ASSEMBLEA COSTITUENTE
COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE
TERZA SOTTOCOMMISSIONE
9.
RESOCONTO SOMMARIO
DELLA SEDUTA DI VENERDÌ 20 SETTEMBRE 1946
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI
INDICE
Garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino (Seguito della discussione)
Giua, Relatore – Colitto – Togni – Presidente – Molè – Federici Maria – Rapelli – Marinaro.
La seduta comincia alle 10.40.
Seguito della discussione sulle garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino.
GIUA, Relatore, dà lettura dell’articolo da lui proposto sull’educazione, così formulato: «Qualora la famiglia si trovi nella impossibilità di dare un’educazione civile ai figli, è compito dello Stato di provvedere a tale educazione con istituzioni proprie.
«Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».
L’articolo rientrerebbe nel tema generale della famiglia, ma ha ritenuto necessario ammettere la possibilità dell’intervento dello Stato in questo settore, soltanto nel caso che la famiglia sia nell’impossibilità di provvedere all’educazione dei figli. È un concetto che si deve affermare nella nuova Costituzione per non dare allo Stato il potere di ingerirsi nell’educazione dei giovani, compito che, in linea di massima, deve restare di stretta competenza della famiglia. L’articolo è in contrasto con altre Carte costituzionali, e in particolare con l’articolo 120 di quella di Weimar, che ammette la possibilità da parte dello Stato di sorvegliare l’educazione che i genitori impartiscono ai loro figliuoli. Tale sorveglianza sarebbe in contrasto con l’indirizzo generale adottato dalla Commissione e con l’affermazione della piena libertà dell’individuo, che lo Stato deve rispettare. Tale rispetto deve trovare particolare applicazione nel campo della famiglia, che costituisce il nucleo base dell’organizzazione sociale.
Il secondo comma «Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino» afferma che l’indirizzo non si deve discostare da quella che sarebbe l’educazione data dalla famiglia, nel caso che questa potesse provvedervi.
COLITTO chiede al relatore che cosa si debba intendere con il termine «civile».
GIUA, Relatore, chiarisce che con tale termine si evita la possibilità di intendere l’educazione come espressione di un indirizzo confessionale, di partito, settario, ecc.
COLITTO propone la soppressione del termine «civile».
PRESIDENTE non concorda con la proposta dell’onorevole Colitto, trovando necessaria la specificazione.
COLITTO propone la formula «nell’impossibilità di educare i figli», invece che «nell’impossibilità di dare un’educazione civile».
GIUA, Relatore, concorda con la proposta dell’onorevole Colitto, poiché, lasciando invariato il secondo comma, resta chiaro l’indirizzo che si vuol dare all’educazione.
Quanto ai collegi di educazione, fa rilevare che gli istituti già esistenti in Italia si limitano all’istruzione media, mentre sarebbe necessaria l’istituzione di convitti anche per quella elementare, ed i figliuoli di genitori condannati a pene detentive e gli orfani potrebbero formare in questi istituti la loro educazione.
TOGNI ritiene che il termine «civile» implichi una limitazione del concetto della educazione. A suo parere è necessaria l’affermazione del principio che lo Stato deve garantire, provvedere o intervenire, nel campo dell’educazione, ma non necessariamente e direttamente, come sembra sia previsto nella formula dell’articolo proposta dall’onorevole Giua. È noto che esistono convitti tenuti da sacerdoti o da civili, che provvedono alla educazione dei giovani e che lo Stato dovrebbe sovvenzionare, senza tuttavia intervenire direttamente nell’educazione.
GIUA, Relatore, non può convenire con le affermazioni fatte dall’onorevole Togni. Pur non condividendo le tesi estremiste, che vorrebbero investire lo Stato interamente dell’importante compito dell’educazione, non può accedere all’idea di un assoluto agnosticismo in materia da parte dello Stato.
PRESIDENTE fa notare che, con la formulazione dell’articolo proposto dall’onorevole Giua, non vengono precluse le possibilità di educazione da parte di istituti privati. Se lo Stato è investito dell’obbligo di provvedere in certi casi all’educazione, non per questo restano escluse le istituzioni private.
COLITTO propone la seguente formulazione: «Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi».
GIUA, Relatore, trova eccessivamente generica la formulazione proposta dall’onorevole Colitto.
PRESIDENTE insiste per l’adozione della formula integrale proposta dall’onorevole Giua, che ritiene la più rispondente al tema dell’educazione. Il termine «civile», a suo parere, significa che l’educazione deve essere ispirata a sensi di civismo e non è affatto in opposizione con il concetto della religione. Dichiara, che voterà pertanto la formula proposta dall’onorevole Giua, in quanto è l’unica che elimina qualunque sottinteso politico, confessionale o settario.
Anche il termine «istituzioni proprie» gli sembra ben apposto, perché è evidente che quando lo Stato deve intervenire non può farlo che direttamente e con mezzi propri. L’opera educativa compiuta da istituti privati può essere integrativa di quella dello Stato.
TOGNI ritiene che la migliore educazione sia quella integrata dall’insegnamento religioso, che non si limita ad una formula esteriore civile, ma mette radici nel sentimento religioso del fanciullo. Se potesse formulare un articolo in tale materia, direbbe che lo Stato deve appoggiarsi alle organizzazioni religiose; ma poiché tale concetto non può essere condiviso da altri, ritiene che non sia il caso di precisare né il concetto dell’intervento diretto dello Stato, né quello del predominio religioso. Che lo Stato provveda direttamente o indirettamente è una questione che sarà decisa caso per caso, a seconda della situazione particolare o speciale dei tempi; ma, poiché il termine «educazione civile» può far pensare che sia esclusa la parte educativa religiosa, ritiene che nell’articolo si dovrebbe parlare di educazione in generale. Sarà poi compito degli organi dello Stato vedere quale educazione convenga adottare tenendo conto della famiglia, della religione, della razza, ecc. Non vi è la necessità di stabilire fin da ora il principio che lo Stato debba provvedere direttamente all’educazione, soprattutto in quanto lo Stato è stato sempre il peggior educatore.
MOLÈ afferma che lo Stato può essere cattivo educatore, quando voglia imprimere una determinata ideologia politica nel campo dell’educazione, ma non può essere considerato tale, quando si adegui a principî di libertà.
TOGNI rileva che lo Stato è sempre l’espressione di un partito, e cercherà quindi di imprimere alla vita della Nazione un determinato indirizzo politico.
PRESIDENTE ritiene che dicendo «qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di dare un’educazione civile ai figli» non si menomi la libertà della famiglia di educare i figli, anche inviandoli presso istituti privati, né si crei un monopolio dello Stato nel campo della educazione; si intende affermare l’obbligo dello Stato di provvedere all’educazione, quando la famiglia non possa assolvere a tale compito né con mezzi propri, né con l’aiuto di istituti privati. Richiama l’attenzione sul fatto che il problema generale dell’educazione è di competenza della prima Sottocommissione, mentre la terza deve studiare le garanzie economico-sociali, che hanno attinenza con tale problema.
TOGNI ritiene che la formula proposta dall’onorevole Colitto sia la più precisa e la meglio rispondente per una Carta costituzionale, in quanto afferma il principio dell’obbligo dello Stato nel campo dell’educazione, togliendo la limitazione derivante dal termine «civile».
PRESIDENTE ritiene che l’intervento dello Stato non debba essere ispirato ad una educazione di colore politico, ma ad un senso di civismo, all’infuori di qualsiasi ideologia di partito. Insiste perciò per il mantenimento della parola «civile».
COLITTO chiede al Relatore di voler più chiaramente specificare il significato che ha voluto dare alla parola «civile».
GIUA, Relatore, dichiara che per «educazione civile» ha inteso educazione non confessionale o ispirata ad ideologie politiche, quale sarebbe, ad esempio, quella statolatria che afferma la preminenza dello Stato sui cittadini; ed ha voluto sottolineare l’obbligo del rispetto della libertà anche in questo settore. Riferendosi a quanto ha detto l’onorevole Togni, in merito all’educazione religiosa, dichiara di non essere contrario ad essa purché sia considerata dal punto di vista etico-cristiano; ma dal punto di vista della superfetazione della religione come insegnamento catechistico, non può ammetterla. Quindi, come è necessario che lo Stato moderno crei una pedagogia indirizzata a tutto il complesso della vita civile, cioè al rispetto della libertà e delle opinioni politiche, così pure si deve ammettere l’esistenza di una vita civile che sia al disopra delle situazioni politiche di destra o di sinistra. Lo Stato deve dare un’educazione fondamentale, ma lasciar libere le famiglie che vogliono educare religiosamente i loro figliuoli inviandoli ad istituti religiosi.
MOLÈ rileva che vi sono due casi di impossibilità della famiglia ad educare i figli: quando il genitore o i genitori siano condannati ad una pena detentiva, o quando vi sia l’estrema indigenza. In questi casi lo Stato deve direttamente intervenire. Però, se la famiglia è nell’impossibilità economica, ma ha ancora la sua entità morale, può chiedere che i bambini siano affidati ad un istituto religioso; nell’altro caso lo Stato provvederà ad un’educazione che risponda alle comuni esigenze di tutti gli uomini civili, siano essi ebrei o cattolici o protestanti. Ricorda che nella scuola italiana si insegna la religione, il che esclude il pericolo di un’educazione atea da parte dello Stato. Pertanto non condivide il parere dell’onorevole Togni che l’educazione da parte dello Stato costituisca un pericolo e ritiene che la formula proposta dall’onorevole Colitto non differisca molto da quella del Relatore.
TOGNI non crede che la formula proposta dall’onorevole Colitto sia equivalente a quella dell’onorevole Giua, in quanto il relatore afferma che è compito dello Stato di provvedere all’educazione con istituzioni proprie. Lo Stato, a suo parere, ha a suo carico l’onere finanziario dell’educazione, ma questa educazione dovrà essere data secondo i desideri della famiglia. Non si può obbligare lo Stato ad intervenire nell’educazione dei fanciulli, assumendo la figura di tutore, ma limitare il suo intervento a sussidi da erogare ad istituti privati.
MOLÈ ritiene che con l’adozione della proposta dell’onorevole Togni vi sarebbe il pericolo che lo Stato fosse costretto a sovvenzionare istituti aventi determinati colori politici.
Il problema educativo è troppo importante perché lo Stato se ne disinteressi; come si deve evitare l’estremismo dello Stato totalitario, si deve anche evitare quello dello Stato completamente agnostico. Lo Stato deve fornire il paradigma dell’educazione e, quando questa non sia possibile, provvedervi direttamente.
FEDERICI MARIA desidera che sia chiarito come si debba accertare l’impossibilità della famiglia a provvedere all’educazione dei figli.
PRESIDENTE risponde che la materia è oggetto di legislazione.
FEDERICI MARIA osserva che vi è il caso di una carenza della famiglia di ordine legale e il caso di una carenza di ordine economico. Per quanto riguarda la prima, lo Stato deve evidentemente intervenire; ma, per quanto riguarda la seconda, è difficile stabilire l’intervento dello Stato; si potrebbe verificare il caso di una folla di persone che chiedano l’intervento dello Stato e allora, praticamente, si avrebbe quell’educazione statale che deve essere evitata. Chiede poi se sarebbe possibile fare un’aggiunta all’articolo approvato il giorno avanti, riguardante l’istruzione dei ragazzi poveri.
PRESIDENTE dichiara che se si riconoscessero gli istituti privati come integrativi dell’intervento dello Stato, questo li deve sussidiare; ma se si ritiene che lo Stato possa fare a meno di questi istituti privati, dovrebbe provvedere con istituti propri indipendentemente da qualunque ideologia politica, religiosa ecc. Per questo motivo ritiene ben formulata la dizione dell’onorevole Giua: «è compito dello Stato di provvedere all’educazione con istituzioni proprie». Non ritiene che si tratti di un monopolio arrogato dallo Stato nel campo dell’educazione, ma che anzi la proposta ammetta resistenza di istituzione private.
RAPELLI ritiene che, facendosi l’ipotesi di una carenza economica della famiglia, lo Stato debba intervenire soltanto dal punto di vista dei mezzi materiali, essendo già stato affermato il principio che lo Stato riconosce a tutti i cittadini italiani il diritto al lavoro e predispone i mezzi necessari al suo godimento.
TOGNI, d’accordo con l’onorevole Molè, presenta la seguente modificazione dell’articolo: «Qualora la famiglia si trovi nella impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi». Aggiunge che lo Stato, creando una sene di istituzioni che accompagnino i bambini dai primi anni della vita fino all’età della ragione, dando loro un’educazione, si assume un compito di grande responsabilità. Ciò potrebbe ammettersi in uno Stato concepito astrattamente, ma in pratica lo Stato è l’espressione del partito dominante e pertanto può avvenire che mutando i partiti, mutino le direttive dell’educazione dei ragazzi. Insiste quindi affinché venga fissato il principio che lo Stato deve provvedere in senso generale all’educazione, senza ulteriori specificazioni, e che l’articolo resti così formulato:
«Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi nel rispetto della libertà del cittadino».
MOLÈ non approva l’inclusione dei concetti di educazione e di libertà in un solo periodo.
PRESIDENTE rileva che, quando si parla di educazione in senso generale, l’attributo «civile» intende un’educazione ispirata a sensi di civismo. Pertanto insiste sull’adozione di tale attributo.
Dichiara di accettare integralmente la formula presentata dall’onorevole Giua, che ritiene la più rispondente alle garanzie che si richiedono in materia di educazione.
GIUA, Relatore, dichiara di accettare la formula proposta dall’onorevole Togni, purché sia approvato il secondo comma da lui proposto, che dice: «Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».
PRESIDENTE dichiara che, poiché l’onorevole Giua ritira la sua proposta per aderire alla formulazione dell’onorevole Togni, insieme cogli onorevoli Colitto e Molè, fa proprio l’articolo proposto nella relazione.
Pone quindi in votazione l’articolo così formulato:
«Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di dare un’educazione civile ai figli, è compito dello Stato di provvedere a tale educazione con istituzioni proprie.
«Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».
(Non è approvato).
Dà lettura dell’articolo presentato dagli onorevoli Giua, Togni. Molè e Colitto, che dice:
«Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi.
«Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».
Lo pone in votazione, dichiarando di astenersi.
(È approvato).
GIUA, Relatore, legge gli articoli da lui proposti.
Art. …
Tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi, senza alcuna restrizione, tranne quella della capacità.
L’esercizio dell’insegnamento universitario è aperto a tutti i capaci indipendentemente da distinzioni di razza, religione, credo politico e nazionalità. L’accesso agli impieghi privati è aperto a tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso.
Art. …
Il cittadino italiano in possesso del titolo necessario ha diritto di esercitare una professione nel territorio della Repubblica. Tale diritto è tutelato dallo Stato e disciplinato dalle leggi e dai regolamenti degli ordini professionali.
Lo stesso diritto compete ai cittadini di altri paesi che stabiliscano il trattamento di reciprocità.
Fa osservare che, data la carenza dell’insegnamento universitario, dipendente dal fatto che durante il periodo fascista la quasi totalità delle cattedre universitarie è stata coperta da giovani insegnanti venuti su in clima fascista, occorre provvedere urgentemente. Già in altra epoca il De Sanctis ed il Sella avevano aperto le nostre Università ad insegnanti stranieri; anche ora è necessario ricorrere a questa possibilità, se si vuol rinnovare lo spirito dell’insegnamento universitario.
È evidente che per le scienze giuridiche difficilmente verranno insegnanti stranieri, ma per le altre scienze di carattere internazionale, e specialmente per quelle sperimentali, è ovvia la necessità che all’insegnamento siano ammesse anche persone che non abbiano la nazionalità italiana.
COLITTO propone di sopprimere l’inciso «senza alcuna restrizione, tranne quella della capacità».
MOLÈ espone alcuni dubbi: questa specificazione circa le modalità per i concorsi non crede sia materia di Costituzione, ma di legge. Da un punto di vista tecnico, non è la Costituzione che deve stabilire che gli uffici sono assegnati per concorso; però dichiara di non fare alcuna proposta in merito.
Quanto alla seconda affermazione: la parificazione assoluta dei sessi in tutti gli uffici, osserva che vi sono uffici in cui tale parificazione non è possibile, ad esempio in quelli che riguardano le funzioni giudiziarie e militari.
FEDERICI MARIA non trova ammissibili queste discriminazioni.
MOLÈ risponde che già nel diritto romano, e poi dai Santi Padri era stato riconosciuto che la donna, in determinati periodi della sua vita, non ha la piena capacità di lavoro.
PRESIDENTE direbbe «idoneità» invece di «capacità».
MOLÈ infine osserva che se non si può evitare, per ragioni contingenti, che si debba ricorrere alla partecipazione di stranieri ad un alto ufficio quale è quello dell’insegnamento superiore, non si dovrebbe stabilire come norma statutaria tale partecipazione. Potrebbe avvenire che in un futuro più o meno prossimo la direzione spirituale della Nazione italiana venisse affidata ad uomini che non sono italiani e che non hanno alcun attaccamento alla storia e alle esigenze della Nazione. Ciò sarebbe molto pericoloso, specialmente dal punto di vista politico.
TOGNI in luogo del secondo articolo del Relatore propone di premettere al primo un’affermazione di principio alla garanzia del libero esercizio professionale così concepita: «La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale, nel rispetto della legge».
Al primo comma proposto dal Relatore toglierebbe l’inciso «senza alcuna restrizione, tranne quella della capacità» e sostituirebbe «e in relazione alla propria idoneità».
Dove si parla dell’insegnamento universitario, anziché dire «è aperto» direbbe «può essere aperto».
Non ritiene poi necessario l’ultimo punto, ma non fa alcuna proposta in merito. Il testo dell’articolo così modificato sarebbe il seguente:
«La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale nel rispetto delle leggi. Tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi ed in relazione alla propria idoneità. Per l’insegnamento universitario, ai concorsi possono essere ammessi anche cittadini stranieri. L’accesso agli impieghi privati è aperto a tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso».
GIUA, Relatore, dichiara di accettare la formulazione Togni.
COLITTO è d’accordo con l’onorevole Molè che la donna non abbia la capacità di svolgere le funzioni giudiziarie, ma fa rilevare che sostituire «idoneità» a «capacità» non chiarisce il concetto.
FEDERICI MARIA trova inammissibile l’affermazione dell’incapacità della donna a ricoprire funzioni giudiziarie; quanto poi ad impieghi di carattere militare fa notare che si vanno sviluppando i così detti servizi ausiliari, compiuti da donne, e che, anche nella polizia, è preveduto l’impiego delle donne.
MOLÈ consente che le donne possano ben corrispondere nei corpi ausiliari dell’esercito; ma si tratta di un caso che non permette generalizzazioni. Non intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile.
FEDERICI MARIA ritiene che basterebbe sostituire a «capacità» «idoneità».
COLITTO, poiché nella Costituzione non si può fare della casistica, direbbe: «L’accesso ai pubblici impieghi è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi».
PRESIDENTE propone di modificare la proposta Togni, riferendo l’idoneità al sesso e precisamente: «Tutti i cittadini italiani sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorso, senza restrizione di sesso, tranne quella della idoneità».
FEDERICI MARIA ricorda che anche nella discussione sul lavoro furono sollevate eccezioni per le donne.
TOGNI è del parere che non si debba scendere a dettagli sulle limitazioni. Queste verranno fatte all’atto del concorso in riferimento alle qualità fisiche che l’ufficio richiede. Se già si dice che sono ammessi senza limitazioni di sesso, tranne quella della idoneità, l’idoneità può riferirsi tanto alla persona che al sesso. Nella Costituzione non possono essere posti dei limiti all’accesso di un sesso agli impieghi.
COLITTO, poiché non è possibile scendere a dettagli, insiste nel proporre il seguente articolo:
«L’accesso ai pubblici impieghi è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi».
TOGNI obietta che la Costituzione non può rimandare alle leggi: deve dare delle direttive. Del resto in America ed in Inghilterra limitazioni del genere non vengono fatte; tutte le carriere, dalla militare alla professionale, sono aperte alle donne.
FEDERICI MARIA, poiché nessuna Costituzione fa restrizioni in materia, insiste perché non siano fatte nella nostra.
MOLÈ dichiara di accettare la formula proposta dall’onorevole Colitto.
PRESIDENTE chiarisce che l’articolo sarebbe così formulato:
«La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale nel rispetto delle leggi».
Pone ai voti questo comma.
(È approvato).
Dà poi lettura delle due proposte, quella degli onorevoli Colitto e Molè, e l’altra dell’onorevole Togni, per il comma successivo.
La prima è così formulata:
«L’accesso ai pubblici impieghi è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi».
L’altra è la seguente:
«Tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi ed in relazione alla propria idoneità».
MARINARO è favorevole alla prima formula, ma con la seguente modificazione alla seconda parte:
«Agli impieghi nelle amministrazioni statali, parastatali o comunque soggette alla vigilanza dello Stato, si accede mediante concorsi».
PRESIDENTE fa considerare che la distinzione tra uffici pubblici e non pubblici non è facile.
MARINARO, appunto per eliminare tale difficoltà, ritiene necessaria la distinzione proposta.
PRESIDENTE osserva che c’è grande incertezza nei criteri di distinzione fra enti pubblici ed enti privati.
MARINARO potrebbe modificare la proposta e dire: «Nelle amministrazioni statali o in enti di diritto pubblico» e ciò perché in certe amministrazioni che hanno funzioni prevalentemente di interesse pubblico non è mai stato introdotto il concorso.
COLITTO chiede che sia fatto risultare dal verbale che, parlando di impieghi pubblici, si intende far riferimento a quanto ha specificato l’onorevole Marinaro.
MARINARO fa considerare che la Cassazione ha ripetutamente affermato che quando si dice impiego pubblico ci si riferisce a impieghi nelle amministrazioni dello Stato.
PRESIDENTE rileva che ci sono impieghi pubblici presso enti privati e ci sono impieghi privati presso enti pubblici. Fa l’esempio del Consorzio agrario che è indubbiamente un ente privato, ma che esplica anche funzioni pubbliche, quale è quella dell’ammasso del grano. L’impiegato addetto all’ammasso del grano esercita un impiego pubblico presso un ente privato. Ritiene perciò sufficiente dire «impieghi pubblici».
MARINARO aggiunge che la Cassazione ha definito ente di diritto pubblico quello che assolve ad una funzione pubblica. Ci sono istituti che hanno attività mista, altri che hanno una figura giuridica sui generis, che esercitano una pubblica attività, che danno buone remunerazioni e assicurano una carriera vantaggiosa. Non vede perché non si dovrebbe richiedere che le assunzioni del personale si facciano per concorso.
PRESIDENTE legge la proposta degli onorevoli Colitto, Molè, Marinaro:
«L’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi»;
e quella dell’onorevole Togni:
«Tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi e in relazione alla propria idoneità».
COLITTO dichiara di essere disposto ad aggiungere nella sua formula l’inciso «senza distinzione di sesso». La formula risulterebbe così espressa:
«L’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico è libero ai cittadini, senza distinzione di sesso, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. A tali impieghi si accede mediante concorsi».
FEDERICI MARIA insiste perché sia tolto l’inciso «salvo le limitazioni stabilite dalla legge».
COLITTO non lo ritiene opportuno. Ad esempio, un concorso per soli maschi indetto dall’Accademia militare per arruolamento di allievi ufficiali, risulterebbe anticostituzionale.
MARINARO afferma che queste limitazioni esistono in quasi tutte le Costituzioni.
FEDERICI MARIA ritiene che quell’inciso sia pericoloso, perché non si possono specificare i casi ai quali si intende riferito. Con la proposta dell’onorevole Togni, dove è prevista la idoneità, queste preoccupazioni non avrebbero ragione di essere.
MOLÈ osserva che la idoneità serve a stabilire un criterio individuale che riguarda tanto il maschio che la femmina.
PRESIDENTE pensa che mutando la collocazione dell’inciso «salvo le limitazioni stabilite dalla legge», potrebbe essere eliminato ogni disaccordo. Propone pertanto la seguente formula:
«L’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge, senza distinzione di sesso, razza, religione e fede politica.
A tali impieghi si accede mediante concorso».
Mette ai voti questa proposta.
(È approvata).
Dà poi lettura della nuova formulazione del punto successivo:
«Per l’insegnamento universitario i concorsi possono essere aperti anche a cittadini stranieri».
Pone ai voti questa proposta.
(È approvata).
La seduta termina alle 13.
Erano presenti: Ghidini, Marinaro, Colitto, Federici Maria, Giua, Molè, Rapelli, Togni.
Assenti giustificati: Di Vittorio, Noce Teresa, Pesenti.
Assenti: Canevari, Dominedò, Fanfani, Lombardo Ivan Matteo, Merlin Angelina, Paratore, Taviani.