Come nasce la Costituzione

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ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 1° OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

16.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 1° OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Intrapresa economica (Discussione)

Corbi, Relatore – Presidente – Dominedò, Correlatore – Canevari – Colitto – Marinaro – Taviani – Lombardo.

La seduta comincia alle 10.30.

Discussione sull’intrapresa economica.

CORBI, Relatore, premette che ha integrato la sua relazione con elementi di quella già presentata dall’onorevole Pesenti, il quale, essendo impedito di intervenire alle sedute, è stato da lui sostituito nella Sottocommissione. Passando ad esaminare l’argomento all’ordine del giorno, osserva che, avendo la relazione Taviani esaminato l’istituto della proprietà nel suo aspetto statico, spetta ora a lui di esaminarlo nella sua dinamicità, nel momento cioè in cui la proprietà cessa di essere un bene di per se stessa, puro e semplice, per divenire elemento operante nel campo della produzione, stabilendo quei rapporti che costituiscono i motivi essenziali di ogni società che si fonda sul lavoro produttivo.

Rileva che ormai la Sottocommissione è d’accordo nel riconoscere alla proprietà privata, nell’attuale momento storico, una sua ragione d’essere, che consiste nell’avere ancora funzione economicamente utile e necessaria, e che tutti convengono che la vecchia formulazione del diritto romano non può essere accettata, perché in troppo stridente contrasto con la realtà e con le esigenze nuove; l’una va superando quel vecchio concetto della proprietà privata, le altre esigono che ad essa siano imposte limitazioni non solo per ragioni etiche e politiche, ma anche per motivi economici produttivistici e di interesse nazionale.

Le Carte costituzionali moderne, non solo quella sovietica, ma anche quella di Weimar, quella jugoslava, quella francese, riconoscono l’istituto della proprietà privata solo in quanto essa adempie ad una funzione sociale e non contrasta, quindi, con gli interessi della collettività e dell’economia sociale. In Italia questo principio è acutamente sentito e già in parte opera nella realtà economica di tutti i giorni; per cui la nuova Carta costituzionale non ha che a fissarlo giuridicamente e con ampia prospettiva di sviluppo. Perché, se è vero che i fatti precedono le norme, è altrettanto vero che queste li ostacolano o li favoriscono nel loro tendenziale sviluppo.

Le norme, adunque, che la nuova Carta costituzionale deve contenere, debbono, facendo tesoro dell’esperienza, impedire, per quanto è possibile, l’evolversi negativo dei fatti economici ed aprire la strada a quello positivo di essi. In altri termini, la Carta costituzionale deve rendere impossibile ai vecchi principî privilegiati, responsabili della catastrofe nazionale, di riprendere il sopravvento a danno di tutto il popolo e garantire invece la possibilità di operare nel Paese una profonda trasformazione economica e sociale, alla quale è indispensabile il concorso dello Stato.

Osserva che taluno si inalbera e protesta ogni qual volta sente parlare di ordine, di coordinamento, di controllo, di pianificazione economica, ancora sollecito nell’esaltare la concezione individualistica del liberismo economico; il che in ultima analisi altro non è che un tentativo di giustificare e difendere, con formule dottrinarie, l’egoismo dei privilegiati. Ma ciò non può distogliere il legislatore dall’esame obiettivo dei fatti, i quali lo convincono che solo un’azione decisiva ed accorta, capace di valorizzare tutte le energie e di scoprirne delle nuove e di unificare e guidare tutte le risorse nazionali, può dare inizio ad un nuovo corso economico per la ricostruzione e la rinascita del Paese.

Altri negano ai lavoratori (tecnici, operai, impiegati) il diritto di partecipare alla direzione dell’impresa, adducendo che ciò costituisce una violazione, oltre tutto, anche dei sani principii economici. Ma anche in questo campo l’esperienza dimostra il contrario, che, cioè, è necessario favorire, promuovere e creare consigli di azienda – non solo in quello private – per incrementare ed esercitare il controllo sulla produzione e sulla distribuzione dei beni, nell’interesse di tutta la collettività.

Rileva che la Sottocommissione, concordemente, ha affermato che la proprietà deve assolvere una funzione sociale e ha riconosciuto che sino ad oggi questa funzione non sempre essa ha adempiuto, in conseguenza di un cattivo ordinamento economico; è evidente perciò che, in omaggio a quel principio, sarà pure condiviso il parere che allo Stato debba competere non solo il diritto, ma il dovere di avocare a sé, sotto diverse forme – statizzazione, nazionalizzazione, controllo – quelle forme di impresa che, per dimensioni o funzioni adempiute, costituiscono un pericolo per la società ed assumono un aspetto di preminente interesse nazionale.

Ciò per garantire, non solo a parole, la sicurezza, l’indipendenza, la libertà, la dignità ed il desiderio di pace dei cittadini; e per assicurare, almeno nell’avvenire, migliori condizioni di vita al popolo, favorendo lo sviluppo delle forze produttive che la proprietà privata – per il passato mezzo potente ed efficace di progresso economico – oggi il più delle volte ostacola.

Ritiene, infine, che non debbano essere dimenticate dalla tutela dello Stato le cooperative, le piccole e medie imprese industriali, agricole ed artigiane, che nel quadro dell’economia italiana assolvono una funzione di grande importanza.

Passando ad esaminare gli articoli formulati nella relazione dell’onorevole Pesenti, osserva che taluni di essi sono superati da quelli già approvati dalla Sottocommissione sul diritto di proprietà; ve ne sono invece altri che conservano tutto il loro valore e che dovranno essere presi in esame.

Dà quindi lettura degli articoli:

1°) la proprietà è il diritto inviolabile di usare, di godere, di disporre dei beni garantiti a ciascuno dalla legge;

2°) lo Stato riconosce e garantisce e tutela la proprietà privata e l’iniziativa economica privata. Lo Stato e tutti i cittadini hanno il dovere di difendere la proprietà statale demaniale, la proprietà delle collettività pubbliche, la proprietà degli enti pubblici e delle imprese statali e nazionalizzate;

3°) la proprietà privata non può essere espropriata che per legge o mediante indennizzo;

4°) il diritto di proprietà non potrà essere esercitato in contrasto con l’utilità sociale, con le direttive ed i programmi economici stabiliti dallo Stato od in modo da arrecare pregiudizio alla proprietà altrui, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, col deprimere il livello di esistenza al disotto del minimo stabilito dai bisogni umani essenziali;

5°) ogni proprietà che nel suo sviluppo ha acquistato o acquista, sia per riferirsi a servizi pubblici essenziali o a situazioni di monopolio o a fonti di energia, o a dimensioni relativamente rilevanti, caratteri tali da assumere un aspetto di preminente interesse nazionale, deve diventare proprietà della collettività nazionale od essere posta sotto il diretto controllo della Nazione;

6°) per garantire lo sviluppo economico del Paese e per assicurare nell’interesse nazionale l’esercizio del diritto e delle forme di proprietà previste dalla legge, lo Stato assicura al lavoratore il diritto di partecipare alle funzioni di direzione dell’impresa, siano esse aziende private, pubbliche o sotto il controllo della Nazione;

7°) lo Stato riconosce la funzione sociale:

delle imprese gestite direttamente o indirettamente dalla Nazione;

delle imprese cooperative;

delle imprese private direttamente gestite dal proprietario.

Nell’interesse della Nazione ne assicura lo sviluppo e la protezione».

Esaminando singolarmente gli articoli, osserva che il 1o è superato da quanto è stato sancito nell’articolo sul diritto di proprietà; anche del 2° è già stato affermato il principio, ma vi è un punto sul quale desidera richiamare l’attenzione della Sottocommissione, e cioè: «Lo Stato e tutti i cittadini hanno il dovere di difendere la proprietà statale o demaniale, la proprietà delle collettività pubbliche, la proprietà di enti pubblici e delle imprese statali e nazionalizzate». Qualcuno potrebbe affermare che il concetto è ovvio, ma, conoscendo la cattiva abitudine del popolo italiano di considerare il patrimonio dello Stato e degli enti locali come la cosa di tutti, di cui è lecito qualsiasi abuso, ritiene che sia utile richiamare l’attenzione del legislatore o dell’autorità su questo particolare aspetto.

Osserva che l’articolo 3, pur essendone già stati approvati i concetti in precedenza, si discosta fondamentalmente dallo spirito dell’articolo esaminato e votato nella precedente seduta, nella parte che riguarda l’indennizzo, per il quale è stato stabilito che deve essere corrisposto, senz’altro, in tutti i casi. Ritiene invece, che l’indennizzo «possa» essere dato, ma non «debba» essere necessariamente dato, in considerazione del fatto che, volendo operare vaste riforme in agricoltura, nell’industria ed in tutti i settori della vita economica italiana, tale principio potrebbe costituire un grave ostacolo a tali riforme.

Ritiene anche che l’articolo 4 sia superato, perché i concetti sono contenuti in quello sulla proprietà, già precedentemente approvato e che, se mai, potrà essere rivisto.

Con gli articoli 5, 6 e 7 si entra invece nel vivo della questione.

PRESIDENTE, sull’articolo 1, si dichiara d’accordo con l’onorevole Corbi nel ritenerlo superato, tanto più che si tratta di una definizione. Ritiene anche superflua la seconda parte dell’articolo 2 là dove è detto: «lo Stato e tutti cittadini hanno il dovere di difendere la proprietà statale, demaniale, ecc.», in quanto in essa si parla di dovere e non di obbligo giuridico, mentre, in una Carta costituzionale, è bene sancire più che altro degli obblighi. Inoltre non è necessario richiamare i cittadini al dovere di difendere la proprietà statale e demaniale, dato che rientra nei loro comuni doveri di rispettare quello che è di tutti, senza bisogno di specificazioni.

Osserva poi che è questo un obbligo giuridico già largamente affermato dalle nostre leggi. Nel Codice penale sono contenute disposizioni a proposito, per esempio, del danneggiamento, reato che diventa perseguibile d’ufficio quando si commette sopra cose appartenenti ad enti pubblici o che abbiano finalità di pubblico interesse. Sono inoltre previsti reati contro la pubblica incolumità, reati di danneggiamento di linee ferroviarie, di ponti, di strade, di navi. In sostanza la proprietà pubblica è difesa dalla legge; non solo, ma vi sono anche le contravvenzioni a tutela del patrimonio artistico, storico ed archeologico della Nazione.

Concorda invece pienamente sulla disposizione contenuta nell’articolo 4.

Finora nei confronti della proprietà sono stati sanciti e consacrati i diritti ed i doveri dello Stato, ma non i doveri e gli obblighi del cittadino; questa è la parte che manca nella relazione dell’onorevole Taviani, nella quale si parla dei doveri che il cittadino ha nei riguardi della proprietà, ma soltanto in senso negativo.

Un testo analogo è compreso nell’articolazione fatta dall’onorevole Lombardo, con solo lievi modificazioni di forma; difatti esso dice: «Il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente alla utilità sociale ed in modo da arrecare pregiudizio alla libertà ed ai diritti altrui». Anche l’onorevole Togliatti ha presentato, alla prima Sottocommissione, un articolo in materia così formulato: «Il diritto di proprietà non potrà essere esercitato in modo contrario all’interesse sociale, né in modo che rechi danno all’altrui diritto».

Dato che le tre disposizioni citate mirano al medesimo scopo, ritiene che sarebbe necessario aggiungere nell’articolo in esame l’elemento positivo dell’esercizio del dovere da parte del cittadino; e pensa che la formulazione proposta dal l’onorevole Pesenti sia più dettagliata, mentre quella dell’onorevole Lombardo è più sintetica, come del resto quella dell’onorevole Togliatti.

Nella formulazione dell’onorevole Pesenti si dice che il diritto di proprietà «non potrà essere esercitato in contrasto con l’utilità sociale, con le direttive ed i programmi economici stabiliti dallo Stato o in modo da arrecare pregiudizio alla proprietà altrui, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, col deprimere il livello di esistenza al disotto del minimo stabilito dai bisogni umani essenziali». È stato chiesto che cosa vuol dire la parola «sicurezza». Spiega che vi sono modi di esercitare la proprietà che minacciano la sicurezza dei cittadini: un proprietario che affitti una casa, il cui pavimento sia pericolante; questo è un esercizio della proprietà pericoloso per la sicurezza, ma possono esserci molti altri casi.

Sopprimerebbe però l’ultima parte dell’articolo «col deprimere il livello di esistenza», ecc., perché la dignità umana non si esprime solo attraverso le condizioni economiche. Dichiara che non sarebbe contrario a questa disposizione, ma ritiene più comprensiva quella dell’onorevole Lombardo. Il 3° comma di quello Taviani prende l’abbrivo dall’utilità sociale e fa alcune specificazioni che non sarebbe male fossero richiamate. Forse sarebbe il caso di fare un articolo a parte per integrare, in sede di coordinamento, l’articolo dell’onorevole Taviani.

Anche sui consigli di gestione vi è accordo; tutti ritengono necessario l’intervento dei lavoratori nel processo produttivo.

L’articolo 7 parla delle diverse imprese e pensa che possa essere formulato in modo più conciso.

Riguardo al concetto espresso nell’articolo 3, ha già manifestato la sua opinione ed ha fatto mettere a verbale che, in linea generale, debba essere dato un indennizzo; regola alla quale forse non potrebbe farsi eccezione nemmeno nel caso in cui l’esproprio si rendesse utile per procedere a quelle profonde riforme strutturali di cui tutti riconoscono la necessità. Ma in certi casi, come quando ad esempio il proprietario non coltiva affatto le proprie terre, non si dovrebbe dare l’indennizzo.

Propone quindi: «La proprietà privata può essere espropriata, mediante indennizzo, salvo che la legge disponga altrimenti».

DOMINEDÒ, Correlatore, premesso che la Carta costituzionale deve avere un significato storicistico, interpretando la realtà attuale in tutte le sue manifestazioni in corso di sviluppo, ritiene che in questo articolo relativo all’impresa si debba – evitando di fare doppioni rispetto al momento statico già esaminato nei riguardi della proprietà – disciplinare il momento dinamico e vedere quali norme la Carta costituzionale debba contenere in relazione a tale fase. L’opera di selezione, in relazione alle norme proposte, è infatti notevole, in quanto molte di esse si riferiscono direttamente o indirettamente al momento della proprietà.

Considerando quindi l’aspetto dinamico dell’impresa, ritiene che la Carta costituzionale dovrebbe tener presente un trinomio, analogamente a quanto è stato fatto per la proprietà, cioè: 1°) l’impresa individualistica, riconosciuta come regola in quanto operi in funzione sociale; 2°) l’impresa collettivistica, che va da quella statizzata a quella municipalizzata, la quale deve essere riconosciuta dallo Stato come forma necessaria, quando il bene comune lo imponga, in quanto le esigenze della pubblica utilità non siano realizzabili dall’impresa individualistica; 3°) l’impresa cooperativistica, distinta da quella individualistica, che ha per fine caratteristico il lucro, e da quella collettivistica, che ha per fine il pubblico interesse, mentre la forma cooperativa si distacca dalla finalità lucrativa e si avvicina ad una funzione di pubblico interesse, procurando ad una comunità di lavoratori o di utenti l’acquisizione di beni o di mezzi di lavoro a prezzo di costo.

Pensa quindi che dovrebbero essere fissate delle norme relative ad ognuno delle tre ipotesi, prendendo come punto di partenza l’articolo 7 proposto dall’onorevole Pesenti.

Per quanto riguarda l’impresa individualistica, andrebbe ribadito il concetto che la sua funzionalità deve essere connessa con l’utilità sociale. L’impresa privata costituisce la regola, in quanto non leda l’interesse pubblico: su questo piano deve essere costituzionalmente garantita la libertà d’iniziativa economica. Rispetto alla formula adottata all’articolo 4, pensa che il concetto andrebbe inserito nel 3° comma dell’articolo 7, ma preferirebbe una formulazione di carattere sintetica sul tipo di quella proposta dall’onorevole Lombardo.

Per quanto riguarda l’impresa cooperativistica, affermerebbe un concetto che non gli pare incluso nella formula Pesenti, e si ricollegherebbe alla relazione Canevari, innestando la forma in parola nel secondo comma dell’articolo 7 e svincolandola dalla più stretta disciplina dell’impresa privatistica: occorre a tal fine tener presente da un lato l’esigenza del pubblico interesse e dall’altro il controllo nei riguardi della cooperazione. Si dovrà a questo proposito studiare se questo debba essere affidato al potere esecutivo, ovvero se, almeno nei riguardi del controllo di merito, esso non debba, in base all’esperienza e alle esigenze di libertà del cooperativismo, spettare ad organi collegiali, rappresentatvi della categoria: sembra opportuno che la Costituzione deferisca il problema alla legge.

Le imprese pubblicistiche, ovvero colletivistiche, vanno contemplate tenendo conto delle esigenze analiticamente enunciate nell’articolo 7 della relazione Pesenti, salva tuttavia l’opportunità di fare capo ad un concetto sovrastante e sintetico come quello del bene comune, elemento idoneo per la sua stessa comprensività a giustificare l’eccezionale trasformazione dell’impresa da individuale in collettiva. Quanto all’articolo 5, ciò che esso dice è già stato considerato nel momento statico, allorché fu stabilito quando una proprietà privata deve divenire collettiva. Quindi conviene una formula sintetica, per evitare il doppione, analogamente a quanto ha già proposto l’onorevole Lombardo.

Disciplinate così le tre ipotesi, resterebbe un ulteriore punto da menzionare: cioè la posizione fatta dallo Stato al lavoratore, contemplata nell’articolo 6. È un problema delicato, che potrebbe essere eventualmente tenuto presente in un comma a parte, oppure in un distinto articolo.

Il problema della partecipazione del lavoratore è comune alle imprese private ed alle pubbliche. Si può parlare di un partecipazionismo del lavoratore sotto diversi aspetti, trattandosi di fenomeno complesso; se ne può parlare in relazione alla titolarità dell’impresa e già se ne vedono alcune forme determinate nell’agricoltura e nell’industria, con gli istituti del riscatto e dell’azionariato. Ma questa partecipazione alla titolarità dell’impresa è l’ipotesi massima. La ipotesi media riguarda invece la partecipazione non alla comproprietà dell’impresa, ma alla sua gestione o alla direzione. Sente tale esigenza, ma la vorrebbe contemperata con quella di dare, non al proprietario, bensì all’imprenditore, che è il dominus dell’impresa, i poteri che gli spettano in conseguenza della propria responsabilità. Per esempio, i consigli di gestione possono essere concepiti come organi di consulenza tecnica, come avviene per i comitati misti di produzione nell’ordinamento anglo-americano. Anche nell’ordinamento russo, con la modifica apportata nel 1934, i consigli di gestione sono stati, per quanto gli consta, o eliminati o circoscritti. Ritiene quindi che tali problemi particolari, oggetto di futura disciplina legislativa, andrebbero approfonditi prima che si pensi ad alcuna inserzione del principio in una norma costituzionale.

PRESIDENTE osserva che nella relazione Di Vittorio vi è il richiamo all’intervento dei lavoratori nel processo produttivo dell’impresa. Nell’articolo 6 è ammessa la partecipazione dei lavoratori mediante i consigli di gestione in tutte le aziende che abbiano almeno cinquanta dipendenti; ma questa partecipazione è ammessa genericamente, riservando alla legge di stabilire i particolari. Ritiene che effettivamente occorra limitarsi all’impostazione generica del principio; stabilire senz’altro le norme particolari presenterebbe gravi difficoltà.

CANEVARI ritiene che in questa sede sia opportuno tener presente la sua relazione, già discussa e approvata, riguardante la cooperazione, in quanto, esaminando le proposte dell’onorevole Pesenti, ha constatato che una parte di esse è già assorbita da precedenti decisioni.

Ritenendo, d’accordo con il Presidente, superfluo il primo articolo, osserva sul secondo che, per quanto riguarda il dovere imposto dal cittadino di difendere la proprietà statale, si tratta soprattutto di una questione di educazione, che purtroppo in Italia manca e che quindi, più che di disposizioni legislative, si tratti di una mentalità da rifare e che questo sia un dovere indipendente dalle norme della Carta costituzionale e dalle disposizioni di legge.

Il concetto espresso nell’articolo 3, che cioè la proprietà privata non può essere espropriata che per legge, è già stato sancito.

Conviene con l’onorevole Dominedò sulla opportunità di iniziare l’articolazione dall’ultimo articolo proposto dall’onorevole Pesenti. Tuttavia, sulla dizione di tale articolo: «lo Stato riconosce la funzione sociale delle imprese gestite direttamente o indirettamente dalla Nazione», osserva che vi sono imprese non gestite dalla Nazione, ma dai comuni, dagli enti pubblici, che non hanno una relazione diretta con la Nazione stessa. Propone quindi di aggiungere le parole «o da enti pubblici». Inoltre, nello stesso articolo, quando si parla dell’interesse della Nazione, preferirebbe che fosse detto «interesse generale», in quanto vi sono imprese che interessano determinati settori e non tutta la Nazione, come, per esempio, gli enti comunali per la costruzione di case popolari, che rappresentano interessi particolari dei comuni e delle provincie.

Il secondo articolo dovrebbe essere sostituito dal quarto e in esso si dovrebbe affermare che il diritto di proprietà non può essere esercitato in contrasto con l’interesse comune.

Si dichiara infine d’accordo sull’articolo 5, salvo alcuni ritocchi di dettaglio che si potranno vedere in appresso.

È d’avviso che ai tre articoli riguardanti la proprietà privata nei rapporti delle imprese statali o collettive, si debba aggiungere quello che è stato affermato per la cooperazione in sede di discussione dei Relatori, cioè che lo Stato favorisce con i mezzi più idonei lo sviluppo delle cooperative e ne vigila il funzionamento.

Concludendo, afferma che, a suo parere, la discussione dovrebbe essere limitata alla formulazione dell’ultimo articolo, che dovrebbe diventare il primo, seguito dagli articoli 4, 5, 6, abbandonando tutte le altre affermazioni che sono già incluse nella precedente articolazione.

COLITTO si associa a quanto ha affermato il Presidente sulla superfluità del secondo articolo proposto, in quanto, una volta affermato che lo Stato riconosce e garantisce la proprietà privata e quella pubblica o demaniale, è evidente che ogni cittadino ha l’obbligo, non solo morale, ma giuridico, di rispettarla. Ugualmente superflui ritiene gli articoli successivi. Infatti, a suo avviso, gli articoli 3 e 4 sono inutili, in quanto è già stato detto, in sede di discussione sul diritto di proprietà, che questa deve avere una funzione sociale. Ad ogni modo, non è sufficiente parlare solo di divieto dell’esercizio del diritto di proprietà con pregiudizio della proprietà altrui, non rientrando in tale formula gli atti così detti di emulazione, che, anche con la legislazione vigente, sono vietati. Se si vuole, quindi, mantenere l’articolo, sarebbe opportuno integrarlo, tenendo conto di tale osservazione.

Anche l’articolo 5 è inutile, in quanto non è che la ripetizione, in altre parole, della norma, già discussa e approvata, che consente la espropriazione dei beni di proprietà privata in caso di utilità pubblica. Comunque, ritiene necessario sostituire la parola «Stato» alle parole «collettività nazionale» e «nazione», perché lo Stato è appunto la collettività nazionale giuridicamente organizzata.

Anche inutile gli appare il sesto articolo in quanto, costituendo il diritto del lavoratore di partecipare alle funzioni di gestione o di direzione dell’impresa, o dell’una e dell’altra insieme, un limite al diritto di proprietà del datore di lavoro, già è stato stabilito che le leggi particolari determineranno i limiti della proprietà privata. Ad ogni modo l’articolo potrebbe essere formulato, ove si riconoscesse l’opportunità di inserirlo nella Costituzione, nel modo seguente:

«Il lavoratore, salvo che la legge disponga diversamente, ha il diritto di partecipare alle funzioni di gestione dell’impresa in conformità delle disposizioni che saranno dettate dalla legge».

Si eviterebbe così l’inutile enunciazione dei fini, cui si tende con il riconoscimento di tale diritto. La Costituzione deve affermare il diritto, senza indicare le finalità cui si mira affermandolo.

CORBI, Relatore, dichiara di accettare le osservazioni dei vari colleghi, e particolarmente quelle degli onorevoli Ghidini, Dominedò, Canevari, poiché ritiene che in sostanza non si tratti che di trovare un’articolazione più precisa e più snella; appunto per questo si è astenuto dal proporne una, in quanto prevedeva che dalla discussione si sarebbe arrivati più facilmente ad un’articolazione che non ripetesse quella già fatta, presentando il vantaggio di una maggiore sinteticità. Per quanto riguarda la seconda parte dell’articolo 2 – sulla quale si sono soffermati gli onorevoli Ghidini e Colitto – si dichiara d’accordo per ometterla.

Ritiene opportuna la proposta fatta dall’onorevole Dominedò di prendere per primo in esame l’articolo 7; e ritiene che sia utile seguire il suggerimento dell’onorevole Canevari di trattare anche delle iniziative economiche degli enti pubblici; in quanto, parlando delle imprese gestite direttamente o indirettamente dalla Nazione, parrebbe che ci si riferisse soltanto allo Stato, mentre vi sono anche quelle dei Comuni delle regioni, che hanno una funzione di primo piano e che devono essere tutelate.

Per quanto riguarda l’altra proposta dell’onorevole Canevari, di introdurre cioè un articolo specifico che riguardi la cooperativa, si dichiara d’accordo, affinché lo Stato vigili proprio sulla natura della cooperativa.

Circa le osservazioni dell’onorevole Colitto, dichiara che parte di esse lo trovano consenziente, mentre altre saranno oggetto di discussione come, ad esempio, l’articolo da lui proposto: «Il lavoratore ha il diritto di partecipare alla direzione, ecc.», in cui si vuole non menzionare le finalità della partecipazione del lavoratore all’azienda. Ma, appunto per garantire l’opera, la funzione, il carattere di tale partecipazione, e perché non avvenga che essa snaturi completamente il suo significato o che si risolva in una turlupinatura (perché potrebbe avvenire che l’industriale o il datore di lavoro ricorressero a forme tali per cui forse sarebbe salvo il principio in riferimento alla Carta costituzionale, ma non sarebbe invece più salvo il principio dal punto di vista sostanziale), ritiene che, in definitiva, sia utile specificare le finalità della partecipazione dei lavoratori alla direzione dell’azienda. L’onorevole Colitto ha inoltre proposto che in luogo di «collettività nazionale» e di «nazione», si sostituita la parola «Stato», giustificando la sostituzione anche dal punto di vista strettamente giuridico. Pur accettando il principio che l’osservazione sia calzante ed abbia una ragion d’essere dal punto di vista giuridico, crede che risponda meglio allo scopo la dizione: «collettività nazionale», in quanto vi possono essere collettività nazionali che non sono tutto lo Stato, come i sindacati che, pur potendo svolgere funzioni anche economiche, sono una collettività nazionale, ma non tutto lo Stato. Ecco perché ritiene che la dizione «collettività nazionale» risponda meglio allo scopo.

Per quanto riguarda l’indennizzo, si associa pienamente a quanto ha detto il Presidente, ritenendo che, in linea di massima, l’indennizzo debba essere corrisposto e che solo in linea eccezionale possa non esserlo. Nei casi citati dal Presidente, come quello del proprietario che non coltiva la sua terra o di un bene che sia stato acquistato in maniera illecita e che offende anche la collettività, non si può parlare di indennizzo, ma si tratta soltanto di colpire delle proprietà male acquisite o mal condotte. Quindi, a suo avviso, l’indennizzo deve essere corrisposto, salvo i casi previsti dalla legge.

DOMINEDÒ, Correlatore, ritiene che, considerando i vari punti della relazione Pesenti e tenendo conto dei criteri emersi dalla discussione, si potrebbe proporre un articolo così formulato: «Le imprese economiche possono essere individuali, cooperativistiche, collettive. L’impresa individuale non può essere esercitata in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. L’impresa gestita cooperativamente deve rispondere alla funzione della mutualità ed è sottoposta alla vigilanza stabilita dalla legge. Quando le esigenze del bene comune lo impongano, la legge devolve l’impresa, in forma diretta o indiretta, allo Stato o ad altri enti pubblici

Osserva che si tratterà poi di vedere se fare un eventuale articolo a parte, o un ulteriore comma, per quanto riguarda il problema della partecipazione dei lavoratori.

MARINARO propone la seguente formulazione: «L’iniziativa e l’impresa privata sono libere. Lo Stato interviene per impedire la formazione di privilegi e di monopoli o per coordinare e dirigere le attività economiche ad un aumento di produzione e di benessere sociale. Quando ciò sia necessario per imprescindibili esigenze di servizi pubblici e per ovviare a situazioni di fatto di monopoli privati dannosi alla collettività, lo Stato e gli enti locali sono autorizzati, con disposizione di legge, salvo indennizzi, ad assumere le imprese od a parteciparvi. La gestione di tali imprese ha luogo in forma industrializzata ed è sottoposta a controllo finanziario».

Rileva che il punto sostanziale di questa formulazione sta nel fatto che lo Stato e gli enti locali sono autorizzati ad intervenire con disposizioni di legge; in altri termini è necessaria un’apposita legge che autorizzi l’intervento dello Stato nell’interesse dell’economia generale del Paese.

COLITTO insiste nel rilevare che non è necessario, una volta affermato il diritto, indicare le ragioni che ne hanno consigliato l’affermazione, anche perché l’enunciazione dello stesso potrebbe, nella sua necessaria genericità, costituire un limite al diritto stesso. Ciò appare molto chiaro, proprio nella specie, in cui si afferma che «il lavoratore ha il diritto di accedere, ecc., per garantire lo sviluppo economico del Paese e per assicurare nell’interesse nazionale l’esercizio del diritto e delle forme di proprietà, previste dalla legge», con la quale frase, in sostanza, si sminuisce e certamente si limita il diritto dei lavoratori.

PRESIDENTE dà lettura di un articolo concordato fra gli onorevoli Dominedò e Corbi, così formulato:

«L’iniziativa e l’impresa privata sono libere. Le imprese economiche possono essere individuali, cooperativistiche, collettive.

«L’impresa individuale non può essere esercitata in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.

«L’impresa gestita in forma cooperativa deve rispondere alla funzione della mutualità ed è sottoposta alla vigilanza stabilita dalla legge. Lo Stato ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei.

«Quando le esigenze del bene comune lo impongano, la legge devolve l’impresa, in forma diretta o indiretta, in favore dello Stato o di enti pubblici».

Chiede all’onorevole Dominedò di chiarire la ragione per la quale nell’articolo non si parli dell’esproprio.

DOMINEDÒ, Correlatore, Ritiene che l’argomento trovi sede più opportuna nell’articolo sulla proprietà.

MARINARO chiede che all’articolo proposto sia aggiunto il seguente comma: «La gestione di tali imprese ha luogo in forma industrializzata ed è sottoposta a controlli finanziari».

COLITTO si associa alla proposta dell’onorevole Marinaro ed a sua volta propone che il secondo comma dell’articolo sia, unicamente per ragioni di euritmia legislativa, così semplificato:

«L’impresa individuale non può essere esercitata in modo da recare pregiudizio al bene comune. L’impresa cooperativa deve essere esercitata in modo da rispondere alla funzione della mutualità.».

Chiede, inoltre, che nel terzo comma dello stesso articolo siano inserite, al punto opportuno, le parole: «salvo indennizzo».

Ripete, infine, la richiesta di approvazione del seguente articolo:

«Il lavoratore, salvo che la legge disponga diversamente, ha il diritto di partecipare alle funzioni di gestione dell’impresa, in conformità delle disposizioni che saranno dettate dalla legge».

TAVIANI, per mozione d’ordine, ritiene che l’ultimo articolo proposto dall’onorevole Colitto debba essere esaminato separatamente, dopo esaurita la discussione sull’impresa.

Passando ad esaminare il desto dell’articolo concordato, fa rilevare che dapprima si richiama l’attenzione sull’impresa privata, poi si passa ad esaminare tutte le imprese economiche per poi tornare alla privata. Si dice che le imprese possono essere individuali, cooperativistiche e collettive; non vede la ragione per cui si parli di individuali, invece che di private; forse perché era stato sancito di andare verso la forma cooperativistica, ma evidentemente altro è un’impresa composta di due o tre soci e altro è una vera e propria azienda cooperativistica. Ritiene quindi che si dovrebbe parlare semplicemente di imprese private, cooperativistiche e collettive.

Per quanto riguarda l’indennizzo, è d’accordo con l’onorevole Dominedò nel dire che di esso si debba parlare in sede di proprietà.

PRESIDENTE propone di accantonare, momentaneamente, il problema dell’indennizzo, per decidere sull’articolo in esame. Ricorda in proposito che vi è anche un’aggiunta proposta dall’onorevole Marinaro.

MARINARO ritiene che il servizio debba essere organizzato sotto forma industriale in modo da non risolversi in sicura perdita per l’ente che lo esercita.

LOMBARDO, pur ritenendo giusto il concetto dell’onorevole Marinaro, crede che sia di difficile applicazione.

TAVIANI ritiene che l’espressione non renda il concetto espresso. A suo avviso, l’idea dell’onorevole Marinaro è che tale impresa debba avere bilancio proprio, finalità proprie, organizzazione propria, ecc.

PRESIDENTE osserva che realmente nei servizi pubblici esercìti, ad esempio, dai Comuni anche direttamente, vi è la tendenza ad industrializzarne la gestione.

TAVIANI dichiara che sol piano concettuale è d’accordo con l’onorevole Marinaro, nel senso che la socializzazione va decentrata, ed in maniera che il gestore abbia una diretta responsabilità anche dal punto di vista economico; osserva che quando oggi si parla di socializzare non si intende certo la stessa cosa di quella che si pensava quaranta anni fa. Comunque, dichiara di essere contrario ad inserire la dizione nella Carta costituzionale.

MARINARO fa presente che fino ad oggi si è avuta questa organizzazione in forma industriale e che i grandi comuni, come Roma e Milano, hanno applicato questo sistema; non vorrebbe che l’innovazione si risolvesse in una perdita per il comune. Bisognerebbe dunque, a suo avviso, organizzare il servizio in maniera tale da conseguire possibilmente redditi che vadano a vantaggio del bilancio comunale.

DOMINEDÒ, Correlatore, ritiene che in tal caso bisognerebbe pensare ad una forma di gestione autonoma, ad un’ipotesi di decentramento economico; ma non pensa che una tale definizione si possa inserire nella Carta costituzionale.

PRESIDENTE è d’avviso che tuttavia sia necessario sancire il principio del controllo finanziario.

MARINARO propone la dizione «la gestione di tali imprese è sottoposta a controllo amministrativo e finanziario».

TAVIANI dichiara di ammettere soltanto il controllo finanziario e non quello amministrativo, che è contrario all’autonomia dell’azienda.

MARINARO aderisce alla dizione: «La gestione di tali imprese è sottoposta al controllo finanziario». Sul quarto comma che dice: «Quando le esigenze del bene comune lo impongano, ecc.», osserva che la dizione è troppo indeterminata e lascia un campo troppo vasto all’arbitrio dell’autorità. Ricorda che la formula da lui proposta precisava invece i casi di intervento da parte dello Stato e diceva: «Quando sia necessario, per imprescindibili esigenze di servizi pubblici, ecc.», considerando innanzi tutto il caso più comune, cioè quello dei servizi pubblici che riguarda specialmente le municipalizzazioni.

La formula troppo generica che invoca le esigenze del bene comune annulla in pratica lo scopo dell’intervento statale, che deve avvenire per legge. Sul principio generale di tale intervento tutti sono d’accordo: dove l’interesse della collettività è minacciato, lo Stato deve intervenire; ma è necessario precisare i casi in cui questo interesse è minacciato. La prima ipotesi, quella dei servizi pubblici, è fuori discussione; del resto la materia è ormai generalmente regolata in questo modo: quando un servizio pubblico non funziona regolarmente o quando, sotto la gestione dei privati, è fonte di speculazioni, lo Stato interviene e municipalizza.

TAVIANI propone la dizione: «Quando lo impongano le esigenze del bene comune, al fine di evitare situazioni di privilegio o di monopolio privato e di ottenere una più equa e conveniente prestazione dei servizi e distribuzione dei prodotti».

MARINARO dichiara di accettare tale formulazione.

CANEVARI prega l’onorevole Dominedò di modificare il terzo comma là dove si parla di imprese gestite in forma cooperativa, dicendo semplicemente «cooperative». Quanto al 4° comma osserva che è già stato deliberato, parlando della proprietà, l’intervento per legge relativo ad espropriazioni a favore dello Stato, di enti pubblici e di comunità.

DOMINEDÒ, Correlatore, consente.

PRESIDENTE avverte che la discussione sarà proseguita nel pomeriggio alle ore 17.

La seduta termina alle 13.10.

Erano presenti: Canevari, Colitto, Corbi, Dominedò, Federici Maria, Ghidini, Lombardo, Marinaro, Merlin Angelina, Noce Teresa, Taviani.

Assenti giustificati: Molé.

Assenti: Assennato, Fanfani, Giua, Paratore, Rapelli, Togni.