volta sente parlare di ordine, di coordinamento, di controllo, di pianificazione economica, ancora sollecito nell’esaltare la concezione individualistica del liberismo economico; il che in ultima analisi altro non è che un tentativo di giustificare e difendere, con formule dottrinarie, l’egoismo dei privilegiati. Ma ciò non può distogliere il legislatore dall’esame obiettivo dei fatti, i quali lo convincono che solo un’azione decisiva ed accorta, capace di valorizzare tutte le energie e di scoprirne delle nuove e di unificare e guidare tutte le risorse nazionali, può dare inizio ad un nuovo corso economico per la ricostruzione e la rinascita del Paese.

Altri negano ai lavoratori (tecnici, operai, impiegati) il diritto di partecipare alla direzione dell’impresa, adducendo che ciò costituisce una violazione, oltre tutto, anche dei sani principii economici. Ma anche in questo campo l’esperienza dimostra il contrario, che, cioè, è necessario favorire, promuovere e creare consigli di azienda – non solo in quello private – per incrementare ed esercitare il controllo sulla produzione e sulla distribuzione dei beni, nell’interesse di tutta la collettività.

Rileva che la Sottocommissione, concordemente, ha affermato che la proprietà deve assolvere una funzione sociale e ha riconosciuto che sino ad oggi questa funzione non sempre essa ha adempiuto, in conseguenza di un cattivo ordinamento economico; è evidente perciò che, in omaggio a quel principio, sarà pure condiviso il parere che allo Stato debba competere non solo il diritto, ma il dovere di avocare a sé, sotto diverse forme – statizzazione, nazionalizzazione, controllo – quelle forme di impresa che, per dimensioni o funzioni adempiute, costituiscono un pericolo per la società ed assumono un aspetto di preminente interesse nazionale.

Ciò per garantire, non solo a parole, la sicurezza, l’indipendenza, la libertà, la dignità ed il desiderio di pace dei cittadini; e per assicurare, almeno nell’avvenire, migliori condizioni di vita al popolo, favorendo lo sviluppo delle forze produttive che la proprietà privata – per il passato mezzo potente ed efficace di progresso economico – oggi il più delle volte ostacola.

Ritiene, infine, che non debbano essere dimenticate dalla tutela dello Stato le cooperative, le piccole e medie imprese industriali, agricole ed artigiane, che nel quadro dell’economia italiana assolvono una funzione di grande importanza.

Passando ad esaminare gli articoli formulati nella relazione dell’onorevole Pesenti, osserva che taluni di essi sono superati da quelli già approvati dalla Sottocommissione sul diritto di proprietà; ve ne sono invece altri che conservano tutto il loro valore e che dovranno essere presi in esame.

Dà quindi lettura degli articoli:

1°) la proprietà è il diritto inviolabile di usare, di godere, di disporre dei beni garantiti a ciascuno dalla legge;

2°) lo Stato riconosce e garantisce e tutela la proprietà privata e l’iniziativa economica privata. Lo Stato e tutti i cittadini hanno il dovere di difendere la proprietà statale demaniale, la proprietà delle collettività pubbliche, la proprietà degli enti pubblici e delle imprese statali e nazionalizzate;

3°) la proprietà privata non può essere espropriata che per legge o mediante indennizzo;

4°) il diritto di proprietà non potrà essere esercitato in contrasto con l’utilità sociale, con le direttive ed i programmi economici stabiliti dallo Stato od in modo da arrecare pregiudizio alla proprietà altrui, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, col deprimere il livello di esistenza al disotto del minimo stabilito dai bisogni umani essenziali;

5°) ogni proprietà che nel suo sviluppo ha acquistato o acquista, sia per riferirsi a servizi pubblici essenziali o a situazioni di monopolio o a fonti di energia, o a dimensioni relativamente rilevanti, caratteri tali da assumere un aspetto di preminente interesse nazionale, deve diventare proprietà della collettività nazionale od essere posta sotto il diretto controllo della Nazione;

6°) per garantire lo sviluppo economico del Paese e per assicurare nell’interesse nazionale l’esercizio del diritto e delle forme di proprietà previste dalla legge, lo Stato assicura al lavoratore il diritto di partecipare alle funzioni di direzione dell’impresa, siano esse aziende private, pubbliche o sotto il controllo della Nazione;

7°) lo Stato riconosce la funzione sociale:

delle imprese gestite direttamente o indirettamente dalla Nazione;

delle imprese cooperative;

delle imprese private direttamente gestite dal proprietario.

Nell’interesse della Nazione ne assicura lo sviluppo e la protezione».

Esaminando singolarmente gli articoli, osserva che il 1o è superato da quanto è stato sancito nell’articolo sul diritto di proprietà; anche del 2° è già stato affermato il principio, ma vi è un punto sul quale desidera richiamare l’attenzione della Sottocommissione, e cioè: «Lo Stato e tutti i cittadini hanno il dovere di difendere la proprietà statale o demaniale, la proprietà delle collettività pubbliche, la proprietà di enti pubblici e delle imprese statali e nazionalizzate». Qualcuno potrebbe affermare che il concetto è ovvio, ma, conoscendo la cattiva abitudine del popolo italiano di considerare il patrimonio dello Stato e degli enti locali come la cosa di tutti, di cui è lecito qualsiasi abuso, ritiene che sia utile richiamare l’attenzione del legislatore o dell’autorità su questo particolare aspetto.

Osserva che l’articolo 3, pur essendone già stati approvati i concetti in precedenza, si discosta fondamentalmente dallo spirito dell’articolo esaminato e votato nella precedente seduta, nella parte che riguarda l’indennizzo, per il quale è stato stabilito che deve essere corrisposto, senz’altro, in tutti i casi. Ritiene invece, che l’indennizzo «possa» essere dato, ma non «debba» essere necessariamente dato, in considerazione del fatto che, volendo operare vaste riforme in agricoltura, nell’industria ed in tutti i settori della vita economica italiana, tale principio potrebbe costituire un grave ostacolo a tali riforme.

Ritiene anche che l’articolo 4 sia superato, perché i concetti sono contenuti in quello sulla proprietà, già precedentemente approvato e che, se mai, potrà essere rivisto.

Con gli articoli 5, 6 e 7 si entra invece nel vivo della questione.

PRESIDENTE, sull’articolo 1, si dichiara d’accordo con l’onorevole Corbi nel ritenerlo superato, tanto più che si tratta di una definizione. Ritiene anche superflua la seconda parte dell’articolo 2 là dove è detto: «lo Stato e tutti cittadini hanno il dovere di difendere la proprietà statale, demaniale, ecc.», in quanto in essa si parla di dovere e non di obbligo giuridico, mentre, in una Carta costituzionale, è bene sancire più che altro degli obblighi. Inoltre non è necessario richiamare i cittadini al dovere di difendere la proprietà statale e demaniale, dato che rientra nei loro comuni doveri di rispettare quello che è di tutti, senza bisogno di specificazioni.

Osserva poi che è questo un obbligo giuridico già largamente affermato dalle nostre leggi. Nel Codice penale sono contenute disposizioni a proposito, per esempio, del danneggiamento, reato che diventa perseguibile d’ufficio quando si commette sopra cose appartenenti ad enti pubblici o che abbiano finalità di pubblico interesse. Sono inoltre previsti reati contro la pubblica incolumità, reati di danneggiamento di linee ferroviarie, di ponti, di strade, di navi. In sostanza la proprietà pubblica è difesa dalla legge; non solo, ma vi sono anche le contravvenzioni a tutela del patrimonio artistico, storico ed archeologico della Nazione.

Concorda invece pienamente sulla disposizione contenuta nell’articolo 4.

Finora nei confronti della proprietà sono stati sanciti e consacrati i diritti ed i doveri dello Stato, ma non i doveri e gli obblighi del cittadino; questa è la parte che manca nella relazione dell’onorevole Taviani, nella quale si parla dei doveri che il cittadino ha nei riguardi della proprietà, ma soltanto in senso negativo.

Un testo analogo è compreso nell’articolazione fatta dall’onorevole Lombardo, con solo lievi modificazioni di forma; difatti esso dice: «Il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente alla utilità sociale ed in modo da arrecare pregiudizio alla libertà ed ai diritti altrui». Anche l’onorevole Togliatti ha presentato, alla prima Sottocommissione, un articolo in materia così formulato: «Il diritto di proprietà non potrà essere esercitato in modo contrario all’interesse sociale, né in modo che rechi danno all’altrui diritto».

Dato che le tre disposizioni citate mirano al medesimo scopo, ritiene che sarebbe necessario aggiungere nell’articolo in esame l’elemento positivo dell’esercizio del dovere da parte del cittadino; e pensa che la formulazione proposta dal l’onorevole Pesenti sia più dettagliata, mentre quella dell’onorevole Lombardo è più sintetica, come del resto quella dell’onorevole Togliatti.

Nella formulazione dell’onorevole Pesenti si dice che il diritto di proprietà «non potrà essere esercitato in contrasto con l’utilità sociale, con le direttive ed i programmi economici stabiliti dallo Stato o in modo da arrecare pregiudizio alla proprietà altrui, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, col deprimere il livello di esistenza al disotto del minimo stabilito dai bisogni umani essenziali». È stato chiesto che cosa vuol dire la parola «sicurezza». Spiega che vi sono modi di esercitare la proprietà che minacciano la sicurezza dei cittadini: un proprietario che affitti una casa, il cui pavimento sia pericolante; questo è un esercizio della proprietà pericoloso per la sicurezza, ma possono esserci molti altri casi.

Sopprimerebbe però l’ultima parte dell’articolo «col deprimere il livello di esistenza», ecc., perché la dignità umana non si esprime solo attraverso le condizioni economiche. Dichiara che non sarebbe contrario a questa disposizione, ma ritiene più comprensiva quella dell’onorevole Lombardo. Il 3° comma di quello Taviani prende l’abbrivo dall’utilità sociale e fa alcune specificazioni che non sarebbe male fossero richiamate. Forse sarebbe il caso di fare un articolo a parte per integrare, in sede di coordinamento, l’articolo dell’onorevole Taviani.

Anche sui consigli di gestione vi è accordo; tutti ritengono necessario l’intervento dei lavoratori nel processo produttivo.

L’articolo 7 parla delle diverse imprese e pensa che possa essere formulato in modo più conciso.

Riguardo al concetto espresso nell’articolo 3, ha già manifestato la sua opinione ed ha fatto mettere a verbale che, in linea generale, debba essere dato un indennizzo; regola alla quale forse non potrebbe farsi eccezione nemmeno nel caso in cui l’esproprio si rendesse utile per procedere a quelle profonde riforme strutturali di cui tutti riconoscono la necessità. Ma in certi casi, come quando ad esempio il proprietario non coltiva affatto le proprie terre, non si dovrebbe dare l’indennizzo.

Propone quindi: «La proprietà privata può essere espropriata, mediante indennizzo, salvo che la legge disponga altrimenti».

DOMINEDÒ, Correlatore, premesso che la Carta costituzionale deve avere un significato storicistico, interpretando la realtà attuale in tutte le sue manifestazioni in corso di sviluppo, ritiene che in questo articolo relativo all’impresa si debba – evitando di fare doppioni rispetto al momento statico già esaminato nei riguardi della proprietà – disciplinare il momento dinamico e vedere quali norme la Carta costituzionale debba contenere in relazione a tale fase. L’opera di selezione, in relazione alle norme proposte, è infatti notevole, in quanto molte di esse si riferiscono direttamente o indirettamente al momento della proprietà.

Considerando quindi l’aspetto dinamico dell’impresa, ritiene che la Carta costituzionale dovrebbe tener presente un trinomio, analogamente a quanto è stato fatto per la proprietà, cioè: 1°) l’impresa individualistica, riconosciuta come regola in quanto operi in funzione sociale; 2°) l’impresa collettivistica, che va da quella statizzata a quella municipalizzata, la quale deve essere riconosciuta dallo Stato come forma necessaria, quando il bene comune lo imponga, in quanto le esigenze della pubblica utilità non siano realizzabili dall’impresa individualistica; 3°) l’impresa cooperativistica, distinta da quella individualistica, che ha per fine caratteristico il lucro, e da quella collettivistica, che ha per fine il pubblico interesse, mentre la forma cooperativa si distacca dalla finalità lucrativa e si avvicina ad una funzione di pubblico interesse, procurando ad una comunità di lavoratori o di utenti l’acquisizione di beni o di mezzi di lavoro a prezzo di costo.

Pensa quindi che dovrebbero essere fissate delle norme relative ad ognuno delle tre ipotesi, prendendo come punto di partenza l’articolo 7 proposto dall’onorevole Pesenti.

Per quanto riguarda l’impresa individualistica, andrebbe ribadito il concetto che la sua funzionalità deve essere connessa con l’utilità sociale. L’impresa privata costituisce la regola, in quanto non leda l’interesse pubblico: su questo piano deve essere costituzionalmente garantita la libertà d’iniziativa economica. Rispetto alla formula adottata all’articolo 4, pensa che il concetto andrebbe inserito nel 3° comma dell’articolo 7, ma preferirebbe una formulazione di carattere sintetica sul tipo di quella proposta dall’onorevole Lombardo.

Per quanto riguarda l’impresa cooperativistica, affermerebbe un concetto che non gli pare incluso nella formula Pesenti, e si ricollegherebbe alla relazione Canevari, innestando la forma in parola nel secondo comma dell’articolo 7 e svincolandola dalla più stretta disciplina dell’impresa privatistica: occorre a tal fine tener presente da un lato l’esigenza del pubblico interesse e dall’altro il controllo nei riguardi della cooperazione. Si dovrà a questo proposito studiare se questo debba essere affidato al potere esecutivo, ovvero se, almeno nei riguardi del controllo di merito, esso non debba, in base all’esperienza e alle esigenze di libertà del cooperativismo, spettare ad organi collegiali, rappresentatvi della categoria: sembra opportuno che la Costituzione deferisca il problema alla legge.

Le imprese pubblicistiche, ovvero colletivistiche, vanno contemplate tenendo conto delle esigenze analiticamente enunciate nell’articolo 7 della relazione Pesenti, salva tuttavia l’opportunità di fare capo ad un concetto sovrastante e sintetico come quello del bene comune, elemento idoneo per la sua stessa comprensività a giustificare l’eccezionale trasformazione dell’impresa da individuale in collettiva. Quanto all’articolo 5, ciò che esso dice è già stato considerato nel momento statico, allorché fu stabilito quando una proprietà privata deve divenire collettiva. Quindi conviene una formula sintetica, per evitare il doppione, analogamente a quanto ha già proposto l’onorevole Lombardo.

Disciplinate così le tre ipotesi, resterebbe un ulteriore punto da menzionare: cioè la posizione fatta dallo Stato al lavoratore, contemplata nell’articolo 6. È un problema delicato, che potrebbe essere eventualmente tenuto presente in un comma a parte, oppure in un distinto articolo.

Il problema della partecipazione del lavoratore è comune alle imprese private ed alle pubbliche. Si può parlare di un partecipazionismo del lavoratore sotto diversi aspetti, trattandosi di fenomeno complesso; se ne può parlare in relazione alla titolarità dell’impresa e già se ne vedono alcune forme determinate nell’agricoltura e nell’industria, con gli istituti del riscatto e dell’azionariato. Ma questa partecipazione alla titolarità dell’impresa è l’ipotesi massima. La ipotesi media riguarda invece la partecipazione non alla comproprietà dell’impresa, ma alla sua gestione o alla direzione. Sente tale esigenza, ma la vorrebbe contemperata con quella di dare, non al proprietario, bensì all’imprenditore, che è il dominus dell’impresa, i poteri che gli spettano in conseguenza della propria responsabilità. Per esempio, i consigli di gestione possono essere concepiti come organi di consulenza tecnica, come avviene per i comitati misti di produzione nell’ordinamento anglo-americano. Anche nell’ordinamento russo, con la modifica apportata nel 1934, i consigli di gestione sono stati, per quanto gli consta, o eliminati o circoscritti. Ritiene quindi che tali problemi particolari, oggetto di futura disciplina legislativa, andrebbero approfonditi prima che si pensi ad alcuna inserzione del principio in una norma costituzionale.

PRESIDENTE osserva che nella relazione Di Vittorio vi è il richiamo all’intervento dei lavoratori nel processo produttivo dell’impresa. Nell’articolo 6 è ammessa la partecipazione dei lavoratori mediante i consigli di gestione in tutte le aziende che abbiano almeno cinquanta dipendenti; ma questa partecipazione è ammessa genericamente, riservando alla legge di stabilire i particolari. Ritiene che effettivamente occorra limitarsi all’impostazione generica del principio; stabilire senz’altro le norme particolari presenterebbe gravi difficoltà.

CANEVARI ritiene che in questa sede sia opportuno tener presente la sua relazione, già discussa e approvata, riguardante la cooperazione, in quanto, esaminando le proposte dell’onorevole Pesenti, ha constatato che una parte di esse è già assorbita da precedenti decisioni.

Ritenendo, d’accordo con il Presidente, superfluo il primo articolo, osserva sul secondo che, per quanto riguarda il dovere imposto dal cittadino di difendere la proprietà statale, si tratta soprattutto di una questione di educazione, che purtroppo in Italia manca e che quindi, più che di disposizioni legislative, si tratti di una mentalità da rifare e che questo sia un dovere indipendente dalle norme della Carta costituzionale e dalle disposizioni di legge.

Il concetto espresso nell’articolo 3, che cioè la proprietà privata non può essere espropriata che per legge, è già stato sancito.

Conviene con l’onorevole Dominedò sulla opportunità di iniziare l’articolazione dall’ultimo articolo proposto dall’onorevole Pesenti. Tuttavia, sulla dizione di tale articolo: «lo Stato riconosce la funzione sociale delle imprese gestite direttamente o indirettamente dalla Nazione», osserva che vi sono imprese non gestite dalla Nazione, ma dai comuni, dagli enti pubblici, che non hanno una relazione diretta con la Nazione stessa. Propone quindi di aggiungere le parole «o da enti pubblici». Inoltre, nello stesso articolo, quando si parla dell’interesse della Nazione, preferirebbe che fosse detto «interesse generale», in quanto vi sono imprese che interessano determinati settori e non tutta la Nazione, come, per esempio, gli enti comunali per la costruzione di case popolari, che rappresentano interessi particolari dei comuni e delle provincie.

Il secondo articolo dovrebbe essere sostituito dal quarto e in esso si dovrebbe affermare che il diritto di proprietà non può essere esercitato in contrasto con l’interesse comune.

Si dichiara infine d’accordo sull’articolo 5, salvo alcuni ritocchi di dettaglio che si potranno vedere in appresso.

È d’avviso che ai tre articoli riguardanti la proprietà privata nei rapporti delle imprese statali o collettive, si debba aggiungere quello che è stato affermato per la cooperazione in sede di discussione dei Relatori, cioè che lo Stato favorisce con i mezzi più idonei lo sviluppo delle cooperative e ne vigila il funzionamento.

Concludendo, afferma che, a suo parere, la discussione dovrebbe essere limitata alla formulazione dell’ultimo articolo, che dovrebbe diventare il primo, seguito dagli articoli 4, 5, 6, abbandonando tutte le altre affermazioni che sono già incluse nella precedente articolazione.

COLITTO si associa a quanto ha affermato il Presidente sulla superfluità del secondo articolo proposto, in quanto, una volta affermato che lo Stato riconosce e garantisce la proprietà privata e quella pubblica o demaniale, è evidente che ogni cittadino ha l’obbligo, non solo morale, ma giuridico, di rispettarla. Ugualmente superflui ritiene gli articoli successivi. Infatti, a suo avviso, gli articoli 3 e 4 sono inutili, in quanto è già stato detto, in sede di discussione sul diritto di proprietà, che questa deve avere una funzione sociale. Ad ogni modo, non è sufficiente parlare solo di divieto dell’esercizio del diritto di proprietà con pregiudizio della proprietà altrui, non rientrando in tale formula gli atti così detti di emulazione, che, anche con la legislazione vigente, sono vietati. Se si vuole, quindi, mantenere l’articolo, sarebbe opportuno integrarlo, tenendo conto di tale osservazione.

Anche l’articolo 5 è inutile, in quanto non è che la ripetizione, in altre parole, della norma, già discussa e approvata, che consente la espropriazione dei beni di proprietà privata in caso di utilità pubblica. Comunque, ritiene necessario sostituire la parola «Stato» alle parole «collettività nazionale» e «nazione», perché lo Stato è appunto la collettività nazionale giuridicamente organizzata.

Anche inutile gli appare il sesto articolo in quanto, costituendo il diritto del lavoratore di partecipare alle funzioni di gestione o di direzione dell’impresa, o dell’una e dell’altra insieme, un limite al diritto di proprietà del datore di lavoro, già è stato stabilito che le leggi particolari determineranno i limiti della proprietà privata. Ad ogni modo l’articolo potrebbe essere formulato, ove si riconoscesse l’opportunità di inserirlo nella Costituzione, nel modo seguente:

«Il lavoratore, salvo che la legge disponga diversamente, ha il diritto di partecipare alle funzioni di gestione dell’impresa in conformità delle disposizioni che saranno dettate dalla legge».

Si eviterebbe così l’inutile enunciazione dei fini, cui si tende con il riconoscimento di tale diritto. La Costituzione deve affermare il diritto, senza indicare le finalità cui si mira affermandolo.

CORBI, Relatore, dichiara di accettare le osservazioni dei vari colleghi, e particolarmente quelle degli onorevoli Ghidini, Dominedò, Canevari, poiché ritiene che in sostanza non si tratti che di trovare un’articolazione più precisa e più snella; appunto per questo si è astenuto dal proporne una, in quanto prevedeva che dalla discussione si sarebbe arrivati più facilmente ad un’articolazione che non ripetesse quella già fatta, presentando il vantaggio di una maggiore sinteticità. Per quanto riguarda la seconda parte dell’articolo 2 – sulla quale si sono soffermati gli onorevoli Ghidini e Colitto – si dichiara d’accordo per ometterla.

Ritiene opportuna la proposta fatta dall’onorevole Dominedò di prendere per primo in esame l’articolo 7; e ritiene che sia utile seguire il suggerimento dell’onorevole Canevari di trattare anche delle iniziative economiche degli enti pubblici; in quanto, parlando delle imprese gestite direttamente o indirettamente dalla Nazione, parrebbe che ci si riferisse soltanto allo Stato, mentre vi sono anche quelle dei Comuni delle regioni, che hanno una funzione di primo piano e che devono essere tutelate.

Per quanto riguarda l’altra proposta dell’onorevole Canevari, di introdurre cioè un articolo specifico che riguardi la cooperativa, si dichiara d’accordo, affinché lo Stato vigili proprio sulla natura della cooperativa.

Circa le osservazioni dell’onorevole Colitto, dichiara che parte di esse lo trovano consenziente, mentre altre saranno oggetto di discussione come, ad esempio, l’articolo da lui proposto: «Il lavoratore ha il diritto di partecipare alla direzione, ecc.», in cui si vuole non menzionare le finalità della partecipazione del lavoratore all’azienda. Ma, appunto per garantire l’opera, la funzione, il carattere di tale partecipazione, e perché non avvenga che essa snaturi completamente il suo significato o che si risolva in una turlupinatura (perché potrebbe avvenire che l’industriale o il datore di lavoro ricorressero a forme tali per cui forse sarebbe salvo il principio in riferimento alla Carta costituzionale, ma non sarebbe invece più salvo il principio dal punto di vista sostanziale), ritiene che, in definitiva, sia utile specificare le finalità della partecipazione dei lavoratori alla direzione dell’azienda. L’onorevole Colitto ha inoltre proposto che in luogo di «collettività nazionale» e di «nazione», si sostituita la parola «Stato», giustificando la sostituzione anche dal punto di vista strettamente giuridico. Pur accettando il principio che l’osservazione sia calzante ed abbia una ragion d’essere dal punto di vista giuridico, crede che risponda meglio allo scopo la dizione: «collettività nazionale», in quanto vi possono essere collettività nazionali che non sono tutto lo Stato, come i sindacati che, pur potendo svolgere funzioni anche economiche, sono una collettività nazionale, ma non tutto lo Stato. Ecco perché ritiene che la dizione «collettività nazionale» risponda meglio allo scopo.

Per quanto riguarda l’indennizzo, si associa pienamente a quanto ha detto il Presidente, ritenendo che, in linea di massima, l’indennizzo debba essere corrisposto e che solo in linea eccezionale possa non esserlo. Nei casi citati dal Presidente, come quello del proprietario che non coltiva la sua terra o di un bene che sia stato acquistato in maniera illecita e che offende anche la collettività, non si può parlare di indennizzo, ma si tratta soltanto di colpire delle proprietà male acquisite o mal condotte. Quindi, a suo avviso, l’indennizzo deve essere corrisposto, salvo i casi previsti dalla legge.

DOMINEDÒ, Correlatore, ritiene che, considerando i vari punti della relazione Pesenti e tenendo conto dei criteri emersi dalla discussione, si potrebbe proporre un articolo così formulato: «Le imprese economiche possono essere individuali, cooperativistiche, collettive. L’impresa individuale non può essere esercitata in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. L’impresa gestita cooperativamente deve rispondere alla funzione della mutualità ed è sottoposta alla vigilanza stabilita dalla legge. Quando le esigenze del bene comune lo impongano, la legge devolve l’impresa, in forma diretta o indiretta, allo Stato o ad altri enti pubblici

Osserva che si tratterà poi di vedere se fare un eventuale articolo a parte, o un ulteriore comma, per quanto riguarda il problema della partecipazione dei lavoratori.

MARINARO propone la seguente formulazione: «L’iniziativa e l’impresa privata sono libere. Lo Stato interviene per impedire la formazione di privilegi e di monopoli o per coordinare e dirigere le attività economiche ad un aumento di produzione e di benessere sociale. Quando ciò sia necessario per imprescindibili esigenze di servizi pubblici e per ovviare a situazioni di fatto di monopoli privati dannosi alla collettività, lo Stato e gli enti locali sono autorizzati, con disposizione di legge, salvo indennizzi, ad assumere le imprese od a parteciparvi. La gestione di tali imprese ha luogo in forma industrializzata ed è sottoposta a controllo finanziario».

Rileva che il punto sostanziale di questa formulazione sta nel fatto che lo Stato e gli enti locali sono autorizzati ad intervenire con disposizioni di legge; in altri termini è necessaria un’apposita legge che autorizzi l’intervento dello Stato nell’interesse dell’economia generale del Paese.

COLITTO insiste nel rilevare che non è necessario, una volta affermato il diritto, indicare le ragioni che ne hanno consigliato l’affermazione, anche perché l’enunciazione dello stesso potrebbe, nella sua necessaria genericità, costituire un limite al diritto stesso. Ciò appare molto chiaro, proprio nella specie, in cui si afferma che «il lavoratore ha il diritto di accedere, ecc., per garantire lo sviluppo economico del Paese e per assicurare nell’interesse nazionale l’esercizio del diritto e delle forme di proprietà, previste dalla legge», con la quale frase, in sostanza, si sminuisce e certamente si limita il diritto dei lavoratori.

PRESIDENTE dà lettura di un articolo concordato fra gli onorevoli Dominedò e Corbi, così formulato:

«L’iniziativa e l’impresa privata sono libere. Le imprese economiche possono essere individuali, cooperativistiche, collettive.

«L’impresa individuale non può essere esercitata in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.

«L’impresa gestita in forma cooperativa deve rispondere alla funzione della mutualità ed è sottoposta alla vigilanza stabilita dalla legge. Lo Stato ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei.

«Quando le esigenze del bene comune lo impongano, la legge devolve l’impresa, in forma diretta o indiretta, in favore dello Stato o di enti pubblici».

Chiede all’onorevole Dominedò di chiarire la ragione per la quale nell’articolo non si parli dell’esproprio.

DOMINEDÒ, Correlatore, Ritiene che l’argomento trovi sede più opportuna nell’articolo sulla proprietà.

MARINARO chiede che all’articolo proposto sia aggiunto il seguente comma: «La gestione di tali imprese ha luogo in forma industrializzata ed è sottoposta a controlli finanziari».

COLITTO si associa alla proposta dell’onorevole Marinaro ed a sua volta propone che il secondo comma dell’articolo sia, unicamente per ragioni di euritmia legislativa, così semplificato:

«L’impresa individuale non può essere esercitata in modo da recare pregiudizio al bene comune. L’impresa cooperativa deve essere esercitata in modo da rispondere alla funzione della mutualità.».

Chiede, inoltre, che nel terzo comma dello stesso articolo siano inserite, al punto opportuno, le parole: «salvo indennizzo».

Ripete, infine, la richiesta di approvazione del seguente articolo:

«Il lavoratore, salvo che la legge disponga diversamente, ha il diritto di partecipare alle funzioni di gestione dell’impresa, in conformità delle disposizioni che saranno dettate dalla legge».

TAVIANI, per mozione d’ordine, ritiene che l’ultimo articolo proposto dall’onorevole Colitto debba essere esaminato separatamente, dopo esaurita la discussione sull’impresa.

Passando ad esaminare il desto dell’articolo concordato, fa rilevare che dapprima si richiama l’attenzione sull’impresa privata, poi si passa ad esaminare tutte le imprese economiche per poi tornare alla privata. Si dice che le imprese possono essere individuali, cooperativistiche e collettive; non vede la ragione per cui si parli di individuali, invece che di private; forse perché era stato sancito di andare verso la forma cooperativistica, ma evidentemente altro è un’impresa composta di due o tre soci e altro è una vera e propria azienda cooperativistica. Ritiene quindi che si dovrebbe parlare semplicemente di imprese private, cooperativistiche e collettive.

Per quanto riguarda l’indennizzo, è d’accordo con l’onorevole Dominedò nel dire che di esso si debba parlare in sede di proprietà.

PRESIDENTE propone di accantonare, momentaneamente, il problema dell’indennizzo, per decidere sull’articolo in esame. Ricorda in proposito che vi è anche un’aggiunta proposta dall’onorevole Marinaro.

MARINARO ritiene che il servizio debba essere organizzato sotto forma industriale in modo da non risolversi in sicura perdita per l’ente che lo esercita.

LOMBARDO, pur ritenendo giusto il concetto dell’onorevole Marinaro, crede che sia di difficile applicazione.

TAVIANI ritiene che l’espressione non renda il concetto espresso. A suo avviso, l’idea dell’onorevole Marinaro è che tale impresa debba avere bilancio proprio, finalità proprie, organizzazione propria, ecc.

PRESIDENTE osserva che realmente nei servizi pubblici esercìti, ad esempio, dai Comuni anche direttamente, vi è la tendenza ad industrializzarne la gestione.

TAVIANI dichiara che sol piano concettuale è d’accordo con l’onorevole Marinaro, nel senso che la socializzazione va decentrata, ed in maniera che il gestore abbia una diretta responsabilità anche dal punto di vista economico; osserva che quando oggi si parla di socializzare non si intende certo la stessa cosa di quella che si pensava quaranta anni fa. Comunque, dichiara di essere contrario ad inserire la dizione nella Carta costituzionale.

MARINARO fa presente che fino ad oggi si è avuta questa organizzazione in forma industriale e che i grandi comuni, come Roma e Milano, hanno applicato questo sistema; non vorrebbe che l’innovazione si risolvesse in una perdita per il comune. Bisognerebbe dunque, a suo avviso, organizzare il servizio in maniera tale da conseguire possibilmente redditi che vadano a vantaggio del bilancio comunale.

DOMINEDÒ, Correlatore, ritiene che in tal caso bisognerebbe pensare ad una forma di gestione autonoma, ad un’ipotesi di decentramento economico; ma non pensa che una tale definizione si possa inserire nella Carta costituzionale.

PRESIDENTE è d’avviso che tuttavia sia necessario sancire il principio del controllo finanziario.

MARINARO propone la dizione «la gestione di tali imprese è sottoposta a controllo amministrativo e finanziario».

TAVIANI dichiara di ammettere soltanto il controllo finanziario e non quello amministrativo, che è contrario all’autonomia dell’azienda.

MARINARO aderisce alla dizione: «La gestione di tali imprese è sottoposta al controllo finanziario». Sul quarto comma che dice: «Quando le esigenze del bene comune lo impongano, ecc.», osserva che la dizione è troppo indeterminata e lascia un campo troppo vasto all’arbitrio dell’autorità. Ricorda che la formula da lui proposta precisava invece i casi di intervento da parte dello Stato e diceva: «Quando sia necessario, per imprescindibili esigenze di servizi pubblici, ecc.», considerando innanzi tutto il caso più comune, cioè quello dei servizi pubblici che riguarda specialmente le municipalizzazioni.

La formula troppo generica che invoca le esigenze del bene comune annulla in pratica lo scopo dell’intervento statale, che deve avvenire per legge. Sul principio generale di tale intervento tutti sono d’accordo: dove l’interesse della collettività è minacciato, lo Stato deve intervenire; ma è necessario precisare i casi in cui questo interesse è minacciato. La prima ipotesi, quella dei servizi pubblici, è fuori discussione; del resto la materia è ormai generalmente regolata in questo modo: quando un servizio pubblico non funziona regolarmente o quando, sotto la gestione dei privati, è fonte di speculazioni, lo Stato interviene e municipalizza.

TAVIANI propone la dizione: «Quando lo impongano le esigenze del bene comune, al fine di evitare situazioni di privilegio o di monopolio privato e di ottenere una più equa e conveniente prestazione dei servizi e distribuzione dei prodotti».

MARINARO dichiara di accettare tale formulazione.

CANEVARI prega l’onorevole Dominedò di modificare il terzo comma là dove si parla di imprese gestite in forma cooperativa, dicendo semplicemente «cooperative». Quanto al 4° comma osserva che è già stato deliberato, parlando della proprietà, l’intervento per legge relativo ad espropriazioni a favore dello Stato, di enti pubblici e di comunità.

DOMINEDÒ, Correlatore, consente.

PRESIDENTE avverte che la discussione sarà proseguita nel pomeriggio alle ore 17.

La seduta termina alle 13.10.

Erano presenti: Canevari, Colitto, Corbi, Dominedò, Federici Maria, Ghidini, Lombardo, Marinaro, Merlin Angelina, Noce Teresa, Taviani.

Assenti giustificati: Molé.

Assenti: Assennato, Fanfani, Giua, Paratore, Rapelli, Togni.

LUNEDÌ 30 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

15.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI LUNEDÌ 30 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di proprietà (Seguito della discussione)

Colitto – Presidente – Dominedò – Canevari – Corbi – Federici Maria – Merlin Angelina.

La seduta comincia alle 18.30.

Seguito della discussione sul diritto di proprietà.

COLITTO dichiara che, se fosse stato presente alla precedente seduta, non avrebbe dato la sua approvazione ai due articoli relativi alla proprietà, così come sono stati approvati. Prega, ad ogni modo, la Sottocommissione di voler ritornare sull’argomento e di modificare gli articoli nel senso che, invece di parlare di proprietà privata, si parli di proprietà individuale, per meglio distinguere questa dalle altre due forme di proprietà, che, a suo avviso, sono sempre forme di proprietà privata. Desidererebbe, inoltre, che fosse precisato in che cosa consistano le «forme» della proprietà individuale, che la legge dovrebbe determinare, e in che cosa consistano le «comunità di lavoratori e di utenti», cui la legge potrebbe attribuire la proprietà di beni o li complessi produttivi. Propone, infine, di eliminare le parole «sia mediante riserva originaria», di cui non è facilmente comprensibile il significato, e di modificare nel secondo articolo le parole «i diritti della collettività», perché ritiene che nella Costituzione, che è un documento giuridico, si debbano usare parole giuridiche.

PRESIDENTE chiarisce che la Sottocommissione, pur avendo tenuto presente che la proprietà cooperativistica è formalmente proprietà privata, si è anche resa conto, come risulta dall’ampia discussione svolta sull’argomento, che la proprietà cooperativistica si differenzia dalla proprietà privata, secondo la comune accezione di questa espressione, soprattutto in virtù delle finalità di interesse collettivo, non speculativo, che la cooperazione persegue. Ritiene che la dizione «proprietà individuale» sia meno comprensiva di quella di «proprietà privata».

Venendo al secondo comma dell’articolo, esprime l’opinione che debba essere modificato nel senso di sostituire alle parole «le forme» la frase «i modi di acquisto e di godimento»; in proposito osserva che l’espressione «le forme» rappresenta, per così dire, il troncone di una frase più ampia riferita ai modi di acquisto e di uso che fu in parte inavvertitamente omessa.

Sempre al fine di meglio chiarire il pensiero della Sottocommissione, ritiene che il terzo comma dell’articolo possa essere formulato più perspicuamente nel modo seguente: «Per esigenze di utilità collettiva e di coordinamento dell’attività economica, la legge può attribuire agli enti pubblici e alle società cooperative la proprietà di beni e complessi produttivi, sia a titolo originario che mediante esproprio contro indennizzo».

Chiede agli onorevoli Commissari se con la formulazione proposta abbia, come ritiene, esattamente interpretato il pensiero già espresso dalla Sottocommissione.

DOMINEDÒ, premesso che tutto il problema dell’eventuale revisione dell’articolo dovrà evidentemente essere sottoposto all’esame dei Commissari nella prossima seduta, osserva specificatamente che per quanto riguarda il mutamento di terminologia da «proprietà privata» in «proprietà individuale», preferirebbe la prima espressione, comprensiva sia della proprietà individuale che di quella sociale, apparendo tale espressione più accettabile sia dal punto di vista formale che da quello intrinseco, in relazione al superamento della visione individualistica del concetto di proprietà: ma ciò a patto di adottare il termine simbolico di proprietà «pubblica» invece che collettiva. Diversamente, starebbe per «individuale» e «collettiva».

Per quanto riguarda il secondo comma, è d’accordo che la dizione «le forme» mal rende il concetto prevalso nella Sottocommissione e sta a rappresentare quasi un relitto risultante dalle diverse formulazioni originariamente proposte, dal momento che la frase, nel suo testo completo, era stata in un primo tempo così concepita: «modi di acquisto e di godimento».

In merito al terzo comma, non ha difficoltà a che, per una ragione di tecnicismo giuridico, in relazione all’attuale stato di cose, si faccia esplicita menzione delle «società cooperative», come nel primo comma, mantenendo eventualmente la ulteriore menzione delle «comunità di lavoratori e di utenti legalmente riconosciute». Conviene infine nell’opportunità di sostituire, sempre al terzo comma, per maggiore tecnicismo, l’espressione «a titolo originario» all’altra: «riserva originaria».

CANEVARI aderisce alle considerazioni dell’onorevole Dominedò e particolarmente alla proposta di aggiungere alla parola «cooperative» le altre «o le comunità di lavoratori e di utenti». Insiste perché sia detto «o» invece che «e», a significare che si presuppone uno sviluppo che la cooperazione potrà avere nel tempo.

COLITTO rileva che, dove, nel terzo comma del primo articolo, si intenda parlare, oltre che di società cooperative, anche genericamente di comunità, dovrebbero essere menzionate non solo le comunità di lavoratori, ma anche quelle di datori di lavoro, le une e le altre legalmente riconosciute.

Insiste, poi, nel rilevare che le parole «i diritti della collettività», di cui al secondo articolo, sono, oltre che giuridicamente inesatte, anche inutili, perché, dovendo la legge stabilire le norme e i limiti della successione legittima e di quella testamentaria, dovrà la legge stessa stabilire anche i diritti di quella che, sia pure impropriamente, si chiama collettività.

DOMINEDÒ si associa alla proposta di rivedere la formula «i diritti della collettività» dell’articolo 2, qualora la Sottocommissione ritenesse di riprendere in esame la disposizione.

CORBI ritiene che, qualora la Sottocommissione decidesse di rivedere la formulazione dei due articoli, sarebbe opportuno riesaminarne anche alcuni aspetti sostanziali, quale ad esempio quello che si riferisce agli espropri; poiché, come ebbe già ad affermare nella seduta precedente, l’indennità non deve essere consentita in ogni caso.

Per quanto riguarda la proposta dell’onorevole Colitto, di estendere ai datori di lavoro i benefici che verrebbero concessi a comunità di lavoratori, ad enti cooperativistici, ecc., dichiara di non ritenerla accettabile, in quanto tale proposta verrebbe ad infirmare tutto lo spirito dell’articolo, che ha lo scopo fondamentale di favorire il lavoro degli autentici lavoratori, e non altre categorie. L’estensione di questo beneficio ai datori di lavoro potrebbe rappresentare un serio pericolo per tutta la collettività. Potendo infatti lo Stato cadere esclusivamente nelle mani di forze capitalistiche, egoistiche, queste potrebbero trovare in tale articolo un’arma ed un mezzo potentissimi di accaparramento di mezzi economici a danno della collettività; arma e mezzo potentissimi, mai concessi ai datori di lavoro in altre costituzioni.

FEDERICI MARIA si associa alle considerazioni dell’onorevole Dominedò e riconosce esatte le modificazioni proposte dal Presidente rispetto ai concetti accettati dalla Sottocommissione nella precedente seduta.

MERLIN ANGELINA ritiene che, prima di addivenire ad una decisione qualsiasi in materia, si dovrebbe sentire il parere di tutti coloro che hanno votato l’articolo. In merito alle osservazioni fatte, e specialmente a quella concernente i datori di lavoro, si associa pienamente a quanto ha detto l’onorevole Corbi e riconosce che le dichiarazioni del Presidente rispondono al pensiero già manifestato dalla Sottocommissione nella precedente seduta.

PRESIDENTE, non essendosi raggiunto il numero legale per poter prendere qualsiasi decisione in merito alla discussione, rinvia la seduta al giorno successivo, martedì 1° ottobre 1946, alle ore 10.

La seduta termina alle 19.15.

Erano presenti: Canevari, Colitto, Corbi, Dominedò, Federici Maria, Ghidini, Marinaro, Merlin Angelina.

Assenti giustificati: Moro, Noce Teresa.

Assenti: Assennato, Fanfani, Giua, Lombardo, Paratore, Rapelli, Taviani, Togni.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 27 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

14.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 27 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di proprietà (Seguito della discussione)

Presidente – Dominedò – Merlin Angelina – Taviani, Relatore – Canevari – Corbi – Lombardo – Fanfani – Giua – Marinaro.

La seduta comincia alle 17.15.

Seguito della discussione sul diritto di proprietà.

PRESIDENTE comunica che alla fine della seduta antimeridiana, alcuni membri della Sottocommissione si sono riuniti per concordare un testo di articolo che, tenendo conto delle varie opinioni, riassumesse i concetti espressi dal Relatore e dai singoli oratori.

Dà quindi lettura dell’articolo concordato, formulato nei seguenti termini, avvertendo che le frasi fra parentesi sono quelle sulle quali non è stato ancora raggiunto accordo:

«I beni economici possono essere oggetto di diritto di proprietà da parte dei privati, delle comunità (dei lavoratori e degli utenti) e della collettività.

«La proprietà privata è riconosciuta e garantita dallo Stato. La legge ne determina i limiti e le forme allo scopo di farle assumere funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

«Per esigenze di utilità collettiva, di coordinamento dell’attività economica (e di giustizia sociale) la legge può rivendicare agli enti pubblici e alla comunità (dei lavoratori e degli utenti) la proprietà di beni mobili e immobili (di beni singoli o di determinati settori economici) sia mediante riserva originaria, sia mediante esproprio contro indennizzo (salvo i casi previsti dalla legge)».

Desidera fare innanzi tutto un’osservazione, cioè che al 1° comma si dovrebbe dire: «oggetto di proprietà», invece di: «oggetto di diritto di proprietà».

DOMINEDÒ si associa alla proposta del Presidente.

MERLIN ANGELINA è d’avviso che tutto il 1° comma dell’articolo sia superfluo.

TAVIANI, Relatore, fa notare che esso è il frutto di una lunga discussione che non è certo il caso di affrontare una seconda volta.

MERLIN ANGELINA chiede che allora l’articolo sia votato per divisione, in modo che sia possibile astenersi o votare contro.

PRESIDENTE propone che intanto si discuta se si debba lasciare o meno dopo la frase: «delle comunità», la specificazione: «dei lavoratori e degli utenti».

CANEVARI si dichiara favorevole all’aggiunta.

CORBI propone che invece di: «comunità dei lavoratori e degli utenti», si dica: «cooperativistica».

PRESIDENTE osserva che nell’articolazione proposta dall’onorevole Pesenti la formulazione è ancora più esatta, in quanto dice: «La proprietà dei mezzi di produzione e di scambio può essere privata, di cooperativa e di Stato».

CANEVARI si associa alla proposta dell’onorevoli Corbi, anche perché non c’è solo la proprietà di Stato, ma anche quella dei comuni, delle province, delle regioni, ecc.

PRESIDENTE ritiene che allora si potrebbe dire: «Possono essere oggetto di proprietà privata, cooperativistica e collettiva».

LOMBARDO è d’avviso che, se si accetta il 2° comma, la prima parte dell’articolo diventi inutile, essendo superfluo specificare che cosa possa essere la proprietà.

FANFANI rileva che l’articolo è a carattere storico.

LOMBARDO ripete che, a suo avviso, la prima parte è superflua e non ha ragion d’essere. Quando si enuncia che i beni economici possono essere oggetto di diritto di proprietà privata, di comunità, ecc. si deve anzitutto cominciare a sceverare di quali comunità si tratta. Se questo articolo fosse stato formulato un anno fa, quando non si parlava della regione, ci sarebbe stata una lacuna.

PRESIDENTE fa presente che la difficoltà è stata risolta con la parola: «collettiva».

TAVIANI, Relatore, osserva che i vari Commissari hanno rivissuto in tre giorni tutto il tormento della sua relazione che ha richiesto un mese di lavoro e che cominciava inizialmente con le parole: «La proprietà può essere privata o collettiva». Gli onorevoli Colitto, Marinaro e Merlin, durante uno scambio di idee non ufficiale fra i Relatori, si erano ribellati proprio all’aggettivo: «collettiva».

GIUA propone di dire: «collettivistica».

PRESIDENTE preferirebbe la dizione: «delle cooperative e della collettività».

GIUA propone di tralasciare per ora questa parte, riservando di parlarne in sede di coordinamento.

PRESIDENTE non ritenendo opportuna la proposta dell’onorevole Giua, propone la dizione: «di proprietà privata, delle cooperative e collettiva».

FANFANI osserva che in tal modo si limita troppo la dizione, in quanto si viene a permettere che una collettività di lavoratori possa ottenere domani la proprietà di uno stabilimento, anche non nella tradizionale forma classica della cooperativa.

CANEVARI osserva che, se è un sindacato, la proprietà divenga collettiva.

DOMINEDÒ ribadisce che sarebbe probabilmente proprietà collettivistica.

GIUA ritiene che, oltre alle tre forme elencate, non ve ne siano altre possibili.

FANFANI non trova molto chiara la definizione di: «collettivistica», ritenendo che si tratti sempre di proprietà private associate.

DOMINEDÒ, pur riconoscendo quanto v’è di vero nel rilievo che la cooperativa è formalmente una specie di società privata, osserva che, anche a prescindere dalle future riforme del diritto speciale, la differenza è oggi sociale piuttosto che giuridica: socialmente c’è il fatto della gestione comune, parallela alla gestione collettivistica.

PRESIDENTE ritiene che nella definizione: «delle comunità dei lavoratori e degli utenti» sia compreso tutto.

LOMBARDO non la ritiene sufficiente.

FANFANI osserva che se si fa una elencazione, è necessario farla completa.

LOMBARDO propone di togliere il primo comma che aveva soltanto lo scopo di inserire nell’articolo l’aggettivo: «privata»; ma siccome si è poi chiarito che non vi era nessuna intenzione di ledere il sacrosanto principio della proprietà privata, ritiene che ora sia superfluo lasciarlo.

PRESIDENTE, dato che queste comunità o sono enti privati, come le cooperative, o sono enti pubblici, crede che basterebbe sopprimere la parola: «comunità» e dire: «oggetto di proprietà da parte dei privati e della collettività».

CANEVARI osserva che non bisogna dimenticare che la cooperativa deve essere considerata come un ente privato, ma con scopi sociali, e quindi soggetto a vigilanza.

GIUA ritiene che non si possa escludere la possibilità che si formino cooperative a carattere sociale. Insiste nel proporre di discutere questa parte in sede di coordinamento.

Sull’inutilità del primo comma, sostenuta dall’onorevole Lombardo, pur essendo dubbio se delle affermazioni dottrinarie siano o meno necessarie nella Costituzione, osserva che tutte le Costituzioni ne hanno; ritiene quindi che anche nella nostra non possono essere omesse del tutto.

TAVIANI, Relatore, propone di porre in votazione il secondo e terzo comma, rimettendo successivamente alla discussione dell’intiera Commissione l’opportunità o meno di inserire il primo, che nella sostanza è accettato da tutti: si tratta di una questione formale che si vota per quello che dice nella sostanza. Ritiene che la proposta dell’onorevole Giua vada completata in questo senso: che si debba essere tutti d’accordo sulla sostanza del primo comma, di modo che il fatto di lasciarlo o meno sia un giudizio puramente formale; si potrà sempre mettere a verbale che i pareri sono divisi circa l’opportunità di inserirlo, dato che taluni lo ritengono superfluo.

PRESIDENTE ritiene che in tal modo la questione venga protratta, ma non risolta.

TAVIANI, Relatore, fa presente che se la Sottocommissione vota oggi questo comma, cioè che la proprietà può essere privata, cooperativistica e collettiva, e poi nella Commissione plenaria viene proposto un emendamento per toglierlo, tale progetto di emendamento verrebbe ad assumere un significato sostanziale. Ad evitare tale possibilità, propone che la Sottocommissione si metta d’accordo sulla sostanza, precisando bene la questione delle cooperative, delle comunità, ecc.; una volta precisato questo, si potrà dire che il comma ha un valore di pura definizione teorica.

PRESIDENTE è d’avviso di lasciare: «proprietà privata e collettiva».

GIUA osserva che si è in periodo di transizione e quindi nella necessità di affermare questa forma di proprietà cooperativistica, che è intermedia tra la proprietà privata e quella collettiva e che ha dei legami con quella che è la proprietà del singolo e la proprietà pubblica. Pure accettando la distinzione pura e semplice di proprietà privata e collettiva, vorrebbe che fosse inserita la specificazione: «cooperativistica», per stabilire che le cooperative non sono intese nel senso ordinario di proprietà privata, ma nel senso intermedio tra proprietà privata e pubblica.

DOMINEDÒ si associa a quanto ha detto l’onorevole Giua, considerando che bisogna tener presente il passaggio dal momento statico della proprietà al momento dinamico dell’impresa.

PRESIDENTE ritiene che la formulazione dovrebbe essere allora la seguente: «oggetto di proprietà privata, cooperativistica e collettiva».

LOMBARDO insiste per l’abolizione del primo comma. In caso di mantenimento, dichiara di non essere contrario al termine: «cooperativistica».

TAVIANI, Relatore, tiene a precisare il suo pensiero nel senso che egli è favorevole a che si voti la sostanza del primo comma; ma se un comma dichiarativo di questo genere deve essere premesso all’articolo, allora il comma dovrà essere quello proposto e non altro. Sarà poi rimessa alla Commissione plenaria la decisione circa l’utilità o superfluità del comma stesso.

PRESIDENTE non è di questo avviso in quanto o il comma è inutile e allora non si vota, o è utile e allora bisogna votarlo. Ritiene che si possa passare quindi alla votazione del primo comma.

TAVIANI, Relatore, per dichiarazione di voto afferma che voterà contro, non perché sia contrario alla sostanza, ma in quanto ritiene il comma superfluo.

LOMBARDO per dichiarazione di voto si associa a quanto ha affermato l’onorevole Taviani.

PRESIDENTE mette ai voti il primo comma, di cui dà lettura: «I beni economici possono essere oggetto di proprietà privata, cooperativistica e collettiva».

(È approvato).

Pone in discussione il secondo comma, così concepito: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dallo Stato. La legge ne determina i limiti e le forme, allo scopo di farle assumere funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».

Propone, innanzi tutto, di dire: «le forme e i limiti» e non viceversa.

MERLIN ANGELINA ritiene che il comma possa essere formulato nel modo seguente: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dallo Stato: la legge ne determina le forme e i limiti. La proprietà deve assumere funzione sociale e deve essere accessibile a tutti».

LOMBARDO si associa alla proposta della onorevole Merlin.

CORBI, dato che tutti sono d’accordo sulla sostanza, ritiene che non si debba arrivare affrettatamente alla votazione, ma trovare un punto di incontro per la forma.

PRESIDENTE non crede che le differenze siano soltanto formali.

FANFANI è del parere che il testo primitivo sia tale da tranquillizzare. In altri termini si vuole che il proprietario non dimentichi che la proprietà ha una funzione sociale; sarà poi compito del legislatore di correggere gli spropositi e gli eccessi di libertà.

MERLIN ANGELINA replica che la sua preoccupazione sta proprio nel fatto che possa mancare l’intervento del legislatore.

FANFANI ritiene, allora, che il testo proposto dalla onorevole Merlin non sia il più indicato ad evitare l’inconveniente.

LOMBARDO si dichiara convinto delle obiezioni dell’onorevole Fanfani.

MERLIN ANGELINA dichiara di non insistere nella sua proposta.

PRESIDENTE mette ai voti il secondo comma, con la sola inversione delle parole: «le forme e i limiti».

(È approvato all’unanimità).

Apre la discussione sul terzo comma, così concepito: «Per esigenze di utilità collettiva e di coordinamento dell’attività economica, la legge può rivendicare agli enti pubblici e alle comunità di lavoratori e di utenti la proprietà di beni mobili ed immobili o di complessi produttivi, sia mediante riserva originaria, sia mediante esproprio contro indennizzo».

Fa presente che taluni Commissari vorrebbero che alla fine del comma fosse specificato: «salvo i casi fissati dalla legge».

FANFANI ritiene che in questo terzo comma sia bene lasciare la dizione: «comunità di lavoratori e di utenti» e non cambiarla in: «cooperativistica».

DOMINEDÒ invece di: «rivendicare», direbbe più rigorosamente: «conferire», oppure: «attribuire».

CORBI dichiara di preferire il termine: «rivendicare».

PRESIDENTE preferisce: «attribuire». Inoltre al posto delle parole: «complessi produttivi», metterebbe le altre: «imprese e aziende».

TAVIANI, Relatore, volendo fare una specificazione, preferirebbe che si tornasse alla primitiva dizione: «di beni singoli e di determinati settori economici».

FANFANI osserva che l’espressione: «beni singoli» non ha senso.

LOMBARDO propone di parlare soltanto di: «determinati settori economici».

DOMINEDÒ dichiara che l’espressione: «beni mobili ed immobili» sia comprensiva di tutto.

FANFANI propone quindi in tal caso di abolire l’espressione: «complessi produttivi».

LOMBARDO rileva che l’avviamento, ad esempio, non è compreso nella dizione: «beni mobili ed immobili».

DOMINEDO osserva che l’avviamento è un bene incorporale, o una qualità dell’azienda. Inoltre, riferendosi alla proposta del Presidente, parlerebbe di: «aziende» e non di: «imprese».

FANFANI rileva che l’espressione: «complesso produttivo» risponde ad un’esigenza moderna e serve a determinare un complesso di aziende ed una concatenazione di imprese. È una terminologia non accettata volentieri dai giuristi, ma della quale non si può fare a meno.

 

TAVIANI, Relatore, propone di dire semplicemente: «beni e complessi produttivi».

DOMINEDÒ e CANEVARI concordano.

LOMBARDO si dichiara contrario ad aggiungere alla fine del comma la limitazione: «salvo i casi fissati dalla legge».

PRESIDENTE fa presente che secondo dottrina e anche giurisprudenza l’indennizzo di una lira è considerato come rinunzia al rifacimento dei danni.

Il concetto di «indennizzo» implica l’altro di adeguatezza e a suo parere nessun indennizzo è dovuto, eccezionalmente, nel caso, ad esempio, del proprietario che abbandona completamente la coltivazione del suo potere.

CANEVARI ritiene che la legge debba essere libera di stabilire anche l’esproprio senza indennizzo.

LOMBARDO a tal fine propone di dire: «con riserva di indennizzo».

FANFANI preferirebbe: «sia mediante esproprio contro indennizzo, salvo contraria disposizione».

DOMINEDÒ osserva che, se si riconosce il diritto di proprietà, si deve essere conseguenti nello stabilire come regola precisa e generale il diritto all’indennizzo. L’ipotesi eccezionale prospettata dal Presidente può trovare eccezionali soluzioni, che non spetta alla Carta costituzionale contemplare. L’ordinamento giuridico non è insensibile a queste esigenze.

PRESIDENTE rileva che l’ipotesi da lui fatta trova riscontro in una disposizione del Codice civile: cioè nel caso dell’abbandono del proprio fondo, nel quale è ammesso l’esproprio.

LOMBARDO ritiene che vi siano due sole soluzioni, cioè o la riserva di indennizzo, o contro indennizzo.

FANFANI osserva che il caso positivo è quello dell’indennizzo; il caso negativo quello senza indennizzo.

«Riserva di indennizzo» vuol dire che la regola è «senza indennizzo» Non si può dire che il legislatore si riserva di determinare l’indennizzo, in quanto bisogna essere coerenti rispetto al comma secondo, come ha detto l’onorevole Dominedò.

CANEVARI ritiene che la proposta del Presidente sia intermedia, in quanto lascia alla legge la facoltà di stabilire secondo i casi.

PRESIDENTE dato che, una volta riconosciuto il diritto di proprietà, è giusto prevedere l’indennizzo, propende per la dizione «mediante esproprio contro indennizzo, salvo i casi fissati dalla legge».

TAVIANI, Relatore, dichiarandosi d’accordo sulla necessità che si debbano espropriare senza indennizzo le proprietà dagli speculatori, osserva che in questo caso non si effettua l’esproprio per pubblica utilità, ma bensì la confisca, in quanto la proprietà è ingiustamente formata. Anzi non esiste in questo caso la proprietà.

Ma quando la proprietà è legittimamente costituita, allora il giusto indennizzo deve essere riconosciuto. Ricorda che nell’articolo da lui inizialmente proposto era detto: «contro giusto indennizzo». Dato che l’onorevole Corbi ha sostenuto che dall’espressione «giusto» poteva derivare la possibilità o meno di fare la riforma agraria, per spirito di conciliazione ha rinunziato a quell’espressione che, dal punto di vista logico, riteneva esatta. Prega però che nell’articolo sia almeno lasciato il termine «indennizzo».

PRESIDENTE non comprende come sia possibile espropriare senza indennizzo una proprietà formata attraverso la speculazione o un terreno non coltivato, senza mutare profondamente l’istituto della confisca, il quale è attualmente subordinato alla condanna o a casi di vietata detenzione, alienazione, ecc.

TAVIANI, Relatore, dichiara che sentiva tanto questa esigenza, da aver proposto la formula della «proprietà frutto del lavoro e del risparmio». Ma osserva che si tratta di due problemi diversi: uno è quello dell’esproprio di proprietà legittima, che però deve essere espropriata per motivi di utilità pubblica o di coordinamento delle attività economiche; l’altro è il problema della proprietà mal formata e mal usata.

MARINARO ritiene che l’indennizzo sia la logica necessaria conseguenza del principio affermato nella prima parte dell’articolo: una volta riconosciuto e garantito il diritto di proprietà privata, non si può giungere che a quella conseguenza. Lo Stato può espropriare per ragioni di carattere generale, ma non può lasciare il proprietario senza indennizzo; altrimenti violerebbe il principio fondamentale del diritto di proprietà già riconosciuto.

FANFANI ricorda che sebbene nella Costituzione non vi sia un articolo che si occupa del furto, ciò nonostante i codici hanno proibito il furto.

Osserva che la proprietà si può considerare da tre punti di vista: 1°) proprietà illegittimamente formata, per la quale non si può parlare di esproprio, ma vi saranno leggi speciali che la elimineranno; 2°) proprietà legittimamente formata e male usata, e tal caso sarà preso in considerazione nella parte riguardante il diritto di impresa; 3°) proprietà legittimamente formata e utilizzata appieno, ma che, per esigenza di utilità collettiva o di coordinamento delle attività economiche, conviene riservare a determinati enti (e questo è il caso che riguarda la terza Sottocommissione) e allora vi è il diritto all’indennizzo.

PRESIDENTE dichiara di accettare la distinzione e, con l’intesa che se ne ridiscuterà in sede di esame dell’impresa, rinuncia all’inciso: «salvo i casi fissati dalla legge».

Mette ai voti l’ultimo comma dell’articolo nella seguente formulazione:

«Per esigenze di utilità collettiva e di coordinamento dell’attività economica, la legge può attribuire agli enti pubblici e alle comunità di lavoratori e di utenti la proprietà di beni o di complessi produttivi, sia mediante riserva originaria, sia mediante esproprio contro indennizzo».

(È approvato all’unanimità).

TAVIANI, Relatore, dà lettura dell’articolo sull’eredità da lui proposto nella relazione:

«Il diritto di trasmissione ereditaria è garantito. Spetta alla legge stabilirne le norme e i limiti sia della successione nell’ambito della famiglia, sia di quella testamentaria.

«Spetta pure alla legge determinare la parte che lo Stato preleva sulla eredità».

Ritiene che la formulazione sia sufficientemente chiara; desidera soltanto mettere in evidenza che il prelievo da parte dello Stato non ha soltanto scopo fiscale, ma scopo sociale, di ridistribuzione.

FANFANI ritiene che il contenuto di questo articolo sia già compreso in quello precedentemente votato, là dove è detto: «La legge determina le forme e i limiti della proprietà». Con questo, evidentemente, lo Stato, riconoscendo la proprietà, deve anche riconoscerne il trasferimento. A suo avviso, il nuovo articolo è quindi superfluo.

Osserva inoltre che, per quanto riguarda il prelievo, se è a scopo fiscale, non è questa la sede per parlarne; se è a scopo sociale, è già stato contemplato nel precedente articolo.

TAVIANI, Relatore, fa presente che nelle varie Costituzioni è contemplato questo concetto, derivante dal fatto che l’eredità è una proiezione della proprietà.

PRESIDENTE propone la dizione: «Il diritto di trasmissione ereditaria è garantito.

Spetta alla legge stabilire le norme e i limiti sia della successione legittima, sia di quella testamentaria».

DOMINEDÒ non ritiene che l’articolo sia un pleonasma, perché si potrebbero concepire delle ipotesi di proprietà non proiettate in tutto o in parte nel tempo.

FANFANI chiede se tale prelievo sull’eredità non possa essere destinato ad enti minori dello Stato.

CANEVARI è d’avviso di completare il primo articolo sulla proprietà inserendovi questi concetti.

DOMINEDÒ propone di depennare la seconda parte dell’articolo, dove è detto: «Spetta pure alla legge, ecc.».

FANFANI, concordando con l’onorevole Dominedò, rileva che il tempo e la entità del prelievo della ricchezza da parte dello Stato saranno determinati dal legislatore ordinario.

PRESIDENTE, siccome la tassa di successione intacca profondamente il diritto di proprietà, ritiene che non sia anticostituzionale fissare il principio nella Costituzione, anche in considerazione che altre ne parlano. Non si tratta di stabilire il quantum, ma solo il diritto alla tassazione, vedendo anche se non sia il caso di tener presente il carico familiare.

FANFANI propone di aggiungere al 2° comma: «come pure le quote riservate alla collettività».

MARINARO preferirebbe la dizione «come pure i diritti riservati alla collettività».

PRESIDENTE mette ai voti l’articolo così formulato: «Il diritto di trasmissione ereditaria è garantito. Spetta alla legge stabilire le norme e i limiti della successione legittima, di quella testamentaria e i diritti della collettività».

(È approvato).

La sedata termina alle 19.25.

Erano presenti: Canevari, Corbi, Dominedò, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Lombardo, Marinaro, Merlin Angelina, Rapelli e Taviani.

Assenti giustificati: Colitto, Molè, Noce Teresa.

Assenti: Assennato, Paratore, Togni.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 27 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

13.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 27 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di proprietà (Seguito della discussione)

Presidente – Federici Maria – Taviani, Relatore – Giua – Dominedò – Fanfani – Assennato – Marinaro – Lombardo – Corbi.

La seduta comincia alle 9.20.

Seguito della discussione sul diritto di proprietà.

PRESIDENTE dà lettura dei seguenti articoli, risultanti dalla discussione della precedente riunione.

Articolo proposto dall’onorevole Taviani:

«La Repubblica riconosce e garantisce il diritto di proprietà privata. Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e col risparmio.

«La legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto e il trasferimento, i limiti e le modalità di godimento, allo scopo di assicurare che la proprietà privata risponda, oltre che ad una funzione personale, alla sua funzione sociale. In conformità agli interessi della produzione, la legge favorirà lo sviluppo della proprietà cooperativa e della piccola proprietà».

Articolo proposto dall’onorevole Corbi:

«La Repubblica riconosce e garantisce il diritto di proprietà privata.

«La legge determinerà le norme che ne regolano i limiti, l’acquisto, il trasferimento, le modalità di godimento, allo scopo di impedire che essa arrechi pregiudizio alla proprietà altrui e contrasti con gli interessi del lavoro e della collettività, per favorire invece la proprietà cooperativa e la piccola proprietà nell’interesse della produzione».

Articolo proposto dall’onorevole Fanfani:

«La proprietà privata è riconosciuta e garantita dallo Stato.

«La legge ne determinerà i limiti di estensione, i modi di acquisto, di uso e di trasferimento, anche a titolo ereditario, allo scopo di farla adempiere alla sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».

Articolo proposto dall’onorevole Lombardo (modificato dall’onorevole Ghidini):

La proprietà è riconosciuta e garantita dallo Stato nelle forme e nei limiti stabiliti dalla legge.

«Il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente alla utilità sociale o in modo da arrecare pregiudizio alla libertà e ai diritti altrui, ma dovrà esserlo in conformità all’interesse della collettività».

Tiene a precisare di aver modificato quest’ultimo articolo, in seguito al rilievo fatto dall’onorevole Taviani che in esso erano contenute affermazioni soltanto negative, mentre lo Stato deve intervenire in forma positiva, allo scopo che la proprietà venga esercitata in conformità agli interessi della collettività.

FEDERICI MARIA propone di cominciare l’esame dalla formulazione proposta dal Relatore.

TAVIANI, Relatore, rende noto che, tenendo conto delle esigenze sue e degli onorevoli Corbi e Fanfani, nonché avendo rinunziato ciascuno ad una parte delle proprie posizioni, l’articolo potrebbe anche formularsi così:

«La Repubblica riconosce e garantisce il diritto di proprietà privata.

«La legge determinerà le norme che ne regolano i limiti, l’acquisto, il trasferimento è le modalità di godimento, allo scopo di farla adempiere ad una funzione sociale e di renderla accessibile a tutti, favorendo la proprietà cooperativa e la piccola proprietà.

«L’esercizio del diritto di proprietà privata non potrà essere in contrasto con gli interessi del lavoro ed i programmi economici dello Stato (o della collettività), in modo da arrecare pregiudizio alla proprietà altrui, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana col deprimere il livello di esistenza al disotto del minimo determinato dai bisogni umani essenziali».

PRESIDENTE, circa il 1° e il 2° comma, gli sembra che la formulazione sia incompleta, in quanto mancante di qualsiasi riferimento alla proprietà collettiva. Per quanto riguarda la 3a parte, non ha osservazioni da fare. Se non era, è interamente tratta dalla relazione Pesenti.

TAVIANI, Relatore, risponde al Presidente che per la proprietà collettiva potrà farsi un apposito articolo. Nel 2° comma sono state concordate le esigenze della funzione sociale e della accessibilità di tutti alla proprietà, mediante le cooperative e la piccola proprietà. Nel 3° comma è stata analiticamente spiegata l’espressione «funzione sociale». Il contenuto di questo comma avrebbe dovuto essere inserito nel secondo, ma per ragioni di forma si è preferito farne un comma a parte.

GIUA rileva che l’articolo proposto presenta tutti gli inconvenienti che sono propri di una formulazione concordata. Avrebbe potuto ammettere una formulazione sintetica che comprendesse tutti i vari concetti, ma l’aver preso una parte da ogni articolo che rappresenta una diversa tendenza, ha portato a creare una formulazione che non può soddisfare né, in particolare, il suo punto di vista, né, in generale, quello giuridico. Quando infatti si dice che lo Stato deve favorire la piccola proprietà e la proprietà cooperativa, si afferma un concetto che domani potrebbe essere in opposizione con l’evoluzione sociale ed attualmente potrebbe dar luogo a contrasti che faranno sentire la loro eco anche in Parlamento.

Come ha affermato nella precedente riunione, non spetta alla Commissione di svolgere idee programmatiche, come sarebbe avvenuto se il suo partito avesse avuto la maggioranza, ma, data la situazione di transizione che attraversa l’Italia, crede che sia invece necessario dare al popolo l’impressione che la Costituzione si basi su principî ben netti che non contrastino gli uni con gli altri. In realtà lo Stato non può favorire contemporaneamente la piccola proprietà e quella cooperativa, che sono due cose antitetiche. Non sarebbe tuttavia alieno dal lasciare ambedue i termini, perché da un lato la piccola proprietà già esiste di fatto e dall’altro, se si arriverà a favorire effettivamente la proprietà cooperativa, sorgeranno tante forme di vere e false cooperative che quella che oggi è l’eccezione, domani diventerà la norma generale.

Preferirebbe perciò adottare la formula proposta dall’onorevole Lombardo, nella dizione modificata dall’onorevole Ghidini, che, per quanto non lo soddisfi interamente, è tuttavia la più sintetica, pur abbracciando tutti i principî che sono emersi negli altri articoli preposti. Può anche errare, ma ritiene che non vi siano differenze sostanziali tra la formula Lombardo e quella di cui ha dato lettura l’onorevole Taviani, la quale, specialmente nell’ultima parte, è troppo estesa e caotica.

Nella dizione dell’onorevole Lombardo vede però malvolentieri l’espressione «è riconosciuta» che è troppo impegnativa e aggiungerebbe alla parola «proprietà» la specificazione «privata».

PRESIDENTE è contrario a parlare specificatamente di proprietà privata. Gli sembra che in sostanza si verrebbe a formulare tutto l’articolo basandolo esclusivamente sulla proprietà privata e cooperativa, trascurando invece la proprietà collettiva.

GIUA fa rilevare all’onorevole Ghidini che di fatto in Italia si ha solo la proprietà privata (anche la proprietà cooperativa è in fondo privata), perché quella dello Stato, delle provincie e dei comuni non può certamente considerarsi collettiva. Si avrebbe quindi nella Costituzione un termine di cui non si conosce il valore.

TAVIANI, Relatore, non avrebbe nulla in contrario ad iniziare l’articolo con la seguente affermazione: «La proprietà può essere privata o pubblica».

DQMINEDÒ per venire incontro al desiderio dell’onorevole Ghidini, farebbe precedere all’articolo la seguente dizione: «La proprietà può essere individuale, cooperativa e collettiva», ovvero: «La proprietà può essere privata, cooperativa, pubblica».

TAVIANI, Relatore, ricorda che egli in precedenza aveva proposto di dire: «La proprietà può essere privala e collettiva», ma tale dizione non fu accettata, perché si affermò che il concetto di proprietà collettiva non era ancora giuridicamente riconosciuto.

GIUA fa rilevare al Presidente che in regime borghese non può parlarsi di proprietà collettiva nel senso socialista, in quanto anche la proprietà statale o demaniale non può essere considerata collettiva. A tale tipo di proprietà non si potrà giungere fin quando non saranno radicalmente mutate le norme giuridiche che attualmente regolano i rapporti tra produzione e consumo.

PRESIDENTE, come ha già detto, ritiene che la Costituzione non debba consacrare i soli istituti esistenti, ma anche provvedere per quelli che saranno nel futuro. Una Costituzione la quale non facesse che consacrare e difendere quello che è ora in atto, senza preoccuparsi anche di quelle che possono essere le esigenze future, non raggiungerebbe, a suo modo di vedere, il suo vero scopo.

Comprende un tipo di Costituzione che consacri, come quella russa, un regime vigente, in quanto tutti gli ordinamenti hanno subito profonde e radicali trasformazioni; ma in un periodo di transizione, di mutamenti di istituti sociali, giuridici ed economici come è quello attuale, la Costituzione non può e non deve soltanto consacrare lo stato presente, ma deve intravedere quello che ci sarà nel domani, senza negare la libertà alla volontà popolare del futuro.

Per questi motivi ama parlare di proprietà collettiva, non come qualche cosa che attualmente esiste, ma nel senso invece di una possibilità a venire. D’altra parte non si sente nemmeno disposto a legarsi in modo assoluto al concetto di difesa e incremento della piccola proprietà a suo giudizio spesso antieconomica alla quale in vista di una finalità futura preferirebbe la grande proprietà industrializzata e socializzata. Se si accedesse al suo punto di vista, parlerebbe solo di proprietà, senza specificare se privata, cooperativa o collettiva. Se invece si inseriscono le specificazioni di proprietà privata e cooperativa, dovrebbe essere anche fatto cenno a quella collettiva, perché il primo tipo di proprietà rappresenta l’oggi, il secondo il domani, il terzo il dopodomani.

GIUA ripete che attualmente, in un articolo della Costituzione, non si può parlare di proprietà collettiva. L’onorevole Ghidini crede e questo è il dissidio in famiglia che formulando una Costituzione elastica si possa giungere, attraverso gradì successivi, alla società socialista. Nega recisamente che attraverso tale elasticità si possa raggiungere questo risultato, anche perfezionando la Costituzione, perché il passaggio tra lo stato presente e la società socialista del domani avverrà solo attraversò un salto brusco, o conato rivoluzionario che porterà ad una Costituzione completamente nuova.

PRESIDENTE ritiene che sarebbe preferibile, se fosse possibile, evitare i salti bruschi.

DOMINEDÒ pensa che la preoccupazione dell’onorevole Ghidini trovi risposta negli intendimenti originari della relazione Taviani, la quale snoda tre ipotesi della proprietà: individuale, cooperativa e collettiva.

Desidera chiarire che quando si parla di proprietà collettiva, si intende alludere a qualche cosa di ben diverso dalla proprietà demaniale o sociale. La prima, fra l’altro, si differenzia dalla proprietà collettiva per il fatto di essere formalmente imprescrittibile e inalienabile; la seconda è anch’essa individuale in quanto fa capo ad un ente a cui è riconosciuta una personalità giuridica. La proprietà collettiva deve invece rispondere all’avvento di quel mondo nuovo cui mirano anche l’oratore e il suo gruppo. Non avrebbe quindi alcuna difficoltà ad un’enunciazione con la quale si affermasse che la proprietà può essere individuale, cooperativa e collettiva, intendendosi però che quando si parla di funzione sociale, ci si vuole riferire alla sola proprietà individuale, per la quale appunto sorge il particolare problema di contemperare individualità e socialità.

Chiariti questi concetti fondamentali, ritiene che la Sottocommissione si trovi di fronte a due ipotesi: o premettere esplicitamente la indicazione dei tre tipi di proprietà, ovvero limitarsi ad una enunciazione di principio e poi, nello snodarsi dei singoli articoli, con senso storicistico, vedere quali delle tre ipotesi debbano essere tradotte in norme della Carta costituzionale, in modo da evitare la possibilità di salti bruschi per il futuro.

FANFANI chiede ai colleghi di spiegare che cosa si intende per proprietà privata, cooperativistica e collettiva.

DOMINEDÒ spiega che la proprietà collettiva è diversa dalla proprietà demaniale. Si tratta di qualche cosa di nuovo e di diverso rispetto alla tradizionale proprietà di diritto pubblico e alla proprietà demaniale strettamente intesa. Le proprietà demaniali si concretano per loro natura nella destinazione inalienabile di determinati beni dello Stato o dei comuni; per quelle collettive invece non v’è un uguale concetto della inalienabilità. È possibile passare dalla gestione individuale alla collettiva o da quella collettiva a forme miste o addirittura individuali, ad esempio in tema di trasporti, perché in tale caso manca un rigoroso presupposto di inalienabilità; questo è il fatto giuridico differenziale, e occorre trovare una formula rispondente a questo concetto.

FANFANI non è d’accordo: la proprietà collettiva è riservata alla intera collettività e non è alienabile.

PRESIDENTE osserva che una piazza è una proprietà inalienabile; ma se se ne modifica la destinazione può diventare alienabile. Il concetto di inalienabilità è vero solo in quanto glielo attribuisce lo Stato; quindi è valido fino ad un certo momento, ma non lo è in senso assoluto e perpetuo.

DOMINEDÒ ha dato un primo concetto della demanialità, ma si avvede che l’idea va approfondita. Non v’è dubbio che la demanialità comporti la non alienabilità e la non trasformabilità fino a che duri la stessa destinazione; ma l’essenziale è che questa operi per legge naturale, mentre, parlando di proprietà collettiva, le cose stanno diversamente. Un impianto potrebbe essere ridotto, aumentato o trasformato, e potrebbe avvenire il passaggio dalla gestione collettiva ad un’altra forma, diretta o indiretta; non esiste più il concetto rigoroso della inalienabilità o intrasformabilità; subentra una discrezionalità e una latitudine di manovra ben diversa. Chiede se ci possa essere una maggiore precisazione del concetto. Ritiene che questo sia compito del domani, occorrendo porre l’accento piuttosto sull’aspetto dinamico che su quello statico, essendo l’impresa collettiva quella che meglio esprime il significato di una gestione il cui fine è rivolto nell’interesse diretto della generalità. Si intende forse che questa proprietà collettiva non vada allo Stato? Ritiene evidente che debba andare allo Stato.

MARINARO prega i colleghi di precisare dove si trova determinato il concetto della proprietà collettiva al quale si è accennato.

DOMINEDÒ risponde che nel sistema vigente non esiste questa determinazione.

MARINARO afferma che per il momento si conosce la proprietà demaniale e quella di diritto pubblico. Qui si parla di proprietà collettiva, come se se ne facesse menzione nei codici o nelle leggi, mentre non è così. Ed allora ritiene innanzitutto necessario precisare il concetto di tale proprietà sino ad oggi inesistente.

PRESIDENTE risponde che il concetto di demanialità si differenzia dagli altri e un elemento per differenziarlo è quello accennato della inalienabilità. La differenza potrebbe essere in questo: che la proprietà demaniale ha una funzionalità in rapporto al servizio al quale è destinata, mentre la collettiva ha una funzionalità più che altro economica e produttiva.

Il fatto che non ci sia ancora non vuol dire che non possa esservi in avvenire; ed allora occorre prevedere il domani, se non si vuol fare una Costituzione che si chiuda in quello che vi è già.

Se si stabilisce che la Costituzione deve considerare solo quello che già esiste, è disposto a votare l’articolo proposto dall’onorevole Taviani; ma se si vuole proiettare nel futuro l’efficienza della Costituzione, si può parlare anche della proprietà collettiva.

TAVIANI, Relatore, fa una dichiarazione pregiudiziale. Rifiuta l’affermazione del Presidente che accetterebbe l’articolo nel caso che si volesse sanzionare solo il passato. Afferma che la sua formulazione è innovatrice. Ricorda che la sua prima formulazione, discussa in una adunanza dei Relatori, cominciava con le parole: «La proprietà può essere privata e collettiva». Gli onorevoli Colitto e Marinaro fecero allora le stesse osservazioni che oggi ha ripetuto l’onorevole Marinaro, cioè che non esiste nella legislazione il concetto di proprietà collettiva, ma solo quello di proprietà privata e demaniale. Quindi o si resta alla vecchia formulazione giuridica, e si può benissimo cominciare dicendo: la proprietà può essere privata o pubblica; o si vuole aprire la strada a qualche cosa di nuovo, cioè a questo istituto di una proprietà che non è demaniale, chiamandola proprietà collettiva; ma allora occorre distinguere la proprietà cooperativa da quella collettiva; e a questo non ha nulla in contrario. Si tratterà di intendersi sulla formulazione specifica e precisare che per collettiva si intende quella proprietà che, appartenendo alla società, si prefigge uno scopo sociale.

Ripete che, sia che si parli di proprietà cooperativa e collettiva, sia che si formuli un comma dedicato esclusivamente alla proprietà collettiva, egli, l’onorevole Dominedò e altri sono intransigenti su una proposizione in cui si riconosca e garantisca il diritto di proprietà privata, perché, se così non fosse, si determinerebbe la deprecata divisione della Commissione.

PRESIDENTE nota che la divergenza è sulla premessa, perché sulle altre deduzioni vi sarebbe l’accordo.

LOMBARDO si dichiara disposto ad accettare la premessa togliendo la parola «privata».

Passando ad esaminare l’articolo nella nuova formulazione proposta dal Relatore, punto per punto, trova superfluo dire: «La legge determinerà le norme che ne regolano i limiti, l’acquisto, il trasferimento e le modalità di godimento», perché tutto questo si riferisce alla proprietà privata.

In seguito si dice: «allo scopo di farla adempiere ad una funzione sociale (questa è una limitazione) e di renderla accessibile a tutti», e trova che qui si tratta di cosa che già esiste, e che non occorre ripetere per non accordare, con questa dizione, troppo favore alla piccola proprietà e a quella cooperativa, in quanto nel futuro possono venir modificati i concetti di proprietà da qualche rivolgimento di carattere scientifico.

Personalmente poi, se deve ispirarsi alla sua ideologia, non direbbe «favorendo la proprietà cooperativa e la piccola proprietà»; preferirebbe non specificare, perché il concetto di proprietà si può evolvere attraverso il tempo.

Osserva che invece dell’espressione «in contrasto con gli interessi del lavoro, ecc.». si limiterebbe a dire che la proprietà non può essere in contrasto con l’utilità sociale; così sarebbe detto tutto, perché gli interessi del lavoro rientrano nell’ambito della utilità sociale e, se vengono delimitati con indicazioni precise, possono diventare, ad un certo momento, una beffa, perché l’interesse del lavoro di oggi può essere negato o superato domani.

Poi si dice: «in modo da recare pregiudizio alla proprietà altrui, alla sicurezza»; chiede se si vuol parlare della sicurezza individuale o di quella della proprietà.

Si parla poi di libertà e di dignità umana, ma ritiene che il concetto di dignità umana sia assorbito dal concetto di libertà: non c’è dignità umana, se non c’è libertà.

Infine trova elastica l’espressione «bisogni umani essenziali» perché, se ci si riporta al 1917, ad esempio, 700 grammi di pane al giorno potevano essere sufficienti per pagare un individuo che dovesse provvedere ai suoi bisogni umani essenziali, ma è molto differente se si considerano i bisogni di oggi e quelli assai più vasti di domani.

Quindi gli sembra che l’articolo sia limitativo: la formulazione deve avere il carattere più ampio possibile e permettere di porre a fuoco la situazione di oggi e quella che sarà domani, di procedere verso quelle finalità sociali alle quali il cammino è aperto.

Tornerebbe alla formula del Presidente che gli sembra possa includere con sufficiente latitudine tutti gli aspetti di quella che è l’interpretazione odierna della proprietà e di quella che sarà nel futuro.

ASSENNATO si dichiara d’accordo con l’onorevole Lombardo. Accetta, per la prima parte dell’articolo, la formula: «La Repubblica riconosce e garantisce il diritto di proprietà».

Crede che i colleghi saranno d’accordo nel riconoscere l’opportunità di non porre una premessa che definisca la vecchia forma di proprietà.

Seguiterebbe poi la formulazione nei seguenti termini:

«La legge determinerà le norme che ne regolano i limiti, le forme e le modalità allo scopo di farla adempiere ad una funzione sociale e renderla accessibile a tutti, attraverso le varie forme.

«L’esercizio del diritto di proprietà privata non dovrà essere in contrasto con gli interessi del lavoro e i programmi sociali ed economici dello Stato, né recare pregiudizio alla proprietà altrui, alla sicurezza, alla libertà e dignità umana».

MARINARO limiterebbe il secondo comma alle parole: «regolerà i limiti, le forme e le modalità allo scopo di farla adempiere ad una funzione sociale».

Certo, lo Stato deve determinare la funzione sociale e ha la facoltà di intervenire per stabilire le norme, acciocché la proprietà adempia a questa funzione sociale, e lo può fare per raggiungere tutti gli scopi previsti nella seconda parte dell’articolo. Ne risulterebbe un articolo più snello che non lega le mani del legislatore, il quale potrebbe intervenire in ogni momento.

PRESIDENTE osserva che l’onorevole Assennato elimina la parola «privata» dalla prima parte, per non escludere la proprietà collettiva. E questo sta bene, perché riconoscere solo il diritto di proprietà privata potrebbe interpretarsi come un’esclusione di altre forme di proprietà.

In seguito però dice: «la legge determinerà le norme che ne regolano i limiti, le forme e le modalità» e si chiede se potrà la legge ordinaria raggiungere la finalità alla quale si aspira, qualora nella Costituzione non venga riconosciuta anche la proprietà collettiva. Un futuro interprete potrebbe dire che per il fatto di non essere riconosciuta dalla Costituzione, non è ammissibile. Per queste ragioni chiede che nella Costituzione se ne faccia un cenno; questo potrebbe trovar luogo là dove si parla di funzione sociale.

FANFANI rileva di non aver ricevuto risposta alla sua domanda, eppure è indispensabile, ai fini di quel cappello al primo articolo, di sapere quale contenuto si dà alle espressioni: «proprietà privata, collettiva, cooperativa». Pensava che dai colleghi che da tre giorni usano queste parole sarebbe potuta venire qualche specificazione chiarificatrice.

Pensa che dire proprietà privata e collettiva abbia un senso molto preciso solo se si tiene presente la finalità per la quale la proprietà privata e quella collettiva vengono attuate, e basterà sfiorare un po’ la Costituzione russa per rendersene conto.

La proprietà privata è il contrapposto di quella collettiva non quanto all’estensione o alla appropriazione di beni, ma alla modalità; non a fini produttivi, se mai a fini distributivi; la proprietà privata è un modo di riservare i frutti della produzione ad un privato gestore possessore di beni; la collettiva invece si propone o di non ricavare un profitto, o se profitto ci deve essere per la differenzia fra il costo e il ricavo, di non riservarlo a beneficio del gestore, ma di distribuirlo ai singoli partecipanti al processo produttivo.

Detto questo, e se in questo vi è l’accordo, riconosce la necessità di premettere un articolo in cui si specifichi che i beni economici possono essere oggetto di appropriamento da parte di persone private, di comunità di lavoro, della collettività. Ma, dato che nella Costituzione italiana, negli istituti italiani e nel diritto italiano questi concetti non sono precisati, anziché con parole che presuppongono una definizione che oggi non c’è e dire «proprietà privata e collettiva», converrebbe adottare una espressione un po’ più generica che richiami al fatto della proprietà da parte di questi tre tipi diversi: «I beni economici possono essere oggetto di diritto di proprietà da parte di privati, di comunità di lavoro della collettività».

Questo primo articolo sgombrerebbe il terreno, e molte delle discussioni fatte sarebbero state evitate, se si fosse partiti da una simile premessa.

Fatto questo articolo, se ne dovrebbero formulare due o più altri diretti a precisare quando e perché vengano ammesse le varie forme. Un articolo va dedicato alla proprietà privata per stabilire che è riconosciuta, ma riconosciuta in vista di determinati scopi e entro certi limiti.

Diceva l’onorevole Lombardo nella sua critica che parlando di limiti e di modalità si veniva a circoscrivere e forse a ridurre a ben poco il diritto di proprietà privata.

Questo sarebbe vero se non si uscisse da un sistema di vita in cui quella forma ha avuto un contenuto pressoché illimitato. Quindi per far risaltare che si esce da questo sistema di vita in cui il proprietario ha avuto libertà di poter fare quello che vuole, è indispensabile precisare che, dopo essere stato riconosciuto il diritto di proprietà privata, esso viene limitato con scopi specifici, per inserirlo come una delle tante forme in questo sistema sociale nuovo che si vuol costruire per far sì che non sia il privilegio di un abile o di un fortunato, ma che l’accesso alla proprietà possa essere aperto a tutti.

A questo punto si dichiara nettamente contrario a parlare di piccola proprietà, perché così si limiterebbero le possibilità di sviluppo tecnico, mentre limitazioni non dovrebbero trovar posto nella Costituzione; e anche perché potrebbe sorgere l’idea che l’accessibilità si possa concretizzare solo in una porzione di terreno, mentre si deve non solo pensare alla proprietà del suolo o della casa, ma a tutto quello che può rappresentare un bene economico.

Per questo motivo, nessun accenno all’idea della piccola proprietà. Naturalmente subito dopo bisogna formulare un altro articolo relativo alle altre due possibilità prospettate con l’articolo primo: proprietà cooperativa e proprietà della collettività; e stabilire i motivi per cui si passa a queste altre forme, motivi di utilità collettiva, motivi di giustizia sociale; e stabilire che per questi motivi la legge può rivendicare a tutti gli enti pubblici, territoriali o alle comunità di lavoro la proprietà di alcune energie naturali, di porzione di territorio, di determinati compiessi produttivi. In qual modo? In due soli modi: o con una riserva originaria, o, dopo avvenuto appropriamento, attraverso un esproprio contro indennizzo.

A conclusione propone alla discussione i seguenti tre articoli:

Art. 1.

I beni economici possono essere oggetto di diritto di proprietà da parte dei privati, delle comunità di lavoro, della collettività.

Art. 2.

La proprietà privata è riconosciuta e garantita dallo Stato (pensa che si possa anche omettere la parola «garantita»).

La legge ne determinerà i limiti, l’estensione, i modi di acquisto, di uso e di trasferimento, anche a titolo ereditario, allo scopo di farla adempiere alla sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

Art. 3.

Per esigenze di utilità collettiva, di coordinamento della attività economica e di giustizia sociale, la legge può rivendicare agli enti pubblici territoriali e alle comunità di lavoro la proprietà di alcune energie naturali, di porzioni di territorio, di determinati complessi produttivi, sia mediante riserva originaria, sia mediante esproprio dei privati contro indennizzo.

ASSENNATO fa notare che dopo quattro giorni la discussione viene completamente spostata.

FANFANI ritiene di avere riassunto la discussione.

ASSENNATO per mozione d’ordine, pur ringraziando il collega Fanfani del contributo che dà alla discussione con il suo schema, non può fare a meno di notare che dopo quattro giorni di discussioni tale schema rischia di mandare a monte tutto il lavoro svolto precedentemente, spostando completamente i termini della questione.

DOMINEDÒ crede invece che lo schema proposto sia il frutto dello sviluppo della discussione, alla quale l’onorevole Fanfani non ha fatto altro che aggiungere un anello della catena, tanto è vero che egli si è ricollegato alle tre ipotesi fondamentali, indugiando sulla definizione delle finalità economiche inerenti alla proprietà e all’impresa collettiva, nello stesso modo in cui l’oratore si era soffermato prevalentemente sulla definizione dei caratteri giuridici, sottolineando l’esigenza di approfondire la nuova ipotesi. Non ritiene pertanto fondata la mozione Assennato.

CORBI ha seguito con molta attenzione l’interessantissima e complessa discussione; però tiene a mettere in evidenza che si discute da più di tre giorni e, se si continua in tal modo, difficilmente si arriverà a concludere i lavori nel termine fissato, tenendo conto del numero di articoli che la Sottocommissione deve ancora esaminare. Crede che la colpa sia del sistema seguito, nel senso che la discussione sta scivolando nel bizantinismo, da cui difficilmente si potrà uscire se non dando ai lavori un’impostazione diversa. Propone pertanto che il Presidente scelga un articolo che possa servire come base di discussione per apportarvi tutte le modifiche che saranno ritenute necessarie. Il presentare ad ogni momento un articolo nuovo allontana sempre di più da una conclusione.

Si permette poi richiamare il Presidente sulla necessità di una maggiore autoritarietà sia nel dirigere la discussione, in modo che non vada fuori tema, sia nel mettere in evidenza tutti gli aspetti che possano far confluire verso un punto di convergenza, per arrivare così ad una soluzione più rapida.

PRESIDENTE risponde all’onorevole Corbi che è difficile poter forzare il proprio temperamento, e del resto non crede che vi sia bisogno di richiami nei confronti di colleghi così sapienti e cortesi. Pertanto più che sulla sua fermezza, farà conto sulla buona volontà di tutti i membri della Sottocommissione.

FANFANI desidera chiarire all’onorevole Assennato che se non ha presentato prima il suo schema è solo perché non rientra nelle sue abitudini di venire alle riunioni con una ricetta pronta in tasca; ma stando a sentire attentamente, cerca di rendersi conto della comune opinione e ne trae le conseguenze.

Non può infine accettare il velato rimprovero rivoltogli dall’onorevole Corbi, in quanto non desidera che i suoi articoli siano discussi nel loro insieme, ma solo dimostrare l’interdipendenza delle tre diverse ipotesi.

ASSENNATO insiste nell’affermare che la formulazione proposta dall’onorevole Fanfani può essere causa di profondo sconvolgimento di tutto il lavoro in precedenza svolto. A tale proposito fa notare che la nomina del Relatore ha lo scopo di affidare ad uno dei componenti il lavoro più pesante, di porre le basi della discussione, proponendo una formulazione sulla quale devono convergere tutte le osservazioni per apportarvi le necessarie modifiche. Se ognuno presenta nuove formulazioni, la nomina del Relatore risulta inutile.

PRESIDENTE, venendo incontro al desiderio espresso dall’onorevole Corbi, desidera mettere in luce i punti di divergenza e convergenza nelle proposte dell’onorevole Fanfani.

Sull’articolo 1 non trova nulla da eccepire, e crede che sulla sua formulazione possano essere tutti d’accordo. Lo stesso concetto afferma per l’articolo 2, anche per quanto concerne la precisazione relativa ai trasferimenti a titolo ereditario, perché se lo Stato riconosce e garantisce la proprietà privata, deve anche correlativamente assicurare la possibilità di poterla acquistare mortis causa.

Sul 3° articolo riconosce invece che possano sorgere divergenze. Si dichiara innanzi tutto favorevole al verbo «può», benché in altre Costituzioni, come in quella francese, sia usato invece il verbo «deve». Soffermandosi poi sulla frase: «la proprietà di alcune energie naturali, di porzioni di territorio, di determinati complessi produttivi», esprime l’avviso che la dizione usata sia troppo indeterminata.

Domanda se tutti siano d’accordo nel riconoscere queste tre forme di proprietà, e che alla proprietà privata possano essere segnati limiti di uso.

ASSENNATO trova strano che proprio a lui, comunista, tocchi di rivendicare il diritto di proprietà delle società, che non è compreso nella formulazione del primo articolo.

TAVIANI, Relatore, a suo avviso, le società sono anch’esse da considerarsi come private.

ASSENNATO ritiene che allora anche le comunità di lavoro dovrebbero considerarsi alla stessa stregua e perciò sarebbe inutile per esse il riferimento dell’articolo 1.

Premesso poi che gli sembra ambiguo il termine «collettivo», fa presente che la parola «territorio» ha una speciale significazione come parte della estensione del suolo nazionale. Si domanda allora perché si debba escludere dalla espropriazione la proprietà immobiliare costituita da stabili. Nel complesso la formulazione proposta, oltre ad essere incerta e lacunosa, mette in condizioni di non poter più discutere.

Propone di sospendere per qualche minuto la riunione, per cercare di trovare, in una conversazione amichevole, una via di accomodamento.

GIUA non è d’accordo con l’onorevole Corbi di limitare le discussioni, ma è anzi d’avviso che debbano estendersi quanto più è possibile, se da esse possa ricavarsi qualche concreta utilità.

In particolare paragona la posizione dei suoi colleghi Corbi e Assennato a quella di Proudhon e Marx, il quale, in opposizione al primo, nel suo libro La miseria della filosofia affermava: «Il voler dare una definizione della proprietà come di un rapporto indipendente di una categoria a parte, come un’idea astratta o eterna, non può essere che una illusione di metafisica e di giurisprudenza».

Si dichiara poi favorevole alla formulazione proposta dall’onorevole Fanfani, sia perché personalmente nega che in regime borghese possa affermarsi una proprietà collettiva in senso socialista, sia perché la dizione usata porta una maggiore estensione non solo al concetto di proprietà privata e cooperativa, ma anche a quello di proprietà collettiva che è assai diverso da ciò che i socialisti intendono.

TAVIANI, Relatore, per una volta tanto, si dichiara d’accordo col Presidente e lo ringrazia per aver fatto un ulteriore passo verso le posizioni del suo gruppo. Salvo ad integrare l’articolo 3 in modo che siano meglio precisati i beni che possono essere oggetto di espropriazione a favore di enti pubblici territoriali o di comunità di lavoro, gli sembra che tutti siano d’accordo sul principio del riconoscimento della proprietà privata. Del resto anche le formulazioni degli onorevoli Corbi e Lombardo non divergono nettamente e sarà facile giungere ad una intesa. Nel timore però che successivamente, in sede di votazione, sorgano dei contrasti, desidera riaffermare ancora una volta la assoluta necessità che nella Carta costituzionale sia sancito ben chiaro il principio che lo Stato riconosce e garantisce la proprietà privata. Questo principio rappresenta per il suo gruppo un’esigenza imprescindibile, dalla quale è impossibile derogare. Su questo argomento considera quindi inutile continuare la discussione, dichiarandosi disposto, in caso contrario, a presentarsi all’Assemblea con una separata relazione.

Desidera anche precisare che la formulazione ultima che ha proposto era il frutto di un accordo a cui si era pervenuti dopo un’amichevole conversazione svoltasi tra l’oratore e gli onorevoli Corbi e Assennato.

PRESIDENTE, circa l’ultima parte dell’articolo 3, formulato dall’onorevole Fanfani, fa presente che è pervenuta la proposta di sostituire alle parole «contro indennizzo» le altre «con riserva di indennizzo».

LOMBARDO ha già detto che a suo giudizio l’aggettivo «privata» era una superfetazione, perché la sostanza del dibattito sulla proprietà verte in sede ideologico-filosofica sul concetto della proprietà privata. Dichiara di riconoscere in pieno la proprietà privata, ma nella formulazione accennata dal Relatore gli sembrava che «privata» significasse che fino ad oggi c’era stata un’altra forma di proprietà e che fosse venuto il momento di riconoscere quella privata. Invece questa esiste ed ha costituito l’oggetto di ampi dibattiti attraverso i secoli.

Dicendo soltanto «proprietà» si considera qualunque tipo di proprietà, quella personale, quella di carattere pubblico e quella collettiva.

Oggi c’è la proprietà privata e, per limitarne gli abusi, si debbono assegnare alcune finalità. Quindi non vi è dissenso per quanto riguarda la enunciazione del diritto di proprietà privata; solo non vorrebbe limitare il concetto a quella privata unicamente e non indurre in errore chi leggesse questo testo, che potrebbe immaginare che la Commissione si stia occupando di una cosa che non esiste.

La riunione termina alle 11.40.

Erano presenti: Assennato, Canevari, Corbi, Dominedò, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Lombardo, Marinaro, Merlin Angelina, Rapelli, Taviani, Togni.

Assenti giustificati: Colitto, Molè, Noce Teresa.

Assente: Paratore.

GIOVEDÌ 26 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

12.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 26 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di proprietà (Seguito della discussione)

Taviani, Relatore – Presidente – Assennato – Canevari – Marinaro – Dominedò – Giua – Corbi – Fanfani.

La seduta comincia alle 10.

Seguito della discussione sul diritto di proprietà.

TAVIANI, Relatore, ha già risposto ieri alle due obiezioni formulate dall’onorevole Assennato.

L’onorevole Giua ha ritenuto troppo generico il primo comma e ha detto che è impossibile definire quando la proprietà sia frutto del lavoro e del risparmio. Lo stesso hanno osservato gli onorevoli Colitto, Dominedò e Lombardo.

Trova giuste le osservazioni e consente ad eliminare questa espressione.

L’onorevole Colitto ha insistito nell’affermare che non è necessaria la dichiarazione delle finalità e del riconoscimento del diritto di proprietà e delle norme con cui la legge ne deve stabilire i limiti e la consistenza; su questo punto non è d’accordo. Concorda invece con le osservazioni fatte dagli onorevoli Dominedò e Fanfani e prende atto della dichiarazione dell’onorevole Assennato di non chiedere l’eliminazione del riconoscimento della proprietà privata. L’onorevole Corbi era più o meno d’accordo con l’onorevole Assennato.

Al termine della discussione di ieri non sembrava possibile giungere rapidamente ad un accordo e si profilava l’eventualità che la Sottocommissione potesse dividersi e presentare una relazione di maggioranza e una di minoranza; ma ora, riflettendo alle osservazioni fatte, e dopo aver riletta la relazione Pesenti, non vede più questa eventualità. Ritiene superfluo discutere sulla questione della premessa etico-filosofica al riconoscimento del diritto di proprietà privata. Su questo punto sarà difficile raggiungere un accordo con l’onorevole Assennato. A malincuore dovrà rinunciare a questa esigenza, e così l’accordo potrà forse essere raggiunto.

Ci sono secondo lui due esigenze: la prima è che la proprietà privata debba essere riconosciuta non dalla legge, ma dalla Costituzione: è detto anche nelle relazioni Togliatti e Pesenti; il disaccordo è derivato dalle osservazioni del Presidente e dal primo accenno dell’onorevole Lombardo al suo articolo che, poi, nella stesura definitiva è stato così mutato: «La proprietà è riconosciuta e garantita dallo Stato nei limiti e nelle forme stabiliti dalla legge».

Gli sembra che l’onorevole Lombardo abbia receduto da questa posizione di ricondurre alla legge il riconoscimento.

ASSENNATO chiede perché il Relatore attribuisce tanta importanza a questa distinzione fra legge e Costituzione.

TAVIANI, Relatore, risponde che la legge può essere modificata e in tal modo la garanzia della proprietà privata può venir tolta, mentre, se è riconosciuta dalla Costituzione, per abolirla occorrerebbe fare un’altra Costituzione.

ASSENNATO obietta che, se la Costituzione stabilisce che è la legge che deve garantire la proprietà, la legge, anche modificata, non potrà mai sopprimere l’oggetto la cui tutela è stata ad essa affidata.

DOMINEDÒ pur rilevando l’acutezza del concetto espresso dall’onorevole Assennato, ritiene che il riconoscimento dei diritti fondamentali costituisca compito precipuo di una Carta costituzionale.

TAVIANI, Relatore, ricorda che nella relazione dell’onorevole Pesenti si dice: «Lo Stato riconosce, garantisce, tutela la proprietà ecc.».

Sulla seconda esigenza è più acuto il dissenso fra gli onorevoli Pesenti, Dominedò e Fanfani da una parte, Lombardo e Colitto dall’altra, mentre c’è possibilità di accordo con l’onorevole Corbi e l’onorevole Assennato. Si tratta della necessità che la legge, nel fissare i modi, tenga presenti alcuni scopi. Che la legge debba fissare i modi è una necessità che tutti riconoscono; ma, come già nella questione del diritto al lavoro e in quella dell’assistenza e previdenza sono stati fissati gli orientamenti e gli scopi ai quali la legge deve tendere, così anche in questo campo nel fissare le norme specifiche chiede che siano fissati questi scopi.

Primo punto: la proprietà privata non ha solo una funzione personale, ma anche sociale, che si esplica non solo in senso negativo ma anche in senso positivo; essa deve essere esercitata conformemente all’utilità sociale e al bene comune; e questo lo dice anche la relazione Pesenti. Ciò vuol dire che la proprietà privata deve essere inquadrata in una visione organica della vita economica dello Stato.

Secondo punto: la Repubblica è tenuta a difendere e diffondere la piccola proprietà; questo è affermato dall’onorevole Colitto e dall’onorevole Pesenti. Qui sorge una divergenza con gli onorevoli Assennato e Corbi, i quali dicono che, invece della piccola proprietà, al fine di favorire i cittadini, si dovrebbe parlare della proprietà cooperativa. Riconosce giusta soltanto in parte l’osservazione. I lavoratori possono essere sottratti allo sfruttamento diffondendo la piccola proprietà, ma anche attraverso la proprietà cooperativistica. Pertanto ritiene che l’accordo possa essere raggiunto su di un articolo di questo tipo:

«Lo Stato riconosce e garantisce il diritto di proprietà privata. Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e col risparmio.

«La legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto e il trasferimento, i limiti, le modalità di godimento allo scopo di assicurare che la proprietà privata risponda, oltre che ad una funzione personale, alla sua funzione sociale, nonché allo scopo di difendere e diffondere la piccola proprietà e la proprietà cooperativa».

Ripete che è d’accordo nella sostanza dell’articolo proposto dall’onorevole Giua e che rinuncia, benché a malincuore, alle ragioni etico-filosofiche del riconoscimento; ma quello che non accetta è di eliminare gli scopi che la legge deve tener presenti nel determinare le norme del diritto di proprietà.

Dichiara di accettare in pieno la proposta dell’onorevole Dominedò e di essere disposto ad accettare il primo comma proposto dall’onorevole Lombardo: «La proprietà è riconosciuta e garantita dallo Stato nelle forme e nei limiti stabiliti dalla legge», purché ci sia accanto al termine «proprietà» l’aggettivo «privata».

Sul secondo comma dell’onorevole Lombardo rileva che sta bene dire che «il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente ecc.», ma manca la parte positiva, e c’è solo quella negativa. È pienamente d’accordo circa il primo comma proposto dall’onorevole Corbi; sul secondo trova discutibile la parola «eventuale»; inoltre fra il primo e il secondo comma manca una parte intermedia.

ASSENNATO prega il relatore di sostituire questa dizione: «La Repubblica riconosce e garantisce il diritto di proprietà privata, purché l’uso di questa non contrasti gli interessi del lavoro e della collettività». Ritiene che a questa richiesta non sarà fatta opposizione.

CANEVARI osserva che nel secondo comma del testo proposto dal relatore sono indicati due scopi: «La legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto e il trasferimento, i limiti, le modalità di godimento allo scopo di assicurare che la proprietà privata risponda, oltre che ad una funzione personale, alla sua funzione sociale, e allo scopo di difendere e diffondere la piccola proprietà e la proprietà cooperativa».

Secondo questa dizione, la difesa deve essere assicurata per raggiungere lo scopo di assicurare che la proprietà privata risponda ad una funzione personale e ad una funzione sociale; ma parrebbe che la piccola proprietà e quella cooperativa non rispondano a questa finalità e quindi non debbano essere difese.

Afferma invece che la legge deve proporsi anche questa difesa, in quanto la piccola proprietà e la proprietà cooperativa possono essere le forme che meglio rispondono a quel determinato fine.

MARINARO è d’avviso che, specialmente dal punto di vista formale, l’emendamento sminuisca il principio del riconoscimento del diritto di proprietà. Ritiene infatti che riconoscimento di tale diritto debba esser fatto in modo reciso e pieno, salvo poi fissare le limitazioni della proprietà per finalità sociali. Invece un riconoscimento condizionato, nel senso che l’uso non sia contrario agli interessi del lavoro e della collettività, costituisce, a suo avviso, un’affermazione vaga, imprecisa e indeterminata: all’atto pratico sarebbe ben difficile stabilire i casi di pieno riconoscimento del diritto di proprietà.

TAVIANI, Relatore, ritiene che la formulazione dell’onorevole Pesenti sia ancora più forte della sua. Infatti nel comma b) si legge che lo Stato riconosce e garantisce la proprietà privata e le iniziative private e che il diritto di proprietà non potrà essere esercitato in contrasto con gli interessi del lavoro.

PRESIDENTE, essendo giunto l’onorevole Giua, prega l’onorevole Taviani di voler ripetere le osservazioni che egli fa alla formulazione da lui proposta.

TAVIANI, Relatore, dichiara di accettare la prima parte dell’articolo proposto dall’onorevole Giua, disposto anche a rinunciare, sebbene a malincuore, alle parole «Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e col risparmio». Parimenti a malincuore è disposto a rinunciare alle ragioni etiche e filosofiche del riconoscimento del diritto di proprietà, ma non può accettare la seconda parte del suddetto articolo, in quanto non vengono fissati gli scopi che la legge dovrebbe tener presenti nel determinare le norme che regolano l’acquisto, il trasferimento, i limiti di estensione e le modalità di godimento del diritto di proprietà. Tali scopi sono invece espressi nell’affermazione che la proprietà privata deve rispondere, oltre che ad una funzione personale, alla sua funzione sociale.

PRESIDENTE desidera mettere in rilievo che l’articolo formulato dall’onorevole Pesenti non gli sembra conforme alle dizioni proposte dagli onorevoli Giua e Taviani. Nell’articolo dell’onorevole Pesenti si afferma, infatti, alla lettera A) che «la proprietà è il diritto inviolabile di usare, di godere, di disporre dei beni garantiti a ciascuno dalla legge» ripetendo, in sostanza, l’articolo della Costituzione francese che è stata recentemente respinta. Pertanto l’espressione cui ha fatto prima cenno l’onorevole Taviani, cioè che lo Stato riconosce e garantisce la proprietà privata, è condizionata alla prima parte della formula, nel senso quindi che lo Stato garantisce soltanto i beni che sono consentiti a ciascuno dalla legge. Pertanto l’articolo dell’onorevole Pesenti è piuttosto invocabile per la sua tesi che non per quella dell’onorevole Taviani.

DOMINEDÒ ricorda che, in relazione al comma, vi è anche la proposta dell’onorevole Assennato di aggiungere alla statuizione di principio una causa mediata di limitazione del diritto, nel senso di circoscrivere la proprietà in vista dei fini sociali che essa si deve proporre di raggiungere.

Non vorrebbe ad ogni modo che la Sottocommissione si irrigidisse in questioni formali. Basti pensare che nel caso in cui si eliminasse la seconda parte del l° comma e cioè «Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e col risparmio», dopo la statuizione si avrebbe subito la determinazione del fine sociale, avvicinandosi così allo scopo che si prefiggeva l’onorevole Assennato.

In realtà, dal punto di vista logico gli sembra anche corretto che prima si ponga la statuizione ed immediatamente dopo segua la finalità in vista della quale la statuizione è stata fatta.

Poiché gli sembra che tutti possano essere d’accordo su questo concetto, nel 2° comma, dove si specifica la finalità sociale, si potrebbe, a suo avviso, maggiormente svolgere il concetto che l’onorevole Taviani ha formulato forse in forma troppo ristretta, inserendo l’aggiunta proposta dall’onorevole Assennato, opportunamente ritoccata nel senso di parlare piuttosto che di «uso» di «godimento», espressione più comprensiva e comunque più esatta trattandosi qui del diritto e non del suo oggetto. Parimenti nel 2° comma, come sono unite dalla congiunzione «e» le parole «l’acquisto e il trasferimento», così collocherebbe con la stessa congiunzione le parole «i limiti e le modalità», per accentuare il distacco esistente tra i due concetti.

Dichiara poi di condividere le osservazioni dell’onorevole Canevari, perché altro è la determinazione dello scopo immediato del riconoscimento del diritto di proprietà, altro è l’enunciazione di uno scopo mediato, di una finalità, cioè, che si prospetta in un secondo tempo. Trattasi di due elementi che non possono essere posti sullo stesso piano di omogeneità, perché l’uno rappresenta un fine attuale, l’altro una eventualità futura.

A proposito dell’ultima parte del 2° comma, rileva che il termine «difesa» è un concetto comune a tutte le forme di proprietà. Per le particolari forme di proprietà ivi contemplate, preferirebbe non parlare di «difesa», perché in tal modo si potrebbe dare l’impressione di una mancanza di difesa nei confronti delle altre forme di proprietà. Si limiterebbe, per tanto, a parlare di «diffusione», termine assai più ampio che presuppone anche quello più circoscritto di «difesa». Formulerebbe quindi l’ultima parte nella seguente maniera: «A tal fine sarà diffusa la piccola proprietà e la proprietà cooperativa».

Per quanto concerne le osservazioni svolte dall’onorevole Ghidini, si permette insistere sul concetto che il diritto di proprietà in sé e per sé deve essere riconosciuto e garantito dalla Carta costituzionale, mentre è logico che al Codice spetti di attuare nella sua concretezza la disciplina dell’istituto garantito costituzionalmente. Non gli sembra d’altra parte che tale tesi contrasti con la formulazione Pesenti, la quale nell’articolo 1 parla di garanzia, non tanto in relazione al diritto di proprietà, quanto ai singoli beni che possono essere oggetto del diritto stesso: e ciò è tanto vero che la stessa relazione accede quindi nel successivo articolo 2 a questo concetto con una formulazione più rigorosa: «Lo Stato riconosce e garantisce la proprietà privata».

GIUA fa innanzi tutto rilevare che se la Repubblica garantisce il diritto di proprietà privata, nella garanzia è implicito anche il riconoscimento. L’espressione «riconosce» usata nel 1° comma gli sembra pertanto un’affermazione di principio che non lo soddisfa dal suo punto di vista. Anche l’espressione usata alla fine del 2° comma: «allo scopo di difendere e diffondere» non ritiene che sia tale da essere inserita in una Carta costituzionale, specialmente per quanto concerne la funzione che lo Stato avrebbe di diffondere la piccola proprietà e la proprietà cooperativa. In tutte le Costituzioni, infatti, forse tranne che per la russa, lo Stato non ha mai avuto e non ha questa particolare funzione. Crede che nemmeno lo Stato sorto in seguito alla Rivoluzione francese si sia mai prefissa la funzione di diffondere la piccola proprietà. Si tratterebbe, in sostanza, di un concetto che non è più giuridico, ma etico-sociale. In un periodo di transizione come quello che attraversa l’Italia in questo momento, un’affermazione simile egli non ritiene, almeno dal suo punto di vista, che possa essere accettata. È infatti ipotizzabile che in un domani, in seguito ad una riforma agraria, si voglia diffondere al massimo la proprietà cooperativistica e quindi si venga in tal modo ad affermare un principio che sarebbe contrario alla piccola proprietà. Ma se nella Carta costituzionale si stabilisce che lo Stato deve difendere sia la piccola proprietà che la proprietà cooperativa, sorgerà un contrasto di funzioni che avrà senza dubbio sensibili ripercussioni nel Parlamento da parte dei rappresentanti dei piccoli proprietari, che si faranno forti della dizione usata nella Carta costituzionale.

Per questi motivi sopprimerebbe il verbo» diffondere», il quale implica una funzione che non si può attribuire allo Stato, a meno di non voler creare un dualismo, con possibilità di antitesi e lotte di gruppi contrastanti.

MARINARO esprime l’avviso che la prima parte del 2° comma contenga un concetto così vasto da comprendere anche le finalità successive. Pertanto il 1° comma potrebbe terminare alle parole: «alla sua funzione sociale»: nel concetto di funzione sociale il legislatore troverebbe senza dubbio l’appiglio per disciplinare sia la difesa che la diffusione della piccola proprietà e della proprietà cooperativa.

ASSENNATO, per mozione d’ordine, prega di discutere innanzi tutto le modificazioni da apportare alla prima parte dell’articolo.

TAVIANI, Relatore, gli sembra che l’articolo costituisca tutto un complesso organico, le cui parti non possono essere scisse.

ASSENNATO propone di modificare il secondo comma nella seguente maniera: «La legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto, il trasferimento, i limiti e le modalità di godimento in modo tale che l’uso della proprietà risponda alla funzione sociale. Allo scopo di favorire la produzione sarà favorita la proprietà cooperativa e la piccola proprietà».

TAVIANI, Relatore, rispondendo alla obiezione dell’onorevole Giua che lo Stato non ha mai avuto la funzione di diffondere la piccola proprietà, ricorda che spesso lo Stato effettuò lo spezzettamento del latifondo. Gli sembra inoltre strano che sia proprio l’onorevole Gina a non accettare questa funzione dello Stato, dal momento che ha accettato tutte le precedenti posizioni ed orientamenti. Ad ogni modo, per evitare i dubbi ai quali potrebbe dar luogo, a seconda dell’onorevole Giua, l’espressione: «difendere e diffondere», modificherebbe l’ultima parte del secondo comma nel modo seguente: «A tal fine favorirà lo sviluppo della piccola proprietà e della proprietà cooperativa».

L’articolo, non da lui proposto, ma da lui indicato come base di accordo, risulterebbe così formulato: «La Repubblica riconosce e garantisce il diritto di proprietà privata. (Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e il risparmio).

«La legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto e il trasferimento, i limiti e le modalità di godimento allo scopo di assicurare che la proprietà privata risponda oltre che ad una funzione personale, alla sua funzione sociale e di favorire lo sviluppo della piccola proprietà e della proprietà cooperativa».

GIUA preferirebbe che alla fine si dicesse: «A tal fine favorirà lo sviluppo della proprietà cooperativa e della piccola proprietà».

CORBI aggiungerebbe al primo comma la seguente espressione: «Purché non contrasti con l’interesse della collettività e del lavoro».

TAVIANI, Relatore, gli sembra che l’aggiunta proposta dall’onorevole Corbi annulli il riconoscimento del diritto di proprietà. La proprietà infatti deve considerarsi come il diritto di godere delle cose entro i limiti ammessi dalla legge. Fin quando l’individuo non esce da quella sfera, deve avere la possibilità di poter fare tutto quello che vuole. È logico che la legge determini le norme di acquisto, di trasferimento e di godimento secondo determinati scopi, ma ciò non vuol dire che la proprietà debba essere riconosciuta soltanto se non contrasti con l’interesse della collettività e del lavoro. In tal maniera si darebbe la facoltà al potere esecutivo di fissare se la proprietà è usata o meno nel senso suddetto, conferendogli così in definitiva il diritto di abolire la proprietà.

DOMINEDÒ ritiene che l’onorevole Assennato sia d’accordo nel concetto che la specificazione della funzione sociale che delimita il riconoscimento del diritto di proprietà possa portar seco la tutela degli interessi del lavoro e della collettività. Quindi proporrebbe di inserire dopo le parole: «funzione sociale», le altre: «rispondente agli interessi del lavoro e della collettività». Si darebbe così un’esplicazione ulteriore del contenuto della funzione sociale.

PRESIDENTE osserva che c’è differenza fra la proposta di Assennato e il concetto dell’onorevole Dominedò.

ASSENNATO ricorda che nel progetto originario non si accennava affatto alla garanzia dello Stato. Si diceva: «La Repubblica riconosce» e non che il diritto di proprietà è garantito dallo Stato. Quindi con la sua ultima proposta ha inteso fare una concessione.

DOMINEDÒ osserva che la concessione sul piano del presupposto etico è la più forte.

ASSENNATO risponde che il rafforzamento si ha quando si dice che il diritto è garantito dallo Stato. In sostanza, nel tempo in cui si vive, un contrasto sociale può trovare la sua composizione nel fatto che la proprietà sia compatibile con gli interessi del lavoro e della collettività; ed allora si può aderire a trasferire nella Carta costituzionale questo dato di fatto, che l’uso della proprietà sia sempre compatibile con l’interesse del lavoro e della collettività. Aderisce anche a togliere la parola: «purché», ma una statuizione va fatta. Porre la parola: «rispondente», dopo: «funzione sociale» vuol dire fare una subordinata della funzione sociale. «Funzione sociale» è una espressione troppo elastica; per questo chiede la precisazione che l’uso della proprietà deve essere sempre compatibile con l’interesse del lavoro e della collettività. Del resto, questo è già nella coscienza di tutti; non si tratta che di trovare il modo di esprimerlo.

FANFANI chiede che cosa egli intenda con la frase che l’uso della proprietà sia compatibile con gli interessi del lavoro.

ASSENNATO risponde facendo un esempio. Si può metter su una fabbrica per produrre calzature a buon prezzo, ma trattando i dipendenti da negriero. Questo non è compatibile con gli interessi del lavoro. Non è stato detto che la legge stabilirà i limiti della proprietà; si è detto che lo Stato riconosce la proprietà.

PRESIDENTE afferma che dallo svolgimento della discussione si ha la prova di un disaccordo sostanziale. Preferisce pertanto esporre esplicitamente il suo pensiero e le sue finalità. Ha già detto quale sia la sua opinione che non è di marca nettamente individualistica, come ha commentato un giornale del mattino. Per suo conto ritiene opportuno che la Carta Costituzionale lasci la più ampia libertà al legislatore del domani.

Non nega il diritto di proprietà privata; ritiene che la proprietà privata finché c’è, e ci sarà per molti anni, debba essere considerata non solo come interesse personale, ma come un interesse sociale e che perciò lo Stato debba disciplinarla e controllarla. Lo Stato deve intervenire non solo in forma negativa, ma anche in forma positiva disciplinandola e controllandola nell’interesse personale del proprietario e nell’interesse della Società.

Si rappresenta anche la possibilità più o meno prossima che la proprietà assuma delle forme diverse: la proprietà privata non sarà mai cancellata completamente, ma domani potranno consolidarsi nella legislazione e nella prassi forme di proprietà sostanzialmente diverse da quelle di oggi, il cui concetto è nella dizione: «proprietà privata».

In vista di questa possibilità, obbedendo ad un sentimento democratico e liberale, esprime l’opinione che la Costituzione debba consentire ai futuri legislatori di applicare quella che sarà la volontà del popolo, senza che sia necessario modificare la Carta costituzionale o superarla con atto rivoluzionario.

Facendo delle affermazioni in contrasto con quella che potrà essere la volontà popolare, fra dieci anni il lavoro della Commissione sarà stato inutile, perché il popolo lo supererà con un gesto di forza e quindi bisogna preoccuparsi di lasciare al futuro la possibilità di affermarsi con quegli istituti che si riterranno più opportuni.

Pertanto non si può parlare di proprietà privata, come fanno gli onorevoli Colitto, Giua e Dominedò, senza specificazione, come di un istituto il quale, anche nella forma attuale, debba avere un carattere di immanenza e di perpetuità. Per proprietà privata si deve intendere solo la proprietà dei mezzi di produzione, e la frase: «garantire la libertà e la personalità» indica una funzione della proprietà dei mezzi di produzione, e anche gli altri commi si. riferiscono precipuamente alla proprietà dei mezzi di produzione. Non intende negare il diritto della proprietà dei mezzi individuali, ma non vorrebbe che si ipotecasse l’avvenire.

Alla stregua di questo concetto democratico, non crede di poter accettare né l’articolo Giua, che dice che la Repubblica garantisce la proprietà privata acquisita nell’ambito della legge, e tanto meno quello dell’onorevole Colitto, col quale si riconosce e si garantisce la proprietà privata. Altrettanto dichiara per quello dell’onorevole Dominedò, che più si avvicina alle proposte del relatore. Considera poi le due proposte degli onorevoli Corbi e Lombardo e vi trova una notevole somiglianza, tanto che non sarebbe alieno dal votare l’una e l’altra.

Riferendosi all’articolo proposto dall’onorevole Lombardo, che dice: «La proprietà è riconosciuta e garantita dallo Stato nei limiti e nelle forme stabiliti dalla legge», aggiunge che questa formula non è conforme allo Statuto Albertino, come ha affermato il Relatore, perché lo Statuto Albertino dice: «Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili»; è invece quasi la copia di una disposizione del progetto francese che è stato poi bocciato, dove si dice: «La proprietà è il diritto di godere e di disporre dei beni garantiti a ciascuno dalla legge». Quanto poi alla frase: «nei limiti e nelle forme», direbbe piuttosto: «nelle forme e nei limiti». Questa formulazione è accettabile, perché lascia libero l’affermarsi di ogni possibilità, quindi è liberale e democratica.

La proposta poi degli onorevoli Corbi e Assennato dice: «La Repubblica garantisce e riconosce il diritto di proprietà privata, purché l’uso di questa non sia contrastante con gli interessi del lavoro e della collettività». Evidentemente questo secondo inciso è condizionato al riconoscimento della proprietà privata, ma lascia libertà di stabilire una forma diversa della proprietà con limiti diversi da quelli di oggi. Per queste ragioni aderisce alle due proposte, come aderirà a tutte le proposte in virtù delle quali si impedisca alla proprietà di venire usata in contrasto con gli interessi legittimi altrui. Occorre attuare oggi, vigendo il sistema della società capitalistica, quelle provvidenze che ne tolgano le asperità, e riservare alle generazioni future il diritto di affermare quanto riterranno opportuno.

CORBI comprende la preoccupazione dell’onorevole Marinaro che venga leso il principio della proprietà; ma non la crede giustificata, in quanto qui non si tratta che di regolare un diritto che esiste, perché venga esercitato nell’interesse della collettività. Occorre guardare all’avvenire per evitare il pericolo di cadere nelle aberrazioni del passato. Perciò ritiene che nella Carta Costituzionale si debbano stabilire non solo il diritto della proprietà, ma anche i fini ai quali deve corrispondere.

Gli onorevoli Dominedò e Taviani hanno mostrato delle preoccupazioni, e il Relatore ha affermato che a malincuore rinuncia a certe premesse di carattere ideologico. Ritiene che queste preoccupazioni non abbiano ragione di essere, quando in maniera più chiara e più precisa si esprima lo stesso pensiero, affermandosi che il diritto di proprietà non deve essere in contrasto con l’interesse del lavoro e della collettività. Si risponde in questo modo a quei fini etici che sono stati indicati dai due colleghi.

Dichiara che accetta la parte formulata dal Relatore e quella dall’onorevole Lombardo; ma, mentre quella proposta dall’onorevole Lombardo l’accetta così come è, vuole meglio specificare quella proposta dal Relatore.

Propone pertanto la seguente specificazione:

«Allo scopo di impedire che essa arrechi pregiudizio alla proprietà altrui e contrasti con gli interessi del lavoro e della collettività, per favorire invece la proprietà cooperativa e la piccola proprietà nell’interesse della produzione».

E così sarebbe stata accolta anche la frase suggerita dagli onorevoli Giua e Canevari.

TAVIANI, Relatore, dichiara che le parole dell’onorevole Corbi gli fanno sperare di trovare un piano di intesa, che gli sembrava precluso dalle parole del Presidente.

Nel ringraziare il Presidente per la lealtà e la sincerità della sua esposizione, riconosce che effettivamente, come egli ha messo in chiaro, si era rivelato nella precedente riunione un punto di divergenza tra l’oratore e l’onorevole Corbi.

Si augura, però, che tale punto di divergenza possa essere superato. Se invece si vuole rimanere fermi su una posizione come quella dell’onorevole Ghidini, la quale logicamente deriva dal pensiero di Carlo Marx, unitamente al suo gruppo affermerà a sua volta il pensiero cristiano e la Sottocommissione si presenterà in aula con due relazioni differenti.

L’onorevole Ghidini, nel timore di un’eventuale rivoluzione popolare di domani, desidererebbe lasciare la più ampia libertà al legislatore futuro, mentre l’intendimento del relatore è invece quello di evitare una rivoluzione nel momento presente, come potrebbe aversi se soltanto si lasciasse l’impressione di non riconoscere efficacemente il diritto di proprietà privata. Per quanto riguarda il futuro, se si verificheranno (ma non crede che si verificheranno mai) le condizioni a cui ha fatto cenno l’onorevole Ghidini, vale a dire tali che non sussista più alcuna proprietà privata, a maggior ragione vi sarà la possibilità di modificare la Costituzione senza ricorrere ad una rivoluzione. Infatti, un mutamento simile sarebbe di tale importanza che non inciderebbe solo nel campo della proprietà privata, ma su tutti gli altri istituti e sulla natura stessa dell’uomo che sarebbe improvvisamente diventato perfetto.

Su di un punto ammette possibile la discussione, cioè sulla interpretazione individualistica della posizione del Presidente. Se i colleghi della Sottocommissione lo desiderano, si dichiara lieto di entrare in argomento. Fa però osservare all’onorevole Ghidini che non gli sembra possibile passare da una proprietà individuale ad una proprietà collettiva, senza la fase intermedia della proprietà organizzata nell’ambito sociale.

Conclude ripetendo che se si insiste a mantenersi ognuno sul proprio piano, senza sforzarsi di trovare un punto comune, non rimarrà altro che chiarire le posizioni rispettive e prenderne atto.

GIUA dichiara di accettare la proposta dell’onorevole Corbi, con le modificazioni di forma dell’onorevole Taviani, anche perché si stabilisce il criterio che deve seguire di guida in questa Costituzione, vale a dire il criterio storicista, nel senso di non fare una Carta costituzionale astratta, ma in relazione alle condizioni sociali attualmente esistenti in Italia.

Però, poiché il Presidente lo ha messo in uno con l’onorevole Taviani, desidera spiegare la sua posizione che lo ha portato fin dall’inizio a non fare affermazioni sue personali di principio che non avrebbero potuto essere accolte dalla maggioranza dei componenti della Commissione. Se il suo partito avesse avuto la preponderanza nella Costituente, ben diverso sarebbe stato il suo atteggiamento; ma, data la situazione attuale, fare dichiarazioni di principio costituirebbe un lavoro perfettamente inutile. È suo desiderio, invece, far sì che dalla Costituente venga fuori una Carta costituzionale che possa essere accettata da tutti, in modo che il lavoro di ricostruzione del popolo italiano sia facilitato nell’ambito di questo comune accordo.

Vuole, infine, fare una dichiarazione, in famiglia, al Presidente, in relazione all’affermazione che col lasciare libertà al legislatore, si possa arrivare, attraverso successivi adattamenti, fino al raggiungimento dell’ideale socialista. Personalmente invece si trova nella stessa posizione in cui si trovava nel ’56 Carlo Marx che, nella sua opera «La miseria della filosofia», combattendo Proudhon, che si trovava quasi sullo stesso piano dell’onorevole Ghidini, affermava che per passare dal concetto di proprietà individuale a quella collettiva doveva essere necessario un conato rivoluzionario; ciò vuol dire che per attuare il trapasso dalla proprietà individuale a quella collettiva sarà necessario un atto di forza. Non può quindi credere all’evolversi della proprietà attraverso successive graduazioni; e pertanto, volendo da un lato rimanere nella storia e dall’altro fare una Costituzione per il popolo italiano, dichiara di accettare, come democratico, il concetto contenuto nella formulazione degli onorevoli Corbi e Taviani.

ASSENNATO aderisce e fa sua la proposta dell’onorevole Corbi.

PRESIDENTE dichiara che non ha inteso con le sue osservazioni affermare il principio della proprietà statizzata e socialista, ma ha inteso, puramente e semplicemente, di lasciare libertà a tutti di trasfondere negli istituti la volontà non solo presente, ma anche quella che sarà nel futuro. La Carta costituzionale, a suo avviso, ha un duplice scopo: in primo luogo di sbarrare la strada ad un ritorno del passato ed essere la consacrazione di tutte le conquiste fatte fino ad oggi; in secondo luogo di provvedere nel tempo stesso per l’avvenire, non nel senso di determinare particolari forme od istituti, ma nel senso di non pregiudicare in nessun modo la volontà futura del legislatore. Per questo motivo non ha proposto un articolo in cui si sancisse che la proprietà privata dovrà cessare ed essere sostituita dalla proprietà collettiva, ma si è limitato ad aderire al seguente concetto dell’onorevole Lombardo: «La proprietà è riconosciuta dallo Stato nella forma e nei limiti stabiliti dalla legge», che in sostanza riproduce la formula che è stata consacrata nell’ultimo progetto di Costituzione francese.

Nel pregare che non gli si attribuiscano proposte e intenzioni che non ha manifestate, si dichiara convinto di non essere fuori del presente, ma anzi di rimanere nella storia attuale, pur non tralasciando il futuro.

FANFANI ha sentito fare cenno ad articoli di giornali relativi a problemi in discussione. Poiché non è la prima volta che si approfitta della stampa per turbare la serenità esistente tra i membri della Sottocommissione, si permette di pregare i colleghi, a qualunque opinione o gruppo appartengano, di avere la pazienza di commentare gli articoli soltanto dopo che siano stati approvati, senza interferire sui lavori in corso con apprezzamenti che potrebbero essere antipatici.

PRESIDENTE è perfettamente d’accordo con l’onorevole Fanfani, tanto più trattandosi di opinioni che sono suscettibili di modificazioni.

FANFANI, premesso che aderisce all’idea che gli articoli della Costituzione non debbano scendere in troppi particolari, desidera fare una proposta non di carattere sostanziale, ma formale, nel senso, cioè, di trovare per l’articolo una forma più stringata.

Essendo convinto che alcune espressioni non siano più proprie né dell’una, né dell’altra teoria, ma abbiano acquistato diritto di cittadinanza nel comune linguaggio e possano perciò ritenersi sufficientemente significative, anche per sgombrare il campo nel senso accennato dal Presidente, propone la seguente formula:

«La proprietà privata è riconosciuta e garantita dallo Stato».

«La legge ne determinerà i limiti di estensione, i modi di acquisto, di uso e di trasferimento, anche a titolo ereditario, allo scopo di farla adempiere alla sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».

Insiste in modo particolare sulla espressione: «anche a titolo ereditario», rinviando ad altro articolo quanto concerne la facoltà di esproprio.

PRESIDENTE non ritenendo possibile ultimare l’argomento nella mattinata, propone di rinviare la contraddizione della discussione al giorno successivo alle ore 9.

(Così rimane stabilito).

La seduta termina alle 12.30.

Erano presenti: Assennato, Canevari, Corbi, Dominedò, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Marinaro, Rapelli, Taviani, Togni.

Assenti giustificati: Colitto, Lombardo, Molè, Noce Teresa.

Assente: Paratore.

MERCOLEDÌ 25 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

11.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MERCOLEDÌ 25 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di proprietà (Discussione)

Taviani, Relatore – Assennato – Giua – Colitto – Dominedò – Corbi – Presidente – fanfani – lombardo – Canevari.

La seduta comincia alle 10.30.

Discussione sul diritto di proprietà.

TAVIANI, Relatore, osserva che quasi tutte le Costituzioni contemporanee dedicano più di un articolo all’istituto della proprietà; mentre nelle Costituzioni del secolo scorso tale istituto era soltanto accennato tra i diritti della persona umana. Le Costituzioni contemporanee che non parlano della proprietà sono quelle che non trattano affatto i problemi economici, ma si limitano alle questioni finanziarie, come quelle dell’Austria, della Turchia, della Lettonia, della Polonia. Altre Costituzioni trattano i problemi economici soltanto di sfuggita, e di conseguenza accennano brevemente al diritto di proprietà. Ha fatto questa premessa per chiarire che quella che può essere ritenuta un’eccessiva estensione dei tre articoli da lui proposti è dovuta al fatto che la Sottocommissione aveva deciso di trattare tutti i problemi economici, sia pure restando sul terreno dei principî. Non si può quindi fare a meno di trattare anche della proprietà, sempre sotto l’aspetto statico, perché trattandolo dal punto di vista del suo dinamismo si uscirebbe d’argomento per entrare nel tema trattato dall’onorevole Pesenti, riguardante, più che la proprietà in quanto istituto, l’iniziativa privata o l’impresa.

Gli articoli 1 e 2 del progetto di Costituzione, già approvati dalla prima Sottocommissione, affermano che la Costituzione italiana ha come scopo l’autonomia, la libertà e la dignità della persona umana nell’ambito della vita sociale organicamente intesa, ed è per questo che, nel trattare il diritto di proprietà, ha voluto attenersi allo stesso principio ed ha così formulato il primo comma dell’articolo primo:

«Allo scopo di garantire la libertà e l’affermazione della persona viene riconosciuta e garantita la proprietà privata frutto del lavoro e del risparmio».

Si parla di persona e non di individuo; si parla cioè di un diritto della persona organicamente concepita nella società. Sul terreno dell’individualismo si potrebbe anche arrivare alla eliminazione dell’istituto della proprietà privata, mentre invece ne rimane il valore naturale, in quanto tende all’affermazione e alla garanzia della libertà della persona umana. Ritiene che, innanzi tutto, occorra stabilire che la proprietà viene riconosciuta e garantita dalla Repubblica italiana, e particolarmente la proprietà frutto del lavoro e del risparmio. Naturalmente su questo ci sarebbe da obiettare che vi sono altre specie di formazione del diritto di proprietà privata. Il Codice parla anche di accessione e di eredità. Per l’eredità il Relatore ha formulato un articolo a parte, ma per quanto riguarda l’accessione fa presente che essa è argomento particolare del diritto civile, e non è il caso di includerla in una Carta costituzionale.

Affermato il diritto di proprietà e la garanzia di tale diritto, bisogna stabilire che cosa debbano sancire le norme della legge ed entro quali limiti il diritto di proprietà abbia una forma e un contenuto. Perché parlare di proprietà privata sic et simpliciter è troppo poco, in quanto la proprietà può essere sia quella assoluta del diritto romano, sia quella, limitata ai beni d’uso, della Costituzione russa. Il diritto positivo di proprietà è costituito dalla legge, dal codice, che stabiliscono le norme e inquadrano positivamente il diritto naturale di proprietà nei diversi momenti della contingenza storica; quindi il Relatore non si è limitato a fissare una garanzia e un riconoscimento del diritto di proprietà, ma ha voluto sancire che tale diritto ha i suoi limiti e la sua precisazione nella legge. Sorge qui il problema vastissimo della conciliazione dei diritti e degli interessi del singolo con quelli della società.

Se ci si limitasse al primo comma dell’articolo da lui proposto, evidentemente si potrebbe supporre di essere rimasti sulla base individualistica, che invece va superata affermando che la società ha il diritto di regolare i rapporti, allo scopo di garantire quelle che sono le funzioni del diritto di proprietà; e non soltanto la funzione personale, ma anche quella sociale, in quanto è evidente che la proprietà privata non ha il solo scopo della garanzia della libertà del singolo, ma anche quello di servire al bene della società. Altro scopo è la possibilità per tutti di accedere alla proprietà, perché, se si costituisce un diritto di proprietà che elimini tale possibilità, si toglierebbe ogni valore all’affermazione che il diritto di proprietà è garanzia della libertà umana. A tal fine ha formulato il secondo comma dell’articolo nel modo seguente:

«Allo scopo di garantire la funzione personale e la funzione sociale della proprietà privata e la possibilità per tutti di accedervi con il lavoro e con il risparmio, la legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto e il trasferimento, i limiti di estensione e le modalità di godimento».

L’ultima parte del comma non deve essere intesa nel senso che si debba fissare come e in qual modo la proprietà debba essere goduta, perché allora non sarebbe più proprietà privata. in quanto la proprietà privata consiste nel disporre dei beni secondo la propria volontà ma nel senso che si possano fissare i limiti di queste modalità.

Non è una novità ricordare in una Costituzione la funzione sociale della proprietà, in quanto, a parte le Costituzioni più note, come quella di Weimar, basta pensare a quella della Columbia, dove la proprietà è affermata addirittura come una funzione sociale. Anche il progetto di Costituzione francese dello scorso anno diceva a proposito della proprietà: «Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e col risparmio», e questa enunciazione si integrava con l’altra: «il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente all’attività sociale». Ritiene l’affermazione del progetto francese lacunosa, perché non basta prevedere dei limiti che impediscano il pregiudizio di determinati diritti altrui; la legge deve anche fissare dei limiti in vista della funzione sociale della proprietà e della possibilità per tutti di accedervi.

Qualcuno ha osservato che desidererebbe l’inserimento della parola «inviolabile», usata in quasi tutte le vecchie Costituzioni. Ma bisogna specificare che cosa si intenda per «inviolabile», perché, con tale parola, nelle vecchie Costituzioni si intendeva dire che la proprietà era un diritto assoluto che, una volta stabilito, non poteva più essere mutato dalla legge. Preso in questo senso, ritiene che non sia il caso di usare tale termine, in quanto, entro i limiti stabiliti dalla legge, tutti i diritti sono inviolabili. Gli pare che l’inviolabilità si potrebbe riferire con un concetto esposto in un articolo della Costituzione cecoslovacca, che dice: «Soltanto la legge può porre dei limiti alla proprietà privata»; esso afferma che i limiti non possono essere posti dal potere giudiziario o da quello esecutivo, ma soltanto dal legislativo. Ma questo concetto è già chiaro quando si dice: «la legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto ed il trasferimento, i limiti di estensione e le modalità di godimento». Vi potrebbe essere possibilità di violazione da parte dei poteri esecutivo e giudiziario, qualora non vi fosse questa affermazione, e qualora invece si usasse la dizione della Costituzione francese: «Il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente all’utilità sociale», che lascia aperta una porta. all’intervento diretto del potere esecutivo e di quello giudiziario.

Passando a trattare uno dei problemi più gravi, cioè quello dei rapporti fra proprietà privata e proprietà collettiva, dichiara subito che per proprietà collettiva non intende la demaniale, bensì quella dello Stato, delle regioni e dei comuni o di qualsiasi altro ente di diritto pubblico. Intesa in questo senso, l’espressione di proprietà collettiva imposta il problema in maniera diversa da quella in cui è risolto dalle norme del codice civile. Rileva che tali rapporti non sono studiati esclusivamente nella sua relazione e negli articoli proposti, ma anche nella parte riguardante l’iniziativa privata, dato che della proprietà non si può vedere soltanto l’aspetto statico, ma anche quello dinamico.

Osserva che, rifacendosi al secondo capoverso proposto, la società può indirizzare la proprietà a rispondere alla sua funzione sociale e può determinare la possibilità per tutti di accedervi con il lavoro e con il risparmio. Ora possono non essere sufficienti le norme sul diritto di proprietà privata, e può essere necessario che lo Stato introduca altre norme costituzionali per passare alla proprietà collettiva, allorché l’armonia degli interessi non si realizzi in alcun modo, restandosi nel campo del privatismo. Quando evidenti esigenze lo impongano, è necessario passare alla collettivizzazione della proprietà. Ha creduto inoltre opportuno specificare che, soltanto al fine di evitare situazioni di privilegio o di monopolio privato (qualche cosa di simile faceva il primo progetto di Costituzione francese), la legge può riservare alla proprietà collettiva le imprese ed i beni di determinati e delimitati settori dell’attività economica, per evitare così che essi, invece di essere una garanzia dell’affermazione della persona umana, si trasformino in mezzi di sfruttamento. Pertanto il terzo comma dovrebbe essere così formulato:

«Quando lo impongono le esigenze del bene comune, al fine di evitare situazioni di privilegio o di monopolio privato e di ottenere una più equa e conveniente prestazione dei servizi e distribuzione dei prodotti, la legge può riservare alla proprietà collettiva dello Stato, delle regioni, dei comuni o di altri enti di diritto pubblico le imprese e i beni di determinati e delimitati settori dell’attività economica. Sempre in conformità agli scopi indicati la legge può trasferire alla collettività la proprietà di imprese o beni determinati».

Dichiara che dove si parla «delle regioni, dei comuni e di altri enti di diritto pubblico», ha ritenuto necessaria la precisazione, perché sia ben chiaro che per proprietà collettiva non si intende soltanto quella dello Stato, e gli sembra necessario riferirsi a tale decentramento, per evitare il pericolo che la collettivizzazione si trasformi in una burocratizzazione, con tutti i pericoli che ne conseguono. Rileva inoltre che il problema del passaggio dalla proprietà privata alle proprietà collettiva comporta la questione della espropriazione. Quasi tutte le Costituzioni hanno un capoverso analogo a quello da lui proposto: «L’espropriazione si attua solo contro giusto indennizzo». Precisa che, nella sua intenzione, tale capoverso non è esclusivamente riferito al terzo comma dell’articolo ma a qualsiasi espropriazione. Non ha usato il termine «qualsiasi», perché lo riteneva superfluoe, dato che il capoverso è a sé stante; ma, qualora si volesse interpretarlo come collegato al terzo comma, sarebbe meglio trovare un’altra parola, in quanto non vi è espropriazione soltanto nel caso di collettivizzazione, ma anche per cessione ad altri o per motivi di utilità pubblica.

Esaurito l’argomento della proprietà visto nel suo complesso, rimane quello della trasmissione ereditaria, che è legata alla proprietà privata. A tal fine propone il seguente articolo:

«Il diritto di trasmissione ereditaria è garantito. Spetta alla legge stabilire le norme e i limiti sia della successione nell’ambito della famiglia, sia di quella testamentaria. Spetta pure alla legge determinare la parte che lo Stato preleva sulle eredità».

Passando ad esaminare l’ultimo articolo da lui proposto nella relazione, osserva che esso potrebbe essere considerato superfluo; ma ha ritenuto di dover dire qualcosa sulle possibilità delle condizioni concrete cui si deve aspirare per rendere operanti le affermazioni del primo articolo. In uno Stato povero e in un territorio immensamente popolato come è quello italiano, sarebbe illusorio parlare di possibilità per tutti di accedere alla proprietà. L’articolo è così formulato:

«La Repubblica ha il diritto di controllare la ripartizione e l’utilizzazione del suolo, intervenendo al fine di svilupparne e potenziarne il rendimento nell’interesse di tutto il popolo; al fine di assicurare ad ogni famiglia una abitazione sana e indipendente; al fine di garantire ad ognuno che ne abbia la capacità e i mezzi la possibilità di accedere alla proprietà della terra che coltiva.

A questi scopi la Repubblica impedirà l’esistenza e la formazione di grandi proprietà fondiarie. Il limite massimo della proprietà fondiaria privata sarà fissato dalla legge».

Nella prima parte dell’articolo, parlando del controllo dello Stato, ha interferito in quello che è il tema dell’onorevole Fanfani; ma ricorda che mentre l’onorevole Fanfani tratta l’argomento da un punto di vista dinamico, egli lo tratta invece da quello statico. Rileva che i principî enunciati sono già stati praticamente adottati dal Governo italiano, come ad esempio la legge sulle terre incolte, che precorre queste norme costituzionali. La possibilità per il contadino di accedere alla proprietà della terra che coltiva è un principio ormai adottato da tutti i partiti di massa; è pertanto evidente che questa norma deve essere posta come principio generale, pur non essendovi la possibilità di arrivare subito a porla in atto. Tali scopi non saranno realizzabili se non si pongono dei limiti all’estensione della proprietà. Si tratta di una questione assai discussa; molti si domandano: è utile porre dei limiti nella estensione o meglio nel valore imponibile alla proprietà, o non è meglio provvedere con mezzi fiscali piuttosto che con limitazioni automatiche? L’osservazione è importante. Nel campo economico infatti realizzano molto di più le limitazioni poste con mezzi fiscali che non quelle automatiche. Non si tratta però soltanto di un problema di migliore distribuzione del reddito, ma di un problema di distribuzione della proprietà terriera. È possibile che si propenda e si sostenga che tutti possano essere piccoli proprietari, o almeno compartecipi della proprietà, se non si limita la grande proprietà terriera nella sua estensione? Certamente in altri territori, come ad esempio quello brasiliano, l’ultimo capoverso proposto non avrebbe ragion d’essere, data la grande estensione di territorio ancora vergine e aperto alla coltivazione. Ma, nel caso dell’Italia, ritiene che sia necessaria l’esigenza di una norma come quella proposta, in quanto paese povero, piccolo e sovrappopolato.

Osserva che a taluno potranno apparire un po’ ardite le ultime espressioni dell’articolo proposto; ma occorre tener presente che esse dànno all’economia italiana quell’aspetto di rinnovamento sociale che gli elettori hanno nella grande maggioranza mostrato di desiderare.

Intende rispondere in antecedenza ad alcune obiezioni che gli potranno essere fatte. Si potrebbe osservare, innanzi tutto, che gli articoli sono troppo prolissi: Dichiara subito che ha preferito abbondare piuttosto che essere lacunoso, pensando che sarà poi compito della Sottocommissione ridurre le sue formulazioni a norme più concise, pur lasciando inalterata la sostanza. Per incidenza, fa rilevare agli onorevoli colleghi che in un numero del Giornale d’Italia è stato falsato il concetto delle proposte da lui fatte sul diritto di proprietà. Tale giornale diceva infatti che la sua formulazione garantiva soltanto la proprietà in quanto frutto del lavoro, il che sarebbe esatto, se non vi fosse l’articolo successiva sulla eredità. Ci si trova quindi di fronte ad un tentativo di allarmare l’opinione pubblica.

Altra obiezione è quella che ci sono troppi accenni filosofici. Ciò dipende dalla necessità di inquadrare organicamente questi articoli nel complesso della Costituzione, senza farne delle norme staccate. L’articolo 34 della Costituzione francese dell’anno scorso, che riguardava lo stesso tema, sembrava una norma di codice civile. Ora, non gli sembra il caso di ridurre la Carta costituzionale a semplici norme di diritto civile, ma ritiene che sia necessario fare delle dichiarazioni di principio.

Altra obiezione sarebbe quella che alcuni argomenti sono stati tralasciati. Ribadisce che questi sono da rimandare all’esame di altri problemi.

Ultima osservazione potrebbe essere quella che taluni concetti sono troppo arditi. Bisogna tener presente che le affermazioni non sono fatte per demagogia, ma in quanto ritiene che vi sia la possibilità di una loro pratica realizzazione. Compito della Commissione è quello di preparare i principî umani e sociali necessari per adeguarsi alle esigenze del popolo italiano, che a tal fine ha nominato i suoi deputati alla Costituente.

ASSENNATO chiede per quale motivo il Relatore alcune volte usa la parola «Stato» e alcune altre «Repubblica».

TAVIANI, Relatore, risponde che dove è detto «dello Stato, delle regioni, dei comuni» è preferibile usare la parola Stato, perché con repubblica s’intende lo Stato nella sua complessa organicità.

ASSENNATO osserva che, mentre da tutti si vuole per il futuro la limitazione delle grandi proprietà, con l’ultimo capoverso dell’ultimo articolo si contribuisce a consolidare le grandi proprietà attuali.

TAVIANI, Relatore, non ha difficoltà a sostituire il presente al futuro e dire: «impedisca»; del resto anche altre Costituzioni usano il futuro, e il dire che il diritto di proprietà non potrà essere esercitato non significa che lo possa al presente. In questo caso la Costituzione rimanda alle leggi sulla riforma agraria.

ASSENNATO chiede chiarimenti sulla prima parte dell’articolo 1.

TAVIANI, Relatore, risponde che la proprietà privata si ammette solo in quanto sussiste lo scopo indicato.

GIUA ritiene troppo generico il primo articolo, dove si afferma che la proprietà privata deve essere frutto del lavoro e del risparmio. È difficile stabilire questa condizione e si corre il pericolo di fare una Costituzione che non fissi norme ben determinate.

Inoltre, nelle attuali condizioni della Repubblica italiana, è difficile stabilire che cosa si intenda per proprietà collettiva. Il concetto di proprietà collettiva è per i socialisti diverso da quello che si può fissare oggi nella Carta costituzionale; e se rimanesse questa denominazione, i socialisti dovrebbero trovare un altro termine per esprimere il loro concetto.

Propone, pertanto, di modificare la dizione nel modo seguente:

«La Repubblica garantisce la proprietà privata acquisita nell’ambito della legge (senza stabilire se è frutto di lavoro e di risparmio o altro) la quale determinerà le norme che ne regolino l’acquisto o il trasferimento, i limiti, la estensione e le modalità di godimento».

Verrebbe così tolta l’altra parte dell’articolo che richiama il concetto di proprietà collettiva e si evita anche il grave inconveniente che può derivare dalla espressione «giusto indennizzo». Pensa che si potrebbe stabilire un equo indennizzo, qualora si espropriasse una piccola proprietà; ma quando si consideri il problema delle grandi proprietà, del latifondo siciliano, quando si pensi che il proprietario non conosce nemmeno tutta la sua proprietà, che questa non è stata mai usata, non si trova giustificabile stabilire nella Carta costituzionale il concetto dell’indennizzo per espropriazione.

COLITTO ritiene che in una Costituzione, la quale è un documento fondamentalmente giuridico, non sia necessario indicare le finalità che lo Stato si propone nel riconoscere un diritto; basta affermare il diritto. Per le finalità, è sufficiente quanto è detto nella relazione.

Sul primo comma del primo articolo, che contiene le parole «frutto del lavoro e del risparmio», è d’accordo con l’onorevole Giua nel chiedere che tali parole siano eliminate.

Il secondo comma dello stesso articolo contiene varie enunciazioni: proprietà collettiva, bene comune, situazione di privilegio, monopolio privato, equità e convenienza di prestazione, equità e convenienza di distribuzione, che non sono facilmente definibili.

È d’avviso che l’articolo 2 possa essere fuso col primo e propone che la Sottocommissione approvi un articolo così redatto:

«È riconosciuto e garantito il diritto di proprietà privata. Il contenuto, i limiti, i modi di acquisto, di trasferimento, fra vivi ed a causa di morte, di perdita, sono stabiliti dalla legge.

«Per motivi di pubblica necessità e di utilità definiti con legge si potrà procedere ad espropriazione contro indennizzo».

Quanto all’ultimo articolo, è d’avviso che, nella sostanza, ciò che vi è scritto debba essere affermato in un documento fondamentale della nostra legislazione, quale è la Costituzione; ma pensa che tutto l’articolo possa essere sintetizzato in poche parole che, ritiene, bastino ad esprimere il concetto del relatore: «Lo Stato favorirà lo sviluppo della piccola proprietà».

DOMINEDÒ, al primo comma dell’articolo primo, consente nell’abolizione proposta dall’onorevole Giua, ma per questa ragione: che il riconoscimento del diritto alla proprietà, circoscritto all’ipotesi che questa sia frutto di lavoro e risparmio, eccezionale rispetto al sistema vigente, sposterebbe l’asse del sistema stesso. Non vedrebbe la norma realizzabile, in quanto una disposizione successiva prevede una proprietà di origine ereditaria. Manterrebbe largo lo scacchiere delle fonti della proprietà, accennando sì alle necessità sociali, ma non precludendo il novero delle fonti stesse. Preferirebbe una terminologia diversa, più vicina a quella usata nella Costituzione francese, dove si dice: «Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e risparmio». Per rimanere aderente alla realtà, userebbe questa formula generica, allo scopo di introdurre l’affermazione di massima che dà il tono sociale alla norma, per cui nostra meta tendenziale è la proprietà fondata sul lavoro e il risparmio.

Quindi accede ai concetti espressi dall’onorevole Colitto e propone che l’articolo sia così formulato:

«Allo scopo di assicurare la libertà e l’affermazione della persona umana, viene riconosciuto e garantito il diritto di proprietà privata. Ciascuno vi potrà accedere con il lavoro e con il risparmio. Allo scopo di assicurare la funzione personale e sociale della proprietà privata e il diritto di accedervi, la legge determinerà le norme che regolano l’acquisto, il trasferimento, i limiti, le modalità di godimento».

CORBI ritiene opportuno, per avere una visione più organica del problema, riferirsi anche alla relazione Pesenti, dove sono trattati vari problemi accennati nella relazione Taviani. Ciò faciliterebbe il compito della Commissione.

TAVIANI, Relatore, dichiara di aver tenuto presenti la relazione Pesenti e quella Togliatti; quest’ultima però è molto rapida e lacunosa.

CORBI è d’accordo con l’onorevole Giua nel ritenere che nel primo articolo non si facciano affermazioni filosofiche, che possono anche essere omesse. Che la proprietà privata debba essere frutto del lavoro e del risparmio, è un concetto generico e difficile a definirsi. Intanto occorrerebbe stabilire il concetto di lavoro.

TAVIANI, Relatore, dichiara di accettare le modifiche proposte dall’onorevole Dominedò.

CORBI concorda in quanto è contenuto nel terzo articolo del relatore, perché, a suo avviso, non basta dire che la piccola e media proprietà sono tutelate dallo Stato; così non si risolve il problema della proprietà fondiaria in Italia. Nell’articolo proposto dal Relatore si sono considerate le varie facce del problema: occupazione di terre, necessità di potenziare il rendimento delle terre, di garantire l’abitazione a ciascuna famiglia, possibilità di accedere alla proprietà della terra che si coltiva; sono questi concetti che rispondono meglio alle esigenze della Costituzione che viene formulata nel clima attuale.

È necessario dire che si limiterà la proprietà terriera, date le caratteristiche del nostro Paese. Per tutte queste ragioni ritiene che l’articolo vada tenuto in grande considerazione, e non approva la proposta dell’onorevole Colitto, che vorrebbe limitare le enunciazioni.

GUIA fa una mozione d’ordine, chiedendo che si discuta articolo per articolo.

DOMINEDÒ si associa all’onorevole Giua.

GIUA osserva che con la limitazione della proprietà privata si può giungere anche a limitare lo sviluppo delle cooperative.

ASSENNATO si dichiara d’accordo per la soppressone della parte dell’articolo che riguardarla finalità. Quando si afferma che la proprietà privata deve avere per scopo e finalità la libertà e l’affermazione della persona, ci si riporta, come ha notato giustamente l’onorevole Dominedò, all’affermazione corrispondente della Costituzione francese. Tale richiamo è esatto, ma osserva che l’affermazione fatta in quell’epoca ha una funzione diversa, in quanto ogni affermazione di carattere statutario è assoluta, ma anche relativa al tempo.

DOMINEDÒ dichiara che l’onorevole Assennato non ha interpretato esattamente il suo concetto, in quanto egli si riferiva al precedente dello schema francese non per quanto riguarda l’affermazione di principio, ma solo rispetto al secondo punto del primo comma: «ciascuno deve poter accedere alla proprietà col lavoro». Il richiamo, che concerneva soltanto quest’ultima parte, ha determinato l’equivoco.

Ritiene che il primo comma sia importante, in quanto costituisce un corrispettivo del secondo: dalla sintesi nasce l’equilibrio.

PRESIDENTE dichiara di essere nemico delle enunciazioni di carattere generale e filosofico. Si può bene pensare che la libertà e l’affermazione della personalità non dipendano necessariamente dalla «proprietà privata». Si può essere liberi e non disporre di alcuna proprietà. Non dobbiamo vincolare il legislatore futuro a enunciazioni di principî che domani potrebbero essere sconfessati o superati. L’affermazione contenuta nella Costituzione che la «proprietà privata» è condizione di libertà, potrebbe impedire al legislatore futuro di sostituire alla proprietà privata, o di accompagnarvi, altre diverse forme di proprietà.

Se domani il legislatore volesse abolire la proprietà privata, dovrebbe necessariamente rinnegare il contenuto della prima parte dell’articolo proposto dall’onorevole Taviani. Concludendo, preferisce che la prima parte dell’articolo si limiti alla enunciazione proposta dall’onorevole Colitto: «Lo Stato garantisce il diritto di proprietà privata».

FANFANI è d’accordo che tutte le qualificazioni finiscono coll’invecchiare la Costituzione stessa. Ma si domanda se le affermazioni proposte dall’onorevole Taviani possano impedire un razionale sviluppo della legislazione in materia di proprietà privata. Se ci si limitasse al solo primo comma, sarebbe d’accordo con la tesi enunciata dal Presidente; ma ritiene che mettendolo in relazione col secondo sulla funzione sociale della proprietà e col terzo che considera anche la proprietà collettiva, quelle norme abbiano soltanto lo scopo di rivendicare alla proprietà privata la difesa della personalità umana, ma possano, se mai, acquistare sapore di invito a modificare la proprietà privata tutte le volte che questa non serva a garantire la libertà e il bene, non solo del singolo cittadino, ma di tutti quanti i cittadini. Da qui la necessità di un secondo articolo il quale, riferendosi alla funzione sociale della proprietà e alla necessità di fare accedere alla proprietà tutti i cittadini, limiti nell’estensione, nell’origine, nei modi di trasferimento, anche a tipo ereditario, la proprietà privata; e infine di un terzo articolo in cui si prende in esame la proprietà collettiva stabilendo i modi e i tempi in cui lo Stato dovrà sottrarre la proprietà all’iniziativa, o al dominio privato per passarla all’iniziativa o al dominio collettivo, per dare a tutti gli uomini il massimo di libertà e di benessere che, in quei determinati casi, la proprietà privata non garantisce.

Non vede alcun pericolo a che in ogni articolo, alla formula prettamente giuridica che afferma il diritto o la possibilità di limitarlo, si stabilisca e si faccia seguire anche un’idea direttrice, che faccia capire il perché di quella affermazione giuridica o costituzionale. Con questo non scende a studiare quale deve essere il tenore della giustificazione; si limita ad opporsi all’idea espressa dall’onorevole Colitto e dall’onorevole Presidente, perché ritiene che, come si è fatto finora a proposito dell’istituto della proprietà privata, qualche messa a fuoco dal punto di vista dottrinario sia necessaria, purché sia condivisa da tutta la Commissione, per illuminare il futuro sviluppo legislativo.

PRESIDENTE. L’onorevole Fanfani non disconosce che l’enunciazione della parte dell’articolo potrebbe limitare la libertà del legislatore futuro. Questo pericolo, però, verrebbe corretto dal capoverso che afferma la funzione sociale della proprietà e affida alla legge la determinazione della modalità e dei limiti della proprietà. Ma l’obiezione non gli pare esauriente. Il principio che la proprietà privata è necessaria perché assicura «la libertà e l’affermazione della personalità» non è incrinata dal fatto che le si riconosca una funzione sociale o si assegni un limite alla sua estensione. Quando la legge fosse chiamata a determinare il contenuto della proprietà, allora andrebbe bene la seconda parte. Se si dicesse: «Si garantisce il diritto di proprietà nei limiti che saranno fissati dalla legge», come ha fatto il progetto francese, oppure si dicesse. «La legge garantisce il diritto di proprietà stabilendone il consentito, i limiti, le modalità, ecc.», potrebbe accedere alla proposta Taviani.

TAVIANI, Relatore, chiede all’onorevole Presidente che cosa si debba intendere per contenuto della proprietà.

PRESIDENTE dichiara che la parola «contenuto» può essere ritenuta un termine impreciso. Ma con essa intende significare che la legge potrà liberamente determinare la forma che dovrà assumere la proprietà (privata, pubblica, socializzata, ecc.) secondale necessità e la volontà popolare del tempo nel quale sarà formata.

TAVIANI, Relatore, fa una precisazione. Si può discutere sulla opportunità dell’affermazione filosofica nel senso che a tale affermazione si può arrivare da diversi punti di partenza; ma come l’onorevole Presidente ha posto la questione non sarà mai possibile giungere ad un punto d’accordo; sulla richiesta di lasciare una porta aperta alla legge in modo che questa possa un giorno abolire qualsiasi forma di proprietà singola e personale, non può esservi un punto d’accordo tra le sue idee e quelle dell’onorevole Presidente. Si può concordare nel senso di dire che la possibilità di acquisto della proprietà privata potrà essere limitata in forma estrema come in Russia, o potrà avere un più largo raggio di azione; ma da lui non può essere ammessa la possibilità di abolire una qualsiasi proprietà privata. Sia ben chiaro che non dipende dalla legge il fatto dell’esistenza di una qualsiasi proprietà privata. Insiste su questo punto, perché comprende la posizione di altri partiti su questo importante problema: per esempio, del partito comunista. Questi pensano che fra un secolo possa non esserci più alcuna proprietà privata. Afferma però che a suo parere anche i comunisti devono comprendere la posizione dei democristiani, i quali ritengono che almeno un minimo di proprietà privata ci sarà sempre.

ASSENNATO dichiara di non voler fare dissertazioni di carattere filosofico, che forse allontanerebbero dal tema trattato, rendendo il lavoro della Sottocommissione difficile; desidera soltanto far notare che l’esistenza di una Costituzione e la dichiarazione di un diritto vanno valutati in rapporto all’epoca che si vive. Questa stessa dichiarazione si trova come aggiunta dei primi progetti della Costituzione francese. A quei tempi era un concetto innovativo rivendicare la proprietà privata ed era chiaro che quella situazione conteneva qualche cosa in più, in quanto c’era un riferimento non solo al lavoro, ma anche all’abilità.

Desidera porre un quesito di carattere etico ai colleghi democristiani: se credono che senza possedere proprietà non vi sia libertà. Quello che lo preoccupa è l’eccesso di proprietà da parte di alcuno a danno dei molti. Se si dà alla proprietà un carattere finalistico, nel senso che bisogna che la persona sia aiutata in vista della acquisizione della proprietà, chiede ai colleghi democristiani se quando dicono ciò, allo scopo di garantire la libertà e l’affermazione della persona, attribuiscono alla proprietà la capacità di irrobustire la libertà umana. In altri termini essi darebbero ai figli un’educazione rivolta alla acquisizione della proprietà. Sarebbe d’accordo nel dire: «Allo scopo di garantire la libertà e l’affermazione della persona viene riconosciuto e garantito il diritto della gratuità dell’istruzione». Da un punto di vista conservatore si potrebbe ritenere opportuno un controllo e fare il processo dell’origine della proprietà; ma le statuizioni filosofiche potrebbero allontanarci dal vivo del problema e potrebbero essere superate con l’andar del tempo. Il vero principio sul quale la Commissione è d’accordo è che la Costituzione che si sta elaborando non possa essere abolita prima della proprietà, e allora la cosa che deve preoccupare di più è la difesa della società dagli eccessi della proprietà privata. Propone di eliminare ogni affermazione che porti disaccordo nella Commissione. Fa notare che nell’articolo 2, dove si parla della successione, sia nell’ambito della famiglia sia di quella testamentaria, si aggiunge «spetta pure alla legge determinare la parte che lo Stato preleva sulle eredità». Questo riconoscimento allo Stato, sul quale tutti sono d’accordo, messo in questa forma, assume un carattere puramente fiscale. Invece, a suo parere, occorre vedere nell’intervento dello Stato nella successione testamentaria una funzione sociale; vorrebbe pregare quindi di introdurre questa affermazione, in modo che si stabiliscano i limiti della successione.

TAVIANI, Relatore, dichiara, rispondendo all’ultima richiesta dell’onorevole Assennato, che tale è la sua intenzione; il riferimento alle sole misure fiscali in materia testamentaria non dovrebbe essere compreso in una carta Costituzionale.

LOMBARDO desidererebbe che non si dicesse se la proprietà sia una forma di libertà o di schiavitù. Fa osservare che in una Costituzione, che in ultima analisi riguarda un delimitato periodo storico, e che in rapporto al progresso dell’umanità, quale si svolge attraverso i secoli, potrebbe essere considerato ancor più limitato nel tempo, occorre attenersi ad enunciazioni che si riferiscono ai tempi in cui si vive. Quello che dovrebbe preoccupare è il fatto di sancire più o meno se la proprietà sia riconosciuta e garantita, cioè se esiste il diritto di proprietà e se tale diritto possa essere in realtà garantito dalla legge. Se si ammette che la proprietà possa essere garantita e riconosciuta, ci si deve preoccupare che non se ne abusi. Da questi concetti si arriva a dedurre che la proprietà può essere eventualmente sottratta a chi ne abusi, oppure, indipendentemente dagli abusi, se si sono verificate determinate situazioni, questa proprietà può essere, per ragioni di carattere sociale, sottratta a chi la possiede. Per tale motivo ha formulato una proposta in maniera più concisa da sostituire al primo comma dell’onorevole Taviani:

«La proprietà è riconosciuta e garantita dalla legge nei limiti e nelle forme da essa stabiliti».

In altri termini la Costituzione stessa lascerebbe il campo aperto ad uno sviluppo ulteriore, quando successive variazioni permettessero di modificare i limiti e le forme della proprietà.

TAVIANI, Relatore, fa presente all’onorevole Lombardo che, con la sua proposta, si affianca ai concetti esposti dal Presidente e gli chiede se desideri che sia ben chiaro che la legge riconosce e garantisce il diritto della proprietà privata oppure se ammetta che tale diritto è garantito dalla Costituzione e la legge ne stabilisca le norme e i limiti.

LOMBARDO a suo parere, la Costituzione è una legge a carattere generale.

TAVIANI, Relatore, dichiara di essere disposto a discutere purché si dica che la proprietà privata è riconosciuta dalla Costituzione; poiché la legge non può abolire una qualsiasi proprietà privata. Se una legge facesse questo sarebbe anticostituzionale.

ASSENNATO riterrebbe opportuno fare una premessa all’articolo 1 proposto dall’onorevole Taviani, dicendo: «La proprietà può essere proprietà privata, proprietà demaniale, proprietà collettiva, ecc.»; perché nel titolo si parla del diritto di proprietà, mentre nell’articolo si tratta soltanto della proprietà privata.

TAVIANI, Relatore, dichiara che in un primo momento aveva fatto la distinzione e aveva detto proprietà privata e collettiva come proposto dall’onorevole Assennato; l’aveva poi tralasciata in quanto la parola «collettiva» non ha, come gli era stato fatto notare da alcuni colleghi, un significato giuridico.

DOMINEDÒ osserva non essere esatto neppure parlare di proprietà demaniale.

FANFANI dichiara di non conoscere epoca storica in cui non si siano avute le due forme di proprietà, la collettiva e la privata.

PRESIDENTE fa presente che non si dovrebbe sbarrare la strada a quelle che saranno le future esigenze della società. Egli non nega il diritto alla proprietà privata, ma è anche disposto a riconoscere un’altra forma diversa di proprietà.

TAVIANI, Relatore, fa presente che il problema è ormai impostato chiaramente. Tutti sono d’accordo che vi possa essere una proprietà privata; il disaccordo nasce quando si dichiara che potrà arrivare il giorno in cui non vi sarà alcuna proprietà privata e che questo giorno possa essere previsto dalla Costituzione. Ritiene che tali previsioni non si possano fare. Finora nella formulazione degli articoli approvati dalla Sottocommissione si è seguito il criterio di concretare. La formulazione proposta dall’onorevole Presidente può impressionare l’opinione pubblica, che, come è già accaduto in Francia, potrebbe, in caso di referendum, respingere la Carta costituzionale. L’onorevole Presidente ha detto di preoccuparsi di quelle che potrebbero essere le violente scosse sociali in un lontano domani; il Relatore si preoccupa ancor più di quelle che potrebbero anche essere le scossa attuali dell’opinione pubblica in un Paese come l’Italia, quando essa intravvedesse nella Costituzione la possibilità sia pure di un eventuale misconoscimento del diritto di proprietà. Perciò egli insiste che non sia ricondotto alla legge, ma venga affermato nella Costituzione il riconoscimento del diritto di proprietà privata.

LOMBARDO propone che all’articolo primo sia premessa un’affermazione con la quale si garantisce la proprietà. L’articolo, secondo la sua proposta, dovrebbe essere così formulato:

«La proprietà è riconosciuta e garantita dallo Stato nei limiti e nelle forme da esso stabiliti. Nessuno può esserne privato, se non per cause di utilità sociale, legalmente constatate, e con riserva di indennizzo.

«Il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente all’utilità sociale o in modo da arrecare pregiudizio alla libertà e ai diritti altrui.

«Le imprese che esercitano attività di servizio pubblico e di interesse generale sono nazionalizzate o socializzate a norma di legge».

COLITTO si dice lieto nel constatare che da più parti si è d’accordo nel riconoscere che non è opportuno che nella Costituzione, documento fondamentalmente giuridico, si inseriscano enunciazioni di finalità di ordine filosofico. La proposta dell’onorevole Lombardo, in sostanza, coincide con i suoi concetti. Non è d’accordo che si debba aggiungere la frase proposta dall’onorevole Dominedò, cioè che alla proprietà ciascuno può accedere col risparmio e col lavoro. È una bella frase, ma manca di contenuto giuridico.

Aggiunge che non riesce a comprendere come si possa accedere alla proprietà col lavoro; ci si può accedere quando si utilizzi il risparmio.

DOMINEDÒ dichiara di avere escluso la eventualità di una riduzione delle norme ad una semplice enunciazione delle forme di proprietà, per la ragione che poi occorrerebbe disporre norme particolari per ogni singola figura di proprietà.

Inoltre l’onorevole Assennato vorrebbe che fossero depennate le motivazioni di principio dell’istituto della proprietà privata, ma le sue considerazioni non lo lasciano convinto, perché, se la formulazione di principî è mantenuta nei riguardi della funzione sociale, non si comprende perché dovrebbe essere esclusa per gli altri aspetti. Per tranquillizzare l’onorevole Assennato, rileva che quando si pone la premessa che la proprietà è una forma di tutela della personalità umana, non si esclude che vi siano altri mezzi di difesa. Inoltre la formulazione proposta, a chi ben guardi, costituisce una limitazione della proprietà. È vero che già la Costituzione francese del ’700 riconosceva il diritto di proprietà, ma allora la formulazione era quasi incondizionata. Oggi, ponendo in evidenza la premessa per cui si connette l’istituto alla personalità umana, l’istituto viene ad essere riferito non al singolo ma a tutte le persone, e con ciò se ne limitano gli eccessi. Difendendo la personalità come substrato del diritto, il riconoscimento della proprietà è fatto nell’interesse di tutti e di conseguenza gli eventuali abusi del godimento sono colpiti.

CANEVARI vorrebbe chiarire il concetto esposto dal Presidente. Quando si parla di proprietà, deve essere ben distinta la proprietà bene della persona dalla proprietà che serve al bene sociale, al bene della generalità. Non gli risulta che finora sia stata fatta questa differenziazione; la proprietà è stata considerata sotto un solo aspetto, non è stata considerata anche come mezzo di produzione e di lavoro. In questo caso può essere oggetto di disposizioni legislative che ne modifichino l’uso nei limiti e nei mezzi a beneficio di tutti.

Dichiara di essere favorevole alla proposta dell’onorevole Lombardo.

ASSENNATO fa notare all’onorevole Dominedò che non vi è nulla di più evidente, nel negare l’affermazione della personalità umana, quanto la successione, di cui si parla nell’articolo successivo. La ricezione per successione è un atto negativo della propria personalità.

DOMINEDÒ dichiara che a suo avviso la successione è una continuazione della personalità umana.

ASSENNATO trova strano sancire l’acquisto della proprietà privata come meta finale della educazione. La democrazia cristiana ha la preoccupazione che attraverso la depennazione proposta si miri ad attenuare o eliminare la proprietà privata dalla Carta costituzionale; ma osserva che non si può consentire, in questa epoca, di dichiarare che alla proprietà si assegna lo scopo di stabilire la libertà e la formazione della persona, proprio in questa epoca, in cui anche le più reazionarie legislazioni vanno attenuando il significato della proprietà.

DOMINEDÒ spiega che qui si tratta di porre in evidenza il significato sociale che nasce dalla formulazione proposta.

FANFANI depreca che per la prima volta, nel corso di questa discussione, sia saltato fuori che si parla a nome dei democratici cristiani o dei comunisti. Prega i colleghi di dimenticare, non le loro opinioni personali, ma le etichette; preoccupazione comune deve essere di formare una Carta costituzionale che rispecchi i desideri pressoché universalmente diffusi tra gli italiani.

Per quanto riguarda la tesi in contrasto fra l’onorevole Dominedò e l’onorevole Assennato, li invita a rendersi conto che la situazione attuale non è quella del 1789, anzi è il contrapposto di quella. Oggi la preoccupazione è di compiere uno sforzo, dal punto di vista ideologico e legislativo, per scardinare la difesa della proprietà privata dal principio aristotelico e darle invece una nuova forma di giustificazione, considerarla quasi un modo di affermarsi della persona. Tutte le dottrine economiche aspirano alla formazione di una società in cui l’individuo goda il massimo possibile di libertà e ciascuno possa ottenere quello di cui ha bisogno.

Quando si dice che lo Stato riconosce e difende la proprietà privata quale modo di affermazione della personalità del cittadino, si viene a limitare la proprietà privata e si adotta una norma che inspirerà la legislazione di domani, affinché questa proprietà privata non sia lo schiacciamento della personalità altrui.

Riconosce giusto quanto ha detto l’onorevole Assennato, che non si può porre come obiettivo dell’educazione delle nostre creature l’acquisizione della proprietà; ma non può essere disconosciuto il fatto che l’individuo afferma le proprie qualità costruttive anche attraverso l’appropriazione di ciò che riesce a produrre, ma solo nei limiti che non impediscano la formazione della stessa proprietà privata presso gli altri.

Quando si dice che la proprietà è garanzia elementare della libertà della persona e del suo sviluppo, ci si riferisce a questa epoca storica, anche se si pensa che tutte le epoche si rassomiglieranno, salvo nella quantità di proprietà o di libertà acquisita. Che la proprietà privata sia garanzia elementare della libertà della persona, lo dimostra il fatto delle possibilità diverse che hanno avuto, anche recentemente, uomini che si trovavano in determinate condizioni economiche di fronte ad altri che non le possedevano. Ricorda a questo proposito come gli impiegati di Stato, che non avevano altre possibilità di vita, furono costretti a prendere, anche contro voglia, una tessera; ciò fa pensare che probabilmente se avessero avuto un minimo di proprietà personale si sarebbero sentiti incoraggiati a difendere la loro libertà.

E se questo può affermarsi oggi anche al di fuori della Costituzione, domanda quale pericolo esista se frasi simili vengono incluse nella Costituzione. Se si potesse dimostrare che tali frasi tendono a riportarci ai principî del 1789 sarebbe opportuno lasciarle cadere; ma se esse dovessero servire a limitare la proprietà privata e a sgombrare il terreno con la sua più accentuata limitazione a vantaggio della collettività, è opportuno che siano mantenute. Invita i presenti a chiarire il punto, perché se si dovesse correre il rischio di fare una Costituzione individualistica, le frasi andrebbero tolte.

CORBI constata che dall’ampia discussione svoltasi risulta la preoccupazione di ognuno di superare o ridurre le concezioni individualistiche.

Allo scopo di evitare equivoci ritiene opportuno non far alcuna di queste affermazioni che possono dividere la Commissione.

DOMINEDÒ ripete che il suo concetto è di dare significato sociale a tali affermazioni. Ciò sarebbe particolarmente utile, se questo contenuto sociale non dovesse essere poi sviluppato dalle successive disposizioni che la Costituzione conterrà, perché il problema non si conclude col primo comma del presente articolo.

Resta comunque stabilito, e in questo l’accordo è generale, che il diritto di proprietà è garantito, salvo quelle limitazioni che si riterranno opportune. Pensa in proposito che si possa accedere alla proposta dell’onorevole Lombardo la quale, se dovesse suscitare preoccupazioni, potrebbe essere ancora più schematizzata, dicendosi: «Il diritto di proprietà è riconosciuto e garantito dallo Stato. Nessuno può esserne privato, se non per causa di pubblica utilità legalmente constatata e previo indennizzo».

PRESIDENTE rinvia la discussione alla seduta di domani.

La riunione termina alle 12.40.

Erano presenti: Assennato, Canevari, Colitto, Corbi, Dominedò, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Lombardo Ivan Matteo, Marinaro, Merlin Angelina, Rapelli, Taviani.

Assenti giustificati: Molé, Noce Teresa.

Assenti: Paratore, Togni.

MARTEDÌ 24 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

10.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MARTEDÌ 24 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Comunicazione del Presidente

Presidente.

Sulla protezione della puerpera e del bambino

Merlin Angelina – Presidente.

Garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino (Seguito della discussione)

Presidente – Merlin Angelina – Giua, Relatore – Colitto – Paratore – Molè – Fanfani – Assennato.

La seduta comincia alle 15.15.

Comunicazione del Presidente.

PRESIDENTE comunica che gli onorevoli Di Vittorio e Pesenti non fanno più parte della terza Sottocommissione e che sono stati sostituiti dagli onorevoli Assennato e Corbi.

Sulla protezione della puerpera e del bambino.

MERLIN ANGELINA desidera fare una questione pregiudiziale, osservando che sul quotidiano L’Unità del 22 settembre è apparso un articolo nel quale è detto che la Terza Sottocommissione avrebbe votato un articolo che non impegna lo Stato nella protezione della puerpera e del bambino. Tiene a precisare che nell’articolo da lei proposto, in accordo con la onorevole Federici Maria, approvato a grande maggioranza dalla Sottocommissione, non si parlava di neonati e di puerpere, ma di madri e di fanciulli, in quanto con tali termini si intendeva sia la gestante, sia la donna che allatta, sia la donna che porta i suoi figli fino alla loro completa autonomia; la parola «fanciullo» è stata scelta in quanto nella lingua italiana non c’è un termine che indichi la creatura dal momento in cui nasce fino al momento in cui entra nella gioventù, come invece c’è nella latina, dove «puer» indica il bambino da quando nasce a quando veste la toga. Tiene a riconfermare quanto ha detto, perché resti ben chiaro che la Sottocommissione non ha affatto inteso, con l’approvazione dell’articolo, escludere le puerpere e i bambini, ma anzi ha inteso comprenderli nelle parole «madre» e «fanciullo».

PRESIDENTE prende atto delle dichiarazioni fatte dalla onorevole Merlin, condividendo pienamente il suo pensiero in merito a tale precisazione.

Seguito della discussione sulle garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino.

PRESIDENTE apre la discussione sui due articoli proposti dall’onorevole Giua, riguardanti il diritto di migrazione.

GIUA, Relatore, avendo preso visione di un articolo approvato dalla prima Sottocommissione in materia di migrazione, che riproduce quasi letteralmente quelli da lui proposti, chiede quale sia il pensiero della Sottocommissione in proposito.

PRESIDENTE risponde che la questione sarà risolta in sede di coordinamento.

Dà quindi lettura degli articoli proposti dall’onorevole Giua:

«Ogni cittadino può circolare e fissare la propria residenza o domicilio in ogni parte del territorio nazionale, salvo i limiti imposti dalla legge per motivi di sanità e di ordine pubblico».

«La libertà di movimento del cittadino italiano all’esterno del territorio nazionale (diritto di emigrazione) non può essere limitata dallo Stato, altro che per ciò che concerne la tutela del lavoro volontariamente collettivo. Il cittadino italiano che abbandona volontariamente il territorio nazionale per ragioni di lavoro non perde il diritto alla protezione dello Stato».

Ritiene, d’accordo con altri colleghi, che gli articoli, con lievi modifiche di forma, potrebbero essere formulati nel modo seguente:

«Il cittadino può circolare e fissare la propria residenza, domicilio o dimora in ogni parte del territorio dello Stato, salvo i limiti imposti dalla legge per motivi di sanità e di ordine pubblico.

«La libertà di movimento del cittadino italiano all’estero (diritto di emigrazione) può essere limitata dallo Stato solo per la tutela del lavoro nell’interesse collettivo. Il cittadino che emigra non perde il diritto alla protezione dello Stato».

Pone in discussione il primo articolo.

GIUA, Relatore, dichiara di consentire nella nuova formulazione, in quanto contiene gli stessi concetti degli articoli da lui proposti.

COLITTO propone di togliere le parole «può circolare», poiché il concetto esposto da esse è implicito là dove si parla «di fissare la propria dimora».

GIUA, Relatore, propone di mettere «può muoversi liberamente».

PRESIDENTE conviene che si può usare un’altra parola che esprima lo stesso concetto, ma fa presente che il termine «circolare» è usato anche in altre Costituzioni.

COLITTO insiste nella sua proposta, in quanto, a suo parere, è chiaro che, quando si può fissare liberamente la propria dimora, si può anche circolare.

PRESIDENTE osserva che, effettivamente, se nell’articolo si parlasse soltanto di domicilio e di residenza il termine «circolare» si renderebbe necessario, ma con l’aggiunta della parola «dimora» si rende chiaro il concetto della libertà di muoversi; tuttavia, eliminarlo completamente ridurrebbe il concetto che si vuole esprimere.

COLITTO propone di adottare il termine «muoversi», per una semplice questione di proprietà di linguaggio.

GIUA è del parere di lasciare l’espressione che si ritrova in tutte le Costituzioni; tanto più che, se si dovesse giungere alle autonomie regionali, potrebbero venire stabiliti dei divieti di trasferimento da regione a regione.

COLITTO propone la dizione «muoversi liberamente».

PARATORE concorda con l’onorevole Colitto nel trovare linguisticamente poco felice il termine «circolare», che pare riferirsi più a dei veicoli che a degli individui.

MERLIN ANGELINA propone l’adozione del termine «trasferirsi».

PARATORE, data la difficoltà di trovare un termine sostitutivo, propone di lasciare «circolare».

MOLÈ non trova opportuno far riferimento, nella Costituzione, a ragioni di ordine pubblico; è un concetto di grande discrezionalità lasciato all’arbitrio della polizia. Le ragioni sanitarie sono applicate in base a determinazioni del Governo, i motivi di ordine pubblico possono sempre essere sollevati dalla polizia.

COLITTO propone la formula «salvi i limiti imposti della legge».

MOLÈ, per quanto riguarda l’eccezione sollevata dall’onorevole Colitto sul termine «circolare», propone che questo venga sostituito con «trasferirsi».

PRESIDENTE propone di mettere accanto al termine «circolare» l’avverbio «liberamente».

Concordando nella necessità di togliere il termine «ordine pubblico», propone che l’articolo resti così formulato:

«Il cittadino può liberamente circolare e fissare la propria residenza, domicilio e dimora in ogni parte del territorio dello Stato, salvo i limiti imposti dalla legge».

COLITTO propone di invertire l’ordine dei termini «residenza, domicilio e dimora» in «domicilio, residenza e dimora», uniformandosi alla dizione seguita dal Codice civile italiano. Propone di sopprimere l’aggettivo «proprio».

PRESIDENTE dichiara che, accogliendo la proposta dell’onorevole Colitto, l’articolo resta così formulato:

«Il cittadino può circolare e fissare il domicilio, la residenza e la dimora in ogni parte del territorio dello Stato, salvo i limiti imposti dalla legge».

Lo pone ai voti.

(È approvato).

Apre la discussione sul secondo articolo proposto dall’onorevole Giua, articolo che, come ha già detto, è stato, d’accordo con alcuni colleghi, così modificato:

«La libertà di movimento del cittadino italiano all’estero (diritto di emigrazione) può essere limitata dallo Stato solo per la tutela del lavoro nell’interesse collettivo. Il cittadino che emigra non perde il diritto alla protezione dello Stato».

MOLÈ fa considerare che la libertà di movimento all’estero non dipende dallo Stato italiano; da questo, se mai, dipende la libertà di uscire.

COLITTO pensa che con questo articolo si voglia affermare che il cittadino che valica i confini conserva la protezione dello Stato.

GIUA, Relatore, osserva che se il cittadino vuole emigrare, lo Stato non glielo può impedire. Si potrebbe dire: «Il diritto di emigrazione è garantito dallo Stato».

PARATORE ritiene la dichiarazione troppo categorica, perché l’emigrazione non dipende sempre dallo Stato.

PRESIDENTE spiega che il diritto di emigrazione può essere limitato dallo Stato solo per ciò che concerne la tutela del lavoro o l’interesse collettivo.

PARATORE aggiunge che l’emigrante ha diritto a speciale protezione.

MERLIN ANGELINA fa il caso dell’operaio, che, con i suoi risparmi, si rechi, ad esempio, in Isvizzera e si ammali. Se deve essere ricoverato all’ospedale chi pagherà la retta se egli non ne avesse i mezzi?

MOLÈ risponde che nei trattati internazionali sono regolati anche i rapporti nei riguardi dell’assistenza. Se poi questo regolamento manca, sarà il Console italiano che dovrà provvedere.

GIUA, Relatore, aggiunge che se il cittadino è andato all’estero per ragioni di lavoro ha diritto ad una maggiore tutela.

MOLÈ ricorda che i rappresentanti italiani, sotto tutti i regimi, anche sotto quello totalitario, hanno sempre protetto il cittadino italiano all’estero. Quindi non trova necessario riaffermare qui questo diritto, che è considerato sotto il diritto internazionale.

FANFANI propone la seguente formula: «Il diritto di espatriare è garantito dallo Stato nei limiti consentiti dagli accordi internazionali e dalle leggi sulla tutela del lavoro. Il cittadino emigrato non perde il diritto alla protezione dello Stato».

PARATORE osserva che quando si dice «non perde il diritto alla tutela» si suppone la legge sull’emigrazione. Questo deve restar chiaro.

PRESIDENTE dichiara che l’articolo rimarrebbe così formulato:

«Il diritto di espatriare è garantito dallo Stato nei limiti consentiti dagli accordi internazionali e dalle leggi sulla tutela del lavoro. Il cittadino emigrato non perde il diritto alla protezione dello Stato».

Propone di riunire in uno solo i due articoli proposti dal relatore.

MOLÈ userebbe la parola «stabiliti» invece di «consentiti».

ASSENNATO direbbe «emigrato per ragioni di lavoro».

COLITTO rileva che questa precisazione può far pensare che il cittadino che espatria per altre ragioni perde la protezione.

FANFANI preferirebbe la parola «espatriato» ad «emigrato».

PARATORE osserva che c’è differenza fra l’emigrante e colui che va all’estero non per ragioni di lavoro. Bisogna chiarire a chi si fa riferimento.

COLITTO risponde che si fa riferimento al cittadino italiano che, per il fatto che va all’estero, ha diritto alla protezione.

PARATORE ritiene più proprio dire «espatriato» che «emigrato».

ASSENNATO non ritiene uguale la posizione del cittadino che espatria per lavoro a quella di chi espatria per altri motivi. Gli pare opportuno dichiarare che vi è un diritto particolare alla protezione a favore di chi espatria per ragioni di lavoro.

È ovvio che chi espatria conservi il diritto alla protezione dello Stato di origine; l’essenziale è sottolineare il diritto dell’emigrato che deve sentirsi sempre particolarmente protetto dalla Patria.

PARATORE, poiché la Commissione dovrà pure occuparsi dell’emigrazione, pensa che il problema vada trattato in quella occasione; qui occorre solo limitarsi a considerare che chi lascia l’Italia è tutelato come cittadino italiano; quindi è inutile parlare di emigranti.

COLITTO ricorda che la Commissione si deve occupare delle questioni economico-sociali, perciò anche della emigrazione. Si dovrebbe dire: «Il diritto di emigrare per ragioni di lavoro è consentito nei limiti delle leggi».

MERLIN ANGELINA osserva che si può espatriare anche per ragioni di studio, ed essere oggetto di soprusi.

GIUA, Relatore, risponde che a questo provvedono gli accordi internazionali.

PRESIDENTE ritiene che l’osservazione dell’onorevole Assennato, di ammettere una particolare protezione dello Stato per l’emigrante, non è superata dal fatto che si parli di emigrante.

Pone ai voti l’articolo così formulato: «Il diritto di emigrare è garantito dallo Stato nei limiti stabiliti dagli accordi internazionali e dalle leggi sul lavoro.

«Il cittadino emigrato ha diritto alla protezione dello Stato».

(È approvato).

Pone ai voti la proposta da lui formulata di riunire in uno solo i due articoli approvati.

(È approvata).

Dà lettura dell’articolo nel suo testo definitivo: «Il cittadino può circolare e fissare il domicilio, la residenza e la dimora in ogni parte del territorio dello Stato, salvo i limiti imposti dalla legge.

«Il diritto di emigrare è garantito dallo Stato nei limiti stabiliti dagli accordi internazionali e dalle leggi sul lavoro.

«Il cittadino emigrato ha diritto alla protezione dello Stato».

Lo pone ai voti.

(È approvato).

La sedata termina alle 16.

Erano presenti: Assennato, Colitto, Corbi, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Merlin Angelina, Molè, Paratore.

Assenti giustificati: Canevari, Dominedò, Lombardo Ivan Matteo, Marinaro, Noce Teresa, Rapelli, Taviani, Togni.

VENERDÌ 20 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

9.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI VENERDÌ 20 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino (Seguito della discussione)

Giua, Relatore – Colitto – Togni – Presidente – Molè – Federici Maria – Rapelli – Marinaro.

La seduta comincia alle 10.40.

Seguito della discussione sulle garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino.

GIUA, Relatore, dà lettura dell’articolo da lui proposto sull’educazione, così formulato: «Qualora la famiglia si trovi nella impossibilità di dare un’educazione civile ai figli, è compito dello Stato di provvedere a tale educazione con istituzioni proprie.

«Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».

L’articolo rientrerebbe nel tema generale della famiglia, ma ha ritenuto necessario ammettere la possibilità dell’intervento dello Stato in questo settore, soltanto nel caso che la famiglia sia nell’impossibilità di provvedere all’educazione dei figli. È un concetto che si deve affermare nella nuova Costituzione per non dare allo Stato il potere di ingerirsi nell’educazione dei giovani, compito che, in linea di massima, deve restare di stretta competenza della famiglia. L’articolo è in contrasto con altre Carte costituzionali, e in particolare con l’articolo 120 di quella di Weimar, che ammette la possibilità da parte dello Stato di sorvegliare l’educazione che i genitori impartiscono ai loro figliuoli. Tale sorveglianza sarebbe in contrasto con l’indirizzo generale adottato dalla Commissione e con l’affermazione della piena libertà dell’individuo, che lo Stato deve rispettare. Tale rispetto deve trovare particolare applicazione nel campo della famiglia, che costituisce il nucleo base dell’organizzazione sociale.

Il secondo comma «Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino» afferma che l’indirizzo non si deve discostare da quella che sarebbe l’educazione data dalla famiglia, nel caso che questa potesse provvedervi.

COLITTO chiede al relatore che cosa si debba intendere con il termine «civile».

GIUA, Relatore, chiarisce che con tale termine si evita la possibilità di intendere l’educazione come espressione di un indirizzo confessionale, di partito, settario, ecc.

COLITTO propone la soppressione del termine «civile».

PRESIDENTE non concorda con la proposta dell’onorevole Colitto, trovando necessaria la specificazione.

COLITTO propone la formula «nell’impossibilità di educare i figli», invece che «nell’impossibilità di dare un’educazione civile».

GIUA, Relatore, concorda con la proposta dell’onorevole Colitto, poiché, lasciando invariato il secondo comma, resta chiaro l’indirizzo che si vuol dare all’educazione.

Quanto ai collegi di educazione, fa rilevare che gli istituti già esistenti in Italia si limitano all’istruzione media, mentre sarebbe necessaria l’istituzione di convitti anche per quella elementare, ed i figliuoli di genitori condannati a pene detentive e gli orfani potrebbero formare in questi istituti la loro educazione.

TOGNI ritiene che il termine «civile» implichi una limitazione del concetto della educazione. A suo parere è necessaria l’affermazione del principio che lo Stato deve garantire, provvedere o intervenire, nel campo dell’educazione, ma non necessariamente e direttamente, come sembra sia previsto nella formula dell’articolo proposta dall’onorevole Giua. È noto che esistono convitti tenuti da sacerdoti o da civili, che provvedono alla educazione dei giovani e che lo Stato dovrebbe sovvenzionare, senza tuttavia intervenire direttamente nell’educazione.

GIUA, Relatore, non può convenire con le affermazioni fatte dall’onorevole Togni. Pur non condividendo le tesi estremiste, che vorrebbero investire lo Stato interamente dell’importante compito dell’educazione, non può accedere all’idea di un assoluto agnosticismo in materia da parte dello Stato.

PRESIDENTE fa notare che, con la formulazione dell’articolo proposto dall’onorevole Giua, non vengono precluse le possibilità di educazione da parte di istituti privati. Se lo Stato è investito dell’obbligo di provvedere in certi casi all’educazione, non per questo restano escluse le istituzioni private.

COLITTO propone la seguente formulazione: «Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi».

GIUA, Relatore, trova eccessivamente generica la formulazione proposta dall’onorevole Colitto.

PRESIDENTE insiste per l’adozione della formula integrale proposta dall’onorevole Giua, che ritiene la più rispondente al tema dell’educazione. Il termine «civile», a suo parere, significa che l’educazione deve essere ispirata a sensi di civismo e non è affatto in opposizione con il concetto della religione. Dichiara, che voterà pertanto la formula proposta dall’onorevole Giua, in quanto è l’unica che elimina qualunque sottinteso politico, confessionale o settario.

Anche il termine «istituzioni proprie» gli sembra ben apposto, perché è evidente che quando lo Stato deve intervenire non può farlo che direttamente e con mezzi propri. L’opera educativa compiuta da istituti privati può essere integrativa di quella dello Stato.

TOGNI ritiene che la migliore educazione sia quella integrata dall’insegnamento religioso, che non si limita ad una formula esteriore civile, ma mette radici nel sentimento religioso del fanciullo. Se potesse formulare un articolo in tale materia, direbbe che lo Stato deve appoggiarsi alle organizzazioni religiose; ma poiché tale concetto non può essere condiviso da altri, ritiene che non sia il caso di precisare né il concetto dell’intervento diretto dello Stato, né quello del predominio religioso. Che lo Stato provveda direttamente o indirettamente è una questione che sarà decisa caso per caso, a seconda della situazione particolare o speciale dei tempi; ma, poiché il termine «educazione civile» può far pensare che sia esclusa la parte educativa religiosa, ritiene che nell’articolo si dovrebbe parlare di educazione in generale. Sarà poi compito degli organi dello Stato vedere quale educazione convenga adottare tenendo conto della famiglia, della religione, della razza, ecc. Non vi è la necessità di stabilire fin da ora il principio che lo Stato debba provvedere direttamente all’educazione, soprattutto in quanto lo Stato è stato sempre il peggior educatore.

MOLÈ afferma che lo Stato può essere cattivo educatore, quando voglia imprimere una determinata ideologia politica nel campo dell’educazione, ma non può essere considerato tale, quando si adegui a principî di libertà.

TOGNI rileva che lo Stato è sempre l’espressione di un partito, e cercherà quindi di imprimere alla vita della Nazione un determinato indirizzo politico.

PRESIDENTE ritiene che dicendo «qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di dare un’educazione civile ai figli» non si menomi la libertà della famiglia di educare i figli, anche inviandoli presso istituti privati, né si crei un monopolio dello Stato nel campo della educazione; si intende affermare l’obbligo dello Stato di provvedere all’educazione, quando la famiglia non possa assolvere a tale compito né con mezzi propri, né con l’aiuto di istituti privati. Richiama l’attenzione sul fatto che il problema generale dell’educazione è di competenza della prima Sottocommissione, mentre la terza deve studiare le garanzie economico-sociali, che hanno attinenza con tale problema.

TOGNI ritiene che la formula proposta dall’onorevole Colitto sia la più precisa e la meglio rispondente per una Carta costituzionale, in quanto afferma il principio dell’obbligo dello Stato nel campo dell’educazione, togliendo la limitazione derivante dal termine «civile».

PRESIDENTE ritiene che l’intervento dello Stato non debba essere ispirato ad una educazione di colore politico, ma ad un senso di civismo, all’infuori di qualsiasi ideologia di partito. Insiste perciò per il mantenimento della parola «civile».

COLITTO chiede al Relatore di voler più chiaramente specificare il significato che ha voluto dare alla parola «civile».

GIUA, Relatore, dichiara che per «educazione civile» ha inteso educazione non confessionale o ispirata ad ideologie politiche, quale sarebbe, ad esempio, quella statolatria che afferma la preminenza dello Stato sui cittadini; ed ha voluto sottolineare l’obbligo del rispetto della libertà anche in questo settore. Riferendosi a quanto ha detto l’onorevole Togni, in merito all’educazione religiosa, dichiara di non essere contrario ad essa purché sia considerata dal punto di vista etico-cristiano; ma dal punto di vista della superfetazione della religione come insegnamento catechistico, non può ammetterla. Quindi, come è necessario che lo Stato moderno crei una pedagogia indirizzata a tutto il complesso della vita civile, cioè al rispetto della libertà e delle opinioni politiche, così pure si deve ammettere l’esistenza di una vita civile che sia al disopra delle situazioni politiche di destra o di sinistra. Lo Stato deve dare un’educazione fondamentale, ma lasciar libere le famiglie che vogliono educare religiosamente i loro figliuoli inviandoli ad istituti religiosi.

MOLÈ rileva che vi sono due casi di impossibilità della famiglia ad educare i figli: quando il genitore o i genitori siano condannati ad una pena detentiva, o quando vi sia l’estrema indigenza. In questi casi lo Stato deve direttamente intervenire. Però, se la famiglia è nell’impossibilità economica, ma ha ancora la sua entità morale, può chiedere che i bambini siano affidati ad un istituto religioso; nell’altro caso lo Stato provvederà ad un’educazione che risponda alle comuni esigenze di tutti gli uomini civili, siano essi ebrei o cattolici o protestanti. Ricorda che nella scuola italiana si insegna la religione, il che esclude il pericolo di un’educazione atea da parte dello Stato. Pertanto non condivide il parere dell’onorevole Togni che l’educazione da parte dello Stato costituisca un pericolo e ritiene che la formula proposta dall’onorevole Colitto non differisca molto da quella del Relatore.

TOGNI non crede che la formula proposta dall’onorevole Colitto sia equivalente a quella dell’onorevole Giua, in quanto il relatore afferma che è compito dello Stato di provvedere all’educazione con istituzioni proprie. Lo Stato, a suo parere, ha a suo carico l’onere finanziario dell’educazione, ma questa educazione dovrà essere data secondo i desideri della famiglia. Non si può obbligare lo Stato ad intervenire nell’educazione dei fanciulli, assumendo la figura di tutore, ma limitare il suo intervento a sussidi da erogare ad istituti privati.

MOLÈ ritiene che con l’adozione della proposta dell’onorevole Togni vi sarebbe il pericolo che lo Stato fosse costretto a sovvenzionare istituti aventi determinati colori politici.

Il problema educativo è troppo importante perché lo Stato se ne disinteressi; come si deve evitare l’estremismo dello Stato totalitario, si deve anche evitare quello dello Stato completamente agnostico. Lo Stato deve fornire il paradigma dell’educazione e, quando questa non sia possibile, provvedervi direttamente.

FEDERICI MARIA desidera che sia chiarito come si debba accertare l’impossibilità della famiglia a provvedere all’educazione dei figli.

PRESIDENTE risponde che la materia è oggetto di legislazione.

FEDERICI MARIA osserva che vi è il caso di una carenza della famiglia di ordine legale e il caso di una carenza di ordine economico. Per quanto riguarda la prima, lo Stato deve evidentemente intervenire; ma, per quanto riguarda la seconda, è difficile stabilire l’intervento dello Stato; si potrebbe verificare il caso di una folla di persone che chiedano l’intervento dello Stato e allora, praticamente, si avrebbe quell’educazione statale che deve essere evitata. Chiede poi se sarebbe possibile fare un’aggiunta all’articolo approvato il giorno avanti, riguardante l’istruzione dei ragazzi poveri.

PRESIDENTE dichiara che se si riconoscessero gli istituti privati come integrativi dell’intervento dello Stato, questo li deve sussidiare; ma se si ritiene che lo Stato possa fare a meno di questi istituti privati, dovrebbe provvedere con istituti propri indipendentemente da qualunque ideologia politica, religiosa ecc. Per questo motivo ritiene ben formulata la dizione dell’onorevole Giua: «è compito dello Stato di provvedere all’educazione con istituzioni proprie». Non ritiene che si tratti di un monopolio arrogato dallo Stato nel campo dell’educazione, ma che anzi la proposta ammetta resistenza di istituzione private.

RAPELLI ritiene che, facendosi l’ipotesi di una carenza economica della famiglia, lo Stato debba intervenire soltanto dal punto di vista dei mezzi materiali, essendo già stato affermato il principio che lo Stato riconosce a tutti i cittadini italiani il diritto al lavoro e predispone i mezzi necessari al suo godimento.

TOGNI, d’accordo con l’onorevole Molè, presenta la seguente modificazione dell’articolo: «Qualora la famiglia si trovi nella impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi». Aggiunge che lo Stato, creando una sene di istituzioni che accompagnino i bambini dai primi anni della vita fino all’età della ragione, dando loro un’educazione, si assume un compito di grande responsabilità. Ciò potrebbe ammettersi in uno Stato concepito astrattamente, ma in pratica lo Stato è l’espressione del partito dominante e pertanto può avvenire che mutando i partiti, mutino le direttive dell’educazione dei ragazzi. Insiste quindi affinché venga fissato il principio che lo Stato deve provvedere in senso generale all’educazione, senza ulteriori specificazioni, e che l’articolo resti così formulato:

«Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi nel rispetto della libertà del cittadino».

MOLÈ non approva l’inclusione dei concetti di educazione e di libertà in un solo periodo.

PRESIDENTE rileva che, quando si parla di educazione in senso generale, l’attributo «civile» intende un’educazione ispirata a sensi di civismo. Pertanto insiste sull’adozione di tale attributo.

Dichiara di accettare integralmente la formula presentata dall’onorevole Giua, che ritiene la più rispondente alle garanzie che si richiedono in materia di educazione.

GIUA, Relatore, dichiara di accettare la formula proposta dall’onorevole Togni, purché sia approvato il secondo comma da lui proposto, che dice: «Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».

PRESIDENTE dichiara che, poiché l’onorevole Giua ritira la sua proposta per aderire alla formulazione dell’onorevole Togni, insieme cogli onorevoli Colitto e Molè, fa proprio l’articolo proposto nella relazione.

Pone quindi in votazione l’articolo così formulato:

«Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di dare un’educazione civile ai figli, è compito dello Stato di provvedere a tale educazione con istituzioni proprie.

«Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».

(Non è approvato).

Dà lettura dell’articolo presentato dagli onorevoli Giua, Togni. Molè e Colitto, che dice:

«Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi.

«Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».

Lo pone in votazione, dichiarando di astenersi.

(È approvato).

GIUA, Relatore, legge gli articoli da lui proposti.

Art. …

Tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi, senza alcuna restrizione, tranne quella della capacità.

L’esercizio dell’insegnamento universitario è aperto a tutti i capaci indipendentemente da distinzioni di razza, religione, credo politico e nazionalità. L’accesso agli impieghi privati è aperto a tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso.

Art. …

Il cittadino italiano in possesso del titolo necessario ha diritto di esercitare una professione nel territorio della Repubblica. Tale diritto è tutelato dallo Stato e disciplinato dalle leggi e dai regolamenti degli ordini professionali.

Lo stesso diritto compete ai cittadini di altri paesi che stabiliscano il trattamento di reciprocità.

Fa osservare che, data la carenza dell’insegnamento universitario, dipendente dal fatto che durante il periodo fascista la quasi totalità delle cattedre universitarie è stata coperta da giovani insegnanti venuti su in clima fascista, occorre provvedere urgentemente. Già in altra epoca il De Sanctis ed il Sella avevano aperto le nostre Università ad insegnanti stranieri; anche ora è necessario ricorrere a questa possibilità, se si vuol rinnovare lo spirito dell’insegnamento universitario.

È evidente che per le scienze giuridiche difficilmente verranno insegnanti stranieri, ma per le altre scienze di carattere internazionale, e specialmente per quelle sperimentali, è ovvia la necessità che all’insegnamento siano ammesse anche persone che non abbiano la nazionalità italiana.

COLITTO propone di sopprimere l’inciso «senza alcuna restrizione, tranne quella della capacità».

MOLÈ espone alcuni dubbi: questa specificazione circa le modalità per i concorsi non crede sia materia di Costituzione, ma di legge. Da un punto di vista tecnico, non è la Costituzione che deve stabilire che gli uffici sono assegnati per concorso; però dichiara di non fare alcuna proposta in merito.

Quanto alla seconda affermazione: la parificazione assoluta dei sessi in tutti gli uffici, osserva che vi sono uffici in cui tale parificazione non è possibile, ad esempio in quelli che riguardano le funzioni giudiziarie e militari.

FEDERICI MARIA non trova ammissibili queste discriminazioni.

MOLÈ risponde che già nel diritto romano, e poi dai Santi Padri era stato riconosciuto che la donna, in determinati periodi della sua vita, non ha la piena capacità di lavoro.

PRESIDENTE direbbe «idoneità» invece di «capacità».

MOLÈ infine osserva che se non si può evitare, per ragioni contingenti, che si debba ricorrere alla partecipazione di stranieri ad un alto ufficio quale è quello dell’insegnamento superiore, non si dovrebbe stabilire come norma statutaria tale partecipazione. Potrebbe avvenire che in un futuro più o meno prossimo la direzione spirituale della Nazione italiana venisse affidata ad uomini che non sono italiani e che non hanno alcun attaccamento alla storia e alle esigenze della Nazione. Ciò sarebbe molto pericoloso, specialmente dal punto di vista politico.

TOGNI in luogo del secondo articolo del Relatore propone di premettere al primo un’affermazione di principio alla garanzia del libero esercizio professionale così concepita: «La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale, nel rispetto della legge».

Al primo comma proposto dal Relatore toglierebbe l’inciso «senza alcuna restrizione, tranne quella della capacità» e sostituirebbe «e in relazione alla propria idoneità».

Dove si parla dell’insegnamento universitario, anziché dire «è aperto» direbbe «può essere aperto».

Non ritiene poi necessario l’ultimo punto, ma non fa alcuna proposta in merito. Il testo dell’articolo così modificato sarebbe il seguente:

«La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale nel rispetto delle leggi. Tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi ed in relazione alla propria idoneità. Per l’insegnamento universitario, ai concorsi possono essere ammessi anche cittadini stranieri. L’accesso agli impieghi privati è aperto a tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso».

GIUA, Relatore, dichiara di accettare la formulazione Togni.

COLITTO è d’accordo con l’onorevole Molè che la donna non abbia la capacità di svolgere le funzioni giudiziarie, ma fa rilevare che sostituire «idoneità» a «capacità» non chiarisce il concetto.

FEDERICI MARIA trova inammissibile l’affermazione dell’incapacità della donna a ricoprire funzioni giudiziarie; quanto poi ad impieghi di carattere militare fa notare che si vanno sviluppando i così detti servizi ausiliari, compiuti da donne, e che, anche nella polizia, è preveduto l’impiego delle donne.

MOLÈ consente che le donne possano ben corrispondere nei corpi ausiliari dell’esercito; ma si tratta di un caso che non permette generalizzazioni. Non intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile.

FEDERICI MARIA ritiene che basterebbe sostituire a «capacità» «idoneità».

COLITTO, poiché nella Costituzione non si può fare della casistica, direbbe: «L’accesso ai pubblici impieghi è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi».

PRESIDENTE propone di modificare la proposta Togni, riferendo l’idoneità al sesso e precisamente: «Tutti i cittadini italiani sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorso, senza restrizione di sesso, tranne quella della idoneità».

FEDERICI MARIA ricorda che anche nella discussione sul lavoro furono sollevate eccezioni per le donne.

TOGNI è del parere che non si debba scendere a dettagli sulle limitazioni. Queste verranno fatte all’atto del concorso in riferimento alle qualità fisiche che l’ufficio richiede. Se già si dice che sono ammessi senza limitazioni di sesso, tranne quella della idoneità, l’idoneità può riferirsi tanto alla persona che al sesso. Nella Costituzione non possono essere posti dei limiti all’accesso di un sesso agli impieghi.

COLITTO, poiché non è possibile scendere a dettagli, insiste nel proporre il seguente articolo:

«L’accesso ai pubblici impieghi è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi».

TOGNI obietta che la Costituzione non può rimandare alle leggi: deve dare delle direttive. Del resto in America ed in Inghilterra limitazioni del genere non vengono fatte; tutte le carriere, dalla militare alla professionale, sono aperte alle donne.

FEDERICI MARIA, poiché nessuna Costituzione fa restrizioni in materia, insiste perché non siano fatte nella nostra.

MOLÈ dichiara di accettare la formula proposta dall’onorevole Colitto.

PRESIDENTE chiarisce che l’articolo sarebbe così formulato:

«La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale nel rispetto delle leggi».

Pone ai voti questo comma.

(È approvato).

Dà poi lettura delle due proposte, quella degli onorevoli Colitto e Molè, e l’altra dell’onorevole Togni, per il comma successivo.

La prima è così formulata:

«L’accesso ai pubblici impieghi è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi».

L’altra è la seguente:

«Tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi ed in relazione alla propria idoneità».

MARINARO è favorevole alla prima formula, ma con la seguente modificazione alla seconda parte:

«Agli impieghi nelle amministrazioni statali, parastatali o comunque soggette alla vigilanza dello Stato, si accede mediante concorsi».

PRESIDENTE fa considerare che la distinzione tra uffici pubblici e non pubblici non è facile.

MARINARO, appunto per eliminare tale difficoltà, ritiene necessaria la distinzione proposta.

PRESIDENTE osserva che c’è grande incertezza nei criteri di distinzione fra enti pubblici ed enti privati.

MARINARO potrebbe modificare la proposta e dire: «Nelle amministrazioni statali o in enti di diritto pubblico» e ciò perché in certe amministrazioni che hanno funzioni prevalentemente di interesse pubblico non è mai stato introdotto il concorso.

COLITTO chiede che sia fatto risultare dal verbale che, parlando di impieghi pubblici, si intende far riferimento a quanto ha specificato l’onorevole Marinaro.

MARINARO fa considerare che la Cassazione ha ripetutamente affermato che quando si dice impiego pubblico ci si riferisce a impieghi nelle amministrazioni dello Stato.

PRESIDENTE rileva che ci sono impieghi pubblici presso enti privati e ci sono impieghi privati presso enti pubblici. Fa l’esempio del Consorzio agrario che è indubbiamente un ente privato, ma che esplica anche funzioni pubbliche, quale è quella dell’ammasso del grano. L’impiegato addetto all’ammasso del grano esercita un impiego pubblico presso un ente privato. Ritiene perciò sufficiente dire «impieghi pubblici».

MARINARO aggiunge che la Cassazione ha definito ente di diritto pubblico quello che assolve ad una funzione pubblica. Ci sono istituti che hanno attività mista, altri che hanno una figura giuridica sui generis, che esercitano una pubblica attività, che danno buone remunerazioni e assicurano una carriera vantaggiosa. Non vede perché non si dovrebbe richiedere che le assunzioni del personale si facciano per concorso.

PRESIDENTE legge la proposta degli onorevoli Colitto, Molè, Marinaro:

«L’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi»;

 

e quella dell’onorevole Togni:

«Tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi e in relazione alla propria idoneità».

COLITTO dichiara di essere disposto ad aggiungere nella sua formula l’inciso «senza distinzione di sesso». La formula risulterebbe così espressa:

«L’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico è libero ai cittadini, senza distinzione di sesso, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. A tali impieghi si accede mediante concorsi».

FEDERICI MARIA insiste perché sia tolto l’inciso «salvo le limitazioni stabilite dalla legge».

COLITTO non lo ritiene opportuno. Ad esempio, un concorso per soli maschi indetto dall’Accademia militare per arruolamento di allievi ufficiali, risulterebbe anticostituzionale.

MARINARO afferma che queste limitazioni esistono in quasi tutte le Costituzioni.

FEDERICI MARIA ritiene che quell’inciso sia pericoloso, perché non si possono specificare i casi ai quali si intende riferito. Con la proposta dell’onorevole Togni, dove è prevista la idoneità, queste preoccupazioni non avrebbero ragione di essere.

MOLÈ osserva che la idoneità serve a stabilire un criterio individuale che riguarda tanto il maschio che la femmina.

PRESIDENTE pensa che mutando la collocazione dell’inciso «salvo le limitazioni stabilite dalla legge», potrebbe essere eliminato ogni disaccordo. Propone pertanto la seguente formula:

«L’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge, senza distinzione di sesso, razza, religione e fede politica.

A tali impieghi si accede mediante concorso».

Mette ai voti questa proposta.

(È approvata).

Dà poi lettura della nuova formulazione del punto successivo:

«Per l’insegnamento universitario i concorsi possono essere aperti anche a cittadini stranieri».

Pone ai voti questa proposta.

(È approvata).

La seduta termina alle 13.

Erano presenti: Ghidini, Marinaro, Colitto, Federici Maria, Giua, Molè, Rapelli, Togni.

Assenti giustificati: Di Vittorio, Noce Teresa, Pesenti.

Assenti: Canevari, Dominedò, Fanfani, Lombardo Ivan Matteo, Merlin Angelina, Paratore, Taviani.