Come nasce la Costituzione

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LUNEDÌ 30 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

15.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI LUNEDÌ 30 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di proprietà (Seguito della discussione)

Colitto – Presidente – Dominedò – Canevari – Corbi – Federici Maria – Merlin Angelina.

La seduta comincia alle 18.30.

Seguito della discussione sul diritto di proprietà.

COLITTO dichiara che, se fosse stato presente alla precedente seduta, non avrebbe dato la sua approvazione ai due articoli relativi alla proprietà, così come sono stati approvati. Prega, ad ogni modo, la Sottocommissione di voler ritornare sull’argomento e di modificare gli articoli nel senso che, invece di parlare di proprietà privata, si parli di proprietà individuale, per meglio distinguere questa dalle altre due forme di proprietà, che, a suo avviso, sono sempre forme di proprietà privata. Desidererebbe, inoltre, che fosse precisato in che cosa consistano le «forme» della proprietà individuale, che la legge dovrebbe determinare, e in che cosa consistano le «comunità di lavoratori e di utenti», cui la legge potrebbe attribuire la proprietà di beni o li complessi produttivi. Propone, infine, di eliminare le parole «sia mediante riserva originaria», di cui non è facilmente comprensibile il significato, e di modificare nel secondo articolo le parole «i diritti della collettività», perché ritiene che nella Costituzione, che è un documento giuridico, si debbano usare parole giuridiche.

PRESIDENTE chiarisce che la Sottocommissione, pur avendo tenuto presente che la proprietà cooperativistica è formalmente proprietà privata, si è anche resa conto, come risulta dall’ampia discussione svolta sull’argomento, che la proprietà cooperativistica si differenzia dalla proprietà privata, secondo la comune accezione di questa espressione, soprattutto in virtù delle finalità di interesse collettivo, non speculativo, che la cooperazione persegue. Ritiene che la dizione «proprietà individuale» sia meno comprensiva di quella di «proprietà privata».

Venendo al secondo comma dell’articolo, esprime l’opinione che debba essere modificato nel senso di sostituire alle parole «le forme» la frase «i modi di acquisto e di godimento»; in proposito osserva che l’espressione «le forme» rappresenta, per così dire, il troncone di una frase più ampia riferita ai modi di acquisto e di uso che fu in parte inavvertitamente omessa.

Sempre al fine di meglio chiarire il pensiero della Sottocommissione, ritiene che il terzo comma dell’articolo possa essere formulato più perspicuamente nel modo seguente: «Per esigenze di utilità collettiva e di coordinamento dell’attività economica, la legge può attribuire agli enti pubblici e alle società cooperative la proprietà di beni e complessi produttivi, sia a titolo originario che mediante esproprio contro indennizzo».

Chiede agli onorevoli Commissari se con la formulazione proposta abbia, come ritiene, esattamente interpretato il pensiero già espresso dalla Sottocommissione.

DOMINEDÒ, premesso che tutto il problema dell’eventuale revisione dell’articolo dovrà evidentemente essere sottoposto all’esame dei Commissari nella prossima seduta, osserva specificatamente che per quanto riguarda il mutamento di terminologia da «proprietà privata» in «proprietà individuale», preferirebbe la prima espressione, comprensiva sia della proprietà individuale che di quella sociale, apparendo tale espressione più accettabile sia dal punto di vista formale che da quello intrinseco, in relazione al superamento della visione individualistica del concetto di proprietà: ma ciò a patto di adottare il termine simbolico di proprietà «pubblica» invece che collettiva. Diversamente, starebbe per «individuale» e «collettiva».

Per quanto riguarda il secondo comma, è d’accordo che la dizione «le forme» mal rende il concetto prevalso nella Sottocommissione e sta a rappresentare quasi un relitto risultante dalle diverse formulazioni originariamente proposte, dal momento che la frase, nel suo testo completo, era stata in un primo tempo così concepita: «modi di acquisto e di godimento».

In merito al terzo comma, non ha difficoltà a che, per una ragione di tecnicismo giuridico, in relazione all’attuale stato di cose, si faccia esplicita menzione delle «società cooperative», come nel primo comma, mantenendo eventualmente la ulteriore menzione delle «comunità di lavoratori e di utenti legalmente riconosciute». Conviene infine nell’opportunità di sostituire, sempre al terzo comma, per maggiore tecnicismo, l’espressione «a titolo originario» all’altra: «riserva originaria».

CANEVARI aderisce alle considerazioni dell’onorevole Dominedò e particolarmente alla proposta di aggiungere alla parola «cooperative» le altre «o le comunità di lavoratori e di utenti». Insiste perché sia detto «o» invece che «e», a significare che si presuppone uno sviluppo che la cooperazione potrà avere nel tempo.

COLITTO rileva che, dove, nel terzo comma del primo articolo, si intenda parlare, oltre che di società cooperative, anche genericamente di comunità, dovrebbero essere menzionate non solo le comunità di lavoratori, ma anche quelle di datori di lavoro, le une e le altre legalmente riconosciute.

Insiste, poi, nel rilevare che le parole «i diritti della collettività», di cui al secondo articolo, sono, oltre che giuridicamente inesatte, anche inutili, perché, dovendo la legge stabilire le norme e i limiti della successione legittima e di quella testamentaria, dovrà la legge stessa stabilire anche i diritti di quella che, sia pure impropriamente, si chiama collettività.

DOMINEDÒ si associa alla proposta di rivedere la formula «i diritti della collettività» dell’articolo 2, qualora la Sottocommissione ritenesse di riprendere in esame la disposizione.

CORBI ritiene che, qualora la Sottocommissione decidesse di rivedere la formulazione dei due articoli, sarebbe opportuno riesaminarne anche alcuni aspetti sostanziali, quale ad esempio quello che si riferisce agli espropri; poiché, come ebbe già ad affermare nella seduta precedente, l’indennità non deve essere consentita in ogni caso.

Per quanto riguarda la proposta dell’onorevole Colitto, di estendere ai datori di lavoro i benefici che verrebbero concessi a comunità di lavoratori, ad enti cooperativistici, ecc., dichiara di non ritenerla accettabile, in quanto tale proposta verrebbe ad infirmare tutto lo spirito dell’articolo, che ha lo scopo fondamentale di favorire il lavoro degli autentici lavoratori, e non altre categorie. L’estensione di questo beneficio ai datori di lavoro potrebbe rappresentare un serio pericolo per tutta la collettività. Potendo infatti lo Stato cadere esclusivamente nelle mani di forze capitalistiche, egoistiche, queste potrebbero trovare in tale articolo un’arma ed un mezzo potentissimi di accaparramento di mezzi economici a danno della collettività; arma e mezzo potentissimi, mai concessi ai datori di lavoro in altre costituzioni.

FEDERICI MARIA si associa alle considerazioni dell’onorevole Dominedò e riconosce esatte le modificazioni proposte dal Presidente rispetto ai concetti accettati dalla Sottocommissione nella precedente seduta.

MERLIN ANGELINA ritiene che, prima di addivenire ad una decisione qualsiasi in materia, si dovrebbe sentire il parere di tutti coloro che hanno votato l’articolo. In merito alle osservazioni fatte, e specialmente a quella concernente i datori di lavoro, si associa pienamente a quanto ha detto l’onorevole Corbi e riconosce che le dichiarazioni del Presidente rispondono al pensiero già manifestato dalla Sottocommissione nella precedente seduta.

PRESIDENTE, non essendosi raggiunto il numero legale per poter prendere qualsiasi decisione in merito alla discussione, rinvia la seduta al giorno successivo, martedì 1° ottobre 1946, alle ore 10.

La seduta termina alle 19.15.

Erano presenti: Canevari, Colitto, Corbi, Dominedò, Federici Maria, Ghidini, Marinaro, Merlin Angelina.

Assenti giustificati: Moro, Noce Teresa.

Assenti: Assennato, Fanfani, Giua, Lombardo, Paratore, Rapelli, Taviani, Togni.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 27 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

14.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 27 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di proprietà (Seguito della discussione)

Presidente – Dominedò – Merlin Angelina – Taviani, Relatore – Canevari – Corbi – Lombardo – Fanfani – Giua – Marinaro.

La seduta comincia alle 17.15.

Seguito della discussione sul diritto di proprietà.

PRESIDENTE comunica che alla fine della seduta antimeridiana, alcuni membri della Sottocommissione si sono riuniti per concordare un testo di articolo che, tenendo conto delle varie opinioni, riassumesse i concetti espressi dal Relatore e dai singoli oratori.

Dà quindi lettura dell’articolo concordato, formulato nei seguenti termini, avvertendo che le frasi fra parentesi sono quelle sulle quali non è stato ancora raggiunto accordo:

«I beni economici possono essere oggetto di diritto di proprietà da parte dei privati, delle comunità (dei lavoratori e degli utenti) e della collettività.

«La proprietà privata è riconosciuta e garantita dallo Stato. La legge ne determina i limiti e le forme allo scopo di farle assumere funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

«Per esigenze di utilità collettiva, di coordinamento dell’attività economica (e di giustizia sociale) la legge può rivendicare agli enti pubblici e alla comunità (dei lavoratori e degli utenti) la proprietà di beni mobili e immobili (di beni singoli o di determinati settori economici) sia mediante riserva originaria, sia mediante esproprio contro indennizzo (salvo i casi previsti dalla legge)».

Desidera fare innanzi tutto un’osservazione, cioè che al 1° comma si dovrebbe dire: «oggetto di proprietà», invece di: «oggetto di diritto di proprietà».

DOMINEDÒ si associa alla proposta del Presidente.

MERLIN ANGELINA è d’avviso che tutto il 1° comma dell’articolo sia superfluo.

TAVIANI, Relatore, fa notare che esso è il frutto di una lunga discussione che non è certo il caso di affrontare una seconda volta.

MERLIN ANGELINA chiede che allora l’articolo sia votato per divisione, in modo che sia possibile astenersi o votare contro.

PRESIDENTE propone che intanto si discuta se si debba lasciare o meno dopo la frase: «delle comunità», la specificazione: «dei lavoratori e degli utenti».

CANEVARI si dichiara favorevole all’aggiunta.

CORBI propone che invece di: «comunità dei lavoratori e degli utenti», si dica: «cooperativistica».

PRESIDENTE osserva che nell’articolazione proposta dall’onorevole Pesenti la formulazione è ancora più esatta, in quanto dice: «La proprietà dei mezzi di produzione e di scambio può essere privata, di cooperativa e di Stato».

CANEVARI si associa alla proposta dell’onorevoli Corbi, anche perché non c’è solo la proprietà di Stato, ma anche quella dei comuni, delle province, delle regioni, ecc.

PRESIDENTE ritiene che allora si potrebbe dire: «Possono essere oggetto di proprietà privata, cooperativistica e collettiva».

LOMBARDO è d’avviso che, se si accetta il 2° comma, la prima parte dell’articolo diventi inutile, essendo superfluo specificare che cosa possa essere la proprietà.

FANFANI rileva che l’articolo è a carattere storico.

LOMBARDO ripete che, a suo avviso, la prima parte è superflua e non ha ragion d’essere. Quando si enuncia che i beni economici possono essere oggetto di diritto di proprietà privata, di comunità, ecc. si deve anzitutto cominciare a sceverare di quali comunità si tratta. Se questo articolo fosse stato formulato un anno fa, quando non si parlava della regione, ci sarebbe stata una lacuna.

PRESIDENTE fa presente che la difficoltà è stata risolta con la parola: «collettiva».

TAVIANI, Relatore, osserva che i vari Commissari hanno rivissuto in tre giorni tutto il tormento della sua relazione che ha richiesto un mese di lavoro e che cominciava inizialmente con le parole: «La proprietà può essere privata o collettiva». Gli onorevoli Colitto, Marinaro e Merlin, durante uno scambio di idee non ufficiale fra i Relatori, si erano ribellati proprio all’aggettivo: «collettiva».

GIUA propone di dire: «collettivistica».

PRESIDENTE preferirebbe la dizione: «delle cooperative e della collettività».

GIUA propone di tralasciare per ora questa parte, riservando di parlarne in sede di coordinamento.

PRESIDENTE non ritenendo opportuna la proposta dell’onorevole Giua, propone la dizione: «di proprietà privata, delle cooperative e collettiva».

FANFANI osserva che in tal modo si limita troppo la dizione, in quanto si viene a permettere che una collettività di lavoratori possa ottenere domani la proprietà di uno stabilimento, anche non nella tradizionale forma classica della cooperativa.

CANEVARI osserva che, se è un sindacato, la proprietà divenga collettiva.

DOMINEDÒ ribadisce che sarebbe probabilmente proprietà collettivistica.

GIUA ritiene che, oltre alle tre forme elencate, non ve ne siano altre possibili.

FANFANI non trova molto chiara la definizione di: «collettivistica», ritenendo che si tratti sempre di proprietà private associate.

DOMINEDÒ, pur riconoscendo quanto v’è di vero nel rilievo che la cooperativa è formalmente una specie di società privata, osserva che, anche a prescindere dalle future riforme del diritto speciale, la differenza è oggi sociale piuttosto che giuridica: socialmente c’è il fatto della gestione comune, parallela alla gestione collettivistica.

PRESIDENTE ritiene che nella definizione: «delle comunità dei lavoratori e degli utenti» sia compreso tutto.

LOMBARDO non la ritiene sufficiente.

FANFANI osserva che se si fa una elencazione, è necessario farla completa.

LOMBARDO propone di togliere il primo comma che aveva soltanto lo scopo di inserire nell’articolo l’aggettivo: «privata»; ma siccome si è poi chiarito che non vi era nessuna intenzione di ledere il sacrosanto principio della proprietà privata, ritiene che ora sia superfluo lasciarlo.

PRESIDENTE, dato che queste comunità o sono enti privati, come le cooperative, o sono enti pubblici, crede che basterebbe sopprimere la parola: «comunità» e dire: «oggetto di proprietà da parte dei privati e della collettività».

CANEVARI osserva che non bisogna dimenticare che la cooperativa deve essere considerata come un ente privato, ma con scopi sociali, e quindi soggetto a vigilanza.

GIUA ritiene che non si possa escludere la possibilità che si formino cooperative a carattere sociale. Insiste nel proporre di discutere questa parte in sede di coordinamento.

Sull’inutilità del primo comma, sostenuta dall’onorevole Lombardo, pur essendo dubbio se delle affermazioni dottrinarie siano o meno necessarie nella Costituzione, osserva che tutte le Costituzioni ne hanno; ritiene quindi che anche nella nostra non possono essere omesse del tutto.

TAVIANI, Relatore, propone di porre in votazione il secondo e terzo comma, rimettendo successivamente alla discussione dell’intiera Commissione l’opportunità o meno di inserire il primo, che nella sostanza è accettato da tutti: si tratta di una questione formale che si vota per quello che dice nella sostanza. Ritiene che la proposta dell’onorevole Giua vada completata in questo senso: che si debba essere tutti d’accordo sulla sostanza del primo comma, di modo che il fatto di lasciarlo o meno sia un giudizio puramente formale; si potrà sempre mettere a verbale che i pareri sono divisi circa l’opportunità di inserirlo, dato che taluni lo ritengono superfluo.

PRESIDENTE ritiene che in tal modo la questione venga protratta, ma non risolta.

TAVIANI, Relatore, fa presente che se la Sottocommissione vota oggi questo comma, cioè che la proprietà può essere privata, cooperativistica e collettiva, e poi nella Commissione plenaria viene proposto un emendamento per toglierlo, tale progetto di emendamento verrebbe ad assumere un significato sostanziale. Ad evitare tale possibilità, propone che la Sottocommissione si metta d’accordo sulla sostanza, precisando bene la questione delle cooperative, delle comunità, ecc.; una volta precisato questo, si potrà dire che il comma ha un valore di pura definizione teorica.

PRESIDENTE è d’avviso di lasciare: «proprietà privata e collettiva».

GIUA osserva che si è in periodo di transizione e quindi nella necessità di affermare questa forma di proprietà cooperativistica, che è intermedia tra la proprietà privata e quella collettiva e che ha dei legami con quella che è la proprietà del singolo e la proprietà pubblica. Pure accettando la distinzione pura e semplice di proprietà privata e collettiva, vorrebbe che fosse inserita la specificazione: «cooperativistica», per stabilire che le cooperative non sono intese nel senso ordinario di proprietà privata, ma nel senso intermedio tra proprietà privata e pubblica.

DOMINEDÒ si associa a quanto ha detto l’onorevole Giua, considerando che bisogna tener presente il passaggio dal momento statico della proprietà al momento dinamico dell’impresa.

PRESIDENTE ritiene che la formulazione dovrebbe essere allora la seguente: «oggetto di proprietà privata, cooperativistica e collettiva».

LOMBARDO insiste per l’abolizione del primo comma. In caso di mantenimento, dichiara di non essere contrario al termine: «cooperativistica».

TAVIANI, Relatore, tiene a precisare il suo pensiero nel senso che egli è favorevole a che si voti la sostanza del primo comma; ma se un comma dichiarativo di questo genere deve essere premesso all’articolo, allora il comma dovrà essere quello proposto e non altro. Sarà poi rimessa alla Commissione plenaria la decisione circa l’utilità o superfluità del comma stesso.

PRESIDENTE non è di questo avviso in quanto o il comma è inutile e allora non si vota, o è utile e allora bisogna votarlo. Ritiene che si possa passare quindi alla votazione del primo comma.

TAVIANI, Relatore, per dichiarazione di voto afferma che voterà contro, non perché sia contrario alla sostanza, ma in quanto ritiene il comma superfluo.

LOMBARDO per dichiarazione di voto si associa a quanto ha affermato l’onorevole Taviani.

PRESIDENTE mette ai voti il primo comma, di cui dà lettura: «I beni economici possono essere oggetto di proprietà privata, cooperativistica e collettiva».

(È approvato).

Pone in discussione il secondo comma, così concepito: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dallo Stato. La legge ne determina i limiti e le forme, allo scopo di farle assumere funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».

Propone, innanzi tutto, di dire: «le forme e i limiti» e non viceversa.

MERLIN ANGELINA ritiene che il comma possa essere formulato nel modo seguente: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dallo Stato: la legge ne determina le forme e i limiti. La proprietà deve assumere funzione sociale e deve essere accessibile a tutti».

LOMBARDO si associa alla proposta della onorevole Merlin.

CORBI, dato che tutti sono d’accordo sulla sostanza, ritiene che non si debba arrivare affrettatamente alla votazione, ma trovare un punto di incontro per la forma.

PRESIDENTE non crede che le differenze siano soltanto formali.

FANFANI è del parere che il testo primitivo sia tale da tranquillizzare. In altri termini si vuole che il proprietario non dimentichi che la proprietà ha una funzione sociale; sarà poi compito del legislatore di correggere gli spropositi e gli eccessi di libertà.

MERLIN ANGELINA replica che la sua preoccupazione sta proprio nel fatto che possa mancare l’intervento del legislatore.

FANFANI ritiene, allora, che il testo proposto dalla onorevole Merlin non sia il più indicato ad evitare l’inconveniente.

LOMBARDO si dichiara convinto delle obiezioni dell’onorevole Fanfani.

MERLIN ANGELINA dichiara di non insistere nella sua proposta.

PRESIDENTE mette ai voti il secondo comma, con la sola inversione delle parole: «le forme e i limiti».

(È approvato all’unanimità).

Apre la discussione sul terzo comma, così concepito: «Per esigenze di utilità collettiva e di coordinamento dell’attività economica, la legge può rivendicare agli enti pubblici e alle comunità di lavoratori e di utenti la proprietà di beni mobili ed immobili o di complessi produttivi, sia mediante riserva originaria, sia mediante esproprio contro indennizzo».

Fa presente che taluni Commissari vorrebbero che alla fine del comma fosse specificato: «salvo i casi fissati dalla legge».

FANFANI ritiene che in questo terzo comma sia bene lasciare la dizione: «comunità di lavoratori e di utenti» e non cambiarla in: «cooperativistica».

DOMINEDÒ invece di: «rivendicare», direbbe più rigorosamente: «conferire», oppure: «attribuire».

CORBI dichiara di preferire il termine: «rivendicare».

PRESIDENTE preferisce: «attribuire». Inoltre al posto delle parole: «complessi produttivi», metterebbe le altre: «imprese e aziende».

TAVIANI, Relatore, volendo fare una specificazione, preferirebbe che si tornasse alla primitiva dizione: «di beni singoli e di determinati settori economici».

FANFANI osserva che l’espressione: «beni singoli» non ha senso.

LOMBARDO propone di parlare soltanto di: «determinati settori economici».

DOMINEDÒ dichiara che l’espressione: «beni mobili ed immobili» sia comprensiva di tutto.

FANFANI propone quindi in tal caso di abolire l’espressione: «complessi produttivi».

LOMBARDO rileva che l’avviamento, ad esempio, non è compreso nella dizione: «beni mobili ed immobili».

DOMINEDO osserva che l’avviamento è un bene incorporale, o una qualità dell’azienda. Inoltre, riferendosi alla proposta del Presidente, parlerebbe di: «aziende» e non di: «imprese».

FANFANI rileva che l’espressione: «complesso produttivo» risponde ad un’esigenza moderna e serve a determinare un complesso di aziende ed una concatenazione di imprese. È una terminologia non accettata volentieri dai giuristi, ma della quale non si può fare a meno.

 

TAVIANI, Relatore, propone di dire semplicemente: «beni e complessi produttivi».

DOMINEDÒ e CANEVARI concordano.

LOMBARDO si dichiara contrario ad aggiungere alla fine del comma la limitazione: «salvo i casi fissati dalla legge».

PRESIDENTE fa presente che secondo dottrina e anche giurisprudenza l’indennizzo di una lira è considerato come rinunzia al rifacimento dei danni.

Il concetto di «indennizzo» implica l’altro di adeguatezza e a suo parere nessun indennizzo è dovuto, eccezionalmente, nel caso, ad esempio, del proprietario che abbandona completamente la coltivazione del suo potere.

CANEVARI ritiene che la legge debba essere libera di stabilire anche l’esproprio senza indennizzo.

LOMBARDO a tal fine propone di dire: «con riserva di indennizzo».

FANFANI preferirebbe: «sia mediante esproprio contro indennizzo, salvo contraria disposizione».

DOMINEDÒ osserva che, se si riconosce il diritto di proprietà, si deve essere conseguenti nello stabilire come regola precisa e generale il diritto all’indennizzo. L’ipotesi eccezionale prospettata dal Presidente può trovare eccezionali soluzioni, che non spetta alla Carta costituzionale contemplare. L’ordinamento giuridico non è insensibile a queste esigenze.

PRESIDENTE rileva che l’ipotesi da lui fatta trova riscontro in una disposizione del Codice civile: cioè nel caso dell’abbandono del proprio fondo, nel quale è ammesso l’esproprio.

LOMBARDO ritiene che vi siano due sole soluzioni, cioè o la riserva di indennizzo, o contro indennizzo.

FANFANI osserva che il caso positivo è quello dell’indennizzo; il caso negativo quello senza indennizzo.

«Riserva di indennizzo» vuol dire che la regola è «senza indennizzo» Non si può dire che il legislatore si riserva di determinare l’indennizzo, in quanto bisogna essere coerenti rispetto al comma secondo, come ha detto l’onorevole Dominedò.

CANEVARI ritiene che la proposta del Presidente sia intermedia, in quanto lascia alla legge la facoltà di stabilire secondo i casi.

PRESIDENTE dato che, una volta riconosciuto il diritto di proprietà, è giusto prevedere l’indennizzo, propende per la dizione «mediante esproprio contro indennizzo, salvo i casi fissati dalla legge».

TAVIANI, Relatore, dichiarandosi d’accordo sulla necessità che si debbano espropriare senza indennizzo le proprietà dagli speculatori, osserva che in questo caso non si effettua l’esproprio per pubblica utilità, ma bensì la confisca, in quanto la proprietà è ingiustamente formata. Anzi non esiste in questo caso la proprietà.

Ma quando la proprietà è legittimamente costituita, allora il giusto indennizzo deve essere riconosciuto. Ricorda che nell’articolo da lui inizialmente proposto era detto: «contro giusto indennizzo». Dato che l’onorevole Corbi ha sostenuto che dall’espressione «giusto» poteva derivare la possibilità o meno di fare la riforma agraria, per spirito di conciliazione ha rinunziato a quell’espressione che, dal punto di vista logico, riteneva esatta. Prega però che nell’articolo sia almeno lasciato il termine «indennizzo».

PRESIDENTE non comprende come sia possibile espropriare senza indennizzo una proprietà formata attraverso la speculazione o un terreno non coltivato, senza mutare profondamente l’istituto della confisca, il quale è attualmente subordinato alla condanna o a casi di vietata detenzione, alienazione, ecc.

TAVIANI, Relatore, dichiara che sentiva tanto questa esigenza, da aver proposto la formula della «proprietà frutto del lavoro e del risparmio». Ma osserva che si tratta di due problemi diversi: uno è quello dell’esproprio di proprietà legittima, che però deve essere espropriata per motivi di utilità pubblica o di coordinamento delle attività economiche; l’altro è il problema della proprietà mal formata e mal usata.

MARINARO ritiene che l’indennizzo sia la logica necessaria conseguenza del principio affermato nella prima parte dell’articolo: una volta riconosciuto e garantito il diritto di proprietà privata, non si può giungere che a quella conseguenza. Lo Stato può espropriare per ragioni di carattere generale, ma non può lasciare il proprietario senza indennizzo; altrimenti violerebbe il principio fondamentale del diritto di proprietà già riconosciuto.

FANFANI ricorda che sebbene nella Costituzione non vi sia un articolo che si occupa del furto, ciò nonostante i codici hanno proibito il furto.

Osserva che la proprietà si può considerare da tre punti di vista: 1°) proprietà illegittimamente formata, per la quale non si può parlare di esproprio, ma vi saranno leggi speciali che la elimineranno; 2°) proprietà legittimamente formata e male usata, e tal caso sarà preso in considerazione nella parte riguardante il diritto di impresa; 3°) proprietà legittimamente formata e utilizzata appieno, ma che, per esigenza di utilità collettiva o di coordinamento delle attività economiche, conviene riservare a determinati enti (e questo è il caso che riguarda la terza Sottocommissione) e allora vi è il diritto all’indennizzo.

PRESIDENTE dichiara di accettare la distinzione e, con l’intesa che se ne ridiscuterà in sede di esame dell’impresa, rinuncia all’inciso: «salvo i casi fissati dalla legge».

Mette ai voti l’ultimo comma dell’articolo nella seguente formulazione:

«Per esigenze di utilità collettiva e di coordinamento dell’attività economica, la legge può attribuire agli enti pubblici e alle comunità di lavoratori e di utenti la proprietà di beni o di complessi produttivi, sia mediante riserva originaria, sia mediante esproprio contro indennizzo».

(È approvato all’unanimità).

TAVIANI, Relatore, dà lettura dell’articolo sull’eredità da lui proposto nella relazione:

«Il diritto di trasmissione ereditaria è garantito. Spetta alla legge stabilirne le norme e i limiti sia della successione nell’ambito della famiglia, sia di quella testamentaria.

«Spetta pure alla legge determinare la parte che lo Stato preleva sulla eredità».

Ritiene che la formulazione sia sufficientemente chiara; desidera soltanto mettere in evidenza che il prelievo da parte dello Stato non ha soltanto scopo fiscale, ma scopo sociale, di ridistribuzione.

FANFANI ritiene che il contenuto di questo articolo sia già compreso in quello precedentemente votato, là dove è detto: «La legge determina le forme e i limiti della proprietà». Con questo, evidentemente, lo Stato, riconoscendo la proprietà, deve anche riconoscerne il trasferimento. A suo avviso, il nuovo articolo è quindi superfluo.

Osserva inoltre che, per quanto riguarda il prelievo, se è a scopo fiscale, non è questa la sede per parlarne; se è a scopo sociale, è già stato contemplato nel precedente articolo.

TAVIANI, Relatore, fa presente che nelle varie Costituzioni è contemplato questo concetto, derivante dal fatto che l’eredità è una proiezione della proprietà.

PRESIDENTE propone la dizione: «Il diritto di trasmissione ereditaria è garantito.

Spetta alla legge stabilire le norme e i limiti sia della successione legittima, sia di quella testamentaria».

DOMINEDÒ non ritiene che l’articolo sia un pleonasma, perché si potrebbero concepire delle ipotesi di proprietà non proiettate in tutto o in parte nel tempo.

FANFANI chiede se tale prelievo sull’eredità non possa essere destinato ad enti minori dello Stato.

CANEVARI è d’avviso di completare il primo articolo sulla proprietà inserendovi questi concetti.

DOMINEDÒ propone di depennare la seconda parte dell’articolo, dove è detto: «Spetta pure alla legge, ecc.».

FANFANI, concordando con l’onorevole Dominedò, rileva che il tempo e la entità del prelievo della ricchezza da parte dello Stato saranno determinati dal legislatore ordinario.

PRESIDENTE, siccome la tassa di successione intacca profondamente il diritto di proprietà, ritiene che non sia anticostituzionale fissare il principio nella Costituzione, anche in considerazione che altre ne parlano. Non si tratta di stabilire il quantum, ma solo il diritto alla tassazione, vedendo anche se non sia il caso di tener presente il carico familiare.

FANFANI propone di aggiungere al 2° comma: «come pure le quote riservate alla collettività».

MARINARO preferirebbe la dizione «come pure i diritti riservati alla collettività».

PRESIDENTE mette ai voti l’articolo così formulato: «Il diritto di trasmissione ereditaria è garantito. Spetta alla legge stabilire le norme e i limiti della successione legittima, di quella testamentaria e i diritti della collettività».

(È approvato).

La sedata termina alle 19.25.

Erano presenti: Canevari, Corbi, Dominedò, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Lombardo, Marinaro, Merlin Angelina, Rapelli e Taviani.

Assenti giustificati: Colitto, Molè, Noce Teresa.

Assenti: Assennato, Paratore, Togni.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 27 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

13.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 27 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di proprietà (Seguito della discussione)

Presidente – Federici Maria – Taviani, Relatore – Giua – Dominedò – Fanfani – Assennato – Marinaro – Lombardo – Corbi.

La seduta comincia alle 9.20.

Seguito della discussione sul diritto di proprietà.

PRESIDENTE dà lettura dei seguenti articoli, risultanti dalla discussione della precedente riunione.

Articolo proposto dall’onorevole Taviani:

«La Repubblica riconosce e garantisce il diritto di proprietà privata. Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e col risparmio.

«La legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto e il trasferimento, i limiti e le modalità di godimento, allo scopo di assicurare che la proprietà privata risponda, oltre che ad una funzione personale, alla sua funzione sociale. In conformità agli interessi della produzione, la legge favorirà lo sviluppo della proprietà cooperativa e della piccola proprietà».

Articolo proposto dall’onorevole Corbi:

«La Repubblica riconosce e garantisce il diritto di proprietà privata.

«La legge determinerà le norme che ne regolano i limiti, l’acquisto, il trasferimento, le modalità di godimento, allo scopo di impedire che essa arrechi pregiudizio alla proprietà altrui e contrasti con gli interessi del lavoro e della collettività, per favorire invece la proprietà cooperativa e la piccola proprietà nell’interesse della produzione».

Articolo proposto dall’onorevole Fanfani:

«La proprietà privata è riconosciuta e garantita dallo Stato.

«La legge ne determinerà i limiti di estensione, i modi di acquisto, di uso e di trasferimento, anche a titolo ereditario, allo scopo di farla adempiere alla sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».

Articolo proposto dall’onorevole Lombardo (modificato dall’onorevole Ghidini):

La proprietà è riconosciuta e garantita dallo Stato nelle forme e nei limiti stabiliti dalla legge.

«Il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente alla utilità sociale o in modo da arrecare pregiudizio alla libertà e ai diritti altrui, ma dovrà esserlo in conformità all’interesse della collettività».

Tiene a precisare di aver modificato quest’ultimo articolo, in seguito al rilievo fatto dall’onorevole Taviani che in esso erano contenute affermazioni soltanto negative, mentre lo Stato deve intervenire in forma positiva, allo scopo che la proprietà venga esercitata in conformità agli interessi della collettività.

FEDERICI MARIA propone di cominciare l’esame dalla formulazione proposta dal Relatore.

TAVIANI, Relatore, rende noto che, tenendo conto delle esigenze sue e degli onorevoli Corbi e Fanfani, nonché avendo rinunziato ciascuno ad una parte delle proprie posizioni, l’articolo potrebbe anche formularsi così:

«La Repubblica riconosce e garantisce il diritto di proprietà privata.

«La legge determinerà le norme che ne regolano i limiti, l’acquisto, il trasferimento è le modalità di godimento, allo scopo di farla adempiere ad una funzione sociale e di renderla accessibile a tutti, favorendo la proprietà cooperativa e la piccola proprietà.

«L’esercizio del diritto di proprietà privata non potrà essere in contrasto con gli interessi del lavoro ed i programmi economici dello Stato (o della collettività), in modo da arrecare pregiudizio alla proprietà altrui, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana col deprimere il livello di esistenza al disotto del minimo determinato dai bisogni umani essenziali».

PRESIDENTE, circa il 1° e il 2° comma, gli sembra che la formulazione sia incompleta, in quanto mancante di qualsiasi riferimento alla proprietà collettiva. Per quanto riguarda la 3a parte, non ha osservazioni da fare. Se non era, è interamente tratta dalla relazione Pesenti.

TAVIANI, Relatore, risponde al Presidente che per la proprietà collettiva potrà farsi un apposito articolo. Nel 2° comma sono state concordate le esigenze della funzione sociale e della accessibilità di tutti alla proprietà, mediante le cooperative e la piccola proprietà. Nel 3° comma è stata analiticamente spiegata l’espressione «funzione sociale». Il contenuto di questo comma avrebbe dovuto essere inserito nel secondo, ma per ragioni di forma si è preferito farne un comma a parte.

GIUA rileva che l’articolo proposto presenta tutti gli inconvenienti che sono propri di una formulazione concordata. Avrebbe potuto ammettere una formulazione sintetica che comprendesse tutti i vari concetti, ma l’aver preso una parte da ogni articolo che rappresenta una diversa tendenza, ha portato a creare una formulazione che non può soddisfare né, in particolare, il suo punto di vista, né, in generale, quello giuridico. Quando infatti si dice che lo Stato deve favorire la piccola proprietà e la proprietà cooperativa, si afferma un concetto che domani potrebbe essere in opposizione con l’evoluzione sociale ed attualmente potrebbe dar luogo a contrasti che faranno sentire la loro eco anche in Parlamento.

Come ha affermato nella precedente riunione, non spetta alla Commissione di svolgere idee programmatiche, come sarebbe avvenuto se il suo partito avesse avuto la maggioranza, ma, data la situazione di transizione che attraversa l’Italia, crede che sia invece necessario dare al popolo l’impressione che la Costituzione si basi su principî ben netti che non contrastino gli uni con gli altri. In realtà lo Stato non può favorire contemporaneamente la piccola proprietà e quella cooperativa, che sono due cose antitetiche. Non sarebbe tuttavia alieno dal lasciare ambedue i termini, perché da un lato la piccola proprietà già esiste di fatto e dall’altro, se si arriverà a favorire effettivamente la proprietà cooperativa, sorgeranno tante forme di vere e false cooperative che quella che oggi è l’eccezione, domani diventerà la norma generale.

Preferirebbe perciò adottare la formula proposta dall’onorevole Lombardo, nella dizione modificata dall’onorevole Ghidini, che, per quanto non lo soddisfi interamente, è tuttavia la più sintetica, pur abbracciando tutti i principî che sono emersi negli altri articoli preposti. Può anche errare, ma ritiene che non vi siano differenze sostanziali tra la formula Lombardo e quella di cui ha dato lettura l’onorevole Taviani, la quale, specialmente nell’ultima parte, è troppo estesa e caotica.

Nella dizione dell’onorevole Lombardo vede però malvolentieri l’espressione «è riconosciuta» che è troppo impegnativa e aggiungerebbe alla parola «proprietà» la specificazione «privata».

PRESIDENTE è contrario a parlare specificatamente di proprietà privata. Gli sembra che in sostanza si verrebbe a formulare tutto l’articolo basandolo esclusivamente sulla proprietà privata e cooperativa, trascurando invece la proprietà collettiva.

GIUA fa rilevare all’onorevole Ghidini che di fatto in Italia si ha solo la proprietà privata (anche la proprietà cooperativa è in fondo privata), perché quella dello Stato, delle provincie e dei comuni non può certamente considerarsi collettiva. Si avrebbe quindi nella Costituzione un termine di cui non si conosce il valore.

TAVIANI, Relatore, non avrebbe nulla in contrario ad iniziare l’articolo con la seguente affermazione: «La proprietà può essere privata o pubblica».

DQMINEDÒ per venire incontro al desiderio dell’onorevole Ghidini, farebbe precedere all’articolo la seguente dizione: «La proprietà può essere individuale, cooperativa e collettiva», ovvero: «La proprietà può essere privata, cooperativa, pubblica».

TAVIANI, Relatore, ricorda che egli in precedenza aveva proposto di dire: «La proprietà può essere privala e collettiva», ma tale dizione non fu accettata, perché si affermò che il concetto di proprietà collettiva non era ancora giuridicamente riconosciuto.

GIUA fa rilevare al Presidente che in regime borghese non può parlarsi di proprietà collettiva nel senso socialista, in quanto anche la proprietà statale o demaniale non può essere considerata collettiva. A tale tipo di proprietà non si potrà giungere fin quando non saranno radicalmente mutate le norme giuridiche che attualmente regolano i rapporti tra produzione e consumo.

PRESIDENTE, come ha già detto, ritiene che la Costituzione non debba consacrare i soli istituti esistenti, ma anche provvedere per quelli che saranno nel futuro. Una Costituzione la quale non facesse che consacrare e difendere quello che è ora in atto, senza preoccuparsi anche di quelle che possono essere le esigenze future, non raggiungerebbe, a suo modo di vedere, il suo vero scopo.

Comprende un tipo di Costituzione che consacri, come quella russa, un regime vigente, in quanto tutti gli ordinamenti hanno subito profonde e radicali trasformazioni; ma in un periodo di transizione, di mutamenti di istituti sociali, giuridici ed economici come è quello attuale, la Costituzione non può e non deve soltanto consacrare lo stato presente, ma deve intravedere quello che ci sarà nel domani, senza negare la libertà alla volontà popolare del futuro.

Per questi motivi ama parlare di proprietà collettiva, non come qualche cosa che attualmente esiste, ma nel senso invece di una possibilità a venire. D’altra parte non si sente nemmeno disposto a legarsi in modo assoluto al concetto di difesa e incremento della piccola proprietà a suo giudizio spesso antieconomica alla quale in vista di una finalità futura preferirebbe la grande proprietà industrializzata e socializzata. Se si accedesse al suo punto di vista, parlerebbe solo di proprietà, senza specificare se privata, cooperativa o collettiva. Se invece si inseriscono le specificazioni di proprietà privata e cooperativa, dovrebbe essere anche fatto cenno a quella collettiva, perché il primo tipo di proprietà rappresenta l’oggi, il secondo il domani, il terzo il dopodomani.

GIUA ripete che attualmente, in un articolo della Costituzione, non si può parlare di proprietà collettiva. L’onorevole Ghidini crede e questo è il dissidio in famiglia che formulando una Costituzione elastica si possa giungere, attraverso gradì successivi, alla società socialista. Nega recisamente che attraverso tale elasticità si possa raggiungere questo risultato, anche perfezionando la Costituzione, perché il passaggio tra lo stato presente e la società socialista del domani avverrà solo attraversò un salto brusco, o conato rivoluzionario che porterà ad una Costituzione completamente nuova.

PRESIDENTE ritiene che sarebbe preferibile, se fosse possibile, evitare i salti bruschi.

DOMINEDÒ pensa che la preoccupazione dell’onorevole Ghidini trovi risposta negli intendimenti originari della relazione Taviani, la quale snoda tre ipotesi della proprietà: individuale, cooperativa e collettiva.

Desidera chiarire che quando si parla di proprietà collettiva, si intende alludere a qualche cosa di ben diverso dalla proprietà demaniale o sociale. La prima, fra l’altro, si differenzia dalla proprietà collettiva per il fatto di essere formalmente imprescrittibile e inalienabile; la seconda è anch’essa individuale in quanto fa capo ad un ente a cui è riconosciuta una personalità giuridica. La proprietà collettiva deve invece rispondere all’avvento di quel mondo nuovo cui mirano anche l’oratore e il suo gruppo. Non avrebbe quindi alcuna difficoltà ad un’enunciazione con la quale si affermasse che la proprietà può essere individuale, cooperativa e collettiva, intendendosi però che quando si parla di funzione sociale, ci si vuole riferire alla sola proprietà individuale, per la quale appunto sorge il particolare problema di contemperare individualità e socialità.

Chiariti questi concetti fondamentali, ritiene che la Sottocommissione si trovi di fronte a due ipotesi: o premettere esplicitamente la indicazione dei tre tipi di proprietà, ovvero limitarsi ad una enunciazione di principio e poi, nello snodarsi dei singoli articoli, con senso storicistico, vedere quali delle tre ipotesi debbano essere tradotte in norme della Carta costituzionale, in modo da evitare la possibilità di salti bruschi per il futuro.

FANFANI chiede ai colleghi di spiegare che cosa si intende per proprietà privata, cooperativistica e collettiva.

DOMINEDÒ spiega che la proprietà collettiva è diversa dalla proprietà demaniale. Si tratta di qualche cosa di nuovo e di diverso rispetto alla tradizionale proprietà di diritto pubblico e alla proprietà demaniale strettamente intesa. Le proprietà demaniali si concretano per loro natura nella destinazione inalienabile di determinati beni dello Stato o dei comuni; per quelle collettive invece non v’è un uguale concetto della inalienabilità. È possibile passare dalla gestione individuale alla collettiva o da quella collettiva a forme miste o addirittura individuali, ad esempio in tema di trasporti, perché in tale caso manca un rigoroso presupposto di inalienabilità; questo è il fatto giuridico differenziale, e occorre trovare una formula rispondente a questo concetto.

FANFANI non è d’accordo: la proprietà collettiva è riservata alla intera collettività e non è alienabile.

PRESIDENTE osserva che una piazza è una proprietà inalienabile; ma se se ne modifica la destinazione può diventare alienabile. Il concetto di inalienabilità è vero solo in quanto glielo attribuisce lo Stato; quindi è valido fino ad un certo momento, ma non lo è in senso assoluto e perpetuo.

DOMINEDÒ ha dato un primo concetto della demanialità, ma si avvede che l’idea va approfondita. Non v’è dubbio che la demanialità comporti la non alienabilità e la non trasformabilità fino a che duri la stessa destinazione; ma l’essenziale è che questa operi per legge naturale, mentre, parlando di proprietà collettiva, le cose stanno diversamente. Un impianto potrebbe essere ridotto, aumentato o trasformato, e potrebbe avvenire il passaggio dalla gestione collettiva ad un’altra forma, diretta o indiretta; non esiste più il concetto rigoroso della inalienabilità o intrasformabilità; subentra una discrezionalità e una latitudine di manovra ben diversa. Chiede se ci possa essere una maggiore precisazione del concetto. Ritiene che questo sia compito del domani, occorrendo porre l’accento piuttosto sull’aspetto dinamico che su quello statico, essendo l’impresa collettiva quella che meglio esprime il significato di una gestione il cui fine è rivolto nell’interesse diretto della generalità. Si intende forse che questa proprietà collettiva non vada allo Stato? Ritiene evidente che debba andare allo Stato.

MARINARO prega i colleghi di precisare dove si trova determinato il concetto della proprietà collettiva al quale si è accennato.

DOMINEDÒ risponde che nel sistema vigente non esiste questa determinazione.

MARINARO afferma che per il momento si conosce la proprietà demaniale e quella di diritto pubblico. Qui si parla di proprietà collettiva, come se se ne facesse menzione nei codici o nelle leggi, mentre non è così. Ed allora ritiene innanzitutto necessario precisare il concetto di tale proprietà sino ad oggi inesistente.

PRESIDENTE risponde che il concetto di demanialità si differenzia dagli altri e un elemento per differenziarlo è quello accennato della inalienabilità. La differenza potrebbe essere in questo: che la proprietà demaniale ha una funzionalità in rapporto al servizio al quale è destinata, mentre la collettiva ha una funzionalità più che altro economica e produttiva.

Il fatto che non ci sia ancora non vuol dire che non possa esservi in avvenire; ed allora occorre prevedere il domani, se non si vuol fare una Costituzione che si chiuda in quello che vi è già.

Se si stabilisce che la Costituzione deve considerare solo quello che già esiste, è disposto a votare l’articolo proposto dall’onorevole Taviani; ma se si vuole proiettare nel futuro l’efficienza della Costituzione, si può parlare anche della proprietà collettiva.

TAVIANI, Relatore, fa una dichiarazione pregiudiziale. Rifiuta l’affermazione del Presidente che accetterebbe l’articolo nel caso che si volesse sanzionare solo il passato. Afferma che la sua formulazione è innovatrice. Ricorda che la sua prima formulazione, discussa in una adunanza dei Relatori, cominciava con le parole: «La proprietà può essere privata e collettiva». Gli onorevoli Colitto e Marinaro fecero allora le stesse osservazioni che oggi ha ripetuto l’onorevole Marinaro, cioè che non esiste nella legislazione il concetto di proprietà collettiva, ma solo quello di proprietà privata e demaniale. Quindi o si resta alla vecchia formulazione giuridica, e si può benissimo cominciare dicendo: la proprietà può essere privata o pubblica; o si vuole aprire la strada a qualche cosa di nuovo, cioè a questo istituto di una proprietà che non è demaniale, chiamandola proprietà collettiva; ma allora occorre distinguere la proprietà cooperativa da quella collettiva; e a questo non ha nulla in contrario. Si tratterà di intendersi sulla formulazione specifica e precisare che per collettiva si intende quella proprietà che, appartenendo alla società, si prefigge uno scopo sociale.

Ripete che, sia che si parli di proprietà cooperativa e collettiva, sia che si formuli un comma dedicato esclusivamente alla proprietà collettiva, egli, l’onorevole Dominedò e altri sono intransigenti su una proposizione in cui si riconosca e garantisca il diritto di proprietà privata, perché, se così non fosse, si determinerebbe la deprecata divisione della Commissione.

PRESIDENTE nota che la divergenza è sulla premessa, perché sulle altre deduzioni vi sarebbe l’accordo.

LOMBARDO si dichiara disposto ad accettare la premessa togliendo la parola «privata».

Passando ad esaminare l’articolo nella nuova formulazione proposta dal Relatore, punto per punto, trova superfluo dire: «La legge determinerà le norme che ne regolano i limiti, l’acquisto, il trasferimento e le modalità di godimento», perché tutto questo si riferisce alla proprietà privata.

In seguito si dice: «allo scopo di farla adempiere ad una funzione sociale (questa è una limitazione) e di renderla accessibile a tutti», e trova che qui si tratta di cosa che già esiste, e che non occorre ripetere per non accordare, con questa dizione, troppo favore alla piccola proprietà e a quella cooperativa, in quanto nel futuro possono venir modificati i concetti di proprietà da qualche rivolgimento di carattere scientifico.

Personalmente poi, se deve ispirarsi alla sua ideologia, non direbbe «favorendo la proprietà cooperativa e la piccola proprietà»; preferirebbe non specificare, perché il concetto di proprietà si può evolvere attraverso il tempo.

Osserva che invece dell’espressione «in contrasto con gli interessi del lavoro, ecc.». si limiterebbe a dire che la proprietà non può essere in contrasto con l’utilità sociale; così sarebbe detto tutto, perché gli interessi del lavoro rientrano nell’ambito della utilità sociale e, se vengono delimitati con indicazioni precise, possono diventare, ad un certo momento, una beffa, perché l’interesse del lavoro di oggi può essere negato o superato domani.

Poi si dice: «in modo da recare pregiudizio alla proprietà altrui, alla sicurezza»; chiede se si vuol parlare della sicurezza individuale o di quella della proprietà.

Si parla poi di libertà e di dignità umana, ma ritiene che il concetto di dignità umana sia assorbito dal concetto di libertà: non c’è dignità umana, se non c’è libertà.

Infine trova elastica l’espressione «bisogni umani essenziali» perché, se ci si riporta al 1917, ad esempio, 700 grammi di pane al giorno potevano essere sufficienti per pagare un individuo che dovesse provvedere ai suoi bisogni umani essenziali, ma è molto differente se si considerano i bisogni di oggi e quelli assai più vasti di domani.

Quindi gli sembra che l’articolo sia limitativo: la formulazione deve avere il carattere più ampio possibile e permettere di porre a fuoco la situazione di oggi e quella che sarà domani, di procedere verso quelle finalità sociali alle quali il cammino è aperto.

Tornerebbe alla formula del Presidente che gli sembra possa includere con sufficiente latitudine tutti gli aspetti di quella che è l’interpretazione odierna della proprietà e di quella che sarà nel futuro.

ASSENNATO si dichiara d’accordo con l’onorevole Lombardo. Accetta, per la prima parte dell’articolo, la formula: «La Repubblica riconosce e garantisce il diritto di proprietà».

Crede che i colleghi saranno d’accordo nel riconoscere l’opportunità di non porre una premessa che definisca la vecchia forma di proprietà.

Seguiterebbe poi la formulazione nei seguenti termini:

«La legge determinerà le norme che ne regolano i limiti, le forme e le modalità allo scopo di farla adempiere ad una funzione sociale e renderla accessibile a tutti, attraverso le varie forme.

«L’esercizio del diritto di proprietà privata non dovrà essere in contrasto con gli interessi del lavoro e i programmi sociali ed economici dello Stato, né recare pregiudizio alla proprietà altrui, alla sicurezza, alla libertà e dignità umana».

MARINARO limiterebbe il secondo comma alle parole: «regolerà i limiti, le forme e le modalità allo scopo di farla adempiere ad una funzione sociale».

Certo, lo Stato deve determinare la funzione sociale e ha la facoltà di intervenire per stabilire le norme, acciocché la proprietà adempia a questa funzione sociale, e lo può fare per raggiungere tutti gli scopi previsti nella seconda parte dell’articolo. Ne risulterebbe un articolo più snello che non lega le mani del legislatore, il quale potrebbe intervenire in ogni momento.

PRESIDENTE osserva che l’onorevole Assennato elimina la parola «privata» dalla prima parte, per non escludere la proprietà collettiva. E questo sta bene, perché riconoscere solo il diritto di proprietà privata potrebbe interpretarsi come un’esclusione di altre forme di proprietà.

In seguito però dice: «la legge determinerà le norme che ne regolano i limiti, le forme e le modalità» e si chiede se potrà la legge ordinaria raggiungere la finalità alla quale si aspira, qualora nella Costituzione non venga riconosciuta anche la proprietà collettiva. Un futuro interprete potrebbe dire che per il fatto di non essere riconosciuta dalla Costituzione, non è ammissibile. Per queste ragioni chiede che nella Costituzione se ne faccia un cenno; questo potrebbe trovar luogo là dove si parla di funzione sociale.

FANFANI rileva di non aver ricevuto risposta alla sua domanda, eppure è indispensabile, ai fini di quel cappello al primo articolo, di sapere quale contenuto si dà alle espressioni: «proprietà privata, collettiva, cooperativa». Pensava che dai colleghi che da tre giorni usano queste parole sarebbe potuta venire qualche specificazione chiarificatrice.

Pensa che dire proprietà privata e collettiva abbia un senso molto preciso solo se si tiene presente la finalità per la quale la proprietà privata e quella collettiva vengono attuate, e basterà sfiorare un po’ la Costituzione russa per rendersene conto.

La proprietà privata è il contrapposto di quella collettiva non quanto all’estensione o alla appropriazione di beni, ma alla modalità; non a fini produttivi, se mai a fini distributivi; la proprietà privata è un modo di riservare i frutti della produzione ad un privato gestore possessore di beni; la collettiva invece si propone o di non ricavare un profitto, o se profitto ci deve essere per la differenzia fra il costo e il ricavo, di non riservarlo a beneficio del gestore, ma di distribuirlo ai singoli partecipanti al processo produttivo.

Detto questo, e se in questo vi è l’accordo, riconosce la necessità di premettere un articolo in cui si specifichi che i beni economici possono essere oggetto di appropriamento da parte di persone private, di comunità di lavoro, della collettività. Ma, dato che nella Costituzione italiana, negli istituti italiani e nel diritto italiano questi concetti non sono precisati, anziché con parole che presuppongono una definizione che oggi non c’è e dire «proprietà privata e collettiva», converrebbe adottare una espressione un po’ più generica che richiami al fatto della proprietà da parte di questi tre tipi diversi: «I beni economici possono essere oggetto di diritto di proprietà da parte di privati, di comunità di lavoro della collettività».

Questo primo articolo sgombrerebbe il terreno, e molte delle discussioni fatte sarebbero state evitate, se si fosse partiti da una simile premessa.

Fatto questo articolo, se ne dovrebbero formulare due o più altri diretti a precisare quando e perché vengano ammesse le varie forme. Un articolo va dedicato alla proprietà privata per stabilire che è riconosciuta, ma riconosciuta in vista di determinati scopi e entro certi limiti.

Diceva l’onorevole Lombardo nella sua critica che parlando di limiti e di modalità si veniva a circoscrivere e forse a ridurre a ben poco il diritto di proprietà privata.

Questo sarebbe vero se non si uscisse da un sistema di vita in cui quella forma ha avuto un contenuto pressoché illimitato. Quindi per far risaltare che si esce da questo sistema di vita in cui il proprietario ha avuto libertà di poter fare quello che vuole, è indispensabile precisare che, dopo essere stato riconosciuto il diritto di proprietà privata, esso viene limitato con scopi specifici, per inserirlo come una delle tante forme in questo sistema sociale nuovo che si vuol costruire per far sì che non sia il privilegio di un abile o di un fortunato, ma che l’accesso alla proprietà possa essere aperto a tutti.

A questo punto si dichiara nettamente contrario a parlare di piccola proprietà, perché così si limiterebbero le possibilità di sviluppo tecnico, mentre limitazioni non dovrebbero trovar posto nella Costituzione; e anche perché potrebbe sorgere l’idea che l’accessibilità si possa concretizzare solo in una porzione di terreno, mentre si deve non solo pensare alla proprietà del suolo o della casa, ma a tutto quello che può rappresentare un bene economico.

Per questo motivo, nessun accenno all’idea della piccola proprietà. Naturalmente subito dopo bisogna formulare un altro articolo relativo alle altre due possibilità prospettate con l’articolo primo: proprietà cooperativa e proprietà della collettività; e stabilire i motivi per cui si passa a queste altre forme, motivi di utilità collettiva, motivi di giustizia sociale; e stabilire che per questi motivi la legge può rivendicare a tutti gli enti pubblici, territoriali o alle comunità di lavoro la proprietà di alcune energie naturali, di porzione di territorio, di determinati compiessi produttivi. In qual modo? In due soli modi: o con una riserva originaria, o, dopo avvenuto appropriamento, attraverso un esproprio contro indennizzo.

A conclusione propone alla discussione i seguenti tre articoli:

Art. 1.

I beni economici possono essere oggetto di diritto di proprietà da parte dei privati, delle comunità di lavoro, della collettività.

Art. 2.

La proprietà privata è riconosciuta e garantita dallo Stato (pensa che si possa anche omettere la parola «garantita»).

La legge ne determinerà i limiti, l’estensione, i modi di acquisto, di uso e di trasferimento, anche a titolo ereditario, allo scopo di farla adempiere alla sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

Art. 3.

Per esigenze di utilità collettiva, di coordinamento della attività economica e di giustizia sociale, la legge può rivendicare agli enti pubblici territoriali e alle comunità di lavoro la proprietà di alcune energie naturali, di porzioni di territorio, di determinati complessi produttivi, sia mediante riserva originaria, sia mediante esproprio dei privati contro indennizzo.

ASSENNATO fa notare che dopo quattro giorni la discussione viene completamente spostata.

FANFANI ritiene di avere riassunto la discussione.

ASSENNATO per mozione d’ordine, pur ringraziando il collega Fanfani del contributo che dà alla discussione con il suo schema, non può fare a meno di notare che dopo quattro giorni di discussioni tale schema rischia di mandare a monte tutto il lavoro svolto precedentemente, spostando completamente i termini della questione.

DOMINEDÒ crede invece che lo schema proposto sia il frutto dello sviluppo della discussione, alla quale l’onorevole Fanfani non ha fatto altro che aggiungere un anello della catena, tanto è vero che egli si è ricollegato alle tre ipotesi fondamentali, indugiando sulla definizione delle finalità economiche inerenti alla proprietà e all’impresa collettiva, nello stesso modo in cui l’oratore si era soffermato prevalentemente sulla definizione dei caratteri giuridici, sottolineando l’esigenza di approfondire la nuova ipotesi. Non ritiene pertanto fondata la mozione Assennato.

CORBI ha seguito con molta attenzione l’interessantissima e complessa discussione; però tiene a mettere in evidenza che si discute da più di tre giorni e, se si continua in tal modo, difficilmente si arriverà a concludere i lavori nel termine fissato, tenendo conto del numero di articoli che la Sottocommissione deve ancora esaminare. Crede che la colpa sia del sistema seguito, nel senso che la discussione sta scivolando nel bizantinismo, da cui difficilmente si potrà uscire se non dando ai lavori un’impostazione diversa. Propone pertanto che il Presidente scelga un articolo che possa servire come base di discussione per apportarvi tutte le modifiche che saranno ritenute necessarie. Il presentare ad ogni momento un articolo nuovo allontana sempre di più da una conclusione.

Si permette poi richiamare il Presidente sulla necessità di una maggiore autoritarietà sia nel dirigere la discussione, in modo che non vada fuori tema, sia nel mettere in evidenza tutti gli aspetti che possano far confluire verso un punto di convergenza, per arrivare così ad una soluzione più rapida.

PRESIDENTE risponde all’onorevole Corbi che è difficile poter forzare il proprio temperamento, e del resto non crede che vi sia bisogno di richiami nei confronti di colleghi così sapienti e cortesi. Pertanto più che sulla sua fermezza, farà conto sulla buona volontà di tutti i membri della Sottocommissione.

FANFANI desidera chiarire all’onorevole Assennato che se non ha presentato prima il suo schema è solo perché non rientra nelle sue abitudini di venire alle riunioni con una ricetta pronta in tasca; ma stando a sentire attentamente, cerca di rendersi conto della comune opinione e ne trae le conseguenze.

Non può infine accettare il velato rimprovero rivoltogli dall’onorevole Corbi, in quanto non desidera che i suoi articoli siano discussi nel loro insieme, ma solo dimostrare l’interdipendenza delle tre diverse ipotesi.

ASSENNATO insiste nell’affermare che la formulazione proposta dall’onorevole Fanfani può essere causa di profondo sconvolgimento di tutto il lavoro in precedenza svolto. A tale proposito fa notare che la nomina del Relatore ha lo scopo di affidare ad uno dei componenti il lavoro più pesante, di porre le basi della discussione, proponendo una formulazione sulla quale devono convergere tutte le osservazioni per apportarvi le necessarie modifiche. Se ognuno presenta nuove formulazioni, la nomina del Relatore risulta inutile.

PRESIDENTE, venendo incontro al desiderio espresso dall’onorevole Corbi, desidera mettere in luce i punti di divergenza e convergenza nelle proposte dell’onorevole Fanfani.

Sull’articolo 1 non trova nulla da eccepire, e crede che sulla sua formulazione possano essere tutti d’accordo. Lo stesso concetto afferma per l’articolo 2, anche per quanto concerne la precisazione relativa ai trasferimenti a titolo ereditario, perché se lo Stato riconosce e garantisce la proprietà privata, deve anche correlativamente assicurare la possibilità di poterla acquistare mortis causa.

Sul 3° articolo riconosce invece che possano sorgere divergenze. Si dichiara innanzi tutto favorevole al verbo «può», benché in altre Costituzioni, come in quella francese, sia usato invece il verbo «deve». Soffermandosi poi sulla frase: «la proprietà di alcune energie naturali, di porzioni di territorio, di determinati complessi produttivi», esprime l’avviso che la dizione usata sia troppo indeterminata.

Domanda se tutti siano d’accordo nel riconoscere queste tre forme di proprietà, e che alla proprietà privata possano essere segnati limiti di uso.

ASSENNATO trova strano che proprio a lui, comunista, tocchi di rivendicare il diritto di proprietà delle società, che non è compreso nella formulazione del primo articolo.

TAVIANI, Relatore, a suo avviso, le società sono anch’esse da considerarsi come private.

ASSENNATO ritiene che allora anche le comunità di lavoro dovrebbero considerarsi alla stessa stregua e perciò sarebbe inutile per esse il riferimento dell’articolo 1.

Premesso poi che gli sembra ambiguo il termine «collettivo», fa presente che la parola «territorio» ha una speciale significazione come parte della estensione del suolo nazionale. Si domanda allora perché si debba escludere dalla espropriazione la proprietà immobiliare costituita da stabili. Nel complesso la formulazione proposta, oltre ad essere incerta e lacunosa, mette in condizioni di non poter più discutere.

Propone di sospendere per qualche minuto la riunione, per cercare di trovare, in una conversazione amichevole, una via di accomodamento.

GIUA non è d’accordo con l’onorevole Corbi di limitare le discussioni, ma è anzi d’avviso che debbano estendersi quanto più è possibile, se da esse possa ricavarsi qualche concreta utilità.

In particolare paragona la posizione dei suoi colleghi Corbi e Assennato a quella di Proudhon e Marx, il quale, in opposizione al primo, nel suo libro La miseria della filosofia affermava: «Il voler dare una definizione della proprietà come di un rapporto indipendente di una categoria a parte, come un’idea astratta o eterna, non può essere che una illusione di metafisica e di giurisprudenza».

Si dichiara poi favorevole alla formulazione proposta dall’onorevole Fanfani, sia perché personalmente nega che in regime borghese possa affermarsi una proprietà collettiva in senso socialista, sia perché la dizione usata porta una maggiore estensione non solo al concetto di proprietà privata e cooperativa, ma anche a quello di proprietà collettiva che è assai diverso da ciò che i socialisti intendono.

TAVIANI, Relatore, per una volta tanto, si dichiara d’accordo col Presidente e lo ringrazia per aver fatto un ulteriore passo verso le posizioni del suo gruppo. Salvo ad integrare l’articolo 3 in modo che siano meglio precisati i beni che possono essere oggetto di espropriazione a favore di enti pubblici territoriali o di comunità di lavoro, gli sembra che tutti siano d’accordo sul principio del riconoscimento della proprietà privata. Del resto anche le formulazioni degli onorevoli Corbi e Lombardo non divergono nettamente e sarà facile giungere ad una intesa. Nel timore però che successivamente, in sede di votazione, sorgano dei contrasti, desidera riaffermare ancora una volta la assoluta necessità che nella Carta costituzionale sia sancito ben chiaro il principio che lo Stato riconosce e garantisce la proprietà privata. Questo principio rappresenta per il suo gruppo un’esigenza imprescindibile, dalla quale è impossibile derogare. Su questo argomento considera quindi inutile continuare la discussione, dichiarandosi disposto, in caso contrario, a presentarsi all’Assemblea con una separata relazione.

Desidera anche precisare che la formulazione ultima che ha proposto era il frutto di un accordo a cui si era pervenuti dopo un’amichevole conversazione svoltasi tra l’oratore e gli onorevoli Corbi e Assennato.

PRESIDENTE, circa l’ultima parte dell’articolo 3, formulato dall’onorevole Fanfani, fa presente che è pervenuta la proposta di sostituire alle parole «contro indennizzo» le altre «con riserva di indennizzo».

LOMBARDO ha già detto che a suo giudizio l’aggettivo «privata» era una superfetazione, perché la sostanza del dibattito sulla proprietà verte in sede ideologico-filosofica sul concetto della proprietà privata. Dichiara di riconoscere in pieno la proprietà privata, ma nella formulazione accennata dal Relatore gli sembrava che «privata» significasse che fino ad oggi c’era stata un’altra forma di proprietà e che fosse venuto il momento di riconoscere quella privata. Invece questa esiste ed ha costituito l’oggetto di ampi dibattiti attraverso i secoli.

Dicendo soltanto «proprietà» si considera qualunque tipo di proprietà, quella personale, quella di carattere pubblico e quella collettiva.

Oggi c’è la proprietà privata e, per limitarne gli abusi, si debbono assegnare alcune finalità. Quindi non vi è dissenso per quanto riguarda la enunciazione del diritto di proprietà privata; solo non vorrebbe limitare il concetto a quella privata unicamente e non indurre in errore chi leggesse questo testo, che potrebbe immaginare che la Commissione si stia occupando di una cosa che non esiste.

La riunione termina alle 11.40.

Erano presenti: Assennato, Canevari, Corbi, Dominedò, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Lombardo, Marinaro, Merlin Angelina, Rapelli, Taviani, Togni.

Assenti giustificati: Colitto, Molè, Noce Teresa.

Assente: Paratore.

GIOVEDÌ 26 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

12.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 26 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di proprietà (Seguito della discussione)

Taviani, Relatore – Presidente – Assennato – Canevari – Marinaro – Dominedò – Giua – Corbi – Fanfani.

La seduta comincia alle 10.

Seguito della discussione sul diritto di proprietà.

TAVIANI, Relatore, ha già risposto ieri alle due obiezioni formulate dall’onorevole Assennato.

L’onorevole Giua ha ritenuto troppo generico il primo comma e ha detto che è impossibile definire quando la proprietà sia frutto del lavoro e del risparmio. Lo stesso hanno osservato gli onorevoli Colitto, Dominedò e Lombardo.

Trova giuste le osservazioni e consente ad eliminare questa espressione.

L’onorevole Colitto ha insistito nell’affermare che non è necessaria la dichiarazione delle finalità e del riconoscimento del diritto di proprietà e delle norme con cui la legge ne deve stabilire i limiti e la consistenza; su questo punto non è d’accordo. Concorda invece con le osservazioni fatte dagli onorevoli Dominedò e Fanfani e prende atto della dichiarazione dell’onorevole Assennato di non chiedere l’eliminazione del riconoscimento della proprietà privata. L’onorevole Corbi era più o meno d’accordo con l’onorevole Assennato.

Al termine della discussione di ieri non sembrava possibile giungere rapidamente ad un accordo e si profilava l’eventualità che la Sottocommissione potesse dividersi e presentare una relazione di maggioranza e una di minoranza; ma ora, riflettendo alle osservazioni fatte, e dopo aver riletta la relazione Pesenti, non vede più questa eventualità. Ritiene superfluo discutere sulla questione della premessa etico-filosofica al riconoscimento del diritto di proprietà privata. Su questo punto sarà difficile raggiungere un accordo con l’onorevole Assennato. A malincuore dovrà rinunciare a questa esigenza, e così l’accordo potrà forse essere raggiunto.

Ci sono secondo lui due esigenze: la prima è che la proprietà privata debba essere riconosciuta non dalla legge, ma dalla Costituzione: è detto anche nelle relazioni Togliatti e Pesenti; il disaccordo è derivato dalle osservazioni del Presidente e dal primo accenno dell’onorevole Lombardo al suo articolo che, poi, nella stesura definitiva è stato così mutato: «La proprietà è riconosciuta e garantita dallo Stato nei limiti e nelle forme stabiliti dalla legge».

Gli sembra che l’onorevole Lombardo abbia receduto da questa posizione di ricondurre alla legge il riconoscimento.

ASSENNATO chiede perché il Relatore attribuisce tanta importanza a questa distinzione fra legge e Costituzione.

TAVIANI, Relatore, risponde che la legge può essere modificata e in tal modo la garanzia della proprietà privata può venir tolta, mentre, se è riconosciuta dalla Costituzione, per abolirla occorrerebbe fare un’altra Costituzione.

ASSENNATO obietta che, se la Costituzione stabilisce che è la legge che deve garantire la proprietà, la legge, anche modificata, non potrà mai sopprimere l’oggetto la cui tutela è stata ad essa affidata.

DOMINEDÒ pur rilevando l’acutezza del concetto espresso dall’onorevole Assennato, ritiene che il riconoscimento dei diritti fondamentali costituisca compito precipuo di una Carta costituzionale.

TAVIANI, Relatore, ricorda che nella relazione dell’onorevole Pesenti si dice: «Lo Stato riconosce, garantisce, tutela la proprietà ecc.».

Sulla seconda esigenza è più acuto il dissenso fra gli onorevoli Pesenti, Dominedò e Fanfani da una parte, Lombardo e Colitto dall’altra, mentre c’è possibilità di accordo con l’onorevole Corbi e l’onorevole Assennato. Si tratta della necessità che la legge, nel fissare i modi, tenga presenti alcuni scopi. Che la legge debba fissare i modi è una necessità che tutti riconoscono; ma, come già nella questione del diritto al lavoro e in quella dell’assistenza e previdenza sono stati fissati gli orientamenti e gli scopi ai quali la legge deve tendere, così anche in questo campo nel fissare le norme specifiche chiede che siano fissati questi scopi.

Primo punto: la proprietà privata non ha solo una funzione personale, ma anche sociale, che si esplica non solo in senso negativo ma anche in senso positivo; essa deve essere esercitata conformemente all’utilità sociale e al bene comune; e questo lo dice anche la relazione Pesenti. Ciò vuol dire che la proprietà privata deve essere inquadrata in una visione organica della vita economica dello Stato.

Secondo punto: la Repubblica è tenuta a difendere e diffondere la piccola proprietà; questo è affermato dall’onorevole Colitto e dall’onorevole Pesenti. Qui sorge una divergenza con gli onorevoli Assennato e Corbi, i quali dicono che, invece della piccola proprietà, al fine di favorire i cittadini, si dovrebbe parlare della proprietà cooperativa. Riconosce giusta soltanto in parte l’osservazione. I lavoratori possono essere sottratti allo sfruttamento diffondendo la piccola proprietà, ma anche attraverso la proprietà cooperativistica. Pertanto ritiene che l’accordo possa essere raggiunto su di un articolo di questo tipo:

«Lo Stato riconosce e garantisce il diritto di proprietà privata. Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e col risparmio.

«La legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto e il trasferimento, i limiti, le modalità di godimento allo scopo di assicurare che la proprietà privata risponda, oltre che ad una funzione personale, alla sua funzione sociale, nonché allo scopo di difendere e diffondere la piccola proprietà e la proprietà cooperativa».

Ripete che è d’accordo nella sostanza dell’articolo proposto dall’onorevole Giua e che rinuncia, benché a malincuore, alle ragioni etico-filosofiche del riconoscimento; ma quello che non accetta è di eliminare gli scopi che la legge deve tener presenti nel determinare le norme del diritto di proprietà.

Dichiara di accettare in pieno la proposta dell’onorevole Dominedò e di essere disposto ad accettare il primo comma proposto dall’onorevole Lombardo: «La proprietà è riconosciuta e garantita dallo Stato nelle forme e nei limiti stabiliti dalla legge», purché ci sia accanto al termine «proprietà» l’aggettivo «privata».

Sul secondo comma dell’onorevole Lombardo rileva che sta bene dire che «il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente ecc.», ma manca la parte positiva, e c’è solo quella negativa. È pienamente d’accordo circa il primo comma proposto dall’onorevole Corbi; sul secondo trova discutibile la parola «eventuale»; inoltre fra il primo e il secondo comma manca una parte intermedia.

ASSENNATO prega il relatore di sostituire questa dizione: «La Repubblica riconosce e garantisce il diritto di proprietà privata, purché l’uso di questa non contrasti gli interessi del lavoro e della collettività». Ritiene che a questa richiesta non sarà fatta opposizione.

CANEVARI osserva che nel secondo comma del testo proposto dal relatore sono indicati due scopi: «La legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto e il trasferimento, i limiti, le modalità di godimento allo scopo di assicurare che la proprietà privata risponda, oltre che ad una funzione personale, alla sua funzione sociale, e allo scopo di difendere e diffondere la piccola proprietà e la proprietà cooperativa».

Secondo questa dizione, la difesa deve essere assicurata per raggiungere lo scopo di assicurare che la proprietà privata risponda ad una funzione personale e ad una funzione sociale; ma parrebbe che la piccola proprietà e quella cooperativa non rispondano a questa finalità e quindi non debbano essere difese.

Afferma invece che la legge deve proporsi anche questa difesa, in quanto la piccola proprietà e la proprietà cooperativa possono essere le forme che meglio rispondono a quel determinato fine.

MARINARO è d’avviso che, specialmente dal punto di vista formale, l’emendamento sminuisca il principio del riconoscimento del diritto di proprietà. Ritiene infatti che riconoscimento di tale diritto debba esser fatto in modo reciso e pieno, salvo poi fissare le limitazioni della proprietà per finalità sociali. Invece un riconoscimento condizionato, nel senso che l’uso non sia contrario agli interessi del lavoro e della collettività, costituisce, a suo avviso, un’affermazione vaga, imprecisa e indeterminata: all’atto pratico sarebbe ben difficile stabilire i casi di pieno riconoscimento del diritto di proprietà.

TAVIANI, Relatore, ritiene che la formulazione dell’onorevole Pesenti sia ancora più forte della sua. Infatti nel comma b) si legge che lo Stato riconosce e garantisce la proprietà privata e le iniziative private e che il diritto di proprietà non potrà essere esercitato in contrasto con gli interessi del lavoro.

PRESIDENTE, essendo giunto l’onorevole Giua, prega l’onorevole Taviani di voler ripetere le osservazioni che egli fa alla formulazione da lui proposta.

TAVIANI, Relatore, dichiara di accettare la prima parte dell’articolo proposto dall’onorevole Giua, disposto anche a rinunciare, sebbene a malincuore, alle parole «Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e col risparmio». Parimenti a malincuore è disposto a rinunciare alle ragioni etiche e filosofiche del riconoscimento del diritto di proprietà, ma non può accettare la seconda parte del suddetto articolo, in quanto non vengono fissati gli scopi che la legge dovrebbe tener presenti nel determinare le norme che regolano l’acquisto, il trasferimento, i limiti di estensione e le modalità di godimento del diritto di proprietà. Tali scopi sono invece espressi nell’affermazione che la proprietà privata deve rispondere, oltre che ad una funzione personale, alla sua funzione sociale.

PRESIDENTE desidera mettere in rilievo che l’articolo formulato dall’onorevole Pesenti non gli sembra conforme alle dizioni proposte dagli onorevoli Giua e Taviani. Nell’articolo dell’onorevole Pesenti si afferma, infatti, alla lettera A) che «la proprietà è il diritto inviolabile di usare, di godere, di disporre dei beni garantiti a ciascuno dalla legge» ripetendo, in sostanza, l’articolo della Costituzione francese che è stata recentemente respinta. Pertanto l’espressione cui ha fatto prima cenno l’onorevole Taviani, cioè che lo Stato riconosce e garantisce la proprietà privata, è condizionata alla prima parte della formula, nel senso quindi che lo Stato garantisce soltanto i beni che sono consentiti a ciascuno dalla legge. Pertanto l’articolo dell’onorevole Pesenti è piuttosto invocabile per la sua tesi che non per quella dell’onorevole Taviani.

DOMINEDÒ ricorda che, in relazione al comma, vi è anche la proposta dell’onorevole Assennato di aggiungere alla statuizione di principio una causa mediata di limitazione del diritto, nel senso di circoscrivere la proprietà in vista dei fini sociali che essa si deve proporre di raggiungere.

Non vorrebbe ad ogni modo che la Sottocommissione si irrigidisse in questioni formali. Basti pensare che nel caso in cui si eliminasse la seconda parte del l° comma e cioè «Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e col risparmio», dopo la statuizione si avrebbe subito la determinazione del fine sociale, avvicinandosi così allo scopo che si prefiggeva l’onorevole Assennato.

In realtà, dal punto di vista logico gli sembra anche corretto che prima si ponga la statuizione ed immediatamente dopo segua la finalità in vista della quale la statuizione è stata fatta.

Poiché gli sembra che tutti possano essere d’accordo su questo concetto, nel 2° comma, dove si specifica la finalità sociale, si potrebbe, a suo avviso, maggiormente svolgere il concetto che l’onorevole Taviani ha formulato forse in forma troppo ristretta, inserendo l’aggiunta proposta dall’onorevole Assennato, opportunamente ritoccata nel senso di parlare piuttosto che di «uso» di «godimento», espressione più comprensiva e comunque più esatta trattandosi qui del diritto e non del suo oggetto. Parimenti nel 2° comma, come sono unite dalla congiunzione «e» le parole «l’acquisto e il trasferimento», così collocherebbe con la stessa congiunzione le parole «i limiti e le modalità», per accentuare il distacco esistente tra i due concetti.

Dichiara poi di condividere le osservazioni dell’onorevole Canevari, perché altro è la determinazione dello scopo immediato del riconoscimento del diritto di proprietà, altro è l’enunciazione di uno scopo mediato, di una finalità, cioè, che si prospetta in un secondo tempo. Trattasi di due elementi che non possono essere posti sullo stesso piano di omogeneità, perché l’uno rappresenta un fine attuale, l’altro una eventualità futura.

A proposito dell’ultima parte del 2° comma, rileva che il termine «difesa» è un concetto comune a tutte le forme di proprietà. Per le particolari forme di proprietà ivi contemplate, preferirebbe non parlare di «difesa», perché in tal modo si potrebbe dare l’impressione di una mancanza di difesa nei confronti delle altre forme di proprietà. Si limiterebbe, per tanto, a parlare di «diffusione», termine assai più ampio che presuppone anche quello più circoscritto di «difesa». Formulerebbe quindi l’ultima parte nella seguente maniera: «A tal fine sarà diffusa la piccola proprietà e la proprietà cooperativa».

Per quanto concerne le osservazioni svolte dall’onorevole Ghidini, si permette insistere sul concetto che il diritto di proprietà in sé e per sé deve essere riconosciuto e garantito dalla Carta costituzionale, mentre è logico che al Codice spetti di attuare nella sua concretezza la disciplina dell’istituto garantito costituzionalmente. Non gli sembra d’altra parte che tale tesi contrasti con la formulazione Pesenti, la quale nell’articolo 1 parla di garanzia, non tanto in relazione al diritto di proprietà, quanto ai singoli beni che possono essere oggetto del diritto stesso: e ciò è tanto vero che la stessa relazione accede quindi nel successivo articolo 2 a questo concetto con una formulazione più rigorosa: «Lo Stato riconosce e garantisce la proprietà privata».

GIUA fa innanzi tutto rilevare che se la Repubblica garantisce il diritto di proprietà privata, nella garanzia è implicito anche il riconoscimento. L’espressione «riconosce» usata nel 1° comma gli sembra pertanto un’affermazione di principio che non lo soddisfa dal suo punto di vista. Anche l’espressione usata alla fine del 2° comma: «allo scopo di difendere e diffondere» non ritiene che sia tale da essere inserita in una Carta costituzionale, specialmente per quanto concerne la funzione che lo Stato avrebbe di diffondere la piccola proprietà e la proprietà cooperativa. In tutte le Costituzioni, infatti, forse tranne che per la russa, lo Stato non ha mai avuto e non ha questa particolare funzione. Crede che nemmeno lo Stato sorto in seguito alla Rivoluzione francese si sia mai prefissa la funzione di diffondere la piccola proprietà. Si tratterebbe, in sostanza, di un concetto che non è più giuridico, ma etico-sociale. In un periodo di transizione come quello che attraversa l’Italia in questo momento, un’affermazione simile egli non ritiene, almeno dal suo punto di vista, che possa essere accettata. È infatti ipotizzabile che in un domani, in seguito ad una riforma agraria, si voglia diffondere al massimo la proprietà cooperativistica e quindi si venga in tal modo ad affermare un principio che sarebbe contrario alla piccola proprietà. Ma se nella Carta costituzionale si stabilisce che lo Stato deve difendere sia la piccola proprietà che la proprietà cooperativa, sorgerà un contrasto di funzioni che avrà senza dubbio sensibili ripercussioni nel Parlamento da parte dei rappresentanti dei piccoli proprietari, che si faranno forti della dizione usata nella Carta costituzionale.

Per questi motivi sopprimerebbe il verbo» diffondere», il quale implica una funzione che non si può attribuire allo Stato, a meno di non voler creare un dualismo, con possibilità di antitesi e lotte di gruppi contrastanti.

MARINARO esprime l’avviso che la prima parte del 2° comma contenga un concetto così vasto da comprendere anche le finalità successive. Pertanto il 1° comma potrebbe terminare alle parole: «alla sua funzione sociale»: nel concetto di funzione sociale il legislatore troverebbe senza dubbio l’appiglio per disciplinare sia la difesa che la diffusione della piccola proprietà e della proprietà cooperativa.

ASSENNATO, per mozione d’ordine, prega di discutere innanzi tutto le modificazioni da apportare alla prima parte dell’articolo.

TAVIANI, Relatore, gli sembra che l’articolo costituisca tutto un complesso organico, le cui parti non possono essere scisse.

ASSENNATO propone di modificare il secondo comma nella seguente maniera: «La legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto, il trasferimento, i limiti e le modalità di godimento in modo tale che l’uso della proprietà risponda alla funzione sociale. Allo scopo di favorire la produzione sarà favorita la proprietà cooperativa e la piccola proprietà».

TAVIANI, Relatore, rispondendo alla obiezione dell’onorevole Giua che lo Stato non ha mai avuto la funzione di diffondere la piccola proprietà, ricorda che spesso lo Stato effettuò lo spezzettamento del latifondo. Gli sembra inoltre strano che sia proprio l’onorevole Gina a non accettare questa funzione dello Stato, dal momento che ha accettato tutte le precedenti posizioni ed orientamenti. Ad ogni modo, per evitare i dubbi ai quali potrebbe dar luogo, a seconda dell’onorevole Giua, l’espressione: «difendere e diffondere», modificherebbe l’ultima parte del secondo comma nel modo seguente: «A tal fine favorirà lo sviluppo della piccola proprietà e della proprietà cooperativa».

L’articolo, non da lui proposto, ma da lui indicato come base di accordo, risulterebbe così formulato: «La Repubblica riconosce e garantisce il diritto di proprietà privata. (Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e il risparmio).

«La legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto e il trasferimento, i limiti e le modalità di godimento allo scopo di assicurare che la proprietà privata risponda oltre che ad una funzione personale, alla sua funzione sociale e di favorire lo sviluppo della piccola proprietà e della proprietà cooperativa».

GIUA preferirebbe che alla fine si dicesse: «A tal fine favorirà lo sviluppo della proprietà cooperativa e della piccola proprietà».

CORBI aggiungerebbe al primo comma la seguente espressione: «Purché non contrasti con l’interesse della collettività e del lavoro».

TAVIANI, Relatore, gli sembra che l’aggiunta proposta dall’onorevole Corbi annulli il riconoscimento del diritto di proprietà. La proprietà infatti deve considerarsi come il diritto di godere delle cose entro i limiti ammessi dalla legge. Fin quando l’individuo non esce da quella sfera, deve avere la possibilità di poter fare tutto quello che vuole. È logico che la legge determini le norme di acquisto, di trasferimento e di godimento secondo determinati scopi, ma ciò non vuol dire che la proprietà debba essere riconosciuta soltanto se non contrasti con l’interesse della collettività e del lavoro. In tal maniera si darebbe la facoltà al potere esecutivo di fissare se la proprietà è usata o meno nel senso suddetto, conferendogli così in definitiva il diritto di abolire la proprietà.

DOMINEDÒ ritiene che l’onorevole Assennato sia d’accordo nel concetto che la specificazione della funzione sociale che delimita il riconoscimento del diritto di proprietà possa portar seco la tutela degli interessi del lavoro e della collettività. Quindi proporrebbe di inserire dopo le parole: «funzione sociale», le altre: «rispondente agli interessi del lavoro e della collettività». Si darebbe così un’esplicazione ulteriore del contenuto della funzione sociale.

PRESIDENTE osserva che c’è differenza fra la proposta di Assennato e il concetto dell’onorevole Dominedò.

ASSENNATO ricorda che nel progetto originario non si accennava affatto alla garanzia dello Stato. Si diceva: «La Repubblica riconosce» e non che il diritto di proprietà è garantito dallo Stato. Quindi con la sua ultima proposta ha inteso fare una concessione.

DOMINEDÒ osserva che la concessione sul piano del presupposto etico è la più forte.

ASSENNATO risponde che il rafforzamento si ha quando si dice che il diritto è garantito dallo Stato. In sostanza, nel tempo in cui si vive, un contrasto sociale può trovare la sua composizione nel fatto che la proprietà sia compatibile con gli interessi del lavoro e della collettività; ed allora si può aderire a trasferire nella Carta costituzionale questo dato di fatto, che l’uso della proprietà sia sempre compatibile con l’interesse del lavoro e della collettività. Aderisce anche a togliere la parola: «purché», ma una statuizione va fatta. Porre la parola: «rispondente», dopo: «funzione sociale» vuol dire fare una subordinata della funzione sociale. «Funzione sociale» è una espressione troppo elastica; per questo chiede la precisazione che l’uso della proprietà deve essere sempre compatibile con l’interesse del lavoro e della collettività. Del resto, questo è già nella coscienza di tutti; non si tratta che di trovare il modo di esprimerlo.

FANFANI chiede che cosa egli intenda con la frase che l’uso della proprietà sia compatibile con gli interessi del lavoro.

ASSENNATO risponde facendo un esempio. Si può metter su una fabbrica per produrre calzature a buon prezzo, ma trattando i dipendenti da negriero. Questo non è compatibile con gli interessi del lavoro. Non è stato detto che la legge stabilirà i limiti della proprietà; si è detto che lo Stato riconosce la proprietà.

PRESIDENTE afferma che dallo svolgimento della discussione si ha la prova di un disaccordo sostanziale. Preferisce pertanto esporre esplicitamente il suo pensiero e le sue finalità. Ha già detto quale sia la sua opinione che non è di marca nettamente individualistica, come ha commentato un giornale del mattino. Per suo conto ritiene opportuno che la Carta Costituzionale lasci la più ampia libertà al legislatore del domani.

Non nega il diritto di proprietà privata; ritiene che la proprietà privata finché c’è, e ci sarà per molti anni, debba essere considerata non solo come interesse personale, ma come un interesse sociale e che perciò lo Stato debba disciplinarla e controllarla. Lo Stato deve intervenire non solo in forma negativa, ma anche in forma positiva disciplinandola e controllandola nell’interesse personale del proprietario e nell’interesse della Società.

Si rappresenta anche la possibilità più o meno prossima che la proprietà assuma delle forme diverse: la proprietà privata non sarà mai cancellata completamente, ma domani potranno consolidarsi nella legislazione e nella prassi forme di proprietà sostanzialmente diverse da quelle di oggi, il cui concetto è nella dizione: «proprietà privata».

In vista di questa possibilità, obbedendo ad un sentimento democratico e liberale, esprime l’opinione che la Costituzione debba consentire ai futuri legislatori di applicare quella che sarà la volontà del popolo, senza che sia necessario modificare la Carta costituzionale o superarla con atto rivoluzionario.

Facendo delle affermazioni in contrasto con quella che potrà essere la volontà popolare, fra dieci anni il lavoro della Commissione sarà stato inutile, perché il popolo lo supererà con un gesto di forza e quindi bisogna preoccuparsi di lasciare al futuro la possibilità di affermarsi con quegli istituti che si riterranno più opportuni.

Pertanto non si può parlare di proprietà privata, come fanno gli onorevoli Colitto, Giua e Dominedò, senza specificazione, come di un istituto il quale, anche nella forma attuale, debba avere un carattere di immanenza e di perpetuità. Per proprietà privata si deve intendere solo la proprietà dei mezzi di produzione, e la frase: «garantire la libertà e la personalità» indica una funzione della proprietà dei mezzi di produzione, e anche gli altri commi si. riferiscono precipuamente alla proprietà dei mezzi di produzione. Non intende negare il diritto della proprietà dei mezzi individuali, ma non vorrebbe che si ipotecasse l’avvenire.

Alla stregua di questo concetto democratico, non crede di poter accettare né l’articolo Giua, che dice che la Repubblica garantisce la proprietà privata acquisita nell’ambito della legge, e tanto meno quello dell’onorevole Colitto, col quale si riconosce e si garantisce la proprietà privata. Altrettanto dichiara per quello dell’onorevole Dominedò, che più si avvicina alle proposte del relatore. Considera poi le due proposte degli onorevoli Corbi e Lombardo e vi trova una notevole somiglianza, tanto che non sarebbe alieno dal votare l’una e l’altra.

Riferendosi all’articolo proposto dall’onorevole Lombardo, che dice: «La proprietà è riconosciuta e garantita dallo Stato nei limiti e nelle forme stabiliti dalla legge», aggiunge che questa formula non è conforme allo Statuto Albertino, come ha affermato il Relatore, perché lo Statuto Albertino dice: «Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili»; è invece quasi la copia di una disposizione del progetto francese che è stato poi bocciato, dove si dice: «La proprietà è il diritto di godere e di disporre dei beni garantiti a ciascuno dalla legge». Quanto poi alla frase: «nei limiti e nelle forme», direbbe piuttosto: «nelle forme e nei limiti». Questa formulazione è accettabile, perché lascia libero l’affermarsi di ogni possibilità, quindi è liberale e democratica.

La proposta poi degli onorevoli Corbi e Assennato dice: «La Repubblica garantisce e riconosce il diritto di proprietà privata, purché l’uso di questa non sia contrastante con gli interessi del lavoro e della collettività». Evidentemente questo secondo inciso è condizionato al riconoscimento della proprietà privata, ma lascia libertà di stabilire una forma diversa della proprietà con limiti diversi da quelli di oggi. Per queste ragioni aderisce alle due proposte, come aderirà a tutte le proposte in virtù delle quali si impedisca alla proprietà di venire usata in contrasto con gli interessi legittimi altrui. Occorre attuare oggi, vigendo il sistema della società capitalistica, quelle provvidenze che ne tolgano le asperità, e riservare alle generazioni future il diritto di affermare quanto riterranno opportuno.

CORBI comprende la preoccupazione dell’onorevole Marinaro che venga leso il principio della proprietà; ma non la crede giustificata, in quanto qui non si tratta che di regolare un diritto che esiste, perché venga esercitato nell’interesse della collettività. Occorre guardare all’avvenire per evitare il pericolo di cadere nelle aberrazioni del passato. Perciò ritiene che nella Carta Costituzionale si debbano stabilire non solo il diritto della proprietà, ma anche i fini ai quali deve corrispondere.

Gli onorevoli Dominedò e Taviani hanno mostrato delle preoccupazioni, e il Relatore ha affermato che a malincuore rinuncia a certe premesse di carattere ideologico. Ritiene che queste preoccupazioni non abbiano ragione di essere, quando in maniera più chiara e più precisa si esprima lo stesso pensiero, affermandosi che il diritto di proprietà non deve essere in contrasto con l’interesse del lavoro e della collettività. Si risponde in questo modo a quei fini etici che sono stati indicati dai due colleghi.

Dichiara che accetta la parte formulata dal Relatore e quella dall’onorevole Lombardo; ma, mentre quella proposta dall’onorevole Lombardo l’accetta così come è, vuole meglio specificare quella proposta dal Relatore.

Propone pertanto la seguente specificazione:

«Allo scopo di impedire che essa arrechi pregiudizio alla proprietà altrui e contrasti con gli interessi del lavoro e della collettività, per favorire invece la proprietà cooperativa e la piccola proprietà nell’interesse della produzione».

E così sarebbe stata accolta anche la frase suggerita dagli onorevoli Giua e Canevari.

TAVIANI, Relatore, dichiara che le parole dell’onorevole Corbi gli fanno sperare di trovare un piano di intesa, che gli sembrava precluso dalle parole del Presidente.

Nel ringraziare il Presidente per la lealtà e la sincerità della sua esposizione, riconosce che effettivamente, come egli ha messo in chiaro, si era rivelato nella precedente riunione un punto di divergenza tra l’oratore e l’onorevole Corbi.

Si augura, però, che tale punto di divergenza possa essere superato. Se invece si vuole rimanere fermi su una posizione come quella dell’onorevole Ghidini, la quale logicamente deriva dal pensiero di Carlo Marx, unitamente al suo gruppo affermerà a sua volta il pensiero cristiano e la Sottocommissione si presenterà in aula con due relazioni differenti.

L’onorevole Ghidini, nel timore di un’eventuale rivoluzione popolare di domani, desidererebbe lasciare la più ampia libertà al legislatore futuro, mentre l’intendimento del relatore è invece quello di evitare una rivoluzione nel momento presente, come potrebbe aversi se soltanto si lasciasse l’impressione di non riconoscere efficacemente il diritto di proprietà privata. Per quanto riguarda il futuro, se si verificheranno (ma non crede che si verificheranno mai) le condizioni a cui ha fatto cenno l’onorevole Ghidini, vale a dire tali che non sussista più alcuna proprietà privata, a maggior ragione vi sarà la possibilità di modificare la Costituzione senza ricorrere ad una rivoluzione. Infatti, un mutamento simile sarebbe di tale importanza che non inciderebbe solo nel campo della proprietà privata, ma su tutti gli altri istituti e sulla natura stessa dell’uomo che sarebbe improvvisamente diventato perfetto.

Su di un punto ammette possibile la discussione, cioè sulla interpretazione individualistica della posizione del Presidente. Se i colleghi della Sottocommissione lo desiderano, si dichiara lieto di entrare in argomento. Fa però osservare all’onorevole Ghidini che non gli sembra possibile passare da una proprietà individuale ad una proprietà collettiva, senza la fase intermedia della proprietà organizzata nell’ambito sociale.

Conclude ripetendo che se si insiste a mantenersi ognuno sul proprio piano, senza sforzarsi di trovare un punto comune, non rimarrà altro che chiarire le posizioni rispettive e prenderne atto.

GIUA dichiara di accettare la proposta dell’onorevole Corbi, con le modificazioni di forma dell’onorevole Taviani, anche perché si stabilisce il criterio che deve seguire di guida in questa Costituzione, vale a dire il criterio storicista, nel senso di non fare una Carta costituzionale astratta, ma in relazione alle condizioni sociali attualmente esistenti in Italia.

Però, poiché il Presidente lo ha messo in uno con l’onorevole Taviani, desidera spiegare la sua posizione che lo ha portato fin dall’inizio a non fare affermazioni sue personali di principio che non avrebbero potuto essere accolte dalla maggioranza dei componenti della Commissione. Se il suo partito avesse avuto la preponderanza nella Costituente, ben diverso sarebbe stato il suo atteggiamento; ma, data la situazione attuale, fare dichiarazioni di principio costituirebbe un lavoro perfettamente inutile. È suo desiderio, invece, far sì che dalla Costituente venga fuori una Carta costituzionale che possa essere accettata da tutti, in modo che il lavoro di ricostruzione del popolo italiano sia facilitato nell’ambito di questo comune accordo.

Vuole, infine, fare una dichiarazione, in famiglia, al Presidente, in relazione all’affermazione che col lasciare libertà al legislatore, si possa arrivare, attraverso successivi adattamenti, fino al raggiungimento dell’ideale socialista. Personalmente invece si trova nella stessa posizione in cui si trovava nel ’56 Carlo Marx che, nella sua opera «La miseria della filosofia», combattendo Proudhon, che si trovava quasi sullo stesso piano dell’onorevole Ghidini, affermava che per passare dal concetto di proprietà individuale a quella collettiva doveva essere necessario un conato rivoluzionario; ciò vuol dire che per attuare il trapasso dalla proprietà individuale a quella collettiva sarà necessario un atto di forza. Non può quindi credere all’evolversi della proprietà attraverso successive graduazioni; e pertanto, volendo da un lato rimanere nella storia e dall’altro fare una Costituzione per il popolo italiano, dichiara di accettare, come democratico, il concetto contenuto nella formulazione degli onorevoli Corbi e Taviani.

ASSENNATO aderisce e fa sua la proposta dell’onorevole Corbi.

PRESIDENTE dichiara che non ha inteso con le sue osservazioni affermare il principio della proprietà statizzata e socialista, ma ha inteso, puramente e semplicemente, di lasciare libertà a tutti di trasfondere negli istituti la volontà non solo presente, ma anche quella che sarà nel futuro. La Carta costituzionale, a suo avviso, ha un duplice scopo: in primo luogo di sbarrare la strada ad un ritorno del passato ed essere la consacrazione di tutte le conquiste fatte fino ad oggi; in secondo luogo di provvedere nel tempo stesso per l’avvenire, non nel senso di determinare particolari forme od istituti, ma nel senso di non pregiudicare in nessun modo la volontà futura del legislatore. Per questo motivo non ha proposto un articolo in cui si sancisse che la proprietà privata dovrà cessare ed essere sostituita dalla proprietà collettiva, ma si è limitato ad aderire al seguente concetto dell’onorevole Lombardo: «La proprietà è riconosciuta dallo Stato nella forma e nei limiti stabiliti dalla legge», che in sostanza riproduce la formula che è stata consacrata nell’ultimo progetto di Costituzione francese.

Nel pregare che non gli si attribuiscano proposte e intenzioni che non ha manifestate, si dichiara convinto di non essere fuori del presente, ma anzi di rimanere nella storia attuale, pur non tralasciando il futuro.

FANFANI ha sentito fare cenno ad articoli di giornali relativi a problemi in discussione. Poiché non è la prima volta che si approfitta della stampa per turbare la serenità esistente tra i membri della Sottocommissione, si permette di pregare i colleghi, a qualunque opinione o gruppo appartengano, di avere la pazienza di commentare gli articoli soltanto dopo che siano stati approvati, senza interferire sui lavori in corso con apprezzamenti che potrebbero essere antipatici.

PRESIDENTE è perfettamente d’accordo con l’onorevole Fanfani, tanto più trattandosi di opinioni che sono suscettibili di modificazioni.

FANFANI, premesso che aderisce all’idea che gli articoli della Costituzione non debbano scendere in troppi particolari, desidera fare una proposta non di carattere sostanziale, ma formale, nel senso, cioè, di trovare per l’articolo una forma più stringata.

Essendo convinto che alcune espressioni non siano più proprie né dell’una, né dell’altra teoria, ma abbiano acquistato diritto di cittadinanza nel comune linguaggio e possano perciò ritenersi sufficientemente significative, anche per sgombrare il campo nel senso accennato dal Presidente, propone la seguente formula:

«La proprietà privata è riconosciuta e garantita dallo Stato».

«La legge ne determinerà i limiti di estensione, i modi di acquisto, di uso e di trasferimento, anche a titolo ereditario, allo scopo di farla adempiere alla sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».

Insiste in modo particolare sulla espressione: «anche a titolo ereditario», rinviando ad altro articolo quanto concerne la facoltà di esproprio.

PRESIDENTE non ritenendo possibile ultimare l’argomento nella mattinata, propone di rinviare la contraddizione della discussione al giorno successivo alle ore 9.

(Così rimane stabilito).

La seduta termina alle 12.30.

Erano presenti: Assennato, Canevari, Corbi, Dominedò, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Marinaro, Rapelli, Taviani, Togni.

Assenti giustificati: Colitto, Lombardo, Molè, Noce Teresa.

Assente: Paratore.

MERCOLEDÌ 25 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

11.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MERCOLEDÌ 25 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di proprietà (Discussione)

Taviani, Relatore – Assennato – Giua – Colitto – Dominedò – Corbi – Presidente – fanfani – lombardo – Canevari.

La seduta comincia alle 10.30.

Discussione sul diritto di proprietà.

TAVIANI, Relatore, osserva che quasi tutte le Costituzioni contemporanee dedicano più di un articolo all’istituto della proprietà; mentre nelle Costituzioni del secolo scorso tale istituto era soltanto accennato tra i diritti della persona umana. Le Costituzioni contemporanee che non parlano della proprietà sono quelle che non trattano affatto i problemi economici, ma si limitano alle questioni finanziarie, come quelle dell’Austria, della Turchia, della Lettonia, della Polonia. Altre Costituzioni trattano i problemi economici soltanto di sfuggita, e di conseguenza accennano brevemente al diritto di proprietà. Ha fatto questa premessa per chiarire che quella che può essere ritenuta un’eccessiva estensione dei tre articoli da lui proposti è dovuta al fatto che la Sottocommissione aveva deciso di trattare tutti i problemi economici, sia pure restando sul terreno dei principî. Non si può quindi fare a meno di trattare anche della proprietà, sempre sotto l’aspetto statico, perché trattandolo dal punto di vista del suo dinamismo si uscirebbe d’argomento per entrare nel tema trattato dall’onorevole Pesenti, riguardante, più che la proprietà in quanto istituto, l’iniziativa privata o l’impresa.

Gli articoli 1 e 2 del progetto di Costituzione, già approvati dalla prima Sottocommissione, affermano che la Costituzione italiana ha come scopo l’autonomia, la libertà e la dignità della persona umana nell’ambito della vita sociale organicamente intesa, ed è per questo che, nel trattare il diritto di proprietà, ha voluto attenersi allo stesso principio ed ha così formulato il primo comma dell’articolo primo:

«Allo scopo di garantire la libertà e l’affermazione della persona viene riconosciuta e garantita la proprietà privata frutto del lavoro e del risparmio».

Si parla di persona e non di individuo; si parla cioè di un diritto della persona organicamente concepita nella società. Sul terreno dell’individualismo si potrebbe anche arrivare alla eliminazione dell’istituto della proprietà privata, mentre invece ne rimane il valore naturale, in quanto tende all’affermazione e alla garanzia della libertà della persona umana. Ritiene che, innanzi tutto, occorra stabilire che la proprietà viene riconosciuta e garantita dalla Repubblica italiana, e particolarmente la proprietà frutto del lavoro e del risparmio. Naturalmente su questo ci sarebbe da obiettare che vi sono altre specie di formazione del diritto di proprietà privata. Il Codice parla anche di accessione e di eredità. Per l’eredità il Relatore ha formulato un articolo a parte, ma per quanto riguarda l’accessione fa presente che essa è argomento particolare del diritto civile, e non è il caso di includerla in una Carta costituzionale.

Affermato il diritto di proprietà e la garanzia di tale diritto, bisogna stabilire che cosa debbano sancire le norme della legge ed entro quali limiti il diritto di proprietà abbia una forma e un contenuto. Perché parlare di proprietà privata sic et simpliciter è troppo poco, in quanto la proprietà può essere sia quella assoluta del diritto romano, sia quella, limitata ai beni d’uso, della Costituzione russa. Il diritto positivo di proprietà è costituito dalla legge, dal codice, che stabiliscono le norme e inquadrano positivamente il diritto naturale di proprietà nei diversi momenti della contingenza storica; quindi il Relatore non si è limitato a fissare una garanzia e un riconoscimento del diritto di proprietà, ma ha voluto sancire che tale diritto ha i suoi limiti e la sua precisazione nella legge. Sorge qui il problema vastissimo della conciliazione dei diritti e degli interessi del singolo con quelli della società.

Se ci si limitasse al primo comma dell’articolo da lui proposto, evidentemente si potrebbe supporre di essere rimasti sulla base individualistica, che invece va superata affermando che la società ha il diritto di regolare i rapporti, allo scopo di garantire quelle che sono le funzioni del diritto di proprietà; e non soltanto la funzione personale, ma anche quella sociale, in quanto è evidente che la proprietà privata non ha il solo scopo della garanzia della libertà del singolo, ma anche quello di servire al bene della società. Altro scopo è la possibilità per tutti di accedere alla proprietà, perché, se si costituisce un diritto di proprietà che elimini tale possibilità, si toglierebbe ogni valore all’affermazione che il diritto di proprietà è garanzia della libertà umana. A tal fine ha formulato il secondo comma dell’articolo nel modo seguente:

«Allo scopo di garantire la funzione personale e la funzione sociale della proprietà privata e la possibilità per tutti di accedervi con il lavoro e con il risparmio, la legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto e il trasferimento, i limiti di estensione e le modalità di godimento».

L’ultima parte del comma non deve essere intesa nel senso che si debba fissare come e in qual modo la proprietà debba essere goduta, perché allora non sarebbe più proprietà privata. in quanto la proprietà privata consiste nel disporre dei beni secondo la propria volontà ma nel senso che si possano fissare i limiti di queste modalità.

Non è una novità ricordare in una Costituzione la funzione sociale della proprietà, in quanto, a parte le Costituzioni più note, come quella di Weimar, basta pensare a quella della Columbia, dove la proprietà è affermata addirittura come una funzione sociale. Anche il progetto di Costituzione francese dello scorso anno diceva a proposito della proprietà: «Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e col risparmio», e questa enunciazione si integrava con l’altra: «il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente all’attività sociale». Ritiene l’affermazione del progetto francese lacunosa, perché non basta prevedere dei limiti che impediscano il pregiudizio di determinati diritti altrui; la legge deve anche fissare dei limiti in vista della funzione sociale della proprietà e della possibilità per tutti di accedervi.

Qualcuno ha osservato che desidererebbe l’inserimento della parola «inviolabile», usata in quasi tutte le vecchie Costituzioni. Ma bisogna specificare che cosa si intenda per «inviolabile», perché, con tale parola, nelle vecchie Costituzioni si intendeva dire che la proprietà era un diritto assoluto che, una volta stabilito, non poteva più essere mutato dalla legge. Preso in questo senso, ritiene che non sia il caso di usare tale termine, in quanto, entro i limiti stabiliti dalla legge, tutti i diritti sono inviolabili. Gli pare che l’inviolabilità si potrebbe riferire con un concetto esposto in un articolo della Costituzione cecoslovacca, che dice: «Soltanto la legge può porre dei limiti alla proprietà privata»; esso afferma che i limiti non possono essere posti dal potere giudiziario o da quello esecutivo, ma soltanto dal legislativo. Ma questo concetto è già chiaro quando si dice: «la legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto ed il trasferimento, i limiti di estensione e le modalità di godimento». Vi potrebbe essere possibilità di violazione da parte dei poteri esecutivo e giudiziario, qualora non vi fosse questa affermazione, e qualora invece si usasse la dizione della Costituzione francese: «Il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente all’utilità sociale», che lascia aperta una porta. all’intervento diretto del potere esecutivo e di quello giudiziario.

Passando a trattare uno dei problemi più gravi, cioè quello dei rapporti fra proprietà privata e proprietà collettiva, dichiara subito che per proprietà collettiva non intende la demaniale, bensì quella dello Stato, delle regioni e dei comuni o di qualsiasi altro ente di diritto pubblico. Intesa in questo senso, l’espressione di proprietà collettiva imposta il problema in maniera diversa da quella in cui è risolto dalle norme del codice civile. Rileva che tali rapporti non sono studiati esclusivamente nella sua relazione e negli articoli proposti, ma anche nella parte riguardante l’iniziativa privata, dato che della proprietà non si può vedere soltanto l’aspetto statico, ma anche quello dinamico.

Osserva che, rifacendosi al secondo capoverso proposto, la società può indirizzare la proprietà a rispondere alla sua funzione sociale e può determinare la possibilità per tutti di accedervi con il lavoro e con il risparmio. Ora possono non essere sufficienti le norme sul diritto di proprietà privata, e può essere necessario che lo Stato introduca altre norme costituzionali per passare alla proprietà collettiva, allorché l’armonia degli interessi non si realizzi in alcun modo, restandosi nel campo del privatismo. Quando evidenti esigenze lo impongano, è necessario passare alla collettivizzazione della proprietà. Ha creduto inoltre opportuno specificare che, soltanto al fine di evitare situazioni di privilegio o di monopolio privato (qualche cosa di simile faceva il primo progetto di Costituzione francese), la legge può riservare alla proprietà collettiva le imprese ed i beni di determinati e delimitati settori dell’attività economica, per evitare così che essi, invece di essere una garanzia dell’affermazione della persona umana, si trasformino in mezzi di sfruttamento. Pertanto il terzo comma dovrebbe essere così formulato:

«Quando lo impongono le esigenze del bene comune, al fine di evitare situazioni di privilegio o di monopolio privato e di ottenere una più equa e conveniente prestazione dei servizi e distribuzione dei prodotti, la legge può riservare alla proprietà collettiva dello Stato, delle regioni, dei comuni o di altri enti di diritto pubblico le imprese e i beni di determinati e delimitati settori dell’attività economica. Sempre in conformità agli scopi indicati la legge può trasferire alla collettività la proprietà di imprese o beni determinati».

Dichiara che dove si parla «delle regioni, dei comuni e di altri enti di diritto pubblico», ha ritenuto necessaria la precisazione, perché sia ben chiaro che per proprietà collettiva non si intende soltanto quella dello Stato, e gli sembra necessario riferirsi a tale decentramento, per evitare il pericolo che la collettivizzazione si trasformi in una burocratizzazione, con tutti i pericoli che ne conseguono. Rileva inoltre che il problema del passaggio dalla proprietà privata alle proprietà collettiva comporta la questione della espropriazione. Quasi tutte le Costituzioni hanno un capoverso analogo a quello da lui proposto: «L’espropriazione si attua solo contro giusto indennizzo». Precisa che, nella sua intenzione, tale capoverso non è esclusivamente riferito al terzo comma dell’articolo ma a qualsiasi espropriazione. Non ha usato il termine «qualsiasi», perché lo riteneva superfluoe, dato che il capoverso è a sé stante; ma, qualora si volesse interpretarlo come collegato al terzo comma, sarebbe meglio trovare un’altra parola, in quanto non vi è espropriazione soltanto nel caso di collettivizzazione, ma anche per cessione ad altri o per motivi di utilità pubblica.

Esaurito l’argomento della proprietà visto nel suo complesso, rimane quello della trasmissione ereditaria, che è legata alla proprietà privata. A tal fine propone il seguente articolo:

«Il diritto di trasmissione ereditaria è garantito. Spetta alla legge stabilire le norme e i limiti sia della successione nell’ambito della famiglia, sia di quella testamentaria. Spetta pure alla legge determinare la parte che lo Stato preleva sulle eredità».

Passando ad esaminare l’ultimo articolo da lui proposto nella relazione, osserva che esso potrebbe essere considerato superfluo; ma ha ritenuto di dover dire qualcosa sulle possibilità delle condizioni concrete cui si deve aspirare per rendere operanti le affermazioni del primo articolo. In uno Stato povero e in un territorio immensamente popolato come è quello italiano, sarebbe illusorio parlare di possibilità per tutti di accedere alla proprietà. L’articolo è così formulato:

«La Repubblica ha il diritto di controllare la ripartizione e l’utilizzazione del suolo, intervenendo al fine di svilupparne e potenziarne il rendimento nell’interesse di tutto il popolo; al fine di assicurare ad ogni famiglia una abitazione sana e indipendente; al fine di garantire ad ognuno che ne abbia la capacità e i mezzi la possibilità di accedere alla proprietà della terra che coltiva.

A questi scopi la Repubblica impedirà l’esistenza e la formazione di grandi proprietà fondiarie. Il limite massimo della proprietà fondiaria privata sarà fissato dalla legge».

Nella prima parte dell’articolo, parlando del controllo dello Stato, ha interferito in quello che è il tema dell’onorevole Fanfani; ma ricorda che mentre l’onorevole Fanfani tratta l’argomento da un punto di vista dinamico, egli lo tratta invece da quello statico. Rileva che i principî enunciati sono già stati praticamente adottati dal Governo italiano, come ad esempio la legge sulle terre incolte, che precorre queste norme costituzionali. La possibilità per il contadino di accedere alla proprietà della terra che coltiva è un principio ormai adottato da tutti i partiti di massa; è pertanto evidente che questa norma deve essere posta come principio generale, pur non essendovi la possibilità di arrivare subito a porla in atto. Tali scopi non saranno realizzabili se non si pongono dei limiti all’estensione della proprietà. Si tratta di una questione assai discussa; molti si domandano: è utile porre dei limiti nella estensione o meglio nel valore imponibile alla proprietà, o non è meglio provvedere con mezzi fiscali piuttosto che con limitazioni automatiche? L’osservazione è importante. Nel campo economico infatti realizzano molto di più le limitazioni poste con mezzi fiscali che non quelle automatiche. Non si tratta però soltanto di un problema di migliore distribuzione del reddito, ma di un problema di distribuzione della proprietà terriera. È possibile che si propenda e si sostenga che tutti possano essere piccoli proprietari, o almeno compartecipi della proprietà, se non si limita la grande proprietà terriera nella sua estensione? Certamente in altri territori, come ad esempio quello brasiliano, l’ultimo capoverso proposto non avrebbe ragion d’essere, data la grande estensione di territorio ancora vergine e aperto alla coltivazione. Ma, nel caso dell’Italia, ritiene che sia necessaria l’esigenza di una norma come quella proposta, in quanto paese povero, piccolo e sovrappopolato.

Osserva che a taluno potranno apparire un po’ ardite le ultime espressioni dell’articolo proposto; ma occorre tener presente che esse dànno all’economia italiana quell’aspetto di rinnovamento sociale che gli elettori hanno nella grande maggioranza mostrato di desiderare.

Intende rispondere in antecedenza ad alcune obiezioni che gli potranno essere fatte. Si potrebbe osservare, innanzi tutto, che gli articoli sono troppo prolissi: Dichiara subito che ha preferito abbondare piuttosto che essere lacunoso, pensando che sarà poi compito della Sottocommissione ridurre le sue formulazioni a norme più concise, pur lasciando inalterata la sostanza. Per incidenza, fa rilevare agli onorevoli colleghi che in un numero del Giornale d’Italia è stato falsato il concetto delle proposte da lui fatte sul diritto di proprietà. Tale giornale diceva infatti che la sua formulazione garantiva soltanto la proprietà in quanto frutto del lavoro, il che sarebbe esatto, se non vi fosse l’articolo successiva sulla eredità. Ci si trova quindi di fronte ad un tentativo di allarmare l’opinione pubblica.

Altra obiezione è quella che ci sono troppi accenni filosofici. Ciò dipende dalla necessità di inquadrare organicamente questi articoli nel complesso della Costituzione, senza farne delle norme staccate. L’articolo 34 della Costituzione francese dell’anno scorso, che riguardava lo stesso tema, sembrava una norma di codice civile. Ora, non gli sembra il caso di ridurre la Carta costituzionale a semplici norme di diritto civile, ma ritiene che sia necessario fare delle dichiarazioni di principio.

Altra obiezione sarebbe quella che alcuni argomenti sono stati tralasciati. Ribadisce che questi sono da rimandare all’esame di altri problemi.

Ultima osservazione potrebbe essere quella che taluni concetti sono troppo arditi. Bisogna tener presente che le affermazioni non sono fatte per demagogia, ma in quanto ritiene che vi sia la possibilità di una loro pratica realizzazione. Compito della Commissione è quello di preparare i principî umani e sociali necessari per adeguarsi alle esigenze del popolo italiano, che a tal fine ha nominato i suoi deputati alla Costituente.

ASSENNATO chiede per quale motivo il Relatore alcune volte usa la parola «Stato» e alcune altre «Repubblica».

TAVIANI, Relatore, risponde che dove è detto «dello Stato, delle regioni, dei comuni» è preferibile usare la parola Stato, perché con repubblica s’intende lo Stato nella sua complessa organicità.

ASSENNATO osserva che, mentre da tutti si vuole per il futuro la limitazione delle grandi proprietà, con l’ultimo capoverso dell’ultimo articolo si contribuisce a consolidare le grandi proprietà attuali.

TAVIANI, Relatore, non ha difficoltà a sostituire il presente al futuro e dire: «impedisca»; del resto anche altre Costituzioni usano il futuro, e il dire che il diritto di proprietà non potrà essere esercitato non significa che lo possa al presente. In questo caso la Costituzione rimanda alle leggi sulla riforma agraria.

ASSENNATO chiede chiarimenti sulla prima parte dell’articolo 1.

TAVIANI, Relatore, risponde che la proprietà privata si ammette solo in quanto sussiste lo scopo indicato.

GIUA ritiene troppo generico il primo articolo, dove si afferma che la proprietà privata deve essere frutto del lavoro e del risparmio. È difficile stabilire questa condizione e si corre il pericolo di fare una Costituzione che non fissi norme ben determinate.

Inoltre, nelle attuali condizioni della Repubblica italiana, è difficile stabilire che cosa si intenda per proprietà collettiva. Il concetto di proprietà collettiva è per i socialisti diverso da quello che si può fissare oggi nella Carta costituzionale; e se rimanesse questa denominazione, i socialisti dovrebbero trovare un altro termine per esprimere il loro concetto.

Propone, pertanto, di modificare la dizione nel modo seguente:

«La Repubblica garantisce la proprietà privata acquisita nell’ambito della legge (senza stabilire se è frutto di lavoro e di risparmio o altro) la quale determinerà le norme che ne regolino l’acquisto o il trasferimento, i limiti, la estensione e le modalità di godimento».

Verrebbe così tolta l’altra parte dell’articolo che richiama il concetto di proprietà collettiva e si evita anche il grave inconveniente che può derivare dalla espressione «giusto indennizzo». Pensa che si potrebbe stabilire un equo indennizzo, qualora si espropriasse una piccola proprietà; ma quando si consideri il problema delle grandi proprietà, del latifondo siciliano, quando si pensi che il proprietario non conosce nemmeno tutta la sua proprietà, che questa non è stata mai usata, non si trova giustificabile stabilire nella Carta costituzionale il concetto dell’indennizzo per espropriazione.

COLITTO ritiene che in una Costituzione, la quale è un documento fondamentalmente giuridico, non sia necessario indicare le finalità che lo Stato si propone nel riconoscere un diritto; basta affermare il diritto. Per le finalità, è sufficiente quanto è detto nella relazione.

Sul primo comma del primo articolo, che contiene le parole «frutto del lavoro e del risparmio», è d’accordo con l’onorevole Giua nel chiedere che tali parole siano eliminate.

Il secondo comma dello stesso articolo contiene varie enunciazioni: proprietà collettiva, bene comune, situazione di privilegio, monopolio privato, equità e convenienza di prestazione, equità e convenienza di distribuzione, che non sono facilmente definibili.

È d’avviso che l’articolo 2 possa essere fuso col primo e propone che la Sottocommissione approvi un articolo così redatto:

«È riconosciuto e garantito il diritto di proprietà privata. Il contenuto, i limiti, i modi di acquisto, di trasferimento, fra vivi ed a causa di morte, di perdita, sono stabiliti dalla legge.

«Per motivi di pubblica necessità e di utilità definiti con legge si potrà procedere ad espropriazione contro indennizzo».

Quanto all’ultimo articolo, è d’avviso che, nella sostanza, ciò che vi è scritto debba essere affermato in un documento fondamentale della nostra legislazione, quale è la Costituzione; ma pensa che tutto l’articolo possa essere sintetizzato in poche parole che, ritiene, bastino ad esprimere il concetto del relatore: «Lo Stato favorirà lo sviluppo della piccola proprietà».

DOMINEDÒ, al primo comma dell’articolo primo, consente nell’abolizione proposta dall’onorevole Giua, ma per questa ragione: che il riconoscimento del diritto alla proprietà, circoscritto all’ipotesi che questa sia frutto di lavoro e risparmio, eccezionale rispetto al sistema vigente, sposterebbe l’asse del sistema stesso. Non vedrebbe la norma realizzabile, in quanto una disposizione successiva prevede una proprietà di origine ereditaria. Manterrebbe largo lo scacchiere delle fonti della proprietà, accennando sì alle necessità sociali, ma non precludendo il novero delle fonti stesse. Preferirebbe una terminologia diversa, più vicina a quella usata nella Costituzione francese, dove si dice: «Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e risparmio». Per rimanere aderente alla realtà, userebbe questa formula generica, allo scopo di introdurre l’affermazione di massima che dà il tono sociale alla norma, per cui nostra meta tendenziale è la proprietà fondata sul lavoro e il risparmio.

Quindi accede ai concetti espressi dall’onorevole Colitto e propone che l’articolo sia così formulato:

«Allo scopo di assicurare la libertà e l’affermazione della persona umana, viene riconosciuto e garantito il diritto di proprietà privata. Ciascuno vi potrà accedere con il lavoro e con il risparmio. Allo scopo di assicurare la funzione personale e sociale della proprietà privata e il diritto di accedervi, la legge determinerà le norme che regolano l’acquisto, il trasferimento, i limiti, le modalità di godimento».

CORBI ritiene opportuno, per avere una visione più organica del problema, riferirsi anche alla relazione Pesenti, dove sono trattati vari problemi accennati nella relazione Taviani. Ciò faciliterebbe il compito della Commissione.

TAVIANI, Relatore, dichiara di aver tenuto presenti la relazione Pesenti e quella Togliatti; quest’ultima però è molto rapida e lacunosa.

CORBI è d’accordo con l’onorevole Giua nel ritenere che nel primo articolo non si facciano affermazioni filosofiche, che possono anche essere omesse. Che la proprietà privata debba essere frutto del lavoro e del risparmio, è un concetto generico e difficile a definirsi. Intanto occorrerebbe stabilire il concetto di lavoro.

TAVIANI, Relatore, dichiara di accettare le modifiche proposte dall’onorevole Dominedò.

CORBI concorda in quanto è contenuto nel terzo articolo del relatore, perché, a suo avviso, non basta dire che la piccola e media proprietà sono tutelate dallo Stato; così non si risolve il problema della proprietà fondiaria in Italia. Nell’articolo proposto dal Relatore si sono considerate le varie facce del problema: occupazione di terre, necessità di potenziare il rendimento delle terre, di garantire l’abitazione a ciascuna famiglia, possibilità di accedere alla proprietà della terra che si coltiva; sono questi concetti che rispondono meglio alle esigenze della Costituzione che viene formulata nel clima attuale.

È necessario dire che si limiterà la proprietà terriera, date le caratteristiche del nostro Paese. Per tutte queste ragioni ritiene che l’articolo vada tenuto in grande considerazione, e non approva la proposta dell’onorevole Colitto, che vorrebbe limitare le enunciazioni.

GUIA fa una mozione d’ordine, chiedendo che si discuta articolo per articolo.

DOMINEDÒ si associa all’onorevole Giua.

GIUA osserva che con la limitazione della proprietà privata si può giungere anche a limitare lo sviluppo delle cooperative.

ASSENNATO si dichiara d’accordo per la soppressone della parte dell’articolo che riguardarla finalità. Quando si afferma che la proprietà privata deve avere per scopo e finalità la libertà e l’affermazione della persona, ci si riporta, come ha notato giustamente l’onorevole Dominedò, all’affermazione corrispondente della Costituzione francese. Tale richiamo è esatto, ma osserva che l’affermazione fatta in quell’epoca ha una funzione diversa, in quanto ogni affermazione di carattere statutario è assoluta, ma anche relativa al tempo.

DOMINEDÒ dichiara che l’onorevole Assennato non ha interpretato esattamente il suo concetto, in quanto egli si riferiva al precedente dello schema francese non per quanto riguarda l’affermazione di principio, ma solo rispetto al secondo punto del primo comma: «ciascuno deve poter accedere alla proprietà col lavoro». Il richiamo, che concerneva soltanto quest’ultima parte, ha determinato l’equivoco.

Ritiene che il primo comma sia importante, in quanto costituisce un corrispettivo del secondo: dalla sintesi nasce l’equilibrio.

PRESIDENTE dichiara di essere nemico delle enunciazioni di carattere generale e filosofico. Si può bene pensare che la libertà e l’affermazione della personalità non dipendano necessariamente dalla «proprietà privata». Si può essere liberi e non disporre di alcuna proprietà. Non dobbiamo vincolare il legislatore futuro a enunciazioni di principî che domani potrebbero essere sconfessati o superati. L’affermazione contenuta nella Costituzione che la «proprietà privata» è condizione di libertà, potrebbe impedire al legislatore futuro di sostituire alla proprietà privata, o di accompagnarvi, altre diverse forme di proprietà.

Se domani il legislatore volesse abolire la proprietà privata, dovrebbe necessariamente rinnegare il contenuto della prima parte dell’articolo proposto dall’onorevole Taviani. Concludendo, preferisce che la prima parte dell’articolo si limiti alla enunciazione proposta dall’onorevole Colitto: «Lo Stato garantisce il diritto di proprietà privata».

FANFANI è d’accordo che tutte le qualificazioni finiscono coll’invecchiare la Costituzione stessa. Ma si domanda se le affermazioni proposte dall’onorevole Taviani possano impedire un razionale sviluppo della legislazione in materia di proprietà privata. Se ci si limitasse al solo primo comma, sarebbe d’accordo con la tesi enunciata dal Presidente; ma ritiene che mettendolo in relazione col secondo sulla funzione sociale della proprietà e col terzo che considera anche la proprietà collettiva, quelle norme abbiano soltanto lo scopo di rivendicare alla proprietà privata la difesa della personalità umana, ma possano, se mai, acquistare sapore di invito a modificare la proprietà privata tutte le volte che questa non serva a garantire la libertà e il bene, non solo del singolo cittadino, ma di tutti quanti i cittadini. Da qui la necessità di un secondo articolo il quale, riferendosi alla funzione sociale della proprietà e alla necessità di fare accedere alla proprietà tutti i cittadini, limiti nell’estensione, nell’origine, nei modi di trasferimento, anche a tipo ereditario, la proprietà privata; e infine di un terzo articolo in cui si prende in esame la proprietà collettiva stabilendo i modi e i tempi in cui lo Stato dovrà sottrarre la proprietà all’iniziativa, o al dominio privato per passarla all’iniziativa o al dominio collettivo, per dare a tutti gli uomini il massimo di libertà e di benessere che, in quei determinati casi, la proprietà privata non garantisce.

Non vede alcun pericolo a che in ogni articolo, alla formula prettamente giuridica che afferma il diritto o la possibilità di limitarlo, si stabilisca e si faccia seguire anche un’idea direttrice, che faccia capire il perché di quella affermazione giuridica o costituzionale. Con questo non scende a studiare quale deve essere il tenore della giustificazione; si limita ad opporsi all’idea espressa dall’onorevole Colitto e dall’onorevole Presidente, perché ritiene che, come si è fatto finora a proposito dell’istituto della proprietà privata, qualche messa a fuoco dal punto di vista dottrinario sia necessaria, purché sia condivisa da tutta la Commissione, per illuminare il futuro sviluppo legislativo.

PRESIDENTE. L’onorevole Fanfani non disconosce che l’enunciazione della parte dell’articolo potrebbe limitare la libertà del legislatore futuro. Questo pericolo, però, verrebbe corretto dal capoverso che afferma la funzione sociale della proprietà e affida alla legge la determinazione della modalità e dei limiti della proprietà. Ma l’obiezione non gli pare esauriente. Il principio che la proprietà privata è necessaria perché assicura «la libertà e l’affermazione della personalità» non è incrinata dal fatto che le si riconosca una funzione sociale o si assegni un limite alla sua estensione. Quando la legge fosse chiamata a determinare il contenuto della proprietà, allora andrebbe bene la seconda parte. Se si dicesse: «Si garantisce il diritto di proprietà nei limiti che saranno fissati dalla legge», come ha fatto il progetto francese, oppure si dicesse. «La legge garantisce il diritto di proprietà stabilendone il consentito, i limiti, le modalità, ecc.», potrebbe accedere alla proposta Taviani.

TAVIANI, Relatore, chiede all’onorevole Presidente che cosa si debba intendere per contenuto della proprietà.

PRESIDENTE dichiara che la parola «contenuto» può essere ritenuta un termine impreciso. Ma con essa intende significare che la legge potrà liberamente determinare la forma che dovrà assumere la proprietà (privata, pubblica, socializzata, ecc.) secondale necessità e la volontà popolare del tempo nel quale sarà formata.

TAVIANI, Relatore, fa una precisazione. Si può discutere sulla opportunità dell’affermazione filosofica nel senso che a tale affermazione si può arrivare da diversi punti di partenza; ma come l’onorevole Presidente ha posto la questione non sarà mai possibile giungere ad un punto d’accordo; sulla richiesta di lasciare una porta aperta alla legge in modo che questa possa un giorno abolire qualsiasi forma di proprietà singola e personale, non può esservi un punto d’accordo tra le sue idee e quelle dell’onorevole Presidente. Si può concordare nel senso di dire che la possibilità di acquisto della proprietà privata potrà essere limitata in forma estrema come in Russia, o potrà avere un più largo raggio di azione; ma da lui non può essere ammessa la possibilità di abolire una qualsiasi proprietà privata. Sia ben chiaro che non dipende dalla legge il fatto dell’esistenza di una qualsiasi proprietà privata. Insiste su questo punto, perché comprende la posizione di altri partiti su questo importante problema: per esempio, del partito comunista. Questi pensano che fra un secolo possa non esserci più alcuna proprietà privata. Afferma però che a suo parere anche i comunisti devono comprendere la posizione dei democristiani, i quali ritengono che almeno un minimo di proprietà privata ci sarà sempre.

ASSENNATO dichiara di non voler fare dissertazioni di carattere filosofico, che forse allontanerebbero dal tema trattato, rendendo il lavoro della Sottocommissione difficile; desidera soltanto far notare che l’esistenza di una Costituzione e la dichiarazione di un diritto vanno valutati in rapporto all’epoca che si vive. Questa stessa dichiarazione si trova come aggiunta dei primi progetti della Costituzione francese. A quei tempi era un concetto innovativo rivendicare la proprietà privata ed era chiaro che quella situazione conteneva qualche cosa in più, in quanto c’era un riferimento non solo al lavoro, ma anche all’abilità.

Desidera porre un quesito di carattere etico ai colleghi democristiani: se credono che senza possedere proprietà non vi sia libertà. Quello che lo preoccupa è l’eccesso di proprietà da parte di alcuno a danno dei molti. Se si dà alla proprietà un carattere finalistico, nel senso che bisogna che la persona sia aiutata in vista della acquisizione della proprietà, chiede ai colleghi democristiani se quando dicono ciò, allo scopo di garantire la libertà e l’affermazione della persona, attribuiscono alla proprietà la capacità di irrobustire la libertà umana. In altri termini essi darebbero ai figli un’educazione rivolta alla acquisizione della proprietà. Sarebbe d’accordo nel dire: «Allo scopo di garantire la libertà e l’affermazione della persona viene riconosciuto e garantito il diritto della gratuità dell’istruzione». Da un punto di vista conservatore si potrebbe ritenere opportuno un controllo e fare il processo dell’origine della proprietà; ma le statuizioni filosofiche potrebbero allontanarci dal vivo del problema e potrebbero essere superate con l’andar del tempo. Il vero principio sul quale la Commissione è d’accordo è che la Costituzione che si sta elaborando non possa essere abolita prima della proprietà, e allora la cosa che deve preoccupare di più è la difesa della società dagli eccessi della proprietà privata. Propone di eliminare ogni affermazione che porti disaccordo nella Commissione. Fa notare che nell’articolo 2, dove si parla della successione, sia nell’ambito della famiglia sia di quella testamentaria, si aggiunge «spetta pure alla legge determinare la parte che lo Stato preleva sulle eredità». Questo riconoscimento allo Stato, sul quale tutti sono d’accordo, messo in questa forma, assume un carattere puramente fiscale. Invece, a suo parere, occorre vedere nell’intervento dello Stato nella successione testamentaria una funzione sociale; vorrebbe pregare quindi di introdurre questa affermazione, in modo che si stabiliscano i limiti della successione.

TAVIANI, Relatore, dichiara, rispondendo all’ultima richiesta dell’onorevole Assennato, che tale è la sua intenzione; il riferimento alle sole misure fiscali in materia testamentaria non dovrebbe essere compreso in una carta Costituzionale.

LOMBARDO desidererebbe che non si dicesse se la proprietà sia una forma di libertà o di schiavitù. Fa osservare che in una Costituzione, che in ultima analisi riguarda un delimitato periodo storico, e che in rapporto al progresso dell’umanità, quale si svolge attraverso i secoli, potrebbe essere considerato ancor più limitato nel tempo, occorre attenersi ad enunciazioni che si riferiscono ai tempi in cui si vive. Quello che dovrebbe preoccupare è il fatto di sancire più o meno se la proprietà sia riconosciuta e garantita, cioè se esiste il diritto di proprietà e se tale diritto possa essere in realtà garantito dalla legge. Se si ammette che la proprietà possa essere garantita e riconosciuta, ci si deve preoccupare che non se ne abusi. Da questi concetti si arriva a dedurre che la proprietà può essere eventualmente sottratta a chi ne abusi, oppure, indipendentemente dagli abusi, se si sono verificate determinate situazioni, questa proprietà può essere, per ragioni di carattere sociale, sottratta a chi la possiede. Per tale motivo ha formulato una proposta in maniera più concisa da sostituire al primo comma dell’onorevole Taviani:

«La proprietà è riconosciuta e garantita dalla legge nei limiti e nelle forme da essa stabiliti».

In altri termini la Costituzione stessa lascerebbe il campo aperto ad uno sviluppo ulteriore, quando successive variazioni permettessero di modificare i limiti e le forme della proprietà.

TAVIANI, Relatore, fa presente all’onorevole Lombardo che, con la sua proposta, si affianca ai concetti esposti dal Presidente e gli chiede se desideri che sia ben chiaro che la legge riconosce e garantisce il diritto della proprietà privata oppure se ammetta che tale diritto è garantito dalla Costituzione e la legge ne stabilisca le norme e i limiti.

LOMBARDO a suo parere, la Costituzione è una legge a carattere generale.

TAVIANI, Relatore, dichiara di essere disposto a discutere purché si dica che la proprietà privata è riconosciuta dalla Costituzione; poiché la legge non può abolire una qualsiasi proprietà privata. Se una legge facesse questo sarebbe anticostituzionale.

ASSENNATO riterrebbe opportuno fare una premessa all’articolo 1 proposto dall’onorevole Taviani, dicendo: «La proprietà può essere proprietà privata, proprietà demaniale, proprietà collettiva, ecc.»; perché nel titolo si parla del diritto di proprietà, mentre nell’articolo si tratta soltanto della proprietà privata.

TAVIANI, Relatore, dichiara che in un primo momento aveva fatto la distinzione e aveva detto proprietà privata e collettiva come proposto dall’onorevole Assennato; l’aveva poi tralasciata in quanto la parola «collettiva» non ha, come gli era stato fatto notare da alcuni colleghi, un significato giuridico.

DOMINEDÒ osserva non essere esatto neppure parlare di proprietà demaniale.

FANFANI dichiara di non conoscere epoca storica in cui non si siano avute le due forme di proprietà, la collettiva e la privata.

PRESIDENTE fa presente che non si dovrebbe sbarrare la strada a quelle che saranno le future esigenze della società. Egli non nega il diritto alla proprietà privata, ma è anche disposto a riconoscere un’altra forma diversa di proprietà.

TAVIANI, Relatore, fa presente che il problema è ormai impostato chiaramente. Tutti sono d’accordo che vi possa essere una proprietà privata; il disaccordo nasce quando si dichiara che potrà arrivare il giorno in cui non vi sarà alcuna proprietà privata e che questo giorno possa essere previsto dalla Costituzione. Ritiene che tali previsioni non si possano fare. Finora nella formulazione degli articoli approvati dalla Sottocommissione si è seguito il criterio di concretare. La formulazione proposta dall’onorevole Presidente può impressionare l’opinione pubblica, che, come è già accaduto in Francia, potrebbe, in caso di referendum, respingere la Carta costituzionale. L’onorevole Presidente ha detto di preoccuparsi di quelle che potrebbero essere le violente scosse sociali in un lontano domani; il Relatore si preoccupa ancor più di quelle che potrebbero anche essere le scossa attuali dell’opinione pubblica in un Paese come l’Italia, quando essa intravvedesse nella Costituzione la possibilità sia pure di un eventuale misconoscimento del diritto di proprietà. Perciò egli insiste che non sia ricondotto alla legge, ma venga affermato nella Costituzione il riconoscimento del diritto di proprietà privata.

LOMBARDO propone che all’articolo primo sia premessa un’affermazione con la quale si garantisce la proprietà. L’articolo, secondo la sua proposta, dovrebbe essere così formulato:

«La proprietà è riconosciuta e garantita dallo Stato nei limiti e nelle forme da esso stabiliti. Nessuno può esserne privato, se non per cause di utilità sociale, legalmente constatate, e con riserva di indennizzo.

«Il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente all’utilità sociale o in modo da arrecare pregiudizio alla libertà e ai diritti altrui.

«Le imprese che esercitano attività di servizio pubblico e di interesse generale sono nazionalizzate o socializzate a norma di legge».

COLITTO si dice lieto nel constatare che da più parti si è d’accordo nel riconoscere che non è opportuno che nella Costituzione, documento fondamentalmente giuridico, si inseriscano enunciazioni di finalità di ordine filosofico. La proposta dell’onorevole Lombardo, in sostanza, coincide con i suoi concetti. Non è d’accordo che si debba aggiungere la frase proposta dall’onorevole Dominedò, cioè che alla proprietà ciascuno può accedere col risparmio e col lavoro. È una bella frase, ma manca di contenuto giuridico.

Aggiunge che non riesce a comprendere come si possa accedere alla proprietà col lavoro; ci si può accedere quando si utilizzi il risparmio.

DOMINEDÒ dichiara di avere escluso la eventualità di una riduzione delle norme ad una semplice enunciazione delle forme di proprietà, per la ragione che poi occorrerebbe disporre norme particolari per ogni singola figura di proprietà.

Inoltre l’onorevole Assennato vorrebbe che fossero depennate le motivazioni di principio dell’istituto della proprietà privata, ma le sue considerazioni non lo lasciano convinto, perché, se la formulazione di principî è mantenuta nei riguardi della funzione sociale, non si comprende perché dovrebbe essere esclusa per gli altri aspetti. Per tranquillizzare l’onorevole Assennato, rileva che quando si pone la premessa che la proprietà è una forma di tutela della personalità umana, non si esclude che vi siano altri mezzi di difesa. Inoltre la formulazione proposta, a chi ben guardi, costituisce una limitazione della proprietà. È vero che già la Costituzione francese del ’700 riconosceva il diritto di proprietà, ma allora la formulazione era quasi incondizionata. Oggi, ponendo in evidenza la premessa per cui si connette l’istituto alla personalità umana, l’istituto viene ad essere riferito non al singolo ma a tutte le persone, e con ciò se ne limitano gli eccessi. Difendendo la personalità come substrato del diritto, il riconoscimento della proprietà è fatto nell’interesse di tutti e di conseguenza gli eventuali abusi del godimento sono colpiti.

CANEVARI vorrebbe chiarire il concetto esposto dal Presidente. Quando si parla di proprietà, deve essere ben distinta la proprietà bene della persona dalla proprietà che serve al bene sociale, al bene della generalità. Non gli risulta che finora sia stata fatta questa differenziazione; la proprietà è stata considerata sotto un solo aspetto, non è stata considerata anche come mezzo di produzione e di lavoro. In questo caso può essere oggetto di disposizioni legislative che ne modifichino l’uso nei limiti e nei mezzi a beneficio di tutti.

Dichiara di essere favorevole alla proposta dell’onorevole Lombardo.

ASSENNATO fa notare all’onorevole Dominedò che non vi è nulla di più evidente, nel negare l’affermazione della personalità umana, quanto la successione, di cui si parla nell’articolo successivo. La ricezione per successione è un atto negativo della propria personalità.

DOMINEDÒ dichiara che a suo avviso la successione è una continuazione della personalità umana.

ASSENNATO trova strano sancire l’acquisto della proprietà privata come meta finale della educazione. La democrazia cristiana ha la preoccupazione che attraverso la depennazione proposta si miri ad attenuare o eliminare la proprietà privata dalla Carta costituzionale; ma osserva che non si può consentire, in questa epoca, di dichiarare che alla proprietà si assegna lo scopo di stabilire la libertà e la formazione della persona, proprio in questa epoca, in cui anche le più reazionarie legislazioni vanno attenuando il significato della proprietà.

DOMINEDÒ spiega che qui si tratta di porre in evidenza il significato sociale che nasce dalla formulazione proposta.

FANFANI depreca che per la prima volta, nel corso di questa discussione, sia saltato fuori che si parla a nome dei democratici cristiani o dei comunisti. Prega i colleghi di dimenticare, non le loro opinioni personali, ma le etichette; preoccupazione comune deve essere di formare una Carta costituzionale che rispecchi i desideri pressoché universalmente diffusi tra gli italiani.

Per quanto riguarda la tesi in contrasto fra l’onorevole Dominedò e l’onorevole Assennato, li invita a rendersi conto che la situazione attuale non è quella del 1789, anzi è il contrapposto di quella. Oggi la preoccupazione è di compiere uno sforzo, dal punto di vista ideologico e legislativo, per scardinare la difesa della proprietà privata dal principio aristotelico e darle invece una nuova forma di giustificazione, considerarla quasi un modo di affermarsi della persona. Tutte le dottrine economiche aspirano alla formazione di una società in cui l’individuo goda il massimo possibile di libertà e ciascuno possa ottenere quello di cui ha bisogno.

Quando si dice che lo Stato riconosce e difende la proprietà privata quale modo di affermazione della personalità del cittadino, si viene a limitare la proprietà privata e si adotta una norma che inspirerà la legislazione di domani, affinché questa proprietà privata non sia lo schiacciamento della personalità altrui.

Riconosce giusto quanto ha detto l’onorevole Assennato, che non si può porre come obiettivo dell’educazione delle nostre creature l’acquisizione della proprietà; ma non può essere disconosciuto il fatto che l’individuo afferma le proprie qualità costruttive anche attraverso l’appropriazione di ciò che riesce a produrre, ma solo nei limiti che non impediscano la formazione della stessa proprietà privata presso gli altri.

Quando si dice che la proprietà è garanzia elementare della libertà della persona e del suo sviluppo, ci si riferisce a questa epoca storica, anche se si pensa che tutte le epoche si rassomiglieranno, salvo nella quantità di proprietà o di libertà acquisita. Che la proprietà privata sia garanzia elementare della libertà della persona, lo dimostra il fatto delle possibilità diverse che hanno avuto, anche recentemente, uomini che si trovavano in determinate condizioni economiche di fronte ad altri che non le possedevano. Ricorda a questo proposito come gli impiegati di Stato, che non avevano altre possibilità di vita, furono costretti a prendere, anche contro voglia, una tessera; ciò fa pensare che probabilmente se avessero avuto un minimo di proprietà personale si sarebbero sentiti incoraggiati a difendere la loro libertà.

E se questo può affermarsi oggi anche al di fuori della Costituzione, domanda quale pericolo esista se frasi simili vengono incluse nella Costituzione. Se si potesse dimostrare che tali frasi tendono a riportarci ai principî del 1789 sarebbe opportuno lasciarle cadere; ma se esse dovessero servire a limitare la proprietà privata e a sgombrare il terreno con la sua più accentuata limitazione a vantaggio della collettività, è opportuno che siano mantenute. Invita i presenti a chiarire il punto, perché se si dovesse correre il rischio di fare una Costituzione individualistica, le frasi andrebbero tolte.

CORBI constata che dall’ampia discussione svoltasi risulta la preoccupazione di ognuno di superare o ridurre le concezioni individualistiche.

Allo scopo di evitare equivoci ritiene opportuno non far alcuna di queste affermazioni che possono dividere la Commissione.

DOMINEDÒ ripete che il suo concetto è di dare significato sociale a tali affermazioni. Ciò sarebbe particolarmente utile, se questo contenuto sociale non dovesse essere poi sviluppato dalle successive disposizioni che la Costituzione conterrà, perché il problema non si conclude col primo comma del presente articolo.

Resta comunque stabilito, e in questo l’accordo è generale, che il diritto di proprietà è garantito, salvo quelle limitazioni che si riterranno opportune. Pensa in proposito che si possa accedere alla proposta dell’onorevole Lombardo la quale, se dovesse suscitare preoccupazioni, potrebbe essere ancora più schematizzata, dicendosi: «Il diritto di proprietà è riconosciuto e garantito dallo Stato. Nessuno può esserne privato, se non per causa di pubblica utilità legalmente constatata e previo indennizzo».

PRESIDENTE rinvia la discussione alla seduta di domani.

La riunione termina alle 12.40.

Erano presenti: Assennato, Canevari, Colitto, Corbi, Dominedò, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Lombardo Ivan Matteo, Marinaro, Merlin Angelina, Rapelli, Taviani.

Assenti giustificati: Molé, Noce Teresa.

Assenti: Paratore, Togni.

MARTEDÌ 24 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

10.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MARTEDÌ 24 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Comunicazione del Presidente

Presidente.

Sulla protezione della puerpera e del bambino

Merlin Angelina – Presidente.

Garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino (Seguito della discussione)

Presidente – Merlin Angelina – Giua, Relatore – Colitto – Paratore – Molè – Fanfani – Assennato.

La seduta comincia alle 15.15.

Comunicazione del Presidente.

PRESIDENTE comunica che gli onorevoli Di Vittorio e Pesenti non fanno più parte della terza Sottocommissione e che sono stati sostituiti dagli onorevoli Assennato e Corbi.

Sulla protezione della puerpera e del bambino.

MERLIN ANGELINA desidera fare una questione pregiudiziale, osservando che sul quotidiano L’Unità del 22 settembre è apparso un articolo nel quale è detto che la Terza Sottocommissione avrebbe votato un articolo che non impegna lo Stato nella protezione della puerpera e del bambino. Tiene a precisare che nell’articolo da lei proposto, in accordo con la onorevole Federici Maria, approvato a grande maggioranza dalla Sottocommissione, non si parlava di neonati e di puerpere, ma di madri e di fanciulli, in quanto con tali termini si intendeva sia la gestante, sia la donna che allatta, sia la donna che porta i suoi figli fino alla loro completa autonomia; la parola «fanciullo» è stata scelta in quanto nella lingua italiana non c’è un termine che indichi la creatura dal momento in cui nasce fino al momento in cui entra nella gioventù, come invece c’è nella latina, dove «puer» indica il bambino da quando nasce a quando veste la toga. Tiene a riconfermare quanto ha detto, perché resti ben chiaro che la Sottocommissione non ha affatto inteso, con l’approvazione dell’articolo, escludere le puerpere e i bambini, ma anzi ha inteso comprenderli nelle parole «madre» e «fanciullo».

PRESIDENTE prende atto delle dichiarazioni fatte dalla onorevole Merlin, condividendo pienamente il suo pensiero in merito a tale precisazione.

Seguito della discussione sulle garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino.

PRESIDENTE apre la discussione sui due articoli proposti dall’onorevole Giua, riguardanti il diritto di migrazione.

GIUA, Relatore, avendo preso visione di un articolo approvato dalla prima Sottocommissione in materia di migrazione, che riproduce quasi letteralmente quelli da lui proposti, chiede quale sia il pensiero della Sottocommissione in proposito.

PRESIDENTE risponde che la questione sarà risolta in sede di coordinamento.

Dà quindi lettura degli articoli proposti dall’onorevole Giua:

«Ogni cittadino può circolare e fissare la propria residenza o domicilio in ogni parte del territorio nazionale, salvo i limiti imposti dalla legge per motivi di sanità e di ordine pubblico».

«La libertà di movimento del cittadino italiano all’esterno del territorio nazionale (diritto di emigrazione) non può essere limitata dallo Stato, altro che per ciò che concerne la tutela del lavoro volontariamente collettivo. Il cittadino italiano che abbandona volontariamente il territorio nazionale per ragioni di lavoro non perde il diritto alla protezione dello Stato».

Ritiene, d’accordo con altri colleghi, che gli articoli, con lievi modifiche di forma, potrebbero essere formulati nel modo seguente:

«Il cittadino può circolare e fissare la propria residenza, domicilio o dimora in ogni parte del territorio dello Stato, salvo i limiti imposti dalla legge per motivi di sanità e di ordine pubblico.

«La libertà di movimento del cittadino italiano all’estero (diritto di emigrazione) può essere limitata dallo Stato solo per la tutela del lavoro nell’interesse collettivo. Il cittadino che emigra non perde il diritto alla protezione dello Stato».

Pone in discussione il primo articolo.

GIUA, Relatore, dichiara di consentire nella nuova formulazione, in quanto contiene gli stessi concetti degli articoli da lui proposti.

COLITTO propone di togliere le parole «può circolare», poiché il concetto esposto da esse è implicito là dove si parla «di fissare la propria dimora».

GIUA, Relatore, propone di mettere «può muoversi liberamente».

PRESIDENTE conviene che si può usare un’altra parola che esprima lo stesso concetto, ma fa presente che il termine «circolare» è usato anche in altre Costituzioni.

COLITTO insiste nella sua proposta, in quanto, a suo parere, è chiaro che, quando si può fissare liberamente la propria dimora, si può anche circolare.

PRESIDENTE osserva che, effettivamente, se nell’articolo si parlasse soltanto di domicilio e di residenza il termine «circolare» si renderebbe necessario, ma con l’aggiunta della parola «dimora» si rende chiaro il concetto della libertà di muoversi; tuttavia, eliminarlo completamente ridurrebbe il concetto che si vuole esprimere.

COLITTO propone di adottare il termine «muoversi», per una semplice questione di proprietà di linguaggio.

GIUA è del parere di lasciare l’espressione che si ritrova in tutte le Costituzioni; tanto più che, se si dovesse giungere alle autonomie regionali, potrebbero venire stabiliti dei divieti di trasferimento da regione a regione.

COLITTO propone la dizione «muoversi liberamente».

PARATORE concorda con l’onorevole Colitto nel trovare linguisticamente poco felice il termine «circolare», che pare riferirsi più a dei veicoli che a degli individui.

MERLIN ANGELINA propone l’adozione del termine «trasferirsi».

PARATORE, data la difficoltà di trovare un termine sostitutivo, propone di lasciare «circolare».

MOLÈ non trova opportuno far riferimento, nella Costituzione, a ragioni di ordine pubblico; è un concetto di grande discrezionalità lasciato all’arbitrio della polizia. Le ragioni sanitarie sono applicate in base a determinazioni del Governo, i motivi di ordine pubblico possono sempre essere sollevati dalla polizia.

COLITTO propone la formula «salvi i limiti imposti della legge».

MOLÈ, per quanto riguarda l’eccezione sollevata dall’onorevole Colitto sul termine «circolare», propone che questo venga sostituito con «trasferirsi».

PRESIDENTE propone di mettere accanto al termine «circolare» l’avverbio «liberamente».

Concordando nella necessità di togliere il termine «ordine pubblico», propone che l’articolo resti così formulato:

«Il cittadino può liberamente circolare e fissare la propria residenza, domicilio e dimora in ogni parte del territorio dello Stato, salvo i limiti imposti dalla legge».

COLITTO propone di invertire l’ordine dei termini «residenza, domicilio e dimora» in «domicilio, residenza e dimora», uniformandosi alla dizione seguita dal Codice civile italiano. Propone di sopprimere l’aggettivo «proprio».

PRESIDENTE dichiara che, accogliendo la proposta dell’onorevole Colitto, l’articolo resta così formulato:

«Il cittadino può circolare e fissare il domicilio, la residenza e la dimora in ogni parte del territorio dello Stato, salvo i limiti imposti dalla legge».

Lo pone ai voti.

(È approvato).

Apre la discussione sul secondo articolo proposto dall’onorevole Giua, articolo che, come ha già detto, è stato, d’accordo con alcuni colleghi, così modificato:

«La libertà di movimento del cittadino italiano all’estero (diritto di emigrazione) può essere limitata dallo Stato solo per la tutela del lavoro nell’interesse collettivo. Il cittadino che emigra non perde il diritto alla protezione dello Stato».

MOLÈ fa considerare che la libertà di movimento all’estero non dipende dallo Stato italiano; da questo, se mai, dipende la libertà di uscire.

COLITTO pensa che con questo articolo si voglia affermare che il cittadino che valica i confini conserva la protezione dello Stato.

GIUA, Relatore, osserva che se il cittadino vuole emigrare, lo Stato non glielo può impedire. Si potrebbe dire: «Il diritto di emigrazione è garantito dallo Stato».

PARATORE ritiene la dichiarazione troppo categorica, perché l’emigrazione non dipende sempre dallo Stato.

PRESIDENTE spiega che il diritto di emigrazione può essere limitato dallo Stato solo per ciò che concerne la tutela del lavoro o l’interesse collettivo.

PARATORE aggiunge che l’emigrante ha diritto a speciale protezione.

MERLIN ANGELINA fa il caso dell’operaio, che, con i suoi risparmi, si rechi, ad esempio, in Isvizzera e si ammali. Se deve essere ricoverato all’ospedale chi pagherà la retta se egli non ne avesse i mezzi?

MOLÈ risponde che nei trattati internazionali sono regolati anche i rapporti nei riguardi dell’assistenza. Se poi questo regolamento manca, sarà il Console italiano che dovrà provvedere.

GIUA, Relatore, aggiunge che se il cittadino è andato all’estero per ragioni di lavoro ha diritto ad una maggiore tutela.

MOLÈ ricorda che i rappresentanti italiani, sotto tutti i regimi, anche sotto quello totalitario, hanno sempre protetto il cittadino italiano all’estero. Quindi non trova necessario riaffermare qui questo diritto, che è considerato sotto il diritto internazionale.

FANFANI propone la seguente formula: «Il diritto di espatriare è garantito dallo Stato nei limiti consentiti dagli accordi internazionali e dalle leggi sulla tutela del lavoro. Il cittadino emigrato non perde il diritto alla protezione dello Stato».

PARATORE osserva che quando si dice «non perde il diritto alla tutela» si suppone la legge sull’emigrazione. Questo deve restar chiaro.

PRESIDENTE dichiara che l’articolo rimarrebbe così formulato:

«Il diritto di espatriare è garantito dallo Stato nei limiti consentiti dagli accordi internazionali e dalle leggi sulla tutela del lavoro. Il cittadino emigrato non perde il diritto alla protezione dello Stato».

Propone di riunire in uno solo i due articoli proposti dal relatore.

MOLÈ userebbe la parola «stabiliti» invece di «consentiti».

ASSENNATO direbbe «emigrato per ragioni di lavoro».

COLITTO rileva che questa precisazione può far pensare che il cittadino che espatria per altre ragioni perde la protezione.

FANFANI preferirebbe la parola «espatriato» ad «emigrato».

PARATORE osserva che c’è differenza fra l’emigrante e colui che va all’estero non per ragioni di lavoro. Bisogna chiarire a chi si fa riferimento.

COLITTO risponde che si fa riferimento al cittadino italiano che, per il fatto che va all’estero, ha diritto alla protezione.

PARATORE ritiene più proprio dire «espatriato» che «emigrato».

ASSENNATO non ritiene uguale la posizione del cittadino che espatria per lavoro a quella di chi espatria per altri motivi. Gli pare opportuno dichiarare che vi è un diritto particolare alla protezione a favore di chi espatria per ragioni di lavoro.

È ovvio che chi espatria conservi il diritto alla protezione dello Stato di origine; l’essenziale è sottolineare il diritto dell’emigrato che deve sentirsi sempre particolarmente protetto dalla Patria.

PARATORE, poiché la Commissione dovrà pure occuparsi dell’emigrazione, pensa che il problema vada trattato in quella occasione; qui occorre solo limitarsi a considerare che chi lascia l’Italia è tutelato come cittadino italiano; quindi è inutile parlare di emigranti.

COLITTO ricorda che la Commissione si deve occupare delle questioni economico-sociali, perciò anche della emigrazione. Si dovrebbe dire: «Il diritto di emigrare per ragioni di lavoro è consentito nei limiti delle leggi».

MERLIN ANGELINA osserva che si può espatriare anche per ragioni di studio, ed essere oggetto di soprusi.

GIUA, Relatore, risponde che a questo provvedono gli accordi internazionali.

PRESIDENTE ritiene che l’osservazione dell’onorevole Assennato, di ammettere una particolare protezione dello Stato per l’emigrante, non è superata dal fatto che si parli di emigrante.

Pone ai voti l’articolo così formulato: «Il diritto di emigrare è garantito dallo Stato nei limiti stabiliti dagli accordi internazionali e dalle leggi sul lavoro.

«Il cittadino emigrato ha diritto alla protezione dello Stato».

(È approvato).

Pone ai voti la proposta da lui formulata di riunire in uno solo i due articoli approvati.

(È approvata).

Dà lettura dell’articolo nel suo testo definitivo: «Il cittadino può circolare e fissare il domicilio, la residenza e la dimora in ogni parte del territorio dello Stato, salvo i limiti imposti dalla legge.

«Il diritto di emigrare è garantito dallo Stato nei limiti stabiliti dagli accordi internazionali e dalle leggi sul lavoro.

«Il cittadino emigrato ha diritto alla protezione dello Stato».

Lo pone ai voti.

(È approvato).

La sedata termina alle 16.

Erano presenti: Assennato, Colitto, Corbi, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Merlin Angelina, Molè, Paratore.

Assenti giustificati: Canevari, Dominedò, Lombardo Ivan Matteo, Marinaro, Noce Teresa, Rapelli, Taviani, Togni.

VENERDÌ 20 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

9.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI VENERDÌ 20 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino (Seguito della discussione)

Giua, Relatore – Colitto – Togni – Presidente – Molè – Federici Maria – Rapelli – Marinaro.

La seduta comincia alle 10.40.

Seguito della discussione sulle garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino.

GIUA, Relatore, dà lettura dell’articolo da lui proposto sull’educazione, così formulato: «Qualora la famiglia si trovi nella impossibilità di dare un’educazione civile ai figli, è compito dello Stato di provvedere a tale educazione con istituzioni proprie.

«Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».

L’articolo rientrerebbe nel tema generale della famiglia, ma ha ritenuto necessario ammettere la possibilità dell’intervento dello Stato in questo settore, soltanto nel caso che la famiglia sia nell’impossibilità di provvedere all’educazione dei figli. È un concetto che si deve affermare nella nuova Costituzione per non dare allo Stato il potere di ingerirsi nell’educazione dei giovani, compito che, in linea di massima, deve restare di stretta competenza della famiglia. L’articolo è in contrasto con altre Carte costituzionali, e in particolare con l’articolo 120 di quella di Weimar, che ammette la possibilità da parte dello Stato di sorvegliare l’educazione che i genitori impartiscono ai loro figliuoli. Tale sorveglianza sarebbe in contrasto con l’indirizzo generale adottato dalla Commissione e con l’affermazione della piena libertà dell’individuo, che lo Stato deve rispettare. Tale rispetto deve trovare particolare applicazione nel campo della famiglia, che costituisce il nucleo base dell’organizzazione sociale.

Il secondo comma «Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino» afferma che l’indirizzo non si deve discostare da quella che sarebbe l’educazione data dalla famiglia, nel caso che questa potesse provvedervi.

COLITTO chiede al relatore che cosa si debba intendere con il termine «civile».

GIUA, Relatore, chiarisce che con tale termine si evita la possibilità di intendere l’educazione come espressione di un indirizzo confessionale, di partito, settario, ecc.

COLITTO propone la soppressione del termine «civile».

PRESIDENTE non concorda con la proposta dell’onorevole Colitto, trovando necessaria la specificazione.

COLITTO propone la formula «nell’impossibilità di educare i figli», invece che «nell’impossibilità di dare un’educazione civile».

GIUA, Relatore, concorda con la proposta dell’onorevole Colitto, poiché, lasciando invariato il secondo comma, resta chiaro l’indirizzo che si vuol dare all’educazione.

Quanto ai collegi di educazione, fa rilevare che gli istituti già esistenti in Italia si limitano all’istruzione media, mentre sarebbe necessaria l’istituzione di convitti anche per quella elementare, ed i figliuoli di genitori condannati a pene detentive e gli orfani potrebbero formare in questi istituti la loro educazione.

TOGNI ritiene che il termine «civile» implichi una limitazione del concetto della educazione. A suo parere è necessaria l’affermazione del principio che lo Stato deve garantire, provvedere o intervenire, nel campo dell’educazione, ma non necessariamente e direttamente, come sembra sia previsto nella formula dell’articolo proposta dall’onorevole Giua. È noto che esistono convitti tenuti da sacerdoti o da civili, che provvedono alla educazione dei giovani e che lo Stato dovrebbe sovvenzionare, senza tuttavia intervenire direttamente nell’educazione.

GIUA, Relatore, non può convenire con le affermazioni fatte dall’onorevole Togni. Pur non condividendo le tesi estremiste, che vorrebbero investire lo Stato interamente dell’importante compito dell’educazione, non può accedere all’idea di un assoluto agnosticismo in materia da parte dello Stato.

PRESIDENTE fa notare che, con la formulazione dell’articolo proposto dall’onorevole Giua, non vengono precluse le possibilità di educazione da parte di istituti privati. Se lo Stato è investito dell’obbligo di provvedere in certi casi all’educazione, non per questo restano escluse le istituzioni private.

COLITTO propone la seguente formulazione: «Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi».

GIUA, Relatore, trova eccessivamente generica la formulazione proposta dall’onorevole Colitto.

PRESIDENTE insiste per l’adozione della formula integrale proposta dall’onorevole Giua, che ritiene la più rispondente al tema dell’educazione. Il termine «civile», a suo parere, significa che l’educazione deve essere ispirata a sensi di civismo e non è affatto in opposizione con il concetto della religione. Dichiara, che voterà pertanto la formula proposta dall’onorevole Giua, in quanto è l’unica che elimina qualunque sottinteso politico, confessionale o settario.

Anche il termine «istituzioni proprie» gli sembra ben apposto, perché è evidente che quando lo Stato deve intervenire non può farlo che direttamente e con mezzi propri. L’opera educativa compiuta da istituti privati può essere integrativa di quella dello Stato.

TOGNI ritiene che la migliore educazione sia quella integrata dall’insegnamento religioso, che non si limita ad una formula esteriore civile, ma mette radici nel sentimento religioso del fanciullo. Se potesse formulare un articolo in tale materia, direbbe che lo Stato deve appoggiarsi alle organizzazioni religiose; ma poiché tale concetto non può essere condiviso da altri, ritiene che non sia il caso di precisare né il concetto dell’intervento diretto dello Stato, né quello del predominio religioso. Che lo Stato provveda direttamente o indirettamente è una questione che sarà decisa caso per caso, a seconda della situazione particolare o speciale dei tempi; ma, poiché il termine «educazione civile» può far pensare che sia esclusa la parte educativa religiosa, ritiene che nell’articolo si dovrebbe parlare di educazione in generale. Sarà poi compito degli organi dello Stato vedere quale educazione convenga adottare tenendo conto della famiglia, della religione, della razza, ecc. Non vi è la necessità di stabilire fin da ora il principio che lo Stato debba provvedere direttamente all’educazione, soprattutto in quanto lo Stato è stato sempre il peggior educatore.

MOLÈ afferma che lo Stato può essere cattivo educatore, quando voglia imprimere una determinata ideologia politica nel campo dell’educazione, ma non può essere considerato tale, quando si adegui a principî di libertà.

TOGNI rileva che lo Stato è sempre l’espressione di un partito, e cercherà quindi di imprimere alla vita della Nazione un determinato indirizzo politico.

PRESIDENTE ritiene che dicendo «qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di dare un’educazione civile ai figli» non si menomi la libertà della famiglia di educare i figli, anche inviandoli presso istituti privati, né si crei un monopolio dello Stato nel campo della educazione; si intende affermare l’obbligo dello Stato di provvedere all’educazione, quando la famiglia non possa assolvere a tale compito né con mezzi propri, né con l’aiuto di istituti privati. Richiama l’attenzione sul fatto che il problema generale dell’educazione è di competenza della prima Sottocommissione, mentre la terza deve studiare le garanzie economico-sociali, che hanno attinenza con tale problema.

TOGNI ritiene che la formula proposta dall’onorevole Colitto sia la più precisa e la meglio rispondente per una Carta costituzionale, in quanto afferma il principio dell’obbligo dello Stato nel campo dell’educazione, togliendo la limitazione derivante dal termine «civile».

PRESIDENTE ritiene che l’intervento dello Stato non debba essere ispirato ad una educazione di colore politico, ma ad un senso di civismo, all’infuori di qualsiasi ideologia di partito. Insiste perciò per il mantenimento della parola «civile».

COLITTO chiede al Relatore di voler più chiaramente specificare il significato che ha voluto dare alla parola «civile».

GIUA, Relatore, dichiara che per «educazione civile» ha inteso educazione non confessionale o ispirata ad ideologie politiche, quale sarebbe, ad esempio, quella statolatria che afferma la preminenza dello Stato sui cittadini; ed ha voluto sottolineare l’obbligo del rispetto della libertà anche in questo settore. Riferendosi a quanto ha detto l’onorevole Togni, in merito all’educazione religiosa, dichiara di non essere contrario ad essa purché sia considerata dal punto di vista etico-cristiano; ma dal punto di vista della superfetazione della religione come insegnamento catechistico, non può ammetterla. Quindi, come è necessario che lo Stato moderno crei una pedagogia indirizzata a tutto il complesso della vita civile, cioè al rispetto della libertà e delle opinioni politiche, così pure si deve ammettere l’esistenza di una vita civile che sia al disopra delle situazioni politiche di destra o di sinistra. Lo Stato deve dare un’educazione fondamentale, ma lasciar libere le famiglie che vogliono educare religiosamente i loro figliuoli inviandoli ad istituti religiosi.

MOLÈ rileva che vi sono due casi di impossibilità della famiglia ad educare i figli: quando il genitore o i genitori siano condannati ad una pena detentiva, o quando vi sia l’estrema indigenza. In questi casi lo Stato deve direttamente intervenire. Però, se la famiglia è nell’impossibilità economica, ma ha ancora la sua entità morale, può chiedere che i bambini siano affidati ad un istituto religioso; nell’altro caso lo Stato provvederà ad un’educazione che risponda alle comuni esigenze di tutti gli uomini civili, siano essi ebrei o cattolici o protestanti. Ricorda che nella scuola italiana si insegna la religione, il che esclude il pericolo di un’educazione atea da parte dello Stato. Pertanto non condivide il parere dell’onorevole Togni che l’educazione da parte dello Stato costituisca un pericolo e ritiene che la formula proposta dall’onorevole Colitto non differisca molto da quella del Relatore.

TOGNI non crede che la formula proposta dall’onorevole Colitto sia equivalente a quella dell’onorevole Giua, in quanto il relatore afferma che è compito dello Stato di provvedere all’educazione con istituzioni proprie. Lo Stato, a suo parere, ha a suo carico l’onere finanziario dell’educazione, ma questa educazione dovrà essere data secondo i desideri della famiglia. Non si può obbligare lo Stato ad intervenire nell’educazione dei fanciulli, assumendo la figura di tutore, ma limitare il suo intervento a sussidi da erogare ad istituti privati.

MOLÈ ritiene che con l’adozione della proposta dell’onorevole Togni vi sarebbe il pericolo che lo Stato fosse costretto a sovvenzionare istituti aventi determinati colori politici.

Il problema educativo è troppo importante perché lo Stato se ne disinteressi; come si deve evitare l’estremismo dello Stato totalitario, si deve anche evitare quello dello Stato completamente agnostico. Lo Stato deve fornire il paradigma dell’educazione e, quando questa non sia possibile, provvedervi direttamente.

FEDERICI MARIA desidera che sia chiarito come si debba accertare l’impossibilità della famiglia a provvedere all’educazione dei figli.

PRESIDENTE risponde che la materia è oggetto di legislazione.

FEDERICI MARIA osserva che vi è il caso di una carenza della famiglia di ordine legale e il caso di una carenza di ordine economico. Per quanto riguarda la prima, lo Stato deve evidentemente intervenire; ma, per quanto riguarda la seconda, è difficile stabilire l’intervento dello Stato; si potrebbe verificare il caso di una folla di persone che chiedano l’intervento dello Stato e allora, praticamente, si avrebbe quell’educazione statale che deve essere evitata. Chiede poi se sarebbe possibile fare un’aggiunta all’articolo approvato il giorno avanti, riguardante l’istruzione dei ragazzi poveri.

PRESIDENTE dichiara che se si riconoscessero gli istituti privati come integrativi dell’intervento dello Stato, questo li deve sussidiare; ma se si ritiene che lo Stato possa fare a meno di questi istituti privati, dovrebbe provvedere con istituti propri indipendentemente da qualunque ideologia politica, religiosa ecc. Per questo motivo ritiene ben formulata la dizione dell’onorevole Giua: «è compito dello Stato di provvedere all’educazione con istituzioni proprie». Non ritiene che si tratti di un monopolio arrogato dallo Stato nel campo dell’educazione, ma che anzi la proposta ammetta resistenza di istituzione private.

RAPELLI ritiene che, facendosi l’ipotesi di una carenza economica della famiglia, lo Stato debba intervenire soltanto dal punto di vista dei mezzi materiali, essendo già stato affermato il principio che lo Stato riconosce a tutti i cittadini italiani il diritto al lavoro e predispone i mezzi necessari al suo godimento.

TOGNI, d’accordo con l’onorevole Molè, presenta la seguente modificazione dell’articolo: «Qualora la famiglia si trovi nella impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi». Aggiunge che lo Stato, creando una sene di istituzioni che accompagnino i bambini dai primi anni della vita fino all’età della ragione, dando loro un’educazione, si assume un compito di grande responsabilità. Ciò potrebbe ammettersi in uno Stato concepito astrattamente, ma in pratica lo Stato è l’espressione del partito dominante e pertanto può avvenire che mutando i partiti, mutino le direttive dell’educazione dei ragazzi. Insiste quindi affinché venga fissato il principio che lo Stato deve provvedere in senso generale all’educazione, senza ulteriori specificazioni, e che l’articolo resti così formulato:

«Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi nel rispetto della libertà del cittadino».

MOLÈ non approva l’inclusione dei concetti di educazione e di libertà in un solo periodo.

PRESIDENTE rileva che, quando si parla di educazione in senso generale, l’attributo «civile» intende un’educazione ispirata a sensi di civismo. Pertanto insiste sull’adozione di tale attributo.

Dichiara di accettare integralmente la formula presentata dall’onorevole Giua, che ritiene la più rispondente alle garanzie che si richiedono in materia di educazione.

GIUA, Relatore, dichiara di accettare la formula proposta dall’onorevole Togni, purché sia approvato il secondo comma da lui proposto, che dice: «Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».

PRESIDENTE dichiara che, poiché l’onorevole Giua ritira la sua proposta per aderire alla formulazione dell’onorevole Togni, insieme cogli onorevoli Colitto e Molè, fa proprio l’articolo proposto nella relazione.

Pone quindi in votazione l’articolo così formulato:

«Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di dare un’educazione civile ai figli, è compito dello Stato di provvedere a tale educazione con istituzioni proprie.

«Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».

(Non è approvato).

Dà lettura dell’articolo presentato dagli onorevoli Giua, Togni. Molè e Colitto, che dice:

«Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi.

«Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».

Lo pone in votazione, dichiarando di astenersi.

(È approvato).

GIUA, Relatore, legge gli articoli da lui proposti.

Art. …

Tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi, senza alcuna restrizione, tranne quella della capacità.

L’esercizio dell’insegnamento universitario è aperto a tutti i capaci indipendentemente da distinzioni di razza, religione, credo politico e nazionalità. L’accesso agli impieghi privati è aperto a tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso.

Art. …

Il cittadino italiano in possesso del titolo necessario ha diritto di esercitare una professione nel territorio della Repubblica. Tale diritto è tutelato dallo Stato e disciplinato dalle leggi e dai regolamenti degli ordini professionali.

Lo stesso diritto compete ai cittadini di altri paesi che stabiliscano il trattamento di reciprocità.

Fa osservare che, data la carenza dell’insegnamento universitario, dipendente dal fatto che durante il periodo fascista la quasi totalità delle cattedre universitarie è stata coperta da giovani insegnanti venuti su in clima fascista, occorre provvedere urgentemente. Già in altra epoca il De Sanctis ed il Sella avevano aperto le nostre Università ad insegnanti stranieri; anche ora è necessario ricorrere a questa possibilità, se si vuol rinnovare lo spirito dell’insegnamento universitario.

È evidente che per le scienze giuridiche difficilmente verranno insegnanti stranieri, ma per le altre scienze di carattere internazionale, e specialmente per quelle sperimentali, è ovvia la necessità che all’insegnamento siano ammesse anche persone che non abbiano la nazionalità italiana.

COLITTO propone di sopprimere l’inciso «senza alcuna restrizione, tranne quella della capacità».

MOLÈ espone alcuni dubbi: questa specificazione circa le modalità per i concorsi non crede sia materia di Costituzione, ma di legge. Da un punto di vista tecnico, non è la Costituzione che deve stabilire che gli uffici sono assegnati per concorso; però dichiara di non fare alcuna proposta in merito.

Quanto alla seconda affermazione: la parificazione assoluta dei sessi in tutti gli uffici, osserva che vi sono uffici in cui tale parificazione non è possibile, ad esempio in quelli che riguardano le funzioni giudiziarie e militari.

FEDERICI MARIA non trova ammissibili queste discriminazioni.

MOLÈ risponde che già nel diritto romano, e poi dai Santi Padri era stato riconosciuto che la donna, in determinati periodi della sua vita, non ha la piena capacità di lavoro.

PRESIDENTE direbbe «idoneità» invece di «capacità».

MOLÈ infine osserva che se non si può evitare, per ragioni contingenti, che si debba ricorrere alla partecipazione di stranieri ad un alto ufficio quale è quello dell’insegnamento superiore, non si dovrebbe stabilire come norma statutaria tale partecipazione. Potrebbe avvenire che in un futuro più o meno prossimo la direzione spirituale della Nazione italiana venisse affidata ad uomini che non sono italiani e che non hanno alcun attaccamento alla storia e alle esigenze della Nazione. Ciò sarebbe molto pericoloso, specialmente dal punto di vista politico.

TOGNI in luogo del secondo articolo del Relatore propone di premettere al primo un’affermazione di principio alla garanzia del libero esercizio professionale così concepita: «La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale, nel rispetto della legge».

Al primo comma proposto dal Relatore toglierebbe l’inciso «senza alcuna restrizione, tranne quella della capacità» e sostituirebbe «e in relazione alla propria idoneità».

Dove si parla dell’insegnamento universitario, anziché dire «è aperto» direbbe «può essere aperto».

Non ritiene poi necessario l’ultimo punto, ma non fa alcuna proposta in merito. Il testo dell’articolo così modificato sarebbe il seguente:

«La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale nel rispetto delle leggi. Tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi ed in relazione alla propria idoneità. Per l’insegnamento universitario, ai concorsi possono essere ammessi anche cittadini stranieri. L’accesso agli impieghi privati è aperto a tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso».

GIUA, Relatore, dichiara di accettare la formulazione Togni.

COLITTO è d’accordo con l’onorevole Molè che la donna non abbia la capacità di svolgere le funzioni giudiziarie, ma fa rilevare che sostituire «idoneità» a «capacità» non chiarisce il concetto.

FEDERICI MARIA trova inammissibile l’affermazione dell’incapacità della donna a ricoprire funzioni giudiziarie; quanto poi ad impieghi di carattere militare fa notare che si vanno sviluppando i così detti servizi ausiliari, compiuti da donne, e che, anche nella polizia, è preveduto l’impiego delle donne.

MOLÈ consente che le donne possano ben corrispondere nei corpi ausiliari dell’esercito; ma si tratta di un caso che non permette generalizzazioni. Non intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile.

FEDERICI MARIA ritiene che basterebbe sostituire a «capacità» «idoneità».

COLITTO, poiché nella Costituzione non si può fare della casistica, direbbe: «L’accesso ai pubblici impieghi è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi».

PRESIDENTE propone di modificare la proposta Togni, riferendo l’idoneità al sesso e precisamente: «Tutti i cittadini italiani sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorso, senza restrizione di sesso, tranne quella della idoneità».

FEDERICI MARIA ricorda che anche nella discussione sul lavoro furono sollevate eccezioni per le donne.

TOGNI è del parere che non si debba scendere a dettagli sulle limitazioni. Queste verranno fatte all’atto del concorso in riferimento alle qualità fisiche che l’ufficio richiede. Se già si dice che sono ammessi senza limitazioni di sesso, tranne quella della idoneità, l’idoneità può riferirsi tanto alla persona che al sesso. Nella Costituzione non possono essere posti dei limiti all’accesso di un sesso agli impieghi.

COLITTO, poiché non è possibile scendere a dettagli, insiste nel proporre il seguente articolo:

«L’accesso ai pubblici impieghi è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi».

TOGNI obietta che la Costituzione non può rimandare alle leggi: deve dare delle direttive. Del resto in America ed in Inghilterra limitazioni del genere non vengono fatte; tutte le carriere, dalla militare alla professionale, sono aperte alle donne.

FEDERICI MARIA, poiché nessuna Costituzione fa restrizioni in materia, insiste perché non siano fatte nella nostra.

MOLÈ dichiara di accettare la formula proposta dall’onorevole Colitto.

PRESIDENTE chiarisce che l’articolo sarebbe così formulato:

«La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale nel rispetto delle leggi».

Pone ai voti questo comma.

(È approvato).

Dà poi lettura delle due proposte, quella degli onorevoli Colitto e Molè, e l’altra dell’onorevole Togni, per il comma successivo.

La prima è così formulata:

«L’accesso ai pubblici impieghi è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi».

L’altra è la seguente:

«Tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi ed in relazione alla propria idoneità».

MARINARO è favorevole alla prima formula, ma con la seguente modificazione alla seconda parte:

«Agli impieghi nelle amministrazioni statali, parastatali o comunque soggette alla vigilanza dello Stato, si accede mediante concorsi».

PRESIDENTE fa considerare che la distinzione tra uffici pubblici e non pubblici non è facile.

MARINARO, appunto per eliminare tale difficoltà, ritiene necessaria la distinzione proposta.

PRESIDENTE osserva che c’è grande incertezza nei criteri di distinzione fra enti pubblici ed enti privati.

MARINARO potrebbe modificare la proposta e dire: «Nelle amministrazioni statali o in enti di diritto pubblico» e ciò perché in certe amministrazioni che hanno funzioni prevalentemente di interesse pubblico non è mai stato introdotto il concorso.

COLITTO chiede che sia fatto risultare dal verbale che, parlando di impieghi pubblici, si intende far riferimento a quanto ha specificato l’onorevole Marinaro.

MARINARO fa considerare che la Cassazione ha ripetutamente affermato che quando si dice impiego pubblico ci si riferisce a impieghi nelle amministrazioni dello Stato.

PRESIDENTE rileva che ci sono impieghi pubblici presso enti privati e ci sono impieghi privati presso enti pubblici. Fa l’esempio del Consorzio agrario che è indubbiamente un ente privato, ma che esplica anche funzioni pubbliche, quale è quella dell’ammasso del grano. L’impiegato addetto all’ammasso del grano esercita un impiego pubblico presso un ente privato. Ritiene perciò sufficiente dire «impieghi pubblici».

MARINARO aggiunge che la Cassazione ha definito ente di diritto pubblico quello che assolve ad una funzione pubblica. Ci sono istituti che hanno attività mista, altri che hanno una figura giuridica sui generis, che esercitano una pubblica attività, che danno buone remunerazioni e assicurano una carriera vantaggiosa. Non vede perché non si dovrebbe richiedere che le assunzioni del personale si facciano per concorso.

PRESIDENTE legge la proposta degli onorevoli Colitto, Molè, Marinaro:

«L’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi»;

 

e quella dell’onorevole Togni:

«Tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi e in relazione alla propria idoneità».

COLITTO dichiara di essere disposto ad aggiungere nella sua formula l’inciso «senza distinzione di sesso». La formula risulterebbe così espressa:

«L’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico è libero ai cittadini, senza distinzione di sesso, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. A tali impieghi si accede mediante concorsi».

FEDERICI MARIA insiste perché sia tolto l’inciso «salvo le limitazioni stabilite dalla legge».

COLITTO non lo ritiene opportuno. Ad esempio, un concorso per soli maschi indetto dall’Accademia militare per arruolamento di allievi ufficiali, risulterebbe anticostituzionale.

MARINARO afferma che queste limitazioni esistono in quasi tutte le Costituzioni.

FEDERICI MARIA ritiene che quell’inciso sia pericoloso, perché non si possono specificare i casi ai quali si intende riferito. Con la proposta dell’onorevole Togni, dove è prevista la idoneità, queste preoccupazioni non avrebbero ragione di essere.

MOLÈ osserva che la idoneità serve a stabilire un criterio individuale che riguarda tanto il maschio che la femmina.

PRESIDENTE pensa che mutando la collocazione dell’inciso «salvo le limitazioni stabilite dalla legge», potrebbe essere eliminato ogni disaccordo. Propone pertanto la seguente formula:

«L’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge, senza distinzione di sesso, razza, religione e fede politica.

A tali impieghi si accede mediante concorso».

Mette ai voti questa proposta.

(È approvata).

Dà poi lettura della nuova formulazione del punto successivo:

«Per l’insegnamento universitario i concorsi possono essere aperti anche a cittadini stranieri».

Pone ai voti questa proposta.

(È approvata).

La seduta termina alle 13.

Erano presenti: Ghidini, Marinaro, Colitto, Federici Maria, Giua, Molè, Rapelli, Togni.

Assenti giustificati: Di Vittorio, Noce Teresa, Pesenti.

Assenti: Canevari, Dominedò, Fanfani, Lombardo Ivan Matteo, Merlin Angelina, Paratore, Taviani.

GIOVEDÌ 19 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

8.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 19 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia (Seguito della discussione)

Presidente – Federici Maria, Correlatrice – Merlin Angelina, Relatrice – Giua – Fanfani – Taviani – Dominedò.

Garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino (Discussione)

Giua, Relatore – Marinaro – Taviani – Presidente – Dominedò – Molè – Merlin Angelina – Colitto.

La seduta comincia alle 9.35.

Seguito della discussione sulle garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia.

PRESIDENTE comunica che gli onorevoli Marinaro e Federici Maria si sono accordati sulla presentazione di un’unica formulazione di articolo, tenendo conto della discussione avvenuta il giorno precedente. Apre pertanto la discussione su tale articolo così formulato: «Alla famiglia è assicurata la condizione necessaria alla sua difesa ed al suo progressivo sviluppo».

FEDERICI MARIA, Correlatrice, tenendo conto delle obiezioni che le sono state mosse dagli onorevoli colleghi sulla prima parte dell’articolo da lei proposto il giorno avanti, ha ridotto, d’accordo con l’onorevole Marinaro, la sua proposta all’affermazione che alla famiglia verranno assicurate le condizioni necessarie alla sua difesa ed al suo progressivo sviluppo. Conviene che anche questa affermazione potrebbe essere materia di altri articoli e propone che sia premessa all’articolo approvato il giorno avanti, che dice: «La Repubblica riconosce che è interesse sociale la protezione della maternità e dell’infanzia. In particolare le condizioni di lavoro devono consentire il completo adempimento delle funzioni e dei doveri della maternità. Istituzioni previdenziali, assistenziali e scolastiche, predisposte o integrate, ove occorra, dallo Stato, devono tutelare ogni madre e la vita e lo sviluppo di ogni fanciullo».

MERLIN ANGELINA, Relatrice, è del parare che non si dovrebbe modificare un articolo già approvato, ed insiste perché in ogni caso sia fatto un articolo a parte. Propone la seguente formula, che ha il pregio di una maggiore semplicità: «Lo Stato protegge la famiglia».

FEDERICI MARIA, Correlatrice, ritiene inaccettabile, perché dubbia, la formula proposta.

GIUA ritiene che il termine «Stato» sia troppo generico e che la dizione «protegge» non sia chiara.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, spiega che si riferisce a quelle forme di protezione che si riterrà opportuno adottare da parte dello Stato in relazione ai tempi. Anche la dizione proposta dalla onorevole Federici: «progressivo sviluppo» non è sufficientemente chiara.

FANFANI propone di adottare la dizione: «a libero sviluppo», che sottolineerebbe, come nella Costituzione francese, la libertà della famiglia in tutte le sue attività. In altri termini lo Stato dovrebbe intervenire nel campo della famiglia per integrarne le attività.

GIUA propone di mettere in luogo di «Stato» la parola «Repubblica».

MERLIN ANGELINA, Relatrice, tenuto conto delle osservazioni fatte, modifica così la proposta Federici: «La Repubblica assicura alla famiglia le condizioni necessarie alla sua difesa economica e al suo sviluppo». Ha usato la dizione «difesa economica» in quanto ritiene necessario ben precisare il campo in cui si deve esplicare la protezione della famiglia da parte dello Stato.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, fa osservare che già negli altri articoli sono stati risolti i problemi riguardanti la tutela della famiglia nel campo della previdenza e della assistenza; quindi la sua formula, con un contenuto volutamente generico, meglio risponde alle esigenze che non la formulazione troppo impegnativa di «difesa economica», proposta dalla onorevole Merlin.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, ritiene necessaria una maggiore precisazione; potrebbe tuttavia modificare così la dizione: «condizioni economiche necessarie alla sua difesa ed al suo sviluppo».

TAVIANI fa rilevare che l’articolo in discussione va considerato come un richiamo su questo particolare problema, ma, con tutta probabilità, esso verrà a fondersi con altri articoli.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, propone che si dica: «condizioni economiche e sociali», in armonia al tema per il quale è Correlatrice.»

PRESIDENTE propone di dire «condizioni necessarie al suo sviluppo», già adottate nella Carta costituzionale francese.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, dichiara che non le sembra sufficiente, mancando il concetto di difesa che le sembra importante ed al quale non crede di rinunziare.

TAVIANI accetta l’aggettivo «economiche» accanto al sostantivo «condizioni», appunto perché è compito della Commissione occuparsi di garanzie economiche. L’articolo, in sede di coordinamento, richiamerà l’attenzione della Commissione a fondare la difesa della famiglia sulle condizioni economiche, oltre che giuridiche.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, propone la dizione: «condizioni economiche necessarie alla sua difesa e al suo sviluppo».

TAVIANI per dichiarazione di voto, chiarisce che voterà l’articolo, perché gli riconosce anche un carattere giuridico, alla cui precisa enunciazione rinuncia soltanto in quanto la protezione strettamente giuridica è compito particolare della prima Sottocommissione.

FANFANI ritiene che, dato che la Sottocommissione non si è preoccupata di precisare e fissare l’aspetto giuridico e politico dei problemi da essa affrontati inerenti alla difesa dell’uomo e della donna, si debba anche qui seguire lo stesso criterio. D’altronde, l’articolo proposto sarà assorbito da altre norme in sede di coordinamento. Esso costituisce un suggerimento dato dalla Sottocommissione perché nella formulazione definitiva della Carta costituzionale si tenga presente che alla famiglia spettano garanzie di natura economica e sociale.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, è d’accordo con i colleghi Taviani e Fanfani. Nella sua relazione si è inspirata strettamente al tema delle garanzie economiche e sociali. In questo senso accetta la formulazione della onorevole Merlin, che parla di «condizioni economiche». Vorrebbe insistere sulla parola «sociali», che risponde al tema affidato allo studio della Sottocommissione. Sottintende, in ogni caso, che l’articolo come si prospetta non esaurisce le garanzie dovute alla famiglia.

Si riserva, in sede di coordinamento, di insistere perché si tenga presente che alla famiglia sono dovute garanzie economiche e giuridiche.

DOMINEDÒ accetta la terminologia «economiche», nell’intendimento che tale espressione non debba essere interpretata in senso restrittivo, bensì con riguardo, alle più complesse finalità economico-sociali, che qui possono entrare in giuoco, perché possono palesemente configurarsi ipotesi di trattamento familiare, aventi una funzione sociale che può eccedere il contenuto strettamente edonistico della terminologia economica.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, si associa alla dichiarazione dell’onorevole Dominedò.

PRESIDENTE mette in votazione la formula: «La Repubblica assicura alla famiglia condizioni economiche necessarie alla sua difesa e al suo sviluppo».

(È approvata).

Discussione sulle garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino.

GUIA, Relatore, fa notare che gli articoli proposti sono stati concretati in occasione della discussione preliminare, quindi appartengono un po’ a tutti i componenti della Commissione.

Il primo articolo, che tratta dell’istruzione, è così formulato: «L’istruzione è un bone sociale. È dovere dello Stato di organizzare l’istruzione di qualsiasi grado, in modo che tutti i capaci possano usufruire di essa. L’insegnamento elementare gratuito è obbligatorio per tutti. La frequenza delle scuole di gradi superiori è permessa ai soli capaci. All’istruzione dei ragazzi poveri, che per capacità possano frequentare le scuole di gradi superiori, lo Stato provvede con aiuti materiali».

Aggiunge che dei sei articoli che fanno parte della relazione dell’onorevole Marchesi, il terzo corrisponde a questo, però contiene espressioni più vaghe nella prima parte; nella seconda parte impegna la Repubblica a mantenere questo insegnamento primario da impartirsi in otto anni, periodo che, secondo l’oratore, è troppo lungo, date le attuali condizioni, mentre domani potrebbe essere anche troppo breve.

Non è poi opportuno dire che le scuole professionali dovranno essere attuate nei cantieri e nelle officine; fin da oggi vi sono grandi fabbriche che hanno provveduto a scuole professionali spontaneamente, anche all’infuori dell’intervento dello Stato. Insiste quindi sulla preferenza da dare all’articolo da lui proposto nei confronti dell’articolo 3 proposto dall’onorevole Marchesi.

Si potrebbe trovare inutile l’affermazione che l’istruzione è un bene sociale; ma tutti sono d’accordo su questo punto di considerare la cultura un bene sociale. È questo un dato di fatto che era stato riconosciuto dallo Stato liberale. Indiscutibile è pure che l’insegnamento elementare debba essere dato gratuitamente dallo Stato; il Marchesi parla di insegnamento primario, ed effettivamente in questo articolo si potrebbe sostituire la parola primario ad elementare.

Insite particolarmente sulla quarta affermazione che la frequenza delle scuole di gradi superiori debba essere permessa ai soli capaci. È una affermazione di principio necessaria per giungere ad una limitazione del numero degli studenti, eliminando coloro che, pur possedendone i mezzi, non hanno la capacità intellettuale di frequentare questi corsi superiori.

In teoria gli esami dovrebbero essere sufficienti a questo scopo, ma, per varie ragioni, in generale ciò non si verifica. Le pressioni o anche le stesse istruzioni ministeriali portano talvolta a tale larghezza di giudizi da produrre quella inflazione di titoli, per la massima parte conseguiti anche senza merito. E basta avere un titolo, anche male acquisito, per occupare talvolta posti direttivi nella burocrazia dello Stato, della quale tutti lamentano il lato negativo.

L’affermazione di questo principio è anche necessaria nel nuovo clima per dare una direttiva a molti giovani che pensano che un titolo universitario sia necessario per crearsi una posizione.

La frequenza all’Università deve essere limitata ai capaci e se questi non hanno mezzi, deve provvedervi lo Stato. Questo principio non solo modificherà la psicologia dei giovani, ma anche quella degli insegnanti, ai quali viene così conferita una grave responsabilità: il dovere, cioè di giudicare i giovani per quello che è la loro vera capacità.

Che all’istruzione dei ragazzi poveri debba provvedere lo Stato crede che non occorra aggiungere spiegazioni.

Fa notare che il concetto che la frequenza alle scuole di grado superiore è permessa solo ai capaci non è fissato in nessuna delle Costituzioni che egli conosce; ma, per le dette ragioni gli sembra necessario; del resto anche nella discussione preliminare ci fu pieno accordo nel riconoscerne la validità.

MARINARO chiede come potrà avvenire l’accertamento della capacità.

Fa considerare che fino ad oggi chi ha conseguito il diploma delle scuole medie ha sempre avuto accesso all’Università, perché è quello il titolo richiesto. Qui con capacità si intende qualche cosa di diverso; lo stesso fascismo aveva tentato di stabilire qualche cosa di simile; per accedere alle Università occorreva che il titolo di studi medi fosse stato conseguito con una certa votazione: sette o otto decimi.

Indipendentemente dalla bontà, del concetto che ha lo scopo di impedire l’inflazione scolastica attuale, che non conferisce serietà agli studi superiori, occorre essere precisi. Fa anche considerare che oggi le Università funzionano assai male, a causa dell’esuberanza degli studenti e della deficienza di personale insegnante; gli esami non si svolgono più con la serietà di una volta; al posto dei professori titolari sono chiamati ad esaminare liberi docenti ed assistenti. Quando la popolazione scolastica supera i trentamila, come avviene a Roma, nei giorni di esame funzionano quattro o cinque commissioni per materia e gli esaminatori sono quasi sempre degli assistenti.

Inoltre ritiene necessario specificare in che cosa consista questa capacità, e stabilire anche in quale epoca occorra fare l’accertamento. Secondo lui, dovrebbe esser fatto abbastanza presto, perché non è umano sbarrare la via dell’Università a chi, magari con sacrificio della famiglia, ha compiuto tutti gli studi liceali.

Concludendo, chiede che si stabilisca il sistema di accertamento di questa idoneità e il momento in cui deve essere fatto.

TAVIANI propone che l’articolo sia messo in votazione per divisione.

PRESIDENTE consente a mettere ai voti l’articolo punto per punto. Pone ai voti il primo punto: «L’istruzione è un bene sociale».

(È approvato).

Dà lettura del secondo punto: «È dovere dello Stato di organizzare l’istruzione di qualsiasi grado, in modo che tutti i capaci possano usufruire di essa».

DOMINEDÒ pensa che l’espressione «capaci» non sia la più opportuna, trattandosi di un termine che giuridicamente assume una significazione tecnica. Converrebbe un’espressione che rivesta una maggiore duttilità e concretezza insieme: ad esempio si potrebbe dire «idonei».

PRESIDENTE osserva che si parla di istruzione di qualsiasi grado, ma poi nell’articolo si accenna solo a quella elementare e a quella superiore; dell’istruzione media non si fa cenno.

GIUA, Relatore, risponde che qui è stata usata l’espressione «qualsiasi grado», ma forse sarebbe meglio dire media e superiore.

MARINARO osserva che quando si parla di un’istruzione superiore si intende riferirsi all’Università.

PRESIDENTE dice che nella relazione Moro è detto «medio e universitario» e il requisito della capacità è richiesto anche per il liceo e l’istituto tecnico.

MOLÈ trova chiaro che il Relatore intende riferirsi alle scuole di grado superiore a quella elementare. Se poi si volesse tener conto delle denominazioni attuali, non si dovrebbe dire solo scuole medie, ma anche tecniche, professionali. Occorre però badare, modificando la terminologia, di non alterare anche il concetto.

PRESIDENTE aggiunge che alle volte accade che la capacità si riveli in alcuni più tardi che in altri.

TAVIANI, poiché vi è accordo sul secondo e terzo punto, chiede che siano messi ai voti per passare poi alla discussione del quarto, dove si tratterà di stabilire se si intende parlare della frequenza nelle scuole di grado superiore alle elementari o a quella di grado superiore che è l’Università.

PRESIDENTE pone ai voti il secondo punto con l’eliminazione della preposizione «di» e la sostituzione della parola «idonei» a «capaci».

«È dovere dello Stato organizzare l’istruzione di qual siasi grado, in modo che tutti gli idonei possano usufruire di essa».

(È approvato).

MOLÈ al terzo punto propone che si dica «L’insegnamento primario elementare è gratuito e obbligatorio per tutti».

(È approvato).

DOMINEDÒ sul quarto punto, si associa alla proposta dell’onorevole Molè che si precisino i limiti e si determini che cosa debba intendersi per gradi superiori. Secondo lui il problema andrebbe circoscritto nei confronti dell’insegnamento universitario.

GIUA, Relatore, aggiungerebbe anche il liceo classico.

DOMINEDÒ osserva che, indipendentemente da ciò, considerata la grande delicatezza della norma, ne andrebbe ben precisato il significato. Quando si dice «è permesso ai soli idonei» o si fa una affermazione generica che non dice nulla perché l’idoneità giuridicamente sta nel fatto di avere conseguito il titolo idoneo per l’ammissione agli studi superiori, ovvero s’intende dire qualcosa di nuovo per affrontare il problema dell’inflazione dei titoli universitari, e ciò va chiarito.

Usciti dal periodo bellico si tende già verso una ripresa degli studi: si tratta di stabilire se in sede di Costituzione convenga sancire qualche norma organica in vista di rinvigorire il tono dell’insegnamento superiore. Si dovranno forse contemplare, oltre al titolo di ammissione all’Università, ulteriori requisiti di idoneità? Nell’ordinamento vigente qualche precedente esiste: per l’ammissione alle facoltà di magistero si richiede un esame specifico oltre il diploma magistrale; qualche cosa di simile è stato proposto per le facoltà di economia. Converrà che queste od altre norme siano previste nei confronti di altre facoltà, in sede di riforma universitaria? Sembrerebbe allora opportuno che in sede di Costituzione questa esigenza sia prospettata, pur genericamente.

Si potrebbe dire: «L’istruzione superiore deve essere di regola, ecc.».

MERLIN ANGELINA ricorda che quando si discusse sulla relazione Giua, essa aveva già prospettato quanto ha detto oggi l’onorevole Dominedò, anzi aveva citato quanto fa l’Università cattolica per la scuola di magistero. Ritiene però che questo accertamento andrebbe fatto prima dell’ammissione al liceo. Molti che arrestano i loro studi alla licenza liceale trovano impedimenti ad occupare impieghi che invece sono facilmente ricoperti da coloro che hanno frequentato le scuole di avviamento, perché c’è il pregiudizio che i licenziati dal liceo siano incapaci nella vita pratica. Quindi sarebbe del parere che alla Università si dovesse accedere con la licenza liceale, e che a frequentare il liceo fossero ammessi i giovani che dimostrassero una vera capacità; quindi l’accertamento andrebbe fatto all’ingresso al liceo.

TAVIANI accetta il concetto esposto dal Relatore, ma non farebbe tante specificazioni. Se si vuole che gli idonei, anche se di classi povere, possano salire ai gradi superiori della cultura, è indispensabile eliminare gli agiati che vanno avanti solo per mezzo di raccomandazioni; ma non gli pare che questa sia materia di Costituzione, sarà materia di riforma scolastica.

MOLÈ propone di modificare la dizione. Il problema posto dall’onorevole Dominedò preoccupa quanti si interessano di questioni scolastiche. Ci sono degli incapaci che giungono ai gradi superiori, ma qui subentra la responsabilità dei professori, perché attraverso la loro valutazione dovrebbe aversi la soluzione. Questa inflazione di laureati provoca anche la mortificazione dei migliori.

Stabilire il modo di accertare l’idoneità è un problema difficile; normalmente dovrebbe bastare la valutazione dei professori che hanno la possibilità di seguire, durante il corso, i loro discepoli e di esserne i migliori giudici. Fondarsi su un solo esame può, come avviene nei concorsi, non essere sufficiente a giudicare della idoneità. Accetta il concetto del Relatore, ma lo vorrebbe rendere meno drastico. Si potrebbe dire: «L’insegnamento primario è gratuito e obbligatorio per tutti; le scuole di grado superiore sono accessibili a coloro che si dimostrino idonei».

Il modo come accertare l’idoneità dovrebbe formare oggetto di legge o di regolamento.

Chiede poi perché negare la possibilità di studiare a coloro che ne hanno voglia, quando non costituisca onere per lo Stato.

FEDERICI MARTA, Correlatrice, si associa.

GIUA, Relatore, insiste nella sua dizione e anche nel mantenimento di «capacità» in luogo di «idoneità», perché parlare di idoneità sminuirebbe il concetto.

Contentandosi di un’affermazione generica, come ha proposto l’onorevole Molè, non si influirebbe né sul legislatore, né sulla psicologia degli insegnanti.

È necessario lasciare nella Costituzione questa affermazione per fissare le direttive del legislatore, e insiste perché, se non si vuol fare una cosa astratta, occorre preoccuparsi della legislazione futura. L’affermazione è drastica, ma non si debbono avere le preoccupazioni dell’onorevole Marinaro, se si vuol giungere alla auspicata riforma scolastica delle Università e delle scuole di grado superiore, quali il Liceo. Ha usato l’espressione: «la frequenza» e non l’altra «l’accesso» perché l’insegnante deve avere la possibilità di escludere chi non si dimostra capace anche durante il periodo delle lezioni.

Ricorda che la scuola di ingegneria consta di due bienni, ed è stato merito del Colonnetti, direttore del Politecnico di Torino, di avere ottenuto una notevolissima riduzione del numero degli iscritti, avendo stabilito esami molto rigorosi per il passaggio dal primo al secondo biennio; così rigorosi che gli studenti preferivano recarsi a sostenere quell’esame a Milano, dove pure la scuola, sotto il Colombo, era retta molto rigidamente

MOLÈ osserva che si tratta, in definitiva, di materia regolamentare.

GIUA, Relatore, sostiene che il legislatore e gli stessi insegnanti debbono vedere affermato nella Costituzione il principio che la frequenza alle scuole superiori è permessa ai soli capaci. La norma ha funzione giuridica e psicologica, perché formativa del carattere degli insegnanti degli allievi. Una volta riconosciuto che il Liceo classico è aperto solo a chi ha una determinata formazione mentale, e l’Università deve essere frequentata solo dai capaci, non sarà impedita l’esplicazione di altre energie; ognuno potrà scegliere il più adatto per lui dei tanti tipi di scuola.

La laurea non è il titolo che permette sempre di raggiungere le maggiori retribuzioni; è il titolo che deve essere ambito da chi alla quantità preferisce la qualità della retribuzione. Un professore universitario non è sempre meglio retribuito di un capo officina.

MOLÈ ripete che la delicatezza della disposizione sta nello stabilire il modo di accertare la capacità. Egli direbbe: «Le scuole di grado superiore sono accessibili solo a coloro che ne risultino capaci».

PRESIDENTE chiede al Relatore se non riscontra disarmonia fra questi punti dell’articolo e l’articolo primo, dove è affermato che ogni cittadino ha il dovere e il diritto di lavorare conformemente alle proprie possibilità e scelta. Espone anche un altro dubbio: ci può essere qualcuno che voglia accedere alle scuole di grado superiore solo per accrescere il suo patrimonio intellettuale. Poiché non siamo in regime socialista, ma in regime borghese, possiamo impedirgli di raggiungere questa aspirazione?

Quello che più preme è di evitare che accedano alle professioni libere persone che non ne sono capaci, con danno di quelli che sono capaci, e che si determini quella inflazione di professionisti che ha prodotto tanti guai. Sarebbe forse meglio raggiunto lo scopo accertando la capacità prima di iniziare l’esercizio della professione.

TAVIANI obietta che in questo modo si creerebbero degli spostati.

MARINARO precisa il suo pensiero. È pienamente d’accordo col Relatore sui principî generali, ma si preoccupa del modo e del momento più adatti per fare l’accertamento della capacità. Non è d’accordo con l’onorevole Molè, quando dice che questo può formare oggetto di legge o di regolamento. Domani un Ministro, o un direttore generale della pubblica istruzione, può emanare un regolamento in cui si dica: ai sensi dello Statuto l’accertamento della capacità deve essere fatto in questo modo. Sarebbe un’arma pericolosissima nelle mani della burocrazia e degli uomini politici. Quindi riafferma il concetto che le Università vanno aperte ai capaci e invita i colleghi a studiare una formula idonea ad accertare il modo e il momento della indagine.

DOMINEDÒ chiede che si abbandoni una formula priva di contenuto per conferirvi un significato concreto, sia pur generico.

MOLÈ propone che si dica: «sono accessibili a coloro che ne abbiano la capacità».

DOMINEDÒ direbbe piuttosto «attitudini».

GIUA, Relatore, propone che si dica: «Le scuole di grado superiore sono accessibili a coloro che ne abbiano attitudine».

PRESIDENTE terrebbe presente anche il concetto della frequenza, perché la capacità può rivelarsi anche tardivamente.

COLITTO propone la formula: «Le scuole di gradi superiori sono accessibili a coloro che dimostrino le necessarie attitudini».

PRESIDENTE pone ai voti questa formula.

(È approvata).

PRESIDENTE apre la discussione sull’ultimo punto dell’articolo proposto dallo onorevole Giua, così concepito: «All’istruzione dei ragazzi poveri, che per capacità possano frequentare le scuole di gradi superiori, lo Stato provvede con aiuti materiali».

MOLÈ ritiene che sia meglio mettere al posto del termine: «capacità» la frase «che siano meritevoli».

DOMINEDÒ si associa alla proposta dell’onorevole Molè.

GIUA, Relatore, accetta l’emendamento proposto dall’onorevole Molè e pertanto dichiara che la formulazione dovrebbe essere: «All’istruzione dei poveri, che siano meritevoli di frequentare le scuole di gradi superiori, lo Stato provvede con aiuti materiali».

PRESIDENTE mette ai voti l’ultimo punto dell’articolo nella forma ora proposta dall’onorevole Giua.

(È approvato).

La sedata termina alle 11.15.

Erano presenti: Ghidini, Marinaro, Colitto, Dominedò, Fanfani, Federici Maria, Giua, Merlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Rapelli, Taviani.

Assenti giustificati: Togni, Di Vittorio, Pesenti.

Assenti: Canevari, Lombardo Ivan Matteo, Paratore.

MERCOLEDÌ 18 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

7.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MERCOLEDÌ 18 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia (Seguito della discussione)

Presidente – Merlin Angelina, Relatrice – Molè – Giua – Noce Teresa, Correlatrice – Taviani – Fanfani – Togni – Marinaro – Paratore – Federici Maria, Correlatrice.

La seduta comincia alle 10.35.

Seguito della discussione sulle garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia.

PRESIDENTE pone ai voti il seguente comma, presentato dall’onorevole Fanfani, da aggiungere all’articolo riguardante i diritti al lavoro: «Alla donna lavoratrice sono riconosciuti, nei rapporti di lavoro, gli stessi diritti che spettano ai lavoratori».

(È approvato).

Rileva che, pertanto, l’articolo riguardante i diritti al lavoro rimane così formulato: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità ed alla qualità del lavoro e adeguata alle necessità personali e familiari.

«Alla donna lavoratrice sono riconosciuti, nei rapporti di lavoro, gli stessi diritti che spettano ai lavoratori».

Ricorda che nella precedente seduta è rimasta sospesa la discussione su alcuni articoli riguardanti la famiglia. Un primo articolo, presentato dall’onorevole Colitto, è così formulato: «Lo Stato ha tra i suoi compiti la protezione della maternità, della filiazione legittima ed illegittima, e della famiglia».

Vi è poi un secondo articolo proposto dalla onorevole Federici, così concepito: «Alla famiglia verranno assicurati, con opportune provvidenze, in materia di retribuzione, in fatto di acquisto e conservazione del patrimonio familiare, di tutela della madre e dei figli, di direzione nell’istruzione ed educazione dei propri membri, di previdenza ed assistenza, di ordinamenti finanziari, una difesa ed uno sviluppo consoni al bene della famiglia stessa e dell’intera società».

Un terzo articolo è stato proposto dalla onorevole Noce, così formulato: «La Repubblica riconosce che è interesse nazionale la protezione della maternità e dell’infanzia. Lo Stato italiano garantisce perciò ad ogni donna, qualunque sia la sua posizione sociale e giuridica, la possibilità di procreare in buone condizioni economiche ed igienico-sanitarie, e a tutti i bambini legittimi od illegittimi un minimo di protezione e di cura da parte della società, a cominciare dal momento stesso in cui vengono a farne parte. Istituzioni scolastiche, assistenziali, previdenziali devono tutelare la vita e lo sviluppo di ogni bambino».

Infine, l’onorevole Fanfani, riunendo le proposte delle onorevoli Noce e Federici con quelle fatte dalla onorevole Merlin nella sua relazione, ha proposto il seguente articolo: «La Repubblica Italiana riconosce che è interesse nazionale la protezione della maternità e dell’infanzia. In particolare, le condizioni di lavoro devono consentire il completo adempimento delle funzioni e dei doveri della maternità. Istituzioni previdenziali, assistenziali, scolastiche, create o integrate, ove occorra, dallo Stato, devoto tutelare la vita e lo sviluppo di ogni bambino».

Tenendo conto di tali proposte, ha ritenuto opportuno dare alla prima parte dell’articolo una nuova formulazione la quale, oltre a riassumere i pregi di quelli presentati dalle tre Relatrici, ha quello della brevità. Ne dà lettura: «La Repubblica riconosce che è interesse nazionale la protezione della maternità e dell’infanzia; predispone le istituzioni ed i mezzi valevoli ad assicurare all’infanzia ed alle gestanti, indipendentemente dallo stato civile, le condizioni umane di igiene e di trattamento morale, economico e sanitario».

MERLIN ANGELINA, Relatrice, ritiene che il termine «umane» sia troppo vago.

PRESIDENTE risponde che tale termine presenta una certa elasticità di significato, comprendendo anche il concetto della solidarietà.

Chiarisce poi che la frase dell’articolo proposto dall’onorevole Fanfani: «le condizioni di lavoro devono consentire il pieno adempimento delle funzioni e dei doveri della maternità» va riferita ai bisogni della lavoratrice, specialmente nel delicato periodo che precede e segue il parto.

Ritiene inoltre opportuna l’inversione dell’enunciazione, dicendosi «istituzioni previdenziali, assistenziali, scolastiche» per una maggiore aderenza a quelli che sono i successivi compiti di protezione da parte dello Stato.

L’inciso «integrate, ove occorra, dallo Stato» si riferisce a quelle previdenze di ordine privato che, ove vangano a mancare, debbono essere integrare dallo Stato. Nell’ultima parte preferirebbe usare il termine «fanciullo», piuttosto che «bambino», perché è giusto che l’assistenza non sia limitata soltanto al primo periodo dell’infanzia.

MOLE non concorda col Presidente sul termine «fanciullo», che fa supporre un eccessivo e prolungato intervento da parte dello Stato.

GIUA propone di coordinare la seconda parte dell’articolo presentato dal Presidente con le proposte dello onorevoli Relatrici.

NOCE TERESA, Correlatrice, rileva che la Sottocommissione è d’accordo sui concetti delle proposte; vi è solo divergenza sulla formula da adottare. Per esempio, il Presidente, nella sua proposta, ha usato il termine «gestanti» che si riferisce ad un periodo di tempo troppo limitato, contro l’intenzione stessa del proponente. Preferirebbe il termine «donna», più lato del termine «gestante».

TAVIANI propone l’adozione del termine «madre».

NOCE TERESA, Correlatrice, preferirebbe la dizione «condizioni di procreazione», in quanto il termine «madre» è attributo della donna, anche quando ha una prole già maggiorenne. Pur tuttavia ritiene migliore il termine «donna», col quale si viene a specificare che i mezzi di assistenza non devono essere limitali al solo periodo della gestazione.

Invece di «umane», desidererebbe una dizione più precisa, come, per esempio, «buone condizioni economiche, igieniche e sanitarie».

PRESIDENTE risponde che la parola «umane» ha un significato più ampio: al concetto economico unisce anche quello morale.

MOLÈ rileva che non è necessario fare tante precisazioni. C’è il rischio di promettere quello che poi lo Stato non potrà dare.

NOCE TERESA, Correlatrice, insiste sulla formulazione «buone condizioni economiche, igieniche e sanitarie», spiegando che l’aggettivo buone deve essere inteso in senso relativo e non assoluto, cioè in rapporto al periodo in cui si vive.

MOLÈ osserva che i francesi hanno così formulato i problemi della famiglia nella loro Costituzione: «La Nazione assicura alla famiglia le condizioni necessarie al suo sviluppo; garantisce all’infanzia, alla madre, ai vecchi lavoratori, l’assicurazione materiale, il riposo e lo svago, ecc.», incasellando in una brevissima enunciazione tutto quello che lo Stato può fare in una determinata epoca.

GIUA osserva che anche queste sono affermazioni astratte.

PRESIDENTE dichiara di essere convinto della necessità di non usare parole limitative, e appunto perciò ha usato il termine «umane», che gli sembra più comprensivo.

MOLÈ concorda con l’onorevole Presidente, perché «trattamento umano» è una frase che permette di fare tutto il bene possibile.

NOCE TERESA, Correlatrice, non è contraria all’adozione del termine «umane», purché si metta in luce il fattore economico, che ha oggi un’importanza non indifferente.

PRESIDENTE propone di dire «condizioni umane con trattamento economico ed igienico adeguato».

NOCE TERESA, Correlatrice, preferirebbe la formula: «condizioni umane con un trattamento economico». Ricorda all’onorevole Presidente che le condizioni odierne in materia di maternità e di infanzia sono tutt’altro che umane, appunto perché mancano le basi economiche. Per quanto riguarda l’ultima parte «istituzioni previdenziali, assistenziali, scolastiche, create o integrate, ove occorra, dallo Stato, devono tutelare la vita e lo sviluppo del fanciullo», toglierebbe l’inciso «create o integrate dallo Stato» che ritiene pleonastico.

PRESIDENTE ritiene opportuna l’aggiunta della parola «create», non ritenendo sufficiente dire integrate dallo Stato. Manterrebbe poi tutto l’inciso, perché vi possono essere previdenze assistenziali che, effettuate da privati, non provengono dallo Stato e non sarebbe ragionevole impedire all’iniziativa privata di venire in aiuto della donna e del neonato.

NOCE TERESA, Correlatrice, pensa che lo Stato deve creare quello che non c’è. Se nella Costituzione si riconosce che esiste già qualche cosa, si diminuisce la necessità dell’intervento statale. Del resto quello che già esiste a questo riguardo è così poco che, consacrarlo nella Costituzione, sarebbe un non senso.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, in merito alle relazioni delle onorevoli Federici e Noce, osserva che lo specificare troppo finirà per limitare in futuro lo sviluppo della previdenza, come pure non si deve promettere per il momento ciò che non si può mantenere. Perciò le sue proposte non erano vaghe, ma più concise, e lasciavano adito ad interpretazioni e manifestazioni assistenziali reali, tanto per il presente che per il futuro. Insiste pertanto perché venga accolto il suo articolo, o quello dell’onorevole Fanfani, che al suo si inspira.

PRESIDENTE ritiene che una Carta costituzionale non debba lasciare una libertà assoluta per la futura legislazione, ma dare direttive, non registrare solamente il passato; provvedere insomma anche per l’avvenire con indirizzo democratico.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, non trova necessario usare molte parole; ad esempio non si dovrebbe parlare di condizioni di igiene.

PRESIDENTE spiega che con le parole «di igiene» comprendesi anche la previdenza sanitaria.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, pensa che la parola «umane» sia più comprensiva: previdenze igieniche e sanitarie sono cose diverse. Volendo poi specificare, andrebbe considerata anche la parte assistenziale ed educativa.

FANFANI, riferendosi a quanto hanno detto le onorevoli Merlin, Noce e il Presidente, constata che la prima parte dell’articolo con le modificazioni proposte dal Presidente trova l’unanime consenso della Sottocommissione. Lo stesso dicasi dell’ultima parte che dice: «Istituzioni previdenziali, assistenziali e scolastiche, create o integrate, ove occorre, dallo Stato, devono tutelare la vita e lo sviluppo di ogni fanciullo». La discussione verte quindi sulla parte centrale dell’articolo. Al fine di trovare una soluzione, propone o di riprendere in esame l’articolo che era stato da lui presentato e che si inspirava alla precedente formulazione della onorevole Merlin, e che diceva: «In particolare, le condizioni di lavoro debbono consentire il completo adempimento della funzione e dei doveri della maternità»; oppure, per prendere in considerazione le particolari condizioni della maternità e cioè i periodi di gestazione e di allattamento, manipolare diversamente questa parte centrale, oppure includere un accenno alla madre dove si parla di istituzioni scolastiche, assistenziali, ecc. Aggiunge che anche qui vanno tenuti presenti, per ragioni di proporzioni e di armonia, i criteri finora seguiti, di fare cioè una enunciazione delle direttive di massima, senza scendere ai particolari. L’articolo va formulato con il minor numero di parole, ma bene appropriate, che non costringano a tutte le specificazioni richieste dalla signora Noce.

TOGNI, riferendosi all’articolo proposto dalla onorevole Merlin, non trova opportuno parlare di una previdenza da estendersi a qualsiasi madre e a qualsiasi bambino, sia legittimo che illegittimo; in quanto la norma potrebbe sembrare in sostanza un incoraggiamento alla formazione della famiglia illegittima;

FANFANI si associa al rilievo fatto dall’onorevole Togni.

PRESIDENTE dicendo «indipendentemente dallo stato civile» intende riferirsi tanto alla gestante che al bambino. E poiché ci si riferisce a neonati, ritiene che tutti debbano essere posti sullo stesso piano, qualunque sia il loro stato civile, e ciò a prescindere da quelle che possono essere le idee morali e religiose di ciascuno.

TOGNI rileva che sostanzialmente ci deve essere una parità di trattamento. Col termine generico di «gestanti e neonati» non si esclude nessuno, mentre con l’inciso si dà l’impressione di voler sottolineare una azione che dovrebbe essere eccezionale. Pertanto il figlio illegittimo deve essere tutelato per un sentimento di solidarietà umana, ma non si deve cercare di svalutare il rapporto legittimo, mettendolo ufficialmente e legalmente sullo stesso piano dell’illegittimo.

PRESIDENTE obietta che quando si emana una disposizione di legge, perché il significato ne sia preciso e presente alla coscienza di chi dovrà interpretarla, occorre riferirsi alla situazione di fatto nella quale è sorta. Sta di fatto che oggi, nei rapporti di diritto privato, il figlio illegittimo ha un trattamento diverso da quello del figlio legittimo.

TAVIANI ritiene che la semplice dizione «ogni bambino e ogni gestante» sia sufficiente.

NOCE TERESA, Correlatrice, osserva che è giusto non formulare articoli che contengano eccessive specificazioni, ma bisogna anche tener presente la necessità, già esposta dall’onorevole Presidente, di dare precise direttive per la legislazione che dovrà conformarsi alla Carta costituzionale. Non è del parere della onorevole Merlin di dare una troppo ampia libertà al legislatore, in quanto la Carta costituzionale deve segnare un preciso indirizzo democratico e avere un’impronta di progresso.

Per quanto riguarda la preoccupazione manifestata dall’onorevole Togni, pur riconoscendola giusta, non la ritiene adeguata al caso in questione, in quanto con la dizione usata si è inteso proteggere tutte le gestanti, per il solo fatto di essere gestanti, qualunque sia la loro situazione sociale e giuridica; intendendo come situazione giuridica lo stato civile, e col termine «sociale» soprattutto la situazione economica. Per quanto riguarda i bambini, ritiene che la Sottocommissione sarà d’accordo che, legittimi o illegittimi, tutti hanno diritto ad un minimo di protezione e di cure. Vi sono disposizioni speciali per le madri nubili, ma spesso molte di queste madri, poco dopo aver data alla luce il figlio, lo abbandonano e lo Stato non se ne occupa. Con la nuova Costituzione va affermato che lo Stato deve intervenire anche in questo campo, dove attualmente le previdenze sono molto scarse, con un minimo di protezione. Si eviterà così che la prole abbandonata a se stessa vada ad alimentare il vizio e la delinquenza. Tale affermazione di principio non vuol dire, però, la parificazione in tutti i diritti della prole legittima a quella illegittima.

TOGNI insiste sui concetti già espressi. Il termine di «gestanti e bambini» è sufficiente per chiarire che la protezione va estesa a tutti, mentre l’inclusione dell’inciso può dare l’impressione che si voglia sottolineare una parità di trattamento nei due casi, che non è nell’intenzione della Sottocommissione e che svaluterebbe il principio della legittimità.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, per quanto riguarda l’osservazione fatta dall’onorevole Togni, fa rilevare che nella relazione da lei presentata è detto che «nessuna differenza è fatta qui, come, è ovvio, fra figli illegittimi e legittimi, anticipazione di quella giusta riforma che avrà la sua sede nel Codice civile, tendente all’equiparazione di diritti ad ogni effetto delle due categorie di esseri che uguali diritti hanno alla vita». Insiste pertanto per la dizione dell’articolo proposto d’accordo con l’onorevole Fanfani, così formulato: «La Repubblica Italiana riconosce che è interesse nazionale la protezione della maternità e dell’infanzia. In particolare le condizioni di lavoro devono consentire il completo adempimento della funzione e dei doveri della maternità. Istituzioni scolastiche, assistenziali e previdenziali, create o integrate, ove occorra, dallo Stato, devono tutelare la vita e lo sviluppo di ogni bambino».

GIUA propone che alla fine dell’articolo si dica: «ogni fanciullo legittimo o illegittimo».

NOCE TERESA, Correlatrice, rileva che nell’articolo proposto dalla onorevole Merlin mancano tutte le specificazioni incluse nella seconda parte dell’articolo dell’onorevole Ghidini, che erano considerate nell’articolo da lei formulato.

PRESIDENTE porrà in votazione i due articoli che riassumono le due tendenze in discussione, uno suo e della onorevole Noce e quello delle onorevoli Federici e Merlin.

Dà quindi lettura dell’articolo nella seguente forma proposta da lui e dalla onorevole Noce: «La Repubblica riconosce che è interesse nazionale la protezione della maternità e dell’infanzia; predispone le istituzioni e i mezzi valevoli ad assicurare ad ogni madre e ad ogni bambino, indipendentemente dal loro stato civile, condizioni umane di trattamento economico e sanitario. Istituzioni previdenziali, assistenziali e scolastiche, create o integrate dallo Stato, devono tutelare la vita e lo sviluppo di ogni fanciullo».

Legge quindi l’articolo presentato dalle onorevoli Merlin e Federici, così concepito:

«La Repubblica riconosce che è interesse sociale la protezione della maternità e dell’infanzia. In particolare, le condizioni di lavoro devono consentire il completo adempimento delle funzioni e dei doveri della maternità. Istituzioni previdenziali, assistenziali e scolastiche, predisposte o integrate, ove occorra, dallo Stato, devono tutelare ogni madre e la vita e lo sviluppo di ogni fanciullo».

MARINARO dichiara che voterà l’articolo proposto dalle onorevoli Merlin e Federici, in quanto quello degli onorevoli Ghidini e Noce prevede la predisposizione dei mezzi da parte dello Stato, concetto che non può essere approvato, perché troppo impegnativo per lo Stato stesso. Sugli altri concetti, ritiene che sostanzialmente le due proposte collimino; tuttavia l’articolo presentato dalle onorevoli Merlin e Federici ha il pregio di una maggiore snellezza e semplicità, pur non trascurando tutto quello che è previsto nella proposta Ghidini-Noce.

PRESIDENTE non può condividere la preoccupazione dell’onorevole Marinaro. L’affermare un diritto non esclude che non possa essere messo in atto per ragioni economiche; ciò non toglie che l’affermazione vada fatta per incitare lo Stato a predisporre i mezzi.

FANFANI parla per dichiarazione di voto. Osserva che nell’articolo formulato dalle onorevoli Merlin e Federici non manca l’impegno per lo Stato a predisporre i mezzi per la protezione della maternità, in quanto le istituzioni sono i mezzi adeguati a proteggere sufficientemente ogni madre ed è ovvio che tale protezione non si limiterà al periodo di gestazione, ma si estenderà ad un congruo periodo di tempo, e non soltanto alle minime necessità. Dichiara che darà voto contrario alla proposta Ghidini-Noce, pur riconoscendo che i concetti sono gli stessi.

PARATORE si associa a quanto ha detto l’onorevole Fanfani. Nella formulazione Merlin-Federici preferirebbe il termine «nazionale» a quello «sociale», in quanto il problema dell’assistenza interessa la Nazione. Non trova felice l’espressione «mezzi valevoli», contenuta nell’articolo Noce-Ghidini, che può limitare il campo all’intervento dello Stato in materia di assistenza della maternità.

Dichiara quindi che voterà l’ordine del giorno Federici-Merlin.

TAVIANI, preso atto che è stato tolto l’inciso riguardante i figli legittimi ed illegittimi, rileva che fra i due ordini del giorno non vi sono differenze sostanziali. Voterà per quello Federici-Merlin, in quanto lo ritiene più efficace e più snello nella formulazione.

PRESIDENTE pone ai voli l’articolo da lui proposto in accordo con la onorevole Noce.

(Non è approvato).

Pone ai voti l’articolo proposto dalle onorevoli Merlin e Federici.

(È approvato).

PRESIDENTE apre la discussione sulla proposta dell’articolo della onorevole Federici così formulato: «Alla famiglia verranno assicurate, con opportune provvidenze in materia di retribuzione, in fatto di acquisto e conservazione del patrimonio familiare, di tutela della madre e dei figli, di direzione nella istruzione dei propri membri, di previdenza ed assistenza, di ordinamenti finanziari, una difesa e uno sviluppo consoni al bene della famiglia stessa e dell’intera società».

FEDERICI MARIA, Correlatrice, ritiene che, dopo aver illustrato il concetto che la maternità e l’infanzia riguardano la famiglia, restano da considerare i casi in cui esse si trovano fuori dall’ordinamento giuridico e tradizionale della famiglia. Ha quindi pensato di trasferire questa materia, come anche quanto riguarda le condizioni di lavoro e le istituzioni assistenziali, previdenziali e scolastiche, in un articolo a parte. L’argomento sul quale doveva riferire è l’assistenza alla famiglia. L’articolo votato precedentemente si deve considerare come un coordinamento tra quanto è stato discusso in sede di assistenza e in tema di lavoro, pur non riguardando entrambi la famiglia come tale: la relazione da lei presentata riguarda invece la famiglia intesa come tale, pur tenendo presente anche il problema dell’infanzia e della maternità, per le previdenze che le spettano di diritto.

La famiglia è la base della società, secondo il nostro ordinamento sociale, ed è una istituzione naturale con diritti inalienabili (da alcuni anzi le si riconosce un’origine divina), per i quali occorrono delle garanzie. La famiglia ha dei fini naturali, individuali, sociali da raggiungere, che vanno tenuti presenti nel determinare le garanzie. Lo Stato deve assicurare una tutela ed uno sviluppo alla famiglia; e tutte le Costituzioni, ad eccezione di quella russa, dove, in nessun capitolo, si parla della famiglia, stabiliscono che lo Stato deve queste garanzie. Perfino la Costituzione francese del 1848 riconosce che la famiglia è la base della Repubblica e quindi lo Stato deve ad essa una speciale protezione.

MOLÈ chiede che cosa garantiva questa Costituzione alla famiglia.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, risponde che la riconosceva come base della Repubblica.

PRESIDENTE, sull’articolo proposto dalla onorevole Federici, osserva che diversi elementi in esso contenuti sono già stati trattati, o lo saranno, in altri temi. Infatti, del patrimonio familiare si parla nella relazione dell’onorevole Fanfani, dove si tratta della proprietà. Del tema della madre e dei figli si tratta in altri punti, ed in particolare nella relazione dell’onorevole Giua. Previdenza ed assistenza formano oggetto di temi speciali; quindi, a suo parere, l’articolo andrebbe ridotto al minimo. Trova perspicua la formulazione contenuta nel progetto francese, che dice: «La Nazione assicura all’individuo e alla famiglia le condizioni necessarie al loro sviluppo». Propone di limitare la disposizione ad un’enunciazione analoga. Si potrebbe quindi semplicemente dire che lo Stato ha l’obbligo di conseguire il migliore sviluppo della famiglia.

TAVIANI si associa a quanto ha detto il Presidente. Tutto quello che è esposto nell’articolo in esame corrisponde al suo pensiero; ma non ritiene però necessario che tali concetti appaiano nell’articolo proposto, in quanto, in materia di retribuzione è stato già votato l’articolo proposto dall’onorevole Fanfani che riguarda espressamente il salario familiare. Il problema dell’acquisto e della conservazione del patrimonio familiare dovrà essere esaminato insieme a quello della proprietà; e lo stesso si deve dire per quello che riguarda l’istruzione è l’educazione, a meno che l’onorevole Giua non rinunci a farne espressamente oggetto della sua relazione.

MOLÈ ritiene che debba essere l’onorevole Giua a trattare l’argomento.

FANFANI fa presente che nel trattare della questione della previdenza e dell’assistenza non si è fatto riferimento alla famiglia, mentre esiste una differenza fra l’assistenza concessa all’individuo e quella concessa alla famiglia.

TAVIANI, concordando con l’onorevole Fanfani, ritiene che una specificazione in materia, o negli articoli riguardanti l’assistenza,

o in quello in esame sia necessaria. L’ultima parte dell’articolo, riguardante lo sviluppo della famiglia, si ricollega a quanto era stato posto in rilievo nella relazione dell’onorevole Noce; non sa se questa voglia insistere su tali dettagli, ma vi sono elementi che vanno tenuti presenti nell’espressione che sancisce il dovere da parte dello Stato di fare qualche cosa di più per la famiglia. Così, per esempio, nella relazione presentata dall’onorevole Corsanego, all’articolo 5 si dice che lo Stato prenderà appropriale misure per facilitare ai meno abbienti la formazione di una famiglia. Chiede che ci sia, o in questo articolo od in una aggiunta, una definizione che consideri le esigenze della famiglia in fatto di assistenza, di previdenza e di sviluppo.

PRESIDENTE, dato che nell’articolo proposto si parla di un libero sviluppo della famiglia, ritiene necessario aggiungere un accenno alla libera costituzione della famiglia stessa, in quanto vi sono oggi delle leggi che hanno decretato degli impedimenti, quali, ad esempio, quelli di carattere razziale.

MOLÈ ritiene che, con la proposta dell’onorevole Presidente, si invada un campo che non interessa la Sottocommissione, in quanto razza e nazionalità sono già considerate nella dichiarazione dei diritti dell’uomo. Osserva piuttosto che nella relazione della onorevole Federici si parla della proprietà familiare ed in particolare della casa e dei poderi, senza specificare come deve essere intesa questa proprietà di famiglia. Poiché ritiene che l’argomento sia di difficile soluzione, è del parere di non farne cenno nella Carta costituzionale, in quanto basta l’affermazione della tutela e dello sviluppo della famiglia.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, dichiara di non aver nulla in contrario a sopprimere la parte cui ha accennato l’onorevole Molè.

MARINARO propone che l’articolo proposto dalla onorevole Federici sia così emendato: «Lo Stato assicura alla famiglia una difesa ed uno sviluppo consoni alle sue finalità ed al bene sociale della Nazione».

NOCE TERESA, Correlatrice, dichiara di aver rinunciato all’articolo da lei formulato sulla famiglia, per le obiezioni mossegli dai colleghi, ripromettendosi tuttavia di far entrare in un altro articolo i suoi concetti, tendenti ad abolire ogni ostacolo alla formazione della famiglia e a consentire che essa non venga divisa per ragioni di impiego. Aveva soprasseduto nella sua proposta, in quanto si era convinta che il problema riguardasse più strettamente la prima Sottocommissione, che si interessa dei diritti del cittadino; ma deve ora dichiarare che se la discussione viene riportata su tale punto, insisterà per l’accoglimento della sua proposta.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, si associa a quanto ha detto la onorevole Noce. Anch’essa aveva rinunciato a parlare dell’esistenza della famiglia, e, pertanto, propone che la onorevole Federici ritiri la sua proposta, in quanto la materia non è di competenza della terza Sottocommissione.

MOLÈ si associa a quanto ha dichiarato la onorevole Merlin, ritenendo che la considerazione della famiglia, come ente giuridico morale, sia di pertinenza della prima Sottocommissione. Il compito della terza Sottocommissione è solo quello di enunciare indirizzi di ordine generale nel campo economico-sociale, senza sconfinare in altri settori.

PRESIDENTE ritiene che, essendo la Sottocommissione in sostanza d’accordo, la questione verte sul fatto di trovare una formula che accontenti le diverse esigenze. È del parere che l’articolo debba essere lapidario, sommamente conciso, dato che quasi tutti i concetti sono contenuti in altri articoli.

TAVIANI potrebbe essere d’accordo con l’onorevole Molè di non trattare nessuno dei casi specifici, ma allora non si dovrebbero neppure conservare gli articoli sull’assistenza, dato che molte Costituzioni non ne parlano. Essendo entrati nell’ordine di idee di formare articoli brevi e concisi, che specifichino però alcuni problemi, ritiene che quando nella Costituzione si parla di assistenza dell’individuo sia necessario anche accennare a quella della famiglia, ad evitare, per esempio, che il Governo possa, se crede, compiere delle trasmigrazioni in massa di persone da una regione all’altra, senza tener conto delle necessità delle famiglie.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, fa notare che tutto il lavoro svolto dalla Sottocommissione sarà riveduto in sede di coordinamento ed allora sarà forse possibile raggruppare taluni articoli, mentre altri saranno tolti perché di materia già contenuta in quelli approvati dalle altre Sottocommissioni. Ritiene pertanto che compito della Sottocommissione sia quello di esaurire gli argomenti che è stata incaricata di studiare; fra questi vi è la garanzia economico-sociale per l’assistenza della famiglia. Dato che negli altri argomenti, finora esaminati, è sempre stato tenuto conto dell’individuo, è necessario che venga presa ora in esame la famiglia e che sia affermato che essa ha bisogno di garanzie, che non sempre sono le stesse dell’individuo. In considerazione di ciò si era preoccupata di mettere a fuoco, nell’articolo proposto, le garanzie di ordine economico-sociale che si debbono dare alla famiglia. Ma, dato che molti punti sono contenuti in altre relazioni, propone di ridurre l’articolo alla seguente affermazione: «Alla famiglia spetta una difesa ed uno sviluppo».

MOLÈ rileva che nella Costituzione francese le affermazioni contenute nel preambolo non sono ripetute nella parte riguardante le garanzie economico-sociali. Ritiene che l’articolo sia superfluo e da non approvare, poiché è implicito che la famiglia dovrà essere protetta e difesa dallo Stato, in quanto base dello Stato stesso.

PRESIDENTE dichiara che metterà ai voti la proposta dell’onorevole Molè di non approvare l’articolo e successivamente l’articolo della onorevole Federici e infine quello dell’onorevole Marinaro.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, fa presente che la Sottocommissione non raggiunge il numero legale.

PRESIDENTE, prendendo atto del rilievo della onorevole Federici, rinvia a domani giovedì 19 settembre il seguito della discussione.

La seduta termina alle 13.

Erano presenti: Colitto, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Lombardo, Marinaro, Merlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Paratore, Rapelli, Taviani, Togni.

Assenti giustificati: Di Vittorio, Pesenti.

Assente: Dominedò.

VENERDÌ 13 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

6.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI VENERDÌ 13 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

 

INDICE

Garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia (Discussione)

Merlin Angelina, Relatrice – Molè – Fanfani – Presidente – Federici Maria, Correlatrice – Noce Teresa, Correlatrice – Colitto.

La seduta comincia alle 15.25.

Discussione sulle garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, dichiara di non aver nulla da aggiungere a quanto ha esposto nella sua relazione e che si riassume nei tre articoli proposti.

Il primo articolo afferma il principio che si devono dare garanzie economico-sociali all’individuo perché, se in un certo momento della sua vita volesse formarsi una famiglia, non si trovi ostacolato dalle sue condizioni economiche. Ha già in precedenza dichiarato che a questo primo articolo avrebbe rinunciato se tale principio fosse stato accolto in altra parte della Costituzione.

In questo primo articolo aveva anche affermato il diritto dell’individuo al minimo necessario per l’esistenza, e precisamente agli alimenti, agli indumenti, all’abitazione e all’assistenza sanitaria anche per la famiglia; ma l’affermazione di questi principî e di questi diritti per la famiglia non significa che coloro che non si sono voluti o non hanno potuto costituire una famiglia ne siano privati.

In ordine al secondo articolo, nel quale si parla dei diritti riconosciuti alla donna e si afferma il concetto dell’uguaglianza dei diritti della donna nei confronti dell’uomo, osserva che nessuna differenza deve essere fatta tra gli individui dell’uno e dell’altro sesso. Non sa se questo concetto sia affermato anche in altra parte della Costituzione; comunque ritiene che non sia male ribadirlo anche in questa sede, perché la donna ha un’importanza decisiva nella formazione della famiglia. Una donna, anche se non sia sposata, se ha dei figli potrà ugualmente costituire la propria famiglia.

La donna, sotto questo aspetto, è la creatura più importante, l’essere intorno al quale si forma il nucleo familiare.

MOLÈ osserva che partendo da tale concetto si finirà col tornare al matriarcato.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, riconosce che nella storia millenaria della civiltà umana si è passati attraverso il periodo del matriarcato; ma ciò non vuol dire che vi si debba ora ritornare. Se si dovesse tornare indietro dovremmo disperare di quella che è la perfettibilità umana. Non si può negare, allo stato odierno dei fatti, che ci sono famiglie costituite intorno alla donna, perciò è necessario stabilire quali ne siano i diritti.

Osserva poi che il riconoscimento della funzione sociale della maternità non interessa solo la donna, o l’uomo, o la famiglia, interessa tutta la società. Proteggere la madre significa proteggere la società alla sua radice, poiché intorno alla madre si costituisce la famiglia e, attraverso la madre, si garantisce l’avvenire della società. Di qui la necessità di istituzioni assistenziali e previdenziali, delle quali tratta l’articolo 3.

Osserva, in proposito, che non intende mettere tutte queste istituzioni a carico dello Stato; può anche darsi che attraverso altri enti si possa esercitare questa assistenza.

Affermato il principio della protezione della madre, saranno tutelati anche i figli, compresi gli illegittimi, i quali, per il solo fatto di essere nati, hanno diritto alla vita.

Ritiene che, senza arrivare ad una esplicita dichiarazione del genere nella Costituzione, si debba garantire la vita di tutti i bambini, siano essi legittimi che illegittimi.

Quanto alle norme giuridiche riguardanti gli illegittimi, provvederà il codice.

FANFANI osserva che nessuno intende porre in una condizione giuridica di inferiorità i figli di ignoti.

PRESIDENTE osserva che tale trattamento di inferiorità esiste nella legge vigente. Dal punto di vista giuridico, i figli illegittimi si distinguono in figli naturali, figli incestuosi e figli adulterini. La diversità di condizione giuridica si ripresenta anche nel diritto successorio.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, premette di aver presentato al Presidente il testo di un nuovo articolo che si differenzia in parte da quelli precedentemente formulati. Esso è così concepito:

«Alla famiglia verranno assicurati, con opportune provvidenze in materia di retribuzione, in fatto di accesso alla proprietà, specie della casa, di tutela della madre e dei figli, di istruzione e di educazione, di previdenza e di assistenza, di ordinamento finanziario, una difesa ed uno sviluppo consoni al bene della famiglia stessa e della intera società.

«Alla lavoratrice capo-famiglia sono assicurati i diritti riconosciuti al lavoratore capo-famiglia integrati dalle forme assistenziali predisposte per la tutela della maternità e dell’infanzia».

Aggiunge che se la Commissione lo riterrà opportuno, invece di fare due commi di un unico articolo, si potranno fare due articoli separati.

Per quanto riguarda le garanzie economico-sociali della famiglia ritiene che un articolo sia sufficiente, al massimo due, se si considera il fatto delicato che, oltre ad una famiglia costituita secondo la legge, possono formarsi dei nuclei familiari irregolari, che tuttavia hanno bisogno di garanzie di carattere sociale e giuridico; articolo o articoli nei quali siano considerate le provvidenze da dare in eguale misura agli uni e agli altri.

Ritiene che l’introduzione nel nostro Statuto di un articolo contenente le garanzie economico-sociali, che nelle altre Costituzioni non esiste, si possa giustificare tenendo presente che le nuove Costituzioni si distinguono e si differenziano dalle precedenti perché non considerano più solo l’individuo ed i suoi diritti, ma altri soggetti, tra i quali, la famiglia, alla quale le più recenti Costituzioni si preoccupano di dare garanzie economiche.

Ammessa la necessità di introdurre un articolo contenente garanzie economico-sociali, tale articolo viene necessariamente ad essere riassuntivo di tutte le garanzie già ricordate e che hanno per oggetto la tutela e lo sviluppo della famiglia, in quanto questa è la cellula viva e vitale, che a sua volta, produce altre cellule per costituire il tessuto sociale.

Una volta d’accordo sull’opportunità di fare un solo articolo riguardante le garanzie economico-sociali della famiglia, pensa che sia preferibile cominciare con il vero soggetto, che è appunto la famiglia; invece nelle formulazioni proposte dalle onorevoli Merlin e Noce il concetto di famiglia è scomparso, poiché si parla solo di lavoratrici, di figli, ecc.

Alia famiglia, soggetto dell’articolo, devono assicurarsi provvidenze in materia di retribuzioni – cioè i salari familiari – e di accesso alla proprietà, con particolare riferimento alla casa. L’unico modo per dare una garanzia economica alla famiglia è quello di darle una proprietà, sia pure piccola, in quanto, specie in questo momento, il grave disagio anche morale della nostra società è dovuto in gran parte alla deficienza di abitazioni.

Naturalmente la tutela della madre e dei figli deve essere tenuta presente anche quando la famiglia è irregolare, perché la maternità è una cosa così fondamentale e così delicata che ha bisogno di particolari cure, sia da parte della collettività, sia da parte dello Stato in forma integrativa. È necessario che l’ordinamento finanziario dello Stato permetta di andare incontro alle necessità delle famiglie numerose con sgravi fiscali, tenendo presente il concetto del reddito minimo indispensabile per assicurare la difesa e lo sviluppo della famiglia e, in definitiva, dell’intera società.

È logico che quanto più le famiglie saranno difese e protette da queste provvidenze, tanto più ne uscirà rafforzata la compagine sociale.

Effettivamente la madre è una lavoratrice quando si trova ad essere capo-famiglia, sia per ragioni di vedovanza che per altri motivi; in tal caso la donna ha bisogno di tutte le garanzie riconosciute al lavoratore capo-famiglia, e di tutte le garanzie predisposte per la tutela della maternità ed infanzia, che in questo caso devono assumere un carattere più efficiente che nei confronti della madre la quale vive nella sua famiglia regolare, con l’aiuto e l’appoggio del marito. Vi dovranno perciò essere speciali disposizioni di legge che garantiscano la figura della madre capo-famiglia.

NOCE TERESA, Correlatrice, dichiara che nella sua relazione ha cercato di attenersi innanzi tutto al tema proposto, cioè le garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia, considerando la famiglia in senso molto generale e completo.

È stato ammesso nelle premesse che la Costituzione democratica della Repubblica italiana non possa limitarsi all’affermazione dei diritti, ma deve anche indicare come si intenda garantire il godimento di tali diritti, e pensa che proprio questo sia il lavoro essenziale della Sottocommissione. Lo stesso titolo, che parla di «garanzie», vuol significare che non si devono affermare dei diritti in maniera astratta, ma occorre indicare anche come si dovranno mettere in pratica.

Gli articoli proposti sono tre. Il primo, che riguarda la famiglia dice: «lo Stato protegge la famiglia». Dopo tale affermazione di principio, l’articolo stabilisce in qual modo lo Stato debba dare la garanzia della protezione, ispirandosi alle odierne reali condizioni della famiglia stessa. Oggi in Italia la formazione della famiglia è spesso ostacolata a causa di difficoltà economiche e di impedimenti di ordine giuridico, come, ad esempio, nel caso delle disposizioni che ne subordinano la formazione a certe condizioni; così per gli agenti di polizia, per i carabinieri, per gli ufficiali dell’esercito. Questi impedimenti devono essere eliminati e lo Stato deve intervenire in casi di particolare bisogno.

MOLÈ osserva che allora lo Stato, per permettere di sposare, deve concedere dei prestiti.

NOCE TERESA, Correlatrice, ritiene che, quando ne è richiesto, lo Stato debba agevolare la formazione delle famiglie, principio questo che è messo in pratica in altri paesi, come in Francia, in cui sono concessi i prestiti matrimoniali.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, rileva che i prestiti erano stati adottati anche in Italia, sotto il governo fascista.

NOCE TERESA, Correlatrice, osserva che i mezzi di protezione economica mediante prestiti rispondono ad una situazione di fatto e sono adottati in molti paesi, nei quali non è mai esistito il fascismo. Pensa che la protezione della famiglia per mezzo di prestiti sia uno dei sistemi col quale si può garantire la possibilità della formazione del nucleo familiare a due individui che vogliano sposarsi. Continuando nella formulazione dell’articolo, ha inserito due punti che non sono di carattere economico, ma che hanno il fine di rimuovere ogni ostacolo alla costituzione della famiglia. Infatti, ancor oggi, esistono ostacoli alla libera unione matrimoniale di due individui, come il caso del marito funzionario dello Stato che può essere traslocato da una sede all’altra e la moglie, anch’essa impiegata, soggetta alla stessa eventualità. Ritiene quindi necessario sancire il principio che di tali particolari situazioni si debba tenere conto.

A tal fine l’articolo dovrebbe essere così formulato:

«Lo Stato protegge la famiglia, facilitando la formazione anche con aiuti economici ed abolendo tutte le proibizioni e gli ostacoli riguardanti il matrimonio e la convivenza del nucleo famigliare».

Nel secondo articolo ha voluto tenere conto della situazione reale e di fatto esistente in Italia, ritenendo che la questione della maternità non possa essere separata dalla questione della famiglia e che debba essere affermato, in un articolo a sé della Carta costituzionale, in qual modo lo Stato deve intervenire per tutelare la maternità. Oggi la fraternità è considerata in generale, in Italia, come qualche cosa che riguarda l’individuo, mentre essa rappresenta anche una funzione naturale nobilissima della donna, in quanto provvede alla creazione delle nuove generazioni, le quali non possono non interessare la Nazione tutta, trattandosi dell’avvenire e dell’interesse della collettività. In conclusione, la maternità deve essere considerata come una funzione sociale che interessa tutta la collettività e non soltanto la madre o la famiglia, e lo Stato deve predisporne una tutela e una protezione efficace.

Pensa che tale concetto non possa essere considerato come nuovo, ma come naturale conseguenza della situazione di fatto esistente in Italia. Purtroppo è necessario riconoscere che, da questo punto di vista, l’Italia è molto arretrata rispetto ad altri paesi, e lo dimostrano le statistiche con le loro altissime percentuali di mortalità delle gestanti e di mortalità infantili.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, invita la onorevole Noce a dare le cifre di tali statistiche.

NOCE TERESA, Correlatrice, rileva come sia doloroso, per chi sia stato in Francia, vedere nelle statistiche comparative colà pubblicate la grande differenza che esiste tra la percentuale di mortalità delle gestanti in Italia e in Francia. Perciò si è preoccupata di stabilire nell’articolo 2 alcune garanzie a favore della maternità, cosicché tenendo conto delle obiezioni che sono state fatte nella precedente riunione, l’articolo rimarrebbe così formulato: «La Repubblica italiana riconosce che la maternità è una funzione sociale». Non avrebbe nulla in contrario ad aggiungere «oltre che una funzione naturale» in quanto resterebbe sempre chiaro che è un interesse della collettività nazionale la protezione della maternità.

L’articolo 2 continua: «Lo Stato italiano garantisce ad ogni donna, qualunque sia la sua situazione sociale e giuridica, la possibilità di procreare in buone condizioni economiche, igieniche e sanitarie». Questo per assicurare alle operaie un adeguato periodo di riposo interamente pagato, prima e dopo il parto, istituendo un assegno di gravidanza ed un premio di allattamento e garantendo l’assistenza medica a tutte le gestanti, qualunque sia la loro condizione economica.

Formulato l’articolo 2 si passa al terzo punto, che tratta dell’infanzia. La onorevole Federici ritiene che tale questione non vada trattata in tema di garanzie per la famiglia; a suo parere invece il problema dell’infanzia è strettamente collegato con quello familiare.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, chiarisce di non aver mai detto quanto le attribuisce la onorevole Noce; infatti nella formulazione di uno dei suoi articoli è espressamente detto: «tutela della madre e dei figli».

NOCE TERESA, Correlatrice, si riferisce all’infanzia che, oltre ai figli, comprende anche gli orfani.

Se ci si riporta alla situazione di fatto esistente in Italia, bisogna convenire purtroppo che i bambini non trovano, all’atto della nascita, adeguate assistenze di carattere sanitario. È lo Stato che deve garantire un minimo di protezione e di cure dove non possono arrivare né la famiglia, né l’iniziativa individuale privata.

Con l’articolo tre, partendo sempre dalla situazione di fatto esistente in Italia, ha cercato di concretare la garanzia dello Stato nel modo seguente: «Lo Stato italiano garantisce a tutti i bambini, legittimi ed illegittimi, un minimo di protezione di cure da parte della società, ed a partire dal momento stesso in cui vengono a farne parte, mediante ambulatori e consultori per i lattanti, asili nido, asili scuola, colonie di vacanze, istruzione elementare con corsi di istruzione pre-professionale e professionale».

Ritiene che si dovrebbe insistere nel rendere obbligatoria la istituzione dell’ambulatorio e del consultorio, in modo che la madre debba far visitare il bambino, evitando così la possibilità della diffusione di malattie che purtroppo minano la salute dell’infanzia, riducendo la capacità lavorativa dei futuri lavoratori.

Per quanto riguarda gli asili, essi rappresentano una necessità, perché ci sono troppi bambini in giro per le strade. Lo Stato dovrebbe provvedere per le colonie di vacanze, che oggi sono troppo scarse di numero. La istruzione elementare in pratica è tutt’altro che obbligatoria; pertanto trova opportuno insistere anche su questo punto. I corsi di istruzione pre-professionale e professionale sono necessari, se si pone mente al dilagare della delinquenza minorile e della prostituzione delle minorenni in Italia. Dando la possibilità a questi adolescenti di fare qualche cosa oltre la scuola, si provvederà ad eliminare le cause di queste dolorose piaghe sociali. Concludendo, insiste su quanto ha detto e specialmente sulla concretezza nella formulazione degli articoli, concretezza che le sembra necessaria nella formulazione della nuova Carta costituzionale della Repubblica italiana dei lavoratori.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, desidera rispondere all’interruzione della collega Federici a proposito delle statistiche.

Sa benissimo che i numeri hanno un valore molto relativo e che bisogna piuttosto guardare la realtà; desidera perciò confermare non con le cifre, ma con la propria esperienza, quanto aveva detto la collega Noce, ricordando come siano gravi le condizioni delle gestanti dell’Ospedale Vecchio di Milano, così gravi da far vergogna anche di fronte ad altri paesi, che non sono al nostro livello di civiltà. È indubbio quindi che la maternità deve essere protetta fin da quando si manifesta veramente: si potrà discutere sulla opportunità di introdurre tutti i suggerimenti pratici, ma il principio deve essere ammesso e considerato nella nuova Costituzione.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, osserva che se si considera la presente situazione, il quadro catastrofico cui ha accennato la collega Noce è pienamente giustificato; se però si considerano le statistiche serie che sono state fatte in Italia prima della guerra, allora questo quadro così catastrofico può apparire esagerato, pur convenendo che in Italia ci sia da fare molto in questo campo e che quello che c’è funziona male.

Per quanto riguarda le garanzie economiche che la collega Noce vorrebbe dare alla famiglia che si deve costituire, osserva che nella sua relazione si parla appunto di queste garanzie economiche. A questo punto anzi nota che il titolo che si è dato alla relazione dovrebbe essere cambiato: infatti si deve parlare non solamente delle garanzie economiche e sociali che si debbono dare alla famiglia già costituita, ma anche di quelle che si devono dare alla famiglia che si viene a costituire.

MOLÈ dichiara di essere contrario al concetto che lo Stato debba dare degli aiuti per contrarre matrimonio; lo Stato deve dare agli individui il diritto alla vita, alla retribuzione, i mezzi per lavorare e non il denaro per potersi sposare.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, afferma che nella sua relazione, nella parte che tratta delle garanzie economiche e sociali, non ha introdotto nessuna disposizione che riguardi questi aiuti pre-matrimoniali.

Circa poi le garanzie da dare alla famiglia, riferendosi alle preferenze per i coniugati, ricorda che proprio nel periodo fascista ciò aveva dato luogo a grandi abusi, poiché il fatto di essere sposato era un titolo preferenziale, anche nei confronti di chi aveva titoli professionali superiori. Pertanto ritiene che richiedere maggiori garanzie da parte dello Stato per chi è coniugato non sia un principio ammissibile.

Che lo Stato debba proteggere la famiglia è una disposizione che appare in molte Costituzioni, ma è una formula assai equivoca, perché tale protezione dello Stato potrebbe far porgere tutti quei fenomeni che sono stati deprecati nel passato regime: l’opera balilla, per esempio, che toglieva i bambini alle famiglie.

La famiglia ha diritto a tali e tante garanzie da parte dello Stato, della collettività, da non aver bisogno di protezione. Se ci deve essere una protezione, questa deve venire dalla Provvidenza. Arriverebbe quasi a dire che se mai è la famiglia che protegge lo Stato, perché se la famiglia sarà sana, completa, bene assistila, si avrà quello Stato che si può considerare il più soddisfacente.

Si oppone quindi alla formula che lo Stato debba proteggere la famiglia, formula che in realtà non dice nulla, e che per quello che lascia sottintendere deve essere esclusa.

Sulla funzione sociale della maternità deve dichiarare che la formulazione proposta è veramente nuova; si domanda quale può essere la funzione sociale della maternità. Vi sarà se mai una funzione sociale della famiglia, ma non della maternità staccata dalla famiglia.

Venendo poi a parlare della protezione dell’infanzia, osserva che non può sorgere nessun dubbio circa l’interesse che suscita in tutti questo argomento. Le è sembrato tuttavia che sia la collega Merlin, che la collega Noce siano andate al di là dei limiti consentiti a questa discussione, in quanto è compito della Sottocommissione occuparsi delle garanzie economiche e sociali della famiglia, ma non trattare il problema dell’igiene, del lavoro, della maternità e della infanzia. Si tratta di cose che hanno trovato posto in altre relazioni e che saranno esaminate e sviluppate ampiamente quando queste verranno in discussione. Non è possibile che un articolo il quale, come sua impostazione, riassume tutti i problemi che riguardano la famiglia, debba scendere poi a tanti particolari.

Per ciò che concerne i figli, ritiene che si debba tener conto che in questo eccezionale periodo si è venuto moltiplicando il numero delle madri nubili con un carico di 2 o 3 figli, che formano vere e proprie famiglie. Bisogna dare a queste famiglie tutte le garanzie, in modo che i figli rimangano stretti vicino alla madre; a tale scopo aveva proposto un articolo a parte che riguardava un aspetto così delicato della questione, riconoscendo a queste madri la qualifica di capo-famiglia, in quanto esse hanno la responsabilità di mantenere i loro figlioli e dovranno avere tutti i diritti provenienti dalla loro qualifica di lavoratrici, oltre che da quella di madri.

NOCE TERESA, Correlatrice, osserva che non si tratta di fare delle affermazioni di principio, ma occorre introdurre disposizioni concrete.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, ricorda che a proposito del lavoro, si è detto che una lavoratrice capo-famiglia che ha, per esempio, otto figli, godrà dello stesso assegno che è stabilito per l’uomo con otto figli.

Così per quanto riguarda la legislazione del lavoro dichiara di aver accolto i suggerimenti dei colleghi allargando il periodo del riposo prima del parto e dopo il parto, mantenendo il posto alla donna che deve avere un bambino e che al settimo mese di gravidanza deve lasciare l’impiego. Non solo ha proposto che il posto venga conservato, ma che l’assegno non sia decurtato, anzi corrisposto per intero.

NOCE TERESA, Correlatrice, osserva che la lavoratrice capo di famiglia è quella che mantiene la famiglia e per mantenere la famiglia fa un lavoro. Ma la donna lavoratrice non è soltanto l’operaia, bensì anche quella che, avendo una numerosa prole da allevare, non può lavorare; in tal caso viene a mancare la qualifica di capo-famiglia che le consentirebbe di godere di una determinata assistenza.

La donna operaia ha qualche diritto, ma la donna casalinga, la massaia rurale, la contadina non hanno alcun diritto all’assistenza.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, osserva che per questa ultima categoria di donne esiste il salario familiare.

MOLÈ ricorda che la Costituzione non può entrare in una specificazione analitica dei singoli casi. Essa deve contenere soltanto i principî generali che devono essere formulati in modo molto semplice, quasi in forma di proposizione.

FANFANI afferma che dalla Costituzione si deve pretendere un impegno solenne a segnare una direttiva, una strada sulla quale ci si debba incamminare e non una regolamentazione minuta di provvidenze le quali, per il fatto di essere minute, rischierebbero, dopo qualche anno, di essere superate.

Sufficiente è stabilire il principio: penseranno poi il legislatore, i partiti, l’opinione pubblica ad intervenire successivamente, se la legislazione deve essere aderente alla realtà.

Dichiara di aver studiato attentamente le varie proposte fatte e di aver seguito le correzioni apportate in sede di esposizione dalle varie relatrici. Ritiene tuttavia che le preoccupazioni, che in tutte le relazioni affiorano, di far avere alla donna un salario adeguato agli oneri finanziari (oneri sia della famiglia legittima che di quella illegittima) possano considerarsi già soddisfatte, qualora in aggiunta all’articolo approvato nella riunione di ieri, in cui è detto che i lavoratori hanno diritto ad una retribuzione adeguata alle necessità personali e familiari ed in accoglimento della prima parte dell’articolo 2, formulato dalla onorevole Merlin, si faccia seguire la dizione: «Alla donna lavoratrice sono riconosciuti, nei rapporti di lavoro, gli stessi diritti che spettano al lavoratore».

Introducendo questo secondo comma, si avrà anche modo di fare un solenne riconoscimento dell’eguaglianza dei diritti su questo terreno, tra gli uomini e le donne, non per il fatto che abbiano sesso diverso, ma la stessa capacità.

Vi è in tutti la preoccupazione di impegnare solennemente nella Costituzione i futuri legislatori a concedere adeguate protezioni alla maternità ed all’infanzia. È necessario però stare attenti a non incorrere nell’errore di istituire una specie di allevamento di Stato. Per conciliare le varie opinioni, ritiene che, adottando una frase, seppure incompleta, proposta dalla onorevole Merlin con un altro concetto espresso nel secondo articolo proposto dalla onorevole Federici, unita al capoverso proposto dalla onorevole Noce, si potrebbe formulare il seguente articolo:

«La Repubblica Italiana riconosce che è interesse nazionale la protezione della maternità e dell’infanzia.

«In particolare, le condizioni di lavoro devono consentire il completo adempimento della funzione e dei doveri della maternità.

«Istituzioni scolastiche, assistenziali e previdenziali, integrate, ove occorra, dallo Stato, devono tutelare la vita e lo sviluppo di ogni bambino».

Alla coordinazione dei concetti si provvederà poi al termine della discussione. Oltre a ciò, resta da considerare se debbono esistere garanzie speciali in materia economica e sociale per l’integrazione delle insufficienze che il nucleo familiare presenta di fronte alla sua funzione: allevamento ed educazione della prole. È a questo punto che nasce la preoccupazione della onorevole Federici, che non è tuttavia in contrasto con quelle della onorevole Noce e della onorevole Merlin. Ma, a suo avviso, la Sottocommissione non si deve occupare di questo problema, in quanto la materia è di pertinenza della prima Sottocommissione. È invece necessario preoccuparsi del fatto che, esistendo la convivenza familiare, questa convivenza possa arrivare ad essere integrata – ove ce ne sia bisogno – in modo che se ne assicuri un’esistenza confacente con la dignità dell’uomo.

Circa il problema della funzione sociale della maternità, osserva che la onorevole Noce per «funzione sociale» intende dire che la madre, procreando, reca un beneficio alla collettività, in quanto assicura la continuità della specie. Non vi è dubbio che in tal senso tutti sono d’accordo, essendo questo un principio generalmente accolto.

NOCE TERESA, Relatrice, fa presente che tuttavia non è riconosciuta questa funzione.

FANFANI rileva che non è vero che non siano stati fatti tentativi di riconoscimento, e anzi si è giunti ad assurdi come quelli verificatisi in Germania, dove la scelta delle mogli dei funzionari della pubblica sicurezza, più adatte a procreare, era subordinata al benestare del Capo della polizia. Quando si dice che la Repubblica italiana, riconosce che è di interesse nazionale la protezione della maternità, è implicito il riconoscimento che la comunità italiana ha un interesse del tutto peculiare ad osservare, a seguire, a proteggere, quei cittadini che si trovano in particolari circostanze.

Concludendo, si augura di aver potuto convincere la onorevole Noce – perché, per ragioni di studio, condivide pienamente i suoi propositi – dichiarando che se c’è un’aspirazione in fondo alla sua anima, è quella che sorga dalla Costituzione italiana una comunità nella quale nessun ragazzo, nessun bambino, possa trovarsi nella circostanza di vedersi mancare la possibilità del vitto quotidiano.

COLITTO riconosce che le tre relazioni presentate contengono interessanti proposte di grande importanza: ma ha il timore che nella nuova Costituzione si vogliano inserire delle affermazioni che, per un complesso di ragioni, appaiono molto difficilmente traducibili in realtà. Se non esistesse in lui tale preoccupazione, sarebbe per l’approvazione integrale degli articoli proposti dalla onorevole Federici; ma ritiene di dover proporre alla Sottocommissione l’approvazione di un articolo più breve che, eliminando i dettagli non consoni alla natura di una Carta costituzionale, riassuma i principî fondamentali. L’articolo dovrebbe essere così formulato:

«Lo Stato ha tra i suoi compiti la protezione della maternità e dell’infanzia, legittima ed illegittima».

MOLÈ si dichiara d’accordo con le affermazioni dell’onorevole Fanfani, il quale ha proposto una enunciazione di concetti che potrebbe soddisfare un po’ tutti, salvo il criterio di rendere più che sia possibile generica la formulazione dei principî ai quali poi si ispirerà la legislazione. Per cercare di contemperare queste esigenze, ritiene che i concetti espressi nelle tre relazioni potranno servire di guida per il legislatore, mentre nella formulazione degli articoli ci si dovrà attenere solamente all’enunciazione dei principî. A tale proposito invita gli onorevoli Commissari a prendere visione del preambolo della Costituzione francese, il quale, in poche parole, fissa principî importantissimi nel campo costituzionale.

Ritiene che l’unità familiare debba essere mantenuta, e che la donna possa essere capo-famiglia soltanto nella condizione in cui l’unità familiare non consenta che il capo-famiglia sia il padre.

Si deve tenere presente che per una necessità etica la famiglia legittima deve avere sempre la preferenza sulla famiglia naturale. A tal fine deve essere mantenuta la protezione della famiglia legittima, nell’interesse del bambino che nella famiglia trova già una naturale protezione, che non trova invece in quella irregolare, dove il minore più facilmente può, se non vi è un senso morale che lo guidi nei suoi doveri, abbandonare la retta via. Quindi, da un punto di vista giuridico-morale, il bambino e la donna devono essere trattati con parità di condizione, sia che si trovino in una posizione regolare che irregolare, ma, questo non deve incidere sulla unità familiare della famiglia illegittima, che sempre deve avere la preferenza.

Per quanto ha riferimento alla formulazione, invita gli onorevoli Commissari a non intaccare questo principio, nell’interesse della donna stessa e della prole. Circa la questione della funzione sociale, trova superflua la definizione, perché qualunque fatto della comunità potrebbe essere inteso come questione sociale. Inoltre tale definizione potrebbe prestarsi ad interpretazioni di ordine politico vertenti sulla questione della maternità, così come già fu in periodo fascista in cui si concepì lo Stato come una volontà di potenza suprema, alla quale dovevano soggiacere i cittadini. Pertanto ritiene pericolosa la definizione, anche perché la maternità deve essere intesa come qualche cosa di più elevato della funzione sociale, ossia come funzione etica, dalla quale dipende la stessa vitalità dello Stato.

NOCE TERESA, Relatrice, dichiara di essere d’accordo con l’onorevole Fanfani, ma propone di aggiungere dopo le parole: «Lo Stato italiano garantisce ad ogni donna, qualunque sia la sua situazione sociale e giuridica, la possibilità di procreare in buone condizioni economiche, igieniche e sanitarie», le altre: «e garantisce a tutti i bambini un minimo di protezione e di cura da parte della società, a cominciare dal momento stesso in cui vengono a farne parte». Ritiene invece che la frase: «Le condizioni di lavoro non devono impedire il completo adempimento delle funzioni della maternità» dovrebbe essere inclusa nella parte riguardante la tutela del lavoro.

PRESIDENTE, data l’ora tarda, propone di rinviare il seguito della discussione ad altra seduta.

La seduta termina alle 12.35.

Erano presenti: Canevari, Colitto, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Marinaro, Merlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Paratore, Rapelli.

Assenti giustificati: Di Vittorio, Dominedò, Lombardo Ivan Matteo, Pesenti, Taviani.